Prima lezione di antropologia 8842060097, 9788842060093

In modo diretto e concreto, Francesco Remotti conduce il lettore nel complesso e ricco mondo dell'antropologia attr

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Prima lezione di antropologia
 8842060097, 9788842060093

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Universale Laterza 799

PRIME LEZIONI

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Archeologia orientale di Paolo Matthiae

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Storia delle relazioni internazionali di Ennio Di Nolfo

Letteratura di Piero Boitani

Storia contemporanea di Claudio Pavone

Sociologia di Arnaldo Bagnasco

Francesco Remotti

Prima lezione di antropologia

Editori Laterza

© 2000, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2000 Undicesima edizione 2007

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2007 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-6009-3

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Prima lezione di antropologia

I.

Una molteplicità di antropologie

1. Difficoltà di una definizione Nulla sembrerebbe più facile che offrire una definizione nello stesso tempo semplice e unitaria di antropologia. Che cos’è infatti l’antropologia, se non lo studio dell’uomo? Ma non appena ci si chiede che cosa sia “studio dell’uomo”, le difficoltà emergono con tutta evidenza. Studio significa applicazione, interesse, concentrazione nell’osservazione e nell’analisi per comprendere, spiegare, dimostrare, illustrare qualcosa. L’antropologia allora è ciò che spiega l’uomo? Dimostra come è fatto? Fa vedere quale sia la sua costituzione, la sua struttura? Fa capire a noi, uomini, ciò che noi stessi siamo? Se esiste l’antropologia in quanto “studio” dell’uomo, ciò significa che gli uomini di per sé non conoscono se stessi o non si conoscono in maniera adeguata e sufficiente. L’esistenza dell’antropologia è la dimostrazione che essere uomini e conoscere se stessi non coincidono del tutto: non basta essere uomini per sapere chi noi siamo; noi siamo uomini, ma l’essere uomini non dà luogo a una conoscenza immediata di noi stessi. Se c’è un’antropologia, questo implica che esseri che si auto-

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definiscono “uomini” non conoscono appieno chi o che cosa veramente essi sono. Significa che a un certo momento della loro storia (diciamo così) questi esseri si sono dati da fare per comprendere come erano fatti, più o meno come si sono ingegnati per conoscere il mondo circostante. Quando sarebbe iniziata questa esplorazione del continente uomo da parte degli uomini? Possiamo indicare l’inizio dell’antropologia? Siamo in grado di illustrare i mezzi e gli strumenti principali mediante cui gli uomini hanno inteso intraprendere la conoscenza di se stessi? Inoltre, possiamo individuare delle fasi progressive in questo studio e soprattutto possiamo dire a che punto – a quali risultati – gli uomini sarebbero pervenuti in questa loro avventura conoscitiva? Hanno portato a termine la loro impresa antropologica? Sanno dire finalmente chi sono e come sono fatti, oppure brancolano ancora nel buio e comunque il cammino appare ancora lungo e incerto? Infine, perché gli esseri umani si sarebbero imbarcati in questa avventura? Perché non sarebbe stato sufficiente per gli esseri umani semplicemente esistere e affrontare i problemi della loro sopravvivenza, senza dover aggiungere quelli della loro conoscenza? Cercare di conoscersi, da parte degli esseri umani, è un compito indispensabile per la loro stessa sopravvivenza, esattamente come indispensabile è conoscere l’ambiente in cui operano? Proseguendo con questi interrogativi, sarebbe legittimo anche chiedersi se l’antropologia è un’impresa che ha impegnato soltanto una parte dell’umanità oppure se tutti gli esseri umani fanno in qualche modo antropologia. Quando riflettiamo sull’antropologia, siamo forse portati a suddividere l’umanità in due parti, ovvero in due tipi piuttosto diversi (gli esseri umani che in più sono antro-

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pologi da un lato e, dall’altro, gli esseri umani privi di antropologia), oppure presumiamo che tutti gli uomini siano, sotto questo profilo, sostanzialmente uguali? Occorre chiarire bene questo punto. Dire antropologia significa sostenere che soltanto in determinati periodi storici, in alcune parti del mondo, in società particolari gli uomini hanno potuto dedicarsi all’antropologia, allo studio di sé e degli altri, mentre gli altri rimanevano all’oscuro della loro natura, del loro essere? Oppure riteniamo – e poi cerchiamo anche di dimostrare – che tutti gli esseri umani siano anche antropologi? Dire uomo significherebbe alludere a un essere che, in qualche modo e misura, cerca anche di indagare se stesso, oltre che la natura circostante? Se l’antropologia è un’impresa riservata soltanto a una parte dell’umanità, è evidente che dovremo fare ricorso soprattutto a ragioni storiche – inerenti a contesti e tipi di società – per spiegare questa disparità (da una parte gli esseri umani che sono anche antropologi, dall’altra gli esseri umani che sono soltanto oggetto dell’antropologia dei primi). Se invece l’antropologia è una caratteristica di pensiero attribuibile a tutta l’umanità, allora saranno soprattutto ragioni antropologiche – inerenti a come sono fatti gli esseri umani – quelle che maggiormente potrebbero spiegare un’antropologia così diffusa. Sono molte le domande che si sono fin qui affollate, e il quadro che ne risulta è piuttosto ampio e aggrovigliato, così come diverse sono le opzioni, le scelte interpretative possibili. Ciò che intendiamo trasmettere con queste prime riflessioni è infatti il senso della complessità in cui ci si imbatte, non appena si prende in considerazione la gamma di significati che possono essere evocati dal termine “antropologia”. Per cominciare a costruire un filo del nostro discorso è bene porre in lu-

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ce i livelli di considerazione qui rappresentati. i) In primo luogo, abbiamo parlato di esseri umani. Anche senza dire finora alcunché sulle loro caratteristiche più specifiche, sulla loro natura o su altri aspetti importanti del loro essere, li abbiamo immaginati come posti di fronte ai problemi della loro sopravvivenza e in generale della loro esistenza. Questo livello è raffigurabile con una semplice U, “uomini”, “esseri umani”. ii) Un secondo livello riguarda invece l’antropologia che essi producono, notando fin da subito però l’interesse antropologico insito in questo tipo di sapere o di ricerca. Se si dedicano all’antropologia (comunque questa venga intesa e praticata), evidentemente gli esseri umani non si conoscono a sufficienza e quindi avvertono il bisogno di sapere qualcosa di più relativamente al loro essere o alle condizioni generali del loro esistere. Possiamo rappresentare questo secondo livello con la lettera A, “antropologia”. iii) Svolgendo queste considerazioni, noi attiviamo però un terzo livello, che potrebbe essere definito come antropologia dell’antropologia. Ci sono infatti gli uomini (primo livello); c’è l’antropologia che essi producono (secondo livello); ci sono infine analisi e considerazioni che prendono ad oggetto le ricerche antropologiche e che, se lo fanno con intendimenti antropologici – cioè per capire meglio come sono fatti gli esseri umani –, possono a buon diritto essere denominate appunto in quel modo (“antropologia dell’antropologia”, AA; terzo livello). Vi sono dunque tre livelli di considerazione o di oggetti (uomini / antropologia / antropologia dell’antropologia) e due gradi di antropologia (l’antropologia di primo grado, corrispondente al secondo livello, e l’antropologia di secondo grado, corrispondente al terzo livello):

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U primo livello uomini A secondo livello antropologia primo grado AA terzo livello antropologia dell’antropologia secondo grado

Ciò che faremo in questo primo capitolo saranno soprattutto operazioni di terzo livello ovvero un’antropologia di secondo grado: non ancora un’antropologia il cui scopo sarebbe uno sguardo diretto sull’uomo o sugli esseri umani, ma una serie di considerazioni (che vorrebbero essere antropologiche) sul sapere antropologico che gli uomini producono. Con una precisazione, però: attivare questo terzo livello non significa affatto pensare di adottare un punto di vista assoluto o talmente superiore da poter scorgere sotto di sé l’umanità nel suo complesso (primo livello) e tutte le antropologie che essa avrebbe prodotto (secondo livello). Il terzo livello, ovvero l’antropologia di secondo grado, implica soltanto la capacità di trascendere in un certo modo e riflettere criticamente: anche il terzo livello (l’antropologia dell’antropologia) è un’attività che si svolge all’interno di un contesto storico e culturale; e la capacità di trascendimento significa soltanto uno sforzo, più o meno riuscito, di sganciarsi da certi vincoli e condizionamenti per adottarne però certi altri. L’operazione importante, e possibile, è lo sganciarsi, che è sempre provvisorio e temporaneo, nel senso che le posizioni vengono via via assunte e abbandonate, a seguito di nuove istanze e prospettive; pretesa illusoria e impossibile sarebbe quella, invece, di acquisire una posizione assoluta e indiscutibile.

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2. Antropologia o antropologie? Per quanto precaria possa essere la posizione acquisita grazie al trascendimento, che cosa si vede, o meglio si intravede, da quassù? Diciamo subito: una molteplicità di antropologie, parecchie non solo per numero ma anche per tipo. Verrebbe voglia di applicare al caso dell’antropologia le considerazioni che Ludwig Wittgenstein ha svolto in riferimento alla nozione di gioco. Come vi sono molti tipi di gioco – diversi tra loro per struttura e concezione dell’attività ludica –, allo stesso modo potremmo sostenere che vi sono differenti antropologie. Esemplificando: come vi sono giochi che si svolgono su un terreno e giochi che invece si praticano a tavolino, così vi sono antropologie che si realizzano attraverso il dialogo e la pratica dell’osservazione sul campo e altre che invece si elaborano in solitudine, in un laboratorio o nel silenzio di una biblioteca. Wittgenstein sosteneva che tra tutti i giochi possibili non vi è «affatto in comune qualcosa, in base al quale impieghiamo per tutti la stessa parola» (1980: 46). Noi li chiamiamo tutti “giochi” (tanto il gioco del pallone, quanto quello degli scacchi); ma dal fatto che usiamo la stessa parola per designarli non possiamo inferire che vi sia qualcosa di comune a tutti, un quid sostanziale che ritornerebbe in tutti i casi. «Non dire: “Deve esserci qualcosa di comune a tutti, altrimenti non si chiamerebbero ‘giuochi’” – ma guarda se ci sia qualcosa di comune a tutti». Contro queste argomentazioni di Wittgenstein potremmo sostenere che, per quanto diverse, tutte le antropologie hanno davvero qualcosa in comune, e cioè il riferimento all’essere umano. Ma questo tratto, che effettivamente attraversa tutte le antropologie – e in assenza

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del quale difficilmente potremmo parlare di antropologia –, non è forse un po’ troppo esile per costituire una base sostanziale comune? Proseguiamo con le argomentazioni di Wittgenstein. A proposito dei giochi, egli afferma: «se li osservi, non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele, e anzi ne vedrai tutta una serie» (1980: 46). I tratti somiglianti possono essere molti; ma comparando i vari giochi tra loro vediamo «somiglianze emergere e sparire» e «vediamo una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda» (1980: 47). Ciò significa che alcuni tratti di somiglianza emergono in alcuni giochi, mentre altri collegano giochi differenti. I giochi – conclude Wittgenstein – «formano una famiglia» e le somiglianze che variamente li connettono in una sorta di rete sono appunto definite «somiglianze di famiglia». Possiamo dire anche noi che le antropologie, come i giochi, formano una famiglia (nel senso wittgensteiniano del termine)? L’interpretazione alla Wittgenstein presenta il vantaggio di sottolineare fin da subito la molteplicità delle antropologie possibili e, nello stesso tempo, di trovare numerosi criteri di collegamento tra loro (oltre al fatto, ovvio, che tutte si riferiscono in un modo o nell’altro agli esseri umani). Ma dire che le antropologie formano una famiglia non suona forse ironico (nonostante Wittgenstein), considerate le ostilità, i rifiuti, le esclusioni che spesso si presentano nell’area delle antropologie? In effetti, l’arena antropologica non è la stessa situazione dei giochi. I giochi – in quanto tali – non competono tra loro, mentre le antropologie sì. Può verificarsi perciò che vi siano veri e propri misconoscimenti reci-

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proci e rivendicazioni esclusive, che rendono il quadro molto più complicato di quello costituito da una molteplicità di tipi e di criteri di collegamento. Manteniamo ancora per un po’ uno sguardo distaccato, senza lasciarci coinvolgere da conflitti e incomprensioni interni alla famiglia delle antropologie. Uno sguardo distaccato è più consono al livello rispetto a cui stiamo operando, quello dell’antropologia dell’antropologia (terzo livello o antropologia di secondo grado). Con sguardo distaccato possiamo renderci conto più agevolmente di come esista non tanto una famiglia dell’antropologia, ma più famiglie di antropologie. Come abbiamo detto prima, non è soltanto una questione di molteplicità; è anche una questione di differenziazioni e di opposizioni, di contrasti e di assimilazioni. Proprio perciò conviene avere uno sguardo ampio sulle antropologie, così da non lasciarsi irretire fin da subito da qualche tipo di antropologia e non riuscire a scorgerne altre. Sotto questo profilo, ancora Wittgenstein ci può venire in soccorso, allorché pone in luce i meccanismi mediante cui i concetti – per esempio, il concetto di gioco e, nel nostro caso, quello di antropologia – subiscono restrizioni e dilatazioni secondo gli interessi di chi li usa. I concetti hanno dei confini; ma per Wittgenstein i confini non sono imposti dal quid sostanziale che ne sarebbe alla base o dalla struttura della realtà che vorrebbero riprodurre. Siamo “noi” che decidiamo dove finisce la sfera di un concetto e dove inizia la sfera di un altro concetto: se questo è gioco o se invece è un’altra cosa. Siamo noi che decidiamo se un certo tipo di riflessioni e di analisi rientra nella famiglia delle antropologie o se invece ne è fuori. Siamo noi che scegliamo se irrigidire i confini dell’antropologia o, al contrario, sfumarne i

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contorni. In generale, possiamo dire che al livello due del nostro schema (cioè al livello dell’antropologia di primo grado) prevale un atteggiamento definitorio e spesso rigidamente definitorio. Il “noi” che decide è il “noi” di una comunità scientifica, la quale si identifica con particolari programmi di ricerca ed è interessata a difendere le proprie caratteristiche e le proprie prerogative, entrando in sorda competizione con altri programmi e con altre comunità. A questo livello ogni comunità è impegnata a sostenere un certo tipo o una certa famiglia di antropologie, osteggiandone altre con un atteggiamento non sempre di rifiuto esplicito, ma spesso di ignoranza e di non riconoscimento. Vogliamo fare subito un esempio? Esistono, nel senso che vengono tuttora coltivate, antropologie di stampo teologico, le quali ignorano quasi del tutto le antropologie di tipo culturale o sociale: e queste ultime, beninteso, le ripagano della stessa moneta. Se ci si colloca al terzo livello (l’antropologia dell’antropologia, ovvero l’antropologia di secondo grado) è assai più redditizio non già decidere i confini, bensì osservare come questi vengano stabiliti – e spesso rigidamente stabiliti – dalle diverse antropologie di primo grado (secondo livello). Ciò che avremo sotto gli occhi sarà dunque una molteplicità di antropologie che, allontanandosi spesso con atteggiamenti di reciproca diffidenza e ignoranza, finiscono per formare famiglie diverse di antropologie, e quindi per provocare correlativamente accostamenti più o meno inaspettati. Per certi versi, potremo per esempio mettere insieme le antropologie di stampo teologico, cui si è fatto cenno prima, e il pensiero antropologico sviluppato da Ogotemmeli, un vecchio cacciatore dogon, le cui speculazioni sono il

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contenuto del libro Dieu d’eau di Marcel Griaule (1948). Ci renderemo anche conto però dell’artificiosità di certe delimitazioni e che la rigidità e la nettezza dei confini sono funzioni di particolari programmi di ricerca e delle loro rivendicazioni epistemologiche (livello secondo). Per noi che ci predisponiamo al terzo livello (l’antropologia dell’antropologia) vale ancora una indicazione di Wittgenstein e cioè che non sempre è possibile «sostituire vantaggiosamente un’immagine sfocata con una nitida»; anzi – egli si chiede – «spesso non è proprio l’immagine sfocata ciò di cui abbiamo bisogno?» (1980: 49). A questo punto del nostro discorso ci conviene in effetti tenere lo sguardo il più ampio possibile; non privilegiare subito le antropologie in cui professionalmente ci identifichiamo e che senza dubbio potremmo descrivere con maggiore precisione; renderci conto che esistono tanti tipi diversi di antropologie, di modi di accostarsi all’uomo da parte degli esseri umani, anche se le conosciamo assai meno e, per le nostre scelte epistemologiche, difficilmente saremmo disposti a farli rientrare nella grande area delle antropologie. In queste zone per noi marginali i confini sono sfumati e l’immagine che se ne ricava è assai poco nitida. Ma, volendo riflettere sul senso o sui possibili significati che può assumere la ricerca antropologica, quale atteggiamento è più opportuno: tagliare via le antropologie che noi non pratichiamo, tracciando così un confine netto e inequivocabile, con il quale stabilire ciò che è antropologia e ciò che non lo è, oppure usare la parola antropologia «in modo che l’estensione del concetto non sia racchiusa da alcun confine» (Wittgenstein 1980: 48)? Ci sono tanti tipi di gioco e ci sono tanti tipi, tante famiglie, di antropologia. Non tracciare preventiva-

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mente alcun confine significa porsi in una posizione di attesa e di senso di possibilità alternative, di cui ammettiamo di non aver terminato l’esplorazione. Collocarsi al terzo livello (antropologia dell’antropologia) non significa dunque vantare la pretesa di sapere e tanto meno di decidere quanti e quali siano i tipi di antropologia possibili, praticati e praticabili; al contrario significa assumere – nonostante e anzi in virtù del trascendimento – un atteggiamento di disponibilità, di rispetto e di interesse verso antropologie di cui potremmo persino ignorare l’esistenza e le modalità di elaborazione. “Noi” pratichiamo un certo tipo di antropologia e apparteniamo perciò a una certa famiglia di antropologie; ma esistono altre forme di costruzione del sapere antropologico? Indubbiamente sì, anche se l’ignoranza da parte nostra e uno scarso o nullo interesse professionale da parte di queste altre antropologie contribuiscono a rendere la loro immagine assai più sfocata. 3. Antropologie senza nome e antropologie con nome Secondo Wittgenstein, la definizione dei giochi può consistere in una illustrazione di casi. Egli affermava a questo proposito: «Come faremo allora a spiegare a qualcuno che cos’è un giuoco? Io credo che gli descriveremo alcuni giuochi, e poi potremo aggiungere: “questa, e simili cose, si chiamano ‘giuochi’”» (1980: 48). La faccenda è però molto più complicata per ciò che riguarda le antropologie, in quanto – come si è già argomentato nel paragrafo precedente – ci imbattiamo molto di frequente nelle rivendicazioni di esclusività. Non pare che i giocatori

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di baseball, per esempio, siano interessati a sostenere che il loro gioco sia il vero gioco o sia più gioco di altri. Ma nel campo delle antropologie queste rivendicazioni sono all’ordine del giorno e prendono la forma – tanto per cominciare – della pretesa dell’uso esclusivo o gerarchicamente prioritario del nome. Per esempio, nei paesi dell’Europa continentale, a partire dall’Ottocento e fino a epoca recente, il nome “antropologia” (senza aggettivazioni) era riservato all’antropologia fisica o biologica: antropologo era tipicamente colui che studiava ossa e misurava crani, mentre gli studiosi di costumi e istituzioni di altre società praticavano ciò che si chiamava “etnologia”. Oggi, potremmo quasi dire di assistere a una situazione opposta: “antropologo” (per antonomasia) sembra sia diventato quello che un tempo era denominato “etnologo”, in quanto si occupava di società non occidentali, o addirittura “storico delle tradizioni popolari”, se il suo interesse era diretto invece verso il folklore europeo. I rapporti di forza evidentemente mutano, ed essi riguardano non soltanto le singole comunità interessate, ma anche l’audience più generale, ovvero la credibilità, il fascino, l’interesse che un certo tipo di antropologia può suscitare in un pubblico più vasto. Quando, per commentare un qualche evento o fenomeno di interesse pubblico, i mezzi di comunicazione di massa fanno ricorso a un “antropologo”, frequentemente sono gli antropologi culturali a venire consultati. Per fare un altro esempio di tipo diacronico, mentre nel volume Antropologia (in tedesco Anthropologie, 1959) della Enciclopedia Feltrinelli Fischer gli autori si proponevano di «trattare soprattutto l’antropologia “fisica”» (Heberer, Kurth, Schwidetzky 1966: 7), in una pubblicazione più recente, come il Dizionario di antropologia (anche qui senza ag-

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gettivazioni) curato da Fabietti e Remotti (1997), sono state esplicitamente privilegiate invece l’antropologia culturale, l’antropologia sociale e l’etnologia. Si dirà che sono questioni di mode e di tradizioni che mutano; e questo è indubbiamente vero. Ma non è un semplice fluttuare di nomi, sospinti qua e là dal vento delle mode scientifiche. Dietro a questi fenomeni vi sono – più profondamente – visioni diverse, che si combattono, tendono a imporsi o che, al contrario, perdono slancio. Proprio per questo si può dire che vi sono “mode” antropologiche, come del resto è ampiamente testimoniato dallo stesso nome “antropologia”, il quale è entrato a far parte del linguaggio giornalistico, politico, culturale, oltre che scientifico e accademico. Non si tratta affatto di sottovalutare il fenomeno “moda”, non appena lo si connetta a sommovimenti più profondi che riguardano l’organizzazione interna per un verso e la credibilità o l’accettazione esterna, per un altro verso, di prospettive teoriche o “paradigmi” che decidono diversamente il modo in cui debba intendersi lo studio dell’uomo. Del resto, forse che lo studio dell’uomo è sempre stato chiamato “antropologia”? È ben vero che il termine “antropo-logia” è costruito su parole greche e quindi possiamo dire che deriva dal greco, ma non risulta che nella Grecia antica si usasse questo termine per indicare lo studio dell’uomo. Affermazioni come «il termine risale ad Aristotele» (Heberer, Kurth, Schwidetzky 1966: 30) si trovano abbastanza spesso nelle frettolose ricostruzioni del pensiero antropologico, ed è significativo che venga sempre evocato il nome di Aristotele in quanto fondatore, iniziatore o promotore di un po’ tutte le scienze occidentali. In Aristotele è attestato però

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soltanto il termine anthropologos con un significato ben diverso da quello di “studioso dell’essere umano”, e anzi con un significato peggiorativo e alquanto svilente (non da studioso): nell’Etica nicomachea (IV, 3, 1125a, 5, 9) Aristotele afferma infatti che il “magnanimo” non è anthropologos, cioè non è «pettegolo», come uno che sia incline a “parlare della gente” (Aristotele 1957: 107). Non è soltanto Aristotele che fa a meno del termine “antropologia” per designare un tipo di studio e di interesse che indubbiamente segna a fondo il suo pensiero. La sua celebre definizione dell’uomo come zoon politikon, cioè come “animale cittadino” (come animale che vive preferibilmente o elettivamente in una polis) si inquadra in una concezione assai articolata dell’essere umano e della sua natura più profonda. Allo stesso modo, se scorriamo un po’ tutta la filosofia occidentale – prima e dopo Aristotele (da Platone a sant’Agostino, dagli stoici a san Tommaso, da Montaigne a Pascal, da Descartes a Spinoza, da Locke a Hume, da Vico a Montesquieu, a Rousseau, e così via) –, ci rendiamo conto di quanto elaborate e importanti siano state le concezioni relative all’essere umano, pur in assenza di una categoria di pensiero esplicitamente denominata “antropologia”. Del resto, un pensiero profondamente antropologico non è forse presente in civiltà più lontane rispetto alla nostra, occidentale, come – per esempio – nelle grandi civiltà orientali o nelle civiltà dell’America precolombiana? Anche in questo caso, sarebbe probabilmente vano andare alla ricerca di un termine o di una categoria esplicita corrispondente ad “antropologia”. Ma non per questo occorre rinunciare a cogliere la significatività di pensieri antropologici quali prendono forma – per esempio – nella teoria hindu delle caste o nelle pratiche funerarie

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degli antichi Egizi. E così, proseguendo oltre i confini delle grandi civiltà, sarebbe molto limitativo non scorgere significati nettamente antropologici nelle mitologie degli Inuit (Eschimesi), le quali raccontano della stretta comunicazione e della somiglianza che un tempo – prima di una tragica separazione – univano esseri umani e esseri animali. Anche qui, tra gli Inuit, è molto probabile che non troveremo affatto una parola corrispondente a “antropologia”. Il punto decisivo è riconoscere che modalità di riflessione sugli esseri umani sono diffuse praticamente in tutte le società, anche se non è detto che tutte si premurino di definire mediante una categoria apposita questo tipo di riflessione e quindi di tenerle distinte e separate da altre, allo stesso modo in cui tutte le società “fanno” musica, ma non tutte elaborano una categoria corrispondente. Un nucleo di pensiero antropologico, senza una categoria a se stante che lo ritagli e lo separi dal resto, è molto più incline a inserirsi in altri contesti di pensiero – zoologico, cosmologico, teologico e così via – e quindi a sviluppare connessioni con altri aspetti della realtà. Proprio per questo troviamo l’antropologia di altre società spesso incapsulata in forme di pensiero non chiaramente definibili, ma non per questo meno reali o meno efficaci. I nomi invece tracciano confini; tagliano e contornano le forme del sapere: le individuano, le isolano, le rendono riconoscibili e riproducibili. Se si decide di chiamare “antropologia” un certo sapere, è perché lo si vuole separare in una qualche misura dalle forme di sapere circostante. Si dice: questo è antropologia e questo è un’altra cosa (magari un sapere affine, connesso, imprescindibile, ma un’altra cosa). È indubbio che da qualche secolo a questa parte il pensiero occi-

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dentale si sta muovendo in una logica definitoria di questo genere. A un certo momento, nella cultura occidentale si è fatta strada l’esigenza di qualificare come “antropologico” un certo tipo di sapere. È rilevante questo tipo di scelta? Oppure – dato che si tratta semplicemente di un nome – è un fatto del tutto trascurabile? Etnologi e antropologi culturali sono stati da sempre molto sensibili alle faccende dei nomi nelle società che essi studiano. Curiosamente essi prestano invece una molto scarsa attenzione al nome delle loro discipline, come se si trattasse di una questione di poco conto o di una faccenda quasi ovvia e naturale. Sono due le considerazioni che vogliamo quindi proporre: a) esistono antropologie anche senza nome; b) dare un nome a un sapere – in questo caso “antropologia” – è una decisione importante e comunque significativa. Se si dà il nome “antropologia” a un certo tipo di sapere, occorre chiedersi perché si faccia questo e occorre chiedersi quale sia il tipo di sapere a cui si decide di attribuire questo nome. Anche se si tratta soltanto di nomi, sono decisioni di grande peso. I nomi sono fatti importanti, nonostante il loro carattere per così dire aereo, in apparenza superficiale, volubile, arbitrario. Se anche limitassimo le nostre considerazioni al momento attuale e volessimo, per così dire, scattare un’istantanea sull’oggi, è un fatto impressionante la quantità di individui e di istituzioni che, un po’ in tutte le parti del mondo, si rifanno a questo nome (“antropologi”). Non si tratta forse di un fenomeno molto rilevante su tutta una serie di piani: culturale, sociale, storico, simbolico, scientifico, economico? Come possiamo dare per scontata e priva di un qualche interesse una situazione di questo genere, e cioè che gruppi di individui tengano a

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distinguersi da altri studiosi attribuendo a se stessi il nome di “antropologi”, quindi di conoscitori o di indagatori degli esseri umani? Come non riflettere sul fatto, tutt’altro che normale, che essi si distinguano da altri esseri umani, in quanto si guadagnano da vivere con lo “studio dell’uomo”, mentre altri lo fanno raccogliendo tuberi e radici, ammazzando selvaggina, disboscando e zappando terre più o meno incolte, badando ad armenti in una qualche vallata, trafficando con provette in un laboratorio, digitando sulla tastiera di un computer o tirando calci ad un pallone? “Antropologia”, “studio dell’uomo”, sono espressioni pompose. C’è da chiedersi allora se coloro che si richiamano all’antropologia, e ne fanno in tutti i sensi una professione o una ragione di vita, si rendano conto del peso e della pregnanza del nome che intendono portare e di cui si fregiano: perché “antropologo” è un nome estremamente impegnativo. 4. Interessi di gruppo o interessi dell’antropologia? Ciò che ora dobbiamo fare è cercare di capire in base a quali criteri, e in vista di quali obiettivi, si è voluto definire un certo tipo di sapere “antropologico” e quindi distinguerlo dagli altri. Il problema è particolarmente delicato, allorché ci si rende conto che non si tratta soltanto di distinguere l’antropologia dalla fisica o dalla botanica, dalla chimica o dall’astronomia, ma anche da altre forme di sapere che riguardano direttamente l’uomo. In fondo, l’uomo è oggetto di una grande molteplicità di saperi, i quali non per questo sono soliti definirsi antropologici, e ciò vale sia per il versante biologico e

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psicologico, sia per quello culturale e storico. La cardiologia, per esempio, si interessa – com’è ovvio – di un organo importantissimo del corpo umano, e la neurologia e la psichiatria del funzionamento del sistema nervoso, della mente e del comportamento degli individui. In modo analogo, chi si occupa dell’antico Egitto si chiama egittologo e chi studia le lingue scritte o parlate dagli uomini chiamerà il proprio sapere glottologia o linguistica. Sono molte le ricerche che, pur riguardando qualche aspetto della realtà umana (comunque venga intesa), non per questo reclamano l’attributo antropologico: e come si è visto – per esempio, nel caso della cardiologia, della neurologia o della linguistica – non si tratta certo di aspetti secondari, e neppure storicamente tramontati (come invece nel caso dell’egittologia) della realtà umana. Vi è da chiedersi seriamente perché lo studio filologico, letterario o storico della Divina Commedia non sia di norma considerato antropologico, mentre – poniamo – la raccolta e l’interpretazione di fiabe africane o di Indiani del Nord America vengano compiute per lo più da antropologi. Il dantista Erich Auerbach – la cui cultura è definita «rigorosa, ma aperta fin dalle origini al fascino dell’universale» e disposta «ad infrangere ogni barriera linguistico-culturale» (Della Terza 1963: VII) – è definito critico letterario; Paul Radin – curatore di una raccolta di fiabe africane (Radin 1994), oltreché studioso degli Indiani Winnebago – è invece considerato un importante antropologo della prima metà del Novecento. Queste considerazioni ci consentono di raggiungere una prima conclusione: non tutti gli studi relativi alla realtà umana – per quanto essenziali o significativi possano essere – sono ipso facto considerati antropologici.

