Prima lezione di storia della lingua italiana 8858117379, 9788858117378

Dal latino all'italiano, dalla lingua popolare alla lingua poetica, dalla grammatica storica all'influenza dei

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Italian Pages 198 [199] Year 2015

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Prima lezione di storia della lingua italiana
 8858117379, 9788858117378

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Universale Laterza 949

PRIME LEZIONI

ULTIMI VOLUMI PUBBLICATI

Storia contemporanea di Claudio Pavone

Sociologia di Arnaldo Bagnasco

Fisica di Carlo Bernardini

Scienza politica di Gianfranco Pasquino

Storia moderna di Giuseppe Galasso

Medicina di Giorgio Cosmacini

Letteratura italiana di Giulio Ferroni

Sociologia del diritto di Vincenzo Ferrari

Metodo storico a cura di Sergio Luzzatto

Psicologia della comunicazione di Luigi Anolli

Filosofia morale di Eugenio Lecaldano

Sulla televisione di Aldo Grasso

Filosofia di Roberto Casati

Psicologia dell’educazione di Felice Carugati

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Teologia di Giuseppe Ruggieri

Filologia di Alberto Varvaro

Teatro di Luigi Allegri

Diritto globale di Maria Rosaria Ferrarese

Metrica di Aldo Menichetti

Relazioni internazionali

Filosofia antica

di Luigi Bonanate

di Bruno Centrone

Luca Serianni

Prima lezione di storia della lingua italiana

Editori Laterza

© 2015, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione febbraio 2015

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Edizione 4 5

Anno 2015 2016 2017 2018 2019

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-1737-8

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

a Riccardo e Vanda

Premessa

È cifra caratteristica delle Prime lezioni, e rientra oltretutto nelle mie personali consuetudini di scrittura, la trasparenza del discorso. Di qui la riduzione dei tecnicismi linguistici e la limitazione della bibliografia, collocata in fondo ai capitoli, ai pochi strumenti irrinunciabili (oltre all’esplicitazione dei riferimenti citati a testo). Ma di alcuni tecnicismi non si può fare a meno, tanto più se si sceglie di ricorrere frequentemente al commento di singoli testi; in questi casi ho cercato di spiegarli là dove figuravano la prima volta e ho redatto un Indice delle parole e degli argomenti che permetterà di recuperare facilmente le informazioni. La presenza di archivi elettronici e, in generale, la facile reperibilità nella rete di brani letterari mi hanno indotto a non appesantire il testo con rinvii ai passi facilmente rintracciabili; ho fatto però un’eccezione con i pochi brani in latino e con Dante, Petrarca e Boccaccio per una ragione diciamo così affettiva: un omaggio alla lingua madre e ai tre grandi trecentisti che hanno gettato le fondamenta dell’italiano comune (proprio quello che state leggendo in questo momento). Mi servo all’occorrenza dei seguenti segni convenzionali:

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Premessa

a. nell’indicare il passaggio da una lingua a un’altra (tipicamente, dal latino all’italiano) il segno > vuol dire ‘passa a, si trasforma in’ (vultum > volto), il segno < vuol dire ‘proviene da’ (volto < vultum). In questi casi la parola latina è indicata all’accusativo, perché è dall’accusativo che quasi sempre si è sviluppata la forma romanza; b. l’asterisco davanti a una forma ha tre valori diversi: se quella forma è stampata in maiuscoletto, indica una base non attestata ma che deve essere esistita nel latino parlato e che dobbiamo postulare per dar conto dell’esito italiano (*voleo > voglio, in luogo del latino classico volo); se è stampata in corsivo, può indicare un esito puramente virtuale, inventato da noi per far capire quale sarebbe stato l’esito atteso da una base latina se la parola in area fiorentina avesse avuto una trafila popolare, cioè fosse stata sempre in uso e non fosse stata ripresa, com’è invece avvenuto, dai libri (*muodo dal latino mŏdus, o meglio mŏdum, accusativo); infine, davanti a una parola o a un’espressione in corsivo, l’asterisco può indicarne anche, sincronicamente, la “agrammaticalità”, cioè la sua estraneità alla grammatica di una lingua, quale che sia il grado di istruzione dei parlanti: *dillo a io. Sono molto grato agli amici che hanno letto una prima stesura di questo libro, correggendo e suggerendo: Daniele Baglioni, Claudio Ciociola, Matteo Motolese, Giuseppe Patota, Emiliano Picchiorri, Lucilla Pizzoli, Maria Silvia Rati, Stefano Telve, Giuseppe Zarra. Come si precisa sempre in questi casi (ma dovrebbe essere ovvio), l’unico responsabile delle residue mende è l’autore.

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Le fondamenta

1.1. Temi, libri, persone Di che cosa si occupa la storia della lingua? La risposta non è intuitiva né univoca. L’epigrafia latina, per esempio, ha ben chiari l’oggetto di studio (testi in lingua latina su supporti di vario tipo, ma non su papiro o pergamena), il segmento cronologico (dalle origini della scrittura latina fino all’età tardo-antica) e persino un riconosciuto progenitore, il veronese Scipione Maffei, che si proponeva di raccogliere le epigrafi latine fino ad allora note – la documentazione è il presupposto di qualsiasi disciplina storica – e che fondò un museo lapidario nella sua città nel 17451. Nel nostro caso si tratta invece di un complesso di saperi e di tecniche che attraversa più aree contigue. Nel 1972 il compianto Alberto Varvaro ha parlato di una «categoria controversa» e diversi anni dopo, in ri-

1   Naturalmente avrebbe pieno rilievo scientifico anche uno studio sulle iscrizioni latine negli edifici pubblici del Novecento ma, prescindendo dalle affinità di impostazione metodologica con l’epigrafia classica, il campo disciplinare sarebbe piuttosto quello della Letteratura latina, attenta alla presenza del classico nella cultura moderna, o magari quello della Storia dell’architettura.

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ferimento alla tradizione italiana, ha confezionato una sorta di ricetta dello «storico della lingua italiana prototipico»: un fondo (nel senso gastronomico del termine) di preparazione linguistica, una dose prevalente di interesse per la lingua letteraria, un’aggiunta di curiosità per le metodologie della critica letteraria, larga disponibilità per l’esercizio della critica e della storiografia letteraria in sé e per sé; beninteso, a supportare il tutto c’è quasi sempre la pratica personale dell’edizione critica, almeno una volta nella vita.

Avremo occasione di ritornare su questa brillante ricetta; notiamo sùbito, però, che la dose di linguistica, in particolare di linguistica storica, andrebbe rafforzata: è proprio questo l’ingrediente che dà sapore a tutto il resto. Se è indubbio che i problemi culturali e le linee di ricerca esistono indipendentemente dal fatto che esista una specifica disciplina di riferimento, è innegabile che l’attivazione di una cattedra universitaria dedicata giovi alla promozione degli studi di quel particolare settore e, prima ancora, ne chiarisca il senso e la direzione. Se è così, l’atto di nascita di una storia della lingua risale al 1900, quando Ferdinand Brunot (1860-1938) fu chiamato alla cattedra di Histoire de la langue française espressamente istituita per lui alla Sorbona. Di lì a qualche anno Brunot avrebbe dato avvio alla sua monumentale Histoire de la langue française, poi continuata da altri. Le vicende storiche delle varie lingue influenzano l’impostazione degli studi e incidono inevitabilmente sulle rispettive tradizioni di ricerca e di didattica. Le lingue romanze hanno nel latino la base comune, prescindendo dalla quale non si potrebbe procedere nello studio della linguistica romanza; ma, pur condividendo

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il distacco dal sistema linguistico latino (perdita delle declinazioni, sviluppo del passivo analitico ecc.) e l’esposizione ad analoghi macrofenomeni storico-culturali (contatti con le popolazioni germaniche, influsso del cristianesimo ecc.), attraversano diversissime fasi di sviluppo nel corso della loro storia. In generale, spiccano le differenze tra l’italiano, da una parte, e le altre due grandi lingue romanze europee, il francese e lo spagnolo, dall’altra. Nel primo caso, infatti, la percezione di uno sviluppo senza soluzioni di continuità, dal Placito di Capua (960) alla lingua degli sms – quale che ne sia l’effettivo fondamento (cfr. cap. 5) – fa sì che il singolo storico della lingua, anche se proiettato sulla contemporaneità dalla sua ricerca scientifica personale, non possa prescindere dai problemi delle Origini (come parte integrante delle sue competenze professionali e magari come possibile oggetto di un corso universitario). Nel secondo caso, l’esistenza di uno iato tra fase antica e fase moderna (variamente collocabile) dà vita a profili scientifici e accademici distinti. Relativamente vicino al quadro italiano è l’assetto disciplinare della “Storia della lingua spagnola” in Spagna, forse con una più spiccata focalizzazione di aspetti di linguistica in senso stretto: fonetica, morfologia e sintassi storiche. In Francia, la “Storia della lingua francese” è concentrata sul francese antico, la langue d’oïl (e corrisponde sostanzialmente a quel che è, in Italia, la “Filologia romanza”: accentuata vocazione medievistica e spiccata caratterizzazione filologica), mentre di Victor Hugo o di formazione delle parole si occuperebbero, piuttosto, studiosi rispettivamente di letteratura e di linguistica. Allargando il quadro all’Europa non romanza, in Germania si hanno cattedre distinte a seconda che le competenze vertano sulla fase medievale

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(700-1500 circa) o sulla lingua moderna (dunque sullo sviluppo del tedesco letterario e dei suoi dialetti da Lutero fino ad oggi). Analogamente, nel Regno Unito è spiccata la separazione tra l’Old English del Beowulf, il Middle English di Chaucer (più accessibile per lo studente anglofono; ma in generale nelle università britanniche circolano testi con traduzione a fronte) e l’inglese moderno. La nascita della “Storia della lingua italiana” può essere fissata al 1938, quando fu istituita l’omonima cattedra all’Università di Firenze attribuita a Bruno Migliorini (1896-1975); l’anno successivo sarebbe stata attivata una cattedra anche nell’Università di Roma per Alfredo Schiaffini (1895-1971); fino alla fine degli anni Cinquanta, con le nomine di Gianfranco Folena (a Padova, 1956) e di Maurizio Vitale (a Milano, 1957), in anni in cui gli studi italianistici erano egemonizzati dalla Letteratura italiana, non furono istituite altre cattedre di ruolo per questa materia. A Schiaffini dobbiamo, tra l’altro, una raccolta di Testi fiorentini del Due e Trecento (1926), che intendevano rappresentare una specie di preistoria della prosa d’arte destinata a fiorire col Boccaccio. La raccolta è importante ancora oggi per due motivi: da un lato perché mostra la necessaria correlazione tra storia della lingua e filologia, intesa come accertamento preliminare della lezione dei testi (si veda oltre, pp. 90-98); dall’altro perché Schiaffini dà «spazio ad una varia campionatura che include sia volgarizzamenti dal latino e dal francese, sia prosa narrativa» (Stussi). Su questa via l’impresa di Schiaffini sarebbe stata continuata da Arrigo Castellani (1920-2004), che mise in atto tecniche di trascrizione di insuperata acribia e che indagò in molteplici studi il toscano medievale (in particolare “testi pratici”, cioè

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legati alle contingenze della vita quotidiana, dai libri di conti agli statuti delle confraternite): la caratterizzazione linguistica da lui delineata in cinquant’anni di studi è ancora oggi fondamentale. Ma torniamo a Bruno Migliorini, figura decisiva per la definizione accademica della disciplina. La sua opera regge molto bene l’usura del tempo; forse più di quel che avvenga per altri grandi linguisti della sua generazione, il cui nome ha resistito nella memoria degli studiosi successivi meglio dei rispettivi libri. È la conseguenza della sua vocazione alla ricerca concreta, empirica, fondata sulla rete di indagini minuziose e instancabili: nulla dies sine schedula ‘nessun giorno senza una scheda che registri qualche dato’ era il suo motto, ricalcato facetamente sul nulla dies sine linea che Plinio il Vecchio attribuiva al pittore greco Apelle. Ciò comportava un parallelo disinteresse per le correnti della linguistica generale e, soprattutto, per le descrizioni che talvolta ne discendono, fondate su una lettura parziale dei dati e non sulla raccolta il più possibile vasta e documentata – e perciò stesso tendenzialmente più obiettiva – dei materiali. Migliorini ebbe molto forte il senso dell’autonomia della storia della lingua rispetto sia alla glottologia, sia alla storia della letteratura. Dalla grande tradizione dialettologica italiana rappresentata, sulla scia del magistero di Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907), da Carlo Salvioni (1858-1920), massimo esploratore dei dialetti lombardi, e da Clemente Merlo (1879-1960), massimo esploratore dei dialetti centro-meridionali, lo separava la sua freddezza per un’analisi che fosse fondata soltanto sulle strutture intrinseche, a partire dalla fonetica, col rischio di sottovalutare i fatti di cultura che agiscono nella lingua. L’oggetto privilegiato della ricerca dialettologica era, ed è in parte anche ora, il parlante “po-

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polare” (contadino piuttosto che cittadino, analfabeta piuttosto che alfabeta, anziano – e dunque più legato al dialetto tradizionale – piuttosto che giovane); Migliorini era sollecitato invece dall’intera platea dei parlanti e degli scriventi, in cui sono ben rappresentati il portato (e il prestigio) della cultura. È stato più volte rilevato come l’articolo che nel 1939 apriva «Lingua nostra», la prima rivista di Storia della lingua italiana, fondata da lui insieme al glottologo Giacomo Devoto (1897-1974) – dunque con l’intento di una dichiarazione programmatica di portata generale –, fosse dedicato proprio alle Correnti dotte e correnti popolari nella lingua italiana. In ciò Migliorini si richiamava a un remoto precursore: Ugo Angelo Canello (1848-1883), professore di Storia delle letterature neolatine (l’odierna Filologia romanza) a Padova, morto precocemente per i postumi di un incidente di carrozza. Canello aveva progettato una Storia della lingua italiana, scrivendone solo i primi due capitoli, restati manoscritti fino ad anni recenti, e pubblicando già nel 1873 una lezione sullo stesso argomento. Sono due i tratti più interessanti della sua ricerca linguistica: l’attenzione per la lingua coeva (la sua Storia della lingua cominciava dall’età moderna e il primo capitolo era dedicato all’apporto inglese, un tema di stretta attualità); e soprattutto la valorizzazione della componente dotta del patrimonio linguistico, nella convinzione, ineccepibile, che «Tra le classi superiori e inferiori d’una società c’è ricambio continuo sia d’idee che di parole o di frasi»2. A Migliorini dobbiamo la prima vera Storia della 2  La citazione, da un articolo del 1878, si legge tra l’altro in L. Serianni, Storia dell’italiano nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 93.

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lingua italiana, pubblicata, dopo molti anni di studio e diverse anticipazioni, nel 1960 (Firenze, Sansoni): era l’anno del millenario del più antico documento che in Italia certifichi un uso consapevole del volgare distinto dal latino, il già ricordato Placito di Capua del marzo 960, seguito a breve distanza, nel 963, da tre documenti del tutto simili (per questo si usa spesso il plurale placiti). Non si tratta di un anniversario qualsiasi. Il Placito di Capua contiene la formula con la quale tre testimoni affermavano che, per quanto a loro risultava, il monastero di Montecassino aveva goduto per trent’anni del possesso di certe terre, la cui proprietà veniva contestata dall’attore della causa, tale Rodelgrimo: «Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti» (‘So che quelle terre, nei confini che qui – cioè nel promemoria che ciascun testimone teneva in mano – sono indicati, le possedette per trent’anni il Monastero di San Benedetto’). Spiccano, nel merito, la continuità col diritto romano (il principio dell’usucapione, lì invocato, vale ancora oggi, benché con un diverso limite temporale) e, nella lingua, la specificità settoriale. Come ha scritto un grande giurista che è anche un grande linguista, quello del placito è «un modo d’esprimersi che è tutto giuridico» e ogni parola ha «un suo valore nitidamente definito»3, a cominciare da parte ‘parte in causa’ (sulla grafia avremo modo di ritornare: p. 56). Ma la Storia di Migliorini è ben lontana da qualsiasi intento celebrativo. Ricchissima di spogli di prima mano, equamente distribuiti nel corso dell’intera trattazione, si arresta allo scoppio della prima guerra mondiale: fatto   P. Fiorelli, Intorno alle parole del diritto, Milano, Giuffrè, 2008,

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notevole, se pensiamo che Migliorini è stato tra i primi a ritenere degno di attenzione scientifica anche l’italiano contemporaneo (e questo è un altro aspetto che lo avvicina a Canello). È stato opportunamente osservato che «ci sono intere sezioni della Storia in cui le citazioni sono soltanto riferimento diretto ad opere del secolo studiato [...]: il che vuol dire che, nell’assenza di studi particolari, il lavoro di Migliorini diviene primo scavo di documenti, prima sistemazione di materiali» (Baldelli). Tra i vari settori della linguistica, Migliorini fu più sensibile al lessico; anche perché l’indagine lessicale lo portava «a stretto contatto con la storia della cultura nel suo significato più ampio, da quello “materiale” e etnografico [...] a quello ideologico e intellettuale» (Ghinassi). Il capolavoro, in questo senso, è forse il giovanile e poderoso trattato Dal nome proprio al nome comune (1927), dedicato al processo per il quale nomi come Sosia o Cicerone sono diventati unità del vocabolario. Una mèsse impressionante di dati analitici, talvolta di sapore aneddotico, viene saldata in una robusta sistemazione d’insieme che mette continuamente in gioco i rapporti tra lingua e cultura. È importante sottolineare l’anno di uscita del volume: in un’epoca di trionfante idealismo, Migliorini avviò «un’indagine esattamente opposta a quella che dai nostri maestri ci era stata suggerita e che i più di noi confidentemente perseguivano. L’idea stessa del nome comune era vitanda» (Dionisotti). La Storia di Migliorini ha avuto come precursore immediato un succinto Profilo di storia linguistica italiana (1953) di Giacomo Devoto: opera di piglio assai originale, alla quale è stata riconosciuta «la grande e seducente novità che hanno le visioni d’insieme rispetto alle immagini parziali ed isolate, le narrazioni continuate rispetto ai frammenti descrittivi» (Stussi). Curiosamen-

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te, l’interesse del glottologo Devoto sembra soprattutto stimolato dai profili stilistici degli autori letterari, con esiti talvolta molto felici, talaltra meno convincenti. La più rilevante impresa successiva a Migliorini tentata da un singolo studioso si deve a Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca dal 2014 (La lingua italiana. Profilo storico, Bologna, Il Mulino, 1994; più volte riedita): esemplare per chiarezza, ampiezza d’informazione, aggiornamento bibliografico. 1.2. Storia linguistica interna ed esterna È fondamentale, nella prospettiva dello storico della lingua, la distinzione tra storia linguistica interna ed esterna, divulgata (se non introdotta) proprio da Brunot; una distinzione che è stata oggetto di critiche e di limitazioni, ma che conserva un’indubbia utilità euristica. 1. La storia interna, che in gran parte coincide con la grammatica storica, si riferisce alla dinamica evolutiva dei singoli istituti linguistici descritti da fonetica, morfologia, sintassi, per i quali non è accertabile un condizionamento del contesto esterno e che dipendono, in generale, dalla naturale mutabilità delle lingue per effetto del succedersi delle generazioni di parlanti e dell’interferenza di altri sistemi linguistici (per esempio la perdita della quantità nel vocalismo latino a favore della qualità o timbro); ovvero discendono dal riassestamento del sistema linguistico in séguito alla modificazione delle sue strutture (l’ordine diretto soggetto-verbo-oggetto, in sigla SVO, proprio della sintassi romanza, si afferma come contraccolpo alla perdita delle declinazioni latine e quindi per la necessità di qualificare la funzione sintattica, non più accertabile attraverso le desinenze, grazie alla posizione rigida all’interno della frase).

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2. La storia esterna comprende invece l’insieme dei fattori di ordine fisico, storico, antropologico o culturale che condizionano o possono condizionare l’evoluzione di una lingua. Per l’italiano è stata proposta4 la seguente scala, in ordine crescente d’importanza: fattori extra-culturali (conformazione del territorio); fattori culturali in senso lato (vicende demografiche, politiche, amministrative, economiche e militari); fattori culturali in senso stretto (alfabetismo e scolarizzazione, codificazione grammaticale, incidenza di modelli letterari e paraletterari e dei mezzi di comunicazione di massa). Ma la distinzione non può essere troppo rigida. Vediamo subito un esempio, relativo alla storia linguistica di Firenze, partendo da un brano del Principe, là dove Machiavelli raccomanda che el principe pensi, come im parte di sopra è detto, di fuggire quelle cose che lo faccino odioso o contennendo; e qualunque volta egli fuggirà questo, arà adempiuto le parte sua e non troverrà nelle altre infamie periculo alcuno (p. 268 ediz. Inglese).

Qualsiasi lettore si rende conto che la lingua del grande scrittore, proprio nella sua compagine fonetica e morfologica, è più distante dall’italiano di oggi, la cui fisionomia è stata segnata dalla svolta arcaizzante del Bembo, di quanto non sia per l’appunto la lingua di Dante o di Boccaccio. Prescindendo da fatti linguisticamente poco significativi (la grafia im parte riproduce l’effettiva pronuncia di -n prima di una consonante la-

4  Cfr. L. Serianni, Le forze in gioco nella storia linguistica, in P. Trifone (a cura di), Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano, Roma, Carocci, nuova edizione, 2009, pp. 47-77.

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biale come p-; periculo è un banale latinismo), va osservato che alcune forme sarebbero state possibili anche nel Trecento, ma sono state poi emarginate dalla norma, che le ha avvertite come popolari: così il futuro troverrà, con -rr- non etimologica, ma dovuta all’attrazione puramente fonica di verrà (cfr. Villani, Nuova cronica: «come si troverrà per innanzi leggendo»; Boccaccio, Decamerone, VII 9: «quale altro troverrai tu che in arme, in cavalli, in robe e in denari possa star come tu starai»). Alcune forme, quelle che qui più interessano, rappresentano invece il frutto di influenze di altre aree della Toscana: l’articolo el proviene dalla Toscana meridionale e orientale; arà ‘avrà’ e il plurale le parte qui col valore di ‘funzione, compito’ dalla Toscana occidentale. Il possessivo sua plurale è un’innovazione autoctona del fiorentino quattrocentesco. Quanto al congiuntivo faccino, analogico sui verbi regolari della prima coniugazione (amino attrae a sé facciano < lat. faciant, in forza dell’infinito che in entrambi i casi esce in -are), si tratta di un modulo morfologico che, dall’italiano antico, è arrivato fin quasi ai giorni nostri (cfr. p. 121). Come si spiega questo rivolgimento che si produce dalla seconda metà del Trecento? Si spiega attraverso trasformazioni demografiche, «in conseguenza dell’intreccio perverso di eventi bellici, carestie e epidemie che segnò durante tutto il XIV secolo e la prima metà del successivo la storia della regione» (Palermo). E il pensiero va in primo luogo alla peste del 1348, nota a tutti i lettori del Decamerone, che spopolò Firenze ed altre città, per la facilità del contagio in gruppi concentrati di popolazione, favorendo il successivo inurbarsi di persone provenienti dal contado. Proprio in séguito a eventi del genere «la popolazione di Firenze compie un balzo dalle 41.000 unità del 1352 alle 70.000 del 1362,

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con un tasso di incremento demografico tra i più alti della sua storia». Un altro esempio classico di vicende linguistiche fortemente condizionate da catastrofi demografiche è offerto dalle vicende di Roma. Nel Medioevo il dialetto locale aveva tratti tipicamente meridionali (basti pensare al “dittongamento metafonetico”, che può prodursi anche in sillaba chiusa, cioè terminante per consonante: Cola di Rienzo in Toscana non avrebbe potuto essere altro che Cola di Renzo). Dal Cinquecento in avanti, l’idioma parlato a Roma si allinea fortemente al tipo toscano, anche per «un duplice shock demografico, senza termini di confronto nella storia di ogni altra città italiana»; al “sacco di Roma” del 1527 ad opera dei lanzichenecchi di Carlo V fece séguito «una colossale ondata migratoria di provenienza centro-settentrionale» (Trifone). In casi del genere, dunque, la storia linguistica esterna condiziona anche singoli fenomeni appartenenti allo strato più tipico e profondo di una lingua, quello fonetico. Ma è indubbio che in genere la componente linguistica più compromessa con la realtà extra-linguistica sia quella lessicale. Il lessico è l’elemento più dinamico e insieme più superficiale di una lingua. Più superficiale, perché rappresenta uno strato esterno, come l’epidermide rispetto al derma; e come la comune tintarella si perde in pochi giorni, una volta interrotta l’esposizione ai raggi solari, così molti neologismi si affacciano nel nostro orizzonte linguistico, ma non resistono a lungo. Ciò può dipendere da obsolescenza del referente (i finestrini delle auto non hanno più il deflettore e non usiamo più mangianastri o mangiacassette; fino a quando reggeranno il selfie o il tablet?) o anche dal fisiologico processo di rinnovamento del lessico, ben chiaro anche

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agli antichi: Orazio nell’Ars poetica, vv. 60-61 ricorre a un’immagine destinata a diventare famosa: come i boschi mutano di foglie quando l’anno volge alla fine, così muore la vecchia generazione delle parole, e quelle appena nate fioriscono e vigoreggiano, a somiglianza di giovani5. Così, è solo per ragioni interne, puramente linguistiche, che ci siamo stancati di forese, messere e olire a vantaggio di contadino, signore e profumare. Le parole connesse col mondo esterno alla lingua, in un suo preciso momento storico, vanno ben oltre la ristretta nomenclatura degli oggetti che escono d’uso. Parole come algebra, zero, cifra recano in sé l’impronta di un preciso momento storico e ci rimandano all’influsso arabo nella terminologia matematica, uno degli eventi capitali della storia della scienza: furono gli scienziati arabi «ad unificare la matematica di origine indiana e babilonese con quella di tradizione greco-ellenistica, assimilando dalla prima le conoscenze aritmetiche e astronomiche, il sistema di numerazione posizionale e lo zero, e dalla seconda le trattazioni geometriche e quelle sui fondamenti logici e filosofici delle scienze»6. Allo stesso modo, se anche non sapessimo nulla dei bizzarri neologismi coniati dal naturalista fiorentino Giovanni Targioni Tozzetti (1712-1783), quali anceologia ‘studio di valli e pianure’ o bunogenia ‘formazione delle colline’, potremmo comunque escludere che si tratti di formazioni anteriori al pieno Settecento, l’epoca in cui «i grecismi d’ambito specialistico cominceranno ad es-

5   «Ut silvae foliis pronos mutantur in annos, / prima cadunt: ita verborum vetus interit aetas». 6  F. Feola, Gli esordi della geometria in volgare. Un volgarizzamento trecentesco della Practica Geometriae di Leonardo Pisano, Firenze, Accademia della Crusca, 2008, p. 13.

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sere immessi nelle lingue moderne in maniera “diretta”, senza più l’intermediazione del latino scientifico»7 e in cui gli scienziati daranno libero corso alla loro fantasia onomaturgica. Se è difficile separare parole e cose, è possibile studiare da un punto di vista puramente linguistico non solo l’evoluzione della fonetica, ma anche quella di morfologia e sintassi. L’idea di descrivere l’italiano prescindendo dalla storia esterna, e dunque proponendo una diversa periodizzazione rispetto a quella secolare, è stata accarezzata da Ghino Ghinassi (1931-2004), successore di Migliorini nella cattedra fiorentina, e poi messa in atto dal suo validissimo allievo Riccardo Tesi, in due volumi del 2001 (con riedizione aggiornata nel 2007) e 2005. Nella bella introduzione che Ghinassi scrisse per una ristampa della Storia (1988) – bella appunto perché nient’affatto celebrativa e oleografica – emergevano due riserve, due prese di distanza. La prima è legata alla ricostruzione storica “a una sola arcata”, «dai placiti cassinesi o da Dante ai tempi nostri, secondo uno schema prospettico che appiattisce sul presente un passato secolare, poggiando magari sul presupposto, pure miglioriniano, che la nazione e la coscienza nazionale italiana sia nata già, miracolosamente compiuta, al tempo di Dante, anzi sia stata creata da Dante stesso». La seconda riguarda la periodizzazione fondata sul criterio estrinseco della divisione secolare: con la necessità e la difficoltà, per il lettore, di riannodare «i fili rimasti interrotti e pendenti da un capitolo all’altro». Quanto al primo punto c’è da chiedersi, tuttavia, se la proiezione della lingua italiana nelle brume dei 7  R. Tesi, Storia dell’italiano. La lingua moderna e contemporanea, Bologna, Zanichelli, 2005, p. 76 n. 21.

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primi secoli, quando non esiste un italiano e nemmeno un dialetto destinato a divenire tale, ma solo un insieme alquanto differenziato di volgari – e sarà pure una proiezione di matrice ideologica ancora risorgimentale, come vuole Ghinassi – alteri il merito dell’analisi. Direi proprio di no: esaminando la lingua dei Placiti campani, per esempio, Migliorini si esprime sfavorevolmente a proposito dell’ipotesi dell’insigne linguista Matteo Bartoli (1873-1946) il quale nel 1946, in un articolo apparso in «Lingua nostra», alla riapertura delle pubblicazioni dopo il turbine della guerra, ipotizzava che sao, invece del saccio che ci aspetteremmo in quell’area, fosse un settentrionalismo e, come tale, «il primo segno dell’unità linguistica della nostra Nazione» (questa sì una petizione ideologica, e sia pure nobilmente tale!)8. D’altra parte, nessuna delle storie della lingua italiana che si sono succedute da allora ha creduto di poter fare a meno della preistoria rappresentata dai primi documenti in volgare italoromanzo, magari facendo retrocedere la trattazione alla latinità e con ciò accentuando l’inevitabile teleologismo (leggere il passato alla luce degli sviluppi successivi) imputato alla Storia miglioriniana. Ma lo stesso si potrebbe dire per le storie linguistiche di altre lingue, non condizionate da echi risorgimentali. Per il francese Brunot si proponeva di tracciare un percorso da Plauto a Labiche, il commediografo morto solo qualche anno prima, nel 18889; Marcel Cohen, dopo un capitolo iniziale obiettivamente esorbitante su «Cerveau,

8   M. Bartoli, Sao ko kelle terre, in «Lingua nostra», VI (19441945), pp. 1-6. 9  Oltretutto, com’è stato notato, con curiosa indifferenza alla geo­ grafia: Plauto era di Sarsina, nell’Umbria antica (oggi in Romagna), Labiche era parigino.

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pensée, langage», parte addirittura dall’indeuropeo per approdare al latino volgare. Per lo spagnolo, la classica Historia di Rafael Lapesa muove dalle «lenguas prerromanas» per arrivare all’«español actual» in Spagna e nel mondo10. Più ricca di implicazioni potrebbe essere invece la questione della periodizzazione. Prescindiamo dal fatto che la scelta di Migliorini – la scansione secolare più ovvia e tradizionale – appare inevitabile, dal momento che all’epoca mancavano completamente i dati linguistici e culturali necessari per disegnare un’eventuale articolazione interna della materia. E prescindiamo anche da una considerazione puramente empirica, per la quale l’importante – si potrebbe dire – è che siano ben presenti i dati e che la loro interpretazione sia solida e persuasiva; un indice analitico ben costruito permetterebbe di recuperare tutte le informazioni comunque distribuite. La teorizzazione di un diverso ordine della materia è illustrata con chiarezza da Tesi: Come avviene in altre discipline, anche per la storia dell’italiano è possibile individuare una scansione strettamente legata alla materia descritta. Un buon criterio di periodizzazione storico-linguistica – non l’unico, s’intende – può essere quello che si basa sull’alternanza di norme linguistiche (o standard linguistici) dipendente da trasformazioni sociali e culturali profonde che ridisegnano il comportamento linguistico (o i comportamenti linguistici) della collettività.

10   Cfr. rispettivamente F. Brunot, Histoire de la langue française des origines à 1900, t. I, De l’époque latine à la Renaissance, Paris, Colin, 1905, p. v; M. Cohen, Histoire d’une langue: le français (des lontaines origines à nos jours), Paris, Editions Hier et Aujourd’hui, 1947; R. Lapesa, Historia de la lengua española (1942), Madrid, Gredos, 1981.

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La prima fase – continua Tesi – è quella dei volgari medievali ed è caratterizzata da un plurilinguismo in cui nessun volgare spicca davvero sugli altri; la seconda è quella umanistico-rinascimentale in cui si afferma «un volgare particolare (il toscano, anzi il fiorentino letterario dei grandi autori del Trecento) che catalizzerà il processo di uniformazione della lingua scritta». Per l’età moderna si distinguono due fasi talmente generali da risultare scarsamente utili dal punto di vista euristico: «la formazione della lingua moderna» e, per la lingua contemporanea, «una fase ancora aperta». La conclusione è che «sarebbe preferibile parlare di “storia dell’italiano” (inteso come lingua comune scritta) solo a partire dal periodo umanistico-rinascimentale». Nel secondo volume, La lingua moderna e contemporanea, Tesi sottolinea, anche attraverso la titolazione dei capitoli, alcuni momenti centrali nel percorso evolutivo dell’italiano post-cinquecentesco: gli «aspetti moderni dell’italiano secentesco», in cui si sviluppano intuizioni contenute in un manuale molto originale ma editorialmente sfortunato apparso nel 1981 ad opera del glottologo Marcello Durante (1923-1992; Dal latino all’italiano moderno, Bologna, Zanichelli); la «Chiesa e la diffusione della lingua scritta»; la formazione dei linguaggi scientifici nel Sei-Settecento; la «stabilizzazione della norma nell’Ottocento», «assestamento e crisi dell’italiano manzoniano», per arrivare all’età contemporanea in cui, come abbiamo detto, la rinuncia alla periodizzazione è esplicita. Credo che chiunque converrebbe con Tesi sul fatto che gli snodi evolutivi da lui indicati siano indiscutibilmente centrali (e in alcuni di questi settori, come il movimento della sintassi nel Cinque-Seicento e la costruzione di un italiano scientifico, l’apporto delle sue

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ricerche è notevole). Ma l’ambizione di disegnare una periodizzazione utilmente alternativa a quella tradizionale non può dirsi coronata da successo. Per diversi motivi: 1. alcuni dei temi indicati da Tesi configurano tipici elementi di “storia linguistica esterna” (la Chiesa, le scienze), confermando la difficoltà di separare davvero la lingua dal contesto in cui i parlanti e gli scriventi operano; 2. manca un unico centro ordinatore: nel Medioevo il plurilinguismo interessa la totalità dei parlanti e degli scriventi, mentre molti fenomeni dei secoli successivi hanno uno spiccato carattere elitario (la seconda fase, «che potremmo far partire dalle discussioni umanistiche sulla grammaticalità del volgare», ha un punto di avvio che riguarda una ristretta cerchia di umanisti e che, comunque, si fonda su presupposti di tipo storicoletterario e filosofico, prima che linguistico); 3. la proposta di far partire la vera e propria storia dell’italiano dalla codificazione cinquecentesca non tiene conto del fatto che quella codificazione fu possibile solo perché i grandi trecentisti toscani avevano goduto di un prestigio straordinario nell’ambiente letterario già prima del Bembo e la loro lingua era stata sussunta entro un orizzonte di continuità che si manifesta con grande evidenza nei generi letterari (la novella modellata sul Decamerone, la lirica condizionata dal canzoniere petrarchesco). Se rinunciamo alla pretesa di disegnare un percorso evolutivo tutto interno alla lingua, non sarebbe difficile, per l’età post-unitaria, suggerire articolazioni specifiche (ammesso che valga davvero la pena di cimentarsi nell’impresa). Pensiamo al 1861, l’anno dell’Unità, con le possenti trasformazioni socio-economiche, giuri-

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diche e culturali che ne conseguono (dall’incremento dell’alfabetizzazione grazie all’istruzione elementare all’indebolimento dei dialetti per effetto delle grandi migrazioni, dalla facilità di spostarsi e di venire a contatto con altri ambienti alla leva obbligatoria e alla necessità, per soldati provenienti da ogni parte d’Italia, di superare gli angusti confini del dialetto natio). O al 1924, l’anno delle prime emissioni radiofoniche, che irrompe nelle abitudini linguistiche di un’Italia ancora prevalentemente rurale. O alla fine del secolo XX, quando la scrittura elettronica diventa un fenomeno di massa, imponendo una nuova varietà di italiano scritto, quello mediato dal computer o dal telefono cellulare (chat, e-mail, sms).

Integrazioni bibliografiche 1. I due riferimenti a Varvaro sono a Id., Storia della lingua: passato e prospettive di una categoria controversa, poi nel suo La parola nel tempo. Lingua società e storia, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 9-77, e a Id., Storia della lingua e filologia (a proposito di lessicografia), in N. Maraschio, T. Poggi Salani (a cura di), Storia della lingua italiana e storia letteraria, Firenze, Cesati, 1998, pp. 99-108 (100). Per la definizione scientifica e accademica della disciplina si vedano inoltre A. Stussi, Storia della lingua italiana: nascita d’una disciplina, in Id., Tra filologia e storia. Studi e testimonianze, Firenze, Olschki, 1999, pp. 45-80; L. Serianni, Fare storia della lingua, in T. Gregory (dir.), XXI secolo. Comunicare e rappresentare, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2009, pp. 309-317; C. Marazzini, Da dove viene e dove va la Storia della lingua italiana, in A. d’Angelis, L. Toppino (a cura di), Tendenze attuali nella lingua e nella linguistica italiana in Europa, Roma, Aracne, 2007, pp. 153-175; S. Covino, I maestri di Gianfranco Folena e la

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storia della lingua italiana oggi, in I. Paccagnella, E. Gregori (a cura di), Lingue testi culture. L’eredità di Folena vent’anni dopo, Padova, Esedra, 2014, pp. 27-48. Oltre ai manuali di Storia della lingua sui quali ci si è soffermati nel corso del capitolo (Migliorini, Devoto, Tesi, Marazzini), è necessario citare una monografia dedicata alla lingua letteraria (V. Coletti, Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Torino, Einaudi, 1993) e alcune imprese collettive: L. Serianni, P. Trifone (a cura di), Storia della lingua italiana, Torino, Einaudi, 1993-1994; la serie di volumi pubblicati dal 1989 in avanti dall’editore Il Mulino nella collana Storia della lingua italiana curata da Francesco Bruni, che coprono l’intero arco della storia linguistica, dal Medioevo di R. Casapullo al Novecento di P.V. Mengaldo (e alcuni volumi sono stati aggiornati e ristampati in veste autonoma: P. Manni, La lingua di Dante, Bologna, Il Mulino, 2013; Serianni, Storia dell’italiano nell’Ottocento cit.; P.V. Mengaldo, Storia dell’italiano nel Novecento, Bologna, Il Mulino, 2014); i volumi tematici della collana L’italiano: testi e generi curata per l’editore Il Mulino da Rita Librandi, della quale fino al 2013 sono usciti sette volumi (R. Librandi, La letteratura religiosa, 2012; R. Gualdo, La scrittura storico-politica, 2013; R. Cella, La prosa narrativa. Dalle Origini al Settecento, 2013; M. Colombo, Il romanzo dell’Ottocento, 2011; L. Matt, La narrativa del Novecento, 2011; S. Bozzola, La lirica. Dalle Origini a Leopardi, 2012; A. Afribo, A. Soldani, La poesia moderna. Dal secondo Ottocento a oggi, 2012); i tre volumi di G. Antonelli, M. Motolese, L. Tomasin (a cura di), Storia dell’italiano scritto, Roma, Carocci, 2014. Da ricordare infine un’altra notevole impresa curata da F. Bruni (autore, anni prima, anche del manuale L’italiano. Elementi di storia della lingua e della cultura, Torino, Utet, 1984) e dedicata alla dinamica italiano-realtà regionali: L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, Torino, Utet, 1992, col parallelo vol. L’italiano nelle regioni. Testi e documenti, ivi, 1994. 1.1. Sulla figura di Bruno Migliorini si vedano due volumi miscellanei: M. Fanfani (a cura di), L’opera di Bruno Migliori-

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ni nel ricordo degli allievi, con una bibliografia dei suoi scritti, Firenze, Accademia della Crusca, 1979 (di qui ho cavato una citazione da un articolo di I. Baldelli, p. 21) e M. Santipolo, M. Viale (a cura di), Bruno Migliorini. L’uomo e il linguista, Rovigo, Accademia dei Concordi, 2009 (da un mio intervento lì pubblicato, L’eredità scientifica di Bruno Migliorini: una testimonianza, pp. 9-13, ho liberamente attinto). Meritamente noto un saggio di C. Dionisotti, apparso nel 1962 come recensione alla Storia della lingua italiana di Migliorini e poi ripubblicato in forma ampliata nel 1967, in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 89124 (di qui, p. 106, la citazione). L’essenziale dei contributi di Migliorini sulla lingua contemporanea si legge in B. Migliorini, La lingua italiana del Novecento, a cura di M. Fanfani, Firenze, Le Lettere, 1990. Sul Canello cfr. G. Folena, Ugo Angelo Canello e i primordi della storia della lingua italiana, in A. Daniele, L. Renzi (a cura di), Ugo Angelo Canello e gli inizi della filologia romanza in Italia, Firenze, Olschki, 1987. La citazione da Ghinassi si legge in Id., Bruno Migliorini e la sua “Storia della lingua italiana”, introduzione alla ristampa della Storia del 1988 (Firenze, Universale Sansoni), p. xxv n. 1.2. La distinzione tra storia linguistica interna ed esterna si ritrova anche in Saussure (il Cours de linguistique générale fu pubblicato postumo nel 1916, sulla base di appunti presi dagli studenti che avevano assistito alle lezioni del linguista ginevrino; per la parte che ci interessa cfr. F. de Saussure, Corso di linguistica generale, a cura di T. De Mauro, Bari, Laterza, 1967, pp. 31-34); ma un’analoga distinzione si era affacciata anche nel Canello: cfr. Folena, Ugo Angelo Canello cit., p. 20. Il brano di Machiavelli è attinto dall’edizione critica di G. Inglese, De principatibus, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1994. Le citazioni da M. Palermo sono nel suo articolo Sull’evoluzione del fiorentino nel Tre-Quattrocento, in «Nuovi Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina», 8-10 (1990-1992), pp. 131-156 (136 e 138). Per la situazione linguistica di Roma cfr. P. Trifone, Rinascimento dal basso. Il nuovo spazio del volgare tra Quattro e Cinquecento, Roma, Bulzoni,

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2006, pp. 61-94 (91); una ricostruzione parzialmente diversa della toscanizzazione a Roma è stata delineata da M. Mancini, in vari contributi (si veda il più recente: Nuove prospettive sulla storia del romanesco, in “Effetto Roma”. Romababilonia, Roma, Bulzoni, 1993, pp. 9-40). Sul Targioni Tozzetti cfr. G. Virgilio, La creatività linguistica di Giovanni Targioni Tozzetti, in «Studi di lessicografia italiana», XXXI (2014), pp. 203-232. Le citazioni da Ghinassi sono dalla sua Introduzione alla ristampa cit., pp. xxxv-xxxvi e xxv. I volumi di Tesi a cui si fa riferimento sono Storia dell’italiano. La formazione della lingua comune dalle fasi iniziali al Rinascimento, Bologna, Zanichelli, 2007 (le citazioni alle pp. 4 e 5) e Id., Storia dell’italiano. La lingua moderna e contemporanea cit.

2.

