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Italian Pages 216 [218] Year 2021
Cucina Benessere Manuali Varia
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione in “Varia” aprile 2015 Prima edizione in “Tempi Liberi” maggio 2021 Testi: ROSANGELA PERCOCO Traduzione in inglese: DONNA BROWN Fotografia di copertina: .*$)"&-#&350-"4* Fotografie prodotti e ricette: FRANCESCA BRAMBILLA, SERENA SERRANI Fotografie brigata (pagg. 192-193): JACOPO VIMERCATI Fotografia Acqua, zafferano e riso alla milanese D’O (pagg. 198-199): MAURIZIO GALIMBERTI Fotografie cantiere ristorante (pag. 204): DAVIDE OLDANI Fotografia cucina ristorante (pag. 205): ANDREA RINALDI Stampa Grafiche Busti - VR ISBN 978-88-58-84484-7
DAVIDE OLDANI
NON REGIONAL, SUSTAINABLE ITALIAN CUISINE CUCINA NON REGIONALE ITALIANA, SOSTENIBILE
A Camilla Maria ed Evelina a mio padre che mi ha voluto bene e a mia madre che continua a volermene a Walter e Mariarosa a nonna Laura
To Camilla Maria and Evelina to my father who loved me to my mother who continues to love me to Walter and Mariarosa to grandmother Laura
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entre scrivo queste righe – che aprono e nello stesso tempo chiudono il libro che sta per andare in stampa – si verificano in contemporanea una serie di eventi che mi piacerebbe facessero parte di queste mie riflessioni. In queste ore Papa Francesco parla del “paradosso dell’abbondanza”. Infa i, dice, c’è cibo per tu i, ma non tui possono mangiare, mentre lo spreco, lo scarto, il consumo eccessivo sono davanti ai nostri occhi. E nonostante il moltiplicarsi delle organizzazioni e gli interventi della comunità internazionale sulla nutrizione, troppe persone mancano del cibo quotidiano, hanno smesso di pensare alla vita e loano solo per la sopravvivenza. Per inciso, dal giorno in cui Papa Francesco ha definito “permesso, grazie e scusa” le parole per l’armonia della famiglia fino a quest’ultima frase sul cibo mi sono riconosciuto in un modello non solo di cucina ma anche di famiglia. Da oggi all’autunno prossimo numerosi tavoli saranno impegnati nei lavori di “Le idee di EXPO” per dare vita alla Carta di Milano, documento che esprimerà la proposta dell’Italia su “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”, tema dell’Esposizione Universale 2015, e che sarà consegnato in oobre al segretario generale dell’Onu. In questi giorni il Presidente del Consiglio infonde oimismo sul futuro dicendo che il prossimo anno sarà “un anno felix, che non vuol dire solo felice ma anche fertile”. Da qualche tempo sempre più chef di tuo il mondo studiano nuovi connubi fra gusto e benessere, legame per me irrinunciabile fin da quando ho pensato alla Cucina POP: il buono deve coniugarsi con il sano, con i conti a posto, con un Pianeta rispeato e “nutrito” e con il riconoscimento del lavoro di agricoltori e produori. Qualcuno dice che le coincidenze non esistono, e io sono abbastanza d’accordo. Allora significa che stiamo parlando di necessità, di un mondo che ha urgente bisogno di ripensare il suo modo di mangiare e di far mangiare, i suoi stili di vita e i suoi comportamenti quotidiani. A questo proposito, apro una breve parentesi su uno degli aspei del nostro auale modo di vivere, compreso il mio, e cioè la velocità eccessiva. E lo faccio anche pensando a questo libro e alle “non coincidenze” che ho appena elencato. Viviamo in frea e anche la comunicazione va troppo veloce: oggi si parla di qualcosa o di qualcuno e domani è tuo dimenticato. Per proseguire ciò che hanno fao i grandi di una volta, in qualsiasi campo bisogna fare l’incredibile se si vuole durare in quest’era della velocità. Ciò nonostante, io amo quest’epoca di sfide e sono grato al destino che mi ha fao trovare all’incrocio di tue queste “non coincidenze”. Se tu i insieme vinceremo la grande partita che c’è in ballo, magari correremo il rischio di essere dimenticati, ma resterà quello che abbiamo fao. Perché il più bel modo di andarsene è il pensiero di avere realizzato – o almeno di averci provato – qualcosa di buono per qualcuno.
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hile I write these lines – that both open and close the book that is about to go to print – a series of events are happening all at the same time that I would like to include in my reflections. At this time, Pope Francis is talking about the “paradox of abundance”. In fact, he says, there is enough food for every one, but yet not everyone can eat, while wastefulness, discard and excessive consumption are staring us in the face. Even though there is an increase in the number of associations and initiatives of the international community dedicated to nutrition, too many people do not have food on a daily basis: they have stopped thinking about life and are struggling merely to survive. From the day Pope Francis defined “please, thank you and excuse me” as the words for family harmony, to these latest comments about food, I have identified with this model not only in the kitchen but also at home. From now until next autumn, many groups will be busy working on “The Ideas of EXPO” so that the Carta di Milano, a document that will present Italy’s proposals for “Feeding the Planet, Energy for Life”, the theme of the Universal Exposition. The paper will be delivered to the Secretary General of the United Nations. The Prime Minister of Italy is instilling a sense of optimism, saying that next year will be an “anno felix”, not only in the sense of happy but also fertile. For some time now, chefs all over the world have been studying ways of combining taste and well-being, something which for me absolutely must go together, from the time I started to think about Cucina POP: good has to be healthy, the books have to balance, the Planet respected and “nourished” with the recognition of the contribution of workers and farmers. Some people say that there is no such thing as a coincidence and I agree more or less. This means that we are talking about a necessity, about a world that has an urgent need to rethink its ways of eating and of feeding people, its life styles and its daily habits. I would also like to make a brief comment about one of the aspects of our present way of life, including my own, and that is its excessive speed. I say this thinking about this book and the “non-coincidences” that I just listed. We live at top speed and communication is also extremely fast: today we talk about something or someone and tomorrow it is all forgoen. To continue with what the greats of the past have accomplished, in whichever field, you must do things that are absolutely incredible if you want to last in this era of speed. That notwithstanding, I love this period of challenges and I am grateful to the destiny that brought me to the crossroads of all these “coincidences”. If together we win this game, we might run the risk of being forgoen, but what we accomplish will remain. Because the best way to leave this world is with the thought that you have accomplished – or at least tried to accomplish – something good for someone.
Si italien et si universel Préface de Alain Ducasse
Il y a les racines et il y a le parcours. Les racines de Davide Oldani sont en Lombardie, anciennes et profondes. Commencé au pied des Alpes, en 1987, chez le grand Gualtiero Marchesi, son parcours l’a amené chez Albert Roux, au Gavroche, à Londres puis au Louis XV, à Monaco. Retour alors chez Marchesi, comme sous-chef, puis chef de Giannino, à Milan, avant de partir à Paris où il reste plusieurs années. Nous sommes en 2003 et Davide a passé plus de quinze ans à parcourir l’Europe et à apprendre son métier. Il décide alors de revenir au pays, très précisément dans son village natal, Cornaredo, dans la grande banlieue de Milan. Le 23 octobre, il ouvre D’O et le succès est fulgurant. La « cuisine pop » dont il se fait le héraut exprime à la fois ses racines et son parcours. Elle est italienne – de tout son cœur et de toute sa passion. Il est facile de reconnaitre la tradition et l’héritage familiaux dans ses recees. Elle est aussi universelle par son message : l’immense bagage culinaire acquis pendant les années d’apprentissage se met au service d’une vision. Il s’agit de rendre la haute cuisine accessible, il s’agit de travailler en accord avec la nature, il s’agit de proposer une cuisine plus saine. Bref, il s’agit de faire la cuisine d’aujourd’hui. Je n’ai pas grand chose à ajouter à ce programme car c’est aussi le mien. Et c’est également celui de beaucoup d’autres cuisiniers d’aujourd’hui. Nous avons chacun nos racines : j’ai planté les miennes sur la Riviera, d’autres ont leurs racines en Amazonie, au Pérou, en Écosse ou dans le Massachuses. Peu importe : à chacun son terroir mental. Nous faisons tous la cuisine de nos racines et nous faisons tous, en même temps, une cuisine ouverte sur le monde et sur l’époque, c’est-à-dire consciente des enjeux que représentent la mission de nourrir nos contemporains. Davide Oldani fournit ici sa contribution très personnelle. Il apporte une perspective italienne – celle de son Italie à lui – à ce grand dialogue mondial sur la cuisine d’aujourd’hui. Et cee contribution est d’autant plus universelle qu’elle est personnelle. Car, en fi n de compte, l’âme du cuisinier est le trait d’union entre toutes les cuisines.
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Così italiano e così universale
So Italian, so Universal
Prefazione di Alain Ducasse
Preface by Alain Ducasse
Ci sono radici e percorso. Le radici di Davide Oldani affondano in Lombardia, antiche e profonde. Cominciato ai piedi delle Alpi nel 1987 presso il grande Gualtiero Marchesi, il suo percorso l’ha portato ad Albert Roux, al Gavroche, a Londra e poi al Louis XV, nel Principato di Monaco. Ritorna quindi presso Marchesi come sous-chef, diventa poi chef al Giannino, a Milano, prima di partire alla volta di Parigi, dove rimane diversi anni. Siamo nel 2003 e Davide ha trascorso più di quindici anni girando l’Europa e impadronendosi del proprio mestiere. È così che decide di tornare in Italia, e più precisamente al suo paese natale, Cornaredo, nella grande periferia di Milano. Il 23 oobre inaugura il D’O e il successo è folgorante. La “Cucina POP” della quale si fa messaggero rispecchia al contempo le sue radici e il suo percorso formativo. È italiana, con tuo il cuore e la passione. Nelle sue ricee si riconoscono facilmente la tradizione e l’eredità famigliari. E allo stesso tempo il suo messaggio è universale: l’immenso bagaglio culinario acquisito durante gli anni di apprendimento si mee al servizio di una visione. L’obieivo è quello di rendere accessibile l’alta cucina, di lavorare in accordo con la natura, di proporre una cucina più sana. In breve, si traa di fare la cucina di oggi. Non ho molto da aggiungere su questo progeo, dato che è anche il mio. Ed è lo stesso di molti altri chef di oggi. Ciascuno di noi ha le proprie radici: io ho piantato le mie sulla Riviera, altri le hanno in Amazzonia, in Perù, in Scozia o in Massachuses. Poco importa: a ognuno il suo terreno mentale. Facciamo tui la cucina delle nostre tradizioni e, allo stesso tempo, facciamo una cucina aperta al mondo e alla nostra epoca, consapevoli della sfida che rappresenta la missione di soddisfare i palati contemporanei. Davide Oldani, in quest’oica, fornisce il suo personale contributo. Apporta una prospeiva italiana – della “sua propria” Italia – a questo grande dialogo mondiale sulla cucina dei giorni d’oggi. E questo suo contributo è tanto più universale quanto più personale. Perché, in fin dei conti, l’animo di uno chef è l’anello di congiunzione tra tue le cucine del mondo.
There are roots and there is the journey. Davide Oldani’s roots are in Lombardy; they are old and deep. His journey started at the foot of the Alps, in 1987, with the great Gualtiero Marchesi, and it brought him to Alberto Roux at Le Gavroche in London and to the Louis XV in Monte Carlo. It then brought him back to Marchesi as a sous-chef and later as chef at Giannino in Milan, before leaving for Paris, where he stayed for several years. By 2003, Davide had spent more than fieen years traveling Europe to learn his cra. He then decided to come back to his own country, more precisely to Cornaredo, where he was born, just outside of Milan. On the 23rd of October, D’O opened its doors and it was an immediate success. Cucina POP, of which Davide is the spokesperson, reflects both his roots and his journey. It is Italian – in its heart and in its passion. It is easy to recognize the tradition and family heritage in its recipes. It is also universal in its message: the vast culinary background acquired during the years of apprenticeship is used to express a vision. It means making haute cuisine accessible, working with nature and proposing a healthier cuisine. In short, it means a cuisine suitable for today. I have nothing to add to this vision, because it is also my own. It is also that of many other contemporary chefs. Each one of us has our roots: mine are on the Riviera, others have their roots in the Amazon, in Peru, in Scotland or in Massachuses. It doesn’t maer: each one has his own mental terroir. We all make a cuisine of our roots, but also at the same time a cuisine that is open to the world and our times, that is to say, conscious of what it means to nourish our contemporaries. Davide Oldani provides his own very personal contribution. He brings an Italian perspective – that of his own personal Italy – to the world wide dialogue about cuisine today. His contribution is even more universal than personal. For in the end, the soul of a chef is the meeting point of all cuisines.
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Un artista in punta di forchetta Prefazione di Andrea Bocelli
Questo vulcanico testo ci fa entrare nei pensieri del celebre chef e ci rivela le ricee dell’anima di Davide Oldani. Si arriva all’ultima pagina quasi col fiatone, perché è leura che si interrompe malvolentieri, perché è scriura che solletica e conquista: sagace e divertita, nel suo incedere da “flusso di coscienza” ma con punteggiatura. Un percorso a ritroso, una coura alla rovescia, dal piao fumante alla terra feconda, alla curiosità e agli stimoli che hanno formato l’artista. Perché artista è, non v’è dubbio, la penna che firma queste pagine, redae con forsennata cura linguistica e con il continuo piacere funambolico per l’eufonia e per una sorta di giocolierismo lessicale…Al vocabolario come ai fornelli, con la medesima voglia di stupire e di arrivare al cuore del leore. Eccola, raccontata come ad un amico, con piacevole disordine, la Weltanschauung di Oldani, l’etica della vita e della sua Cucina POP, delle piccole cose fae con grande cura, dell’ordine un po’ esoterico e molto ironico delle sue classificazioni. Tumultuosamente, in queste pagine l’autore enumera i personali e vincenti ingredienti nel piao della vita, dai ricordi (i primi assaggi, la famiglia, i viaggi gastronomici, i maestri) a un tessuto di riflessioni fi losofiche scrie in punta di forchea. Zeppo di aforismi fulminanti, d’ironia e di saggezza, è un libro molto divertente che propone considerazioni molto serie. Ad esempio, su chi muore oggi per la fame e chi muore per la fame che non ha. Scremando la dimensione – pur piacevolissima e raffinata – dell’arguzia e del paradosso, resta la bella avventura di un incontro cordiale e istruivo che regala spunti di riflessione, di quelli che scoano e che collegano il cibo – come l’EXPO 2015 vuole rimarcare – all’equità, all’ecosostenibilità, alla sopravvivenza. Cediamo a un istante di vanità, ricordando come Davide Oldani – amico di amici – si sia trovato a creare, una sera, tra i fornelli di casa Bocelli…In quell’occasione, ai commensali tui è stata offerta una lectio magistralis (ma sine verba) che ci è rimasta impressa, sull’ingrediente dell’amore: la sapidità che l’amore è in grado di trasmeere ai cibi, ancor più quando “punto di sella” fra estro e semplicità, non ha confronti. Qualunque spezia, qualunque tocco segreto impallidisce al confronto.
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An Artist Who Draws with the Tip of a Fork Preface by Andrea Bocelli
This volcanic text takes us inside the thoughts of this famous chef and reveals the recipes of the soul of Davide Oldani. One gets to the last page practically out of breath, because it is a reading that one interrupts reluctantly, because it is writing that titillates and conquers: astute and amused, as it proceeds almost as a “stream of consciousness” with punctuation. A path in reverse: cooking backwards, from a steaming dish to the fertile earth, to the curiosity and stimulus that formed the artist. Because that is what he is, there is no doubt about it; the pen that wrote these pages, edited with frenetic linguistic aention and with the combination of the pleasure of a tight-rope walker for euphony and a sort of lexical juggling…with vocabulary as with burners, there is the same desire to surprise and to touch the heart of the reader. There it is, told as if talking to a friend, with a pleasant disorder, the Weltanschauung of Oldani, the ethics of life and his Cucina POP, of small things done with great care, of the almost esoteric and very ironic order of his classifications. Tumultuously throughout these pages, the author enumerates his very personal and winning ingredients for the recipe of life, from memories (first tastes, the family, his gastronomic travels, the teachers) to the fabric of philosophical considerations wrien with the tip of a fork. Chock full of aphorisms, irony and wisdom, it is a fun book that proposes very serious reflections. For example, those who die of hunger and those who die of a hunger they do not have. Skimming the wiy character and paradox – even though it is pleasant and refined – what is le is the adventure of a pleasant and instructive encounter that gives us much to think about: things that burn and that connect food – like EXPO 2015 would like to underline – with equity, eco-sustainability and survival. I would like to indulge in a moment of vanity, remembering how Davide Oldani – a friend of friends – found himself cooking one evening at my house…On that occasion, all my guests were offered a lectio magistralis (sine verba) that impressed us all, about the ingredient of love: the flavour that love is able to give to food – when it is the saddle point between creativity and simplicity, it is incomparable. Any spice, any secret ingredient, pales in comparison.
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Oldani ha già nelle sue iniziali Davide Oldani’s initials carry the DNA «il Davide «that DNA per arrivare con tuo quello che fa makes everything he does go straight drio al Cuore di ogni essere umano.
to the Heart of every human being.
DO, il nome di una nota musicale.
DO, the name of a musical note.
La sua forma d’espressione è l’Arte del nutrire e ogni volta che gli ingredienti passano dalle sue mani i sapori diventano per il palato come le melodie senza tempo per le orecchie. Come le melodie delle canzoni di Modugno, Celentano, Ba isti, Jovano i ecc.
His form of expression is the Art of nourishing and each time he touches / transforms ingredients, the flavours become for the palate what a timeless melodies are for the ears. Melodies like the songs of Modugno, Celentano, Baisti, Jovanoi, etc.
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Saturnino
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Saturnino
Nel novembre 2013 Davide Oldani è stato invitato a Harvard per raccontare la sua esperienza imprenditoriale; a marzo 2015 ha tenuto una lezione all’Università parigina di Business HEC. Siamo qui a raccontare la storia di successo del D’O e del suo Chef POP anche grazie a Banca Generali, che ha capito l’importanza di puntare sui giovani imprenditori e di supportare i progei che celebrano la creatività e il genio dei giovani, espressione dell’eccellenza non solo in Italia, ma anche nel mondo. In November 2013, Davide Oldani was invited to Harvard to speak about his experience as an entrepreneur; in March 2015 he held a lesson at the Parisian business university, HEC. We have the chance to hear the success story of D’O and of its POP Chef, also thanks to Banca Generali, that understands the importance of investing in young entrepreneurs and supports projects that celebrate the creativity and genius of young people, an expression of excellence not only in Italy, but throughout the world.
Sommario Contents
14 . 16 The reason why. Per cominciare The Reason Why. For Starters
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L’essenza di DO The Essence of DO
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Quanto DO c’è in D’O How Much DO is There in D’O
139
L’etica e l’estetica del D’O The Ethics and Aesthetics of D’O
195 Acqua, zafferano e riso alla milanese D’O - Milano 2015 Water, Saffron and D’O Milanese Rice - Milan 2015
200 La cucina NON regionale italiana (Cucina regionale ragionata italiana) NON Regional Italian Cuisine (Reasoned Regional Italian Cuisine)
206 Tutte le C di cuoco Oldani (di Rosangela Percoco) All the C’s of Chef Oldani (by Rosangela Percoco)
210 Indice Index
The reason why. Per cominciare
Mi piace. Oggi non si contano, i Mi piace, tanti sono quelli che vengono cliccati nella rete. Anzi no, si contano. Per raccogliere adesioni, conferme e confrontarsi con il popolo degli internauti a suon di ok e ko. È un aimo, o forse meno. È un pollice su, o giù, o anche tu i e due – perché no? – nel giro di pochi secondi. Un niente di tempo per farsi un’opinione e magari anche per cambiarla in un altro, rapidissimo, niente di tempo. Io non ce l’ho con la velocità – se così fosse dovrei prendermela prima di tuo con me stesso che corro dalla ma ina alla sera e poi di nuovo dalla sera alla ma ina. E nemmeno ce l’ho con il virtuale o con la tecnologia, quando danno una mano a semplificare o sveltire operazioni quotidiane. O meglio ancora, quando sono un aiuto indispensabile in situazioni di handicap o di grave difficoltà. Ma quando si traa di esprimere un’opinione, di concordare o di non essere d’accordo con l’idea di un altro, la velocità che si manifesta con un clic sull’icona di un pollice mi pare eccessiva. Mi piace. Ovvero Mi piace adesso, subito, forza, dai che te lo dico anch’io. Ovvero, uno in più. Sì, insomma io. Ma io chi? Io perché? Mi piace l’espressione “Mi piace”, a voi no? Ma mentre la pronuncio, la scrivo o la clicco so anche perché mi piace, e ho l’impressione che per i perché occorra un po’ più di tempo di quello che basta per un clic. Mi piace perché. The reason why. Dentro reason è compreso il ragionare, il rifleere, dare senso e spessore a un’opinione. Certo, vivo in questi tempi, e so bene che quando si parla in rete non si può mica scrivere un romanzo, ma una ragione non è un romanzo, è il senso che si dà alle cose.
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The reason why. Perché la Cucina POP, per cominciare. Perché credo che la Grande Cucina abbia le sue radici nella buona cucina di tu i i giorni e, scusate se è poco, io sono cresciuto con quella. POP è rispeo per il cibo e quindi per l’ingrediente e quindi per chi se ne prende cura. POP è stagionalità e cioè certezza che ogni fruo della natura raggiunge la sua massima qualità in un certo periodo dell’anno ed è in quel periodo che va usato in cucina: più profumo, più sapore e più gusto a minor costo. POP è convinzione che è l’ingrediente il vero protagonista, e la sua qualità alla base di una buona cucina. POP è impegno quotidiano a unire alta cucina e accessibilità, tradizione e innovazione, pia i sani e leggeri ma che non rinunciano al gusto. POP è ricerca continua di nuovi equilibri araverso contrasti di dolce e salato, caldo e freddo, morbido e croccante. Ma soprauo POP è quello in cui ho creduto undici anni fa e che ho realizzato – grazie anche all’aiuto di un’o ima squadra – meendomi a tavolino per far tornare conti e sogni. Perché avere sogni è facile, ma farli camminare ogni giorno con i piedi per terra, e sempre al massimo, e senza farli scadere o invecchiare o perdere per strada, questo è un po’ più difficile. E più faticoso anche. Perché non basta l’immaginazione, ci vogliono – ci sono volute! – ben altre doti. Lo sforzo di pensare prima di agire, per esempio, che potrà sembrare banale, ma per me è la cosa più importante, la base di tuo, quella su cui si fonda la ragione delle cose. Non so che effeo vi facciano le promesse di alcuni politici e comunicatori. A me viene sempre in mente che le cose funzionerebbero meglio se le parole spese per promeere fossero come semi, che nascono per dare frui, ma che non possono essere geati dove capita: devi sapere dove vanno messi, e in che stagione, e devi prendertene cura e non abbandonarli a loro stessi; ma soprauo devi sapere che se un seme non dà fru i, non è che puoi sempre prendertela con il tempo, devi assumerti le tue responsabilità. Pensare prima di agire, potrà sembrare scontato, ma per uno come me è stato ed è un allenamento continuo. La scelta di non ararre l’ospite con il boo ma con la semplicità che però riesce a sorprenderlo ogni volta, per esempio; o l’impegno a coinvolgere i collaboratori non araendoli con un nome D.O(C), ma con la lealtà, l’esempio e…l’ispirazione. Ecco, sì, l’ispirazione. Mi Piace l’ispirazione, e ci sta anche bene in questo angolo dei perché. Perché è quella che hanno saputo darmi i miei maestri prima ancora di suggerirmi tecniche o trucchi, ed è quella che vorrei dare io ai ragazzi che mi seguono. Undici anni fa ho progeato una “casa” dove non ci sarebbero state illusioni o effe i speciali per far credere quello che non è, ma impegno e ricerca per far grande quello che c’è; una casa dalle fondamenta solide, che sta in piedi, ma anche accogliente per chi entra e si ferma; una casa dove mangiare è un piacere, ma mai un eccesso, un lusso o uno spreco. E l’ho chiamata Cucina POP. La mia Cucina POP ha fao il suo ingresso ad Harvard, dove ho avuto l’opportunità di esporre agli studenti di Economia la “strategia” D’O, una case-history definita come “qualcosa di unico che può essere applicato a qualsiasi impresa”; e ha replicato a HEC Paris, un istituto il cui perno centrale è il management. E dire che non è ancora maggiorenne, la mia Cucina POP, e si è già presa così grandi responsabilità… Perché…The reason why… …non ho tenuto in piedi questa “casa” perché restasse chiusa, volevo che si aprisse a uno scambio con altri cuochi nel mio Paese, e anche ad altri Paesi, in un confronto fra tui coloro che hanno a cuore il futuro del nostro Pianeta e – ciascuno come può e come sa – si impegnano a nutrirlo.
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The Reason Why. For Starters
Likes. Today you can’t count them, there are so many on the internet. Actually that’s not true, you can count them. To gain consensus, confirmation and to measure yourself with the internauts to the click of ok’s and ko’s. All in a moment, or even less. It’s a thumbs up or down, or maybe both – why not? – in the space of seconds. It takes no time at all to make an opinion and maybe to change it again in an equally short space of time. I have nothing against speed – if I did, I would have to be angry with myself because I run from morning to night and from night to morning. I have nothing against the virtual or technology, when it helps simplify things or make daily life easier. Or beer yet, when it gives indispensable help with handicaps or serious difficulties. However, when it means expressing an opinion, to agree or not agree with someone else’s idea, the speed with which it manifests with a click on an icon with a thumbs up seems a bit excessive. I like it. Or rather, I like it now, right away, hey, I want to say I like it too. In other words, one more. Yes, me. But me who? Why me? I like the expression, “like”, don’t you? But while I say it, write it or click it, I know why I like it, and I have the impression that the whys take a lile longer than it takes for a click. I like the why’s. The reasons why. Inside “reason” is reasoning, reflection, giving a meaning and depth to an opinion. Certainly, I live in these times and I know that when we talk on the web you can’t write a novel, but a reason is not a novel, it is the meaning you give things.
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The reason why. Why Cucina POP, to begin with. Why I believe that Great Cuisine has its roots in good, every day cuisine and, with all modesty, that is where I grew up. POP is respect for food and ingredients and subsequently, for those who take care of it. POP is following the seasons, and the certainty that all fruit reaches its maximum quality at a certain time of year, and it is in that season that it should be used: it will have more flavour and more aroma at a lower price. POP is the conviction that the ingredient is the real protagonist, and that its quality is the basis of good cuisine. POP is the daily commitment to combine haute cuisine with accessibility, tradition and innovation and light, healthy dishes that do not sacrifice on flavour. POP is the constant search for new equilibriums through the contrast of sweet and salty, hot and cold, so and crisp. More than anything, POP is what I believed in eleven years ago and created, thanks to the help of an amazing team – by siing down at my table and by making bills and dreams come together. Because it is easy to have dreams, but making them work with my feet on the ground, always at their best without leing them expire or age or lose their way is a lot more difficult. A lot more difficult. It is not enough to have imagination, you need so much more! The effort of thinking before you act, which may seem banal, but for me it is the most important thing, the basis of everything. I don’t know what effect the promises politicians and communicators have on you. It seems to me that things work best if the words spoken are like seeds, that are born to give fruit, but that cannot be sown just anywhere, you need to know where to plant them, in what season and you need to take care of them and not abandon them; above all, if a seed does not bear fruit, you cannot blame the weather, you have to take responsibility for the results. To think before taking action, may seem obvious, but for me it was and is a constant effort. The choice to not try to aract customers with fireworks, but with surprising simplicity; or the commitment to involve my collaborators, not by luring them with the name D’O, but with loyalty, example and…inspiration. There – inspiration. I like inspiration, and those who know me know why. Because it was what my teachers were able to communicate to me even before suggesting techniques or tricks of the trade, and that is what I would like to give to those who work with me. Eleven years ago I designed a “home” where there would not be any tricks or special effects to make it seem something it wasn’t, but commitment and research to make what was already there great; a house with a solid foundation, that stands tall, that is welcoming for those who visit; a home where eating is always a pleasure, never an excess, a luxury or a waste. I called it Cucina POP. My Cucina POP has made its entrance at Harvard, where I had the opportunity to show the Business students D’O’s strategy, a case-history defined as “something unique that can be applied to any business”, and I spoke about it again at HEC in Paris, an institute that has management as its core interest. And to think that my Cucina POP is still not of age and it has taken on such big responsibilities… Why…the reason why… …I did not keep this “house” going just to have it stay closed, I wanted it to be open to exchanges with other chefs in my country as well as from other countries, a discussion amongst those that have the future of our Planet at heart and that, each one to his own abilities, is commied to nourishing.
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L’essenza di DO Th
e E s se e of DO nc
…Chi ha detto che non avrei potuto “firmare” un Cavolo, o una Ciliegia, o una Capasanta? Macché, io ho pensato bene di Caramellare una Cipolla: sogno rotondo con doppia C…
La C del fattore Culo The “C“ Factor Cornaredo, Calcio, Cucina, Cuore, Circolare, Caramellare, Cipolla, Cavolo, Ciliegia, Continuità, Contrasti, Capasanta, Cambiamento, Caso, Capacità... Culo2
Essentially, I have more than enough “c’s” in my life; I have tons of them. Starting with Cornaredo, where I was born and where I have come back to live. There is the “C” of Calcio, where I le a piece of my Cuore – not just my tibia and fibula. It’s true, even Canoaggio was amongst the choices I could have made, but let’s admit it, Calcio has a much rounder “C”.3
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Effe ivamente non mi mancano, le C intendo dire, ne ho da vendere. A cominciare da quella di Cornaredo, dove sono nato e tornato. Poi c’è la C di Calcio, dove ho lasciato anche un pezzeo di Cuore – non solo tibia e perone. È vero, forse c’era pure il Canoaggio fra le scelte che avrei potuto fare, ma amme iamolo, il Calcio ha una C molto più rotonda.1 Vabbè, poi c’è la C di Cucina. E qui non sforzatevi troppo per capire il perché, tanto non ce ne sarebbero potute essere altre: un sogno di scorta è un sogno di scorta…Casomai, domandatevi com’è che fra tue le cucine che avrei potuto realizzare ho scelto proprio quella Circolare. Vogliamo parlare della Cipolla? Chi ha deo che non avrei potuto “firmare” un Cavolo, o una Ciliegia, o una Capasanta? Macché, io ho pensato bene di Caramellare una Cipolla: sogno rotondo con doppia C. E poi ci sono i Contrasti, quelli dell’equilibrio, certo, ma pur sempre dalla C si comincia. E il Cambiamento nella tradizione, e la Continuità nella precisione eccetera eccetera eccetera. Lo so, in qualcuno la prossima C sorge spontanea: la C del faore C, insomma la C di Culo, di sorte favorevole, di fortuna sfacciata.
Niente da fare, su quella vi tolgo ogni dubbio: non credo a quel tipo di fortuna e il faore C lo chiamerei piuosto Caso, quello sì che lo riconosco, ma non ha la forma di cornei nel taschino o di ferri di cavallo sulla porta: roba per superstiziosi, per superficiali. O per fifoni. Cose che non ti fanno decidere, che ti danno un alibi per non prendere in mano la situazione, che ti “autorizzano” a non assumerti la responsabilità di determinare il tuo destino. Insomma, per usare un’immagine che mi piace tanto: l’onda può anche arrivare quando meno te l’aspe i, ma sta a te decidere se lasciarti travolgere dandole tua la colpa di quel che ti succede o se agire per diventare quantomeno corresponsabile, insieme al Caso, del tuo futuro. Parlo di onde, non di tsunami naturalmente. Ma anche per quelli, i ferri di cavallo hanno ben poca utilità. Sono convinto che il Caso mi ha dato dei numeri da giocare, ma anche che sta a me la Capacità di giocarmeli. Giorno per giorno.
1. E adesso che mi avvio sul viale della maturità, con che cosa ci vado secondo voi? Ma con la C di Ciclismo, è ovvio!, un’altra C rotondissima. 2. The “C” factor, intended as “avere culo” means to have incredible, unexpected success. The other words all begin with “C”: Cornaredo - the town I am from, Calcio - soccer, Cucina - cuisine or kitchen, Canoaggio - rowing, Cuore - heart, Circolare - circular, Caramellare - caramelize, Cipolla - onion, Cavolo - cabbage, Ciliegia - cherry, Continuità - continuity, Contrasti - contrasts, Capasanta - scallop, Cambiamento - change, Caso - chance, Capacità - capacity. 3. Now that I am more mature, what do you think I have chosen? The “C” of Ciclismo (cycling)! What else? Another very round “C”.
…What about the Cipolla? , Who says I couldn t have chosen to autograph a Cavolo or a Ciliegia or a Capasanta? No way, I had to Caramellare a Cipolla: a spherical dream with a double “C”…
Then there is the “C” of Cucina. Do not try too hard to understand why; there couldn’t have been anything else: a spare dream or a plan B always remains just that. If you want, you can also ask yourself why, out of all the different cuisines, I chose to make mine Circolare. What about the Cipolla? Who says I couldn’t have chosen to autograph a “Cavolo” or a “Ciliegia” or a Capasanta? No way, I had to Caramellare a Cipolla: a circular dream with a double “C”. Then there are the Contrasti, and their balance, but it still all starts with a “C”. Cambiamento within tradition, the Continuità in precision, etc, etc, etc. I know, for some people, the next “C” will come spontaneously: the “C” of the “C” factor, the “C” of Culo, of brazen good fortune. I want to eliminate any doubts you may have, I do not believe in that kind of luck and I would prefer to call the “C” factor I believe in Caso, that doesn’t take the shape of horseshoes over your door or lucky objects in your pocket: that’s stuff for people who are superstitious or superficial. Or for people who are afraid. Things that prevent you from choosing, that give you an alibi not to take the situation into hand, that “authorise” you to not take responsibility for yourself and determine your destiny. To use an image that I like a lot: a wave can come when you least expect it, but it is up to you to decide whether to let yourself be crushed by it, blaming it for everything that happens to you or whether to react and to become co-responsible with Chance for your future. I am talking about waves, not tsunamis, obviously. But even for those, horseshoes aren’t much help. I am convinced that Chance gave me all the right cards to play, but it was up to me and my Capacity to play them. One day at a time.
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Cipolla caramellata, Grana Padano , selezione D O 2015, caldo e freddo
Caldo e freddo, dolce e salato, morbido e croccante: la cipolla caramellata è la prima rappresentante “famosa” della Cucina POP. Famosa ma umile. E come il riso, anche lei fa parte della tradizione che dopo undici anni ho deciso di aggiornare: scomponendola, rendendola più croccante e meendo la sfoglia a fianco.
(per 4 persone) Per le cipolle 2 cipolle, sbucciate e tagliate a metà (in modo che abbiano un diametro di 10 cm dopo essere state sbucciate)
Per le cipolle Sfogliare le cipolle, solo la parte dorata, tagliarle a metà e cuocerle in forno a vapore a 95 °C per un’ora. Raffreddarle e asciugarle accuratamente.
Per lo zucchero cristallizzato 85 g di burro non salato 125 g di zucchero Eridania Zefi ro
Per lo zucchero cristallizzato Cuocere lo zucchero con il burro per 5 minuti, togliere dal fuoco, lasciare raffreddare ed eliminare il siero in eccesso.
Per il gelato con Grana Padano 1 l di lae intero 300 g di Grana Padano Riserva 30 g di destrosio 10 g di sale 5 g di Neutro (mix di farina di semi di carruba per gelati) Per la salsa con Grana Padano 50 g di lae fresco 20 g di Grana Padano graugiato 8 g di sale 2 g di amido di mais diluito Per la sfoglia di Grana 100 g di albume d’uovo 100 g di Grana Padano graugiato Per la finitura 4 g di sale di Maldon (in scaglie)
Per il gelato con Grana Padano Portare a ebollizione il lae con il sale, il destrosio e il Neutro, togliere dal fuoco, aggiungere il Grana Padano, frullare per 4 minuti alla massima velocità, filtrare e lasciare raffreddare. Mantecare nella gelatiera. Per la salsa con Grana Padano In un pentolino far bollire il lae, legare con l’amido di mais diluito in acqua fredda, togliere dal fuoco ed aggiungere il Grana Padano, regolare di sale e frullare, passare al colino fine e tenere in caldo. Per la sfoglia di Grana In una bacinella amalgamare albume e Grana Padano, coprire con della pellicola e far riposare per almeno 4 ore in frigorifero. Stendere il composto tra due fogli di carta da forno (1 mm di spessore) con il maerello. Tagliare e cuocere in forno a 170 °C per 10 minuti. Per la finitura Far sciogliere lo zucchero cristallizzato, far caramellare e aggiungere le cipolle, colorare e tenere in caldo. Disporre la salsa al centro dei piai, poi la cipolla, la sfoglia di Grana, il sale di Maldon e infine il gelato.
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Hot and cold, sweet and savoury, so and crunchy: the caramelized onion is the first famous “spokesperson” of Cucina POP. Famous but humble. Like the rice, it is part of a tradition, and aer eleven years I decided to update it: to disassemble it, making it even crunchier and puing the pastry on the side.
Caramelized onion, Grana Padano D O Selection 2015, Hot and Cold ,
(serves 4) For the onions Peel the onions, removing only the skin, cut them in half and cook them in a steam oven at 95°C. Cool and dry them carefully. For the crystallized sugar Cook the sugar with the buer for 5 minutes, remove from the heat, let cool and remove any excess whey. For the Grana Padano gelato Bring the milk to the boil with the salt, dextrose, Neutro and remove from the heat; add the Grana Padano and mix on high speed for four minutes, fi lter and let cool. Put the mixture in the gelato maker and follow manufacturer’s instructions. For the Grana Padano sauce In a small pot, boil the milk; thicken with the cornstarch diluted in a small amount of water. Remove from the heat, add the Grana Padano, adjust for salt and mix. Filter through a fine-meshed sieve and keep warm. For the Grana Padano cracker In a bowl, mix the Grana Padano with the egg white, cover with plastic fi lm and put in the fridge and let rest for four hours. Spread the mixture between two pieces of parchment paper and roll until it is 1 mm thin. Cut and bake in the oven at 170°C for 10 minutes.
For the onions 2 onions, peeled and cut in half (diam of 10 cm when cleaned) For the crystallized sugar 85 g unsalted buer 125 g sugar Eridania Zefi ro For the Grana Padano gelato 1 lt whole milk 300 g Grana Padano cheese, grated 30 g dextrose 10 g salt 5 g Neutro (locust bean gum powder for gelato) For the Grana Padano sauce 50 g fresh whole milk 20 g grated Grana Padano 8 g salt 2 g cornstarch diluted For the Grana Padano cracker 100 g egg white 100 g grated Grana Padano To finish 4 g Maldon salt
To finish Melt the crystallized sugar, cook until it caramelizes, add the onions, colour them and keep warm. Place the sauce in the center of the plates, place the onion, the Grana Padano cracker, the Maldon salt and at the end, the gelato.
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Perché uno può diventare benissimo capocannoniere senza che la sua squadra vinca, ma se vuole farla vincere non bastano i suoi gol (anche se tanti gol sono un discreto punto di partenza!)
È semplicemente successo o è successo davvero?
Did it just Happen or Was it Really Success?
Just by looking at me, you can tell how important sports are to me. What I see in myself is a strong desire to win. Let’s be honest, what is the point of playing if you don’t want to win? I didn’t say have to, I said want to. I don’t want to beat around the bush by saying things like “You have to be determined: eat or be eaten…”, “These days, if you aren’t successful, you’re considered a loser…”.
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Dell’animale sportivo quale sono, probabilmente si vede subito l’aspeo esteriore. Ma io mi riconosco prima di tuo la voglia di vincere. Ammeiamolo, che giochi a fare se non vuoi vincere? E non ho deo devi, ho deo vuoi. Nel senso che non mi va di addolcire il conceo mitigandolo con i soliti “Devi tirare fuori la grinta tu, sennò ti mangiano gli altri…”, “Di questi tempi, o emergi o sei un perdente…” e altro così. A me piace farcela, punto. Conquistare traguardi, fare centro. Credo che nessuno si sarebbe sognato di inventare che l’importante è partecipare, se vincere non fosse così bello. E se soolineo voler vincere è perché sono onesto con me stesso nel riconoscermi questo appetito: non smodato, ma costante. Non gareggio per l’abbuffata, gareggio per la soddisfazione. Un po’ come con la spesa, che preferisco fare con la pancia piena, per avere la certezza che non è la fame a diroarmi verso questo o quello, ma altri faori che rendono più consapevoli i miei acquisti.
È un appetito, quello di vincere, che mi viene più naturale mostrare che nascondere. E non so per quale strana chimica, ho l’impressione che quando uno scopre onestamente il proprio gioco, anche gli altri siano più disponibili a scoprire il loro. Forse è anche grazie al fao che scendo in campo per la vioria che so riconoscere negli altri lo stesso appetito. E quando lo vedo lo apprezzo, e quando non lo vedo lo provoco, augurandomi che ce l’abbiano tu i quelli che giocano in squadra con me. Nessuno escluso. Perché uno può diventare benissimo capocannoniere senza che la sua squadra vinca, ma se vuole farla vincere non bastano i suoi gol (anche se tanti gol sono un discreto punto di partenza!). Servono anche buon gioco d’insieme e la voglia di vincere per tui e con tui. Adesso non è per fare il romantico, ma credo che Fuga per la vioria non sia solo un fi lm dove si vede che l’unione fa prima la forza, poi la vioria e poi anche la fuga. Penso che sia anche uno stato d’animo che ti rende audace e ti fa arrivare dove non arriveresti con le tue sole gambe, per quanto superallenate. Ed è proprio quello stato d’animo che ti permee di creare condizioni favorevoli anche là dove non ti sembra di intravederne. Naturalmente l’appetito di vincere va arricchito di scopi, modi e tempi. Ferma restando la voglia di farcela, che per me è una specie di orizzonte, 4 con il mutare delle situazioni sono cambiati i perché, i come e i quando.
4. Orizzonte. Lo sguardo più in là, la voglia di andare avanti, il desiderio di farcela, il successo (davvero) come ingrediente che rende la vita più profumata e saporita e che non dipende da quello che fai ma da come lo fai, per chi e perché.
You can become the top , goal-scorer, but it doesn t mean that your team will win; if you really want to win, your goals , alone aren t enough (even though they are a good starting point!)
I like to succeed, to make it: full stop. To achieve my goals, to leave my mark. I do not think that anyone would have invented the expression “the important things is to participate” if it wasn’t so great to win. If I put the emphasis on wanting to win it is because I am honest with myself and admit to having an appetite for success, not unrestrained, but constant. I do not compete as a form of indulgence, I compete for pleasure. It is a lile like grocery shopping: I prefer to shop on a full stomach so that I know it will not be hunger that will dictate my choices, but that there will be other, more informed reasons for my purchases. The desire or appetite to win is something that I prefer to show rather than to hide. I don’t know what strange chemistry is behind it, but I have the impression that when you are honest about your motivation, other people will be as well. Maybe because I play to win, it is easy for me to recognize the same hunger for success in others. When I see it, I appreciate it and when I don’t see it, I try to provoke it, hoping that everyone who is on my team has it. Everyone. You can become the top goal-scorer, but it doesn’t mean that your team will win; if you really want to win, your goals alone aren’t enough (even though they are a good starting point!). There should not only be good team play but
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everyone should also have the desire to win. I don’t want to be a romantic, but Escape to Victory is not just a fi lm about everyone working together, about victory and escape. It is a frame of mind that makes you audacious, that lets you get somewhere on your own two feet, somewhere you wouldn’t normally be able to reach, not even with your athletic, well-trained legs. It is precisely this state of mind that allows you to create favourable conditions where there seem to be none. The taste for winning should be enriched with ways, means and objectives. The will to succeed is like a horizon line for me5, as situations change, the how’s, why’s and when’s change as well. You can win even standing in a corner. The word “corner” definitely is not a word you would normally associate with victory, but it depends from where and how you are looking at that corner. It happened for me while I was cleaning sea urchins in the courtyard of the first kitchen I worked in. From that viewpoint, at the service of a team and a trainer, I could feel inside me that I could learn to score my own goals. When I say point of view or viewpoint, I don’t mean having an abstract vision in my mind, I mean it from a physical point of view; I was able to observe what was happening, and to “steal” with my eyes, to learn everything possible from my teacher. In that moment, for me success was being there, with so much to learn right in front of my eyes. Yes, there was a window le ajar that I was able to peek through, and compared to seeing nothing at all, that chink was a lot. But it wasn’t the opening that makes it possible to see; it’s the desire to see. Even if you had the whole world in front of you, if you close your eyes, there would be
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Si può vincere anche stando in un angolo, per esempio. So che la parola angolo fa a pugni con la vioria, ma dipende da come e da dove lo guardi, l’angolo. A me è successo mentre pulivo i ricci di mare nel cortile della prima cucina in cui ho lavorato. Da quel punto di vista, al servizio di una squadra e di un allenatore, sentivo che anch’io potevo imparare a fare i miei gol. E quando dico punto di vista non intendo un’immagine nella testa, parlo di un punto fisico da cui poter osservare, rubare con gli occhi, assorbire quello che faceva il maestro. In quel momento, per me il successo era essere proprio lì con davanti agli occhi tanto da imparare. Sì, è vero, c’era una fi nestra semiaperta araverso cui guardare e, rispeo al niente, uno spiraglio è già molto. Ma non è l’apertura che ti permee di vedere, è la voglia di guardarci dentro. Se hai davanti il mondo e chiudi gli occhi, davanti a te non c’è più niente. Io li ho sgranati di fronte a una fessura, perché dietro c’erano un maestro e un mondo da “assorbire”. In un certo senso, anche se può suonare presuntuoso, io sento di aver vinto persino contro il tempo. Succedeva quando, nel mega-ristorante con trecento coperti, i trecento coperti dovevamo coprirli davvero e non tanto per dire, cioè meendo tu i i giorni qualcosa in tu i i pia i, e qualcosa di commestibile naturalmente. Cambiava la situazione, mutava il paesaggio, ma l’orizzonte per me restava lo stesso: farcela e andare avanti. E quando dico che ho vinto contro il tempo non significa che mi hanno dato l’Oscar per la velocità, semplicemente ho scoperto che lui, il tempo, non è una variabile di poco conto nel mio lavoro. I treni si prendono e si perdono, alla stazione come nella vita. In quel momento, per me il successo era prendere il treno giusto al momento giusto. E magari sembra una banalità, ma io penso che il treno giusto sia prima di tuo quello che passa. Sì, un treno deve prima di tuo passare.