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Il che equivale a dire che non è sufficiente analizzare qualche lato del mondo umano (sia sotto l’aspetto fisico, sia sotto quello spirituale), per fare antropologia. Beninteso, potremmo anche decidere che tutti coloro che in qualche modo e grado si occupano della realtà umana – dal dentista al dantista, dal neurologo al “nuerologo” (nel caso specifico, Edward E. Evans-Pritchard, il quale aveva studiato i Nuer del Sudan), così come dal cardiologo al sinologo – siano indistintamente chiamati antropologi. Sarebbe una bella semplificazione, e ci sgraveremmo dall’impegno di dover definire che cosa sia e che cosa non sia antropologia, o quale sia il tipo di antropologia in cui ci identifichiamo, liberandoci nello stesso tempo da concorrenze, conflittualità, rivendicazioni esclusive. Ma non pare che una decisione così drastica sia mai stata prospettata e dibattuta o presa pubblicamente in considerazione: in effetti, cosa direbbero coloro che si considerano e si autoproclamano antropologi, di qualunque genere essi siano? Immaginando le rimostranze degli antropologi alla proposta provocatoria di prima, una seconda conclusione (più positiva) potrebbe allora emergere dal nostro discorso. Vi sono in effetti comunità scientifiche, ovvero gruppi di individui e di istituzioni tra loro collegati, i quali in virtù di questo collegamento, di questo reciproco rafforzamento, e rifacendosi a tradizioni più o meno consolidate, affermano che il loro lavoro è antropologia o per lo meno un certo tipo di antropologia. La seconda conclusione riguarda dunque l’esistenza di comunità antropologiche, a cui chi conduce una ricerca, scrive e pubblica i propri risultati, fa riferimento o da cui viene cooptato. Il primo caso è il più frequente: gli individui scelgono campi di indagine e stili di pensiero

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di una determinata comunità antropologica, si inseriscono nei loro gruppi interni, adottano i loro criteri di identificazione, i loro alleati e i loro nemici, i loro presupposti, i loro gerghi, i loro vezzi. Così facendo, gli individui fanno prevalere i loro interessi personali (in termini di riconoscimento professionale e, possibilmente, di che guadagnarsi da vivere), senza porre in discussione il tipo di antropologia praticato dalla comunità prescelta come punto di riferimento. Essi ritengono che i loro studi vadano considerati antropologici, in quanto fanno riferimento a una comunità scientifica, la quale ha impiegato il termine antropologia per dare coesione e legittimità al proprio gruppo. Il secondo caso è un po’ meno frequente, ma altrettanto significativo: qui è la comunità che, per rafforzarsi o per estendere le proprie alleanze, decide di cooptare individui esterni, i quali forse non pensavano nemmeno di poter essere considerati antropologi; e la cooptazione può riguardare tanto individui contemporanei, quanto autori deceduti. Per esempio, Ernesto De Martino aveva sempre rifiutato per sé la definizione di antropologo: egli teneva molto alla distinzione tra antropologia ed etnologia, e perciò si definiva etnologo, non antropologo. Ma oggi, quanti sono i gruppi di antropologi italiani, i quali hanno adottato De Martino come antenato fondatore non dell’etnologia, bensì dell’antropologia culturale italiana, quella che egli stesso aveva osteggiato? Si potrebbe dire che questo è un ottimo esempio di invenzione di una tradizione. Non sono soltanto le comunità o i gruppi sociali che si inventano le loro tradizioni (Hobsbawm e Ranger 1987); anche le comunità scientifiche costruiscono tradizioni che diano legittimità al loro essere. Il caso dell’antropologia culturale

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italiana è emblematico non soltanto per la cooptazione postuma di De Martino. Rispetto ad altri paesi, soprattutto Gran Bretagna e Stati Uniti, l’Italia non ha conosciuto fino alla seconda metà del Novecento una tradizione di antropologia culturale o di antropologia sociale. L’antropologia senza aggettivi – in Italia come del resto negli altri paesi dell’Europa continentale (soprattutto Germania e Francia) – coincideva con l’antropologia fisica. Accanto all’antropologia fisica, esistevano due altre tradizioni scientifiche: l’etnologia, interessata quasi esclusivamente a società extra-europee, e la storia delle tradizioni popolari, concentrata quasi del tutto sul folklore italiano (specialmente meridionale). L’introduzione in Italia dell’antropologia culturale si configurò inevitabilmente come la segnalazione di una mancanza, come la configurazione di uno spazio vuoto che andava colmato o che poteva vantaggiosamente essere riempito da parte di transfughi da altre comunità o da gruppi in espansione. Individui di varia estrazione e formazione – giuridica, storica, sociologica, filosofica, ma soprattutto di storia delle tradizioni popolari – furono attirati dal vuoto, oltre che affascinati dall’antropologia: probabilmente essi avvertivano la ressa che si veniva a creare nelle loro rispettive comunità di appartenenza e si fecero avanti in quello spazio non ancora ben regolamentato proponendo le loro credenziali scientifiche, nonostante che, nel frattempo, da un lato gli antropologi fisici dichiarassero che solo un tipo di sapere poteva vantare l’attributo antropologico (ovvero l’antropologia fisica) e, dall’altro, gli etnologi italiani avessero assunto un atteggiamento di sdegnato rifiuto nei confronti dell’antropologia culturale. Dal caso italiano a cui abbiamo ora accennato pos-

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siamo ben intuire quale sia la potenza dei nomi, quanto essi siano importanti in virtù degli spazi che creano, delle aspettative che suscitano, ma anche degli impegni che generano e delle responsabilità che determinano. Quest’ultima considerazione merita ancora di essere svolta. In fondo, abbiamo fatto intravedere (solo intravedere: ben altra cosa sarebbe ricostruire un quadro storico) un pullulare di interessi personali e di gruppo che si sono coagulati attorno alla parola “antropologia”: da un lato personaggi più o meno solitari e credibili, dall’altro scuole e comunità più o meno coese, con le loro strategie di occupazione e di autolegittimazione. Ma, al di là degli interessi individuali e degli interessi di gruppo, non esistono forse anche interessi dell’antropologia? Il fatto di appropriarsi di territori antropologici non evita del tutto un impegno che proviene dalla stessa occupazione: il successo genera responsabilità. Se si occupano territori denominati “antropologia”, prima o poi occorrerà rispondere alla domanda “che cosa si intende per antropologia?”. E non sarà più sufficiente inventarsi tradizioni, anche perché occorrerà comunque reinventarle, rinnovarle, aggiornarle, portarle all’altezza dei nuovi problemi a cui l’antropologia è chiamata a rispondere. Come si è detto alla fine del paragrafo precedente, “antropologia” è un nome estremamente impegnativo: molto utile per farsi strada nelle comunità scientifiche, ma anche colmo di responsabilità, specialmente se si tiene conto del fatto che si può essere antropologi in tanti modi diversi. Per questo, se anche non sorge spontaneamente dall’interno della comunità e dei suoi paradigmi, v’è da aspettarsi che prima o poi la domanda sul significato dell’antropologia che si intende praticare venga fatta dall’esterno, scaturisca dalle dinamiche culturali in cui si è

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coinvolti o venga proposta – se non dalle altre antropologie, con le quali si spartiscono, in base ad accordi più o meno taciti, i territori del sapere, e i posti dell’accademia – da coloro che stentano a identificarsi del tutto con le comunità di appartenenza. Perché le comunità antropologiche sono di solito così poco interessate all’antropologia, così refrattarie a indagarne il senso? In generale, le comunità scientifiche esercitano un forte peso: tracciano criteri, inventano tradizioni, incidono confini, decidono (nel nostro caso) quale tipo di antropologia occorre praticare per potervi appartenere e quindi ipso facto essere dichiarati antropologi. È tipico delle comunità che si autodefiniscono antropologiche stabilire che questo “è” antropologia o, meglio, che ciò che fanno i loro membri è antropologia. È funzionale alle comunità lasciare poco spazio al dibattito sul senso generale dell’antropologia, in quanto esso rischierebbe di porre in discussione la legittimità delle loro scelte, la loro autorevolezza, nonché la loro funzione protettiva e assicurativa nei confronti di coloro che vi aderiscono. Aderire a una comunità comporta per gli individui delegare alla comunità stessa la responsabilità delle scelte di fondo; in cambio, la comunità fornisce la tranquillità di una definizione preventiva e indiscutibile di antropologia. Inoltre, quanto più una comunità è forte, tanto più garantita e accettata risulta essere l’indiscutibilità dei suoi criteri e delle sue scelte. Una concezione critica e autocritica – tale da mettere in discussione l’immagine di antropologia che una comunità tende a imporre e praticare – difficilmente nasce al suo interno: gli interessi del gruppo fanno sì che l’indiscutibilità si estenda a molti aspetti costitutivi della comunità. È perciò più probabile che l’atteggiamento critico

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venga invece esercitato a partire da posizioni di marginalità, e quindi da individui che si identificano poco con le comunità vigenti o che, comunque, per esercitare il loro atteggiamento critico, si spostano di più verso i confini esterni della comunità. La marginalità è il luogo critico per eccellenza. Qui vengono meno gli interessi del gruppo attuale, e si dibattono più liberamente temi, principi, criteri, scelte di base: più facilmente qui si possono affrontare gli interessi generali dell’antropologia, a cominciare dagli impegni che la scelta di un nome tanto impegnativo comporta. Infatti, mentre una comunità, appellandosi alla sua stessa esistenza, al suo peso, alla sua imponenza, alle sue tradizioni più o meno autorevoli, può forse permettersi di sostenere una tesi di questo genere: “antropologia è ciò che noi facciamo” (ovvero, “è ciò che noi abbiamo deciso che si faccia”), una posizione di marginalità è propria di chi coltiva dubbi sulla plausibilità e fecondità delle prospettive adottate, di chi avverte la convenzionalità dei confini, di chi scorge l’arbitrarietà delle scelte, di chi in definitiva continua ancora a chiedersi perché mai si è deciso che antropologo non è, di norma, il neurologo, ma piuttosto il “nuerologo”. Se è vero che le comunità hanno un peso, è vero altresì che anche le parole ce l’hanno (impegnano chi le usa e il loro uso genera responsabilità). E se è vero che, in faccende di questo genere, non esiste un tribunale della ragione a cui appellarsi, né – come immaginava Immanuel Kant – una filosofia che sia in grado di affidare a ogni scienza (a ogni comunità) il suo posto nella repubblica delle scienze e delle lettere, è anche vero che l’esigenza propriamente critica permane, se non altro perché la stessa conformazione delle comunità scientifiche determina la marginalità da cui

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provengono le istanze critiche. Curiosa situazione, rispetto a quella immaginata da Kant: per il filosofo del Settecento la critica era un potere di controllo esercitato dalla filosofia, la quale si arrogava una posizione sopraelevata e centrale rispetto a tutte le altre scienze; oggi, invece, la critica è soprattutto una prerogativa della marginalità, ossia non di coloro che dispongono della ragione e per ciò stesso pretendono di collocarsi al centro, bensì di coloro che – non accontentandosi di quanto affermano e fanno le comunità di appartenenza – ricercano possibilità alternative. 5. Antropologie e scienze umane Un aspetto non può non colpire chi, svincolandosi un poco dalla logica di appartenenza alle comunità, osserva l’affollarsi, attorno all’uomo, di una miriade di approcci, strumenti, prospettive, alcuni dei quali vengono chiamati antropologici e altri no. Dagli aspetti più minuti della sua struttura anatomica alle sue produzioni artistiche, dal suo apparato genetico alle sue imprese storiche, dal funzionamento fisiologico del suo organismo alle modalità culturali del suo comportamento, dalle sue più strane patologie ai vari tipi di struttura sociale che è in grado di elaborare: è difficile immaginare che vi sia al mondo una realtà più indagata dell’uomo. L’uomo – tanto sotto il profilo del suo essere, quanto sotto quello della sua produzione – è certamente l’animale più studiato, e non da una singola forma di sapere, globalmente chiamata antropologia, ma da più antropologie e – quel che più conta – da una molteplicità pressoché incontrollabile di approcci diversi che nem-

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meno usano questo nome. Più che un oggetto singolo e unitario di studio, l’uomo sembra essere perciò un enorme continente, tante sono le strade che vi si addentrano (le analisi al microscopio di tessuti o gli studi di archivi), i paesaggi che vi si possono incontrare (gli organi interni del suo corpo o l’esposizione di quadri in una galleria d’arte), gli eventi che vi si verificano incessantemente (il battito cardiaco del feto nel grembo materno, il bacio tra innamorati, i massacri tra gruppi reciprocamente ostili). Visto che la molteplicità più diffusa di oggetti, di strumenti e di prospettive regna in questo continente, forse l’atteggiamento più saggio è tentare una qualche classificazione tipologica, così da mettere sempre più a fuoco l’argomento che maggiormente ci interessa, ossia i significati delle diverse antropologie. Abbiamo visto che sono molti i tipi di studio e di approccio che riguardano l’uomo; ma alcuni vengono definiti antropologici e altri no. Di solito, lo studio del cuore umano non è di per sé definito antropologico (pur trattandosi del cuore umano) e nemmeno lo studio – poniamo – dei Promessi sposi (pur trattandosi di un prodotto culturale esclusivamente umano). Lo studio delle guerre puniche non fa parte di solito dell’antropologia, mentre invece facciamo rientrare nell’ambito degli interessi antropologici la caccia alle teste di una tribù della Nuova Guinea. Il diritto commerciale non appartiene alla sfera dell’antropologia, ma il modo in cui si compongono le dispute in un villaggio africano o gli scambi di oggetti rituali nelle isole Trobriand della Melanesia sono argomenti che rientrano in settori specifici dell’antropologia, ossia rispettivamente l’antropologia giuridica e l’antropologia economica. Lo studio neurologico del cervello umano non è di per sé considerato antropologia, men-

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tre lo sviluppo del cervello umano lungo linee evolutive che connettono l’uomo attuale agli ominidi della preistoria viene concepito come un argomento a cui si attribuisce immediatamente una denominazione antropologica. È del tutto lecito ammettere che esistano convenzioni e convincimenti più o meno arbitrari, dai quali dipendono per tradizione e per consuetudine le attribuzioni del nome e della qualifica di “antropologia”. Ma è pur sempre pertinente una domanda del tipo: “che cos’è che – agli occhi di queste convenzioni – rende antropologica una prospettiva più di un’altra, una prospettiva piuttosto che un’altra?”. Una risposta che vogliamo tentare andando verso la conclusione di questo primo capitolo è molto convergente con la prospettiva avanzata di recente da Ugo Fabietti, ossia che l’antropologia è «un sapere di frontiera» (critico e marginale rispetto al mondo da cui nasce) e «un sapere che nasce sulla frontiera tra culture diverse» (Fabietti 1999: XI-XII). La nostra proposta vale però per l’antropologia in generale (non solo per l’antropologia culturale o sociale) ed è che l’interesse antropologico riguarda i confini: esso sorge e si determina, allorché vengono indagati i confini dell’umanità e quindi risulta essere messo in questione il senso dell’umanità. Studiare sotto il profilo anatomico, fisiologico o neurologico organi importantissimi degli esseri umani non viene considerata – secondo le nostre convenzioni – un’attività da definire antropologica, perché si tratta di osservazioni e analisi molto interne alla realtà umana o – se vogliamo – interne a una certa concezione della realtà umana; allo stesso modo, molto interni a specifiche tradizioni culturali possono essere lo studio della cattedrale di Nôtre Dame, dell’Arte della fuga di Bach o del funzionamento del parla-

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mento inglese. Polmoni, cuore, cervello sono ovviamente della massima importanza per l’organismo umano, ma indagare come sono fatti, come funzionano, come si ammalano ed eventualmente come si curano non pone per noi in discussione la configurazione dell’essere umano, così come l’analisi dell’Arte della fuga, dei suoi canoni e dei suoi contrappunti, è diretta a esplorare una mirabile architettura musicale, prodotto di un irripetibile genio individuale e di una raffinata tradizione musicale, che tuttavia non pare aggiungere nulla al sapere antropologico in quanto tale. Che si tratti di medicina e di sapere biologico da un lato o che si tratti di saperi umanistici e di scienze umane dall’altro, la caratteristica fondamentale di tutte queste diverse indagini, che pure riguardano aspetti anche molto importanti della realtà umana, è che si muovono per così dire al suo interno: all’interno dell’essere umano, all’interno dei suoi prodotti o, meglio ancora, all’interno di concezioni consolidate e tradizionali sia dell’essere umano sia delle sue varie produzioni culturali. Indagare all’interno di forme di umanità o di tradizioni culturali significa dare per scontata una certa immagine dell’umanità. È lecito supporre che molte ricerche della bio-medicina, quale noi conosciamo negli ospedali e nelle cliniche del nostro tipo di civiltà, si siano sviluppate e abbiano ottenuto i loro successi – oltre che, beninteso, i loro fallimenti – nel quadro, e quindi all’interno, di una determinata concezione dell’uomo, proprio come lo studio dell’Arte della fuga viene condotto, di solito, senza porre in discussione una certa immagine dell’uomo, in particolare dell’uomo occidentale, della sua spiritualità, della sua creatività estetica e così via. È importante rendersi conto dell’economicità del

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“non porre in discussione” una certa immagine dell’uomo. Le immagini dell’uomo, ancorché implicite e non dichiarate, orientano le indagini “all’interno” di sfere di umanità. Le immagini dell’uomo sono come i “paradigmi” di cui ha parlato Thomas Kuhn (1962): essi sono prospettive o concezioni generali che, proprio in quanto poggiano su determinati presupposti e fissano determinati confini, consentono di creare spazi di ricerca relativamente sicuri e protetti. Questi spazi – la biomedicina e le sue specializzazioni, oppure la musicologia occidentale e le sue raffinate produzioni – rappresentano gli “interni” di cui si è parlato finora. Senza porre in discussione le immagini dell’uomo che appunto creano questi spazi, si lavora al loro interno allo scopo di capire come sono fatti e come funzionano gli oggetti che li caratterizzano: organi umani, tanto quanto prodotti artistici e letterari; fenomeni storici e culturali (una civiltà antica, per esempio, o un’industria moderna), tanto quanto eventi sociali (uno sciopero, una gara di calcio, una rivoluzione). Esattamente in questi spazi “interni” – spazi creati da determinate immagini dell’uomo (concezioni o paradigmi antropologici) – si collocano e si distribuiscono gli innumerevoli approcci che riguardano componenti, dimensioni e momenti tra loro assai diversi dell’umanità, aspetti spesso decisivi e importanti, e che pur tuttavia non ambiscono, non richiedono, non esigono di essere definiti “antropologici”. Se pensiamo all’ampia articolazione dei saperi biologici da un lato e dei saperi umanistici dall’altro, entrambi distinti dai tipi di sapere che invece si definiscono – per convenzione o per tradizione – antropologici, possiamo ragionevolmente ritenere che questi “spazi interni” siano in grado di giu-

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stificare e accogliere adeguatamente la loro grande molteplicità ed eterogeneità. In questi spazi interni è pure lecito collocare le “scienze umane” (psicologia, sociologia, economia ecc.), le quali hanno inteso distinguersi dai saperi umanistici per l’adozione di metodi “scientifici” tali da poter essere considerate in modo simmetrico e parallelo alle scienze della natura. Anche l’antropologia culturale e sociale fa parte ovviamente delle scienze umane, soprattutto in combinazione con la sociologia e la psicologia. Ma sociologia e psicologia – e ancor più economia, diritto ecc. – rappresentano scienze umane che si collocano quasi programmaticamente negli “spazi interni” generati da determinati paradigmi antropologici, da determinate immagini dell’uomo, corrispondenti per lo più a specifiche aree culturali o tradizioni di civiltà e di pensiero (come aveva chiarito, per esempio, Ralph Dahrendorf [1964] con la sua analisi di homo sociologicus, in analogia alle nozioni di homo œconomicus e homo religiosus). 6. Le antropologie e i confini dell’umanità Tra le scienze umane l’antropologia è, o dovrebbe essere, la più “umana”. Ma l’antropologia si distacca dalle altre scienze umane per il fatto di collocarsi non già negli “spazi interni” creati da certi paradigmi antropologici, bensì negli “spazi esterni” che si intravedono al di là dei loro confini. “Antropologiche” risulterebbero allora le ricerche che, invece di dare per presupposte certe immagini dell’uomo, ambiscono a “definire”, a perimetrare in qualche modo l’essere umano, e per fare questo si sentono obbligate a uscire dalla considerazione di un

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qualche “interno” per spostarsi verso l’“esterno” e comunque verso i confini dell’umanità. Dove termina o dove ha inizio l’umanità? In che modo gli esseri umani si distinguono dagli altri esseri animali? Dove corre il confine tra esseri umani e gli altri primati, viventi o estinti che siano? L’antropologia fisica o biologica in fondo risponde a domande di questo genere e lo fa spostandosi – per così dire – verso i confini attuali dell’umanità, quelli che attualmente separano gli esseri umani da scimpanzé e gorilla. È perciò inevitabile che questo tipo di antropologia si combini e persino si intrecci con la primatologia. Addentrandosi nella primatologia, che lo si voglia o no, il problema dei confini dell’umanità, ovvero la considerazione di che cosa ci unisce e di che cosa ci separa dagli altri primati, si impone come domanda ineludibile. Ci si può però spostare verso i confini dell’umanità anche in un’altra maniera, cioè andando a ritroso nel passato e cercando di cogliere i momenti fondamentali di quel lungo processo di formazione evolutiva dell’umanità, denominato ominazione o antropogenesi. Cercando di ricostruire le origini dell’umanità, si incontrano forme fossili di primati a cui si è dato il nome del genere Homo (per esempio, Homo abilis e Homo erectus, ben prima di Homo neanderthalensis e di Homo sapiens) e che rappresentano altrettante domande non solo su loro stessi, ma anche sulle possibilità di dilatazione del significato che si intende conferire alla nozione di umanità. In una retrospettiva temporale di alcuni milioni di anni (a circa 2 milioni e mezzo di anni risalgono, secondo Klein [1995: 316], le prime testimonianze di Homo abilis in Africa orientale), quali attributi di umanità le comunità dei paleoantropologi pensano di poter conferire a questi ominidi? Oppure l’umanità si

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concentra nell’unica specie di ominidi sopravvissuta, cioè Homo sapiens sapiens? Gli antropologi, di qualunque genere essi siano, non possono distogliere gli occhi dai confini dell’umanità. È guardando i confini dell’umanità che si può fare un discorso antropologico; navigando tutto attorno al continente uomo si può cercare di delineare il senso dell’umanità, di capire che cos’è o come è fatto l’uomo; e nel tentare ciò è inevitabile che si prendano in considerazione le specie “confinanti”, altre forme, viventi o estinte che siano, con le quali l’umanità attuale condivide tratti caratteristici più o meno numerosi e importanti e alle quali risulta collegata o collegabile mediante processi evolutivi interspecifici. I confini dell’umanità non riguardano però soltanto gli aspetti fisici dell’uomo (la stazione eretta, la posizione del cranio, il pollice opponibile e così via); i confini dell’umanità possono essere esplorati anche su altri piani, come quello del comportamento e quello della cultura. Che cosa l’uomo è o è stato capace di produrre sul piano della cultura e quindi raccogliere i suoi prodotti culturali – a cominciare dalla cultura materiale (dalle lame di selce fino ai computer, perché no?) – sono domande che svelano una tipica ambizione antropologica, quella che si trova alle radici dell’antropologia culturale. Che cosa l’uomo è o è stato capace di produrre sul piano della società e quindi osservare e analizzare i vari tipi di struttura sociale che caratterizzano i gruppi umani (dalle piccole bande dei cacciatori-raccoglitori alle grandi formazioni degli imperi antichi o degli stati moderni), anche questa è una tipica attività antropologica, che è alla base della cosiddetta antropologia sociale. Sia nel caso della cultura, sia nel caso della società l’antropologia si spinge ai confini dell’umanità, nel senso che

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cerca di raccogliere, di conoscere e di comprendere ciò che l’uomo – in qualunque parte del mondo egli viva – è stato in grado di realizzare. Antropologia fisica e biologica, insieme alla paleoantropologia, da un lato, antropologia culturale e sociale, insieme all’etnologia, dall’altro si muovono ovviamente su piani diversi, su ordini di realtà differenti (la capacità cranica – aspetto anatomico e biologico – non è la stessa cosa che un mito, prodotto squisitamente culturale). In comune hanno però l’attenzione e l’interesse per i confini dell’umanità. Ma – potremmo aggiungere – l’antropologia fisica e biologica circumnaviga il continente uomo più dall’esterno, muovendosi tra l’uomo e gli altri esseri animali. I confini sono osservati soprattutto in questo spazio esterno all’umanità. Qui non c’è solo l’uomo, trovandosi l’essere umano in mezzo agli altri primati. Sotto questo profilo, il continente uomo tende perciò a ridursi alle dimensioni di un’isola, di cui si possono delineare i confini, tenendo però presente che i fili che connettono l’essere umano alle forme confinanti sono molteplici e che confronti e collegamenti tra specie biologiche differenti risultano indispensabili. L’antropologia culturale e l’antropologia sociale – sulla scia dell’etnologia – esplorano anch’esse i confini dell’umanità, ma anziché girare tutt’intorno all’umanità, si muovono all’interno del continente uomo. Esse incontrano soltanto umanità, perché qui ci sono soltanto uomini con le loro culture e le loro società. Ma anche qui c’è una strabiliante varietà di forme: le forme diverse che l’umanità assume a seguito delle elaborazioni culturali e sociali di cui gli esseri umani sono capaci. Antropologia culturale e antropologia sociale sono anch’esse alla ricerca di confini, in quanto, muovendo da

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qualche centro all’interno del continente uomo, si spingono verso l’esterno, verso forme di cultura e società inedite, cercando di cogliere ciò che sotto questo profilo non è ancora stato osservato, compreso, indagato. Si tratta pure qui di un’esplorazione di confini, anche se il movimento è, per così dire, dal centro alla periferia (da un qualche centro a una qualche periferia). Questa esplorazione di confini da parte dell’antropologia culturale e sociale è concepibile in un duplice senso: a) si va verso e si va oltre i confini di forme di umanità particolari, quali sono quelle modellate da singole tradizioni culturali, per conoscere altre forme, altre tradizioni; b) nell’esplorare i confini delle tradizioni, ovvero delle forme particolari di umanità, si può anche presumere di poter conoscere se non proprio la totalità delle forme particolari di umanità nella loro contingenza storica o etnografica, quanto meno la matrice o le matrici generali da cui derivano le forme di umanità messe in atto dall’uomo. Si tratta di due tipi di strategie di esplorazione dei confini alquanto differenti. Mentre il primo tipo di esplorazione è caratterizzato da una certa incompiutezza (non si finisce mai di passare da una forma particolare di umanità a un’altra), il secondo tipo di esplorazione prevede di poter pervenire ai confini più esterni dell’umanità, quelli delineati da un’antropologia biologica, e – muovendosi pur sempre sulla terraferma dell’umanità – di poter compiere l’intero perimetro del continente uomo. Può l’antropologia culturale o sociale presumere di poter dominare la totalità delle forme di umanità, a cui

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gli esseri umani hanno posto mano? All’inizio, l’antropologia culturale e sociale ha covato ambizioni di questo genere; ha pensato di raggiungere, dotandosi di una strumentazione scientifica, gli obiettivi generali tipici delle filosofie della storia sette e ottocentesche. I grandi schemi del “progresso” dell’umanità – come quello elaborato da Lewis H. Morgan (1876) – scandivano la storia culturale e sociale del genere umano sulla base di una successione necessaria di forme di umanità: “selvatichezza”, “barbarie”, “civiltà” erano per Morgan le tappe fondamentali dello sviluppo umano, così come “magia”, “religione”, “scienza” lo erano per James G. Frazer (1912). Per quel tipo di antropologia queste tappe costituivano, potremmo dire, i confini dell’umanità, i lati fondamentali del suo perimetro, nel senso che tutto ciò che gli esseri umani sarebbero stati in grado di realizzare sul piano culturale e sociale doveva rientrare inevitabilmente in una di queste sfere. La crisi della prospettiva evoluzionistica – quale si è determinata in antropologia tra Ottocento e Novecento – non ha fatto abbandonare l’obiettivo principale, quello di pervenire intellettualmente ai confini dell’umanità. Furono altre le vie e i mezzi adottati: furono per esempio le tipologie di società del funzionalismo di A.R. Radcliffe-Brown, oppure le matrici psico-logiche, i “recinti mentali” di cui lo strutturalismo di Claude Lévi-Strauss si era posto esplicitamente alla ricerca. In ogni caso, permaneva l’idea di poter racchiudere entro un certo perimetro, se non la totalità dei fenomeni culturali e sociali, almeno la totalità dei principi generativi da cui essi possono scaturire. Va detto che questo secondo obiettivo (b) non è più in genere considerato alla portata degli antropologi culturali e sociali, nemmeno sotto forma di scoperta di

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matrici. L’idea di poter racchiudere entro un perimetro dato la produzione culturale e sociale dell’umanità – sia pure considerata non come totalità di fenomeni, ma come insieme di principi generativi – lascia gli antropologi perplessi e sgomenti. I confini di cui ora essi vanno alla ricerca, che essi studiano e attraversano, sono soprattutto quelli definiti mediante l’obiettivo a: si tratta cioè dei confini delle forme di umanità, modellate dalle singole tradizioni o dai singoli contesti, non già i confini (culturali e sociali) dell’umanità intera. Per l’antropologia fisica e biologica i confini dell’umanità sono in effetti maggiormente individuabili e descrivibili (esseri umani da un lato, scimpanzé, gorilla, orangutan dall’altro). Per la paleoantropologia i confini dell’umanità sono indubbiamente più sfumati, trattandosi di forme fossili diverse da Homo sapiens e che tuttavia condividono con la specie umana attuale tutta una serie di caratteristiche sia fisiche sia sociali e culturali: i confini dell’umanità in questo caso dipendono dunque maggiormente dalle decisioni che i paleoantropologi assumono in relazione alla nozione più o meno dilatata di umanità. Per gli antropologi culturali e sociali i confini dell’umanità costituiscono invece un problema di non facile soluzione: grandi esperti dei confini delle forme di umanità particolari (quelli foggiati dalle tradizioni culturali), essi si trovano a mal partito allorché si impongono, o sono richiesti, di indicare i confini (culturali e sociali) dell’umanità in generale. In effetti, essi hanno a che fare non con forme o strutture biologiche (ciò che gli uomini sono, o sono divenuti, sotto il profilo dell’evoluzione biologica), bensì con la capacità di produzione culturale e sociale che caratterizza gli esseri umani. Essi trattano non con l’“essere”, ma con il “fare” de-

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gli uomini e, per quanto sia del tutto ragionevole attendersi che vi siano limiti spesso molto cogenti al “fare” degli uomini, è difficile pensare di poter rintracciare tutti i confini e quindi di poter circoscrivere e perimetrare compiutamente le potenzialità produttive umane in campo sociale e culturale. Si potrebbe anzi sostenere che, quanto più gli studi avanzano (a partire da un qualche luogo del continente umano) e si superano confini particolari, tanto meno credibile appare il raggiungimento dei confini generali dell’umanità. Per l’antropologia culturale e sociale è un po’ come se i confini generali si dilatassero sempre di più, quasi un orizzonte che si allontana nello spazio quanto più noi abbiamo la presunzione di avvicinarlo. Proprio per questo, mentre l’antropologia fisica potrebbe vedere esaurito il proprio compito nell’approfondimento dei confini dell’umanità, come anche nel chiarire connessioni, continuità, somiglianze con le forme biologiche confinanti, l’antropologia culturale e sociale rischia di perdere letteralmente di vista il secondo tipo di obiettivo (b): un obiettivo originario e per molti aspetti fondante, in quanto si tratterebbe di cogliere l’insieme delle potenzialità culturali e sociali dell’uomo; un obiettivo che – occorre non dimenticare – è stato posto alla base della pretesa di definire certi studi come antropologici. Contro questo obiettivo e questa pretesa, contro l’idea che l’antropologia culturale e sociale possa davvero definire una volta per tutte i confini generali dell’umanità, stanno la complicazione, la diversificazione, il mutamento, la trasformazione incessante che caratterizzano la dimensione culturale e sociale dell’uomo in modo più incisivo che non il suo aspetto fisico e la sua realtà biologica. Ciò che dunque

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si intravede alla fine di queste riflessioni è l’emergere di drammi scientifici: il rischio forse del compimento e quindi dell’esaurimento di un compito per l’antropologia fisica e biologica; l’impossibilità di condurlo a termine, invece, per l’antropologia culturale e sociale. Occorre davvero riconoscere che nella scienza, oltre che nella vita, si prospettano drammi di questo genere: raggiungere un obiettivo, portare a termine un compito, è segno di successo, ma è anche un termine che pone fine, toglie respiro e vitalità, segnando la conclusione di un progetto; d’altra parte, perdere di vista un obiettivo ritenuto fondante crea disorientamento e anche questo può preannunciare la fine di uno slancio, di una prospettiva, della vitalità di un paradigma. Occorre riconoscere che anche nella scienza esistono fenomeni di germinazione, di nascita, di sviluppo e di morte, e che la morte e l’abbandono di paradigmi sono alternativamente dovuti non solo all’impossibilità di conseguire certi obiettivi, ma proprio anche al fatto di averli pienamente raggiunti e realizzati.

II.

L’incompletezza antropologica

1. Un’antropologia dimezzata Nell’ultimo paragrafo del capitolo precedente abbiamo visto che anche l’antropologia culturale e l’antropologia sociale si definiscono per una ricerca di confini e che anzi questa esplorazione può assumere un duplice significato: a) superare i confini di singole forme di umanità, e quindi adottare un atteggiamento che consente di attraversare società, culture, tradizioni; b) pensare di spingersi fino al termine di questa esplorazione, raggiungendo i confini non di questa o quella forma di umanità, bensì di tutte le possibili forme di umanità. Questo secondo programma di esplorazione può a sua volta configurarsi in due modi diversi: b1) può presentarsi come un viaggio esplorativo che si svolge in senso orizzontale, con la presunzione di poter alla fine chiudere il cerchio, ovvero di cogliere con uno sguardo complessivo la totalità delle forme di umanità che gli esseri umani sono stati in grado di esprimere; b2) può invece presentarsi come uno scavo in profondità, allo scopo di poter raggiungere le matrici da cui scaturiscono le molteplici forme di umanità che, nei diversi contesti

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spaziali e fasi temporali, sono state via via elaborate. Il modo b1 è tipico di un’impostazione evoluzionistica (per esempio di Morgan), mentre il modo b2 appare decisamente un obiettivo dello strutturalismo (LéviStrauss). Il modo b1 si espone facilmente a un dubbio di ordine fattuale e a un dubbio di ordine teorico: è legittimo pensare che gli antropologi siano in grado di cogliere tutte le forme di umanità che sono emerse nella storia? Se pensiamo alle società di cui si è avuto notizia, ma che non hanno potuto essere indagate prima della loro scomparsa, e se addirittura pensiamo alle società scomparse e di cui non si è neppure avuto notizia, di quante e quali forme di umanità ci è per sempre negata la conoscenza? E questo – a meno di pensare che tali forme siano di poco conto e quindi trascurabili – inficia inesorabilmente il programma b1: la totalità risulta infatti irraggiungibile, e in questa esplorazione orizzontale, non possiamo mai sperare di pervenire al termine, ai confini di tutte le forme di umanità. E se anche si avesse la folle presunzione di poter racchiudere sotto il nostro sguardo la totalità delle forme che gli uomini avrebbero creato nella loro storia, che ne sarebbe del futuro? Anche qui, forse che potremmo ragionevolmente pensare che il futuro non abbia in serbo forme di umanità inedite, diverse da quelle che gli esseri umani hanno saputo produrre finora, come se ciò che gli uomini hanno inventato nella loro storia, fino al momento attuale, coincidesse davvero con la realizzazione di tutte le loro possibilità? Avendo in mente obiezioni di questo genere, alcuni antropologi si sono allora spostati dal piano dell’osservazione e della ricognizione fattuale a quello – più profondo – dell’indagine delle possibilità, cercando di

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cogliere non tutte le forme di umanità che gli esseri umani sarebbero stati davvero in grado di costruire, bensì le loro possibilità germinative (b2). Anche su questo piano vi è una potente ambizione di totalità, ma essa riguarda non le forme effettive (che sono davvero incalcolabili), bensì soltanto i loro principi generativi (che si presume siano di numero assai più ridotto). Come arrivare però a questi principi, a questi confini più nascosti e profondi? Il presupposto essenziale è che davvero vi siano – in profondità – dei confini, dei «recinti mentali» di cui, secondo Lévi-Strauss (1966b: 25), l’antropologia dovrebbe essere in grado di «redigere un inventario». Si tratterebbe di un giro più breve, da compiere nelle profondità bio-psico-logiche degli esseri umani, nelle strutture permanenti dello “spirito umano”: non per nulla Lévi-Strauss ritiene di dover continuare a usare la nozione di natura umana, nonostante le critiche e gli abbandoni da parte della maggior parte dei suoi colleghi (1974: 591). L’idea di Lévi-Strauss è che più facilmente si possono raggiungere i confini mentali profondi, allorché si esaminano forme di pensiero non coltivato e non strumentale, allo “stato selvaggio”, quale può essere – secondo la sua idea – il mito (LéviStrauss 1964). Ma Lévi-Strauss ha realizzato a pieno il suo programma? È davvero giunto a redigere l’inventario completo dei “recinti”, dei confini della mente umana? Oppure tutto ciò è rimasto soltanto un’aspirazione, sia pure fondamentale e originaria, un obiettivo particolarmente ambizioso che avrebbe dovuto consentire a un sapere – altrimenti definito soltanto “etnologico” – di potersi fregiare della qualifica di “antropologico”? Beninteso, vi è una differenza assai significativa tra l’obiettivo b1 (totalità delle forme di umanità) e l’obietti-

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vo b2 (matrici di possibilità, principi generativi delle forme di umanità), nel senso che, mentre per il primo obiettivo si può davvero parlare di impraticabilità, per il secondo si potrebbe ipotizzare una sorta di dilazione. Perché escludere che in un futuro più o meno prossimo una “nuova alleanza” tra antropologie del versante biologico e antropologie del versante culturale possa davvero farci considerare realizzabile l’obiettivo b2? Con i criteri epistemologici di oggi, b1 è veramente improponibile; b2 è invece solo procrastinabile. Per il momento, proviamo a pensare che sia lecito fare a meno di perseguire obiettivi così ambiziosi (quale in effetti è l’obiettivo b2), e che le esplorazioni dei confini delle forme di umanità debbano essere soltanto del tipo a: conoscere forme diverse di umanità, travalicarne i confini proprio per cogliere la diversità spesso radicale delle forme, la loro reciproca stranezza, persino la divergenza, l’opposizione, addirittura l’inconciliabilità e l’incompatibilità. Si tratta di un viaggio tra le forme di umanità il quale, spingendosi fino ai loro confini particolari, non ha però la presunzione di poter concludere l’esplorazione. Ammessa questa strategia, non si può tuttavia eludere la domanda seguente: siamo ancora autorizzati a parlare di antropologia in riferimento a un tipo di indagine programmaticamente più contenuta e che di proposito lascia indeterminata la questione dei confini “ultimi”? Rispetto a un’antropologia che persegue sia l’obiettivo a (confini particolari) sia l’obiettivo b (confini ultimi), questa antropologia ridotta al perseguimento del solo obiettivo a potrebbe forse apparire come un’antropologia dimezzata, mutilata: una semi-antropologia (tanto per essere indulgenti). È praticabile, è proponibile, è scientificamente condivisibile un’antropologia siffatta?