Dal latino all’italiano

2.1. La grammatica storica Come tutti sanno, l’italiano deriva dal latino; deriva, o meglio è il latino del XXI secolo, senza apparenti soluzioni di continuità, come è andato trasformandosi di generazione in generazione. Il punto di partenza non è il latino classico, codificato già dagli antichi come modello letterario, bensì un “latino volgare”, ossia una varietà parlata, presumibilmente alquanto diversa da una regione all’altra all’interno dell’immenso impero romano. Alcuni tratti del latino volgare sono presenti già nel latino arcaico; altri, i più, si producono soltanto nella tarda età imperiale. Tra i primi, ricordiamo la perdita di -m finale: nell’elogio funebre di Lucio Cornelio Scipione, che fu console nel 259 a.C. e che, nel corso della prima guerra punica, conquistò la Corsica con la città di Aleria, si legge tra l’altro: «cepit Corsica Aleriaque urbe», mentre nel latino classico avremmo avuto Corsicam, Aleriamque, urbem. Tutti i fenomeni che citeremo tra poco appartengono invece al secondo gruppo. Si diceva che in apparenza non c’è discontinuità tra latino e italiano. Ma le trasformazioni sono profonde e investono la stessa tipologia delle due lingue, come san-

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no bene gli studenti che devono affrontare con impegno e fatica lo studio della lingua di Cicerone. Italiano e latino appartengono entrambi alla tradizionale classe delle lingue flessive, nelle quali un morfema ci dà più informazioni grammaticali: in ragazz-i, per esempio, il morfema -i ci dice che la parola è maschile (genere) e plurale (numero); ma in latino la concentrazione di informazioni contenuta in un morfema è superiore: in puer-os, -os ci dice non solo che si tratta di un maschile plurale, ma anche che il caso è l’accusativo. Fondamentale è poi il diverso ordine delle parole nella frase: l’italiano presenta, nella frase elementare, l’ordine soggetto-verbo-oggetto (SVO: Tutti desiderano la felicità), mentre l’ordine prevalente della frase latina è soggetto-oggetto-verbo (SOV: Fata viam invenient: Virgilio, Aeneis, III 395) ‘il destino troverà la strada; quel che deve accadere accadrà comunque’, ovvero, per riprendere la frase italiana da cui siamo partiti: Omnes beatitudinem appetunt. In realtà il latino ammette anche altre sequenze, e può farlo proprio perché il valore sintattico del singolo elemento è garantito dal suo morfema: un accusativo resta tale anche se si trova prima del verbo, nella posizione che, in una lingua romanza, è quella tipica del soggetto. Così, Marcum amat Livia corrisponde all’ital. Livia ama Marco, e Marco ama Livia vorrebbe dire un’altra cosa (in amore l’ordine degli addendi non è indifferente); se volessimo mettere in evidenza l’oggetto, dovremmo ricorrere a una frase marcata (È Marco che Livia ama e non, poniamo, Guglielmo o Pietro; si tratterebbe di una “frase scissa”, in cui l’elemento nuovo che si vuole evidenziare è introdotto dal verbo essere e la parte restante è introdotta da un che a metà tra pronome relativo e congiunzione subordinante).

2. Dal latino all’italiano

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Le differenze topologiche (cioè relative all’ordine delle parole, al “luogo” che esse occupano nella frase) tra latino e italiano vanno molto oltre la sequenza dei costituenti elementari. Leggiamo un brano di Cesare: totius fere Galliae legati, principes civitatum, ad Caesarem gratulatum convenerunt (De bello gallico, I XXX; ‘ambasciatori di quasi tutta la Gallia, rappresentanti autorevoli delle loro comunità, vennero a congratularsi con Cesare’).

In totius Galliae legati si ha una sequenza tipica del latino, in cui il determinante (qui un complemento indiretto, ma potrebbe essere anche un attributo) precede il determinato. Ancora una volta si tratta di una sequenza preferenziale ma non obbligatoria, come mostra il successivo principes civitatum (invece dell’altrettanto plausibile civitatum principes). Si noti anche la “costruzione a sinistra”, ossia l’accumulo nella parte sinistra della frase di tutti gli elementi che completano il significato del verbo reggente convenerunt, l’asse portante posto a chiusura della frase stessa. Per influsso della topologia latina l’italiano letterario e poetico ha mantenuto a lungo costrutti del genere. Ecco, per esempio, una doppia anticipazione del determinante (in corsivo) in Leopardi: «Vano dirai quel che disserra e scote / Della virtù nativa / le riposte faville?» (A un vincitore del pallone); ed ecco una costruzione a sinistra in Boccaccio: «Delle quali cose [le vivande e i vini nella tavola imbandita], per ciò che belle e ordinate erano, rallegrato ciascuno, con piacevoli motti e con festa mangiarono» (Decamerone, I Introduzione). Ma le differenze tra latino e italiano investono l’intero edificio linguistico, a partire dalla fonetica. Rinviando a uno dei tanti manuali di grammatica stori-

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ca per un’esposizione meno cursoria, limitiamoci qui all’essenziale: 1. Le vocali latine si distinguevano in base alla quantità, che bastava a opporre due parole altrimenti identiche, come vĕnĭt ‘viene’ e vēnĭt ‘venne’, lĕvĭs ‘leggero’ e lēvĭs ‘liscio’ (quando in una lingua due parole si differenziano per un unico tratto distintivo, qualunque esso sia, si parla di “coppie minime”). Questo sistema non ha lasciato traccia in nessuna lingua romanza, e ciò vuol dire che è entrato precocemente in crisi nel latino volgare. Alla quantità vocalica si è sostituita la qualità: delle vocali non si coglie più la durata (che esiste anche in italiano, ma non ha rilevanza fonematica, non serve cioè a distinguere le parole tra loro), bensì la qualità o timbro. Nell’italiano standard, fondato sul tipo toscano, riconosciamo sette vocali sotto accento (a, i, u, la e aperta di lèggo, la e chiusa di vérde, la o aperta di pòrto, la o chiusa di vóce); fuori d’accento, cioè in posizione atona, le vocali si riducono a cinque, tendenzialmente pronunciate chiuse, con piena corrispondenza col sistema grafico. La qualità delle vocali è determinata di norma dalla quantità delle vocali latine: per esempio da ĭ si ha e chiusa (mĭnus > meno), da ī, i (vīnum > vino)1. 2. Le consonanti finali cadono tutte, compresa -s, che invece ha resistito nelle lingue romanze occidentali: in spagnolo fino ad oggi (los hombres ‘gli uomini’), in francese fino al basso Medioevo, ma si conserva nella

1   Schema del vocalismo tonico (sette vocali): ā e ă > a, ī > i, ū > u, ĭ e ē > e chiusa, ŭ e ō > o chiusa, ĕ > e aperta, ŏ > o aperta. Schema del vocalismo atono (cinque vocali; mancano e ed o aperte): ā e ă > a, ī > i, ū > u, dunque con lo stesso esito che si ha nel vocalismo tonico; ĭ, ē, ĕ > e chiusa, ŭ, ō, ŏ > o chiusa.

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grafia e, nei casi di liaison, anche nella fonetica (les hommes: si pronuncia la prima s, non la seconda). 3. Si produce una serie di decurtazioni fonetiche, spesso impredicibili, e quindi non sistematiche: l’afèresi colpisce uno o più fonemi in posizione iniziale (dall’avverbio latino (i)bi all’ital. vi); la sincope interessa una vocale o una sillaba atona al centro della parola; l’apòcope o troncamento una vocale o una sillaba in posizione finale (buon ‘buono’, piè ‘piede’). Due parole in più sulla sincope. In italiano, che tra le lingue romanze è quella che conserva meglio le vocali non accentate, la sincope è sistematica nel caso della ŭ postonica del suffisso -ŭlum, -ŭlam (vet(ŭ)lum > vecchio, sit(ŭ)lam > secchia). Evidentemente, in questa posizione la sincope si è prodotta già nel latino volgare e ha fatto in tempo a estendersi a tutte le lingue romanze. 4. Nella morfologia si perde in gran parte il sistema dei casi, che sopravvive solo nei pronomi personali; pensiamo alle prime due persone: io < ego (nominativo) e me < me (accusativo e ablativo), tu < tu (nominativo) e te < te (accusativo e ablativo)2. La grande maggioranza delle parole deriva dall’accusativo, che è l’unico caso il quale, per il singolare, può dare ragione di tutti gli esiti italiani; nella prima declinazione, peraltro, la precoce caduta di -m aveva di fatto allineato l’accusativo rosă(m) al nominativo rosă e le due forme, una volta venuta meno la percezione della quantità, erano indistinguibili dall’ablativo rosā. Sicuri relitti del nominativo si hanno in alcune parole di altissima frequenza come uomo < homo, moglie < mulier ‘donna’, sarto < 2  Si noti, però, che la forma te è abitualmente usata in funzione di soggetto nell’Italia centro-settentrionale, da Roma in su («Vacci te al supermercato!»).

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sartor (dall’accusativo sartorem si è avuto invece l’antico sartore da cui sartoria), re < rex. 5. Radicalmente ristrutturato il sistema verbale. Si perde il passivo organico (amor ‘sono amato’ è sostituito da sum amatus), vengono eliminati i verbi deponenti (sequor è sostituito da sequo > seguo), i verbi irregolari cadono (ire è sostituito, tranne pochi relitti, da ambulare, riconoscibile nel franc. aller e, con una trafila fonetica molto più complessa, nell’ital. andare e nello spagn. andar ‘camminare’) o vengono regolarizzati (in volo, vis, volui, velle si crea un paradigma modellato sulla 2a coniugazione latina, favorito dal perf. volui, accostato a perfetti appunto della 2a coniugazione come habui: *voleo > voglio, *voles > vuoli > vuogli > vuoi, *volere > volere). Inoltre si perde il futuro organico, sostituito da una perifrasi (cantare *ao, con *ao ricavato da habeo ‘ho da cantare, canterò’ invece del classico cantabo) e nasce un modo verbale nuovo, assente in latino, il condizionale (formato da una perifrasi costituita dall’infinito e da un tempo storico di habere: da un cantare *hebuit3 dipende il toscano canterebbe, da un cantare habebat il tipo cantaria, canteria, largamente diffuso altrove). Fissiamo ora l’obiettivo sulla fisionomia linguistica del fiorentino antico, la base dell’italiano che si parla e si scrive nel Duemila. Quali sono i tratti linguistici che dimostrano la fiorentinità dell’italiano? Ne citeremo sei, i più rilevanti: a. Nel vocalismo tonico, ĕ e ŏ in sillaba libera, cioè terminante per vocale, dopo aver dato e ed o aperte, si dittongano in iè e uò: pĕdem > piede, nŏvum > nuovo (invece pĕctus > petto e ŏcto > otto, senza dittongamen-

  Invece del classico habuit.

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2. Dal latino all’italiano

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to, perché la sillaba è implicata, cioè termina per consonante). Il fenomeno è così tipico da essere noto come “dittongamento toscano”. Un antico dittongo può essersi perso o per influssi esterni o per spinte interne al sistema. Per il primo caso pensiamo agli antichi brieve < brĕvem e pruova < prŏbat, in cui il dittongo è regredito nel corso del XV secolo quando a Firenze, dopo la conquista di Pisa (1406), si diffondono alcuni tratti propri di quel dialetto (a Pisa, e a Lucca, dopo un gruppo di consonante + r la vocale tonica era rimasta intatta). Per il secondo caso si può ricordare l’allineamento dell’antico niega < nĕgat alle forme in cui l’originaria ĕ, trovandosi fuori d’accento, non si era dittongata, come negare < nĕgare, negava < nĕgabat (in termini tecnici: le forme rizotoniche, accentate sulla radice, come nièga, hanno perso il dittongo per influsso delle forme rizoatone, accentate sulla desinenza, come negàre). b. Davanti a determinati suoni o gruppi fonetici le e e le o chiuse toniche del latino volgare (= latino classico ĭ, ē e ŭ, ō) si chiudono ulteriormente in i e in u (“anafonèsi”). Il fenomeno interessa poche unità lessicali, ma è molto caratteristico perché nel Medioevo, al di fuori dell’uso fiorentino e della Toscana occidentale, era sconosciuto nel resto d’Italia ed è assente tuttora dai dialetti moderni: vĭncit > vince (rispetto, per esempio, al napoletano di De Filippo vence), ŭng(u)la > unghia (invece del veneziano di Goldoni ongia). c. Una e protonica del latino tardo (quindi risalente a basi latine classiche con ĭ, ē, ĕ) tende a chiudersi in i: mĭnorem > minore, sēcurum > sicuro, dĕcembrem > dicembre. Il fenomeno si produce anche all’interno di frase (o, come si dice, in “fonosintassi”); quando pronunciamo la sequenza in casa non facciamo sentire nessuno stacco tra la preposizione e il sostantivo, proprio

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come avverrebbe per incavo, incastro ecc. Ci aspettiamo dunque che quel che si produce all’interno di parola avvenga anche all’interno di frase: così ĭn > en > in, dē > de > di. Per le forme che muovono da una base latina con ĕ o ē la lingua poetica e letteraria dei secoli scorsi ha mantenuto in vita forme con e protonica: «di quel securo il fulmine» (Manzoni), «ma di decembre, ma di brumaio» (Carducci). d. Il gruppo ar in posizione interna atona davanti a vocale passa ad er: a chiamerà < *clamare at (invece del classico habet) corrisponde per esempio ciamarà nel milanese del Porta. Nell’italiano otto-novecentesco sono entrate forme di provenienza non fiorentina con ar conservato: alcune da singole aree regionali, dalla mozzarella napoletana al pennarello settentrionale; altre da una lingua straniera, come dollaro, attestato in italiano dalla fine del XVIII secolo; altre ancora attraverso il lessico scientifico, come primipara e oviparo. Un ulteriore fattore di indebolimento della fiorentinità originaria è dato dalla concorrenza tra a ed e in suffissi come -ereccio (casareccio e casereccio) o -erello (acquarello e acquerello). e. Il nesso rj in posizione intervocalica perde la consonante: notarium > notaio. Anche qui non mancano forme in cui appare l’esito normale in quasi tutta l’Italia non toscana, r: da denaro (la forma primitiva a Firenze era danaio, ancora oggi riconoscibile in salvadanaio) a montanaro e marinaro (accanto a marinaio; la pizza alla marinara tradisce già nella forma fonetica la sua estraneità rispetto alla gastronomia toscana), a una serie di forme romanesche entrate nell’italiano colloquiale nel corso del Novecento: bancarellaro, casinaro, gruppettaro, panchinaro (ma paninaro e casaro ‘operaio di un caseificio’ sono settentrionali; genericamente non toscano è somaro).

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f. Nella morfologia verbale, la 4a persona (o, se si preferisce, la 1a persona plurale) del presente indicativo ha abbandonato presto le desinenze originarie -amo (lat. am-amus), -emo (lat. deb-emus e, con spostamento d’accento, leg-ìmus invece del class. lègĭmus), -imo (ven-imus), in favore di una desinenza unitaria -iamo, probabilmente irradiata da siamo; a sua volta siamo nasce dal congiuntivo latino volgare *siamus (lat. class. simus), che si era esteso all’indicativo. L’italiano dei primi secoli conserva ancora molti esempi delle desinenze etimologiche, specie in poesia: «girando il monte come far solemo» (Dante, Purgatorio, II 123). 2.2. Parole popolari e parole dotte Il passaggio dal latino all’italiano secondo i meccanismi descritti dalla grammatica storica riguarda in realtà solo una piccola parte del patrimonio lessicale del latino scritto. Se pensiamo a quello che si chiama il lessico fondamentale, verificheremo facilmente che in diversi casi la base di partenza non è documentata nella latinità, ma è solo postulata dagli studiosi moderni, proprio come accade nel caso dell’indeuropeo. Lo spagnolo pasar, il francese passer, l’italiano passare, per citare una discendenza etimologica di palmare evidenza, rimandano tutti a un *passare, che tuttavia nessun testo latino ci conserva; e così lo spagnolo trabajar e il francese travailler (da cui deriva l’italiano travagliare) presuppongono verosimilmente un latino non attestato *tripaliare ‘torturare con uno strumento fatto di tre pali’, a conferma che il lavoro – un tempo soprattutto identificato con la dura fatica del contadino – è stato evidentemente percepito in modo unitario nella tarda latinità in gran parte dell’Europa meridionale né più né meno che come un supplizio.

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Non solo. Molte parole latine, adoperate nel corso dei secoli da Cicerone a Copernico o a Hobbes, non sono sopravvissute in nessuna lingua romanza (da ignis ‘fuoco’ a puer ‘ragazzo’). Altre continuano in significati del tutto diversi (plicare ‘piegare’ > spagn. llegar ‘arrivare’, bestiam ‘bestia’ > fr. biche ‘cerva’ e ital. biscia, domum ‘casa’ > ital. duomo ‘chiesa principale’). In altri casi ancora singole lingue romanze si distaccano dal latino, abbandonando forme del lessico fondamentale largamente condiviso dalle lingue sorelle. Così homo, ben vivo in tutta l’area romanza (spagn. hombre, franc. homme, ital. uomo ecc.), nell’accezione di ‘individuo di sesso maschile’ non è sopravvissuto nel romeno, che ricorre a un’altra parola latina (bărbat, che è il lat. barbatus: come avviene in molte culture, la barba è vista come contrassegno tipico del maschio adulto; om vale ‘essere umano’, senza distinzione di genere). I nomi dei giorni della settimana – tranne sabato e domenica, i due giorni marcati dall’impronta religiosa ebraico-cristiana – conservano ovunque traccia del paganesimo (lunae dies, martis dies ecc. passano in italiano a lunedì, martedì, in francese a lundi, mardi, in spagnolo a lunes, martes, in romeno a luni, marţi), mentre il portoghese ha optato per una denominazione neutra, fondata sulla semplice successione (segunda feira, têrça feira ecc.). Ma il rapporto tra il lessico latino e quello romanzo riacquista tutta la sua importanza e la sua specificità storica se passiamo dalla pura trasmissione del patrimonio ereditario alla fortissima pressione culturale che la lingua dell’antica Roma ha esercitato in tutte le epoche pressoché sull’intero dominio neolatino. Per la sua evidenza un dato si impone sugli altri: il peso delle parole dotte (dette anche latinismi o cultismi), ossia di parole che non hanno conosciuto una tradizione orale

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ininterrotta, a differenza di quelle apprese dai parlanti nei primi mesi di vita, ma sono state assunte dai libri, ad opera di adulti acculturati, dal Medioevo in poi. Qualche anno fa il linguista Tullio De Mauro ha coordinato un’indagine sull’italiano parlato, fondata su campioni prelevati in quattro grandi città (Roma, Firenze, Milano, Napoli) e prodotti nelle più varie situazioni comunicative. Le parole più frequenti sono, com’è naturale, le parole grammaticali: articoli (il, uno), preposizioni (di, a), congiunzioni (e, che), pronomi (lei, io, questo), avverbi fondamentali (non, sì, no), verbi come avere, essere, andare, potere, volere. Qualsiasi altra lingua europea presenterebbe dati simili a questi. Ma ciò che è specifico della situazione italiana (e romanza) è la presenza, in ranghi elevati, dei latinismi. Tra le 200 parole più frequenti del corpus in questione, i latinismi sono ben 10 e precisamente: pensare (rango 76), proprio (80), problema (87), modo (127), grazie (130), numero (146), tipo (147), senso (165), storia (191), ultimo (198). Della loro natura di cultismi fa fede la fonetica. Un’evoluzione popolare avrebbe dato vita a forme diverse che, almeno nel fiorentino, non sono mai esistite, come *probbiéma, *muodo, *grazze, *tépo, *séso, *stuoia, *óltimo4; oppure sono esistite solo nella fase antica come propio, con una dissimilazione parallela a quella dell’omologa forma spagnola, o hanno assunto un significato diverso (pensare, che già in latino aveva l’accezione figurata di ‘soppesare, considerare’, si continua in italia-

4   Tenendo conto soltanto dei pochi tratti di grammatica storica passati in rassegna nel § 2.1 saremmo in grado di motivare l’atteso dittongamento di *muodo < mŏdum e l’evoluzione di *tepo < typum (grecismo con vocale tonica breve), *oltimo < ŭltimum, *stuoia < histŏriam (dittongamento e perdita della consonante nel nesso rj).

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no nel significato fondamentale di pesare, numerus in quello particolare di novero). Risultati analoghi darebbe un assaggio nei lessici di frequenza spagnolo o francese: tra le più frequenti parole semanticamente piene troveremmo anche lì una buona rappresentanza di latinismi. Ma il latinismo più clamoroso dell’italiano è certo quello che indica la nazione di riferimento: Italia, in luogo della forma palatalizzata che ci aspetteremmo5 *Itaglia (o, con probabile aferesi, *Taglia). Se ci limitassimo a considerare il responso della fonetica storica, senza valutare altri fattori che intervengono nell’assetto storico delle lingue, dovremmo concludere che la lingua italiana ha più familiarità con la Spagna (parola ereditaria dal latino Hispania) che non con l’Italia. Sarebbe, certo, una conclusione affrettata: ma l’evidente impronta latina di una parola come questa si presta bene a illustrare la tradizione cólta, letteraria, imbevuta di fonti classiche che ha trasmesso attraverso i secoli – in epoca di forte frammentazione politica e culturale – l’idea di una individualità storico-geografica direttamente discendente dall’antichità classica, in cui il nome Italia, che in origine designava un ristretto territorio corrispondente all’estremo Mezzogiorno continentale, con Ottaviano e con la romanizzazione dell’Italia settentrionale (42 a.C.) viene sostanzialmente a coincidere con l’intera penisola. Il lessico di origine latina è un potente fattore di omogeneizzazione tra le lingue europee, romanze e non romanze, anche perché è stato spesso il tramite per l’introduzione di grecismi. Molti termini del lessico intellettuale europeo hanno un’impronta tipicamente latina (che può anche essere secondaria, quando si tratta di

  Pensiamo a filiam > figlia, spoliare > spogliare ecc.

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forme attinte non direttamente alla lingua di Cicerone bensì a una lingua moderna: quasi sempre il francese). È il caso, per citare un solo esempio, del lat. litteratura, passato al significato di ‘produzione letteraria’ già nel II secolo d.C., i cui succedanei sono perfettamente riconoscibili nella grande maggioranza delle lingue europee, dallo spagnolo al polacco, dall’inglese al russo; al punto che si farebbe prima a indicare le poche voci dissonanti dal concerto europeo, come l’ungherese irodalom o il neogreco φιλομογία (peraltro quest’ultima è una parola tutt’altro che isolata, visto che il latino classico se ne è appropriato per tempo, trasmettendola alle lingue moderne in un’accezione specifica). Può accadere che una stessa base latina sia rappresentata in italiano sia da una forma ereditaria, che presenta tutte le tipiche evoluzioni fonetiche del caso e che in genere si allontana dal significato originario, sia da una forma dotta, attinta dai libri a partire dal basso Medioevo, perlopiù vicina al significato del latino classico. Le forme implicate in questa doppia trafila vengono chiamate “allòtropi”, con un termine mutuato dalla chimica ad opera del Canello, in un memorabile articolo del 1878. Vediamo alcuni esempi di allotropi. Indichiamo con una linea continua l’esito popolare e con una linea tratteggiata, per rappresentare la discontinuità della tradizione, la parola dotta; tra parentesi la data della prima attestazione nota in italiano (mi limito ai testi toscani); la base latina è data al nominativo perché se ne possa distinguere il genere, nel caso si tratti di maschile o neutro. Si noti che la e e la o tonica dei latinismi tendono a essere pronunciate aperte, perché è questa la pronuncia con cui fin dal Medioevo si leggeva il latino (diciamo amóri in italiano, ma Amòres in riferimento all’opera di Ovidio).

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désco (1281-1282, in un documento senese, nell’accezione di ‘tavolo’) dĭscus

disco (1333, Arrigo Simintendi, nell’accezione di ‘attrezzo usato nelle gare di lancio’)

Desco ‘tavola per il pranzo’ nasce da una metonìmia: o perché era tondeggiante la tipica forma del tavolo in cui ci si riuniva per consumare il pasto o, meglio, da discus ‘piatto’, accezione già presente nel latino classico. cérchio (1263, in un documento senese) cĭrculus

circulo, circolo (Dante)

L’allotropo dotto in senso proprio è l’arcaico circulo; circolo, che presenta un elemento popolare, il passaggio di ŭ postonica a o, è un esito “semidotto”. vézzo (seconda metà XIII sec., Rustico Filippi) vĭtium

vizio (circa 1260-1261, Brunetto Latini)

La grande distanza semantica tra i due allotropi si spiega ammettendo che vezzo continui un’accezione secondaria di vitium, estranea al latino classico, quella di ‘abitudine’, ‘modo di comportarsi’, non marcata negativamente (pensiamo ai verbi avvezzare e svezzare, formati appunto su vezzo). Da ‘abitudine’ si sarebbe poi passati a ‘moina’. plebs, acc. plēbem

piève (1231-1232, in un documento senese) plebe (Dante)

Pieve ‘antica circoscrizione ecclesiastica dell’Italia medievale’ e poi ‘edificio sacro’ (una pieve romanica) ha assunto questo valore attraverso quello di ‘gruppo di fedeli’, già attestato nel latino tardo; plebs, che originariamente indicava

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la classe sociale contrapposta ai patrizi, aveva assunto già nel latino classico il valore spregiativo di ‘volgo, popolino’: è questa l’accezione in cui la riprende Dante («Oh sovra tutte mal creata plebe» Inferno, XXXII 13), riferendosi ai traditori. Da notare la pronuncia aperta della e, non solo nel cultismo plebe (dov’è normale), ma anche nell’allotropo popolare: ciò si spiega col fatto che il dittongo ie è stato accostato ai ben più frequenti dittonghi che, derivando da una ĕ (piede, siede, tiene ecc.), hanno una e aperta. aia (1277, Jacopo da Lèona) area

area (1327, in un documento pisano)

Al significato concreto di ‘spiazzo davanti a una casa’ (poi ‘davanti a una casa colonica’) si contrappone quello più astratto e generale di ‘superficie, spazio delimitato di terreno’. Da area si è avuto prima il passaggio a i semiconsonantica della e in iato, poi da *arja il consueto esito toscano -rj- > -j-. Claudia

Chioggia Claudia

Qui sono in gioco un toponimo (la cittadina veneta si chiama così da una Fossa Clodia, precoce monottongazione di Claudia, di cui parla Plinio il Vecchio; Clodius è una forma monottongata affermatasi già in epoca classica accanto a Claudius) e un nome femminile. La fortuna di Claudia, un nome oggi portato in Italia da quasi 150.000 persone, risale soprattutto al secondo Novecento. Clara

Chiara Clara

Clara è un nome che si trova usato nell’onomastica già nei primi secoli dell’èra volgare; di notevole diffusione anche in altre lingue europee (franc. Claire, ted. Klara ecc.), è di

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fortune soprattutto novecentesche; in Italia conta oggi circa 65.000 portatrici. Chiara, molto più frequente (circa 165.000 portatrici, e in grande espansione nelle generazioni più giovani) è ben radicato anche nei secoli scorsi grazie al culto di santa Chiara d’Assisi.

Si noterà che nei nomi comuni che abbiamo esemplificato l’allotropo dotto rappresenta oggi la parola più comune e diffusa: chi non sa che cosa vogliono dire disco, vizio o area? L’alternativa dotto/popolare non si riferisce, lo ribadiamo, all’uso attuale, ma solo al modo in cui quelle parole sono giunte fino a noi: o da una generazione all’altra oppure dopo uno iato di alcuni secoli, per iniziativa di letterati. Naturalmente, come avviene per molte categorie interpretative adoperate nelle “scienze umane”, occorre assumerla con una certa duttilità. È certo eccessivo ritenere questa distinzione addirittura priva di «fondamento scientifico, perché non tiene conto della storia della parola»6; basti pensare che un’impresa di mirabile complessità e insieme frutto di strenuo aggiornamento come il Lessico etimologico italiano (LEI) di Max Pfister e Wolfgang Schweickard, in corso di pubblicazione dal 1979 in Germania, fonda proprio sulla distinzione tra parole ereditarie, dotte (e prestiti da un’altra lingua) la struttura dei lemmi. Però possiamo convenire con Tesi quand’egli sottolinea l’importanza della tradizione cólta nello svolgimento della lingua: se, in riferimento a latinismi come abile, augurio, azione, Devoto aveva parlato di «unità lessicali refrigerate nelle biblioteche», Tesi asserisce che «lo

6  Tesi, Storia dell’italiano. La formazione della lingua comune dalle fasi iniziali al Rinascimento cit., p. 18 (la citazione successiva da p. 19).

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scongelamento di esse è stata una pratica quotidiana dei maestri e degli scolari del Medioevo». Il punto decisivo è il seguente: è innegabile che la consuetudine col latino, classico, tardo e medievale, ha messo a disposizione dello scrivente (e anche del parlante esperto di latino), almeno dalla riforma carolingia in poi, una serie di parole virtualmente passibili di essere usate in testi schiettamente volgari. Per i primi secoli potremmo distinguere, volendo, tra “latinismi storici” (quelli effettivamente documentati in un testo volgare: per esempio causa, cautela e cauzione, tutti e tre attestati in un volgarizzamento di Andrea da Grosseto, risalente al 1268) e “latinismi virtuali”, quelli che, pur non essendo finora emersi in testi volgari coevi, erano comunque ben presenti nell’orizzonte linguistico dei pochi scriventi cólti (notai, religiosi, letterati e uomini di scienza) in grado di accedere ai testi latini, che rappresentavano il vettore obbligato per la diffusione della cultura nel Medioevo (per esempio le Derivationes di Uguccione da Pisa, un repertorio enciclopedico in latino, organizzato secondo bizzarri accostamenti etimologici e redatto forse intorno al 1160). È il caso di termini giuridici come abdicativo, abigeato, attestati in italiano solo molto tempo dopo, nel Dottor volgare di Giovan Battista De Luca (1673), la prima trattazione sistematica del diritto in volgare. 2.3. Lo spoglio linguistico Uno dei passaggi irrinunciabili nell’esperienza di studio di uno storico della lingua è lo “spoglio linguistico” di un testo, vale a dire l’esame sistematico della sua compagine linguistica, strutturato secondo una griglia messa a punto già alla fine dell’Ottocento. Questa procedura, nata nella grande linguistica tedesca nell’età

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del positivismo, è oggi praticata soprattutto da studiosi italiani e ne costituisce, anzi, una cifra caratteristica: lo storico della lingua che non fosse a suo agio con lo spoglio linguistico di un testo sarebbe come un agente di polizia ignaro di come si maneggia un’arma da fuoco. La successione dei fenomeni risponde a una sequenza rigida: grafia; fonetica (nell’ordine: vocalismo tonico, atono, consonantismo, fenomeni generali, vale a dire i fenomeni perlopiù impredicibili consistenti nella decurtazione – aferesi, sincope, apocope – o nell’ampliamento del corpo fonico di una parola: prostesi, epentesi, epitesi; e ancora i fenomeni di avvicinamento o di distanziamento tra suoni contigui: nel romanesco monno ‘mondo’ si ha un’assimilazione, nell’ital. antico propio < proprium, che abbiamo già avuto modo di citare, una dissimilazione); morfologia (articolo, nome, verbo, indeclinabili, cioè preposizioni, congiunzioni, avverbi); sintassi; lessico. La sezione sintattica era tradizionalmente assai esigua fino a qualche anno fa, per un riflesso della linguistica ottocentesca, interessata in primissimo luogo a fonetica e morfologia. Oggi, anche alla luce di scuole di pensiero più recenti (linguistica generativa, linguistica testuale, pragmalinguistica), si dà molto più spazio agli aspetti sintattici e testuali, che possono presentare notevole complessità di organizzazione e interpretazione. Un bell’esempio di meditato ricorso ai metodi della grammatica generativa (la terminologia resta, apprezzabilmente, al di qua del tecnicismo impervio caro ai generativisti di stretta osservanza), e insieme della diversa complessità di analisi nei due livelli – fonomorfologico e sintattico – è stato offerto da Alfredo Stussi, in un suo profilo della lingua del Decamerone (1995). Ai tratti fono-morfologici è dedicata una decina di

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pagine (Stussi definisce il suo panorama «parziale e sommario, ma forse non insufficiente per un orientamento generale»); mentre le 22 pagine destinate alla sintassi sono ritenute necessariamente insufficienti, dal momento che i singoli costrutti e le loro varie combinazioni costituiscono un organismo complesso e ramificato cui occorrerebbe accostarsi non solo sulla base d’una esauriente tassonomia, ma anche analizzando il rapporto di certi fenomeni sintattici con l’elaborazione retorico-stilistica, se non addirittura la loro omologia con la struttura narrativa d’alcune novelle.

La sistematicità di uno spoglio linguistico implica naturalmente una selezione preliminare. Sarebbe assurdo, studiando un testo toscano medievale, registrare tra le forme sincopate donna: la sincope è indubbia (lat. dom(i)na; anzi, si dovrà partire per tutte le lingue romanze da una variante tarda domna), però la forma è esattamente quella che ci aspettiamo; così, tra gli esiti di ŭ nel pratese antico, non avrebbe senso censire quelli del tutto prevedibli (croce < crŭcem, sotto < sŭbtus ecc.) mentre è utile segnalare forme particolari come nomero, che rappresenta la continuazione popolare di nŭmerum (numero è un latinismo; l’allotropo popolare, come sappiamo, è novero) e Bolgaro, il nome etnico adoperato come antroponimo. La gestione di uno spoglio cambia a seconda di alcune variabili, a partire dalla cronologia. Lo spoglio segue ancora da vicino la prassi tradizionale quando si riferisce a un testo dei primi secoli di carattere documentario: qui è in primo piano la scoperta di una testimonianza antica, che viene descritta in modo analitico (anche per favorire la consultazione e i riscontri da parte di altri studiosi), a prescindere dalle novità che quella scoperta

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può implicare; proprio come farebbe un archeologo nel descrivere i reperti emersi da uno scavo. Così, anche se la «conoscenza del volgare perugino trecentesco si fonda su un buon numero di documenti e su esaustivi studi linguistici», bene ha fatto Lorenzo Tomasin a pubblicare e ad analizzare un atto notarile inedito del 1364. Come rileva lo studioso, i tratti linguistici sono quelli tipici del perugino medievale, tutti puntualmente documentati attraverso riscontri con altri testi coevi; significative le formule da lui usate: «sono normali a Perugia il dittongo di Pietro [...] e quelli di fuore [...]», «Per il vocalismo atono segnalo la caratteristica forma perugina Eddio», «Consueto il passaggio -i > -e dopo consonante non palatale», «Circa il consonantismo, sono normali, per l’area linguistica considerata, sia la dentale sonora di auctoritade [...] sia la fricativa di devetore [...]» ecc. Gli unici elementi nuovi sono rappresentati da alcuni tecnicismi giuridici «che negli Statuti [gli Statuti perugini in volgare del 1342, documento fondamentale per la conoscenza del perugino antico] non sono attestati o hanno un’accezione diversa». Può capitare che di un reperto antico non si conosca la localizzazione: in questo caso lo spoglio linguistico può portare qualche lume, magari soltanto restringendo l’area di provenienza. Nello Bertoletti ha studiato con grande acribia una breve lettera trecentesca conservata nell’Archivio di Stato di Mantova, fino ad allora inedita. La lettera, non sempre leggibile e interpretabile con sicurezza (e databile solo indirettamente, attraverso una perizia paleografica, «al secondo-terzo quarto del secolo XIV»), è stata scritta dal carcere di Modena ed è firmata da quattro prigionieri, di origine genericamente mantovana, come si ricava da un toponimo; non sap-

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piamo se la lettera sia stata effettivamente vergata da un certo Gielmo del Dos, che è colui che scrive anche a nome degli altri compagni di pena. In questo quadro oltremodo incerto, diventa decisiva la minuziosa analisi delle forme utili a localizzare geolinguisticamente il testo: per esempio, la grafia -th- per -t- (Pether, monetha), indicante un certo grado di sonorizzazione della consonante, è un tratto «ben noto in testi bresciani (per quel poco che si conosce) e, in misura più sporadica, bergamaschi, ma si riscontra anche nelle lettere duecentesche del mercante mantovano Boccalata de Bovi». Tutto ciò tenendo ben conto che, in una fase iniziale di tradizione grafica (e in presenza di uno scrivente sicuramente poco avvezzo a maneggiare la penna), occorre valutare sempre qual è il valore di singole grafie, senza accontentarsi della prima impressione. Il puntuale esame linguistico di un testo documentario moderno si giustifica, invece, soltanto in presenza della scarsa competenza dello scrivente (si parla in questo caso di “semicolti”): non tanto per misurarne lo scarto dalla norma ormai codificata – studiare un testo non significa correggere un compito in classe –, quanto per saggiarne le risorse testuali o pragmatiche. Oppure, nel caso di testi settoriali, con attenzione mirata agli specifici fenomeni rilevanti e con particolare attenzione, ancora una volta, alla testualità. Così, una recente monografia sulla lingua delle sentenze di Maria Vittoria Dell’Anna – che si inserisce in un filone assai coltivato negli ultimi tempi, quello dei rapporti tra lingua e diritto – trascura opportunamente, perché prevedibili o marginali, microfenomeni come il raro persistere dell’enclisi iniziale («Trattasi di motivazione priva dei pretesi errori giuridici»), l’uso preferenziale di costrutti che si distaccano dalla lingua comune

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per semplice intento stilistico («Avverso il decreto è proponibile impugnazione» ‘contro’) o la presenza, di segno analogo, di forme libresche («Va all’uopo osservato»). Dell’Anna concentra invece la sua attenzione su singoli fenomeni sintattici, testuali e retorici, per esempio sulla struttura argomentativa del testo (dedicando singoli paragrafi, tra l’altro, al caratteristico “stile commatico”, cioè alla tendenza a far corrispondere frase e capoverso, o agli interventi di giudizio e valutazione, attraverso avverbi valutativi o procedimenti di attenuazione: «Rettamente, pertanto, il suddetto giudice ha affermato», «È allora giustificato ritenere che»). O sulla formazione delle parole, un tema a metà tra lessico e morfologia (si parla infatti anche di “morfologia lessicale”), soffermandosi sulla tipicità di alcuni suffissi, come l’-ario che indica chi sia titolare di un diritto, di un bene, di un beneficio, e che è anche «un buon esempio dell’ininterrotta linea di continuità che lega la nostra lingua del diritto alla tradizione giuridica romanistica». Anche per i testi letterari è possibile, e in molti casi auspicabile, un’indagine linguistica sistematica. Ma è indispensabile una premessa. In tutti i casi di assenza di autografo o di stampa che rifletta l’ultima volontà dell’autore, è opportuno astenersi dal censire quei fenomeni che non danno garanzia di essere originari. Chiedersi se Petrarca abbia usato cuore o core, la forma non dittongata promossa dall’esempio dei poeti siciliani, è perfettamente lecito, visto che del canzoniere abbiamo un manoscritto in parte autografo e in parte scritto da un copista di fiducia (e la risposta – “usa sempre core” – si ricava da un’ormai classica monografia di Maurizio Vitale). La stessa domanda nel caso di Dante perde legittimità: chi ci dice che il divino poeta abbia usato cuore e non core in Purgatorio, II 12 («che va col cuore

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e col corpo dimora»)? Sarebbe velleitario fondarsi sulle lezioni maggioritarie della tradizione manoscritta: «nelle tradizioni volgari l’intervento del copista sulla lingua è fatto normale, organico, la lingua è viva e continua a vivere per tutto il corso della tradizione manoscritta, e anche nelle prime stampe, almeno fino alle copie ed edizioni canoniche del Cinquecento»7. Dirimente può essere invece la rima: non nel caso di cuore/core, perché nella tradizione italiana è ammessa la rima tra parola dittongata e parola con vocale semplice, ma per esempio nel caso di cada (che continua il congiuntivo latino cadat) e caggia, esito di una parallela base latino-volgare, *cadeat: la rima ci dice senza possibilità di dubbio che in Purgatorio, XX 127 Dante ha usato cada (visto che la fa rimare con strada e vada) e in Inferno, VI 67 ha usato caggia (visto che la fa rimare con selvaggia e piaggia). Lo spoglio linguistico di un autore letterario può essere sistematico, secondo il consolidato paradigma applicato ai testi documentari, dalla grafia al lessico, oppure selettivo; di norma prevede anche il disegno, più o meno particolareggiato, del profilo stilistico e retorico dello scrittore o dell’opera considerata. In generale lo spoglio tende a essere selettivo per gli autori del Novecento, quando la compagine fonomorfologica è relativamente assestata. Due esempi diversamente orientati ci sono offerti da Serenella Baggio e Davide Colussi. La prima studia la lingua dello scrittore emiliano Arturo Loria (19021957), esponente del gruppo fiorentino di Solaria, soffermandosi su lessico e sintassi. Baggio parte da una definizione che Montale diede della scrittura di Loria 7  G. Folena, Textus testis. Lingua e cultura poetica delle origini, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, p. 59.

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(«preziosa e insieme dimessa»), confermandola attraverso alcuni tratti in negativo: nessuna concessione alla mimesi dialettale, incluso l’idiotismo toscano col quale Loria era venuto tanto presto in contatto; nessuna tentazione plurilinguistica; nessun vero interesse per la rappresentazione dell’oralità; estrema sobrietà nell’invenzione neologica. In un quadro del genere, il profilo linguistico di uno scrittore dev’essere più che mai attento alle sfumature, per cogliere tratti specifici di una preziosità che sembra rifuggire da sé stessa, puntando piuttosto a un’impressione di medietà. La studiosa valorizza in questa direzione diversi segnali caratteristici del suo autore. Ricordiamo, per il lessico, la trasfigurazione poetica del quotidiano, con l’assegnazione di «nomi rari a persone, animali e cose di nessun valore» (somiero ‘asino’, buccinatore ‘trombettiere’, ludi esplodenti ‘fuochi artificiali’ ecc.); tra lessico e sintassi, la presenza di verbi «usati in un’accezione o con una costruzione arcaica o idiotica» (badare qualcuno, passare ‘sopportare’, spolverare ‘dare la polvere a qualcosa’). D’altro taglio la monografia di Colussi che ha per oggetto la lingua di Benedetto Croce: filosofo e grande intellettuale, ma anche prosatore di notevole spicco, destinato a influenzare a lungo la cultura letteraria italiana. Colussi svolge un’indagine analitica secondo l’ordine canonico, dalla grafia al lessico con un ulteriore capitolo sulla formazione delle parole. Ma il materiale raccolto è tutt’altro che inerte. La prosa di Croce è messa in rapporto col modello a lui stilisticamente più vicino, Carducci, sottolineando «il carattere discreto e non continuo dell’aulicismo crociano»; non c’è, insomma, «il tentativo di recuperare un modello integrale di lingua, storicamente determinato», ma piuttosto l’«impegno di continuità e fedeltà, anche per via linguistica, ad

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una tradizione di autori e pensatori». Un’interessante correlazione tra lingua e contenuti si coglie negli anni 1915-1917, quando viene messo a punto il sistema della Filosofia dello spirito; le varianti portate in questi anni da Croce a opere pubblicate in precedenza testimoniano un incremento di «interventi antimoderni», con adozione o estensione di tipi come escire, formola, cangiare, vi ha ‘c’è’ ecc. Sono tutti particolari, necessari per il quadro dell’insieme, scaturiti dall’attento spoglio linguistico che occupa il grosso del volume8.

Integrazioni bibliografiche 2.1. La più importante grammatica storica è quella, invecchiata ma tuttora imprescindibile, pubblicata dal grande linguista tedesco Gerhard Rohlfs (1892-1986) negli anni 1949-1954 e poi tradotta in italiano e rivista dallo stesso autore: Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino, Einaudi, 1966-1969. Fondamentale è la Grammatica storica della lingua italiana di A. Castellani, Bologna, Il Mulino, 2000, di cui purtroppo è uscito solo il primo volume (Introduzione). Manualetti agili per uso universitario, tutti più volte riediti, si devono a L. Serianni (Lezioni di grammatica storica italiana, Roma, Bulzoni, 1988), P. D’Achille (Breve grammatica storica dell’italiano, Roma, Carocci, 2001), G. Patota (Lineamenti di grammatica storica dell’italiano, Bologna, Il Mulino, 2002). 2.2. Sulla nozione di «latinismo» è importante T. De Mauro, Stratificazioni sociolinguistiche dell’eredità latina e dei suoi tramiti in italiano, in P. Cipriano et al. (a cura di), Linguistica storica e sociolinguistica, Roma, Il Calamo, 2000, pp. 163-188.

8  E precisamente: escire e cangiare sono rubricati in Morfologia (Verbi: alternanze tematiche); formola in Fonologia (Vocali postoniche. -o- / -u-); vi ha in Sintassi (Altri costrutti e perifrasi verbali).