Inutile aspeare treni che non passeranno mai o non passeranno più: meglio arrivare in orario per prendere quello che sta passando per te adesso, salirci, vivere ogni tappa e scendere solo quando sei davvero pronto per la prossima coincidenza. A proposito di corse, so di aver vinto anche quando correvo per conquistare un contenitore e fi ltrare una salsa. Filtrarla bene naturalmente, non fi ltrarla e basta. Come per tue le cose che ho fao e che faccio, anche quelle che appaiono meno nobili. Ecco, io so di aver vinto tue le volte che ho fao bene quello che stavo facendo, perché era quel ben fao che mi portava avanti ogni volta. Oggi, sento che quello che fa di un successo un successo davvero è l’orizzonte, e quindi la visione d’insieme. È il gioco di squadra, quindi il riconoscere l’altro anche come un giocatore e non solo come un avversario. È avere punti fisici di osservazione, quindi terra su cui meere i piedi e non solo cielo dove meere i sogni. È la capacità di prendere i treni che passano davvero, e quindi di non perdere le coincidenze. Coincidenze che a volte sono ricci di mare, altre volte contenitori per fi ltrare salse. E domani magari saranno… Domani che cosa ne so? Domani non è ancora successo.
5. Horizon. To look ahead, to get ahead, the desire to make it, success as an ingredient that fi lls life with flavour and that does not depend on what you do but how you do it, who you do it for and why you do it. 6. This quote is wrien on the wall of D’O in the entrance.
nothing to see. I opened mine as wide as I could, because inside was my teacher and a world of things to soak up. In a certain sense, even though it may sound presumptuous, I feel like I have even won the race against time. It happened in the mega-restaurant with three hundred covers, three hundred covers that needed to be really and truly covered; that means puing something each and very day in all of those plates – something edible of course. The situation changed, the landscape too, but for me, the horizon remained the same: to make it and to keep going. When I say that I won the race against time doesn’t mean that they gave me the Oscar for speed, but quite simply that I discovered that time is an important variable in my job. You can catch trains or miss them, at the station and in life. At that time, success for me was to take the right train at the right time. It might seem obvious, but I think that the right train is the one that comes. A train has to pull into the station before you can catch it. It is pointless to wait for trains that will never come, or will never come again: it is beer to be on time for the train that is coming for you now, get on it and live each stop to the fullest and to get off only when you are truly ready for the next connection. As far as races go, I knew I had won one when I managed to grab a container or to filter a sauce. Filter it properly of course, not just filter it any which way. This is the same for everything I have done and still do, even things that may seem quite humble. I know I’ve won every time I do something well, because it is that doing things well that helped me get ahead. Today, I feel that what makes success a true success is the horizon, the overall view. It is team play, recognizing others as players and not only as adversaries. It is to having fixed points of observation: earth to put under your feet and not only a sky for your dreams.6 It is the capacity to catch the trains that actually do go by and not to miss connections. Connections can be sea urchins, filtering a sauce. Tomorrow, maybe they will be… Tomorrow who knows? Tomorrow hasn’t happened yet.
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Vivere appassionatamente Passione è una parola e, come tue le parole, se non la mei in pratica resta un contenitore vuoto e insignificante. Sarà perché io ho più dimestichezza col fare che col dire, ma la passione l’ho sempre prima conosciuta e frequentata e poi, casomai, pronunciata. Dal campo di calcio alla cucina, dai rapporti umani all’organizzazione del D’O, se oggi faccio un bilancio della mia vita scrivo tuo soo la voce “anni appassionati”, comunque siano andati. Ho solo un modo per spiegare cosa intendo, e credo che un po’ assomigli all’amore. Voglio dire che mi sono sentito me stesso, su qualsiasi campo, sempre io, Davide. E che, con le dovute modifiche e gli arricchimenti ricevuti lungo la strada, mi sono sentito uno, sempre quello. E che dentro mi sono sentito unito e non diviso. I grandi del pensiero, quelli che hanno dimestichezza anche col dire, la chiamano “anima unificata”. Io la traduco, semplicemente, così: ho sempre detto quel che pensavo, ho sempre fao quel dicevo. Fortunato, penserà qualcuno. Anche fortunato, penso io. Lo penso ogni ma ina quando apro gli occhi, mica per altro. Per essere “unificato”, però, non credo basti la fortuna, penso che ci voglia anche il coraggio. Quello di stare su una strada che hai ricevuto in dono da chi l’ha percorsa prima di te, e di abbandonarla solo quando sai di avere la forza e la capacità di disegnarne una tua, nuova e sicura per te e per
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quelli che ci cammineranno sopra insieme a te. Insomma, per sentirmi uno – e non nessuno o centomila – ho dovuto appassionarmi a quello che facevo, essere sempre presente. Così vorrei che fosse sempre la mia vita. Sul pezzo. E magari mi sbaglio, ma credo che solo quando sono “unito” dentro posso provare a unire fuori da me, si tratti di amalgamare ingredienti o mettere insieme persone – con le dovute differenze, è ovvio. Solo se mantengo allineati i miei pensieri, le mie parole e le mie azioni riesco a farmi conoscere davvero, a farmi capire e ad agire sugli altri e sul cambiamento. Poi, sempre che fin qui non mi sia sbagliato, quando sono uno e sul pezzo il mio agire nel lavoro si allinea con il mio essere nella vita. O magari è il mio essere nella vita che finisce per indirizzare il mio lavoro. E così succede che viene il pallino di lavorare sui contrasti, per ammorbidirli, mica per altro. E di realizzare pia i che siano un’armonia per il palato. E di equilibrare le prepotenze di certi ingredienti, non certo per eliminarli ma per inserirli, ciascuno con la propria unicità ma senza più un briciolo di arroganza. Armonizzare, unificare, equilibrare… possono essere parole vuote e insignificanti se non le hai vissute prima di pronunciarle. Se non le hai mescolate con le mani e amalgamate con il cuore prima di offrirle agli altri.
Living Passionately Passion is a word, and like all words, if you do not put it into practice, it is merely an insignificant, empty shell. It might be because I am more comfortable with doing rather than talking, but I have come to know and spend more time with passion and then speaking about it. From the soccer field to the kitchen, from relations with others to the organization of D’O, if I were to take stock of my life now, I would write everything under the heading of “years of passion”, no maer how they have turned out. There is only one way I would describe what I mean, and I think it resembles love. I would like to say that I have always felt like myself, in every field or activity, always myself, Davide. With the necessary modifications and improvements along the way, I have always felt at one with myself. I have always felt whole, undivided. Great thinkers, the ones who are at ease with speaking, call it a “unified soul”. I translate it this way: I have always said what I think and done what I promised I would do. Fortunate, some people think. That too, I say. I think this every morning when I open my eyes. To be “unified”, I do not believe luck is enough; I think you need courage as well. Courage to stay on the path you received as a gi from those who came before you, and to leave it only when you know you have the strength and the ability to make your own new one, safe for yourself and for those who will come aer you.
In other words, to feel myself “one” – and not “no one and one hundred thousand”7 – I had to become passionate about what I was doing, always in the present. That is the way I would like my life to be: to always be present. I might be wrong, but I believe that only when I am “one” inside can I bring things together outside myself as well, whether it be mixing ingredients or bringing together people – with the due differences of course. Only if I keep my thoughts in order, my words and my actions, can people get to know me, can I make myself understood and work with others and effect change. If I am not mistaken, when I am “one” and on the ball, my work aligns with my being and my life. Or maybe my being in life ends up by conditioning my work. And that is how I get fi xated about working on contrasts, to soen them, not for any other reason. To create dishes in harmony for the palate. Balancing the excesses of certain ingredients, not to eliminate them but to include them, each one with its own special qualities but not a bit of “arrogance”. To harmonize, to unify, to balance… these can be words empty of meaning if you have not experienced them before using them. If you have never used your hands to mix them, blend them with your heart before offering them to others.
7. Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila.
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Gli ingredienti nel piatto della vita
Ingredients in the Dish of Life
If the name of a dish were My Life, I wouldn’t mind too much. I would do my best, but I would still start from the beginning – from the basics. If I imagine an analogy between a dish and life, it is no more and no less than what I do now when I prepare a base in the kitchen. To say things simply: I prepare, get things done ahead of time, put aside for tomorrow what I may need, I start with the largest building blocks of a recipe. I do today that which, if it did not exist, nothing else would either – in other words, there would be no dish. That’s precisely it; if my life were a dish, I would describe it by starting with the bases, the building blocks: respect, family, doing. Even if you put it the other way around: doing, family and respect: the foundation remains the same. Changing the order doesn’t change the finished product.
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Se il nome del piao fosse La mia vita, non è che mi agiterei tanto. Mi darei da fare, certo, ma anche in questo caso comincerei dall’inizio – cioè dalla base. Se immagino un’analogia fra i due, cioè fra piao e vita, penso né più né meno a quello che faccio quando preparo una base in cucina. Per dirlo con le parole di tui i giorni: la preparo prima, mi porto avanti, meo via quello che domani mi sarà utile, comincio dai maoni più grossi, faccio quello che se oggi non ci fosse…domani non ci sarebbe neanche il resto, insomma non esisterebbe il piao. Ecco, appunto, se la mia vita fosse un piao descriverei la ricea partendo dalle basi, i maoni più grandi: il rispeo, la famiglia, il fare. Leggete pure fare, famiglia, rispeo: la base è sempre quella. Invertendo l’ordine dei faori il prodoo non cambia. Se poi devo entrare nel vivo delle dosi, la ricea si fa ancora più interessante e mi permee di parlare di qualcosa che mi sta parecchio a cuore: il b.s., l’abbreviazione che nella mia cucina di oggi sostituisce il q.b. di ieri. Quanto rispeo basta? Quanta famiglia basta? Quanto fare basta? Non scherziamo! A essere seri e sinceri dovremmo rispondere “non basta mai”, o meglio “che ne so”. Il fao è che il quanto basta deresponsabilizza, fa andare bene tuo e il contrario di tuo, rende l’adaato e l’adaabile una specie di regola. Io credo invece che sia il b.s., il BUON SENSO, la dose giusta da cercare, da sperimentare con responsabilità, da verificare costantemente. Una dose che si sceglie, quindi, e non che si duplica o si eredita, o si subi-
8. In Italian, quanto basta, or q.b. is traditionally used in recipes, meaning just enough, as much as needed or to taste.
sce. Non “l’ho leo”, “me l’hanno deo”, “lo faceva anche tizio”, ma l’ho fao io, l’ho provato, l’ho confrontato e quindi so che cosa significa e di che cosa sto parlando. Apparentemente il b.s. è vago, anzi, sembra quasi che ci autorizzi a fare come ci pare e piace. E invece no, invece ci impegna a fare come ci pare e piace. Che, tradoo in parole ancora più povere, significa che quello che ci piace o ci rende felici dobbiamo dosarcelo a suon di b.s. infinito. Una volta preparata la base, la mia vita intesa come piao è praticamente…fatta. Con una base composta di quei tre ingredienti, altroché se mi sono portato avanti! Anche da questa base è nata la mia Cucina POP. Che poi è una storia, la mia. Perché il b.s. della mia vita è POP. Al POP sono approdato dopo tanta strada e non pochi maestri, mescolando il senza fronzoli con il ben fao, il buono con l’accessibile, l’innovazione con la tradizione. Ingredienti reperibilissimi e alla portata di tui. Araverso un gioco di squadra fondato sul rispeo per chi lavora in cucina, dal primo all’ultimo, e per chi siede a tavola, dall’ultimo al primo. È questo gioco di squadra, questa miscela di costanza e rispeo, che vorrei che i miei ragazzi “esportassero” nelle loro esperienze di lavoro spesso internazionali. Ed è questo modello – approccio al lavoro, rispeo, capacità gestionale – che ho presentato agli studenti di Economia di Harvard lo scorso anno e quest’anno ho replicato a HEC Paris. Mi piace parlare con i ragazzi del futuro e suggerire loro – come so e come posso – qualche dritta per provare a costruirsene uno resistente agli urti.
If I am more precise about the doses, the recipe becomes even more interesting and it allows me to talk about something I really care about: c.s., the abbreviation in my kitchen that substitutes the more traditional q.b.8 How much respect is enough? How much family is enough? How much should we do? You’ve got to be kidding! If we were honest, we would have to reply, “It is never enough” or rather, “ I don’t know”. The fact is that “as much as needed” takes away a sense of responsibility, anything and the opposite of anything are equally acceptable, making the adapted and the adaptable the rule of the day. I believe in c.s.: COMMON SENSE, to find the right dose, to experiment responsibly, to verify constantly. A dose that you choose to use, is not copied, inherited or imposed. Not “I read that”, “they told me that” or “so-and-so did it this way”, but rather, I did this, I tried it, I compared it to other results so I know what it means and what I am talking about. To say c.s. – common sense, may seem vague, that it authorizes us to do as we please, however it does not, rather, it obliges us to do as we see fit. What I mean by this is, what makes us happy or what we like should be tempered by infinite c.s. Once the base has been prepared, the “dish” that is my life is practically…ready. With those three ingredients, how can I go wrong? It is from this same base that Cucina POP was born. Aer all, it is my story. Because the c.s. of my life is POP. I arrived at POP aer many years with many teachers, mixing simplicity with well-made, good with accessible, innovation with tradition. Ingredients that are easy to find and affordable for everyone. Through team play founded on respect for those who work in the kitchen, from first to last, and for those seated at a table, from last to first. It is this team play, this combination of perseverance and respect that I would like all my team to take with them to their work experiences, here and internationally. It is this model – the approach to work, respect and managerial capacity – that I presented to the students at the Harvard Business School and that I also brought to HEC in Paris. I like to talk to young people about the future and give them – as best I can – a few suggestions as to how to build one for themselves that is solid, that can take a few knocks.
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Baccalà mantecato
Per la salsa di sedano rapa Pulire il sedano rapa e coprire con uno strato di sale grosso. Cuocere al forno a 180 °C per circa un’ora e mezza. Pulire il sedano rapa, tagliarlo in pezzi e frullare, setacciare ed emulsionare con l’olio extravergine di oliva.
(per 4 persone) Per la salsa di sedano rapa 300 g di sedano rapa coo in crosta di sale grosso 20 g di olio extravergine di oliva Carli 2 g di sale fi no Per il baccalà 200 g di baccalà 2 g di sale fi no Per il cracker di mais 125 g di farina Primitiva 100 Molino Pasini 100 g di acqua 35 g di olio extravergine di oliva Carli 15 g di farina di mais 3 g di sale fi no 1 g di lievito di birra fresca 1 g di lievito in polvere Per la finitura 100 g di patate viola tornite e arrostite 3 g di fiori edibili
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Per il baccalà Cuocere i tranci di baccalà per pochi minuti in acqua salata a 80 °C. Scomporre i tranci e tenere in caldo. Per il cracker di mais Mescolare tu i gli ingredienti ad eccezione della farina di mais fino a oenere un composto liscio e omogeneo. Stendere l’impasto su un silpat (un tappetino di silicone) allo spessore di 2 mm. Ricavare le forme desiderate, cospargere di farina di mais e cuocere in forno a 200 °C per 8 minuti. Per la finitura Disporre la salsa nel piao e completare con il baccalà, il cracker di mais, le patate viola tornite e arrostite e i fiori edibili.
Italian Baccalà Brandade
For the celeriac sauce Wash the celeriac, cover with a thick layer of coarse salt. Bake in the oven at 180°C for one and a half hours. Clean the celeriac, cut it in pieces and purée, pass through a sieve and emulsify with extra virgin olive oil. For the salt cod Cook the slices of cod for a few minutes in slightly salted water at 80°C. Clean and separate the slices and keep warm. For the corn crackers Mix all the ingredients except for the cornflour until the mixture is smooth and homogeneous. Spread the mixture on a silpat (silicone cooking mat) to a thickness of 2 mm.Cut into desired shapes and bake at 200°C for 8 minutes. To finish Place some sauce on the plate and complete with the salt cod, cornflour cracker, roasted potatoes and garnish with the edible flowers.
(serves 4) For the celeriac sauce 300 g of celeriac roasted in a salt crust 20 g of extra virgin olive oil Carli 2 g fi ne salt For the salt cod 200 g salt cod, already soaked 2 g fi ne salt For the corn crackers 125 g flour Primitiva 100 Molino Pasini 100 g water 35 g extra virgin olive oil Carli 15 g cornflour 3 g fi ne salt 1 g fresh yeast 1 g baking powder To finish 100 g purple potatoes, turned and roasted 3 g of edible flowers
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La felicità la cerco (e chissà se la trovo), la libertà la voglio e perciò me la costruisco ,
I Seek Happiness (Who Knows if I ll Find it) I Want Freedom and that is Why I Create My Own
Freedom has an important quality. Where I grew up, I could feel it in the air. If you put this emphasis only on your own business and needs you won’t be free, even if you may think you will be. To look aer your own interests, a small garden is sufficient, but for freedom you need to have a horizon. This is one of the cases in which changing the order of the factors changes the outcome. I have learned this through my own experience. I could smell freedom, even though I was busy with the “labours of Hercules”. Long shis, no free time, no private life. My freedom did not coincide with all these efforts, so far be it from me to sponsor this doctrine – I wasn’t and am not, the legendary Hercules. I could sense freedom in the bigger picture I had in my mind, in the framework in which I put all the details – even the most difficult ones – in the ideals that I worked towards in the big things and in the small ones. Especially the small ones. So the smell of freedom came from what I was searching for (and wanted) within me even more than what I achieved on the outside.
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Libertà ha un accento importante. Dove sono cresciuto io, per esempio, ho respirato questo. Che se mei l’accento solo sugli affari tuoi, gli interessi tuoi e i bisogni tuoi non sei libero, anche se puoi avere l’impressione di esserlo. Per fare i propri interessi basta un orto, per la libertà ci vuole almeno un orizzonte. Questo è uno dei casi in cui cambiando l’ordine dei faori, il prodoo cambia eccome. L’ho provato sulla mia pelle. Quando sentivo profumo di libertà, ad esempio, nonostante fossi impegnato nelle “fatiche di Ercole”, come le chiamavo io. Turni pesanti, zero tempo libero, vita privata non pervenuta. Naturalmente non coincideva con quelle fatiche la mia libertà, mi guardo bene dallo sponsorizzare questa dorina – non ero e non sono io, l’Ercole della leggenda. La libertà era interceabile piuosto nel disegno più grande che avevo nella testa, nella cornice dentro la quale avevo messo i particolari – anche quelli più difficili –, negli ideali verso i quali indirizzavo le mie azioni – anche le più modeste. Soprauo quelle. Insomma, il profumo di libertà mi veniva da quello che cercavo (e volevo fortemente)
dentro di me più che da quello che oenevo fuori da me. Immaginate un pallone, a me viene spontaneo. Tirare in porta nel campeo dietro casa è divertente. Tirare in porta in allenamento è ancora divertente, ma si aggiunge la fatica e a volte la frustrazione. Tirare in porta in una partita di serie A continua a essere divertente, ma alla fatica e alla frustrazione si aggiunge la responsabilità verso se stessi e verso la squadra. Libertà non è calciare secondo l’ispirazione del momento, per puro divertimento e senza una direzione. Sì, è anche quella sensazione, ma finisce lì, nell’orticello. L’accento più forte lo senti quando punti al gol, per poter continuare a giocare e a divertirti con gli altri. L’orizzonte lo vedi quando ti alleni duramente per vincere di nuovo e per poter continuare a giocare per vincere di nuovo e continuare a giocare… Libertà è poter continuare. E anche nella preparazione di un piao, per me la libertà non è il mero esercizio dell’invenzione allo scopo di conquistare approvazione o collezionare stelle. Libertà è caramellare i sogni perché altri vedano stelle in quello che ho fao per loro. Libertà è fare per poter continuare a fare come piace a me. Libertà è anche fare per poter fare diversamente, è fare per cambiare. Oggi, rispeo al passato, mi capita di trovarmi più frequentemente su tappeti rossi o soo i rifleori. Ma la soddisfazione che oggi mi dà il mio lavoro, per quanto grande, è lontana da quella che io chiamo felicità. La felicità è circolare, come le strade che ho percorso e la cucina che ho inventato: so che anche nel raggiungimento della felicità ogni arrivo presuppone una nuova partenza, anzi, so che è proprio perché sono arrivato che devo ripartire. Questo tipo di felicità si cerca, ma non so se si raggiunge. E allora perché non provare a essere felici anche senza di lei? Senza la felicità, voglio dire… Sulla strada circolare verso la felicità, la libertà è il faro. È restare fedeli a se stessi anche nel cambiamento. È non tradire la propria eccellenza per venire a pai col successo. È il sacrificio, ma dentro una cornice grande come l’orizzonte.
Imagine a soccer ball: that for me is easy. Taking a shot at goal in the playing field behind your house is fun. To take a shot at goal during training is still fun, but with a li le added effort and frustration. To take a shot at goal in a series A game continues to be fun, but along with the effort and frustration comes a sense of responsibility to yourself and to the other members of the team. Freedom is not to kick merely following the inspiration of the moment, for the pure joy of it and without direction. Yes, there’s that too, but it ends there, in that lile garden. You can feel that quality the most when you aim for a goal, to be able to continue to play and have fun with everyone else. The horizon appears when you train hard to win again, to keep playing to win and again to keep playing… Freedom to keep playing. It is also in the preparation of a dish; for me freedom is not merely inventing something to receive approval or collect stars. It is the freedom to caramelize dreams so that others see stars in what I have made for them. Freedom is to be able to do things the way I like them. Freedom is also to be able to change the way you do things, to make change happen. Today, compared to the past, I am often on red carpets or in the spotlight. But as much satisfaction I get from my work, no matter how much, it is far from what I call happiness. Happiness is circular, like the roads I took in the kitchen and the ones I have invented: I know that in achieving happiness each arrival is a new departure, in fact, I know that it is precisely because I have arrived that I have to leave again. We look for this kind of happiness but I don’t know that we ever achieve it. So why not try to be happy even without it? Without happiness… On the circular road to happiness, freedom is the beacon. It is staying true to yourself even during change. It is not betraying your own excellence to achieve success. It is sacrifice, but within a framework as big as the horizon.
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Perché è un filo che mi lega, non una corda che mi stringe. È un profumo che sento, non un odore che copre. È un ingrediente indispensabile non prepotente. È mio fratello Walter, non uno qualsiasi.
Walter è... un capitolo a parte (nella bella storia della mia famiglia)
Walter is... a Chapter All on His Own (in the Beautiful Story that is My Family)
Everyone is useful and no one is indispensible – we say it oen; I have said it many times. And even “the king is dead; long live the king”, and if one door closes another bigger one opens, and all those other things we say to mean that life goes on, with or without someone or something. But Walter is another story. I have oen said how concrete, practical, good, intelligent, responsible, generous, capable, wise and present my brother is. I cannot list all his qualities now, I wasn’t able to do so even when I wrote him for the first time many years ago, so I adopted the expedient of suggesting that if I were the protagonist of the story then he was
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Tui sono utili e nessuno è indispensabile: lo diciamo spesso, l’ho deo anch’io un sacco di volte. E anche che morto un papa se ne fa un altro, e che se si chiude una porta si apre un portone, e tue quelle altre cose che si usano per dire che la vita va avanti anche senza questo o senza quell’altro. Ma Walter è un capitolo a parte. Di mio fratello ho deo quanto è concreto, pratico, buono, intelligente, solidale, generoso, capace, disponibile, saggio, presente. E non posso elencare adesso tue le sue doti dato che, nemmeno anni fa quando scrivevo di lui per la prima volta, ero riuscito a farlo, tant’è che avevo adoato l’espediente di suggerire che se io ero il protagonista della storia lui era il coprotagonista, quindi bastava meere un “co-” davanti a tue le qualità possibili e immaginabili ed ecco che…lui ce le aveva. Tue. Di mio fratello ho deo anche non mi assomiglia per niente e, giuro, l’ho fao per soolineare quanto lui è più concreto, più pratico, più buono…più eccetera eccetera eccetera di me. In tuo. Una cosa che ancora non ho deo però, nonostante le doti di Superwalter spuntino come funghi, è che Walter è indispensabile. E che io ho bisogno di lui: qui lo scrivo e qui non lo nego. Walter mi riporta con i piedi per terra quando oso volare troppo alto, ma mi soffia sulle ali per incitarmi a volare quando i miei piedi sono talmente a terra che si scavano una buca.
Because it is a filament that links us, not a cord that binds us. It is a perfume that lingers, not an odour that smothers. , It is an indispensable ingredient that isn t overbearing. , It s my brother Walter, it’s not just anyone.
Walter c’è sempre, c’è quando intorno ho la folla, ma c’è anche di più quando mi ritrovo solo a pensare a quel che ho sbagliato, ho fao male, o non ho fao per niente. Walter suggerisce, spiega, dà consigli: ma non giudica mai. E arriva sempre al momento giusto, ma non ti dice che è lì per te, lui è lì e basta. È da questo che si riconosce un momento giusto. Walter ascolta, e tanto anche. E quando meno te l’aspei (ma quando più ne hai bisogno!) ti fa capire che ha capito. Ma non te lo dice: lui capisce e basta. Quando si accende qualche rifleore su di me, lui è sempre lì che mi sorride, da un angolo, eppure la sua vicinanza per me è la luce più forte. Quando mi si srotola davanti un qualche tappeto rosso, lui è sempre lì, alla distanza giusta di chi conosce la discrezione e la mee in pratica tui i giorni, ma con la vicinanza vera di chi ti vuole bene e gioisce dei tuoi successi. Walter è la dimostrazione vivente del fao che un eccellente consulente manageriale può essere anche un concentrato di umanità. Lo so, fa impressione anche a me, ma è così, ho dovuto rassegnarmi all’evidenza. Nonostante non mi abbia mai fao sentire i suoi occhi addosso, lui non mi ha mai perso di vista. È stato sempre lì, che io lo vedessi o no, a suggerirmi la direzione e a controllare che il fratellino sognatore non prendesse tangenziali inutili o sensi di marcia sbagliati e anche che non accelerasse troppo o non decelerasse senza motivo. Che tipo, il Walter. Mi viene in mente alla manifestazione Taste 2011. Io rispondevo all’intervista, davanti a me un pubblico amico, lui defilato in un angolo. Mi sento i suoi occhi addosso, come al solito, ma anche il suo cuore vicino, come al solito. Domande, risposte, qualche risata, foto, fi ne dell’intervista. Mi avvicino al tavolo dove ci sono le cartoline da autografare e vedo che ce n’è una, in un angolo, dove lui ha cancellato Davide e ha scrio Walter, poi ci ha messo il suo autografo e l’ha regalata a un amico co-
the co-protagonist, it was sufficient to put a “co” in front of all the possible qualities I could think of…and he would have them. All. I have said that my brother does not resemble me and I swear that I did this to underline how much more concrete, practical, nice…more everything he is than I am. In every way. Something I haven’t said, is that of all the talents of SuperWalter, most of all he is indispensable. I need him; and I am happy to say so. Walter brings my feet back to earth when I fly too high, but he also puts the wind under my wings to help me take off when my feet are so stuck that they are practically underground. Walter is always there, when there are tons of people around me, but also when I am alone, thinking about things I’ve done wrong, the mistakes I’ve made or things I haven’t done at all. Walter is there to suggest, explain, give advice; he never judges. He is always there just at the right moment, but he doesn’t announce himself, he is just there. That is how you can tell it’s the right moment. Walter listens, a lot. And when you least expect it (but when you most need it!) he lets you know he understands. He doesn’t say as much, he just understands. When there is a spotlight pointed on me, he is there smiling, discreetly from a corner, but the light he shines is the brightest one in the room. When a red carpet unrolls before me, he is always there, with the discretion of someone who puts discretion into
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practice every day, with the true closeness of someone who loves you and rejoices for your success. Walter is living proof that an excellent managerial consultant can also be a super-concentration of humanity. I know it’s odd, but it’s the truth and I had to resign myself to it. Even though he has never made me feel like he is watching me, he has never let me out of his sight. He has always been there, whether I could see him or not, to give suggestions and to make sure his lile brother, the dreamer, didn’t go off track or go in the wrong direction, that he didn’t go too fast or slow down for no reason. What a guy. It makes me think of the event “Taste” in 2011. I was giving an interview, in front of a friendly audience and he was in a corner. I can feel him looking at me, as usual, but I could also feel his heart close to mine, as usual. Questions, answers, a few laughs, pictures, the end of the interview. I approach the table with postcards for me to sign and I see that there is one, where he cancelled the name Davide and wrote Walter, he signed it and gave it to a mutual friend. “Are you nuts? “ I say. Then we all laugh. Everyone: Walter, our friend and I. Because making fun of each other is way too much fun. A postcard, an autograph, and you become someone. You think you’re Somebody? Trust Walter to put things in perspective. Thank you Walter. So that’s the way things are. I champ at the bit, I don’t want ties, I love being free, but I am happy to admit my dependence on my big brother, who is behind the scenes but is the true beacon of my life. Because it is a filament that links us, not a cord that binds us. It is a perfume that lingers, not an odour that smothers. It is an indispensable ingredient that isn’t overbearing. It’s my brother Walter, it’s not just anyone. Walter became an uncle a few months ago, just to make sure he wasn’t missing out on anything. SuperUncle – together with SuperAunt Mariarosa – to Camilla Maria…a new chapter within the chapter… one Saturday in July…but not just any Saturday; it was the most beautiful day of my life. While I was waiting outside the room where Evelina was giving birth to our lile girl, my thoughts crowded my mind. I was confused, bewildered, moved. It had nothing to do with what I had imagined until a few days, hours, minutes before. When I tried to imagine what she would be like, my daughter was some-
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mune. Ma dico, sei scemo? Glielo dico. Poi ridiamo. Tui: io, Walter, l’amico. Perché il gioco a prendersi in giro è troppo divertente. Una cartolina, un autografo e sei qualcuno. Sei qualcuno? Walter smonta il meccanismo. Grazie Walter. Insomma, le cose stano così. Io che scalpito, che non voglio lacci, che adoro la libertà, sono felice di riconoscere la mia dipendenza da questo fratellone che sta dietro le quinte ma è il faro più acceso della mia vita. Perché è un filo che mi lega, non una corda che mi stringe. È un profumo che sento, non un odore che copre. È un ingrediente indispensabile non prepotente. È mio fratello Walter, non uno qualsiasi. Da qualche mese è anche zio, il Walter, tanto per non farsi mancare niente! Superzio – insieme alla superzia Mariarosa – della piccola Camilla Maria… già, un capitolo nel capitolo…un sabato di luglio…ma non un sabato qualsiasi, il più bello della mia vita. Nel tempo di aesa, là fuori dalla sala dove Evelina stava dando alla luce la nostra bambina, tui i pensieri si sono dati appuntamento nella mia testa. Ero confuso, stordito, emozionato. Niente a che vedere con quello che avevo immaginato fino a qualche giorno, ora, minuto prima. Quando me la immaginavo, la mia bambina era qualcosa di indefinito che meeva insieme la mia emozione ai ricordi di quando ero bambino, ai trai rubati a uno o all’altro della famiglia, alla bellezza della mia compagna incinta, ai progei che facevamo insieme, ai somiglierà, sarà, farà… E poi eccomi lì, passato in un momento da quel futuro tuo immaginato a un presente vero e bellissimo. Camilla Maria è nata, e c’è poco da prevedere adesso: c’è tuo da vivere. Diventerai papà. Quando me lo dicevano durante i mesi di aesa, reagivo in modi diversi: dalla totale incoscienza alla…totale incoscienza! Ero confuso,
commosso persino, ma che ne sapevo io di che cosa volesse dire diventare papà? E gli altri? Gli altri lo sapevano? Lo sanno? Secondo me uno il padre lo fa mica lo sa. C’è forse un sistema sicuro, un modo preciso, una ricea perfea per diventare padre? Una con le dosi giuste intendo: un chilo di ragione, mezzo chilo di emozione, 600 g di dolcezza, 400 di severità…e via con la “Miscela Buon Papà”! Quando la mia bambina ha lasciato la pancia per entrare nelle mie braccia, ho capito che c’era poco da diventare: c’era da essere e da fare! E ho sentito che una nuova – importantissima! – partita della mia vita era già cominciata prima ancora che qualcuno fischiasse il calcio d’inizio. Nei mesi dell’aesa, guardando Evelina, la mia compagna, pensavo a quanto ha fao per la nostra bambina prima ancora che nascesse: l’ha portata in grembo, nei giorni sereni e in quelli più difficili; l’ha “aspeata” portandone dolcemente ma anche “sopportandone” faticosamente il peso; l’ha sentita e vista crescere prima ancora di sentirla e vederla nascere. Tua sua, al 100%. E io? Io curioso, stranito, vicino vicino ma senza avere la minima idea di che cosa…aspearmi. Ora lo so. C’è un 50% tuo mio adesso: una miscela di gioia, di impegno, di responsabilità. L’altro 50% resta sempre a carico della mia compagna, non ha certo finito il suo lavoro lei, lo so. Ma so anche che la nostra bambina ci aiuterà a capire come essere madre e padre, giorno per giorno, con buon senso; con poche formule, magari con un sacco di prove ed errori, ma sicuramente con amore. Quello che ho ricevuto io. So che Walter non se la prenderà se gli ho portato via un po’ di spazio, d’altra parte lui è un capitolo a parte fra i tanti capitoli della mia famiglia. Faa di chi c’è sempre, del ricordo di chi non c’è più e del sorriso di chi è arrivata da poco.
thing I couldn’t define that combined my emotions and memories from my childhood, different features from members of my family, the beauty of my partner during her pregnancy, to the plans we made together: she will look like, she will be, she will do… now here I am, in a split second transported from an imagined future to a beautiful, real present. Camilla Maria was born, there is nothing to foresee or predict: there is everything to be lived. You are going to be a father. When people said that to me during the months of waiting, I would react in different ways: from complete foolishness…to complete foolishness! I was confused, moved even, but what did I know about what it means to become a father? And everyone else? What do they know? Really. To me, you “are” a father, you don’t “know”. Is there a sure-fire system, a precise way, a perfect recipe for being a dad? One with all the right amounts and ingredients: one kilo of reason, a half a kilo of emotions, 600 grams of kindness, 400 grams of strictness…mix, and you get the “Good Dad Mix”! When my daughter le the womb and I took her in my arms, I knew that there wasn’t anything to become: there was to be and to do! I felt a new – important! – game of my life had already started even before the referee could whistle for the kick-off. During the months of waiting, watching Evelina, my partner, I thought about how much she had already done for our daughter even before she was born: she carried her in her womb during easy peaceful days and the hard ones; she “waited” for her, carrying her weight with difficulty but gently; she watched her grow even before she could see her or hear her. 100% hers. And me? I was curious, bewildered, close, but without having the least idea of what to…expect. Now I know. There is 50% that is mine now: a combination of joy, effort, responsibility. The other 50% still depends on my partner, I know she still hasn’t finished her job yet. But I also know that my daughter will help us become a mother and a father, day by day, with common sense, with very few formulas, maybe with a bunch of trials and errors, but definitely with love. The same love that I received. I know that Walter won’t mind if I take away a lile of his space, on the other hand, he is his own chapter amidst all the chapters of my family. Chapters made of who is always here, the memory of who is no longer and the smile of someone who has just arrived.
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L equilibrio del gusto, , l equilibrio del giusto
The Balance of Taste, the Balance of What is Right
I am a cook that searches, an insatiable guy, a travelling man. That is why I do not have any dishes to serve where balance and harmony are ready-made, once and for all. I have to admit: I have cooked a lot, I have stuck my nose in a lot of different places and tried many different things. So it is inevitable, that when I search for balance I first see the counter-balance, then the stability (if needed) that clearly sees all elements, that has within the force of contrasts the possibility of compensating.
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Sono un cuoco che cerca, un tipo insaziabile, un uomo in viaggio. Perciò non ho pia i pronti dove servire l’equilibrio bell’e fao, l’armonia una volta per tue. Ma lo ammeo: ho cucinato parecchio, messo il naso ovunque e assaggiato dappertuo. Perciò è inevitabile che quando penso all’equilibrio veda prima il contrappeso e poi (casomai) la stabilità, che intraveda chiare le parti dietro al tuo, che rintracci nella forza dei contrasti la possibilità di una compensazione. Come dire che vedo niente, o quasi, perché quello che cerco non esiste o non esiste ancora. Ma so che se lo cerco con pazienza e convinzione, se mi preparo a riceverlo senza preco i e preconce i, prima o poi emergerà dall’oceano dei miei marosi.9 E marosi non è tanto per dire, è proprio nell’oceano che è nata la mia cucina dei contrasti. Pacifico, pacifica, è ovvio. L’equilibrio dei contrasti. Adesso è una formula, per qualcuno una fi losofia, per altri un’invenzione come tante. Ma una delle cose che ho imparato nella mia intensa a ività di spugna è che quello che oggi suona formula per chi la assorbe, ieri è stato vita per chi la rilascia. Linfa vitale, o giù di lì.
Come dire che io l’equilibrio dei contrasti l’ho assorbito davvero, prima di osarne il rilascio. Faccio un esempio, quello dell’oceano appunto. Ognuno ha gli esempi che gli vengono dalla vita che ha a disposizione, e non posso farci niente se fra i miei esempi c’è l’oceano. Non ho manie di grandezza, ma grandi sogni sì, e poi ho sempre avuto in regalo grandi cose – un grande padre, una grande famiglia, grandi maestri. E anche l’oceano, perché no? Più grande di così. L’oceano mi si è presentato con tue le sue bellezze e i suoi misteri e, al momento giusto,10 anche con le sue straordinarie contraddizioni. Sono passati più di vent’anni da allora. Marchesi mi aveva appena richiamato a “casa” da Montecarlo, aveva bisogno di un capocuoco. Che tradoo in musica significava uno che coordina l’orchestra, anziché suonarne un solo strumento. Che tradoo in “momento giusto” significava per me regalo, salto di qualità, sfida. Era il 1992, lo stesso anno del Giappone. Può darsi che l’occasione faccia l’uomo ladro, come si dice; di sicuro fa più giusto il momento giusto.
9. Marosi. Pensieri confusi che mi si presentano soo forma di onde: veloci, a correnti alterne, non ce n’è uno uguale all’altro. 10. Momento giusto. Quell’imprecisato e nello stesso tempo precisissimo momento in cui le cose che succedono a tu i succedono proprio a te e per te. 11. The right moment. That imprecise yet at the same time, incredibly precise moment in which things that happen to everyone happen to you and for you.
How can I explain that I cannot see anything because what I am looking for doesn’t exist, at least not yet. But I know that if I search for it with patience and conviction, if I prepare myself to receive it without precooked or pre-conceived ideas, sooner or later it will emerge from that ocean of my thoughts. From that ocean of thoughts is where my kitchen of contrasts comes from. The Pacific Ocean, of course. The balance of contrasts. Now it is a formula, for some it is a philosophy, for others it is just another invention. But one of the things I have learned during my intense activity of being a sponge, is that what today sounds like a formula for those who absorb it, yesterday was life to the person who passed it on, their lifeblood, more or less. How can I explain that the balance of contrasts was something I completely absorbed, interiorized, before I dared to release it, to let it out. I use the example of the ocean. Everyone has examples that come to them from life that they use, I can’t help it if the ocean is what comes to mind. I do not have dreams of grandeur, but I do have big dreams, and I have had great gis – a great father, a great family, great teachers. And why not, the ocean too. What could be greater than that… The ocean has revealed its beauty, its mysteries to me, all at the right moment 11 , including its extraordinary contradictions.
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More than twenty years have gone by. Marchesi had just called me back “home” from Montecarlo, because he needed a head chef. In the world of music, that would mean the person who coordinates the orchestra, not merely someone who played one instrument. That, translated into the “the right moment”, meant for me a gi, a great opportunity. It was 1992, the same year as Japan. Maybe opportunity makes the thief, as they say in Italian; it certainly makes the right moment even beer. It was my first time in Japan, and in a certain sense my “first” time with raw fish, the way they mean it in that part of the world. Also with green tea, ginger, daikon, a root that is so yet crunchy at the same time. From that cuisine I learned how to manage ingredients as lile as possible (the right amount?) and to respect them, I learned that you can eat well without feeling heavy or over full, and that to stay composed while cooking is another element of balance, another ingredient of respect. That vision of cooking is part of Hide, one of my companions at D’O during the years of releasing, exuding, the years in which, from the sponge I was, the things I had absorbed began to emerge. But there is also another thing I learned, almost without realizing it, simply because the ocean was in front of me. The ocean that silently spoke to me loud and clear. There, whales are served in a dish in small pieces. Just to be clear, even respecting the ingredient and treating it “correctly”, at a certain point, a mammal passes from the ocean to your plate, to delight your palate. There, that is the way taste should be. The same year, the same ocean, only from the opposite side, showed me more clearly what I had only intuited in the Orient.
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Era la mia prima volta in Giappone, ma in un certo senso anche la prima del pesce crudo, inteso come lo intendevano da quelle parti. E del tè verde, e dello zenzero e del daikon, radice morbida e croccante al tempo stesso. Da quella cucina ho imparato a traare “poco” (il giusto?) l’ingrediente e quindi a rispearlo, e ho imparato che si può mangiare bene senza appesantirsi, e che stare composti mentre si cucina è un altro elemento dell’equilibrio, un altro ingrediente del rispeo. Di quella visione del cucinare fa parte Hide, uno dei compagni di D’O negli anni del rilascio, gli anni in cui, dalla spugna che ero, cominciava a fuoriuscire quel che avevo assorbito. Ma c’è un’altra cosa che ho imparato, quasi senza rendermene conto, semplicemente perché avevo l’oceano davanti agli occhi. L’oceano che, in silenzio, mi parlava forte e chiaro. Lì, le balene le servono nel piao a pezze i. Per essere chiari, pur nel rispeo per l’ingrediente e nonostante la “correezza” del traamento, a un certo punto quel mammifero passa dall’oceano al palato, per deliziarlo. Lì, il gusto è giusto così. Nello stesso anno, lo stesso oceano, visto però da occidente, mi ha spiegato meglio quello che avevo intuito in Oriente.
Da quella cucina ho imparato a trattare “poco” (il giusto?) , l ingrediente e quindi a rispettarlo, e ho imparato che si può mangiare bene senza appesantirsi...
From that cuisine I learned how to manage ingredients as little as possible (the right amount?) and to respect them, I learned that you can eat well without feeling heavy or over full...
Mi trovavo in California, dove Marchesi era stato chiamato per una consulenza a Pebble Beach. Chissà se lo sapeva che mi mancava un “lato” della visione, che mi serviva un altro sguardo sulle cose. Di solito i maestri lo sanno cosa ti manca e cosa ti serve. (Questa me la devo segnare, visto che da qualche anno ho deciso di “rilasciare” anch’io.) La California, dicevo. Di tanto in tanto mi portavano in barca per osservare lo speacolo dei branchi di balene. Emozionante, per gli occhi e per l’anima. Ma niente da meere soo i denti. Lo stesso mammifero che a oriente deliziava il palato, a occidente riempiva gli occhi. Eccolo lì l’altro lato, quello che contribuisce a costruire l’equilibrio. Ed eccolo lì l’altro sguardo, quello che arricchisce e completa la visione. Per me l’equilibrio, quello che non posso servirvi bell’e fao, è nascosto in quella contraddizione. Per me l’armonia, quella che non saprò mai definire una volta per tue, è disegnata sul fondo di quell’oceano. Perciò, quando dico rispeo per gli altri, per le diverse culture, per i differenti punti di vista, io penso al Giappone e alla California. Ma non certo per unire i popoli, ché a quello spero ci pensino i nostri governanti. Solo e semplicemente per servire il mio cibo a una tavola di diversi, uniti da un amalgama di sapori, profumi e visioni della vita. Sì, lo so, è presuntuoso quasi quanto la pace nel mondo. Ma ognuno sogna come sa.