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Possiamo chiamare antropologia un sapere il quale, esaminando le manifestazioni culturali delle società umane, non se la sente di addentrarsi nelle profondità della mente e di dire “questi sono i confini ultimi dell’umanità sotto il profilo culturale e sociale: al di là di essi l’umanità non è mai andata, né può andare”? Possiamo chiamare antropologia un sapere che si limita invece a dire “ecco alcuni confini, alcune forme di umanità: altri confini, altre forme potranno ancora essere esplorati, senza però pretendere di giungere con ciò al termine ultimo dell’umanità”? Dal momento in cui abbiamo sostenuto la tesi che tipico di ogni antropologia sarebbe l’interesse per i confini dell’umanità (cap. I, § 5), abbiamo preso in considerazione le seguenti modalità: I) Antropologia fisica e biologica – confini tra homo sapiens e altri primati attuali. II) Paleoantropologia – confini tra forme di umanità e altri ominidi estinti. III) Antropologia culturale e sociale – confini delle forme culturali e sociali di umanità: a) confini di forme particolari di umanità; b) confini di tutte le forme particolari di umanità: b1) totalità delle forme di umanità effettivamente realizzate; b2) totalità dei principi generativi delle forme di umanità possibili. Ci poniamo ora il problema se, a seguito delle difficoltà riscontrate per le modalità b1 e b2, l’obiettivo a – più dimesso e limitato – sia sufficiente per poter attribuire il titolo di “antropologia” a un sapere che si limita a esplorare i confini culturali e sociali delle forme particolari di umanità. La tesi di questo scritto è che sia

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proprio la prospettiva più dimessa ciò che rende l’antropologia culturale e sociale maggiormente credibile sul piano scientifico, o perlomeno più praticabile. Sotto questo profilo, vi è in primo luogo una differenza importante tra l’obiettivo a e l’obiettivo b, e quindi tra un’antropologia che persegue soltanto l’obiettivo a e un’antropologia che invece intende perseguire sia l’obiettivo a sia, soprattutto, l’obiettivo b. La differenza riguarda un criterio di completezza. Un’antropologia di tipo a difficilmente può aspirare alla completezza; anzi, il compito dell’esplorazione dei confini si presenta come inevitabilmente caratterizzato da una radicale incompiutezza, giacché se anche si pensasse di poter cogliere tutte le forme di umanità elaborate fino a questo momento, rimarrebbe pur sempre il serbatoio inesplorato del futuro, il quale potrebbe fornire forme inedite, che si verrebbero ad aggiungere a quanto già conosciuto. Un’antropologia di tipo b è invece fondata su un’idea di completezza: essa può benissimo pensare di incamminarsi nell’esplorazione pressoché indefinita delle varie forme di umanità (obiettivo a), ma questa stessa esplorazione verrebbe guidata e orientata da quanto acquisito in modo compiuto e definitivo in relazione alle matrici interne delle forme di umanità (obiettivo b). Un’antropologia di tipo b gioca la sua credibilità scientifica sulla sua effettiva capacità di realizzare compiutamente l’obiettivo fondamentale che dà senso alla sua operatività: o dimostra di essere in grado di raggiungere i suoi obiettivi oppure è costretta a dichiarare il suo fallimento. Per un’antropologia di questo genere, prima o poi occorre davvero venire in chiaro delle matrici delle forme di umanità, dei principi generativi da cui deriverebbe la molteplicità delle culture, delle società e in

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generale dei fenomeni che si verificano in esse. Un’antropologia di tipo a, più modesta, più limitata quanto ad obiettivi generali, sempre incompleta, non conosce scadenze: la sua incompiutezza è anche la sua forza; la sua autolimitazione è la migliore garanzia di durata nel tempo. Fino a che esistono esseri umani, i quali attraverso le loro culture e le loro società elaborano forme di umanità, un’antropologia di tipo a troverà sempre terreno fertile: avrà sempre nuovi confini da esplorare, altre forme di umanità da aggiungere a quanto già acquisito su questo piano. 2. L’antropologia e le forme di umanità Dobbiamo però riprendere la domanda da cui siamo partiti. In che senso un’antropologia di tipo a è davvero un’antropologia, ossia un sapere in grado di onorare gli impegni scientifici che un tale nome comporta? Un sapere che non ambisce a definire i principi generativi di tutte le forme di umanità può ancora essere definito antropologia? Se teniamo presenti alcuni punti fermi del nostro primo capitolo, ovvero che i) esiste una molteplicità di antropologie e ii) l’interesse per i confini è ciò che caratterizza il sapere antropologico, qui si tratta semplicemente di definire una prospettiva antropologica tra le altre, cercando di dimostrarne la plausibilità scientifica in relazione alla sua capacità di esplorazione di confini. Detto in altri termini, qui non si tratta di rivendicare l’esclusività antropologica di una prospettiva (quella prescelta, ovvero l’antropologia di tipo a) e trovare argomenti per sostenere che questa è la vera antropologia. Occorre essere molto chiari su questo

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punto. Tanto per cominciare noi ci muoviamo ormai nell’ambito III del nostro schema, quello dell’antropologia culturale e sociale, ed è all’interno di questo ambito che si cercherà di dimostrare la plausibilità di un’antropologia di tipo a, cioè come un’esplorazione di confini di forme di umanità particolari. Il che significa che altre opzioni, altre prospettive sono possibili sia all’esterno di questo ambito, sia al suo interno, anche se all’interno i margini sono più stretti, i giochi più ridotti, la competizione tra le prospettive più serrata. Questi aspetti ovviamente conflittuali non possono essere celati. In un’economia generale è tuttavia legittimo un discorso che, almeno inizialmente, cerchi di dimostrare le buone ragioni di una prospettiva, anziché argomentare contro prospettive divergenti, alternative, potenzialmente concorrenti. Dopo questa fase di discorso più positiva, si potrà affrontare in modo più fondato il confronto aperto con altre posizioni. Vediamo allora quali possono essere alcuni punti qualificanti della prospettiva prescelta, quella che propone e sostiene un’antropologia di tipo a, intesa come un’esplorazione di confini di forme di umanità particolari. Si tratta di presupposti, assiomi, tesi, corollari, che qui vengono elencati ed esposti in maniera sintetica. 1) Il fatto stesso di avere scelto un’antropologia di tipo a (esplorazione di confini di forme di umanità particolari), con conseguente rinuncia – per quanto momentanea e parziale – di un’antropologia di tipo b (esplorazione dei confini generali delle forme di umanità), genera un panorama antropologico dominato dalla molteplicità, anziché dall’unità. 2) Mentre l’unità si riferisce ai principi generativi, al-

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le matrici interne alla natura umana, la molteplicità riguarda invece le forme di umanità. 3) Sostenere che nel paesaggio antropologico prospettato domina la molteplicità sull’unità significa non già negare che esistano elementi comuni, ricorrenti, unificanti – i quali provengono da ciò che si potrebbe continuare a denominare “natura umana”, ovvero dalle sue matrici interne –, bensì sottolineare la prevalenza della molteplicità sull’unità. Riprendendo argomentazioni tipiche di un pensatore francese del Cinquecento come Michel de Montaigne o di un antropologo americano del Novecento come Clifford Geertz, si potrebbe dire che l’uomo è soprattutto diverso, che la condizione umana è caratterizzata prevalentemente dalla dimensione della diversità, che la sua essenza coincide non con una forma unitaria, la quale si ripeterebbe costantemente, bensì con una pluralità impressionante di forme secondo i luoghi, i tempi, i contesti. 4) Una tesi come quella esposta al punto 3 implica una presa di posizione ben determinata sull’incidenza che può avere la natura umana nell’organizzazione generale dell’uomo. Senza negare l’importanza che i meccanismi biologici, soprattutto genetici, rivestono nell’organizzazione umana, si ritiene che la dimensione culturale sia prevalente: l’uomo è in gran parte un animale culturale. Mettendo insieme le tesi fin qui esposte, appare chiaro che la natura umana è a fondamento dell’unità, mentre la cultura è a fondamento della pluralità delle forme di umanità. 5) Una puntualizzazione di ordine epistemologico appare necessaria. Ciò che si va esponendo non è da intendere come la “realtà”, a cui dobbiamo adeguare le nostre prospettive, bensì come una “prospettiva” che

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può rivelarsi più o meno feconda per indagare la realtà umana. L’invito non è di aderire fideisticamente a queste tesi, ma di provare a utilizzarle per vedere se funzionano scientificamente, se sono in grado di guidarci in modo soddisfacente nell’esplorazione dei confini delle forme particolari di umanità. 6) Ciò che abbiamo di fronte è dunque un’estensione sterminata di forme di umanità particolari: modi diversi, difformi, divergenti, spesso addirittura incompatibili, di intendere e foggiare l’umanità. Se questo è lo scenario che si presenta all’antropologia di tipo a (o, meglio, che l’antropologia di tipo a tende a presentare), occorre chiedersi quali siano i concetti e gli strumenti mediante i quali essa pensa di leggere e interpretare tale paesaggio. 7) Uno dei concetti più importanti riguarda il dare una foggia all’umanità. Vedremo dopo i significati del “dare una foggia”. Per ora, limitiamoci a sottolineare che, in questa prospettiva, l’umanità esige o richiede di essere foggiata. L’umanità non è tale se non viene sottoposta a una “foggiatura”: occorre dare forma all’umanità, affinché essa possa funzionare, vivere o persino sopravvivere nel mondo. Senza una foggiatura adeguata, l’umanità si trova persa, disorientata. La tesi di questo punto 7 è contenuta nella teoria che, da Johann Gottfried Herder (filosofo del Settecento) a Clifford Geertz, sostiene che l’uomo è un essere biologicamente incompleto. Se l’umanità ha bisogno di essere foggiata, è perché vi è alla radice una carenza, un’incompletezza. Affidato alle sue sole risorse biologiche, l’essere umano non soltanto non sarebbe in grado di affrontare con successo le sfide dell’ambiente (o di dominare certi aspetti della natura), ma

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neppure sarebbe capace di organizzare la sua stessa realtà. 8) Che cosa significa “foggiatura”? Nell’industria ceramica questo termine indica l’operazione del dare forma; e sono molte le società che utilizzano l’immagine della foggiatura ceramica per indicare le operazioni del dare forma all’umanità. Secondo questa metafora – come, per esempio, sostengono i Venda del Transvaal – l’essere umano è da principio una materia molle e informe, la quale ha necessità di essere indurita e nello stesso tempo foggiata. I Venda sottolineano espressamente sia il nesso tra il molle e l’informe da un lato, sia il nesso tra il duro e il formato dall’altro (RoumeguèreEberhardt 1996). E quanto sostengono i Venda può essere direttamente utilizzato nella nostra teoria. 9) Sono molti gli aspetti dell’essere umano che vengono sottoposti a foggiatura. Ma, per dare luogo a una visione ampiamente sintetica, potremmo individuare almeno quattro ambiti fondamentali: quello intellettuale (idee, concetti, categorie); quello emotivo (emozioni, sentimenti, passioni); quello morale o etico (valori, regole e modelli di comportamento); quello estetico (criteri di bellezza). Le forme di umanità implicano scelte in ognuno di questi campi. Si diventa uomini in certi modi specifici, culturalmente determinati, in quanto i) si elaborano schemi categoriali che “tagliano” in maniere diverse la realtà; ii) si vivono con emozioni diverse la vita, le passioni, la morte; iii) si organizza in modo diverso il comportamento nei rapporti tra gli individui; iv) si perseguono diversi fini estetici. 10) Quando si parla di forme di umanità e si sottolinea – come qui si è fatto – che la foggiatura avviene entro contesti culturali e sociali particolari, si è molto in-

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clini a pensare le forme di umanità come espressione di corrispondenti mondi chiusi. Si è soliti ritenere che ogni società, nell’ambito circoscritto dei propri confini, elabori in maniera peculiare la propria forma di umanità. E questa è indubbiamente una tesi condivisibile. Ma si tratta soltanto di una mezza verità. 11) È indubbio che una società acquisisce un’identità, proprio in quanto elabora una sua forma di umanità. Che cosa di più fortemente identitario se non, appunto, la forma di umanità, il particolare modo di intendere e foggiare l’umanità, che una qualsivoglia società – in un angolo sperduto della foresta amazzonica o in una metropoli occidentale – è in grado di elaborare? Ma, quando si parla di forma di umanità, è bene tenere in conto alcune considerazioni. In primo luogo, anche se ci riferissimo a una minuscola società (una banda di cacciatori e raccoglitori vaganti in un deserto dell’Africa australe o dell’Australia centrale), possiamo davvero parlare di una forma di umanità o non piuttosto di forme di umanità? È sufficiente pensare, per esempio, alle differenze tra i generi e alle differenze di età, per rendersi conto che l’umanità, in un medesimo contesto sociale, assume inevitabilmente forme diverse, secondo che si è uomini o donne, e secondo che si è giovani o vecchi. In società appena più elaborate, sciamani, capi o schiavi realizzano forme di umanità accentuatamente diverse. 12) Si potrebbe pensare che la pluralità di forme di umanità che si vengono a determinare in un medesimo contesto sociale facciano parte per ciò stesso di una sorta di sistema antropologico, nel cui ambito non solo sono rappresentate forme di umanità diverse (con i loro usi e costumi), ma queste stesse forme, proprio in quanto diverse (e persino straniere), risultano tra loro com-

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plementari, nonché reciprocamente coordinate e/o subordinate. L’esempio delle caste in India è particolarmente efficace sotto questo profilo, specialmente se si pensa allo sforzo di concettualizzazione e di categorizzazione a cui le diverse forme di umanità vengono sottoposte proprio per integrarle in un unico sistema (Dumont 1991: 336-38). 13) Un sistema che integri, rendendole complementari, forme di umanità diverse, sembra celare un aspetto che non può non essere evocato in relazione alla pluralità di forme entro uno stesso contesto sociale. Dire pluralità significa infatti evocare anche il tema del conflitto, della competizione, del contrasto, della contestazione. È legittimo pensare che in una stessa società individui e gruppi entrino in competizione non soltanto nel perseguimento di interessi materiali (o economici) e di prestigio (o sociali), ma anche per interessi, potremmo dire, antropologici, attinenti cioè a diverse forme di umanità. E questi interessi non sono affatto slegati tra loro. Foggiare in modo diverso l’umanità non significa forse predisporre gli esseri umani – o, meglio, gruppi di esseri umani (classi, caste) – a determinati tipi di attività, di produzione e di sfruttamento? 14) Questa considerazione apre immediatamente la strada alla questione del potere, o meglio delle forme di potere (politico, religioso, economico, culturale) che nei vari contesti sociali decidono o impongono le più svariate forme di umanità. Quale potere maggiormente incisivo – quale potere più forte e imponente – di quello che riesce a mettere le mani sulle forme di umanità, a decidere e imporre un particolare tipo di foggiatura umana? I sistemi totalitari, che hanno costellato la storia dell’Europa del Novecento (come, beninteso, di al-

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tre epoche e di altri paesi) costituiscono esempi assai istruttivi del peso che il potere politico può assumere nella foggiatura di particolari forme di umanità e nella repressione di forme di umanità ritenute devianti o aberranti. I sistemi totalitari si contraddistinguono proprio per la volontà ossessiva di fabbricare “nuovi” esseri umani e di imporre un’unica forma di umanità, in cui tutti dovrebbero riconoscersi. Di qui scaturisce la violenza con cui forme semplicemente alternative vengono respinte o sterminate. I sistemi totalitari sono animati da una furibonda volontà di unificazione e di repressione: all’unica e totalitaria forma di umanità che essi pretendono di fabbricare e di imporre corrisponde inevitabilmente il rifiuto dell’alterità, della pluralità di prospettive, della diversità di idee, soprattutto per quanto concerne modi diversi di concepire l’umanità. È in rapporto alle forme di umanità (sia a quella imposta, sia a quelle negate) che la violenza dei sistemi totalitari affiora dunque con particolare ferocia. 15) I sistemi delle caste indiane sono, per così dire, la codificazione, la sistemazione della diversità. I sistemi totalitari sono invece la negazione brutale della pluralità. Ma sia che la diversità venga riconosciuta e incorporata, sia che venga estromessa e negata in nome di un’unica e totalitaria forma di umanità, i sistemi – non importa se antichi o moderni, se complessi sociologicamente e antropologicamente raffinati (come i sistemi a caste) o al contrario rozzi e semplificatori (come i sistemi totalitari) – non sono mai esaustivi. Vi sono sempre categorie che sfuggono al sistema, e che il sistema non è in grado di coordinare o di subordinare. 16) Alla base di ogni forma di umanità, così come di ogni sistema (pluralistico o totalitario che sia), vi sono

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sempre e inesorabilmente delle scelte. Una qualsiasi foggiatura implica una selezione di possibilità e, come sottoprodotto, un numero di scarti di umanità più o meno consistenti. Per quanto un sistema pretenda di essere totale o assoluto, le possibilità scartate (negate, fatte fuori, soppresse o sterminate, come nel caso dei sistemi totalitari) sono lì a ricordare che vi è stato uno scarto più o meno arbitrario e a dimostrare in modo incontrovertibile che ciò che si è realizzato (forma o sistema di forme) è pur sempre un modello di umanità particolare: la pretesa di essere o di avere un valore universale è soltanto una pretesa illusoria e il più delle volte dannosa per sé e per gli altri. 17) È importante e decisiva la questione di come si trattano le possibilità scartate. Spesso, le possibilità scartate sono gli “altri”, sono coloro che, vivendo al di là del fiume o della montagna, affrontano in modi diversi la vita, concepiscono e foggiano diversamente l’umanità. Che si fa nei confronti degli “altri”, di coloro cioè che incarnano le possibilità (le forme di umanità) che “noi” non abbiamo realizzato, che consapevolmente o meno abbiamo scartato? Sono scarti da ignorare, rifiuti da disprezzare, minacce da sconfiggere e reprimere, oppure diversità da tollerare, da rispettare, oppure ancora elementi da assimilare, fogge da valorizzare e apprezzare? Dal rifiuto al disprezzo, dalla negazione alla valorizzazione, dall’alleanza all’incorporazione: vi è tutta una gamma di atteggiamenti che i “noi” normalmente assumono nei confronti degli “altri” e la cui variazione, sempre decisiva, è di ordine quasi infinitesimale. 18) Questi diversi atteggiamenti nei confronti dell’alterità traducono in realtà modi diversi di considerare se stessi. Un conto è pensare che la nostra forma di

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umanità sia la più valida in assoluto e che per ciò stesso richieda di essere difesa, diffusa e generalizzata, anche a costo di far fuori altre forme di umanità (la civiltà occidentale è un chiaro esempio di questo tipo di atteggiamento); un altro conto è ritenere che “noi” siamo così, ma potremmo essere diversamente, e che la nostra forma di umanità è soltanto una possibilità tra le altre. Alla base, vi è un diverso atteggiamento relativo all’incompletezza e alla particolarità delle forme di umanità. Vi sono società che sviluppano una coscienza profonda della propria incompletezza e della propria particolarità; e vi sono società che invece si illudono di essere né incomplete né particolari, pretendendo di attribuire alle proprie scelte un valore universale. 19) Occorre riflettere ancora un momento sul tema dell’incompletezza. Si è visto prima che, secondo una certa teoria, l’uomo è un essere biologicamente incompleto. È questa incompletezza di fondo che spiegherebbe il ricorso alla cultura e, nel contempo, la necessità di creare forme di umanità: se l’uomo è biologicamente incompleto, esso ha da completarsi culturalmente e quindi, almeno in parte, ha da costruire se stesso realizzando determinate forme di umanità. Ma l’uomo è incompleto non soltanto sotto il profilo biologico: è incompleto anche sotto il profilo culturale, perché le forme di umanità, che egli cerca di realizzare mediante le idee della sua cultura e con i mezzi della sua società, sono il prodotto di scelte più o meno consapevoli, di selezioni più o meno accentuate, profonde, incisive. Quanto più si tenta di costruire forme ben determinate di umanità, tanto più numerosi e significativi sono gli scarti di umanità (forme di disumanità) che le stesse operazioni di “antropo-poiesi” producono. “Antropo-poiesi” è pro-

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duzione o fabbricazione dell’uomo da parte degli uomini (Remotti 1996b; 1999); e avremo modo di affrontare in questo capitolo e in quelli successivi diversi temi antropo-poietici. 20) Ogni società, proprio in quanto si distingue e si identifica nelle forme di umanità che è in grado di realizzare, porta dunque in sé una «ferita sempre aperta», dovuta alla «frustrazione» delle possibilità non realizzate (Lévi-Strauss 1946: 646): di qui il “disagio” insito in ogni “cultura”. Con una considerazione analoga, possiamo anche dire, insieme a Raymond Firth (1976: 22), che in ogni società – e non solo nell’isoletta polinesiana di Tikopia – vi è almeno una «breccia»: la sua irreparabile incompletezza è la motivazione più profonda che spinge ogni società (anche le più totalitarie, anche quelle che maggiormente si concepiscono come una sfera compatta) a nutrire un qualche interesse per l’alterità. L’incompletezza strutturale dei sistemi è la ragione più autentica che obbliga gli esseri umani a uscire dai propri angoli di mondo, a superare i confini delle proprie forme di umanità, a cercare connessioni e a istituire rapporti di vario genere (dal rispetto al rifiuto, dall’assimilazione all’alleanza) con altre forme di umanità. 21) Se queste riflessioni hanno un senso, si possono allora concludere questi preliminari all’antropologia di tipo a (un’esplorazione di confini di forme particolari di umanità) asserendo che non è soltanto fondamentale la foggiatura di forme di umanità: altrettanto vitale e irrinunciabile per le stesse società paiono essere anche il superamento dei confini e la ricerca di connessioni con altre forme, con altre possibilità. 22) Con una precisazione finale: le esigenze che qui sono state definite come fondamentali e irrinunciabili

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(foggiatura di umanità da un lato e messa in connessione con altre forme e con altre possibilità dall’altro) sono suscettibili tanto di essere riconosciute ed esaltate, quanto di essere misconosciute e occultate. Le società cambiano volto e senso se ammettono di dover foggiare l’umanità, se programmaticamente predispongono dispositivi appositi di foggiatura (rituali, sistemi di educazione formale ecc.) o se invece negano che tutto ciò avvenga o debba avvenire o se, quanto meno, ne riducono la portata o ancora se esaltano i loro programmi di costruzione dell’umanità. Allo stesso modo, le società mutano aspetto e significato se riconoscono l’opportunità e, più ancora, la necessità di porsi in connessione (dialogo, confronto, competizione e così via) con altre forme di umanità, oppure se ritengono (duramente e illusoriamente) che esse bastano a se stesse, che ciò che avviene al loro interno (si tratti di foggiature riconosciute o meno, non importa) è tutto ciò di cui esse hanno bisogno. 23) Un’antropologia di tipo a, protesa all’esplorazione di forme particolari di umanità e dei loro confini, non ha dunque soltanto da cogliere e raccogliere tali forme come prodotti in sé finiti e conclusi. Essa ha da cogliere una pluralità di proposte – e non solo una serie di forme compiute –, di progetti di costruzione o tentativi più o meno riusciti di foggiatura: in relazione a tali progetti, si determinano decisioni e imposizioni da parte del potere, così come dibattiti, conflitti, contestazioni da parte di individui e di gruppi che competono nell’arena sociale dell’antropo-poiesi. Un’antropologia di tipo a ha pure da cogliere gli espliciti rituali di foggiatura (quali sono molto spesso i rituali di iniziazione) e i meccanismi antropopoietici che operano nelle pieghe dei rituali della vita quotidiana, così come l’esaltazione ideologica dei primi o l’occultamento, altrettanto ideologico, dei secondi.

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24) Spesso – come si è già affermato – sono le stesse società che provvedono a porre in connessione le proprie forme di umanità con quelle degli “altri”, stranieri, vicini o lontani, alleati o nemici che siano. Tuttavia, se anche non sono le società che autonomamente ed esplicitamente riconoscono questo tipo di esigenza (“noi ci sposiamo con i nostri nemici” – affermano i Mae Enga della Nuova Guinea), gli antropologi del tipo a non solo si attrezzano per individuare forme di umanità, analizzare processi di foggiatura, svelare ideologie di esaltazione o di occultamento, ma – muovendosi costantemente tra il dentro e il fuori dei contesti sociali di foggiatura – provvedono a stabilire connessioni significative tra forme di umanità differenti e persino opposte. L’incompletezza radicale di tali forme – testimoniata in maniera incontrovertibile dagli scarti di dis/umanità – impone che l’analisi antropologica esca di volta in volta dai loro confini per cercare altrove, presso altre forme, ciò che a ciascuna di esse risulta “mancare”. 25) Anche in questo modo, non si tratta affatto di “completare” il giro delle forme di umanità (antropologia di tipo b): le connessioni sono parziali, rivedibili, revocabili, e – per fortuna degli antropologi del tipo a – i concatenamenti, a cui queste operazioni connettive danno luogo, non trovano mai gli ultimi e definitivi anelli mancanti. 3. Forme di umanità in foresta Anche secondo Hegel, la soluzione migliore per imparare a nuotare non è quella di attardarsi nella disquisizione dei preliminari, ma di buttarsi in acqua appena possibi-

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le. Proviamo a farlo anche noi, passando bruscamente dal livello terzo (AA), quello dell’antropologia dell’antropologia, al livello secondo (A), quello dell’antropologia tout court (cap. I, § 1), e scegliendo non un qualsiasi specchio d’acqua, ma un terreno di foresta, dove convivono gruppi con culture, mentalità e forme di umanità molto differenti. La zona prescelta è la foresta equatoriale dell’Ituri (in Africa), nel Nord-Est dell’ex Zaire, ora Repubblica Democratica del Congo. Qui si trovano diversi gruppi etnici, alcuni dei quali sono coltivatori e altri – i Pigmei – cacciatori e raccoglitori. In particolare, ci concentreremo sul diverso modo di dare forma all’umanità – pur entro uno stesso ambiente naturale (la foresta) – da parte dei Lese, coltivatori, e da parte dei Pigmei Efe, cacciatori. E per fare questo utilizzeremo le analisi di un antropologo americano, Roy Richard Grinker, il quale ha condotto negli anni ottanta una ricerca sul campo di 24 mesi, privilegiando il punto di vista dei Lese. Anche sotto il profilo metodologico, possiamo indicare questa ricerca come particolarmente esemplificativa dell’antropologia di tipo a in un duplice senso: in primo luogo, l’antropologo si addentra entro i confini di una società – quella dei Lese – esaminando le particolari forme di umanità che essa elabora; in secondo luogo, egli esplora un altro genere di confini, quelli che separano (e per certi versi uniscono) i coltivatori Lese da un lato e i cacciatori Efe dall’altro, nonché le loro rispettive forme di umanità. Un’ultima considerazione è opportuno fare in merito alla ricerca svolta: si tratta di una ricerca che ha impegnato a lungo l’antropologo. Capire una società, cercando di addentrarsi al suo interno e di esaminare i rapporti che la collegano con altri gruppi nello stesso ambien-

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te, richiede molto tempo. Prima o poi, l’antropologo è costretto a porre termine alla propria ricerca e a comunicare i risultati del suo lavoro, scrivendo ciò che di solito si chiama monografia etnografica. Ogni antropologo che abbia lavorato sul campo sa però quanto sia arbitraria, anche se inevitabile, la decisione di chiudere l’indagine. L’esigenza di comunicare i risultati della propria ricerca non può cancellare il senso di incompletezza che si prova al termine di un lavoro il quale, svolto a contatto con le persone, con le loro idee, i loro sentimenti, la loro vita, richiederebbe a rigore un tempo indefinito. L’incompletezza non riguarda soltanto l’insieme dell’antropologia di tipo a; essa caratterizza anche le ricerche etnografiche che la compongono, non importa in quale angolo di mondo vengano condotte. La tesi che Grinker intende sostenere per descrivere in prima approssimazione il contesto studiato è che i Lese e gli Efe rappresentino sì due distinti gruppi etnici, ma nel contempo formino un’unica società: essi sono diversi come mentalità, stile di vita, cultura (i Lese – lo ricordiamo ancora una volta – sono coltivatori, mentre gli Efe sono cacciatori), e tuttavia intrattengono rapporti tanto stretti e intensi da dare luogo a un unico insieme, caratterizzato da ciò che potremmo chiamare simbiosi sociale (Grinker 1997: 122). Lese ed Efe avvertono di essere diversi, anzi molto diversi tra loro, e specialmente i Lese fanno di tutto per accentuare la loro differenza rispetto agli Efe. Ma questa differenza, per quanto grande, profonda e consapevole, non impedisce che i due gruppi risultino uniti e collegati. I Lese vivono in villaggi di piccole dimensioni (da due a sessanta residenti) e ogni villaggio coincide con un gruppo di parentela di tipo patrilineare: gli uomini che vi risiedono

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sono imparentati mediante legami patrilinei, mentre le donne sposate vengono da altri villaggi, e dunque da altri gruppi di parentela. Secondo quanto riferisce Grinker, i Lese sottolineano molto la differenza e persino la separazione o la lontananza tra l’interno del villaggio e il mondo esterno, tra il “noi” del gruppo di parentela che vive in un determinato villaggio e gli “altri” che stanno fuori. Le donne che “noi” sposiamo vengono sempre da fuori, da un altro villaggio lese. Pur essendo Lese coloro da cui provengono le nostre mogli, si tratta di un gruppo lese “esterno” al “noi”, al nostro villaggio, e degli esterni occorre sempre diffidare. In effetti, ogni villaggio lese restringe il numero di clan (o di villaggi) esterni presso cui trovare una moglie: la tendenza è quella di sposarsi presso quei clan con i quali sono già stati stabiliti legami di affinità nelle generazioni precedenti e con i quali i rapporti sono già stati collaudati. La diffidenza reciproca si traduce in un distanziamento (un tempo – prima della colonizzazione belga – nettamente più accentuato sul piano spaziale), che ora assume soprattutto la forma di un isolamento economico: ogni villaggio tende a essere autosufficiente e a non scambiare i propri prodotti con gli altri villaggi, dando luogo così a una sorta di mondo chiuso, di sfera compatta e impenetrabile. Come si vede, i Lese fanno di tutto per istituire dei confini tutt’attorno ai loro villaggi, così che i “noi” non vengano intaccati dall’esterno. Ma questa barriera protettiva, che isola il villaggio dal mondo esterno, risulta regolarmente e periodicamente perforata dalla pratica dei matrimoni esogamici: ogni moglie proviene da un “altro” villaggio e, ancorché si tratti per lo più di un villaggio (e di un gruppo di discendenza o di un clan) già

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collaudato, essa è pur sempre un elemento esterno, la cui incorporazione richiede tempo, controlli, verifiche anche umilianti (Grinker 1997: 141). Il mondo esterno al villaggio lese è costituito da altri villaggi lese (da cui provengono le mogli), da altre etnie (di cui però – afferma Grinker [1997: 128] – i Lese hanno una rappresentazione alquanto grossolana) e infine dagli Efe. Le mogli e gli Efe sono gli unici gruppi che dall’esterno «penetrano i confini del villaggio» lese, e proprio per questa violazione entrambi i gruppi sono sottoposti a «denigrazione» (Grinker 1997: 141). Secondo quanto sostiene Grinker, la denigrazione sarebbe un modo per controllare ciò che proviene dall’esterno e – se vogliamo – per equilibrare e camuffare il senso di dipendenza nei confronti dell’alterità. Infatti anche i Lese, pur così chiusi nei loro villaggi, non possono fare a meno di ricorrere all’alterità e, per giunta, a un’alterità che la stessa denigrazione contribuisce ad accentuare. Mogli ed Efe aprono una “breccia” nella società di villaggio lese: per quanto entrambi oggetto di denigrazione, i Lese non possono fare a meno di far entrare nei loro “noi” donne di altri villaggi ed Efe della foresta. Sotto questo profilo, è importante sottolineare che per gli uomini lese «ci si procura donne e ci si procura Efe simultaneamente» (Grinker 1997: 141). Chi sono gli Efe per i Lese? I Lese risiedono nei loro villaggi e gli Efe abitano nella foresta accanto ai villaggi lese. Questa vicinanza topografica si combina con la percezione di una netta differenza, in quanto, «mentre gli Efe vivono con la foresta, i Lese vivono contro di essa» (Grinker 1997: 134). La distanza spaziale tra i due gruppi è minima; ma la distanza antropologica (tipi di umanità) è massima. Dal punto di vista dei Lese, tra il mon-

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do del villaggio e il mondo della foresta vi è opposizione; e ciò determina una diversità molto forte nel carattere, nello stile di vita, nei valori. Per noi, sia i Lese sia gli Efe vivono nella foresta equatoriale del Congo. Ma per i Lese, vivere in un villaggio – ancorché circondato dalla foresta – configura una situazione del tutto opposta a quella di chi vive in un accampamento dentro la foresta. Il villaggio è infatti caratterizzato dall’abbattimento degli alberi e dall’attività di continua ripulitura del suolo, il quale deve essere sempre tenuto libero dalle erbacce: esso è «asciutto, polveroso e arido», mentre il terreno dove si trovano gli accampamenti pigmei è «umido e soffice», oltre che sporco (Grinker 1997: 129). Bastano pochi passi per passare dal villaggio alla foresta; ma per i Lese questi pochi passi separano due mondi qualitativamente diversi, un mondo pulito, secco, chiaro e un mondo umido, sporco, selvaggio. Per i Lese fa differenza abitare in un mondo o in un altro, perché ad essi corrispondono due forme di umanità diverse. Quella degli Efe, i quali vivono con la foresta, è un’umanità selvaggia: essi non hanno autocontrollo; sono violenti e disordinati; sono incapaci di pianificare e di riflettere; essi non hanno akiri (intelligenza), come non hanno pazienza (sibosibo); rubano e distruggono i campi, come i babbuini; sono ingordi di cibo e di sesso, e commettono persino incesto (Grinker 1997: 131-32). Agli occhi dei Lese, gli Efe appartengono anch’essi all’umanità: anche se talvolta li chiamano scimmie per insultarli, essi rappresentano comunque «un tipo di esseri umani». Sono esseri umani, e perciò anche per gli Efe si dice che sono watu, cioè persone. Ma non si usa per gli Efe la parola muto, singolare di watu, “persona”: «sì, gli Efe sono watu, ma non sono muto» (Grinker 1997: 133), quasi a voler sottolineare che, men-

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tre collettivamente appartengono anch’essi all’umanità, considerati singolarmente non raggiungono la condizione propriamente umana della persona. In ogni caso, nello schema antropologico elaborato dai Lese, gli Efe occupano una posizione gerarchicamente sottoposta: essi sono «sotto i nostri piedi», perché sono sempre stati «sotto i piedi dei nostri antenati». Si direbbe che per i Lese, detentori di tutte le qualità di cui gli Efe sono privi (intelligenza, autocontrollo, preveggenza ecc.), i Pigmei esistano e siano lì – a stretto contatto di gomito, a portata di voce e di mano – proprio per dimostrare la superiorità dei Lese e per confermarli nel loro pregiudizio etnocentrico. Nel disboscare tratti di foresta, nel ripulire di continuo il terreno dalla vegetazione, nel costruire villaggi che, per quanto piccoli, sono tenuti separati dall’ambiente forestale, nel coltivare piccoli appezzamenti di banani e di caffè strappando il terreno alla foresta, anche i Lese – come del resto i Nande del Nord Kivu, ai bordi orientali della stessa foresta equatoriale (Remotti 1994) – mettono in gioco il senso della loro umanità. Anche per i Lese l’umanità – la vera umanità – risiede nel villaggio e in un rapporto di opposizione alla foresta. La foresta è il mondo dell’anti-umanità, dove l’umanità si perde, o dove l’umanità rischia di smarrire la maggior parte delle sue caratteristiche più esclusive, dove gli esseri umani tendono a confondersi con gli altri animali e in particolare con i primati (le scimmie, i babbuini). Gli Efe abitano a poche centinaia di metri dal villaggio, dal mondo dell’umanità vera e più autentica. Anch’essi sono uomini (watu), ma il mondo selvaggio in cui da sempre essi abitano fa sì che la loro umanità sia di altro tipo: non l’umanità intelligente, autocontrolla-

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ta, “civilizzata” del villaggio, ma l’umanità selvaggia della foresta. Il tipo di umanità degli Efe, con le caratteristiche negative che abbiamo già elencato, è particolarmente adatto alla natura selvaggia e sfrenata della foresta. Il loro ostinato rifiuto della coltivazione non fa che confermare la loro appartenenza al mondo della foresta. E questa appartenenza è così intima e organica – agli occhi dei Lese – da ritenere che gli Efe in origine fossero delle scimmie e che soltanto in un secondo tempo essi fossero scesi dagli alberi per vivere a contatto con i Lese (Grinker 1997: 134). Gli Efe dunque sarebbero non soltanto un altro tipo di umanità, ma un tipo di umanità le cui origini scimmiesche e forestali ne segnerebbero ab origine e per sempre l’inferiorità. Un’umanità non conquistata, un’umanità come invece verrebbe data dalla natura, un’umanità non sufficientemente foggiata e costruita: questa è l’immagine che i Lese sembrano trasmetterci del tipo di umanità efe. Al contrario, i Lese ritengono di dover continuamente sottrarre la loro condizione di umanità all’invadenza della natura: l’autocontrollo morale corrisponde – su un altro piano – alla preoccupazione di tenere sempre il villaggio separato dalla foresta. Vi è una foresta morale: è quella delle passioni e dei desideri incontrollati; e vi è la foresta naturale: quella che circonda da ogni lato i villaggi e che avanza costantemente, minacciosamente. Per i Lese, occorre tenere a bada l’un tipo e l’altro di foresta: controllando le passioni e i desideri da un lato, e controllando la vegetazione dall’altro. Vi è un senso di precarietà e di pericolo in questa visione di un’umanità conquistata contro la foresta, strappata – come i campi e come i villaggi – alla foresta, e tuttavia di continuo assediata, minacciata. Si avverte ben distinta la mi-

