Prima la musica, poi le parole. Autobiografia 8817053600, 9788817053600

“Arrivai da solo, scesi dal treno e pensai immediatamente al colbacco di Totò e De Filippo nel film 'Totò, Peppino

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Italian Pages 265 [311] Year 2012

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Prima la musica, poi le parole. Autobiografia
 8817053600, 9788817053600

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RICCARDO

MUTI Prima

LA MUSICA, poi

LE PAROLE Autobiografia A cura di Marco Grondona

Proprietà letteraria riservata © 2010 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-17-05360-0 Crediti fotografici INSERTO I pp. 7,10,12: © Graziella Vigo INSERTO n p. 6: ©Jean E. Brubaker p. 7 (in basso): © Lelli e Masotti p. 8 (in alto), p. 15: © Steve J. Sherman p. 14: © Dalmazio Besagni p. 32: © Todd Rosenberg Photography Per le altre immagini degli inserti fotografici: © Silvia Lelli by courtesy of www.riccardomuti.com

Prima edizione Rizzoli 2010 Prima edizione BUR novembre 2012

Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu

Prima la musica, poi le parole

E come giga e arpa, in tempra tesa di molte corde, fa dolce tintinno a tal da cui la nota non è intesa, così da lumi che lì m’apparinno s’accogliea per la croce una melode che mi rapiva, sanza intender l’inno.

Dante Alighieri, Paradiso, XIV 118-123

Nota dell’Autore

Ho scelto per il titolo quello celeberrimo di Gio­ vanni Battista Casti: chi mi conosce pensa forse di cogliermi in contraddizione, e chi leggerà questo li­ bro qualche pagina avanti — a proposito del Così fan tutte salisburghese — vedrà come a me piaccia sempre cominciare dalle «parole» (in teatro ne pretendo la perfetta percezione al di là della musica). Qui però volevo solamente spiegarvi il bisogno che ho, a set­ tantanni, dopo cinquanta di musica, di fermarmi a riflettere sulla mia vita, su me stesso, e farvene — per l’appunto — parola.

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Un violino anziché un giocattolo

«Andiam. Incominciate!» ordina Tonio all’inizio dei Pagliacci con la voce tranquilla e metafìsica di un Prologo che mi ha accompagnato, come tanta altra musica, per tutti gli anni trascorsi della mia vita. Incominciamo, dunque, chiarendo dove sono nato, perché a questo proposito c’è sempre una grande confusione. Qualcuno mi ritiene pugliese, altri mi ritengono napoletano, e in qualche modo i molfettesi si risentono del fatto che io — per ragioni obiet­ tive — non posso non dire di essere nato a Napoli. Successe il 28 luglio del 1941, durante la guerra, da madre napoletanissima e padre pugliese. Sono nato a Napoli, ma mi riportarono subito a Molfetta, e man­ tengo dentro di me lo stesso amore per l’una e l’altra patria: amo definirmi un apulo-campano. Sono nato a Napoli, nonostante mio padre Dome­ nico fosse medico in Puglia, perché mia madre (che si chiamava Gilda Peli-Sellitto) andava assai orgoglio­ sa della sua città e decise, tutte le volte che noi cin­ que fratelli stavamo per nascere, di prendere il treno, andar lì, partorire e solo quando avevamo qualche

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giorno riportarci a Molfetta. Appena noi figli rag­ giungemmo l’età della ragione la trovammo tutti una decisione curiosa: come mai si sottoponeva a un viaggio che, almeno nel mio caso trattandosi del secondo anno di guerra, era lungo, faticoso e per­ sino pericoloso? Glielo domandammo, e lei rispose - senza sapere che almeno uno di noi avrebbe fatto una vita da giramondo in gran parte fuori i confini d’Italia — con una frase cui allora non facemmo caso ma che adesso non può non apparirmi profetica: «Se un giorno andrete in giro per il mondo e finirete, che so io, in America, quando vi chiederanno dove siete nati e risponderete “A Napoli” vi rispetteranno»; pro­ nunciò il verbo aggiungendo alla $ una c come sanno fare solo i napoletani. «Se invece diceste “A Molfetta”, dovreste perdere un po’ di tempo a spiegare dovè.» Questo, naturalmente, lo diceva senza arrecare of­ fesa alcuna ai molfettesi: è una grande terra che diede i natali a uomini illustri, non solo all’abate letterato Vito Fornati e al grandissimo pittore Corrado Giaquinto, ma - in epoca più recente — a Gaetano Sal­ vemini (che era imparentato, per via acquisita, alla famiglia di mio padre: erano suoi cugini e in famiglia qualche volta se ne parlava). Mi hanno portato a Molfetta dopo quattordici giorni e lì sono vissuto per sedici anni. Ho iniziato gli studi nella scuola elementare intitolata ad Ales­ sandro Manzoni, avendo negli ultimi tre anni per maestro mio nonno Donato Muti: era il direttore e fu mio severissimo insegnante. Una severità che nella

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mia formazione - da adolescente e poi da giovane riuscì estremamente importante: tanto nella scuola media che nel liceo (frequentai l’istituto che aveva avuto per allievo il Salvemini) la severità degli inse­ gnanti era una caratteristica costante. Ci davano del «lei» anche alla media, per cui io, ancor oggi, faccio spesso fatica a dare del «tu»: è una questione di edu­ cazione. Da ragazzino, tuttavia, mi faceva un’enorme impressione questo continuo dar del «lei», specie in circostanze particolari come potevano essere quelle di un rimprovero; allora il rapporto fra professore e scolaro precipitava nell’ossimoro dove non sapevi più se si trattasse di scherno o rispetto: «Lei è un ciuccio!» sentii gridare più di una volta. Mi ricordo, ad esempio, che in prima media, nel­ l’ora di latino, un giorno il professor Delzotti mi pre­ se per un orecchio e mi tirò fino alla cattedra tanto da farmi male. La colpa era tutta del suo minacciosissi­ mo «pluit aqua»\ mi chiese il caso e io — che eviden­ temente non avevo studiato — risposi «Nominativo»; lui mi trascinò alla cattedra continuando a canzonar­ mi con un certo compiacimento: «Nominativo, eh? Nominativo, eh? Nominativo, eh?». Un’altra volta, dovendo tradurre «mus estfarinam» (il topo mangia la farina) — «est» insidioso quanto il cuore oraziano che la passione corrode {si quid est animum) * - feci confu­ sione tra «mangiare» {edo, es, estecc.) ed «essere», e mi * Orazio, Epistole^ 1.2.39: «Perché se una paglia t’entra nell’oc­ chio t’affretti a toglierla, e un anno invece rimandi di curare quel che ti divora [*#] il cuore?».

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rovinò addosso lo stesso inesorabile rigore. Insomma, sono cose che oggi mi fanno riflettere sulla stranezza di questi maestri, tanto sono diversi da quelli odierni e perfino da quelli che i miei figli hanno avuto in clas­ se. Non so cosa avvenisse altrove, ma al Sud, finita la guerra da poco, la disciplina era ferrea e i metodi di­ dattici così spicci che adesso porterebbero dritti dritti all’arresto. Non sono i miei metodi, ma devo dire che non mi procurarono complessi particolari; al contrario mi permettono, ad esempio, di masticare ancora oggi abbastanza bene il latino, e questo è un tratto che all’estero spesso incuriosisce. Perciò il sentimen­ to che nutro nei confronti di tutti i miei insegnanti è quello della gratitudine: a ben vedere chiedevano solo un certo comportamento; bisognava, piuttosto che adolescenti, essere già «uomini». Un insegnante di Italiano, ad esempio, il profes­ sor Angelo Tangari, una mattina stava svolgendo la sua lezione di letteratura e sentì qualcuno fare un verso; chiese chi fosse stato e nessuno rispose, allora minacciò di censurare la condotta dell’intera classe; al che qualcuno disse: «E stato lui!». Tangari accen­ nò con la mano al colpevole, che si dichiarò per tale e, quella stessa mattina, fu espulso. Al suono della campanella dell’una uscivamo, il professore stava di solito vicino alla porta e scambiavamo il salu­ to mentre gli passavamo innanzi; quando venne il turno del delatore, lo tenne con sé in classe, chiuse la porta, e non sappiamo cosa gli abbia detto. Un

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episodio del genere a molti lettori avrà già ricordato quello celebre del libro Cuore. «Il maestro, pallido, salì al tavolino e con voce alterata domandò: “Chi è stato?”».’ Erano trascorsi settantanni dalla prima edizione del romanzo di De Amicis, ma il clima era quello: seve­ rità in famiglia e severità a scuola. Non voglio dire cosa sia giusto o sbagliato. Racconto solo l’ambiente in cui sono cresciuto, e con questo desidero anche dare una giustificazione a una certa mia riservatezza: spesso la intendono come un distacco intenzionale o, peggio, alterigia e arroganza. Non è così: sono con­ vinto che sullo sfondo ci sia persino della timidezza (posso sembrare qualche volta «austero» o «severo», ma una notte a Milano, tanti anni dopo, incontran­ do Gigi Proietti e Roberto Benigni all’incrocio di via Manzoni con via Montenapoleone facemmo a gara di barzellette e li stupii perché di storielle amene ne conoscevo tantissime). Mio padre era un bravissimo medico ed era nato con quelle qualità interiori che forniscono il cosiddet­ to «occhio clinico»: pochi strumenti e tanta semeio­ tica. Ancor oggi a Molfetta si ricordano del «dottor Muti», specie qualche vecchio di cui aveva curato i figli. La sua attività era quasi incessante e, dopo le visite ai suoi ammalati (quelli che allora si chiama* Si tratta delPepisodio di mercoledì 26 ottobre Un tratto generoso-. Franti scimmiotta la mamma di Crossi, lui gli tira un calamaio che prende sul petto il maestro, Garrone, innocente, s'incolpa per sca­ gionare la classe (E. De Amicis, Cuore, Einaudi, Torino 1974, p. 22).

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vano «i mutuati»), dedicava abitualmente un certo tempo alle comunità religiose: ce n erano molte in città, a cominciare dal seminario pontificio regionale e dal seminario vescovile (che ospitava i ragazzi fino al ginnasio). Perciò durante la mia infanzia mi capi­ tò spesso di saltellare nei corridoi dei conventi e dei monasteri. Avevo preso molta confidenza con quegli am­ bienti e da ragazzino un giorno diedi un piccolo scandalo. Nella basilica di Santa Maria dei Mar­ tiri, una chiesa antichissima dei Cappuccini che aveva annesso un ospedale fondato per uso dei crociati con una gigantesca corsia dove una volta all’anno andavamo a pranzo (mi ricordo le lunghe barbe bianche e gli occhi pieni di fuoco di quei frati, qualcosa degno della Forza del destino con il racconto di Melitene), mentre i frati celebra­ vano la messa, salii alla console dell’organo e, per la Comunione, azzardai il Brindisi della Travia­ ta. Frequentare quei luoghi, preti e monache (che qualche volta aiutavo a sbucciare le patate o por­ tare le ghiande ai maiali) mi mise in contatto con un mondo ormai trapassato, luoghi che oggi paio­ no «ottocenteschi»; deve aver influito pure questo sulla mia formazione, non in senso confessionale (al contrario ha sviluppato in me un atteggiamen­ to critico verso qualunque chiusura di sapore fon­ damentalista!), ma nel senso di una «cultura» tutta particolare che allora lì era ancora molto vivace. Correvano anni in cui, non dobbiamo dimenticar-

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lo, la presenza della televisione era talmente spora­ dica da risultare nulla. Ricordo che all’epoca in Molfetta, che pure non era ùn paese piccolo, due cose erano rarissime: il telefono (che vidi per la prima volta - invidioso e folgorato — in casa del mio amico Pansini) e l’au­ tomobile. Sullo scorcio degli anni Quaranta il bab­ bo girava per il paese con un calesse, portato da un cocchiere. Nicola - questo era il suo nome — me­ nava gran vanto di essere appartenuto, durante la Prima guerra mondiale, al gruppo degli Arditi, di cui conservava gelosamente e con piglio deciso il pugnale. A Firenze un amico mi prestò un giorno un libro, che lì era andato di moda per il suo par­ lare molto di campagna toscana: Le veglie di Neri di Renato Fucini. C’è un capitolo in cui racconta del padre, medico condotto, che parte sotto la neve con il cavallo per il suo giro e rimprovera il figlio con un minacciosissimo: «Ricordati come tuo padre li guadagna»;’ ecco, nella Molfetta del dopoguerra l’ambiente non era tanto diverso. Quando invece ci muovevamo tutti assieme - per le feste di Andria, Terlizzi, Bisceglie o Giovinazzo — usavamo la car­ rozza; fu con questa che una sera uscimmo dal pae­ se per arrivare, all’alba, a Castel del Monte: quando tirarono le tendine, mi ricordo di essermi trovato a sorpresa davanti agli occhi l’enorme corona piovuta * Sono le pagine che portano il titolo di Dolci ricordi-. Fucini con­ fessa al padre di aver buttato dei soldi al gioco.

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dal cielo del castello federiciano, che mi folgorò e non dimenticai mai più. Dopo il cavallo, nel 1950, fu comprata un’auto­ mobile ed era la Fiat Giardinetta: serviva sostanzial­ mente per il lavoro, ma d’estate capitava di andarci a Napoli, dove passavamo qualche giorno di vacanza in casa della mia nonna materna. Davanti l’autista e la mamma, dietro si stringeva mio padre con i miei due fratelli maggiori; nel portabagagli era sistemato un panchetto di legno per me con i due gemelli; in­ somma, tra genitori, autista e cinque figli eravamo in otto e, sopra, la valanga di valigie fissate con le corde era cosa che oggi potresti vedere solo nei film neo­ realisti. Non c’era autostrada, seguivamo le statali o le provinciali per quasi dieci ore e in pendenza la macchina stentava. Dopo Bovino e Ariano Irpino attaccava la salita di Dentecane, e il babbo invitava l’autista a prendere la rincorsa gridandogli «.Scèmme, Lui, scèmme!» * Quando noi adolescenti facevamo i giri pomeri­ diani attorno alla cosiddetta Villa Comunale (era la nostra calle Mayor, non una villa vera e propria bensì un giardino circolare, vicino al mare, dove tutti i molfettesi vanno a passeggiare) incontravamo i professo­ ri, parlavamo di filosofia e di tutti i nostri problemi, eravamo i piccoli «peripatetici» che provavano i primi flirt con le ragazzine: il massimo dell’esaltazione che potessimo raggiungere era quando loro, camminando * «Forza, Luigi, corri!»

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in senso contrario al nostro, incontrandoci, ci guarda­ vano per tre secondi. Non si poteva inventare amore più sublime: uscivamo per ottenere uno «sguardo»! Tutto questo avveniva sotto gli occhi del grande orologio del seminario vescovile dove splendeva la scritta «Mortales vos esse docet quae labitur bora», uno di quegli esametri di gusto umanistico di cui poi tro­ vai, girando per l’Italia, tante versioni simili, specie per l’essenziale labitur («Mortali quest’ora che passa vi dice: dovrete morire!»; una volta lessi: «Fallimur imperils it gloria labitur aetas» *}. Un contrasto fon­ damentale: l’amore che nasce all’insegna dell’orolo­ gio. Quando «da grande» cominciai a dirigere il Don Giovanni, ci pensavo tutte le volte che arrivavo alla scena in cui il libertino estrae dal taschino l’orologio (e ritrovai il senso di quella scritta nel cumulo degli orologi presente sulla scena di Ronconi a Salisburgo per il Don Giovanni del 1999). La percezione del­ la morte in questi termini è tema assai presente nel Sud, dove è come se la Libitina da mattina a sera ti tenesse il dito puntato addosso del memento. Pensate a questo proposito che in paese quando ero ragaz­ zo esistevano ancora le «prefiche», cioè le donne che alcuni di voi avranno conosciuto solo nelle pagine di Morte e pianto rituale, le quali essendo qualcuno finito all’altro mondo si recavano a casa sua e ne reci­ tavano — a pagamento — una specie di laudario funebris (per l’appunto in De Martino quella di Ferran' «Ci inganna il potere, passa la gloria e il tempo frigge.»

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dina: «0 Ciccille mie, o belle, o frate, o frate, o Ciccille mie»)-' la più famosa e, forse, l’ultima fu una certa Giustina «del Camposanto»: l’ho ancora davanti agli occhi, andava sempre in giro vestita completamente di nero (colore peraltro dominante a quell’epoca, e a Molfetta in particolare). Mio padre possedeva una bellissima voce tenorile e lo sentivo cantare abitualmente arie di Mascagni e Leoncavallo; anche mio nonno, il severo maestro Donato, che non aveva troppa voce, era abituato a cantare: abbastanza spesso le arie di Norma e, una volta, lo sentii perfino accennare un’aria Attila. L’amore per l’opera infatti era immenso in famiglia (come del resto negli strati più eterogenei della po­ polazione) e lo teneva in vita, per gran parte, l’abitu­ dine alle bande, che con le fantasie operistiche por­ tavano la musica fra la gente (quasi nessuno aveva i dischi, molti non possedevano neppure una radio). * E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico alpianto di Maria, Boringhieri, Torino 1977 (il libro è del 1958), cap. II, Il lamento funebre lucano, p. 97. Aveva scritto poche pagine indietro lo stesso De Martino: «In generale il lamento è reso oggi in Lucania dalle parenti del defunto senza concorso di lamentatoci prezzolate o professionali. Tuttavia il ricordo di “prefiche” chiamate a prestar la loro opera nei funerali è ancora vivo, e si riferisce a un passato relati­ vamente recente. Le lamentatrici di Senise, un tempo famose, erano chiamate nei paesi vicini a fornire le loro prestazioni molto apprezzate e altrettanto è da dirsi per quelle di Pisticci e di qualche altro villaggio. Attualmente la lamentazione profesisonale è sentita come una ver­ gogna, e un villaggio accusa l’altro di praticare questo costume, senza che poi l’accusa risulti fondata alla prova dei fatti» (ivi, p. 79).