I was in California, where Marchesi was called to be a consultant at Pebble Beach. Who knows if he knew that I was missing one “part” of my vision, that I was in need of a different point of view. Normally teachers know what you are missing and what you need. (I need to make a note of this for myself, now that I have been teaching for the last few years.) I was talking about California. Every once in a while, they would take me out in a boat to watch the incredible show put on by the schools of whales. It was thrilling for my eyes and my soul. But there was nothing to eat. The same mammal that in the Orient delighted palates in the West was a delight for the eyes. So that is the other side of things that contributes to the overall sense of balance. It is also another way of looking at things that enriches and completes a point of view. For me, balance is something that I cannot serve you ready-made and it is hidden in that contradiction. For me, the harmony that I will never be able to define once and for all, is drawn on the boom of that ocean. That is why, when I speak of respect for others, for different cultures, for different points of view I think of Japan and California. Certainly not to unite people, I leave our politicians to do that. It simply means to serve my food to a table of diverse people, united by a combination of flavours, smells and points of view. Yes, I know, it is as presumptuous as talking about world peace. But everyone has their dreams.
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In questa rivisitazione del celeberrimo branzino al caviale di Pic, ho voluto mantenere una consistenza simile a quella del caviale, ma facendola “interpretare” dalla tapioca al nero di seppia. Il tuo servito in un piao della linea I.D.ish – in melamina, sostenibile – fruo della mia collaborazione con Kartell.
Branzino , al caviale D O
(per 4 persone) Per il branzino 360 g di fi leo di branzino 26 g di sale 31 g di zucchero Eridania Zefi ro Per la salsa 300 ml di panna liquida 1/2 cipolla 30 ml di vino bianco 1 g di chiodi di garofano 1 g di foglia d’alloro 1 g di bacche di ginepro 3 g di amido di mais diluito in acqua fredda 2 g di sale 5 g di olio extravergine di oliva Carli Per il caviale 20 g di tapioca 5 g di nero di seppia 2 g di olio extravergine d’oliva Carli 1 g di sale Per la finitura pelle soffiata di branzino
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Per il branzino Cospargere il fi leo di branzino con lo zucchero e il sale mischiati. Coprire con la pellicola e lasciare in salagione in frigorifero per circa 12 ore. Togliere dalla salagione e sciacquare con acqua fredda. Asciugare. Tagliare in 4 tranci e cuocere in forno a vapore (80 °C) per circa 8 minuti. Togliere dal forno e tenere in caldo. Per la salsa In una casseruola far scaldare l’olio, unire la cipolla tagliata in piccoli pezzi e far cuocere per circa 4 minuti a fuoco basso. Bagnare con il vino bianco e far evaporare. Unire le spezie e la panna, portare nuovamente a bollore e legare con l’amido di mais, quindi togliere dal fuoco e fi ltrare al colino fine. Regolare di sale e tenere in caldo. Per il caviale Cuocere la tapioca in acqua bollente per circa 10 minuti fino a che non risulti trasparente. Scolare e far freddare soo l’acqua corrente per almeno 10 minuti. Scolare ancora e condire con l’olio extravergine, il sale e il nero di seppia. Per la finitura Disporre il caviale al centro dei piai, il branzino nappato di salsa al vino bianco e infine la pelle soffiata.
In the reinterpretation of the famous sea bass with caviar from Pic, I wanted to maintain a consistency similar to that of caviar, but “re-interpreting” it with tapioca and squid ink. All served in I.D.ish – in melamine, sustainable – the result of my collaboration with Kartell.
Sea Bass and , D O Tapioca Caviar
For the sea bass Sprinkle the sea bass with the mixture of salt and sugar. Cover with plastic fi lm and let marinate in the refrigerator for approximately 12 hours. Remove the salt and sugar mixture and rinse with cold water. Dry the fish. Cut in 4 slices, cook in a steam oven at 80°C for approximately 8 minutes. Remove from the oven and keep warm. For the sauce In a small pot, heat the olive oil, add the finely chopped onion and cook for approximately 4 minutes on low heat. Add the white wine and reduce. Add the spices and the cream and bring to the boil again. Thicken with the diluted cornstarch. Remove from heat and pass through a fine sieve. Adjust for salt and keep warm. For the tapioca caviar Cook the tapioca in boiling water for 10 minutes until it becomes transparent. Drain and cool under running water for 10 minutes. Drain again and dress with extra virgin olive oil, salt and squid ink. To finish Place the tapioca caviar on the plates, the sea bass that has been covered with the white wine sauce and garinsh with the puffed fish skin.
(serves 4) For the sea bass 360 g fresh sea bass fi let 26 g salt 31 g sugar Eridania Zefi ro For the sauce 300 ml heavy cream 1/2 onion 30 ml white wine 1 g whole cloves 1 g bay leaf 1 g juniper berries 3 g cornstarch diluted in cold water 2 g salt 5 g extra virgin olive oil Carli For the tapioca caviar 20 g tapioca 5 g squid ink 2 g extra virgin olive oil Carli 1 g salt To finish puffed sea bass skin
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Strade dritte, strade circolari Che cosa intendo per cucina circolare l’ho deo tante volte, ma più che dirlo lo propongo in ogni menu. Un percorso che parte con un antipasto, passa attraverso un primo, sale ma non troppo sennò perde il “gusto” di tuo il paesaggio, arriva al secondo – ovvero alla cima – e poi scende verso il dolce. Dove (ri)trova sempre una memoria di salato. La circolarità però non resta confinata in cucina, la circolarità mi circonda: dal pallone alla strada, alla vita. Il pallone si disegna da sé, la cucina l’ho appena ricordata. Mi piacerebbe fare un piccolo cenno alla strada e alla vita. Le strade che ho percorso io sono sempre state circolari: andavo e venivo, partivo e ritornavo. Ho girato il mondo per tornare a casa, ma con il mondo dentro. Il vantaggio di un percorso circolare? Lungo una strada dria non c’è mai una sorpresa: è sempre la stessa. Davanti, dietro, destra e sinistra sono sempre lì: davanti, dietro, a destra e a sinistra. Tu’al più posso ribaltare i punti di vista, ma solo con andate e ritorni. Di sogni, intesi come percorsi alternativi, cambi di roa, ripensamenti…neanche a parlarne: solo stop, rallentamenti e accelerazioni. Insomma, una strada dria è l’ideale per andare e tornare, riandare e ritornare. Ha la forza dell’abitudine e conserva visibile l’obieivo, se mantieni la roa è la strada stessa che ti porta drio al traguardo. Eppure, io credo che il mio viaggio, la mia vita, somigli più a un percorso circolare.
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Da qualsiasi punto guardo c’è qualcosa da vedere, e da ciascuno dei punti di osservazione vedo un paesaggio diverso, e anche altri viaggiatori che stanno percorrendo la stessa strada, sia pure con tempi e mezzi differenti. Non comincia né finisce in un punto preciso, e non perché non so dove sono o dove voglio andare, ma perché tu i potrebbero essere indifferentemente punti di partenza o punti di arrivo. Quando sono arrivato (già) alla fine di un tragio sono (soltanto) all’inizio di un altro e quello che per me è un traguardo, per qualcun altro è una partenza. E viceversa. Una strada12 circolare non ha angoli, in compenso ha tanti sogni. È faa per conoscere, per crescere, per cambiare. Io ho scelto una vita circolare. E ogni giorno mi sveglio con la voglia di ripartire. Il paesaggio che vedo da qui è morbido ma anche croccante, dolce ma anche salato…
12. Faccio una piccola deviazione, per parlare di stelle… del cuoco. Su una strada dria il sole nasce sempre lì e muore sempre là, e le stelle puoi solo contarle. Su una strada circolare il sole oggi nasce qui e tramonta là, e domani nasce là e tramonta qui. E le stelle che le conti a fare? Meglio non perdere di vista il cielo.
Straight Roads, Circular Roads I have explained many times what I mean by circular cuisine, but more than talking about it, I propose it in every menu I make. A voyage, a trip, that starts with an antipasto, through a first course, slightly uphill, but not too much or you would lose the “flavour” of the landscape, then the second course – the summit – and then the descent towards dessert, where you will find a “memory” of something savoury. Circularity isn’t confined to the kitchen, it is around me everywhere: from soccer to roads, to life in general. A soccer ball is obvious; I’ve just mentioned cuisine. I would like to say a word or two about the road and life. The roads I have taken have all in the end, been circular: I came and went, le and returned. I travelled the world to come back home, but with the world inside me. What is the advantage of a circular path? Along a straight road, there are no surprises: everything is the same. Straight ahead, behind, right and le
13. I would like to take a small detour, to talk about stars… chef’s stars. On a straight road, the sun always rises and sets in the same place, and you can only count the stars. On a circular road, the sun rises here and sets over there and tomorrow it rises there and sets here. Why bother counting the stars? Isn’t it beer to not lose sight of the sky?
are always there: ahead, behind, right and le. I can try to shake things up, but only comings and goings. Dreams, meant as alternative paths, changes of course, changes of mind…not a chance: only stopping, slowing down or speeding up. A straight road is ideal for coming and going, going away again and coming back. It has the strength of habit and keeps the objective in sight, if you keep to the same course it will be the road itself that takes you to the finish line. Still, I believe that my voyage, my life, resembles a circular path. From whichever viewpoint, there is always something to see, and from each observation point there is a different landscape, other travellers are also on the same road, even if at different times and with different means of transportation. The road doesn’t begin or end in a certain point, not because I don’t know where I want to go, but because every point could easily be the beginning or the end. When I have arrived at the end of one journey, I am (already) at the beginning of the next and what for me is a finish line for someone else is the starting line. And vice versa. A circular road13 has no corners, but to compensate, it is full of dreams. It is meant to learn, to grow, to change. I have chosen a circular life, and every day I wake up with the desire to start out again. The landscape that I see from here is so but also crisp, sweet but also salty…
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Ti accorgi presto che l unica cosa che non si esaurisce mai è proprio la voglia di giocare. Ma per quella servono solo spazi sempre nuovi, tanta immaginazione e buoni compagni.
Di oceano in oceano
From Ocean to Ocean
Now that I am here, I think I will stay here a lile longer. In the ocean, I mean. Only, instead of talking about its two sides, I would like to talk about two of its colours. I will explain myself beer. Naturally, the ocean has a lot more than two colours, but I am referring to the market, not to nature. I spoke about the whale seen from two points of view, the East and the West, now I would like to talk about two strategies: the blue ocean strategy and the red ocean strategy. I did not invent them, a bunch of expert economists did, but without knowing what they were called, I had them
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Già che ci sono, ci resto ancora un po’. Dentro l’oceano, voglio dire. Solamente che, invece che dei suoi due lati, adesso mi piacerebbe parlare dei suoi due colori. Mi spiego meglio. Naturalmente di colori l’oceano ne ha ben più di due, ma io mi riferisco al mercato, non alla natura. Ho parlato della balena vista da due lati, l’orientale e l’occidentale; ora vorrei parlare di due strategie: la strategia Oceano blu e la strategia Oceano rosso. Non le ho inventate io, ci hanno pensato fior di economisti, ma anche senza sapere come si chiamavano le ho avute a disposizione, entrambe, e non una volta sola. Più o meno come è capitato a tu i, credo. Da bambino, per esempio. Quando puoi decidere di giocare portando via i giochi agli altri bambini che giocano con te. Se lo fai è perché pensi che il divertimento sia fruo del tuo averla vinta lì, in quel momento, prendendoti tuo quello che c’è da prendere nello spazio, anzi, compreso lo spazio che hai a disposizione. Forse mi sbaglio, ma credo che da bambini lo abbiamo fao tu i almeno una volta, di rubare giochi e spazio; che poi qualcuno non abbia mai smesso e continui anche da adulto…vabbè, questa è un’altra storia.
You understand soon enough that the only thing that never ends is the desire to play. But for that, you need places that are always new, lots of imagination and good friends.
Magari ci me i un po’, ma se hai davvero voglia di divertirti, prima o poi lo capisci che quella stanza e persino quel parco diventeranno sempre più piccoli fino a sparire non appena resterai lì da solo a giocare con il tuo ricco boino. Perché anche tantissimi giochi prima o poi si esauriscono e, soprauo, l’infinità dei giochi finisce per spegnere la meraviglia del gioco. Ti accorgi presto che l’unica cosa che non si esaurisce mai è proprio la voglia di giocare. Ma per quella servono solo spazi sempre nuovi, tanta immaginazione e buoni compagni. E le ho avute a disposizione di nuovo da ragazzo, le due strategie, tanto per fare un altro esempio. Mi riferisco agli anni in cui la competizione ti prende le gambe quando ti confronti in un campo di calcio, o magari ti fa balbeare il cuore quando sei in gara con un altro per conquistare una ragazza. Non che siano la stessa cosa un gol e una ragazza, intendiamoci, ma c’è un’età in cui ti senti onnipotente e nello stesso tempo te la fai soo dalla paura, in cui ti senti un dio e nello stesso tempo una nullità. (Che forse poi è un’età che non finisce mai. Ma anche questa è un’altra storia.) Ecco, forse è proprio da lì che prenderei lo spunto, perché è in quel periodo della vita che vorresti che il mondo si accorgesse che ci sei, e capisse che sei unico, e si rendesse conto che nessuno è come te. Ciò nonostante, con tuo il fuoco che ti brucia dentro e tua la passione che ti consuma, non andresti
both at my disposition, more than once. More or less the way it has happened to most, I think. As a child, for example. When you play and take the toys away from the other kids that are playing with you. If you do, it’s because you think that fun is the fruit of winning, in that moment, taking everything there is to take, including all the available space. I might be wrong, but I think that as kids we have all done something like that at least once, to steal toys and space; that some people have never stopped, even as adults… is another story. It might take you some time, but if you really do want to have fun, sooner or later you will understand that the room or the park will become smaller and smaller until they disappear completely and you will be le alone with your spoils. Most games finish sooner or later and, above all, games that go on forever end up suffocating the wonder of play. You understand soon enough that the only thing that never ends is the desire to play. But for that, you need
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places that are always new, lots of imagination and good friends. I had two strategies when I was young. I am referring to the years when competition takes over, when you are in a soccer field, or that makes your heart fluer when you are in competition with another guy to win over a girl. A goal and a girl are not the same thing, of course, but at that age you feel omnipotent and at the same time you are scared to death, you feel like a god and at the same time a nothing. (Maybe this age never ends, but that is another story.) Maybe it is precisely from there that I should start: during that period of life in which you wish the whole world would notice you, understand how unique you are, then everyone would realize that there is truly no one like you. Despite that, even with all the passion and fi re possible burning within you, you wouldn’t get far if you eliminated others as if they were in your way, if you criticized them for being who they are, if you gave yourself over to the religion of cu hroat competition. You are someone for what you are worth, not for what others aren’t worth.
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da nessuna parte se eliminassi gli altri come ostacoli, se criticassi il loro modo di essere, se ti votassi alla religione della concorrenza spietata. Sei qualcuno per quello che vali, non per quello che non valgono gli altri. Continueranno a giocare con te se saprai inventare giochi nuovi, magari sfruando quelli vecchi. Ti sceglieranno e ti vorranno bene, non se sarai la fotocopia di un idolo, ma se, rimanendo te stesso, saprai cambiare e imparare. Tuo questo gli economisti l’hanno deo con parole grandi, grandi come l’oceano. Ma la sostanza è semplice, semplice come i “da bambino” e i “da ragazzo” nella vita di tu i. Esiste una strategia chiamata oceano rosso, che ti dà l’illusione di vincere solo perché in quel momento stanno perdendo gli altri. E poi esiste una strategia chiamata oceano blu, dove il tuo successo non dipende dalla concorrenza spietata, né da stellari budget di marketing, ma da mosse originali, brillanti, innovative. Pensate. Crescere per me ha significato comprendere il passaggio dall’Oceano rosso della concorrenza spietata a quello blu dell’improvvisazione calcolata. Qui dentro, dentro il mio personalissimo modo di intendere l’Oceano blu, ho potuto conservare quel ragazzo pieno di passione e originalità che vince perché sa giocare senza calpestare, che raggiunge l’obieivo perché sa adaarsi e modificarsi, non arraffare o replicare. Ma più di tuo, dentro il mio D’O blu ho cercato e cerco ogni giorno di avanzare libero dalla competizione, affinché l’onda 14 in arrivo non mi travolga. Casomai sarò io che cercherò di accoglierla e di comprenderla nel mio cammino.
They will continue to play with you and you will learn how to invent new games, maybe even based on the old ones. They will choose you and they will love you, not because you are the photocopy of some idol, but if, staying true to yourself, you know how to learn and to change. Economists have said all this with enough words to fill an ocean. However, the substance is simple, as simple as the “when we were kids” and the “when we were young” of everyone’s lives. The strategy called red ocean, gives you the illusion of winning only because everyone else is losing. With the blue ocean strategy, where your success does not rely on cutthroat competition, or marketing strategies with a stellar budget, but from original, brilliant innovative moves. Think about it. To grow for me, means understanding the passage from the red ocean of cuhroat competition to the blue ocean of calculated improvisation. Inside this extremely personal way of interpreting the blue ocean, I have been able to preserve that young man full of passion and originality that wins because he knows how to play without stepping on other people’s feet, that reaches his objectives because he knows how to adapt and to modify himself, not to snatch or copy. But more than anything else, inside my blue D’O, I have tried and try every day to move forward, free of competition, until the coming wave15 overwhelms me. If anything, I will try to embrace it and include it in my path.
14. “E ti sei opposto all’onda ed è lì che hai capito che più ti opponi e più ti tira giù” (Ligabue, Mei in circolo il tuo amore). 15. “And you resisted the wave and that was when you realized that the more you opposed it the further it brings you down” (Ligabue).
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Cardoncello e carciofo (per 4 persone) Per la salsa al rafano 400 g di pane in cassea senza crosta 300 g di lae intero 300 g di panna fresca 50 g di cipolla affeata fi nemente 20 g di rafano 20 g di burro 10 g di senape 3 g di sale fi no Per la finitura 50 g di carciofi puliti e co i so’aceto 50 g di rape pulite e coe so’aceto 4 cardoncelli sbianchiti e arrostiti longitudinalmente 20 g di ficoide glaciale
Per i carciofi e le rape In due pentole, per ciascuna pentola, meere 250 ml acqua, 50 ml aceto di vino bianco Ponti Classico, 50 g di zucchero e 10 g di sale. Portare a ebollizione e cuocere separatamente gli spicchi di carciofi per 5-7 minuti e gli spicchi di rapa per 10-15 minuti. Scolare. Per la salsa In una casseruola sciogliere il burro e appassirvi la cipolla. Bagnare con il lae e portare a bollore, ripetere l’operazione con la panna. Togliere dal fuoco e unire il pane in cassea tagliato a cubei, il rafano, la senape e il sale. Frullare il tuo e fi ltrare. Tenere in caldo. Per la finitura Disporre la salsa nei piai creando delle spirali con l’aiuto di una tasca da pasticceria. Completare con i cardoncelli arrostiti, le rape, i carciofi e qualche foglia di ficoide glaciale.
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King Oyster Mushroom and Artichoke (serves 4) For the horseradish sauce 400 g white bread, crusts removed 300 g whole milk 300 g heavy cream 50 g onion, sliced thinly 20 g fresh horseradish, grated 20 g buer 10 g mustard 3 g fi ne salt To finish 50 g artichokes, cleaned and cooked 50 g white turnip, cleaned and cooked 4 king oyster mushrooms, blanched, cut horizontally and roasted 20 g ficoide glaciale
To cook the artichokes and turnip Clean the artichokes and cut into wedges. Clean the turnip and cut into wedges. In two separate pots, bring to boil 250 ml water with 50 ml of white wine vinegar “Ponti Classico” and 50 g sugar and 10 g of salt in each pot. Cook the artichokes 5-7 minutes and the turnips 10-15 minutes. Drain. For the sauce In a pot, melt the buer and sauté the onion lightly. Add the milk and bring to boil; add the heavy cream and bring to the boil again. Remove from heat and add the white bread, cut in cubes the horseradish, the mustard and salt. Blend at high speed and filter. Keep warm. To finish With the help of a pastry bag, place the sauce on the plates in a spiral. Complete with the roasted mushrooms, the turnip, artichoke and a few leaves of ficoide glaciale.
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Quel che è vuoto per me, forse non lo è per un altro, e viceversa. E prima di esprimere giudizi di valore, attribuire pieni e vuoti, vale o non vale, forse è meglio guardare bene.
Base solida, altezza reale, profondità massima
Solid Foundations, Royal “Highness“16, Maximum Depth
The story of the vase that needs to be fi lled until it is completely full has been told many times and many different ways. Now I’ll tell you my version. For those of you who may not know the story, this is it, more or less. The Zen master or manager or trainer, or whoever the teacher is, shows an empty vase to someone who is meant to learn. Once they both agree that the vase is empty, the teacher puts in a certain amount of large precious stones; he puts in enough to apparently “fill” the vase. Then he asks if the vase is full and all of his students
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La storiella del vaso da riempire finché non è davvero pieno l’hanno servita e la servono in tue le salse. Vi dico la mia. Per chi non la conoscesse, è grosso modo questa. Il maestro zen o manager o formatore, insomma chi è da questa parte a insegnare, mostra un vaso vuoto a chi è dall’altra parte a imparare. Una volta che tu i concordano sul fao che il vaso è vuoto, il maestro ci mee dentro una certa quantità di pietre di grosse dimensioni; diciamo, almeno per il momento, che ne introduce fino a “riempirlo”. Quindi chiede se il vaso è pieno, e se nessuno dei discepoli conosce il seguito, la risposta è sì. A questo punto il maestro fa vedere che nel vaso ci sono ancora spazi vuoti, e per confermarlo aggiunge della ghiaia e lo “riempie” per la seconda volta. Se il gruppo ha capito l’antifona, quando il maestro domanda di nuovo “è pieno?” risponde no, e infa i non lo è. Per dimostrarlo, il maestro aggiunge della sabbia. Risulta subito evidente che il vaso non era ancora pieno. Un po’ meno
16. Altezza in Italian means both height and Your Highness.
evidente è che non lo sia una volta che la sabbia si è infi lata in ogni interstizio visibile – e forse anche in qualcuno invisibile. Ma quando il maestro ci versa dell’acqua, nessuno ha nient’altro da…aggiungere. Niente se non il dubbio che quel vaso non sarà mai completamente pieno. Penso che leggende, parabole e racconti con una morale contengano un tesoro diverso per ogni persona che li ascolta, e che ciascuno possa farne tesoro nel senso leerale del termine: può cioè trovare la propria fonte di ricchezza interiore. In questa storiella del vaso io ho trovato una fonte di tesori inesauribile, provo a descrivere i più importanti. Tesoro numero uno. Prima di dire che qualcosa è vuoto, vuoto davvero, meglio essere prudenti, osservare con aenzione, guardare oltre l’apparenza. Nella storia, il vaso è vuoto per tu i soltanto all’inizio, quando dentro non si vede niente. Ciò nonostante, credo che non sarebbe male dire sempre “io non vedo niente” prima di affermare con assoluta sicurezza “qui non c’è niente”. Ché a pensarci bene, a posteriori, in fondo un po’ d’aria c’era fin dall’inizio…Penso ai vasi ma anche alle situazioni, penso ai luoghi ma soprauo alle persone. Non per altro, poi è dall’equivoco iniziale che si generano tui gli altri: quand’è che qualcosa (o qualcuno!) è pieno davvero? E non mi riferisco certo a cibo o vino, ma a occasioni e possibilità, esperienze e conoscenze. E poi, vuoto di che? Pieno di cosa? Quel che è vuoto per me, forse non lo è per un altro, e viceversa. E prima di esprimere giudizi di valore, aribuire pieni e vuoti, vale o non vale, forse è meglio guardare bene. Per vedere davvero, riconoscere e prendere da ciascuno il buono (e solo il buono) che ha.
What is emptiness for me, , maybe isn t emptiness for someone else and vice versa. Before passing judgement, attributing the qualities of full or empty, worth or lack thereof, it might be best to look at things more closely.
say yes. The teacher then shows them that there are some empty spaces and “fills” the vase again with smaller stones. Now the group begins to understand and says that the vase is still not full. To prove this, the teacher puts in some sand. This proves that it really wasn’t full. Now it is less evident whether it is full or not, as the sand fills up the tiny cracks – many of which no one could see. But when the teacher adds water, no one has anything else to…add. Nothing, if not the doubt that the vase will never be completely full. I think that tales, parables and stories with a moral contain a different message for everyone who hears them that they can take to heart, literally; that will help them find the richness of their inner self. In this little story about the vase I have found an inexhaustible supply of treasures or lessons; I will try to describe the most important ones. Treasure number one. Before saying something that is empty, truly empty, it’s best to be prudent, to observe carefully, to look past appearances. Throughout the story, the vase is considered empty by everyone only at the beginning, when you could
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not see anything inside. I think that it wouldn’t be a bad idea to say “I don’t see anything” before asserting self-assuredly that “there is nothing there”. Thinking about it, there was always some air in the vase right from the beginning…I think about vases but also about situations, about places, but most of all about people. For no other reason than from this first misinterpretation stemmed all the others: when is something (or someone) really and truly full? I certainly don’t mean with food or wine, but of opportunities and possibilities, experiences and knowledge. Aer all, empty of what? Full of what? What is emptiness for me, maybe isn’t emptiness for someone else and vice versa. Before passing judgement, aributing the qualities of full or empty, worth or lack thereof, it might be best to look at things more closely. To truly see, to recognise and to take the best (and only the best) that there is. Treasure number two. This will probably sound like the “discovery of hot water” as we say in Italian to indicate something that is obvious or ordinary, but even if it were, I don’t know that I would mind: to me, hot water seems like a great discovery. As I was saying, the second hidden treasure, or lesson, of the story. Add something today and check, add again tomor-
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Tesoro numero due. Probabilmente suonerà come la scoperta dell’acqua calda, ma anche se così fosse non mi dispiacerebbe: a me l’acqua calda sembra una scoperta grandiosa. Il secondo tesoro nascosto nella storia, dicevo. Aggiungi oggi e controlla bene, aggiungi domani e ricontrolla meglio, versa qui, me i là e controlla di nuovo…significa non accontentarti, non fermarti alla falsa sicurezza del primo “pieno”, non essere superficiale quando si traa di incamerare esperienza, di sviluppare le tue conoscenze e affinare le tue abilità. Per dirla con una geometria che mi sta a cuore: è circolare anche la crescita professionale. Quella umana? Infinita. Tesoro numero tre. Prima le pietre grandi, poi le piccole, poi le piccolissime e poi…eccetera eccetera. Mi pare evidente che il contrario non sarebbe possibile, nemmeno in una favola. Per capire questo principio bastano le scienze, ma per scoprire il principio ho l’impressione che non basti una vita: se non me i PRIMA le cose solide, ti sarà difficile “aggiungerle” dopo. Per me almeno è stato così, non saprei suggerire vaso più ricco: prima la famiglia, i valori del rispetto e dell’amicizia, poi i sogni e gli ideali, poi eccetera eccetera. Nella mia “fi sica” è stato possibile aggiungere sempre nuovi maestri, nuove informazioni, nuove scuole di pensiero, nuove conoscenze e nuovi rapporti solo perché le pietre grandi hanno fao da base solida a una vita – il mio vaso – che ha potuto continuare a riempirsi. Se adesso è finalmente pieno? Certo che sì. È sempre stato “pieno”. Pieno (ogni volta) con (ogni volta) nuovi spazi da riempire. Pieno di quello che c’era (in quel momento) e vuoto di quello che mancava (in quel momento). L’avevo deo che sarebbe stata la scoperta dell’acqua calda!
Solo una breve nota personale, 17 giusto per meere i puntini sulle mie i: la base solida mi permee di sentirmi con i piedi per terra e di non oscillare a ogni nuovo ingresso di pietruzza o ghiaiea; l’altezza REALE per me significa “vera” e non “da re”; la profondità massima è la consapevolezza di quanti spazi vuoti mi restano ancora da riempire.
17. Non è un significato che voglio aggiungere con questa nota, ma una cosa che mio padre mi raccomandava quando, da ragazzo, spingevo i sogni un po’ troppo in là. “Osa,” mi diceva, “ma con i piedi per terra. Ricordati che se cadi da troppo in alto ti fai molto male. E più in alto sali, più la caduta è rovinosa. Quello che autisce la caduta è dove vai a fi nire…cosa c’è soo.” Insomma, premesso che volare voglio volare, se nel precipitare ritrovo una base solida, la caduta fa male, sì, ma non mi uccide. E la risalita è sempre possibile. 18. I would like to add to this note something my father used to tell me when, as a boy, I would push my dreams a li le too far. “Dare”, he used to say, “ but with your feet on the ground. Remember that if you are very high up and you fall, you will hurt yourself. And the higher you go, the harder the fall. What soens the fall is where you are… and what you fall onto.” So, I know I want to fly, and if in falling I fi nd a solid base again, the fall will defi nitely hurt, but it won’t kill me. It is always possible to climb back up again.
row and verify more closely, pour some more, add some more again and verify one more time…means to not sele for, means not to stop at the first false sense of security of feeling “full”, to not be superficial when you make an experience your own, to develop your knowledge and hone your skills. To say it with a geometry close to my heart: professional growth is circular. Personal growth? Infinite. Treasure number three. First the large stones, then smaller ones, then smaller ones still…etc, etc. It is evident to me that the opposite would not be possible, not even in a fairy tale. Just a lile knowledge of science is sufficient to understand this principle, but to discover the principle I have the impression that a lifetime is not enough: if you don’t put the solid things FIRST, it will be difficult to “add” them later. It was like that for me at least, I wouldn’t know how to suggest a richer vase: first the family, the values of respect and friendship, dreams and ideals, etc., etc. In my “physics” it’s possible to constantly add new teachers, new information, new schools of thought, new acquaintances and new relationships only because the larger stones were the solid foundation of a life – my vase – that I was able to continue to fill. Is it finally full now? Of course it is. It always has been “full”. Full (each time) with (always) new spaces to fill. Full of what was (at the time) and empty of what was missing (at that time). I told you it would be like discovering hot water! Just a short personal note18, just to make things clear: the solid base allows me to feel like I have my feet on the ground and to not fluctuate every time a new small stone or some gravel is added: the ROYAL height means “real” and not “kingly”; the maximum depth is the awareness of how many empty spaces are le to fill.
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Cotto-crudo, morbido-croccante, acido-basico: asparago
(per 4 persone) Per la crema di asparago 200 g di asparagi verdi 20 g di olio extravergine di oliva Carli 2 g di sale fi no Per il biscoo di asparago 50 g di farina Primitiva 100 Molino Pasini 50 g di farina di mandorle 50 g di zucchero Eridania Zefi ro 35 g di olio extravergine di oliva Carli 25 g di bucce di asparago 2 g di sale fi no Per la gelatina di asparago 200 g di acqua 50 g di parature di asparago 10 g di colla di pesce 2 g di sale fi no Per il sorbeo di asparago 250 g di asparagi 125 g di acqua 60 g di zucchero Eridania Zefi ro 15 g di glucosio 2 g di Neutro (mix di farina di carrube per gelati) 2 g di sale fi no Per la finitura 50 g di asparagi verdi co i a vapore 50 g di asparagi bianchi co i a vapore 10 g di asparago verde tagliato so ile 5 g di fiori edibili
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Per la crema Tagliare gli asparagi a feine soili e cuocerli in acqua bollente. Scolare, far raffreddare e frullare. Filtrare la salsa ed emulsionare con l’olio extravergine. Correggere di sale e tenere in caldo. Per il biscoo Frullare le farine con le bucce d’asparago, unire lo zucchero e il sale. Aggiungere l’olio a fi lo mescolando delicatamente. Stendere l’impasto su una teglia da forno e cuocere a 160 °C per 15 minuti. Per la gelatina Cuocere le parature di asparago in acqua salata, fi ltrare e unire la colla di pesce precedentemente ammollata in acqua fredda. Far rapprendere in frigorifero e sminuzzare con una forchea. Per il sorbeo Tagliare gli asparagi a feine soili e cuocerli in acqua. Unire gli altri ingredienti e frullare il tuo. Filtrare il composto e mantecare in gelatiera. Per la finitura Disporre la salsa nel piao e completare con il biscoo, la gelatina, il sorbeo e gli asparagi co i e crudi. Terminare con qualche fiore edibile.
Cooked-Raw, Soft-Crunchy, Acid-Basic: Asparagus
For the asparagus cream Cut the asparagus in very thin slices and cook in boiling water. Drain, let cool and purée. Filter the sauce and emulsify with the extra virgin olive oil. Correct for salt and keep warm. For the biscuit Blend the flours with the asparagus peels, add the salt and sugar. Add the olive oil gradually and mix delicately. Spread the baer on a baking tray and bake at 160°C for 15 minutes. Cool. For the gelatin Cook the asparagus in water, fi lter and add the geltin that has been soaked in cold water. Let set in the refrigerator and break into small pieces with a fork. For the sorbet Slice the asparagus very finely and cook in water. Add the other ingredients and blend. Filter, then make the sorbet in an ice-cream maker. To finish Place the sauce on the plate, complete with the biscuit, gelatin, the sorbet and the raw and cooked asparagus. Garnish with some edible flowers.
(serves 4) For the asparagus cream 200 g green asparagus 20 g extra virgin olive oil Carli 2 g fi ne salt For the asparagus biscuit 50 g flour Primitivo 100 Molino Pasini 50 g almond flour 50 g sugar Eridania Zefi ro 35 g extra virgin olive oil Carli 25 asparagus peels 2 g fi ne salt For the asparagus gelatin 200 ml water 50 g of asparagus trimmings 10 g sheet gelatin 2 g fi ne salt For the asparagus sorbet 250 g asparagus 125 g water 60 g sugar Eridania Zefi ro 15 g glucose 2 g Neutro (mix of locust bean gum powder for gelato) 2 g fi ne salt To finish 50 g of steamed green asparagus 50 g of steamed white asparagus 10 g of green asparagus sliced fi nely 5 g of edible flowers
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Il tempo è fatto a scale: da salire, da scendere, da pulire (Ovvero le azioni in cucina: inizi ed evoluzione di un cuoco , che pratica la cura e l organizzazione per continuare a sognare)
Time is Made of Stairs: to Go up, to Go down and to Clean (In other words, things to do in the kitchen: the beginnings and evolution of a chef that pays attention and uses organization to keep on dreaming)
Aer the tale of the vase to be fi lled, here I am with another story about a cup to be emptied. Now don’t start thinking that I would like to pretend I am a Zen cook, or that all of a sudden I have discovered an irrepressible passion for containers.
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E dopo la storiella del vaso da riempire, eccomi con quella della ciotola da vuotare. Adesso però non pensate che voglia improvvisarmi cuoco zen, o che mi sia scoppiata un’incontenibile passione per i contenitori. Nella mia cucina di Oriente ce n’è quanto basta, e credo anche di contenitori. Per quanto, bisogna riconoscerlo, i contenitori in cucina non bastano mai. E non temete, non voglio nemmeno dispensare consigli o spargere saggezza. Semplicemente, non mi viene in mente storiella più indicata per dire quello che voglio dire. Anche per la ciotola, come per il vaso, esistono versioni differenti, da quella più misteriosa a quella più aziendale, ma all’osso…la sostanza è la stessa. Un professore fa visita a un maestro zen per interrogarlo sulla sua fi losofia. Il maestro, dopo avere riempito di tè fino all’orlo la tazza del suo ospite, continua a versare la bevanda, che naturalmente trabocca.
Il professore guarda preoccupato e dice: “Ma è piena, non ne entra più!”. “Come questa tazza,” gli risponde il maestro zen, “anche tu sei ricolmo dei tuoi pensieri, delle tue congeure, delle tue opinioni. Come posso spiegarti lo zen, se prima non vuoti la tua tazza?” Parliamoci chiaro, non è che la storiella del tè ti renda più lievi le pulizie, e la morale finale non ti conforta quando devi vuotare decine di ciotole o lavare centinaia di pia i. Ma fa un certo effeo sapere che gesti semplici, come quelli che faccio tu i i giorni nel mio lavoro, hanno un significato così profondo. Vuol dire che sono fai di qualcos’altro, di qualcosa che va oltre il mero gesto meccanico. A me piace pensare che si sono riempiti dei gesti che tanti hanno fao prima di me, e dei gesti di quelli che li stanno facendo adesso o che li faranno domani. E mi piace pensare che vale la pena che io li faccia bene, quei gesti, visto che c’è il rischio che vadano a finire nelle storielle zen.
I think there is enough already in my Oriental kitchen, even containers; though I must admit there are really never enough containers in a kitchen. Don’t worry, I do not want to dispense advice or words of wisdom. Quite simply, no other story comes to mind to illustrate what I would like to say. Even for the cup, as for the vase, there are different versions, from the most mysterious to the most business oriented, but the bare bones…the substance remains the same. A professor visited a Zen master to ask him about his philosophy. The master, aer having filled a cup to the brim for his guest, continues to pour the drink, that naturally starts to overflow. The professor looks at him worriedly and says, “ But it’s full, nothing more will fit!”. “Like this cup,” answers the teacher, “you are also full of your thoughts, of your conjectures, of your opinions. How can I explain Zen to you, if you do not first empty your cup?” Just to be clear, it isn’t the story about the tea to make cleaning a lighter task, and the moral is of no comfort when you have to empty tons of bowls or wash hundreds of plates. But it makes a difference to know that these simple gestures, like those I make every day in my work, have a profound meaning. That means that they are made of something else, something that goes beyond the mere mechanical gesture. I like to think that they are full of the same gestures done by those who came before me, of those of others who are doing them now and those of who will continue to do them tomorrow. I like to think that it is worth it for me to do these gesture the best way I know how, seeing as they may well end up in a Zen story.
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What I would like to say is that I feel that there is much to learn from doing before speaking, in doing without speaking and in doing things well. To empty means to clean, to not leave residue, to present an “empty” bowl in order to fill it again. In cooking if that means eliminating dirt, crumbs, leovers, in life it means to present yourself to others without prejudice, preconceived or pre-packaged ideas: in other words, everything without pre-. It makes sense to empty oneself not to go out into the world empty, but to venture out into the world clean and with enough space to hold new ideas. A blank sheet of paper is beautiful also because sooner or later maybe…who knows…someone will write something on it. But this is not the only reason that makes me a fan of rotating roles at D’O. It is the workers’ statute that sustains that a routine job is not in keeping with respect and dignity for the individual. As if that were not enough, there is also Nature. Not a thing of small importance. I think of the Earth, that stops giving you its fruits if you do not satisfy its need to change, to give-and-take, to rotate. Once it has been impoverished, it will ask not to be exploited and to have something in exchange – something new, different, especially if you also want it to give you new fruits. It is true that I have rambled on; not to give the impression that the philosophy justifies the means, I will conclude with a little domestic morale. I cannot fill to overflowing people who are already full, neither can I expect always the same quantity
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Quel che voglio dire è che io sento che c’è molto da imparare in quel fare prima di parlare, in quel fare senza parlare, in quel fare bene. Vuotare significa pulire, non lasciare residui, presentare una ciotola “vuota” da poter riempire di nuovo. E se in cucina questo corrisponde a eliminare sporco, briciole o avanzi, nella vita ha il valore di presentarsi agli altri senza pregiudizi, preconce i, idee preconfezionate: insomma, senza un pre. Ha il senso di vuotarsi non per andare vuoti nel mondo, ma per andarci puliti e con lo spazio sufficiente ad accogliere le novità. Un foglio bianco è bello anche perché, prima o poi forse…chissà…qualcuno ci scriverà sopra. Ma non è questa l’unica ragione che mi fa tifare per la rotazione dei ruoli al D’O. È lo stesso statuto dei lavoratori a sostenere che il lavoro routinario non si può conciliare con il rispeo e la dignità della persona. E se lo statuto dei lavoratori non bastasse, c’è anche la natura. La natura, mica noccioline. Penso alla terra, che smee di darti i suoi frui se tu non soddisfi il suo bisogno di scambio, di dareavere, di rotazione. E che, una volta che l’hai impoverita, ti chiede di non essere sfruata oltre e di avere da te qualcosa in cambio – qualcosa di nuovo, di diverso, se anche tu vuoi da lei nuovi frui. L’ho faa un po’ lunga, è vero, e per non dare l’impressione che la fi losofia giustifichi il mezzo la chiudo con una morale casalinga.
Ha il senso di vuotarsi non per andare vuoti nel mondo, ma per andarci puliti e con lo spazio sufficiente ad accogliere le novità.
It makes sense to empty oneself not to go out into the world empty, but to venture out into the world clean and with enough space to hold new ideas.
Non posso far traboccare di lavoro persone già colme, e nemmeno posso pretendere sempre la stessa quantità e qualità se non do a chi lavora con me la possibilità di vuotarsi per riempirsi d’altro o di nuovo. A chi lavora con me e a me, naturalmente. Che per questo, e non solo per questo, credo di dover scopare il pavimento oltre che firmare piai. E di doverlo fare bene anche, né più né meno di come firmo i pia i. Le ragioni le ho dee tue, aggiungo solo una cosa. La felicità richiede coraggio e capacità di sognare. I sogni ti portano in cima, ma se sali puoi anche scendere. E non è male, di tanto in tanto, tornare alla partenza a “ripulire” i gradini che hai salito. Per risalire con un sogno nuovo.
and quality, if I do not give the people who work with me the possibility to empty themselves to fill themselves again or with something new. The people who work with me and myself, of course. That is why, and not only why, I believe it is important for me to sweep the floor and not only create dishes. And to do it as well, neither more nor less, as when I create my signature dishes. I have given you a lot of reasons but I would like to add one more thing. Happiness takes courage and the ability to dream. Dreams take you to the top, but if you can go up, you can also come down. It’s not a bad thing, from time to time, to go back to the beginning to “clean” the stairs you have taken. To climb them once again, with new dreams.
P.S.
P.S.
Sì, lo so, il deo recita: “Il mondo è fao a scale, c’è chi le scende e c’è chi le sale…”. Ma a me piace pensare che anche chi le sale dovrebbe meersi nelle condizioni di scenderle, di tanto in tanto, in una rotazione con se stesso magari, non necessariamente con gli altri. Per ripercorrere con lo sguardo e con il cuore la strada già faa, e trovarci dentro significati sempre nuovi.
Yes, I know; the Italian saying goes “The world is made of stairs; there are those on their way up and those on their way down…”. But I like to think that even those who are on their way up should also be able to come back down every once in a while, to renew themselves. To retrace with a look and with the heart the road already travelled and to find in it new meaning.
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Quanto DO c’è in D’O H
ow
’ D Mu in e ch DO r i s T he
O
Sei già dentro , l happy hour You Are Already in a Happy Hour You can die from the hunger you don’t have… Ligabue, Happy Hour
No, this isn’t the only off-key note in the song. In the same song, “Liga” talks about living in a happy hour, of a life that is half price, of dreams that are free, but that have already been used. It might be superfluous to clarify, considering my well-known passion for Ligabue, but by “off-key note” I certainly am not talking about the music. When I heard this song, I thought that if my father heard it he would have made the same face he made about anything he thought was “out of this world“ – and not in a good way. This would have been completely outside of my father’s world for sure, and probably for anyone who has a lile common sense. We might be inside a happy hour, but we are probably out of our minds.
Per come li ho frequentati io, i sogni sono bellissimi ma faticosi, sono carburante che non costa soldi, ma tempo e scelte coerenti sì.
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Si può però morire per la fame che non hai… Ligabue, Happy Hour
No, questa non è l’unica “nota stonata” della canzone. Nello stesso brano il Liga parla anche di un vivere dentro l’happy hour, di un vivere che costa la metà, di sogni che sono tui gratis ma sono anche tui usati. Forse è superfluo che lo puntualizzi, vista la mia sconfinata passione per Ligabue, ma con “nota stonata” non mi riferisco certo alla musica. Già. Quando ho sentito questa canzone ho pensato che se l’avesse sentita mio padre avrebbe fao quella faccia che faceva sempre davanti alle cose fuori dal mondo. E questa qui dal mondo di mio padre era fuori di sicuro, anche se secondo me è fuori dal mondo di chiunque abbia un po’ di buon senso. Insomma, saremo anche dentro l’happy hour, ma probabilmente siamo fuori di testa.
Una volta si moriva per mancanza di cibo, e “una volta” è ancora oggi se solo buiamo lo sguardo dall’altra parte della Terra, quella dove l’unica cosa che abbonda è la povertà. Da questa parte, la nostra parte, quella ricca, oggi si può morire anche per la fame che non hai, per il troppo: troppo cibo, troppe cose, troppo tuo. Le statistiche dicono che un bambino su tre è obeso. Nel 2006 era uno su cinque, nel 2003 uno su dieci. Non è che mi diverto a dare i numeri, semplicemente mi preoccupo di fronte a questa escalation dell’“uno su”. Se poi è vero che l’anoressia è la prima causa di morte tra le giovanissime, c’è poco da cantare. C’è da pensarci su, e parecchio anche. Non so se i pensieri di un cuoco POP che predica la fi losofia dei sogni di scorta possano essere utili a qualcuno, ma li dico lo stesso. Penso che il problema, o almeno uno dei problemi, stia proprio in quei sogni tui gratis, o piuosto nell’illusione che i sogni siano tui gratis. Per come li ho frequentati io, i sogni sono bellissimi ma faticosi, sono carburante che non costa soldi, ma tempo e scelte coerenti sì. I sogni che ti vengono regalati sono usati, come dice il Liga: sono programmati, pubblicizzati e venduti. Anzi, sono s-venduti, perché i sogni veri non si comprano e non si vendono. E quando te li regalano è perché te li hanno già fa i pagare, e soprauo te li hanno già consumati. Un’altra cosa che penso – sempre da cuoco POP – è che il problema, o almeno uno dei problemi, sia in quella fame che non ti togli mai, che ti resta dentro sempre e comunque, perché ti abbuffi di cose che non ti saziano. Non bisogna essere cuochi di fama per conoscere la differenza tra abbuffarsi e saziarsi, credo però che si debba essere sognatori
The dreams I know about are beautiful but difficult, , they are the fuel that doesn t cost money, but in time and coherent choices, yes.