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naccia in queste parole: «quando l’erba comincia a crescere vicino alle case dei Lese e quando la vegetazione arriva alla periferia del villaggio, i Lese dicono che la foresta “si sta avvicinando” e deve essere abbattuta» (Grinker 1997: 129). Il senso di minaccia fisica e morale nello stesso tempo arma i Lese contro la foresta: essi la combattono per farla arretrare, per salvaguardare il loro dominio, il territorio dell’umanità, per segnare di nuovo i confini della forma di umanità in cui si sono identificati. Una forma di umanità così duramente conquistata nei confronti della foresta esige un esercizio di violenza e di netta separazione: gli “altri”, gli Efe, sono tenuti a bada, nella foresta; la denigrazione li tiene separati, li confina nella loro “alterità” selvaggia. Il pregiudizio etnocentrico – con tutta la violenza e l’ottundimento che esso comporta – pare essere funzionale al mantenimento della forma di umanità che i Lese hanno prescelto. Elaborare forme di umanità significa sempre scegliere, separare e scartare, distinguersi da altre possibilità, che a loro volta vengono respinte e allontanate. La costruzione e l’affermazione delle forme di umanità – proprio perché inesorabilmente particolari, ritagliate su uno sfondo comune di possibilità, molte delle quali vengono appunto scartate come “disumanità” o forme inferiori di umanità – sono operazioni irrinunciabili, che però risultano sempre accompagnate da un certo grado di violenza, di discriminazione e di oscurantismo. 4. “La vita senza gli Efe?” Che cosa avviene, quando un “noi” (quello dei Lese, nel caso qui esaminato) pone tra sé e gli altri un confine che

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separa la propria forma di umanità da una forma tanto inferiore? Sembrerebbe di poter sostenere che gli “altri” siano per ciò stesso oggetto di allontanamento, oltre che di discriminazione. Ma non è sempre così, almeno per quanto riguarda il rapporto Lese/Efe. Come si è già visto, gli Efe abitano la foresta, mentre i Lese vivono nei loro villaggi. Ma, se vi è distanza concettuale, e addirittura opposizione, tra villaggio (luogo dell’umanità) e foresta (luogo della dis/umanità o luogo in cui l’umanità è a rischio), vi è vicinanza spaziale e anzi contiguità tra i due mondi, tra l’interno (il villaggio) e l’esterno (la foresta). Allo stesso modo gli Efe, oggetto di discriminazione e di denigrazione, in quanto forma decisamente inferiore di umanità, si trovano spazialmente vicini e contigui rispetto ai Lese (a poche centinaia di metri dai loro villaggi). Non si tratta però soltanto di contiguità o vicinanza spaziale: gli Efe entrano in modo assai più incisivo nella vita dei Lese. Tra Lese ed Efe c’è un confine “etnico”, come direbbe Grinker, ovvero un confine di forme di umanità; ma questo confine risulta di continuo superato da numerose occasioni di scambio. Più specificamente, gli scambi commerciali, che descriveremo tra poco, legano un partner lese con un partner efe: molti uomini lese (anche se non tutti) hanno tra gli Efe un loro partner privilegiato, e questo rapporto di scambio viene non solo mantenuto nel tempo tra i due individui, ma anche ereditato dai rispettivi figli. Ogni villaggio lese intrattiene comunque un rapporto di scambio con un “proprio” gruppo efe, il quale si accampa appunto nelle sue vicinanze (Grinker 1997: 125). Lo scambio riguarda in primo luogo i prodotti coltivati dai Lese nei loro orti e ciò che gli Efe ottengono dalla foresta, so-

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prattutto selvaggina e miele. I prodotti della caccia e della raccolta che gli Efe si procurano in foresta sono ovviamente importanti per l’integrazione (in termini di proteine animali) della dieta lese. Come farebbero i Lese a procurarsi la carne, se non ci fossero gli Efe? Come tutti i Pigmei di questa zona, anche gli Efe rifiutano di diventare coltivatori in proprio, in quanto la coltivazione corrisponde a uno stile di vita (e quindi a una forma di umanità) tipico ed esclusivo degli abitanti dei villaggi. Tuttavia, le donne efe «forniscono una grande quantità di manodopera nella coltivazione dei campi lese»: i campi sono dei Lese, e le donne efe li aiutano a lavorarli. La collaborazione prestata dagli Efe non si limita però alla sfera dei campi: essa riguarda anche l’interno del villaggio. Gli Efe infatti procurano acqua, legna da ardere, materiali per costruire le abitazioni e – fatto anch’esso significativo – ripuliscono lo spiazzo del villaggio dalle erbacce (Grinker 1997: 125): gli Efe, uomini di foresta, aiutano i Lese a costruire i loro villaggi e a difendere dalla foresta i luoghi di umanità lese mantenendoli puliti. Gli Efe non sono dunque soltanto partner commerciali, che se ne stanno nel loro spazio di foresta: essi sono anche un po’ i servi dei Lese – ruolo più confacente alla loro condizione di inferiorità – e sotto tale forma si introducono in maniera fattiva nei villaggi, collaborando alla loro conduzione. Gli Efe cooperano fattivamente alla realizzazione e al funzionamento della forma di umanità che, opponendosi alla foresta, tende così fortemente a discriminarli. Gli scambi e la collaborazione che gli Efe offrono non si limitano affatto alla sfera alimentare e in generale a quella economica. Se consideriamo altri settori di interazione, vediamo che il loro ruolo collaborativo implica

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una ancor minore segregazione. Dalla foresta gli Efe traggono medicamenti di vario tipo (erbe, foglie, radici), e sono le donne efe che somministrano queste medicine ai malati lese. Inoltre, la nascita e l’allevamento dei bambini vede tra i due gruppi una collaborazione molto stretta: se da un lato i bambini efe vengono talvolta allevati nei villaggi lese, dall’altro le donne efe possono operare come levatrici nei confronti delle donne lese e, all’occorrenza, allattare al seno i loro bambini. Si dirà che questo tipo di interazioni – all’apparenza più paritaria – riguarda esclusivamente la sfera femminile e le funzioni materne delle donne. Ma vi è pure un’interazione sessuale, che mette in gioco entrambi i sessi. Esaminando questo tipo di interazione, è facile constatare come la presenza efe nel mondo lese sia assai più intima di quanto la denigrazione possa far supporre. Tanto per cominciare, gli uomini lese «considerano le donne efe più forti, più attraenti sessualmente e più fertili delle donne lese» (Grinker 1997: 124). E non si limitano affatto a un generico apprezzamento, se è vero che gli uomini lese possono intrattenere relazioni sessuali con le donne efe e persino averle in moglie. Il contrario non avviene: un uomo efe non può aspirare ad avere una donna lese. Per cui possiamo dire che tra le diverse cose che gli Efe offrono ai Lese (prodotti della foresta, manodopera e prestazioni femminili di tipo medico, ostetrico e di baliatico) vi sono anche le prestazioni sessuali e riproduttive delle loro donne. In maniera significativa, i figli che nascono da un matrimonio misto (che può essere – come abbiamo visto – soltanto tra uomo lese e donna efe) «sono definiti etnicamente lese» (Grinker 1997: 125). In questa sfera sessuale e riproduttiva vi è un’evidente asimmetria, sia di genere (maschile e femminile), sia di gruppo etnico (Lese/Efe): sono infatti

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gli Efe che danno e sono i Lese che ricevono; più in particolare, sono gli uomini lese che si avvantaggiano di ciò che le donne efe possono loro offrire (eros e figli). Vi è però un’altra sfera ancora – quella della parentela – in cui i rapporti ridiventano paritari. Come si è visto, molti uomini lese trovano tra gli Efe dei partner privilegiati di scambio e tale rapporto viene trasmesso di padre in figlio. Ognuno dei due partner (l’uomo lese e l’uomo efe) appartiene al proprio gruppo di parentela; ma ognuno dei partner adotta il sistema di parentela dell’altro, per esempio rivolgendosi ai parenti del proprio partner facendo uso degli stessi termini di parentela che quest’ultimo avrebbe usato (Grinker 1997: 125). Un po’ come dire: i parenti del mio partner sono i miei parenti. E questa comunanza di parentela non soltanto contribuisce a cementare fortemente i legami tra i due partner e i loro rispettivi gruppi, ma tende a riequilibrare decisamente in senso paritario i rapporti tra partner lese e partner efe. Agli occhi del partner lese l’uomo efe non è soltanto colui che procura carne, miele, medicine e donne; è anche un individuo con cui si condivide una parentela e verso cui (specialmente nei periodi di carestia – fa notare Grinker) si intende «esprimere affetto». La denigrazione costituisce soltanto una faccia della medaglia: come lo stesso Grinker sottolinea (1997: 123), essa «implica ambivalenza» e si alterna addirittura a forme di «idealizzazione degli uomini efe in quanto forti, leali, capaci di proteggere i Lese dai nemici e da malevoli entità soprannaturali». Anche gli Efe nutrono affetto verso i loro partner e partecipano attivamente alle vicende che segnano la vita dei villaggi lese, in particolare quella dei propri partner di scambio (chiamati significativamente muto, “per-

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sona”): «il mio cuore è morto. Dove mai troverò un altro muto?» – così si esprimeva un Efe al funerale del suo partner lese (Grinker 1997: 161). Oltre all’affetto e alla partecipazione emotiva, gli Efe provvedono a fornire prestazioni rituali, sotto forma di musica e di danze nelle occasioni cerimoniali lese, e nei momenti di lutto la loro partecipazione appare davvero indispensabile. Come avviene per molte altre etnie della regione, la morte è infatti causalmente ricondotta dai Lese all’azione della stregoneria. Ma, se anche non fosse, la stregoneria appare comunque connessa alla morte: è in occasione della morte (a causa del contatto con il cadavere) che la possibilità di essere intaccati dalla stregoneria si configura – agli occhi dei Lese – come un rischio reale, e quasi inevitabile. Ebbene, gli Efe non soltanto forniscono la loro partecipazione emotiva e rituale nelle occasioni funebri, ma sono anche coloro che «proteggono i Lese dalla stregoneria» (Grinker 1997: 125). La stregoneria è il male: si può morire di stregoneria. Secondo i Lese, occorre distinguere tuttavia due diverse fonti del male, due diverse modalità di fare del male. Come quasi sempre avviene nella loro concezione del mondo, vi è un “interno” e vi è un “esterno”: e così anche il male può trarre origine dall’interno o dall’esterno del villaggio. I Lese non addebitano tutto il male all’esterno; riconoscono invece che il male può nascere anche all’interno del “noi”. Sono due i concetti lese che corrispondono a questi due tipi di male: kunda – che Grinker traduce come witchcraft, “stregoneria” – è il male “interno”; e aru – tradotto come sorcery, “fattucchieria” – è invece il male “esterno” (Grinker 1994: 162). Cominciamo da quest’ultimo, aru, il male esterno. I Lese ritengono che aru sia dovuto all’azione volonta-

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ria di qualcuno che, facendo ricorso a sostanze dannose (o velenose), causa stati di malattia nella propria vittima, la quale fa invariabilmente parte di un altro villaggio: aru è infatti il male che colpisce un individuo e che proviene dalle azioni coscienti, intenzionali e volontarie di un nemico esterno. Il contesto tipico di aru sono le relazioni amorose extraconiugali: un individuo (del villaggio X) può fare aru contro il coniuge del proprio amante (del villaggio Y), al fine di prendere il suo posto. Obiettivo di aru è spezzare un legame coniugale, mandare in rovina un matrimonio: aru si configura quindi come una minaccia dall’esterno contro i rapporti di affinità e di alleanza che, in virtù dell’esogamia, collegano due villaggi (Grinker 1994: 162-63). Kunda, la stregoneria in senso stretto, è invece un’altra faccenda, ed è più grave, poiché, mentre aru provoca malattie, kunda è mortale. Kunda è più grave anche perché non proviene dall’esterno, ma sorge all’interno del villaggio: esso agisce non tra i villaggi, bensì tra le “case” di un medesimo villaggio. Riprendendo un’espressione diffusa tra coloro che si occupano di stregoneria nell’Africa equatoriale (Winter 1963), Grinker sostiene che kunda è «il nemico dentro»: può essere il fratello, può essere il vicino (il parente stretto) della porta accanto (1994: 162). Inoltre, mentre aru è una minaccia rivolta contro i legami coniugali e contro i legami di affinità-alleanza che con il matrimonio si stabiliscono tra due villaggi, kunda è invece una minaccia contro i legami di solidarietà interna di un clan, contro la compattezza di un villaggio. Kunda provoca spaccature spesso insanabili all’interno di un villaggio: le “case” tendono a rinchiudersi su se stesse, erigendo barriere mentali e comportamentali attorno a sé, e spesso decidono di al-

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lontanarsi, andando a insediarsi altrove (Grinker 1994: 181). La gravità di kunda è inoltre dovuta al fatto che è un male non solo interno e mortale, ma pure involontario e incontrollabile. A differenza di aru, kunda non dipende dalla volontà (dalla malevolenza) né dalla coscienza di un individuo: kunda è una sorta di sostanza che agisce indipendentemente dalle intenzioni e persino dalle inclinazioni personali. In questo senso, kunda si può trasmettere da un individuo a un altro come un contagio, senza che il “colpevole” lo sappia e senza che nutra sentimenti di ostilità nei confronti della vittima. Ciò che fa paura di kunda è la sua incontrollabilità, nonché il fatto che esso sorge e si diffonde nei contesti di stretta vicinanza. Infine, mentre aru è una faccenda soltanto umana, che coincide con attività umane, alla portata del controllo e dell’intenzionalità degli individui («i fattucchieri sono semplicemente esseri umani con cattive intenzioni»), kunda è invece qualcosa di intrinsecamente extra-umano (Grinker 1994: 172). Esso è una sostanza misteriosa e contagiosa, che induce lo stregone (il portatore di kunda) ad assumere – quanto meno nell’immaginario lese – atteggiamenti che appunto contrastano con il normale comportamento umano: si ritiene infatti che gli stregoni viaggino di notte nudi, che si tramutino in leopardo, che desiderino unirsi sessualmente con parenti e per giunta di età non adeguate (nonni, nipoti), che soprattutto siano spinti ad aggredire le proprie vittime per cibarsi di carne umana (Grinker 1994: 175). Mentre le intenzioni e le azioni aru mantengono questo tipo di male entro la sfera dell’umanità, i desideri e i comportamenti kunda costituiscono invece una vistosa e pericolosa trasgressione dei suoi confini: aru e

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kunda riproducono – sostiene Grinker – l’opposizione tra umanità e disumanità (1994: 174). Che cosa c’entrano i poveri Efe con questi drammi molto interni al pensiero lese? Una cosa va subito sottolineata: qui ci troviamo di fronte a visioni del mondo e a concezioni del male e della sventura che sono il frutto di elaborazioni culturali (malattie e morte potrebbero in effetti essere ricondotte ad altre cause che non siano aru e kunda). Gli Efe comunque c’entrano in tutta questa faccenda, se è vero che per un verso sono proprio gli Efe a proteggere i Lese dal male kunda e se è vero che – come sostiene Grinker (1997: 143-44) – gli Efe sono una componente imprescindibile delle «rappresentazioni che i Lese hanno elaborato di se stessi». Partiamo allora proprio di qua, dalle autorappresentazioni dei Lese, soprattutto per quanto riguarda il male. Kunda – come abbiamo appena visto – non è soltanto il male interno, che si annida in “noi” e che in modo incontrollabile sgretola il “noi” (la frammentazione dei villaggi): è anche un male “disumano”, che conduce alla disumanità; è anzi la disumanità stessa che, appunto in maniera incontrollata e inaspettata, affiora drammaticamente, spaventosamente in “noi”. Il “noi” è il villaggio; e se il “noi”, con la sua organizzazione sociale, è la forma di umanità in cui ci identifichiamo, il villaggio è la sede della nostra forma di umanità. Kunda erode dall’interno non solo l’organizzazione sociale del “noi”, ma anche la forma di umanità che coincide con il “noi”. Se questa forma è stata ricavata tracciando un confine netto e quasi invalicabile tra “noi” e la foresta, kunda è il riemergere minaccioso e segreto della foresta (cioè della disumanità) all’interno del “noi”, della nostra forma di umanità. “Noi”, così separati dalla foresta, coviamo

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nel nostro intimo, nelle relazioni più strette del nostro villaggio, tra le nostre case – e senza che nemmeno lo sappiamo e ce ne rendiamo conto – desideri e comportamenti da foresta, attribuibili alla disumanità intrinseca della foresta (cannibalismo, incesto, nudità, trasformazione in animali selvaggi). Per questo tipo di male non c’è da incolpare alcun estraneo: non gli “altri” Lese che vivono negli altri villaggi e che, al massimo, possono puntare contro di noi le armi molto “umane” di aru; e tanto meno gli Efe, i quali, pur così vicini alla foresta (al suo mondo selvaggio, incontrollato, smodato), non sono mai oggetto delle accuse di stregoneria. Kunda è una faccenda solo “nostra”, in quanto si origina, si annida e si propaga soltanto nel “noi”. Gli Efe c’entrano in questo dramma, proprio a causa della loro intimità con la foresta: essi conoscono la foresta, e conoscono la sua disumanità. Per questa conoscenza del carattere disumano della foresta essi vantano una capacità di controllo sul kunda che ai Lese, così “lontani”, così “separati” e “diversi” dalla foresta, è del tutto preclusa. Per difendersi dal kunda non si devono allontanare gli Efe; al contrario, occorre chiamarli e introdurli nel “noi”. Quando si tratta di costruire la propria umanità – un’umanità che non vuole avere a che fare con il mondo della foresta –, i Lese con un gesto di separazione allontanano gli Efe e li denigrano; ma quando si tratta di proteggere la propria forma di umanità (e il proprio “noi”) dalla disumanità che vi si annida, allora è necessario fare entrare in “noi” i “cacciatori di kunda”, i “conoscitori di disumanità”. Non per nulla, i Lese ritengono che soltanto gli Efe e soltanto altri stregoni possono “scoprire” i portatori di kunda (Grinker 1994: 172). La morte di un individuo è il momento del kunda in

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una molteplicità di significati. In primo luogo, quell’evento è la prova dell’esistenza di uno stregone tra “noi”; in secondo luogo, e di conseguenza, scattano sospetti e accuse di stregoneria tra i parenti dello stesso villaggio; in terzo luogo, la vicinanza del cadavere genera paura di essere contaminati, giacché si ritiene che tutti i prodotti del corpo (e in particolare i fluidi del cadavere) possano contenere la sostanza kunda. A questo punto intervengono gli Efe, ai quali è affidato il trattamento del cadavere: poiché – secondo i Lese – sono già di per sé contaminati, essi possono lavarlo e toccarlo senza correre rischi. Inoltre, la loro conoscenza del kunda li abilita ad assumere il ruolo di scovatori di stregoni: agli Efe – i quali intervengono nelle discussioni e nelle accuse – è affidato il compito di scoprire gli autori (ancorché inconsapevoli) del male ed eventualmente di ucciderli (Grinker 1994: 189). Nel momento della morte, potremmo quasi dire che gli Efe hanno in mano il destino del villaggio: essi soltanto (non gli eventuali altri stregoni) possono andare allo scoperto e indicare dove e in chi si annida il male, provocando trasformazioni di non poco conto nell’organizzazione interna del villaggio. Nel momento della morte, è come se i Lese – impotenti e atterriti dalla presenza attestata del kunda (della disumanità) in quanto causa della morte, dagli effetti devastanti dei sospetti e delle accuse di stregoneria, nonché dai rischi di contaminazione del cadavere – si affidassero totalmente agli Efe, alla loro conoscenza e alla loro capacità di controllo e di protezione dal male. Non per nulla, gli Efe vengono invitati a vegliare insieme ai Lese nella capanna del morto, e durante tutto il periodo dei funerali questi uomini della foresta tanto disprezzati e denigrati vengono fatti dormire nel villaggio,

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presso di “noi”, con “noi”: per custodirci, per difenderci dalla “disumanità”, per salvaguardare la nostra forma di umanità dal kunda, il suo “nemico interno”. Capiamo ora meglio la profondità e la pregnanza della risposta che un’anziana donna lese diede a Grinker, allorché le chiese di immaginare come poteva essere la vita senza gli Efe: «“La vita senza gli Efe? La vita senza gli Efe è male. Siamo stati insieme a loro per molto tempo”» (Grinker 1997: 134). Questa convivenza protratta tanto a lungo nel tempo fa pensare a un reciproco adattamento, a una sorta di sfruttamento delle rispettive risorse entro un sistema sociale fondato sulla ineguaglianza e sulla gerarchia e che tuttavia implica quanto meno «cooperazione, se non proprio simbiosi» (Grinker 1994: 204). In questa prospettiva, l’antropologo americano giunge a sottolineare l’“incompletezza” di fondo che caratterizzerebbe tanto i gruppi lese quanto i gruppi efe: «i Lese e gli Efe sono incompleti gli uni senza gli altri» (Grinker 1994: 193 – corsivo aggiunto). Tradotta nel linguaggio che abbiamo adottato in questo capitolo, questa tesi potrebbe benissimo configurare i Lese e gli Efe come rappresentanti di due forme di umanità – coltivatori contro la foresta gli uni, cacciatori-raccoglitori di foresta gli altri – che, proprio in quanto differenti sotto il profilo economico, sociale, culturale, trovano un parziale completamento nell’alterità. Questa prospettiva, fondata su un criterio di complementarità («un’unione di opposti» – è l’espressione utilizzata da Grinker nella sua conclusione [1994: 194]), va però corretta e integrata dall’ineguaglianza che caratterizza il rapporto Lese/Efe: i due gruppi non sono uguali e non sono neppure semplicemente diversi. Come Grinker ha in effetti posto in luce vi è una ge-

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rarchia di superiore/inferiore che segna questo rapporto: almeno dal punto di vista dei Lese, gli Efe risultano, per così dire, “inferiorizzati” sia sul piano simbolico (attraverso la denigrazione e il «discorso su differenze biologiche e culturali»), sia sul piano sociale (mediante la subordinazione degli esterni). Sembra di poter dire – seguendo l’analisi di Grinker – che l’inferiorità degli Efe sia la condizione grazie alla quale i Lese accettano di rapportarsi agli Efe e addirittura di incorporarli: soltanto se e in quanto inferiori, gli Efe possono essere introdotti in “noi”; infatti, «la marginalità è una forma di incorporazione» (Grinker 1994: 196). Grinker sottolinea più volte questa esigenza di incorporazione da parte dei Lese: la loro – egli sostiene – è «una forma di organizzazione sociale resa possibile dall’incorporazione degli Efe (esterni) nella “casa” lese», cioè nella parte più intima e costitutiva del “noi”. Qui si potrebbe aggiungere che non soltanto l’organizzazione sociale, ma anche la forma di umanità lese è resa possibile dall’incorporazione dell’alterità, e più precisamente di un’alterità inferiorizzata. I Lese hanno bisogno dell’intervento di un’umanità inferiore (o meglio, da essi stessi inferiorizzata) per compensare le loro “carenze” (dalla carne alle medicine, dal latte materno ai rituali) e soprattutto per porre rimedio alla “disumanità” che si annida all’interno del “noi”: proprio perché inferiori e vicini alla foresta, gli Efe conoscono questa disumanità e possono controllarla e periodicamente estirparla dal corpo sociale lese. Senza gli Efe, la forma di umanità lese verrebbe rosa dal male devastante della disumanità che essa stessa si porta dentro, e che da sola non può conoscere e dominare.

III.

Fare umanità

1. La fragilità delle costruzioni Rispetto agli Efe, sporchi, selvaggi e puzzolenti (agli occhi e al naso dei Lese), l’umanità lese dà l’impressione di una assai maggiore ricercatezza e di una assai maggiore fragilità. Abbiamo visto che Grinker sostiene la tesi dell’“incompletezza” tanto dei Lese quanto degli Efe, suggerendo che il rimedio a ciò viene ricercato da parte di entrambi i gruppi nella cooperazione e nello scambio. In questo modo si genera una sorta di “simbiosi” e perciò stesso un rapporto di dipendenza degli uni verso gli altri. Si è pure visto però che non si tratta affatto di un rapporto simmetrico, bensì di un rapporto gerarchico: da una parte i Lese, rappresentanti di una forma di umanità (ritenuta) superiore e dall’altra gli Efe, rappresentanti di una forma di umanità inferiore. Per costruire questa loro (supposta) superiorità, i Lese hanno provveduto a operare distinzioni e separazioni, sia di ordine spaziale sia di ordine morale (soprattutto nei confronti della foresta), di cui gli Efe non sarebbero capaci: con il loro rifiuto della coltivazione, gli Efe non accettano di separarsi e di opporsi alla foresta, rimanendo così molto più legati a un mondo naturale.

III. Fare umanità

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L’asimmetria nel rapporto Lese/Efe assume però anche un altro aspetto: i Lese, superiori, sono assai più dipendenti dai loro inferiori, gli Efe, che non viceversa. I Lese si sono staccati di più dal mondo naturale (la foresta) e si sono per così dire impegnati di più nella costruzione di una loro peculiare forma di umanità. Un’umanità più costruita (e quindi, potremmo dire, più distaccata, più selezionata) risulta essere più fragile e tutto sommato più dipendente. Abbiamo visto in effetti come gli Efe debbano intervenire per porre sotto controllo il kunda, la “disumanità” che altrimenti porterebbe alla rovina la forma di umanità lese. Nonostante la loro superiorità – o meglio, a causa della loro “costruita” superiorità – i Lese sono impotenti di fronte al kunda: per controllarlo e per liberarsene, sia pure in modo temporaneo, dichiarano la loro dipendenza dagli Efe («la vita senza gli Efe è male»). È istruttivo del resto quanto gli stessi Lese riferiscono a proposito del loro distacco da un certo mondo naturale e del loro essere più culturali rispetto agli Efe. I Lese raccontano di aver fatto conoscere agli Efe «l’ingegnosità e il valore dell’utilizzazione di utensili», ma ammettono (curiosamente) che sono stati gli Efe, a loro volta, ad aver insegnato ai Lese «la differenza tra i genitali maschili e femminili e come avere rapporti sessuali» (Grinker 1997: 136-37). Anche questa è una bella dichiarazione di scambio, di cooperazione e di reciproca dipendenza (un sapere di ordine naturale contro un sapere di ordine culturale); ma è anche l’ammissione di una preoccupante asimmetria: senza i Lese, gli Efe avrebbero continuato a vivere la loro vita quasi animalesca (o scimmiesca), mentre i Lese, senza gli Efe, non avrebbero nemmeno saputo riprodursi. Riprendendo le riflessioni del capitolo II e appro-

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fondendo l’analisi del rapporto Lese/Efe, possiamo dire di essere pervenuti a questi esiti – o idee – di ordine generale: a) l’idea che l’umanità possa/debba essere costruita o foggiata in qualche modo e misura (v. cap. II, § 2, punti 7 sgg.); b) l’idea che l’umanità sia suscettibile di una costruzione maggiore o minore, ovvero che – a proposito dell’umanità – ci si possa impegnare in costruzioni più o meno elaborate e ardite, secondo i contesti culturali e le condizioni sociali; c) l’idea che quanto più si costruisce tanto più si separa, giacché la costruzione implica non soltanto un assemblare, ma anche un separare, e che le costruzioni, quanto più sono elaborate, tanto più comportano distinzioni ed esclusioni rispetto a elementi di ordine più generale; d) l’idea che vi è un costruire in cui prevale il criterio dell’assemblare, del mettere insieme, senza curarsi troppo di incompatibilità e di purezze, e vi è un costruire più selezionato, più mirato in vista di un ideale, nel quale si ricercano maggiormente gli elementi che si possono combinare e in cui prevale dunque la dimensione della selezione e della separazione; e) l’idea che quanto più l’essere umano è costruito (selezionato, separato), tanto più fragile risulta essere la sua umanità: nonostante i fattori di distinzione e di separazione – anzi, proprio a causa di questi fattori – le forme di umanità più costruite si rivelano alla fine più fragili, più dipendenti, più “incomplete”. I Lese, più educati e costruiti, appaiono molto più fragili e più bisognosi della collaborazione degli Efe, i quali sono meno selettivi, più rozzi e grossolani, e tutto sommato più autonomi. Ma non si tratta soltanto del rapporto Lese/Efe e quindi di due distinti gruppi etnici nella foresta dell’Ituri. In diverse parti del mondo è

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facile constatare come il rapporto uomini/donne – o meglio il rapporto tra l’idea di mascolinità e l’idea di femminilità – segua lo schema qui presentato: la mascolinità appare oggetto di una costruzione più intensa, più accurata e socialmente più impegnativa. Beninteso, non sempre questo avviene: basti pensare, per esempio, alla costruzione fortemente selettiva e aristocratica del genere femminile (e dell’ideale di femminilità) in diversi periodi della storia della nostra società. Ma se con uno sguardo ampio consideriamo vari tipi di culture (e non soltanto la storia della nostra società o quella di una sua parte), possiamo renderci conto come in molte società la mascolinità si configuri come uno stato precario e artificiale, difficile da conquistare, come una condizione incerta e sempre a rischio (Gilmore 1993: 1, 11-12). Nell’isola di Truk (Micronesia), per esempio, gli uomini risultano ossessionati dal problema della propria virilità, per affermare e difendere la quale mettono costantemente a repentaglio la propria vita. Essere uomo a Truk è un’impresa particolarmente difficile, in quanto non esiste una «soglia della virilità» (Gilmore 1993: 76), superata la quale l’individuo possa ritenersi sufficientemente tranquillo per quanto concerne il suo essere virile, sicuro di aver definitivamente acquisito la forma di umanità maschile elaborata nella sua società. A Truk non esistono infatti riti di passaggio che immettano i giovani nella condizione della virilità: poiché «la soglia della virilità si trova negli occhi degli osservatori», ovvero nel giudizio degli altri, la virilità va continuamente riconquistata, sottoponendosi a «sempre nuove prove». Per questa dipendenza dal giudizio altrui, essere uomini a Truk è un’impresa non solo continua, ma particolarmente stressante.

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Gilmore ci porta altri esempi di società in cui il raggiungimento della virilità risulta faticoso, incerto, mai acquisito una volta per tutte. Presso i Mehinaku dello Xingù (Brasile), gli uomini sono ossessionati dalla virilità sotto il profilo delle loro prestazioni sessuali, oltre che del successo materiale, in quanto fornitori di cibo (selvaggina della foresta) e di beni (utensili). La paura dell’impotenza e della scarsa virilità sessuale li induce a strofinare sul loro membro particolari sostanze vegetali e animali, e a inciderne la pelle procurandosi dolorose scarificazioni. Tutto ciò serve a rendere il pene «arrabbiato» e a evitare che diminuiscano le proprie prestazioni sessuali: ci vuole infatti poco perché la fama di “veri uomini” crolli miseramente (Gilmore 1993: 98). Anche qui, “essere uomini” non consiste in una condizione definitivamente raggiunta: “essere” uomini è “essere giudicati” veri uomini; la condizione di umanità coincide con il giudizio che gli altri – comprese le donne – ne danno. L’umanità maschile si gioca su un palcoscenico e – a parte il fatto che persino l’intimità con la propria donna finisce per avere risvolti di questo genere – la stessa organizzazione del villaggio prevede una continua recita pubblica da parte dei maschi. L’area centrale del villaggio è infatti il «palcoscenico» su cui gli uomini incedono impettiti, dove si vantano delle proprie imprese, dove lottano e dove sfoggiano un’oratoria altisonante: la loro umanità viene per così dire portata qui, rappresentata e giudicata su questo palcoscenico, «tutto in pubblico, sotto gli occhi degli altri» (Gilmore 1993: 106). Ma esistono ovviamente altre forme di umanità: in primo luogo quella delle donne, le quali evitano la piazza centrale del villaggio, impegnate come sono nelle attività domestiche. È in questa zona socialmente

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e culturalmente più periferica, tipica del mondo femminile, che si colloca il cosiddetto «uomo dell’immondezzaio», ovvero colui che, non sapendo reggere lo stress o il disagio della virilità mehinaku (le prove continue di tipo economico e sessuale, nonché la continua rappresentazione della propria mascolinità sul palcoscenico del villaggio), preferisce rifugiarsi là dove si butta la spazzatura (Gilmore 1993: 107). L’uomo dell’immondezzaio è uno “scarto”, inevitabilmente prodotto dalla “selezione” sociale a cui gli uomini mehinaku sono continuamente sottoposti. Quanto più la selezione è continua nel tempo e quanto più mirata e impegnativa è la costruzione della virilità, tanto più inevitabilmente si determinano gli “scarti” di queste forme di umanità. Gli uomini dell’immondezzaio mehinaku trovano il proprio analogo, definito significativamente con lo stesso concetto, in Nuova Guinea: qui, dove esistono i big men, i quali emergono dalla competizione dura e continua con gli altri uomini (in campo guerriero, produttivo, economico, oratorio ecc.), fanno capolino pure i rubbish men, gli «uomini spazzatura», coloro che non sapendo reggere il confronto, la competizione, risultano effemminati come donne e dunque messi da parte come “scarti” (Gilmore 1993: 120-21). Dall’Amazzonia alla Nuova Guinea vediamo presentarsi il tema degli “scarti” di umanità, ovvero di coloro che non se la sentono di realizzare un ideale tanto selettivo e stressante di virilità, di calcare il palcoscenico su cui continuamente occorre dare prova della propria mascolinità. Anche tra gli Iatmul della Nuova Guinea (sul medio Sepik) incontriamo in effetti questo secondo tema: il palcoscenico della virilità ovvero la virilità come teatro, come rappresentazione. Tra gli Iatmul

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– sostiene Gregory Bateson, l’etnografo che li studiò a partire dal 1929 – la «differenza sociale» più importante, l’unica che riemerge costantemente in tutti i settori considerati, è l’«opposizione» tra i sessi (Bateson 1988: 118), un’opposizione che separa forme diverse di umanità: essere maschi o essere femmine tra gli Iatmul significa identificarsi con forme di umanità non solo diverse, ma persino opposte. Lasciamo su questo punto la parola a Bateson: in generale possiamo dire che agli uomini spettano le attività spettacolari, drammatiche e violente che hanno il loro centro nella casa cerimoniale, mentre alle donne spettano le attività quotidiane, utili e necessarie come la ricerca e la cottura del cibo, l’allevamento dei bambini, attività incentrate sulla casa e sui giardini.