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I dati sulla frequenza dei latinismi nell’italiano parlato contemporaneo sono ricavati da T. De Mauro et al. (a cura di), Lessico di frequenza dell’italiano parlato, Roma, Etas Libri, 1993. Sul nome Italia cfr. F. Bruni, Italia. Vita e avventure di un’idea, Bologna, Il Mulino, 2010, specie pp. 48-53, e anche T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni, Roma-Bari, Laterza, 2014, pp. 179192. Le prime attestazioni dei nomi comuni sono ricavate in parte da M. Cortelazzo, P. Zolli, Il nuovo etimologico. DELI. Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 1999 s.v., ma soprattutto da due strumenti fondamentali, disponibili in rete e costantemente aggiornati: il Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (TLIO), che archivia tutto il materiale italoromanzo noto anteriore al 1375, e, per le voci non ancora redatte, il parallelo corpus testuale dell’Opera del Vocabolario Italiano (OVI). Per le indicazioni relative ai nomi propri cfr. [A. Rossebastiano, E. Papa], I nomi di persona in Italia. Dizionario storico ed etimologico, Torino, Utet, 2005, s. vv. Per i criteri informatori del LEI cfr. M. Aprile, Le strutture del Lessico Etimologico Italiano, Galatina, Congedo, 2004, specie alle pp. 116-117 e 129-131. Per le Derivationes si veda l’edizione critica a cura di E. Cecchini et al., Firenze, SismelEdizioni del Galluzzo, 2004. 2.3. Per la linguistica testuale, a cui si farà occasionale riferimento in queste pagine, si veda M. Palermo, Linguistica testuale dell’italiano, Bologna, Il Mulino, 2013. L’articolo di Stussi è stato ripubblicato nel suo Storia linguistica e storia letteraria, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 81-119 (di qui le citazioni, p. 96). Gli esempi pratesi si leggono nei miei Testi pratesi della fine del Dugento e dei primi del Trecento, Firenze, Accademia della Crusca, 1977, p. 41. L’articolo di Tomasin (Perugia 1364) è apparso in «Studi linguistici italiani», XXVIII (2002), pp. 261-271 (le citazioni dalle pp. 261-263 e 269); quello di Bertoletti (Una lettera in volgare del Trecento dal carcere di Modena) è nella stessa rivista, XXVII (2001), pp. 233-247 (le citazioni alle pp. 233 e 237). Il volume di Dell’Anna (In nome del popolo italiano. Linguaggio giuridico e lingua

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della sentenza in Italia) è stato pubblicato a Roma, Bonacci, nel 2013 (la citazione è a p. 147); quello di Baggio (Prezioso e dimesso. La lingua di Arturo Loria al tempo di «Solaria») è apparso a Trento, Editrice Università degli Studi, nel 2004 (le citazioni alle pp. 63 e 156); quello di Colussi (Tra grammatica e logica. Saggio sulla lingua di Benedetto Croce) è apparso a Pisa-Roma, Serra, nel 2007 (le citazioni alle pp. 283-284). Il vol. di M. Vitale a cui si è fatto riferimento è La lingua del Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta) di Francesco Petrarca, Padova, Antenore, 1996; ma dello stesso studioso, decano degli storici della lingua italiana, è doveroso ricordare anche le altre monografie dedicate ai grandi autori della nostra tradizione letteraria: La riscrittura del “Decameron”. I mutamenti linguistici, Venezia, Istituto veneto di Scienze, lettere ed arti, 2002; Lingua padana e koinè cortigiana nella prima edizione dell’Orlando furioso, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2012; L’omerida italico: Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla lingua dell’«Italia liberata da’ Gothi», Venezia, Istituto veneto di Scienze, lettere ed arti, 2010; L’officina linguistica del Tasso epico. La «Gerusalemme Liberata», Milano, Led, 2007; La “dizione” formale dell’italo cigno. Notazioni di stile e di lingua nella poesia e nella prosa di Giuseppe Parini, Milano, Istituto lombardo di scienze e lettere, 2014; La lingua della prosa di G. Leopardi: le «Operette morali», Firenze, La Nuova Italia, 1992; La lingua di Alessandro Manzoni, Milano, Cisalpino, 19922.

3.

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3.1. Dall’alfabeto ai nomi di persona Nel capitolo precedente ci siamo soffermati sul rapporto genetico tra latino e italiano: che è quello, se vogliamo ricorrere a una tradizionale metafora biologica, tra un individuo còlto in due periodi distanti della sua vita (se si intende dare peso alla continuità tra le due fasi linguistiche), o, forse meglio, tra una madre e un figlio, se si intende mettere in risalto le differenze tipologiche che intercorrono tra le due lingue; in ogni caso si tratterebbe di una madre un po’ oppressiva, di quelle che vogliono intervenire nella vita e nelle scelte anche dei figli ormai adulti. Abbiamo già visto quanto decisiva sia la presenza nelle lingue romanze del lessico dotto, attinto direttamente dal latino; e aggiungiamo ora che proprio questo sostrato culturale comune ci permette di riconoscere tra le varie lingue europee una certa aria di famiglia. Vediamo due esempi di diverso peso, più familiare e aneddotico il primo, culturalmente centrale il secondo. a. Come si sa, nelle frasi idiomatiche e proverbiali, c’è una grande differenza anche tra lingue molto vicine tra loro: per dire che non c’è nessuno gli italiani direbbero non c’è un cane, i francesi il n’y a pas un chat, gli

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spagnoli, abbandonando gli animali domestici, ricorrerebbero al più generico no hay ni un alma. Ma quando è in gioco un modello latino, si ritrova una convergenza intraeuropea anche tra lingue molto distanti. Così, al detto latino risalente almeno a san Girolamo equi donati dentes non inspiciuntur si richiamano, tra gli altri, l’ital. A caval donato non si guarda in bocca, il franc. A cheval donné il ne faut point regarder la bouche, lo spagn. A caballo regalado no le mires el diente, il rom. Calul de dar, nu se caută la dinţi, l’ingl. Don’t look a gift horse in the mouth, il ted. Einem geschenkten Gaul schaut man nicht ins Maul, l’ungh. Ajándék lónak ne nézd a fogát, lo sved. Man tittar inte given häst i mun. b. Il latino è stato fino ad epoca moderna la lingua della scienza e, come abbiamo già accennato (pp. 15-16), il filtro attraverso cui sono passati i neologismi costruiti sul greco. Ciò comporta che un notevole numero di tecnicismi medici sia condiviso dalle lingue europee1. Così l’ital. eczema è un parente stretto di franc. eczéma, spagn. eccema o eczema, romeno exemă, ingl. ­eczema, ted. Ekzem, neerland. eczeem, sved. eksem, ungh. ekcéma, ceco ekzém, pol. egzema ecc. Può essere interessante notare che, almeno per i termini anatomici fondamentali, le lingue neolatine presentano un alto indice di differenziazione: l’unità (e quindi l’intercomprensione) caratteristica della lingua alta, fortemente specializzata e diffusasi attraverso il canale del latino scritto, si frantuma spesso a livello del nucleo popolare nel quale un’origine comune è ricostruibile solo dall’esperto, non dal comune parlante 1  Poco importa che il tecnicismo muova direttamente dal latino scientifico o sia stato irradiato capillarmente attraverso il tramite di una lingua moderna, specie francese, inglese o tedesco.

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(ital. fegato, franc. foie, spagn. hígado), oppure viene meno in qualcuna o addirittura in tutte e tre le principali lingue romanze d’Europa: ital. ginocchio, franc. genou ≠ spagn. rodilla; ital. anca, franc. hanche ≠ spagn. cadera; ital. dito (del piede), spagn. dedo (del pie) ≠ franc. orteil; ital. polpaccio ≠ franc. mollet ≠ spagn. pantorrilla; ital. schiena ≠ franc. dos ≠ spagn. espalda; ital. milza ≠ franc. rate ≠ spagn. bazo; ital. guancia ≠ franc. joue ≠ spagn. mejilla. Via via che i termini diventano meno usuali, confinandosi nell’uso degli specialisti o comunque di una minoranza cólta, la solidarietà tra le lingue neolatine – e in molti casi tra le lingue europee in genere – si ricompone. Ad esempio: ital. clavicola, franc. clavicule, spagn. clavícula; ital. deltoide, franc. deltoïde, spagn. deltoides; ital. fontanella (nei neonati), franc. fontanelle, spagn. fontanela; ital. miocardio, franc. myocarde, spagn. miocardio; ital. rotula, franc. rotule, spagn. rótula; ital. uretra, franc. urètre, spagn. uretra. Interessante il caso di sartorio, il muscolo della coscia che si contrae accavallando la gamba, introdotto nel latino scientifico secentesco da un anatomista fiammingo che pensò ai sarti quando mettono una gamba sull’altra per cucire2: il termine si continua puntualmente in italiano, spagnolo (sartorio) e inglese (sartorius), mentre francese e tedesco lo traducono, mantenendo l’immagine originaria del sarto (franc. couturier, ted. Schneidermuskel). Ma l’influsso culturale del latino non si limita al solo lessico. Al latino ricorrono altresì gli alfabeti delle lingue romanze, combinandone variamente i grafemi o introducendo segni diacritici, anche per rappresentare fonemi assenti nella lingua madre; per la nasale palatale 2  E. Marcovecchio, Dizionario etimologico storico dei termini medici, Impruneta, Festina Lente, 1993, p. 764.

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(il suono che si sente in gnu o in bagno), ad esempio, l’italiano e il portoghese ricorrono a due diversi digrammi, gn e nh, mentre lo spagnolo utilizza la tilde (ñ): in tutti e tre i casi comunque gli ingredienti di base – se possiamo dire così – restano ancorati all’alfabeto latino. Soffermiamoci su un caso particolare, che mostra come l’influsso latino possa essere intervenuto non in fase di codificazione di un sistema alfabetico bensì quando il sistema era già avviato su binari diversi, e per giunta più economici in termini di corrispondenza biunivoca grafia-pronuncia. Alludo alla rappresentazione della velare sorda, il suono consonantico di oca. Le più antiche testimonianze di italiano, francese, castigliano mostrano una discreta presenza di k, un segno pienamente funzionale a rappresentare questo fonema perché può valere in ogni contesto, quale che sia la vocale successiva; non a caso k oggi imperversa, proprio per ragioni di economia grafica oltre che per la ricerca di una facile espressività, negli sms e nella scrittura mediata dal computer. La lettera k ha conosciuto, nel Novecento, una certa fortuna prima nel linguaggio pubblicitario (Kremliquirizia, kinotto), poi in quello politico, con forte intenzione polemica (anni Settanta). Questa connotazione, come ha osservato Livio Petrucci, era alimentata da più allusioni: al film L’Amerikano di Costa Gavras (1972) sulle trame di un agente segreto statunitense in Sudamerica, all’iniziale del cognome di Henry Kissinger, allora segretario di Stato, «da più parti ritenuto l’artefice unico della politica estera degli Stati Uniti e il committente precipuo delle più discutibili iniziative della CIA», fino ad evocazioni ben più sinistre: nel maskio usato nelle polemiche femministe di quegli anni si intendeva «riassumere polemicamente il trinomio hitleriano (!) Kinder,

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Küche, Kirche», ossia l’immagine con la quale il nazismo riduceva la donna a occuparsi soltanto di bambini, cucina e chiesa. Ma torniamo alle Origini, e precisamente al Placito di Capua, che già conosciamo (p. 9). La velare sorda vi è rappresentata quattro volte con k, in ko, kelle e ki; una volta col digramma qu (que), una volta con c (contene). Anche il più antico documento del volgare fiorentino, i Frammenti di un libro di banchieri del 1211, offre una buona rappresentanza di k (Buoninkontro, Rustikuci, anke ecc.). Non diversa la situazione del francese e del castigliano. Per il primo, basterà citare la Sequenza di sant’Eulalia (ultimo ventennio del IX secolo: eskoltet, kose, Krist); per il secondo, un documento leonese del 980 (circa) che serba parte di una nota di spese (kesos cioè quesos ‘formaggi’, cirka, Kastrelo – probabilmente ‘Castrillo de Porma’ –, ke). Per quale ragione le tre lingue hanno abbandonato, ciascuna per suo conto, un grafema così funzionale per rappresentare la velare sorda? Per l’italiano (ma la spiegazione potrebbe essere estesa, mutatis mutandis, anche alle altre due consorelle romanze) si è invocata una ragione strutturale, cioè la mancanza di un corrispettivo sonoro. Ma credo che la ragione decisiva sia stata un’altra: l’influsso dell’alfabeto latino. Il segno k era, fin dal latino classico, un segno residuale adoperato in pochissimi casi, perlopiù in sigle (la più comune era il kal. di Kalendae); nel Medioevo se ne ha una ripresa, specie per rappresentare nomi di origine germanica, e ciò permette a k di arrivare, sia pure in concorrenza con altri grafemi o gruppi di grafemi, alle prime documentazioni di volgari romanzi. Ma il modello latino si fa sentire presto, eliminando il comodo k in favore di c e obbligando a ricorrere a un segno diacritico, ossia

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all’h che nell’ortografia italiana usiamo per indicare il suono velare davanti alle vocali i ed e (un conto è che, un conto è ce). Un influsso latino nel declino di k è espressamente affermato nel più antico trattato grammaticale francese compilato in Inghilterra, l’Ortographia gallica (probabilmente da collocare tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo), in cui si legge: «Item qi, qe, qant consueverunt scribi per k, sed apud modernos mutatur k in q ut melius concordet cum Latino quia k non reperitur in quando, quia, quod», cioè ‘[i Francesi] avevano l’abitudine di scrivere col k qi, qe, qant, ma i moderni preferiscono q per accostarsi al latino in cui si scrive quando, quia, quod.’ Soltanto dell’italiano sono due fatti originariamente grafici, variamente influenzati dal latino, che riguardano la lettera z (e che hanno in parte ricadute sulla pronuncia). L’italiano attuale presenta coppie come annunciare/annunziare, pronunciare/pronunziare, in cui i due membri sono equivalenti come significato e frequenza d’uso, mentre nel caso di specie/spezie si è sviluppata da molti secoli una differenza di significato. Si tratta, in tutti i casi, di parole di trafila non popolare. Dal punto di vista etimologico, gli esiti dotti che ci aspetteremmo sono, rispettivamente, annunziare e pronunziare (lat. tardo adnuntiare, lat. class. pronuntiare) e specie (lat. species; le forme popolari virtuali sarebbero state, invece, *annunzare, *pronunzare, *spècce). Fino al secolo scorso questa oscillazione era molto più ampia, coinvolgendo per esempio forme come benefizio o venefizio (adoperate nel XIX secolo dal Manzoni nei Promessi Sposi, in quanto vive nel fiorentino parlato coevo; e oggi, del resto, si va a lavorare in ufficio, ma si visitano gli Uffizi, il palazzo progettato da Giorgio Vasari per

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l’appunto come sede per gli uffici amministrativi del ducato mediceo). Come si spiega questa oscillazione? Lo scambio tra -tj- e -cj- era già del latino imperiale (in un’iscrizione del 179 d.C. si legge per esempio terciae = tertiae); ma all’origine del fenomeno che c’interessa sta il latino medievale, in cui la confusione era particolarmente accentuata nell’Italia settentrionale, per la tendenza a trasferire nella pronuncia del latino i tratti fonetici dei rispettivi volgari (in questo caso, il tipico avanzamento delle affricate, che da palatali tendevano – e tendono – ad essere articolate come alveolari: cena pronunciato quasi come “zena”). In area settentrionale era dunque più forte che altrove, per un copista, la spinta a scrivere allo stesso modo due parole latine come socius e otium, dal momento che la pronuncia era simile. Quel che qui importa notare è che questa abitudine non è rimasta confinata nelle scuole, ma è rifluita, sia pure in un ristretto numero di casi, nella lingua comune. Allo stesso modo la pronuncia scolastica dell’h latina intervocalica come velare (mihi = michi, nihil = nichil) ha generato il verbo annichilire (com’è avvenuto anche nello spagn. e portogh. aniquilar) e il più recente nichilismo. Tornando alla zeta, una dissimmetria tra grafia e pronuncia che è verosimile attribuire all’influsso, questa volta indiretto, del latino si ha nei casi di grafia zi + vocale (azione, nazione, scritte con una sola zeta, ma pronunciate nell’italiano toscano e centro-meridionale con una zeta di grado intenso: la grafia *azzione, *nazzione sarebbe dunque testimone più fedele dell’effettiva pronuncia, almeno in una metà d’Italia). Fino alla metà del Cinquecento si distingueva a Firenze tra una pronuncia con una consonante di grado tenue (nei casi in cui si risalisse a una base latina con -tj-: nazione da nationem) e una pronuncia con consonante di grado in-

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tenso (quando nella base latina il nesso -tj- era preceduto da una consonante; in questo caso si produceva assimilazione, dando vita a una consonante doppia: azione da actionem): quindi la pronuncia dell’epoca opponeva nazione ad azzione. Successivamente si è generalizzata la pronuncia con consonante intensa, ma il Vocabolario della Crusca (1612) fissò la grafia con -zi-, creando una fastidiosa incoerenza tra modo di scrivere e modo di pronunciare. Nella scelta della Crusca agiva verosimilmente il peso della tradizione grafica latineggiante, che aveva a lungo caldeggiato grafie come natione, vitio: sostituire t con z in casi del genere rappresentava un adeguamento necessario alla «giurisdizione» dell’italiano (per usare l’espressione di un grammatico dell’epoca, Orazio Lombardelli), ma introdurre addirittura zz, con un riflesso puntuale della pronuncia, dovette sembrare uno strappo eccessivo. Solo un esempio di latinismo morfologico, quello più importante di tutti: il superlativo in -issimo, che tradisce già nella fonetica la sua matrice cólta (la vocale tonica è ĭ e ci saremmo aspettati per via popolare una e chiusa). Questo tipo è saldamente attestato già nell’italiano delle Origini (ed è ovviamente una conferma del forte latineggiamento a cui erano esposte, a tutti i livelli, le esperienze di scrittura dell’epoca). La prosa del Duecento ne offre esempi ad apertura di libro: «la planta grandissima e altissima» (Restoro d’Arezzo, Composizione del mondo), «quella durissima e asprissima pugna» (Bono Giamboni, Libro de’ vizi e delle virtudi) ecc. Il suffisso si applica anche a basi sconosciute al latino, come l’oscuro minscipitissimi ‘stoltissimi’ ancora in Restoro. Non solo. Il valore genericamente elativo oblitera la fisionomia originaria creando moduli che, se sono distanti dalla sintassi latina (e da quella dell’italiano moderno),

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mostrano però il radicamento del superlativo in -issimo già a quest’altezza cronologica. Si pensi al superlativo modificato da un avverbio quantitativo («molto bellissima» Novellino) o da un avverbio che funge da antecedente di consecutiva («si avea tanto bellissimi capegli che poche damiscelle erano al mondo che·ttanto fosserono belle quanto lei» Tristano Riccardiano). Il superlativo da -issimus ha altrettanta vitalità in area ibero-romanza, anche se non ha attestazioni ugualmente antiche (nel castigliano medievale, per esempio, è quasi sconosciuto). Soltanto tarda e occasionale è la sua presenza in francese e provenzale e soprattutto nel romeno, dove attecchiscono diverse forme in -isim nell’Ottocento come italianismi, oggi uscite d’uso. Alcuni di questi esempi mostrano come nella storia culturale delle lingue romanze ricorrano spesso fenomeni di ri-latinizzazione. In termini puramente cronologici, parrebbe di trovarsi di fronte a un paradosso: la fase medievale, meno lontana dal ceppo linguistico originario, è molte volte più distante dal latino classico di quel che avvenga per la fase contemporanea, che è passata attraverso grandi ondate classicistiche, dall’Umanesimo in poi. Non sarebbe difficile mettere insieme singoli esempi lessicali: nel Duecento si poteva scegliere, ad esempio, tra fedire, forma popolare dissimilata dal lat. ferire, e il latinismo ferire, l’unico destinato a sopravvivere nella prosa post-quattrocentesca; erano rare parole del lessico di base come esercito e facile e si diceva rispettivamente oste e agevole, anch’essi di matrice latina ma remoti dalla classicità, o perché di circolazione tarda (agevole, da un agĭbilis, documentato solo nel latino medievale) o perché semanticamente distanti dall’etimo latino (oste continua sì hostis, ma attraverso una serie di slittamenti metonimici: da ‘nemico’ a ‘eser-

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cito nemico’ a ‘esercito’ in genere). Parole come ferire, esercito, facile rendono insomma l’italiano del terzo millennio più latineggiante di quanto fosse nella sua fase medievale. Ma per illustrare il multiforme fenomeno della rilatinizzazione è forse ancora più significativo un altro settore, quello dell’antroponimia. Il sistema onomastico tripartito della latinità (Marcus Tullius Cicero) si è presto esaurito senza lasciar traccia: moltissimi nomi di impronta latina sopravvivono però come primi nomi e come cognomi in area romanza e non romanza. L’antico praenomen del grande oratore di Arpino è oggi un nome frequentissimo in italiano, francese, spagnolo (Marco, Marc, Marcos), e abbastanza comune anche in inglese e tedesco (Mark, Markus). La sua fortuna non è stata ininterrotta: come per altri nomi classici, per esempio il gentilizio Antonius, la sua diffusione è basso-medievale ed è legata al culto dei santi. Analoga soluzione di continuità presentano altri nomi di fortuna soprattutto laica, come Claudio o Cesare, reintrodotti durante il Rinascimento; Sergio si è diffuso invece ancora più recentemente, sulla scia della grande letteratura russa dell’Ottocento che aveva reso popolare in Europa Sergej, nome frequente nel mondo slavo, risalente al latino attraverso la mediazione del greco bizantino. Il tesoro onomastico della Toscana del Duecento appare distante tanto dai nomi latini quanto da quelli oggi abituali. Scarsi i nomi che si richiamano al nome di un santo (gli “agionimi”), sono frequenti nomi semanticamente motivati, che esprimono la gioia per l’arrivo di un figlio (Bonagiunta cioè ‘felice incremento alla famiglia’, Bencivieni ‘sei il benvenuto tra noi’) o talvolta il malcontento (Soperchia ‘superflua’; ma potrebbe esserci anche un intento apotropaico); e sono numerosi i soprannomi,

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spesso burleschi (per esempio, a Prato: Barbetta, Pasticcio, Truffa). Particolarmente esposta alla ri-latinizzazione appare l’onomastica femminile. Se oggi sono comuni nell’Europa occidentale e nelle Americhe nomi come Giovanna (franc. Jeanne, spagn. Juana, ingl. Jane, ted. Johanna), Paola (franc. Paule, spagn., ingl. e ted. Paula), Marcella (franc. Marcelle, spagn. Marcela) ecc. – tutti riconducibili al latino cristiano –, i cinque nomi femminili più comuni di un documento senese del 1260 sono Benvenuta, Maria, Aldobrandesca, Berta e Beldie. Dunque, cinque nomi estranei alla latinità (solo Maria, il nome della Vergine, si afferma com’è prevedibile nella latinità cristiana ma ormai in età altomedievale); quattro di questi nomi sono oggi o rarissimi (l’augurativo Benvenuta, che va nella serie dei vari Bonagiunta appena ricordati, e il germanico Berta, diventato addirittura simbolo scherzoso di un passato indefinitamente lontano nella locuzione idiomatica al tempo che Berta filava) oppure del tutto usciti d’uso (Aldobrandesca, anch’esso di tradizione germanica, e Beldie, un nome trasparente: ‘bella giornata’). 3.2. Latino e volgare tra solidarietà e conflitto La forte pressione della lingua latina nelle filiazioni romanze è il fedele riflesso del dominio culturale esercitato per secoli da quella lingua nel mondo occidentale. Un dominio che si è manifestato, prima di tutto, nell’istituzione deputata per definizione a trasmettere il sapere: la scuola. Fino alle soglie dell’età moderna l’insegnamento anche elementare ha come oggetto il latino, che costituisce la base per qualsiasi addestramento all’uso del testo scritto. Una celebre grammatica latina altomedievale in

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forma dialogica, il Donato, poteva essere adoperata nel Cinquecento per insegnare la scrittura, senza che ne fosse richiesta agli scolari la comprensione. Talvolta si passa direttamente dal dialetto locale al latino, ignorando il volgare letterario, come avviene nello Spicilegium di Lucio Giovanni Scoppa (1512), in cui per ogni voce latina è data la corrispondenza col napoletano. Due secoli dopo, in Piemonte (1729), si decide di adottare una grammatica latina scritta in italiano: fino a quel momento era stata utilizzata «una grammatica scritta in latino, scritta cioè (per quanto ciò possa sembrare paradossale) in quella medesima lingua che gli studenti si accingevano ad imparare» (Marazzini). Nel Medioevo la percezione del latino era del tutto diversa dalla nostra. Il latino appariva come una lingua artificiale, creata dai dotti per comunicare tra loro, fuori dal tempo e dalla storia: un patrimonio sapienziale immutabile, sottratto e anzi opposto alla continua variabilità delle lingue reali. Un privilegio che non è certo disconosciuto da Dante, colui che è non solo l’iniziatore, ma il vero creatore della tradizione letteraria italiana. Dante scrive in volgare il suo trattato filosofico (Il Convivio) ma riconosce la maggiore nobiltà del latino, in quanto creazione d’arte; d’altra parte, nel De vulgari eloquentia, scritto in latino perché rivolto ai dotti con l’intento di definire e di promuovere il «volgare illustre», proclama la maggiore nobiltà del volgare (De vulg. eloq., I 1 4). Il passo è stato assai discusso, ora cercando di sanare la contraddizione, ora ammettendola francamente come significativo mutamento di prospettiva nel corso di una sistemazione teorica in atto. Quel che importa ribadire è che, nel momento di codificare la lingua poetica più alta, quella stilnovistica, si affermi (I 10 2) che le ragioni che qualificano la

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lingua del sì sono due. La prima consiste in un giudizio di valore artistico: l’eccellenza poetica e intellettuale di quei poeti («qui dulcius subtiliusque poetati vulgariter sunt, hii familiares et domestici sui sunt» ‘coloro che hanno poetato in volgare con più dolcezza e più acume sono suoi servitori e domestici’). La seconda è la maggiore adesione al latino, la lingua “grammaticale” per antonomasia: «quia magis videtur initi gramatice» (perché la lingua del sì ‘mostra di appoggiarsi di più alla grammatica che è comune’, cioè al latino). In altri termini: il fondatore della lirica illustre invoca a sostegno di quel volgare proprio la sua contiguità col latino, ossia la solidarietà stilistica e retorica, oltre che quella linguistica sancita dall’avverbio affermativo sì, visto che ad esso – dice Dante poco prima – si sono ispirati i «gramatice positores» (‘i fondatori della lingua grammaticale’) adottando sic. La vicinanza al latino come blasone di prestigio è un tema che si ritrova nelle altre due lingue romanze di cultura che potevano vantare una certa somiglianza col latino stesso, spagnolo e portoghese. Significativa la moda, fiorita dal XV secolo in avanti, di costruire brevi componimenti letterari che fossero interpretabili a un tempo come latini e italiani o latini e spagnoli o latini e portoghesi. Per il portoghese l’esperimento più antico si deve a João de Barros (1496-1579); per l’italiano sono note alcune poesiole settecentesche (del napoletano Nicola Capasso e del pavese Mattia Butturini). Ma è in Spagna che la voga di affermare la superiorità di una lingua moderna in base alla sua somiglianza col latino ha più vigore. Il più antico episodio è legato a un contesto particolarmente solenne: nel 1498, alla corte papale di Alessandro VI – secondo il resoconto dello storico Martín de Viciana (1574) – gli ambasciatori di Castiglia,

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Francia, Portogallo e Toscana discutono di quale delle loro quattro lingue sia la migliore. Si conviene che il primato spetti al latino e che delle lingue moderne sia reputata migliore quella che mostri di esserle più vicina («más cercana, y más partícipe»). Vincitore è l’ambasciatore castigliano Garcilaso de la Vega, padre del futuro poeta dallo stesso nome. La contiguità latino-spagnolo ha una precisa rilevanza politica: se lo spagnolo era il vero erede del latino, anche la Spagna avrebbe potuto rivendicare il primato imperiale che era stato di Roma antica. È il tema della lingua «compañera del Imperio», enunciato da Antonio de Nebrija, l’autore della prima grammatica castigliana (1492), apparsa in un anno che si sarebbe rivelato fatidico per la storia mondiale e per le fortune internazionali del castigliano. Ma attraverso Nebrija il nostro discorso ritorna all’italiano, a quella che è stata felicemente definita da Bruni «una lingua senza impero», e in particolare al tema della dialettica tra italiano e latino, che ora più direttamente ci interessa. Com’è noto, Nebrija aveva risieduto dieci anni in Italia ed era stato profondamente influenzato dall’umanesimo italiano. In particolare da Lorenzo Valla, probabilmente attraverso la mediazione del giurista aragonese García de Santa María, era derivato il collegamento tra lingua e potere politico, applicato non più all’antica Roma ma alla moderna Castiglia. Si trattava di un tema che doveva circolare largamente negli ambienti umanistici italiani, già dagli anni Trenta del Quattrocento, di considerazioni che erano nell’aria. Come ha osservato Patota, «forse fu pure quest’aria, condizionata non solo dal contributo di Valla, ma anche da quello di Alberti e respirata a pieni polmoni dal giovane Nebrija, a suggerire a quest’ultimo le famose riflessioni sulla lingua e sull’impero».

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Tra le tante differenze che sussistono in un quadro che pure presenta molteplici tratti in comune, una spicca sulle altre. In Nebrija le riflessioni teoriche hanno un preciso corrispettivo politico, si inseriscono nel quadro di uno stato organizzato e già militarmente potente. Nelle Elegantiae di Valla e nel proemio al terzo libro dei Libri della famiglia di Alberti il tema è svolto in chiave squisitamente culturale. Per Valla la grandezza storica di Roma non è consistita nel suo potere politico, che a un certo punto, «tamquam ingratum onus, gentes nationesque abiecerunt» (‘come un peso sgradevole, genti e nazioni cacciarono’), bensì nella sua lingua, esaltata e tutelata dagli stessi popoli un tempo soggetti in quanto «omni nectare suaviorem, omni serico splendidiorem, omni auro gemmaque pretiosiorem» (‘più dolce di ogni nettare, più splendida di ogni seta, più preziosa di ogni oro e gemma’). Non diversamente Alberti nel dialogo attribuisce a suo padre Lorenzo la considerazione che per “i populi italici” la dissoluzione dell’impero romano era stata perdita meno grave «che vederci così spogliati di quella emendatissima lingua, in quale tanti nobilissimi scrittori notorono tutte le buone arti a bene e beato vivere». Il diverso quadro storico-politico condiziona inevitabilmente il diverso atteggiamento dei protagonisti culturali. Da un lato è innegabile che Alberti, compilando una precoce e acuta Grammatichetta del fiorentino coevo, anticipi i grandi codificatori grammaticali di castigliano (il già ricordato Nebrija, che avrebbe pubblicato la sua Gramática castellana più di cinquant’anni dopo) e francese (Louis Meigret, il cui Traité de la Grammaire française apparve addirittura nel 1550) su due punti: la prospettiva sincronica e forse anche – accogliendo un’interpretazione del Patota – l’impegno

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civile di fornire di una lingua la propria patria toscana. D’altro lato è anche vero che l’effettivo avvio della tradizione grammaticale italiana si ha solo nel XVI secolo, in una prospettiva – quella del veneziano Bembo – incentrata sull’imitazione dei grandi scrittori del Trecento: dunque in chiave antisincronica e senza nessun rapporto con le aspirazioni politiche dello stato mediceo (che d’altra parte non andarono mai oltre quelle di una potenza regionale). Il Cinquecento è il secolo che segna l’apogeo del latino come strumento culturale (attraverso il prestigio di grandi umanisti come Vives o Erasmo), ma insieme il suo declino di fronte all’avanzata delle grandi lingue nazionali. Alcune dichiarazioni in favore del primato del latino suonano, in realtà, come chiari indizi che quel secolare primato era ormai scosso: si pensi, per l’Italia, alle solenni orazioni di Romolo Amaseo nell’Archiginnasio di Bologna (1529) De Linguae Latinae usu retinendo. Poco dopo Francesco I con l’editto di VillersCotterêts (1539) stabiliva l’obbligo del francese per gli atti pubblici. Press’a poco contemporanea (1536) la proclamazione dello spagnolo come lingua ufficiale della diplomazia e di tutta la cristianità da parte di Carlo V. Nonostante la frammentazione politica, anche la lingua italiana raggiunge alcune posizioni di forza in usi ufficiali. L’iniziativa più importante e gravida di conseguenze si deve a Emanuele Filiberto che, orientando lo stato sabaudo (futuro promotore dell’unificazione nazionale) in direzione italiana invece che francese, nel 1560-1561 impose l’uso dell’italiano nei tribunali piemontesi. Assai significativa, per il contesto in cui si manifesta, anche l’introduzione del volgare nella segreteria pontificia. Il primo “breve” in una lingua moderna, cioè il

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primo documento ufficiale spedito in nome del papa, munito del tipico sigillo di ceralacca con l’impronta dell’anello del Pescatore, risale al 1515 sotto il pontificato di Leone X (Giovanni dei Medici); per trovarne un altro occorre aspettare il 1550 (il documento, oggi difficilmente reperibile, reca intitolazione e datazione in latino, e testo in italiano). Molto più frequente è il ricorso al volgare nelle cosiddette “lettere latine” coeve, documenti meno solenni dei brevi, in quanto semi-ufficiali o privati, spesso scritti di proprio pugno dal pontefice «a sovrani e a personalità d’alto rango, a significare un rispetto e un ossequio sincero, non freddamente burocratico» (G. Gualdo). Per la lingua comune una prospettiva interessante è offerta, ancora una volta, dall’evoluzione della grafia. Anche in questo settore è decisivo l’intervento del Bembo, nella sua veste di filologo e consulente del massimo editore dell’epoca, Aldo Manuzio (è appena il caso di ricordare che al Bembo risale l’introduzione dell’apostrofo, che sarebbe diventato un segno fondamentale non solo nell’ortografia italiana, ma anche in quella di molte altre lingue, a cominciare dal francese e dall’inglese). Nell’edizione delle «cose volgari» del Petrarca (1501), un’edizione destinata a fare testo (non solo per la filologia petrarchesca), Bembo interviene decisamente assimilando i nessi consonantici (scritto non scripto ecc.), pur mantenendo l’h latineggiante e il nesso ti per rappresentare l’affricata dentale (spatio ecc.). Saranno in particolare i toscani che, nel corso del Cinquecento, persuasi del prestigio del loro parlare nativo e quindi meno esposti alla soggezione delle consuetudini latineggianti, promoveranno grafie fonetiche, non etimologiche. All’inizio del secolo successivo il Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), il primo vocabolario storico di una

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lingua europea, sancisce con la sua autorità una grafia di tipo fonetico ormai molto prossima a quella attuale. La principale differenza è nella mancata distinzione fonetica tra le lettere u e v: per remota suggestione latina, si ricorre ancora a V nelle maiuscole (altrvi, vdito), a v nella minuscola iniziale (vale, vsare), a u nella minuscola interna (auueduto). Per il resto, l’h iniziale è riservata alle voci del verbo avere (ho, hai, ha, hanno) e ad huomo. Sistematica è poi l’adozione di zi in luogo di ti. Analogo affrancamento dalla grafia latineggiante si registra nello stesso XVI secolo in castigliano, mentre ben diversa è la storia del francese, la cui ortografia è tuttora fortemente tributaria del latino. Anzi: in qualche caso la grafia è addirittura iperlatineggiante, come è avvenuto per poids (che continua il lat. pensum, né più né meno come l’ital. e spagn. peso), scritto con una d arbitrariamente ricavata dal latino pondus. In sostanza: sul versante grafico l’italiano e lo spagnolo, due lingue mantenutesi più vicine al latino, hanno innovato; il francese, più distante (al punto che sarebbero improponibili esercizi di ambivalenza franco-latina come quelli praticati con successo da Garcilaso de la Vega per lo spagnolo), ha conservato o ripristinato grafie etimologiche. Si direbbe che in quest’ultimo caso grammatici, lessicografi e scrittori – i principali codificatori dell’ortografia – abbiano in qualche modo voluto controbilanciare il maggiore dinamismo evolutivo del francese rinsaldando i legami con la lingua di provenienza attraverso una grafia poco funzionale sincronicamente, che però rispecchiasse l’impronta culturale della classicità. Il distacco dell’italiano dal latino nel Cinquecento è ribadito sullo scorcio del secolo da Leonardo Salviati, il grande filologo che contribuì in modo decisivo all’ideazione del Vocabolario della Crusca. Per il Salviati la crisi

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quattrocentesca del volgare era dipesa in primo luogo dall’«allargamento della latina lingua, la quale, avendo alquanto prima, quasi da lungo sonno, dato principio a svegliarsi, finalmente in quel tempo [...] per entro il Popolo cominciò a diffondersi». Per lui è innegabile che «lo studio della Latina lingua alla purità della nostra abbia sempre pregiudicato»; infatti «chi pon mente, che la morte del latino fu nascita del parlar nostro, non avrà gran fatto maraviglia, che il risucitamento dello stesso latino, dello stesso parlar nostro sia stato infermità: poiché è quasi naturale questa nimistà infra loro». La ricerca di autonomia e di differenziazione dal latino non riguarda solo la grafia, ma si estende anche alle varianti fonetiche: allotropi dotti come suave o unda vengono eliminati in favore delle forme popolari soave e onda sia dalle iniziative dei revisori editoriali, che intervengono secondo il modello del Bembo, sia dalle revisioni linguistiche praticate dagli stessi autori o da persone a loro vicine (un esempio è offerto dal Galateo di monsignor Della Casa). I traduttori di classici tendono a evitare latinismi percepiti come recenti in favore di forme del lessico tradizionale: così il cruentus di Sallustio e Tacito viene reso in sei traduzioni comprese tra 1523 e 1600 a seconda dei casi con crudele, sanguinoso, insanguinato, pieno di sangue, ribaldissimo, ma mai col latinismo cruento, attestato solo episodicamente prima del XV secolo. Istruttiva una vera e propria gara che si svolge verso la fine del secolo tra le lingue italiana e francese, messe a confronto con la proverbiale breviloquenza di Tacito. Henri Estienne nel 1579, commentando una recente traduzione di Blaise de Vigenère, aveva celebrato l’eccellenza del francese, perfettamente in grado di rivaleggiare con la «briefveté» dell’originale, a differenza della prolissità attribuita all’italiano. Il compito di replicare

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all’Estienne fu assunto dal fiorentino Bernardo Davanzati, che pubblicò il primo libro degli Annali nel 1596, completando l’impresa negli anni seguenti. Questa traduzione ha una certa importanza nella storia della prosa italiana, perché Davanzati, nel suo sforzo di sinteticità, accentua alcune tendenze anticiceroniane già presenti nella prosa tacitiana, realizzando un modello stilistico assai distante dal gusto classicistico-boccacciano e ampiamente strutturato su frasi nominali. I latinismi lessicali vengono ora confinati dai grammatici nella lingua poetica, una tipica “lingua speciale” che conserva caratteristiche proprie, fortemente divergenti rispetto alla prosa, fino al XIX secolo. Ed è significativo che, in questo stesso XIX secolo, i lessicografi puristi trattino alla stregua di barbarismi che inquinano la purezza della lingua italiana, accanto ai prevedibili francesismi e neologismi, anche latinismi perlopiù di origine giuridica e amministrativa (come redigere, estensore, quiescenza, circondario, esonerare: tutti vocaboli entrati in italiano, talvolta su modello francese, tra Sette e Ottocento). 3.3. Uno strumento con molte ottave Studiando i rapporti tra latino e volgare, occorre guardarsi da almeno tre rischi: 1) identificare il latino col modello ciceroniano, che solo dal Rinascimento si è imposto come paradigma didattico; 2) attribuire alla contrapposizione tra le due lingue il valore di un’opposizione sistematica tra polo della conservazione (latino) e polo dell’innovazione (volgare); 3) considerare automaticamente il latino espressione della cultura alta e del potere politico e religioso e il volgare espressione dei ceti subalterni.

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1. Per questo aspetto basterà ricordare che, fino alla svolta umanistica di Lorenzo Valla e al suo ritorno all’uso degli scrittori antichi, i manuali scolastici adoperati nelle scuole, risalenti al tardo impero o al Medioevo, assemblavano materiali eterogenei, codificando in molti casi una lingua mai esistita storicamente. Il latino medievale offre molti esempi di recuperi di vocaboli rari, magari documentati solo dai grammatici, o addirittura di curiose manipolazioni come un ptalmus ‘occhio’ (arbitrariamente estratto dal grecismo monophtalmus ‘monocolo’). Ma anche restando per così dire nell’ordinaria amministrazione, un testo latino medievale si presenta come irrimediabilmente distante da quelli che oggi si studiano (quando si studiano) nei licei. Apriamo a caso una pagina della Cronica del francescano parmense Salimbene de Adam, compilata nell’ultimo ventennio del XIII secolo; si censurano vivacemente quei cristiani che, durante la quaresima, non si confessano dei propri peccati, non si astengono dal consumo di carne, si danno al gioco d’azzardo e bestemmiano Dio e la Madonna: Sed quidam miseri Christiani in civitatibus Lombardie nec ieiunant nec de peccatis suis in maiori Quadragesima confitentur. Et quia tunc temporis carnes in macello inveniri non possunt, ideo carnes gallinarum atque caponum comedunt in occulto, et postea tota die super sextoria iacent sub porticibus et plateis et ludunt ad açardum aleas et taxillos, et ibi blasfemant Deum et Beatam Virginem, matrem eius (ediz. Scalia, vol. II, p. 913).