Once upon a time, you could die for lack of food, and “once upon a time” is still today if we take a brief look at the other part of the Earth, the part in which the only thing there is an abundance of is poverty. Here where we are, the rich part, you can die of the hunger you do not have, for having too much: too much food, too many things, too much of everything. The statistics say that one out of three children is obese. In 2006 it was one in five, in 2003 one in ten. I get no pleasure from repeating these numbers, I am merely worried about this escalation of “one out ofs”. If it is true that anorexia is the first cause of death amongst young girls, there’s lile to be happy about. There is a lot to think about, and think about a lot. I do not know if the thoughts of a POP cook that preaches about spare dreams can be of any use, but I am going to try anyways. I think that the problem, or at least one of the problems, lies in those free dreams, or in the illusion that dreams are free. The dreams I know about are beautiful but difficult, they are the fuel that doesn’t cost money, but in time and coherent choices, yes. The dreams that are given to you are used, just as Liga says: they are programmed, publicised and sold. They are sold at a discount, because real dreams cannot be bought or sold. When they give them to you it is because they have already made you pay for them in some way, but most of all, they have already used them and worn them out. Another thing I think – always as a POP cook – is that the problem, or at least one of them, is that insatiable hunger you cannot be rid of, that stays inside you always no maer what, because you gorge yourself on things that do not fill you up.
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You do not need to be a famous chef to know the difference between gorging and satisfying yourself, however I do believe that you have to be a dreamer to feel how certain things that fill you do not necessarily satiate you. If not, we wouldn’t be a world, or better, one part of the world that is obese and anorexic at the same time. I hope that EXPO will be an opportunity for reflection and to find adequate solutions to truly nourish all sides of our Planet. It is a shame – for my father it would have been blasphemy – to have to admit that we die for a hunger that we do not have. Maybe there is a different sort of hunger we should satisfy, hunger for things that truly fill us rather than those that merely stuff us. I recognise good hunger, I wake up with it every day: it is the hunger of new dreams, never used, all mine. The last modest thought I have about this “off-key note” is, that all things considered, it wasn’t a bad idea to use seasonal produce and not products out-of-season, to treat them with respect and to cook them without waste, to start a restaurant with accessible prices, “to make food” for a lot of people and not just a lucky few. I don’t say this just to say that I was right. The truth is, I am not interested in showing off, I prefer to make people smile. The rest is to be successful at geing along together, at the dinner table. For me, in that geing along, being happy together, there is more good food than in a plate overflowing with leover dreams.
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“veri” per sentire come mai certe cose che ti abbuffano non è mica vero che poi ti saziano. Sennò non saremmo un mondo, o meglio, un lato del mondo, obeso e anoressico nello stesso tempo. Spero che EXPO sia un’occasione per rifleere e trovare soluzioni adeguate a nutrire davvero il nostro Pianeta, in tui i suoi lati. È un peccato – per mio padre sarebbe stata una bestemmia – dover riconoscere che moriamo per la fame che non abbiamo. Forse perché è una fame diversa quella che dovremmo soddisfare, la fame delle cose che ci riempiono dentro e non di quelle che ci rimpinzano fuori. Io la riconosco la fame buona, mi ci sveglio ogni giorno: è la fame di sogni nuovi, non ancora usati, e tui miei. L’ultimo pensiero modesto che ho su questa “nota stonata” è che, tuo sommato, non è stata una cattiva idea utilizzare alimenti di stagione e non primizie, traarli con rispeo e cucinarli senza spreco, avviare una ristorazione a prezzi accessibili, “dar da mangiare” a molti e non solo a pochi. E non lo dico per darmi ragione. La verità è che proprio non mi interessa far fuochi d’artificio, preferisco far sorridere le persone. Il resto è riuscire a star bene, insieme, a tavola. Perché secondo me in questo star bene insieme c’è più cibo buono che in un piao traboccante di sogni usati.
Tutti i significati , del D O: da Oriente a “io”
Il D’O è un sentiero, una nota musicale, un piao, il mio nome. Provo a spiegarmi, e vado con ordine. A significare la “strada”, sull’insegna del mio ristorante non poteva che esserci un sentiero. Un po’ perché sentiero è sinonimo di via, cammino, strada appunto. E io avevo l’impressione di averne faa parecchia prima di approdare al D’O, di sicuro di averne ancora molta altra da fare dal D’O in avanti. E un po’ anche perché il sentiero richiama un percorso non proprio agevole, il più delle volte streo, tracciato sommariamente in mezzo ai campi o in montagna. Se qualcuno pensa che per rappresentare il mio cammino avrei scelto l’autostrada, non sa quello che mi hanno dato da mangiare fin da piccolo, e cioè la convinzione che le strade facili non esistono, e se esistono sono scrie in altri libri, non in questo qui. D’O in giapponese significa “via”. Sarà una coincidenza che la via “giusta” coincide per me con quella più impegnativa, più faticosa, a trai anche tortuosa, e comunque NON con quella più facile? Se lo è, se davvero è una coincidenza, mi piace riassumerla così: il D’O è il mio punto di partenza e il mio punto d’arrivo, ma tue le volte, non una volta per tue, e su un percorso circolare che per me ha il valore di un sentiero che non finisce mai. Sentiero nel senso della mia vita, è naturale, di che cosa sennò?
All the Meanings , of D O: from the Orient to “Me”
D’O is a path, a musical note, a dish, my name. I will try to explain myself, one thing at a time. There could only be something that means “road” on the sign of my restaurant. Because a road is a synonym for a way, a path. I had the impression that I had travelled a lot before landing at D’O, and I was certain I was going to travel a lot from D’O onwards. It is also because a trail calls to mind a path that is not exactly easy, more oen than not too narrow, summarily traced through fields or mountains. If someone thinks that I would have chosen a highway to represent
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my path, they have no idea of how I grew up: with the conviction that there is no such thing as an easy road, and if they do exist, they are in some other book and not in this one. DO in Japanese means “way”. Is it a coincidence that the right “way” for me coincides with the most challenging, the hardest, the windiest road and NOT the easiest one? If it really and truly is a coincidence, I like to summarise it this way: D’O is my starting point and my finish line, but each and every time and not once and for all; being on a circular means a path that will never end. A path as the meaning of my life, if not that, what else? But if it is a coincidence, it isn’t the first and won’t be the last. There is another one even more extraordinary. My name is Davide Oldani, in other words, my name is D’O and believe me, when things move in a circular way (as Liga would say), things oen coincide, work out. I am certain about one thing; that they need to be circular, that is why, looking at things from an Eastern prospective, who knows if I was born first or whether D’O was…oh well, that is truly another story. As I was saying, D’O is also a note. Let’s say that it contains a note, the same way my path contains the music that has kept and continues to keep me company. It’s true that over time, the way we listen to music has changed, (I once had a walkman and now I have an iPod). The means of transportation I used while listening to music (at one time it was a scooter, then a car, and now back to a bicycle), but I cannot imagine not having even a lile bit of music in my ears. It would be like living without a heartbeat. It’s that simple. D’O is a rhythm to feel and to hold, within a rhythm and a time, whether it be a season, a cooking time or a schedule for the dining room.
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Ma se è una coincidenza non è la prima, e nemmeno l’ultima. Ce n’è un’altra persino più straordinaria. Io mi chiamo Davide Oldani, insomma mi chiamo D’O, e credetemi, quando nella vita le cose si “meono in circolo” (come direbbe il Liga) succede spesso che coincidano, e che funzionino anche. E poi vai a capire se coincidono perché funzionano o funzionano perché coincidono. Su una cosa, però, non ho dubbi: vanno messe in circolo. Ecco perché, per guardarla un po’ all’orientale, chissà se sono nato prima io o è nato prima il D’O…vabbè, ma questa è davvero un’altra storia. Il D’O, dicevo, è anche una nota musicale. Diciamo che contiene una nota, così come la mia strada contiene la musica che mi ha accompagnato e continua ad accompagnarmi. Nel tempo sono cambiati gli strumenti per ascoltarla, è vero (avevo una volta il leore e adesso ho l’iPod). Sono cambiati anche i mezzi di trasporto su cui ascoltarla (c’era una volta il motorino, poi c’è stata l’automobile e adesso c’è di nuovo la biciclea), ma le mie orecchie senza un po’ di musica dentro non riesco proprio a immaginarmele. Sarebbe come vivere una vita senza baito. Tuo qui. Il D’O è ritmo da sentire e da tenere, dentro un tempo da rispeare sempre, sia esso una stagione, un intervallo di coura o un orario di sala. Il D’O è anche melodia, quando ritmo e tempo riescono ad assumere la vibrazione giusta per ciascuno dei miei ospiti. Se questo accade, ecco che il pezzo che all’inizio avevo sentito soltanto io nella mia testa diventa un brano che sentono in tanti. Certo, tu sogni che lo sentano tui, ma è un sogno, appunto, e resta vivo finché resta tale, se non lo fosse perderebbe tutte le sue potenzialità. Avevo deo che sarei andato con ordine, ma probabilmente ci riesco solo in cucina, nelle chiacchiere invece mi perdo. Dunque, il D’O sentiero, il D’O musica e il D’O “io”… manca giusto quello che dovrebbe essere il primo della lista: il “D’O piao”, ovvero Zafferano e riso alla milanese. Oggi ne esistono più versioni, l’ultima è il piao che ho dedicato a Milano in occasione di EXPO. Ma partiamo da quello delle origini. Eccone una breve descrizione, per chi non l’ha mai mangiato né visto. Intanto è D’O fin dal nome, nuovo, modificato da me, con l’ingrediente principale in primo piano: un connotato D’O.
Il nome non è l’unica cosa che ho cambiato rispeo alla tradizione, anche il modo di prepararlo è diverso. Io cuocio il riso in acqua calda appena salata, non lo faccio tostare, non serve: rispeo a quelli di una volta, i risi di oggi sono già pronti, puliti e brillanti. Aggiungo un po’ di Grana Padano, pochissimo burro e un goccio d’aceto per contrastare la componente basica del riso, quella più amidosa. Nella lunga coura del riso c’è il rischio che i profumi si spezzino, svaniscano e non risultino completi al termine della preparazione. E poi credo sia importante lasciare integro il profumo dello zafferano e vedere ancora qualche stimma nel piao quando il riso viene servito, per soddisfare vista, olfao e gusto. Ecco perché stempero la maizena in un goccio d’acqua, aggiungo gli stimmi di zafferano, un pizzico di sale alla fine e anche un po’ di zucchero. Lascio intiepidire cinque minuti. Firmo il riso con lo zafferano. C’era una volta un foglio bianco, il riso, e adesso c’è un foglio scrio: Zafferano e riso alla milanese. Mi piacerebbe che in questo foglio scrio si leggesse tuo il D’O che ci ho messo io, e cioè un accordo non solo musicale ma anche estetico, non solo la tradizione ma anche l’innovazione. Insomma, la forma e la sostanza del D’O. Perché D’O è anche DO, nel senso della possibilità che ho di dare agli altri la mia cucina e i suoi significati, con i suggerimenti e le drie perché possano interpretarla a modo loro. Interpretarla su uno sfondo POP, naturalmente.
19. Do: the fi rst person singular of the verb dare, to give.
D’O is also a melody, when rhythm and time take on the right vibration for each of my guests. If this happens, then I share the music that was in my head with others. Of course you dream of everyone hearing it, but it’s a dream; it stays alive as long as it remains just that, if it didn’t, it would lose all its potential. I said I would do things in order, but maybe I can really only do this in the kitchen, I get lost when I have to talk too much. Well, D’O the path, D’O the musical note and D’O “me”…what is missing should probably be the first on the list: the D’O dish, saffron and Milanese rice. Today there are several different versions, the last of which is the one I dedicated to Milan for EXPO 2015. To start with, D’O is in the name, changed by me by puing the principle ingredient in the forefront: a characteristic of D’O. The name is not the only thing I changed with respect to tradition, the method is different as well. I cook the rice in slightly salted, hot water, I do not toast the rice beforehand because it isn’t necessary: compared to rice in the past, today’s rice is clean, polished and ready to cook. I add some Grana Padano, a very small amount of buer and a drop of vinegar to contrast with the basic component of the rice, the starchiness of it. The longer the cooking time, the more risk there is that the aromas of the rice may evaporate and will have in part dispersed when the rice is ready. I also believe that it is important to leave the aroma of the saffron as intact as possible and to see a few stigma in the dish when it is served, to satisfy the senses: sight, smell and taste. That is why I dilute cornstarch with a lile water, add the saffron, a pinch of salt and at the very end a pinch of sugar. I let it cool five minutes, then I “sign” the rice with the saffron. Once upon a time, there was a sheet of blank paper, the rice, and now there is a sheet with “Saffron and rice, Milanese style” wrien on it. I hope that on that sheet of paper, you can read all the D’O I have put into this, and that means a harmony that is not only musical but also aesthetic, not only tradition but also innovation. In other words: the form and substance of D’O. Because D’O is also DO in the sense of the possibility I have “to give”19 others my cooking and all the layers of meanings behind it, with suggestions and tips so that they interpret it for themselves in their own way. A POP interpretation, of course.
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Dal giallo di Marchesi al bianco di Oldani, dal giallo della tradizione al bianco innovativo, cambia il colore ma rimane la sostanza. Ecco cos’è per me il piacere di migliorare le storie della nostra terra, senza perderne il valore. Miscela studiata ad hoc (Carnaroli stagionato e Vialone nano) con la preziosa spezia – coltivata a pochi km dal D’O – che diventa essenza incolore. A dare colore è la foglia d’oro decentrata. Vedi il bianco ma assapori il giallo.
Zafferano, oro e riso Dedicato a Gualtiero Marchesi
(per 4 persone) Per il riso 320 g di riso qualità Insieme Sco i (Carnaroli stagionato più Vialone nano) 160 g di burro dolce 80 g di Grana Padano Riserva graugiato 1,5 l di acqua calda e salata 10 ml di aceto di Xeres 10 ml di essenza di zafferano Zafferanami 1 g di sale fi no Per la finitura 4 foglie d’oro
Per il riso Far tostare il riso in una pentola, bagnare con l’acqua bollente salata. Portare a coura mescolando e aggiungendo dell’acqua calda. Togliere dal fuoco, mantecare con il burro, il Grana, l’aceto e l’essenza di zafferano, regolare di sale. Per la finitura Stendere il riso in un piao piano; sopra adagiare la foglia d’oro.
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From the yellow rice of Marchesi to the white rice of Oldani. From traditional yellow to innovative white, the colour may change but the substance remains the same. This represents for me the pleasure of improving on the history of our territory without losing its values. A special ad hoc mix of Carnaroli and Vialone nano together with the valuable spice – cultivated only a few kilometers from D’O – that becomes a colourless essence. What gives colour to the dish is the gold leaf off to one side. What you see is white; what you taste is yellow.
Saffron, Gold and Rice Dedicated to Gualtiero Marchesi
(serves 4) For the rice 320 g aged Carnaroli and Vialone nano rice Insieme Sco i 160 g unsalted buer 80 g Grana Padano, grated 1,5 l hot, salted water 10 ml Xeres vinegar 10 ml Zafferanami essence of saff ron 1 g salt To finish 4 pieces of gold leaf
For the rice Toast the rice in a dry pot, then add the hot, salted water, one ladle at a time. Cook the rice stirring constantly and adding the hot water as needed. Remove from heat, add the buer, the grated Grana Padano, the vinegar and the essence of saffron. Salt to taste. To finish Spread the risoo in each dish and garnish with gold leaf.
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Un piatto è una storia , e l inizio è...
Quando mi chiedono “ma come fai a creare i tuoi piai?” sento che in quella domanda ci sono grandi aspeative, o quantomeno aspeative troppo grandi per una risposta sola. Sarà quel creare che mi mee parecchio in soggezione, sarà che anche l’estro che mi viene aribuito mi pare una parola troppo grossa per descrivere quello che faccio io, e cioè cucinare. Ecco perché, per evitare di smarrirmi dentro risposte più grandi di me, mi appoggio a qualcosa di concreto. E comincio dall’inizio. L’inizio, che per me è sempre una stagione. Come tue le storie che si rispeino, anche quella di ogni mio piao comincia da un “quando”. E per la preparazione di un piao “quando” è questa stagione. La stagionalità è il punto di partenza nella mia cucina, ed è reale, fisico, tangibile. La fantasia sarà chiamata in causa al momento opportuno, ma per decidere la materia prima non servono invenzioni e magie, occorrono un calendario e prodo i di buona qualità. Come nella vita, dove il tempo del fare è il presente. Amo ricordare il passato e voglio poter immaginare il futuro, ma decidere, scegliere, agire per me hanno sempre il tempo presente. È autunno? Allora sarà l’autunno, questo autunno qui, a darmi il la. Con i prodoi che mi mee a disposizione e, prima ancora, con i colori che mi regala. In primavera il verde, in estate il rosso, in autunno l’arancio scuro, in in-
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verno il marrone…diventano i colori del D’O e mi guidano anche nella preparazione dei piai. Per quanto l’uomo possa sforzarsi di inventare linee nuove, la natura è sempre la più creativa in fao di design, ed è lei che mi offre forme e colori per cucinare. Puntuale, a ogni cambio di stagione. E se è vero che non ci sono più le stagioni di una volta, ci sono pur sempre queste stagioni: in queste io vivo, agisco, cucino.
E dopo il quando, il chi e il come Nella storia di un piatto, come in ogni storia che si rispetti, una volta deciso il tempo, bisogna scegliere il protagonista. Se siamo in autunno è di scena la zucca. Che devo cuocere leggermente se voglio farle raggiungere consistenza, e invece stracuocere se voglio oenere una purea. Un vero protagonista non ha bisogno di controfigure, trucchi, maschere: può presentarsi con naturalezza e chiarezza. Ecco perché è fondamentale una coura che valorizzi la materia prima e ne mostri le qualità senza camuffarle – esaamente come si fa con l’eroe di un’avventura. Valorizzare è sinonimo anche di soolineare (che invece non è sinonimo di esagerare!) e per me si traduce in questo: la zucca ha un gusto dolce e può avere una consistenza cremosa. Ecco perché aggiungo il salato e il croccante.
A Dish is a Story and it Begins with...
When people ask me “how do you invent your dishes?” I feel all their expectations in that question, or at least expectations for one single answer. It might be that “creating” makes me feel uneasy, it might be because the creativity that I have been aributed seems to be too big a word to describe what I do, and that is cook. That is why, to avoid geing lost in answers that are too big for me, I rely on something concrete. I will start at the beginning. Like all good stories, the story of each of my dishes starts with a “when” and for a dish, “when” is the season. Seasonality is the starting point of my cuisine, it is real, physical, tangible. Fantasy will play its part at the right time, but to decide the raw materials you don’t need inventions or magic, you need a calendar and goodquality products. Just as in life, the time to do things is the present. I love to remember the past and I want to be able to imagine the future, but to decide, to choose, to act: they all happen in the present. It’s autumn? Then it’s autumn and this autumn will give me what is needed. With the produce that it will give me, and even before that, the colours that it will give me. In spring, green, in the summer, red, in autumn, dark orange and in winter, brown…they become the colours of D’O and they guide me in the preparation of my dishes. As much as man would like to create new lines, Nature is always more cre-
ative in terms of design, it is she who offers shapes and colours to cook with. Right on time at every change of season. If it is true that the seasons are no longer the same, they are still seasons: in which I live, act and cook.
After the when, the who and the how In the story of a dish, as in every good story, once the when has been decided, the protagonist must be chosen. It’s autumn now and squash is centre stage. I have to cook it lightly if I want to obtain a certain consistence, a long time if I want a purée. A real star does not need stand-ins, tricks or masks: it presents itself clearly and naturally. That is why it is fundamental for cooking to enhance the raw material and show its qualities without camouflaging them – exactly what happens with the hero of a story. Emphasising is synonymous with underlining (that is not a synonym of exaggerating!) and that for me translates itself into this: squash is sweet and can have a creamy consistency. That is why I add salty and crunchy. The protagonist of a story needs to come into contact with the other characters. Each meeting reveals something new and we get to know them bit by bit. This is how it is for my squash, that now, added to its sweet and creamy character, has a part that is salty and crunchy.
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Il protagonista di una storia ha bisogno di entrare in contao con gli altri personaggi. Ogni incontro lo svela e noi lo conosciamo sempre un po’ di più. Così è per la mia zucca, che adesso ha aggiunto al suo caraere dolce e cremoso il salato e il croccante che le mancavano. Non si è indebolita, ma rafforzata. Ora ha una personalità più ricca. Magari riuscissi sempre, nella mia “storia”, a equilibrare i contrasti, a essere zucca morbida che accoglie anziché zucca dura che respinge. Le volte che mi succede, di essere davvero accogliente intendo, allora sì che ho la sensazione di aver creato qualcosa – in me, certo, non nel mondo. Ed è uno spazio dove posso incontrare anche chi è molto diverso da me, uno spazio dentro cui si può creare anche qualcosa di più grande, noi, insieme… Ma torniamo alla mia zucca.
Adesso che , la trama c è... Visto dove sono andato a finire partendo da una semplice zucca, sospeo che ci sia davvero qualcosa di molto potente nella stagionalità e quindi nella natura, qualcosa che merita tutto il mio rispeo – sia che mi arrampichi su una montagna, sia che raccolga un fruo dalla terra per trasformarlo in nutrimento sulla tavola.
Dimenticavo la firma, , sì, insomma, l autore Quando i contrasti sono armonizzati e la zucca mi sembra pronta per raggiungere i diversi palati, insomma quando la storia del piao volge al termine, aggiungo la mia firma. Che potrebbe essere una spezia, un’erba, un profumo. La spezia, il tocco, la fi rma non sono per dire “è mio”, ma per dire “l’ho fatto io”.
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Vorrei che fosse lo stesso per ogni scelta che compio: non per marcarne il possesso ma per soolinearne la responsabilità.
Riassunto dei capitoli precedenti …NON c’era una volta, bensì c’è adesso, fresca di stagione, una zucca dolce e cremosa. L’incontro con altri ingredienti la arricchisce di due qualità nuove, il salato e il croccante, e nel contempo valorizza le due di cui era già naturalmente dotata. I contrasti sono tali solo alla partenza, perché una volta arrivati al cervello trovano una loro composizione e devono far dire a chi mangia “che buono”. Semplicemente.
Dicevo, adesso che , la base solida c è... …posso aggiungere corpo, un corpo, uno solo: carne o pesce, pasta o riso. E se si chiama corpo un motivo c’è: non datemi del moralista, ma…o uno o l’altro. Mi spiego meglio. Se a questa base solida ho aggiunto riso, non meerò riso negli altri pia i che inserirò nella carta. La composizione della carta sarà la conseguenza naturale di questa considerazione. Un menu armonioso nasce anche dal non ripetere gli ingredienti, così come un abbigliamento armonioso nasce dall’accostamento di colori diversi che stanno bene insieme. Potrei spiegarmi con le piante che crescono su radici forti, o con gli edifici che nascono su fondamenta sicure. Ma anche con le persone che crescono su princìpi sani. In ogni caso, per tornare alla domanda di partenza, quel che voglio dire è che i miei piai non nascono dalla magia ma dalle radici, non dall’estro ma dalle fondamenta, non da regole vuote ma da princìpi semplici.
It has not become weaker, just the opposite. Now it has a richer personality. If only I were always successful, in my “story”, to balance contrasts, to be the squash that is so and welcoming rather than one that is hard and resistant. When that happens to me, when I am able to be really receptive, then that is when I have the sensation of having created something – in me, not in the world. It is a space where I can meet those who are very different from me, a space inside in which to create something bigger than the both of us, together… But back to my squash.
Now we have the plot... Seeing where I have ended up by starting with a very simple squash, I suspect that there is something extremely potent about the seasons and in Nature, something that deserves all my respect – whether I am climb a mountain or harvest the Earth’s fruits to make them into nourishment.
I forgot the signature, who this is by, the author When contrasts are in harmony and the squash is ready to be tasted by everyone, that is, when the story about the squash is nearing the end: that is when I add my signature. This could be a spice, a herb, a fragrance. The spice, the touch, the signature is not to say that “it’s mine”, but to say, “I made this”. I would like it be this way for everything I do: not as a sign of possession but as a sign of responsibility.
Summary of the previous chapters …Once upon a NON time, there is now, a seasonally fresh, a sweet, creamy squash. It will meet with other ingredients that enriches it with two new qualities, salty and crunchy, while at the same time enhancing its two naturally inherent qualities. Contrasts are so only in the beginning, because once they have reached your brain, they become a composition that should make you say, “that’s delicious”. It’s that simple.
As I was saying, there is a solid base... …I can add a body, one body only: meat, fish, pasta or rice. If it is called body there must be a reason: don’t call me a moralist but…or one or the other. Let me explain myself beer. If I add rice to this solid base, I will not put rice in any of the other dishes I put on the menu. The composition of the menu is the natural consequence of this. A harmonious menu comes from never repeating ingredients, the same way a harmonious outfit comes from the combination of colours that go well together. I could explain myself with plants that grow with strong roots, or buildings that are built on strong foundations, or with people who grow with healthy principles. Anyway, to get back to the initial question, what I would like to say is that my dishes do not hide behind magic, but grow from the roots, not from fantasy but from the fundamentals, not from empty rules but from simple principles.
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Lardo e ghiaccio (per 4 persone) 200 g di lardo Riserva Speciale Salumi Pasini (un lardo messo in salagione e lasciato stagionare con queste spezie: cannella, pepe bianco in grani, anice stellato, chiodi di garofano, cumino in semi, coriandolo in semi, scorza di limone) Per la finitura ghiaccio graato
Disporre il ghiaccio in una fondina e completare con il lardo affettato sottile.
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Lard and Ice (serves 4) 200 g lard Riserva Speciale Salumi Pasini (this lard is cured and seasoned with cinnamon, whole white pepper grains, star anise, cloves, cumin seeds, coriander seeds, lemon rind) To finish Shaved or crushed ice
Place a generous amount of ice for each person in individual bowls. Slice the lard very thinly and place on top. Serve immediately.
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E forse dentro la mia idea di cucina si nasconde qualcosa di me, come nella casa che ha in testa , l architetto o nella storia che ha in testa lo scrittore.
Pregustare , l assenza
The Foretaste of Absence
Beautiful things are expensive. Who knows how many times I have said it about a pair of shoes or a shirt. Now however, I would like to try to apply this to the beautiful things of life, the ones that help you be rather than have. I said I would like to try because it is not easy for me to talk about what is no longer here. Someone will think that overturning concepts is an obsession of mine, but I can’t help it: everyone has their pet obsessions and I like to see things from at least two sides, if I somehow can’t see them from all four.
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Le cose belle costano care. Chissà quante volte l’ho deo a proposito di un paio di scarpe o di una camicia. Adesso però vorrei provare a riferirlo alle cose belle della vita, quelle che ti aiutano più a essere che ad avere. Vorrei provare, dico, perché per me non è facile parlare di quello che non c’è più. Qualcuno penserà che ribaltare i concei sia una mia ossessione, ma non ci posso fare niente: ognuno ha i suoi di tormentoni, e a me piace guardare le cose almeno da due lati, se proprio non riesco a vederle da tu i e quaro. Ho leo che c’è sempre la stessa casa dietro tue le case (diverse) che disegna un architeo, e che c’è sempre la stessa storia dietro tue le storie (diverse) che racconta uno scriore. Perché dovrei fare eccezione proprio io? Forse anch’io cucino sempre la stessa idea. La stessa idea, ho deo, non lo stesso menu. E forse dentro la mia idea di cucina si nasconde qualcosa di me, come nella casa che ha in testa l’architeo o nella storia che ha in testa lo scriore. Le cose buone non devono per forza costare troppo, ma le cose belle della vita quelle sì che costano care.
Maybe inside my idea of cooking there is something about me that remains hidden, just as the house that the architect has in his head or the story that the writer conserves in his mind.
Eccola qui, penso sia questa la mia piccola verità, rintracciata sul campo, via via che la mia cucina “diventava grande” e la mia vita si arricchiva di sempre nuovi percorsi. In parallelo, cucina e vita, sembra incredibile. Con accumuli e perdite, incontri e addii. E chissà se lo sapevo, agli esordi, quando cominciavo a togliere anziché ad aggiungere, a semplificare anziché a elaborare, a cucinare rispeando il principio della stagionalità…sì, insomma, chissà se lo sapevo, allora, che stavo pregustando l’assenza. Non me ne vogliate, so che pregustare è una parola dal sapore dolce e assenza invece sa di amaro, e che forse non sono nate per stare insieme. Probabilmente lavoro sui contrasti da quando sono al mondo e non lo so, o forse la vita è contrasto per definizione e io mi sono semplicemente limitato a prenderne ao. Se li meo in fi la e li leggo con aenzione, ci sono aspe i della mia cucina che parlano forte e chiaro della mia vita. E viceversa. Uno, importante, si chiama Dodici mesi. Dodici mesi, periodo che per me ha sempre avuto un significato particolare: quello in cui puoi dar prova delle tue capacità di cuoco, assaggiando tutte le atmosfere e sfruando (nel senso di coglierne i frui) tue le stagioni. Così ho sempre fao, andando e tornando per il mondo. Un anno: un capitolo in cucina, un capitolo nella vita.
I read that there is always a house behind all the different houses that an architect designs, and that it is always the same story behind all the different stories that a writer tells. Why should I be an exception? Maybe, I always cook the same idea. The same idea – not the same menu. Maybe inside my idea of cooking there is something about me that remains hidden, just as the house that the architect has in his head or the story that the writer conserves in his mind. Good things do not have to cost much, but the beautiful things in life, those really do cost a lot. There it is. I think that this is my grain of truth, grown on the job, as my cooking “grew up” with me, and my life was enriched with new paths. Life and kitchen, in parallel. With wins and losses, hellos and goodbyes. Who knows if I knew in the beginning, when I started to take away rather than add, to simplify rather than elaborate, to cook respecting the principles of seasonality…yes, in other words, who knows if I knew at the time that I was geing a foretaste of absence.
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Don’t hold it against me: I know that the flavour of foretaste is sweet and that of absence is bier, quite possibly they were not meant to go together. I have probably been working on contrasts since the very beginning and didn’t realize it, or maybe life is a series of contrasts by definition and I have merely accepted it. If I put one thing aer another and read them carefully, there are aspects of my cooking that speak loud and clearly about my life. And vice versa. One important aspect is called, Twelve months. Twelve months, a period for me that has always had a particular meaning: during which you can prove your ability as a cook, tasting the different “atmospheres” and taking the maximum (in terms of harvesting its fruits) from each season. I have always done this, coming and going around the world. One year: a chapter in the kitchen, a chapter in life. Another equally important aspect is time. What seems to be inexhaustible and at a certain point along the road, has become “the times gone by” and the time still to come. Inside the time that is no longer are all the things I was unable to say, the things I waited too long to do, words le unsaid and those said poorly. There are encounters, names, stories, emotions. There are the people I listened to while I looked into their eyes, those who passed close to me but that I didn’t even notice because I was moving forward, always forward. In a song I learned as a boy, at the playground at the parish oratory, Sunday mass, the magic of my mother’s cooking, an unforgettable smile, an important kiss, a shake of the hand, and all the rest that will last forever. Like my father, Bruno. A cuisine to take away from; a life to lose. Inside, both of these “absences” that have stayed and that speak to me when I feel lost, when everything seems dark, when the contrasts are almost too much, even for me. Absences that can even make me happy. Because… “At Christmas I no more desire a rose, than wish a snow in May’s new-fangled mirth: But like of each thing that in season grows.” (William Shakespeare, Love’s Labour Lost).
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Un altro aspeo, altreanto importante, si chiama Il tempo. Quello che sembrava non esaurirsi mai e che invece a un certo punto, sulla strada, è diventato anche “il tempo che non c’è più” insieme a quello che c’è ancora. E dentro il tempo che non c’è più ci sono tue le cose che non ho saputo dire, quelle che ho aspeato troppo a fare, le parole non dee o quelle dee male. Ci sono gli incontri, i nomi, le storie, i sentimenti. Ci sono le persone che ho ascoltato e guardato a lungo negli occhi, e quelle che invece mi sono passate vicino e nemmeno ho visto, per correre avanti, sempre più avanti. Dentro c’è una canzoncina imparata da bambino, il campeo dell’oratorio, la messa della domenica, la magia dei piai della mamma, un sorriso indimenticabile, un bacio importante, una strea di mano. E tuo il resto, che rimane per sempre. Come papà Bruno. Una cucina dove (anche) togliere e una vita dove (anche) perdere. E dentro, tue e due le “assenze” che restano e mi parlano quando mi sento smarrito, quando mi vedo al buio, quando i contrasti si fanno troppo difficili persino per me. Assenze che riescono a farmi felice. Perché…“Non desidero una rosa a Natale più di quanto possa desiderar la neve a maggio: d’ogni cosa mi piace che maturi quand’è la sua stagione (William Shakespeare, Pene d’amor perdute).
Tra il dire e il fare , c è di mezzo una sedia Non una sedia qualsiasi, intendo una sedia ben faa. Sì, lo so, che c’entreranno mai le sedie, dal momento che io faccio il cuoco? Lo faccio, appunto, e nei limiti del mio possibile cerco anche di farlo bene. Nella mia esperienza, fare è un privilegio e una fatica. Un’opportunità e un impegno. Una grande fortuna e un lavoro costante. Fare è la scuola delle scuole, è capire il valore reale delle cose, è meersi sulla strada della propria eccellenza, qualsiasi essa sia. Perciò la sedia c’entra, eccome se c’entra. Ma dal momento che conosco i miei limiti in falegnameria – e soprauo quelli in filosofia –, che cosa c’entra la sedia lo lascio spiegare a uno che lo sa fare bene, almeno secondo me. Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben faa. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben faa per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben faa per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben faa in sé, per sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben faa. E che ogni parte della sedia fosse ben faa. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle caedrali…il lavoro stava lì. Si lavorava bene, non si traava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fao. (Charles Péguy, L’argent)20
Between Saying and Doing there is a Chair22
Not just any old chair, I mean a wellmade one. Yes, I know. What do chairs have to do with anything since I am a cook? I am a cook and I try to do the best I can to the best of my ability. In my experience, to do things is a privilege and an effort. An opportunity and a commitment. Incredible luck and constant hard work. Doing is the school of schools, it means understanding the true value of things; it is to enter the path of one’s own excellence, whatever that may be. Therefore the chair does come into it, absolutely. But from the moment I learn my limits as a carpenter – and especially my limits in philosophywhat part a chair has in all this, I will let someone else, who I think really knows their stuff, explain this to you.
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These bygone workmen did not serve, they worked. They had an absolute honour, which is honour proper. A chair rung had to be well made. That was an understood thing. That was the fi rst thing. It wasn’t that the chair rung had to be well made for the salary or on account of the salary. It wasn’t that it was well made for the boss, nor for connoisseurs, nor for the boss’ clients. It had to be well made itself, in itself, for itself, in its very self. A tradition coming, springing from deep within the race, a history, an absolute, an honour, demanded that this chair rung be well made. Every part of the chair which could not be seen was just as perfectly made as the parts which could be seen. This was the selfsame principal of cathedrals. …There was no question of being seen or of not being seen. It was the innate being of work which needed to be well done.
Un lavoro “è” una sedia, una sedia fatta bene è un valore.
(Charles Péguy, L’argent)23
Maybe if I had really looked for them I could have found the words myself to say the same thing, but I prefer to put into practice what Péguy says so well. The values his words transmit, for me are like a chair on which to rest your thoughts and daily actions. Even overlooking the fact that Charles Péguy’s mother built chairs – yes, she made them – I think that a chair is perfect to demonstrate the values I have been talking about. The value of being grounded, of solidity, of utility, of offering a place, of “staying” there as long as needed, of maintaining balance, of “carrying”, of accepting. Then there is the value of values. That work, it doesn’t maer what kind, has to be first and foremost, well done. Before being done for something or for someone, it should be done well for yourself. What we do well for ourselves we do following our own truth, without hiding it or ourselves, guided by the honest objective of being happy. Why not? Who knows, maybe we will be able to make each other happy. Work, any work, should be well done because otherwise it isn’t necessary, it doesn’t stay in balance, it doesn’t provide support for anyone, it doesn’t convey what you are really worth, but only what others decide you are worth. Work “is” a chair, and a well-made chair has value. Work, any work, should be well done because otherwise freedom reduces itself to doing things as quickly as possible, more to finish than to make something. This makes you a slave, while you are doing something, thinking already about some-
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Forse, a cercarle bene, avrei avuto anche parole mie per dirlo, ma preferisco provare a meere in pratica, ogni giorno, quello che Péguy dice così bene. I valori che le sue parole trasmeono sono per me come una sedia su cui appoggiare pensieri e azioni quotidiane. E anche tralasciando il fao che la mamma di Charles Péguy costruiva sedie – sì, insomma, le faceva –, credo che la sedia sia perfea per mostrare i valori di cui parlo. Quello del tenersi ancorati a terra, quello della solidità, quello dell’utilità, quello di offrire un posto, quello dello “stare” lì il tempo che serve, quello del mantenere un equilibrio, quello del “portare” su di sé: dell’accogliere. E poi, il valore dei valori. E cioè che un lavoro, qualsiasi lavoro, dev’essere prima di tuo fao bene. Prima ancora che fao per qualcosa o per qualcuno. Va fao bene per se stessi. Quello che facciamo bene per noi lo facciamo con la nostra verità, senza nasconderla e senza nasconderci, guidati dall’onesto obieivo di essere felici. Perché no? Chissà che così non riusciamo a rendere felice anche qualcun altro. Un lavoro, qualsiasi lavoro, va fao bene perché sennò non serve, non sta in equilibrio, non è un appoggio per
nessuno, non ti esprime per quanto vali davvero ma solo per quello che gli altri stabiliscono che vali. Un lavoro “è” una sedia, una sedia faa bene è un valore. Un lavoro, qualsiasi lavoro, va fao bene perché altrimenti la libertà si riduce nel fare più in frea che puoi, più per finire che per realizzare. E questo ti rende schiavo, mentre stai facendo qualcosa, del pensare già a qualcos’altro, anziché stare lì finché la tua caedrale non è ben faa. Succede a volte che qualcuno dei miei collaboratori si lasci sfuggire un “l’ho già visto”, “cose già fae e rifae”, “come no, l’ho visto fare a tizio”. 21 E siccome sono un cuoco, siccome non sono un robot, mi visitano pensieri così – che hanno a che fare con la paura del giudizio o con l’ansia del risultato. È in quei momenti che cerco un appoggio solido e prendo in prestito la sedia di Péguy. Mi riporta nel luogo dal quale provengo, alla mia infanzia e alle mie origini modeste, dove mamma e papà facevano. Facevano, non dicevano di aver visto fare. Non dicevano di aver visto. Non dicevano. Facevano. E lì, “seduto” su quei valori, riprendo a cucinare.
thing else, rather than staying there, until your cathedral is well made. Every once in a while, one of the people I work with comes out with things like, “I’ve seen that before”, “this has been done again and again”, “of course, I saw so-and-so do this”. 24 Since I’m a cook and not a robot, thoughts come to my mind – that have to do with performance anxiety and with being judged. It is in that moment that I look for a solid support and I borrow a chair from Mr. Péguy. I go back to where I came from, to my childhood, to my humble origins, where my mother and father did. They did things, they did not say that they had seen others doing. They did not say they had seen. They did not say. They did. And there, “seated” on those values, I go back to cooking.
Work “is” a chair, and a well-made chair has value.
20. Grazie a Paolo C. per queste parole. 21. È successo con uno dei ragazzi, non tanto tempo fa. “L’ho già visto fare,” mi ha deo davanti a un piao. “Ah sì?” ho risposto io. “Quindi tu non lo sai fare, o meglio, non puoi ancora dire di saperlo fare, giusto?” Insomma, il già visto non fa esperienza. 22. Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Common colloquial expression that roughly means that there is a big difference between talking about something and actually doing it. 23. Thank you Paolo C. for this quote. 24. This happened recently with someone in my team. “I’ve seen this done before”, said one of the guys while looking at one of the dishes. “Really?” I answered. “Then you do not know how to do this, or beer, you cannot say yet that you know how to do this, right?” In other words, already having seen something is not the same as having experience.
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Rombo in carpione
(per 4 persone) Per il rombo 300 g di fi leo di rombo (diviso in 4 porzioni) 1 l di olio di semi di girasole 3 g di sale fi no Per la salsa al prezzemolo 10 g di burro 1/2 cipolla tagliata fi ne 300 g di panna fresca 300 g di lae 250 g di pane bianco 20 g di senape di Digione 20 g di rafano fresco 50 g di prezzemolo sbianchito in acqua salata 2 g di sale Per il carpione rappreso 1 g di agar-agar in polvere 125 g di centrifugato di carote e arancia 5 ml di aceto di vino bianco Ponti Classico 2 g di sale 1 g di chiodi di garofano 3 foglie di alloro Per la salsa di olive 100 ml di acqua 30 g di olive nere Carli 3 g di amido di mais 1 g di zucchero Eridania Zefi ro 1 g di sale Per la crosta di olive 100 g di olive nere denocciolate Carli 3 g di polvere di caffè Lavazza 20 g di burro 5 g di zucchero Eridania Zefi ro Per la finitura 10 g di petali di cipolle coe in aceto di vino rosso Ponti Classico 5 g di germogli di barbabietola, rapa e porro
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Per il rombo Cuocere il rombo nell’olio a 57 °C per 15 minuti, scolare e asciugare su carta assorbente. Regolare di sale. Per la salsa al prezzemolo Far sciogliere il burro in una pentola, unire la cipolla e cuocere a fuoco basso per circa 5 minuti. Aggiungere la panna, il lae e portare a bollore. Togliere la salsa dal fuoco e immergervi il pane a pezzi. Lasciar riposare per almeno 10 minuti. Frullare, infi ne, la salsa unendo il resto degli ingredienti fi no a oenere un composto liscio. Tenere da parte. Per il carpione rappreso Far sciogliere l’agar-agar nel centrifugato, portare a bollore con l’alloro, i chiodi di garofano e l’aceto e cuocere per circa 5 minuti a fuoco medio. Filtrare e regolare di sale. Stendere su una placca fino allo spessore di mezzo centimetro e far freddare. Tagliare il carpione rappreso in cubi di mezzo centimetro di lato. Per la salsa di olive Portare a bollore l’acqua con il sale e lo zucchero, legare con l’amido di mais e unire le olive. Frullare e fi ltrare al colino fine. Tenere da parte. Per la crosta di olive In una padella cuocere a fuoco basso le olive con lo zucchero finché non diventano croccanti. Frullare le olive e la polvere di caffè con il burro. Stendere il composto tra due fogli di carta da forno e far freddare in frigorifero. Tagliare in tranci della stessa dimensione del rombo. Per la finitura Meere la crosta di olive sul rombo. Disporre nel piao la salsa di prezzemolo, il carpione, la salsa di olive, i petali di cipolla, i germogli e infine il rombo.
Turbot “in Carpione”
(serves 4)
For the turbot Cook the turbot in oil at 57°C for 15 minutes, drain and dry on absorbent paper. Adjust for salt. For the parsley sauce Melt the buer in a pot, add the onion and cook over low heat for 5 minutes. Add the cream and milk and bring to a boil. Remove from heat and add the bread in pieces. Let rest for 10 minutes. Blend on high speed with the remaining ingredients until smooth. Keep warm. For the “carpione” jelly Dissolve the agar-agar in the juice and bring to a boil with the bay leaves, cloves and vinegar and cook for 5 minutes on medium heat. Filter and adjust for salt. Spread on a tray. The mixture should be 5 mm thick. Let set. Cut the jelly in 5 mm cubes. For the olive sauce Bring the water, salt and sugar to a boil, thicken with the cornstarch and add the olives. Blend and fi lter. Keep aside. For the olive crust In a pan cook the olives with the sugar over low heat until they become crunchy. Blend the olive and coffee powder with the buer. Roll the mixture between two sheets of parchment paper and let cool in the refrigerator. Cut the mixture in the same shape and size as the turbot. To finish Put the olive crust on the turbot. Place the parsley sauce, the jelly, olive sauce, onion petals, sprouts and in the end, the turbot.