Vedremo tra poco come prenda forma la spettacolarità maschile. Per ora accontentiamoci di sottolineare l’opposizione di stili di umanità: «all’orgoglio e alla spettacolarità» dei maschi, i quali svolgono sempre in pubblico e ostentatamente le loro attività, anche quelle di tipo economico (caccia, pesca sulle piroghe, costruzione di case, intaglio di canoe), si contrappongono la non ostentazione, il carattere individuale e privato, allegro e tranquillo delle attività femminili (Bateson 1988: 136). Se la forma di umanità maschile è esprimibile con queste parole: «come se la vita fosse una magnifica rappresentazione teatrale», la forma di umanità femminile è invece data da «una allegra routine», interrotta soltanto dalle «eccitanti e spettacolari attività maschili» (Bateson 1988: 141). Anche Margaret Mead, la quale aveva accompagnato Bateson tra gli Iatmul nella sua

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spedizione del 1938, contrappone la forma di umanità degli uomini (presentati come «cacciatori di teste, intagliatori, oratori, alti e fieri» e – aggiunge con acume e una punta di perfidia femminile – «fragilmente mascolini») alla forma di umanità delle donne, le quali «fanno da eterne spettatrici alla teatralità dei loro uomini» (Mead 1962: 58 – corsivo nostro). Tra gli Iatmul la casa di abitazione coincide con il mondo femminile, essendo il luogo dove la donna cucina il cibo che essa stessa ha raccolto (sago e pesce) e dove alleva i bambini; gli uomini invece hanno il loro centro nella “casa degli uomini”, una “casa cerimoniale”, che Bateson definisce «una splendida costruzione, lunga più di quaranta metri, con timpani a cuspide sulle due facciate» (1988: 118). Questo è il mondo degli uomini; qui si dispiega e viene rappresentata la forma di umanità maschile, la quale significativamente viene fatta coincidere con una «splendida costruzione»: qui non si abita, qui non si vive la vita quotidiana; qui si mette in scena invece la virilità, che si propone come la forma di umanità prominente dell’intera cultura iatmul. Qui si svolgono rituali e danze; qui si fanno i preparativi per le cerimonie spettacolari che vengono rappresentate nello spiazzo antistante, dove gli uomini si precipitano dopo aver indossato ornamenti e maschere. Gli stessi Iatmul definiscono la casa cerimoniale come «calda», in quanto essa è non soltanto un luogo di riunione «dove gli uomini si incontrano e chiacchierano» e «dove discutono e litigano», ma anche il simbolo della loro fierezza per il successo nella caccia alla teste: essa è calda, in quanto è impregnata della violenza delle uccisioni dei nemici, che sono necessarie per costruirla e consacrarla (Bateson 1988: 119). La forma di umanità dei maschi iatmul – co-

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sì ben rappresentata dalla costruzione della “loro” casa – è fatta di violenza, in quanto dipende fondamentalmente dalla caccia alle teste. Ma la “casa degli uomini” ospita anche la violenza interna, la violenza dei discorsi con cui essi si affrontano per rivaleggiare, ostentando fierezza e ricercando prestigio. Qui gli uomini fanno battute ad alta voce, gesticolano in modo vistoso, assumono un’aria scorbutica o se ne escono con buffonate e gesti istrionici: discorsi e discussioni hanno spesso «un andamento chiassoso, collerico, ma soprattutto ironico» (Bateson 1988: 120). Gli uomini ritrovano uno spirito di collaborazione allorché, invece di competere tra loro, devono «produrre uno spettacolo che susciti lo stupore e l’ammirazione delle donne» (Bateson 1988: 122). Sembra che gli uomini iatmul siano sempre costretti a recitare per tenere in piedi la loro forma di umanità. Tuttavia, sia nei rapporti di competizione tra loro, sia nei rapporti di spettacolarità nei confronti del pubblico femminile, si insinuano elementi di preoccupante fragilità. C’è sempre infatti una possibile incrinatura nella “costruzione” comportamentale degli uomini, nella loro troppo ostentata fierezza. Nella casa cerimoniale gli uomini «non stanno a loro agio», in quanto «sono profondamente consapevoli di trovarsi in pubblico» (Bateson 1988: 120). Questo sentirsi di continuo gli occhi addosso genera un sottile “disagio”, il quale accompagna ogni atteggiamento maschile, rendendolo intrinsecamente “fragile”. A questo disagio e a questa fragilità gli uomini iatmul sopperiscono con un incremento di “finzione”. Se finzione è già di per sé la messa in scena, occorre un’ulteriore finzione (una doppia finzione) per tenere a bada il disagio che scaturisce dalla scena: si finge recitando (prima finzione) e si finge per occultare

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e controllare il disagio insito nella recitazione (seconda finzione). «Ogni uomo degno di questo nome si muove e parla dandosi importanza, fingendo di convincere se stesso e gli altri della realtà di un prestigio che in questa cultura riceve poco riconoscimento formale» (Bateson 1988: 123 – corsivo nostro). Gli uomini iatmul non convincono se stessi, ma “fingono di convincere” se stessi. A differenza della convinzione pura e semplice, la finzione della convinzione si porta sempre con sé la consapevolezza di ciò che si sta facendo, e in questo modo la “fragilità” mascolina risulta forse attenuata, ma anche in un certo senso tematizzata e riconosciuta. Da un momento all’altro tra gli Iatmul il prestigio maschile – ottenuto mediante le imprese guerresche, la stregoneria, la conoscenza esoterica, le pratiche sciamaniche, la ricchezza, l’intrigo, l’età, persino la buffoneria – può svanire, esposto com’è alle contestazioni e ai fallimenti più o meno clamorosi. Non sono soltanto gli altri uomini che approfittano del momento di debolezza di un rivale; sono anche le donne che con una sonora risata sono in grado di cogliere in fallo un musicista, sottolineando i suoi errori di esecuzione: ed è la risata femminile ciò che gli uomini temono in modo particolare (Bateson 1988: 122). Contro le donne e contro i giovani non ancora iniziati, gli uomini iatmul erigono una barriera protettiva, costruiscono un mondo separato, soprattutto per quanto riguarda i modi mediante cui si diventa veri uomini. I loro rituali di iniziazione sono infatti protetti dal “segreto”: è il segreto ciò che pone una barriera e fa differenza tra gli iniziati (coloro che conoscono, condividono e custodiscono il segreto della forma di umanità maschile), e i non iniziati (coloro che sono esclusi dal

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segreto), ed è il segreto ciò che separa gli uomini da un lato e le donne dall’altro. Ma è sufficiente che una donna scopra qualcosa di segreto – come la donna che a Mindimbit vide un piccolo flauto di bambù (oggetto segreto) e si fece spiegare che cosa fosse – perché gli uomini, con un gesto di «autoumiliazione» e di rinuncia, procedano a mostrare tutto a tutti, distruggendo così l’ordine del loro villaggio, fondato sulla separazione dei sessi e sulla separazione tra coloro che detengono la forma più eminente di umanità e coloro che ne sono privi o che non l’hanno ancora potuta acquisire (Bateson 1988: 129). Allo stesso modo, quando scoppiano gravi dispute tra gli uomini, si procede ad «aprire tutto il sistema iniziatico agli uomini, alle donne e ai bambini», ossia «mostrare tutto a tutti» (Bateson 1988: 128). Sono dunque due i motivi di distruzione che minacciano la forma di umanità maschile: una minaccia interna, coincidente con le crisi che distruggono la compattezza e la solidarietà (l’accordo) tra gli uomini, e una minaccia esterna, ossia la conoscenza dei segreti degli uomini da parte delle donne. Per descrivere questi casi di disvelamento e conseguente distruzione, gli stessi Iatmul usano l’espressione «rompere gli schermi». In effetti, è sufficiente un nonnulla, perché la “costruzione” artificiale degli uomini sveli irreparabilmente la sua fragilità e perché gli uomini, anziché correre subito ai ripari e difendere forsennatamente la loro costruzione, riconoscano – di fronte alle donne – la loro momentanea impotenza. Del resto, come non ricordare che la stessa imponente “casa degli uomini” – luogo deputato dalla virilità – è la rappresentazione del corpo della Donna primordiale (la facciata è il suo viso, il resto della costruzione il suo corpo), cosicché «tutto

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ciò che appartiene in modo esclusivo agli uomini […] trova di fatto il suo posto nel corpo di una figura femminile» (Meyer 1995, I: 207)? 2. Le soglie dell’umanità Secondo Gilmore, vi sono società nelle quali un forte ideale di virilità si combina con una mancanza di strutturazione del percorso: ci si preoccupa molto della virilità, ma non si ritiene di dover fornire «chiari segnali indicatori» che guidino con sicurezza coloro che intraprendono il cammino verso la mascolinità (1993: 143). In questo tipo di società la strada è scarsamente indicata e si procede quasi «per tentativi ed errori». Esempi in questo senso sono – secondo Gilmore – i Truk della Micronesia, i Mehinaku dello Xingù (Brasile centrale), la società nordamericana e diverse società mediterranee con il loro ideale di macho. Vi sono poi società in cui invece la preoccupazione per la costruzione degli uomini si traduce in una vera e propria programmazione del “lavoro” antropo-poietico. Qui non si procede per tentativi ed errori, ma il “fare umanità” si struttura in una serie di tappe previste, individuate, nominate, collocate progressivamente nel tempo: diventare uomini non è quindi una questione affidata in modo esclusivo agli interessati, in quanto la società interviene direttamente mediante una apposita organizzazione rituale, la quale avrebbe tra l’altro lo scopo di segnare con sicurezza il cammino da intraprendere (Gilmore 1993: 144). I rituali di iniziazione (sparsi un po’ ovunque nel mondo), mediante i quali i giovani apprendono ad essere uomini affrontando tutta una serie di prove, sono la dimo-

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strazione più evidente di questo tipo di soluzione programmata. Percorsi, stadi, tappe, sono termini che vengono ampiamente usati per descrivere la struttura dei rituali di iniziazione, i quali abbastanza spesso vengono concepiti dalle stesse società interessate – prima ancora che dagli antropologi – come una sorta di “viaggio” che conduce da una condizione di indeterminatezza e perciò di incompletezza a una condizione di raggiunta umanità. Con questi rituali si “passa”, per lo più in modo progressivo, graduale, spesso anche faticoso e doloroso (date le prove che costellano il percorso) da una condizione sociale a un’altra. Questa idea della transizione è contenuta in modo evidente nell’espressione “rituali di passaggio”, messa in voga all’inizio del Novecento da Arnold Van Gennep (1909; 1981) e poi costantemente utilizzata dagli antropologi per descrivere i riti di iniziazione in qualsiasi parte del mondo. Tuttavia, quando le società interessate ricorrono alla metafora del “viaggio” per trasmettere uno dei significati più importanti dei loro rituali di iniziazione, lo fanno non soltanto per sottolineare la “transizione” (il mero fatto del passare da una condizione socialmente definita a un’altra), ma anche, e soprattutto, la “trasformazione”. Il viaggio che si compie attraverso questi rituali non si riduce a far cambiare di status gli individui coinvolti, come se essi venissero semplicemente traslocati da una categoria sociale a un’altra (da un “posto” sociale a un altro), ma incide sugli individui stessi, sulla loro identità più profonda. L’espressione “rituali di passaggio” traduce in effetti una visione abbastanza tipica della civiltà occidentale, quella secondo cui gli individui mantengono nel tempo, e nonostante tutti i cambiamenti, la loro identità,

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mentre ciò che cambia sarebbe soltanto la loro posizione nella società e quindi il ruolo che di volta in volta essi recitano. Sotto questo profilo, il cambiamento riguarderebbe soltanto gli aspetti più superficiali della vita dell’individuo (ruoli e collocazione sociale), essendo l’identità individuale qualcosa di permanente, qualcosa che per definizione si sottrae al mutamento. La metafora del viaggio, con cui in Nuova Guinea (Gilmore 1993: 123) o in Africa vengono concepiti i rituali di iniziazione, esprime invece un cambiamento molto più profondo: i rituali non si limitano affatto a spostare un individuo da una collocazione a un’altra, ma lo trasformano radicalmente; per cui ciò che va di mezzo non è soltanto la loro posizione sociale, bensì la loro stessa identità. Un esempio di questa concezione molto più drammatica e impegnativa dei rituali di iniziazione può essere tratto dai Nande (o baNande) del Nord Kivu, nell’ex Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo). Il loro rituale di iniziazione maschile si chiamava olusumba e si svolgeva in foresta (oggi non si pratica più, a causa dell’impegno con cui i missionari hanno osteggiato questo processo di formazione dell’umanità nande, giudicato un retaggio della barbarie indigena). Nel canto-preghiera che i circoncisori rivolgevano alla divinità – appena prima di procedere alla circoncisione, la prova iniziale e la più dolorosa tra quelle a cui i giovani venivano sottoposti – affiora in modo esplicito il tema del viaggio. Essi cantano: «che il nostro viaggio sia la vostra iniziazione» e, qualche verso dopo, «che il nostro viaggio generi degli uomini» (Remotti 1996a: 186). Quattro aspetti è opportuno qui sottolineare: i) la connessione metaforica iniziazione/viaggio; ii) il viaggio in cui consiste olusumba non si riduce affatto a un trasferimento

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di persone, in quanto gli si attribuisce una capacità trasformativa, e anzi generativa; iii) il potere generativo del viaggio olusumba riguarda esseri umani, nel senso che si ritiene che gli uomini vengano generati da questo viaggio; iv) il potere antropo-genetico del viaggio olusumba non è affatto un automatismo sicuro, per cui gli iniziatori (i circoncisori), i responsabili di olusumba, auspicano che il loro viaggio generi degli uomini e in questo senso rivolgono una preghiera alla divinità. La drammaticità di olusumba – come, beninteso, di molti altri rituali di iniziazione – consiste allora nel ritenere che la posta in gioco di questa avventura o impresa non sia semplicemente quella del mantenimento di un certo ordine sociale: esso verrebbe infatti di continuo rinnovato distribuendo e spostando nelle apposite caselle (categorie, posizioni, classi) gli individui che via via nascono, crescono, divengono adulti e infine muoiono e che dunque – secondo i momenti della loro esistenza – si affacciano e transitano sulla scena sociale per poi lasciarla al momento della morte. La posta in gioco è invece la formazione di esseri umani, la quale viene fatta dipendere in modo diretto e rischioso dallo svolgimento degli stessi rituali di iniziazione. Lungi dall’essere semplicemente rituali di “passaggio”, essi sono invece rituali “antropo-genetici” o “antropo-poietici”, secondo che si voglia porre maggiormente in evidenza il potere “generativo” che viene attribuito ai rituali – ritenuti responsabili di una “seconda nascita” – oppure l’idea della “fabbricazione” degli esseri umani che avverrebbe per loro mezzo e nel loro contesto (Eliade 1974; Remotti 1996b). Anche in questa prospettiva, maggiormente aderente alle concezioni delle società interessate, vi sono “soglie” e “passaggi”. Ma le soglie che occorre

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superare non delimitano soltanto spazi più o meno neutri all’interno di un’organizzazione e di una classificazione sociale (la condizione dei giovani, quella degli uomini sposati e così via): sono invece tappe o soglie di umanità, che si inseriscono in un percorso spesso lungo, faticoso, travagliato, e il più delle volte doloroso e persino cruento. Si fa fatica, un’enorme fatica, a superare le soglie di umanità, perché le forme di umanità che è indispensabile acquisire o che, al contrario, occorre abbandonare e lasciare definitivamente alle proprie spalle non sono affatto semplici etichette, qualcosa che si possa indossare e pure smettere, così come si indossa e si smette un abito. Le forme di umanità, che i rituali di iniziazione propongono o impongono, non vanno semplicemente acquisite, ottenute o conquistate con un gesto, con una prestazione più o meno straordinaria; esse vanno “realizzate” e proprio per questo hanno da entrare il più profondamente possibile negli individui, nei loro corpi, nella loro carne, nella loro mente, nei loro comportamenti, nelle loro relazioni sociali. L’idea di incorporamento (embodiment) della cultura – su cui vi è un’ampia riflessione da parte dell’antropologia contemporanea (Csordas 1994) – trova qui una delle sue applicazioni più importanti e una delle sue verifiche più significative. Le società interessate sanno che le forme di umanità elaborate dalla loro cultura esigono di essere “incorporate”, affinché non svaniscano al semplice mutare del vento. Allo stesso modo, le forme di umanità che l’individuo è tenuto ad abbandonare per accogliere in sé quelle nuove devono essere letteralmente “strappate”, buttate vie, distrutte. L’individuo non può ospitare in sé simultaneamente forme di umanità così diverse e alternative, appartenenti a stadi dif-

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ferenziati dell’esistenza – quella del ragazzo immaturo, per esempio, e quella dell’uomo adulto –: per realizzare la seconda (l’umanità dell’uomo maturo) è inevitabile che si proceda alla distruzione della prima; per diventare veri uomini ci si deve sottoporre a quella che Gilbert H. Herdt, specialista dei rituali di iniziazione maschile della Nuova Guinea, ha chiamato «chirurgia comportamentale» (Herdt 1981: 305; Keesing 1982: 31). Non vi è quindi soltanto un processo di incorporamento di forme di umanità nuove; si assiste anche – nello stesso contesto o in una fase preliminare del medesimo ciclo – a un processo di disincorporamento. Disincorporare cultura o, meglio, forme di umanità ritenute non più adeguate è altrettanto importante che incorporare: il disincorporamento è richiesto dalla forma di umanità nuova che si intende incorporare. Tra i baNande del Congo, a cui si è già accennato, la circoncisione del prepuzio è esattamente l’atto chirurgico con cui ha inizio il faticoso e doloroso processo di disincorporamento/incorporamento, di estirpazione della forma infantile di umanità da un lato e di realizzazione della forma matura di umanità dall’altro. È necessario un atto chirurgico per estirpare una forma di umanità che non va più bene, che imprigiona il giovane entro schemi infantili e che occorre distruggere, affinché egli possa aprirsi alla realizzazione di una forma di umanità più matura e adeguata. In effetti, il senso della distruzione è molto accentuato nei rituali di iniziazione, a tal punto da concepire questa stessa distruzione come una “morte” dell’individuo precedente. Si soffre, in questi rituali antropo-poietici, a causa degli atti di “chirurgia” (morale e fisica, nello stesso tempo) a cui si è sottoposti e – almeno sotto il profilo psicologico e so-

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ciologico – si va incontro a una vera e propria morte. L’individuo di prima “muore”, affinché possa nascere un essere nuovo. Sofferenza, distruzione, morte sono ingredienti indispensabili dei rituali che si prefiggono la costruzione sociale di un essere umano. Tra i baKonjo dell’Uganda, un’etnia contigua e molto simile ai baNande del Congo, il tema della morte affiora in modo impressionante nei canti di circoncisione. Al ragazzo che sta per affrontare o ha già affrontato il rituale olusumba (lo stesso termine nande) vengono fatti cantare questi versi: «sto andando a trovare Byole [cioè la morte], come se fosse un nostro parente»; «io sono stato mangiato dagli avvoltoi»; e ancora: «noi giungemmo a uccidere noi stessi / noi giungemmo a uccidere noi stessi nella valle della virilità» (Remotti 1996a: 229-30). La «valle della virilità» (omusya wa’lume) può essere una qualsiasi valle che divide due contrafforti sulle falde del Ruwenzori, su cui i Konjo costruiscono i loro villaggi. Nella valle della virilità si svolgono i rituali antropo-poietici e in particolare la circoncisione. Nei canti di circoncisione riportati da Kirsten Alnaes (1967) l’espressione «valle della virilità» – pur essendo la valle in cui si costruisce l’umanità – compare sempre come connotata in modo negativo: «fa un freddo tremendo nella valle della virilità / il ragazzo non lo può sopportare». Il freddo a cui si accenna è senz’altro dovuto ai venti gelidi che provengono dalla cima del Ruwenzori; è anche il freddo che invade i corpi dei ragazzi dopo l’intervento chirurgico, costretti a stare nudi, con le loro ferite, in una capanna, lontani dal fuoco; è inoltre il freddo che invade l’anima dei ragazzi che, con la circoncisione (non solo dolorosa, ma anche pericolosa), sono andati a «trovare Byole», a guardare in

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faccia la morte; è pure il freddo della morte psicologica, dell’uccisione di sé e della propria infanzia; è infine il freddo della morte sociale, dovuta alla «separazione del ragazzo dalla società e dalla famiglia» e al quale si dice «“tu non hai più un padre o una madre; i tuoi genitori sono morti da un pezzo”» (Alnaes 1967: 459). La morte dell’infanzia, la morte dei legami infantili e familiari, la morte dell’umanità infantile che ha preso forma in quel periodo rendono la “valle della virilità” un luogo particolarmente doloroso e difficile («nella valle della virilità / fa un freddo tremendo / e vi sono molte difficoltà» [Remotti 1996a: 230]). Si capiscono di più il dolore, la distruzione e la morte, quanto più ci si rende conto che la forma di umanità nuova va letteralmente costruita, realizzata, incorporata: costruire la forma di umanità nuova vuol dire distruggere e disincorporare (strappare dal corpo, dalla mente, dal comportamento) la forma di umanità precedente. È in fondo questo “rendersi conto” ciò che fa la differenza tra la forma di umanità infantile e quella che si costruisce ritualmente. Il giovane konjo, che canta «sto andando a trovare Byole [la morte]», è lo stesso che recita: «padre mi hai dato questo consiglio: non andare [al rituale dell’olusumba] con cocciutaggine / colui che è cocciuto diviene un’esca nella trappola» (Remotti 1996a: 229). La cocciutaggine, l’avere i paraocchi, è tipico dell’infanzia; grazie all’olusumba invece «la cocciutaggine non è più qui». I giovani hanno ucciso la loro infanzia e così «i mandriani di capre sono ora mandriani dell’uccello della foresta». È il “vedere”, la capacità di vedere, di osservare e di spaziare (come quella degli uccelli, qui contrapposti alle capre che si limitano a brucare l’erba nei dintorni), ciò che contraddistingue

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il giovane circonciso, ormai “fatto” uomo attraverso il rituale olusumba. “Vedere” per i Konjo, come per i Nande, è eribana, che vuole anche dire “trovare”, “andare a trovare”, nonché “passare attraverso il rituale della circoncisione” (Alnaes 1967: 462; Remotti 1996a: 232). C’è in eribana un’esplicita volontà di “constatare”, di “rendersi conto”, una progettualità di “andare a vedere”, di “guardare in faccia”. Nel verso citato da Alnaes per i Konjo l’“andare a trovare la morte” è eribana Byole, e Byole (la morte) è lo stesso che ebyole, plurale di ekyole, “asprezza, difficoltà”. La maturità (la nuova umanità, coincidente con la condizione virile), la quale si raggiunge con un rituale così doloroso e cruento, è quella che nasce (che si “genera”) in definitiva dall’eribana ebyole. Anche per i Nande tutto il senso del rituale di iniziazione maschile è dato da eribana: «eribana olusumba» – essi dicono. E quindi il senso dell’olusumba è dato dall’“andare a vedere” olusumba. Il senso del rituale coincide con la produzione di consapevolezza che se ne ha. Il che è esattamente ciò che dicono i giovani konjo, quando nei canti ripetono i consigli dei loro padri: non si deve andare all’olusumba con i paraocchi; si deve andare (eribana) con la volontà di vedere, di rendersi conto. La soglia dell’umanità, la quale per i Konjo viene varcata nella terribile “valle della virilità”, separa non già due forme di umanità diverse e in qualche modo equipollenti, bensì due forme di umanità opposte e qualitativamente divergenti: da un lato un’umanità che si è venuta a formare quasi naturalmente, vivendo nel villaggio, badando alle caprette della propria famiglia (come è davvero il caso dei ragazzi nande e konjo), senza traumi e discontinuità; dall’altro un’umanità che in-

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vece si costruisce in base a un esplicito programma antropo-poietico e che, innanzi tutto, prevede un distacco, una separazione violenta, nonché la distruzione della forma di umanità precedente. È la distruzione dell’umanità che si è venuta a formare inconsapevolmente nella vita del villaggio ciò che apre la strada e anzi invoca la costruzione di una nuova forma di umanità. Dal punto di vista dei costruttori di umanità (come, per esempio, dei circoncisori nande, i quali auspicano «che il nostro viaggio generi degli uomini»), vi è una differenza radicale tra un formarsi inconsapevole e un costruire programmatico, tra un’umanità che è soltanto il frutto dei costumi vigenti e un’umanità che invece viene per così dire scolpita secondo un progetto deliberato. Ciò che si apprende andando all’olusumba (nande o konjo) senza i paraocchi è esattamente la capacità di costruire, di dare forma all’umanità. Questo secondo tipo di umanità si costruisce superando la soglia della consapevolezza, della progettualità e del dolore; e quanto più si costruisce (si intende o ci si illude di costruire) umanità, tanto maggiori sono la sofferenza, l’impegno, il periodo della gestazione. 3. I segreti, le finzioni, gli inganni Secondo Gilmore, sono soprattutto gli uomini che avvertono l’esigenza della costruzione culturale di se stessi: è la forma di umanità maschile, più che non quella femminile, a dover essere costruita. Tra i Tewa (o Pueblo) del Nuovo Messico, i ragazzi vengono sottoposti a riti di fustigazione che provocano ferite sanguinose e che lasciano cicatrici permanenti; e la funzione di que-

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sti riti è quella di trasformare i ragazzi in uomini: «ora sei un uomo… sei stato reso uomo» (Gilmore 1993: 17). Anche per le ragazze esiste una cerimonia di iniziazione, ma «non vi è alcuna credenza parallela che richieda che le ragazze siano fatte donne» (corsivo di Gilmore). Per questa, come per varie altre società, «lo status di donna si sviluppa naturalmente, senza alcun bisogno dell’intervento della cultura». Per gli Awa della Nuova Guinea, «lo sviluppo, la maturazione e la capacità procreativa delle donne costituiscono aspetti naturali dell’essere femminile e si verificano perciò senza alcun intervento umano»; per i maschi invece questi processi non hanno luogo in modo naturale, per cui occorre che uomini adulti si assumano la responsabilità di stimolare e attivare nei giovani le capacità procreative che altrimenti rimarrebbero sopite (Newman e Boyd 1982: 282-83). Allo stesso modo, i Sambia della Nuova Guinea, ritengono che le ragazze diventino donne attraverso una «maturazione “naturale”» e che la loro femminilità sia garantita dal possesso, fin dalla nascita, di organi e fluidi necessari per le loro capacità riproduttive; la mascolinità, al contrario, non sarebbe affatto un dato naturale, ma «deve essere indotta artificialmente mediante un rituale segreto» (Herdt 1982: 54-55). Hanno ragione Gilmore, i Tewa, gli Awa, i Sambia nel ritenere che gli uomini vanno costruiti culturalmente (e ritualmente), mentre le donne raggiungono la loro condizione di femminilità (la loro forma di umanità) seguendo uno sviluppo naturale? È senz’altro vero che il processo femminile (il diventare donna) è segnato da fenomeni di ordine naturale, i quali lo incanalano e lo ritmano: il menarca, la gravidanza, il parto, l’allattamento rappresentano tappe, di cui sarebbe ben difficile non

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tenere conto. I momenti fisiologici della capacità riproduttiva femminile costituiscono paletti o segnavia, che invece mancano nella condizione maschile. In un certo senso, è più facile capire come si possa diventare donna, che non come si possa diventare uomini. Sul piano naturale (fisiologico o biologico), c’è una indeterminatezza maggiore nella condizione maschile, che non in quella femminile: e le società sono perciò maggiormente impegnate nel delineare, nel progettare e nel costruire la mascolinità, che non la femminilità. Se il diventare donna trae molto del suo senso dalle tappe che, in ogni società, contrassegnano naturalmente la capacità riproduttiva, che cosa significa invece diventare uomo in questa o in quella società? Se la natura “insegna” relativamente poco circa la mascolinità, è abbastanza ovvio pensare che le culture siano soprattutto maschili: sono le culture (le singole culture particolari) che “insegnano” (in-segnano) a diventare uomini e sviluppano maggiormente l’idea della costruzione degli esseri umani in relazione ai maschi che non alle femmine. L’idea dell’incompletezza biologica dell’essere umano, la quale – come si è visto nel capitolo II – richiede l’intervento della cultura, sembrerebbe riguardare di più l’essere maschile, che non l’essere femminile. E se la cultura è soprattutto orientata verso l’ideazione e la costruzione dell’essere maschile, si capisce anche assai bene come in molte società siano i maschi a rivendicare il possesso del mondo culturale: la cultura (proprio come la casa delle cerimonie iatmul [cap. III, § 1]) è soprattutto fatta da loro e per loro. Le donne costituiscono un mondo a parte; le donne, le quali hanno meno bisogno di segni e di insegnamenti culturali per raggiungere la loro condizione di femminilità, sono spesso tagliate fuori dalla

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grande invenzione (o dal grande gioco) della cultura. Lo stesso fatto di sottolineare – come, a quanto pare, fanno i Tewa, gli Awa e i Sambia – che il diventare donna è un processo “naturale” contribuisce a separare le donne dalla cultura, incrementando e rinvigorendo in tal modo il suo carattere prettamente maschile. In quante società le donne sono escluse, per esempio, dall’uso di strumenti musicali (oltre che delle armi) e in quante società le costruzioni culturali in genere e in particolare la costruzione culturale degli uomini sono protette dal segreto: alle donne non è consentito penetrare nel mondo culturale maschile e conoscere i suoi segreti antropo-poietici. Occorre però riequilibrare il quadro. Un conto è infatti sostenere che l’indeterminatezza biologica maschile è maggiore di quella femminile e che dunque l’intervento della cultura nel foggiare i maschi è preponderante, un altro conto è invece ritenere che il processo di maturazione femminile si svolga secondo ritmi e modalità naturali, mentre quello maschile appartiene del tutto al mondo della cultura. Marilyn Strathern, un’antropologa inglese che ha studiato le società della Nuova Guinea, ha contestato la plausibilità della seguente equazione “cultura: maschio” come “natura: femmina”, ponendo in luce il suo carattere fortemente (e mascolinamente) ideologico (Strathern 1980). Le società non abbandonano affatto alla natura i processi di maturazione femminile: anche il diventare donna è una faccenda che, pur tenendo in maggior conto evidenti e imprescindibili paletti naturali, si svolge secondo modalità culturali. Tra i baNande, per esempio, il processo di maturazione femminile segue indubbiamente la trafila naturale; ma essi “scelgono” un momento preciso per segna-

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re il raggiungimento dell’essere donna: e questo momento viene fatto coincidere con l’avvertire – da parte della donna – di essere incinta per la prima volta (Remotti 1996a: 169-82). Vi sono diversi termini con cui si designa l’essere femminile lungo il processo della femminilità: vi sono termini specifici per la bambina, per la ragazzina, per la ragazza, per la giovane nubile, per la donna appena sposata, per la donna sposata, per la donna che ha partorito un figlio, per la donna in quanto tale (omukali) nella pienezza del suo status, per la donna anziana. E vi è anche un termine apposito per la donna che si accorge di essere incinta per la prima volta: omukenzi. Si tratta ovviamente di una categoria temporanea, quasi momentanea e puntuale, in quanto indica non una condizione duratura, bensì un momento del tutto particolare e irripetibile. Omukenzi non è colei che rimane incinta; è invece la donna che si accorge di essere incinta e questo avviene per la prima volta nella sua vita. Omukenzi è una sorta di punto intermedio, di bilico: alle spalle vi è un passato irrecuperabile (la vita da ragazza, il villaggio dei genitori); di fronte vi è invece un destino a cui ormai non può più sfuggire, il destino di donna, che produce figli per la casa del marito. Omukenzi è l’avvertimento di questo punto di non ritorno: non è semplicemente essere incinta per la prima volta, ma il prendere coscienza che sta per iniziare il destino di donna e che così si forma la donna tra i Nande. Può essere importante sapere che il termine omu-kenzi deriva dal verbo eri-kenza, il quale significa “tagliare”. Omukenzi, con la duplice idea della “prima volta” e della “coscienza” della prima volta, rappresenta in effetti un “taglio” nel corso dell’esistenza femminile: un

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taglio da cui l’umanità femminile tra i Nande prende inizio e forma. Questa coscienza, che dà forma alla femminilità nande, non si risolve però in un fatto meramente individuale: omukenzi è infatti la protagonista di un rituale di iniziazione, denominato erihinga, a cui partecipano soltanto le donne. Erihinga significa “andare nei campi per coltivare o per raccogliere”; e in effetti, il rituale prevede che le donne – dopo aver partecipato a una festa, in cui si mangia, si ride, si canta, si parla male degli uomini – procedano in corteo verso i campi, cantando un canto che si riferisce alla maternità. Il rituale pone in parallelo le due attività fondamentali della donna nande, ovvero la riproduzione (fare figli) e la produzione alimentare (lavoro nei campi). Il rituale inoltre immette l’inizianda in un gruppo esclusivamente femminile – omusangano, un’associazione di cui fanno parte le donne sposate e madri –, il quale gestisce i “segreti femminili”, quelli relativi alla gravidanza e al parto, in opposizione al mondo degli uomini. In effetti, il carattere esclusivamente femminile dell’erihinga si esprime non soltanto in un allontanamento degli uomini, ma persino in un atteggiamento di irriverenza e di aggressività nei loro confronti (guai agli uomini che si imbattono nel corteo femminile). Se poi si tiene conto che l’aggressività femminile si esprime anche verso i prodotti dei campi (calpestati, sradicati, distrutti), l’erihinga appare a tutti gli effetti come un “rituale di ribellione”. Attraverso il rito, la donna prende coscienza (in modo privato e pubblico) del suo essere femminile, ma questa coscienza si esprime anche attraverso una ribellione. Essere donna tra i Nande non significa accettare supinamente il proprio destino. La coscienza dell’omukenzi – di colei che

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inizia a essere donna – è “taglio”, “crisi” e “critica” e, nello stesso tempo, formazione: è separazione nei confronti del mondo maschile (contro cui ci si ribella ritualmente); è anche però “confluenza”, “riunione”, “partecipazione” all’omusangano (questi in effetti sono i significati del termine), l’associazione che, attraverso la solidarietà e i suoi segreti, contribuisce a formare, a rivendicare e a riprodurre nel tempo l’umanità femminile in una società per gran parte dominata dalla separazione e dall’opposizione dei sessi. È abbastanza normale aspettarsi che, nelle diverse società, il “fare umanità” prenda forme distinte – persino divergenti e opposte – secondo i sessi: la costruzione sociale dei “generi” è la risposta a una più ampia esigenza antropo-poietica, la quale non può prescindere dalle differenze strutturali e dalle diverse funzioni collegate ai sessi. Uomini e donne hanno da costruire l’umanità: essi lo fanno unendosi e collaborando, ma anche separandosi e opponendosi. Quando il fare umanità diventa soprattutto una faccenda culturale (al di là della nascita fisiologica e della biologia), la separazione e l’opposizione tra le due forme di umanità – maschile e femminile – si manifestano in modo pronunciato. Non è soltanto questione di forme e fogge diverse (gli uomini risultano “fatti” in un modo – per esempio, secondo valori guerreschi – e le donne in un altro); è anche una questione di potere e di rapporti gerarchici tra le due forme e le due modalità di costruzione. Uomini e donne hanno i loro “segreti”, i quali riguardano esattamente i loro rispettivi poteri procreativi. Sia nel caso degli uomini, sia in quello delle donne, avere “segreti” determina i confini delle rispettive forme di umanità e dei modi me-

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diante cui le si costruisce. I segreti da un lato separano gli uomini dalle donne, così come le donne dagli uomini, e dall’altro generano, con la loro condivisione, solidarietà entro gruppi maschili ed entro gruppi femminili. Gli iniziati sono tenuti a mantenere i segreti, per non incorrere in sanzioni severe. Molto spesso i contenuti dei segreti non sono altro che il riconoscimento di una “finzione”, se non addirittura di una menzogna: il segreto, a cui l’iniziando è ammesso, consiste il più delle volte nel disvelamento di un meccanismo e di un inganno. Tipico, e assai diffuso in diverse parti del mondo (dall’Australia all’America meridionale, all’Africa), è il caso del cosiddetto bull-roarer, o “rombo”, costituito da un piccolo pezzo di legno o di pietra che, fatto roteare in aria, produce uno strano rumore o ronzio. Ne ha parlato negli anni venti Robert Lowie, il quale poneva in luce – a proposito delle tribù australiane – come lo scopo dei rituali di iniziazione, così difficili e dolorosi, si riducesse poi in sostanza nell’apprendere il funzionamento di questo pezzo di legno (Lowie 1947: 265-66). Alle donne e ai giovani non iniziati viene fatto credere che il rumore prodotto dal bullroarer sia la voce di uno spirito, in particolare di uno spirito selvaggio che, entrando nel corpo degli iniziati, ha la funzione di «trasformare i ragazzi in uomini», “to make the boys into men” (Spencer e Gillen 1938: 246, n. 1). Gli iniziandi, a seguito di prove, sacrifici e sofferenze di non poco conto, vengono messi a conoscenza di un segreto, il cui contenuto sembra davvero sproporzionato rispetto al prezzo che occorre pagare per impadronirsene e alle sanzioni terribili (come la morte) per chi lo divulga nel mondo femminile. Lowie non si limitava a dire che tutto ciò è «piuttosto curioso», ma

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bollava come «estremamente ridicola» la cura con cui veniva mantenuto quello strano segreto, «come se l’essenza di tutti i misteri consistesse nella produzione di questo semplice ronzio, come se tutto il polverone e la sofferenza di un prolungato rituale raggiungessero il punto più importante dal punto di vista indigeno, allorché viene mostrato ai giovani come far risuonare in aria un’assicella» (Lowie 1947: 311). Ormai noi sappiamo però che il “segreto” sta in quel to make, nella rivendicazione, da parte degli uomini, di “saper fare” umanità a partire dalla materia più o meno informe che sono gli adolescenti. Si fa, si costruisce umanità soffrendo, predisponendo e sottoponendo spesso a prove terribili i ragazzi che hanno da diventare uomini (nell’Australia raccontata da Spencer e Gillen, si praticava non soltanto la circoncisione, ma anche la subincisione). Non ci si limita però a far soffrire: si insegna ai giovani anche il mistero. Si fa vedere loro cosa c’è dietro il suono misterioso del rombo: null’altro che una finzione, una sorta di inganno. La “stranezza” del bullroarer consiste nel mettere i giovani a parte del segreto della “finzione”, cioè nello svelare i meccanismi che la sorreggono e la fanno funzionare. Se i prezzi che occorre pagare per diventare uomini e per capire la finzione sono così alti e se così gravi sono le sanzioni per chi ne distrugge il meccanismo e i presupposti, ciò significa che la finzione è davvero qualcosa di importante e di imprescindibile per la costruzione dell’umanità. Andrew Lattas ha esaminato proprio questo tema – l’imprescindibilità della finzione e persino dell’inganno – in una società della Nuova Britannia, in cui si dice che i giovani iniziati vengono prima inghiottiti e poi vomitati da un essere mostruoso, il tambaran Varku.