La grande rivoluzione rispetto al latino classico è quella prodotta dal cristianesimo. All’àmbito religioso pertengono prima di tutto parole specifiche (Christiani, Quadragesima ‘quaresima’, Virgo in riferimento antonomastico alla Madonna; e così blasphemare ‘bestemmia-

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re’ e ieiunare ‘digiunare come pratica religiosa’: il latino pagano conosceva parole corradicali come ieiunium o ieiunitas nell’accezione laica di ‘dieta’ o ‘fame’). Ma anche la semantica di confiteri ‘confessare’ e di peccatum ‘colpa’, parole di antica latinità, è completamente mutata. Alla diversa realtà geopolitica rimanda Lombardia, l’antica ‘terra dei Longobardi’ presto passata a designare genericamente l’Italia settentrionale. Cospicuo il drappello delle altre innovazioni lessicali, non necessariamente legate alla novità del referente: macellum ‘macelleria’ in luogo di laniena (l’accezione nel latino aureo di macellum era quella di ‘mercato alimentare’), sextoria ‘stuoie’ (in luogo di storeae), açardum (arabismo che qui designerà il gioco della zara, menzionato anche da Dante nel Purgatorio), taxilli ‘dadi’ (in luogo di tesserae o tali). Se il lessico, com’è naturale, appare il luogo della massima innovazione, la morfologia e la sintassi sono segnate dalla massima continuità. Sono relativamente pochi i tratti davvero postclassici: l’ablativo maiori (invece di maiore), tota die invece di per diem totum (diversa costruzione del complemento di tempo continuato e diverso genere di dies, che qui sarebbe stato usato al maschile dagli scrittori aurei) e la costruzione di ludere con ad e l’accusativo invece che con l’ablativo. Da notare d’altra parte che l’ordine delle parole si mantiene sostanzialmente fedele a quello antico, attraverso lo spostamento del verbo in fine di frase, con l’anteposizione dell’infinito al verbo servile (inveniri non possunt). Questo brano di Salimbene è utile per suggerirci una riflessione più generale. Il punto di forza del latino in età medievale e moderna – e quindi anche i molteplici rapporti istituiti con le lingue romanze – sta proprio nella sua duttilità: mantenendo comunque una sua

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stabilità come organismo morfologico e sintattico e in parte anche topologico, il latino è riuscito a lungo ad adattarsi alle mutate realtà sociali e culturali, arrivando alle soglie del terzo millennio (cioè fino al Concilio Vaticano II, 1962-1965) come lingua della Chiesa cattolica. 2. In proposito possiamo limitarci a ricordare l’uso promiscuo di latino e volgare nelle opere di Galileo, condizionato evidentemente dal pubblico di riferimento ma non certo dalla novità scientifica delle idee sostenute, insieme a un episodio di grande valore emblematico: «i protagonisti del processo che tragicamente segna il passaggio del secolo, l’imputato Giordano Bruno e l’accusatore san Roberto Bellarmino, si esprimono tutti e due nella stessa lingua latina» (Feo). 3. Più complesso, per la varietà e l’eterogeneità delle forze in gioco, valutare la dialettica cólto-popolare. Non c’è dubbio che in molte situazioni il latino rappresenta lo strumento degli intellettuali, contrapposto talora sdegnosamente al volgare degli indotti. Il nome che, in proposito, viene immediatamente alla mente è quello di Francesco Petrarca, fondatore della lirica italiana ma insieme convinto assertore della superiorità del latino, la lingua nella quale egli scrisse le opere a cui affidare la propria fama; anche nel cosiddetto codice degli abbozzi, la “brutta copia” del canzoniere vergata in parte dallo stesso poeta, egli si rivolge a sé stesso in latino. Molto noto è il silenzio del Petrarca nei confronti della Commedia dantesca: un fatto tanto clamoroso da insospettire gli stessi contemporanei, che lasciarono correre la voce di un silenzio dettato dall’invidia poetica. A tali malignità il Petrarca rispose in un’epistola al Boccaccio (Familiares, XXI), affermando la propria ammirazione per Dante, ma più per la nobiltà del tema che non per lo stile, giudicato popularis (nell’accezione

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di ‘stilisticamente basso, in quanto scritto in volgare’ e quindi ‘adatto a lettori incolti’). Del resto, la presa di distanza rispetto al volgare non riguarda solo la lingua del sì: Dionisotti ha ricordato come nel 1361 Petrarca in veste di ambasciatore adoperasse il latino col re di Francia, dichiarando un’inverosimile ignoranza del francese. Al Petrarca sogliono essere contrapposti gli altri membri delle “tre corone” trecentesche: Dante (il cui impegno per il volgare natio abbiamo ricordato nel paragrafo precedente) e Boccaccio, che contribuì alle fortune dell’italiano non solo con la sua opera di scrittore, ma anche con la sua infaticabile attività di copista (comprendente, tra l’altro, almeno tre trascrizioni della sola Commedia). È una contrapposizione più che ragionevole, a condizione che non si trascuri ciò che accomuna i tre scrittori, tutti attivi in italiano e in latino. È significativo che tanto Dante, all’altezza del prosimetro giovanile della Vita nova, quanto Boccaccio, in occasione del suo capolavoro narrativo, sottolineino un elemento che testimonia del diverso prestigio del volgare rispetto al latino: l’individuazione di un destinatario tipicamente subalterno, quello femminile. La poesia d’amore – dice Dante – nacque perché «’l primo che cominciò a dire sì come poeta volgare si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d’intendere li versi latini» (ediz. Carrai, p. 123). E, pur senza accennare alla lingua, nel proemio nel Decamerone il Boccaccio asserisce che il suo novelliere è destinato a intrattenere le donne che, a differenza degli uomini, non possono distrarsi con la caccia, la pesca, i giochi o semplicemente con «l’andare a torno» e col «vedere e udir molte cose». Al latino strumento della cultura alta – a lungo tipicamente maschile – viene contrapposto dunque un volgare che, almeno nella sua fase iniziale, sarebbe nato

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come intrattenimento amoroso (sia pure cimentandosi precocemente, nella poesia, con le sottigliezze intellettualistiche dello stilnovismo). Accanto ai letterati vanno ricordati gli scienziati. Significativa, nel Cinquecento, la polemica tra i matematici Gerolamo Cardano e Lodovico Ferrari, da un lato, e Niccolò Tartaglia, dall’altro. Una polemica che contrappose, di là dal merito, il raffinato uso del latino da parte dei primi due al volgare di colorito regionale lombardo del secondo, con implicazioni più generali; infatti il Ferrari teneva ad affermare l’uso del latino come superlingua della comunicazione scientifica, mentre il Tartaglia proclamava di voler guardare alla sostanza dei problemi, con totale indifferenza alla lingua usata che avrebbe potuto essere latino, bresciano, toscano, arabo o caldeo («io non fazzo professione di lingua Arabica, né Caldea, ma solamente delle Mathematice, & il nostro proposito è da disputar in quelle»). Un siffatto rango ha reso il latino, in Italia, lingua universitaria pressoché obbligata fino al Settecento. Perché l’italiano fosse promosso in àmbito universitario occorre aspettare il 1754, quando Antonio Genovesi lo introdusse nell’Università di Napoli come professore di una cattedra appena istituita, quella “di meccanica e di commercio”. La diffusa consuetudine col latino scritto (abbiamo già detto della sua preponderante presenza nella scuola primaria) può far sì che, accanto al cospicuo filone dei volgarizzamenti, sussista un più esile ma apprezzabile rivolo di opere concepite in volgare e poi tradotte in latino per ragioni – diremmo oggi – di più efficace promozione commerciale. È il caso, nel tardo Trecento, della traduzione in latino del Libro della divina dottrina di santa Caterina da Siena realizzata da Cristofano

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Guidini perché «chi sa gramatica o ha scienza non legge tanto volontieri le cose che sono per volgare quanto fa quelle per lettara»; oppure di Tommaso Campanella che scrisse in italiano La città del sole (1602), volgendola qualche anno dopo in latino perché l’opera conseguisse risonanza europea, venendo tradotta «anche in francese, inglese, tedesco e – dimenticata del tutto la primitiva redazione italiana fino a metà Ottocento – addirittura in italiano!» (Feo). Come avviene per chiunque occupi una posizione di potere, specie se tale primato comincia a vacillare, anche il latino è stato oggetto di satira. Si tratta, ancora una volta, di un fenomeno che accomuna i vari paesi di cultura romanza. In Francia l’aneddoto più famoso è certo quello narrato da Rabelais, nel sesto capitolo del Pantagruel, con la satira di uno studente limosino che infarcisce il suo discorso di astrusi e occasionali latinismi; per la Spagna si può citare La culta latiniparla di Francisco Quevedo (1631), con la sua dedica a un’immaginaria doña Escolástica Poliantea de Calepino, che «tiene más nominativos que galanes» ‘ha più nominativi che corteggiatori’. In Italia la satira contro l’affettazione latineggiante è molto precoce: il più antico episodio si legge in un’epistola attribuita all’Equicola e indirizzata al Muzzarelli del 1512, sulla quale richiamò l’attenzione Dionisotti. Negli anni successivi il quadro è dominato dalla figura del pedante, personaggio tipico della commedia cinquecentesca. La stessa parola pedante (probabilmente incrocio scherzoso tra pedagogo e l’antico pedante ‘soldato a piedi’, in riferimento al maestro che accompagna a piedi gli scolari) è un italianismo passato alle altre lingue europee, in alcuni casi attraverso il tramite del francese pédant: cfr. spagn. e portogh. pedante,

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ingl. pedant, ted. Pedant, ceco, bulgaro e serbo-croato pedant, ungherese pedáns ecc. L’effetto caricaturale nasce in primo luogo dall’esasperazione di un processo fondamentale nelle lingue romanze, cioè l’adattamento di termini latini al volgare: il pedante adopera latinismi occasionali per esprimere nozioni usuali ben salde nella lingua comune (per esempio: «hai sempre floccipeso le mie parole» nel Della Porta, da floccipendere ‘trascurare’; o «Chi pulsa a quest’ostio?» ‘chi bussa alla porta?’ nel Pasqualigo). Ciò genera equivoci con l’interlocutore di turno, che irride alle manie linguistiche del personaggio, e soprattutto mostra il ribaltamento di prestigio un tempo goduto dall’umanista: ora «l’intellettuale cessa di essere un saggio e diventa un pazzo» (Stäuble). Al pedante della commedia corrisponde, in poesia, il personaggio di Fidenzio, un pedagogo che ama invano il suo discepolo Camillo, creato dal vicentino Camillo Scroffa. La satira, che si alimenta anche in questo caso dell’eccesso e dell’improbabilità dei latinismi, coinvolge la tradizionale lirica amorosa di derivazione petrarchesca, dal momento che il destinatario di Fidenzio non è una donna, ma un giovinetto. Ecco un esempio, dall’inizio di un sonetto che riprende il topos della descriptio mulieris, cioè dell’enumerazione delle bellezze fisiche dell’amata: Le tumidule genule, i nigerrimi occhi, il viso peralbo et candidissimo, l’exigua bocca, il naso decentissimo, il mento che mi dà dolori acerrimi [...]

Oltre alla presenza di latinismi insoliti (gena ‘guancia’; un latinismo semantico è exigua ‘piccola come dimensioni’), si noterà il ricorso a procedimenti formativi

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estranei all’italiano: il superlativo prefissale (peralbo ‘bianchissimo’) o suffissato diversamente (nigerrimi ‘nerissimi’; invece acerrimi, dopo un’isolata attestazione boccacciana, si diffonde con l’Umanesimo affermandosi stabilmente nel registro alto); i diminutivi in -ulo: tumidule genule ‘guancette paffutelle’. Se alcuni attributi ricalcano quelli tradizionali (il candore della pelle, gli occhi neri, la bocca piccola), potrebbero considerarsi indizi del carattere satirico del sonetto i riferimenti al naso e al mento (per giunta con insistenza sul suo potenziale erotico: «che mi dà dolori acerrimi»), due aspetti mai accennati in Petrarca, anche se non del tutto estranei alla tradizionale descriptio. Scroffa guarda anche a un altro modello, quello del Polifilo, il complesso romanzo attribuibile al veneziano Francesco Colonna, stampato in sontuosa veste tipografica dal Manuzio (1499) e poi ristampato a ridosso dei Cantici di Fidenzio, nel 1545. Ma se in entrambi i casi il latino preme sulle strutture dell’italiano fino al parossismo, le differenze tra le due operazioni sono notevoli. Nel Polifilo non si ha alcun intento “comico” e la mescolanza tra le due lingue appare come la punta oltranzistica di una larga disponibilità dell’italiano quattrocentesco, fuori di Toscana, alla nobilitazione attraverso il latino. Inoltre, mentre «Fidenzio si limita a fare uso, o abuso, del latinismo e della normale funzione neologica, senza uscire per questo dall’ambito del volgare e dei suoi processi formativi» (Trifone), questo confine è spesso varcato dal Colonna. Il punto d’arrivo è talvolta un territorio indistinto, sia per la sintassi impervia se non labirintica; sia per la semantica, a proposito della quale padre Pozzi ha parlato di «nebulose di significati»; sia, occasionalmente, per la morfologia, che può accogliere veri e propri ibridismi (come per

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un se vide che non vale ‘si vide’, ma ‘si vede’, vale a dire è un presente con la vocale tonica del latino videt; un costrutto – si osserverà – tipicamente postclassico, dal momento che il latino avrebbe richiesto un passivo: cernitur o simili). Nel lessico è caratteristica l’ipertrofia, che parte da materiali di età classica, del latino tardo e, in misura notevole, da neoformazioni. Un ‘piccolo ramo’ non è indicato col diminutivo già ampiamente disponibile in italiano, ramoscello, bensì con i latineggianti ramulo e ramusculo (o, con parziale adattamento: ramuscolo); per ‘coperto di arbusti’ sono disponibili arbustato, arbustoso, arbusculato (dal lat. arbuscula) e arbuscato. Quest’ultimo, di formazione arbitraria, non è un caso isolato. Come esempio del rapporto poco trasparente tra base e suffisso, si può menzionare il caso dei proparossitoni in -ulo, -olo – frequentissimi nel Polifilo, come in genere nelle scritture iperlatineggianti – che offrono oltretutto una considerevole quantità di hapax. Eccone un campione, limitato alle parole comincianti per a-: absorbiculo ‘che viene inghiottito’, absorbulo ‘che assorbe’, allectabulo ‘attrattiva’, alticolo ‘anziano abitatore’, aquabulo e aquatulo ‘che vive nell’acqua’. Fin qui abbiamo messo insieme alcuni esempi in cui il latino funge da polo espressivo alto, adatto alla comunicazione intellettuale: gli eccessi (Polifilo), le caricature (commedia cinquecentesca, poesia fidenziana) o magari il mistilinguismo comico del latino macaronico di Teofilo Folengo non possono che confermare questo dato di fatto. Ma sono tutti esempi, non casualmente, di età cinquecentesca. Soprattutto nel Medioevo e in parte anche nei secoli successivi il latino è stato variamente compromesso con gli strati bassi della popolazione e ha saputo adeguarsi pienamente anche all’umile regi-

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stro colloquiale, non foss’altro che per due ragioni che abbiamo già sommariamente evocato: l’istruzione, scolastica e non scolastica, alla quale il latino costituiva l’accesso abituale se non obbligato; e, ben più importante, la Chiesa cattolica. Converrà soffermarsi brevemente su ciascuno dei due aspetti. La funzione di tramite culturale del latino si è manifestata su vari piani. In latino ha circolato nel Medioevo quello che è stato definito da un grande storico della scienza «the most popular book in the Middle Ages», cioè il Secretum secretorum, tradotto da un originale arabo e conosciuto nella sua versione latina attraverso almeno 600 manoscritti (oltre a un numero, tuttora imprecisato ma certo non così cospicuo, di manoscritti contenenti versioni in varie lingue europee: italiano, spagnolo, olandese, russo ecc.). Si tratta di una specie di enciclopedia naturalistica e sanitaria che – a giudicare proprio dalla straordinaria quantità dei manoscritti superstiti – dovette essere letta o consultata anche da chi aveva una conoscenza approssimativa del latino. A livelli più elementari si situa quello che ancora oggi è uno strumento fondamentale per chi studi una lingua diversa dalla propria: il dizionario. Nel Medioevo il dizionario assume perlopiù la forma del semplice glossario, cioè di una sommaria lista di lemmi seguiti dal traducente in un’altra lingua. I glossari, particolarmente numerosi nel XV secolo e solo in parte editi, sono diversissimi per provenienza geografica (e quindi per la coloritura linguistica della sezione in volgare), autore (dall’oscuro maestro di scuola al grande umanista), destinatari (accanto ai comuni scolari, un certo numero di glossari sembra essere autoreferenziale: esercizio o passatempo non destinato alla divulgazione). Solo nel 2001 è stato dato alle stampe un monumentale lessico

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italiano-latino, noto da tempo ma mai studiato prima: il vocabolario di Nicodemo Tranchedini. L’autore, originario della Lunigiana, fu al servizio come diplomatico degli Sforza; la sua impresa, risalente agli anni intorno al 1470, allinea quasi 7.000 entrate in volgare, a cui corrispondono più di 35.000 traducenti latini. Verrebbe da pensare che il Tranchedini abbia voluto creare un repertorio utile per coloro che dovevano scrivere dispacci latini, ma la presenza di certi lemmi fa pensare che in lui il gusto del raccoglitore sia stato comunque prevalente. Quel che va rilevato – dal nostro punto di vista – è che la ricchezza del lessico testimonia bene di un uso del latino di ampia apertura diafasica, adatto alle più varie contingenze della vita quotidiana e professionale. Si svaria da parole grammaticali (Colui: Ille, ipse) a tipiche operazioni domestiche (Abotonare: Fibulo las); da termini generici (Natura: Natura, ingenium, Minerva) a termini fin troppo specifici (Puza de pedi: Pedor); da nomi di luogo (Civita de Penna: Civitas Pennarum) a frasi idiomatiche, tipiche di qualsiasi conversazione reale (A me sta: Mei laboris est, spectat; Como se sia: Utcunque sit [...]; Ma dime: Age vero [...]). Molto più complesso, com’è intuibile, è anche soltanto delineare le linee del secolare rapporto latino-volgare nella Chiesa. I primordi di questo rapporto presentano elementi paradossali. La Chiesa, custode fedele del latino, ha precocemente avvertito l’esigenza di aprirsi alle lingue parlate e conosciute dai fedeli. Una delle date fondamentali della linguistica romanza è l’813, l’anno in cui in un concilio a Tours si stabiliva che le prediche dovessero essere tenute «in rusticam romanam linguam aut thiotiscam» – non in latino, dunque – «quo facilius cuncti possint intelligere quae dicuntur» ‘perché tutti possano più facil-

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mente capire quel che viene detto’. Ma l’intacco del latino classico è, si potrebbe dire, consustanziale già nei Vangeli in cui – talvolta solo nella versione che precede la Vulgata di san Girolamo – possono ricorrere semitismi (in + ablativo con valore strumentale: «non in solo pane vivit homo»), grecismi (genitivo assoluto: «Audientium autem eorum [...] dixit parabolam») e popolarismi vari già largamente diffusi nel latino volgare (espansione dei costrutti preposizionali a danno dei casi obliqui: «dixit ergo ad Joseph»; completive introdotte da congiunzione: «Ait Iesus ad eum quia hodie salus domui huic facta est» ecc.). Gli stessi scrittori cristiani hanno un atteggiamento ambivalente nei confronti della lingua e della cultura classica e comunque tendono a deprimere le regole dei grammatici in favore dell’efficacia comunicativa. Ma il latino, proprio in quanto lingua delle Scritture, mantiene tutta l’autorità che compete a una lingua sacra. Gli stessi predicatori più sensibili all’esigenza di farsi immediatamente capire dal popolo vi fanno ricorso, magari per tradurre immediatamente in volgare la citazione scritturale, come Bernardino da Siena; ad esempio: «Draco iste quem formasti ad illudendum ei: omnia ad te expectant (Ubi supra). Questo draco, questa maladetta bestia – dice David – la quale tu, o Idio, hai formata perché noi ce ne facciamo beffe; non di meno noi pure aspettiamo la grazia da te». E nel Quattrocento è caratteristico il fenomeno dei sermoni mescidati, con passaggio dal latino all’italiano (probabilmente il predicatore tendeva a servirsi del volgare nelle parti dialogiche, più vivaci e impressive, riservando il latino a quelle diegetiche). Ecco un esempio da Valeriano da Soncino, in cui si riproduce un vivace dialogo tra due donne che presto scade nel pettegolezzo:

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Et quid facit finita predicatione? Vadit ad domum comatris sue, et cum pervenit ad hostium pulsat. Comater venit ad hostium et aperiens et videns eam ait. – O, ben venga la mia cara comar. E como stati voy madona Drosolina? El è cento anni che non ve ho veduta – et ducit eam in domo et ait: – Asetateve impoco, che el me pare che siati tuta quanta astracha.

Si noterà che tra latino e volgare c’è sicuramente distanza, ma non c’è un abisso. Il latino, come già in Salimbene de Adam, è intriso di volgarismi, o comunque di forme post-classiche, a cominciare dalla struttura del periodo e dall’ordine delle parole. Inoltre: finita risente della semantica volgare (il latino aureo avrebbe preferito piuttosto confecta o perfecta); praedicatio è usata secondo la semantica cristiana (nel latino pagano valeva ‘proclamazione, encomio’); vadit corrisponde al classico it; ad domum a domum; commater è solo del latino tardo nell’accezione di ‘madrina’ e solo medievale in quella di ‘comare’; in ducit eam in domo figura un costrutto di stato invece che di moto a luogo (si aggiungano le alterazioni grafiche: mancata indicazione dei dittonghi, com’è normale nel latino medievale; presenza arbitraria di h in hostium). Certo, la quota di latino – pur così addomesticato – potrebbe sembrare eccessiva per la capacità di comprensione di un pubblico in massima parte analfabeta e confinato al proprio dialetto. Il dubbio è fondato, ma non riguarda il solo latino. Un predicatore, viaggiando per l’Italia medievale, si trovava spesso di fronte a persone parlanti un dialetto assai distante dal proprio. Evidentemente contavano le sue risorse pragmatiche e la stessa prevedibilità dei temi; ma una parte importante dovevano svolgerla proprio le «citazioni latine e semilatine, tratte da quei testi sacri che tutti, letterati e non

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letterati, avevano nell’orecchio, perché presenti, per ore e ore alla settimana, ai riti sacri» (Baldelli). Una splendida monografia di Gian Luigi Beccaria ha illustrato anni fa i ricchissimi lasciti che il latino liturgico ha depositato nei dialetti italiani, spesso dando vita a curiose deformazioni. Una delle più note è una fantomatica (donna) Bisodia, di cui si colgono echi tanto nei dialetti quanto negli scrittori, nei significati più vari (‘bacchettona’, ‘persona un po’ matta’, ‘donna sguaiata’ ecc.). L’origine è nel Pater Noster, la preghiera fondamentale dei cristiani, recitata a memoria senza identificare nemmeno il confine tra le parole: il «panem nostrum quotidianum da nobis hodie» ha così generato un dano bis(h)odie e la creatività popolare ha variamente manipolato questo spezzone fonico avulso dal suo contesto.

Integrazioni bibliografiche 3.1. Le osservazioni sulle frasi idiomatiche sono tratte dal mio articolo Sulla componente idiomatica e proverbiale nell’italiano di oggi, in P.M. Bertinetto, C. Marazzini, E. Soletti (a cura di), Lingua storia cultura: una lunga fedeltà. Per Gian Luigi Beccaria, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2010, pp. 69-88 (74). Per l’ascendenza latino-greca nella terminologia medica cfr. L. Serianni, Terminologia medica: qualche considerazione tra italiano, francese, spagnolo, in «Studi di lessicografia italiana», XXV (2008), pp. 253-269 (255 e 259). Sulle vicende della grafia italiana, in generale, cfr. N. Maraschio, Grafia e ortografia: evoluzione e codificazione, in Serianni, Trifone, Storia della lingua italiana cit., I, I luoghi della codificazione, pp. 139-227. L’articolo di Petrucci (Ancora qualche osservazione sul kappa “politico”) è in «Lingua nostra», XXXVIII (1977), pp. 114117 (le citazioni alle pp. 115 e 116-117). Per i Frammenti del

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1211 cfr. A. Castellani, Saggi di linguistica e filologia italiana e romanza, Roma, Salerno Editrice, 1980, vol. II, pp. 73-140 (104-105); per la Sequenza di sant’Eulalia cfr. l’edizione diplomatica approntata da W. Foerster e E. Koschwitz nel loro Altfranzösisches Übungsbuch, Heilbronn, Henninger, 1884, p. 49; per il documento leonese del IX secolo cfr. R. Menéndez Pidal, Orígenes del español, Madrid, Espasa-Calpe, 19503, pp. 25-26; per l’Ortographia gallica cfr. Ältester Traktat über französische Aussprache und Ortographie, hrsg. von J. Stürzinger, Heilbronn, Henninger, 1884, p. 25. Per la storia della zeta nella grafia italiana del Rinascimento cfr. B. Migliorini, Saggi linguistici, Firenze, Le Monnier, 1957, pp. 197-225. Per l’onomastica italiana cfr. G. D’Acunti, I nomi di persona, in Serianni, Trifone, Storia della lingua italiana cit., II, Scritto e parlato, pp. 795-857. I dati sui nomi femminili senesi sono ricavati da O. Castellani Pollidori, In riva al fiume della lingua. Studi di linguistica e filologia (1961-2002), Roma, Salerno Editrice, 2004, pp. 5-22. Fondamentali dizionari onomastici sono Rossebastiano, Papa, I nomi di persona in Italia cit. e [E. Caffarelli, C. Marcato], I cognomi d’Italia. Dizionario storico ed etimologico, Torino, Utet, 2008. In prospettiva storica si veda il recente R. Bizzocchi, I cognomi degli Italiani. Una storia lunga 1000 anni, Roma-Bari, Laterza, 2014. 3.2. Per l’insegnamento del latino nella scuola italiana cfr. N. De Blasi, L’italiano nella scuola, in Serianni, Trifone, Storia della lingua italiana cit., I, pp. 383-423. La citazione da C. Marazzini è tratta dal suo contributo Il Piemonte e la Valle d’Aosta, in Bruni, L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali cit., p. 24. Per il De vulgari eloquentia si vedano le recenti edizioni riccamente commentate a cura di M. Tavoni, in Dante Alighieri, Opere, ed. diretta da M. Santagata, vol. I, Milano, Mondadori, 2001, pp. 1065-1547 (di Tavoni sono le traduzioni dei passi latini citati) e di E. Fenzi (Dante Alighieri, Le opere, vol. III, De vulgari eloquentia, a cura di E. Fenzi con la collaborazione di L. Formisano e F. Montuori, Roma, Salerno Editrice, 2012). Sulle poesie ambivalenti latino-romanze si vedano per l’italiano i cenni di T.

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De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita (1963), RomaBari, Laterza, 2002, p. 322; per l’ibero-romanzo E. Buceta, La tendencia a identificar el español con el latín. Un episodio cuatrocentista, in Homenaje ofrecido a Menéndez Pidal, Madrid, Hernando, 1925, I, pp. 85-108, e L. Terracini, Nazionalismo linguistico spagnolo. Gli elogi della lingua, in M. Tavoni et al. (a cura di), Italia ed Europa nella linguistica del Rinascimento, Modena, Panini, 1996, vol. I, pp. 233-253. Sui rapporti tra Nebrija e l’umanesimo italiano e sulla nascita della grammatica europea si veda G. Patota, Lingua e linguistica in Leon Battista Alberti, Roma, Bulzoni, 1999 (la citazione da p. 64; ivi anche per i passi di Valla e Alberti, alle pp. 60 n. 90 e 61 n. 92). Sulla formula «italiano lingua senza impero», usata da Bruni in un intervento del 2000, si veda Id., L’italiano fuori d’Italia, Firenze, Cesati, 2013, pp. 9-21. Per l’uso del volgare nei dispacci pontifici cfr. G. Gualdo, R. Gualdo, L’introduzione del volgare nella documentazione pontificia tra Leone X e Giulio III (1513-1555), Roma, Roma nel Rinascimento, 2002 (la citazione dalle pp. 16-17). Il richiamo al franc. poids come tipico esempio di grafia influenzata dal latino è già in Saussure, Corso di linguistica generale cit., p. 40. La citazione dal Salviati è in Id., Degli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone, Venezia, Guerra, 1584, vol. I, pp. 88-89. Sulla specializzazione dei latinismi nella lingua poetica cfr. L. Serianni, La lingua poetica italiana. Grammatica e testi, Roma, Carocci, 2009, passim. I dati sulle traduzioni da classici latini sono ricavati da F. Sestito, Sulla frequenza d’uso dei latinismi nel Cinquecento, in «Studi linguistici italiani», XXV (1999), pp. 161-185. Sulla traduzione tacitiana del Davanzati cfr. L. Serianni, Italiano in prosa, Firenze, Cesati, 2012, pp. 171-214. Per l’avversione ai latinismi da parte dei puristi cfr. Id., Norma dei puristi e lingua d’uso nell’Ottocento, Firenze, Accademia della Crusca, 1981, pp. 48-53. 3.3. Per il latino umanistico e il suo insegnamento cfr. S. Rizzo, Il latino nell’Umanesimo, in A. Asor Rosa (dir.), Letteratura italiana, vol. V, Le Questioni, Torino, Einaudi, 1986, pp. 379-408, e Ead., L’insegnamento del latino nelle scuole

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umanistiche, in Tavoni et al. (a cura di), Italia ed Europa nella linguistica del Rinascimento cit., I, pp. 3-29. La citazione da Salimbene è dall’edizione di G. Scalia, Bari, Laterza, 1966. Il riferimento al latino di Bruno e Bellarmino e, più avanti, di Campanella si legge in M. Feo, Tradizione latina, in Asor Rosa, Letteratura italiana, vol. V cit., pp. 311-378 (370). L’aneddoto petrarchesco è in Dionisotti, Geografia e storia cit., pp. 145-146. La citazione dalla Vita nova è tratta dall’edizione curata da S. Carrai, Milano, BUR, 2010. Sulla piena funzionalità espressiva del latino scientifico sei-settecentesco ha insistito M.L. Altieri Biagi; si veda, più in generale (anche per le indicazioni bibliografiche relative), M. Dardano, I linguaggi scientifici, in Serianni, Trifone, Storia della lingua italiana cit., II, pp. 497-551. Sul Tartaglia cfr. M. Piotti, «Un poco grossetto di loquella». La lingua di Niccolò Tartaglia, Milano, Led, 1998 (la citazione da p. 31). La notizia su Cristofano Guidini è in Migliorini, Storia della lingua cit., p. 201. Per l’epistola al Muzzarelli del 1512 cfr. C. Dionisotti, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Milano, 5 Continents, 2003, pp. 101-110. Sul pedante cfr. A. Stäuble, «Parlar per lettera». Il pedante nella commedia del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1991 (da cui si attingono gli esempi addotti nel testo; la citazione è a p. 116). Sul linguaggio fidenziano cfr. l’introduzione di P. Trifone alla sua edizione di C. Scroffa, I cantici di Fidenzio, Roma, Salerno Editrice, 1981 (la citazione a p. xix). Sulla descriptio mulieris cfr. G. Pozzi, Sull’orlo del visibile parlare, Milano, Adelphi, 1993, spec. alle pp. 173-184, e anche L. Serianni, Lirica, in Antonelli, Motolese, Tomasin (a cura di), Storia dell’italiano scritto cit., I, Poesia, pp. 27-83 (53-54). Per il Polifilo si veda l’edizione, a cura di M. Ariani e M. Gabriele, di F. Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, Milano, Adelphi, 1998; indispensabile ricorrere alla precedente edizione a cura di G. Pozzi e L.A. Ciapponi (Padova, Antenore, 19802) per il ricco commento linguistico che l’accompagna. Per se vide cfr. Serianni, Italiano in prosa cit., p. 56. Sul Secretum cfr. S. Rapisarda, Appunti sulla circolazione del Secretum secretorum in Italia, in R. Gualdo (a cura di), Le parole della scienza,

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Galatina, Congedo, 2001, pp. 77-97 (ivi anche per la citazione dello storico della scienza Lynn Thorndike). Sui glossari cfr. C. Giovanardi, Il bilinguismo italiano-latino del Medioevo e del Rinascimento, in Serianni, Trifone, Storia della lingua italiana cit., II, pp. 435-467. L’edizione del Tranchedini si deve a F. Pelle (N. Tranchedini, Vocabolario italiano-latino, Firenze, Olschki, 2001). Per il latino cristiano il riferimento obbligato è Ch. Mohrmann, Études sur le latin des chrétiens, 4 voll., Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1961-1977. Il brano di san Bernardino è stato estratto da Bernardino da Siena, Prediche volgari sul campo di Siena 1427, a cura di C. Delcorno, Milano, Rusconi, 1989, I, p. 278. Sui sermoni mescidati cfr. L. Lazzerini, «Per latinos grossos...». Studio sui sermoni mescidati, in «Studi di filologia italiana», XXIX (1971), pp. 219-339 (di qui il brano a testo, pp. 265-266). La citazione da Baldelli si legge in I. Baldelli, Koinè nell’Italia centrale, in G. Sanga (a cura di), Koinè in Italia dalle Origini al Cinquecento, Bergamo, Lubrina, 1990, pp. 55-67 (63). Il titolo del libro di G.L. Beccaria è Sicuterat. Il latino di chi non lo sa, Milano, Garzanti, 20012 (per la storia di donna Bissodia si veda a p. 35).

4.

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4.1. Il testo e il senso Nella ricetta semiseria di Alberto Varvaro da cui abbiamo preso le mosse (p. 4), si riteneva caratterizzante per lo storico della lingua la pratica dell’edizione critica «almeno una volta nella vita». Presa alla lettera, la prescrizione è un po’ troppo rigida specie se immaginiamo un’edizione critica impegnativa, fondata su una pluralità di testimoni da confrontare e da classificare. Ma quel che è certo è che nessuno storico della lingua può esimersi da un certo grado di confidenza, non solo con i ferri del mestiere di editore di testi (i vari tipi di apparato che corredano un’edizione critica, la classificazione delle varianti ecc.), ma soprattutto con l’abito critico del filologo, abituato a interrogare criticamente i lasciti della tradizione manoscritta. D’altra parte è noto e indiscusso il principio correlativo: nessun filologo può accingersi a un’edizione critica se non conosce in modo approfondito la lingua in cui il testo è stato scritto e se non sa orientarsi sull’eventuale patina linguistica divergente dei manoscritti relatori. La filologia è insomma, tra le discipline contigue, quella più strettamente connessa alla storia della lingua. Più che insistere su un assunto come questo, addirittu-

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ra banale, converrà soffermarsi su alcuni esempi attinti dall’esperienza di maestri scomparsi, di studiosi maturi e affermati e di studiosi giovanissimi ma molto promettenti, per una verifica in corpore vili del circolo virtuoso tra linguistica e filologia. Partiamo da un’esperienza che ciascun filologo compie più volte nel corso del suo lavoro, quando si imbatte in qualche cosa che non funziona nel testo che ha di fronte e si rende conto che bisogna intervenire. Occorre non solo individuare una lezione plausibile, se non incontestabile, ma anche cercare di capire in che modo il guasto si è prodotto, ricostruendo il comportamento del copista. Qualche volta l’errore è commesso dall’editore del testo, il filologo che funge da intermediario tra il manoscritto e l’utente dell’edizione (che di norma è un altro studioso), e in tal caso la sorveglianza critica dovrà essere esercitata da chi consulta l’edizione. In un saggio di carattere metodologico Paolo Trovato si sofferma sull’edizione di un carteggio cinquecentesco, in cui si legge una frase sospetta: «mai tal nome me iuserà dal core». Che cosa vuol dire il misterioso iuserà? Bisogna partire dalla fisionomia linguistica dello scrivente, Paulo Laurino: un napoletano, che «viveva nel convento agostiniano di Creta, linguisticamente veneto». È dunque «facile correggere iuserà in inserà» cioè ‘uscirà’ (la confusione tra u e n è banale, come tutti verifichiamo anche nella scrittura corsiva dei nostri tempi): insir ‘uscire’ è forma ben attestata in area veneta e altrove1 e sarà «uno dei tanti venetismi parziali, mi1  Da exire si è avuto esir e poi ensir, insir con epentesi di n; non si può escludere un’interferenza della parola di significato inverso, intrar < intrare. Un caso del tutto simile si è avuto in rendere < reddere, in cui la nasale si deve all’influsso dell’antònimo prendere < pre(he)ndere.

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metici, che è possibile trovare nelle lettere del Laurino a lato di schietti napoletanismi fonetici e morfologici». Nel caso di iuserà/inserà ci troviamo di fronte a un errore di trascrizione dell’editore moderno. Molto spesso l’errore si annida invece nel manoscritto o nei manoscritti relatori. Arrigo Castellani, a cui si devono vari interventi sul testo di un capolavoro della prosa antica, la Cronica d’Anonimo in volgare romanesco, risalente al Trecento ma testimoniata da manoscritti cinque- e secenteschi, si sofferma sul seguente passo: «Questo legato fece l’oste pentolosa sopra de Forlì». Si sta parlando dell’offensiva della Chiesa (il legato pontificio è il cardinale Egidio Albornoz) contro gli Ordelaffi, signori di Forlì; la città fu presa il 4 luglio 1359. Tutto bene per oste che, come sappiamo (pp. 60-61), valeva ‘esercito’ o anche, per ovvia metonimia, ‘guerra, spedizione militare, assedio’; ma che vuol dire pentolosa? La forma è testimoniata dai vari rami della tradizione e pertanto deve essere attribuita all’archetipo, ossia all’esemplare da cui derivano tutti i manoscritti superstiti. Per spiegarla non dobbiamo tirare a indovinare, come fanno il lettore di una stampa secentesca che postilla «prolungata» o, nel Settecento, l’erudito Pietro Ercole Gherardi, che tradusse la Cronica in latino (exercitum abjectorum [...] coadunavit, cioè ‘mise insieme un esercito di soldati di infimo livello’, pensando a «una specie d’armata Brancaleone», come commenta ironicamente Castellani). Si tratta invece di un errore d’archetipo: l’originale doveva leggere pericolosa (oste pericolosa; quindi, probabilmente: ‘guerra violenta’); il copista «ha preso per una n il gruppo grafico ri (con una r il cui ricciolo finiva a ridosso dell’asticciola seguente)» e ha scambiato c con t. La restituzione della forma da promuovere a testo, del tutto plausibile dal punto di vista paleografico,

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ha anche una conferma linguistico-stilistica: in un altro passo della Cronica ritorna, in un contesto simile, proprio lo stesso sintagma: «lo legato se apparecchiava de fare un’aitra oste molto più pericolosa». Talvolta una parola-fantasma come pentolosa può figurare persino in un dizionario e quindi il processo di riconoscimento del guasto è più impegnativo, non foss’altro perché sollecita più che mai lo spirito critico dello studioso. Giuseppe Zarra, nel corso di una sua ricerca sull’italiano antico, si è imbattuto in un caso esemplare. Nella terza e nella quarta edizione del Vocabolario della Crusca (1691 e 1729-1738) alla voce cipresso, oltre alla definizione botanica, si legge una bizzarra accezione («Per la parte posteriore del Capo. Lat. occipitium»), con rinvio a un volgarizzamento del Thesaurus pauperum, un ricettario medico in latino fortunatissimo nel Medioevo attribuito a Pietro Ispano, poi papa Giovanni XXI. L’implausibilità di questo significato non era sfuggita a Vincenzo Monti che, in una sua opera vivacemente polemica verso la prassi lessicografica cruscante2, aveva commentato con sarcasmo lo scarso discernimento degli Accademici: «Niuno che alcun poco ragioni su la natura ed origine delle parole, comprerà questa gatta in sacco», cioè ‘si fiderà alla cieca, senza verificare’. Monti aveva ragione; ma come si è potuto attribuire a cipresso il significato di ‘nuca’? Zarra ha trovato la forma cipesso (senza r) in un volgarizzamento pisano del Thesaurus pauperum, tràdito da almeno quattro testimoni. Ora, nel pisano medievale al tipo fiorentino e italiano piazza corrispondeva piassa, per evidente influsso dei dialetti settentrionali: da un lat. occipĭtium ‘nuca’, che avrebbe 2  Proposta di alcune giunte e correzioni al Vocabolario della Crusca (1817-1826).

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dato nel fiorentino *occipezzo, si sarà avuto dunque *occipesso; la o- iniziale è poi caduta per un fenomeno noto come discrezione dell’articolo3 e quindi il punto d’arrivo è stato cipesso, non compreso dai copisti, che l’hanno banalizzato in cipresso, ed è finito nel testo da cui hanno attinto i compilatori del Vocabolario della Crusca. La prova definitiva che le cose siano andate proprio così ci viene dal fatto che in un testo napoletano antico figura un esempio di cepezzo ‘nuca’ (con l’esito locale che ci aspettiamo da -tj-). Cipesso-cepezzo è insomma un’unità lessicale reale, appartenuta all’italiano antico: si tratta della «sopravvivenza episodica di una forma che deve aver conosciuto una debole trafila popolare». Accanto alle parole-fantasma esistono quelle che potremmo definire semi-fantasma. Tali sono per esempio certe varianti testuali stratificatesi in una tradizione testuale complessa come quella della Commedia dantesca; basti un esempio. A Inferno, XXXII 99 («o che capel qui su non ti rimagna») nella sua edizione del 1996 Antonio Lanza accoglie, facendo sua una congettura di altri, il cosu – ossia cosù, da un lat. eccum sursum – recato da alcuni manoscritti, tra i quali l’autorevole Trivulziano 1080 («o che capel cosu non ti rimagna»). A differenza di inserà, pericolosa e cipesso, che possiamo considerare acquisizioni sicure, qui siamo nel campo di una sempli-

3   Parlando, non facciamo sentire nessuno stacco tra una parola grammaticale come l’articolo e il successivo sostantivo: tutti sappiamo che la e rosa sono due parole, ma se un signore, presentandosi, ci dice: «Piacere, La-Rosa», non possiamo sapere se il suo cognome si scriva La Rosa o Larosa. Il fenomeno di discrezione dell’articolo consiste appunto in un’errata segmentazione del continuum fonico costituito tipicamente da articolo + sostantivo; così da un (il)lam (h)arēnam si è avuto la rena (arena è l’allotropo dotto, come ci dice anche la pronuncia aperta della e).

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ce possibilità, oltretutto indebolita dalla circostanza che di questo cosù non conosciamo altre attestazioni; però il fatto che alcuni copisti, in un contesto che non offriva nessuna particolare difficoltà, rechino questa forma dà da pensare: non potrebbe essere una lectio difficilior, cioè una forma che, per la sua rarità, è stata banalizzata dalla maggioranza degli amanuensi ma che, proprio per questo, è più fededegna? Ma torniamo alle forme documentate in modo indiscutibile per sottolineare l’importanza degli apparati genetici, che danno conto del processo elaborativo di un testo. Francesco Redi è autore di un celebre, vivacissimo ditirambo, il Bacco in Toscana, ottimamente pubblicato pochi anni fa da Gabriele Bucchi. L’apparato documenta l’elaborazione del Bacco dal primo abbozzo (1672) alla princeps (1685), offrendoci la possibilità di risalire a forme effettivamente create dal Redi, ma poi cassate nella redazione definitiva e quindi per forza di cose escluse dai dizionari storici. È il caso di pindaricochiabrerico ‘degno di Pindaro e di Chiabrera’ detto di un poeta coevo, almigioioso ‘che rallegra l’anima’, gravilepido ‘grave e scherzoso’, velocintrepido ‘audacemente veloce’ (i due ultimi composti sono usati in due versi contigui: «e con volto gravilepido / è nel ber velocintrepido»). Forme del genere, concepite da un onomaturgo brillante ma non consolidatesi sulla carta, meritano di suscitare l’attenzione degli studiosi, non foss’altro che per documentare la vitalità dei procedimenti di formazione delle parole presso un certo scrittore o in una certa epoca. L’esame della veste linguistica dei manoscritti può portare anche molto lontano. Studiando i grandi canzonieri che ci hanno trasmesso la poesia italiana più antica, Giovanna Frosini svolge alcune considerazioni di

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grande importanza su Guittone d’Arezzo, il poeta del XIII secolo dal quale Dante prenderà nettamente le distanze sia nel De vulgari eloquentia sia nella Commedia, imputandogli – scrive nel trattato – il fatto di non essersi mai indirizzato al «vulgare curiale», ma di essersi attestato su scelte municipali. Le poesie di Guittone ci sono state trasmesse in massima parte da manoscritti vergati da copisti pisani e verrebbe da pensare che i pisanismi delle sue poesie risalgano alle vicissitudini della tradizione. Ma vari elementi ci fanno sospettare che possa trattarsi di scelte originarie e che Guittone non disdegni le «risorse offerte dalla multiforme realtà linguistica a lui coeva, in una trasversalità municipale che unisce oriente e occidente, aretino e pisano». Se un’ipotesi del genere è fondata, ne deriva che le censure di Dante nascerebbero non dall’assetto della tradizione manoscritta, cioè dalla veste in cui Dante leggeva le poesie di Guittone, ma da un dato intrinseco: il disdegno per un ibridismo linguistico alieno da «quell’ideale di elezione linguistica e stilistica, [da] quella distillazione e rarefazione formale sulla base del monolinguismo fiorentino che sarà il carattere così propugnato e a oltranza difeso dello stile nuovo e dolce». Che vorrebbe dire passare da uno specifico problema di tradizione testuale al diverso assetto di una categoria storico-letteraria. Fin qui ci siamo soffermati su questioni che coinvolgono manoscritti, prevalentemente medievali, ma l’abito filologico dovrebbe essere un abito da indossare sempre, ossia in tutti i casi in cui un testo presenti una lezione sospetta. In una breve ma densa nota Emiliano Picchiorri ha illustrato un episodio significativo. Nel grande dizionario storico fondato da Salvatore Battaglia per la Utet (Grande dizionario della lingua italiana = GDLI) alla voce ammalare si illustra il valore causa-

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tivo del verbo (‘fare ammalare’) anche con un esempio di Gianna Manzini, da Lettera all’editore: «Il sole, velato d’una tenerezza trepidante, qualche bambina ammalava». Picchiorri si è insospettito, ha controllato l’edizione da cui il GDLI dichiara di citare (1946) e ha verificato che c’è stato un errore: Manzini aveva scritto «quel che lambiva ammalava». Ci si chiede come sia stato possibile questo guasto. Una prima possibilità è che il passo sia stato trasmesso, in età pre-informatica, scritto a mano su una scheda cartacea, quindi esposto a fraintendimenti analoghi a quelli che capitavano ai copisti medievali; ma non si può escludere una comunicazione orale del brano: la sequenza quel che potrebbe essere stata fraintesa in qualche e la «decodificazione del primo elemento come aggettivo indefinito avrà favorito il successivo scambio tra verbo e nome (lambiva > bambina), tanto più che le due parole risultano identiche nella sillaba accentata, quella pronunciata con un’intensità e una durata maggiori» (un po’ come avviene, o avveniva, nel gioco infantile noto come “telegrafo”). In entrambi i casi avrà contato anche l’orizzonte d’attesa: «non solo quello generico, indotto dal contesto linguistico, dal momento che il riferimento al sole e alla malattia può essere facilmente associato all’infanzia e alle influenze stagionali che la caratterizzano, ma anche uno più specifico, legato alla conoscenza dell’opera di Gianna Manzini, nella quale è centrale la tematica dell’infanzia, spesso collegata a quella della malattia; per di più, il passo citato si trova in un capitolo dedicato al tema della maternità e intitolato La bimba che non ebbi». La citazione è stata lunga, ma forse valeva la pena dar conto di tutte le tessere fatte combaciare per risolvere il piccolo puzzle. Per correggere un errore come questo, una volta che si sappia scorgerlo, è sufficien-

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te un’ordinaria diligenza (controllare che cosa legge la fonte); per motivarne la genesi, occorreva la sensibilità di un linguista-filologo4. 4.2. Storia della lingua e letteratura La vicinanza tra lo storico della lingua e lo storico della letteratura dovrebbe essere altrettanto pacifica di quel che vale per la filologia: basterebbe pensare che alcuni grandi maestri della nostra disciplina (per limitarci a quelli scomparsi, si pensi a Benvenuto Terracini, 18861968, e a Maria Corti, 1915-2002, senza dimenticare le finissime analisi di Giovanni Nencioni, 1911-2008) sono stati anche eminenti critici letterari. Ma non è e, soprattutto, non è stato sempre così. Oggi ci si può occupare di letteratura prescindendo dal testo come individuo da interpretare puntualmente, e questo vale soprattutto per la letteratura contemporanea, più sensibile a metodi che prescindono dagli aspetti formali o li accantonano, dai cultural studies ai gender studies. In un passato recente il letterato poteva accostarsi alla lingua sulla base di un impressionismo stilistico che, quand’anche fosse il frutto di un’acuta sensibilità di lettura, era quanto di più lontano ci fosse da una procedura di analisi garantita scientificamente. Citiamo il caso di uno studioso di sicuro valore come il fiorentino Fredi Chiappelli (1921-1990); grande conoscitore della letteratura del Rinascimento, fu per 4   Per la storia: Picchiorri ha poi risolto la piccola questione rintracciando negli archivi della Utet la scheda responsabile dell’errore (e dandone conto nella nota Problemi filologici nei dizionari storici dal GDLI al TLIO, consultabile on line in Actes du XXVIIe Congrès international de philologie romane, Section 5). Ma il metodo in questo caso è più importante del merito.