For the turbot 300 g turbot fi let (divided in 4 portions) 1 lt sunflower oil 3 g fi ne salt For the parsely sauce 10 g buer ½ onion, sliced thinly 300 g heavy cream 300 g milk 250 g white bread 20 g Dijon mustard 20 g fresh horseradish 50 g parsely blached in salted water 2 g salt For the carpione jelly 1 g of agar-agar in powder 125 g of orange and carrot juice 5 ml of white wine vinegar Ponti Classico 2 g salt 1 g cloves 3 bay leaves For the olive sauce 100 ml water 30 g black olives Carli 3 g cornstarch 1 g sugar Eridania Zefi ro 1 g salt For the olive crust 100 g black, pied olives Carli 3 g coffee powder Lavazza 20 g buer 5 g sugar Eridania Zefi ro To finish 10 g petals of onion cooked in red wine vinegar Ponti Classico 5 g sprouts of beet, leek and turnip
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Sono convinto che si possa fare in altri modi quello che è già stato fatto, che si possa rielaborare , l insegnamento dei maestri, che si possa ri-adattare al proprio , , tempo un idea d altri tempi...
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Innovare è un po come... Innovating is a Little Like...
Black: You know these French chefs in these uptown restaurants? You know what they like to cook? White: No. Black: Sweet breads. Tripe, Brains. All that shit they don’t nobody eat. You know why that is? White: Because it’s a challenge. You have to innovate. Black: A challenge. That’s right. The stuff they cook is dead cheap. Most folks throws it out. Give it to the cat. But poor folks don’t throw nothing out. White: I guess that’s right. Black: It don’t take a lot of skill to make a porterhouse steak taste good. But what if you can’t buy no porterhouse steak? You still wants to eat something that tastes good. What you do then? White: Innovate. Black: That’s right, Professor. And when do you innovate? White: When you don’t have something that you want. Cormac McCarthy, The Sunset Limited
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– Li conosci gli chef francesi dei ristoranti dei quartieri alti?…Lo sai cosa gli piace più di tuo? – No. – Le animelle. La trippa. Il cervello. Tue quelle cagate che non mangia mai nessuno. E lo sai perché? – Perché è una specie di sfida? Perché bisogna essere innovativi? – Una sfida. Giusto. La roba che cucinano te la tirano dietro. Tanti la buano via. La danno al gao. Ma i poveri non buano via mai niente. – In effe i. – Non è che devi essere chissà chi per far venir buono un fi leo. Se uno non ha i soldi e vuole lo stesso mangiare qualcosa di buono? Che fa? – Innova. – Innova. Giusto. E allora quand’è che si fanno queste innovazioni? – Quando uno non ha quello che vuole.
Cormac McCarthy, The Sunset limited
Rosangela e io parlavamo di innovazione, originalità e cose così. Le stavo raccontando la genesi della mia Cucina POP e di quanto poco mi interessasse, all’origine, il cambiamento per il cambiamento, l’invenzione fine a se stessa; le stavo spiegando che il mio obieivo non era creare qualcosa di nuovo, ma farlo con un senso. Insomma, cercavo di dire la mia su una delle parole più semplici e nello stesso tempo più complicate che esistano, e cioè innovare, quando Rosangela ha tirato fuori queste baute dal suo “repertorio” teatrale. A parte la faccenda di animelle, trippa e cervello, che a dea di questo signore non mangerebbe nessuno e che naturalmente non ho potuto condividere, tuo il resto, dal “non è che devi essere chissà chi per far venir buono un fileo” a “quando uno non ha quello che vuole” mi è suonato piuosto familiare. Perché per me innovare ha un sapore buono, un sapore di costruzione e non di distruzione. E ha la consistenza delle cose che restano almeno un po’ e non di quelle che svaniscono all’istante. Nella mia esperienza, la voglia di cambiare non è mai venuta per desiderio di criticare qualcuno o, peggio, di demolire le sue idee o i suoi risultati. È venuta perché desideravo con tuo me stesso oenerne di miei, di diversi, in momenti in cui quelli degli altri non mi bastavano più. Per dirla tua, non ho nemmeno mai pensato che fosse possibile “inventare” granché, e meno ancora inventare dal niente. Sono convinto che si possa fare in altri modi quello che è già stato fao, che si possa rielaborare l’insegnamento dei maestri, che si possa ri-adaare al proprio tempo un’idea d’altri tempi…e che si debba prendere tuo il buono che già c’è per fare dell’altro buono che non c’è ancora. Si debba, sì, penso proprio che si debba. A cominciare da me. Nel senso che ritengo un mio dovere rinnovarmi e rin-
I am convinced that it is possible to do things differently than they were done before, that it is possible to re-elaborate , your teachers lessons, that it is possible to re-adapt an idea from another period , to today s times...
Rosangela and I were talking about innovation, originality and things like that. I was telling her about the genesis of my Cucina POP and how, in the beginning, I was not interested in change for change’s sake, invention for its own sake; I explained that my objective was not to create something new, but to create something that made sense. I was trying to give my opinion about one of the simplest yet most complicated words that exists, innovation, when Rosangela brought up these quotes from her theatre “repertoire”. Sweetbreads, tripe and brains aside, that according to Black no one would want to eat and that I was unable to share, from about not having to be someone special to cook a good steak, to “when you don’t have something you want” all sounded familiar. For me, innovation tastes good: it has the flavour of creation, not destruction. It has the consistency of things that stay, at least for a while and not of things that disappear without a trace. In my experience, the desire for change doesn’t come from the desire to criticize someone else, or worse, to demolish their ideas or successes. It came to me when I wanted to create my own ideas, when the ideas of others were no longer enough for me. To say it all, I never thought that it would be possible to “invent” much, and even less so to invent something from “nothing”. I am convinced that it is possible to do things differently than they were done before, that it is possible to re-elaborate your teachers’ lessons, that it is possible to readapt an idea from another period to today’s times…and that you have take everything good that is already there to create something good that doesn’t exist yet. Yes, have to, yes, I think you really have to. Starting
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with me. In the sense that I think it is my duty to renew myself and to re-new: when I am dissatisfied, when I feel a different emptiness within, when what I have (or what I know) no longer convinces me or no longer suffices. That is why, in agreement with Rosangela (who apologizes for modifying the original text), we would re-write the last line like this: “You innovate when you want something more than what you have”. In cooking as in life, I have never made progress when I limited myself to criticizing, to taking things apart, to saying “that’s no good”. Least of all, when I let myself get carried away with the desire to use special effects26; a legitimate desire for sure, that needs to be expressed, if for no other reason than to learn that it will not get you very far. The progress I have made, I made when I looked at what I already had; things that came from my story and from my teachers and I felt that I could do something else, thanks to what I already held tight. Things that could try to satisfy what I was and what I had become, but also that could become something more suited to the times. The progress and changes I made when they were “necessary” or, from my point of view, when I felt they could be useful to others. I made progress in the past and I continue to do so. I don’t know if this is innovation, but I know that change is never sparks or fireworks. If you truly change something, you will see it in others and not only in yourself. So let’s leave it to creative talents and linguists to say what innovation really means. In the meantime, I try to do it. If I manage to change, when I manage and only if I find a why and a who to my desire for change.
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novare: quando sono insoddisfao, quando nascono dentro di me nuovi vuoti, quando quello che ho (o che so) non mi convince o non mi basta più. Ecco perché, d’accordo con Rosangela (che però, nel rispeo dell’originale, si scusa per la piccola modifica al testo), l’ultima bauta la riscriviamo così: “Uno innova quando vorrebbe andare oltre quello che ha”. In cucina come nella vita, non ho mai fao un passo avanti quando mi limitavo a criticare, a smontare, a dire “non va bene”. Tantomeno quando mi prendeva il desiderio di stupire con effe i speciali 25: desiderio legi imo, s’intende, che va anche esercitato, se non altro per capire che non ti porta lontano. I passi avanti li ho fai quando ho guardato quel che avevo tra le mani, e che proveniva dalla mia storia e dai miei maestri, e ho sentito che le mie mani potevano fare dell’altro, anche grazie a quello che stavano stringendo. Potevano fare qualcosa che provasse a soddisfare di più quello che io ero o ero diventato, ma anche qualcosa che si adaasse meglio ai tempi che stavo vivendo. I passi avanti, e quindi i cambiamenti, li ho fai quando mi erano “necessari” o, nella mia visione delle cose, quando ritenevo potessero essere utili ad altri. Li ho fa i e li faccio ancora così, i miei passi avanti. E non so se questo sia innovare, ma so che cambiare non è mai una scintilla o un fuoco d’artificio. E che se cambi qualcosa davvero, lo vedi negli altri e non solamente in te. Perciò lascio dire ai creativi o ai linguisti cos’è, davvero, innovare. Io nel fraempo provo a farlo. Se mi riesce di innovare, quando mi riesce, e solo se trovo un perché e un per chi alla mia voglia di cambiare.
25. Non sono naturalmente da intendersi “effe i speciali” – non nella mia Cucina POP almeno – fraaglie o croste di formaggio che vengono fae pagare quanto una spesa se imanale per qua ro persone. 26. By special effects, I do not mean – at least not in my Cucina POP – offal or cheese rinds that are charged as much as the weekly grocery shopping for four people.
P.S.
P.S.
Dimenticavo un deaglio. Rosangela mi ha incalzato, dopo la mia tiritera, con la domanda: “Allora soo quale voce meeresti l’idea di cucinare gli inse i? Per la verità,” ha subito precisato, “non è già più un’idea, è realtà: a Londra hanno aperto l’Archipelago, un ristorante dove vengono serviti scorpioni al cioccolato, crème brûlée di api e insalatine di locuste. Il tuo, in previsione del fao che la bistecca sta diventando un lusso e le pescherie si stanno trasformando in gioiellerie. Insomma, scartati il farro e le alghe, si sta studiando un’alternativa virtuosa alle abitudini alimentari degli europei…”. Soo quale voce meerei la cucina degli insei? Ho deo che non è mia abitudine demolire e non comincerò a farlo proprio adesso. E poi qualcuno sostiene che, come abbiamo metabolizzato il sushi, così ingoieremo presto – e volentieri – anche gli insei. Da parte mia, ho l’impressione di stringere ancora molto di buono e di “accessibile” in quelle fatidiche mani piene di passato e di maestri. Qualcosa che può meere ancora d’accordo tradizione, gusto e portafogli. Agli insei penserò quando (e se) la domanda sarà una necessità e non un effeo speciale per stupire con zuppe di zampe.
I almost forgot something. Aer my spiel, Rosangela pressed me with the following question: “Then under what category would you put the idea of eating insects? In reality, “she clarified, “it is not a new idea: in London they have opened Archipelago, a restaurant that serves chocolate-covered scorpions, crème brûlée with bees and locust salad. All this, in view of the fact that steaks are becoming a luxury and going to the fishmonger is like going to a jewellery store. In other words, excluding spelt and algae, more virtuous alternatives to the traditional nutritional habits of Europeans are being studied…”. Under which category would I put cooking insects? I said it was not my nature to demolish things and I will not start now. Just as we metabolized sushi, some people say we will also learn to eat insects happily. From my point of view, I have the impression that there are a lot of things that are still good and “accessible” in the hands of teachers from the past and the present. Something that can reconcile tradition, taste and budget. I’ll think about insects if and when the demand for them becomes a necessity and not a special effect to astonish people with a soup of insect legs.
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Sardina e burro (per 4 persone) Per le sarde 8 sarde 12 g di zucchero Eridania Zefi ro 10 g di sale fi no Per il burro 100 g di burro dolce a temperatura ambiente 2 g di fior di sale di Ravenna Per la finitura 8 pezzi di mollica tostata di pane a fermentazione naturale 8 lische di sardina frie 10 g di crosta di pane tostata
Per le sarde Pulire e sfi leare le sarde, stenderle su una placca d’acciaio e cospargerle con lo zucchero e il sale. Coprire con la pellicola per alimenti e conservare in frigorifero per circa 6 ore. Togliere quindi dalla salagione e sciacquare con acqua fredda. Asciugare con un panno. Per il burro Montare il burro in un’impastatrice planetaria finché non risulta spumoso, quindi unire il fior di sale. Coprire e conservare in frigorifero. Per la finitura Disporre al centro del piao le sarde, il burro, la mollica e la crosta tostata, le lische di sardina frie.
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Sardines and Butter (serves 4) For the sardines 8 sardines 12 g sugar Eridania Zefi ro 10 g fi ne salt For the buer 100 g unsalted buer, room temperature 2 g fior di sale di Ravenna salt To finish 8 pieces of thinly sliced sourdough bread, with the crusts removed 8 sardine fi shbones, fried 10 g toasted bread crust
For the sardines Clean and fi let the sardines, place them on a steel baking sheet and sprinkle with the salt and sugar. Cover with plastic fi lm and refrigerate for approximately 6 hours. Remove the salt and sugar mixture and rinse in cold water. Dry and set aside. For the buer Whip the buer with a mixer until it is light and fluff y, add the salt. Cover and refrigerate. To finish Place the sardines, the buer, the toasted bread and crust and the fried fishbone on four individual plates.
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Le idee forti non fanno la voce grossa (Come i buoni piatti, che non hanno bisogno di stupirti con effetti speciali, sennò dove li mettiamo i nostri Brutti-ma-Buoni?)
Strong Ideas do not Have to Speak Loudly (Like good dishes, that do not need to shock you with special effects. Otherwise, what would we do with our ugly-but-delicious cookies?)
If I look around, I am convinced that today it is a challenge not to give way to arrogance, to not slide into indifference, to not be tempted by the compromises requested by the practice of unbridled individualism. It is not always easy – at least, not for me – to answer bad manners with good, rudeness with kindness.
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Se mi guardo intorno, mi convinco che oggi è una sfida non imbarbarire nell’arroganza, non scivolare nell’indifferenza, non farsi tentare dai compromessi richiesti dalla pratica dell’individualismo sfrenato. Non sempre è facile – non per me, almeno – rispondere con le buone maniere a quelle caive, con la gentilezza alla maleducazione. Lo ammeo, mi salta facilmente la mosca al naso, e ben più di una volta al giorno. Per come sono cresciuto io, a suon di sfide ma anche con una rigida educazione al rispeo: dei più anziani, dei ruoli, delle regole…per uno come me, dicevo, non è impresa facile mantenere la roa sulla strada della costanza e della coerenza anche quando fuori volano urla e circola prepotenza. Per arrivare qui, e cioè a credere nella forza della calma e della ragione, mi sono visto passare davanti al naso sciami di mosche e ho dovuto imparare ad “ammaestrarle” per non compromeere i risultati oenuti. Sono passato araverso tue le fasi che qualsiasi individuo vivo e animato da sane passioni conosce. Anch’io ho risposto con prepotenza all’arroganza (e chi può giurare che non lo rifarò?), naturalmente assolvendomi come di rito: ha cominciato
Lo stesso è per la ragione: non la ottengo se non con parole sincere.
lui, ma chi si crede di essere, non mi faccio certo meere i piedi in testa da un cafone…Poi ho cominciato a meere distanza tra me e quelli che ritenevo troppo diversi per poterci dialogare, cafoni appunto. Ma era solo un altro modo, magari più elegante e meno rissoso, di non risolvere il problema. Soltanto dopo molti sciami mi sono reso conto che il più delle volte le mie erano scuse, una maniera per non vedere le mie insicurezze e la mia paura di non piacere. E alla fine ho capito27 che era come in cucina, la mia cucina. Un buon piao non ha bisogno di sbrilluccicare per farsi notare. Certo, deve presentarsi bene, ma mostrando quello che è, non sembrando quel che non è. Lo stesso è per la ragione: non la oengo se non con parole sincere. Sincere come le stagioni nei menu del cuoco POP.
27. Capire, ho capito. Ma questo non significa che avrò la capacità di controllare ogni mia reazione futura. Anche questa volta dovrò “allenarmi”. E anche questa volta, naturalmente, giocherò per vincere. La partita è quella della calma e della ragione. 28. To understand, I have understood. However, this does not mean that I will have the ability to control each and every one of my future reactions. I still have to “train” myself. This time, I am going to play to win, of course. The game of calm and reason.
I admit that I fly off the handle easily, and more than once a day. For how I was brought up, full of challenges but also with a strict education of respect: for those who are older, for roles, for rules…for someone like me, as I was saying, it isn’t easy to stay the course of coherence and resolution even when all around you people raise their voices and presumption and arrogance are the order of the day. To get here, that is to believe in the strength of calm and reason, I have seen swarms of flies fly around me and I had to learn how to “tame” them so as not comprise the results I had obtained. I went through all the different phases that any lively individual with healthy passions knows. I also have answered arrogance with vehemence (and who can say I will not do it again?), naturally absolving myself: he started it, but who does he think he is, I am not going to be walked all over by that idiot…then I started to put some distance between me and those that I thought were too different to be able to have a dialogue with, as I said, idiots. But maybe it was only another way, possibly more elegant and less quarrelsome, to not solve the problem. Only aer swarms and swarms of flies did I realize that most of the time I was merely making excuses, a way to hide my insecurity and my fear of not being liked.
The same thing can be said of reason: I cannot achieve that without speaking sincerely.
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In the end I understood28 that it was the same with cuisine, my cuisine. A good dish does not need to show off to be noticed. Of course, it has to present itself well, but showing itself for what it is, not trying to be what it is not. The same thing can be said of reason: I cannot achieve that without speaking sincerely. As sincere as the seasons in the menus of a POP cook. Tastes, smells, flavours can be described, but mostly they need to be experienced. The same goes for the sincerity of someone’s behaviour: you can make a promise, but you need to keep it. A taste of something is important, but a complete menu will tell you who a cook really is. The same goes for the publicity of ideas, or the marketing of yourself, that is not really “yourself” but a version of yourself. If someone criticizes my Cucina POP or a particular dish, or my choices as a restaurateur, it is not by criticizing those who criticize me that will convince others of how good my work is. In the same way, I cannot improve my results by aacking those who consider them unsatisfactory. Of course, to think this way now seems as natural as cooking. But to get to this point, as with cooking, took training, method and expertise. I did not reach balance in this overnight, but through trial and error, “advancing” two steps forward, one step back, re-positioning myself continuously. Today I know that a strong voice covers real flavours, and I never stop training myself not to use it. The road is long and you never finish learning to regulate your “volume”. There a lot of things at stake, at least it seems so to me. There is definitely a need for new ideas of how to combine very different flavours and for people who assume their responsibilities for their choices, their actions, their results. Calmly, with patience and experience. Experience, intended as acquired and still to be gained.
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Gusti, odori, sapori si possono descrivere, ma principalmente si devono sentire. Lo stesso vale per la sincerità di un comportamento: puoi prometterla, ma poi devi anche mantenerla. Un assaggio è importante, ma è il menu completo che ti dirà chi è veramente il cuoco. Idem per la pubblicità delle idee, insomma il marketing di te stesso, che non è “te stesso” ma soltanto il modo di raccontarlo. Se qualcuno critica negativamente la mia Cucina POP o un piao particolare, o le mie scelte di ristoratore, non è criticando chi mi critica che convincerò gli altri della bontà del mio lavoro. Così come non migliorerò i miei risultati attaccando chi li ritiene insoddisfacenti. Certo, oggi pensarla così mi sembra naturale come cucinare. Ma anche in questo, come in cucina, ci sono voluti allenamento, metodo, mestiere. Anche in questo, l’equilibrio non l’ho oenuto dall’oggi al domani, ma araverso prove ed errori, “avanzando” con due passi avanti e uno indietro, riposizionandomi continuamente. Oggi so che la voce grossa copre i sapori veri. E non smeo di allenarmi a non usarla. La strada è lunga e non si finisce mai di imparare a regolare il proprio volume. Di grosso in ballo c’è tanto, così almeno mi pare. Di sicuro c’è bisogno di idee che uniscano i sapori diversi, e di persone che si assumano la responsabilità delle proprie scelte, delle proprie azioni, dei propri risultati. Con calma, pazienza ed esperienza. Esperienza intesa come già faa e come ancora da fare.
Rami secchi? Tanti saluti (e baci) Dead Wood? Thanks and Goodbye
C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo. È un grande tesoro. Lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova.
There is something that can only be found in one place. It is a great treasure, which may be called the fulfillment of existence. The place where this treasure can be found is the place on which one stands.
Martin Buber, Il cammino dell’uomo
Martin Buber, The Way of Man
Ci sono parole che arrivano come fari a illuminarmi la navigazione, specialmente nei momenti difficili. Queste di Buber sono per me uno dei fari più luminosi. Ci torno sopra spesso, e di recente mi è capitato a proposito della squadra – più precisamente, a proposito di quelli che nella squadra vengono, ma soprauo a proposito di quelli che dalla squadra se ne vanno. Me ne sono andato anch’io, dunque so di che cosa parlo, e so anche che si può andarsene in tanti modi. Alla Paul Gascoigne (deo Gazza), per esempio: un campione, è vero, ma un campione che non faceva gruppo, e che anzi creava un sacco di problemi al resto della squadra.
There are words that come like a light in the night to illuminate your path, especially in difficult moments. These words by Buber for me are some of the brightest. I go back to them oen, and recently with regard to the team, more precisely, about the people who come, but even more so, about those who go. I have le too, so I know what I am talking about and I also know that you can leave in many different ways. Like Paul Gascoigne (Gazza) for example: a champion, of course, but a champion that did not have team spirit, just the opposite: he created a lot of problems for other members of his team.
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In the past, when I was trying to learn the fine line – as Ligabue sings about – between keeping quiet and enduring, I tried to assimilate the incredible value of team play. That which makes you accept (and not endure) the conditions you find yourself in – and that if you look at the situation carefully, it is almost always something you got yourself into, not someone else. There have been moments when the clock of my shis seemed to never end, others during which the diners I was to supposed to serve made me feel like I was on a rollercoaster out of control, others still during which the task I was assigned in the kitchen was very (and I mean very) humble. Those were the moments in which team play seemed more important than ever. Because it was in that group that I found the sense of my staying and in the final result, the value of my doing. However, leaving à la Gascoigne is not the most senseless way to leave, there is an even worse way: to turn your back and slam the door with the conviction that this cruel world doesn’t understand or appreciate you. Yes, sometimes it can really happen to not be as appreciated as we deserve or would like to be, but the kind of fugitives I am referring to aren’t the ones who do this only once, they are the ones who are NEVER appreciated and NEVER understood. I would like to remind the fugitives here – and myself too – what Vasco Rossi says about pride: “it has ruined more people than petroleum”. To these fugitives, as I consider those who are looking for easy success, I say thanks and good riddance… (pay the fine and shut up! – as a lile rhyme from my childhood says). Besides shuing up – that I would never say to myself because I think that you should say it to yourself -, “pay
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Perché era nel gruppo che trovavo il senso del mio stare, e nel risultato finale il valore del mio fare.
Nelle mie esperienze passate, quando ero io a dover imparare la linea so ile – come la canta Ligabue – fra tacere e subire, ho cercato di assorbire il valore inestimabile del gioco di squadra. Quello che ti fa acceare (non subire) la condizione nella quale ti trovi – che poi, a guardarla con occhi aenti, si rivela quasi sempre una condizione in cui ti sei messo tu e non in cui ti hanno messo gli altri. Ci sono stati momenti in cui l’orologio dei miei turni di lavoro sembrava non fermarsi mai, altri in cui i commensali da servire mi facevano sentire su una giostra impazzita, altri ancora in cui il compito che mi era stato affidato in cucina era molto (ma molto) umile. Ecco, era proprio in quei momenti che fare squadra mi sembrava più importante che mai. Perché era nel gruppo che trovavo il senso del mio stare, e nel risultato finale il valore del mio fare. Ma non è quello alla Gascoigne il modo più insensato di andarsene, ce n’è uno persino peggiore: voltare le spalle sbaendo la porta e con la convinzione che questo mondo caivo non ti capisce e non ti apprezza. Ma sì, forse qualche volta ci succede davvero di non essere valorizzati come meriteremmo o come vorremmo, ma la specie dei fuggitivi alla quale mi riferisco non è quella di una volta sola, bensì quella che non è stata apprezzata MAI, che non viene capita MAI. Mi piace ricordare qui, ai fuggitivi – e naturalmente anche a me stesso –, quel che dice Vasco Rossi a proposito dell’orgoglio: ne ha rovinati più lui che il petrolio. A questi fuggitivi, perché tali li considero i candidati al successo facile, dico tanti saluti e baci…(…paga la multa e taci! – come una vecchia cantilena di quando ero bambino). E a parte il taci – che non direi a nessuno, perché penso che il proprio tacere ciascuno debba ordinarselo da solo –, “paga la multa” ha un suo perché: in fondo, chi abbandona il campo di fronte all’ostacolo qualcosa prima o poi paga. Prima di tuo, il fuggitivo dimentica quasi sempre di salutare quando se ne va. Pazienza, vuol dire che saluto io per tui e due.
Poi, oltre ad aggirare l’ostacolo invece di saltarlo, il fuggitivo nasconde a se stesso la propria parte di responsabilità all’interno della squadra. Ai miei occhi, nella squadra di lavoro come nel gruppo degli amici, questo genere di fuggitivi ha a che fare con i rami secchi: con tuo il dispiacere del mondo, io posso solo tagliarli. Sono loro che dovranno ricominciare da capo, raddoppiando gli sforzi e preparandosi ad affrontare, prima o poi, l’ostacolo che si erano illusi di aver eliminato con la fuga. Insomma, non sarà un caso se anche il gruppo è qualcosa che si fa, non che si trova già bell’e fao. Questo non significa, naturalmente, che devi incollarti lì dove ti trovi per il resto dei tuoi giorni solo per onorare la squadra o obbedire al capobranco. Vuol dire semplicemente che prima di puntare il dito sul mondo caivo e voltargli le spalle sbaendo la porta, forse è meglio domandarti che ruolo hai giocato tu nella squadra o se ti sei limitato a guardare quelli che giocavano per poterli poi criticare alla prima occasione. Ho aperto con un faro, mi piace chiudere con un altro:
the fine” makes some sense: in the end, whoever abandons the playing field when they hit an obstacle, sooner or later, will pay the price. First of all, the fugitive almost always forgets to say goodbye when they leave. No problem, I’ll do it for both of us. Then, aer having avoided the obstacle instead of jumping it, the fugitive hides their responsibility as part of the team from themselves. The way I see it, a team needs to work like a group of friends; this kind of fugitive is something like dead wood: as much as I might be sorry to do so, I can only cut them loose. They are the ones who will have to start again and it will take twice as much effort to prepare for and face the obstacle they were so convinced they had avoided by running away. It’s not a coincidence that a group is something that you make, not something that you find ready-made. This does not mean that you have to glue yourself to where you are, stay there and honour the team and obey the leader of the pack. It simply means that before pointing your fi nger at the cruel world and turning your back on it and slamming the door as you go, it might be a good idea to ask yourself what role you played in the team or if you merely limited yourself to standing on the sidelines and watching those who were playing, ready to criticize them at the first opportunity. I opened with a shining light and I would like to close with another one:
“Tuo ciò che la tua mano trova da fare, fallo con tue le tue forze!”
“Whatever your hands find to do, do with all your might!” (Eccles. 9:10)
(Qo 9, 10)
Because it was in that group that I found the sense of my staying and in the final result, the value of my doing.
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Cavolfiori, caviale di limone, capperi e uva di mare
(per 4 persone) Per i tranci di cavolfiore 150 g di cavolfiore bianco 150 g di cavolfiore viola 150 g di cavolfiore verde 30 g di olio extravergine di oliva Carli 10 ml di Vermut Carpano Branca 2 g di sale fi no Per la salsa di cavolfiore viola 100 g di cavolfiore viola 100 g di acqua 2 g di sale fi no Per la finitura 40 g di cavolfiore viola e bianco crudo, sbriciolato 15 g di uva di mare rappresa in acqua fredda 5 g di caviale di limone 5 g di capperi fri i
Per i tranci di cavolfiore Ricavare dei tranci dai cavolfiori e arrostirli in padella con l’olio extravergine, unire il Vermut e far evaporare. Salare e tenere in caldo. Per la salsa di cavolfiore viola Tagliare il cavolfiore viola a pezzei e cuocerlo in acqua bollente. Frullare il tuo, regolare di sale e tenere in caldo. Per la finitura Disporre con un pennello la salsa nel piao e completare con i tranci di cavolfiore, l’uva di mare, il caviale di limone, i capperi croccanti e i cavolfiori sbriciolati.
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Cauliflower, Lemon Caviar, Capers and Sea Grapes
(serves 4) For the cauliflowers slices 150 g white cauliflower 150 g purple cauliflower 150 g green cauliflower 30 g extra virgin olive oil Carli 10 ml Vermouth Carpano Branca 2 g fi ne salt For the purple cauliflower sauce 100 g purple cauliflower 100 g water 2 g fi ne salt To finish 40 g raw purple and white cauliflower, crumbled 15 g sea grapes soaked in cold water 5 g lemon caviar 5 g fried capers
For the cauliflowers slices Slice the cauliflower and roast in a pan with extra virgin olive oil; add the Vermouth and reduce. Salt to taste and keep warm. For the purple cauliflower sauce Cut the purple cauliflower in small pieces and cook in salted, boiling water. Purée, taste for salt and keep warm. To finish For each person, brush a spoonful of sauce on a plate; add the slices of cauliflower, the sea grapes, lemon caviar, crisp capers and crumbled cauliflower.
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Sono un figo POP
I am a POP Dandy
They say that I am a dandy cook, in the sense that I am into clothes, shoes and other accessories. If it isn’t too presumptuous, I would like to take advantage of the POP label that I was given a few years ago – and of which I am proud – to call myself a POP dandy. I feel like my cooking. That it is POP because it is humble, linked to tradition and accessible to everyone. But on the other hand, it is being someone who chooses “taste”, elegance and respect for others. I will try to explain what I mean by a POP dandy.
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Dicono che sono un cuoco figo, nel senso di uno che un po’ se la tira quando si traa di vestiti, scarpe e altri accessori. Se non suona troppo presuntuoso, approfierei dell’etichea POP che mi hanno affibbiato qualche anno fa – e di cui oggi vado fiero – per definirmi un figo POP. Mi sento come la mia cucina. Che è POP perché è umile, legata alla tradizione e portata in tavola per tu i. Ma d’altro canto è selezionatrice di “gusto”, di eleganza e di rispeo per gli altri. Provo a definire meglio un figo POP. È uno che non va a caccia di firme, tu’al più è lui che mee la sua. Non nel senso che si improvvisa stilista d’altri, ci mancherebbe, ma che si inventa stilista di se stesso. Insomma cerca un suo stile, anche nella semplicità, e lo “indossa”. Ma per essere, non per apparire. Un figo POP non distingue tra il vestirsi bene delle grandi occasioni e il vestirsi come capita delle occasioni minori. Casomai, prova a rendere grande ogni occasione vestendosi adeguatamente e pensando al proprio aspeo come a un ingrediente importante di tuo l’insieme. E vive con stile prima di vestire con stile, ma soprauo non vive per lo stile. 29
Un figo POP non crede agli abbinamenti per fede o perché si usa: è l’armonia che comanda gli abbinamenti, non la moda. Per lui, vestirsi bene non vuol dire necessariamente “guardatemi”, può anche significare “vi vedo”, nel senso che mi presento a voi in ordine, gradevole e felice nei miei panni. Un figo POP somiglia più a mio padre quando si vestiva bene la domenica per onorare la festa, la cucina della mamma e i famigliari intorno alla tavola, piuosto che a uno che si “acconcia” per le feste. Ecco, anche se a volte mi capita di farmi prendere dal senso di inadeguatezza, dal timore di non essere all’altezza delle situazioni nelle quali mi trovo, cerco sempre di non perdere l’anima del figo POP. Cerco di essere me stesso: imperfeo ma aento, sportivo ma con stile, pratico ma “stirato”. Non io, la divisa. Tanto “divise” sono tue, anche le antidivise, quindi è inutile fare distinzioni fi losofiche: meglio scegliersi quella che ci assomiglia davvero. E che cosa ci posso fare io se sono un figo POP e considero la mia immagine parte del D’O, come dire che sono un tu’uno con le pareti, i tavoli e i pia i? Non è un’offesa sentirsi parte di un tuo, casomai è alla base dell’armonia. E a proposito di questo, io penso che tue le persone abbiano anche un colore (oltre a un sapore, è ovvio…ma questo è un altro capitolo).
29. Contrariamente a quanto si pensa, l’abito a volte fa il monaco – lo dice anche Salvador Dalí nel suo Diario di un genio. 30. Contrary to popular belief, sometimes appearance do count – even Salvador Dalì says the same thing in, Diary of a Genius.
It is not someone who goes hunting for designer clothes, it is more likely that he will put his own “label” on things. Not in the sense that he pretends to be a designer for other people, that’s all we need, but that he is his own stylist. He searches for his own style and with simplicity, just “wears” it. To be, not to appear. A POP dandy doesn’t distinguish between geing dressed for important occasions and geing dressed for more casual events. Instead, he is more likely to try to make every occasion a special one by dressing adequately and by thinking that his appearance is an important contribution to the whole event. To live with style before dressing with style, but most of all, not living for style.30 A POP dandy doesn’t believe in combinations just because they are in fashion or for some belief: it is harmony that dictates the combinations, not fashion. For him, dressing well doesn’t necessarily mean “look at me”, it can also mean “I see you”, in the sense that I present myself to you neat, pleasant and comfortable in my own skin. A POP dandy resembles my father when he got dressed up on Sundays, to honour the day, my mother’s cooking and his family gathered around the table, more than someone who gets dressed up only for special occasions. There, even if sometimes I am overtaken by a sense of unworthiness, by the worry of not being up to the situations I have to face, I try not to loose that dandy POP soul. I try to be myself: imperfect but aentive, athletic but with style, practical but “crisp”. Not me: my uniform.
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Mi sento come la mia cucina. Che è POP perché è umile, legata alla tradizione e portata in tavola per tutti.
In the end, everything is a uniform, even the antiuniforms, so it is pointless to make philosophical distinctions: much beer to choose the one that suits us most. Can I help it if I’m a POP dandy and that I consider my image part of D’O, that I am one with the walls, the tables and the plates? It isn’t an insult to feel you are part of everything, on the contrary, it is the basis for harmony. Speaking of which, I think that every person has a colour (in addition to a flavour, obviously…but that is something else entirely). There are primary colours, the fundamentals, without which you cannot make the others. Then there are secondary colours that are the result of the combination of two primary colours. Tertiary colours, that are situated with their hues between the primary and secondary, then saturated colours, composite… There is an infinite number of colours. It doesn’t mean that primary colours are more beautiful, beer or more “important”; it just means they give you the possibility to have other colours too.
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Ci sono i colori primari, i fondamentali, senza i quali non puoi comporre gli altri. Poi ci sono i secondari, che nascono dall’abbinamento di quelli primari. E i terziari, che si collocano con le loro sfumature tra i primari e i secondari, e i saturi, e i composti… Insomma, ce n’è di tui i colori. E non vuol dire che i primari siano i più belli, i più giusti o i più “importanti”, significa soltanto che ti danno la possibilità di avere anche gli altri. Qualcuno parla addiriura di arcobaleno in tavola, riferendosi alla dieta equilibrata che ogni giorno porta nei pia i colori diversi. Da parte mia, ho sempre sponsorizzato i piai legati alla stagione e la stagione legata ai colori. E forse ho fao la stessa cosa nella vita. Dove ho incontrato persone pri-
marie, secondarie, terziarie, sature… primarie a seconda delle stagioni, è ovvio, ma in qualche caso azzarderei anche in assoluto. Ciascuna con i suoi propri colori, che non è che glieli puoi cambiare, non è che se li può cambiare. Può abbinarli, però, e combinarli, e mischiarli, e stemperarli, e… Naturalmente non secondo i deami della moda, semmai secondo quelli dell’equilibrio dei contrasti. Già, ma quante volte l’ho deo? Tante. Dimenticavo un altro ingrediente fondamentale: il (foglio) bianco. Non ha ancora un colore e nello stesso tempo li ha dentro tu i, si traa solo di tirarli fuori, armonicamente, con “gusto” e felicità. Parlavo del foglio, o forse del piao, o forse del riso. O forse di qualcuno che conosco bene.
Some people talk about eating a rainbow, referring to a balanced diet that includes different colours at every meal, every day. I personally have always sponsored dishes that are linked to the season and the season is linked to colours. Maybe I have done the same thing in life. Where I have met primary, secondary, tertiary, saturated people…primary according to the seasons, obviously, but in some cases I would hazard to say even in absolute terms. Each one with its own colours, that you cannot change, that it cannot change. However, you can combine them, mix them, dilute them and… Naturally, not following any fashion decrees; if anything, following the rules of balance and contrast. How many times have I already said this? Too many. I forgot one other fundamental ingredient: a sheet of white paper. It does not have a colour, yet at the same time it contains them all; you only need to daw them out harmoniously, with taste and satisfaction. I was talking about the blank, white paper, or maybe about a dish, or maybe about rice. Or maybe, it was about someone I know well.
I feel like my cooking. That it is POP because it is humble, linked to tradition and accessible to everyone.
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Il talento senza umiltà è come il Duomo senza guglie Ma anche come il giorno senza la notte, come Groucho senza baffi , la volpe senza l’uva, Stanlio senza Ollio, un funambolo senza fune, un comodino senza libro, un teo senza ga i, una cucina senza profumi, lo stadio a porte chiuse, una fi nestra senza luce, Alice senza Paese delle Meraviglie, un albero di plastica, due labbra senza baci, un tic senza tac, un inverno senza primavera, Zorro senza zeta, una casa senza rumori, un giorno senza musica, uno zerbino senza pedate, un cielo senza soffio, un giardino sen-
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za fiori, un polso senza ba ito, una vita senza dubbi, me senza la squadra, un respiro senza l’altro, un fumo senz’arrosto, un ammiraglio senza ammiraglia, un paese senza bambini, un bambino senza sorrisi, Natale senza paneone, un mondo senza domande, un reggae senza basso, un futuro senza speranza, un amore senza sogni… Insomma, il talento senza umiltà suona strano, non convince. Ma esiste davvero?
Talent without Humility , is Like Milan s Duomo without Spires It is like day without night, Groucho without his moustache, the fox with no grapes, Laurel without Hardy, a tightrope walker without the rope, a night table without a book, a roof without cats, a kitchen without smells, a stadium with closed doors, a window with no light, Alice without Wonderland, a plastic tree, two lips without a kiss, a tic without a tac, a winter without a spring, Zorro without his “Z”, a house with no sounds, a day without music, a doormat with no footprints, a sky with no roof, a
garden with no flowers, a wrist with no pulse, a life without doubts, me without my team, one breath without another, smoke and no fire, an admiral without a flagship, a village with no children, a child without a smile, Christmas without paneone, a world without questions, reggae without the bass, a future with no hope, love with no dreams… So, talent without humility sounds odd, isn’t convincing. Does it really exist?
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Ecco perché per me Cucina POP significa “per tanti”, ma anche “di tutti”.
Cucina POP: fare piccole cose ma con grande amore Cucina POP: Doing Small Things with Great Love
Cucina POP is my story. I got there aer a very long road and many teachers, mixing simplicity with well-made, good with accessible, innovation with tradition. Achieved through teamwork founded on respect for those who work in the kitchen, from the first to the last, and on who sits down to eat, from the last to the first. It is this teamwork that my guys take with them to their work experiences. To explain how the values of my life are entwined with the principles of my cuisine, I have synthesized the POP philosophy in 10 suggestions. Each one is only a small point but as big as an anchor, a foundation. All ten points are anchors on the path that I like to follow, the path where the past and the future constantly meet, where – to quote Mother Teresa of Calcua – you can only do small things, but you can do them with great love.
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La Cucina POP: una storia, la mia. Ci sono arrivato dopo tanta strada e non pochi maestri, mescolando il senza fronzoli con il ben fao, il buono con l’accessibile, l’innovazione con la tradizione. Il tuo araverso un gioco di squadra fondato sul rispeo per chi lavora in cucina, dal primo all’ultimo, e per chi siede a mangiare, dall’ultimo al primo. Ed è proprio questo gioco di squadra che i miei ragazzi stanno esportando nelle loro nuove esperienze di lavoro. Per spiegare come i valori della mia vita si sono intrecciati ai princìpi della mia cucina, ho sintetizzato la fi losofia POP in dieci pillole. Ciascuna è piccola come un punto e grande come un punto fermo. Tue e dieci sono punti fermi sulla strada che mi piace percorrere, quella dove si incrociano costantemente passato e futuro, quella dove – per dirla con madre Teresa di Calcua – si possono fare solo piccole cose, ma con grande amore.
10 pillole di filosofia POP 1. Valorizzare l’equilibrio dei contrasti. 2. In cucina, il design è il contenitore che deve valorizzare il contenuto. 3. Ogni a ività deve avere un profio, ma i prezzi devono essere correi. 4. Al vino si deve dare la giusta importanza. 5. Curiosità e osservazione sono il modo migliore per interpretare le esigenze dell’ospite. 6. Da ogni errore nascono possibilità, basta saperle sfruare. 7. La priorità, per chi cucina, è l’aenzione al benessere delle persone. 8. Ogni ingrediente, dal più umile al più ricercato, merita lo stesso rispeo. 9. La spesa va faa sempre a stomaco pieno, per evitare sprechi. 10. Il brand dev’essere immediato, facile da ricordare.
That is why, for me, Cucina POP means “for everyone”, but also that it “belongs to everyone”.
10 rules from the Cucina POP handbook 1. The importance of the balance of contrasts, in cooking and in life. 2. In the art of cooking, design and the container must enhance the contents. 3. Every business should be profitable, but prices have to be fair. 4. Curiosity and observation are the best means to understand and interpret your guests’ needs. 5. There is an opportunity in each mistake, you just need to look for it. 6. The health and well-being of your guests are a priority. 7. Every ingredient, from the most humble to the most expensive, deserves the same respect and treatment. 8. Wine must be given its due: not too much, not too lile. 9. Never buy food when you are hungry, it will reduce waste. 10. The brand should be easy to remember and have impact.
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I like to think that my cuisine is POP for each and every one of these ten reasons…plus one more. It’s POP also because I started before necessity and the economic downturn brought us here, where we are today. Today, saving and sacrifice are no longer an ethical choice but an obligation for many. What I like to think is, that if you substitute the word cuisine with the word life – my life, naturally – the ten rules would remain the same. Of course you would have to find metaphors for design, wine and brand…but changing the form would not change the substance in the least. What I am proud of is that eleven years ago, when I created D’O and everything that D’O means for me, I imagined good cooking for everyone. Not because I hoped everyone would end up here, but because the values that I grew up with pushed me to do my best to not get here where we are today, at this critical time. That is why, for me, Cucina POP means “for everyone”, but also that it “belongs to everyone”. Everyone can have the pleasure of trying it, but they should also be inspired to put it into practice themselves. Everyone, the best way they know how. I do it at D’O, every day, for my guests.
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Quello che mi piace pensare della mia cucina è che è POP per tui e dieci questi motivi… più uno. È POP anche perché io l’ho realizzata prima che il bisogno, la necessità, la crisi ci portassero fin qui, dove siamo oggi. Oggi che il risparmio, per molti il sacrificio, non è già più una scelta etica ma una scelta obbligata. Quello che mi piace pensare è che, se sostituissi la parola cucina con la parola vita – la mia vita, naturalmente –, le dieci pillole resterebbero tali e quali. Be’, certo, bisognerebbe trovare metafore adeguate per design, vino, brand…ma cambiando la forma, la sostanza non cambierebbe di una virgola. Quello di cui sono orgoglioso è che undici anni fa, quando ho creato il D’O con tuo quello che il D’O significava per me, immaginavo una buona cucina per tui. E non certo perché auguravo a tui noi di arrivare fin qui, ma perché i valori con i quali ero cresciuto mi spingevano a fare del mio meglio proprio per non arrivarci. Non arrivare a quest’oggi così critico, voglio dire. Ecco perché per me Cucina POP significa “per tanti”, ma anche “di tui”. Nel senso che tui possono avere il piacere di gustarla, ma dovrebbero avere anche la spinta etica a metterla in pratica. Ciascuno come sa e come può. Io lo faccio al D’O, ogni giorno, per i miei ospiti.
«Insomma, per sentirmi uno – e non nessuno o centomila – ho dovuto appassionarmi a quello che facevo, essere sempre presente. Così vorrei che fosse sempre la mia vita. Sul pezzo.»
«In other words, to feel myself one – and not no one and one hundred thousand – I had to become passionate about what I was doing, to always be in the present. That is the way I would like my life to be. In the moment.»
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Vellutata di cavolo viola e rosso, strichetti al grano arso e uova arancio
(per 4 persone) Per la vellutata 200 g di cavolo viola pulito e tagliato fi ne 80 g di Riso di Pasta Viazzo 500 ml di acqua 2 g di sale fi no 2 g di zucchero di canna Eridania Tropical Per gli strichei 150 g di farina Pasta Oro Pasini 200 g di semola rimacinata Pasini 150 g di farina di grano arso 230 g di acqua calda 1 g di sale fi no 3 g di burro Per la finitura 3 g di succo di limone 20 g di uova di trota 2 g di foglie di sedano
Per la vellutata Cuocere il cavolo viola con il Riso di Pasta, in acqua, per circa 40 minuti, scolare e frullare. Se necessario diluire con l’acqua di coura. Aggiungere sale e zucchero e fi ltrare al colino fine. Per gli strichei Amalgamare tu i gli ingredienti assieme, coprire con della pellicola trasparente e far riposare in frigorifero per circa 1 ora. Stendere la pasta so ile e formare gli strichei. (Tagliare la pasta in quadrati di un centimetro e mezzo ciascuno, chiuderli a triangolo, unire le due punte della base del triangolo.) Cuocere in acqua bollente e salata per circa 2 minuti, scolare e condire con il burro. Per la finitura Disporre la vellutata al centro dei piai, sopra meere qualche goccia di limone in modo da far cambiare colore alla vellutata, le uova di trota e le foglie di sedano. Degustare unendo gli strichei alla vellutata.