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Mi portarono la prima volta al teatro Petruzzelli di Bari che avevo tre anni, io stavo in braccio al coc­ chiere e ascoltai YAida - mi dissero - senza piangere e senza dar fastidio. Così mio padre volle che tutti i figli comincias­ sero in qualche modo a studiare musica: per lui era un insegnamento fondamentale nell’educazione, un bagaglio senza il quale non si era una persona com­ pleta. Ai miei fratelli toccarono una chitarra e una fisarmonica, perché — credo — scelsero quelle. Io non ci pensavo proprio, non mi interessava, e perciò non avevo scelto nulla. Il giorno di «Santa Nicola» (come vuole il dialetto), il 6 dicembre, si danno a Molfetta i regali ai bimbi (come a Natale o alla Befana per gli altri bambini italiani). A me arrivò, quella mattina lontanissima del 1948, un piccolo astuccio con un violino da due quarti. Terribile la mia delusione: non c’era un giocattolo. Al contrario era lì, sotto i miei occhi, il segnale che qualcosa di tremendo mi aspet­ tava ed era sul punto di cominciare. Infatti presto mi assegnarono un’insegnante di solfeggio; me la ricor­ do ancora: era giovane, bionda. Il mio odio per il sol­ feggio però rimase tale che in tre mesi non raggiunsi alcun risultato, la mia testa recalcitrava e non voleva proprio imparare: la signorina bionda indicava un rigo sul pentagramma, io tiravo a caso e non ricono­ scevo una nota; fu così che lei chiese a mio padre di lasciar perdere. L’aveva convinto ed egli stava, seppur a malincuo­ re, rinunciando: un figlio senza musica, pazienza.

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Mia madre invece, suscitando il mio stupore (perché non nutriva per la musica alcun particolare interesse), ebbe un’uscita strana: «Aspettiamo ancora un mese»; era spesso in famiglia la persona cui spettavano le de­ cisioni, come si diceva allora, «irrevocabili». Non so perché lo disse né so quello che scattò dentro di me, ma tutto mi si chiarì in una notte: al mattino dopo, davanti all’insegnante, riconobbi le note alla svelta e perfino con una certa baldanza. Così potei passare dal solfeggio al violino, e fu mio primo insegnante il maestro Aldo Gigante, il quale cominciò a mostrar­ mi le posizioni della mano sinistra sulla cordiera, la tecnica dell’arco, insomma i primi rudimenti. L’inizio fu faticoso: provavo la produzione del suo­ no sulla corda vuota davanti a una finestra di casa che dava su piazza Paradiso e vedevo i miei coetanei giocare a pallone; era difficile da quel punto di vista non odia­ re il violino. E per una seconda volta i miei progressi si misero a camminare lentissimi. A un certo punto, non ricordo come, ebbi di nuovo un repentino mutamen­ to: feci un balzo avanti, tanto che nel 1950 fui in grado di eseguire, accompagnato da Gigante al pianoforte, un concerto di Vivaldi in La maggiore di fronte a una platea di trecento seminaristi «pontifici». La notizia comparve sulla «Gazzetta del Mezzogiorno»: fù una se­ rata in cui una piccola orchestra e il coro del seminario eseguirono musica dopo di me (fra i seminaristi c’era chi poi divenne un vescovo molto noto a Molfetta, sua eccellenza Tonino Bello, e il rettore era Corrado Ursi, il futuro cardinale e arcivescovo di Napoli).

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Devo però tornare su un episodio di pochi anni prima. Quando a Molfetta avevo cominciato a stu­ diare il violino, ebbi un’esperienza singolare. Mio padre, da medico assai stimato, frequentava - come ho accennato - seminari, conventi e parrocchie, e al­ lora decisero che io recitassi una predica nella chiesa dell’immacolata, vicino a casa, per il tempo di Natale. Per due mesi presi lezione di arte scenica da una po­ vera sarta beghina, una sorta di sagrestana — cuciva poco più che calzoni per contadini, non era quella che chiamavamo allora la «sartoria» -, che mi illustrava i movimenti gesticolatoti con cui avrei dovuto farmi apprezzare parlando. Dovevo attaccare con «.Christus natus est nobis, venite, adoremus», aggiungere, girando­ mi a destra, «reverendissimo parroco» e poi «signori» rivolto a tutta la sala. Oggi non ne ricordo più neppu­ re una parola. Per vestirmi dovetti recarmi al semina­ rio vescovile e provare l’abito di qualche seminarista fino a trovarne uno della mia misura: aveva i bottoni rossi (quelli del seminario pontificio li avevano neri). Mi misero in mano il grande tricorno del parroco, la cotta: la sera della recita c’erano tutti i miei familiari nella chiesa gremita e, quando alla fine andai a salutare il parroco, mio nonno mi diede cinquecento lire, una cifra enorme per allora e per mio nonno, che — per sapere cosa significavano ricchezza e povertà—era assai cauto nello spendere. Io che non ho mai pensato di farmi seminarista, per due ore ho portato la tonaca! Da ragazzino mi capitava ancora, accompagnando mio padre nel giro delle sue visite, di fare scorribande

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per i corridoi del seminario pontificio: i divertimenti allora non erano molti, e già vedere, ad esempio, la grande sala del reparto di scienze poteva costituire un passatempo. Siccome mi ero appena iscritto al conser­ vatorio di Bari, i seminaristi decisero di farmi parteci­ pare alla loro rappresentazione teatrale annuale (uno spettacolo aperto al pubblico e a un gran numero di parenti: venivano da ogni parte della Puglia, della Ca­ labria e della Basilicata); ebbi il compito di preparare Raggio di sole, un operina dove i miei fratelli gemelli, al­ lora undicenni, erano attori assieme agli altri. C’era un coro — è la cosa che ricordo meglio — in cui i seminari­ sti, con i calzoni alla zuava secondo la moda dell’epoca, cantavano niente meno che «Veniam dai grattacieli di New York, passammo tutto a piedi il Canadà». Trovavo molto strano che fossero vestiti in modo tanto diverso dal solito: quando percorrevano le vie di Molfetta ave­ vano cappelli tondi e larghi, indossavano mantelline e andavano per due, e in fila («come frati minor vanno per via»), * erano qualcosa che distava dal mio coro in calzoni come la terra dalla luna. Fui molto severo no­ nostante l’opera fosse piuttosto leggera. Ero stato altrettanto severo anche quando avevo preparato per Natale La santa allegrezza, un coro natalizio molfettese tradizionale; un tempo — me lo raccontava mio padre — lo eseguivano anche singoli e improvvisati cantori accostandosi alle porte dei «bas­ si» (ce n erano ancora tanti); il testo diceva: «Cantare * Dante Alighieri, Inferno, XXIII 3.

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io voglio I la santa allegrezza, / di Dio bellezza, / a maggior dignità. / S’è incarnato in la Vergine pia / lasciando a Maria la verginità / con amor tanto, con amor tanto: / così volle lo Spirito Santo». Quegli im­ provvisati trovatori chiedevano, per la festività, pochi spiccioli in cambio della loro performance. Doveva essere il 1956 e vollero fare una gara a grup­ pi perché intanto l’usanza dei cori natalizi si era con­ solidata e 1!'Allegrezza era spesso cantata da un piccolo coretto — accompagnato da una chitarra, un violino, una fisarmonica, un contrabbasso o altri strumenti — che andava di casa in casa a portare, per l’appunto, «la santa allegrezza»; dopo diverse strofe la padrona di casa offriva un rinfresco di dolci e rosoli, tant’è vero che venne in uso di concludere, dopo le numerose strofe della storia, con l’invito: «uè la patrona, uè la patrona, issa o canistru e da cosa bona». Partecipammo dunque al concorso e io, con il mio gruppo, lo vinsi: guidavo, suonando il violino, un ensemble di chitarra, fisarmo­ nica, mandolino e contrabbasso a tre corde; quest’ulti­ mo era enorme, l’avevo scovato nel salone del barbiere che teneva bottega al piano della strada sotto casa mia (sono canti che muovono sempre su tonica, dominante e sottodominante - senza neppure una modulazione al sesto grado — quindi l’avevo fatto accordare Si bemol­ le, Mi bemolle e Fa; la filastrocca la suonavamo in Si bemolle). Il premio fu. una coppa che conservo ancora, il mio primo cimelio; dirigevo persone più. grandi di me ma, pur non pensando affatto alla professione del­ la mia vita, ero severissimo e pretendevo un’intonazio­

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ne precisa: il poveretto che doveva suonare le tre corde del contrabbasso aveva il suo daffare, quando toccare il Mi, quando il Fa, quando il Si bemolle! Chiedevo prove così rigorose che un giorno scoppiò un ammuti­ namento: tardavano all’appuntamento perché si erano fermati a discutere il programma di una rivolta davanti al portone di casa mia. A pensarci oggi mi viene da sorridere, ma evidentemente ero convinto che quella musica, semplice quanto volete, andasse eseguita con il crisma della precisione e dell’impegno morale, e alla fine tutti i «musicisti» furono felicissimi. Gli stessi seminaristi del Raggio di sole mi com­ missionarono in quegli stessi mesi un brano corale a quattro parti che potessero cantare in occasione della consacrazione al sacerdozio. Io, che — lo ripeto — non pensavo affatto a quello che avrei fatto in futuro, le guardo ora come si guardano le singolari anticipazioni che ci vengono incontro nella vita. Scrissi il mio Tu es sacerdos in aetemum a cappella, in un contrappunto che adesso mi pare incerto, ma che allora mi piacque mol­ to; dovevano averlo trovato troppo complicato, perché non lo eseguirono; anch’esso lo conservo ancora. Avevo cominciato dunque come violinista e con­ tinuai a studiare il violino per qualche anno, finché il mio insegnante mi suggerì quanto fosse essenziale avere anche una preparazione pianistica: me la die­ de i primi anni la maestra De Judicibus, che prove­ niva — attraverso il suo insegnante - dalla scuola di Florestano Rossomandi, un didatta importante della scuola napoletana. Mi innamorai dello strumento:

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mentre il violino mi obbligava a cercarmi un partner, sul pianoforte potevo fare melodia e accompagna­ mento, e questo per me allora fa un vero miracolo. Divenni presto pronto per l’esame del quinto anno. Tutto questo avveniva mentre continuavo le scuo­ le: mio padre, nonostante la sua fede nella musica, non pensava al mio futuro come a quello di un musi­ cista, ritenendo la musica e il suo mondo - come al­ lora si era convinti in provincia - qualcosa di lontano e persino poco familiare, al massimo si poteva pen­ sare al maestro della banda locale. Per il pianoforte abbandonai il violino e mi iscrissi al conservatorio Piccinni di Bari. Ma andiamo con ordine. Era il 1955 e avevo nel programma d’esame, fra l’altro, la Polacca n. 4 di Chopin in Sol diesis minore. Andai al mattino, aspettavo il mio turno, passavano le ore: le due, tardi, caldo, affamati, la paura che cresce­ va a dismisura, la commissione con il farfallino nero come i musicisti di una volta, il maestro Pasquale La Rotella; figuratevi l’impressione su di me che venivo dal mondo fantasioso del Venerdì Santo, della Pove­ ra Rosa, * delle marce funebri molfettesi! Improvvisa­ mente si fece sulla porta un uomo piccolo ma, negli occhi, fulgidissimo, e penetrante; ci chiese in quan­ ti fossimo rimasti: tre. Io azzardai, forse per paura: * E forse la più popolare tra le marce funebri che la banda esegui­ va in diverse «stazioni» lungo le strade del paese durante la grande processione del Venerdì Santo, e potrebbe aver preso il titolo dal commovente epicedio di S. Di Giacomo Povera Rosa! {Poesie e prose, Mondadori, Milano 1977, p. 242).

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«Possiamo tornare domani?». Mi guardò fisso e poi mi portò con sé in un’altra stanza, mi chiese di fargli sentire qualcosa, poi mi assicurò senza incertezza al­ cuna: «L’esame lo fai oggi». Alla fine della mia prova l’omino si alzò e mi disse avanti a tutti: «Ti abbiamo dato dieci e lode. Non per come hai suonato, ma per come potrai farlo in futuro». Quell’uomo si chiamava Nino Rota. Era direttore del conservatorio e andava su e giù tra Bari e Roma, spesso era assente. Il destino volle che quel giorno ci fosse e mi parlasse. Al ritorno a casa ero trionfante e la cosa sembrò finire lì. Mio padre a settembre dovette andare all’Inam (l’istituto nazionale dell’assistenza sanitaria di allora) di Bari per una pratica, con Peppino, un autista che ho poi rincontrato in America emigrante a Hoboken, nel New Jersey. Andai con l’autista a vedere i quadri dell’istituto musicale esposti su un pianerottolo: gon­ golavo a leggere la serie dei miei dieci e lode. Intanto passò una persona dietro di me, si girò e mi disse: «Ma tu non sei Mutino?» (non è che ora sia altissimo, ma da piccolo crescevo proprio poco e qualche volta mia madre se ne lamentava: «Chisto ccà nun cresce male, stu guaglione»}. Era di nuovo il maestro Rota, che mi portò nel suo ufficio di direttore e mi raccomandò di iscrivermi, perché avevo talento ed era giusto che vivessi tra scolari musicisti. Per me significava una traversata spaziale: ci sono trentuno chilometri tra Molfetta e Bari, ma nessuno di noi era mai uscito di casa. Si fece il gran consiglio di famiglia e stabilirono che bisognava parlare con il direttore: andarono così

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Un violino anziché un giocattolo

tutti da Rota, e la conclusione fu che dovevo iscriver­ mi al corso di Franco Ruggero (magnifico maestro della scuola napoletana, quella di cui parla Vitale nel suo bel libro ). * Era il 1956, la mattina frequentavo la prima liceo classico e al pomeriggio una corriera, percorrendo la Statale 16 e passando da Giovinazzo, Santo Spirito, Palese, mi portava a Bari con un cammino assai len­ to. Come capita credo quasi sempre, agli insegnanti del liceo nulla importava delle mie lezioni musicali (e viceversa: né gli uni né gli altri ammettevano giu­ stificazioni), sicché dovevo dimostrarmi allievo che facesse il suo dovere impegnato su un doppio fronte. Rota mi era sempre vicinissimo d’affetto, consigli e premure; mi fece ascoltare per la prima volta un quar­ tetto e andai per la prima volta alla prova - diretta da lui — dell’orchestra di Bari con il coro. Eseguivano VAiace, un oratorio di Orazio Fiume, e io non ave­ vo mai visto un’orchestra. C’era da non credere ai miei occhi; conobbi tante cose degli strumenti, tutte nuove perché finora avevo ascoltato sporadicamente radio e giradischi. Rota mi lesse al pianoforte cer­ te composizioni sue, e poi frammenti di Wozzeck o Lulu di Alban Berg, un mondo di cui ero del tutto all’oscuro. Raccontare come strinsi amicizia con lui mi aiuta a meglio definire la sua figura di compositore: Nino ’ V. Vitale, Il pianoforte a Napoli nell’ottocento, Bibliopolis, Na­ poli 1983.

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Prima la musica, poi le parole

Rota, infatti, fu osteggiato da molti per il tipo di mu­ sica che scriveva e non capivano che era semplicemen­ te la scelta di uno stile a comportare necessariamente l’esclusione degli altri; senza nulla togliere alla sua ferratissima preparazione (del resto il suo linguaggio risente di Stravinskij, Prokof’ev, Bartók ecc.). Inten­ do dire che il maestro applicò una sola tecnica e inve­ ce le conosceva tutte: se la sua parve meno aggiornata o, per meglio dire, non d’avanguardia, quésto non esclude che - nel caso l’avesse voluto - avrebbe potu­ to fare anche il compositore d’avanguardia.

II

«Hai mai pensato di dirigere?»

L’anno scolastico 1956-57 si concluse con un saggio di classe per cui eseguii il Carnevale di Vienna op. 26 di Schumann, un pezzo assai complesso: ebbi successo e fu allora che maturò la decisione (mia madre, che ci fece sempre da guida, l’aveva in mente da tempo) di trasferirci a Napoli - dove erano già i miei primi due fratelli maggiori - per l’avvicinarsi della mia universi­ tà. Tornarono a discutere con Rota per decidere cosa fare di me e lui, straordinario stavolta perfino sotto il profilo dell’umile onestà, consigliò di iscrivermi a un conservatorio più importante, quello di Napoli, e mi segnalò per lettera al suo direttore Jacopo Napoli. Così ci trasferimmo tutti, e io mi iscrissi alla secon­ da classe del liceo statale Vittorio Emanuele. Ci sono passato pochi mesi fa e il portiere mi ha detto: «Ma­ estro, cumme state? l’ve tengo ogne ghiuorno 'nnanze a lluocchiebr, di fronte al mio stupore — ci mancavo dal 1959 — indicò la lapide che elenca gli allievi famo­ si (Mercalli, l’inventore della celebre Scala sismica, e altri ben noti) morti tutti tranne il sottoscritto, figu­ rando io all’ultimo numero della serie.

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Prima la musica, poi le parole

Mi recai dal maestro Napoli, che mi affidò a Vin­ cenzo Vitale per un’audizione. Il grande pianista ave­ va allora cinquantanni e una raffinatissima cultura. Andai a casa sua in via Mergellina 2 — il Vesuvio, le barche, le navi, i motoscafi del contrabbando, una vista indimenticabile dalla sua finestra — per fargli sentire come suonavo l’op. 26 di Schumann. Ce la misi tutta, lui intravide le qualità, ma mi mise a pane e acqua: dovevo, per la tecnica, ricominciare da zero (posizioni diverse per esercizi lentissimi, un probabi­ le rischio di pazzia dei miei due fratelli costretti ad ascoltare le ben note formule minime, sul tipo DoMi-Re-Fa, che duravano ore). Mi iscrissi alla sua classe, e per me è stato fonda­ mentale perché, attraverso il pianoforte, Vitale in­ segnava non solo lo strumento, ma la musica tout court. A lui devo quel senso del fraseggio e dell’ago­ gica’ impareggiabili di cui si ha già la perfetta co­ gnizione nelle lettere dell’austriaco napoletanizzato Sigismund Thalberg e nel metodo di Beniamino Cesi o di Giuseppe Martucci. Per tutti loro la fra­ se conta da sola, contiene il suo modo di procedere e quindi esclude il fatidico «La sento così» tanto di moda negli interpreti attuali, una deriva dilettanti­ stica che fino a quel giorno aveva guidato anche me. Per loro invece la frase possiede una legge interna di carattere naturale; cercare di rintracciarla, e poi ri* Il termine indica lievi modifiche da apportare in un’esecuzione a fini espressivi.