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molti anni direttore del prestigioso Center for Medieval and Renaissance Studies di Los Angeles, dopo significative esperienze d’insegnamento in Svizzera. Nei titoli di alcune sue monografie sono ricorrenti le parole lingua o linguaggio: Studi sul linguaggio di Machiavelli (1952), Studi sul linguaggio del Tasso epico (1956), Machiavelli e la lingua fiorentina (1974), per citare quelle tuttora più note; ma difficilmente oggi, analizzando un testo letterario, seguiremmo la sua impostazione. In un articolo del 1946 sulla lingua dei Marmi, bizzarra opera in forma di dialogo di Antonfrancesco Doni (1552), non mancano certo osservazioni condivisibili5; ma lo stesso non si può dire di fronte a notazioni puramente impressionistiche perché fondate su categorie evanescenti (limpidità, ombra, intorbidata, sensuale, effetti cromatici): È così che la lingua del Decamerone (che già, in confronto con la naturale limpidità del Novellino, non andava esente da qualche ombra) viene appesantita e intorbidata da un’esigenza sensuale di effetti cromatici.

Altre volte le deduzioni del critico ci appaiono franche superfetazioni. Soffermandosi sulla descrizione di Armida nella Gerusalemme liberata e commentando i versi «D’auro ha la chioma, ed or dal bianco velo / traluce involta, or discoperta appare» (IV 29), Chiappelli asserisce che «Auro esprime, con la sua forma, non solo colore, ma densità, disposizione e morbidità, per essere relativamente lontano dall’idea di metallo». Ora, ammesso che, in poesia, un banale latinismo come au5  Per esempio quando Chiappelli parla di «rigenerazione della forma originaria ed integra dei modi di dire smussati nell’uso» a proposito di amplificazioni come Ci menava tutti per il naso come si menano i bufoli, partendo dal modo idiomatico menar per il naso.

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ro richieda una qualsiasi motivazione, basta pensare al duplice or avverbiale seguente per giustificare immediatamente la scelta del Tasso, che sarà dovuta alla pedestre cura, così dei grandi scrittori come dei ragazzi di liceo, di evitare una ripetizione. Ben diverso il quadro se guardiamo agli storici della letteratura che si impegnano nel commento di un classico letterario; oggi, a differenza della pur gloriosa serie di classici laterziani, voluta da Benedetto Croce vergine di ogni commento che non fosse una sobria Nota al testo finale, non mancano certo esempi positivi6. In casi del genere si può dire che storici della lingua e della letteratura siano chiamati a percorrere un tratto di strada in comune. Commentare un testo letterario significa dar conto anche della sua compagine linguistica. Può trattarsi di forme rare o comunque estranee all’italiano moderno, come è normale nei testi dei primi secoli: è naturale glossare un supricii dello scrittore quattrocentesco Giovanni Gherardi con ‘supplizi’ e spiegare che iscusimi vale ‘scusimi’, magari aggiungendo che nella forma figura una «i prostetica di fronte a s complicata, fenomeno tuttora assai vivo e frequentissimo nel Gherardi», con rinvii bibliografici sull’«estensione del fenomeno nella lingua letteraria del tempo». Sarebbe decisamente troppo, data la grande stabilità della lingua poetica dal Tre all’Ottocento, munire di una glossa, se non in un commento scolastico, forme banali come avea ‘aveva’, fia ‘sarà’ o spirto ‘spirito’: tutte componenti della secolare grammatica poetica che possono semmai essere ogget6  Per esempio la «Biblioteca di scrittori italiani» della Fondazione Pietro Bembo o la «Nuova raccolta di classici italiani annotati» della Einaudi.

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to di uno studio a parte, che ne accerti distribuzione e vitalità. Una prospettiva di commento che valorizzi gli aspetti formali insieme a quelli contenutistici è offerta dal grande tema dell’intertestualità, una dimensione tipica dell’attività letteraria: come sappiamo, chi crea letteratura dialoga anche, ne sia o non ne sia consapevole, con chi l’ha preceduto. Il dialogo può avvenire anche con sé stessi, secondo il meccanismo che si suole definire della “memoria interna”; e possono contare non solo le parole, ma anche le strutture metriche e ritmiche. Leggiamo le strofe iniziali di due poesie di Giacomo Zanella, la celebre Sopra una conchiglia fossile nel mio studio (1864) e Gli ospizi marini (1869): Sul chiuso quaderno All’onda, che blanda Di vati famosi, Gli mormora al piede, Dal musco materno Disutil ghirlanda Lontana riposi, Di perle non chiede; Riposi marmorea, Non chiede di porpore Dell’onde già figlia, Inane tributo Ritorta conchiglia. Il bimbo sparuto.

Le due poesie affrontano temi differenti. La prima appartiene al filone cosmogonico, e dalle lontananze geo­logiche si spinge a disegnare un luminoso futuro per l’uomo, definito «divino straniero», in quanto comparso tardi nella terra; la seconda rimanda invece agli aneliti di rinnovamento sociale e alla sensibilità per il progresso scientifico, così caratteristica di questo «strano poeta d’avanguardia e passatista nello stesso tempo»7.

7  La definizione è di L. Baldacci nel suo Poeti minori dell’Ottocento, t. I, Milano-Napoli, Ricciardi, 1958, p. xxxv.

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Differenti sono anche le parole semanticamente piene: l’unica condivisa è onda, dunque una parola di alta frequenza (non solo nel verso) e oltretutto poco significativa perché l’assetto morfologico (numero) e sintattico (tipo di complemento indiretto) è diverso. Ma a che cosa si deve l’indubbia aria di famiglia tra le due strofe? Prima di tutto alla metrica, al senario che Zanella sveste di ogni cantabilità metastasiana, eliminando «il verso finale in rima tronca; con il passaggio della quartina iniziale al distico finale attraverso il “ponte” di un senario sdrucciolo»8, e all’identica sequenza rimica e accentuativa (accenti di 2a e di 5a). Ma anche all’ordine delle parole, con la retardatio del tema, sia esso un vocativo (ritorta conchiglia) o il soggetto (il bimbo sparuto), entrambi dislocati a conclusione della strofa. Il caso più tipico di intertestualità con immediate ricadute linguistiche è quello che si produce in poesia – dunque in un àmbito strettamente codificato, in particolare nella lirica – attraverso il riecheggiamento di parole o stilemi altrui. Ecco la prima quartina di un sonetto di Giambattista Felice Zappi (1667-1719), interessante esponente della prima Arcadia che, con la moglie Faustina Maratti, anche lei poetessa, animò un vivace salotto letterario a Roma: Tornami a mente quella trista e nera Notte, quando partii dal suol natìo, E lasciai Clori, e pianger la vid’io Non mai più bella, e non mai meno altera.

L’evocazione iniziale ha un precedente remoto, relativo all’immagine, e uno prossimo, relativo alla lingua.   A. Pinchera, La metrica, Milano, Bruno Mondadori, 1999, p. 162.

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Il primo è il riecheggiamento di una elegia di Ovidio, là dove il poeta latino ricorda la sua dolorosa partenza da Roma per l’esilio («Cum subit illius tristissima noctis imago / quae mihi supremum tempus in urbe fuit» ‘quando mi viene in mente la tristissima immagine di quella notte, che fu per me l’ultimo soggiorno a Roma’ Tristia, I 3, 1-2). Il secondo è l’incipit del son. 336 del Canzoniere, appartenente alla sezione “in morte di madonna Laura”, in cui Petrarca ha una sorta di visione di Laura viva, per poi rendersi conto dell’amara realtà: «Tornami a mente, anzi v’è dentro, quella / ch’indi per Lete esser non pò sbandita» ‘mi torna in mente, anzi vi è sempre stabilmente presente, colei che nemmeno le acque del Lete – il fiume ultraterreno che dava l’oblio – possono cacciare’. Il meccanismo evocativo è garantito da alcuni indizi precisi: sia in Ovidio sia in Petrarca si tratta di un ricordo triste e l’immagine è collocata all’inizio dei rispettivi componimenti. Le parole dello Zappi riecheggeranno in Leopardi, Il primo amore («Tornami a mente il dì che la battaglia / D’amor sentii la prima volta [...]»). Ancora una volta si tratta di una rievocazione triste, di una «amarissima [...] ricordanza», per usare le parole del poeta; e che, oltre all’onnipresente Petrarca, abbia agito il nostro Zappi sembra confermato dal fatto, già da tempo acquisito dalla critica, che quel sonetto è tra i componimenti che, qualche anno dopo, avrebbero costituito la Crestomazia della poesia italiana pubblicata dallo stesso Leopardi. La nozione del “ricordare” è espressa nella lirica italiana in vari altri modi. Limitandoci a riscontri anteriori allo Zappi, abbiamo per esempio mi ricordo (Niccolò da Correggio: «Io mi ricordo ancor quando su gli aceri / scrivevo il nome tuo [...]»), mi ricorda, con valore impersonale (Cavalcanti: «I’ dissi: “E’ mi ricorda che ’n

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Tolosa / donna m’apparve [...]”»), rimembro (Antonio Bruni: «Rimembro ancor con amorosa arsura / il guardo e ’l riso altrui [...]») con la parallela variante impersonale (Petrarca: «Spirto doglioso errante (mi rimembra) / per spelunche deserte e pellegrine»), sovviene (Tasso: «[...] E ben il fato / di Semele infelice or mi sovviene»). Nessun dubbio che la scelta del poeta arcade, oltre che un omaggio al Petrarca messo in ombra dalla rivoluzione poetica barocca, nasca da una consonanza tematica. Poeti come Dante e Petrarca, presenti in ogni stagione della poesia italiana almeno fino al primo Novecento, anche perché erano spesso mandati largamente a memoria, rifluiscono più volte nella poesia successiva, indipendentemente da convergenze di contenuto. Più interessante scoprire risonanze intertestuali tra poeti e poesie a vario titolo distanti, verificando letture impreviste e percorsi sotterranei all’interno della tradizione poetica. Nella raccolta Alcune poesie di Ripano Eupilino (1752), Giuseppe Parini ventitreenne raccolse poesie di vario genere, quasi a provare la propria capacità di verseggiatore; vi troviamo anche un componimento giocoso, un sonettino di ottonari in cui l’io poetante se la prende con una rondinella che canta fastidiosamente, rischiando di destare la sua bella. Confrontiamo parzialmente questo esercizio giovanile con un testo un tempo notissimo: una ballata in sette sestine di ottonari che Tommaso Grossi inserì nel suo romanzo Marco Visconti (1834) e che, decurtata, manipolata e musicata, ebbe fortuna autonoma nella tradizione folclorica, con una rilettura in chiave patriottica9: 9  Ma in Grossi il tema è quello di un innamorato che coglie un’affinità tra il suo amore infelice e il canto malinconico di una rondine, che forse è una «vedovella sconsolata».

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   Parini Rondinella garruletta, Se non taci, un giorno affè Io vo’ far sopra di te Un’asprissima vendetta.      [...] L’alba in ciel non anco appare, Che con querula favella Tu ne vieni a risvegliare. Or che dorme la mia bella, Guarda ben, non la destare, Garruletta Rondinella.

Grossi Rondinella pellegrina, Che ti posi in sul verone Ricantando ogni mattina Quella flebile canzone, Che vuoi dirmi in tua favella Pellegrina rondinella? [...]

La totale diversità di contenuti e di intonazione non ci impedisce di cogliere curiose affinità, oltre al metro: la principale è l’indicazione dell’allocutaria nella sequenza rondinella + aggettivo, che poi si presenta invertita nella conclusione del componimento (e in Grossi anche a chiusura della prima strofa); ma pensiamo anche alla rima condivisa favella : rondinella e, sul piano semantico, alla sinonimia di querula e flebile. Un altro settore in cui l’analisi letteraria e l’analisi linguistica si affiancano o si confondono è lo studio delle varianti. Entrare nell’officina di uno scrittore significa non certo scoprire i suoi segreti espressivi, ma mettere in luce alcuni particolari aspetti della sua lingua e, nei casi migliori, cogliere la direzione che egli intende imprimere alla propria creatura letteraria. La critica variantistica è particolarmente delicata: occorre evitare sia l’impressionismo (leggendo nel testo quel che dipende solo dall’istintiva reazione dell’interprete) sia il teleologismo (dando per scontato che il passaggio da una redazione a quella successiva segni comunque un incremento artistico, e

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quindi giustificando le varianti instaurate in base a pregiudizi estetici). Tralasciando i casi più famosi e studiati (il Canzoniere di Petrarca, l’Orlando furioso dell’Ariosto, I Promessi Sposi del Manzoni), soffermiamoci su Pascoli e Carducci, con la scorta di due storici della lingua, Pier Vincenzo Mengaldo e il compianto Guido Capovilla (1951-2011), che fu docente di Letteratura italiana ma, come lo stesso Mengaldo, si formò alla scuola di Gianfranco Folena (1920-1992), uno dei massimi maestri della disciplina del secondo Novecento. Di Pascoli converrà riprodurre un componimento di Myricae, Orfano: 5

Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca. Senti: una zana dondola pian piano. Un bimbo piange, il piccol dito in bocca; canta una vecchia, il mento sulla mano. La vecchia canta: Intorno al tuo lettino c’è rose e gigli, tutto un bel giardino. Nel bel giardino il bimbo s’addormenta. La neve fiocca lenta, lenta, lenta...

Questo famoso rispetto in endecasillabi illustra tipicamente una caratteristica vena poetica di Pascoli: il componimento è estremamente raffinato e si fonda su meccanismi allusivi, anche se in apparenza è elementare e quasi popolaresco, un testo “da bambini”. Confrontando la prima redazione manoscritta (1889) con l’edizione a stampa in Myricae (prima edizione: 1891), si possono sùbito notare l’eliminazione di qualche residuo letterario (il soggetto ei al v. 7: «ei s’addormenta») e la spinta alla variatio (nell’assetto originario del v. 2, «C’è un lieve dondolio nella capanna», il c’è cade «perché già presente, nella stessa posizione, al 6»; al v. 3 il poeta aveva scritto «col ditino in bocca», poi mutato in «pic-

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col dito», «anche perché contiguo all’altro diminutivo lettino di 5»). Alcune correzioni nascono dal desiderio ben pascoliano di una maggiore specificità lessicale: il toscanismo zana 2 era stato preceduto da culla e «rose e gigli» 6 da «rose e fiori», con la soppressione di «un elemento insopportabilmente generico per la poetica pascoliana e insieme acquisendo un tocco coloristicamente omogeneo all’atmosfera nevosa». Si introduce pian piano al v. 2 (la prima stesura di quel verso, come abbiamo visto, era del tutto diversa) che «risponde in modo più efficace all’iniziale Lenta». Radicalmente cambiati anche i vv. 3-4 (che sonavano: «Povero bimbo! col ditino in bocca / e’ piange, piange, e non può far la nanna»), per «ridurre l’eccesso di patetismo della stesura iniziale»; ma la partecipazione emotiva è ora affidata, con Senti 2, «alla discreta introduzione di uno spettatore» e «il patetico della situazione è delegato al titolo», Orfano, punto d’approdo di una serie di varianti, dall’A nanna del manoscritto al Neve che figura nelle prime tre edizioni di Myricae. Gli interventi di Carducci alle sue Odi barbare rispondono nel loro insieme all’intento di aulicizzazione del testo, per quanto non manchino oscillazioni. Significativa, anche per la sua sistematicità, una microvariante: l’adozione delle preposizioni articolate scisse (de le querce invece di delle querce). Non si tratta di un semplice vezzo grafico; secondo Capovilla è in gioco l’esecuzione orale delle poesie: come altre varianti fonetiche (la predilezione latineggiante per femina o transfigurandosi, per esempio), anche questa scrizione «poteva spingere verso una declamazione “staccata”, scandita, analitica, che, dando risalto anche alle distinte componenti delle forme scisse delle preposizioni articolate, contribuisse a realizzare sul piano dell’esecuzione quello “scarto” dalla media che

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l’autore e il suo pubblico più partecipe ponevano a fondamento della poetica barbara». Altre varianti rispondono a un meccanismo di rimozione di echi poetici che si affacciavano quasi inavvertiti alla memoria di poeti di vasta cultura letteraria; potremmo parlare in proposito di un movimento “anti-intertestuale”. Per il Carducci barbaro sono stati segnalati, tra gli altri, luoghi come «or che il piè saldo fermai su ’l termine» (anteriormente «il piè fermo», che risentiva di Dante, Inferno, I 80) o «dal fumo de’ tugurî» (anteriormente «da’ pii tuguri e dall’arse officine», con ricordo delle «arse fucine» del primo coro dell’Adelchi manzoniano, 2). Per il Pascoli delle Myricae si possono citare almeno questi due luoghi: Il lauro, 7: «Nell’aie acuta la magnolia odora» (del tutto diverso il movimento precedente, lasciato in sospeso e subito cassato: «ne l’aia sorge al buon villano»; evidente il ricordo di Parini, Il Mattino, II 5: «Allora il buon villan sorge dal caro / letto [...]»); Di lassù, sequenza cassata successiva all’attuale verso 3 («ché sente ella del vomero crudele / la piaga»; cfr. Metastasio, La Primavera, 21-24: «A gara i campi adornano / mille fioretti tremuli / non vïolati ancor / da vomere crudel»). Accanto agli interventi puntuali, si tratti di riconoscere un’eco intertestuale o di commentare una variante, è possibile guardare in prospettiva storico-linguistica al periodo lungo di un certo genere letterario. Prendiamo ad esempio la novella, che è stata per alcuni secoli il nerbo della prosa creativa in italiano: il Novellino, il più antico prodotto di questo genere, fu scritto nel XIII secolo, mentre di romanzo possiamo parlare solo nel Seicento e per giunta come un antefatto rispetto alla vera e propria creazione di quello moderno, il romanzo storico del XIX secolo. Limitiamoci a una riflessione

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d’insieme: la perdita del colorito regionale dal Cinquecento in poi. In un genere letterario come la prosa novellistica, il modello arcaizzante propugnato dal Bembo ha un effetto omologante particolarmente spiccato. È naturale che sia stato così. Si trattava di calare uno specifico tipo di lingua in un insieme già fortemente condizionato dalla novellistica trecentesca (accanto al Boccaccio ha importanza anche Franco Sacchetti): pensiamo al rapporto tra cornice, comunque strutturata, e novelle; o alla ricorsività di certi temi come la beffa. In due novellieri pre-bembiani la non fiorentinità si coglie ad apertura di libro. Il lucchese Giovanni Sercambi (1348-1424) offre ampia mèsse di forme municipali: sensa ‘senza’10, pogo < paucum con una sonorizzazione inusitata a Firenze, mette imperativo, nel tipo comune a tutta la Toscana non fiorentina e fedele all’etimologia (lat. mitte; il fiorentino ha modellato questa forma sull’indicativo metti < mittis). Nel bolognese Sabadino degli Arienti (metà del XV secolo-1510) è normale la conservazione di e protonica (se costuma, de farse, recordandoli), si possono avere conservazione di ar atono (barbaria ‘barberia’)11 e, più significativamente, avanzamento delle affricate (faza ‘faccia’, zanze ‘ciance’); il lessico è punteggiato da bolognesismi (intacato ‘tagliato’, scranna ‘sedia’). Invece nelle Sei giornate del veneziano Sebastiano Erizzo (1567) il clima è mutato. La tradizionale struttura novellistica è depurata in senso moralistico (niente novelle a tema di beffa o con religiosi come protagonisti, niente donne tra i novellatori), il dialogo è fortemente depresso e la lingua è attentamente modellata sui   Si veda sopra, p. 94.   Per gli ultimi due fenomeni si veda sopra, pp. 31-32.

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dettami bembiani. Se leggiamo a caso una novella (per esempio, II 7) fatichiamo a trovare forme estranee alla tradizione letteraria: forse solo luoco, tenace e diffusa forma di compromesso tra il tosc. luogo e il non toscano (e poetico) loco12. La conquista di una lingua letteraria senza escursioni, né verso il regionalismo né verso un arcaismo non codificato dal Bembo, sembra compromessa guardando a colui che è forse l’ultimo esempio significativo13 della fortuna della novella di stampo trecentesco in Italia: Carlo Gozzi (1720-1806), il gentiluomo veneziano di forte orientamento conservatore, noto soprattutto per le Fiabe teatrali tra cui, destinata a grande fama, la Turandot. Gozzi «prende spunto, nella maggioranza dei casi, da fatti veramente accaduti, episodi a cui ha assistito o che ha sentito raccontare da un testimone, e li sottopone a una ben riconoscibile mediazione letteraria» (Ricorda). Ma il risultato è un tuffo linguistico nel passato: la dimensione tipica del Sacchetti, legata a un’aneddotica municipale, rivive intatta anche attraverso prelievi linguistici. Nelle novelle di Carlo Gozzi figurano arcaismi inusitati nel Settecento, o al più confinati nel verso: sie ‘sia’ («che morto sie tu mille volte a ghiado», più o meno corrispondente all’attuale ‘che ti prenda un accidente’; ghiado è il lat. gladius ‘spada’),

12   Ma, visto che non abbiamo manoscritti e non sappiamo con quanta cura l’autore controllasse la princeps, non possiamo escludere che la forma appartenga al proto. 13   Prescindendo da certa produzione novellistica di primo Ottocento, che nasce come esercizio di lingua trecentesca (nel purista Antonio Cesari, che pubblicò o ristampò venti sue novellette nel 1815) o come rassegna di racconti morali con destinazione scolastica (Giuseppe Taverna, Francesco Deciani e altri) e quindi scritti in una prosa debitamente sostenuta e arcaizzante.

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ugna ‘unghia’, sozzopra ‘sottosopra’, Che facestù? ‘che hai fatto?’ (con la posposizione del pronome al verbo nell’interrogativa14 e con apocope dell’ultima sillaba: facesti tu > facestù). Ma non possiamo tagliare i prodotti letterari con l’accetta: accanto a questi arcaismi, che anche all’epoca sarebbero apparsi vieti e ridicoli, Gozzi mostra una certa sensibilità nel riprodurre le movenze del dialogo; pensiamo alla cosiddetta foderatura, cioè alla ripetizione di un segmento alla fine di un enunciato («Zitto, figliuol mio, zitto», «Fatti la croce, che tu sia benedetto, fatti la croce», «Io lo sapea troppo, lo sapea») o alla presenza di espressioni fraseologiche decisamente moderne come il così e così col quale si allude in modo indeterminato a qualcosa che non si giudica necessario esporre in dettaglio: «io farò ben altro che così e così» (e oggi, raccontando qualcosa: «Gli ho detto così e così»). 4.3. Storia della lingua o storia «tout court»? Si può sostenere che la storia di una lingua altro non sia che una particolare declinazione della storia generale, alla stregua della storia dell’arte o delle istituzioni sociali. In effetti, come abbiamo osservato nelle pagine precedenti, sono molti i temi appartenenti alla storia linguistica esterna che interpellano lo storico della lingua. Un importante libro di Tullio De Mauro che abbiamo già avuto occasione di citare di passata e del quale riparleremo, la Storia linguistica dell’Italia unita (1963), si fondava per l’appunto sul presupposto di una storia a tutto campo: 14  Oggi sopravvissuta in relitti aulici: «Vuoi tu prendere come legittima sposa...», nella formula di matrimonio; «Volete voi che siano abrogati i commi 1 e 5 dell’art. 5...», nelle schede per i referendum.

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la lingua letteraria era solo una componente del quadro da lui tracciato, e non la più importante; per illustrare quello specifico tema di storia linguistica contavano altri fattori, che per la prima volta venivano non solo proposti, ma anche illustrati con dovizia di tabelle statistiche: dalla demografia al livello di alfabetismo. Mentre purtroppo gli storici di professione non mostrano in genere grande attenzione agli aspetti linguistici, non vale il contrario; anzi può darsi il caso di illustri storici della lingua che siano autori di opere di taglio francamente storico: abbiamo già ricordato il volume sull’idea di Italia di Francesco Bruni; menzioniamo ora, dello stesso studioso, un’impegnativa monografia del 2003 sulle divisioni civili nell’Italia dal Medioevo al Rinascimento e sulla parte avuta in proposito dagli ordini religiosi. I punti di tangenza tra l’attività degli storici e dei linguisti si riferiscono soprattutto al vasto, e affascinante, territorio delle scritture non letterarie. È meritamente nota, al punto da essere diventata un classico nel suo genere, una monografia pubblicata nel 1976 dallo storico Carlo Ginzburg, incentrata sulla vicenda di un mugnaio friulano del Cinquecento, Domenico Scandella detto Menocchio, del quale possediamo anche autografi; la sua rilevanza linguistica è stata ribadita recentemente da Enrico Testa, in un libro del 2014, L’italiano nascosto, sul quale avremo occasione di ritornare. Menocchio, nonostante la sua lontananza geografica e culturale dagli ambienti intellettuali, aveva elaborato una personalissima visione del mondo, fortemente eterodossa (dal caos come da un formaggio primordiale sarebbero nati, come i vermi, gli angeli); dopo aver subito un primo processo da parte dell’Inquisizione, abiurò e fu liberato dopo due anni di carcere, ma fu condannato al rogo in un secondo processo, nel 1599,

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appena un anno prima del più illustre Giordano Bruno. Menocchio era arrivato da autodidatta a una certa conoscenza dell’italiano e noi siamo in grado di ricostruirne le letture, citate al processo: si tratta di libri d’avventura e di libri religiosi, quasi tutti avuti in prestito; sono libri che «passavano di mano in mano, giravano da persona a persona facendo intravedere, in un piccolo paese di collina, un’attiva comunità di lettori non professionali che coinvolgeva anche le donne» (Testa). Il caso di Menocchio non rientra forse nell’ordinaria amministrazione, ma ci ricorda un dato fondamentale: l’acquisizione della lingua scritta, e quindi l’accesso alla cultura (con tutte le conseguenze del caso), possono avvenire, e probabilmente in passato avvenivano spesso, attraverso canali non istituzionali. Dopo l’Unità, con una scolarizzazione diffusa, i documenti si moltiplicano; in particolare gli epistolari di “gente comune”, che fino a qualche anno fa venivano sottratti all’oblio degli archivi pubblici o privati soprattutto ad opera di storici, interessati alla storia della soggettività e dell’immaginario (specie femminile: le donne erano attive epistolografe e spesso non hanno lasciato altra traccia di sé nel mondo). Recentemente, questa volta per iniziativa di storici della lingua e della letteratura, è stato realizzato un archivio digitale della scrittura ottocentesca anche pre-unitaria (CEOD - Corpus Epistolare Ottocentesco Digitale), consultabile in rete, che è arrivato a rendere accessibili, con un sofisticato sistema di interrogazione, circa 1350 lettere. Nell’ultimo decennio del secolo scorso la meritoria «Federazione degli Archivi di scrittura popolare», costituita soprattutto da storici, ha promosso la pubblicazione di alcuni carteggi appartenenti al periodo della prima guerra mondiale, su alcuni dei quali converrà

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soffermarci: si tratta di un epistolario amoroso tra i coniugi trentini Selma e Guerrino, rispettivamente impiegata postale e maestro, e delle lettere indirizzate da un sergente di estrazione borghese, il marchigiano-romano Ottone Costantini, in massima parte alla fidanzata e poi moglie Sandra. Colpisce la buona tenuta linguistica dei testi, della quale possiamo far emergere due indizi: 1. Ricorso a giochi linguistici, possibili solo se si ha una buona padronanza espressiva; e saranno anche un modo per esorcizzare la drammatica realtà circostante. Le battute di spirito sono introdotte dai tradizionali puntini sospensivi (come avviene ancora oggi nelle definizioni di carattere ludico della «Settimana enigmistica»): «S’è fatta luce... di candela» (Ottone) e l’ironia si manifesta nella sua forma più immediata e disponibile, l’antifrasi: «Abbiamo preso una nuova posizione l’altro ieri: i primi movimenti di preparazione della batteria furono svelati dal nemico che, premuroso, ci accolse con cordialissimi saluti di fuoco» (Ottone). Più inventiva Selma, che scherza sull’assenza di uomini dal paese giocando spiritosamente su una parodia del latino (scolastico o piuttosto liturgico, vale a dire con riferimento a un universo tipicamente femminile, quello della pratica devota): «Qui null’altro di nuovo, tutte donne per campagna, per le vie, in chiesa, donne donnerum donninibus, omnes donne hai capito?». 2. Presenza di toscanismi veicolati dall’insegnamento scolastico, o magari da letture più o meno remote; in entrambi i casi una prova dell’efficacia del modello imposto dall’istruzione dell’epoca: costì (Selma e Guerrino), punto (Guerrino: «non lo merita punto»), tipo noi si fa invece della 4a persona («Noi si ride si scherza e si canta»), modi idiomatici come «mi par mill’anni» ‘non vedo l’ora’ (i due esempi sono di Ottone).

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Le lettere sopra citate appartengono a scriventi istruiti; è giusto dunque guardare anche alla massa di scriventi che hanno frequentato appena la scuola elementare, talvolta senza terminarla. Ci soccorrono altre raccolte che si riferiscono questa volta al secondo conflitto mondiale. Una giovane studiosa, Paola Chiesa, lavorando qualche anno fa presso gli Archivi del Comando Militare Esercito Lombardia per diversi mesi, ha trascritto una consistente mole di lettere di soldati lombardi impegnati al fronte o internati nei campi di prigionia durante la seconda guerra mondiale. Rendono particolarmente meritoria la sua fatica sia la riproduzione fotografica dell’originale, che permette di escludere la presenza di uno scrivente esperto come intermediario (oltre che di rettificare occasionali fraintendimenti nella trascrizione), sia la scheda personale, ricavata dai fogli matricolari conservati in archivio, grazie alla quale siamo informati sul livello d’istruzione e sull’attività lavorativa abituale degli scriventi, e possiamo collegare a questo fondamentale parametro le caratteristiche linguistiche delle lettere. Notevole è, tra gli altri, il caso del muratore Mario Rebasti (quarta elementare). Ecco alcuni passaggi di una singola lettera, che bastano per apprezzarne la tenuta testuale, la capacità di dominare gli alterati (anche con neologismi scherzosi: Rebastino) e di ricorrere al registro alto con consapevole funzione affettiva (rude rampollo detto del nipotino); e pazienza per il duplice po senza apostrofo e per il le confuso con gli: La vostra 10-8. è stata un po lumacona nel camminare ma veramente la strada è un po lunghina e noi che l’abbiamo fatta su una interminabile tradotta ne sappiamo qualche cosa [...]. Vorrei vedere il rude rampollo nelle sue prime passeg-

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giatine e le auguro di venire un camminatore istancabile come il suo zio soldato permanente [...] Questa fortuna io non la auguro al mio piccolo Rebastino.

Non si tratta di un caso isolato. Nella lettera di un falegname (quinta elementare) si noterà il lessico scelto, seppure non sempre appropriato al contesto, e soprattutto la correctio, in cui gioia viene ripreso e temperato attraverso l’abbinamento all’antonimo rammarico: «Genitori cari, mi affretto a darvi mie notizie che certamente recano a voi tanta gioia; gioia e rammarico perché questi scritti vi incitano sempre più al pensiero che riguarda la mia lontananza». Istruttivo il dominio dell’italiano rispetto al dialetto che sarà stato abituale nel parlato dei singoli soldati; un esempio di dialetto consapevolmente usato con intento espressivo emerge dalla struggente lettera di un muratore (terza elementare), che racconta un sogno in cui il suo bambino, in dialetto, cioè nell’espressione dell’immediata affettività, gli dice di non piangere («Papà pianc menga»): «Come un dopo pranso che mi trovavo poco disposto e son messo a dormire e mi sognai di lui mi si presento davanti, e io scoppio in mediato nel pianto mi diceva Papà Papà pianc menga è mi caressava la faccia, ma io continuavo e lui si buttò sopra le mie gambe con la testa bassa». A differenza delle lettere che abbiamo citato sopra, qui il possesso sintattico e soprattutto ortografico è precario (pranso e caressava dipendono dalle forme dialettali soggiacenti; l’accento manca in presento ed è sbagliato in è mi; in mediato dipende da un errore di segmentazione); ma conta di più la tenuta testuale, la capacità di rievocare un momento ad alto coefficiente emotivo anche ricorrendo al code switching italiano-dialetto.

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Possono essere molto interessanti, passando dalla massa di scriventi anonimi a nomi illustri per altre ragioni che non siano i meriti letterari, gli epistolari di artisti; ancora una volta si creerebbe un’opportuna convergenza tra discipline diverse. Si vedano le lettere di uno dei maggiori esponenti dei macchiaioli, il livornese Giovanni Fattori (1825-1908), trascritte direttamente anni fa dagli autografi, data l’inattendibilità dell’edizione a stampa, dalla mia allieva Rosa Fonzi. Fattori, che parla di sé come di «un vero e proprio ignorante», scrive senza nessuna preoccupazione formale, secondando i ritmi tipicamente orali di un umore risentito e aggressivo che non esclude il turpiloquio e non curandosi di correggere gli scorsi di penna. Tanto più significativo, perché non dipendente da suggestioni letterarie, è il suo ricorso alla metafora pittorica: «mi trovo di fronte a tutta questa baraonda di parentala [sic] moralista con vernice coppale_ ma al di dietro della tela molto sudicia in una posizione difficile_ ora io sarò sopportato, tollerato, ma non gradito» (al critico Diego Martelli, 1880), «Ora non ci resta altro che la cornice ad una delle più belle figure porche e farabutte (meno qualche minima eccezione) mascherate più o meno da repubblicani monarchici paolotti socialisti internazionali tutti ladri e canaglia gonfiati d’apparente onestà che sè [sic] ne va via con una correggia» (al Martelli, 1882), «In risposta alla tua ultima cara Giulia dirò per primo che è bellissima trattata con poche pennellate la descrizione del corso di carnevale» (alla figliastra Giulia e al marito Domingo Laporte, 1896).

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Integrazioni bibliografiche 4.1. L’articolo di Trovato (Storia della lingua e filologia: i testi letterari) è in N. Maraschio, T. Poggi Salani (a cura di), Storia della lingua italiana e storia letteraria, Firenze, Cesati, 1998, pp. 73-94 (74). L’intervento di Castellani è in Id., Nuovi saggi di linguistica e filologia italiana e romanza (1976-2004), a cura di V. Della Valle et al., Roma, Salerno Editrice, 2009, II, pp. 975-976. L’articolo di Zarra (Cipesso) è apparso in «Studi di lessicografia italiana», XXXI (2014), pp. 191-202. Sulla vicenda di forme di attestazione incerta e forse mai esistite davvero, ma testimoniate dai vocabolari per mera spinta inerziale, cfr. V. Della Valle, G. Patota, Residui passivi. Storie di archeologismi, in «Studi di lessicografia italiana», XXX (2013), pp. 133-164. Per l’edizione di Redi cfr. Id., Bacco in Toscana, con una scelta delle Annotazioni, a cura di G. Bucchi, Roma-Padova, Antenore, 2005. Il saggio di G. Frosini, Note linguistiche sul manoscritto Riccardiano 2533 di Guittone, è in L. Leonardi (a cura di), Il canzoniere riccardiano di Guittone, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2010, pp. 59-92 (le citazioni alle pp. 91-92). La nota di Picchiorri, Sulla genesi di un errore nel Battaglia, è apparsa in «Studi linguistici italiani», XXXIX (2013), pp. 134-136. 4.2. Per il tema di questo paragrafo è fondamentale l’intervento di Gian Luigi Beccaria, Storia della lingua e critica letteraria, in Maraschio, Poggi Salani, Storia della lingua cit., pp. 33-53. L’articolo di Chiappelli, Sull’espressività della lingua dei “Marmi” del Doni, apparve in «Lingua nostra», VII (1946), pp. 33-38; per la riserva sulla sua interpretazione di auro cfr. Serianni, La lingua poetica cit., p. 34 (a quest’opera si fa anche implicito riferimento come trattazione organica della grammatica poetica). Il commento di Gherardi è tratto da G. Gherardi da Prato, Il Paradiso degli Alberti, a cura di A. Lanza, Roma, Salerno Editrice, 1975, pp. 4 n. 5 e 119 n. 2. Gli esempi da Zanella sono cavati dal mio articolo Spigolando tra i versi dei poeti, in M. Quaglino, R. Scarpa (a cura di), Metodi testo realtà, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2014, pp. 41-51. Il sonetto dello Zappi è attinto da Canzonieri di Alessandro

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Guidi e de’ due Zappi, Venezia, Zatta, 1789, p. 202. Gli esempi lirici citati per la nozione del “ricordare” sono stati ricavati da P. Stoppelli, E. Picchi (a cura di), LIZ. Letteratura italiana Zanichelli, quarta edizione per Windows, Bologna, Zanichelli, 2001. Per le poesie di Parini e di Grossi cfr. rispettivamente G. Parini, Alcune poesie di Ripano Eupilino, a cura di M.C. Albonico, Pisa-Roma, Serra, 2011, pp. 103-104, e R. Barbiera, I poeti italiani del secolo XIX, Milano, Treves, 1930, p. 172. Per Pascoli cfr. P.V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Seconda serie, Torino, Einaudi, 2003, pp. 93-95 (di qui le citazioni) e anche Id., Antologia pascoliana, Roma, Carocci, 2014, pp. 57-60; per Carducci cfr. G. Capovilla, Studi carducciani, Modena, Mucchi, 2012 (citazioni alle pp. 42 nn. 43-44 e 288); mie le osservazioni su omologhe varianti pascoliane, ricavate da G. Pascoli, Myricae, ediz. critica a cura di G. Nava, Firenze, Sansoni, 1974, vol. II, pp. 359 e 365. Su romanzo e novella si vedano ora i profili di F. Romanini (Forme brevi della prosa letteraria) e M. Dardano (Romanzo), in Antonelli, Motolese, Tomasin (a cura di), Storia dell’italiano scritto cit., II, Prosa letteraria, rispettivamente alle pp. 203-254 e 359420. Per il Sercambi cfr. Id., Il Novelliere, a cura di L. Rossi, Roma, Salerno Editrice, 1974, II, p. 283; per Sabadino cfr. S. degli Arienti, Le porretane, a cura di B. Basile, Roma, Salerno Editrice, 1981, pp. 116-118; per Erizzo cfr. Id., Le sei giornate, a cura di R. Bragantini, Roma, Salerno Editrice, 1977, pp. 83-87. Gli esempi da Gozzi sono stati ricavati da C. Gozzi, Novelle, a cura di R. Ricorda, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 110-113 (dall’Introduzione della curatrice, p. 20, la citazione). 4.3. Per la Storia linguistica di De Mauro converrà ricordare gli atti di convegni dedicati non a celebrare direttamente uno studioso, come avviene di solito, ma proprio i quaranta o cinquant’anni di quel libro: F. Lo Piparo, G. Ruffino, Gli italiani e la lingua, Palermo, Sellerio, 2005 e E. Banfi, N. Maraschio (a cura di), Città d’Italia. Dinamiche linguistiche postunitarie, Firenze, Accademia della Crusca, 2014. Il volume di Bruni si intitola La città divisa. Le parti e il bene comune da Dante a Guicciardini, Bologna, Il Mulino, 2003;

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quello di Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1976; quello di Testa, L’italiano nascosto. Una storia linguistica e culturale, Torino, Einaudi, 2014 (la citazione da p. 115). Sul CEOD si può consultare G. Antonelli, C. Chiummo, M. Palermo (a cura di), La cultura epistolare nell’Ottocento. Sondaggi sulle lettere del CEOD, Roma, Bulzoni, 2004; in proposito il testo di riferimento è G. Antonelli, Tipologia linguistica del genere epistolare nel primo Ottocento. Sondaggi sulle lettere familiari di mittenti cólti, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2003, a cui si aggiunga F. Magro, Lettere familiari, in Antonelli, Motolese, Tomasin (a cura di), Storia dell’italiano scritto cit., III, Italiano dell’uso, pp. 101-157. Le raccolte di epistolari a cui si fa riferimento sono le seguenti: R. Dondeynaz, Selma e Guerrino. Un epistolario amoroso (1914-1920), Torino, Scriptorium Settore Università Paravia, 1992; C. Costantini, Un contabile alla guerra. Dall’epistolario del sergente di artiglieria Ottone Costantini (1915-1918), ivi, 1996 (per i luoghi citati si veda la mia recensione in «Studi linguistici italiani», XXIII [1997], pp. 292-296); P. Chiesa, I caduti e i dispersi della comunità montana dell’Oltrepò pavese nella campagna di Russia, Varzi, Guardamagna, 2007; Ead., Lettere dalla prigionia di soldati lombardi, ivi, 2008 (per i luoghi citati si veda la mia recensione in «Studi linguistici italiani», XXXV [2009], pp. 155-157). La tesi di laurea di R. Fonzi (La lingua di Fattori epistolografo. Con edizione di lettere) è stata discussa nell’a.a. 1998-1999 all’Università di Roma La Sapienza (non riproduco i confini di riga dell’originale né le occasionali sottolineature, mentre mantengo il trattino “_” che, in Fattori come in altri scriventi, fa le veci di un generico segno di interpunzione debole).

5.