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Velouté of Purple and Red Cabbage, Strichetti of Burnt Wheat and Orange Eggs
(serves 4) For the velouté 200 g of purple cabbage cleaned and cut fi nely 80 g of Viazzo rice pasta 500 ml water 2 g fi ne salt 2 g zucchero demerara Eridania Tropical
For the velouté Cook the purple cabbage with the Riso di Pasta, in water for approximately 40 minutes, drain and purée. If necessary, dilute with cooking water. Add salt and sugar to taste and fi lter.
For the strichei 150 g flour Pasta Oro Pasini 200 g fi ne semola Pasini 150 g burnt wheat flour 230 g hot water 1 g fi ne salt 3 g buer To finish 3 g lemon juice 20 g trout caviar 2 g celery leaves
For the strichei Amalgamate all the ingredients, cover with plastic film and let rest in the refrigerator for one hour. Roll the dough very thinly and make the strichei. Cut the pasta in 1,5 cm squares; fold them into a triangle, then unite the two points of the base. Cook in boiling salted water for 2 minutes; drain and dress with buer. To finish Place the cabbage velouté in each dish, garnish with a few drops of the lemon juice to change the colour of the velouté, add the trout eggs and celery leaves. Serve adding the strichei to the velouté.
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Non ho l età. Oppure sì? ,
I m not Old Enough. Or am I?
I asked myself this the first time I was in the spotlight. Well, not exactly at that precise moment, let’s say a few hours later: I asked myself if I was the right age for the success that I was having. There is no point in denying that I had dreamed of those spotlights before I ever got there, under those real ones. It would be like denying that I had been a child and a youth before becoming a man. That the dream is in a series A championship, on the stage in a theatre or on the Grand Prix racing circuit, it depends on the champion and what they want to become. But aside from these differences, who hasn’t dreamt of becoming a champion of something? Whether the dream comes true right away, later or never, depends on so many different ingredients that not even the greatest cook in the world would be able to synthesize them into a single recipe that would work for everyone. We oen end up asking someone who has “success” the formula for a dream that we can dream, starting at the beginning of it and not the end. Like a menu, that starts from a foundation dish around which the rest is built. In turn, the dish is also based on a foundation ingredient around which the rest of the dish is built. This ingredient comes from a season, not from just any one, but the present one: dreams are all in the present, they might come true later, but they happen now.
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Me lo sono chiesto la prima volta che mi sono trovato soo i rifleori. Be’, non proprio in quel momento preciso, diciamo qualche ora dopo: mi sono chiesto se avevo l’età giusta per il successo che mi stava succedendo. Inutile negare che anch’io avevo sognato i miei bei rifleori prima di arrivare lì, soo quelli veri. Sarebbe come negare che sono stato bambino e ragazzo prima di diventare uomo. Che poi il sogno si ambienti in un campionato di serie A, sul palcoscenico di un teatro o sul circuito di un Gran Premio, dipende da chi lo fa e dal campione che vuole diventare. Ma a parte queste differenze, chi non si è mai sognato campione in qualcosa? Che poi il sogno si avveri presto, tardi o mai, dipende da talmente tanti e svariati ingredienti che nemmeno il cuoco più grande del mondo saprebbe sintetizzarli in un’unica ricea efficace per tui. Finiamo spesso per chiedere a un altro, già “arrivato”, la formula di un sogno che solo noi possiamo fare, e cominciandolo dall’inizio, non dalla fi ne. Come un menu, che parte da un piao base sul quale si costruisce tutto il resto. E il piao a sua volta nasce da un ingrediente base intorno al quale si sviluppa tuo il resto. E l’ingrediente proviene da una stagione, e non da una qualsiasi, ma da quella in corso: i sogni hanno tu i il tempo presente, magari si avverano poi, ma succedono adesso.
Forse la mia sarà deformazione professionale, ma anche il successo io lo vedo come un menu a strati. Tanti strati. Che si allineano ordinati su una base. Magari nella vita succede casualmente, ma in un progeo di vita gli strati vanno allineati con un senso. Ci penserà la vita, appunto, a mischiarli a suo piacimento. Perciò, quando i ragazzi vengono a chiedermi che cosa devono fare per diventare campioni in cucina, io rispondo col menu che conosco: prendi il tuo sogno e me ilo dentro una solida base di scuola. Poi, con cura ma senza frea, aggiungi gli strati successivi: macelleria, pescheria, pasticceria, cioccolateria…e chi più ne può, più ne mea. E tocca tuo, verdura, pesce, pasta, carne, sale…con aenzione, curiosità e rispeo: saranno loro a suggerirti come traarli, come e quanto. Il tuo sempre nella stagione di vita che stai vivendo, la tua. E a ogni traguardo usa al meglio quello che sai e approfondiscilo, non restare in superficie, solo così potrai personalizzarlo e creare qualcosa di tuo. Una volta che sei arrivato in profondità, ritorna in superficie e vai in cerca di nuovi strati. Assorbi il nuovo e me ilo in pratica, assorbi ancora e me i in pratica, assorbi e… Ai ragazzi che vengono a chiedermi come si diventa campione in cucina dico che, come in tu i i campionati – quello della vita in pole position –, si può gareggiare in due modi: sognando in piccolo oppure in grande, assorbendo i maestri e il mondo là fuori in piccolo oppure in grande. Si possono aggiungere strati con aenzione, uno dopo l’altro, progressivamente, oppure li si può accumulare disordinatamente e senza produrre sapere. A quei ragazzi dico anche che se vuoi capire, oltre che usare, gli strumenti della tecnologia devi conoscere anche un po’ di musica, di leeratura, di architeura. Insomma, devi avere un po’ di strati. Sennò saprai anche smaneare alla grande, ma sapere sai poco. Ecco, a qualsiasi età mi piacerebbe essere sempre quel cuoco lì, e anche quell’uomo lì, quello che non si limita a usare, ma vuole comprendere il più possibile ciò che usa.
It might be my professional bias, but I see success as a layered menu. Many layers. They all align, in orderly fashion, on a base. Maybe in life it happens casually, but in a life project all the layers should be lined up in one direction. Life will mix them up as it pleases. That is why, when young people ask me what they need to do to become champions in the kitchen, I answer them with the menu I know: take your dream and put it on the solid foundation of a cooking school. Then, without rushing, add the other layers: butcher, fishmonger, pâtissier and chocolatier…as many as you can. Touch everything, vegetables, fish, pasta, salt…carefully, with curiosity and respect: they themselves will suggest how you should treat them, how and when. Everything always in the stage of life you are living now, your life. At every goal use the best of what you know and deepen your knowledge, do not stay on the surface, that is the only way you will be able to personalize it and make it your own. Once you have gone in depth, re-surface and go in search of new layers. Absorb everything new and put it into practice, absorb and put into practice, absorb and… To the kids who come and ask me how to become a champion in the kitchen, I say that, as in all championships – the one of life in pole position – you can compete in two ways: dreaming small or dreaming big, assimilate from your teachers and the world at large, either in a big or a small way. You can achieve different layers of aention, one aer another, progressively, or you can accumulate them in a disorderly fashion without producing any real knowledge. To those same kids I say that if you want to understand rather than just use technology, you should know something about music, literature and architecture. In other words, you have to have some layers. If not, you will know how to use things really well, but you will know very lile. There. At whatever age, I would always like to be that cook, that man, the one who doesn’t limit himself to simply using things, but that wants to understand, as much as possible, what he uses.
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L’etica e l’estetica del D’O eE
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Mi guardo intorno e le foto appese alle pareti mi dicono che mi sono portato qua dentro ogni viaggio e ogni maestro, tutti ben conservati , e pronti all uso.
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Pensare al D O, , pensare il D O (Terra sotto i piedi oltre che cielo sopra la testa)
Thinking , about D O, , Thinking D O (The earth beneath my feet and the sky above my head)
It’s Monday and D’O is closed. Even if it sounds strange to say “closed” when talking about my restaurant – in my thoughts, it is a place that is always open. A lot of people tell me, more and more oen, that I should learn to slow down and take a break, but I can’t help it: I have cooking here, here and here. Just like the commercial for a famous brand of tea says.
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È lunedì, giorno di chiusura al D’O. Anche se mi suona strano, “chiuso”, riferito al mio ristorante – un luogo che nei miei pensieri è sempre aperto. Me lo dicono in tanti, e sempre più spesso, che dovrei imparare a staccare la testa ogni tanto, ma non ci posso fare niente: io la cucina ce l’ho qui, e qui, e anche qui. Proprio come diceva lo spot di una nota marca di tè. La cucina è stata il mio faro per tanti anni e mi accompagna fi n da quando, ragazzo, ho cominciato a girare per il mondo frequentandone le Grandi Cucine. Persino nei giorni di chiusura non riusciamo a fare a meno l’uno dell’altra, io e la mia cucina. Eppure so che oggi, con l’agenda delle prenotazioni così piena, potrei rilassarmi un po’, tirare il fiato. Potrei. Ma dovreste sentirlo questo silenzio, allora capireste perché non posso. Dovreste sentire quello che sento io adesso dentro questo silenzio per rendervi conto che potrei, sì, ma probabilmente non voglio. Dentro le sale vuote c’è ancora l’eco delle persone che hanno mangiato qui ieri, e l’altro ieri, e la se imana scorsa.
I look around the restaurant and the pictures hanging on the wall tell me that I have brought with me every trip, every teacher and that they are here, well-preserved and ready for use.
Sento i rumori del D’O il primo giorno in cui queste sale si sono riempite. Prima una e poi l’altra, poi tutte e due, poi sempre più giorni, fino a tui i giorni, come succede oggi. Questo silenzio ha dentro undici anni di ristorazione a modo mio, alla maniera POP. Dove per POP intendo quello che provo a raccontare in queste pagine, e per D’O uno stile che provo a suggerire tu i i giorni nel mio lavoro. Mi guardo intorno e le foto appese alle pareti mi dicono che mi sono portato qua dentro ogni viaggio e ogni maestro, tu i ben conservati e pronti all’uso. Un uso buono, che mi tiene ancorato al passato e alle tradizioni, alle scuole e agli insegnamenti, e lo fa quanto basta perché le mie idee abbiano fondamenta oltre che ali, terra soo i piedi oltre che cielo sopra la testa. Che poi le fondamenta più solide sono sempre là, nella cucina di mia madre, in quel pane amore e fantasia – si pronuncia proprio così pane amore e fantasia – che faceva zi ire la mia pancia in preda al brontolio del dopo partita. Già, il calcio. Altro nutrimento irrinunciabile per il giovane che ero, per lo sportivo che continuo a essere. Adesso magari un po’ meno disponibile a scendere in campo con il gruppo e un po’ di più a pedalare in pace con la mia biciclea, non fosse altro che per l’età che avanza. Dentro, però, sono rimasto uno che si confronta, che gioca, che ha voglia di vincere. Lo dicono gli sport che pratico – e che mi hanno fao guadagnare l’appellativo di “decachef” –, ma lo dico-
Cooking has been a guiding light for me for many years and has kept me company since I was a kid, when I started to travel the world and work in famous kitchens. Even on my days off we couldn’t stay apart, my cooking and I, and yet, with the reservation book always full, I could relax a lile and take a break. I could. But you should hear the silence and you would understand that I can’t. You should feel what I feel inside this silence to realize that yes, I could, but I probably don’t want to. Inside the empty rooms there is still the echo of the people who ate here yesterday, the day before and the week before. I hear the sounds of D’O from the first day these rooms fi lled up. One day aer another, then more and more, then every day, the way it is now. This silence has within it eleven years of being a restaurateur my way, POP style. Where by POP I mean what I am trying to explain in these pages, and D’O a style that I try to bring to my work every day. I look around the restaurant and the pictures hanging on the wall tell me
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that I have brought with me every trip, every teacher and that they are here, well-preserved and ready for use. Using them well keeps me anchored to the past and to tradition, to schools and teachings, enough so that my ideas have solid foundations as well as wings, earth under my feet as well as sky over my head. The most solid foundations were always there, in my mother’s cooking, in that bread, love and dreams – that is exactly how you say it, bread, love and dreams – that placated my hunger aer a soccer game. Yes, soccer. That other indispensible nourishment for me when I was a young athlete and for the athlete that I continue to be. Maybe now I am a lile less willing to get on a soccer field and more likely to get on my bike and pedal in peace, if for no other reason than I am ge ing a lile older. Inside, I am still one that likes to challenge himself, that plays, that wants to win. That’s what the sports I play say about me – and the ones that have earned me the nickname of “decachef” – but the burners at D’O say that too. Right now they are off and yet I am anticipating the moment when they will be burning, at the right time, at the right temperature, with the whole team around me: organized and united. Or should I say united and organized? Or am I talking about what comes first, the chicken or the egg?
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no anche i fuochi del D’O. In questo momento sono spenti, eppure io sto anticipando con il pensiero le fiammelle vive, all’ora giusta, con le temperature giuste, e con tua la squadra intorno: organizzata e amalgamata. O dovrei dire amalgamata e organizzata? Ma forse sto parlando dell’uovo e della gallina e di chi viene prima. Di sicuro c’è che il POP va organizzato, e tanto anche, altro che storie. Ci vogliono giridelmondo e anni di lavoro per raggiungere la semplicità. Eccole, vedo anche loro. Sono le corse che facevo – avevo poco più di vent’anni – per raggiungere il contenitore d’acciaio che mi permeeva di fi ltrare una salsa. Londra, Le Gavroche: se arrivavi un’ora prima il contenitore era tuo, che tradoo in parole povere significa che se arrivavi un’ora dopo… Corse che non si dimenticano, nemmeno quando tiri il fiato, nemmeno quando a guidare la squadra sei tu e puoi decidere modi e tempi di lavoro. Guardo i tavoli. Non li ho aumentati di numero, qualche anno fa, quando ho potuto allargare il locale: ho preferito ingrandire la cucina, mi piace pensare che non devo spiegare il perché. Li guardo e la tentazione di spostare di un millimetro un bicchiere o di stendere meglio un tovagliolo è grande: sono un perfezionista, “precisino” dicono alcuni, che forse è solo un modo gentile di meerla giù. Sono cresciuto in una famiglia dove si onoravano gli ospiti – in casa nostra era una specie di religione –, e sono stato educato a rispeare gli orari. Forse, però, educato non rende abbastanza. Diciamo che il mio motorino si trasformava in zucca, se
prima dei dicio’anni non rientravo a casa entro mezzanoe. Se ci resto ancora un po’, qui dentro, finisce che sento anche la musica. Quella dei ritmi in cucina, quella delle stagioni che ti guidano – o almeno dovrebbero – a fare la spesa, e sento anche la musica che mi ha aiutato facendomi compagnia negli anni della lontananza – Londra, Montecarlo, Parigi, il Giappone, gli Stati Uniti –, quelli in cui ho visto tanti fornelli e poca vita fuori. Forse è meglio che torni a casa, tanto il relax al D’O non lo trovo nemmeno di lunedì. La mia testa qui impasta, macina, cuoce. Per quanto, lo so benissimo, a casa trovo sempre tanti pezzi di D’O, come al D’O vedo tanti pezzi di casa. Perché qui c’è molta della mia vita, e anche se tanta ne ho già raccontata, quella che deve ancora venire so che nascerà da qualcosa che ho provato a dire in queste pagine.
One sure thing is that POP has to be organized: a lot – no question about it. You need trips around the world and years of work to reach this state of simplicity. I can see them. The races I ran – when I was just over twenty – just to get a steel container to filter a sauce. London, Le Gavroche: if you got there one hour ahead of time, that container was yours, that means if you got there an hour later… You never forget these things, not when you take a break, not when you are the team leader and you can decide how and when to work. I look at the tables. I did not increase their number a few years ago when I could have; I preferred to enlarge the kitchen, and I like to think that no explanation is needed. When I look at the tables, the temptation, to move a glass a millimetre or so or to smooth a tablecloth is almost irresistible: some people say I am a “perfectionist”, although it might just be a polite way of saying it. I was brought up in a family that honoured its guests – in our house it was almost a religion – and I was brought up to be punctual. Maybe educated is an understatement. Let’s just say that before I turned eighteen, my scooter turned into a pumpkin if I got home aer midnight. If I stay here long enough, I can even hear music. The rhythms of the kitchen, of the season that guides you – or should guide – your purchases, and I hear the music that kept me company in the past – London, Monte Carlo, Paris, Japan, the United States – those years during which I saw a lot of stoves but very lile of life outside the kitchen. Maybe it would be beer for me to go home; I won’t relax at D’O even on a Monday. When I’m here, in my mind I am kneading, grinding, cooking. Even if I know that when I go home, I’ll find pieces of D’O everywhere, the same way I’ll find pieces of home at D’O. Because here there is so much of my life, and even if I have already told you a lot, whatever happens in the future I know will stem from the things I have wrien about in these pages.
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Galletto in vescica
(per 4 persone) Per il galleo 2 vesciche di bue fresche ben lavate con del limone 2 galle i feschi 4 foglie di prezzemolo fresche 4 foglie di coriandolo fresche sale fi no poco Grand Marnier Per il centrifugato 2 coste di sedano 1 mela verde 1 arancia sbucciata sale fi no Per la finitura 2 g di pepe nero mignonee
Per il galleo Pulire e fiammeggiare i gallei eliminando tue le impurità. Salare ed adagiare tra il peo e la pelle le foglie di prezzemolo e coriandolo. Legare con dello spago. Inserire i gallei all’interno delle vesciche, profumare con il Gran Marnier e chiudere la vescica con uno spago. Cuocere i galle i in acqua a 90 °C per circa 50-60 minuti. Scolare e far riposare per circa 10 minuti. Incidere le vesciche, togliere i galle i e, con un coltello ben affi lato, recuperare i pe i. Per il centrifugato Lavare e pulire le verdure e la frua, tagliarle a pezzi e centrifugarle. Regolare di sale. Per la finitura Disporre i pe i al centro dei piai, servire con il centrifugato e con la mignonee di pepe.
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Bladder-Cooked Coquelet
(serves 4) For the coquelet Clean and pass the poultry over an open flame to eliminate any feathers and impurities. Salt and add the fresh parsley and coriander between the skin and breast. Tie with kitchen twine. Put the coquelets in the cleaned bladders that have been perfumed with Grand Marnier and close tightly with a string. Cook the coquelets in water at 90°C for approximately 50-60 minutes. Take them out of the water and let rest 10 minutes. Open the bladders and remove the coquelets and, with a boning knife, remove the breasts.
For the coquelet 2 beef bladders, washed well with lemon 2 coquelets of approximately 400-500 g each 4 parsley leaves 4 fresh coriander leaves salt Grand Marnier For the juice 2 stalks of celery 1 green apple 1 peeled orange fi ne salt To finish 2 g black pepper mignonee
For the juice Clean the celery, apple and orange; cut in pieces and put in a juicer. Add salt. To finish Place the breasts in the center of the dish; serve with the juice and the crushed pepper.
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La bellezza non è mai il punto di partenza ma il traguardo, , quando al primo posto c è il benessere e non il... , bell essere!
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Etica dell estetica. E viceversa
The Ethics of Aesthetics. And Vice Versa
MiaccomoD’O. That is the name of “my” chair. This is what I mean by style. Mi like Milan and tradition, accomodarsi31 as in conviviality, D’O like Cucina POP: three elements that I couldn’t live without. The result is a modern chair born of very old principles: simplicity, efficiency and functionality. Once again, beauty for beauty’s sake was not the objective of my design, it was more about comfort, of being seated at a table, that hints at the pleasure of company even before that of the food
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MiaccomoD’O. Si chiama così la “mia” sedia. Così io intendo lo stile. Mi come Milano e quindi tradizione, accomodarsi come convivialità, D’O come Cucina POP: tre elementi irrinunciabili per me. Il risultato è una sedia moderna nata da antichi principi: semplicità, efficacia e funzionalità. Ancora una volta non è la bellezza per la bellezza l’obie ivo del mio design, caso mai è quella comodità dello stare a tavola che preannuncia il piacere della compagnia prima ancora di quello del cibo. La bellezza non è mai il punto di partenza ma il traguardo, quando al primo posto c’è il benessere e non il…bell’essere! Il benessere, appunto. Nell’immaginare questa sedia, ho visto qualcosa di essenziale e lineare che rendesse l’accoglienza ancora più evidente. Nel proporla, ovviamente, non intendo dare un consiglio come designer, ma off rire una possibilità come ristoratore.
31. Accomodarsi: to make yourself at home, to make yourself comfortable.
Beauty is not the starting point but the destination, when well-being, not good looks, comes first!
Basta guardarla per intuire il perché e il per chi. Anzi, diciamo che mi è bastato guardare le persone che vengono a mangiare al D’O per “disegnarla” così. Le ho messo le “tasche” e l’appendiabiti, perché penso si mangi meglio se alleggeriti di fastidiosi ingombri. Tuo spazio (e tempo!) guadagnati per le persone. Il per chi? Per tui, naturalmente, alla mia maniera. Mi piace aprire la porta del D’O e vederlo “crescere” giorno dopo giorno, la sostanza dei suoi pia i, la forma della sua accoglienza o viceversa: il risultato non cambia. Etica dell’estetica, estetica dell’etica: viaggiano insieme per me. Amo circondarmi di cose belle, ma non concepisco un bell’oggeo che non sia anche funzionale, non fosse altro che funzionale al mio stare bene e al benessere dei miei ospiti naturalmente. E non so immaginare un contenitore che non abbia come scopo principale quello di valorizzare il contenuto. Per questo sono nati Land, Sky e Passepartout. Pia i fondi con parete inclinata concepiti per far scivolare brodi e creme nel cucchiaio senza dover fare i fachiri per apprezzare sino in fondo, e una linea di posate in grado di svolgere tre compiti facendo spazio sulla tavola ed economia nella lavapia i. E anche Verre D’O – due bicchieri in uno – è stato pensato allo scopo di valorizzare l’acqua e il servizio; un solo bicchiere per due diverse tipologie di acqua minerale: la parte dria crea la giusta distanza tra olfao e bollicine, quella ricurva si adaa invece meglio al gusto delicato dell’acqua liscia o come la definiscono gli intenditori “piaa”. Oltre a essere
itself. Beauty is not the starting point but the destination, when well-being, not good looks, comes first! That’s it, well-being. In imagining this chair, I saw something essential and linear that would be even more welcoming. In proposing this chair, I did not intend to become a designer, but to offer a possibility as a restaurateur. It is sufficient to see it to understand the why and for whom. Let’s just say it was enough to look at the people when they come to eat at D’O to “design” it the way I did. I put “pockets” and a coat hook, because you eat beer when you do not have to think about all that bothersome cluer. It means saving space (and time) for people. For whom? For everyone, of course: my way.
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I would like to open the doors of D’O and watch it “grow” day by day, the substance of its dishes, the form of its hospitality or vice versa: the result doesn’t change. The ethics of aesthics, the aesthetics of ethics: for me they go hand in hand. I love to surround myself with beautiful things, but I cannot conceive of a beautiful object that is not functional, if for nothing else than for my own well-being and the well-being of my guests. I do not know how to imagine a container that does not have as its principle function the enhancement of its content. That is why I created Land, Sky and Passepartout. A soup plate with the boom inclined, designed to collect broths and creams onto the spoon without having to be a contortionist to get the last spoonful, and a line of flatware that serves three different functions at the same time to save space on the table and in the dishwasher. Even the Verre D’O – two glasses in one – was thought of with the scope of enhancing both the enjoyment of drinking water and ease of service. One glass for two different types of water: the straight edge creates the correct distance between your sense of smell and the bubbles, the curved edge is most suited to appreciate the delicate taste of still or “flat” water. More than merely functional, it is a line of glassware that allows the guests to look each other in the eye while they are having their meal and to converse; thanks to the short stem, it is more practical to put in the dishwasher and reduces breakage.
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funzionale, è una linea di bicchieri che consente agli ospiti di guardarsi in faccia mentre consumano il pasto e si scambiano qualche parola, grazie allo stelo corto che rende anche più pratico l’inserimento nella lavapiai con minor rischio di roure. E poi c’è Espoon, il cucchiaino forato che – araversando la crema delicatamente – non crea il vortice del tradizionale cucchiaino ed evita che l’aroma si disperda. Avendo meno acciaio, inoltre, non raffredda il caffè quanto un cucchiaino senza foro e lo mantiene caldo più a lungo. E chiudo raccontando com’è nato I.D.ish, il piao con l’impronta. Anche in questo caso, ho osservato parecchio prima di decidermi a trasformare l’idea in un oggeo. Ho guardato i clienti e ho guardato i miei collaboratori, il modo di stare a tavola, di muoversi, di servire e di essere serviti. E osservando le mani di chi porta i piai dalla cucina alla sala, ho notato che fanno di tuo per tenersi lontane dall’interno del piao, ma anche che – per quanti sforzi si facciano – il pollice finisce inevitabilmente per appoggiarsi un po’ al bordo. Per quanta aenzione si presti, c’è un punto in cui il pollice viene a contao con il piao. Il punto è…qual è il punto? E cioè dove avviene questo – seppur leggero – contao. E proprio per identificarlo ho pensato a un piao con un’impronta digitale in rilievo. Una traccia lieve ma chiara per chi deve afferrare il piao. Un segno leggero ma distintivo. Sorrido al pensiero che piai, posate, bicchieri che erano solo immagini nella mia mente o trai approssimativi sul mio quaderno di appunti, sono diventati nel tempo ogge i di design e parte integrante del D’O. E anche se non credo di “essere” soltanto quello che ho creato (e la cosa in un certo senso mi solleva perché non vorrei mai diventare il museo di me stesso) devo riconoscere che quello che ho creato mi assomiglia parecchio. Per quanto è esteticamente etico, voglio dire. E viceversa, si intende.
Mi faccio capire meglio. Al D’O… …devi suonare per entrare. E non certo perché voglio comunicarti chiusura, al contrario: voglio soolineare il mio gesto di apertura verso di te. Non sono una porta blindata, ma nemmeno una porta aperta a tui 24 ore su 24, che poi è come dire a tui e a nessuno. Se suoni, ti dico “entra”, cioè ci sono per te. …una volta entrato, non senti rumori di fondo: il silenzio deve riempirsi di quello che abbiamo da dirci, non di altre distrazioni sonore che disturberebbero il nostro incontro. …la distanza (fra i tavoli) non può essere infinita perché non siamo isole né satelliti, ma deve essere sufficiente a garantirci comodità e discrezione. E poi ti “vedo” meglio se non ti sto addosso. …il piao che ti propongo è semplice e bianco, e non perché povero o vuoto, ma perché pronto ad accogliere colori, odori, sapori. Sul tavolo, fra noi, ci sono posate e bicchieri che devono rendere il viaggio piacevole e non difficoltoso. …quel che ti offro è qui, adesso, fresco di stagione. Il modo in cui te lo porgo è il più naturale possibile, perché le sue qualità siano valorizzate e non nascoste da patine o artifici. Niente è introvabile ma tuo è ricercato, nel senso di cercato con cura e cuore. Niente è incredibile solo per far colpo, ma tutto ha “la mia firma” per dirti che l’ho fao io per te.
Then there is Espoon, the spoon with a hole – that cuts through the cream delicately – that does not create the vortex of a traditional spoon and preserves the aroma of the coffee. Having less metal, it also does not cool the coffee as much as a traditional spoon, keeping it hoer longer. I would like to end by telling the story of I.D.ish: the plate with a fingerprint. Even this time, I spent a long time observing before deciding to transform an idea into an object. I watched clients and my collaborators, their behaviour at the table, the way people move, the way they serve and are served. Observing the hands that bring the dishes from the kitchen to the dining room, I noticed that they do everything possible to avoid touching the inside of the dish, but inevitably end up touching the rim. No maer how much aention is paid to this, there is a spot where the thumb comes into contact with the plate. The point is…what is the point? It is where this – albeit light – contact happens. It is in identifying this that made me think of a plate with a digital fingerprint in relief. An almost imperceptible trace. A sign that is light but distinctive. I smile when I think of plates, flatware, glassware that were merely images in my mind or a very approximate sketch in one of my notebooks that have become, over time, a range of design objects and an integral part of D’O. Even if I do not believe I “am” the only the one who created these objects (and in a certain sense it is a relief, because I would never want to become museum of myself), I must admit that what I have created resembles me quite a bit. For how aesthetically ethical it is, I mean. And vice versa, obviously.
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I’ll explain myself beer. At D’O… …You have to ring the bell to be let in. It is certainly not because I want to communicate a sense of being inaccessible: on the contrary, I want to underline my gesture of openness to you. It is not a security door, neither is it a door open 24 hours a day to everyone and no one. If you ring, I will say “enter”, and that means: I am here for you. …Once you are inside, you won’t hear any noise from outside: the quiet has to fill itself with what we would like to say to each other, not with other distractions that can be of a disturbance to our being together. …The distance (between tables) cannot be infinite because we are not islands or satellites, but there should be enough space to guarantee comfort and discretion. I can also “see” you beer if I am not right on top of you. …The plate I use should be simple and white, not because it is empty and bland, but because it is ready to be filled with colours, smells and flavours. On the table, between us, are the glasses and flatware that make the voyage pleasant and without incidents. …What I offer you is here, now, fresh and in season. I will offer you my dishes in the most natural way possible, so that its qualities are enhanced and not hidden by patinas or artifices. Nothing is impossible to find but everything is valued, in the sense that it is searched for with care and with the heart. Nothing is there simply to make an impression, but everything has “my name” on it to say that I made it for you. …I do not put together (ingredients…people…) just to mix them, but to unite them. To unite is not only an end result, but a continuous research. …If you tell me you didn’t like what I made or you did not like it enough, as long as you put your name to the criticism the same way I put my name on the dish, I will get over the disappointment that is only human and try to understand how I can satisfy your tastes. …If you tell me I did a good job, firstly I will enjoy the sense of satisfaction (that also makes me human) and then I will think about what else I can do. No maer how much joy I may feel, the circularity remains an important characteristic, and behind every arrival I see a new departure. Yes, the more I look at it, the more I think D’O really resembles me.
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…non meo insieme (ingredienti…persone…) per mischiare, ma per unire. E unire non è un solo risultato ma una ricerca continua. …se mi dici che quel che ho fao non ti è piaciuto o non ti è piaciuto abbastanza, sempre che tu mea la firma alla tua critica come io l’ho messa al mio piao, supero la delusione che mi fa umano e cerco di capire se e come posso venire incontro al tuo gusto. …se mi dici che sono stato bravo, prima mi godo la soddisfazione (che pure mi fa umano) e poi penso a cos’altro posso fare. Per quanta gioia io possa provare, la circolarità resta un connotato troppo forte, e dietro ogni arrivo intravedo subito una nuova partenza. Sì, più lo guardo e più questo D’O mi assomiglia.
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L equilibrio dei contrasti e lo squilibrio dei sogni
Ok, ok, sono andato in televisione anch’io: non ho saputo resistere al fascino, ormai non più così segreto, della scatola magica. Non me ne vogliano i buongustai del puro a tui i costi, che se fai il cuoco devi fare il cuoco e se fai l’aore devi fare l’aore. Intanto perché di puro – in senso televisivo, è ovvio – non è che sia rimasto granché: se tira il giardinaggio gli aori diventano giardinieri, se va di moda la cucina i comici si scoprono chef e se vende la magia…vabbè, questa forse è vecchia. Insomma, se in televisione tu i fanno i cuochi, perché mai i cuochi non possono andare in tv? Comunque, superati i “ma” di alcuni amici (“che ci vai a fare…la TV è un tritacarne…in certe trasmissioni poi!”) e superata anche la mia rigidità iniziale, mi sono divertito non poco. Non si è capito? Lo so, me lo dicono spesso, ma sono fao così: rido più dentro che fuori. Da qualcuno devono pure aver preso i miei pia i…d’altra parte, il passato da calciatore e il presente da cuoco (e da ciclista amatoriale) mi hanno trasmesso un rigore e una disciplina che non consentono troppi fuoripista, discorsi di pancia e altre varie, e soprauo eventuali.
The Balance of Contrasts and the Imbalance of Dreams
Ok, ok, I have been on television: I couldn’t resist the lure, the not-sosecret secrets of the magic box. I hope the purist gourmets will not take it too badly, the ones that say a cook should just cook and an actor should just act. Also because of the pure – in the sense of television, obviously – there isn’t much le; if gardening is what people are watching, actors become gardeners, if cooking is in fashion, then comedians become chefs and
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if magic becomes popular…well, maybe that is already out of fashion. In other words, if on television everyone is a cook, why shouldn’t a real cook go on TV? Nevertheless, having overcome the “buts” of some friends (“why would you go…TV is like a meat grinder…in that kind of program?”) and having overcome my initial rigidity, I actually had a lot of fun. You couldn’t tell? I know, people tell me all the time, but that is just the way I am: I laugh more on the inside than on the outside. They had to get my dishes from someone…on the other hand, my past as a soccer player and my present as a cook (and amateur cyclist) have given me a rigour and discipline that do not allow for many hors piste, or impromptu discussions and other things like that. Having overcome this and that, as I was saying, and having finished my adventure in the world of television, I have had some time to think about it. And I have found myself enriched by the experience. The same way as when I “go” somewhere to learn something new. Yes, it’s true, I was the chef and I was there to teach, but I am referring to the aitude, and not the role, and my aitude was the same as always: to be a sponge. And it is being like this, observing, thinking, listening (ok, maybe some time even protesting: I said a sponge, not an amoeba) that I came home with a few thoughts about the experience. I do not want to comment on them, I just want to lay them out for you. Just to “talk” about them together.
Ed è facendo così, osservando, riflettendo, ascoltando (ok, qualche volta anche protestando: ho detto spugna, non ameba) che ho portato a casa alcune riflessioni.
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Superato questo e quello, dicevo, e conclusa anche l’avventura televisiva, mi sono ritrovato a pensarci su. E mi sono scoperto un po’ più ricco. Come mi capita sempre se “vado” per imparare qualcosa di nuovo. Sì, è vero, lo chef ero io ed ero lì per insegnare. Ma mi riferisco all’aeggiamento, non al ruolo, e il mio atteggiamento era il solito: quello della spugna. Ed è facendo così, osservando, riflettendo, ascoltando (ok, qualche volta anche protestando: ho deo spugna, non ameba) che ho portato a casa alcune riflessioni. Non le commento, mi piace meerle qui, a disposizione. Così, per “parlarne” insieme. …Le trasmissioni sulla cucina, con la cucina, dalla cucina si moltiplicano a vista d’occhio: a ogni ora, su qualsiasi emiente, è possibile assistere a qualcosa che ha a che fare con i fornelli, dalle gare ai consigli, dai segreti al pranzo delle meraviglie. Quando mi capita di parlare con ragazzi che vogliono diventare cuochi quello che dico spesso è ben venga un mezzo che fa conoscere e circolare anche le nostre idee, ma non fatevi illusioni: il vero (e duro!) lavoro del cuoco non è mica quella cosa che si vede in tv! E comunque, se non fossi il tifoso che sono, mi lascerei scappare la bauta: in tv, cucina bae calcio 4 a 1…
…Ma non di sola cucina è piena la tv: c’è anche un numero non indifferente di trasmissioni sulla dieta giusta, la forma ideale, il fisico perfeo. Insomma, la partita è a tre: calcio, cucina, dieta. Mi domando, vista la moltiplicazione di entrambi, come possano appassionare i piaceri della gola e contemporaneamente l’ossessione per la forma fisica. Forse c’è più fame di benessere (qualcuno, andando oltre, ha parlato di ricerca della felicità) che di ricee di cucina o di tabelle dietetiche. Ma l’ho già deo troppe volte e non voglio ripetermi: io faccio il cuoco, non il sociologo. E la pianto qui con chi cerca cosa. Ciò nonostante, a mio modesto parere, quegli apparenti contrasti io nel D’O ho provato a comporli in una cucina leggera ma gustosa, sana ma varia, semplice ma equilibrata. Insomma, perché mai non sarei dovuto andare in TV a raccontarla?
And it is being like this, observing, thinking, listening (ok, maybe some time even protesting: I said a sponge, not an amoeba) that I came home with a few thoughts about the experience.
Cooking programs, programs with cooking, programs from the kitchen are multiplying like rabbits: at any time of day, on any channel, it’s possible to watch something that has to do with cooking, from competitions to advice, from secrets to amazing lunches. Sometimes, when I talk to kids that want to become cooks, what I oen say is, that it’s great if there is a medium that lets people know about and lets our ideas circulate, but to not be mistaken: the true (and difficult) job of a cook isn’t the one you see on television. Anyway, if I weren’t the fan that I am, I would make the comment that on TV, cooking beats soccer 4 to 1… …But TV is not only full of cooking programs: there are a large number of programs about the right diet, the ideal shape, the perfect physique. So it’s a three-way game: on TV, cooking, soccer and diets. I ask myself, seeing how all these multiply, how there can be such a passion for the pleasures of the table and for being in shape at the same time. Maybe there is a greater hunger for well-being (some people, pushing things one step further, talk about the search for happiness) than for recipes or dietary tables. But I have said it too many times already: I am a cook, not a sociologist, and I will let go of who is looking for what. That notwithstanding, in my modest opinion, I tried to bring together these apparent contrasts in D’O in a cuisine that is light but flavourful, healthy but varied, simple but balanced. So, why shouldn’t I have gone on TV to talk about it?
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Quando la banana diventa scura si tende a buarla via. Io la compro e la faccio invecchiare leggermente. Questa fase diventa parte integrante del procedimento e permee di valorizzare un prodoo fresco concentrandone il profumo ed esaltandone la dolcezza che va poi a contrastare il salato, in quell’equilibrio che è alla base della Cucina POP.
Banana invecchiata (per 4 persone) 2 banane F.lli Orsero 2 g di sale di Maldon
Far invecchiare le banane alla temperatura di 13 °C per 10 giorni. Tagliare le banane trasversalmente ricavando quaro porzioni e servirle con scaglie di sale di Maldon.
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When bananas go brown we tend to throw them away. Instead, I buy them and age them slightly. This phase becomes an integral part of the procedure that showcases a fresh product by concentrating its perfume and intensifying its sweetness, in contrast with the flakes of salt; that balance of contrasts that is the basis of Cucina POP.
Aged Banana (serves 4) 2 bananas F.lli Orsero 2 g Maldon salt
Age the bananas at 13°C for 10 days. Cut the bananas obliquely to make four portions and serve with flakes of Maldon salt.
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Fare il pieno di ascolti o di tavoli? ,
(Insomma, è nato prima l uovo o la gallina?) Filling Tables or Making Audience? (In other words, what came first, the chicken or the egg?)
About how difficult it is to make a reservation at D’O just about everything has been said. That it is impossible. It isn’t possible that a restaurant has a waiting list so long, with reservations for the next year. Not at Cornaredo, not with a place where it is so hard to park, not with an entrance hidden on a lile side street. That it is incredible. That it is not believable that a restaurant is always full for the next twelve months, yes, that story about an infinite waiting list and of the phone always being busy is a question of marketing, not about food service, and that Oldani, more than cooking for us is trying to mislead us. That it isn’t fair. It isn’t fair to have to wait so long to eat in a place that, no maer how elegant or with a cuisine d’auteur, has an ambience that is so very, very simple… It’s…inevitable. That is, it is obvious that a cook that goes on TV has a full restaurant and is fully-booked. What am I supposed to say? To the first two i’s I could answer with the reservation book of D’O, but I hope that you believe me even if I do not photocopy or reproduce it here. However, you must agree you would have to be crazy to do marketing with a full agenda yet have an empty restaurant, just to use up a pen and get yourself talked about. To answer the third i will take a lile more effort, but you can’t eat my descriptions so you will just have to trust those who have eaten at my place. I can only say – but maybe I have already said this – that I like to win, and at D’O I try to win
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Della difficoltà di prenotare al D’O hanno detto tuo. Che è impossibile. Cioè, non è possibile che un ristorante abbia una lista d’aesa così lunga, con prenotazioni da qui a un anno. Non a Cornaredo almeno, non con un parcheggio difficile, non con un’entrata nascosta dentro una viea nascosta, non in un locale così modesto. Che è incredibile. Cioè, non è credibile che un locale sia già pieno per i prossimi dodici mesi, sì, insomma, quella storia della lista infinita e del telefono sempre occupato è una questione di marketing, non di ristorazione, e anche quell’Oldani lì, più che darci da mangiare ci vuole abbagliare. Che è ingiusto. Cioè, non è giusto dover aspettare così a lungo per andare a mangiare in un posto che, per quanto elegante e con cucina d’autore, è un ambiente così semplice ma così semplice… È…inevitabile. Cioè, è ovvio che un cuoco che va in TV poi abbia il ristorante pieno e prenotatissimo. Che dire? Alle prime due i potrei rispondere solo con l’agenda delle prenotazioni al D’O, ma spero andiate sulla fiducia anche se non la fotocopierò e non la riporterò qui di seguito. Comunque dovrete convenire che bisogna essere degli imbecilli a pensare di fare marketing con l’agenda piena e il ristorante vuoto, così, giusto per consumare la biro e far parlare di sé. La terza i mi impegna già un po’ di più nella risposta, ma anche qui non posso farvi mangiare le mie chiacchiere, quindi dovete andare sulla fiducia di chi a mangiare da me ci è venu-
to davvero. Io posso solo dire – ma forse l’ho già deo – che mi piace vincere. E al D’O cerco di vincere in tanti modi. Con la professionalità anche dove c’è un’entrata nascosta in una vietta nascosta. Con l’eleganza anche dove regna la semplicità. Con una cucina di alto livello anche in un piccolo paese. Con il perfezionismo (chi lavora con me sa bene quanto io sia perfezionista) anche dove tuo sembrerebbe già perfeo. Gli stessi prezzi contenuti, nati dal calcolo e non certo solo dal cuore, derivano dal desiderio di essere apprezzato, di vincere, di non essere “messo al muro”. Nell’angolo sì, in quello ci vado volentieri, per osservare i miei ospiti, vedere se si sentono a loro agio, capire se gradiscono, cogliere cosa e come posso migliorare. Al muro no però, a quello faccio il possibile per non ritrovarmici. L’ultima i, inevitabile per chi si fosse perso nelle mie chiacchiere, mi trova…impreparato. Ma dai?!? Davvero qualcuno pensa che in questi tempi di fast food televisivo e non solo, quando capita sempre più spesso che una trasmissione venga chiusa prima ancora di partire, uno va in TV e riempie il ristorante per i dodici mesi successivi? Ma sul serio qualcuno pensa che bastino due o tre apparizioni per restare impressi nella memoria delle persone per un anno? Per undici anni? Magari suona strano, ma io credo che a pagare, nel tempo, siano la capacità e la costanza di meere nei piai tui i giorni qualcosa di buono, non l’exploit gastronomico di una sera in tv. In un certo senso, è anche il pensiero della mamma quando dice che “chi è bravo in cucina lo capisci nei giorni normali, mica la domenica!”. Lo dico senza assoluta certezza e senza presunzione: non sarà che sono andato in TV perché riempio il ristorante, e non viceversa? Mi rendo conto che può sembrare il vecchio irrisolvibile quesito dell’uovo e della gallina e, da cuoco, non posso che avere il mio particolarissimo punto di vista sia sull’uovo, sia sulla gallina. Ma andiamo, persino i concorrenti dei grandi fratelli devono tenerli in onda tue le ore di tui i giorni per farli ricordare almeno per un anno! È anche vero che loro sono lì a far passare il tempo, io invece cucino.
in many different ways. With professionalism even if there is a discreet entrance on a small hidden street. With elegance, even where simplicity reigns. With a high-quality kitchen even in a small town. With the perfectionism (those who work for me know how much of a perfectionist I am) even where everything already seems perfect. The same reasonable prices, born from calculation and not only from the heart, come from the desire to be appreciated, to win, and not to have “my back against the wall”. In the corner, yes: I am happy to go there, to watch over my guests, to see if they are at ease, if they are enjoying themselves, pick up on what and how I can improve. Not against the wall though, I do my best not to find myself there. The last i, inevitable for those who might have goen lost in my chaer, will find me…unprepared. Really? Does someone really think that in these times of fast-food television and not only, when it happens more and more oen that a program gets cancelled without even going on air, that you go on TV and fill the restaurant for the next twelve months? Does anyone really think that it is sufficient to appear two or three times to be remembered by the public for a year? For eleven years? It might sound strange, but I think that over time, the winning strategy is the ability and constancy to put something delicious on the plate every day, not the gastronomic feat of an evening on TV. In a certain sense, it is the same thing my mother means when she says “you can tell who is good in the kitchen on the normal days, not on Sundays!” I say that without absolute certainty and without presumption: couldn’t it be that I went on TV because I fill my restaurant and not vice versa? I know that it might seem like the old, unanswerable question about the egg and the chicken, but I cannot help having my own unique viewpoint about both the egg and the chicken. Who are we kidding, they even have to keep the competitors of Big Brother on TV at all hours every day for a year to just to get someone to remember them at least for a year! It is also true that they go on just to pass the time; I cook instead.