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Quando i giovani entrano nel recinto dell’iniziazione, non vi trovano chissà quale realtà misteriosa; semplicemente, viene svelata loro la finzione che gli uomini hanno messo in atto per poter rivendicare un potere creativo o procreativo, che altrimenti sarebbe riservato soltanto alle donne: «Noi uomini siamo il vero tambaran… Varku è un krai nating (un grido vuoto), ma siamo noi uomini il vero tambaran» (Lattas 1996: 156). Qui come in Australia, o come tra i Nande del Congo, diventare uomini è diventare consapevoli della “finzione”, capirne i presupposti, i meccanismi, i risultati: capire come si fa a “fingere” o a “fare” l’umanità (quella particolare umanità che per caso o per scelta deliberata ha preso forma tra “noi”). 4. Il caso e la bellezza Gli Ndembu dello Zambia raccontano in questo modo l’origine del mukanda, il loro rituale di circoncisione. Una volta successe che dei bambini, mentre giocavano in mezzo a un tipo di erba tagliente, «furono accidentalmente circoncisi» (Turner 1976: 189). Fu l’erba, per caso, a tagliare loro il prepuzio. In un’altra versione, si racconta che un’erba particolare tagliò «accidentalmente» il bambino intorno al pene e che gli uomini del villaggio presero un rasoio per togliere completamente il prepuzio. Soddisfatti di ciò, provarono a circoncidere anche altri ragazzi e uomini adulti: «così la gente cominciò a capire che era meglio che tutti fossero circoncisi». Anche tra i Balovale – vicini dei Ndembu – si racconta di un bambino circonciso accidentalmente dall’erba tagliente e anche qui, «quando se ne vide il risul-

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tato, la gente decise di generalizzare l’uso» (Turner 1976: 188). Fra i Dìì dell’Adamaoua (nel Nord del Camerun) si racconta invece che, un giorno, una donna vide dei cinocefali (un particolare tipo di scimmie) tagliarsi il prepuzio; la donna trovò che un pene così tagliato era «molto grazioso» e convinse il marito a farsi circoncidere da lei (Muller 1996: 64). Il marito acconsente e, insieme agli altri uomini del villaggio, sostiene che in tal modo «il pene era diventato più elegante». Anche gli altri uomini si circoncidono; ma prima di provvedere alla loro circoncisione, uccidono la donna, in modo che il “segreto” dell’operazione rimanesse nella cerchia maschile e le donne non sapessero nulla. Anche qui l’accidentalità della scoperta è piuttosto evidente, così come riemerge la presenza di una donna alle origini di un’operazione che invece è prettamente maschile. Più evidente è tra i Dìì il tema della bellezza, anche se non è affatto assente nella soddisfazione che gli uomini ndembu provano nel vedere il risultato della loro operazione. In più, tra i Dìì ritorna il tema del segreto maschile, della necessità di occultare l’origine, fino al punto di far fuori la donna che “sa tutto”. Ma i Dìì sanno che le donne sanno e le donne, a loro volta, sanno che gli uomini sanno che esse sanno… (Muller 1996: 60). Questo è uno dei «numerosi paradossi» della circoncisione dìì; l’altro – potremmo aggiungere – è la sua motivazione estetica, insieme alla sua casualità: tanta sofferenza per rendere più grazioso ed elegante il proprio pene, secondo un modello scoperto da una donna, casualmente e, oltre tutto, presso delle scimmie dalla testa di cane? La finzione occulta l’origine casuale, femminile e scimmiesca della circoncisione; ma la sua motivazione estetica è del tutto palese.

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Gli esseri umani fanno davvero di tutto per “farsi” belli. E qui potremmo dire subito che “fare” umanità (o, comunque, fare se stessi) è una faccenda complessa, che coinvolge più livelli. Si può fare umanità in tanti modi e con esiti i più diversi; ma una delle dimensioni più imprescindibili pare essere proprio quella estetica. Come si è già detto (cap. II, § 2, punto 9), si fa umanità lavorando sul comportamento, sulla mente o sull’intelletto, sulle emozioni e sulle passioni: tutte queste dimensioni esigono di essere modellate, affinché l’essere umano possa funzionare in qualche modo. A causa della loro incompletezza originaria, biologica, gli esseri umani si troverebbero in preda a un caos di pensieri e di emozioni, se non provvedessero a foggiare questi diversi aspetti della loro natura (Geertz 1987: 87). Diventare umani è un compito a cui gli esseri umani non possono sottrarsi: l’umanità non è data e garantita biologicamente; esige invece di essere costruita culturalmente. Essa non è un presupposto, se non in minima parte; è invece un telos, una meta, un qualcosa che va cercato (e non è detto che venga raggiunto): più radicalmente un qualcosa che va inventato. Se è qualcosa che va costruito, si pone in primo luogo il problema di come vada costruito: con quali mezzi e ispirandosi a quali modelli? Esistono modelli di umanità (e se esistono dove sono, in quali ambiti sono reperibili), oppure le culture hanno da inventarsi questi stessi modelli? In secondo luogo, se l’umanità è qualcosa che va di volta in volta costruito – secondo i contesti, le situazioni, le epoche –, l’umanità è pure qualcosa che rischia di essere smarrito. Se infine non esistono modelli assoluti, o comunque sufficientemente garantiti, di umanità, allora ciò che le culture – o meglio i gruppi al loro interno – costruiscono non sono altro che proposte mol-

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to discutibili, contestabili, revocabili, tentativi più o meno sapienti o maldestri e soprattutto “errori” inevitabili. «“Cosa dobbiamo fare per mantenerci uomini?” La domanda – sosteneva Margaret Mead (1962: 168) – è antica quanto l’umanità stessa». Ed è una domanda che tradisce non già un interesse meramente speculativo sulla natura umana, bensì una preoccupazione relativa al “mantenimento” dell’umanità. Molto prima che esistessero filosofi che si occupassero della questione, uomini coi capelli incolti e il corpo sporco di fango compresero che la loro natura umana correva il rischio di essere perduta, che era fragile, che doveva essere salvaguardata con offerte, sacrifici, proibizioni e avrebbe dovuto essere oggetto di cure da parte di tutte le generazioni avvenire (Mead 1962: 168).

L’umanità è “oggetto di cure” continue, fin dalle origini (se così possiamo esprimerci), ben prima che nascessero i filosofi. La “cura”, il prendersi cura, è precisamente la “cultura” di cui parlano gli antropologi; e la cultura è in prima istanza “cura dell’umanità”; è un “fare” umanità prendendosi cura di essa; è un fare esseri umani provando, ricercando e accudendo la loro umanità. Provando a modellare e preservare la loro umanità non solo con «offerte, sacrifici, proibizioni», ma anche con atti forse in apparenza «più insignificanti», badando cioè ai «minimi particolari del modo di comportarsi e delle abitudini: il genere dei cibi, l’ora e i compagni dei pasti, i piatti in cui si mangia, diventano talvolta elementi ai quali l’uomo sente legata la propria umanità» (Mead 1962: 170). Forse una correzione è opportuna all’immagine, che

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la Mead ci offre, degli uomini dai capelli incolti e dal corpo sporco di fango: anche questi uomini avranno avuto cura di se stessi sotto il profilo estetico (nonostante i capelli incolti o il fango sul corpo); anch’essi avranno cercato di modellare in qualche modo il loro corpo. “Fare umanità” significa anche intervenire esteticamente sul corpo lasciandovi segni di umanità e di bellezza. La bellezza è una ricerca di umanità. Nessun imperativo strumentale, nessun bisogno di sopravvivenza, impone agli esseri umani di modellare il proprio corpo nei modi stravaganti di cui diremo tra poco. Spesso, anzi, i corpi vengono modellati in maniera tale da configurarsi semmai come un ostacolo alla realizzazione di obiettivi di ordine pratico; e, in ogni caso, il dispendio di tempo, di energie e di sofferenze è tale da non potersi giustificare in una visione puramente strumentale della cultura. È un altro l’imperativo a cui si obbedisce, e lo potremmo definire come un imperativo essenzialmente antropo-poietico. In ogni tempo e luogo, le culture umane paiono essere impegnate soprattutto nell’elaborare modelli e forme, che sono nello stesso tempo canoni di bellezza e di umanità. Se si tratta di inventare e costruire umanità, è inevitabile che questa venga “incorporata”, “in-segnata” sul corpo, ovvero che il corpo ne parli, ne sia la manifestazione visibile, tangibile. In questa prospettiva, si può cogliere meglio il significato dell’osservazione di Arnold Van Gennep, secondo il quale nelle varie società e nelle varie epoche «il corpo umano è stato trattato come un semplice pezzo di legno che ciascuno dispone e sistema a suo modo» (Van Gennep 1981: 63), o meglio che dispone e sistema secondo i criteri di umanità e i canoni di bellezza che es-

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si implicano. Ogni gruppo sociale – potremmo dunque aggiungere – modella e organizza il corpo imprimendovi i segni dell’umanità che gli è propria o che, comunque, intende realizzare. È significativo infatti sottolineare che molto spesso le manipolazioni del corpo sono collegate ai rituali di iniziazione: lì, dove si fabbricano esseri umani (o dove si pensa che essi debbano nascere socialmente), si provvede a lasciare segni della nuova o raggiunta forma di umanità. Tenendo conto di questa marchiatura o foggiatura del corpo umano, ci si fa spesso l’idea che i rituali di iniziazione funzionino un po’ come laboratori o fabbriche da cui verrebbero sfornati tipi umani uniformi. È stato Raymond Firth (1976: 220) a evocare in effetti l’immagine della fabbrica sociale: simili a una materia prima allorché esce da una fornace, i giovani «sono percossi, tagliati, fatti roteare, torti, riscaldati per farne un attrezzo adatto all’uso sociale… Ma la società» – egli sostiene – «non è una catena di montaggio», e i rituali di iniziazione – possiamo ulteriormente precisare – non si limitano affatto a riprodurre modelli già dati: proprio a causa del dolore, spesso “disumano”, che comportano, essi si presentano soprattutto come momenti di consapevolezza e di riflessione, da cui possono anche sorgere «configurazioni nuove di idee e di rapporti» (Turner 1976: 127). Appena prima di procedere all’operazione della circoncisione, che anche per i Nande assume in gran parte un significato estetico, i circoncisori rivolgevano alla divinità Katonda una domanda: Omundu, niki?, “un uomo, che cos’è?”. Alla luce di questa domanda, posta in modo così inquietante e drammatico proprio all’inizio di un rituale deliberatamente antropo-poietico, si può capire come le operazioni di incidere, segnare, mo-

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dellare il corpo non abbiano tanto il significato di riprodurre meccanicamente (secondo un vieto stile industriale, da noi proiettato sugli altri) un modello di umanità già dato, quanto piuttosto quello di ricercare di continuo il senso dell’umanità. Se poi teniamo presente che la modellazione del corpo non si circoscrive – presso gli altri come da noi – ai rituali di iniziazione, ma occupa vasti settori della vita quotidiana (a cominciare, per esempio, dai rituali dell’igiene personale e dalla scelta di abiti e acconciature), ci rendiamo conto che la ricerca di forme proponibili e accettabili, ma anche inedite e innovative, di umanità impegna costantemente gli esseri umani. La “moda” relativa ai diversi tipi di abbigliamento, di acconciatura e foggiatura del corpo è un fenomeno che nella nostra società ha assunto – com’è del tutto evidente – proporzioni enormi. La moda, con la costante e irrinunciabile ricerca delle variazioni e dei cambiamenti che la caratterizza, non è però affatto esclusiva della nostra epoca e della nostra società. Possiamo anzi dire, in un certo senso, che la moda – intesa proprio come ricerca incessante delle variazioni – rientri tra gli “universali culturali” che più facilmente emergono nell’esplorazione antropologica delle forme di umanità. La stessa strabiliante rilevanza economica che la moda ha assunto nella nostra società – con i vari tipi di “sacrifici” e di “sofferenze” che essa comporta – ci fa intuire che si tratta di un fenomeno dalle profonde radici antropologiche (e antropo-poietiche) e al quale, in maniera quasi involontaria e inconsapevole, si annette un’importanza eccezionale. Vi è nella moda una continua insoddisfazione per le forme precedenti e un’incalzante ricerca di soluzioni alternative (sia di stili, sia materiali). Questo

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doppio aspetto fa sì che la moda si presenti come il regno dell’effimero, oltre che dell’apparenza, e nella nostra civiltà effimero e apparenza risultano concettualmente o idealmente svalutati rispetto a ciò che riteniamo essere permanente e sostanziale. Ma che cosa non si è disposti a “sacrificare” per la moda, ancorché effimera e apparente? La moda, una ricerca per sempre inappagata di forme effimere e apparenti di umanità, proprio così esercita forse il suo fascino più profondo. Non si fa, non si costruisce umanità soltanto attraverso la moda: su altri livelli (si pensi soprattutto alla religione nel nostro tipo di civiltà) si cerca di costruire in modo assai più durevole. Ma la moda – in ciò consiste probabilmente il suo fascino antropologico – mette in scena, esalta ed esaspera da un lato l’insoddisfazione che, prima o poi, ogni forma di umanità, costruita in modo effimero o durevole, è costretta a generare per lo meno sul piano estetico e dall’altro la ricerca incessante dell’innovazione, dell’esplorazione di altre forme e modelli. I Caduveo del Sud del Brasile – incontrati da LéviStrauss nel 1935 e dal pittore italiano Guido Boggiani quarant’anni prima – colpiscono per la raffinata arte grafica che si esprime soprattutto attraverso le pitture facciali. Tra i Caduveo gli uomini si danno alla scultura (soprattutto lignea), mentre le donne si dedicano alla pittura e alla decorazione (di ceramiche e di pelli animali, nonché di corpi e di volti umani). Come riferisce Lévi-Strauss, «il loro volto, e a volte il loro intero corpo, è coperto da una rete di arabeschi asimmetrici alternati a motivi di una sottile geometria», quali possono essere «spirali, esse, croci, losanghe, greche e volute, combinate in tal maniera che ogni opera possiede un carattere originale» (1960: 177-78). Lévi-Strauss confessa

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di essersi posto alla ricerca dei significati di questi motivi, ma i Caduveo da lui interpellati «dicono di non sapere o di aver dimenticato» (1960: 179). L’unica motivazione addotta è – qui, come del resto molto spesso anche altrove – di ordine puramente estetico: «oggi i Caduveo si dipingono soltanto per essere più piacenti». Ma anche un tempo, quando furono descritti dal missionario gesuita Sanchez Labrador (vissuto tra loro nel decennio 1760-1770), pare si trattasse soprattutto di una «moda», a cui si dedicavano di preferenza le giovani donne. Lévi-Strauss descrive la paziente opera della pittrice che, armata di una sottile spatola di bambù imbevuta con succhi di frutta o di foglie selvatiche, «improvvisa sul vivo, senza modello, né abbozzo, né punto di riferimento» (1960: 178). La pittrice lavora sul viso di una compagna, ornando il labbro superiore con motivi a spirale; poi dividendo il viso con un tratto verticale e con altri orizzontali procede mediante una decorazione libera che «non tiene conto della posizione degli occhi, del naso, delle guance, della fronte e del mento, sviluppandosi come su un piano ininterrotto». La libertà, l’improvvisazione, la variazione individuale sia pure entro uno stile tradizionale sono ben sottolineate da Lévi-Strauss, il quale afferma: «su 400 disegni raccolti nel 1935, non ne ho mai trovati due uguali». La “moda” delle donne caduveo, se affascina Boggiani e Lévi-Strauss, suscita invece una reazione di rifiuto e di insofferenza nel missionario gesuita del Settecento: questo alterare l’apparenza del volto umano non è forse una manifestazione di «disprezzo dell’opera del Creatore» (Lévi-Strauss 1960: 179)? Perché questo voler trarre in «inganno» (ingannare la fame o ingannare il nemico: queste erano le ipotesi del missionario)? E in

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ogni caso, perché perdere «giornate intere a farsi dipingere, noncuranti della caccia, della pesca e delle loro famiglie»? Questi erano in effetti i “sacrifici” imposti dalla “moda” caduveo e che i Caduveo (uomini e donne) erano disposti ad accettare liberamente: nessun potere – se non appunto quello della “moda” – imponeva loro di perdere tutto quel tempo. Tanto più che – come è bene ricordare – l’arte caduveo è del tutto effimera: «dopo pochi giorni» le pitture, che un tempo le donne eseguivano sul volto sia degli uomini sia delle altre donne, dovevano «essere rinnovate» (Lévi-Strauss 1966a: 281). Il sacrificio in termini di tempo della “moda” caduveo era continuo. Non è stupido tutto ciò, soprattutto se si pensa che questa moda sostituisce – come scriveva Sanchez Labrador – «alle grazie della natura» una “artificiosità” che egli giudicava brutta (Lévi-Strauss 1960: 180)? Lo stesso Lévi-Strauss sottolinea questa opposizione tra la «armonia naturale» del volto da un lato e la «armonia artificiale della pittura» che vi si sostituisce con la sua «sistematica asimmetria» (1966a: 284). «A che cosa, dunque, serve l’arte caduveo», la quale, con la sua artificiosità, «deforma effettivamente un volto vero» (1960: 183; 1966a: 184)? Perché “deformare”? Perché preferire un’asimmetria artificiale, per giunta caduca ed effimera, a una simmetria naturale già data e permanente? Ancora una volta, non è “stupido” tutto ciò? Ma per i Caduveo, stupidi erano Sanchez Labrador e i suoi compagni di religione. «“Perché siete così stupidi?” domandavano gli indigeni ai missionari. “E perché siamo stupidi?” rispondevano questi. “Perché non vi dipingete come fanno gli Eyguayegui”», cioè gli stessi Caduveo (Lévi-Strauss 1960: 179). Con questa teoria della stupidità, i Caduveo danno in effetti una risposta: è la pittu-

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ra del volto ciò che consente di essere “umani”, di superare la stupidità naturale del bruto a cui altrimenti l’uomo sarebbe assimilabile. Non hanno molta importanza i motivi che le donne improvvisano con le loro pitture effimere: importante è la pittura in quanto tale, la quale conferisce «all’individuo la sua dignità di essere umano», esprimendo così il passaggio da una condizione naturale, per la quale non sarebbe diverso dagli altri animali, a una condizione in cui, attraverso la cultura, egli dà – o pretende di dare – una forma compiutamente umana, che lo pone a parte rispetto agli altri esseri della natura (Lévi-Strauss 1960: 183). Del resto, non sono soltanto i Caduveo ad attribuire alla decorazione del corpo questa funzione antropo-poietica (anche Sanchez Labrador sottolinea «l’aspetto prometeico di questa arte selvaggia» [Lévi-Strauss 1960: 180]); in altri contesti e in altri continenti troviamo infatti la stessa convinzione. «Per i Nuba del Sudan solo la capacità di decorarsi è il proprium specificamente umano, mentre nemmeno il linguaggio lo è (un tempo anche le scimmie lo possedevano); per i Bafia del Camerun un uomo senza scarificazioni non è diverso dai maiali e dagli scimpanzé» (Cardona 1981: 197). Sarà una stupida illusione, questa; ma è condivisa da molte società, ed è la motivazione più profonda dei “sacrifici” (dolori fisici, sofferenze morali, dispendi di energie, tempo e denaro) che in tutte le parti del mondo le mode antropo-poietiche richiedono agli esseri che vogliono, tentano, si ingegnano di diventare umani, inseguendo particolari canoni di bellezza.

IV.

La modernità nel mucchio

1. Mode antropo-poietiche: un’introduzione alla modernità Le mode antropo-poietiche sono molte e svariate. Le donne caduveo dipingono i loro arabeschi sui volti per renderli umani; ma un tempo esisteva tra loro anche la tecnica del tatuaggio (Lévi-Strauss 1960: 178). Non sappiamo per quale motivo i Caduveo abbiano abbandonato il tatuaggio – una tecnica che fissa in modo indelebile i segni – a tutto vantaggio di una tecnica di pittura i cui prodotti sono invece molto effimeri. Tenendo conto di questo e di altri criteri, può essere significativo dare uno sguardo generale alla molteplicità di interventi estetici sul corpo. Prima di cominciare questa carrellata, la quale vuole avere soprattutto un carattere orientativo, è opportuno notare come abbellire, ornare e quindi foggiare il corpo molto spesso ci appaiano attività del tutto superflue e su cui quindi non sarebbe il caso di soffermarsi più che tanto. Ma una spia della loro importanza è data dal fatto che sono attività esplicitamente previste tra i significati del verbo latino colere, da cui proviene il nostro termine “cultura”. Colere non è

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soltanto “insediarsi” in un certo luogo, “abitare” un territorio, e quindi anche “coltivarlo”; colere è anche “ornare” il corpo, curarlo per renderlo bello, così come significa rivolgere un “culto” a una qualche divinità. Sarebbe avveduto mantenere tra i significati di cui si carica l’uso antropologico di “cultura” la componente che qui abbiamo convenuto chiamare “moda antropo-poietica”, come una delle attività che maggiormente qualifica la cultura umana (oltre a quella abitativa o ecologica e a quella cultuale e religiosa). A conferma di ciò, è pure importante ricordare che la presenza di oggetti ornamentali, insieme ai coloranti quali ocra e manganese, e quindi l’esigenza di interventi estetici sul corpo, sono attestati in epoche assai lontane, come per esempio, per quanto riguarda il Paleolitico europeo, verso la fine del Mousteriano, e quindi verso il 35.000 a.C. (LeroiGourhan 1977, I: 222). L’ornamento, per quanto superficiale, effimero e addirittura superfluo possa sembrare, si propone dunque come una componente sostanziale e permanente della cultura. Sotto questo profilo, si può dire che qui non c’è una divaricazione qualitativa tra sostanza e apparenza, tra ciò che uno è e ciò che uno appare: una differenza di strati che separi una più vera e autentica umanità e una mera sembianza, ciò che davvero conta e ciò che invece sarebbe del tutto superfluo. Le mode hanno a che fare con l’apparenza (l’apparenza del corpo, nel nostro caso); ma le abbiamo definite antropo-poietiche perché il presupposto è che ciò che si fa sull’apparenza decide in buona misura la sostanza. Detto in altri termini, sostanza e apparenza sono assai meno lontane tra loro di quanto normalmente si pensi. E questo succede, perché per un verso la sostanza è già lì nell’apparenza, e per l’al-

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tro verso l’apparenza si carica di significati importanti e decisivi, tali da divenire essa stessa sostanza. In una prospettiva antropo-poietica, la sostanza culturale coincide in buona misura con i modi (o le mode) dell’apparenza e viceversa, anche se – beninteso – il fare umanità non si limita affatto alle mode relative al corpo. Del resto, già nella filosofia di Friedrich Nietzsche l’apparenza diviene sostanza: Che cos’è ora, per me, “apparenza”! In verità, non l’opposto di una qualche sostanza… una maschera inanimata che si potrebbe applicare ad una X sconosciuta e pur anche togliere! Apparenza è per me ciò stesso che realizza e vive… Fin dal principio l’apparenza ha finito quasi sempre per diventar la sostanza, e come sostanza si è resa operante (Nietzsche 1965: 75, 79).

Potremmo aggiungere: “operante” in senso antropo-poietico, nel senso di fare, o di contribuire a fare, umanità. Nelle mode antropo-poietiche relative al corpo le società umane fanno veramente di tutto: aggiungono, tolgono, tagliano, inseriscono, dilatano, allungano, accorciano; ogni mezzo tecnico e anche ogni materiale è buono per modellare, cambiare, trasformare il corpo. A quanto pare, le società umane si rifiutano di accettare il corpo così com’è; non sopportano di lasciare il corpo nella sua condizione contingente, di abbandonarlo a un semplice sviluppo naturale. Se questo succede, o se si vuole che questo succeda – come, per esempio, tra i cinici dell’antica Grecia, tra i monaci siri del IV-VI secolo d.C. o tra i “rinuncianti” dell’India –, è perché si tratta di una esplicita contestazione della “cultura” domi-

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nante a cui si oppone (o ci si illude di opporre) un atteggiamento puramente “naturale”. E comunque, pure in questi casi, è difficile, anzi praticamente impossibile, che non si verifichi un qualche intervento culturale sul corpo. Anche nelle società in cui il corpo è lasciato praticamente nudo, una qualche operazione di aggiunta o di eliminazione viene di solito eseguita. Proponiamo allora a questo punto una serie di mode antropo-poietiche, ossia di interventi estetici sul corpo compiuti soprattutto per modificare la sua parvenza (Borel 1992). Già da questa tipologia alquanto sommaria ci rendiamo conto dell’impegno che gli esseri umani pongono per trasformare se stessi, agendo ora sull’esterno ora sull’interno del corpo, lasciando segni ora effimeri, ora duraturi e indelebili, con operazioni che si ripetono o che invece vengono eseguite una volta per tutte. Sono quattordici le categorie di mode o di interventi che qui vengono illustrate, con l’avvertenza che un atteggiamento più analitico farebbe aumentare senza difficoltà il loro numero, così come un atteggiamento più sintetico lo ridurrebbe di molto. Categoria I – Costruire oggetti esterni, farli indossare e poi togliere dal corpo. Abbigliamento (abiti, calzature, copricapi), monili, maschere. Al corpo possono essere fatti indossare abiti, i quali non hanno soltanto una funzione protettiva e adattativa, ma anche comunicativa e simbolica. Tra gli Inuit – per i quali la funzione protettiva dell’abbigliamento è preponderante – le donne provvedono a confezionare con cura gli abiti maschili e femminili, secondo modelli differenziati per l’uomo e per la donna. Tra i Nande, gli abiti tradizionali degli uomini sono di origine vegetale, essendo fatti con la scor-

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za dell’albero mukimba (un albero di foresta), mentre quelli femminili sono di origine animale, essendo confezionati con pelli di capra. Questi abbinamenti sono sì arbitrari o convenzionali, ma niente affatto casuali: nella cultura nande vi sono infatti molti nessi simbolici che collegano gli uomini agli alberi (soprattutto agli alberi della foresta, alti ed eretti, contro cui combattono) e le donne alle capre (contro cui vengono scambiate nella compensazione matrimoniale). Sul corpo, sia esso nudo o vestito, si depongono molto spesso monili od oggetti di vario genere. Gli astucci penici portati dagli uomini della Nuova Guinea e della Melanesia sono di notevoli dimensioni (non si può certo dire che abbiano davvero la funzione di nascondere) e vengono indossati dopo i rituali di iniziazione. Le maschere appartengono anch’esse a questa prima categoria di interventi, che consiste comunque nel “sovrapporre” al corpo un qualche oggetto esterno. Qui l’intervento costruttivo, di tipo artigianale, non viene eseguito sul corpo, ma su oggetti del tutto esterni, i quali però – una volta indossati – ne modificano radicalmente l’aspetto. In altri termini, non si tratta solo di costruire un prodotto artigianale, in quanto le operazioni fondamentali sono anche quelle del mettere e togliere una sorta di «artificio amovibile» (Borel 1992: 49), la cui presenza/assenza muta decisamente la configurazione esterna del corpo, il suo apparire (un corpo in costume da bagno non è lo stesso che in abito da sera). Categoria II – Togliere dal corpo sporcizia, grasso, odori mediante lavaggi, raschiamenti. Toilette. Gli interventi di questa seconda categoria implicano un contatto diretto con il corpo, con la sua epidermide e con i

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suoi orifizi al fine di eliminare escreti e secreti. La pulizia del corpo a noi sembra un’attività del tutto “naturale”, rispondente a criteri ed esigenze dettate dalla natura e dal buon funzionamento dell’organismo; ma per convincersi del suo significato “culturale” è sufficiente pensare quanto lungo, e persino penoso, sia il suo apprendimento a cominciare dall’infanzia. L’igiene è parte integrante del nostro tipo di educazione; ma l’igiene – come ha dimostrato Mary Douglas (1975) – non è affatto soltanto una questione di progresso scientifico (acquisizione di nozioni circa l’esistenza di batteri, per esempio): essa è l’espressione di una visione “cosmologica”, in cui ordine del mondo, della società e del corpo si combinano e si richiamano a vicenda. Il verbo greco kosmeo significa “dispongo”, “metto in ordine”, ma anche “orno”, “abbellisco”; corrispondentemente il termine kosmos indica “ordine”, “ordine politico”, “ordine del mondo”, “universo”, “ornamento”, “abbellimento”: la stessa radice è alla base dell’espressione dei concetti di ordine dell’universo, di ordinamento della società e di ornamento del corpo individuale. Decidere come comportarsi nelle faccende dell’igiene personale significa modellare in un certo modo il corpo e, nel contempo, le relazioni sociali in cui è inserito. Sembrano cose di poco conto, ma la “cosmesi” (vedi la categoria successiva) è anch’essa collegata alla “cosmologia”. Categoria III – Spalmare, dipingere sulla superficie esterna della pelle. Abbronzatura, cosmesi, pitture corporali. Questa terza categoria implica un intervento diretto sulla superficie cutanea, su cui si spalmano sostanze di vario genere o in modo uniforme oppure secondo particolari disegni e modelli. L’abbronzatura,

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tanto apprezzata nella nostra società, comporta una modificazione nella pigmentazione della pelle a cui concorrono i raggi ultravioletti del sole o di lampade, e creme apposite. Inoltre, la cosmesi – soprattutto femminile – implica un lavoro accurato e sapiente di pittura del corpo e specialmente del volto: «davanti al suo specchio la donna si fa pittrice…» (Borel 1992: 59), così come grandi pittrici – lo abbiamo visto – erano le donne caduveo con i loro disegni geometrici dipinti sul volto. Questo tipo di interventi produce effetti trasformativi di una certa durata, in quanto si lavora sul corpo stesso, non su oggetti esterni che vengono sovrapposti all’occorrenza sul corpo; ma, mentre gli oggetti esterni (categoria I) hanno una loro autonomia che consente una prolungata riutilizzabilità, gli interventi della categoria III (come, del resto, quelli della categoria II) sono decisamente più effimeri ed esigono perciò di essere ripetuti. Categoria IV – Modellare elementi organici esterni, che crescono dal corpo: peli, capelli, unghie (annessi della pelle). In questa quarta categoria possiamo collocare gli interventi che, pur operando sempre sulla parte esterna del corpo, non si limitano a spalmare sostanze sull’epidermide, ma comportano modifiche temporanee e reversibili di elementi che crescono normalmente sull’organismo: taglio e cura della barba, depilazioni parziali o integrali, temporanee o definitive, acconciature dei capelli, trattamenti delle unghie sono esempi di questo tipo di interventi. Le mode trasformative sono molte, sia a proposito di barba, sia a proposito di capelli, i quali vengono in effetti acconciati nelle fogge più strane. Vi sono società – come certi Indiani dell’Ameri-

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ca – che provvedono a una depilazione integrale; altri invece – come i Sikh, una setta religiosa dell’India – non tagliano per niente la barba, che poi annodano sotto un turbante; altri ancora – come i mandarini cinesi – si lasciano crescere indefinitamente le unghie, a tal punto da non poter utilizzare le mani (Borel 1992: 54). Queste prime quattro categorie di interventi sono caratterizzate dalle dimensioni dell’esteriorità e della reversibilità, le quali del resto si implicano a vicenda: quanto più un intervento è esterno, tanto più è reversibile. Agendo nello spazio esterno al corpo (potremmo dire “attorno al corpo”, nel caso della categoria I), oppure sulla sua superficie più esterna (categorie II e III) o ancora sulle parti meno vitali degli annessi della pelle che crescono sul corpo (categoria IV), questi interventi non comportano in genere molta sofferenza. Le categorie che tra poco prenderemo in considerazione (a partire soprattutto dalla categoria VI) sono invece contrassegnate da un’irreversibilità più o meno netta, da una maggiore penetrazione all’interno del corpo e quindi anche da un aumento del dolore. Ma vi è ancora una categoria per così dire intermedia. Categoria V – Azione dall’esterno tesa a modificare cute, connettivo sottocutaneo e tessuto muscolare. Massaggi, elettrostimolazione, atletica, sport, body building. Si tratta di una categoria di interventi molto praticati nella nostra società, mirati a modellare la struttura muscolare e con essa anche l’epidermide. Le modificazioni possono essere anche vistose (come nel caso del body building) e alquanto durature, ma non raggiungono l’irreversibilità che è caratteristica esclusiva delle categorie

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che vengono dopo. La continuità e la ripetizione degli esercizi risultano perciò indispensabili. Soprattutto per le categorie che seguono vale – in maniera forse imprevista e drammatica per chi abitualmente lo usa nei paesi europei – il detto del Meridione italiano «Chi bella vuole apparire, ogni male deve soffrire», che corrisponde del resto al vecchio adagio «Bisogna soffrire per essere belli» (Borel 1992: 34). Perché il dolore a fini estetici? Quale risposta è più plausibile: il dolore come prezzo che purtroppo non si può fare a meno di pagare, allorché la ricerca della bellezza si spinge al di là dei confini delineati da queste prime categorie; oppure si tratta di una ricerca del dolore, insieme all’esigenza della trasformazione estetica? Nelle società in cui è possibile riscontrare gli interventi che prenderemo ora in considerazione (e sono molte), tutto avviene come se le modifiche e gli abbellimenti delle categorie precedenti non fossero sufficienti, come se l’esigenza di trasformare si facesse più imperiosa e richiedesse una penetrazione maggiore e più duratura nel corpo umano. Categoria VI – Azione dall’esterno tesa a modificare la struttura ossea. Crani schiacciati, piedi ridotti, toraci assottigliati, colli allungati. La sesta categoria del nostro schema è infatti data da interventi che, pur agendo dall’esterno (per lo più mediante compressione), comportano una modifica spesso irreversibile di alcune parti della struttura ossea dell’organismo umano: fasciature e assicelle con cui, in certe zone dell’Africa, dell’America o dell’Oceania, si provvede ad appiattire o allungare il cranio dei bambini; allungamento del collo (che però in realtà è un abbassamento di costole e clavicole [Borel