Italiano antico e italiano moderno

5.1. Una o due lingue? Che esista una continuità di fondo tra l’italiano di Dante e quello di oggi è un’affermazione difficilmente contestabile. Proviamo a declamare «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura» con quel che segue: nessun italofono riterrebbe di essere di fronte a due lingue diverse, a differenza di quel che accadrebbe a un francese con la Chanson de Roland o a un inglese con i Canterbury Tales. Ma entriamo più nello specifico, esaminando i vari livelli di lingua, dalla grafia alla sintassi e alla topologia e naturalmente limitandoci, per l’italiano antico, al tipo tosco-fiorentino. Prima, però, s’impone una premessa: a differenza dell’italiano attuale, assestato su una norma grammaticale rigida, nella lingua dei primi secoli l’uso era alquanto oscillante. Per esempio: a. oggi sarebbe un errore marchiano, “alla Fantozzi”, dire vadi invece di vada, congiuntivo analogico sui verbi della 1a coniugazione (nel latino si aveva vadat, ma qui ha agito l’influsso dell’infinito andare); eppure in Boccaccio leggiamo «mi par che tu vadi per una lunga via» (Decamerone, III 4 ) e a lungo vadi si sarebbe alternato liberamente con vada, un po’ come avviene oggi per devo/debbo;

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b. oggi il superlativo assoluto non ammette gradazioni, ma come sappiamo non era così in origine, anche perché le forme in -issimo sono di trafila dotta (p. 59; popolarmente si ha l’avverbio + l’aggettivo di grado positivo: molto bello, bello assai nell’italiano regionale campano ecc.); c. oggi possiamo ancora scegliere tra cui e il più comune a cui nel complemento di termine (i problemi cui/a cui alludevo); anticamente ciò era possibile anche per lui e lei («qual amante vuol lui star fedele» Lapo Gianni; ‘a lui’, cioè all’Amore); d. oggi il pronome relativo con funzione di complemento indiretto è cui, anche se nell’italiano popolare è ben rappresentato che (la ragazza che ti ho parlato ‘di cui’); nell’italiano antico che era diffuso anche con valore obliquo: «le spade lor con che v’han fesso i visi» (Guittone d’Arezzo); e. oggi ella, ormai limitato alla lingua sostenuta, si può usare solo con funzione di soggetto; ma anticamente questa restrizione non valeva: «e cinsela e girossi intorno ad ella» (Dante, Paradiso, XXIII 96). Molto più raramente la restrizione può cadere anche per il maschile: «tra egli ed altri sofficienti» (Antonio Pucci). Esempi del genere sono doppiamente istruttivi. Da un lato ci dicono che il confine giusto/sbagliato è labile e non dipende da categorie ontologiche, date una volta per tutte, ma solo dalla reazione della collettività dei parlanti, mutevole nel corso del tempo; dall’altro ci mettono in guardia sulla possibilità di applicare all’italiano antico il criterio di grammaticalità caro alla grammatica generativa, per il quale ciascun parlante italiano, anche senza avere mai studiato nulla di grammatica, è in grado di dire che *dillo a egli è agrammaticale. La cautela dipende sia dal fatto che di una lingua antica,

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inevitabilmente attestata solo in modo frammentario, possiamo avere solo una conoscenza precaria, non paragonabile alla padronanza che ciascuno vanta della sua madre lingua; sia dalla naturale labilità normativa che è propria di una lingua scritta nella sua fase aurorale. Ma su questo punto torneremo ancora, con diversi esempi; intanto passiamo all’annunciata rassegna dei fenomeni. Grafia. Qui le differenze sono molto forti, specie se confrontiamo col nostro l’uso reale dei manoscritti medievali, spesso rammodernato nelle edizioni correnti. Spesso ma non sempre: il canzoniere del Petrarca, anche nelle antologie scolastiche, è riprodotto, quanto ai grafemi, rispettando l’uso del prezioso manoscritto in parte vergato direttamente da lui (p. 46). Ciò in ossequio alle scelte estremamente conservative dell’edizione Contini (nel 1949 e poi nel 1964 in una collana ben più diffusa): per esempio «La gola e ’l somno et l’otïose piume», come si legge nell’incipit del son. 7; se quello stesso sonetto fosse stato scritto da Dante, del quale non possediamo autografi, e fosse stato trasmesso da diversi testimoni, qualsiasi editore lo avrebbe stampato secondo la grafia rammodernata («La gola e ’l sonno e l’ozïose piume»). Ciò può indurre nel lettore non specialista l’impressione, errata, di una lingua più attardata e arcaizzante in Petrarca che non in Dante1. Nel Duecento, alle origini della tradizione grafica, si poteva ancora trovare k per indicare la velare sorda, come sappiamo (p. 56), ed erano abituali oscillazioni per tutti i fonemi che non avevano un corrispettivo nell’alfabeto latino: in Toscana la l palatale di figlio, ad 1  Nelle rare citazioni petrarchesche addotte in questa Prima lezione mi sono attenuto, proprio per evitare equivoci del genere, a una grafia rammodernata.

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esempio, poteva essere espressa anche con gl, lgli, lgl o li alla latina: quindi figlo, filglio, filglo, filio. Mancavano poi quelli che si chiamano segni paragrafematici (cioè le convenzioni grafiche distinte dai grafemi: punteggiatura, accenti, apostrofi, distinzione maiuscole e minuscole) e le parole potevano essere scritte unite. Il verso 74 del primo canto dell’Inferno è reso da un codice trecentesco2 così: «figliuol danchise cheuenne da troia» (figliuol ha già la veste grafica moderna; ma si noti la mancata distinzione tra u e v, oltre alle univerbazioni tra parole grammaticali e parole piene – danchise ‘d’Anchise’, cheuenne ‘che venne’ – e la minuscola in troia). La svolta decisiva si ebbe, per l’italiano e per le altre lingue europee, con l’invenzione della stampa e la successiva spinta alla stabilizzazione ortografica. Si ricorderà che al Bembo dobbiamo l’introduzione dell’apostrofo (p. 68), ma anche, aggiungiamo ora, l’uso della virgola di forma moderna, del punto e virgola e degli accenti. Passerà molto tempo, comunque, prima che questi segni siano adoperati secondo le convenzioni che regolano la scrittura moderna. Fonologia. Nei suoni la stabilità dell’italiano è massima: possiamo dire che le differenze tra Dante e Matteo Renzi, o qualsiasi altro parlante fiorentino cólto del XXI secolo, sono del tutto marginali3; ad una di queste differenze abbiamo già fatto cenno (pp. 58-59), parlando della diversa pronuncia fino al XVI secolo di azione e di nazione. Grazie a testimonianze di grammatici e ad opere stampate con alfabeti ortoepici, che usano particolari convenzioni per indicare il valore dei singoli grafemi foneticamente ambigui, possiamo poi accertare che le con  Strozzi 152 della Biblioteca Medicea Laurenziana.   Cfr. P. Larson, Fonologia, in G. Salvi, L. Renzi (a cura di), Grammatica dell’italiano antico, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 1515-1546. 2 3

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giunzioni e, né, o si pronunciavano con vocale aperta, conformemente all’etimologia latina (ĕt, nĕc, aut) fino al XVIII secolo4; la chiusura si deve alla protonia sintattica, in quanto i tre monosillabi si pronunciano appoggiandosi alla parola successiva e quindi la vocale viene a essere trattata come atona, necessariamente chiusa (p. 28 n. 1). Come si vede, si tratta di minuzie, specie se paragonate ai rivolgimenti che hanno conosciuto la fonologia francese o spagnola. In francese, per esempio, la pronuncia attuale di oi (roi ‘re’) si è imposta con la Rivoluzione francese e solo di qualche decennio prima è la pronuncia “mouillée” in parole come fille ‘ragazza’; in spagnolo antico si distingueva tra s sorda e sonora in posizione intervocalica (come nell’italiano ufficiale di oggi in cui si distingue cosa, con la s di sole, e rosa, con la s di slitta) e in hijo ‘figlio’ e coger ‘prendere’ la consonante intervocalica, oggi pronunciata allo stesso modo, aveva valori diversi. Morfologia. Le strutture portanti sono rimaste le stesse, anche se nei particolari le differenze non mancano, specie per i paradigmi verbali. Un nome singolare in -o, -a, -e formava anche anticamente il plurale con i morfemi -i, -e, -i (gatto-gatti, capra-capre, cane-cani, volpevolpi); il tipo le parte, che abbiamo incontrato in Machiavelli (p. 12), è una delle tante innovazioni del fiorentino quattrocentesco poi regredite con l’affermarsi della linea bembiana. Nell’italiano dei primi secoli era un po’ più nutrito il drappello di plurali femminili in -a, relitti del plurale neutro latino (le ossa < ossa); così, esemplifican-

4   La testimonianza si deve al fiorentino Anton Maria Salvini (1653-1729), grecista e accademico della Crusca, che stampò la traduzione di un poemetto greco d’età imperiale – o meglio di due poemetti distinti, dovuti ad autori che si chiamavano entrambi Oppiano – nel 1728, indicando con i simboli ê ed ô le vocali di timbro aperto.

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do dalla Commedia: castella («con tamburi e con cenni di castella» Inferno, XXII 8), peccata («e quel conoscitor de le peccata» Inferno, V 9), pugna («prese la terra, e con piene le pugna» Inferno, VI 26), sacca («le cocolle / sacca son piene di farina ria» Paradiso, XXII 77-78). Nei verbi sussisteva grande varietà tra forme concorrenti, molte delle quali sono rimaste a lungo in uso nella lingua poe­ tica; limitiamoci a citare le alternanze nell’imperfetto indicativo (aveva e avea, con caduta per dissimilazione della seconda v) e nel passato remoto (alla 3a persona il tipo più antico, tra le forme accentate sulla desinenza, era udìo, poi ridottosi a udì; alla 6a persona le forme originarie uscivano in -aro, -ero, -iro, poi affiancati da -arono ecc.) e il vario dinamismo di altri modi e tempi (nel congiuntivo il tipo fossero ha oscillato con fossono, nel condizionale il tipo avrebbero con avrebbono, senza dar conto del poetico avriano ecc.). Quanto ai pronomi, può bastare l’esemplificazione data sopra; si aggiunga solo, a metà tra morfologia e sintassi, una ristrutturazione effettivamente radicale, che riguarda l’ordine dei pronomi atoni (o clitici). Limitiamoci a un solo esempio: anticamente nella sequenza costituita da un pronome atono con funzione dativale e un altro con funzione di oggetto, il secondo (lo, la, li, le) precede il primo (mi, ti, ci, gli, le, vi, si): «e se non fosse ch’ancor lo mi vieta» (‘me lo vieta’, Dante, Inferno, XIX 100). Il tipo attuale, me lo, ce li ecc. si è affermato nel fiorentino nel corso del Trecento, certo per influsso di altri volgari toscani (Pisa, Lucca e Siena) che lo presentano fin dai più antichi documenti. Veniamo ora alla sintassi e all’ordine delle parole. Fondandosi soprattutto su queste sezioni della lingua, Giampaolo Salvi e Lorenzo Renzi esprimono, nella Prefazione della loro opera, un giudizio che si distacca dalla linea sostenuta in questa Prima lezione:

5. Italiano antico e italiano moderno

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Si è spesso pensato, e qualche volta anche scritto, che tra italiano antico e italiano moderno non ci siano differenze sostanziali, ma quest’opera mostrerà, crediamo, che si tratta di un’idea molto lontana dalla realtà5.

Naturalmente sul peso di singole differenze si possono dare valutazioni diverse: si sa che lo stesso bicchiere appare, a seconda dei punti di vista, mezzo pieno o mezzo vuoto. Ma, per impostare il confronto tra due fasi dell’italiano, quella antica e quella contemporanea, è necessario che gli elementi siano effettivamente confrontabili, che siano il più possibile omogenei. Per l’italiano contemporaneo, come si accennava, basta fare appello alla nostra competenza di italofoni, grazie alla quale disponiamo di una lingua realmente parlata nelle varie circostanze della vita e possiamo descriverla e analizzarla6; per l’italiano antico disponiamo di un corpus non solo frammentario e per forza di cose limitato alla lingua scritta, ma soprattutto a priori sospetto quanto a reale attendibilità linguistica perché costituito in massima parte da testi letterari, in prosa e in poesia. Sarebbe stato possibile, in astratto, concentrarsi solo sui “testi pratici”, tipicamente sui libri di conti; tuttavia le informazioni linguistiche che avremmo potuto ricavarne, adeguate per la grafia e la fonologia, sufficienti per la morfologia (anche se non possiamo aspettarci di trovare, in testi del genere, molti esempi di congiuntivi o di condizionali e neppure di imperativi), sarebbero state assolutamente insufficienti per la sintassi. Vediamo un esempio casuale, da un registro di conti del contado fiorentino:

  Salvi, Renzi (a cura di), Grammatica dell’italiano antico cit., p. 8.   È quanto ha fatto lo stesso Renzi con vari collaboratori nella Grande grammatica di consultazione, Bologna, Il Mulino, 1988. 5 6

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Mcclxx, in k. luglo. Avemo chonperato il podere di Righeto d’Agliana, lb. xlvj, in k. luglio al setanta: avene charta per mano di ser Tomaso da Sovigliana. Questi sono i ternefini di questo podere, una chasa e cholto e boscho e tera soda: da l’uno lato istrada e ’l prete d’Agliana, dal sechondo il perete d’Agliana, dal terzo la strada a piè del pogio che va a la pieve a Greti, dal quarto la via che va a la fora di soto al cholto7.

Il testo, non c’è dubbio, è molto distante dal nostro orizzonte linguistico. Superiamo facilmente lo scoglio rappresentato da alcune sigle (k. sta per ‘calende’, cfr. p. 56: siamo dunque al 1° luglio del 1270; lb. vale ‘libbre’, unità monetaria) e correggiamo idealmente uno scorso di penna (perete invece di prete). La grafia è del tutto difforme da quella poi consolidatasi; notiamo solo l’oscillazione tra luglo e luglio e la mancata rappresentazione del tratto di intensità consonantica: sono solo grafiche le consonanti scempie di Righeto ‘Righetto’, ipocoristico di Arrigo, setanta, avéne cioè avenne ‘ne avemmo’ da avemm[o]ne, con perdita della vocale finale e assimilazione delle consonanti superstiti, tera, pogio, soto; sarà reale, invece, la scempia di Tomaso, che continua il lat. medievale Thomasius. Anche il lessico richiederebbe un dizionario storico: se la carta è, per antonomasia, lo strumento notarile, quello grazie al quale i più vecchi dicono ancora carta canta e villan dorme, i ternefini sono i ‘confini’ (ma l’etimologia del vocabolo è incerta), il colto è il ‘campo coltivato’, la terra soda è l’‘incolto’. L’unico aspetto linguistico che ci è familiare 7  A. Castellani, Nuovi testi fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, Firenze, Sansoni, 1952, I, p. 189. Non riproduco il confine di rigo né l’integrazione di una lettera mancante.

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è proprio l’ordine delle parole, che corrisponde quasi esattamente a quello attuale. Siamo arrivati così al nocciolo della questione. Per un confronto topologico tra italiano antico e moderno dovremmo fondarci su testi come questo, magari includendo quelli che Maurizio Dardano ha definito, per il Duecento, di “prosa media”: lontani dalla prosa d’arte e relativamente vicini al parlato. Collocare testi diversi sullo stesso piano, considerandoli testimoni ugualmente attendibili dell’uso effettivo dell’epoca, può comportare il rischio di distorsioni prospettiche. Renzi e Salvi8 citano tre versi di Petrarca, versi dominati dall’ordo artificialis tipico della poesia e influenzato dal modello latineggiante, e ne deducono che «il periodo contiene almeno due caratteristiche sintattiche diverse dall’italiano moderno» (nella fattispecie: la separazione tra ausiliare e participio in «ànno la mente desiando morta» e l’anticipazione di determinanti, come in «di pietate ornare»). Ma sarebbe un po’ come descrivere l’italiano novecentesco sulla base dell’uso di Umberto Saba («a volte dei tuoi mali / ti quereli»: anticipazione del complemento indiretto rispetto al verbo), Giuseppe Ungaretti («E una larva [languiva / E rifioriva] vide»: costruzione “a sinistra” col verbo in fondo alla frase, cfr. pp. 26-27), Eugenio Montale («non cede alle impietose loro mani»: interposizione del possessivo tra aggettivo qualificativo e sostantivo). In un equivoco analogo incorre il valoroso italianista inglese Nigel Vincent quando, parlando anche lui di «mito» dell’«unità storica dell’italiano», osserva che la comprensione dei testi antichi varrà per «un parlante moderno che è decisamente portato per la storia 8  Nella voce Italiano antico citata nelle Integrazioni bibliografiche, p. 713.

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letteraria, che ha una buona conoscenza della Bibbia e un’istruzione delle lingue classiche». Giusto: ma, alla stessa stregua, un parlante medio attuale non capirebbe nulla di una poesia di Sanguineti né coglierebbe le implicazioni di un articolo di Arbasino... Un’ultima osservazione in fatto di topologia. Guardando all’ordine delle parole in prospettiva storica, ricaviamo che il francese, come è avvenuto in tanti altri casi, cambia con un ritmo evolutivo più dinamico dell’italiano: già il francese antico mostra un precoce allineamento alla sequenza tipicamente romanza SVO (p. 26) rispetto all’ordine libero dei costituenti di frase proprio del latino. Ma per valutare in questa prospettiva i testi toscani due-trecenteschi occorre tener conto di un dato di linguistica esterna: gli influssi culturali (nella fattispecie latineggianti) che hanno variamente condizionato la massa dei testi medievali. Ha perfettamente ragione Rosanna Sornicola quando osserva che «la sintassi più libera dell’italiano, comunque una peculiarità dell’italiano scritto e non di quello parlato che ha invece lo stesso carattere “romanzo” delle altre lingue neolatine, potrebbe spiegarsi appunto con l’azione levigante, di lunga durata, che la sintassi latina ha esercitato su quella italiana», a differenza del francese in cui la distanza tra scritto e parlato è sempre stata minore. Con ciò, non si vuole contestare l’assunto che il luogo di massima evoluzione dall’antico al moderno sia da individuare proprio nella sintassi, in particolare nella microsintassi. L’accurata disamina compiuta dagli autori della Grammatica dell’italiano antico è particolarmente meritoria in proposito, col suo nutrito inventario di fattispecie particolari; se ne ricava, tra il molto d’altro, la legittimità della doppia negazione («neuno uomo non sapea che ne fosse adivenuto» Novellino) o l’omissio-

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ne del clitico nelle frasi congiunte anche in contesti in cui oggi il clitico sarebbe obbligatorio («perché fino al morir si vegghi e dorma ecc.» ‘perché fino alla morte si vegli e si dorma’, Dante, Paradiso, III 100)9. 5.2. Il lessico In qualsiasi lingua il lessico è il settore soggetto a più rapido e intenso mutamento. Ciò vale persino per una “lingua morta” come il latino che, in quanto tuttora usato nei documenti ufficiali della Chiesa cattolica, ha accolto una serie di neologismi, coniati per iniziativa della Fondazione Latinitas. La creazione di questi neologismi, in verità, non corrisponde a quella che si produce nelle lingue naturali: quasi mai si ricorre all’adattamento di una parola nuova nella lingua ricevente (come per acupunctura da agopuntura) e si elaborano traduzioni perifrastiche, suscitando inevitabili ironie da parte dei giornalisti: i blue-jeans sono bracae linteae caeruleae, il computer è instrumentum computatorium, il deodorante foetoris delumentum e così via. In italiano il nucleo più immediatamente riconoscibile di arcaismi è quello di parole che sono uscite del tutto d’uso e sono note soltanto a specialisti, o magari (come il ternefini del registro fiorentino dugentesco) nemmeno a loro. Vi è poi una quota di arcaismi che hanno mantenuto una loro debole vitalità perché, in una lingua fortemente conservativa come l’italiano, hanno avuto a lungo corso nella lingua letteraria, sono noti a persone anche mediamente istruite e possono essere 9  I due esempi sono attinti dai capitoli scritti rispettivamente da Raffaella Zanuttini e Verner Egerland in Salvi, Renzi (a cura di), Grammatica dell’italiano antico cit., pp. 574 e 463.

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usati all’occorrenza con intenzione scherzosa: speme, fellone, augello, pria, poscia ecc. Soffermiamoci su una di queste parole, donzella. Donzella può essere usata come sinonimo di ‘ragazza’, specie da persone mature in vena di spirito che si rivolgono a giovani (C’è una donzella al citofono che chiede di te), ma assume anche significati specifici, ben documentati nella lingua dei giornali. Ecco alcuni esempi, attinti da quotidiani usciti nel 2009: a. giovane donna che recita in uno spettacolo di ambientazione medievale: «Centocinquanta figuranti con armigeri, duelli a singolar tenzone, donzelle rapite»; b. personaggio raffigurato in un’opera d’arte: «ecco che Clio riappare uguale come donzella che assiste alla “Visitazione”» (si parla di un dipinto di Raffaello). Come appare, in questi casi donzella ha l’accezione di ‘personaggio appartenente a una dimensione finzionale’, si tratti della figurante di uno spettacolo estivo a uso dei turisti o dell’immagine femminile rappresentata in un dipinto. Naturalmente, anche nei giornali, l’uso più comune di donzella è quello di un sinonimo marcato di ‘ragazza’, con la frequente connotazione di avvenenza: in una discoteca «possono entrare solo i galacticos e donzelle sculturali» (l’articolo è dedicato ai divertimenti serali dei calciatori). È abbastanza frequente il caso di parole che hanno mantenuto la loro veste materiale intatta nei secoli (il loro significante, come si dice in linguistica, cioè la componente fonetica che le costituisce), ma hanno cambiato il loro significato. In questo caso possiamo davvero dire che l’italiano antico e l’italiano moderno sono realtà spesso non comunicanti, oltre l’apparenza. Gianfranco Contini, nel 1947, propose un Esercizio d’interpretazione sopra un sonetto di Dante, il famoso Tanto gentile

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e tanto onesta pare, mostrando come parole oggi familiari avessero in realtà un significato diverso. Facciamo un’operazione analoga, fissando l’obiettivo non su una poesia, ma su un campione di “prosa media”: un brano del volgarizzamento compendioso di un testo mediolatino, i Fiori (ossia ‘sentenze scelte’) di filosafi. I Fiori sono stati redatti tra 1270 e 1275, non sappiamo da chi, e sono stati trasmessi da 27 manoscritti, non sempre integralmente; l’editore critico, Alfonso D’Agostino, si è fondato come manoscritto-base per garantire l’omogeneità linguistica del testo su un codice che contiene vari trattati morali, del quale conosciamo (evento tutt’altro che comune) anche il nome del copista: il fiorentino Fantino da San Friano. Leggiamo un brano, relativo all’infanzia di Papirio Pretestato, figlio del senatore Papirio; l’episodio narrato nei Fiori ebbe grande circolazione nella letteratura medievale (la fonte remota sono le Noctes Atticae, il repertorio enciclopedico e aneddotico scritto da Aulo Gellio nel II secolo d.C.): Questo Papirio, essendo garzone, andava sovente col padre al consiglio. E la madre il domandò un die che nel consiglio fosse fatto. El garzone rispuose: «Elli è credenza e nonn è da dicere». A la madre venne troppo magiore voglia di saperlo e, battendo il figliuolo, isforzavalo di dicere. Allora il garzone, vegendo che dicere li convenia, pensò una molto bella buscia e disse che nel consiglio era ragionato qual iera meglio tra che un omo avesse due mogli o una femina avesse due mariti, per moltipricare la gente di Roma, per ciò che terre si rubellavano [...].

Prescindiamo da notazioni relative alla fonetica e alla grafia (osservando solo che buscia ‘bugia’, frequente nei manoscritti coevi, riproduce la fricativa che ancora oggi è caratteristica della pronuncia toscana di bugia e

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che in magiore e vegendo la scempia è solo grafica; reale sarà forse femina, che può continuare il lat. femina) e soffermiamoci soprattutto sul lessico. Tutte le parole del brano sono ancora in uso nell’italiano di oggi, tranne veggendo gerundio di veggo o veggio ‘vedo’ (ma usiamo ancora veggente, che è un participio cristallizzato dal medesimo tema). Nella maggioranza dei casi il significato è lo stesso (padre, consiglio, madre...). Talvolta la forma è diventata meno comune (all’avverbio temporale sovente si preferisce in quasi tutt’Italia spesso). Oppure è meno frequente l’uso in quel particolare contesto: più che battere diremmo picchiare; più che dire con valore assoluto («isforzavalo di dicere») useremmo parlare, benché con questo valore dire sopravviva anche oggi, specie in frasi idiomatiche (tanto per dire, lascialo dire, dici sul serio? ecc.); piuttosto che è ragionato, a parte il diverso costrutto impersonale, diremmo si era discusso. In altri casi è mutata la reggenza: anticamente la persona a cui si domanda qualcosa poteva essere espressa, oltre che con il complemento indiretto, come oggi («La gentil donna allora [...] cento lire le domandò per maritar la figluola», Boccaccio, Decamerone, III 9), anche con l’oggetto, come qui. Notiamo inoltre il diverso ordine delle parole in «molto bella buscia»: oggi, in presenza dell’avverbio molto, l’aggettivo dovrebbe essere posposto (una bugia molto bella)10. C’è poi un certo numero di parole che ha cambiato decisamente significato: a. garzone ‘bambino, ragazzo’. Il vocabolo deriva quasi sicuramente per mediazione diretta dal franc. garçon, che ha mantenuto ancora oggi questo come si10  La cosa è registrata, con diversa terminologia, da Giuliana Giusti in Salvi, Renzi (a cura di), Grammatica dell’italiano antico cit., p. 597.

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gnificato fondamentale (a sua volta garçon è di origine germanica). Fin dalle prime attestazioni, alla nozione di ‘individuo maschio in una certa fase della sua vita’ si è accompagnata quella di ‘lavoratore subordinato’; la compresenza delle due accezioni si spiega facilmente col fatto che in genere gli addetti a umili mansioni erano per l’appunto giovanissimi (anche nel lat. puer sono compresenti i significati di ‘ragazzo’ e di ‘servo’). Nell’italiano poetico garzone ha mantenuto a lungo l’antico significato: rivolgendosi a un giovane atleta, Leopardi gli si indirizza per l’appunto come a un «garzon bennato» (A un vincitore del pallone); b. credenza qui ‘segreto’. È un altro gallicismo; nel significato generale, connesso al verbo corradicale credere, è ormai circoscritto a pochi usi: una credenza popolare. Il significato oggi più comune, quello di ‘armadio’, documentato nel latino medievale di Venezia nel 1339 (credentia), è attestato in italiano dal XVI secolo e rappresenta «un’ulteriore evoluzione semantica rispetto al significato che la parola aveva anticamente di ‘assaggio dei cibi destinati ad un alto personaggio per dimostrare che non erano avvelenati’» (Cortelazzo, Zolli); c. convenire ‘essere inevitabile’. Mentre oggi convenire ha il valore di ‘essere opportuno’, e quindi presuppone una possibilità di scelta (ti conviene pensarci ancora; ma il destinatario può non tener conto del consiglio), nell’italiano antico esprimeva l’idea di un dovere o di una necessità inderogabile: quando Dante, rivolgendo un’apostrofe ai simoniaci all’inizio di Inferno, XIX, proclama «or convien che per voi suoni la tromba», intende dire ‘ora è doveroso, è indispensabile che io mi faccia banditore, annunzi pubblicamente, la vostra condanna’. Come in tanti altri casi, l’accezione antica è sopravvissuta nella lingua poetica: ancora Leopardi,

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nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, rappresenta il venire al mondo come una suprema sciagura della quale i genitori devono consolare il figlio neonato e si chiede: «Ma perché dare al sole, / Perché reggere in vita / Chi poi di quella consolar convenga?»; convenga implica l’idea che si tratta di un obbligo al quale i genitori, responsabili di aver fatto nascere un essere destinato all’infelicità, non possono sottrarsi.

Integrazioni bibliografiche 5.1. La riflessione sul diverso assetto grafico nelle edizioni di Dante e Petrarca si legge in Serianni, Lirica cit., pp. 33-34. Per la storia della punteggiatura è fondamentale B. Mortara Garavelli (a cura di), Storia della punteggiatura in Europa, Roma-Bari, Laterza, 2008. Sulla riforma del Salvini cfr. L. Serianni, Saggi di storia linguistica italiana, Napoli, Morano, 1989, pp. 57-75. Per la grammatica generativa applicata all’italiano antico il riferimento è a G. Salvi, L. Renzi (a cura di), Grammatica dell’italiano antico, Bologna, Il Mulino, 2010; per un’informazione essenziale si può consultare la voce Italiano antico redatta dagli stessi studiosi per un’eccellente Enciclopedia dell’italiano, diretta da R. Simone per l’Istituto della Enciclopedia Treccani, e apparsa nel 2010, vol. I, pp. 713-715 (l’opera è consultabile anche in rete). Sull’impresa di Salvi e Renzi, comunque fondamentale per studiare l’italiano antico, si veda la severa recensione di E. Blasco Ferrer, Tendenze recenti della grammaticografia italiana, in «Zeitschrift für romanische Philologie», 129 (2013), pp. 142-166. Imprescindibile è anche M. Dardano (a cura di), Sintassi dell’italiano antico. La prosa del Duecento e del Trecento, Roma, Carocci, 2012. Sull’ordine dei pronomi atoni cfr. R. Cella, I gruppi di clitici nel fiorentino del Trecento, in Dizionari e ricerca filologica. Atti della giornata di studi in memoria di Valentina Pollidori, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2012, pp. 113-198.

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Insuperati quadri della polimorfia verbale nel più antico fiorentino si devono a Castellani, Nuovi testi cit., I, pp. 139-159, e a G. Nencioni, Saggi di lingua antica e moderna [l’articolo risale al 1953-1954], Torino, Rosenberg & Sellier, 1989, pp. 11-188; per l’ordine dei pronomi atoni cfr. Castellani, Nuovi testi cit., pp. 79-105. Per la “prosa media” cfr. M. Dardano, Lingua e tecnica narrativa nel Duecento, Roma, Bulzoni, 1969, p. 10. La citazione da Vincent è in Id., Il progetto “ItalAnt”: una presentazione e alcune considerazioni, in «Lingua e stile», XXXV (2000), pp. 731-742 (739); la citazione da Sornicola in Ead., Mutamenti di prospettiva culturale nelle lingue europee moderne: l’influenza del latino sulla sintassi, in «Archivio di storia della cultura», VI (1993), pp. 161-177 (176-177; corsivo aggiunto). Sulla nozione di “italiano antico” si veda da ultimo L. Tomasin, Qu’est-ce que l’italien ancien?, in «La lingua italiana», IX (2013), pp. 9-17. 5.2. Gli esempi di donzella sono ricavati dal mio articolo Forme arcaiche e letterarie nella lingua dei giornali, in «Italica», 88 (2011), pp. 59-70. Il saggio di Contini si legge in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, pp. 161-168. Per i Fiori cfr. Fiori e vita di filosafi e d’altri savi e d’imperadori, edizione critica a cura di A. D’Agostino, Firenze, La Nuova Italia, 1979 (il brano si legge alle pp. 136-138). Per la semantica di garzone cfr. E. Picchiorri, Semantica di “bambino”, “ragazzo” e “giovane” nella novella due-trecentesca, in «Studi di lessicografia italiana», XXIV (2007), pp. 71-131 (90-92); per l’etimo di credenza cfr. Cortelazzo, Zolli, Il nuovo etimologico cit., p. 411.

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6.1. Una realtà parzialmente inattingibile Tra il testo scritto, persino quello vergato per motivi contingenti da uno scrivente popolare, e un brano parlato, persino quello pronunciato in una conversazione formale da un parlante cólto, esistono differenze irriducibili. Il parlato è caratterizzato dal “rumore”, cioè da segnali privi di senso compiuto (pure sequenze foniche: mmmh, ma anche false partenze, ridondanze), da un’intonazione che varia in base alla lingua e al tipo di frase (è grazie all’intonazione che possiamo afferrare quel che dice qualcuno, anche se non percepiamo tutti i suoni o le parole, magari perché stiamo parlando in mezzo al traffico), da un grado di progettazione comunque minore rispetto allo scritto (perché condizionato dalle reazioni dell’interlocutore), dalla compresenza di altre modalità comunicative (gestualità, mimica). Una riprova empirica di queste differenze è data da esperienze comuni. Se si registra e poi si sbobina il discorso pronunciato a braccio da un brillante conferenziere, che come ascoltatori avevamo seguito addirittura con trasporto, ci troviamo di fronte a un testo irriconoscibile, con frasi che restano in sospeso e concetti che sono fastidiosamente ripetuti: un po’ come l’albatro di

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Baudelaire, «re dell’azzurro», che diventa brutto e oggetto di scherno quando, catturato dai marinai, non può più volare. E pensiamo ancora all’importanza dell’intonazione, della caratteristica curva prosodica con cui, anche nelle varietà regionali di una stessa lingua, i parlanti articolano una frase interrogativa o esclamativa: le caricature delle parlate altrui fanno leva proprio su questi tratti, percependoli come quelli più tipici e riconoscibili di una determinata varietà locale. Da queste premesse si dovrebbe trarre una conclusione radicalmente negativa: non possiamo dire nulla del parlato se non ascoltandolo o almeno disponendo di una trascrizione scientifica che dia conto fedelmente di tutti i fenomeni rappresentabili. Saremmo dunque condannati ad ancorarci alla stretta contemporaneità: le prime, episodiche, registrazioni di voci italiane risalgono al 1902 e si riferiscono a poche frasi del commediografo Giuseppe Giacosa (allo stesso anno risalgono le prime incisioni discografiche del celebre tenore Enrico Caruso). Ma non è proprio così. Tra scritto e parlato esistono molte varietà intermedie, che si dispongono in un continuum. In un saggio molto noto del 1976 Giovanni Nencioni ha distinto, accanto agli estremi del parlatoparlato e dello scritto-scritto, anche un parlato-scritto (quello riprodotto da uno scrittore nei dialoghi, ma emergente anche in contesti distanti da ogni intento d’arte, come vedremo) e un parlato-recitato, quello scritto per essere calato nella finzione scenica, teatrale, cinematografica o televisiva. Studi successivi hanno approfondito questa linea di ricerca, permettendoci di identificare varie tipologie di parlato-scritto, a partire da quella del parlato trascritto, vale a dire rappresentato da quei testi che nascono dalla trasposizione dall’orale

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allo scritto attraverso varie modalità. Sono tre le tipologie fondamentali di parlato trascritto. 1. Quella attestata da epoca più antica è costituita da testimonianze d’àmbito giudiziario. Verrebbe la tentazione di partire dal Placito campano, se non riflettessimo che la famosa formula, così attentamente calibrata nell’uso delle parole e nel loro valore giuridico (cfr. p. 9), è espressione di una programmazione che non ha nulla dell’immediatezza del parlato. Non è così per le trascrizioni in volgare inserite negli atti (ovviamente in latino) dei processi intentati per oltraggio. Molti materiali giacciono ancora inediti; l’archivista lucchese Salvatore Bongi (1825-1899) curò nel 1890 un’edizione di questi brani, attinti dall’archivio della sua città, e Daniela Marcheschi ne ha curato una nuova edizione, corretta sugli originali, nel 1983. Ecco un esempio: Tu sè pappatore leccone, robbatore, furo, traditore e compratore di offici.

Difficile pensare che questa sfilza di insulti possa essere stata manomessa: non solo perché si tratta del “corpo del reato”, ma anche perché l’accumulo disfemico è un chiaro stigma di autenticità. Annotazioni: pappatore leccone avrà il valore generico di ‘mascalzone’ più che quello specifico di ‘ingordo scroccone’; furo ‘ladro’ è il lat. furem (nominativo fur) con cambio di declinazione (o metaplasmo: dalla terza alla seconda, quella tipica dei maschili; un originario diminutivo si è cristallizzato nel nome del furetto cioè ‘ladruncolo’, perché predatore di pollame); compratore di offici vale ‘corruttore’ (o barattiere, come si sarebbe detto all’epoca). Riflette un’innegabile prossimità al parlato anche un cartello diffamatorio rinvenuto il 16 luglio 1621, affisso

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alla porta della sua bettola, dall’oste romano Francesco Riccio (e giunto fino a noi perché allegato agli atti del processo contro i presunti colpevoli): Francesco Riccio, beccaccio, vituperoso, infame, non la credi, Ruffiano mancia potte, nella tua bettola se concludono tutti li Ruffianeggi, tutti li tradimenti, tutte le furbarie del rione, spionaccio: questa Berardinaccia tua moglie puttana vechia e Ruffiana chiama asieme con te la frusta bricconaccio [...].

Sarà inutile continuare (e anche glossare; comunque beccaccio, che è anche nella Lena dell’Ariosto, vale ‘cornuto’; vituperoso ‘abietto’; potta è l’‘organo femminile’, con mancia puramente grafico per mangia; non la credi vale forse ‘miscredente’). Anche qui si nota l’accumulo e, in più, il ricorso quasi ossessivo al suffisso spregiativo -accio: beccaccio, spionaccio, Berardinaccia, bricconaccio. 2. Con brusco passaggio, possiamo soffermarci ora sui testi d’àmbito religioso. Accenniamo appena a un fenomeno vasto e significativo dal punto di vista antropologico oltre che linguistico: le scritture visionarie di donne, spesso poco più che alfabete, che su sollecitazione del proprio padre spirituale trascrivevano le proprie esperienze mistiche. Si pone, e può essere risolto soltanto caso per caso, «un problema di autenticità dei testi o, ancora meglio, di autentica adesione di quanto leggiamo alle parole originarie delle autrici. Non è facile stabilire in che misura i direttori spirituali si limitassero a una trascrizione passiva o si trasformassero in coautori» e talvolta «il sentimento di devozione sincera che si generava intorno a donne protagoniste di esperienze mistiche imponeva ai trascrittori un rispetto fedele delle loro testimonianze e favoriva l’inversione dei ruoli» (Librandi).

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Nessun dubbio del genere, invece, per le prediche senesi di san Bernardino, trascritte parola per parola da un fedele secondo una tecnica che potrebbe essere considerata una forma di stenografia ante litteram. Di qui l’effetto di “presa diretta”, uno stile immediatamente riconoscibile per «la ricchezza straordinaria delle marche prosodiche che sottolineano la funzione fàtica e conativa del suo discorso» (Delcorno): cioè proprio di quei tratti del parlato che di norma cadono nello scritto che da esso deriva. Leggiamo come esempio due brani tratti da una stessa predica contro la calunnia: E però a tutti voi vi dico: non allargate le vostre mani a opera di sangue; non allargate, ma più tosto perdonate, perdonate! O, a chi dico io, perdonate? Io dico a te – A chi? – A te. A chi dico io? A colui e a colui e a colui. – A chi? A quello e a quell’altro, e non voliate succhiare el sangue l’uno dell’altro. [...] Costoro i quali vanno così detraendo e volendo occultare loro medesimi, si possono assimigliare alla ranocchia. Sai come fa la ranocchia? La ranocchia fa: «Qua, qua, qua, qua!». Io vi so’ già ito quando elleno dicono pure «qua, qua!»; e gionto ch’io so’ alla fossa dove elle so’, e come io so’ ine, subito elleno fuggono sotto, e niuna fa più motto. Così fa lo infamatore; ché quando elli vuole infamare, elli usa quello dire «qua, qua, qua!». Colui che si sente chiamare, va là oltre: «Eccomi qua, che è?». Non è più nulla.

La predica riflette fedelmente il volgare senese del trascrittore (che, per la storia, si chiamava Benedetto di maestro Bartolomeo ed era un semplice cimatore di panni, un operaio addetto alla tessitura): si vedano la forma voliate ‘vogliate’, l’articolo el (p. 13), la mancanza di anafonesi (p. 31) in gionto, l’avverbio ine (da ivi ridottosi a i, con successiva epitesi di ne); non è specificamente senese l’imperativo negativo composto con

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volere, sul modello del lat. noli, nolite + infinito (non voliate succhiare), che è diffuso anche in secoli più vicini a noi1. Per il lessico l’unica forma da chiosare è detraendo ‘calunniando’ (oggi non usiamo più detrarre in questo senso, ma ci è rimasto detrattore). Ma sono più degni di nota i tratti che riflettono il parlato. Nella serie di interrogative iniziali (A chi? – A te ecc.), dobbiamo immaginare «il predicatore che punta il dito in diverse direzioni» (Delcorno): abbiamo cioè un esempio di deissi, la procedura tipica dell’oralità per la quale l’enunciato fa riferimento allo spazio e al tempo entro cui l’enunciato stesso viene prodotto; del parlato è anche la ridondanza pronominale (a tutti voi vi dico). Caratteristico di Bernardino il ricorso all’onomatopea, qui giocato sull’omonimia tra il verso della ranocchia e l’avverbio qua: come le ranocchie si tuffano in acqua quando qualcuno si avvicina, così il maldicente, dopo aver propalato le sue calunnie, si occulta. Spicca, infine, il forte grado di allocutività, ossia la continua chiamata in causa degli interlocutori attraverso interrogative: nei brani che abbiamo scelto se ne contano cinque, prescindendo dall’ultima, che appartiene a un personaggio del raccontino costruito dal predicatore. L’allocutività è esaltata da fenomeni di eco, cioè da battute o da domande che, nel monologo, riprendono in tutto o in parte la battuta o la domanda immediatamente precedente (O, a chi dico io, perdonate? Io dico a te – A chi? – A te. A chi dico io? A colui e a colui e a colui). 3. La terza tipologia di parlato trascritto è legata all’àmbito politico. Nel Rinascimento fiorentino si usava redigere i verbali durante le adunanze della Repubblica. 1  Per esempio in Manzoni, I Promessi Sposi, cap. VI: «non voglia tener nell’angoscia e nel terrore una povera innocente» ‘non tenga’.

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Stefano Telve ha studiato a fondo le Consulte del 1505, redatte da Biagio Buonaccorsi: l’«operazione svolta dal trascrittore potrebbe essere paragonata a quella di un copista, che attraverso un processo di dettatura (eventualmente anche interna), dal quale non si escludono interventi accidentali o volontari sulle espressioni originali, mette per iscritto delle pericopi orali: il testo prodotto rispecchierà l’originale con una fedeltà discontinua, in relazione all’importanza che può rivestire una citazione letterale e alle circostanze pragmatiche della scrittura». L’origine orale del testo trascritto è affidata a segnali deboli, tipicamente all’uso di deittici, per esempio: «che sendo di nuovo chiamati in su la medesima proposta di hiersera, pareva loro farne questa resolutione» (hiersera appartiene solo all’orizzonte di chi sta parlando in quella seduta). Non meraviglia che, in un processo di verbalizzazione, le procedure più tipiche dell’oralità siano cassate; lo stesso avviene nei resoconti parlamentari, oggi facilmente confrontabili con i discorsi effettivamente pronunciati in aula, nei quali i vari tentennamenti del parlato, le formule discorsive (be’ allora, come dire), le ridondanze pronominali sono, comprensibilmente, omessi. In un fondamentale volume del 1990 Paolo D’Achille ha studiato la presenza nello scritto dalle Origini alla fine del Settecento di una serie di tratti tipici del parlato, perlopiù attestati fin dal Medioevo ma emarginati dalla norma letteraria, per effetto diretto o indiretto della svolta arcaizzante e letteraria del Cinquecento: ulteriore conferma dell’importanza che il Bembo ha avuto nelle vicende della nostra lingua. Forse i tratti più rilevanti sono due: la promozione dei pronomi obliqui lui, lei, loro a funzione di soggetto, che si affermerà a livello di lingua letteraria solo col

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Manzoni; e la dislocazione, cioè l’alterazione dell’abituale ordine SVO (p. 26), in particolare quella più caratteristica, la dislocazione a sinistra, con anticipazione in prima posizione di un tema diverso dal soggetto, poi richiamato da un clitico (il caffè lo prendo amaro; caffè è l’oggetto); il più antico esempio di dislocazione è nella tante volte richiamata formula del Placito campano (kelle terre [...] le possette). Non appartiene soltanto alla fenomenologia dell’oralità l’uso dell’imperfetto indicativo nel periodo ipotetico dell’irrealtà (se lo sapevo non venivo ‘se l’avessi saputo non sarei venuto’). Oggi il costrutto ha un sapore decisamente colloquiale; ma Carmelo Scavuzzo ha mostrato come esso fosse ampiamente diffuso nella poesia, sia in quella di tipo epico-narrativo, che potrebbe risentire di spinte verso l’oralità, sia nella «tragedia alfieriana, così distante da ogni tentazione mimetica e anzi scandita su toni decisamente solenni e aulici» («Ah! primiero io vi giungea, se tolto finor non m’era»). 6.2. Il parlato nella letteratura Il testo letterario tipicamente deputato alla rappresentazione del parlato è quello teatrale. Le ragioni, ottimamente messe in rilievo da Luca D’Onghia, sono due, la prima di ordine generale, la seconda relativa alla specifica situazione italiana. Da un lato, i «testi teatrali simulano la comunicazione naturale tra individui e si caratterizzano sul piano semiotico per essere integralmente mimetici, senza interferenze diegetiche»; dall’altro, la commedia italiana «non ha avuto modelli prescrittivi» e ciò ha favorito una relativa libertà espressiva e anche, nel Cinquecento, il manifestarsi di spinte sperimentali e plurilinguistiche (Ruzante, Calmo).