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«Hai mai pensato di diligere?»

spettarla scrupolosamente, non è segno di freddezza ma è solo una considerazione obiettiva e, direi quasi, scientifica della scrittura musicale. Ad esempio, biso­ gna scovare il culmine, non tradirlo, chiarire i punti di riferimento agogici, rilevarli. Chi al contrario si fida ingenuamente del proprio sentire spesso finisce con il mancare di rispetto alla frase e inevitabilmente trasgredirla, e quindi sciuparla. La pensavano così e avevano ragione. Studiai con lui e feci progressi decisi, tanto che alla fine dell’anno suonavo da virtuoso la Rapsodia spagnola di Liszt e alcuni studi difficili di Thalberg. Quando il conservatorio di Napoli organizzò una vi­ sita a Bari, io suscitai proprio con uno di quelli l’ammirazione di un insegnante di lì, grande organista: Armando Renzi. Nella classe di Vitale vigeva il culto della scuola napoletana lato sensu e, quando facevo a piedi tutta via Caracciolo, attraversando la Villa Comunale avevo quella scuola, per così dire, davan­ ti agli occhi: la statua di Sigismund Thalberg era la prima a venirmi incontro. Di lì cominciava tutta una dinastia che si concludeva, allora, con Vitale.

L’ex convento dei Celestini, sede del conservatorio di San Pietro a Majella, era d’altra parte luogo reli­ gioso di per sé, suggestivo, aule severe e Sturm und Drang con una luce fioca al centro e modeste sedie di paglia. In occasione di un concerto, tanto tempo dopo, con la Philadelphia Orchestra presso l’univer­ sità dell’indiana, mi mostrarono un’aula di pianofor­

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Prima la musica, poi le parole

te (due grandi pianoforti a coda, il bar, tappeti, un ambiente meraviglioso e di lusso) e io non potei fare a meno di riflettere su quanto fossero fortunati gli al­ lievi americani o, per converso, quanto fossimo stati fortunati noi a studiare in aule modeste dove tuttavia avevano risuonato i passi di Giovanni Paisiello, pri­ mo direttore illustre di quel conservatorio. La mattina continuavo a frequentare il liceo Vitto­ rio Emanuele, dove c’erano insegnanti strepitosi (ne ricordo in particolare uno di filosofia), ma capitava pure il supplente non del tutto all’altezza della situa­ zione: un insegnante ci disse, a proposito di Menenio Agrippa, che era «generale anfibio» perché vinceva in mare e in terra, e noi ci ribellammo irritandolo (pro­ mise vendetta: «Vi cucinerò come il polipo, nell’ac­ qua sua, e lentamente!»). La maturità, nel 1959, la prendemmo solo in quattro o cinque su trenta: era un istituto severissimo! Quell’anno frequentai poco il conservatorio per dedicarmi al liceo. Perdevo certo qualcosa, ma il maestro Vitale era fortunatamente il primo a essere sensibile nei confronti della cultura non solo musicale dei propri allievi, e quindi seppe comprendermi. Un giorno, però, il direttore Jacopo Napoli mi fece chiamare. Pensavo volesse rimproverarmi le assenze, perciò entrai e rimasi in piedi rigido come un soldatino davanti alla scrivania e al grande ritratto di Cilea; mi guardò fisso: «Hai mai pensato di dirigere?». Di tutte le domande che potessi immaginare era la più impre­ vista. Aggiunse: «Ti sentii suonare al saggio l’anno

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(Hai mai pensato di dirigere?*

scorso» (avevo eseguito un brano suggestivo di SaintSaéns, il Caprice sur les airs de ballet d’Alceste de Gluck) «ed ebbi l’impressione che tu suonassi da direttore più che da pianista». Intendeva la mia forma mentis, cui non avevo naturalmente mai pensato. «Quest’anno» continuò Napoli «nella classe di composizione non vi sono alunni interessati a dirigere nella classe d’eserci­ tazioni orchestrali: un monaco, un prete, una donna. Hai delle qualità. Perché non provi?» Aveva combinato un appuntamento con il mae­ stro Ugo Ajello (una persona cui porto un’enorme gratitudine, gran signore, autentico napoletano, il primo violoncello del San Carlo, un ottimo musi­ cista e, per l’appunto, titolare della classe di eserci­ tazioni orchestrali). Si dovevano eseguire i concerti di Bach per due e quattro clavicembali. Lì c’era una validissima insegnante di pianoforte, Tina De Ma­ ria, che in quelle due opere doveva far esibire i suoi allievi. Incontrai Ajello, aprì la partitura — era Bach, fortunatamente, e l’unica chiave che allora trovavo difficile era quella di contralto, usata per la viola. Mi spiegò: «“In due” è così, “in quattro” così, la destra fa il ritmo e la sinistra “il cuore”». Disse proprio queste parole, e oggi può sembrare retorico, un po’ troppo fiorito; ma è sostanzialmente giusto e mi insegnò a pretendere dalle mani due compiti diversi. La mattina dopo, con una paura da pazzi, mi tro­ vai di fronte i ragazzi miei colleghi; cominciai per la primissima volta a dirigere, e ricordo la stranis­ sima sensazione che provai al battere iniziale. Capii

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Prima la musica, poi le parole

più tardi perché l’altro mio grande maestro, Anto­ nino Votto, diceva (muovendo più o meno a caso il braccio destro dall’alto in basso): «Fai così, qualcosa succederà». I primi minuti ero concentratissimo sui gesti, poi il movimento divenne naturale, le braccia andavano da sole; e il maestro Ajello uscì dall’aula — seppi dopo — per telefonare al maestro Napoli e annunciargli che era nato un nuovo direttore d’or­ chestra. Aveva intravisto qualità nel mio gesto allora implume. Diressi il saggio finale nella sala Scarlatti: allievi, grande festa, il maestro Vitale compiaciuto di vedere in quella situazione un suo scolaro. Jacopo Napoli mi assegnò proprio allora un con­ certo intero, un concerto vero, per l’anno successivo purché accettassi di iscrivermi alla classe di compo­ sizione (che riteneva indispensabile per un aspirante direttore). Mi affidò alle cure del miglior maestro, Aladino Di Martino (proveniva dalla scuola di Ca­ millo De Nardis e Gennaro Napoli), mentre Ugo Rapalo mi insegnava il setticlavio e la lettura della partitura: il sistema era antico ma infallibile, e oggi potrei resistere benissimo perfino alle piccole insidie dei cornisti quando — loro che leggono nelle maniere più disparate — ti chiedono per metterti alla prova la nota trasposta. Era il 1961 e mi diplomai con il massimo dei voti e la lode in pianoforte. Portavo I quadri di un’esposi­ zione di Musorgskij e pare che li eseguissi benissimo. L’orchestra degli allievi, rinforzata da elementi della Scarlatti e del San Carlo (c’erano Giuseppe Pren-

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(Hai inai pensato di dirigere? *

cipe, che poi passò al conservatorio Santa Cecilia, Giacinto Caramia, Salvatore Altobelli, tutti musicisti formidabili), la diressi in un programma che com­ prendeva Leonore n. 3 di Beethoven e l’Incompiuta di Schubert, l’intermezzo della Pisanella di Pizzetti e il Concerto n. 1 di Chopin (solista Laura De Fusco), ma mentre la sinfonia di Schubert, anche se non si ha niente di nuovo da dire, la si tiene, il discorso cambia quando si passa a Leonore\ Diressi a memoria: lo facevo all’epoca e continuai fino a quando non incontrai Sviatoslav Richter che mi chiese: «Perché a memoria? No ochi?» (sic!)-, da allora cambiai abitudine e quelle due parole furono il passaporto che mi convinse a tenere sempre la parti­ tura sul leggio: ci hai convissuto per mesi, e guardar­ la durante l’esecuzione è pur qualcosa. Adesso giro le pagine anche quando dirigo La forza del destino, che conosco ovviamente a memoria; sarebbe del re­ sto ridicolo cambiare metodo a seconda degli autori. La prima trasferta fu ad Avellino, due giorni dopo: attaccata Leonore, al crescendo, nel fortissimo, siccome il pubblico era sostanzialmente una scolaresca nu­ merosa, tutta la sala urlò scatenata: i bambini delle elementari, presi dallo scoppio della musica, tiravano per aria le loro cartelle. Pochi mesi dopo il maestro Vitale andò per un certo periodo a insegnare in America. C’era un giornale romano, «Il Quotidiano», che usciva con un’edizione napoletana sulla quale lui recensiva gli avvenimenti musicali della città; partendo mi chie-

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se di prendere per qualche tempo il suo posto, e io provai grande imbarazzo perché avvertivo un’enorme difficoltà nell’andare ai concerti non per ascoltare ma per giudicare, un disagio che aveva a che fare con la mia professione di interprete. Comunque scrissi della Thais di Massenet con Ettore Bastianini, diretta da Francesco Molinari-Pradelli, e di molti concerti di Franco Caracciolo. Ci voleva lo smoking allora, e ne affittai uno troppo largo che mi tirava indietro a ogni passo: quasi non potevo muovermi. Fermo e pensoso davo l’aria di essere del tutto preso dalla mia funzione di critico.

Ill

«Parlammo nu fesso a’a vota!»

Alla fine del 1961 il maestro Napoli fu mandato a dirigere il conservatorio di Milano: mi consigliò di trasferirmi. A Milano - mi disse - c’erano Antoni­ no Votto (Direzione d’orchestra), Bruno Bettinelli (Composizione), un’attività musicale degna di una metropoli. Fu necessario un nuovo consiglio di fa­ miglia; mia madre decise per il sì, anche se allora an­ dare tanto lontano ricordava a tutti Totò, Peppino e la malafemminaC nell’immaginario di un ragazzo del Sud non poteva trattarsi d’altro che di un luogo re­ moto, misterioso e fantastico. Mi ero iscritto a Filo­ sofìa: non sono un pensatore, ma credevo mi avrebbe aiutato nella professione dandomi qualche compe­ tenza in fatto di estetica (prima mi ero anche iscritto alla scuola di Paleografia musicale presso l’Archivio musicale di Napoli, ma l’argomento era tanto diffici­ le da riuscire ostico). * Nel film di Camillo Mastrocinque (1956) Antonio e Peppino Caponi (Totò e Peppino De Filippo) vanno a Milano per ritrovare il nipote Gianni (Teddy Reno) che ha seguito al Nord la ballerina Marisa (Dorian Gray) di cui si è perdutamente innamorato.

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Prima la musica, poi le parole

Arrivai il 2 novembre 1962: «Le el dì di mort, alegher!» cera da dire se avessi saputo mezza parola di * dialetto. Le esecrazioni con cui il babbo e la mamma mi avevano preparato al viaggio erano terribili, come Totò nel film di Mastrocinque: «Bada che c’è freddo, a Milano c’è la nebbia, ti prendi la polmonite». Mi comprarono addirittura un cappello Borsalino (non ne avevo mai portato uno in vita mia, e per me era quello della famosa battuta di Gassman nel Sorpasso, un film di quell’anno: «Nonne’, sta attento che te vola er Borsalino!»; ** o della poesiola di Petrolini: «E importante ricordarsi / che si parte domattin: / sana triste allontanarsi / senza avere il Borsalin»), *** ci ag­ giunsero persino una sciarpa di lana. Arrivai da solo, scesi dal treno e pensai immediatamente al colbacco di Totò e De Filippo nel film; ci mancava l’orso bian­ co, tant’era diverso il mondo da quello di Napoli cui ormai ero avvezzo! Mi recai al conservatorio Verdi e mi fece una strana impressione: piccolo e basso in facciata, nonostante il vasto chiostro appena entri, ' È un verso del poema Caporetto 1917. Sonada quasi onafantasìa (1919) del grande poeta dialettale Delio Tessa (Le el dì di mort, alegherlDe là del mur, Einaudi, Torino 1999, p. 55). " Il film di Dino Risi (1962) è la storia di un viaggio in macchina che si conclude tragicamente: Bruno (Vittorio Gassman) adora la sua Lancia Aurelia B 24 su cui sta correndo assieme a Roberto (JeanLouis Trintignant) e quando un contadino cui ha dato un passaggio ne mette in dubbio la potenza, si lancia in una corsa spericolata av­ vertendolo di reggersi il cappello con le mani. ’** E. Petrolini, Borsalineide, in Ti àpiaciato?!!, Madelia, Sesto San Giovanni 1915, pp. 91-95.

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«Parlammo nu fesso aa vota!»

tutto diverso dal San Pietro a Majella. Mi iscrissi e conobbi presto Bettinelli; seguivo Organo comple­ mentare (con Achille Schinelli) e Lettura della parti­ tura (con Riccardo Castagnone, con cui lessi a quat­ tro mani un’enorme quantità di partiture). E c’era Votto. Me lo ricordo: ieratico, severissi­ mo, collaboratore di Toscanini negli anni della Sca­ la. Il mondo domestico e meridionale — nel senso più accattivante del termine: la musa meridionale — del mio caro maestro Ajello non c’era più: il nuovo ostentava al contrario un certo toscaniniano distac­ co e una freddezza che contrastava — non vi sembri una banalità — con l’ambiente «caldo» del Vesuvio. Quando lo incontrai mi disse: «Tu sei Muti? Prendi il Don Giovanni, studia l’Ouverture, poi vieni qui e fammi vedere quel che sai fare». Furono le sue prime parole e io non potevo far altro che obbedire. Dopo una settimana, in sala Puccini con gli allievi davanti, cominciai. Bisogna avere un certo mestiere nella grande Ou­ verture di Mozart per «staccare» il Molto allegro dopo 1’'Andante dell’introduzione lenta: venne fuori qual­ che difficoltà. Non ricordo se le incertezze fossero mie o del gruppo che avevo davanti, ma dopo tre tentativi diedi segno di essere un poco seccato e, mentre sta­ vo per farlo capire ai ragazzi, comportandomi in un modo che tradiva — piuttosto che l’allievo qual ero il direttore in carriera, alzai la sinistra e sentii qual­ cuno, da dietro, tenerla stretta. Era Votto: mi ave­ va raggiunto alla schiena montando alcuni gradini.

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Prima la musica, poi le parole

Provai a dire qualcosa, lui m’interruppe: «Parliamo un fesso alla volta!» (lo disse in napoletano: «Parlamme nu fesso a ’a vota!»). E colsi sul volto dei ragazzi un’espressione di maligno compiacimento per essere io, il maestro, messo in ludibrio. «È colpa tua. Guar­ da», mi scostò ed eseguì il passaggio tranquillamente. Le ragioni erano elementari: da una parte si doveva certamente al fatto che era Antonino Votto, e dall’al­ tra i ragazzi ce la misero tutta a farmi vedere chi era il «fesso». Mi demoralizzai: avevo diretto a Napoli un concerto nel tripudio e qui a Milano era difficile staccare YAllegro. Temetti che ancora una volta ca­ pitasse come con Vitale e lo studio del pianoforte: punto e da capo, tutto da rifare. Nel giro di pochi giorni mi accorsi però che Vot­ to mi aveva preso molto a ben volere, tanto da darmi - come se avesse per me una preferenza rispetto ad allievi meno dotati o a lui meno graditi — musiche da dirigere ai saggi dell’anno seguente. Non solo lo frequentai a lezione, ma assistetti ad alcune sue prove alla Scala. Per non incontrare gente evitava via Filodrammatici ed entrava da via Verdi, con il suo cappottino grigio: in sala lo metteva in mano all’ispettore dell’orchestra e saliva a provare. Mi fece particolarmente impressione in occasione del Falstaff. non aveva con sé la partitura! Ora dirigere a memoria è un conto, provarci il Falstaff è una di quelle cose che ti lasciano lì per lì sbalordito e ti fanno riflettere che forse, dinanzi a personaggi tanto esperti, è me­ glio cambiar mestiere. Gli chiesi qualcosa in proposi-

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(Parlantine nu fesso aa vota!»

to, lui mi rispose: «Se avessi lavorato con Lui, faresti lo stesso». «Lui» era naturalmente Toscanini, con il quale il lavoro era un’attività di mesi talmente inten­ sa e speciale, che da un certo punto in avanti prose­ guire a memoria diventava un’operazione spontanea, prodotta dal dominio totale su quella partitura. Ricordo poi con emozione particolare le ore di composizione e contrappunto nella classe di Betti­ nelli; c’erano fra gli allievi alunni singolari come Ar­ mando Gentilucci, Azio Gorghi e Francesco Degrada. Francesco seguiva assieme a me anche Esercitazioni orchestrali, ma era più bravo come storico che come direttore: in una sinfonia di Cimarosa, dove il tempo si doveva battere in due, si ostinava a battere in quat­ tro. Votto gridava impaziente: «In due, in due!». Francesco, senza scomporsi: «Io la sento così». E l’altro per non perdere le staffe: «Fa’ come ti pare, tetragono!». Ebbi una grande amicizia soprattutto con Gorghi, con il quale facevamo gare interminabili di contrap­ punto: conservo ancora in casa quaderni pieni di esercizi sul canone, rectus, inversus, per aggravamen­ to, per diminuzione, come se fossimo fiamminghi * novelli. Mi dissero che Gorghi talvolta raccontava in giro: «Riccardo era più bravo di me!»; credo lo faces­ se per un sentimento di amicizia o di pietà, perché io ero bravo, ma lui era proprio un fuoriclasse. Il mio * Fu infatti nelle Fiandre, nel XIV secolo, che si sviluppò il con­ trappunto.