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Tutti insieme impensabilmente
Everyone Surprisingly Altogether
A dish that is black and blue32 , just for example, really black and blue, that could be also faithful to the principles of D’O and my POP philosophy. Puing everything together would be unimaginable: contrasts, colours, flavours, form, substance… They asked me to do an article about Calcio e Cucina, Soccer and Cooking, my two passions that start with C. I like challenges, and I would have accepted, just for the sake of trying. However, since I am very demanding, especially when it comes to taste, I usually like to succeed. The beginning, let’s call it the aesthetic side of this challenge, was not promising: as to where to find black, we all know where to…catch it…but blue in cooking is almost impossible to find. In other words, I would have run the risk that the black and blue would
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Un piao nero-azzurro, non tanto per dire, proprio nero e azzurro, che fosse anche fedele ai princìpi del D’O e a quelli della mia fi losofia POP. Come dire, tu i insieme impensabilmente: contrasti, colori, sapori, forma, sostanza… Me l’hanno chiesto per un servizio su Calcio e Cucina, le mie due grandi passioni con la C. A me le sfide piacciono, e avrei acceato anche solo per il gusto di provarci. Ma siccome in fao di gusto sono piuosto esigente, di solito ci provo anche per riuscirci. La partenza, chiamiamolo l’aspeo estetico della sfida, non promeeva niente di buono: finché si traa del nero, sappiamo tu i dove andarlo a…pescare, ma il blu in cucina è pressoché introvabile. In poche parole, il nero-azzurro rischiava di diventare marginale, messo lì tanto per meerlo, magari in un tovagliolo o in una posata. Ma c’erano altre componenti che rendevano appetitoso il tentativo, e tue avevano a che fare con la mia cucina: dovevo continuare a provare. Si traava di risolvere un contrasto, di meere insieme qualcosa che ancora non esisteva, e di restare nel POP naturalmente, mica di andare nell’Olimpo degli ingredienti. In poche parole, si traava di abbinare l’insolito, che non fosse troppo costoso e che facesse gol nel palato.
32. The colours of Davide’s favourite soccer team, Inter.
Lasciando lo stadio e tornando in cucina, la mia partita non cambia: il design è soltanto una parola se non serve a niente e a nessuno.
Leaving the stadium and going back to the kitchen, my game , doesn t change: design is only , a word and it isn t useful for anyone or any thing.
Insomma, ancora una volta non dovevo fermarmi all’estetica: all’estetica ci dovevo arrivare, ma non era da lì che dovevo partire. Dovevo partire dalla natura, casomai, e dalla stagione forse… In ogni caso, un bel match. Ma ecco che cocciutaggine e fi losofia POP si sono mescolate alla grande e hanno cominciato a lavorare dentro di me. A dire la verità, la fi losofia ha cercato uno schema e la cocciutaggine ha tenuto duro, in ogni caso hanno lavorato tue e due, e insieme. Finché non sono approdate al gol del novantesimo: la gelatina di fiori di borragine, direamente da Genova, come il bomber Pazzini. Pesce azzurro e borragine, fi losofia e cocciutaggine. Gli ingredienti stanno tui insieme impensabilmente, proprio come la corazzata multinazionale nero-azzurra, che mischia etnie e colori producendo un risultato entusiasmante. Lasciando lo stadio e tornando in cucina, la mia partita non cambia: il design è soltanto una parola se non serve a niente e a nessuno. E lo schema di gioco è sempre lo stesso: senza estetica potrei anche vivere, ma senza etica proprio no, non ce la farei. Né a vivere, né a vincere.
have become marginal compared to rest of the dish, added for its own sake, maybe in a napkin or some cutlery. There were also other components that made this challenge “appetising” and all of them had to do with my cooking: I just had to keep on trying. It was a question of balancing contrasts, of puing things together that until now did not exist, to stay POP, obviously, it’s not like I had to climb the Mount Olympus of ingredients. In other words, it was a matter of combining something unusual, that was not overly expensive and that scored a goal as far as palate is concerned. In other words, once again I was not supposed to stop at just the aesthetics: I was supposed to arrive at something of aesthetic value, but that was not where I was supposed to start. I was supposed to start with nature, if anything, then maybe the season… In any case, it was a great game. But, that is how stubbornness and POP philosophy started to meld together and work inside of me. To tell you the truth, the philosophy tried to find a game plan and the stubbornness wouldn’t budge, so the two worked together. Until they scored a goal during the last minute of play: borage flower gelatine, directly from Genova, just like the “bomber” Pazzini. Bluefish and borage, philosophy and stubbornness. These ingredients go together unexpectedly, just like the multi-national nero-azzurro team mixes colours and ethnic groups and produces an exciting result. Leaving the stadium and going back to the kitchen, my game doesn’t change: design is only a word and it isn’t useful for anyone or any thing. The game plan remains the same: without aesthetics I could probably live, but without ethics no, I really couldn’t. I couldn’t live or win.
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Mangia come parli Partendosi di là e andando tre giornate verso levante, l’uomo si trova a Diomira, cià con sessanta cupole d’argento, statue in bronzo di tu i gli dei, vie lastricate in stagno, un teatro di cristallo, un gallo d’oro che canta ogni ma ina su una torre. Tue queste bellezze il viaggiatore già conosce per averle viste anche in altre cià. Ma la proprietà di questa è che chi vi arriva una sera di seembre, quando le giornate s’accorciano e lampade multicolori s’accendono tue insieme sulle porte delle friggitorie, e da una terrazza una voce di donna grida: uh!, gli viene da invidiare quelli che ora pensano d’aver già vissuto una sera uguale a questa e d’esser stati quella volta felici. Italo Calvino, Le cià invisibili
Che la mamma cucina bene perché, insieme al sale, nella pasta ci mee anche l’amore, lo sanno tui. Lo sanno perché, salvo tristi eccezioni, quell’amore lo hanno assaggiato. Insomma, quasi tu i lo sanno, ma non è detto che poi lo facciano. Se lo facessero – se nel ripieno insieme al formaggio meessero anche la passione –, significherebbe che io dovrei inventarmi un altro mestiere. In compenso, però, in circolazione ci sarebbe un mucchio d’amore in più distribuito qua e là, tra un piao e l’altro, sulle nostre tavole. Che il cibo del D’O sia buono (anche) perché noi della squadra oltre che funzionare stiamo bene insieme, è forse meno ovvio ma ugualmente vero. E mi piace soolinearlo ogni volta che posso. Una squadra che funziona è come la pasta con la giusta dose di sale, una squadra che sta bene insieme è come la pasta della mamma: la prima è “correa”, la seconda è anche buona. Parla come mangi. Ovvero bisogna dirla semplice per farsi capire, e non arzigogolare. Così è anche per l’alimentazione: apri la bocca, le avvicini la posata, me i il cibo in bocca…eccetera eccetera. Non ci vuole una laurea. Diverso è mangiare bene e gustare il cibo, ma questo è un altro capitolo. Meno noto e decisamente meno ovvio è il deo “Mangia come parli”, dove io intendo che un piao buono bisogna anche (de)scriverlo bene. Lo so, messa giù così è un po’ forte, ma la stempero all’istante. Non voglio certo dire che è sufficiente meere in fi la quaro belle parole perché un cibo abbia sostanza e gu-
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sto. Penso piuosto che per un cuoco in cucina valga quello che vale per lo scriore nel lavoro sulla pagina. Ed è proprio lo scriore a insegnarmi poche, semplici, regole. Una pagina armoniosa non ammee troppe ripetizioni, e se una ripetizione c’è deve avere il suo senso: di conferma, di ripresa, di sottolineatura. Una pagina ben scria è chiara, e quanto più è “nobile” tanto più è comprensibile. Non è “alto” ciò che capiscono in pochi, ma ciò che sa arrivare a tanti. Una pagina è gradevole quando suona bene, cioè quando le sue parti sono equilibrate e non ci sono parole o conce i così prepotenti da soffocarne altri. Una pagina è utile quando è precisa, cioè quando esclude il superfluo. Quando scrivo una ricea non è che sto lì a ripassare ogni volta queste regole, semplicemente scrivo secondo la logica con cui preparo i miei piai: niente ripetizioni se non hanno un senso, massima chiarezza nel riportare gli ingredienti – tui quelli che ci sono, ma solo quelli –, precisione nel descrivere traamenti e preparazioni. Me lo insegna lo scriore. Che ci sono scriure musicali e altre che lo sono meno. Ma soprauo mi insegna che se ho qualcosa da dire è probabile che sappia dirlo con precisione, se invece ho poco (o niente) da dire e quel poco non ce l’ho chiaro nemmeno io, non arriverà a nessuno, per quanto io lo ripeta, lo infarcisca o lo scriva con il pennarello a punta grossa.
Eat the Same Way You Talk Leaving there and proceeding for three days toward the east, you reach Diomira, a city with sixty silver domes, bronze statues of all the gods, streets paved with lead, a crystal theatre, a golden cock that crows every morning on a tower. All these beauties will already be familiar to the visitor, who has seen them also in other cities. But the special quality of this city for the man who arrives there on a September evening, when the days are growing shorter and the multicolored lamps are lighted all at once at the doors of the food stalls and from a terrace a woman’s voice cries ooh!, is that he feels envy toward those who now believe they have once before lived an evening identical to this and who think they were happy, that time. Italo Calvino, Invisible Cities
Everyone knows that their mother cooks well because she also adds love to the pasta when she adds the salt. They know that because, with a few sad exceptions, they have tasted that love. In other words, almost everyone knows it, but it doesn’t mean they actually do it. If they did – if in the filling, together with the cheese they also added passion –I would have to get myself another job. To make up for that however, there would be a huge amount of love in circulation, le, right and centre, between one dish and the next, on all our tables. That the food is good at D’O is (also) because as a team we work well together and we get along, is less obvious, but not for that, less true. I like to underline this every chance I get. A team that works well together is like pasta with the right amount of salt, a team that gets along is like your mom’s pasta: the first one is “correct” but the second one is delicious. Talk the way you eat. In other words, to be understood it is best to speak with simplicity and not over-elaborate. The same goes for food: open your mouth, bring your fork to your mouth, put your food in your mouth…etcetera, etcetera. It’s not rocket science. It’s a completely different thing to eat well and to savour food, but that is another, whole chapter. Less known and decidedly less obvious is the expression, “eat like you talk”, and by that I mean that a good dish should be described well too. I know, it sounds a lile extreme, but I‘ll try to smooth the edges right away. I certainly do not want to say that it is enough to string a few nice-sounding words together to give food substance and flavour. Rather, I
think that what is true for a cook in the kitchen is the same for a writer and the work they do on a page. It was a writer that taught me a few, simple basic rules. A harmonious page doesn’t allow for too many repetitions, and if there is one, it should be there for a reason: to confirm, to reiterate, to underline. A well-wrien page is clear and the more “noble” it is, the more comprehensible it is. Its loiness is linked, not to what only a few understand, but what is able to be understood by many. A page is enjoyable, pleasant when it sounds good, that is, when its parts are balanced and there aren’t any words that are presumptuous or drown out the other ones. A page is useful when it is precise, when it has cut away all that is superfluous. When I write a recipe I don’t go over the rules, I simply write according to the logic of my dishes: no repetitions if they aren’t useful, maximum clarity in writing down the ingredients – all the ones that are needed and not one more – precision in describing treatments and preparations. These are the lessons I have learned from writers. There are ways of writing that are musical and others that are not. But most of all, they teach me that if I have something to say it is highly probable that I will know how to say it precisely: if I have lile (or nothing) to say, and what lile to say I do have is not clear in my mind, then no one will get my message, no maer how many times I repeat myself, pad it or write it with a big, fat marker.
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Carota e cioccolato
(per 4 persone) Per la crema di carota 250 g di panna montata 100 g di centrifugato di carota 50 g di panna fresca 40 g di zucchero Eridania Zefi ro 3 tuorli 5 g di colla di pesce Per il biscoo di carota 50 g di farina Primitiva 100 Molino Pasini 50 g di farina di mandorle 50 g di zucchero Eridania Zefi ro 35 g di olio extravergine di oliva Carli 25 g di bucce di carota 2 g di sale fi no Per il sorbeo di carota 250 g di carote 125 g di acqua 60 g di zucchero Eridania Zefi ro 15 g di glucosio 2 g di Neutro (mix di farina di carrube per gelati) Per la finitura 4 sfere di cioccolato Ocoa, Cacao Barry temperato 30 g di mostarda di carota tagliata a cube i 20 g di carota viola tagliata so ile
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Per la crema di carota Portare a bollore la panna fresca con il centrifugato di carota, intanto mescolare i tuorli con lo zucchero. Versare il centrifugato sulle uova e mescolare, completare la salsa inglese cuocendo fino a 82 °C. Unire la colla di pesce ammollata in acqua fredda e far raffreddare. Incorporare la panna montata e tenere da parte. Per il biscoo di carota Frullare le farine con le bucce di carota, unire lo zucchero e il sale. Aggiungere l’olio a fi lo mescolando delicatamente. Stendere l’impasto su una teglia da forno e cuocere a 160 °C per 15 minuti. Togliere dal forno, lasciare intiepidire e frullare fino a oenere una polvere. Per il sorbeo di carota Tagliare le carote a fe ine soili e cuocerle in acqua. Unire gli altri ingredienti e frullare il tuo. Filtrare il composto e mantecare in gelatiera. Per la finitura Disporre la crema di carota nel piao, coprire con il biscoo sbriciolato e completare con il sorbeo, la mostarda, la carota viola e la sfera di cioccolato.
Carrot and Chocolate
(serves 4) For the carrot cream Bring the liquid cream to the boil together with the carrot juice. In a bowl, mix the egg yolks with the sugar. Pour the hot cream and carrot juice mixture over the egg mixture, mixing thoroughly as you pour. Pour into the pot and put back on heat. Complete as a crème anglaise, bringing it to 82°C. Add the gelatin that has been soaked in cold water and mix. Let cool. Incorporate the whipped cream and keep cool. For the carrot biscuit Blend the flours with the carrot peel in a mixer; add the sugar and salt. Add the olive oil slowly, mixing delicately. Spread the dough on a baking sheet and bake at 160°C for approximately 15 minutes. Remove from the oven, let cool, then blend the biscuit to obtain a powder. For the carrot sorbet Slice the carrot finely and cook in the water. Add all the other ingredients and blend at high speed. Filter the mixture and make the sorbet in an ice cream machine according to manufacturer’s instructions. To finish Place some carrot cream in a shallow bow, cover with the powdered biscuit and complete with the sorbet, carrot mustard, julienned purple carrot and the chocolate sphere.
For the carrot cream 250 g whipped cream 100 g fresh carrot juice 50 g liquid heavy cream 40 g sugar Eridania Zefi ro 3 egg yolks 5 g gelatin sheets For the carrot biscuit 50 g flour, Primitiva 100, Molino Pasini 50 g almond flour 50 g sugar Eridania Zefi ro 35 g extra virgin olive oil Carli 25 g carrot peel 2 g fi ne salt For the carrot sorbet 250 g carrot 125 g water 60 g sugar Eridania Zefi ro 15 g glucose 2 g Neutro (locust bean gum powder for gelato) To finish 4 chocolate spheres, made with tempered Ocoa, Cacao Berry 30 g carrot mustard 20 g purple carrot julienne
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Non è tutto in quello che vedi, ma in come la vedi (Altrimenti visto come , “Il LA del D O”, ovvero che cosa si vede quando si entra) ,
It s not in Everything that you See, , but it s in How you See it ,
(Or, seeing “the LA in D O”, or in other words, what you see when you come inside)
Non posso negare che io la vedo soprauo così. 33
33. Disegno di Bruno Cannucciari. 34. Drawing by Bruno Cannucciari.
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I must admit I can’t help seeing it like this. 34
E nonostante le apparenze, nella pagina a fianco, sembra dicano il contrario, non mi piacciono per niente gli occhiali che deformano la realtà (leggasi “mi tengo alla larga dalle passioni che diventano ossessioni”). Ma guai a toccarmi le passioni. Così come non mi piace chi deforma, stravolge, alimenta visioni. Ma guai a togliermi le mie visioni, intese come sogni che ho dentro o modi di vedere quello che ho intorno. Un assaggio di questo mio modo di vedere le cose, chi viene al D’O lo vede appena entra. Alle pareti. Domani non so che cosa ci sarà sulle pareti del mio ristorante, ma oggi c’è scria una storia. Faa di persone e cipolle, di maestri e zafferano, di squadra e patate. Lo vedi subito di che cosa è faa la fi losofia POP, una foto dopo l’altra, una frase in fi la all’altra: È solo una cipolla…ma ci commuove. La soile leggerezza del gusto. Essere sempre sul pezzo…di carne. Pensare, selezionare, agire! Il profumo della costanza. La gerarchia in allegria… …e tui gli altri capitoli che ho voluto raccontare araverso molte immagini e poche parole. Sca i che amalgamano passato e presente, persone e gesti, pensieri e azioni. Una sequenza di foto che dà il LA al D’O. E che – in un modo tuo suo – dà ragione ancora una volta all’amico Ligabue. Già. È tuo in come la vedi.
Appearances notwithstanding, the glasses on the le seem to say the opposite; I don’t like those glasses with lenses that deform reality (read: I stay far away from passions that become obsessions). But don’t you dare touch my passions. I also don’t like people who distort, turn upside down or twist points of view. But don’t anyone dare take away my visions, that I mean as dreams that I have inside or ways of seeing what is around me. Those who come to D’O get a taste of the way I see things as soon as they walk in the door. On the walls. Tomorrow I don’t know what will be on the walls of my restaurant, but today there is a story wrien on them. A story of people and onions, of teachers and saffron, of the team and potatoes. You see right away of what POP philosophy is made, one photo aer another, one phrase aer another: It’s only an onion…but it moves us. The subtle delicacy of its flavour. To always be ready…with a piece of meat. To think, to choose, to act! The perfume of perseverance. The happy hierarchy… …and all the other chapters that I want to tell through images and very few words. Snapshots that amalgamate the past and the present, people and gestures, thoughts and actions. A sequence of photos that give the LA to D’O. And that – in a way all of its own – proves thatLigabue was right. Right. It’s all in how you see it.
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Quando ho immaginato un ristorante, , l ho disegnato prima dentro di me, ed era come una casa: per dimensioni, Colore, Calore.
Comodità con le C di Calore e Colore Comfort with Warmth and Colour
I think of hospitality as place inside myself, even before the room of a house or the wing of a restaurant. It still remains a place that, to become an actual physical space outside myself, I feel needs to exist within me first. When that exists, that is what I call hospitality. It is only an “interior” hospitality that is able to translate itself into hospitality, and therefore into comfort, but in my kind of comfort. A hospitality made of lace, splendour and silver is in danger of becoming merely appearance, an image, and NOT the comfort I mean.
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Penso all’ospitalità come a un luogo interiore prima ancora che come alla stanza di una casa o all’ala di un ristorante. Pur sempre di un luogo si traa, solo che, per diventare fisico e fuori da me, sento che deve prima esistere dentro di me. E quando esiste, io lo chiamo accoglienza. È solo l’accoglienza interiore che può tradursi in ospitalità e quindi in comodità, ma in comodità come la intendo io. L’accoglienza tua ricami, sfarzi e argenterie rischia di essere soltanto immagine, pura apparenza, e comodità come NON la intendo io. Quando ho immaginato un ristorante, l’ho disegnato prima dentro di me, ed era come una casa: per dimensioni, Colore, Calore. Così è stato per i tavoli, che ho voluto in un numero, in una forma e in una disposizione che garantissero una tranquilla convivialità. E anche quando si è traato di corredare i tavoli, mi sono rimesso in sintonia con la mia accoglienza interiore, e cioè di nuovo con casa mia. Ecco perché è stato facile scegliere la semplicità. Poi, sulla stessa lunghezza d’onda, e via via che il D’O acquistava sempre più personalità, sono arrivati Land e Sky, Verre D’O e Passepartout. Piai per mangiarci dentro, certo, ma anche pensati con una precisa visione della tavola, che elimina il superfluo e fa spazio all’utile.
Bicchieri per bere, è ovvio, ma anche per guardarsi e parlarsi senza “perdersi di vista”, calici il cui stelo si accorcia, ma per aggiungere qualcosa, non per toglierlo. Posate per accompagnare il cibo alla bocca (per fare cosa, sennò?), ma con praticità, e non per forza con la giungla di acciai e di argenterie che si affollano intorno al piao. A casa, quello che per me è il luogo dell’accoglienza per eccellenza, funziona così: lo spazio offerto ai commensali è per stare bene insieme, non elegantemente stre i fra l’assalto delle portate e quello delle posate. Ed è a casa – quella che per me è la fonte a cui aingere continuo insegnamento – che ho imparato che semplificare è sinonimo di arricchire quando lo fai perché vuoi bene alle persone e vuoi prenderti cura di loro. Su questa strada sono arrivato alla sedia Miaccomod’o, una delle mie più recenti semplificazioni. Una sedia prima di tuo per sedersi, ci mancherebbe, ma guarnita di tasche e “appendiabiti”, perché si mangia meglio se alleggeriti di fastidiosi ingombri. L’ho visto, lo vedo. Sinceramente, io non lo saprei spiegare come nascono “chimicamente” i valori, ma so riconoscerne uno quando lo incontro, anzi più d’uno, perché li ho respirati dentro casa: semplicità, efficacia e funzionalità. Che, tradoo in oggei per e intorno alla tavola, significa: facili da usare, pratici e utili.
When I imagined a restaurant, I drew it inside myself first, and it was like a house: for its size, Colours and Warmth.
When I imagined a restaurant, I drew it inside myself first, and it was like a house: for its size, Colours and Warmth. It was the same way with the tables I wanted in a specific number, in a specific shape and arranged in such a way as to guarantee a certain, comfortable conviviality. When it came to choosing the table seings, I reconnected with my interior concept of hospitality, that is to say, with my home. That made it easy to choose simplicity. Then, as D’O’s personality grew more and more, Land, Sky and Passepartout arrived. Plates to eat on, certainly, but also conceived with a precise view of the table that eliminated the superfluous and made space for the useful. Glasses to drink with of course, but also to be able to see each other and speak to each other without “losing sight” of the other person; stems that are shortened to add, rather than subtract. Cutlery that accompanies food to your mouth (if not for that, for what else?), but with practicality, not with a jungle of steel or silver crowded around the plate. At home, the place for hospitality par excellence, it works like this: the space is offered to your guests so you can be comfortable together, not elegantly besieged by an assault of plates and cutlery. And it is at home – that for me is a source I continuously learn from – that I have learned that to simplify is synonymous with enrichment, especially when it is done because you care about people and want to take care of them. It is following this path that I arrived at the chair, MiaccomoD’O, one of my most recent simplifications. The chair is, first and foremost, to sit on of course, but it is garnished with pockets and a “coat hanger”, because
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it is more enjoyable to eat without a bunch of stuff in your pockets. I’ve seen it and I see it all the time. I sincerely wouldn’t know how to explain “chemically” how values are born, but I do know how to recognize one when I see one, more than one in fact, because this is what I grew up with at home: simplicity, efficiency and functionality. These values, translated into objects on and around the table mean things that are easy to use, practical and useful. Thanks to the home I have inside me, I know that before creating objects for other people, my objects are born within me, from these principles. I also know, because this is what I was taught in that place called hospitality, that beauty is not the starting point but the destination, it is not just good form but something that makes you feel good. I learned this as a child, at the same time I was learning my verbs. Today, no longer a boy and in a time in which the idea of beauty is oen reduced to a mirror in which to see yourself, I see more clearly the point of it: in the simple but substantial difference between It is convenient for me, it is convenient for you, it is convenient for them… and
I make myself comfortable, you make yourself comfortable, they make themselves comfortable, we make ourselves comfortable Because behind all these words, is more than grammar.
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E grazie a quella casa che ho in me so che, prima di diventare oggei per gli altri, i miei ogge i devono nascere da quei princìpi. So anche, perché me l’hanno insegnato, che in quel luogo chiamato accoglienza la bellezza è il punto non di partenza ma d’arrivo, non è solo bella forma ma anche qualcosa che fa stare bene. L’ho imparato da bambino, nell’età in cui mi hanno insegnato anche a coniugare i verbi. E oggi, non più bambino e in un’epoca in cui l’idea del bello si riduce spesso a uno specchio in cui guardarsi, lo vedo con maggiore chiarezza dove sta il punto: in una semplice ma sostanziale differenza, quella che c’è fra Mi fa comodo, Ti fa comodo, Gli fa comodo… e
mi accomodo, ti accomodi, si accomoda, ci accomodiamo… Perché dietro alle parole non c’è soltanto la grammatica.
Identità...noiose Boring Identities
The international congress that has been held in Milan for the last few years is called “Identità Golose”35 and it is deserving of the name it has. But a lile bit of word association came to mind and the word “noiose” (boring) popped into my head. That has nothing to do with cooking. I am referring to bloggers who don’t sign their name, that frequent the internet, definitely, but are without a real identity or, as I prefer to say now that I am learning to manage my anger and disappointment beer, with these boring “identities”. I have tried to make sense of the existence of critics about the shape of the plate, the height of the chair, the denseness of a cream, the gold buons on a client’s jacket…those critics that, once they have expressed their very important opinion on the internet, do not sign their name. To understand it beer, I went through the blogosphere and its inhabitants and I apologize that it was only summarily. If I am not mistaken, a blog is a website, run by a person (a blogger) or a company, in which opinions, thoughts, reflections and considerations are published more or less frequently in a sort of diary. Again, if I am not mistaken, with respect for others – even if they are the subject of criticism. Of course everyone knows that in the blogosphere there are different places: humourous, ironical, socially commied, social, themed and as many other themes a you can think of… They are welcome to it! I’m a cook and I leave others the right to say how well I do it or not. However, even though I recognize their right to free expression and the democratic potential of the web, I haven’t been able to
Quelle del congresso internazionale di cucina che si tiene a Milano ormai da diversi anni in realtà si chiamano golose, “identità golose”. E meritano il nome che portano. Ma per associazione d’idee mi sono venute in mente quelle noiose. Niente a che vedere con la cucina. Mi riferisco ai blogger che non si firmano, frequentatori della blogosfera a pieno titolo, certo, ma tipi senza identità o, come preferisco dire adesso che sto imparando a gestire meglio rabbia e delusione, con un’identità… noiosa. Ho provato a dare un senso all’esistenza di questi criticoni della forma del piao, dell’altezza della sedia, della densità della crema, dei booni dorati sulla giacca di un cliente… di quei criticoni, dicevo, che dopo aver postato in rete la loro preziosissima opinione non la firmano. E per capire ho passato in rassegna, chiedo scusa se in modo approssimativo, la blogosfera e i suoi abitanti. Se non mi sbaglio, un blog dovrebbe essere un sito web, gestito da una persona (un blogger) o da un ente, in cui si pubblicano più o meno periodicamente, come in un diario, opinioni, pensieri, riflessioni, considerazioni. E, sempre se non mi sbaglio, nel rispeo del prossimo – anche se oggeo della critica. Si sa, nella blogosfera ci sono luoghi differenti: umoristici, autoironici, impegnati, sociali, tematici e chi più ne inventa, più ne…aggiunge! Ben vengano, io faccio il cuoco, lascio agli altri il dirio di dire come lo faccio.
35. Gourmet identities.
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find a substantial reason for someone to remain anonymous aer having criticised the fact that I wasted time washing coffee cups or some other aspect of my work that they consider unimportant but that for me is very important. No maer how much I try, I cannot compare the anonymity necessary for the circulation of certain types of messages in critical periods for a democracy with the anonymity of someone who gets their kicks by making snide remarks about someone else’s work. In other words, let’s be honest, what bale for freedom will a blogger who speaks badly of a restaurant and then won’t sign their name ever win? Not wanting to compare them to someone who truly does risk their life to inform or help others – out of respect for those who have done this in the past and those who continue to do so – I would like to ask: what risk will this anonymous columnist ever run? Do they fi nd satisfaction in a purely, but rigorously anonymous, blowingoff of steam? Are they satisfied by spreading gossip with the scope of hurting others? Do they hope to save some poor, ignorant person from a lunch or dinner that would offend their palate as much as it does their own? I would like to make it clear that I am not criticizing criticism, in particular, the right to a negative criticism. What I would like to know is if a criticism is not stronger, more forceful, if it bears the name of the person who wrote it? If a thought, an opinion or a suggestion, are not more useful if they are followed by the name of the person who thought them. Where is the value in a freedom that does not contemplate the assumption of one’s responsibilities? I “sign” my dishes, for beer or worse. I assume the responsibility to say that
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Ma pur riconoscendo il dirio alla libera espressione e la potenzialità democratica del web, non sono riuscito a rintracciare il significato profondo di chi resta anonimo dopo aver polemizzato sul fao che io abbia perso tempo a lavare le tazzine o su altri aspe i del mio lavoro da lui considerati marginali ma per me importanti. Per quanto mi sforzi, non riesco proprio a paragonare l’anonimato indispensabile alla circolazione di certi messaggi in periodi critici per la democrazia con quello di chi trova soddisfazione nello sfornare baute acide sul lavoro altrui. Insomma, diciamolo, ma che baaglia per la libertà vincerà mai il blogger che dice male di un ristorante e poi non si firma? Non potendo – per rispeo a chi lo ha fao e lo fa sul serio – paragonarlo a chi rischia la pelle per informare o aiutare il prossimo, mi domando: cosa rischierà mai questo anonimo opinionista? Trova soddisfazione nel puro ma rigorosamente anonimo sfogo? Si accontenta di meere in giro voci con l’unico scopo di fare danno ad altri? Spera di salvare i poveri ignari da un pranzo o da una cena che non hanno il dirio di oltraggiare altri palati oltre al suo? Sia chiaro che non è la critica che sto criticando, tantomeno il dirio a quella negativa. Mi domando semplicemente se una critica non è più forte e più incisiva quando porta la fi rma di chi la fa. Se un pensiero, un’opinione, un suggerimento non sono più utili quando sono seguiti dal nome di chi li pensa. E mi domando: dove sta il valore di una libertà che non contempla anche l’assunzione di responsabilità? Io “firmo” i miei pia i, nel bene e nel male. Mi assumo la responsabilità di dire che ho fao io qualcosa che gli altri potranno apprezzare o criticare. E sinceramente non vedo dove sta il senso (e meno ancora il coraggio) di sputare addosso a qualcuno se poi si serrano le labbra quando è il momento di presentarsi. Sì, insomma, di dire “guarda che sono io quello che ha diffuso nella blogosfera la storiella dei booni d’oro sulla giacca di un tuo cliente”, ovvero la notizia che tui stavano aspeando. Ma sempre in nome di quella ragionevolezza che mi sono imposto di frequentare di più e meglio nella maturità, mi sono chiesto se sono io che non capisco o che, peggio, non so acceare le critiche. E così ho pensato che forse sono anche i tempi che fanno le persone: in un’epoca in cui l’individualità diventa solo una somma di gusti e puoi entrare nel
web per personalizzare tuo, meendo il tuo nome su una magliea ma anche sostituendolo a quello del protagonista di un romanzo famoso o di un brano musicale, non è escluso che si confondano individualismo e bisogno d’identità. Come non è da escludere che si scambi il provincialismo con la tradizione, l’essere con una maniera di essere e il bisogno smodato di non confondersi con l’essere unici e speciali. In fondo, che cosa c’è di più sicuro per non confondersi dell’apporre una firma soo i messaggi che poi si lanciano in rete nella speranza, legiima, che si moltiplichino? Non sono certo io a dirlo, lo scrivono gli esperti: i social network sono prima di tuo elenchi di gusti. E allora firmiamoli questi elenchi di gusti, mica stiamo lavorando per la rivoluzione! Non mi faccio paladino della mia categoria, tantomeno di altre categorie, credo che ciascuno sia in grado di difendersi da solo. E poi in fondo ci sono cascato anch’io – ma per fortuna sto imparando la lezione, o almeno spero. Continuo a credere nel potenziale democratico del blog, ma rifiuto l’uso scorreo che se ne fa quando si spinge l’acceleratore della polemica e del fraintendimento solo per conquistarsi nuovi leori. Il fao è che prima questi anonimi mi facevano solo arrabbiare, adesso mi annoiano anche un po’. Insomma, parlo con te: ho capito che di mestiere fai il blogger, ma se mi dici anche come ti chiami, ci siamo presentati tui e due. E invece che guardarci allo specchio o ammirare ciascuno il proprio ombelico, magari ci guardiamo negli occhi. Per quanto virtuali.
I made something that others can appreciate or criticize. I truly do not see the sense (and even less so, the courage) in denigrating other people, then keeping your mouth closed when it’s time to say who you are. “Look, that was me that put that story out into the blogosphere about the gold buons on your client’s jacket”, in other words, the news everyone was waiting for. In the name of the good sense – that I have tried use more and more as the years go by – I asked myself if I am incapable of understanding or if I am unable to accept criticism. That is why I thought that maybe it’s the times that make the person; in an age where individuality is merely a sum of different tastes and you can go on the web to personalise everything, by puing your name on a t-shirt, or even substituting the name of the protagonist of a famous book or a song with yours, it could be that individualism is mistaken for a need for identity. It is also not to be excluded that provincialism could be confused with tradition; being with a manner of being and an unbridled need to stand out with being special and unique. In the end, what beer way to make sure you are not lost in the group than by signing your name at the end of the messages that you send out onto the web, with the legitimate hope that they are shared and multiplied? I am not the one who says so; the experts do: social networks are first and foremost a list of preferences. Then why not sign these lists: we’re not trying to incite revolution! I am not the champion of my category, or of any other for that maer; I believe that everyone has the ability to defend himself. I have made mistakes too – but luckily I have learned my lesson, or at least I hope so. I continue to believe in the democratic potential of blogs, but I am against the opportunism of controversy and misunderstanding merely to gain readership. In the beginning, these anonymous writers used to make me angry, now they only bore me. In other words, I talk to you: I understand that you are a blogger by profession, but if you also tell me what your name is, then we have both introduced ourselves and instead of each of us merely looking at ourselves in the mirror or staring at our own belly buons, maybe we could look each other in the eye – virtually.
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Il doppio senso per me sta nel fatto che anche la vita, come la cucina, è fatta di temperature.
Scottature da mettere a fuoco
Getting my Fingers Burned
Obviously people have asked me if I have ever burned my fingers. “More morally than physically,” is my usual answer. But saying it like that might make it sound like a chef’s typical complaint and not the double meaning I mean to give it. The double meaning for me is that life, just like cooking, is made of temperatures. Some people warm you up, while others are ice cold and are capable of “freezing” your house and your life.
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Me l’hanno chiesto, è naturale. Mi hanno chiesto se ho mai preso scoature. “Più morali che fi siche,” ho risposto io. Ma deo così sembra più il lamento dello chef che la risposta a doppio senso che intendevo dare io. Il doppio senso per me sta nel fao che anche la vita, come la cucina, è faa di temperature. Certe persone ti scaldano proprio, mentre altre ti congelano la casa e la vita tanto sono fredde. La minestra a qualcuno piace e a qualcun altro no, ma nessuno ama quella riscaldata. Non parliamo poi della solita minestra. Ci sono amicizie tiepide, amori torridi e vite bruciate; emozioni bollenti, risposte gelide, roure brucianti. E ci sono le scoature. Anche quelle, si sa, variano per grado, intensità e conseguenze. Se con la sua domanda il giornalista intendeva mettere in dubbio che un cuoco esperto possa scoarsi, magari evitando con qualche trucco i fuochi aentatori, mi dispiace ma lo devo contraddire: le mani sul fuoco si scoano, a chiunque appartengano le mani. Non ci sono trucchi.
Se invece la domanda si riferiva alle scoature della vita, ammeo che anche in quel campo non mi sono fao mancare niente, e soo nessun punto di vista: dolore, grado e cicatrici annesse. Ho incassato fregature, ricevuto delusioni, preso ao di strappi e anche di roure definitive. Il cuore, un po’ come la pelle, le ha sentite più o meno forti a seconda dell’età, del momento e della forza…dei fuochi. Raffreddare quelle profonde mi ha dato sollievo momentaneo, ma più erano profonde e più tornavano, nel tempo, a farsi sentire. Nel tempo o con il bruo tempo, come dicevano le mamme parlando delle vecchie cicatrici che si risvegliano con il vento o con la pioggia. Certo, so di averne procurate anch’io di scoature, non le ho solo ricevute. Ma non è una consolazione e tantomeno un sollievo per me, casomai è qualcosa che rende le scoature subite più difficili da guarire. Non so se ho risposto alla sua domanda, signor giornalista. Quello che volevo dire, comunque, è che non solo mi sono scoato anch’io, ma sono pure rimasto scoato, dove per “rimasto” intendo proprio quanto di più popolare si intende quando si dice “rimanere scoati”, e cioè che ci sono cicatrici che di tanto in tanto tornano a farsi sentire e altre che non hanno mai smesso di pizzicare. Eppure, glielo assicuro, il controllo dei fuochi, la pulizia e la sicurezza sono all’ordine del giorno nel mio lavoro.
The double meaning for me is that life, just like cooking, is made of temperatures.
Some people like soup and some don’t, but no one likes leovers. Not to mention the same old thing: “la solita minestra”. There are lukewarm friendships, torrid loves and lives that are burnt out; heated emotions, cold answers, break-ups that sting. And there are setbacks that burn. As you know, the degree can vary greatly, as well as the intensity and consequences. If by this question, a journalist tries to imply that professional cooks don’t burn themselves and that they have some magic trick to avoid the flames, I am sorry to disappoint them: hands get burned, it doesn’t maer to whom they belong. There are no tricks. On the other hand, if the question refers to ge ing burned in life, in that case, I haven’t missed out on anything: pain and scars of all kinds included. I have been cheated, disappointed, gone through definitive break-ups and been jerked around. The heart is a lile like skin; it gets burned more or less depending on age and…how hot the fire is. Cooling off the deepest burns gave me temporary relief, but the deeper they were the more oen they returned over time. Over time or when the weather gets bad – in the same way moms talk about old scars that act up on windy or rainy days. Of course I too have done my fair share of hurting others, I haven’t just been on the receiving end. It isn’t a consolation nor does it give me a feeling of relief, just the opposite: it makes the wounds I have even harder to bear. I don’t know if I have answered the journalist’s question. What I wanted to say, however, is that I have not only burned myself but I have also been burned, and by that I mean it in the colloquial way. These burns bother me from time to time and some have never stopped hurting. I can promise you that checking the flames, cleanliness and safety are part of my daily routine.
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Il tempo giusto – il tempo che ci vuole – è un rapporto tra diversi valori: temperature, attese, misure.
Per ogni cosa ci vuole il suo tempo Everything Needs the Time it Takes
Time is a word that has too many meanings for only one book. Especially this book, in which I have already used the word “right” too many times. Because that is what is needed – the “right” amount of time, not a minute more or a second less. Yes, but time calculated from what moment, measured by whom and right for what? Maybe the best thing to do is start with a pizza. Pizza: the delicious ones they make in Naples is a synthesis of what I mean – without using precision instruments – what I call “right” when speaking about time. For a start, the pizzas they serve in Naples are generally a lile smaller than pizzas served elsewhere. This does not mean that there is less tomato or pizza dough, or less mozzarella: it simply means that the crust is thicker around the edge. The crust isn’t too large and that means the entire pizza can be eaten while it is still hot, instead of geing half way through and finding mozzarella the consistency of chewing gum. Maybe it is also running to get there so that your pizza doesn’t get cold.
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Tempo è una parola che ha troppi significati per un libro solo. Specialmente per questo libro, dove ho usato già troppe volte la parola giusto. Perché sarebbe proprio quello il tempo che “ci vuole”: il tempo giusto, non un minuto di più, non un secondo di meno. Già. Ma calcolato a partire da quando, e misurato da chi, e giusto per cosa? Forse è meglio che cominci dalla pizza. È lei, la buona pizza che fanno a Napoli, che sintetizza quello che – senza ricorrere a strumenti di precisione – io chiamo giusto quando parlo di tempo. Per cominciare, la pizza che fanno a Napoli è più piccola delle pizze che mediamente vengono servite. Ma questo non significa che ci sia meno impasto o meno pomodoro, o meno mozzarella: semplicemente, il bordo è più alto. La cornice non troppo grande consente di mangiare tua la pizza calda, anziché arrivare a metà che la pasta è fredda e la mozzarella un chewing-gum. E magari arrivarci correndo, per paura – appunto – che la pizza si raffreddi. Il tempo giusto, se parliamo di pizza, non è solo il tempo di coura, che ovviamente è
fondamentale, e nemmeno solo quanto tempo ci mei a mangiarla, che naturalmente è importante. Non sono nemmeno gli altri tempi intermedi: preparazione, traamento e conservazione degli ingredienti, servizio – tui tempi da amministrare con cura, è ovvio anche questo. Il tempo giusto – il tempo che ci vuole – è un rapporto tra diversi valori: temperature, attese, misure. E non è un numero assoluto, ma quello che meglio esprime la relazione che si stabilisce fra tui quei valori. Il tempo giusto è un ritmo. Quello che ti consente di assaporare, di gustare fi no in fondo, di “fermare” il piacere di quello che stai facendo. Lo stesso vale per il servizio. Il tempo giusto, quello che ci vuole, deve rispeare il ritmo di chi – a tavola – ama essere servito senza fiato sul collo ma anche senza aese sfibranti. Anche il tempo che dedichi ai clienti è un rapporto: tra efficienza, osservazione, cura. E tuo questo, almeno per me, è già scrio in quella pizza. È scrio che il tempo giusto viaggia parallelo al gusto. Non per dire che tui i tempi vanno bene, purché ci garbino o seguano il nostro ritmo. Ma per suggerire che è più proficuo studiare rapporti e relazioni che numeri assoluti. Suggerirlo, almeno per quanto riguarda quella fea di tempo che è in nostro potere controllare. Perché poi c’è anche quell’altro tempo, quello che scade nostro malgrado. La pizza, dicevo…meglio la pizza.
The right time, if we are talking about pizza, isn’t just the cooking time – that is obviously fundamental, and it is not even the time it takes to eat it, which is also important. The right time is not even the intermediate steps: preparation, treatment and conservation of the ingredients, or the service – all these times are important and should be looked aer carefully, that’s obvious. The right time – the time that is needed – is the relationship between different values: temperature, waiting, measures. It is not an absolute number, but the number that best expresses the relationship between these values. The right time is a rhythm. The one that allows you to taste, to savour completely, to freeze the moment in time of what you are doing. The same thing goes for service. The right time, the time that is needed, has to respect the time of the guests siing at the table, that like to be served without feeling oppressed but also to be served without interminable delays. The amount of time you dedicate to a client is a relationship: between efficiency, observation and care. All of this, for me, is wrien in that pizza. They say that the right time is parallel to taste. That is not to say that any time is ok just because we feel like it or follow our rhythms; but it suggests that it is useful to study relationships and connections that absolute numbers. To suggest, at least for the amount of time that is in our power to control, because there is also another kind of time: the one that runs out no maer what. As I was saying, pizza…pizza is beer.
The right time – the time that is needed – is the relationship between different values: temperature, waiting, measures.
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Mille s-foglie di mela, meringa, cracker ai semi, , panettone e spezie D O
(per 4 persone) Per la sfoglia di cracker ai semi 125 g di farina Molino Pasini 100 g di acqua tiepida 35 g di olio extra vergine d’oliva Carli 3 g di sale fi no 1 g di lievito di birra 1 g di lievito chimico 4 g di semi sesamo bianco e nero 4 g di semi di lino 4 g di semi di papavero 4 g di semi di girasole Per le sfoglie di meringa 100 g di albume 62 g di zucchero Eridania Zefi ro 62 g di zucchero Eridania Velo Per le sfoglie di zucchero 150 g di zucchero di canna Eridania Tropical 50 g di farina di mandorle Per le sfoglie di mela 1 mela verde 100 g di acqua 100 g di zucchero Eridania Zefi ro 20 g di succo di limone
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Per le sfoglie di pasta fillo 100 g di fogli di pasta fi llo 40 di g burro fuso 20 g di zucchero Eridania Velo Per le sfoglie di paneone 1/4 di paneone senza uvea e senza canditi Tre Marie ghiacciato Per le sfoglie di cioccolato 200 g di cioccolato Ocoa cacao Barry Per la ganache fondente 150 g di cioccolato Ocoa Cacao Barry 100 g di panna 12 g di glucosio 20 g di burro 1 g di sale di Maldon 2 g di spezie intere cardamomo, anice stellato e cannella Per la finitura 2 g di spezie D’O: arancia, limone, cannella, vaniglia, anice stellato, chiodi di garofano, bacche di ginepro
Per le sfoglie di cracker di semi Sciogliere il lievito di birra e il sale nell’acqua tiepida, aggiungere l’olio e poi la farina setacciata con il lievito chimico, stenderlo su di un silpat dello spessore di 2 mm, dividerlo in triangoli con uno stecchino, cospargerlo con i semi e cuocere in forno a 190 °C per 9 minuti. Per le sfoglie di meringa Montare gli albumi a neve, aggiungere lo zucchero semolato poco per volta mentre sta montando e al termine, prima di togliere, lo zucchero a velo. Stenderlo su carta da forno allo spessore di 2 mm e farlo essiccare a 65 °C per 1 ora e mezza. Per le sfoglie di zucchero Fare un caramello con lo zucchero di canna, togliere dal fuoco ed aggiungerci la farina di mandorla, versarlo su di un silpat e stenderlo con l’aiuto di un maerello e un foglio di carta da forno allo spessore di 2 mm. Per le sfoglie di mela Affeare la mela allo spessore di 2 mm, preparare uno sciroppo con lo zucchero e l’acqua, a bollore togliere dal fuoco ed aggiungerci il succo di limone e la mela affeata, scolare bene le fee di mela e meerle a essiccare su di un silpat a 65 °C per 1 ora.