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La dialogicità integrale della commedia fa sì che le intenzioni dell’autore debbano essere affidate a parti esterne al dialogato: nella fase più antica, cinquecentesca, a un Prologo, modellato su quelli della commedia latina; in quella più moderna, alle didascalie (o a interventi del tutto autonomi dell’autore, come avviene, per Goldoni, con la Prefazione alla sua prima raccolta di commedie, l’edizione Bettinelli, 1750). Interessante notare come le commedie di Pirandello, «così esperto autore di teatro e, dobbiamo notare, regista, oltre che inventore di un nuovo parlato teatrale» (Nencioni), presentino un apparato di didascalie spesso sganciato dalla funzione ausiliaria in servizio del dialogo e legato alla dimensione psicologica del personaggio: «La Barbetti ha sessantatre anni, ma è tutta tinta e goffamente parata, come una ricca provinciale. È imperiosa e sguajata, in fondo però non antipatica» (Tutto per bene; si noti da un lato la precisazione puntuale dell’età, dall’altro la valutazione soggettiva sulla “non antipatia”), «La segue il signor Totò col cappello in capo, collo torto da prete, aspetto e aria da volpe contrita. Si stropiccia di continuo le mani sotto il mento, quasi per lavarsele alla fontana della sua dolciastra grazia melensa» (L’uomo la bestia e la virtù; la metafora, studiatamente letteraria, non è descrittiva bensì evocativa della psicologia del personaggio). Il mimetismo dialogico di Pirandello può essere considerato il punto d’arrivo di un processo che ha via via emarginato non solo situazioni e personaggi ereditati dal teatro classico (come la caratteristica figura del servo, che sarà eliminata dal Goldoni maturo), ma anche tradizionali convenzioni antirealistiche: gli a parte, le battute che un attore pronuncia tra sé e sé e che gli altri personaggi sulla scena devono fingere di non udire; i

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monologhi di un personaggio solo sulla scena, che danno conto dei suoi turbamenti, incertezze, propositi; gli scambi dialogici tra i personaggi estranei alla dinamica dell’azione, che hanno la sola funzione di esporre i precedenti della vicenda a beneficio del pubblico. Dal punto di vista della lingua la svolta decisiva si ha con Goldoni. Un tempo i critici opponevano le commedie in veneziano, universalmente apprezzate, a quelle in italiano, considerate linguisticamente artificiose. In anni più recenti, sulla scia di decisivi interventi di Gianfranco Folena, ci si è resi conto che «Goldoni in parte “scopre” e in parte “inventa” un italiano della conversazione quotidiana» (Trifone), concretamente tarato sulla ricezione del pubblico dei teatri settentrionali, delle «lombarde città» in cui devono essere rappresentate le sue commedie, come dichiara nella ricordata Prefazione dell’ediz. Bettinelli. Molto ricco il repertorio delle formule discorsive con cui Goldoni orchestra «le variabili delle relazioni fra gl’interlocutori, i vuoti e i pieni, le sospensioni e le riprese dello scambio dialogico, le strategie per stabilire e orientare il circuito comunicativo» (Dardi). Ecco alcuni esempi di espressioni fraseologiche per le quali quella di Goldoni sembra essere la prima attestazione nota: averne abbastanza ‘essere stufo’, chiudere un occhio ‘fingere di non avvedersi di qualcosa’, essere alle solite ‘trovarsi in una situazione che si ripete di frequente’, non fa niente ‘non importa’, pezzo grosso ‘persona importante’, prendere la mano ‘prendere il sopravvento’, volerci poco ‘esser facile’. Ed ecco alcune locuzioni avverbiali: chiaro e tondo ‘francamente’, da un momento all’altro ‘molto presto’, una volta o l’altra ‘prima o poi’, eccome! come esclamazione asseverativa. E gli esempi potrebbero essere facilmente incrementati: non poter sof-

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frire ‘aver forte antipatia per qualcuno’ («Queste facce doppie non le posso soffrire» Il cavaliere di buon gusto, III 6), basta così, per troncare un discorso («Perché così crudele con noi, signor cavaliere? – Basta così. Con me non vi prendete maggior confidenza» La locandiera, I 5; l’espressione ricorre anche in Metastasio), andiamo come esortazione a decidere, a eseguire qualcosa e simili («Andiamo, meno ciarle» La locandiera, III 1). In un’ideale scala di vicinanza-lontananza rispetto al parlato reale, il teatro si colloca nel punto più vicino, la poesia in quello più lontano (e il romanzo occupa la vasta area intermedia). Ma anche la poesia può trovarsi a fare i conti con i meccanismi dell’oralità: ovviamente siamo più che mai in presenza di un filtro abilmente predisposto dal poeta per i suoi intenti d’arte, non certo di un’esigenza prioritariamente mimetica. Ciò avviene abitualmente nella poesia narrativa. In un interminabile poema di Gian Carlo Passeroni, Il Cicerone (1764; in 101 canti: il più lungo che si conosca), il poeta richiama cose dette in precedenza o annuncia cose che dirà in séguito, così come farebbe oggi un conferenziere («come dicevamo...», «su questo ritorneremo tra poco...»): «Si diede, torno a dirlo un’altra volta, / a compor versi per divertimento», «Tornando a Marco, come già v’ho detto, / Virgilio e Omero eran la sua lettura»; oppure ricorre a procedure che un qualsiasi parlante metterebbe in atto per attenuare un’affermazione («Avea fatto Elvia fino dalla culla / voto, per quanto ne so, di maritarsi»), per prevenire un’obiezione dell’interlocutore («E non mi state a dir che han da trattare / insieme, per conoscersi a vicenda, / gli amanti [...]») o semplicemente come effetto della naturale ridondanza del discorso orale («Oh questa sì, che se ho da dire il vero, / la maniera mi par d’uscir di pene»).

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Ma anche la lirica può essere utilmente chiamata in causa. Pensiamo a Guido Gozzano, particolarmente attento a rappresentare i meccanismi del discorso diretto e a farli risaltare entro una cornice diegetica ironicamente letteraria. Leggiamo alcuni versi della poesia Le due strade nella versione, più rappresentativa ai nostri fini, della Via del rifugio. Il personaggio che dice “io” e la sua amante ormai più che matura incontrano una ragazza diciottenne in bicicletta, che saluta la donna: Ci venne incontro; scese. «Signora! Sono Grazia!» sorrise nella grazia dell’abito scozzese. «Graziella, la bambina?» – «Mi riconosce ancora?» «Ma certo!» E la Signora baciò la Signorina. «La piccola Graziella! Diciott’anni? Di già? La Mamma come sta? E ti sei fatta bella! La piccola Graziella, così cattiva e ingorda!...» «Signora, si ricorda quelli anni?» – «E così bella vai senza cavalieri in bicicletta?» – «Vede...» «Ci segui un tratto a piede?» – «Signora, volentieri...» «Ah! ti presento, aspetta, l’Avvocato, un amico caro di mio marito... Dagli la bicicletta» (vv. 7-18).

Le battute scambiate tra la Signora e Grazia sono attentamente calibrate sul piano della verosimiglianza di una conversazione reale di àmbito borghese: dal diverso uso degli allocutivi (il lei di Grazia alla Signora, che replica col tu) e dello stesso nome della ragazza, ancora trattata col diminutivo dalla Signora, fissa nella memoria ad alcuni anni prima («Graziella, la bambina?»), ai truismi («Diciott’anni? Di già?»), ai convenevoli («La Mamma come sta?»), ai connettivi fraseologici («Ah! ti presento, aspetta, l’Avvocato»), alle formule di saluto prosastiche («Signora! Arrivederla!» v. 93) o all’uso di formule asseverative tipiche dell’uso parlato («“Mi

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riconosce ancora?” / “Ma certo!”»). Questi sapienti prelievi si stagliano su uno sfondo campito con segnali aulicizzanti, quando chi parla è esterno al dialogo e guarda alla scena con amaro disincanto: basterebbero le ardite tmesi (o iperbati: «la triste che già pesa nostra catena antica» v. 4, «gli accesi dal veleno biondissimi capelli» v. 53, «Queste pensavo cose» v. 67), oltre agli echi classicheggianti («o dolce sorridente!» v. 36, che è il dulce ridentem di Orazio), all’anteposizione degli aggettivi («nel lento oblio» v. 5, «le tinte ciglia» v. 50). Tra le varie procedure che simulano l’oralità, alcune sono ricorrenti ed esposte al rischio della cristallizzazione stereotipica (come le interiezioni); altre, molto meno frequenti, meritano più attenzione. Hanno un rapporto evidente con i reali meccanismi del dialogo, nel quale costituiscono la norma, le varie evenienze di sospensione della parola. L’interruzione può nascere per la volontà di chi sta parlando (è la nota figura retorica della reticenza o aposiopèsi) oppure, ed è il caso più interessante nella nostra prospettiva, perché un parlante non riesce a concludere il discorso, sopraffatto da fattori fisici (un singhiozzo, il delirio prodotto dalla febbre, o addirittura la morte). Un esempio di discussa interpretazione ci è offerto da Dante. In Purgatorio, XXX 55-57 Beatrice si rivolge a Dante, che piange per l’improvvisa sparizione di Virgilio, e lo rimprovera: «Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / ché pianger ti convien per altra spada». Quell’anco ha sempre fatto difficoltà agl’interpreti: Gianfranco Contini, rinnovando un’interpretazione del dantista settecentesco Baldassarre Lombardi, ha immaginato che Dante voglia riprodurre «un singhiozzo fissato fonosimbolicamente, per solidarietà col rimproverato persistendo, e insisten-

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do, la necessità del rimprovero». Nella Signorina Felicita, v. 282, Gozzano riproduce la «voce mozza / da gli ultimi singulti nella strozza» della protagonista: «Non mi ten...ga mai più... tali dis...corsi!». Quanto all’interruzione determinata dalla morte, un esempio famoso è nel quarantaduesimo canto dell’Orlando furioso, con le ultime parole di Brandimarte all’amico Orlando: «né men ti raccomando la mia Fiordi... – / ma dir non poté ligi, e qui finio». Altrettanto – anzi ancora più celebri – le ultime parole pronunciate da un altro personaggio del poema epico, la Clorinda morente nel dodicesimo canto della Gerusalemme liberata, che così si rivolge a Tancredi: «Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona / tu ancora, al corpo no, che nulla pave, / a l’alma sì: deh! per lei prega, e dona / battesmo a me ch’ogni mia colpa lave». Verrebbe da pensare che l’inusitata apocope in perdon, un verbo di prima persona (l’apocope è abituale solo in son ‘io sono’) – e della quale peraltro il Tasso si pentì nella Conquistata – stia a rappresentare il parlare franto, affannato di Clorinda, che raccoglie le sue ultime forze per la conversione finale. Strettamente apparentate con questi ultimi esempi sono altre esecuzioni deficitarie dovute a fattori fisici, in cui non si ha una singola interruzione della sequenza fonica ma più radicali alterazioni del significante o addirittura del significato. Tra le prime, si può citare un sonetto del secentista Paolo Abriani (che è un bell’esempio dello sperimentalismo barocco e della relativa estensione delle materie poetabili), La bella tartagliante: «Mio co-co-cor, mio ben, mia pu-pu-pilla». Nel Bacco in Toscana del Redi lo stato di alterazione fisica e mentale prodotto dall’ubriachezza è rappresentato a livello sia dei significanti sia dell’organizzazione del discorso: Bacco non riesce a completare le parole («Passa vo’»

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‘voga’, «Sulla vio’» ‘viola’), ripete più volte singole componenti di una frase («quando arranca, / Quando arranca inverso Brindisi»), opera accostamenti assurdi sulla base di somiglianze fonetiche fortuite (il brindisi ad Arianna e la città pugliese verso cui la nave si dirige). In un passo della Commedia Dante rappresenta una modalità tipica della conversazione usuale, sia pure sublimata poeticamente: la domanda meramente fàtica che spesso rivolgiamo a qualcuno per avviare la conversazione: «Ah, sei già tornato da Londra?» (la risposta è, evidentemente e necessariamente, sì). Una domanda del genere può anche presupporre una reazione di meraviglia del locutore e può assumere connotazioni drammatiche. Quando Dante incontra Brunetto Latini, gli rivolge appunto una domanda di questo tipo, che condensa il suo doloroso stupore nel ritrovare l’amato maestro in quel luogo: «Siete voi qui, ser Brunetto?» (Inferno, XV 30). Se Brunetto, al vedere Dante, si era espresso con una tradizionale esclamazione propria della grammatica poetica («Qual maraviglia!», v. 24), Dante reagisce con viva immediatezza: per una volta le ragioni della poesia coincidono con la riproduzione di un atto locutivo reale.

Integrazioni bibliografiche 6. Un’efficace presentazione della dinamica scritto-parlato per l’italiano si deve a L. Rossi, Scritto e parlato, in L. Serianni (a cura di), La lingua nella storia d’Italia, Roma-Milano, Società Dante Alighieri-Libri Scheiwiller, 2002, pp. 473-501. Ma si deve tener conto che, come mi fa notare Giuseppe Antonelli, con la scrittura telematica molte contrapposizioni tradizionalmente indicate per scritto e parlato sono venute meno.

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6.1. Per le prime registrazioni del parlato di italofoni cfr. A. Antonini, I mutamenti del parlato attraverso un secolo di registrazioni, in «Quaderni del laboratorio di linguistica», 5 (2004-2005), leggibile on line. Il saggio di Nencioni è in Id., Di scritto e di parlato. Discorsi linguistici, Bologna, Zanichelli, 1983, pp. 207-294. Per la tipologia del parlato trascritto cfr. S. Telve, Il parlato trascritto, in Antonelli, Motolese, Tomasin (a cura di), Storia dell’italiano scritto cit., III, Italiano dell’uso, pp. 15-56 (la citazione da p. 15). Per le ingiurie lucchesi cfr. D. Marcheschi (a cura di), Ingiurie improperii contumelie ecc. Saggio di lingua parlata del Trecento cavato dai libri criminali di Lucca per opera di Salvatore Bongi, nuova edizione rivista e corretta, Lucca, Pacini Fazzi, 1983 (la citazione da p. 43; non ho riprodotto le parentesi, indicanti aspetti qui non pertinenti, e ho modificato se’ ‘sei’ in sè tenendo conto di Castellani, Nuovi saggi cit., pp. 581-593). Per il cartello diffamatorio cfr. A. Petrucci (a cura di), Scrittura e popolo nella Roma barocca 1585-1721, Roma, Quasar, 1982, p. 25. La citazione da R. Librandi è nel suo La letteratura religiosa cit., p. 50. Per san Bernardino cfr. Bernardino da Siena, Prediche volgari cit., I, pp. 272 e 273 (la citazione dal curatore è ivi, p. 41). Per la senesità di voliate e ine cfr. rispettivamente S. Bargagli, Il Turamino ovvero del parlare e dello scriver sanese, a cura di L. Serianni, Roma, Salerno Editrice, 1976, p. 29 n. 2, e Castellani, Grammatica storica cit., p. 357. Per le consulte cfr. S. Telve, Testualità e sintassi del discorso trascritto nelle Consulte e pratiche fiorentine (1505), Roma, Bulzoni, 2000 (le citazioni dalle pp. 18 e 46). Sui resoconti parlamentari cfr. ancora Telve, Il parlato trascritto cit., pp. 46-47. Il volume di D’Achille (Sintassi del parlato e tradizione scritta nella lingua italiana) è apparso a Roma, Bonacci, nel 1990. Per l’imperfetto irreale cfr. C. Scavuzzo, Sull’indicativo irreale nella poesia italiana, in «Studi di grammatica italiana», XVIII (1999), pp. 31-55 (le citazioni dalle pp. 54 e 55). 6.2. La citazione da D’Onghia è dal suo saggio Drammaturgia, in Antonelli, Motolese, Tomasin (a cura di), Storia dell’italiano scritto cit., II, Prosa letteraria, pp. 153-202 (p.

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153). Sulla lingua della commedia è fondamentale P. Trifone, L’italiano a teatro. Dalla commedia rinascimentale a Dario Fo, Pisa-Roma, Serra, 2000 (la citazione alle pp. 73-74); i saggi goldoniani di G. Folena si leggono in Id., L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Torino, Einaudi, 1983, pp. 89-215. La citazione da Nencioni è in Id., Tra grammatica e retorica. Da Dante a Pirandello, Torino, Einaudi, 1983, p. 215. La citazione da A. Dardi è tratta dal suo articolo Goldoni in Manzoni, in P. Manni, N. Maraschio (a cura di), Da riva a riva. Studi di lingua e letteratura italiana per Ornella Castellani Pollidori, Firenze, Cesati, 2011, pp. 121-146 (127; di qui ricavo gli esempi senza indicazione di commedia). Per la riproduzione del parlato nella poesia ho attinto liberamente al mio articolo Lingua poetica e rappresentazione dell’oralità, in «Studi linguistici italiani», XXXI (2005), pp. 3-32. La citazione da Contini è in Id., Varianti e altra linguistica cit., p. 432.

7.

Un certificato storico per l’italiano

7.1. Da quando esiste l’italiano parlato? Chi abbia qualche motivo per farlo può richiedere al proprio Comune un “certificato storico” (di residenza, di stato di famiglia), attraverso il quale documentare le proprie vicende amministrative e giuridiche nel corso del tempo. Possiamo tentare, in questo capitolo conclusivo, qualcosa del genere per la nostra lingua, cominciando da una questione che abbiamo già sfiorato in diverse occasioni. Quelli di Dante o di Manzoni sono esempi di italiano scritto, con tutte le precisazioni del caso; ma a quando possiamo far risalire la nascita di un italiano parlato? Molti risponderebbero, e hanno effettivamente risposto: di italiano parlato si può parlare solo nel corso del Novecento, quando le grandi rivoluzioni mediatiche (le trasmissioni radiofoniche dal 1924 e poi, ancor più efficace, la televisione, dal 1954) hanno immesso nel tessuto dialettale della grande maggioranza dei cittadini un modello di italiano super-regionale, in qualche caso addirittura un italiano senza accento, che ha scalfito o inquinato il sistema dei dialetti (p. 21). Una risposta del genere implicherebbe una conseguenza di grande rilievo storiografico e civile: l’Italia è una costruzione

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recente e solo la retorica risorgimentale ha potuto favoleggiare, col Manzoni di Marzo 1821, di una nazione «una di lingua» (e non parliamo di altri addendi elencati nei versi famosi come l’«arme», il «sangue», il «cor»). Il tema della non esistenza dell’italiano, ossia di una lingua effettivamente praticata dagli abitanti della penisola in età pre-unitaria, non è un tema recente. Senza risalire troppo indietro nel tempo, possiamo ricordare un fortunato intervento di Ruggiero Bonghi (1826-1895), scrittore e poi anche uomo politico nell’Italia unita: Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia (1855). Il titolo, editorialmente assai indovinato, metteva bene in evidenza il carattere paradossale di una società estranea alla cultura scritta di riferimento, perché – sosteneva Bonghi sulla scia del Manzoni – incapace di accedere alla lingua in cui quella cultura si esprimeva. Ma la questione è stata imposta all’attenzione generale da Tullio De Mauro, nella sua più volte citata Storia linguistica dell’Italia unita. De Mauro partiva dalla considerazione che negli anni dell’Unità, per la precarietà delle strutture scolastiche, «un diretto contatto con la lingua comune e la sua effettiva e definitiva acquisizione» poteva essere presupposto solo per quelli «che, dopo le scuole elementari, continuavano per qualche anno gli studi». Diverso il caso della Toscana e di Roma, in cui «i dialetti locali erano particolarmente vicini nella struttura fonologica morfologica e lessicale alla lingua comune»: è lecito affermare «che, intorno agli anni dell’unità, già la semplice qualità di non analfabeta consentisse a Roma e in Toscana un reale possesso della lingua comune: ai 160.000 italofoni di altre regioni vanno dunque aggiunti circa 400.000 toscani e 70.000 romani». La quota complessiva di italofoni così risultante (intorno ai 630.000 cittadini su una popolazione di oltre

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25 milioni di abitanti: quindi appena il 2,5%) è stata messa in discussione con solidi argomenti da Arrigo Castellani nel 1982. Accogliendo il metodo del De Mauro, ma correggendone l’applicazione, Castellani calcola in 435.000 persone il numero degli «italofoni per cultura»; a questa cifra vanno aggiunti i toscani i quali, nella quasi totalità, «debbono esser considerati italofoni per diritto di nascita, e non in quanto abbiano appreso a leggere e scrivere», mentre il criterio di considerare italofoni i semplici non analfabeti di Roma dovrebbe valere anche per quelle zone dell’Italia centrale in cui si parlano varietà più prossime al toscano (come Ancona, Perugia, Orvieto, Viterbo). In tal caso gli italofoni nel 1861 sarebbero stati più di 2.200.000, pari al 9,5% della popolazione con più di tre anni d’età. A questa cifra Castellani ritiene debba essere aggiunto l’insieme degl’illetterati (domestici, impiegati d’infimo livello ecc.) che potevano imparar l’italiano per pratica, lavorando in ambienti prevalentemente italofoni e, in generale, considera «molto più larga» la capacità da parte di dialettofoni di comprendere frasi o discorsi in italiano. Si tratta, è bene ricordarlo, di calcoli inevitabilmente presuntivi, anche perché siamo in presenza di un continuum che va dal possesso pieno di una lingua all’incapacità di uscire dall’àmbito del proprio dialetto municipale, attraverso una serie pressoché infinita di gradazioni. È innegabile il fatto che la grande maggioranza della popolazione si esprimesse abitualmente in uno dei tanti dialetti. Ma è altrettanto vero – ed è qui il significato più profondo dell’obiezione di Castellani – che bisogna tener conto della competenza passiva, il meccanismo grazie al quale siamo in grado di comprendere chi parla un idioma diverso dal nostro anche se

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non saremmo capaci di padroneggiarlo, se non attraverso un’esposizione prolungata. Nei secoli passati questa funzione di “emittente linguistica” era di fatto svolta dalla Chiesa cattolica. Non è in gioco, beninteso, una specifica politica linguistica: «la Chiesa è sempre stata molto attenta alla lingua da adoperare nella comunicazione con i fedeli, con l’obiettivo, tuttavia, non di diffondere i volgari e, successivamente, l’italiano, bensì di mantenere saldi i legami della fede» (Librandi). Ma l’azione della Chiesa in favore dell’italiano, anche se preterintenzionale, è stata indubbia specie, dopo il Concilio di Trento, grazie alla pratica del catechismo e alla rete d’istruzione che, nell’Italia di antico regime, era quasi per intero sostenuta da religiosi (scuole di dottrina cristiana, collegi degli ordini ecc.). Il quadro è sufficientemente chiaro, almeno per la Lombardia (intesa in senso lato, cioè ben oltre i confini dell’attuale regione), grazie a due importanti studi. Il linguista ticinese Sandro Bianconi ha esplorato i ricchissimi carteggi dei cardinali Federico e Carlo Borromeo, giungendo alla conclusione che nel secondo Cinquecento l’italiano era diventato, anche nelle località minori, «la lingua della comunicazione scritta ai diversi livelli della società». Il cappuccino ticinese, e filologo di fama internazionale, Giovanni Pozzi (1923-2002) si è chiesto invece quale lingua si parlasse in chiesa in epoca post-tridentina. Nei trattati d’eloquenza sacra del periodo è costante il richiamo a una lingua d’uso, di base toscana ma aliena da forme idiomatiche o da arcaismi. In un «corso concepito per preparare i giovani cappuccini alla predicazione» si interviene in questo senso riformulando la lingua aulica di Paolo Sègneri, il grande predicatore barocco: così, «vengo a spacciar per nuovo un avviso sì

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ricantato» diventa «dico come nuova una cosa saputa da tutti»; ed è significativo che questa seconda frase sia l’unica che oggi ci verrebbe spontaneo di pronunciare. Anche nel contatto con i singoli fedeli la confessione si sarà svolta in dialetto, ma nell’insegnamento catechistico verosimilmente «l’apprendimento mnemonico delle battute avveniva in italiano, con effetto notevole sulla trasmissione della lingua». Insomma, in una società abitualmente immersa nel dialetto, nelle chiese circolava, oltre al latino della liturgia, l’italiano. Significativa in proposito una testimonianza del gesuita spagnolo Lorenzo Hervás, che visse in Italia, tranne brevi parentesi, dalla soppressione dell’ordine nel suo paese (1767) fino alla morte (1809). Appena arrivato a Bologna, Hervás fa un giro in città e si meraviglia con l’albergatore «della gran gente Svizzera, che vi aveva trovata in tutte le strade». Ma il locandiere «si accorse del mio sbaglio, e mi fece capire, che i Bolognesi parlavano un dialetto assai corrotto del Toscano, e che perciò io il credea svizzero». Fin qui, sembrerebbe dunque di trovarsi di fronte a una conferma della tesi tradizionale, secondo la quale si parlava solo dialetto (per giunta non in una campagna sperduta, ma in una grande città come Bologna). Ma Hervás aggiunge che «le prediche sacre, e gli ordini de’ Superiori si fanno in Toscano, che da tutti suol essere inteso». L’autenticità della prima impressione di straniamento avvalora anche la successiva indicazione: il toscano «suol da tutti essere inteso», ossia – diremmo oggi – la competenza passiva dell’italiano è generale. Occorre poi tener conto della ricezione della letteratura popolare. Per leggere, e per leggere anche testi espressamente destinati alle fasce socioculturali più basse come i Reali di Francia, occorre essere alfabeti,

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questo è chiaro: ma ha avuto importanza almeno fino all’Ottocento il fenomeno dell’“alfabetismo di gruppo”, «tramite la lettura ad alta voce, che permetteva anche a chi non sapeva leggere né scrivere di venire a contatto con testi a stampa di varia natura» (Colombo). Si è obiettato che un conto è capire alla bell’e meglio quel che qualcuno dice o legge in un idioma diverso dal nostro e altra cosa è esprimerci in quell’idioma: anche se non abbiamo studiato lo spagnolo, siamo in grado di afferrare quel che dice un ispanofono che parli lentamente, ma non per questo l’italiano e lo spagnolo sono la stessa lingua. Però, nel caso del rapporto italiano-dialetti conta la percezione, da parte dei parlanti, di agire all’interno di un sistema condiviso; una percezione che, per ragioni non linguistiche ma culturali, non scatterebbe e non è mai scattata con lo spagnolo, pur così affine all’italiano. Vediamo un esempio letterario, ma di grande verosimiglianza. In una commedia di Goldoni, Una delle ultime sere di Carnovale, i personaggi parlano veneziano e quando Anzoletto si lascia scappare un altresì è rimbeccato dalla siora Marta («Bello quel altresì; el scomenza a parlar forestier»); però, di fronte al francese di madama Gatteau, i venezianissimi personaggi che interloquiscono con lei le chiedono ripetutamente «de parlar italian» («Parlè italian, se volè che ve intenda» dice Zamaria). In sostanza: l’uso dell’italiano marca una distanza di registro, ma non impedisce la comunicazione, anzi l’etnico italian serve addirittura per indicare la lingua “normale” del dialogo. Oggi disponiamo di indagini che misurano la dinamica italiano-dialetto in Italia. L’ultima inchiesta dell’Istat (2012) fornisce in proposito dati assai istruttivi. Nelle tre rilevazioni precedenti (1995, 2000, 2006) la quota di coloro fra i 18 e i 74 anni che dichiaravano di parlare «solo

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o prevalentemente italiano» in famiglia, cioè in condizioni di massima rilassatezza e informalità, era più o meno stabile, oscillando intorno al 44% (il resto si divideva essenzialmente tra coloro che si esprimevano prevalentemente in dialetto, in progressiva flessione, e coloro che alternavano italiano e dialetto, in parallelo incremento). Nel 2012 si è avuta invece un’impennata nell’italofonia esclusiva: ora dichiara di parlare abitualmente l’italiano il 53,1% in famiglia e l’84,8% con estranei e la quota si innalza ulteriormente nella fascia più giovane, dai 18 ai 24 anni, con valori rispettivamente di 60,7% e di 90,9%. Le cifre sono significative, anche se rappresentano un’autovalutazione del campione sondato e non ci dicono nulla sulla qualità dell’italiano o del dialetto effettivamente adoperati nelle varie situazioni comunicative. Tuttavia una prima conclusione sembra indiscutibile: oggi l’italiano anche parlato è davvero una lingua condivisa, nei fatti e soprattutto nella percezione dei parlanti. Per il passato dobbiamo fondarci su testimonianze indirette, come quelle, appena addotte, relative alla Chiesa. Abbiamo però la possibilità di carotare il terreno archivistico, alla ricerca dei pochi testi scritti da semicolti che hanno avuto la ventura di arrivare fino a noi. Ci siamo già soffermati sul caso di Menocchio (pp. 112-113); aggiungiamo un’altra, altrettanto drammatica, testimonianza consimile. A differenza del mugnaio friulano non c’è nessun retroterra cólto nell’esperienza di una povera donna della Sabina, Bellezze Ursini, che subì un processo per stregoneria nel 1527-1528. Dobbiamo a Pietro Trifone la scoperta di un fascicoletto annesso agli atti del processo vergato da Bellezze in cui la donna si autoaccusa di terribili nefandezze, forse nella speranza di evitare il supplizio (ma prima della sentenza si darà la morte, tagliandosi la gola con

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un chiodo). Dove aveva imparato quel po’ di italiano, incerto e fortemente interferito dal dialetto locale, che emerge dalla sua Confessione? Non lo sappiamo: probabilmente l’incontro con la cultura scritta sarà avvenuto quando Bellezze, giovanissima ma già vedova con figli, aveva lavorato come domestica nel castello degli Orsini a Monterotondo, la cittadina oggi quasi lambita dall’estrema periferia di Roma, venendo a contatto, dunque, con persone più acculturate di lei. Esaminando questi e altri casi nel già ricordato L’italiano nascosto, Enrico Testa ha tracciato il profilo linguistico e antropologico di questa varietà d’italiano da lui definita, con un’immagine ricavata da un romanzo di Tommaso Landolfi, “italiano pidocchiale”. È una varietà il cui significato culturale non può essere sottovalutato: l’italiano pidocchiale dei secoli scorsi è stato, in quelle condizioni (precaria o assente scolarizzazione istituzionale, parziale italofonia, interessi castali dei ceti dirigenti), una conquista e una risorsa per chi lo usava: una realtà verbale che, indubbiamente improntata al fai-da-te linguistico, ha comunque tenuto viva, seppur nascosta, la possibilità di una lingua di comunicazione tra scriventi (e parlanti) delle stesse classi e di classi diverse.

7.2. Non solo tramonti e amori Qualche anno prima che uscisse la Storia linguistica di De Mauro, Emilio Peruzzi, glottologo nell’Università di Firenze (1924-2009), aveva scritto qualcosa di molto simile1:

1  Il giudizio di Peruzzi, del resto, è espressamente ricordato da De Mauro con quasi totale consenso in Storia linguistica cit., p. 30.

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noi abbiamo oggi un vocabolario nazionale per discutere dell’immortalità dell’anima, per esaltare il valor civile, per descrivere un tramonto, per sciogliere il lamento su un amore perduto, ma non abbiamo un vocabolario comunemente accettato e univoco per parlare delle mille piccole cose della vita di tutti i giorni quali sono [...] le stringhe delle scarpe.

Già: le stringhe delle scarpe. Ma nemmeno nel 2015, dopo oltre cinquant’anni (cinquant’anni di tumultuose trasformazioni demografiche e sociali), esiste un unico modo per designare questo oggetto così familiare. Le due forme più diffuse sono lacci (rafforzato dal collegamento col derivato allacciare le scarpe) e stringhe (rafforzato dal linguaggio della moda, in cui si parla di scarpe stringate, in opposizione ai mocassini) ma a Firenze, per esempio, si sentono anche aghetti e legacci, a Modena legacci e cordoni o il bizzarro córdoni. E se, dopo esserci messi le scarpe, apriamo l’armadio per indossare una delle giacche che sono lì appese, come possiamo chiamare l’apposito oggetto di forma triangolare, di legno o di plastica, con un gancio al vertice? Qui ogni città va per conto suo, tra grucce, ometti, stampelle, appendini, attaccapanni, crocette e via dicendo. Ne dovremmo dedurre che l’italiano non esiste nemmeno oggi, rinunciando a uno dei pochi fattori unificanti (insieme al cibo e allo sport) che sembra tenere insieme il nostro Paese? O non dobbiamo piuttosto pensare che i sinonimi territoriali (o geosinonimi, come si chiamano appunto le varie forme che concorrono nei vari luoghi per designare uno stesso referente) rappresentino una componente marginale, che oltretutto non ostacola davvero la comprensione, anche le rare volte che ci capiti di parlare di quelle cose fuori dalle mura domestiche? Puntiamo più in alto. Tra l’italiano umile e quotidiano e l’italiano dell’alta codificazione letteraria è esistita

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un’ampia area d’uso di un italiano scritto commerciale e diplomatico. Al punto che Francesco Bruni, al quale soprattutto va il merito di queste acquisizioni, ha potuto recentemente parlare di «un solido pregiudizio» in riferimento all’idea che i dialetti «abbiano dominato incontrastati nella comunicazione orale». Per almeno tre secoli, dal XVI al XVIII, l’italiano è stata una lingua usata nella diplomazia, in area mediterranea e nell’Europa orientale: non solo nei trattati che coinvolgessero Stati italiani e non solo nel plurilingue e plurinazionale impero austriaco. Varie sono le ragioni che spiegano questa diffusione (notevole, perché ancora una volta riguarda una “lingua senza impero”: cfr. p. 65): in primo luogo la vitalità del commercio tra le città marinaresche italiane e il mondo ottomano e l’intreccio tra diplomazia e compagnie commerciali («i mercanti considerano ambasciatori e consoli incaricati dei loro interessi in loco, ne influenzano la nomina e contribuiscono al loro mantenimento»: Minervini); ma anche la frequentazione di alcune università italiane (in particolare Padova) da parte dei giovani patrizi greci, con le conseguenti ricadute linguistiche una volta che questi erano ritornati in patria. Possiamo ricordare uno di questi trattati, quello di Küçük Kaynarca (1774; da identificare col centro bulgaro di Kajnardža, nel distretto di Silistra in Dobrugia, al confine con la Romania) che pone fine a uno dei tanti conflitti tra Russi e Turchi. Il testo ufficiale è in italiano, con una duplice traduzione in russo e in turco ottomano. I toponimi esotici danno il senso della distanza non solo geografica dall’Italia; la lingua viene scelta in quanto super partes, ma anche perché doveva essere relativamente nota ai contraenti (a differenza del latino, la lingua veicolare abituale nell’Europa centro-occiden-

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tale). È chiaro che qui il prestigio letterario non c’entra; c’entra, questo sì, l’esistenza di una codificazione scritta relativamente precoce, che ha favorito la circolazione dell’italiano indipendentemente dall’uso quotidiano da parte di una comunità di parlanti. Accanto alla diplomazia va ricordata la fitta presenza di documenti scritti in italiano nelle cancellerie dei consolati francese e britannico a Tunisi nel Seicento. Queste carte furono individuate e studiate dal linguista di origine maltese Joseph Cremona (1922-2003), che però non poté portare a termine le sue ricerche; all’opera ha provveduto recentemente Daniele Baglioni, trascrivendo e analizzando un più ampio corpus di testi e soffermandosi anche sulle diverse fasi della fortuna dell’italiano a Tunisi, che nel suo insieme è particolarmente notevole: su quasi 15.000 documenti stilati nell’arco di tempo considerato e conservati nei registri del consolato francese, sono in italiano il 61,2%. I testi presentano, come ci si aspetta, un forte grado di polimorfia: sull’italiano di base agiscono innesti dal francese e anche, meno prevedibili, dallo spagnolo; la lingua è autonoma rispetto al modello letterario bembiano, ma presenta riconoscibili tratti del toscano popolare. Baglioni avanza l’ipotesi che in questo quadro sia decisiva la presenza di ebrei livornesi: proprio alla fine del Cinquecento, Livorno era diventata meta d’immigrazione di ebrei provenienti dalla penisola iberica, attirati dall’illuminata legislazione del granduca Ferdinando I, che aveva permesso loro libertà di culto, di residenza e di commercio. Leggiamo un esempio del 1701, ben rappresentativo di questo “italiano d’oltremare”; si tratta del riscatto di uno schiavo italiano ad opera di due mercanti ebrei che poi sarebbero stati rimborsati, una volta che il liberato fosse ritornato in Italia:

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Prima lezione di storia della lingua italiana

L’anno del Sigre mille sette cento e uno a dì vinte tre del mese di maggio, avanti di noi cancelliere della natione francesa in questa cità e regno di Tunisi e delli testimonii infrascritti, è comparso in sua personna il chiamato Andrea Esperanza figlio di Michele, del luogho di Laoretto nella provincia di Salerno nel regno di Napoli, inante schiavo del chiamato agi Amouda Mendez turco andaluso, mercante barrettaro residente in questa cità. Il quale di sua grata e spontanea voluntà ha dichiarato e confessato di essere stato riscatato e liberato della schiavitù nella quale era qui trattenutto in potere del sudetto agi Amouda Mendez mediante la somma di pezze due cento e quaranta nove et aspri vinte, che li ssri Jacob e Rafael Lombroso et Abram de Benjamin Franco, mercanti hebrei residenti in questa detta cità, hanno veramente sborzata e pagata [...].

Note interpretative: Laoretto è l’attuale Laurito, in Cilento; agi è un arabismo, usato come titolo di riguardo per le persone anziane; barrettaro è una forma di origine settentrionale che indica ‘chi confeziona o vende copricapi’. Quanto alla compagine grafico-fonetica, si osservi la consueta incertezza nella rappresentazione delle consonanti doppie in cità e riscatato, con una forma ipercorretta (trattenutto), mentre personna sarà influenzato dal franc. personne; francesa è una forma metaplastica (cfr. p. 140); vinti ‘20’ è proprio di tutta l’Italia antica non toscana; in sborzata si ha un fenomeno di area centro-meridionale, il passaggio ad affricata di s preceduta da l, r o n (e oggi anche toscano, ma estraneo a Firenze città). Per il resto, si noterà lo stile tipico del linguaggio giuridico amministrativo e delle sue esigenze di precisione: il cancelliere dà conto che il riscattato si è presentato personalmente (in sua personna) e che il riscatto è stato effettivamente (veramente) pagato; ricorre a frequenti procedure per anticipare (infrascritti: catafora) o per richiamare (sudetto, detta cità: anafora)

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uno o più elementi del testo; usa dittologie sinonimiche o quasi sinonimiche per sottolineare un concetto rilevante (ha dichiarato e confessato; di sua grata e spontanea voluntà). Alessandro Manzoni avrebbe probabilmente sottoscritto la frase di Peruzzi che abbiamo citato poco sopra. Grandissimo scrittore, era convinto che, per potersi davvero dire una lingua «viva e vera», parlata realmente da una comunità di persone come avveniva in Francia, l’italiano doveva liberarsi della cultura letteraria e doveva immergersi nell’unica realtà locale che avesse i requisiti per essere promossa a lingua nazionale: il fiorentino vivo. Nel 1873, pochi mesi prima della morte del grande Lombardo, usciva il Proemio alla rivista «Archivio glottologico italiano», tuttora esistente, in cui il linguista Graziadio Isaia Ascoli (p. 7) eccepiva sul dirigismo della proposta manzoniana e rivendicava il peso degli intellettuali, e dunque della tradizione scritta, nel processo di costruzione di una lingua condivisa. Le posizioni di Manzoni e Ascoli hanno suscitato echi fino ad anni recenti: non è usuale che una disputa ottocentesca, per quanto tutt’altro che futile, possa essere avvertita come ancora attuale e che tra i militanti dell’una o dell’altra parte possano essere annoverati studiosi del calibro di Dionisotti (in favore di Ascoli) e Castellani (in favore di Manzoni). Ma, come si legge nel primo capitolo dei Promessi Sposi, «la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro». Da un lato, si deve riconoscere che avere inventato una lingua anti-letteraria, attenta a emarginare i vari arcaismi sopravvissuti inerzialmente nella pagina scritta e averlo fatto in un’opera destinata a restare a lungo come libro di lettura nelle scuole, è un merito

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Prima lezione di storia della lingua italiana

storicamente straordinario del Manzoni: il merito di avere ridotto la distanza tra lingua scritta e lingua parlata, le due troppo divaricate lame della forbice italiana. Le proposte operative contenute nella Relazione al ministro Broglio del 1868 (peraltro non applicate e in gran parte non applicabili) ci appaiono dirigistiche? Non c’è dubbio. Ma nel contesto di una nazione appena unificata era inevitabile che i manzoniani imponessero nella scuola un modello rigido (come era inevitabile – aggiungo, consapevole di non suscitare molti consensi – che lo Stato centrale agisse con spietata repressione nei confronti del brigantaggio). D’altro lato, è difficile restare insensibili alla lungimiranza e al respiro della proposta ascoliana, al suo individuare nella cultura alta, quella espressa dagli «operaj della intelligenza», il motore non solo linguistico di una società. I dati che siamo venuti esponendo in questo capitolo, e in generale in questo libro, vanno piuttosto nella sua direzione. Stilando un “certificato storico” dell’italiano dovremmo indicare come elemento caratteristico e decisivo proprio la scrittura: lo strumento che ha permesso di dare voce ad emarginati (l’italiano “pidocchiale”); ha rappresentato a lungo, filtrato dagli uomini di Chiesa, un modello unificante super-regionale; si è tradotto, con la grande letteratura trecentesca e soprattutto con la codificazione del Cinquecento, in un esempio precoce di lingua sufficientemente stabile e, grazie a questo, ha fatto sì che l’italiano fungesse, proprio nei secoli in cui la storiografia ottocentesca avrebbe lamentato la «decadenza» dell’Italia, da lingua diplomatica e cancelleresca in area mediterranea e balcanica.