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primato, dunque, era del tutto infondato. Nel 1963 diressi un concerto in sala Verdi con l’orchestra e il coro dell’istituto; fu. lo stesso concerto che destinam­ mo in omaggio a Paolo VI (che era stato fino a poco prima l’arcivescovo di Milano). Erano il Magnificat di Vivaldi e lo Stabat Mater di Scarlatti. Un giorno, durante le prove con il gruppo degli stru­ mentisti in sala Puccini, aprirono la porta con un rumore infernale ed entrò una ragazza saltellante, zampillante, perché credeva che lì ci fosse la prova di coro. Io ero allievo, è vero, ma sul podio vestivo i panni dell’«autorità», o meglio - mettiamola così mostravo l’autorevolezza del maestro, e allora, con un gesto imperioso, le feci segno di uscire. La signo­ rina che stavo mandando via era Cristina Mazzavil­ lani, quella che il 1° giugno del 1969 sarebbe diven­ tata mia moglie (all’epoca era allieva della classe di canto di Maria Carbone). Quando chiese in giro chi fosse quel ragazzo, le risposero: «il Moro», perché in conservatorio, per via dei miei capelli che allora era­ no neri e foltissimi, o forse con una venatura di raz­ zismo, mi chiamavano così. Ci conoscemmo dopo poco, le avevano detto chi era il «Moro», l’avevano rassicurata non trattarsi di Otello, aggiungendo che ero sempre imbronciato e portavo il cappello. Era vero dai tempi del mio viaggio al Nord (ricor­ date quel «sarìa triste allontanarsi...» di Petrolini?), ma lo smisi un giorno all’improvviso quando incon­ trai un mio vecchio amico, Domenico D’Aquino,

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(Parlantine mi fesso a’a vota!»

impiegato ai telefoni per sbarcare il lunario, e in con­ servatorio studente di chitarra classica. Ci conosceva­ mo da Napoli; quella mattina mi incontrò nell’atrio: «Guè, Ricca, eh’ ee fatto? mme pare Barièllo»-, io non potei fare a meno di chiedergli chi fosse tale «Barièllo», e lui soddisfatto: «U cazzo co’ cappiello». In quel momento me lo tolsi e non me lo sono più rimesso neppure quando mi sono trovato a quaranta sotto zero, e fu la fine ingloriosa di tutti i discorsi di mia mamma sul Borsalino, il freddo, la polmonite e l’or­ so bianco alla Stazione Centrale! Era un tipo incredibile: pensate che una volta riuscì a far sorridere Votto. Eravamo in portineria, arrivò il maestro e chiese al portiere con la sua voce austera: «Un taxi...» lunga pausa «per favore». «Maestro, tenga macchina ccafora» fece D’Aquino «veporto a casa vuosta.» E Votto: «Prendo solo...» pausa poco meno lunga «macchine...» ancora una pausa «a pagamento». L’amico prontissimo: «Ma pecché, ve credive ca ve purtavepe senza niente?». E Votto rise. Per l’unica volta! Era un pezzetto di Napoli impiantato nel severo conservatorio lumbard. Proprio un altro mondo: a me è servito però — nonostante le differenze — per continuare un tipo di severità simile per certi aspet­ ti a quella del Sud. Ciò che mancava era \ humour della mia adolescenza. Per me, pugliese — o meglio apulo-campano — significava respirare una silenziosa disciplina di stampo austroungarico.

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Andai avanti con i saggi scolastici e i concerti per il Centro culturale San Fedele dove Lorenzo Arruga faceva le funzioni del direttore artistico. In uno di questi ricordo di aver diretto il Concerto n. 2 in Fa minore di Chopin con Maria Luisa Captata al piano­ forte. Si eseguiva anche qualcosa di contemporaneo, fra cui composizioni degli studenti, come Umberto Rotondi. Intanto frequentavo le prove della Scala e alla Rai: ricordo in particolare Lovro von Matacic che dirigeva le sinfonie di Beethoven, e le prove di Sergiu Celibidache. Io stesso scrissi in occasione di un saggio un pezzo per pianoforte che eseguii in sala Puccini: era difficilissimo e lo stile, moderno e com­ plicato, ricalcava quello in voga alle lezioni di Bet­ tinelli. L’ho preso in mano qualche giorno fa e mi è parso un testimone degli anni che passano: oggi non sarei in grado di suonare neppure tre battute di un brano del genere! L’ultimo anno vollero allestire un’opera che ese­ guimmo al teatro dell’Arte: orchestra degli allievi e rinforzi soprattutto presi fra gli insegnanti (Pao­ lo Borciani, il celebre primo violino del Quartetto Italiano e Luigi Ferro, ad esempio). Era L’osteria di Marechiaro di Paisiello riveduta da Jacopo Napoli, e scelsero gli interpreti fra gli allievi di Maria Carbone (Cristina interpretava il ruolo di Lesbina): è stata la prima opera che abbia diretto in vita mia. La por­ tammo anche in giro in una breve tournée. L’anno dopo le opere furono due: Rita di Donizetti e II ro­ sario di Jacopo Napoli (dove Cristina era la protago­

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(Parlamme nu fesso aa vota!»

nista) che a Lugano, alla sede della radio, ebbe un grande successo. Nel 1966 mi diplomai con il massimo dei voti e per mantenermi accettai l’incarico di pianista ac­ compagnatore nella classe di Maria Carbone.

A Milano non era stato semplice trovare alloggio: i primi tempi frequentavo un alberguccio in piazza Cinque Giornate, poi mi dissero di un prete che co­ nosceva qualcuno che voleva affittare un appartamen­ to. Andai a piedi al Castello, poi dalle parti della Fiera, con una gran valigia, bussai: l’avevano dato via il gior­ no prima. Feci tutta la strada all’indietro, di nuovo a piedi, e nello stesso alberguccio mi presero di nuovo. Dopo le vacanze di Natale il portiere del conservatorio, un invalido calabrese assai affettuoso con me, mi mandò in via Tadino 2 da una vecchietta vicentina che fumava duemila sigarette al giorno e che mi diede una stanzetta con due letti: «Ci dorme un tenore» mi disse «che stasera è fuori a cantare, Mamprin». Per la prima volta nella mia vita andai a letto senza sapere chi sarebbe arrivato durante la notte: la mattina vidi a un metro da me un vero omone, ci presentammo e diventammo amici. Ma passava il giorno a far voca­ lizzi, e io — per non confondermi — dovetti ridurmi a scrivere i contrappunti, imbacuccato come nel film di cui sopra abbiamo riso, su una panchina ai giardini di Porta Venezia. Ci rimasi un anno, e il buon tenore prendeva l’olio che mi mandava il babbo dalla Puglia come una medicina miracolosa.

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Più tardi trovai una stanza tutta per me in via Pindemonte, dove vivevano due vecchiette, una cantan­ te e un’arpista, che in gioventù avevano girato con la loro compagnia in Sudamerica: un mondo che pare­ va quasi verdiano, tanto era all’antica. Ci rimasi fino al diploma e con Cristina e qualche amica sua an­ davo in un ristorante di viale Premuda: una piccola locanda, oggi un poco più aggiornata, dove il pranzo costava quattrocento lire. Quando divenni pianista accompagnatore — dalla Carbone (già famosa can­ tante soprattutto «verista» e allora grande insegnan­ te) imparai tantissimo quanto alle voci e alla tecnica dei cantanti - presi una stanza (con doccia!) davanti al conservatorio, l’arredai con il premio del concorso Cantelli (1967) e mi trovai all’improvviso lì attorno il salottino con il pianoforte e mi sentivo al colmo dei miei desideri. L’anno successivo ebbi la cattedra di pianoforte complementare e, per essermi sistema­ to così «casa e bottega», avevo davvero la sensazione optimum.

Per partecipare al concorso Cantelli - era un’occasio­ ne importante offerta a giovani direttori ancora poco o affatto noti — bisognava esercitarsi (proponevano Beethoven, Brahms, Stravinskij, e io non avevo quasi mai fatto esperienza di quel repertorio), e opportuni­ tà del genere in Italia non esistevano. A me si era in­ teressata per fortuna una baronessa che abitava uno splendido palazzo di via del Gesù, Dorothy Lanni della Quara, presidentessa della Gioventù Musica­

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(Parlamme nu fesso a a vota!»

le d’Italia. Veniva ad ascoltare i saggi e aveva messo gli occhi su di me: per darmi modo di esercitarmi, mi mandò a Praga nel settembre del 1966 a dirigere un’orchestra sinfonica di stanza in una caserma (da noi in caserma trovi al massimo una fanfara, lì c’era un organico completo). Solo e lontano, in un pae­ se che allora si diceva d’«oltre cortina», vivevo in un minuscolo albergo e per rincuorarmi con aria di casa andavo la sera a passeggiare davanti all’ambasciata italiana che era vicinissima. Lavorai con i musicisti militari per una serie di concerti nel Nord Italia per la Gioventù Musicale (toccammo Thiene, Carpi ecc.); il programma pre­ vedeva la Sinfonia dal Nuovo Mondo di Dvorak, la Quinta di Cajkovskij, la Leonore n. 3 e il coro dei prigionieri del Fidelio, la Rapsodia di Brahms. Fu un grande sforzo — per me era la prima volta - ma mi fornì l’occasione di risolvere tutta una serie di pro­ blemi (legati persino al semplice repertorio basilare dei «gesti» con le braccia) in un ambito e un reper­ torio del tutto familiari, per ragioni storico-geogra­ fiche, ai musicisti che mi stavano davanti. La loro presenza mi apparve preziosa e insostituibile, avendo sempre in testa la regola ferrea di Antonino Votto: il gesto astratto e l’esercizio davanti allo specchio non servono, le braccia promanano dal cervello e - una volta in possesso dei semplici movimenti di base — il loro moto ha da essere del tutto spontaneo, come fossero la pura estensione della mente. Ho sempre fatto così, il mio modo è naturale e non ho mai pen­

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sato «cosa faccio?» neppure quando mi sono trovato a dirigere La sagra della primavera con l’orchestra di Philadelphia. Certo la tecnica è basata, se volete, sul­ le regole scientifiche che tutti i direttori conoscono e che qualcuno avrà letto nel manuale di Hermann Scherchen, ma — per quel che mi riguarda — non ho mai fatto uno studio scientifico. La tappa più importante fix Bergamo, al teatro Donizetti: per me neppure trentenne era come tro­ varmi alla Carnegie Hall o alla berlinese Philharmo­ nic! E tutto questo mi è servito a farmi — come si dice - il braccio in vista della prova di concorso. In commissione vidi Votto, Ferrara, Efrem Kurtz, Segnini, Napoli e qualcun altro. Risultai vincitore e due giorni dopo, il 1° ottobre 1967, al teatro Coccia di Novara con l’orchestra della Scala diressi la Setti­ ma di Beethoven e la sinfonia dei Vespri di Verdi; ar­ rivarono tutti i miei parenti e, prima di cominciare, mia madre impartì l’ordine severo di non applaudire (veniva da una famiglia molto rigida e applaudire un congiunto le sembrava una debolezza sconsiderata); mio padre invece — che aveva il temperamento pron­ to e cordiale del tenore — avrebbe visibilmente voluto farlo. In conseguenza del concorso ricevetti da Catania e Genova due inviti. Allora il mondo dei media non era quello di adesso, era più difficile viverci e più fati­ coso farsi conoscere. Il progetto di Genova non andò in porto perché la sovrintendente voleva decidere lei il programma e io recalcitravo; non lo feci per traco-

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(Parlammo nu fesso a a vota!»

tanza ma per rigore: ero molto giovane e, non pos­ sedendo ancora un repertorio, preferivo provarmi in qualcosa che padroneggiassi bene. A Catania, invece, il concerto si fece e diressi una delle due sinfonie in Mi bemolle di Bellini, un brano di Renato Parodi (raffinatissimo compositore napo­ letano ed eccellente strumentatore) e la Sinfonia dal Nuovo Mondo. Arrivai con un aereo da Milano di sera e andai davanti al teatro: mi investì un profumo intensissimo che proveniva dai fiori di zagara nelle campagne attorno. Era il paese di Mignon, «la terra dove fioriscono i limoni» evocata da Goethe: aveva l’effetto della droga, tanto era forte. Passai davanti all’ingresso degli artisti, il portiere mi accolse e mi mise a parte della birra che aveva appena ordinato: ho pensato tante volte, in seguito, quanto possa es­ sere diverso il nostro mondo — italiano, e per questo «meridionale» - quanto possa conservarsi, a onta dei suoi ben noti difetti, meraviglioso. Girando il mon­ do non ho mai trovato portieri del genere: di solito incarnavano nel modo peggiore il proprio ruolo, e qualcuno di loro era più severo del sovrintendente. Quelli delle prove furono giorni meravigliosi. L’orchestra era calda e appassionata, anche se na­ turalmente non era la Chicago Symphony Orche­ stra. Ricordo ancora che alla fine della sinfonia di Dvorak, quando arriva il tema al culmine col Mi die­ sis e il tremolo degli archi, * sentii qualcosa muoversi * E alle battute 333 sgg. dell’ultimo movimento.

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alla mia destra: guardai e vidi il primo violoncello, Paladino, che, in piedi, chiedeva ancor più entusia­ smo e partecipazione all’orchestra; era come se diri­ gessimo a quattro mani! Sono caratteristiche nostre che esistevano e forse oggi non esistono più, siamo diventati tutti «uguali», più composti. Alla fine del­ la generale avevo qualche dubbio su certi passaggi e non ero molto soddisfatto; ma lui mi si accostò e mi rassicurò: «Maestro, non dovete preoccuparvi, la sera del concerto la Filarmonica di Berlino siamo». In quegli ultimi mesi del 1967 fui pure a Mon­ treux (in Svizzera) e ai milanesi Pomeriggi musicali, di cui allora si interessava Remigio Paone, poi sovrin­ tendente a Firenze.

IV

Fu Remigio Paone a chiamarmi nel marzo del 1968 a Firenze per un concerto dove il solista era addirit­ tura Sviatoslav Richter, un gigante accanto a me che allora ero del tutto sconosciuto. Proprio per questo gli chiesero una sorta di nulla osta e lui mi fece dire di raggiungerlo a Siena dove stava preparando un recital per l’Accademia Chigiana. Capii che voleva mettermi alla prova, intendere che tipo di musici­ sta fossi; mi avrebbe chiesto di suonare e dunque mi misi a studiare con tenacia profonda la riduzione pianistica della parte orchestrale con cui avrei dovu­ to accompagnarlo. Si trattava del concerto per pia­ noforte in Si bemolle K. 450 di Mozart e di quello in Re maggiore di Britten (un brano potentissimo in cinque movimenti). Andai a Siena e raggiunsi l’Ac­ cademia. In un grande salone vidi quel grand’uo­ mo che mi aspettava davanti a due pianoforti; mi fece segno di suonare assieme a lui. Facevo la parte dell’orchestra. Dopo Mozart passammo a Britten, sempre con la stessa ripartizione dei compiti: alla fine s’alzò e mi disse, con l’aiuto dell’interprete: «Se

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lei dirige come suona è un buon musicista. Accetto il concerto con lei». Arrivai a Firenze e mi trovai davanti l’orchestra del Maggio, un complesso di gran nome. Regnavano però caos e baldoria per uno sciopero imminente, con tanto di invettive del caso; si accorsero in ritardo che ero sul podio, come dovessi, piuttosto che prova­ re, assistere alla loro conclone. Cominciammo con gli interludi marini dal Pe­ ter Grimes di Britten, poi il programma prevedeva la sinfonia in Do maggiore di Mozart K. 338, e per l’appunto i due concerti di Mozart e Britten. A ogni interruzione c’era qualche discussione fra gli orche­ strali e a un certo punto feci sentire il mio ramma­ rico per quel disordine: l’orchestra placò le sue dia­ tribe e qualcuno — siccome proprio in quel periodo erano in cerca di un direttore stabile — cominciò a pensare a me; l’interesse verso la mia persona crebbe alla seconda prova, il terzo giorno purtroppo le pro­ ve s’interruppero per colpa dello sciopero e quindi il concerto saltò. Ma Paone — che era un impresario accortissimo — volle conservare il concerto nel calen­ dario del Maggio. Lo sciopero si risolse nella mia fortuna: l’orche­ stra si era interessata a me e a maggio — pensavo — mi avrebbero accolto non come musicista nuovo ma come qualcuno da verificare per controllare di fatto se fossero giuste le loro prime positive impressioni. Avvenne proprio così: l’atmosfera fu diversissima alle prove, collaborativa e tranquilla, entusiasmante al

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L’interprete?

concerto; Leonardo Pinzanti scrisse nella recensione: «Un giovanissimo sorprendente direttore d’orchestra ha davvero aperto il cuore alla speranza».’ Paone quindi mi scritturò di nuovo per l’ottobre successivo: dopo aver iniziato con gli Appunti per un Credo di Ghedini feci il concerto per clarinetto K. 622 di Mozart (solista il locale primo clarinetto Detalmo Corneti) e nella seconda parte Aus Italien di Richard Strauss. Come accennavo, il clima delle prove era quello dell’entusiasmo febbricitante, tan­ to che comparve aH’improwiso Piero Farulli, allora membro del consiglio d’amministrazione, per verifi­ care se il gran parlare che si faceva di me avesse solide giustificazioni. Dopo il concerto fiorentino Pinzanti scrisse che «l’entusiasmo» era «apparso più che giustificato, e tale da lasciare buone speranze anche per l’annosa questione del “direttore stabile”»;* ** i dirigenti del te­ atro mi offrirono la possibilità di diventarlo, e co­ minciai a svolgere questo ruolo all’inizio del 1969. Fu l’orchestra a premere a vantaggio della mia as­ sunzione, un’offerta straordinaria che mi poneva in una situazione di grave ambascia: l’istituzione infatti * L. Pinzatiti, Richter e Muti: successo a sorpresa, in «La Nazione» del 20 giugno 1968. È la prima delle numerose recensioni in cui il critico fiorentino s’occupò del maestro, che ora si leggono tutte in Riccardo Muti al Teatro Comunale di Firenze 1968-1982, ETS, Pisa 2009, p. 1. ** L. Pinzanti, Vivo successo del direttore napoletano e del clarinet­ tista Detalmo Corneti, in «La Nazione» del 29 ottobre 1968, ora in Riccardo Muti cit., p. 3.