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1992: 95]) mediante progressiva aggiunta di anelli nel Sud-Est asiatico; riduzione dei piedi femminili in Cina; uso dei corsetti per assottigliare la cassa toracica delle donne europee nei secoli della modernità, sono tutti casi molto esemplificativi e ben documentati. Categoria VII – Interventi interni alla cavità orale e modifica irreversibile di strutture ossee. Limatura, scheggiatura, scultura, avulsione dei denti. In questa categoria possiamo raggruppare gli interventi che provocano modifiche irreversibili di parti anatomiche ossee, mediante utensili e tecniche che penetrano maggiormente all’interno dell’organismo umano, quali possono essere la scheggiatura, la limatura a punta dei denti, o la loro avulsione. Molto diffuse in Africa, oltre che in America (Maya e Aztechi), le tecniche di modellazione dei denti si combinano spesso con l’idea del linguaggio. Secondo i Tiv della Nigeria, «avere i denti scheggiati aiuta a imparare le lingue», oltre che essere un segno di bellezza (Bohannan 1988: 82). Categoria VIII – Perforazione e inserimento nel corpo di oggetti esterni. Piattelli labiali, perforazione del lobo e del setto nasale, piercing. Un’ottava categoria può essere dedicata agli interventi che, oltre a provocare modifiche irreversibili, spesso mediante perforazione, prevedono l’inserimento di oggetti esterni: piattelli labiali, perforazione del lobo auricolare e perforazione del setto nasale con relativo inserimento di oggetti ornamentali, pratiche di piercing assai diffuse anche nella nostra società. L’inserimento di denti finti e dentiere, o di lenti a contatto a scopo estetico, può essere fatto rientrare in questa categoria, anche se non comporta sem-

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pre le modifiche irreversibili evocate prima. I Suya del Brasile centrale (gruppo Gê) sostengono che l’uso di piattelli labiali e di dischi auricolari, così come un particolare stile di canto sono loro caratteristiche distintive, che li rendono «mê, ovvero interamente umani» (Seeger 1975: 213). Come si vede, anche per i Suya occorre perforare labbra e orecchie, inserendovi oggetti particolari, per acquisire una “piena umanità”. Categoria IX – Penetrazione sottocutanea di sostanze coloranti ed elaborazione di disegni. Tatuaggi. Il tatuaggio merita una categoria a parte, in quanto, se da un lato è una modifica irreversibile ottenuta mediante un intervento penetrante (categorie VI e VII), dall’altro esso riprende il tema delle pitture corporali (categoria III). Infatti, il tatuaggio (la parola inglese tatoo deriva dalla radice tahitiana tatau, “infliggere ferite”) non si limita a modificare certe parti dell’organismo o a inserirvi oggetti particolari: esso è la rappresentazione di disegni o di figure, ottenuta con strumenti a punta che fanno penetrare sotto la pelle una certa quantità di sostanze coloranti. Il tatuaggio è conosciuto ormai universalmente e da diverso tempo è praticato pure nella nostra società, anche se, da un punto di vista etnografico, i casi più interessanti appartengono all’Estremo Oriente (Giappone) e alla Polinesia (nelle isole Marchesi, gli uomini aristocratici avevano tutto il corpo coperto di tatuaggi). Tra i Maori, il tatuaggio era in gran parte riservato agli uomini nobili e liberi, ed era collegato a un lungo processo di acquisizione di un grado più completo di umanità: un uomo senza tatuaggio è nudo, simile a un’asse liscia (Gathercole 1988: 172). Se il primo tatuaggio veniva praticato in occasione della pubertà, do-

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vevano passare parecchi anni prima che il moko (questo è il nome del tatuaggio maori) venisse completato. Simbolo dell’unicità e irripetibilità dell’individuo, il moko era pure segno di una raggiunta completezza: «senza un moko completo» gli uomini maori «non sono persone complete» (Gathercole 1988: 175). Categoria X – Tagli profondi, inserimento di sostanze, cicatrici che riproducono disegni. Scarificazioni. Se il tatuaggio può essere considerato – quanto ai suoi effetti – come una pittura corporale indelebile, le scarificazioni sono invece assimilabili a sculture corporali. Tipiche delle popolazioni con pelle più scura (Africa, Melanesia, Australia), esse sono eseguite con incisioni piuttosto profonde e facendo ricorso a rasoi e coltelli affilati: nelle ferite così prodotte si inseriscono inoltre sostanze che ritardano la cicatrizzazione, così da ottenere disegni in rilievo. In questa categoria possiamo collocare anche le cicatrici che gli studenti tedeschi ancora nei primi decenni del Novecento si procuravano nei duelli e che esibivano come prove di coraggio. Per i tatuaggi e per le scarificazioni è però difficile sottrarsi all’idea di tecniche artistiche estremamente raffinate, che comportano un’abilità chirurgica (di vera e propria chirurgia estetica), nonostante la sofferenza che esse comportano e la repulsione che per questo possono suscitare nel nostro tipo di valutazione. Paul Bohannan aveva chiesto a un gruppo di Tiv se la scarificazione non fosse una pratica “eccessivamente” dolorosa. «Certo che è dolorosa» – gli fu risposto – ma «quale ragazza guarderebbe a un uomo, se le sue cicatrici non gli fossero costate sofferenza?» (Bohannan 1988: 82). Anche per i Tiv, bellezza e umanità possono essere acquisite soltan-

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to con la sofferenza. Con le scarificazioni siamo ormai entrati nel gruppo di categorie di ordine chirurgico, con i loro interventi profondi, dolorosi e irreversibili. Categoria XI – Chirurgia genitale. Modifiche chirurgiche di organi genitali maschili e femminili. Circoncisione, subincisione; intracisione vaginale, escissione della clitoride, infibulazione. È una delle categorie più drammatiche e inquietanti. Per quanto si possa accogliere – anche in questo caso – l’invito a non usare espressioni con connotazioni negative, del tipo “mutilazioni” o “deformazioni” (Rubin 1988: 13-14, il quale però si riferisce soltanto a tatuaggi e scarificazioni), è innegabile che questa categoria, più di altre, rappresenti una sfida al senso morale, così come alla comprensione intellettuale. Qui si tratta infatti di veri e propri interventi chirurgici che comportano non solo tagli e incisioni in superficie, ma modifiche radicali (e dolorosissime) degli organi genitali, sia maschili sia femminili, come l’escissione della clitoride (in una vasta zona del continente africano, dall’Africa orientale al Mali), l’infibulazione (asportazione della faccia interna delle grandi labbra e loro cucitura), l’intracisione vaginale (lacerazione praticata manualmente all’interno della vagina in alcune tribù australiane), la circoncisione (asportazione totale o parziale del prepuzio), la subincisione (taglio operato longitudinalmente nel meato urinario dell’organo maschile, in particolare presso gli Aborigeni australiani). La società moderna inorridisce di fronte a questo tipo di interventi, ma sarebbe impossibile sostenere che essa sia del tutto estranea alla manipolazione chirurgica dei genitali: sia che si tratti di malformazioni congenite, sia che si tratti di disagi psicologici, la chi-

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rurgia moderna che interviene a modificare o rimodellare genitali maschili e femminili è collocabile nella categoria XI. Si dirà, giustamente, che c’è differenza tra un individuo che soffre per malformazioni congenite o per una mancata identificazione psicologica con il suo sesso e invece le pratiche presenti in altre società, mediante cui si interviene comunque a modificare l’apparato genitale. Ma anche in questi casi gli interventi sono fatti per aggiustare e correggere, come per esempio tra i Dogon, secondo i quali la circoncisione elimina ciò che di femminile si troverebbe nel sesso maschile e l’escissione della clitoride toglie ciò che di maschile vi sarebbe nel sesso femminile (Griaule 1972: 181-89). Forse possiamo dire in generale che alla base di tutti questi interventi vi è un “disagio” profondo (avvertito ora individualmente ora collettivamente), il quale si esprime nell’impossibilità di accettare una conformazione genitale così come viene data in natura: occorre intervenire e rimodellare secondo un’immagine di sesso socialmente costruita. Categoria XII – Chirurgia estetica moderna. Le moderne pratiche di chirurgia plastica con finalità estetiche possono costituire la categoria dodicesima del nostro schema. Qui, beninteso, si cerca di attenuare il dolore con l’anestesia e di operare in ambienti più asettici; ma non è anche questa una maniera di rimodellare esteticamente il corpo tagliando, incidendo, asportando, inserendo? Non è anche la chirurgia estetica moderna un modellare, foggiare, scolpire il corpo umano (nasi, seni, ventri, glutei, guance, labbra, orecchie)? E per quanto riguarda il dolore, non sono forse una sofferenza di non poco conto l’ospedalizzazione, l’anestesia, il periodo di

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convalescenza e – non da ultimo – i costi monetari? Vi è però un aspetto importante della chirurgia estetica moderna che va messo in rilievo. Secondo France Borel, essa è «la manifestazione più violenta e più camuffata della tendenza alle mutilazioni nel mondo occidentale contemporaneo», in quanto è «nascosta sotto la copertura» della medicina ufficiale (1992: 207). Secondo Arnold Rubin, la chirurgia plastica moderna si differenzia dalle forme di interventi tradizionali, in quanto questi «tendono all’ostentazione», alla visibilità dell’intervento, mentre essa «cerca di mascherare i suoi procedimenti, realizzando un tipo di bellezza “naturale”» (1988: 16). L’obiettivo che essa persegue è quello della “naturalità”, e questo sia sul piano estetico, intervenendo là dove si pensa che la natura sia stata carente o deviante (a proposito di seni, glutei, nasi), sia sul piano tecnico, cercando in ogni modo di occultare l’intervento. Il prodotto deve coincidere con una bellezza la più naturale possibile, avendo deciso che per natura – non per cultura – seni, nasi, glutei devono avere un certo tipo di conformazione, di misure e di proporzioni. Per convincere circa la naturalità del prodotto occorre che l’intervento venga occultato: si tratta insomma di una naturalità finta, culturalmente perseguita, artefatta; ma si ritiene più importante la naturalità (ancorché finta), che non il riconoscimento della finzione. In molte delle categorie qui considerate (emblematico il caso delle scarificazioni) si fa di tutto per mettere in evidenza i segni degli interventi: le cicatrici, per esempio, vengono poste in “rilievo” (in tutti i sensi: fisico e culturale) e apprezzate sia sotto il profilo sociale, sia sotto il profilo estetico. Mentre la chirurgia estetica

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moderna persegue una parvenza di “naturalità”, altrove è proprio l’intervento “culturale” a essere invece evidenziato, così da “culturalizzare” esplicitamente il corpo sottraendolo a una condizione di degradante naturalità. I segni prodotti dalla cultura sono infatti i fattori che decidono l’appartenenza all’umanità. Tra gli Yoruba della Nigeria il concetto di ilàjù significa in primo luogo “volto segnato da linee”: e queste sono ferite, cicatrici, scarificazioni (categoria X) che vengono incise sul volto e sul corpo per segnare l’appartenenza di un individuo al suo lignaggio, per determinare il suo status sociale (Thompson 1973: 35). Ma ilàjù rinvia anche al territorio e ai segni che gli uomini vi incidono per trasformarlo e renderlo abitabile: luoghi, terreni disboscati, insediamenti, coltivazioni, sentieri, confini, linee dunque che – come quelle sul volto – significano che lì è intervenuta la cultura, la cultura yoruba (ilàjù) con la sua capacità di trasformazione e di umanizzazione. Sui corpi yoruba sono evidenti e apprezzati i segni di una finzione, nel senso che si tratta di un’umanità culturalmente costruita (finta, nel senso del latino fingere, “modellare”). Sul volto, sul dorso o sulle natiche dei clienti dei nostri chirurghi estetici non sono invece impressi i segni della nostra cultura: ci si ingegna in tutti i modi perché non venga lasciato alcun segno, e questo non segnare è il segno più propriamente perseguito dalla nostra cultura; l’ideale per noi è – a quanto pare – l’“asse liscia” disprezzata invece dai Maori. La cultura moderna, come qualsiasi altra cultura, interviene; ma si sforza di non lasciare segni, per non apparire come una cultura, come un intervento modificatore che, modificando, altera sempre in una maniera particolare. È una cultura che si camuffa, che si pone la maschera della naturalità,

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che si finge naturale. Se la cultura è di per sé finzione, artificio, qui si tratta allora di una doppia finzione, di una finzione occultata (si finge che non ci sia finzione), anziché pubblicamente ostentata. Anche da noi si “fa” umanità secondo specifiche “mode” antropo-poietiche (si scolpiscono i corpi forse più che altrove e comunque in modo pesante, incisivo, violento e con sofferenze di non poco conto), ma si stenta ad ammetterlo: in ogni caso, il risultato è tanto più apprezzato, quanto più con la sua parvenza di naturalità riesce ad occultare il “fare”, anzi quel fare tanto problematico e inquietante che è il “fare umanità”. Categoria XIII – Tipi di alimentazione e diete. A pensarci bene, il fare umanità più elementare è quello dell’alimentazione. La cura con cui in ogni società si seleziona il cibo fa capire che ciò che è in questione è esattamente il tipo o la forma di umanità che si intende realizzare. Da ciò che si ingurgita dipende in maniera sostanziale l’essere umano: non è la stessa cosa – come tutti sanno – una dieta liquida o una dieta solida, una dieta carnea o una dieta vegetariana. La componente che qui si vuole porre in luce è quella estetica. Diete e tipi di alimentazione vengono spesso selezionati – come è ampiamente dimostrato dalla nostra società – in vista dei risultati estetici che ci si prefigge di conseguire, anche a prezzo di sacrifici non indifferenti. Lo stesso fatto che di continuo si verifichino oscillazioni circa i modelli da realizzare (verso forme di magrezza o, al contrario, rotondità e robustezza) ci fa capire che qui siamo davvero nella sfera di una moda antropo-poietica. Se fin troppo ovvi sono gli esempi di modelli di magrezza nelle società occidentali, si possono citare le po-

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polazioni attuali della Polinesia, come di diverse parti dell’Africa, che coltivano al contrario il culto della grassezza. Del resto, la statuaria dei Mende della Sierra Leone sottolinea in modo inequivocabile la bellezza di figure femminili con i loro rotolini di grasso sul collo (Bargna 1998: 124, tavv. 54-55). Esiste infine un’ultima categoria di interventi culturali sul corpo, a cui nessuna società – a quanto pare – può davvero rinunciare. Categoria XIV – Trattamento del cadavere. Con questa categoria noi vediamo che le mode antropo-poietiche si spingono persino al di là del confine tra la vita e la morte. Anche quando un individuo è morto, le società non abbandonano i cadaveri dei loro defunti senza che prima attuino un qualche intervento, che può essere conservativo, distruttivo o modificatorio. È questa una categoria molto ampia, la quale meriterebbe di essere scomposta in una molteplicità di “mode”: dalla vestizione del cadavere, alla cosmesi; dalla mummificazione alla cremazione; dalle mutilazioni al cannibalismo. Qui semplicemente rileviamo come questa categoria, presa nella sua globalità, sia un’ulteriore dimostrazione del fatto che le società non possono / non vogliono astenersi dal trattare il corpo umano, persino quando esso sta per essere trascinato via dalla morte. «I riti della morte costituiscono le manifestazioni estreme delle manipolazioni» a cui il corpo viene sottoposto (Borel 1992: 64). Qui siamo ai confini dell’antropopoiesi: ancora un poco e si è costretti ad ammettere l’impotenza umana di fronte alla morte; il fare umano (e il fare umanità) si infrange irreparabilmente contro la

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morte. Ma quel poco che ancora rimane, quel margine di intervento che ancora sussiste subito dopo la morte, viene sfruttato in ogni modo per imprimere, ancora una volta, i segni di una cultura, di una concezione antropologica, di una forma di umanità. Come non ricordare che nella nostra società il trattamento del cadavere subito dopo la morte sia una delle finzioni più manifeste: il cadavere rivestito, imbellettato, trattato “come se” fosse vivo? La «lotta contro il tempo», la «lotta contro la morte», che, secondo France Borel (1992: 65), ispira un po’ tutte le manipolazioni del corpo (quelle che noi abbiamo chiamato le mode antropo-poietiche), diviene qui l’estremo tentativo di imprimere sul corpo – un corpo in disfacimento, un corpo che sta per essere inghiottito definitivamente da una natura indifferente ai “sogni” antropo-poietici – i segni della propria umanità: la lotta contro il tempo, la lotta contro la morte sono una lotta contro il venire meno della forma di umanità che ci si era impegnati di costruire. Persino i riti della cremazione e del cannibalismo funerario, con la soppressione violenta del cadavere, sono mezzi per sottrarre il corpo ai processi altrimenti inesorabili di disfacimento dell’umanità, per contrastare in maniera indiscutibile la disumanità sempre in agguato e per affermare in modo estremo e illusoriamente definitivo uno stile e un modello di umanità. 2. Per la natura, contro la cultura: non fare, ma lasciar fare La modernità europea e occidentale ha considerato di solito con fastidio, ribrezzo e orrore molte delle mode

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antropo-poietiche, con cui nelle diverse parti del mondo si dà forma all’umanità, interpretandole molto spesso come un “fare” assurdo e sacrilego. Le mode antropo-poietiche costituiscono un’introduzione alla modernità (v. paragrafo precedente), in quanto, analizzando le maniere con cui essa reagisce allo spettacolo delle più strane e inconcepibili forme di umanità, è possibile cogliere le sue opzioni di fondo. Ma le mode antropopoietiche sono un’introduzione alla modernità anche in un altro senso, in quanto vediamo che anch’essa, nonostante tutte le riprovazioni, è coinvolta e interessata da modi di “fare” strani e assurdi (se non proprio sacrileghi). Questo per dire che nemmeno la modernità è del tutto in grado di sottrarsi alle mode antropo-poietiche, all’imperativo di dare foggia all’umanità in una situazione in cui l’assenza di modelli validi e sicuri per sempre pare essere davvero la norma per tutti. Cominciamo con il ricordarci la reazione di Sanchez Labrador: per questo missionario gesuita del Settecento, i disegni sul volto dei Caduveo erano un oltraggio, un segno di «disprezzo dell’opera del Creatore» (LéviStrauss 1960: 179), il quale avrebbe assegnato non agli uomini e ai loro costumi, ma alla natura il compito di riprodurre le vere fattezze dell’umanità. Un secolo prima, nel 1650, un medico inglese, John Bulwer, aveva pubblicato un libro di grande interesse per tutti coloro – antropologi e non – che si occupano di “antropo-poiesi” e soprattutto di mode antropo-poietiche. Il titolo è davvero strabiliante e allettante: Anthropometamorphosis: Man Transform’d: or, the Artificial Changeling. Historically Presented, In the mad and cruel Gallantry, Foolish Bravery, ridiculous Beauty, Filthy Finenesse, and loathsome Lovelinesse of most NATIONS, Fashioning and al-

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tering their Bodies from the Mould intended by NATURE. Whit a Vindication of the Regular Beauty and Honesty of Nature (“Antropo-metamorfosi. L’uomo trasformato, ovvero il cambiamento artificiale storicamente presentato, nella galanteria pazza e crudele, nell’eleganza sciocca, nella bellezza ridicola, nella oscena ricercatezza e nella nauseante avvenenza della maggior parte delle nazioni, le quali modellano e alterano i loro corpi rispetto allo stampo prefigurato dalla natura. Con una rivendicazione della bellezza regolare e dell’autenticità della natura” [Bulwer 1650]). Ciò che l’autore intende indagare sono infatti le “trasformazioni” a cui gli uomini, nelle diverse parti del mondo, sottopongono il proprio corpo. È evidente che John Bulwer è attirato dalla fantasmagoria di queste trasformazioni. Ma l’obiettivo esplicito del libro non è una rassegna o una analisi antropologiche; è invece la condanna irrimediabile e senza appello delle mode antropo-poietiche. Possiamo usare tranquillamente questa espressione, perché in effetti per Bulwer si tratta di “mode” e perché attraverso queste mode l’uomo cerca non solo di trasformarsi, ma anche di costruirsi, sia pure con risultati orrendi: «Horrid, Transformed self-made Man» («l’uomo orrendo, che si trasforma e si fa da se stesso») – si legge nella spiegazione del frontespizio nella prima edizione del libro (Bulwer 1650: A4V). È molto notevole che questo medico inglese riconosca un’intenzione antropo-poietica nelle mode che concernono il corpo presso la maggior parte delle «nazioni barbare» (Bulwer 1650: 261). Ed è pure notevole l’intuizione degli effetti di deformazione, alterazione, aberrazione che ne conseguono: per Bulwer si potrebbe parlare in effetti – secondo l’interpretazione di Mary Bain

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Campbell (1996: 206) – di una «intrinseca mostruosità della “Cultura”»; il carattere artefatto delle trasformazioni che gli uomini vogliono imprimere su se stessi genera dei mostri. Ma per Bulwer non si tratta di deviazioni che sarebbero tali in rapporto ad altre deformazioni possibili (come spiegheremo meglio in seguito); bensì di alterazioni rispetto al modello naturale. Infatti, c’è per Bulwer un modello naturale dell’umanità: e questo modello, visto che c’è, va mantenuto e rispettato. Nella parte sottostante del frontespizio dell’edizione del 1653 e del 1654 sono raffigurati i rappresentanti delle diverse nazioni, che recano tatuaggi e scarificazioni (le trasformazioni, le aberrazioni); nella parte superiore un messaggio proveniente dalla nuvola divina è composto di queste parole: «Non novi illas nec sunt opera manuum mearum» («Non le conosco e non sono opera delle mie mani» [Norman 1953: 86, tav. XII; Campbell 1996: 204]). Dio disconosce dunque questi tentativi empi e scriteriati di “trasformazione” dell’umanità; e Bulwer, ponendosi ovviamente dalla parte di Dio, pensa di impiantare – come si legge nella lettera di dedica del libro – un vero e proprio «Tribunale della Natura», in cui la «maggior parte delle Nazioni», ree di «alto tradimento», verrebbero condannate per aver tradito la natura, per aver “degradato”, “contraffatto”, “sfregiato”, “sfigurato” il modello naturale dell’umanità, la «moneta» che la Natura avrebbe stampato con la sua stessa «immagine» e il suo «marchio» di proprietà sul «corpo dell’uomo» (v. anche Campbell 1996: 208). Come si possono spiegare la foga e la rabbia di Bulwer, ma anche la sua angoscia, la sua paura? Perché prendersela con tanto accanimento con fenomeni di moda, sia pure strani e assurdi, i quali si verificano ol-

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tre tutto in parti tanto lontane del mondo? Ciò che Bulwer paventa, e osserva con orrore, è la penetrazione di queste “mode antropo-poietiche”, di queste “antropo-metamorfosi” nella società contemporanea. Egli infatti si scaglia contro «le nostre Signore Inglesi, che sembrano aver preso a prestito molti dei loro vani abbellimenti cosmetici dalle Nazioni barbare» (Bulwer 1650: 260-61). Ma non è soltanto una contaminazione di costumi: è invece la penetrazione nella società contemporanea dell’idea che sta alla base di tutte queste trasformazioni, l’idea orrenda del «self-made man», dell’uomo artifex di sé, della sua natura o del suo destino. In base a questa idea, l’uomo entra in competizione con la creazione divina, ponendosi in un’alternativa demoniaca; egli pretende di sostituirsi a Dio e alla natura, finendo per creare però soltanto aberrazioni. In effetti, a parte le aberrazioni, non è di poco conto il potenziale rivoluzionario contenuto nell’idea secondo cui l’uomo sarebbe in grado di costruirsi e di foggiare se stesso in una pluralità di modi, a prescindere da un modello trasmesso dalla natura, impresso e garantito da Dio. Quali sconvolgimenti sociali e politici – oltre che estetici – potrebbero essere prefigurati da questa stramba idea, veicolata dalle mode antropo-poietiche, sorta e sviluppatasi in un mondo così effimero e in apparenza innocuo quale quello della moda? Non solo «moralisti e religiosi» sono spesso insorti in Europa «contro queste modificazioni dell’opera di Dio» (Borel 1992: 37); tatuaggi, scarificazioni e altre mode antropo-poietiche sono sempre stati oggetto di condanne e di divieti dei missionari in tutte le parti del mondo. E anche quando, al di là degli esotismi, sono prese in considerazione le mode antropo-poietiche europee, e in par-

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ticolare l’uso del corsetto, la condanna di un “formare” che va contro i dettami della natura è più che evidente. Nel 1770 esce a Parigi una brochure di un certo Bonnaud riguardante la Dégradation de l’espèce humaine par l’usage du corps à baleines (“Degradazione della specie umana a causa dell’uso del busto fatto con stecche di balena”) e nella quale si cerca di dimostrare come – «“sotto pretesto di formare”» l’uomo – in realtà lo si “imbastardisce”, in quanto è un «“andare contro le leggi della natura”» (Borel 1992: 102). Dal punto di vista di molti rappresentanti della modernità, l’antropo-poiesi, specialmente se considerata nei suoi aspetti di moda, è ributtante e condannabile: il suo “fare” (“formare” o “trasformare”) è inevitabilmente un “contraffare”. Dio e la natura – per essere più precisi, Dio, io e la natura – sono gli alleati forti della modernità nella sua lotta contro i “costumi”, contro ciò che già prima degli antropologi (si vedano Voltaire e Herder nel Settecento) si sarebbe chiamata la “cultura”. La modernità diffida dei costumi: essa diviene tale, si considera e si autoafferma come modernità, con la presa di distanza non soltanto nei confronti di questa o quella tradizione, di questi o quei costumi, ma nei confronti delle tradizioni e dei costumi in generale. Sotto il profilo antropologico, la modernità è anch’essa una “cultura”, ma è una cultura che pretende di realizzare uno stato – una condizione di umanità – dominato non da una qualche cultura umana, bensì dalla natura, dalla conoscenza della natura. La modernità vuole andare oltre le culture, le forme particolari di umanità. Essa non vuole essere una forma particolare di umanità tra le tante; pretende invece di essere diversa da tutte le altre forme di umanità,

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in quanto scopre, porta alla luce e, in questo senso, realizza le strutture naturali dell’umanità. Nel 1620, il filosofo inglese Francis Bacon sostiene che occorre «rinnegare e spazzar via tutti questi idoli», cioè gli idola che, generatisi dalla società, dai costumi, dal linguaggio, oltre che dalle aberrazioni proprie dell’individuo, offuscano la mente e impediscono «l’ingresso nel regno dell’uomo» (Novum Organum I, 68; 1968: 42); occorre che l’intelletto venga «completamente liberato e purificato» da queste opinioni fallaci, così da poter scorgere le «idee», cioè le «tracce veraci» impresse da Dio nelle cose (I, 68 e 23; 1968: 42 e 16). Occorre esplorare con mente libera la realtà e tramite la scienza porsi a contatto diretto con la natura; soltanto così viene garantito il «regno dell’uomo», quale si può costituire finalmente nell’«epoca moderna» (I, 72; 1968: 47). In questo modo, il sapere della modernità risulta concepito non come un sapere che fa, bensì come un sapere che esplora e che scopre; ovvero un sapere che fa, ma fondandosi esclusivamente su ciò che si apprende direttamente dalla natura, senza l’intermediazione della società e del linguaggio, leggendo ciò che è scritto nel libro del mondo. Secondo Galileo Galilei, occorre infatti mettere tra parentesi gli «studi umani», con il loro carico di invenzioni, di arbitrio, di retorica e invece apprendere la «lingua» e i «caratteri» con cui «la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi gli occhi (io dico l’universo)», ben sapendo che la lingua è «matematica» e i caratteri sono «figure geometriche» e che l’autore di questo libro è Dio (Galilei 1968: VI, 232). Nel 1637, il filosofo francese René Descartes descrive nel Discours de la méthode il suo “viaggio”, la sua personale inizia-

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zione a un sapere solido, libero dai costumi e dai condizionamenti sociali, fondato sulla ragione, intesa come «lume naturale». Anche per Descartes si tratta di distruggere le vecchie e pericolanti abitazioni del pensiero tradizionale: vi è infatti opposizione tra la ragione naturale (la «roccia») da un lato e il pensiero sociale, quello dei costumi inaffidabili e arbitrari (la «sabbia») dall’altro. Occorre sfoltire i costumi, abbattere le costruzioni superflue, lasciar affiorare la roccia, su cui si potrà costruire in maniera permanente. La diffidenza di questi rappresentanti della modernità verso i costumi nasce dalla consapevolezza che le costruzioni dei costumi sono del tutto precarie e prima o poi destinate a cadere, specialmente se messe a confronto con la ragione e la natura. L’ingegnere moderno, immaginato da Descartes, è colui che costruisce su un terreno sgombro, libero dalle pastoie dei costumi e che, seguendo le regole della ragione naturale, costruisce edifici non traballanti, ma solidi e duraturi (Descartes 1954: 48-49). Allo stesso modo, nel Settecento Immanuel Kant ritiene che la «filosofia della ragion pura» possa dar luogo a un sistema «immutabile», non solo duraturo, ma perenne, in quanto vi sarebbe «un’isola che la natura ha racchiuso in confini immutabili», un «territorio della verità» su cui è finalmente «concesso edificare» (Kant 1967: 632; 264). E questa isola è reperibile non già fuori dell’individuo, nei rapporti sociali, nei costumi e nelle usanze, bensì al suo interno, nelle strutture formali di cui è dotato per natura. Rifiutando i costumi, il loro fare assurdo, le loro strambe invenzioni, la modernità coltiva il progetto (mediante la “cultura della ragione”, di cui parlano Bacon, Descartes, Kant) di “scoprire” la natura, le sue leg-

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gi, le sue strutture, e di poter proprio per questo dar luogo a un «regno dell’uomo» inedito nella storia dell’umanità. La modernità si identifica con questo regno dell’uomo, che non è frutto di un “fare”, di un “immaginare”, di un “inventare”, di un “sognare” (come direbbero gli Aborigeni australiani), ma di uno “scoprire” che è nello stesso tempo un “distruggere”: mentre si distruggono i costumi (gli idola di Bacon), si lasciano affiorare le strutture naturali, che sono basi e modelli di costruzioni finalmente durature e immutabili. Il “fare” moderno è soprattutto un “lasciar fare” alla natura, un seguire i suoi dettami e i suoi metodi, un consentire alla natura di imporre in tutti i campi i suoi principi e le sue leggi, i suoi criteri, le sue regole, la sua logica. È sufficiente non sovrapporsi ad essa con i costumi da noi inventati, non “contraffare” i suoi aspetti e le sue fattezze con le più astruse elaborazioni culturali. Sotto questo profilo, non c’è poi molto da “fare” e da “inventare”; c’è invece soltanto da “scoprire” e “lasciar fare”. In questo modo, si ottengono i seguenti effetti: i) i costumi, con le loro forme di umanità inventate, perdono di credibilità e vengono abbandonati; ii) si lascia che sia la natura, con le sue leggi e con le sue strutture, a ispirare, suggerire o imporre le forme di umanità più autentiche; iii) si tratta infine di adottare e fare proprie le forme naturali, le quali sono – per definizione – necessarie, universali, durature, perenni, indiscutibili. Il “regno dell’uomo”, che la modernità ritiene di avere finalmente scoperto, non è però riservato in esclusiva ai suoi rappresentanti. Se l’umanità che prende forma in questo regno porta con sé le caratteristiche della naturalezza, e quindi della necessità e dell’universalità, a buon diritto essa può imporsi su tutte le altre

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forme di umanità, le quali sarebbero null’altro che frutto di invenzioni, e quindi arbitrarie, particolari, locali. Da questo punto di vista, vi è un proselitismo della modernità, che si è dispiegato in tutti i secoli dell’espansione della civiltà europea nel mondo e che tutt’oggi viene praticato, a tal punto che ci si meraviglia se insorgono resistenze e opposizioni alla modernità di tipo occidentale (come è il caso dell’integralismo islamico). Il principio di fondo è che nella modernità occorre entrare, perché – si ritiene – essa realizza la forma di umanità più universale e quindi più universalizzabile. Anche per la modernità si può usare l’espressione evangelica cogite intrare («costringeteli a entrare»), che sant’Agostino aveva fatto sua soprattutto contro i donatisti (Agostino 1974: 42-43). In effetti, se si è avuto il merito o la fortuna di accedere – grazie alla scienza, grazie alla ragione – alle strutture naturali più salde, che sono alla base dell’umanità e delle sue forme più autentiche, perché continuare a perdersi nelle tortuosità delle culture locali, nelle loro aberrazioni, nei loro vicoli ciechi? Con questi presupposti, la modernità presume di avere un messaggio da lanciare, che è – tutto sommato – un messaggio di “salvezza”. La modernità si espande (non ha fatto altro che espandersi, da quando la civiltà occidentale si è autodefinita “moderna”) e nell’espandersi ha distrutto: non poteva non distruggere, perché il suo essere, le sue opzioni di fondo, dunque il suo messaggio sono “contro” le culture (contro i costumi e le tradizioni locali). La distruzione è tuttavia giustificata dalla forma di umanità naturale, universale e in qualche modo definitiva, che la modernità presume di avere non inventato e costruito, ma scoperto, svelato e fatto conoscere al mondo.