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Integrazioni bibliografiche 7.1. La citazione da De Mauro è in Id., Storia linguistica cit., pp. 42-43; per la replica di Castellani cfr. Id., Nuovi saggi cit., pp. 117-138. La citazione da Librandi è nel suo saggio La lingua della Chiesa, in P. Trifone (a cura di), Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano, Roma, Carocci, 2009, pp. 159-188 (162). L’articolo di Bianconi (Fonti per lo studio della diffusione della norma nell’italiano non letterario tra fine ’500 e inizio ’600) è apparso in «Studi linguistici italiani», XVII (1991), pp. 39-54 (la citazione da p. 51). Il saggio di Pozzi si legge in Id., Grammatica e retorica dei santi, Milano, Vita e Pensiero, 1997 (le citazioni alle pp. 18 e 26). La testimonianza di Hervás si legge in L. Serianni, Viaggiatori, musicisti, poeti. Saggi di storia della lingua italiana, Milano, Garzanti, 2002, p. 73 (qui, a p. 80, anche le osservazioni su Goldoni). La citazione da Colombo è nel suo articolo Efferati omicidi e miracoli mariani nei fogli volanti dell’Italia unita. Prime osservazioni, in «Rendiconti dell’Istituto lombardo», 140 (2006), pp. 173198 (la citazione da p. 187). L’esempio di italiano e spagnolo, lingue diverse che non pregiudicano forme di comunicazione basica, si legge nel saggio di P. Trifone, L’italiano. Lingua e identità, che apre il vol. da lui curato, Lingua e identità cit., pp. 15-45 (il riferimento è a p. 34). Per Bellezze Ursini cfr. Trifone, Rinascimento dal basso cit., pp. 185-289 (la citazione da p. 193). La citazione da Testa è in Id., L’italiano nascosto cit., pp. 286-287. 7.2. La citazione da Peruzzi è tratta dal suo Una lingua per gli italiani, Torino, Eri, 1961, p. 15. Per i dati sui geosinonimi cfr. A. Nesi, T. Poggi Salani, La lingua delle città. LinCi. La banca dati, Firenze, Accademia della Crusca, 2013. Un’articolata indagine sulla presenza dell’italiano fuori della Penisola si deve a E. Banfi, Lingue d’Italia fuori d’Italia. Europa, Mediterraneo e Levante dal Medioevo all’età moderna, Bologna, Il Mulino, 2014. Le citazioni da Bruni sono in Id., L’italiano fuori d’Italia cit., pp. 163 e 164; quella da L. Minervini è in Ead., L’italiano nell’Impero Ottomano, in E. Banfi, G. Iannàccaro (a cura di), Lo spazio linguistico italiano e le “lingue esotiche”: rapporti e

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Prima lezione di storia della lingua italiana

reciproci influssi, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 49-66 (51). Il documento tunisino si legge in D. Baglioni, L’italiano delle cancellerie tunisine (1590-1703). Edizione e commento linguistico delle “Carte Cremona”, Roma, Scienze e Lettere, 2010, pp. 345-346; da qui sono state desunte le annotazioni sulla lingua (nella riproduzione del testo non si dà conto del confine di rigo). Per gli echi della polemica Ascoli-Manzoni basterà rinviare all’intervento di Castellani, da cui si può desumere la bibliografia precedente: cfr. Id., Nuovi saggi cit., pp. 139-162.

Indici

Indice dei nomi

Abriani, Paolo, 151. Afribo, Andrea, 22. Alberti, Leon Battista, 65-66, 87. Alberti, Lorenzo, 66. Albonico, Maria Cristina, 119. Albornoz, Egidio, 92. Alessandro VI (Rodrigo Borgia), papa, 64. Altieri Biagi, Maria Luisa, 88. Amaseo, Romolo, 67. Andrea da Grosseto, 41. Antonelli, Giuseppe, 22, 88, 119120, 152-153. Antonini, Anna, 153. Antonio de Nebrija, 65-66, 87. Apelle, 7. Aprile, Marcello, 50. Arbasino, Alberto, 130. Ariani, Marco, 88. Ariosto, Ludovico, 106, 141. Ascoli, Graziadio Isaia, 7, 167, 170. Asor Rosa, Alberto, 87-88. Aulo Gellio, 133. Baggio, Serenella, 47, 51. Baglioni, Daniele, 165, 170. Baldacci, Luigi, 101n. Baldelli, Ignazio, 10, 23, 85, 89. Banfi, Emanuele, 119, 169. Barbieri, Raffaello, 119. Bargagli, Scipione, 153.

Barros, João de, 64. Bartoli, Matteo, 17 e n. Basile, Bruno, 119. Battaglia, Salvatore, 96. Baudelaire, Charles, 139. Beccaria, Gian Luigi, 85, 89, 118. Bellarmino, Roberto, 74, 88. Bembo, Pietro, 12, 20, 67-68, 70, 109-110, 124, 144. Benedetto di maestro Bartolomeo, 142. Bernardino da Siena, santo, 83, 89, 142-143, 153. Bertinetto, Pier Marco, 85. Bertoletti, Nello, 44, 50. Bianconi, Sandro, 158, 169. Bizzocchi, Roberto, 86. Blasco Ferrer, Eduardo, 136. Boccaccio, Giovanni, vii, 6, 1213, 27, 74-75, 109, 121, 134. Boccalata de Bovi, 45. Bonghi, Ruggiero, 156. Bongi, Salvatore, 140. Borromeo, Carlo, 158. Borromeo, Federico, 158. Bozzola, Sergio, 22. Bragantini, Renzo, 119. Broglio, Emilio, 168. Bruni, Antonio, 104. Bruni, Francesco, 22, 50, 65, 8687, 112, 119, 164, 169.

­174 Bruno, Giordano, 74, 88, 113. Brunot, Ferdinand, 4, 11, 17, 18n. Bucchi, Gabriele, 95, 118. Buceta, Erasmo, 87. Buonaccorsi, Biagio, 144. Butturini, Mattia, 64. Caffarelli, Enzo, 86. Calmo, Andrea, 145. Campanella, Tommaso, 77, 88. Canello, Ugo Angelo, 8, 10, 23, 37. Capasso, Nicola, 64. Capovilla, Guido, 106-107, 119. Cardano, Gerolamo, 76. Carducci, Giosue, 32, 48, 106108, 119. Carlo V d’Asburgo, imperatore del Sacro romano impero, 14, 67. Carrai, Stefano, 88. Caruso, Enrico, 139. Casapullo, Rosa, 22. Castellani, Arrigo, 6, 49, 86, 92, 118, 128n, 137, 153, 157, 167, 169-170. Castellani Pollidori, Ornella, 86. Caterina da Siena, santa, 76. Cavalcanti, Guido, 103. Cecchini, Enzo, 50. Cella, Roberta, 22, 136. Cesare, Gaio Giulio, 27. Cesari, Antonio, 110n. Chaucer, Geoffrey, 6. Chiappelli, Fredi, 98, 99 e n, 118. Chiara d’Assisi, santa, 40. Chiesa, Paola, 115, 120. Chiummo, Carla, 120. Ciapponi, Lucia A., 88. Cicerone, Marco Tullio, 26, 34, 37, 61. Cipriano, Palmira, 49. Cohen, Marcel, 17, 18n. Cola di Rienzo, 14. Coletti, Vittorio, 22. Colombo, Michele, 22, 160, 169. Colonna, Francesco, 79, 88.

Indice dei nomi Colussi, Davide, 47-48, 51. Contini, Gianfranco, 132, 137, 150, 154. Copernico, Niccolò, 34. Cortelazzo, Manlio, 50, 135, 137. Corti, Maria, 98. Costa Gavras (Costantino Gavras), 55. Costantini , Claudio, 120. Costantini, Ottone, 114. Covino, Sandra, 21. Cremona, Joseph, 165. Croce, Benedetto, 48-49, 100. D’Achille, Paolo, 49, 144, 153. D’Acunti, Gianluca, 86. D’Agostino, Alfonso, 133, 137. d’Angelis, Antonella, 21. Daniele, Antonio, 23. Dante Alighieri, vii, 12, 16, 33, 38-39, 46-47, 63-64, 73-75, 96, 104, 108, 121-124, 126, 131132, 135-136, 150, 152, 155. Dardano, Maurizio, 88, 119, 129, 136-137. Dardi, Andrea, 147, 154. Davanzati, Bernardo, 71, 87. De Blasi, Nicola, 86. Deciani, Francesco, 110n. De Filippo, Edoardo, 31. Delcorno, Carlo, 89, 142-143. Della Casa, Giovanni, 70. Dell’Anna, Maria Vittoria, 45-46, 50. Della Porta, Giovan Battista, 78. Della Valle, Valeria, 118. De Luca, Giovan Battista, 41. De Mauro, Tullio, 23, 35, 49-50, 87, 111, 119, 156-157, 162 e n, 169. Devoto, Giacomo, 8, 10-11, 22, 40. Dionisotti, Carlo, 10, 23, 75, 77, 88, 167. Dondeynaz, Rosalba, 120. D’Onghia, Luca, 145, 153. Doni, Antonfrancesco, 99.

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Indice dei nomi Durante, Marcello, 19. Egerland, Verner, 131n. Emanuele Filiberto di Savoia, 67. Equicola, Mario, 77. Erasmo da Rotterdam, 67. Erizzo, Sebastiano, 109, 119. Estienne, Henri, 70-71. Eulalia, santa, 56. Fanfani, Massimo, 22-23. Fantino da San Friano, 133. Fattori, Giovanni, 117, 120. Fenzi, Enrico, 86. Feo, Michele, 74, 77, 88. Feola, Francesco, 15n. Ferdinando I, granduca di Toscana, 165. Ferrari, Lodovico, 76. Fiorelli, Piero, 9n. Foerster, Werner, 86. Folena, Gianfranco, 6, 47n, 23, 106, 147, 154. Folengo, Teofilo, 80. Fonzi, Rosa, 117, 120. Formisano, Luciano, 86. Francesco I, re di Francia, 67. Frosini, Giovanna, 95, 118. Gabriele, Mino, 88. Galilei, Galileo, 74. Genovesi, Antonio, 76. Gherardi, Giovanni, 100, 118. Gherardi, Pietro Ercole, 92. Ghinassi, Ghino, 10, 16-17, 23-24. Giacosa, Giuseppe, 139. Giamboni, Bono, 59. Gielmo del Dos, 45. Ginzburg, Carlo, 112, 120. Giovanni XXI (Pietro Ispano), papa, 93. Girolamo, santo, 53, 83. Giusti, Giuliana, 134n. Goldoni, Carlo, 31, 146-147, 160, 169.

García de Santa María, Gonzalo, 65. Giovanardi, Claudio, 89. Gozzano, Guido, 149, 151. Gozzi, Carlo, 110-111, 119. Gregori, Elisa, 22. Gregory, Tullio, 21. Grossi, Tommaso, 104 e n, 105, 119. Gualdo, Germano, 68, 87. Gualdo, Riccardo, 22, 87-88. Guidini, Cristofano, 76-77, 88. Guittone d’Arezzo, 96, 122. Hervás, Lorenzo, 159, 169. Hobbes, Thomas, 34. Hugo, Victor, 5. Iannàccaro, Gabriele, 169. Inglese, Giorgio, 23. Jacopo da Lèona, 39. Kissinger, Henry, 55. Koschwitz, Eduard, 86. Labiche, Eugène, 17 e n. Landolfi, Tommaso, 162. Lanza, Antonio, 94, 118. Lapesa, Rafael, 18 e n. Laporte, Domingo, 117. Larson, Pär, 124n. Latini, Brunetto, 38, 152. Laurino, Paulo, 91-92. Lazzerini, Lucia, 89. Leonardi, Lino, 118. Leone X (Giovanni dei Medici), papa, 68. Leopardi, Giacomo, 27, 103, 135. Librandi, Rita, 22, 141, 153, 158, 169. Lombardelli, Orazio, 59. Lombardi, Baldassarre, 150. Lo Piparo, Franco, 119. Loria, Arturo, 47-48. Lucio Cornelio Scipione, 25.

­176 Machiavelli, Niccolò, 12, 23, 125. Maffei, Scipione, 3. Magro, Fabio, 120. Mancini, Marco, 24. Manni, Paola, 22, 154. Manuzio, Aldo, 68, 79. Manzini, Gianna, 97. Manzoni, Alessandro, 32, 57, 106, 143n, 145, 155-156, 167168, 170. Maraschio, Nicoletta, 21, 85, 118-119, 154. Maratti, Faustina, 102. Marazzini, Claudio, 11, 21-22, 63, 85-86. Marcato, Carla, 86. Marcheschi, Daniela, 140, 153. Marcovecchio, Enrico, 54n. Marinelli, Giulia, 117. Martelli, Diego, 117. Matt, Luigi, 22. Meigret, Louis, 66. Menéndez Pidal, Ramón. 86. Mengaldo, Pier Vincenzo, 22, 106, 119. Menocchio, vedi Scandella, Domenico. Merlo, Clemente, 7. Metastasio, Pietro, 108, 148. Migliorini, Bruno, 6-11, 16-18, 22-23, 86, 88. Minervini, Laura, 164, 169. Mohrmann, Christine, 89. Montale, Eugenio, 47, 129. Monti, Vincenzo, 93. Montuori, Francesco, 86. Mortara Garavelli, Bice, 136. Motolese, Matteo, 22, 88, 119120, 153. Muzzarelli, Giovanni, 77, 88. Nava, Giuseppe, 119. Nencioni, Giovanni, 98, 137, 139, 146, 153-154. Nesi, Annalisa, 169.

Indice dei nomi Niccolò da Correggio, 103. Omero, 148. Orazio Flacco, Quinto, 15, 150. Ordelaffi, famiglia, 92. Orsini, famiglia, 162. Ottaviano, imperatore romano, 36. Ovidio Nasone, Publio, 37, 103. Paccagnella, Ivano, 22. Palermo, Massimo, 13, 23, 50, 120. Papa, Elena, 50, 86. Parini, Giuseppe, 104-105, 108, 119. Pascoli, Giovanni, 106, 108, 119. Pasqualigo, Alvise, 78. Passeroni, Gian Carlo, 148. Patota, Giuseppe, 49, 65-66, 87, 118. Pelle, Federico, 89. Peruzzi, Emilio, 162 e n, 167, 169. Petrarca, Francesco, vii, 46, 68, 74-75, 79, 103-104, 106, 123, 129, 136. Petrucci, Armando, 153. Petrucci, Livio, 55, 85. Pfister, Max, 40. Picchi, Eugenio, 119. Picchiorri, Emiliano, 96-97, 98n, 118, 137. Pinchera, Antonio, 102n. Piotti, Mario, 88. Pirandello, Luigi, 146. Plauto, Tito Maccio, 17 e n. Plinio il Vecchio, 7, 39. Poggi Salani, Teresa, 21, 118, 169. Pozzi, Giovanni, 79, 88, 158, 169. Pucci, Antonio, 122. Quaglino, Margherita, 118. Quevedo, Francisco, 77. Rabelais, François, 77. Raffaello Sanzio, 132.

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Indice dei nomi Rapisarda, Stefano, 88. Rebasti, Mario, 115. Redi, Francesco, 95, 118, 151. Renzi, Lorenzo, 43, 124n, 126, 127n, 129, 131n, 134n, 136. Renzi, Matteo, 124. Restoro d’Arezzo, 59. Riccio, Francesco, 141. Ricorda, Ricciarda, 110, 119. Rizzo, Silvia, 87. Rodelgrimo d’Aquino, 9. Rohlfs, Gerhard, 49. Romanini, Fabio, 119. Rossebastiano, Alda, 50, 86. Rossi, Luciano, 119, 152. Ruffino, Giovanni, 119. Rustico Filippi, 38. Ruzante (Angelo Beolco, detto), 145. Saba, Umberto, 129. Sabadino degli Arienti, 109, 119. Sacchetti, Franco, 109-110. Salimbene de Adam, 72-73, 84, 88. Sallustio Crispo, Gaio, 70. Salvi, Giampaolo, 124n, 126, 127n, 129, 131n, 134n, 136. Salviati, Leonardo, 69, 87. Salvini, Anton Maria, 125n, 136. Salvioni, Carlo, 7. Sanga, Glauco, 89. Sanguineti, Edoardo, 130. Santagata, Marco, 86. Santipolo, Matteo, 23. Saussure, Ferdinand de, 23, 87. Scalia, giuseppe, 88. Scandella, Domenico (detto Menocchio), 112-113, 161. Scarpa, Raffaella, 118. Scavuzzo, Carmelo, 145, 153. Schiaffini, Alfredo, 6. Schweickard, Wolfgang, 40. Scoppa, Lucio Giovanni, 63. Scroffa, Camillo, 88.

Sègneri, Paolo, 158. Sercambi, Giovanni, 109, 119. Serianni, Luca, 8n, 12n, 21-22, 49, 85-89, 118, 136, 152-153, 169. Sestito, Francesco, 87. Sforza, famiglia, 82. Simintendi, Arrigo, 38. Simone, Raffaele, 136. Soldani, Arnaldo, 22. Soletti, Elisabetta, 85. Sornicola, Rosanna, 130, 137. Stäuble, Antonio, 78-79, 88. Stoppelli, Pasquale, 119. Stürzinger, Jacob von, 86. Stussi, Alfredo, 6, 10, 21, 42-43, 50. Tacito, Publio Cornelio, 70. Targioni Tozzetti, Giovanni, 15, 24. Tartaglia, Niccolò, 76, 88. Tasso, Torquato, 100, 104, 151. Taverna, Giuseppe, 110n. Tavoni, Mirko, 86-88. Telve, Stefano, 144, 153. Terracini, Benvenuto, 98. Terracini, Lore, 87. Tesi, Riccardo, 16 e n, 18-20, 22, 24, 40 e n. Testa, Enrico, 112-113, 120, 162, 169. Thorndike, Lynn, 89. Tomasin, Lorenzo, 22, 44, 50, 88, 119-120, 137, 153. Toppino, Lucia, 21. Tranchedini, Nicodemo, 82, 89. Trifone, Pietro, 12n, 14, 22-23, 79, 85-86, 88-89, 147, 154, 161, 169. Trovato, Paolo, 91, 118. Uguccione da Pisa, 41. Ungaretti, Giuseppe, 129. Ursini, Bellezze, 161-162, 169. Valeriano da Soncino, 83.

­178 Valla, Lorenzo, 65-66, 72, 87. Varvaro, Alberto, 3, 21, 90. Vasari, Giorgio, 57. Vega, Garcilaso de la, 65, 69. Viale, Matteo, 23 Viciana, Martín de, 64. Vigenère, Blaise de, 70. Villani, Giovanni, 13. Vincent, Nigel, 129, 137. Virgilio, Giulia, 24.

Indice dei nomi Virgilio Marone, Publio, 26, 148. Vitale, Maurizio, 6, 46, 51. Vives, Juan Luis, 67. Zanella, Giacomo, 101-102, 118. Zanuttini, Raffaella, 131n. Zappi, Giambattista Felice, 102103, 118. Zarra, Giuseppe, 93, 118. Zolli, Paolo, 50, 135, 137.

Indice delle cose notevoli

-accio, 141. aferesi, 29, 42. affricate in area settentrionale, avanzamento delle, 58, 109. affricazione di s dopo l, r, n, 166. aggettivi anteposti nella poesia di Gozzano, 150. aia/area, 39. Aldobrandesca (antroponimo), 62. alfabeti delle lingue romanze, 5455. alfabetismo, 12, 21, 112, 156-157. allocutivi, uso degli, 149. allocutività in san Bernardino, tasso di, 143. allotropi, 37-40, 70. alterati scherzosi, 115. anafonesi, 31, 142. analogia della vocale aperta del dittongo ie nella pronuncia di pieve, 39. anatomici, termini a. nelle lingue neolatine, 53-54. anca/franc. hanche/spagn. cadera, 54. andare/aller, 30. andiamo con valore esortativo, 148. antonimi, 91n, 116. antroponimia, vedi onomastica. apocope, 29, 42, 151. aposiopesi, 150.

apostrofo, introduzione dell’, 124. ar/er in posizione interna, 32, 109. arà ‘avrà’, 13. arabismi nell’italiano delle cancellerie tunisine, 166. arabo, influsso, 15. arcaismi, 110 (nelle novelle di Carlo Gozzi), 131-132 (sopravvissuti nel registro scherzoso). -ario nella lingua giuridica, 46. -aro/-aio, 32. articolo el, 13 (nel fiorentino posttrecentesco), 142 (nel volgare senese di san Bernardino). asseverative, formule, 149-150. assimilazione, 42, 128. asterisco, suo uso in linguistica, viii. augello, 132. autografo, sua importanza nella ricostruzione linguistica, 46-47. averne abbastanza, 147. basta così, 148. battere/picchiare, 134. beccaccio, 141. Beldie (antroponimo), 62. Bembo, modello arcaizzante del, 109, 110, 144. Bencivieni (antroponimo), 61. Benvenuta (antroponimo), 62.

­180 Berta (antroponimo), 62. biscia (bestia), 34. bolognese, dialetto, 159; bolognesismi in Sabadino degli Arienti, 109. Bonagiunta (antroponimo), 61. bulgaro, confronti tra italiano e (pedant), 78. cancellerie tunisine, uso dell’italiano nelle (XVII sec.), 165-167. cangiare, 49n. carta ‘strumento notarile’, 128. casaro, 32. castigliano, vedi spagnolo. ceco, confronti tra italiano e (ekzém), 53. cerchio/circulo, circolo, 38. chat, vedi elettronica. che in funzione di complemento indiretto, 122. Chiara/Clara, 39-40. chiaro e tondo, 147. Chiesa, 19, 20 (suo influsso nell’evoluzione linguistica), 82-85 (latino e volgare nella predicazione), 158-159 (sua azione indiretta nella promozione dell’italiano). Chioggia/Claudia, 39. chiudere un occhio, 147. classicheggianti, echi c. nella poesia di Gozzano, 150. clavicola/franc. clavicule/spagn. clavícola, 54. clitici, 126 (ordine dei), 131 (omissione dei c. nelle frasi congiunte, in italiano antico). colto ‘campo coltivato’, 128. commento di un testo letterario, 100-101. competenza passiva dell’italiano, 157-160. conativa, funzione, 142. condizionale, 30 (genesi del c. ro-

Indice delle cose notevoli manzo), 126 (avrebbero/avrebbono). congiuntivo, 13, 121 (analogico: faccino, vadi), 126 (fossero/fossono). consonantismo, 42; vedi anche affricazione; m finale; rj; s finale; -z-/-s-. consulte fiorentine del Cinquecento, 144. convenire ‘essere inevitabile’, 135136. correctio, 116. così e così (modo fraseologico), 111. costì, 114. cosù (eccum sursum), 94-95. credenza, 135. cristianesimo, 5, 72 (suo influsso sull’evoluzione linguistica), 141143 (caratteri linguistici di testi d’àmbito religioso: scritture mistiche femminili, prediche); vedi anche Chiesa. cui/a cui, 122. cultismi, vedi latinismi. cultural studies, 98. da un momento all’altro, 147. Dante, idee linguistiche di, 63-64, 75, 96. Davanzati, gara di traduzione tra Bernardo D. e Henri Estienne, 70-71. declinazioni, perdita delle d. nel passaggio dal latino alle lingue romanze, 5, 11. deflettore, 14. deissi, deittici, 143-144. deltoide/franc. deltoïde/spagn. deltoides, 54. demografiche, interesse linguistico delle vicende, 12, 13-14, 112. denaro/danaio, 32. desco/disco, 38.

Indice delle cose notevoli descriptio mulieris, 78-79, 88. determinante/determinato, 27. detrarre ‘calunniare’, 143. devo/debbo, 121. dialetto, uso o mancato uso del, 21, 48, 116, 155-162. dialettofoni, vedi italofoni. dialettologia italiana, 7-8 (linee di ricerca della), 31, 32 (singoli esiti dialettali); vedi anche bolognese; lucchesismi; perugino; senese; veneziano. dialogo, 109 (depresso nelle novelle di Sebastiano Erizzo), 111 (rappresentato con una certa sensibilità nel Gozzi), 146-147 (nella commedia). didascalie nel teatro di Pirandello, 146. diplomazia, uso dell’italiano nella (secoli XVI-XVIII), 164-165. dire/parlare, 134. discorsive, formule, 144. discorso interrotto, riproduzione letteraria del, 150-151. discrezione dell’articolo, 94. dislocazione a sinistra, 145. dissimilazione, 42. dito (del piede)/franc. orteil/spagn. dedo (del pie), 54. dittongamento toscano, 30-31. dollaro, 32. domandare con l’oggetto della persona, 134. donna Bisodia, 85. donzella, 132. dotta, componente; dotte, parole, vedi latinismi. duomo (domus ‘casa’), 34. e protonica, conservazione o chiusura della, 31-32, 109. e, timbro originariamente aperto della congiunzione, vedi pronuncia.

181 economiche e amministrative, interesse linguistico delle vicende, 12. edizione critica, 90. ei ‘egli’, 106. elettronica, scrittura, 21, vedi anche telematica. e-mail, vedi elettronica. enclisi iniziale nella lingua giuridica, 45. epentesi, 42. epigrafia latina, statuto accademico dell’, 3. epistolari, importanza linguistica degli, 113-117. epitesi, 42, 142. -ereccio/-areccio, 32. -erello/-arello, 32. escire, 49n. esercito/oste, 60-61, 92. essere alle solite, 147. esterna, storia linguistica, 12-15. facestù (nelle interrogative), 111. facile/agevole, 60-61. fàtica, funzione, 142, 152. fedire/ferire, 60-61. fegato/franc. foie/spagn. hígado, 54. fellone, 132. femina/femmina, 134. femminile, 62 (onomastica), 75 (destinatario f. per la poesia d’amore e per le novelle), 113 (epistolografia). fenomeni generali, 42. fidenziana, poesia, 78-79. filologia romanza, statuto accademico della, 5. filologia, correlazione tra storia della lingua e f., 6, 90-98. flessive, lingue, 26. foderatura, 111. fonetica (e fonologia), 11, 14, 16, 35, 124-125; vedi anche aferesi;

­182 apocope; consonantismo; sincope; vocalismo. fonosintassi (fonetica sintattica), 31-32. fontanella (nei neonati)/franc. fontanelle/spagn. fontanela, 54. forese/contadino, 15. formazione delle parole, 48, 95; vedi anche alterati; suffissi. francese, confronti tra italiano e f., 4-5 (statuto accademico delle rispettive storie della lingua), 33-34 (passer, biche, homme, lundi, mardi), 39 (Claire), 52-53 (frasi idiomatiche; eczéma), 60 (superlativo in -issime), 61-62 (antroponimia), 69 (grafia), 77 (pédant), 125 (diverso dinamismo nell’evoluzione fonologica), 130 (diverso influsso del latino sulla sintassi francese e italiana), 135 (garçon), 166 (francesismi nell’italiano a Tunisi). frase scissa, 26. fraseologiche, espressioni (fraseologici, connettivi), 147-149. furetto, etimologia di, 140. furo ‘ladro’, 140. futuro con -rr- non etimologica, 13; vedi anche arà. futuro organico latino, perdita del, 30. garzone ‘ragazzo’, 134-135. gender studies, 98. generativa, linguistica, 42. geosinonimi, 162-163. germaniche, contatti linguistici con le popolazioni, 5. ghiado (gladius), 110. ginocchio/franc. genou/spagn. rodilla, 54. giochi linguistici come indizio di padronanza espressiva, 114. giuridico, linguaggio, 41 (termini

Indice delle cose notevoli di tarda attestazione in italiano), 44 (nel perugino antico), 45-46 (lingua delle sentenze), 166-167 (nelle cancellerie tunisine). giusto/sbagliato, confine, 122-123. glossari, 81-82. Goldoni, coscienza linguistica di, 147. Gozzano, meccanismi dell’oralità nella lirica di, 149. grafia, 12-13, 42, 45, 68-70, 123124, 128; vedi anche apostrofo; h; intensità consonantica; k; l palatale; nasale palatale; paragrafematici; sc; ti; univerbazione; u/v; z. grammaticale, 12, 20 66-67 (codificazione g. in Italia, Francia, Spagna), 64 (lingua, secondo Dante). grammaticali, parole, 35. grecismi del lessico specialistico e genericamente cólto, 15-16, 36-37. grucce (per gli abiti), parole per, 163. guancia/franc. joue/spagn. mejilla, 54. h latina, 58 (pronuncia scolastica dell’), 68 (mantenuta dal Bembo), 69 (quasi eliminata nel Vocabolario della Crusca). hapax nel Polifilo, 80. i da e finale nel perugino antico, 44. ibridismo linguistico in Guittone d’Arezzo, 96. idiomatiche e proverbiali, frasi, 52-53, 114, 134. imperativo, 109 (etimologico in -e: mette); 142-143 (negativo, composto con volere).

Indice delle cose notevoli imperfetto indicativo, 126 (avea/ aveva), 145 (con valore irreale). impressionismo stilistico nella critica letteraria, 98-100. ine ‘ivi’ (senese), 142. inglese, confronti tra italiano e i., 6 (statuto accademico delle rispettive storie della lingua), 8 (attenzione agli anglicismi da parte di Canello), 53 (frasi idiomatiche; eczema), 54 (termini anatomici), 62 (antroponimia), 78 (pedant). insir ‘uscire’ (veneto), 91. intensità consonantica, mancata rappresentazione grafica della, 128, 134, 166. interiezioni, 150. interna, storia linguistica, 11, 15. intertestualità, 101-105. iperbati, vedi tmesi. ipercorrette, forme, 166. -issimo, superlativo in, 59-60, 122. Italia, storia del nome, 36. italiano all’estero, uso dell’, vedi cancellerie; diplomazia. italiano contemporaneo, studio dell’, 8, 10. italiano parlato nel passato, sua esistenza, 155-162. italiano/dialetto nell’Italia di oggi, uso di, 160-161. italofoni, 156-158 (loro numero all’epoca dell’Unità), 160-161 (nell’Italia contemporanea). k nella grafia italiana, latina, francese e spagnola, 55-57, 123, 128. l palatale nei testi duecenteschi, rappresentazioni grafiche di, 123-124, 128. latinismi, 8, 13 (periculo), 33-41 (distinzione tra parole popolari e dotte), 49-50 (riferimenti

183 bibliografici), 52-54 (lessico dotto nelle lingue europee), 56 (influssi del latino nella grafia italiana), 59-60 (superlativo in -issimo), 70 (evitati dai traduttori di classici nel XVI secolo), 71 (nella lingua giuridica e amministrativa), 130 (influssi latineggianti nell’ordine delle parole, nell’italiano antico). latino, 62-63 (nell’insegnamento della scrittura nel Cinquecento; percezione del l. come lingua artificiale nel Medioevo), 6465 (vicinanza al l. delle lingue romanze), 67 (declino del l. come lingua veicolare colta nel Cinquecento), 68-69 (influssi grafici del l. nelle lingue romanze), 72 (eterogeneità linguistica del l. presente nei manuali medievali), 74-75 (l. e volgare nella percezione del Petrarca), 76 (nella scienza del Cinquecento), 76-77 (traduzioni in latino di opere scritte in volgare), 7779 (satire contro il latino in Italia, Francia, Spagna), 81 (nella divulgazione enciclopedica medievale), 81-82 (nei glossari del XV secolo), 131 (neologismi latini coniati nel XX secolo), 107 (fonetici, in Carducci), 114 (parodiato in una lettera privata del primo Novecento). latino medievale, 37 (pronuncia del), 72-73 (sua distanza dal l. classico). latino volgare, 25-26. le ‘gli’ (nell’italiano popolare settentrionale), 115. lectio difficilior, 95. lessico, 14-16 (dinamiche evolutive del), 33 (lessico fondamentale), 42, 47-49 (parte dello

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Indice delle cose notevoli

spoglio linguistico), 72-73 (innovazioni nel l. latino medievale), 80 (ipertrofia lessicale nel Polifilo), 131-136 (differenze lessicali tra italiano antico e moderno). letterari, modelli, 12. letteratura, 98-111 (rapporti della storia della lingua con la storia della), 145-152 (riproduzione del parlato). leva militare, 21. “lingua senza impero”, 65, 164. lingue straniere, vedi straniere. linguistica generale, disinteresse di Migliorini per la, 7. linguistica storica, importanza della, 4. localizzazione di un testo antico, problemi di, 44-45. lucchesismi nella prosa di Giovanni Sercambi, 109. lui e lei ‘a lui, a lei’, 122.

microsintassi, vedi clitici; negazione. militari, interesse linguistico delle vicende, 12. milza/franc. rate/spagn. bazo, 54. minscipitissimi (Restoro d’Arezzo), 59. miocardio/franc. myocarde/spagn. miocardio, 54. mistiche, scritture femminili, 141. moglie (mulier), 29. molto anteposto all’insieme aggettivo + sostantivo, 134. morfologia, 11, 16, 42, 125-126; vedi anche aggettivi; articolo; metaplasmo; nomi; passivo; plurale; possessivo; preposizioni articolate; pronomi personali; pronomi relativi; superlativo; verbi. morfologia lessicale, vedi formazione delle parole. mozzarella, 32.

m finale nel latino arcaico, caduta di, 25. mangiacassette, 14. mangianastri, 14. Maria (antroponimo), 62. marinara, pizza alla, 32. mass media, vedi mezzi di comunicazione di massa. matematica, terminologia, 15. memoria interna di uno scrittore, vedi intertestualità. messere/signore, 15. metafore pittoriche nelle lettere di Fattori, 117. metaplasmo, metaplastico, 140, 166. metonimia, 92. metrico-ritmiche, scelte, in Zanella, 102. mezzi di comunicazione di massa, 12.

nasale palatale in italiano, spagnolo, portoghese, rappresentazione della, 54-55. nascita della lingua italiana, 16-17. né, timbro originariamente aperto della congiunzione, vedi pronuncia. neerlandese, confronti tra italiano e, 53 (eczeem). negazione, doppia (nell’italiano antico), 130. neogreco, confronti tra italiano e, 37. neologismi, 48 (scarsi, nella prosa di Loria), 131 (latini coniati nel XX secolo). noi si fa ‘facciamo’, 114. nomero ‘numero’, 43. nomi, reliquie del nominativo latino nei, 29-30. non fa niente, 147.

Indice delle cose notevoli non letterarie, scritture, 45, 112116. non poter soffrire, 147-148. norma linguistica, vedi giusto/sbagliato. novella, lingua della, 108-111. novero (numerus), 36. o/u postoniche, 49n. o, timbro originariamente aperto della congiunzione, vedi pronuncia. olire/profumare, 15. oltraggio, interesse linguistico delle antiche denunce per, 140-141. onomastica, 10 (formazione di nomi comuni da originari nomi propri), 39-40 (fortuna di Claudia e Clara), 43 (Bolgaro come antroponimo), 61-62 (sistema onomastico latino; antroponimia italiana medievale e moderna). onomatopea in san Bernardino, 143. ordine delle parole in latino e italiano, 26-27, 73, 126-130; vedi anche SVO. ortografico, precario possesso o. in uno scrivente non istruito, 116. paleografia nell’edizione critica, importanza della, 92-93. paninaro, 32. paragrafematici, segni, 124. paraletterari, modelli, 12. parlamentari, resoconti, 144. parlato, 138-139 (caratteristiche del), 139-145 (possibilità di ricostruirlo attraverso i testi del passato). parlato italiano, frequenze lessicali nell’, 35-36. parole-fantasma, 93-94. parte ‘parte in causa’ nel Placito di Capua, 9.

185 passato remoto (udì/udio; seste persone in -aro/-arono ecc.), 126. Passeroni, Gian Carlo, meccanismi dell’oralità nella poesia narrativa di, 148. passivo, 5 (sviluppo del p. analitico nelle lingue romanze), 30 (perdita del p. organico latino). pedante, 77-78. pennarello, 32. pensare (pensare ‘soppesare’), 3536. periodizzazione, problemi di, 16-21. perugino trecentesco, 44. “pidocchiale”, italiano, 162. pieve/plebe, 38-39. Placito di Capua (o Placito campano; anche plur.), 5, 9, 17, 56, 140, 145. plurale, 12, 125 (in -e: le parte), 125126 (femminile in -a: le ossa). plurilinguismo, 19, 20 (medievale), 48 (mancato p. nella prosa di Arturo Loria). poetica, lingua, 27, 32, 71, 100101 (arcaismi e latinismi), 127 (sua sospetta attendibilità linguistica), 129 (ordo artificialis nella poesia antica e moderna). poids (franc.; pensum), 71, 87. polacco, confronti tra italiano e, 53 (egzema). polifilesco, 79-80. polimorfia dell’italiano cancelleresco a Tunisi, 165-166. politico, 12 (interesse linguistico delle vicende politiche), 65-66 (rapporti tra lingua e potere), 143-144 (testi di àmbito). polpaccio/franc. mollet/spagn. pantorrilla, 54. pontificia, introduzione dell’italiano nella segreteria, 67-68. popolare, influsso della letteratu-

­186 ra p. nella promozione dell’italiano, 159-160. popolari, scriventi, vedi non letterarie, scritture. portoghese, confronti tra italiano e, 34 (segunda feira, têrça feira), 55 (digramma nh), 77 (pedante). poscia, 132. posposizione del pronome nelle interrogative, 111n. possessivo plurale sua nel fiorentino post-trecentesco, 13. pragmalinguistica, 42. pratici, testi, 6-7. predicazione, vedi Chiesa. prediche di san Bernardino, caratteri linguistici delle, 142-143. prendere la mano, 147. preposizioni articolate scisse in Carducci, 107-108. pria, 132. pronomi personali, 29 (reliquie del nominativo latino nei); vedi anche clitici; ei; ella; le ‘gli’; lui. pronomi relativi, vedi che; cui. pronuncia con vocale aperta di e, né, o, 125. prosa media, 129. prostesi, 42. proverbiali, frasi, vedi idiomatiche. punto con valore espletivo della negazione, 114. quantità, perdita della q. nel vocalismo latino, 11, 28. quarta persona in -iamo/-amo, -emo, -imo, 33. radio, influsso linguistico della, 21, 155. ragionare/discutere, 134. re (rex), 30. religioso, linguaggio, vedi Chiesa; cristianesimo.

Indice delle cose notevoli ricordare nella lirica, parole per, 103-104. ridondanza del discorso orale, 148. rilatinizzazione, 60, 62. rima, sua importanza nella ricostruzione linguistica, 47. ripetizione, evitamento di una, 100, 106-107. rizoatone, influsso delle vocali r. sulle rizotoniche, 31. rj in posizione intervocalica, 32. romeno, confronti tra italiano e, 34 (bǎrbat, om, luni, marți), 53 (frasi idiomatiche; exemǎ), 60 (superlativo in -isim). rotula/franc. rotule/spagn. rótula, 54. russo, confronti linguistici col (Sergej/Sergio), 61. s finale latina in francese e spagnolo, mantenimento della, 28-29. saluto, formule di, 149. sarto/sartore, 29-30. sartorio/ingl. sartorius/franc. couturier/ted. Schneidermuskel, 54. sc intervocalico per riprodurre la fricativa palatale toscana, 133. scempie/doppie, vedi intensità. schiena/franc. dos/spagn. espalda, 54. scientifici, formazione dei linguaggi s. nel Sei-Settecento, 19, 20. scolarizzazione, 12, 21. scrittura nello sviluppo della lingua italiana, importanza della, 168. selfie, 14. semicolti, vedi non letterarie, scritture. semidotti, esiti, 38. senese, volgare, 142-143. serbo-croato, confronti tra italiano e (pedant), 78.

Indice delle cose notevoli sermoni mescidati, 83-84, 89. significante e significato, modifiche di (nella poesia che riproduce alterazioni fisiche), 151-152. sincope, 29, 42, 43. sinistra, costruzione a, 27. sinonimi territoriali, vedi geosinonimi. sintassi, 11, 16, 42; vedi anche enclisi. sms, vedi elettronica. soda, terra ‘incolto’, 128. soggetto-verbo-oggetto, vedi SVO. somaro, 32. Soperchia (antroponimo), 61. sovente/spesso, 134. sozzopra ‘sottosopra’, 111. spagnolo, confronti tra italiano e s., 5 (statuto accademico delle rispettive storie della lingua), 33-34 (pasar, trabajar, llegar, hombre, lunes, martes), 35 (propio), 52-53 (frasi idiomatiche; eccema), 54 (termini anatomici), 55 (ñ), 60 (superlativo in -ísimo), 61-62 (antroponimia), 69 (grafia), 77 (pedante), 125 (diverso ritmo nell’evoluzione fonologica). speme, 132. stile commatico nelle sentenze, 46. stilnovistica, lingua poetica, 6364. storia, sua importanza in àmbito storico-linguistico, 111-117. straniere, lingue, vedi bulgaro; ceco; francese; neerlandese; neogreco; polacco; portoghese; romeno; russo; serbo-croato; spagnolo; svedese; tedesco; ungherese. stringhe (delle scarpe), parole per, 163. suave/soave, 70.

187 suffissi, vedi -accio; -ario; -aro; -ereccio; -erello; -ulo. superlativo assoluto, 122. svedese, confronti tra italiano e, 53 (frasi idiomatiche; eksem). SVO, ordine, 11, 145. tablet, 14. teatrale, parlato, 145-148. tedesco, confronti tra italiano e, 39 (Klara), 53 (frasi idiomatiche), 54 (Schneidermuskel), 62 (antroponimia), 78 (Pedant), 5-6 (statuto accademico delle rispettive storie della lingua). telematica, scrittura, 152. teleologismo, rischi di, 17 (nella Storia di Migliorini), 105-106 (nella critica variantistica). televisione, influsso linguistico della, 155. ternefini ‘confini’, 128, 131. testuale, linguistica, 42. testuali, guasti (corruttele), 91-95. ti (spatio ecc.) mantenuto dal Bembo, 68. tmesi, 150. Tomaso (lat. medievale Thomasius), 128. topologia, vedi ordine delle parole. toscanismi veicolati dall’insegnamento scolastico, 114. trascrizione, tecniche e modalità di, 6-7, 123 (testi medievali), 115 (lettere di soldati), 120 (lettere di Giovanni Fattori), 139 (testi orali), 139-145 (parlato trascritto). travagliare (*tripaliare), 33. tribunali piemontesi, introduzione dell’italiano nei, 67. truismi, 149. u/v, 69 (nel Vocabolario della Cru-

­188 sca), 124 (mancata distinzione nei testi medievali). -ulo, diminutivi in, 79. una volta o l’altra, 147. unda/onda, 70. ungherese, confronti tra italiano e, 37 (irodalom), 53 (frasi idiomatiche; ekcéma), 78 (pedáns). univerbazione tra parole grammaticali e parole piene, 124. universitarie, introduzione dell’italiano nelle lezioni, 76. uomo (homo), 29. uretra/franc. urètre/spagn. uretra, 54. usucapione, principio dell’u. nel Placito di Capua, 9. varianti, 49 (importanza delle v. nello spoglio linguistico), 95 (nel Bacco in Toscana del Redi), 105-108 (in Carducci e Pascoli). variatio, vedi ripetizione. veggo (veggio)/veggente, 134. velare sorda, rappresentazione della, vedi k.

Indice delle cose notevoli veneziano, dialetto, 160. verbale, sistema (latino), 30. verbalizzazione, procedure linguistiche nei processi di, 144. verbi, vedi condizionale; congiuntivo; futuro; imperativo; imperfetto; passato remoto; quarta persona; verbale. vezzo/vizio, 38. vi ha ‘c’è’, 49n. vinti ‘20’, 166. Vocabolario della Crusca, 59, 6869 (grafie fissate dal), 93 (scarso discernimento nel vagliare i lemmi). vocalismo, 42; vedi anche anafonesi; ar/er; dittongamento; e protonica; i da e; o/u; quantità. volgarismi, 72-73 (in Salimbene de Adam), 84 (in Valeriano da Soncino). -z-/-s-, 93 (nel pisano medievale), 109 (nel lucchese). z, 57-58 (alternanza in specie/spezie ecc.), 58-59, 124 (pronuncia tenue e intensa di).

Indice del volume

Premessa 1. Le fondamenta

vii

3

1.1. Temi, libri, persone, p. 3 - 1.2. Storia linguistica interna ed esterna, p. 11 - Integrazioni bibliografiche, p. 21

2. Dal latino all’italiano

25

2.1. La grammatica storica, p. 25 - 2.2. Parole popolari e parole dotte, p. 33 - 2.3. Lo spoglio linguistico, p. 41 - Integrazioni bibliografiche, p. 49

3. Il latino nella storia dell’italiano

52

3.1. Dall’alfabeto ai nomi di persona, p. 52 - 3.2. Latino e volgare tra solidarietà e conflitto, p. 62 - 3.3. Uno strumento con molte ottave, p. 71 - Integrazioni bibliografiche, p. 85

4. Filologia, letteratura, storia

90

4.1. Il testo e il senso, p. 90 - 4.2. Storia della lingua e letteratura, p. 98 - 4.3. Storia della lingua o storia «tout court»?, p. 111 - Integrazioni bibliografiche, p. 118

5. Italiano antico e italiano moderno

121

5.1. Una o due lingue?, p. 121 - 5.2. Il lessico, p. 131 - Integrazioni bibliografiche, p. 136

6. Scritto e parlato 6.1. Una realtà parzialmente inattingibile, p. 138 - 6.2. Il parlato nella letteratura, p. 145 - Integrazioni bibliografiche, p. 152

138

­190

Indice del volume

7. Un certificato storico per l’italiano

155

7.1. Da quando esiste l’italiano parlato?, p. 155 - 7.2. Non solo tramonti e amori, p. 162 - Integrazioni bibliografiche, p. 169



Indice dei nomi

173



Indice delle cose notevoli

179