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era tanto prestigiosa da non poter non mettere in apprensione un direttore giovane come ero allora. C’erano Paone, Alberti, quella persona meravigliosa che era il segretario generale Mariani; e poi Vlad che ebbe l’incarico di realizzare un Maggio «espressioni­ sta» e quell’anno portò a buon fine il festival con un grande successo. Era il tempo in cui, in qualità di di­ rettore ospite, cominciava a dirigere a Firenze Zubin Mehta (ci fu una sua Aida affascinante con Shirley Verrett). Il fatto che tanti diversi personaggi agissero ma non fossero del tutto ben definiti nei loro ruoli è il segno del passaggio, straordinario e innovativo, che il teatro stava vivendo. Divenni dunque «direttore stabile», il direttore che «stava» in teatro e si occupava della sua vita gi­ rando molto poco all’estero. Quelle allora erano le mansioni e l’etichetta, non esistendo ancora la figura del «direttore musicale», peraltro derivata dal corri­ spettivo anglosassone del music director senza averne i poteri: specialmente in America è un ruolo al verti­ ce della piramide in organizzazioni dove non esiste, come da noi, un apparato burocratico parallelo. Appena nominato andai al negozio di musica Ceccherini — che allora era ancora nella vecchia sede di viaTornabuoni - e comprai il mio pianoforte, uno Schimmel a un quarto di coda che seguì dal 1969 tutta la mia carriera e sul quale ancora preparo le mie esecuzioni: non avrei mai il coraggio di tradirlo, che so io, per una gran coda Steinway, perché lo conside­ ro letteralmente una «persona» con cui porto avanti

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L’interprete?

per ore il dialogo meraviglioso di cui parla Schubert nel suo pudico e sublime An mein Klavier. Lo feci portare nella casa di via Rucellai 8, accanto alla chie­ sa episcopale americana di San Giacomo, dove abita­ vo con Cristina. Ci eravamo sposati a Ravenna il 1 ° giugno di quell’an­ no nell’antica chiesa di Sant’Agata. Mio testimone di nozze fu il maestro Votto, mentre Sviatoslav Richter si improvvisò fotografo e scattò alcune tra le foto più belle. Nino Rota, invece, si presentò alla cerimonia in taxi portando un baule vuoto in cuoio su cui ave­ va fatto incidere a fuoco le mie iniziali. Era vuoto, disse, perché avrei dovuto riempirlo della mia vita. Passammo la sera al Circolo degli amici (un gruppo, per l’appunto, di amici che venerava il melodramma e amava la buona cucina) assieme — fra gli altri — an­ che a Dino Ciani, Maria Carbone e Jacopo Napoli. Dopo cena partì quasi per caso un duello musicale tra Rota e Richter che s’avvicendavano al pianoforte per suonare frammenti sempre più piccoli del repertorio che l’altro doveva indovinare; eravamo tutti assai me­ ravigliati perché la gara finì col riguardare titoli sempre più «rari», e Richter mise in mostra una competenza — quella dell’italianissimo Rota era fuori discussione! — che molti di noi non s’aspettavano (era stato da giova­ ne pianista accompagnatore presso un teatro d’opera). Il fondatore del Maggio musicale fiorentino era stato Vittorio Gui, che lo aprì con un concerto sinfonico il pomeriggio del 30 aprile 1933. Figura straordina­

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ria, meriterebbe maggiore considerazione per quanto ha fatto a vantaggio della musica (basterebbe pensare all’impegno profuso nel riportare sulle scene alcune opere di Rossini, o il grande repertorio sinfonico a cominciare dalle sinfonie di Brahms). Le idee con cui nacque il Maggio erano assai avanzate, e non solo per quegli anni. I prodromi furono un congresso in­ ternazionale cui parteciparono, a partire dal 30 aprile di quell’anno, oltre a tutti gli italiani, anche storici del calibro di Paul Bekker ed Edward Dent, ed era già questa dimostrazione di un’iniziativa nient’affatto provinciale: * misero in scena Ipuritani di Bellini con le scenografìe di De Chirico, La vestale di Spon­ tini con bozzetti di Felice Casorati, Lucrezia Borgia di Donizetti con bozzetti di Mario Sironi, confezio­ nando stagioni avveniristiche rispetto a quella che era allora in Italia la pratica del melodramma, spesso votata alla pura e semplice sopravvivenza. Quarantanni dopo la presenza di Gui in città fu anche per me importantissima: oggi non lo ricorda più nessuno, tranne pochi appassionati ascoltatori di dischi, quindi nulla si sa - tanto per dirne una - del­ la sua lunga presenza al festival di Glyndebourne; vi portò un Rossini arguto e colto del tutto diverso dal comico strapazzato di chi allora profittava del reper­ torio buffo per trasformarlo in palestra di volgarità e di gag — prontamente e maledettamente riprese in * Vedi Atti del primo congresso internazionale di musica (Firenze, 30 aprile-4 maggio 1933), Le Monnier, Firenze 1935.

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L’interprete?

Germania: si pensi a quello che riescono a fare del finissimo Don Pasquale, trasformato in un operacela alla buona, sicché il pubblico non sorride per la co­ micità leggera, fine e colta di libretto e musica, ma s’abbandona agli stratagemmi volgari dei cantanti e del regista in un completo travisamento. Grandissi­ ma era la sua cultura. Quando lo incontravo a Fieso­ le, in una casa colma di testimonianze musicali (ave­ va conosciuto, fra gli altri, Richard Strauss), portava davanti ai miei occhi le grandi figure della storia del­ la musica recente con tale immediatezza e vivacità da convincermi di averli io conosciuti di persona. Nel privato, poi, non mancava di un senso critico mol­ to acuto verso le persone e le circostanze della vita musicale italiana, differenziandosi talvolta dai pareri ufficiali che si leggono nei libri. Attraverso di lui conobbi Luigi Dallapiccola. Erava­ mo a pranzo con Vlad e ci fix un dibattito vivace, piut­ tosto uno scontro, fra quest’ultimo e il grande compo­ sitore, il quale si lasciava andare a giudizi severissimi contro artisti importanti del Novecento: fra questi fa­ ceva un fascio solo di Brahms, Sostakovic, Òajkovskij e li trattava naturalmente da pessima erba. Su Brahms Gui, che evidentemente aveva perso la pazienza, mi fece un cenno, io m’accostai e me ne cominciò a par­ lare sottovoce; ne aveva pieno diritto perché amava definirsi — con un elevato ma simpatico e non arro­ gante senso di sé - «l’apostolo di Brahms» e fin dal lontano 1922 se l’era presa, in un articolo intitolato Brahms primo dei moderni, contro quelli che crede­

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vano «di poter fare a meno di accorgersi della grande importanza della sua musica». * La sua vicinanza fu molto importante per me anche perché mi guidava verso un mondo musicale che era l’antitesi speculare a quello di Votto, sorgen­ te cui finora mi ero quasi unicamente abbeverato, fondato sull’efficienza della direzione, la musica per la musica, poche storie, niente fronzoli e cianfrusa­ glie, andare dritti al cuore dell’opera, gesti essenziali, nulla più di quanto fosse strettamente necessario. A lezione ci ripeteva spesso: «Non rompete le scatole all’orchestra», e per un profano la frase può riuscire ridicola o fuorviarne, mettendo in discussione l’uti­ lità stessa del direttore d’orchestra; in realtà voleva solo raccomandare che, una volta avviata l’orchestra in un ordinato corso ritmico (ovvio risultato di prove e di controllo), il maestro non disturbasse quel natu­ rale cammino, evitando gesti inconsulti dal podio, tenendosi lontano dal ruolo del buffone di corte: non si doveva, insomma, alterare ciò'che la natura stessa del percorso aveva stabilito. È evidente che una simile posizione replicava in foto quella di Arturo To­ scanini. Ebbene, proprio questa efficienza era invece in * V. Gui, Battute d'aspetto. Meditazioni di un musicista militante, Monsalvato, Firenze 1944, p. 110. In una prima versione l’articolo era apparso addirittura sul «Corriere d’Italia» nel 1914. Si tenga conto che l’altra grande e celebre apologia per Brahms, Brahms il progressivo di Arnold Schonberg, data 1933 e il parallelo torna a tutta lode del maestro italiano.

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L'interprete?

Gui trasfigurata in immagini dove era la cultura a prevalere; lui le chiamò «tappe di un pensiero che sempre sostenne da presso l’attività dell’interprete» e arrivò a porci una domanda evidentemente retorica: «Che cos’è l’interprete se non un critico che batte alle porte della creazione?». * Si accostava all’orche­ stra come persona colta, e l’importanza del gesto era per lui secondaria (nessuno infatti lo ricorda come grande tecnico). Ma nell’ambito della musica sinfo­ nica ebbe un ruolo insostituibile: non dobbiamo mai dimenticare che l’Italia dovette (e forse ancora deve) fare uno sforzo notevole per recuperare una sensibi­ lità cameristico-sinfonica che la voga del melodram­ ma aveva attutito e messo da parte nella coscienza del grande pubblico. Il fenomeno data addietro: musicisti come Giuseppe Martucci e Giovanni Sgambati, ma perfino Ottorino Respighi, fecero vita grama e rima­ sero nell’ombra perché si ostinavano nobilmente a voler ricondurre l’Italia in seno al filone europeo da cui eravamo decisamente usciti identificandoci anima e cuore con l’opera, croce e delizia della nostra cultu­ ra musicale. Gui, invece, si mise a eseguire comune­ mente Brahms, Beethoven, e perfino Bach, Hàndel, Cherubini e Spontini, certo con l’atteggiamento di allora che non aveva nulla del moderno scrupolo filo­ logico (la Vestale, ad esempio, la tagliò senza remore), ma questo non escluse da parte sua uno straordinario approfondimento. Perfino YAgnese di Hohenstaufen ' V. Gui, Battute d'aspetto cit., p. 6.

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Prima h musica, poi k parok

di Spontini: quando la ripresi nel 1974 ero convinto si trattasse di un miracoloso ripescaggio, invece era già stata fatta, proprio a Firenze, da Gui nel 1954; inutile dire che si trattava di una versione estremamente ridotta rispetto all’originale; ne parlammo, e lui mi disse di considerare il secondo atto un capola­ voro dalla prima aH’ultima nota, le pagine fra le più belle di tutto [’Ottocento musicale. Fu in casa Gui che cominciai a riflettere sulla di­ rezione come questione non più solo d’accuratezza e precisione, ma anche di grande cultura. Era quello che avevo intuito quando mi ero iscritto a Filosofìa, ma solo Gui mi permise di rendermene pienamente conto.

A Firenze avrei diretto naturalmente i concerti c l’opera. Prima della stagione del Maggio avevo già fatto /puritani alla Rai di Roma chiamato da Fran­ cesco Siciliani, una figura fondamentale della mia crescita artistica (aveva messo gli occhi su di me a Milano quando ero al conservatorio, essendo lui di­ rettore artistico della Scala). La prima opera «fioren­ tina» furono I masnadieri nell’inverno del 1969, con un cast già fissato e la ripresa deH’interessante regia di Erwin Piscator, modernissima per allora. Era anche il mio primo Verdi «in scena»; non ebbi difficoltà a controllare il grande palcoscenico e l’acustica imper­ fetta della saia. Ebbi la sensazione immediata di un pubblico fantastico: quel pubblico rimane uno dei più straordinari fra quanti mi è capitato di incontrare

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14» madre Gilda Muli Peli-Srllitto. Il padre Domenico Muli con hi divisa da sollolencnlc medico.

Riccardo Muti idle elementari in piedi alla dolca del maestro. MIO nonno Donalo.

Conic mi legge urlili didascalia originale. il piccolo violinista Kirrardo Muti esegue mi concerto a Molletta nel 1952.

Xrlla fotografia rotonda, mi'iiiiinaginr del giovane violinista risalente allo stesso periodo.

Muli giovani *Min, una prova.

* duranti

A I rent'anni in un momento di relax nel mio camerino.

Negli mini '70 assieme alla moglie Cristina nel giardino di casa a Ravenna.

Con suo figlio Domenico nel 1979.

Nella pagina accanto Una paleggiai si nella Ravenna innevata insieme con il suo boxer.

Anni *80.

\iiiii

Cortina.

timi ’80, Marina di Ravenna.

it

Nella pagina accanto 7 dicembre 2004. alla prima della riapertura di lla Scala con l'Europa ficonosciuta di Antonio Salieri.

Nella platea pp. 176 sgg. («improvvisa solennità, sancta sanctorum, supplichevole la preghiera, preghiera più intensa, grazia che scende, clima religioso, corale religioso») e Hocquard, op. cit.y

ITI

Prima la musica, poi le parole

Già: la sorpresa d’un «suono» nuovo. Nelle Sette parole di Nostro Signore sulla croce, l’ultima sonata In manus tuas Domine la considerava «la più strana e astrusa», perciò prima di cominciare — era eviden­ temente l’unico modo a portata di mano per inten­ dersi coll’orchestra — non aprì bocca ma inclinans se deorsum cantò il «motto» iniziale:

Il gesto era di quelli irrevocabili: «partire dal canto: quello che da Mariani a Mancinelli a Toscanini a Se­ rafin sempre è stato fatto e si fa ancora dai massimi direttori d’orchestra; perché nessun mezzo eguaglia, in efficacia e in precisione, quello di cantare una fra­ se, uno spunto, un semplice inciso all’artista sceni­ co o all’esecutore orchestrale, per farne intendere, offrendo il modello da imitare, il carattere, il mo­ vimento, l’accento, il respiro, l’intimo sentimento: tutto ciò, insomma, che non può essere detto con la parola, tutto ciò che costituisce l’ineffabile della musica, cioè l’essenza stessa della musica». * In manus tuas quasi all’esordio contiene il profilo standard dei corni (le cosiddette «quinte dei corni», qui raddop­ piati dagli oboi), e doveva essere — disse il maestro p. 163 («assai vicino per spirito alfultimo attacco su in mortis del mottetto»), ‘ Le righe sono del bellissimo e forse negletto Lualdi, L'arte cit., p. 54, i corsivi tutti delfautore.

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Postfazione

alle prove — musica «che viene da lontano». Col che intendeva subito rilevare rispetto al resto proprio l’episodio delle battute 8-12 (e dunque 88-92 nella «ripresa»):

La sera del concerto il fascino del passo riuscì indi­ cibile, perché scartò di fatto una malinconia generi­ ca e divenne ai miei occhi teneramente allusivo. Ho aperto la partitura l’indomani: vi ho trovato la riprova di quello che colla dimestichezza del drammaturgo Muti aveva realizzato la sera prima. In tutta la mu­ sica di Haydn per le Sieben Worte, infatti, non è che mancassero i corni: essi fanno parte dell’organico sin dall’esordio; ma non c’è una volta - se si eccettua il frammento alle battute 50-52 del Terremoto, anne­ gato nella dinamica del fortissimo — in cui la coppia suoni secondo la formula caratteristica e inflazionata della successione 6a-5a-3a; com’è noto essa appartie­ ne per «natura» allo strumento tanto da giustificare la comune etichetta di «quinte dei corni» (un’opera di colossali dimensioni come il concerto Imperatore ci campa da capo a fondo). Nelle Sette Parole avvie­ ne il contrario e i corni realizzano quasi sempre una serie di ottave o la successione 8a-5a. Haydn quindi ha risparmiato accuratamente la formula per l’ultimo numero riscattandola al ruolo di nobile metafora, de­

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stillandola all’espressione dell’/» manus tuas, Domine, commendo animam meam, «Padre mio... la mia ani­ ma... prendila per mano!», quando Gesù torna a casa dopo le sofferenze della Passione (ancor oggi duran­ te il rito del congedo s’usano espressioni del genere: «ritorna quest’oggi alla casa del padre»). Figura della nostalgia, memoria del proprio paese che in tanti Lieder di Schubert conserva al viandante il miraggio del ritorno o esprime il dolore teso dell’«heimados». Si tratta d’una tradizione in particolare tedesca, tant’è vero che anche le raccolte popolari d’uso domestico ne abbondano sfruttandone, senza tema di'ripetersi, il concetto (poco importa se fra le mura di casa fini­ sce sulla tastiera del pianoforte e non alla coppia dei corni: tutti accettano di buon grado l’indispensabile accomodo!). Anche se gli esempi potrebbero molti­ plicarsi, il melos di Haydn sul momento è elementare e identico a quello che mormora Gretel ai margini del bosco nell’opera di Humperdinck, «Ein Mannlein steht im Walde ganz stili und stumm»:

Im Walde. Sehrruhig (J=G6) GRETEL

vor sich hin summend)

Ein Mann-lein steht im Wal-de ganz stili und

stumm,

Perciò, rispetto alla fioritura posteriore, il caso pre­ coce del 1785 (anno delle Sieben Wortè) contiene

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Postfazione

qualche accenno - se mi si perdona la scolastica cro­ nologia - di sapore preromantico; in un’opera fatta tutta di «Empfìndungen» e quasi per intero immu­ ne dai segni della «Malerei» (ne conto appena tre: terremoto a parte, la «cadenza» di Consummatum, la «pioggia» di Sitio e la «patria» di In manus), Muti ha colto infallibilmente l’episodio mimetico, rafforzato dall’effetto di eco, scontato ma teatrale per obbligo, che le ultime misure di flauti e corni portano a com­ pimento. Per i professori d’orchestra, allora, tradusse in «come se non ci fosse più luce» la didascalia sem­ pre più piano, che ha il tepore dei banchi di scuola: «il suo nido è nell’ombra, che attende, che pigola sempre più piano». Nell’eco l’inciso si ripete pp, il maestro ha intuito le caratteristiche sporadiche della pittura sonora e l’ha — non posso evitare di ripetermi — precisamente messa in scena. Colla stessa esatta, istintiva inconscia (si può dire?) sicurezza replicò la figura nel teatro di Ravenna * diri­ gendo Norma nel 1994 al passo estremo del dramma­ tico confronto tra gli amanti: dopo un motivo di sedi­ cesimi che rammenta un poco i brividi della sinfonia, un frammento unisono di scala ascendente, soluzione piuttosto scontata appresso alla «corona» sull’accordo di dominante, introduce il duetto In mia mano alfin tu sei ed è preceduto dal topico distintivo dei corni: * Non si ripeterà mai abbastanza che, tutte le volte che l’esecuzio­ ne fu doppia, la migliore, ahimè, non fu quasi mai quella della Scala, l’aula del teatro a misura d’uomo costituendo - in provincia - un impagabile atout.