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Il “regno dell’uomo” della modernità viene sbandierato come qualcosa di inedito nella storia dell’umanità. Da questo punto di vista, è riscontrabile nella modernità un afflato religioso, tipico non delle religioni locali e indigene, bensì delle religioni universali, e in primo luogo del cristianesimo. Sia per il cristianesimo (come del resto per l’ebraismo e per l’islam) sia per la modernità si parla di un primo e di un dopo il loro avvento (prima di Cristo e dopo Cristo; società premoderne e società moderna). L’importanza epocale che la modernità si autoattribuisce deriva oltre tutto dal fatto che essa trova Dio sulla sua strada, e lo trova non già passando attraverso le culture, ma scoprendo la natura, leggendo ciò che Dio ha scritto, ha impresso nella natura. Ragione e scienza consentono di superare lo schermo dei costumi e di leggere direttamente nella natura il linguaggio divino. C’è consonanza, c’è aiuto reciproco tra modernità e cristianesimo, specialmente se li consideriamo entrambi nella loro prospettiva universalistica, nel loro proselitismo, nella loro espansione mondiale, nelle loro modalità di incontro con le culture “altre”. Da questo punto di vista, la modernità si presenta come una riedizione un po’ più secolarizzata del cristianesimo. Del resto, alle origini del cristianesimo assistiamo a una identica operazione di ricorso alla natura, “contro” le tradizioni o le culture locali. Il problema delle origini ci riconduce – fatto molto curioso e significativo – a una delle “mode antropo-poietiche” esaminate prima e precisamente alla circoncisione (categoria XI). Per gli Ebrei la circoncisione è segno dell’alleanza con Dio, del patto che Dio ha stretto con Israele, il “popolo eletto”. Per dimostrare concretamente che questa alleanza sussisterà in modo «perenne» occorre che essa venga inci-

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sa nella carne: «vi farete recidere la carne del vostro prepuzio… Ogni vostro maschio, quando avrà otto giorni, sarà circonciso. E ciò sarà il segno dell’alleanza tra me e voi» – così dice Jahvè e aggiunge: «un incirconciso, un maschio cioè di cui non sia stata recisa la carne del prepuzio, sia eliminato dal suo popolo, perché ha violato la mia alleanza» (Genesi, 17, 9-14). Come si vede, per gli Ebrei del Vecchio Testamento la circoncisione era una faccenda estremamente importante: essa poneva una separazione netta e inequivocabile tra i figli di Israele (il popolo “eletto” da Dio, ovvero il tipo di umanità che lo stesso Dio aveva scelto come “suo” popolo e su cui aveva imposto con la circoncisione una particolare foggiatura, un “segno” inequivocabile) e gli “altri”, i goin, i peccatori, i «figli della distruzione». Nel Libro dei giubilei si legge: «chiunque sia nato e la cui carne non sia circoncisa l’ottavo giorno non appartiene ai figli del patto che il Signore fece con Abramo, ma appartiene ai figli della distruzione» (Bonanate 1994: 137). Era effettivamente una faccenda di “segni” e di fogge (di mode antropo-poietiche) che decidevano tipi diversi di umanità. Anche altri gruppi – come si ricava da vari passi del Vecchio Testamento (I Re, 18, 28; Geremia 16, 6; 41, 5; 47, 5; 48, 37) – usavano incidere le proprie mani o il proprio volto. Ma Israele non deve imitare le fogge antropo-poietiche degli altri: «Non tagliatevi in tondo l’orlo della vostra capigliatura e non rasare l’orlo della tua barba. Non vi farete incisioni sulla carne per un morto e non vi farete tatuaggi. Io sono il Signore» (Levitico 19, 27-28). Oppure: «Voi siete figli per il Signore vostro Dio. Non vi farete incisioni, né vi raderete tra gli occhi per un morto. Perché tu sei un popolo santo per il Signore tuo Dio, il quale ti ha scelto fra tutti i popoli

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che sono sulla faccia della terra, affinché sia un popolo particolarmente suo» (Deuteronomio 14, 1-2). E la circoncisione è il segno, inciso sulla carne, di questa appartenenza. A seguire la ricostruzione che ci propone Ugo Bonanate, il cristianesimo non nasce subito con la figura di Gesù: all’inizio i seguaci di Gesù continuano a considerarsi figli di Israele e la legge, la Toràh, rappresentava anche per essi un quadro di riferimento indiscutibile. Il distacco da Israele e quindi la configurazione di una religione nuova e autonoma si determinano non con l’insegnamento di Gesù, ma a seguito delle difficoltà generate dalla circoncisione, allorché il proselitismo si rivolse sempre meno verso gli ebrei e sempre più verso i gentili, verso i pagani. Costoro non erano ebrei e non erano circoncisi: occorreva procedere anche per loro alla circoncisione? Più in generale, la circoncisione doveva essere considerata come «condizione necessaria della salvezza (Atti 15, 1-3)» (Bonanate 1994: 135)? Come dimostra Bonanate, non era affatto una questione di poco conto (in generale, le mode antropopoietiche sono tutt’altro che faccende trascurabili) e la risposta formulata sarebbe stata decisiva per il destino non solo di una religione, ma anche di una parte consistente dell’umanità. Paolo di Tarso si incarica di rispondere a quella domanda in modo inequivocabilmente negativo: si può diventare figli di Israele, si può aspirare legittimamente alla salvezza, anche senza sottoporsi alla circoncisione. Paolo non nega la Legge, non nega neppure la circoncisione, ma distingue la circoncisione che «appare esternamente, nella carne» e la circoncisione che si realizza «internamente», nel «cuore», «secondo lo spirito e non secondo la lettera» (Romani

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2, 28-29). Ciò che è “esterno” riguarda il corpo e riguarda pure l’appartenenza a un determinato popolo, ai suoi costumi, alle sue leggi particolari; ciò che è “interno” riguarda invece lo spirito e riguarda non un popolo, una cultura, una società, ma la natura. Dentro a ogni uomo – indipendentemente dalla sua appartenenza a questo o a quel popolo – vi sono leggi naturali, seguendo le quali si può aspirare degnamente alla salvezza. «Quando infatti i pagani, che non posseggono la Legge [quella degli Ebrei], seguendo la natura compiono ciò che la legge prescrive, costoro, pur non possedendo la Legge, sono legge a se stessi. Essi mostrano che il precetto della Legge è scritto nei loro cuori» (Romani 2, 14-15 – corsivo aggiunto). In questo modo, la Legge di Mosè è salva, ma, trovandone il fondamento nella natura, Paolo ne afferma «il carattere universale», in quanto «corrisponde a quanto è comune a ogni uomo, dovunque viva» (Bonanate 1994: 145). Per Paolo non si tratta più di affermare la validità della propria religione, in quanto religione di “un” popolo scelto da Dio; ma, adottando questa «prospettiva universalistica», si tratta di predicare «l’unità di natura degli uomini», di tutti gli uomini, «abbattendo» – come si legge in Efesini 2, 14 – «il muro divisorio» tra i popoli (Bonanate 1994: 145, 154-55). «Dio non fa distinzioni» – afferma Paolo (Romani 2, 11) – e «in questa condizione non c’è più greco o giudeo, circoncisi o incirconcisi, barbaro o scita, schiavo o libero» (Colossesi 3, 11). Il distacco dal mondo ebraico, così profondamente abbarbicato a una logica di differenze culturali (in primo luogo, la differenza tra “noi”, “popolo eletto”, e gli “altri”), è ormai avviato. Il «progetto audace e innovativo» (Bonanate 1994: 144) ideato da Paolo di Tarso prevede di far

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scoprire a tutti gli uomini il messaggio che Dio ha «scritto nei loro cuori», un messaggio che non è riservato a un popolo, depositato nei suoi costumi, veicolato dalle sue tradizioni; un messaggio che è invece universale e quindi giustamente universalizzabile, perché è collocato nella «natura», di cui ogni uomo è partecipe in quanto tale. Anche san Paolo, come poi i rappresentanti della modernità, diffida dei costumi e delle tradizioni: occorre guardarsi – egli afferma – dalla «filosofia, questo fatuo inganno che si ispira alle tradizioni umane», invece che al messaggio universale di Cristo: le tradizioni, gli «insegnamenti umani», «sono tutte cose destinate a logorarsi con l’uso» (Colossesi 2, 8 e 22). Il messaggio di “salvezza” lanciato dal cristianesimo paolino, così come quello della modernità, riguarda in effetti la possibilità di svincolarsi dalla particolarità degli usi, dei costumi, delle tradizioni, dalla corruttibilità delle forme umane, per guadagnare invece l’universalità e la «pienezza» (Colossesi 2, 9), quali sono garantite insieme dalla natura e da Dio, cioè da forze o entità extra-umane ed extra-culturali. Non per nulla Paolo afferma che il messaggio di salvezza che egli intende annunciare «non è a misura di uomo», di ciò che l’uomo può dire o fare (Galati 1, 11-12). Esso è un messaggio diretto all’uomo, ma nelle sue origini non è umano, formulato da qualche parte e in qualche modo da uomini particolari. «Infatti» – egli prosegue – «né io l’ho ricevuto da un uomo né da un uomo sono stato ammaestrato»: si tratta invece di una «rivelazione divina», rispetto alla quale – esattamente come per la natura – più che “fare”, occorre “lasciar fare”. Sia per il cristianesimo sia per la modernità, Dio e la natura hanno titolo a “insegnare” come essere umani. Ostinarsi a fare umanità in altro modo, privandosi della guida della rivelazione na-

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turale e di quella divina, significa dar luogo – come sosteneva Bulwer – a mostruosità e aberrazioni. Affidandosi ai mezzi esclusivamente umani della sua cultura, ostinandosi – per così dire – a fare umanità in proprio, l’uomo non costruisce soltanto forme particolari di umanità: da solo, egli fabbrica forme di disumanità. 3. Forme di umanità, forme di disumanità Siamo così di fronte a un bivio. A) Da una parte, vi sono tradizioni potenti di pensiero, caratterizzanti la civiltà occidentale e la sua espansione nel mondo, le quali ritengono di avere scoperto, per rivelazione divina e/o per rivelazione naturale, la forma più autentica di umanità. B) Dall’altra, vi è invece l’idea che anche queste prospettive (cristianesimo, modernità e, beninteso, qualsiasi altra prospettiva similare) e le forme di umanità corrispondenti non siano altro che tradizioni (per quanto imponenti e sovrastanti), ovvero che ciò che esse fanno passare per “naturale” non sia altro che il frutto di un fare culturale e che ciò che fanno passare per “universale” non sia altro che il prodotto di scelte particolari. Se ci poniamo dal punto di vista A, si determina una spaccatura profonda nelle forme di umanità che l’antropologia – così come l’abbiamo definita nei capitoli I e II – intende esplorare: da una parte, le forme di umanità autentiche, fondate sull’insegnamento di Dio, della natura o di qualsivoglia altra entità extraculturale e indiscutibile, capace di fornire modelli certi, sicuri, definitivi; dall’altra, il “mucchio” delle altre forme di umanità, create ignorando Dio e la natura, frutto di inven-

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zioni cervellotiche, di fantasie libere e senza freno, di miti forse affascinanti, ma assurdi, ovvero un mucchio di forme di disumanità, «un mucchio di spazzatura di svariate follie». È stato Edward Burnett Tylor, uno dei fondatori dell’antropologia culturale, a usare questa espressione nel 1871 per sostenere che le religioni dei “primitivi” (allora si chiamavano ancora così) non erano un mucchio di spazzatura di svariate follie (Tylor 1958: 23). Se persistiamo nella prospettiva A, l’antropologia si configura come un giro lungo, ozioso e perverso tra forme di umanità abbandonate e che devono essere abbandonate, un’esplorazione di vicoli ciechi, una raccolta di fossili culturali, di testimonianze di ciò che non siamo più e da cui ci saremmo “salvati”. Nella prospettiva A, l’antropologia che si attarda presso i residui, le forme abbandonate di disumanità, sarebbe essa stessa un vicolo cieco, un sapere marginale e residuale, un sapere povero e tutto sommato inutile, destinato prima o poi a sparire, rispetto all’antropologia coincidente con la stessa modernità. Se invece ci poniamo nella prospettiva B, che è quella seguita in questo libro, vi sono sì differenze tra le varie forme di umanità, in quanto tutte risultano essere frutto di invenzioni culturali, di tentativi ed errori, di osservazioni e di sperimentazioni che si spingono in direzioni diverse; ma non si tratta affatto di differenze qualitative, come la spaccatura che oppone forme autentiche di umanità e forme di disumanità o di umanità inferiore. Nella prospettiva A è pressoché inevitabile che, in modo esplicito o implicito, si considerino le “altre” forme di umanità (altre rispetto alle forme più autentiche) come disumanità, che si notino le deviazioni e le aberrazioni (rispetto a un modello fisso, precostitui-

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to, garantito da Dio o dalla natura). Nella prospettiva B le soluzioni esplorate, le culture indagate sono tutte concepite invece come tentativi di dar forma all’umanità. In assenza di un modello precostituito, diventa impossibile stabilire graduatorie, gerarchie, ed è per questo che vengono per lo più evitate espressioni con connotazioni negative (come aberrazioni, deformazioni, deviazioni ecc.). Inoltre, in assenza della spaccatura di cui prima, l’antropologia da sapere marginale e residuale si trasforma in un sapere di comunicazione, contatto, traduzione, reciproca conoscenza tra le varie forme di umanità. Soltanto nella prospettiva B l’antropologia acquista il respiro, la vitalità e l’importanza che il suo stesso nome pare promettere. Potremmo forse concludere qui – con queste note apologetiche ed elogiative – questo ormai lungo discorso propedeutico all’antropologia. Ma le espressioni negative (aberrazioni, deviazioni, deformazioni, disumanità), che l’antropologia tende a evitare – addebitandole a una prospettiva che la mortificherebbe, nello stesso tempo in cui degrada le altre forme di umanità a forme di disumanità – si trascinano dietro un significato e una rilevanza tutt’altro che trascurabili. “Fare umanità”: così abbiamo scelto di intitolare il capitolo III, intendendo e cercando anche di dimostrare che si tratta pur sempre di fare – nonostante le eventuali autoattribuzioni di naturalità e di universalità – un’umanità particolare. Le forme di umanità, di cui l’antropologia si pone alla ricerca, sono sempre e soltanto forme particolari di umanità. Ma non si tratta soltanto di forme particolari. Per quanto si possano nobilitare, per esempio, i vari tipi di intervento estetico sul corpo passati in rassegna nel paragrafo 1 di questo capitolo, definendole mode “antro-

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po-poietiche”, come si può nascondere la crudeltà che è spesso insita in queste pratiche (le categorie X e XI sono certamente tra le più inquietanti)? Come dar torto a un tipo come Bulwer, quando parla nel suo inglese secentesco di mad and cruel gallantry, se pensiamo, per esempio, alle scarificazioni così disumanamente dolorose, eppure così apprezzate sul piano erotico? Possiamo ancora insistere con il linguaggio tipico della prospettiva B e continuare a parlare di forme di umanità o non è il caso di ricorrere all’idioma della prospettiva A e parlare di forme di disumanità? Tutto quel dolore, tutta quella crudeltà, per giunta gratuiti (essendo lo scopo prevalentemente estetico), non significano gradi più o meno spinti di disumanità, piuttosto che forme particolari di umanità? Gli antropologi – come, beninteso, tanti altri scienziati sociali e non – si tengono abbastanza spesso al coperto. Evitano argomenti scottanti, tali da porre in discussione presupposti, opzioni convalidate, idiomi diffusi e accettati. Le sfide non sempre vengono accettate con entusiasmo: anche il tran tran scientifico ha i suoi pregi, da non sottovalutare. Non sono molti in effetti gli studi antropologici rivolti ai fenomeni in cui affiorano la violenza e la crudeltà, specie se gratuite. Lo erano di più un tempo, nei primi decenni dell’antropologia, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. E forse questo fatto ha una spiegazione, se teniamo presente che i) l’antropologia degli inizi seguiva fondamentalmente una prospettiva di tipo A con la spaccatura di cui si diceva e che ii) è più facile per una prospettiva di tipo A inquadrare e persino prevedere i casi di disumanità (è predisposta a questo), mentre una prospettiva di tipo B è più propensa a cogliere soltanto differenze di

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forme di umanità. A differenza degli antropologi A, quasi attirati dai fenomeni che evocano o significano la disumanità (rituali di iniziazione cruenti, interventi estetici dolorosi ecc.), gli antropologi B hanno a lungo preferito occuparsi del funzionamento di meccanismi sociali o di categorie mentali. E quando si è trattato di affrontare l’analisi di rituali cruenti, si sono molto spesso trincerati dietro un comodo e sbrigativo descrittivismo, come se infliggere ferite su un corpo e manipolare chirurgicamente i genitali maschili e femminili, così da modificarli in maniera radicale e spesso irreparabile, fossero la cosa più ovvia di questo mondo, purché inquadrati nel loro contesto culturale. Il ricorso al contesto è stata molto spesso la soluzione a portata di mano dell’antropologo. Il contesto spiega, fa comprendere, in qualche modo giustifica e attenua la ruvidezza dell’impatto con i fenomeni di “disumanità”. Ma gli stessi antropologi come sarebbero disposti a reagire se, per esempio, un bel rituale di subincisione (categoria XI) venisse praticato da un gruppo in Italia, anziché dagli Aborigeni australiani? Già diversi anni fa Ernest Gellner, filosofo e antropologo sociale (condusse ricerche in Marocco), aveva richiamato l’attenzione su questo strano comportamento degli antropologi di tipo B: da un lato essi sono molto reattivi nei confronti della loro società, mentre sono «relativisti, tolleranti e contestualmente comprensivi» nei confronti delle società più lontane; sono comprensivi nei confronti degli indigeni e dei loro costumi (tra cui mutilazioni e fenomeni di stregoneria), mentre nel frattempo condannano l’ufficiale distrettuale o il missionario (Gellner 1992: 44). Non può essere che anche presso altre società – e per fini talvolta stupidamente

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estetici – vengano commessi fatti che non avremmo esitazione a definire crimini contro l’umanità, se fossero compiuti nella nostra società? È sufficiente il richiamo al contesto per eliminare questo aspetto criminale? Gellner aveva denunciato lo spirito troppo “caritatevole” degli antropologi, disposti come sono a trovare un senso più o meno nobilitante nelle pratiche (oltre che nelle credenze) anche le più assurde degli esseri umani (1992: 37). Pur senza riferirsi a Gellner, Roger Keesing evita di assumere un atteggiamento troppo “caritatevole” e rifiuta una posizione di relativismo culturale, allorché esamina in termini generali i “rituali di umanità” maschile (manhood) della Nuova Guinea. Si tratta – egli afferma in modo inequivocabile – di «sistemi che sistematicamente fanno uso del dolore, della paura e dell’inganno per dominare i giovani e per subordinare, avvilire e opprimere le donne minacciando di rapirle e di ucciderle» (Keesing 1982: 37). Conoscendo l’atteggiamento relativista e troppo caritatevole dei suoi colleghi, egli prevede di non essere seguito, in questa denuncia, da tutti gli antropologi; ma, per quanto lo riguarda, non ha esitazione a definire tali sistemi come «espressioni di crudeltà, disumanità, oppressione, errore, tanto quanto di creatività culturale». C’è molto simbolismo, c’è molta creatività, c’è molta cultura in questi sistemi (tutto pane per i denti degli antropologi), ma, secondo Keesing, c’è anche molta disumanità. Formalizzando la sua interpretazione, possiamo dire che questi sistemi non sono propriamente forme di umanità: sono invece forme di “disumanità”, nonostante la cultura di cui sono espressione. Che fare? Continuare a rifugiarsi in un descrittivismo più o meno relativistico, oppure seguire Keesing nella

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denuncia di dosi massicce di disumanità, là dove affiorano in modo inequivocabile (con il dolore inflitto, l’inganno, l’oppressione) e se del caso aderire all’invito di Gellner, cioè di non essere troppo caritatevoli con nessuno, né con “noi” né verso gli “altri” (1992: 61)? Ma la denuncia delle eventuali forme di disumanità risolve il problema dell’antropologo? L’antropologo può denunciare forme di disumanità, nel senso che analizzando, per esempio, rituali particolarmente cruenti (come quelli appunto della Nuova Guinea) non può non rilevare come essi si carichino di crudeltà e di violenza. Ma il problema per l’antropologo va al di là delle denunce e non si risolve affatto pronunciando condanne. Per quanto riguarda i rituali di iniziazione maschili della Nuova Guinea, occorre infatti chiedersi «perché mai ci sia bisogno di sangue, sofferenza, traumi […] per trasformare dei ragazzi in uomini» (Keesing 1982: 32). In fondo, è ben più facile condannare anziché cercare di rispondere a questa domanda. Non essere caritatevoli né con noi né con gli altri non significa per un antropologo organizzare – come avrebbe voluto Bulwer – un tribunale della natura, della ragione, o un tribunale dell’Aja. Non essere troppo caritatevoli significa riconoscere e guardare in faccia la disumanità là dove si presenta (anziché svicolare e preferire molto semplicemente altri argomenti), analizzarne in maniera approfondita forme, contenuti, modalità (non annegarla nel contesto, ma farla risaltare dal contesto) e nel contempo provare ad attrezzarsi con categorie e prospettive adeguate. Lo stesso Keesing sembra porci su una strada interessante, là dove fa capire che cultura, creatività, simbolismo possono coesistere con la disumanità, possono essi stessi dare luogo a forme di disumanità e che la di-

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sumanità a sua volta può alimentarsi di simbolismo, di creatività e di cultura. Questa connessione è molto dura da accettare, portati come siamo a collegare l’umanità (le forme di umanità particolari) con la cultura, il simbolismo, la creatività, ovvero a concepire cultura, simbolismo e creatività come mezzi e condizioni della produzione di umanità (comunque poi questa venga intesa e praticata). Se l’umanità è concepita come prodotto della cultura, la disumanità viene, altrettanto normalmente, collegata alla perdita di cultura, quanto meno come sottoprodotto quasi inevitabile dei processi di deculturazione. Mentre Primo Levi (1966) con il suo Se questo è un uomo offre una testimonianza toccante di questa seconda connessione (perdita di cultura = perdita di umanità) per quanto riguarda i campi di sterminio nazisti, nei suoi Racconti di Kolyma Varlam Sˇalamov (1999) fa altrettanto per i campi stalinisti. Ma ora noi dobbiamo affrontare una connessione più problematica e inquietante sotto il profilo teorico, quella tra cultura e disumanità, tra fare umanità e violenza, tra forme di umanità e forme di disumanità. Se la creatività culturale, di cui parla Keesing, coincide con il “fare umanità”, come è possibile che si combini anche con la disumanità? Come è possibile intravedere disumanità nelle forme di umanità? Ciò che ora qui vogliamo sostenere è che il “fare umanità” è sempre, anche, un “fare dis/umanità”. In base ai presupposti della prospettiva antropo-poietica, quale abbiamo cercato di chiarire soprattutto a partire dal capitolo II, gli esseri umani hanno da costruire se stessi. Ma costruire comporta in primo luogo un’operazione di selezione a cui è impossibile sottrarsi, e quindi un eliminare, distruggere, far fuori una serie di possibilità. Quanto più si costrui-

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sce, quanto più ci si impegna in una costruzione, tanto più accuratamente e con decisione vengono soppresse una serie di possibilità alternative. Quanto più si costruisce, tanto più si passa da una condizione generale di indeterminazione e di mere possibilità (ovvero da un’umanità senza forma, indeterminata e potenziale) a forme di umanità definite, particolari, divergenti e anche contrapposte (come può essere, in molte società, l’opposizione di maschile/femminile). C’è “violenza” – per quanto camuffata – nella soppressione delle possibilità; c’è anche “crudeltà” nel modo con cui si induce o si costringe ad abbandonare l’infanzia (che è appunto l’insieme delle possibilità non ancora realizzate); c’è o ci può essere “errore” nel prendere una strada, anziché un’altra; c’è o ci può essere “inganno” nel far credere che si diventa uomini in tal modo e non in altri, che quella, e non altre, è la forma autentica di umanità. Secondo la teoria antropo-poietica, l’uomo risponde alla sua incompletezza originaria, biologica, con un tentativo di completamento culturale che però si realizza attraverso il fare un’umanità particolare e quindi con la rinuncia o la soppressione delle altre possibilità. Occorre allora riconoscere che ciò che si “fa” o si costruisce non è la completezza umana, bensì l’incompletezza radicale di forme determinate di umanità. “Making Incomplete” è in effetti l’espressione con cui Marilyn Strathern (1993) sintetizza il significato dei rituali di iniziazione in Nuova Guinea. Prendendo le distanze dalla concezione occidentale, secondo cui socializzazione ed educazione sarebbero processi di sviluppo che rendono una persona “completa”, ella ritiene che obiettivo dei rituali della Nuova Guinea è invece quello di «“generare” [gender] la persona come un essere incompleto»

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(1993: 42). Il passaggio dall’infanzia allo stato di adulto è infatti il passaggio da una condizione androginica, e quindi indeterminata, nella quale sono compresenti diverse e opposte possibilità, a una condizione in cui invece l’individuo ha un unico sesso. I riti che fanno nascere “maschi” o “femmine” sarebbero quindi in realtà riti di «scomposizione», nel senso che «disgiungono un insieme preesistente di attributi», separandoli secondo i generi: i riti perciò non completano un essere vuoto o carente, a cui lo sviluppo dovrebbe aggiungere progressivamente qualcosa; al contrario, «rendono incompleta un’entità», la quale di per sé contiene l’insieme globale delle possibilità (1993: 48). Diventare adulti, diventare maturi, ovvero raggiungere socialmente la capacità riproduttiva, significa diventare incompleti. In questa prospettiva, l’incompletezza si configura come un vero e proprio obiettivo, giacché è l’incompletezza ciò che motiva l’incontro con l’altro sesso e rende possibile la riproduzione di altri esseri umani, della società, del nostro tipo di umanità. Generalizzando questo schema, potremmo dunque sostenere che si passa da un’incompletezza originaria, coincidente con uno stato di indeterminazione, ovvero con un insieme di possibilità non ancora realizzate, a un’incompletezza definitiva, dovuta a operazioni di scelta e di selezione, di realizzazione positiva per un verso e di soppressione e di scarti per l’altro. In questa teoria (v. cap. II, § 2, punto 19), vi sono dunque due tipi o livelli di incompletezza: la prima è quella che maggiormente attiene alla condizione biologica degli esseri umani e che richiede l’intervento “completante” o integrante della cultura; la seconda riguarda invece lo stesso intervento della cultura, il quale, mentre pone rime-

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dio all’indeterminazione originaria, genera un’incompletezza culturale. Il primo tipo di incompletezza coincide con un insieme di possibilità non ancora realizzate, di informalità, di mancanza di forme; il secondo tipo di incompletezza coincide invece esattamente con l’adozione e la definizione di forme e con l’esclusione di altre. Come vi sono due tipi di incompletezza, così possiamo intravedere due significati di “non umanità”: una condizione di “non ancora realizzata umanità”, che è l’indeterminazione, la compresenza e la confusione di possibilità molteplici, divergenti e persino opposte (incompletezza di base) e una condizione di “dis/umanità”, che è il risvolto della medaglia, il lato negativo della scelta e della determinazione, ovvero lo scarto – spesso duro, violento, irrimediabile – di possibilità, la loro soppressione (incompletezza conseguita). Al di là di tutte le illusioni antropo-poietiche e delle ideologie culturali della completezza, ciò che si costruisce non è mai un’umanità intera: insieme a una forma particolare di umanità, è sempre presente (anzi, aderente) anche una forma particolare di dis/umanità. Non si può fare a meno di costruire, di “fare umanità”; ma questo “fare” è anche inesorabilmente un dis/fare, un tagliare, separare, abbandonare, rifiutare, sopprimere. In effetti, i rituali antropo-poietici – come abbiamo avuto modo di accennare in questi capitoli – sottolineano quasi invariabilmente il tema del “tagliare”: per fare uomini, non si aggiunge, ma si toglie. Ancora un caso etnografico può essere illuminante per il nostro discorso. Dopo la circoncisione che caratterizza il loro passaggio allo stato di adulto e di uomo, i giovani Warlpiri del deserto dell’Australia centrale si sottopongono anche alla subincisione: un taglio doloroso nel meato urinario, pe-

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riodicamente ripetuto, che li fa sanguinare come sanguinano le donne durante le mestruazioni (Glowczewski 1991: 199); un tentativo (forse disperato e folle, “disumano”) di rimediare alla cesura che li ha fatti diventare uomini, di recuperare in qualche modo la parte di umanità, quella femminile, da cui sono stati violentemente separati. Non per nulla il taglio della subincisione si chiama “vulva” e gli stessi Aborigeni australiani interpretano i suoi effetti come la riproduzione di caratteristiche femminili sull’organo maschile (Bettelheim 1996: 120-30). Mode antropo-poietiche, forme di dis/umanità. A quanto pare non ci si può astenere dal provare a costruire in qualche modo gli esseri umani, che lo si ammetta o no, che si esalti questa possibilità o la si occulti. Ma non appena si pone mano all’antropo-poiesi, in qualsiasi condizione ciò avvenga (nei rituali appositamente programmati o nell’anonima vita quotidiana), si entra già subito nella dis/umanità, perché ciò che si costruisce è una forma particolare di umanità, frutto di scarti e di soppressioni, oltre che di selezioni positive. La violenza della dis/umanità è insita in questo tipo di operazioni, le quali danno forma a ciò che prima era indeterminato e senza forma, e nello stesso tempo “deformano”. In modo significativo e ora davvero illuminante i Caduveo – come si ricorderà – identificano l’umanità con le “deformazioni” disegnate sul volto (v. cap. III, § 4). Nella seconda metà del Settecento, Johann Gottfried Herder, ispiratore e teorizzatore della prospettiva antropo-poietica, sosteneva che «l’uomo […] non può sottrarsi a questa cultura che forma e deforma» (Herder 1992: 159 – corsivo aggiunto). Il dare forma è già subito una “deformazione”. Herder poi proseguiva:

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«la tradizione giunge fino a lui e forma la sua testa e modella le sue membra. A seconda di come è quella e di come queste si lasciano formare, l’uomo diventa in un certo modo, assume una certa figura». Sembra così che la responsabilità della “deformazione” ricada sulla tradizione, sulla cultura. Ma porre mano all’antropo-poiesi implica l’esistenza di soggetti che, in modo più o meno responsabile, e comunque in assenza di modelli superiori (eccetto quelli che essi stessi si creano), “decidono” dell’umanità e quindi impongono anche forme di dis/umanità. “Fare umanità” è sempre perciò una questione di potere (palese o occulto che sia), e non è detto che tutti coloro che hanno la responsabilità di “tagliare” forme e proporre modelli, abbiano anche la coscienza che ciò che fanno è una “deformazione” e ciò che costruiscono sono anche forme di disumanità. Dovendo agire in assenza di modelli extra-culturali, le aberrazioni sono a portata di mano, sono la conseguenza immediata e inevitabile del fare: coincidono con la stessa manipolabilità. In fondo, stiamo sempre “aberrando”; stiamo sempre percorrendo una strada laterale, una deviazione. Le deviazioni esistono e sono tali non rispetto a una via maestra, bensì rispetto a tutte le altre deviazioni, cioè le possibilità da noi scartate, soppresse, realizzate o realizzabili altrove, le quali compongono l’insieme eterogeneo dell’umanità (in un certo senso, il “mucchio delle sue svariate follie”). 4. La rete incompiuta All’inizio, questo ha voluto essere un libro propedeutico all’antropologia: a un certo tipo di antropologia, quella

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Prima lezione di antropologia

che, differenziandosi dall’antropologia fisica e biologica, viene chiamata culturale e sociale. Ma fin da subito non è stato concepito come la parte introduttiva di un manuale, nonostante le definizioni e le precisazioni contenute nel primo capitolo. Chiarito il significato che si ritiene di poter attribuire a questo tipo di sapere antropologico – ossia l’esplorazione dei confini delle forme culturali di umanità (cap. I e cap. II, §§ 1-2) –, si è cercato immediatamente dopo di compiere un’effettiva esplorazione antropologica tra forme distinte di umanità che vivono in uno stesso ambiente naturale, la foresta equatoriale dell’Ituri, nel Congo orientale. Qui il tema del confine tra forme di umanità non solo distinte, ma anche opposte e gerarchizzate, si è intrecciato – forse inaspettatamente per la maggior parte dei lettori – con il tema di una più accentuata dipendenza della forma ritenuta superiore rispetto a quella inferiore: gli Efe non vengono denigrati e quindi allontanati, ma vengono denigrati e quindi introdotti nelle parti più interne del “noi”, cioè della vita dei Lese (cap. II, §§ 3-4). L’esplorazione di forme di umanità diverse, collocate in angoli di mondo spesso sperduti e lontani, persegue almeno due obiettivi fondamentali: i) l’obiettivo di farci conoscere “altre” forme di umanità rispetto alle forme che ci paiono più note o familiari (e questo è molto importante, anzi vitale, allorché partiamo dal presupposto che nessuna società dispone di modelli fissi e assoluti, se non quelli che essa stessa assolutizza); ii) l’obiettivo di far emergere temi non del tutto ovvi, inediti, e per così dire “trasversali”, capaci di connettere tra loro forme diverse di umanità. Uno di questi temi, affiorato dall’analisi del rapporto Lese/Efe, è la “fragilità” delle forme di umanità. Tut-

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te le forme sono costruite, ma alcune sono più culturalmente costruite di altre (i Lese rispetto agli Efe, ma anche – in molte società – gli uomini rispetto alle donne). La tesi esposta nel capitolo terzo (§§ 1-2) è che vi è un nesso tra “costruzione” e “fragilità”: quanto più certe forme sono costruite, tanto più esse sono fragili. Ma come si costruiscono forme di umanità? In questo capitolo non ci siamo dilungati molto nell’analisi etnografica di qualche rituale di iniziazione, ma abbiamo cercato di mettere in evidenza il ruolo centrale che in tali contesti assume la conoscenza della “finzione”: si matura, si diviene uomini adulti, allorché si è in grado di cogliere il ruolo della finzione, nel suo duplice significato (quello di “modellare” e quello di costruire o inventare qualcosa di “finto”, persino di ingannevole). Fragilità e finzione sono concetti non solo compatibili, ma che si richiamano tra loro (cap. III, § 3). I presupposti di queste argomentazioni (cap. II, § 2) è che si è costretti a “costruire”, ma in assenza di modelli extra-culturali le costruzioni sono sempre finzioni, fragili (nonostante tutti gli espedienti di autoprotezione) e arbitrarie (nonostante tutti i tentativi di fondazione). L’aspetto rilevante sotto il profilo antropologico è che molte società – anziché rifugiarsi in un ottuso atteggiamento di autorassicurazione – riconoscono in modo esplicito la dimensione dell’arbitrarietà e della casualità delle loro forme di organizzazione, così come sottolineano di frequente le motivazioni estetiche di molti interventi culturali sul corpo (cap. III, § 4). La ricerca della bellezza fa parte dei progetti antropo-poietici in cui gli esseri umani sono coinvolti, assumendo molto spesso le sembianze di mode. All’inizio del capitolo quarto (§ 1) si è voluto fornire un elenco di “mode antropo-poietiche” allo scopo

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Prima lezione di antropologia

di rendere conto i) dell’ampia gamma di espedienti a cui le società fanno ricorso; ii) del dolore che parecchie di queste mode comportano; iii) della non estraneità della modernità rispetto a queste “mode”, nonostante la convinzione – tipica di una parte consistente delle tradizioni di pensiero che riuniamo sotto questa categoria storica – secondo cui ciò che vale è un modello di tipo naturale. Una sorta di critica della modernità ci consente di porre in luce la duplice finzione (una antropo-poiesi celata) su cui essa si regge. Le società che ritengono di poter disporre di un modello di umanità indiscutibile, stabile e duraturo, extraculturale e quindi universale, sono quelle che più facilmente parlano di disumanità, soprattutto nei confronti degli altri. La disumanità è stata il nostro ultimo tema (cap. IV, § 3), trattato però in modo da far emergere le radici della violenza e della dis/umanità negli stessi procedimenti antropo-poietici, i quali con i loro “tagli” (reali, mentali o metaforici che siano) non conducono verso la “pienezza” dell’essere umano, bensì verso una sua, culturalmente definita, “incompletezza”. La completezza è un mito (e potrebbe anche essere un mito deleterio). Riconoscere, invece, che il fare dell’antropopoiesi è un “fare incompletezza” (secondo la formula che Marilyn Strathern ha tratto dai rituali della Nuova Guinea) più facilmente può aprire la strada alla comunicazione tra le più varie e lontane forme di umanità. L’antropologia – sapere di frontiera (Fabietti), esplorazione di confini – si ingegna per contribuire alla rete di comunicazione interculturale, ben sapendo che anch’essa è un’opera non solo difficile, ma per sempre (e pour cause) incompiuta.

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Indice

I. Una molteplicità di antropologie

3

1. Difficoltà di una definizione, p. 3 - 2. Antropologia o antropologie?, p. 8 - 3. Antropologie senza nome e antropologie con nome, p. 13 - 4. Interessi di gruppo o interessi dell’antropologia?, p. 19 - 5. Antropologie e scienze umane, p. 27 - 6. Le antropologie e i confini dell’umanità, p. 32

II. L’incompletezza antropologica

41

1. Un’antropologia dimezzata, p. 41 - 2. L’antropologia e le forme di umanità, p. 47 - 3. Forme di umanità in foresta, p. 59 - 4. “La vita senza gli Efe?”, p. 67

III. Fare umanità

80

1. La fragilità delle costruzioni, p. 80 - 2. Le soglie dell’umanità, p. 91 - 3. I segreti, le finzioni, gli inganni, p. 100 - 4. Il caso e la bellezza, p. 109

IV. La modernità nel mucchio

120

1. Mode antropo-poietiche: un’introduzione alla modernità, p. 120 - 2. Per la natura, contro la cultura: non fare, ma lasciar fare, p. 138 - 3. Forme di umanità, forme di disumanità, p. 153 - 4. La rete incompiuta, p. 165

Riferimenti bibliografici

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