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Prima la musica, poi le parole

Io avevo sempre trovato quegli incisi, oltre che stan­ dard, troppo mimetici, coloriti, allusivi, insomma inevitabilmente sovresposti e perciò indiscreti in un finale di così austera tragedia come Norma. Quella sera però i corni divennero lontanissimi, pressoché impercettibili, votati a un effetto di eco che figurasse nostalgia e ricordo (sono, come si sa, sentimenti de­ stinati a ripetersi). Per la prima volta compresi la bel­ lezza d’un luogo che credevo di conoscere a menadito e Muti volle dirmi colla stessa dolcezza d’Apollinaire: «Les souvenirs sont cors de chasse. Dont meurt le bruit parmi le vent», «Come corni da caccia i ricordi, un rumore che muore nel vento». * È siffatta la «creatività» inconsapevole che si chie­ de a ogni interprete degno di questo nome: le stes­ se parole che un giorno, poche ore prima d’un ese­ cuzione del Requiem verdiano nella fiorentina San Lorenzo, furono monito confidenziale all’orchestra * Cors de chasse. Chi vuole può andare a leggersi il curioso Nove arabeschi e un “Messaggio”di romantico affetto al “corno da caccia”passato dal bosco all’orchestra di A. Ferriguto, Chiamenti, Verona s.d.

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Postfazione

(accortosi che il basso Elenkov non capiva un’acca del testo latino e perciò correva a ogni passo il ri­ schio d’imboscarsi: «Stasera» disse «qualunque cosa succeda, guardate solo me!»), diventano durante una prova esemplare Coll’Orchestra Giovanile Italiana la spia dell’artista autentico, quello che ha in odio «il fantasma della confezione»: * «Non pensate sempre così! Guardatemi stasera e venitemi dietro: qualcosa di diverso..., non so ancora quello che farò stasera!». Ora pensate che in una pagina del Monologo Carmelo Bene, quando ha da rimproverare l’attore che in sce­ na minimizza il suo ruolo d’attore per farsi semplice narratore «epico-didascalico-dimostrativo» del testo, porta l’esatto esempio del direttore d’orchestra: «Un direttore d’orchestra che, dopo l’ultima “prova gene­ rale”, abbandona la bacchetta alla “prima”, capacissi­ mo poi di recriminare “che le cose non sono andate come avrebbero dovuto a cominciare dagli interpre­ ti” preferibili semmai allo sbaraglio; almeno, forse, un chessoio d’involontario, irresponsabile, gratuito potrebbe sporgersi dal finestrone a tende rosso-vellu­ to aperte sul consenso indifferente del pubblico che, ormai narcotizzato dal testo morto, è lì convenuto a domandare una ulteriore tranquillizzazione». * ’ Va da sé che proprio per queste caratteristiche, d’un direttore come Riccardo Muti non vanno ascoltati i di­ schi: tassativamente proibito sedersi davanti agli alto* Il felicissimo slogan è in C. Bene, Sono apparso alla Madonna, in Opere cit., p. 1074. ’* Opere cit., p. 1010.

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parlanti e narcotizzarsi per trenta volte collo stesso effet­ to, il quale — a ripetersi — diviene morto «effettaccio»! Forse era stato proprio l’aplomb a deluderlo quel pomeriggio alla To traccia di Fiesole: «L’ordine lo la­ sciamo agli altri!» aveva raccomandato agli orchestrali poco prima, contentando il mio orgoglio nazionali­ stico che per un attimo si scoprì anti-Philarmoniker; una confessione questa che riscatta dallo «stile internazionale» dell’industria discografica la possi­ bilità d’un suono «nazionale» e lo salva dall’attuale precipitosa reificazióne; proprio provando Paisiello e avvisando i professori dell’imminente

li rassicurò che lì, a Milano, era una coserella, bastava fermare subito l’arco e mettere «sul p molta sinistra al­ trimenti muore il suono», mentre «a Vienna ci voglio­ no sempre dieci minuti per farglielo capire se non vuoi che facciano il solito/seguito dal solito diminuendo!». * Dev’essere, in paesi di lingua tedesca, errore diffuso se già sullo scorcio dell’ottocento segnalavano: «Archi e Era in gioco l’aria di Giorgio nella Nina («Del suo mal non v’affliggete») al secondo episodio «Se vedeste, mio signore».

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fiati hanno l’abitudine di suonare invece del prescritto fp un forte-diminuendo. E uno svarione comune a qua­ si tutte le orchestre e distrugge gran parte dell’effètto voluto dal compositore. Per permettere alla nota di passare immediatamente al piano dopo ilforte iniziale, devi chiedere agli archi di trattenere l’arco subito dopo l’attacco, e i fiati il respiro». * La risoluta opposizione dinamica, preziosa in sce­ na, è poi metafora del dramma, cioè del genere al cui fondo «carattere comune permane quello di rappre­ sentare comunque un conflitto»;” tanto che Muti ne enfatizzava il modello all’inizio del finale I di Nina, quando il quartetto attacca con una coulé corta e. for­ te (un levare di sedicesimi e trentaduesimi) seguita dalle crome staccate, piano. Per lui, ad onta del tem­ po sostenuto e della legatura, la stanghetta doveva costituire in quel caso un autentico confine:

* C. Schroeder, Katechismus des Dirigieren$ und Taktierens, Hesse, Leipzig 1889, p. 37. ** S. D’Amico alla voce «Dramma» dell’Enciclopedia italiana (1949), XIII, p. 202.

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«Sono due cose diverse-, la prima è una spinta, la se­ conda il semplice camminare» (quello stesso finale sarebbe poi terminato con un Più allegro da suonare «Un poco pazzo, è troppo...» e qui, uniti pollici e in­ dici, fa con entrambe le mani il gesto consueto dell’zz puntino}. Nel Don Giovanni a Ravenna nessuno fra noi sapeva di quei recitativi: dettaglio tale da condizio­ nare in maniera imprevista tutta la rappresentazio­ ne. Non solo adempivano il desideratum di Mozart (nella lettera al padre da Mannheim del 12 novem­ bre 1778 scrive entusiasta: «nel brano di Benda si parla sulla musica e durante la musica: così conver­ rebbe nell’opera trattare quasi tutti i recitativi»), ma prodigavano nell’arco delle tre ore vere sorprese. La forma dell’accompagnamento, scelta evidentemen­ te dal maestro, bizzarra in apparenza, una nota, un accordo, soprattutto — finalmente! — molti silenzi, incantava sin dal primo numero fornendo alla sto­ ria l’euforica sveltezza che i soliti accordi uno ap­ presso all’altro e le intollerabili cadenze sulla tastie­ ra del cembalo mortificano. A un critico illustre, che preferì, del tutto legittimamente, un direttore «più completo ed equilibrato», tutto questo — nuo­ vo e molto a la Mozart — sembrò «velleitario»: a noi restituì l’intreccio, e con l’intreccio il dramma. Al finale del prim’atto facemmo poi tesoro delle cele­ berrime tre orchestrine che suonano tre danze di­ verse, un passo arcinoto ai commenti, evanescente a teatro perché i direttori tutti law and order tendono

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a smussare gli spigoli e fonderle sotto la primazia d’una delle tre (manco a farlo apposta il minuetto); mai ci capitò come quella sera di sentirle tanto pe­ nosamente cozzare e di apprezzarne il sapore aspro, il gusto del vero. Lo spazio reale sul palco era tutto in mano al maestro, che lo animava come il miglio­ re dei «metteurs en scène». Per restare in argomento prendete appena un fi­ nale I, La donna del lago di Rossini: mi chiedo chi prima di Muti abbia capito essere la banda sul pal­ coscenico non banda (se non nell’eroica accezione di Hans Werner Henze) ma il doppio generoso dell’or­ chestra, cui occorreva restituire fulgore:

Ancora una volta un problema risolto centosettant’anni dopo la «prima»? Credo di sì, ed era ri­ solto talmente bene che, vi confesso, a sentirlo mi son chiesto perché non avesse Muti avuto il coraggio di fare quel che prima di lui azzardavano Wagner e Mahler: strumentare ex novo il fuoriscena onde sot­ trarlo alla polvere della fanfara sul palco. D’averci suggerito spontanea una domanda simile gli fummo, comunque, estremamente grati. Certo, ancora una volta fu virtù del maestro l’aver riempito lo spazio (alla Rossini) o aver scelto (alla Artaud) un linguaggio singolarmente concreto per

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farlo parlare. Mi accorgo perciò d’aver posto sin qui quasi sovrappensiero - si tratta in effetti di reazioni dove il cuore sbaraglia V esprit — l’analogia di Muti col «metteur en scène». È la ragione per cui mi tornò in mente ascoltando la Nina di Paisiello l’emerito saggio sul Teatro e la metafisica secondo il quale fan­ no teatro i lampi — «.coup de fioudre» id est «coup de théàtre»\ — che imbiancano Le Figlie di Lot nella tela di Luca di Leida: «Il pathos ivi contenuto è comun­ que visibile, anche da una certa distanza, colpisce lo spirito con una fulminante armonia visuale; la chia­ mo così perché il suo acume agisce tutto assieme e si raccoglie in un unico sguardo». * Chi tiene all’autar­ chia può leggerne quasi una traduzione nelle righe in cui Carmelo Bene pubblica la propria idea di tea­ tro: «Come fuochi notturni d’artificio le parole illu­ minano laceranti il cielo, palpitano ciascuna di vita propria e incandescente, si danno in frase, se nè già perso il senso che già altri fuochi brillano folgoranti lassù, oltre il senso». ** Questo erano tutti gli incisi e i motivi della Nina ossia La pazza per amore', e per questo all’ultimo numero (Oh che dolce sospirare!') dopo ch’ebbe il maestro scherzosamente invitato i professori ad «allacciare le cinture di sicurezza», nel vortice un poco folle gli inserti lentissimi del coro isolato dalle corone Figlio è amor della pietà diven­ nero suono come contrasto retorico ‘ A. Artaud, La mise en scène et la métaphisique, in Le théàtre et son double, in Oeuvres completes, IV, Gallimard, Paris 1964, pp. 39-42. * * C. Bene, Marlowe, in Opere cit., p. 1017.

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e spiccavano dal numero col prestigio del noema, la breve sezione omofonica irrompente alla fine dell’antico mot­ tetto polifonico, * fino a capitombolare colle prodezze dell’ultima accelerazione sugli accordi in cadenza: «Que­ ste sono formule! Jamme!! Non è Beethoven!!!» disse il maestro per invitarli a stringere oltre l’immaginabile. Qualcosa di simile sul finire del Don Giovanni che imba­ razzava Mahler come futile inciampo dinanzi alla morte sopraterrena dell’eroe: piombano i superstiti dalle quinte di destra (Ah dovè ilperfido?), li insegue il baleno dei ri­ flettori, ma è Muti — lo vedete — e non il regista a trovare col suono vaialtra luce. Spinge 1’Allegro assai al precipizio, lo frena per l’inserto degli amanti (Or che tutti o mio teso­ ro)', noi al buio della sala sappiamo che rispetto alla n. 15 ha inventato un’altra «scena». Tutto a posto: è giusto così. Ho scritto «incisi»: perché sono gli attimi shakespe’ Per tale accezione vedi sul noema C. Kuhn, Analyse lernen, Bàrenreiter, Kassel 1994, p. 68.

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ariani «della perfetta illusione» (Stendhal) e «gli istanti di suono e di choc» che Thomas Eliot soffriva in Se­ neca e Shakespeare. Eliot e Stendhal, due che di teatro se ne intendevano! In quegli istanti l’identificazione ruba lo spettatore a se stesso e trasforma la sempli­ ce «esperienza» in «vissuto», non più «Erfahrung» ma «Erlebnis». Allo stile del maestro — senza che ne soffra l’assieme, la «coerenza unitaria» fondata in musica da Amadeus Hoffmann (oltre che, va da sé, da Aristo­ tele!) — appartiene il distinguere momenti espressivamente al colmo, il coraggio desolarli da par suo: nel­ le centodue misure del lunghissimo Confitebor delle Vesperae, ad esempio, le battute 63-65 erano per lui «Runico momento di grande poesia di tutto il brano»:

Avvenne così nella recita di Manon Lescaut, dove im­ pareggiabile fu la reminiscenza del minuetto a venti misure dalla fine come Muti la suonava: per solito lo fanno solo «sentire», e per impudicizia l’azzerano; quella sera invece annegava misterioso e irricono­ scibile e per questo tentavi di trattenerlo collo stes­ so sconforto della protagonista. Come gli occhi della madre di Andersen o la ragazza del fumetto di Liech­ tenstein, appariva sul fondo del lago: «I dont care! I’d rather sink than call Brad for help!»; nel pozzo del

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giardino della Morte «il destino dell’altro era tutto guai e miserie, sventura e patimento». * La sera del 1° dicembre 1970 il fragore impaziente del tamburo di latta irrompe sulla scena nell’istante in cui un baritono scorato predica le pene del suo cuo­ re (le più elementari e le più insopportabili: un amo­ re non corrisposto) e la musica prova a illuderle con un «affetto» tanto maldestro quanto l’amor di patria: d’improvviso la fanfara straordinariamente potente «riempie il luogo» — direbbe Rossini ** — coll’obiettività d’un arredo di scena, arnese sconosciuto, trapassato e irriconoscibile come la roba d’un rigattiere. Questo era per il giovane Riccardo Muti a trent’anni l’esordio dei Puritani. «Je dis que la scène est un lieu physique et concret qui demande qu’on le remplisse, et qùon lui fasse parler son langage concret»: *** i tamburi che suo­ navano da varie parti, Verso Prometeo in una sorta di modernissimo Quadrivium o Répons che dir si voglia, li scoprivi diversi ed erano così nettamente visibili da rendermi per miracolo inutile la presenza del regista: **** * H. C. Andersen, Storia di una mamma, in 40 novelle, a c. di M. Pezze-Pascolato, Hoepli, Milano 1931, p. 32. ** «La musica allora è, direi quasi, l’atmosfera morale che riempie il luogo in cui i personaggi del dramma rappresentano l’azione» (G. Rossini trascritto da Antonio Zanolini in Una passeggiata in compa­ gnia di Rossini, riprodotta in L. Rognoni, Gioacchino Rossini, Einau­ di, Torino 1977, p. 379). *’* «Io voglio dire che la scena è un luogo fisico che esige imperio­ samente che qualcuno la riempia, facendole parlare il suo concreto linguaggio» (A. Artaud, La mise en scène cit., p. 45). ***’ L’episodio musicale è nei Puritani, I, n. 9, bb. 12-29, e la figura impiega evidentemente uno degli schizzi di Nono per Verso Prometeo',

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Mi sono chiesto spesso, il giorno dopo, cosa faces­ sero intanto gli attori, dove fosse il coro e se l’aves­ sero provvisto d’uno sfondo, un guazzo qualunque che tenesse conto del calendario e di tutti quei dettagli da romanzo storico che pure il libretto pretese. Mi dimenticai di Sandro Sequi, non ricor­ davo più nulla. Allora capii che al posto del regista - e del «teatro» miseramente inteso — c’era quel ragazzo dai capelli neri in mezzo all’orchestra cui per quasi tutta la sera avevo urlato «Bravo» — con speciale ostinazione dopo le arie d’Elvira, perché sul tema vedi H.P. Haller, La tecnica del «live electronic» allo Studio sperimentale di Friburgo, in Luigi Nono e il suono elettronico, Milano Musica, Milano 2000, pp. 213-17.

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non vi fossero dubbi su chi era il goleador! Non per lo spirito gregario odioso al Canetti del Masse und Macht * o all’Adorno della Meisterschafì" e all’Hindemith degli Interpreten ** , non per certa ***** esuberanza da smorzare, ma per qualcosa d’infìnitamente più semplice: l’identificazione autentica, che dal tempo d’Aristotele definisce lo spettatore a teatro a caccia d’una vista istantanea ma celere e imprevista su quel che c’è di diverso al di là del mondo e su una vita - del baritono stavolta - che ci era toccata un giorno senza che mai ce ne fossi­ mo accorti. Quando la mattina dopo Pinzami co­ minciò la sua recensione, fu costretto ad ammette­ re: «Il fascino del teatro lirico è fatto anche di un “bravo” gridato nel momento meno opportuno: in fondo è un segno di vita e di partecipazione» * ’" e io mi sentii un ragazzaccio pago come il bombarolo di De André. * E. Canetti, Aspekte der Macht: Der Dirigent, in Masse undMacht, Hanser, Miinchen 1960, pp. 468-470. *‘T.W Adorno, Die Meisterschaft cit., p. 55. **’ P. Hindemith, Interpreten, in Komponist in seiner Welt, Atlantis, Ziirich 1994, pp. 171 ss.; è evidente che la sua avversione contro il direttore come sostanzialmente autoritario, tradisce, quanto quel­ la degli illustri connazionali in nota qui sopra, il ricordo pauroso e osceno del Fuhrer. **** L. Pinzauti, Entusiasmo di altri tempiperipuritani al Comunale, in «La Nazione», 2 dicembre 1970, ora in Riccardo Muti al Teatro Comunale di Firenze 1968-1982, ETS, Pisa 2009, p. 17. Muti aveva già diretto qualcos’altro al Comunale, ma fu quella sera che scattò un sentimento imprevisto nel rapporto col pubblico, e l’illustre critico se ne accorse coll’obiettiva onestà che gli è propria.

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Può sembrare, come tutte le reazioni personalis­ sime, capriccio o regesto inutile d’una nostalgia che, per gran parte inconscia, sarebbe da tenersi segreta. Forse è il segno di qualcosa di più e serve a descrive­ re la natura del personaggio e del suo fenomeno in termini meno fragili di quel che appaia. Me lo sugge­ riscono gli avvisi che regolano alcune pagine di Car­ melo Bene: guai alla regia se riproduce il testo col ri­ spetto timido di chi si contenta di leggerlo incurante della voglia del nuovo che abbiamo nella penombra del teatro, e guai a quella che s’azzarda a guastare il melodramma, dove la musica è già regia tutta scritta e la partitura sostituisce impeccabilmente il copione illuminando situazioni e intreccio con più esplosivi arnesi che la parola. Nella tradizione della scuola italiana, quella fon­ data, per la coscienza del grande pubblico, da Tosca­ nini, che vide crescere nel tempo come nelle pagine d’un «romanzo familiare» la genealogia dei De Sa­ hara, Gui, Gavazzeni, fino al sublime Carlo Maria Giulini (lo dico alla lettera: come il «pensiero che trascendendo i confini del bello solleva l’animo no­ stro dalle basse cose terrene e lo porta nei campi dell’infinito»),’ assieme ai Votto e ai Serafin custodi ‘ La definizione è nel Dizionario di Tommaseo; non so quanti siamo a pensarlo, ma sono nella buona compagnia di Fedele D’Ami­ co: «“Noi in Inghilterra consideriamo Giulini il più grande direttore che l’Italia abbia prodotto dopo Toscanini”: avrei controfirmato da ogni punto di vista» {Insuperabile sarà lei!, in Tutte le cronache cit., p. 1613); «Giulini è l’inverso: suono, dinamica etc. partoriti dal fra­ seggio; e un fraseggio più intimo che vistoso, ma penetrantissimo e

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invisibili nel buio della «fossa» orchestrale del «eore_ to dell’Opera come Verdi e Puccini lo avevano loro quasi senza cesure tramandato, Muti appare dunque alla fine degli anni Sessanta e, secondo le abitudini del costume musicale italiano, dirige assieme reper­ torio sinfonico e melodramma. L’uno e l’altro sen­ za distinzioni gerarchiche, il primo vitalizzato dalla forza «rappresentativa» e dalla potenza scenica del secondo, il secondo trattato colla dignità e lo scru­ polo con cui si era soliti accostarsi al primo. In un attimo si risolse la vexata quaestio dell’«espressione»: colla musica, per Muti, si doveva sempre, che ci fosse o no un libretto, «parlare», comunicare qualcosa a un pubblico, nei termini più rapidi e autentici che fossero possibili, rispettando il testo — va da sé — ma riproducendolo collo stesso slancio creativo (innato? istintivo? intuitivo?) che era stato quello dell’autore (per questo sopra abbiamo preso in prestito da Ador­ no il paradosso dell’«abschreiben»). Il melodramma divenne il luogo d’uno straor­ dinario incontro col pubblico perché ogni nota era tramite di un senso che andava perfino al di là delle esigenze della trama: e la nuova trama, quella soprat­ tutto musicale, si faceva talmente necessaria e inin­ terrotta da riconoscere in Muti quel «regista» di cui nella Voce di Narciso si vaticina, in grado di rivelarne onnipotente» (Stasera dirige Dominiddio, ivi, p. 1655); rifiutando i dischi deiradorato Furtwangler: «Tenetevi i vostri dischi, io prefe­ risco soccorrere la mia memoria con le sue reincarnazioni, e vado a sentire Giulini» (ivi, pp. 1505 sgg.).

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ogni più. spicciolo contenuto. Che lo si voglia credere o no, era come rendere superfluo il ruolo del regista: il ruolo gli spettava in una sorta di particolarissimo e, ci sembra, finora inusitato «teatro di regia». L’istin­ to visionario gli permetteva di tradurre una «situa­ zione» emotiva nelle linee della frase musicale e del canto con una vivacità che, senza concedere dubbi, ti convinceva sul momento e ti accordava la migliore esperienza del teatro, fatta da secoli — perdonatemi se lo ripeto — di poche grandi cose: identificazione, pietà, pathos, intesa e paura. Lo capii quel 1° dicembre e lo provai ancora una volta in misura insuperabile un pomeriggio del giu­ gno 1996 quando mi capitò d’assistere al Comunale di Bologna, direttore Muti, all’ultima prova d’orche­ stra di Cavalleria rusticana per le recite di Ravenna di dieci giorni appresso, senza cantanti né coro e - ovviamente - senza scena. L’impressione fu quel­ la d’aver goduto di Mascagni tutto il possibile. E il buio del libretto, evidentemente rischiarato da quel poco di sommario che avevo in mente quanto alla storia, non fu d’ostacolo al comprendere, mi permise piuttosto una reazione quale mai avevo avuto a una recita tradizionale. Qualcosa di simile mi capita, per intenderci, se ascolto una celebre registrazione di Toscanini alle prove, la seconda parte del second’atto della Traviata di Verdi a sola orchestra, cioè la festa in casa di Flora: onore al merito, non ho bisogno alcuno di guardare perché il direttore fa tutto, surroga il regista, rim­

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piazza il libretto e ti spiega — col ruvido mezzo delle sue note — quanto sia vero quello che, per chiarire la natura del Teatro, ha scritto Artaud nel suo sag­ gio «metafisico» paragonandolo alla mole d’una pi­ ramide. Cos’altro diavolo avevano costruito gli Egi­ ziani nel deserto se non una montagna scenica che cresce dal nulla (intesa per «nulla» la piccola salma del faraone, cioè il testo)? «Fare a meno d’impiega­ re la scena» leggo nel Théàtre «è come se qualcuno, avendo a disposizione una piramide per sistemarvi il cadavere del faraone, col pretesto che per il faraone basta una nicchia si contentasse della nicchia e faces­ se saltare in aria la piramide; non salterebbe in aria in una sola volta tutto il sistema filosofico di cui la nicchia è il semplice punto di partenza e il cadavere la condizione?». * Forse riesco a chiarire meglio quel che provai, an­ cora una volta colla citazione nostrana. E un ricordo d’infanzia di Carmelo Bene: Per me insomma teatro era quello «lirico»: suoni, luci,

fasti, sperperi, spettacolo dove non si parlava come nella vita. Al mio orecchio bambino, quelle genti di «prosa» mi pareva — due o tre volte ne fui spettatore -, tant’era la loro naturalezza, che brontolassero tra loro. [...] «Quando cantano?» importunavo la nonna. «Ignorante, questi non cantano, parlano.» «Parlano e son pagati?» * A. Artaud, Première lettre sur le langage, in Le théàtre cit., p. 127.

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«E perché no, vuoi che parlino gratis?» «Ma il teatro è lo stesso dove si viene a sentir la musica e cantare.» «Uff! Questi non centrano con la musica. Non hanno voce.» «E allora che ci siamo venuti a fare?». *

Colpisce, a cominciare dallo scorcio autobiografico, la passione insinuante del grande attore per il melo­ dramma e per l’opera. Al teatro dell’opera si canta, nel teatro tout-court no. Così il ricordo d’infanzia è una sorta di apologo, il quale testimonia non solo il fervo­ re autentico per quel genere ma, addirittura, ciò che Bene pensasse del teatro. La pensava, lo sanno tutti, come Artaud: «L’afasia del linguaggio si verifica pun­ tuale negli intervalli tra un indumento e l’altro, nella negligenza, in certe maldestre combinazioni del ve­ stiario, stonature etc. In siffatti incidenti, la balbuzie, gli spasimi inumani, i grugniti, gli eccessi di tosse con­ vulsa, il sudore caldo e freddo, il nominare insensato signoreggiano il campo scenico»; ** e poi: «Il dramma­ turgo apriori è concepibile soltanto se il suo copione, lungi dal troppo sconfortante, abituale tennis di “bat­ tute” in prosa, è invece già un progetto di spettacolo, se, come nella specificità della musica, è partitura che l’esecuzione reinventerà nella sera della sua festa». *** ’ C. Bene, Palco di prosa (Giuseppe di Stefano), in Sono apparso alla Madonna. Vie d>(H)eros(es)) in Opere cit., p. 1112. ~ Ivi, p. 997. * ** Ivi, p. 1006.

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Nei momenti in cui ci si cambia il vestito, se Dio vuole, del testo tragico non si riproduce parola o ver­ so alcuno. Si realizza cioè l’ideale che segnò l’espe­ rienza infantile: smettono di raccontarsi i fatti loro sulla scena. Una contrapposizione tra il testo e l’atto­ re temporaneamente muto mette da una parte il lin­ guaggio e dall’altra tutto quel che gli è estraneo, de­ gradato il primo ad «afasia». È la teorizzazione adulta dell’esperienza infantile con la nonna. «Siffatti in­ cidenti» finiscono col «signoreggiare»: tutto quanto appartiene all’altro piatto della bilancia sorpassa dal punto di vista della scena il coté linguistico. Preferire la «balbuzie» e, in particolare, far teso­ ro del «nominare insensato», porre da una parte il linguaggio e dall’altra qualcosa di residuo non bene identificato e assai largo non è isolato paradosso ma tappa d’una polemica che data duemila anni e segna più o meno tutta la storia del teatro: muove contro Aristotele, il quale, colla sua passione per il «testo» a danno degli elementi accessori e spettacolari abita esattamente gli antipodi. Tutto questo premesso, di­ venire fanatici del melodramma è inderogabile. Se la prende Bene col tennis montato dal «dialogo» delle battute, e contrappone alla «prosa» la festa della sua messinscena (nella Poetica aristotelica i due termini sono, per l’appunto, quelli di lexis e opsis)> da una parte il teatro meschino, dall’altra quello vero. E per questo che non trova di meglio, a divulgare la sua di poetica, che il modello dell’opera: s’affeziona alla partitura perché ha fondato, convinto, l’omologia

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essenziale fra Teatro e melodramma, dove, sostituita al copione la partitura, il regista «drammaturgo» fi­ nalmente scompare lasciando il posto al compositore e, di fatto, per quel che al momento ci interessa, al direttore d’orchestra. Un paradigma del genere mi aiuta a spiegare indo­ le, virtù e caratteri di Riccardo Muti come direttore d’orchestra: proprio nella prospettiva di Bene (il testo nemico a teatro, il teatro meritevole di qualcos’altro) la messinscena trova nell’«accompagnamento» dell’or­ chestra un oggetto prezioso in cui non è tempo e luogo di chiacchiere, né di «socratismo» né di puro «linguag­ gio». Ed è la ragione del mio incidente sentimentale alla Cavalleria bolognese come «symphonische Dichtung»; o della curiosità improvvisa—devo tornare al dicembre del 1970! - che provai per gli accenti ultramarcati che il maestro conferiva al ménage à trois nel colmo del fi­ nale primo dei Puritani'. «Ah! che festi? — La prigionie­ ra! - Dessa io son! - Vien... tua voce altera or col ferro sosterrai. - No, con lei tu illeso andrai»:

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Sono l’esempio del verdiano «tra non molto la mia musica la vedrete soltanto» * o dell’«occhio commos­ so almeno quanto l’orecchio» ** in Artaud, «le grésillement d’un feu d’artifice à travers le bombardement nocturne des étoiles» che Muti traduce prontamen­ te per i professori d’orchestra colla «parola scenica»: «Come uno sberleffo!». Lo vidi in certi passi indi­ menticabili del Nabucco, della Nina o delle Nozze di figaro'. ■J-t •

***

Negli anni del Regie Theather il melodramma, per tagliar corto, è dunque il paradigma del teatro nobil­ mente inteso: * Sono le parole che Bene attribuisce a Verdi, ivi, p. 1011. ’’ A. Artaud, La mise en scène cit., p. 40. Nabucco, sinfonia, bb. 207 sgg; Nina, explicit del I atto (cui si riferirono propriamente le parole del maestro); Le nozze di Figaro, ouverture, bb. 61 sgg.

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Ancora più grottesca e intollerabile la presenza del regi­ sta nell’opera lirica, [...] regolarmente aggravata la situa­ zione dalla «morbosità» dell’arredamento: non mi rie­ sce ascoltare Mozart senza il castigo visivo d’un salotto «così» e perché non «così». Le luci, sempre ignoranti del­ la musica servono solo a «vederci», e a colorare (quando è bel tempo) albe e tramonti già illuminati o spenti dalla partitura. Verdi profeta: «Tra poco la mia musica la ve­ drete soltanto»; [...] in Verdi la musica è sempre azione, e per di più con tanto d’effetti «calibrati», stracalcolati, che non sopportano la volgarità d’un raddoppio visivo. [...] Nel grande oblio dei palcoscenici d’oro, la parola fu musica, finché l’avvento dell’epos euripideo-socratico rovinò la poesia tragica in dialettica. Questa guerra in­ sensatamente dichiarata alla ragione morale dell’ebbrez­ za necessitò di un linguacciuto prologo defraudando il teatro della sua «consolazione metafisica» *.

Le righe del capitolo forse più importante fra gli scrit­ ti di Bene, quello intitolato II monologo, ci stanno davanti colla semplicità d’un manuale: da una parte la musica del melodramma è tanto teatrale da vedersi più che sentirsi e proprio per questo quel che il re­ gista riesce a fare è destinato al pleonasmo; dall’altra il testo e le sue miserie dialettiche guastano senza ri­ medio l’esperienza inebriata dello spettatore: la co­ struzione irresistibile delle note è, sull’altro versante, regale metafora del Teatro e della messinscena. * C. Bene, Opm’cit., pp. 1011 sgg. e 1005.

Postfazione

Per ricapitolare: Aristotele, leggendo i tragici, si prendeva cura delle parole scritte e assai poco teneva in conto il testo rappresentato (nel doppio aspetto di conspectus ed apparatus) * In molti — Artaud fra i moderni - ne rovesciarono la gerarchia e CarmeIo Bene, intenzionato quanto lui a cavare dal teatro tutto quello che fosse messa in scena soverchiante il testo, scoprì nel melodramma il genere più adatto a rappresentarlo, perché il libretto (testo) vi si fa da parte e nulla è rispetto a una musica (Teatro) che lo amplifica a dismisura: al detestato copione vi si so­ stituisce la partitura e il compositore prende il posto dell’aborrito regista. Siccome da una parte il compositore - mi permet­ to d’aggiungere — noi non lo percepiamo senza il ma­ gico tramite del direttore d’orchestra, e dall’altra non tutti posseggono il senso della scena come Riccardo Muti, questa è la luce in cui m’appare, se mi passate il termine, la sua arte. «Il poeta mette in gioco la nostra voglia istintiva ' È la doppia versione con cui le prime traduzioni latine del Valla (1498) e del Pazzi (1536) rendevano il greco òpsis-, che la seconda sia divenuta «a partire da quel momento di uso generale nei commenti della Poetica redatti in lingua latina» (E Donadi, Per una interpre­ tazione aristotelica del dramma, in AA.W, Poetica e stile, Liviana, Padova 1976, p. 6) non meraviglia noi lettori di Bene: contro il «poverismo» (cit., p. 999), in lode del lampadario (da Baudelaire, ivi, p. 1002), colla nostalgia degli operistici «palcoscenici d’oro» (ivi, p. 1005), «la sera della sua festa» (ivi, p. 1006), il «visivo sulla scena» come «silenzio musicale (lungo o breve spazio di tempo) della voce» (ivi, p. 1018), cioè «un senso visivo che non si mostri complementa­ re alla voce» (ibidem).

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di conoscere» ha scritto Nietzsche nella primavera del 1880 «il compositore al contrario la fa riposare; potranno mai andare d’accordo poeta e compositore? Quando ci abbandoniamo completamente alla musi­ ca non abbiamo nessuna parola in testa e questo è un grande sollievo. Appena ascoltiamo di nuovo parole e cerchiamo conclusioni, quando insomma capiamo il testo, la nostra reazione alla musica diviene subito superficiale, la leghiamo illico et immediate ai con­ cetti, la paragoniamo a sentimenti, ci esercitiamo in risultati simbolici. Tutto questo è molto divertente, ma la profonda e singolare magia che ha dato riposo al nostro pensiero, quel benedetto crepuscolo che ha spento per una volta il lume del giorno dello spirito, tutto ciò svanisce. Quando invece non capisci più. le parole tutto si rimette in ordine, e per fortuna di so­ lito è la regola: i testi peggiori sono sempre quelli da preferire ed è giusto perché non cercano di attirare l’attenzione, al contrario quasi pretendono di essere * trascurati». Il che, con altre parole, è più o meno lo stesso che: «Non importa se non ne capite niente, perché conta quel che vi dice personalmente, le emo­ zioni che vi suscita, fregatevene dei Soloni». **

' È segnato 3.118 tra i Frammenti postumi. Riccardo Muti ai carcerati milanesi di Bollate la sera del 18 gennaio 2010.

Indice dei nomi

Indice dei nomi

Abbado, Claudio, 114 Abert, Hermann, 226 Adorno, Theodor Ludwig Wiesengrund, 182, 202, 202n, 224, 226n, 243, 243n, 245 Agrippa, Menenio Lanato, 32 Ajello, Ugo, 33, 34, 39 Alagna, Roberto, 121 Albergati, Francesco, 63n Alberti, Luciano, 54, 77 Albertini, Gabriele, 141, 149 Alfano, Franco, 107 Alighieri, Dante, 22n, 143n, 178 Altobelli, Salvatore, 35 Andersen, Hans Christian, 240, 241n Apollinaire, Guillaume, 232 Archipova, Irina Konstanti­ novna, 82 Aristotele, 240, 243, 249, 253 Arrau, Claudio, 170

Arruga, Franco Lorenzo Ni­ colò, 44 Artaud, Antoine Marie Jose­ ph, 201, 237, 238n, 241, 247n, 248, 251, 25In, 253 Audi, Pierre, 85 Bach, Johann Sebastian, 33, 59, 62, 64 Badini, Carlo Maria, 117 Barbieri-Nini, Marianna, 74 Baretti, Giuseppe, 63n Barilli, Bruno, 155 Bartali, Gino, 162 Bartók, Béla Viktor Janos, 28, 171 Bastianelli, Giannotto, 69 Bastianini, Ettore, 36, 120 Battistini, Mattia, 132 Bechi, Gino, 196n Beecham, Thomas, 80 Beethoven, Ludwig van, 35, 44, 46, 48, 59, 63, 91,

257

Prima la musica, poi le parole

92, 99, 107, 126, 127, 147, 170, 176, 179, 193, 194, 196, 212, 214, 221, 239 Behne, K.E., 206n Bekker, Paul, 56, 223 Bellini, Vincenzo, 49, 56, 151, 152, 155, 164, 206, 208, 211 Bello, Antonio detto Tonino, 20 Bene, Carmelo, 86, 162, 183, 213n, 233, 233n, 238, 238n, 244,247,248,248n, 249,250,25 In, 252,252n, 253, 253n Benedetto XVI (Joseph Alois Ratzinger), 158, 159 Benigni, Roberto Remigio, 13 Berg, Alban, 27 Bergman, Ingmar, 86 Berio, Luciano, 222n Bertoia, Giulio, 114 Bertolucci, Bernardo, 86 Bettinelli, Bruno, 37, 39, 41, 44 Biagi, Enzo, 209n Boccherini, Luigi, 222n Bogianckino, Massimo, 97 Bóhm, Karl, 94, 97, 151, 196n Bòhm, Karlheinz, 196n Boito, Arrigo, 188, 189 Bolognini, Mauro, 66, 67

Bonisolli, Franco, 62 Borciani, Paolo, 44 Bosè, Lucia, 196n Boult, Adrian, 80 Brahms, Johannes, 46, 47, 56, 57, 58n, 59, 80, 81, 91,92, 93, 179 Britten, Edward Benjamin, 51,52 Bruckner, Josef Anton, 91, 148, 171, 186 Bruscantini, Sesto, 71, 176 Bruson, Renato, 78 Budden, Julian, 210 Billow, Bernhard von, 195, 208n Busoni, Ferruccio, 106

Caballé, Montserrat, 71, 72 Cagli, Corrado, 72 Cajkovskij, Petr Il’ic, 47, 57, 110, 151, 152 Callas, Maria, 120, 121, 145, 160, 161 Canetti, Elias, 242, 243n Cappuccio, Ruggero, 137 Caprara, Maria Luisa, 44 Caracciolo, Franco, 36 Caramia, Giacinto 35 Carbone, Maria, 42, 44, 45, 46, 55 Carlo, principe del Galles, 82 Carol, Norman, 101 Carraro, Tino, 109, 147

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Indice dei nomi

Carsen, Robert, 87 Caruso, Enrico, 67 Casadesus, Robert, 168 Casorati, Felice, 56 Castagnone, Riccardo, 39 Castellano, Lucia, 193 Cavani, Liliana, 122 Ceccarossi, Domenico, 168 Cecchele, Gianfranco, 68, 69 Celibidache, Sergiu, 44, 168 Cesi, Beniamino, 30 Cherubini, Luigi, 59, 64,117 Chopin, Fryderyk Franciszek, 25, 35, 44, 193, 195 Christoff, Boris, 162 Ciani, DinOi 55 Cilea, Francesco, 32, 140 Cimarosa, Domenico, 41, 176 Coni, Paolo, 121 Copland, Aaron, 109 Coppi, Fausto, 162 Corelli, Franco, 120 Gorghi, Azio, 41 Corneti, Detalmo, 53 Cortese, Valentina, 146 Craxi, Bettino, 114, 116 Cri tone, 221, 22In

Daliapiccola, Luigi, 57 D’Amico, Fedele, 62, 71, 72, 73, 75n, 134, 204n, 209, 210n, 244n D’Amico, Silvio, 235n Daniela, Isa, 164

Da Ponte, Lorenzo, 95 D’Aquino, Domenico, 42, 43 De Amicis, Edmondo, 13 De André, Fabrizio, 243 De Chirico, Giorgio, 56 De Filippo, Eduardo, 183 De Filippo, Giuseppe detto Peppino, 37n, 38 De Fusco, Laura, 35 Degrada, Francesco, 41 De Judicibus, Maria, 24 Della Seta, Fabrizio, 21 In De Maria, Tina, 33 De Martino, Ernesto, 17,18n De Nardis, Camillo, 34 Dent, Edward, 56 De Sabata, Victor, 146, 160, 244 De Simone, Domenico, 196 De Simone, Roberto, 113, 115, 134 Di Costanzo, Pasquale, 151, 152 Di Giacomo, Salvatore, 25n, 192n Di Leida, Luca, 238 Di Martino, Aladino, 34 Dimitrova, Ghena, 114 Di Stefano, Giuseppe, 162, 163, 248n Domingo, Plàcido, 136 Donadi, Francesco, 253n Donizetti, Domenico Gaeta­

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Prima la musica, poi le parole

no Maria, 44, 56, 81, 91, 92, 178 Donath, Helen, 77 Dreyer, Carl Theodor, 16In Diirr, Walther, 206n Dvorak, Antonin Leopold, 47, 49, 169

Elenkov, Stefan, 232 Elgar, Edward, 80, 148 Eliot, Thomas, 239, 240 Elisabetta II, regina del Regno Unito, 148, 149 Enriquez, Franco, 65, 72, 134, 176 Erving, Julius Winfield, 109 Esculapio, 221, 22In Fabbricini, Tiziana, 121, 122, 123 Farulli, Pietro, 53, 100 Fedele, Ivan, 105, 147 Federhofer, Hellmut, 219 Federico II, imperatore del Sa­ cro Romano Impero, 116, 157 Fellini, Federico, 86 Ferrara, Franco, 48 Ferrari, Franca, 205n Ferretti, Dante, 122 Ferriguto, Arnaldo, 232n Ferro, Luigi, 44 Fieramosca, Ettore, 127 Fiume, Orazio, 27

Flimm, Jurgen, 176, 177 Fontana, Carlo, 141 Fornati, Vito, 10 Forrester, Maureen Kathleen, 64 Francesconi, Luca, 105, 147 Freni, Mirella, 120 Fricsay, Ferenc, 90 Frigerio, Enzo, 118 Fucini, Renato, 15 Furtwangler, Wilhelm, 90, 244n

Gandolfi, Romano, 226n Gassman, Vittorio, 38 Gavazzeni, Gianandrea, 114, 209n, 244 Gazzelloni, Severino, 168 Gedda, Nicolai, 61, 164 Gencer, Leyla, 73, 74 Gentilucci, Armando, 41 Gerstenberg, Walter, 206n Gerber, Rudolf, 63n Ghedini, Giorgio Federico, 53, 107 Ghiaurov, Nicolai, 161, 162 Giaquinto, Corrado Dome­ nico Nicolò Antonio, 10 Gigante, Aldo, 20 Gilels, Emil Grigoryevic, 169 Giovanni Paolo II (Karol Jo­ zef Wojtyla), 158 Giulini, Carlo Maria, 244, 244n, 245n

260

Indice dei nomi

Gluck, Christoph Willibald von, 33, 63, 75, 78, 116, 140, 208, 208n, 220 Goethe, Johann Wolfgang von, 49, 173, 221 Grassi, Paolo, 97 Gray, Dorian, 37n Grondona, Marco, 186n Gruberovà, Edita, 134 Guelfi, Giangiacomo, 71, 137 Gui, Elda, 101 Gui, Vittorio, 55, 56, 57, 58n, 59, 60, 72, 99, 100, 101, 106, 137, 244 Guidi, conti, 101 Hahnke, Kurt, 194n Haller, Hans Peter, 242n Hampe, Michael, 95 Handel, Georg Friedrich, 59, 64, 171 Haydn, Franz Joseph, 62, 91,92, 96, 171,201,214, 229,230 Hayez, Francesco, 76 Henze, Hans Werner, 209, 21In, 237 Herrmann, Karl-Ernst, 84 Herrmann, Ursel, 84 Hindemith, Paul, 178, 243n Hocquard, Jean Victor, 223n, 227n Hoffmann, Amadeus, 240 Humperdinck, Engelbert, 230

Jancsó, Miklós, 78, 87 Job, Enrico, 78 Jommelli, Niccolò, 177, 178 Karajan, Herbert von, 69, 79, 81, 89, 94, 95, 105, 120, 121, 176 King, Martin Luther, 108, 109 Kleiber, Carlos, 148, 225 Klemperer, Otto, 79, 81 Knappertsbusch, Hans, 90 Kolisch, Rudolf, 21 In Kraus, Alfredo, 162 Krips, Josef, 90 Kuhn, Clemens, 239n Kunze, Stefan, 223n Kurtz, Efrem, 48

Lanni della Quara, Dorothy, 46 La Rotella, Pasquale, 25 Legge, Walter, 79 Leoncavallo, Ruggero, 18, 66, 67, 68 Levine, James, 191 Liebermann, Rolf, 82, 83 Liechtenstein, Roy, 240 Liszt, Franz (Ferenc), 31 Luchetti, Veriano, 65, 66, 73 Lualdi, Adriano, 225, 226n, 228n Ludwig, Christa, 162 Ma, Yo-Yo, 193

261

Prima la musica, poi le parole

Maestri, Ambrogio, 137 Mahler, Gustav, 64, 105, 162, 205,237, 239 Malipiero, Francesco, 107 Mamprin, Dino, 45 Mancinelli, Luigi, 228n Manzoni, Alessandro, 10 Manzoni, Giacomo, 105,147 Manzù, Giacomo, 78,79,134, 154 Marconi, Luca, 205n Mariani, Renato, 54, 228 Marischka, Ernst, 196n Martucci, Giuseppe, 30, 59, 106, 111 Mascagni, Pietro, 18, 66, 68, 69, 105, 164, 246 Massenet, Jules, 36 Massimiliano I d’Asburgo, imperatore del Sacro Ro­ mano Impero, 97 Mastrocinque, Camillo, 37n, 38 Matacic, Lovro von, 44 Mazzavillani Muti, Cristina, 42, 44, 46, 55, 69, 94, 102, 139, 140, 142, 165, 179 Mehta, Zubin, 54 Mendelssohn, Jakob Ludwig Felix, 64 Menuhin, Yehudi, 170 Mercadante, Giuseppe Save­ rio Raffaele, 176, 178

Mercalli, Giuseppe, 29 Metastasio, Pietro, 177 Meyerbeer, Giacomo, 64 Mila, Massimo, 223n, 227n Milstein, Nathan Mironovic, 110 Modugno Muti Beatrice, 103 Molinari-Pradelli, Francesco, 36 Montarselo, Paolo, 176 Monteux, Pierre, 168 Mordler, John, 163 Morder, Gerard, 84 Mozart, Wolfgang Amadeus, 39, 51, 52, 53, 62, 77, 83, 85, 92, 93, 94, 95, 101, 116, 117, 177, 184, 202, 202n, 21 In, 216n, 218, 236, 252 Munch, Charles, 168 Musorgskij, Modest Petrovic, 34, 80 Muti, Chiara, 101, 102, 103, 157 Muti, Domenico (bisnonno), 103 Muti, Domenico (figlio), 102, 103 Muti, Domenico (padre), 9, 10, 13, 15, 16, 18, 19,21, 22, 25, 26, 38, 45, 48, 69, 70, 103 Muti, Donato, 10, 18, 21 Muti, Francesco, 101, 102, 103

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Indice dei nomi

Napoli, Gennaro, 34 Napoli, Jacopo, 29, 30, 32, 33, 34, 37, 44, 48, 55 Nicolai, Cari Otto Ehrenfried, 97 Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 196, 221,254 Nono, Luigi, 24In Norman, Jessye, 65

Ojstrach, David Fedorovyc, 110 Orff, Cari, 171 Ormandy, Eugene, 99, 100, 101, 110

Pagano, Mauro, 95 Paisiello, Giovanni, 32, 44, 204n, 205, 213, 226, 234, 238 Paladino, Ettore, 50 Palestrina, Giovanni Pierluigi da, 158 Paolo, santo, 119, 207n Paolo VI (Giovanni Batti­ sta Enrico Antonio Maria Montini), 42, 158 Paone, Remigio, 50, 51, 52, 53, 54 Parodi, Renato, 49 Pavarotti, Luciano, 138, 139, 140 Pazzi Dè Medici, Alessandro, 253n

Peli-Sellitto, Gilda, 9, 10, 16, 20, 26, 29, 37, 38, 43, 48, 153 Pellegrini, Glauco, 196n Pergolesi, Giovanni Battista, 117 Perosi, Lorenzo, 158 Pescucci, Gabriella, 122 Petri, Mario, 73 Petrolini, Ettore, 38n, 42,183 Pezze-Pascolato, Maria, 24In Piccinni, Niccolò, 226 Pinzanti, Leonardo, 53, 6In, 243, 243n Pirandello, Luigi, 105 Piscator, Erwin Friedrich Max, 60 Pizzetti, Ildebrando, 35, 107 Pizzi, Pier Luigi, 61, 75 Platone, 63n, 22In Polifroni, Mario, 71, 72 Pollini, Maurizio, 171 Porpora, Nicola Antonio, 158 Poulenc, Francis Jean Marcel, 117 Prencipe, Giuseppe, 34 Prètre, Georges, 209n Prevedi, Bruno, 72 Proietti, Luigi detto Gigi, 13 Prokof’ev, Sergej Sergeevic, 28, 82, 101, 171 Proust, Marcel, 136 Puccini, Giacomo, 140, 245

263

Prima la musica, poi le parole

Racine, Jean, 186 Ramey, Samuel, 118 Rapalo, Ugo, 34 Ravel, Joseph-Maurice, 165 Reagan, Ronald Wilson, 108 Reno, Teddy, 37n Renzi, Armando, 31 Respighi, Ottorino, 59, 105, 106, 107 Richter, Sviatoslav Teofilovic, 35,51,53n, 55, 139, 164, 165 Ricordi, Giulio, 135n Riemann, Hugo, 205, 205n Risi, Dino, 38 Rognoni, Luigi, 24In Romani, Felice, 178 Ronconi, Luca, 17, 75, 76, 117, 118 Rossini, Gioacchino, 56, 61, 62, 92, 93, 154, 212, 221, 237, 241, 241n Rossomandi, Florestano, 24 Rota, Nino, 26, 27, 28, 29, 55,86 Rotondi, Umberto, 44 Rubinstein, Arthur, 161 Ruggero, Franco, 27 Rutter, Deborah, 192 Sachs, Curt, 206n Saint-Saèns, Camille, 33, 168 Salvemini, Gaetano, 10,11 Salvi, Gino, 142

Saranskij, Anatolij Borisovic, 82 Scarlatti, Domenico, 42, 65, 176 Sciarrino, Salvatore, 105,147 Schenker, Heinrich, 219, 219n Scherchen, Hermann, 48 Schinelli, Achille, 39 Schonberg, Arnold, 58n, 91 Schonberg, Harold Charles, 101 Schroeder, Carl, 235n Schròder-Devrient,Wilhelmine, 216n Schubert, Franz Peter, 35, 55, 93, 96, 179, 193, 196, 201,202, 203,221,230 Schultze, Norbert, 96n Schumann, Robert, 29, 30, 92, 195, 222, 222n Scotto, Renata, 122, 162 Sebastian, Bruno, 62 Segnini, Francesco, 48 Selmi, Giuseppe, 168 Seneca, Lucio Anneo, 192n, 240 Sequi, Mario, 61 Sequi, Sandro, 78, 242 Serafin, Tullio, 209n, 228, 244 Serkin, Rudolf, 169 Sgambati, Giovanni, 59, 106 Shakespeare, William, 186, 240

264

Indice dei nomi

Siciliani, Francesco, 60, 64, 71, 72, 176 Siepi, Cesare, 161 Sironi, Mario, 56 Skrjabin,AleksandrNikolaevic, 105, 107 Socrate, 221, 22In Solera, Temistocle, 191 Soliima, Giovanni 147 Solti, Georg, 83 Sordello da Goito, 195 Sostakovic, Dmitrij Dmitrijevic, 57, 178 Souliotis, Elena, 68 Spontini, Gaspare Luigi Pa­ cifico, 56, 59, 60, 71, 72, 117, 127 Stanislavsky, Konstantin Sergeevic, 226, 227n Stefanato, Angelo, 168 Stefani, Gino, 205n, 218,218n Stella, Antonietta, 71 Stendhal, 186, 187, 239, 240 Stern, Isaac, 110 Stokowski, Leopold, 110 Stoppa, Paolo, 196n Strauss, Johann, 96 Strauss, Richard Georg, 53, 57, 96, 151, 152,153 Stravinskij, Igor Fèdorovic, 28, 46, 64, 94, 104, 116, 137, 146n Strehler, Giorgio, 77, 83, 117, 137

Swarowsky, Hans, 119

Tadini, Emilio, 209n Tangari, Angelo, 12 Tebaldi, Renata Ersilia Clo­ tilde, 120, 159 Terzi, Celestino, 135 Tessa, Delio, 38n Thalberg, Sigismund, 30, 31 Tommaseo, Noccolò, 244n Tortelier, Paul, 169 Toscanini, Arturo, 39, 41, 58, 67, 81, 90, 105, 110, 114, 122, 145, 169, 202, 225, 228, 244, 244n, 246 Tosti, Francesco Paolo, 140 Totò (Antonio De Curtis), 37n, 38, 154 Trintignant, Jean-Louis, 38n Tucker, Richard, 67 Ulrich, Hugo, 208n Ursi, Corrado, 20

Vacchi, Fabio, 147 Valla, Lorenzo, 253n Vartan, Sylvie, 218 Verdi, Giuseppe, 48, 60, 63, 73, 75, 76, 77, 79, 92, 115, 116, 117, 119, 122, 123, 124, 126, 127, 128, 129, 130, 131, 132, 133, 134, 135, 145, 160, 178,

265

Prima la musica, poi le parole

188, 191n, 201,209,212, 245, 246, 25In, 252 Verrett, Shirley, 54 Vick, Graham, 85, 87, 136 Virgilio, Publio Marone, 195 Visconti, Luchino, 83 Vitale, Vincenzo, 27, 30, 31, 32, 34, 35, 40, 144, 170 Vitez, Antoine, 77 Vittorio Emanuele II di Savo­ ia, re d’Italia, 76 Vivaldi, Antonio Lucio, 20, 42, 64 Vlad, Roman, 54, 57, 64, 66, 70,71 Volterra, Patricia, 100 Votto, Antonino, 34, 37, 39,

40,41,43, 47, 48,55, 58, 86, 244

Wagner, Richard, 100, 116, 127,202,202n,207,207n, 212, 214, 215n, 216n, 218,219, 220, 220n, 237 Walter, Bruno, 64, 90 Webster, Daniel, 101 Weill, Kurt, 96n Weinstock, Arnold, 81, 82, 149 Werner, Friedrich Ludwig Zacharias, 192n Zanolini, Antonio, 24In Zeffirelli, Franco, 140

Indice

I II III IV V VI VII Vili IX X XI

Un violino anziché un giocattolo «Hai mai pensato di dirigere?» «Parlamme nu fesso a a vota!» L’interprete? L’orchestra del destino Musica per il Nuovo Mondo Alla Scala Lo spirito napoletano Incontri Guardare avanti La musica non ha confini

9 29 37 51 89 99 113 151 157 173 191

Postfazione di Marco Grondona Il duolo e la bell’anima Indice dei nomi

201 257