Per le sfoglie di pasta fillo Spennellare i fogli di pasta fi llo con il burro fuso, spolverare con lo zucchero a velo e cuocerli in forno, tra due fogli di carta da forno e tra due placche, a 190 °C per 7 minuti. Per le sfoglie di paneone Tagliare all’affeatrice il paneone congelato allo spessore di 2 mm e cuocerlo in forno, tra due fogli di carta da forno e tra due placche, a 190 °C per 7 minuti. Per le sfoglie di cioccolato Temperare il cioccolato e stenderlo su di un foglio acetato; quando è freddo tagliarlo con una punta di coltello caldo. Per la ganache fondente Portare a bollore la panna con il glucosio e le spezie, fi ltrare e versare nel cioccolato con il burro a pezze i. Amalgamare e raffreddare il composto, montarlo e servirlo con il sale di Maldon. Per la finitura Disporre la ganache su di un piao piano con l’aiuto di una tasca da pasticceria. Sistemare le varie sfoglie nel piao in modo irregolare, tenendole insieme con la ganache. Spolverizzare con le spezie D’O.
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Millefeuille of Apple, Meringue, Seed Crackers, , Panettone and D O Spices
(serves 4) For the seed crackers layer 125 g flour Molino Pasini 100 g warm water 35 g extra virgin olive oil Carli 3 g fi ne salt 1 g fresh yeast 1 g baking powder 4 g white and black sesame seeds 4 g flax seeds 4 g poppy seeds 4 g sunflower seeds
For the phyllo pastry layer 100 g phyllo pastry 40 g melted buer 20 icing sugar Eridania Velo For the paneone layer 1/4 frozen paneone without raisins or peel Tre Marie For the chocolate layer 200 g chocolate Ocoa Cacao Barry
For the sugar layer 150 g cane sugar Eridania Tropical 50 almond flour
For the dark chocolate ganache 150 g chocolate Ocoa Cacao Barry 100 g heavy cream 12 g glucose 20 buer 1 g Maldon salt 2 g mixed spices: cardamom, star anise, cinnamon
For the apple layer 1 green apple 100 g water 100 sugar Eridania Zefi ro 20 g lemon juice
To finish 2 g D’O spices: orange, lemon, cinnamon, vanilla, star anise, cloves, juniper berry
For the meringue layer 100 g egg whites 62 g sugar Eridania Zefi ro 62 g icing sugar Eridania Velo
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For the pasta phyllo pastry layer Brush the phyllo pastry with the melted buer and dust with the icing sugar. Bake in the oven, between two sheets of parchment paper and two baking trays, at 190°C for 7 minutes. For the paneone layer Using an electric slicer, cut the ¼ frozen paneone in slices 2 mm thick and bake them in the oven between two baking trays at 190° for 7 minutes. For the seed crackers layer Dissolve the yeast and salt in the warm water, add the oil then the flour si&ed together with the baking powder. Spread the mixture on a silpat (silicone mat) to a thickness of 2 mm, divide in triangles with a toothpick, sprinkle with seeds and bake at 190°C for 9 minutes. For the meringue layer Beat the egg whites, add the granulated sugar slowly. Once it is incorporated. Add the icing sugar gradually, gently incorporating it by hand. Spread it 2 mm thick on parchment paper. Dry in the oven at 65°C for one and a half hours. For the sugar layer Caramelize the sugar, remove from heat and add the almond flour. Spread it on a silpat, cover with a sheet of parchment paper, with the help of a rolling pin roll until 2 mm thick.
For the chocolate layer Temper the chocolate and spread it thinly on an acetate sheet, when it is cold, cut with the tip of a hot, sharp knife. For the dark chocolate ganache Bring the heavy cream to a boil with the glucose and spices. Filter and pour over the chocolate and buer in small pieces. Mix thoroughly until completely amalgamated. Cool, then whip and serve with flakes of Maldon salt. To finish Using a pastry bag, place the ganache irregularly on the plate. Place the various layers irregularly on the plate, keeping them in place with the ganache and dust with D’O spices.
For the apple layer Slice the apple in slices 2 mm thick. Prepare a syrup of sugar and water, when it boils, remove from heat, add the lemon juice and the apple slices. Drain them and dry in the oven on parchment paper or silpat at 65°C for approximately 3 hours.
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Il passato è la tavola della domenica, il futuro una drogheria computerizzata, il presente è... questo qui
Mi piace guardarmi intorno mentre cammino, scopro sempre qualcosa di nuovo. Tipo la volta che ho assistito a una specie di “ritorno al futuro”, come l’ho chiamato fra me e me, mentre facevo la spesa per nutrirmi ma soprauo per compassione verso il frigorifero di casa, ormai alle lacrime. Ebbene sì, faccio la spesa per me e, sì, lo confesso: ho anche un frigorifero in casa. Quello che va sfatato, casomai, è il mito del cuoco che alle quaro del ma ino si precipita a scegliere personalmente e quotidianamente i fi le i di questo e i tranci di quell’altro. Ma a parte quella cosa lì, che succede, sì, ma in quel modo soltanto nei film, anch’io faccio la spesa per pacificare la mia dispensa e alimentare la mia tavola. Tornando al banco davanti al quale mi trovavo mentre facevo la spesa, mi accorgo improvvisamente di un cambiamento che non avevo ancora registrato. Eppure, solo la se imana prima c’erano ancora, e adesso invece… Intorno a me erano quasi completamente sparite le creature di ultima generazione, o che almeno io credevo di ultima generazione: quelle con il
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cellulare-prolunga-orecchio grazie a un auricolare che è andato sempre più rimpicciolendo fino a diventare quasi invisibile. Creature che, se non ci stai particolarmente aento, sembra che parlino da sole. Al loro posto una specie nuova, questa sì di ultimissima generazione: persone che guardano la partita di calcio o il Grande Fratello sul minischermo dei cellulari. Guardo meglio e vedo che qualcuno esulta per un gol, qualcun altro lascia un commento in un blog pro-gieffina, qualcun altro ancora chaa con tuo lo stadio di San Siro. Più o meno. Ci ho pensato un po’ su. Come passa strano il tempo che passa. Davvero. Prima ci si parlava guardandosi negli occhi, poi araverso un fi lo, poi lasciando messaggi nelle rispe ive segreterie, poi mandando mail e poi… ecco che si torna a guardarsi quasi negli occhi. Dico quasi perché si traa comunque di occhi su uno schermo, non di occhi veri. Tanto progresso tecnologico per chiamarsi senza schiacciare tasti, per ve-
dersi a distanza, per avere un videocomputer nel taschino. Finché arriva il giorno che, per quanti strumenti la tecnologia ci mea a disposizione, tu i desideriamo la stessa cosa: il contao vero. Il touch screen ti dà un brivido appena lo sperimenti, ma è un surrogato rispeo al tocco che ti piace di più. Sì, lo so, l’ho presa alla lontana, il fatto è che insieme alle mie gambe quella volta ha galoppato anche la mia testa… …Quando ho cominciato con Gualtiero Marchesi, avremmo scommesso che sarebbero state le pillole il cibo del Duemila. E invece oggi io continuo a fare cucina tradizionale. …Nel 2050 immagino che torneremo ai piccoli negozi che vendono prodotti di nicchia, chissà, forse saremo saturi degli iper dove si trova di tuo, e stufi del surgelato doc. Certo, trattandosi di un ritorno al futuro e non semplicemente al passato, la drogheria che venderà il mezz’eo di prosciuo sarà computerizzata, e i prodo i certificati, e l’igiene perfea. Immagino anche che, insieme alla dro-
gheria soo casa, torneranno al futuro anche la buona cucina e la tavola della domenica. Quella dove ci si riunirà di nuovo per parlarsi guardandosi in faccia. Sarà stato l’odore del pesce che proveniva dal banco accanto a stordirmi, o forse il mio bisogno di guardare sempre oltre mi ha disorientato. O semplicemente sono state le gambe a portare avanti i miei pensieri. Certo è che, camminando, ho visto nel futuro qualcosa che avevo già visto nel passato, e il fi lm non mi è dispiaciuto per niente. Tra una scena e l’altra, era ovvio che mi passasse davanti agli occhi anche il presente, ed era questo, proprio questo qui, né più né meno del pezzo sul quale sto adesso. E dove, fra un passato che va e un futuro che torna, mi è dato il grande privilegio di scegliere come comportarmi. Qui, davanti a questo banco, dove posso esercitare il lusso di fare quello che un tempo ho sognato di fare. Il presente è questo anello, di lusso, fra il buon profumo di passato e il giusto appetito di futuro.
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The past is the Sunday Dinner Table, the Future is a Computerized Grocery Store, the Present is...Now
I like to look around me while I am walking; I always discover something new. There was the time I saw something that I called a kind of “return to the future” moment, while I was grocery shopping to feed myself but also because I took pity on my empty fridge at home. That’s right, I shop for myself, and yes, I have a fridge. The myth that should be debunked is that of the chef that gets up at four in the morning and runs to choose fish, choosing each filet himself personally. Aside from that, which does happen, but precisely that way really only in films, I do go grocery shopping to fill my pantry and put food on the table. Turning away from the counter where I was being served, I realized all of a sudden something I had not noticed. It was still only a week before that they were there, and now… All the latest generation creatures have disappeared, or at least I thought they were the latest generation: the guys with the cell phone aached to their ear thanks to an earphone that
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has become smaller and smaller until it has become almost invisible. If you’re not paying aention, they look like they are talking to themselves. In their place a new species has taken over: people who watch a soccer game or Big Brother on the mini screen on their cell phone. I look more closely and I see someone cheering about a goal, someone else who leaves a comment on a blog, someone else is chatting with the entire San Siro stadium. More or less. Then I thought about it. How strange time is. Really. We used to speak, looking into each other’s eyes, then through a wire, then by leaving messages on each other’s answering machines, then by sending an email and then…we have come almost full circle to looking each other in the eyes – almost. I say almost because we are looking at eyes on a screen, not face to face. So much technological progress means we can call each other without even touching a keyboard, that we can see each other at a distance, that we can
have a video-computer in our pockets. Until the day comes when, no maer how many instruments we have at our disposition, we all desire the same thing: real human contact. A touch screen gives you a thrill when you first discover it, but it is a surrogate to the touch we are really looking for. I know, I guess I have really exaggerated with this; the truth is my legs and head got carried away… …When I started with Gualtiero Marchesi, we would all have bet that the food of the future would have been pills in the New Millenium. Instead, today, I am still making traditional food. …In 2050 I imagine we will go back to small stores that sell specialised products and who knows, we might be fed up with large supermarkets, where you can buy anything from stoves to frozen food. Of course, it is a return to the future, not simply a return to the past; the computerized grocery store will sell a few grams of prosciuo and offer certified products and perfect hygiene.
I can imagine that together with the local grocery store, good home cooking and Sunday meals will make a comeback. The kind of meal where everyone comes together to talk, looking each other in the eye. It might have been the smell of fish that came from the counter that got to me, or maybe it was my need to look further that caught me off guard. Or quite simply, it was my legs that got ahead of my thoughts. What I am sure of is that while I was walking, I caught a glimpse of the future and I didn’t mind it at all. Between scenes from the future, the present also came to mind and it was precisely this one, the one I am living now. A present between past and a future that returns, I have the privilege of being able to choose my behaviour. Right here, in front of this counter, I have the luxury of being able to do what I have always dreamed of. The present is the luxurious link, between the perfume of the past and the appetite for the future.
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Davide
Manuele
Wladimiro
Alessandro
Matteo
«Pensare prima di comprare, pesare prima di cucinare.» «Think before you buy, weigh before you cook.»
Acqua, zafferano , e riso alla milanese D O Milano 2015 Water, Saffron , and D O Milanese Rice Milan 2015
Un piao dedicato a Milano… Lo spunto per la sua realizzazione non poteva che venire dal piao meneghino per eccellenza, il risoo giallo. “Zafferano e riso alla milanese D’O” – questo il nome della portata celebrativa – è infa i un alleggerimento del classico risoo allo zafferano, di cui è parente streo. Si traa, racconta Oldani, «di un piao che punta alla valorizzazione del lavoro dei contadini e della fi liera alimentare». Gli ingredienti che gli danno vita sono solo tre: riso, acqua e zafferano. Una curiosità: la preziosa spezia scelta da Davide Oldani è sorprendentemente a «chilometro zero»: la varietà scelta dallo chef è coltivata e lavorata da una piccola azienda agroalimentare di Varedo, poco a nord di Milano.
A dish dedicated to Milan… The idea for this dish could come from none other than that most traditional of dishes, risoo giallo. “Saff ron and D’O Milanese Rice” – this is the name of the celebratory dish – is a lighter version of the classic saff ron risoo, to which it is closely related. «It is a dish that showcases the hard work and dedication of farmers and the integrity of the food chain», says Davide Oldani. The ingredients that give life to this dish are only three: water, rice and saff ron. The extremely valuable spice that Davide Oldani has chosen, is surprisingly zero kilometers: the variety chosen by him is grown and produced on a small farm near Varedo, just north of Milan.
La mia cià mi piace pensarla con i suoi sapori e «i suoi colori. Per questo ho voluto per lei un piao
I like to think about my city, its «colours and flavours. This is why I wanted to make a dish that was simple but inviting, linked to its tradition, but open to change and to a newer, different kind of hospitality; that is why I used traditional rice, but dressed it with a circle of saffron that represents the circular, encompassing nature of welcoming, the way we are now – inside this circle – different but united. The same way a path never really ends, but starts over and over again. This is my concept of how ingredients go together, of the balance of contrasts, of how each ingredient that maintains its own characteristics, but harmonizes on the palate and renews itself constantly with new combinations. Saffron and D’O Milanese Rice EXPO 2015. I dedicate this to Milan, which is preparing itself for a great event, with the hopes that it is an occasion to unite our differences for the benefit of a common project.
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semplice ma invitante, legato alla sua storia nella sostanza ma aperto al cambiamento nel modo in cui si off re all’ospite; per questo l’ho preparato con il riso della tradizione ma l’ho vestito con un cerchio di zafferano che vuole essere un simbolo di circolarità intesa come accoglienza, come stiamo qui – dentro – diversi ma insieme. Come un percorso che non finisce mai, ma ricomincia sempre. È questo il mio modo di concepire la convivenza fra gli ingredienti, che si equilibrano nei contrasti, che hanno ciascuno un proprio caraere ma si armonizzano nel palato e si rinnovano, di continuo, in sempre nuovi abbinamenti. Zafferano e riso alla milanese D’O EXPO 2015. Lo dedico a Milano che si prepara per realizzare un grande incontro, con l’augurio che sia l’occasione per unire le differenze in un progeo comune.
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Davide Oldani
La
ricetta (per 4 persone) Per la coura del riso 320 g di riso Sco i Carnaroli stagionato 1,5 l di acqua calda e salata 100 g di burro dolce 80 g di Grana Padano Riserva D’O graugiato 10 ml di aceto di vino bianco sale fi no scorza di 1/2 limone Per la salsa di zafferano 100 ml di acqua 5 g di amido di mais diluito in 3 ml di acqua fredda 1 g di zafferano in pistilli 1 g di sale fi no 1 g di zucchero Eridania Zefi ro
Per la coura del riso In una casseruola fare tostare il riso, bagnare poco per volta con l’acqua salata e portare a coura. Togliere poi dal fuoco, mantecare aggiungendo il burro, il Grana Padano, l’aceto, il sale e la scorza graugiata di mezzo limone, tenendolo cremoso. Per la salsa di zafferano Fare bollire in un pentolino l’acqua, legare con l’amido di mais diluito, aggiungere il sale e lo zucchero, togliere dal fuoco e fare intiepidire fino a 70 °C. Successivamente unire lo zafferano lasciando in infusione. Per la finitura Stendere il riso su un piao piano e versare a spirale la salsa di zafferano.
The
Recipe (serves 4) For the rice 320 g aged Carnaroli rice Scoi 1.5 lt hot, salted water 100 g unsalted buer 80 g Grana Padano D’O reserve, grated 10 ml white wine vinegar salt zest of 1/2 lemon For the saffron sauce 100 ml water 5 g cornstarch 1 g saffron stamens 1 g fine salt 1 g sugar Eridania Zefiro
For the rice In a casserole toast the rice, add the hot, salted water gradually and finish cooking. Remove from heat, add buer, the Grana Padano, vinegar and salt. When creamy, add the grated lemon zest. For the saffron sauce Bring the water to a boil, thicken with the cornstarch diluted in a lile water, add salt and sugar. Remove from heat and cool to 70 °C. Add the saffron. To finish Place the rice in a dish and finish with a spiral of the saffron sauce.
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La cucina NON regionale italiana (Cucina regionale ragionata italiana)
NON Regional Italian Cuisine (Reasoned Regional Italian Cuisine)
The first time I said this, I was asked to repeat myself, thinking that I had made a mistake. Did I mean “regional”? No, I really meant to say “non regional”: NON regional Italian cuisine. I am not referring to a new way of cooking, a cuisine that is pre, post, anti, without, or based upon. I also did not want to use NON in a negative way. I merely had in mind good Italian cuisine; how it has always been immersed in tradition that is embodied by excellent ingredients, even more so than cooked foods. When we think of how many singular, unique ingredients there are in our country from north to south: truffles from Alba and Norcia…rice, rapini, anchovies from Campania…how many different kinds of delicious meats, wonderful cheeses and extraordinary wines…
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La prima volta che l’ho deo, mi hanno chiesto di ripetere pensando che mi fossi sbagliato. Volevi dire “regionale”? No, intendevo proprio dire “non regionale”; cucina NON regionale italiana. Ma non mi riferivo a un nuovo modo di cucinare, a una cucina pre, post, anti, priva di o a base di. E nemmeno volevo usare il NON in senso negativo. Avevo semplicemente in mente la buona cucina italiana e com’è sempre stata nella tradizione, e cioè rappresentata da o imi ingredienti prima ancora che dal cucinato. Pensiamo a quanti ingredienti unici possiamo trovare nel nostro Paese da Nord a Sud: dal tartufo d’Alba a quello di Norcia…il riso, le cime di rapa, le alici campane…quante buone carni, oimi formaggi, straordinari vini… E pensiamo a come crescono bene i nostri prodoi grazie alle potenzialità del nostro clima – al sole che ci bacia per dirla come si dice – acquistando così un grado di qualità che favorisce già in partenza il successo delle ricee che li utilizzano. Quello che voglio dire è che la ricea è il mezzo per arrivare a una buona e sana nutrizione, ma ciò che veramente fa la differenza è la qualità dei prodoi, i corre i metodi di lavorazione e di coura, le quantità aente ai nostri auali stili di vita e al nostro diverso modo di mangiare, non più soltanto figlio di una necessità, ma di scelte deate dal gusto e dal benessere.
Per fare un esempio, c’è ancora qualcuno che sottolinea la differenza fra il cappelleo di stracoo fao in Piemonte e quello fao in Emilia. Ma di che cosa stiamo parlando se poi diciamo che uno stracoo è di manzo, vitello e maiale e l’altro di maiale, vitello e manzo? E nemmeno afferro il senso di segnare forti distinzioni (in termini di qualità, intendo) fra due pia i uguali che – a distanza di qualche chilometro uno dall’altro – sono entrambi fa i con o imi prodo i ma semplicemente interpretati in maniera differente dai rispe ivi cuochi. Veniamo da una cucina di necessità e passione e siamo approdati a una cucina del divertimento e della poesia, ma non dobbiamo mai dimenticare che lo scopo principale è sempre il nutrimento. La ricea è l’aspeo artigianale del nostro lavoro, quello in cui possiamo sbizzarrirci, e che può aggiungere alla storia di un piao anche forti elementi di novità. Quindi un aspeo importante, non c’è dubbio, ma che non è il più grande trao distintivo della nostra cucina, che nel tempo – a mio parere – non ha diviso bensì unito l’Italia, in una circolazione e uno scambio continui di “piai tipici”. Il mio NON regionale non nega – come dicevo – ma afferma. Nel senso che preferisce partire dal racconto dei prodoi di eccellenza e poi continuare con l’estro del cuoco. Penso al raviolo di Gualtiero Marchesi: dal prodoo di qualità alla novità; cambia la “forma” – e non intendo solo quella geometrica – ma la sostanza si conferma, e con sostanza non intendo solo il ripieno, ma anche la tradizione. La melanzana di Palermo o quella di Murcia? La cipolla di Tropea o quella di Cavasso? La zucchina di Albenga o quella di Napoli? Il manzo piemontese o quello toscano? Le acciughe liguri o quelle siciliane…e potremmo continuare con questo “finto” confronto. Qual è la differenza tra un pomodoro di Parma nel mese di agosto e uno del sud? Faccio fatica a pensare che due buoni prodo i, raccolti in zone differenti, nella stagione giusta e poi co i in modo adeguato, una volta arrivati nel piao non siano entrambi gustosi. Uno è buono e l’altro anche, sono
Think about how our produce is grown, thanks to the climate – as they say, we are kissed by the sun – so produce acquires a degree of quality that facilitates the success of any recipe that uses it. What I would like to say is that the recipe is a means to achieve delicious, healthy nutrition, but what really makes the difference is the quality of the products, the proper way of cooking them and preparing them, the quantity that is in keeping with our lifestyle and our different ways of eating, not born of necessity, but of choices made on the basis of flavour and well-being. To give you an example, there are still people who underline the difference between a “capelleo”36 of braised meat made in Piedmont and one made in Emilia. But what is the difference if we say one is made with braised beef, veal and pork and the other one with pork, veal and beef? I cannot see the point of making such strong distinctions (in terms of quality) between two dishes that are substantially the same, made a few kilometers from each other – both are made with excellent products but simply interpreted differently by different cooks. We come from a cuisine of necessity and passion and we have arrived at a cuisine of pleasure, of poetry, but we should never forget that the main scope remains nourishment. The recipe is an artisanal aspect of our job, one in which we can really let our fantasy take wing and add to the story of the dish with strong, new, elements. An important aspect without a doubt, but not the most distinc-
36. Capelleo: a fi lled pasta of the same family of tortellini and ravioli. In different areas of Italy it has different names.
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Il mio NON regionale non nega – come dicevo – ma afferma.
tive characteristic of our cuisine, is that over time – in my opinion – did not divide but rather it united Italy, in a circulation and continuous exchange of “traditional dishes”. My NON regional cuisine does not negate – as I said – but reaffirms. What I mean by that is that it prefers to start with the story of the products and continues with the creativity of the cook. Think of the raviolo by Gualtiero Marchesi: from an excellent product to innovation; changing the “shape” – not merely the geometric one – but the substance that affirms itself, and by substance I do not mean merely the filling but also tradition. Eggplants from Palermo or from Murgia? Onions from Tropea or from Cavasso? Zucchini from Albenga or from Naples? Beef from Piemonte or Tuscany? Ligurian or Sicilian anchovies…we could go on for ages making these “false” comparisons. What is the difference between a tomato from Parma in August and one from the south? I think that two good products, harvested in different areas, in the right season and cooked correctly, once served will both be flavourful. One is good and the other one too, they are good in different ways, but a good tomato is a good tomato. The same is true for eggplants, onions and anchovies. That is why it is NON regional cuisine, simply because it is ONE, UNITED by the quality of its products. A kitchen that relies on the web, to know what ingredient to add and when, can reach the highest level of quality; a kitchen that studies the correct amount of calories can make a delicious diet a healthy one.
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buoni in modo diverso, ma un pomodoro buono è un pomodoro buono. Lo stesso vale per la melanzana, la cipolla, l’acciuga… Ecco perché cucina NON regionale, semplicemente perché UNA e UNITA dall’eccellenza dei prodo i. Una cucina che si affida anche alla rete per conoscere quando e dove quel tale ingrediente raggiunge il più alto grado di qualità; e che studia il correo apporto energetico che fa di un’alimentazione gustosa un’alimentazione anche sana. Le cose di cui parlo esistono già, i tratti della cucina NON regionale italiana ci sono già, vanno solo formalizzati e bisogna sensibilizzare le persone sul fao che l’Italia è unita dall’eccellenza dei suoi prodoi. Tuo il lavoro che si sta facendo per ampliare il numero di prodo i DOP e tutelarli va in questa direzione. Ed è a quella qualità che come cuoco Italiano mi affido prima ancora che alla preparazione; i nostri pia i sono stati spesso creati dalle nonne più che dagli chef, e anche per questo molte ricee sono adae alla cucina casalinga. Nel tempo, così com’è avvenuto per usi e costumi, molti pia i che una volta erano conosciuti solo in un’area geografica perché era lì che nasceva l’ingrediente principale, si sono diffusi in tua la nazione, contaminandosi certo ma anche unendoci: io la vedo questa cucina che unisce il nostro Paese, anzi a dirla tua vedo un’Italia unita che rema verso una cucina europea
composta da un tocco proveniente da ogni nazione. La intravedo, diciamo. Per il momento sento che ci stiamo arrivando proprio araverso la valorizzazione – anzi, forse è correo dire la rivalutazione, dal momento che così era all’origine – dell’ingrediente, che farà la vera differenza fra la nostra grande e ricca tradizione alimentare e quello che c’è fuori dall’Italia. In un certo senso mi piace pensare che siamo all’inizio di un’unione sempre più grande e più salda e che, anche per questo, di lavorare per essere e restare uniti…non si finisce mai! E in parte questo obie ivo lo vedo realizzarsi proprio nel recupero di quella tradizione che deriva dai prodo i dei territori e non delle regioni, che sono una classificazione amministrativa ma non certo agroalimentare o gastronomica. La valorizzazione di certe aree geografiche e dei relativi prodoi di qualità non potrà che portare – e anche qui sarebbe correo dire riportare – nella massima considerazione il lavoro del contadino, e cioè di chi si prende cura dell’ingrediente, conosce e rispea le stagioni, ama la terra che ci offre i fru i che – solo dopo e solo grazie al rispeo, alla cura e al lavoro – possono arrivare sulle nostre tavole. Ed ecco che emergono, come succede già da tempo con i nostri vini, piccoli produori; si riscopre l’eccellenza di piccole realtà, si recupera quel che già c’era un tempo. Ma non per chiudersi, per riaprirsi alla grande.
My NON regional cuisine does not negate – as I said but reaffirms.
The things I talk about already exist, the elements of the NON regional Italian cuisine were already there, they only needed to be clarified. People need to be made aware of the fact that Italy is united by the excellence of its products. All the work that is being done to increase the number of DOP products and to protect them moves things in this direction. As an Italian cook, it is those qualities I put my trust in even before in how they are prepared; our dishes have been created more oen by grandmothers than by chefs, that is why so many of the recipes are suitable for home cooking. Over time, many dishes that were known only in one geographical area because that is where the ingredient is grown, have become common throughout the country, “contaminating us” but also uniting us: I see this cuisine that unites our country. To be honest, I see a united Italy that moves towards a European cuisine made of a special touch from each country. Let’s just say I have caught a glimpse of this. For the moment, I feel that we are moving towards an appreciation -or more precisely, a re-discovery of something that has always been there – of the ingredient, that will make the real difference between our rich culinary heritage and those outside of Italy. In a certain way, I like to think that we are at the beginning of a great union that is solid and that, because of this, works to stay united…it’s neverending! I see this objective partially achieved with the return to a tradition that stems from products of territories and not of regions that are an administrative classification and that have lile to do with gastronomic or agricultural distinctions. The promotion of certain geographical areas and their quality products can only bring – and here it would be correct to say bring back – maximum respect for farmers, for those who take care of these products, that know and follow the seasons, that love the earth that offers us the fruits that arrive on our tables, only aer and thanks to this respect, care and hard work. This is how small producers emerge – as has been happening with our wines for some time now; the re-discovery of small enterprises, the recoverydiscovery of what has always been. Not to close oneself off, but to open oneself to something truly great.
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Il sogno continua... The Dream Continues...
In life it is important to always have two dreams, so that when you make one of them come true, there is another one ready to spur you on, to help you grow…When one of them becomes part of your daily life, the other is on the horizon. It is like taking two steps forward and one step back: two to venture forward, one to reflect on what you have done.
Nella vita bisogna sempre avere due sogni, in modo tale che quando riesci a realizzarne uno, l’altro è lì, pronto a spronarti, a farti crescere ancora. Quando uno diventa la tua pratica quotidiana, l’altro è il tuo nuovo orizzonte. È come fare due passi avanti e uno indietro: due per osare oltre, uno per rifleere su quello che hai fao.
Tutte le C di cuoco Oldani di Rosangela Percoco ,
All the C s of Chef Oldani by Rosangela Percoco
Davide is rough, rustic and genuine. My love of playing with words that sound good together aside, Davide really is like that. Not in the sense of being coarse, uncouth and uncivilised, but rather of being shy, wild and free. Above all, free. Not to do what he wants, but to do what he is. That is what I mean. I’ll try to tell you how we got to where we are now. The fi rst time I met Davide was at a table at D’O, not even a year aer it opened. At the time, a few lines in a few newspapers spoke about him as being someone to keep an eye on. Aer all, he was a cook that had been around the world, had learned from great teachers and that had come back home to a small town in the province of Milan to open a “traoria”; if you didn’t keep your eye on him, you could end up by losing sight of him. That day eleven years ago, I had a wonderful meal, I did not spend much and I felt at home, in a home that is welcoming and that knows how to combine every day flavours with “bites” of art.
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Davide è un ruvido, un rustico, un ruspante. E se si esclude il mio piacere di giocare con parole che suonano bene, Davide è davvero così. Non nel senso di rozzo, zotico e razzolante, s’intende, casomai di ritroso, selvatico e libero. Soprauo libero. Non di fare quello che vuole, ma di fare quello che è. S’intende anche questo. Provo a raccontare com’è che siamo arrivati fin qui. La prima volta che ho conosciuto Davide è stato a un tavolo del suo D’O, neanche un anno dopo l’apertura. All’epoca, (alcune) righe su (alcuni) giornali parlavano di lui come di uno da tenere d’occhio. D’altra parte, un cuoco che aveva fao il giro del mondo, imparato da grandi maestri e poi era tornato in un paese seminascosto della provincia milanese per aprire una “traoria”, se non lo tenevi d’occhio poteva anche essere che lo perdevi di vista. Quel giorno di undici anni fa ho mangiato benissimo, ho pagato poco, mi sono sentita come a casa quando casa è accogliente e al sapore di quotidiano sa unire spizzichi d’arte.
Come poi sono andate le cose a quel giovane cuoco da non perdere di vista non sono io che devo raccontarlo, l’hanno già fao lui e i suoi successi. La seconda volta che ho conosciuto Davide è stato in un libro, il suo primo libro, Cuoco andata e ritorno. Viaggi, sogni, ricee di un uomo che voleva cucinare. Qui lo dico e non lo nego: era un piaone con dentro tuo, anche troppo – dolce, salato, piccante…calcio, mercato (non calcio-mercato, calcio nel senso di gioco e mercato nel senso di spesa), amici, parenti, filosofia, ricee, design, marketing, massime e altre tantissime varie ed eventuali, eppure… Eppure, arrivata all’ultima pagina dell’abbuffata, ho pensato che a guardare bene dietro la sovrabbondanza c’era davvero una bella storia. Quando sono tornata al D’O era passato qualche anno e, come è facile immaginare, la lista d’aesa si era di parecchio allungata. Ho mangiato di nuovo benissimo, pagando ancora poco e sentendomi sempre a mio agio come a casa. Ma non era solo per mangiare che mi trovavo lì. Ho preso il coraggio che non avevo – e che non ho – e ho deo a Davide del pasticcio di parole, ma anche che per me la sua storia era una storia davvero, una storia circolare. E di come mi sarebbe piaciuto raccontarla ai bambini con tanto di eroe, e relativo viaggio dell’eroe, e di pia i che fanno sorridere le principesse che non ridono più, e un sacco d’altre romanticherie che in sintesi volevano significare “la sostanza è o ima”. Esaurito lo scarsissimo coraggio, e per alleggerire la mia faccia tosta, ho concluso con una storiella. “Dico,” gli ho deo, “ma hai notato quante C ci sono nella tua vita? Cornaredo, Calciatore, Cucina Circolare, Cuoco, Cipolla Caramellata, Comodità (intesa come accoglienza), Colori (nelle stagionalità, nella sala, nei piai)?” Come mi ha risposto? Vedi prima riga, prime tre parole con “ru-” e relativi significati. “Sì, sì. Grazie…Io non so se c’è tuo quello che dici…io faccio solo il cuoco…ma come dico io, però.”
How things turned out for that young cook that-you-should-keep-your-eyes-on I do not need to say; his success speaks for him and for itself. The second time I met Davide was in a book, his first, Cuoco andata e ritorno: Viaggi, sogni, ricee di un uomo che voleva cucinare. I’ll admit, it was a big plate of stuff: there was a bit of everything in it, even too much – sweet, salty, spicy…soccer, market, friends, relatives, philosophy, recipes, design, marketing, aphorisms, and tons of other stuff, and yet… Once I got to the last page of this feast, I realized that behind all that too much of everything was a really great story. When I went back to D’O a few years later, as you can imagine, the waiting list was much longer. The meal, again, was delicious and affordable and I still felt very much at home. But I wasn’t there just to eat. I summed up all the courage I didn’t have – and still don’t – and told Davide about that hash of words, but also that I thought his story was a real one, a circular story. And about how I would like to tell it to children, with a hero, his travels and of dishes that make princesses that had lost their smile get it back again, and a lot of similarly romantic stuff that were meant to say that the substance was there in that story. Having exhausted all the courage I had summed up, and to make light of my boldness, I concluded with a lile story. “Have you ever noticed how many “C’” there are in your life? Cornaredo, Calciatore, Cucina, Circolare, Cuoco, Cipolla Caramellata, Comodità, Colori?”37 How did he answer? Check the first line, and see the three words I used to describe him. “Sure, sure. Thanks…I’m not sure that everything you see is really there…I am just a cook…but in my own way.”
37. Cornaredo, Soccer player, Cooking, Circular, Cook, Caralemized Onion, Comfort, Colours.
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I forgot to say: Davide Oldani is also slightly stubborn, with the pinch of tenacity that is necessary if you want to defend your freedom. We got to know each other beer, a few conversations, a few collaborations, a big friendship. One day, Davide said: “I would like to write a book about ethics.” Surpassing Davide in bluntness, etc, etc, I answered: “You’re nuts! You’re not thinking of adding yourself to the already long list of teachers that are there to show us the way? I said that yours is a story not one of the Gospels.” With few words and lots of action, Davide explained to me that what he intended to write was a small, agile book, in which he would explain how his dishes and his way of interpreting cooking are linked to a way of life. In exactly the same way. That’s right. In the end, that is what I too thought when I had caught a glimpse of the hero, his travels and all those c’s. It’s not his fault that all those things are also called values. He was right; so here we are.
Dimenticavo: Davide Oldani è anche leggermente testardo, diciamo quel pizzico di cocciutaggine che serve alla libertà quando vuoi difenderla sul serio. Ci siamo conosciuti meglio, qualche scambio di opinione, piccole collaborazioni, grande amicizia. Un giorno, Davide arriva e dice: “Vorrei scrivere un libro sull’etica”. Superandolo in rudezza e in eccetera eccetera, gli ho risposto: “Tu sei mao! Non vorrai aggiungerti alla schiera dei maestri che ci indicano la Via? Ho deo che la tua è proprio una storia, mica che è il Vangelo”. Con le poche parole che Davide accompagna sempre ai tanti fai, mi ha spiegato che intendeva semplicemente un libro piccolo e agile in cui raccontare come i suoi piai e il suo modo di intendere la cucina fossero legati a un modo di vivere. Preciso preciso. Già. In fondo l’avevo pensato anch’io quando avevo intravisto l’eroe e il viaggio e tue quelle C. Insomma, non è colpa sua se tue quelle Cose lì si chiamano valori. Aveva ragione lui, ed eccoci qua.
The C of Conclusion, in other words, not only offal and coxcombs
La C di Conclusioni, ovvero non solo creste di gallo e frattaglie
When I decided to go from phase A – the one of “you’re crazy, Davide, who do you think you are?” – to phase B – the one of “well, ok, let’s try, maybe there really is an Oldani “school of thought!” – I had very few ideas and most of them confused. Aer all, I was supposed to translate the thoughts of someone who slices, amalgamates, mixes, someone who used his hands to make something delicious. I was the one who had the most difficult time in all of this: I knew absolutely nothing about how to write about a cuisine based on values and principles rather than weights and measures. Then, bit by bit over slow heat, Davide’s cooking melted before me.
Quando ho deciso di passare dalla fase A – quella del “non sarai mica mao, Davide, ma chi ti credi di essere?” – alla fase B – quella del “ma sì, proviamoci, magari l’Oldani pensiero esiste davvero!” –, poche cose ma molto confuse le avevo in mente. In fondo si traava di tradurre il pensiero di uno che affea, amalgama, manteca, insomma uno che le mani in pasta ce le mee per fare qualcosa di buono. E se qualcuno era in difficoltà, casomai quella ero io, che di come si potesse raccontare la cucina per princìpi e valori anziché per dosi e procedimenti ne sapeva meno di niente. Ma poi, poco alla volta, a fuoco lento, la cucina di Davide mi si è sciolta fra le mani.
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Sono entrata in una specie di casa mia. Mi sono seduta comodamente sull’estetica e non l’ho pagata cara. Ho assaggiato l’improvvisazione calcolata e ho deciso che presto farò un corso per approfondirla. Ho mangiato il vero significato delle radici. Ho assaporato il passato della domenica. Ho masticato le stagioni. Ho messo il naso nelle invenzioni e pucciato il dito nelle tradizioni. Ho sentito il retrogusto del giusto. Per tuo il tempo, mi sono sentita insieme e mai da sola e, quando mi sono alzata per ringraziare, mi sono sentita ringraziare io. Non di sole cipolle, creste di gallo e fraaglie è faa la cucina di Davide. È faa soprautto di lui, la dispensa più ricca che possiede. Dentro ci sono elasticità e rigore, tenacia e libertà, memoria e fantasia. E rispeo per chi affea, amalgama, manteca con lui. Perciò la trippa è nobile, perciò le animelle sono indimenticabili.
I found myself in a sort of home. I sat down comfortably on the aesthetics and it was not outrageously expensive. I tasted his calculated improvisations and I decided that I would like to take a course to understand it beer. I ate the true meaning of roots. I tasted Sundays past. I chewed the seasons. I put my nose in inventions and put my finger into traditions. I tasted the aertaste of things the way they should be. Throughout, I was always in good company and I never felt alone, and when I stood up to say thank you and leave, I heard myself being thanked. Davide’s cuisine is not made of only onions, offal and coxcombs. Most of all, it is made of him, the richest ingredient in his pantry. In it you can find flexibility and precision, tenacity and freedom, memory and fantasy. And respect for those who slice, amalgamate and mix alongside him. That is why tripe is noble and sweetbreads are unforgeable.
Rosangela Percoco (www.rosangelapercoco.it) dirige il mensile “Lupo Alberto” e conduce laboratori di scriura presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Milano. Per Silver ha scrio i testi di 365 volte Lupo (2001), Spara una cifra (2002), Caro Psic (2003). Per Quino, In viaggio con Mafalda (2004), Ci è sparito l’orizzonte (2005), I cartoni animati di Mafalda (2007). Ha collaborato al progeo Aenti all’uomo per Emergency e La pecora nera & altri sogni, mostra itinerante e libro (2006) realizzati in collaborazione con l’Istituto Penale Minorile di Nisida. Ha pubblicato i romanzi Nato da un aquilone bianco (1995), Portami sul palco a ballare (1998), Hai dicio’anni. Sarebbe più facile essere gai o poeti (2007) e nel 2011, in collaborazione con l’Associazione Italiana Mala ia di Alzheimer, la raccolta di racconti Più o meno qui, vicino al cuore. Per il web ha scrio No, non sono su Facebook e Caro Lupo Alberto (raccolta di leere trae dai vent’anni di corrispondenza con i leori). La collaborazione con Davide Oldani, dice, le ha insaporito vita e scriura.
Rosangela Percoco (www.rosangelapercoco.it) directs the magazine “Lupo Alberto” and conducts writing labs at the Faculty of Political Science at the Università degli Studi in Milan, Italy. Amongst her numerous publications are: for Silver, the texts for 365 volte Lupo (2001), Spara una cifra (2002), Caro Psic (2003); for Quino, In viaggio con Mafalda (2004), Ci è sparito l’orizzonte (2005), I cartoni animati di Mafalda (2007). She collaborated on the project “Aenti all’uomo” for Emergency and “La pecora nera & altri sogni”, an itinerant exhibition and book (2006) both done together with the Istituto Penale Minorile in Nisida. She has published the novels, Nato da un aquilone bianco (1995), Portami sul palco a ballare (1998), Hai dicio’anni. Sarebbe più facile essere gai o poeti (2007) and in 2011, in collaboration with the Italian Alzheimer’s Association, the collection of short stories, Più o meno qui, vicino al cuore. For the web, she has wrien, No, non sono su Facebook and Caro Lupo Alberto (a collection of leers from over twenty years of correspondence with readers). She says the collaboration with Davide Oldani has added flavour to her life and writing.
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Indice Index
Si italien et si universel Préface de Alain Ducasse
• Branzino al caviale D’O . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
8
• Sea bass and D’O Tapioca Caviar . . . . . . . . . . . . . . . . .
Così italiano e così universale Prefazione di Alain Ducasse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9
Strade drie, strade circolari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52 Straight Roads, Circular Roads . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53
So Italian, so Universal Preface by Alain Ducasse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9
Di oceano in oceano | From Ocean to Ocean
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51
54
• Cardoncello e carciofo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 60
Un artista in punta di forchea Prefazione di Andrea Bocelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10 An Artist Who Draws with the Tip of a Fork Preface by Andrea Bocelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 The reason why. Per cominciare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14 The Reason why. For Starters . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16
• King Oyster Mushroom and Artichoke . . . . . . . . .
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Base solida, altezza reale, profondità massima | Solid Foundations, Royal “Highness”, Maximum Depth. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 62 • Coo-crudo, morbido-croccante, acido-basico: asparago . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68 • Cooked-raw, So-Crunchy, Acid-Basic: Asparagus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69
L’essenza di DO The Essence of DO
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
19
La C del faore Culo | The “C” Factor. . . . . . . . . . . . . . . . 20 • Cipolla caramellata, Grana Padano selezione D’O 2015, caldo e freddo. . . . . . . . . . . . . . . . . 24 • Caramelized Onion, Grana Padano D’O Selection 2015, Hot and Cold . . . . . . . . . . . . . . . . . 25
È semplicemente successo o è successo davvero? | Did it Just Happen or Was it Really Success? . . . . . 26 Vivere appassionatamente. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30 Living Passionately . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31
Gli ingredienti nel piao della vita | Ingredients in the Dish of Life . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32 • Baccalà mantecato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36 • Italian Baccalà Brandade . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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La felicità la cerco (e chissà se la trovo), la libertà la voglio e perciò me la costruisco | I Seek Happiness (Who Knows if I’ll Find it) I Want Freedom and that is Why I Create My Own . . . . . . . 38 Walter è…un capitolo a parte (nella bella storia della mia famiglia) | Walter is… a Chapter All on His Own (in the Beautiful Story that is My Family) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40
Il tempo è fao a scale: da salire, da scendere, da pulire (Ovvero le azioni in cucina: inizi ed evoluzione di un cuoco che pratica la cura e l’organizzazione per continuare a sognare) | Time is Made of Stairs: to Go up, to Go down and to Clean (In other words, things to do in the kitchen: the beginnings and evolution of achef that pays aention and uses organization to keep on dreaming) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 70
Quanto DO c’è in D’O How Much DO is There in D’O
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Sei già dentro l’happy hour | You Are Already in a Happy Hour . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 76 Tu i i significati del D’O: da Oriente a “io” | All the Meanings of D’O: from the Orient to “Me” 79 • Zafferano, oro e riso Dedicato a Gualtiero Marchesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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• Saff ron, Gold and Rice Dedicated to Gualtiero Marchesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Un piao è una storia e l’inizio è…. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 86 A Dish is a Story and it Begins with… . . . . . . . . . . . . . . 87 • Lardo e ghiaccio
L’equilibrio del gusto, l’equilibrio del giusto | The Balance of Taste, the Balance of What is Right. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 44
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• Lard and Ice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93
Pregustare l’assenza | The Fortaste of Absence . . 94
Tra il dire e il fare c’è di mezzo una sedia | Between Saying and Doing There is a Chair . . . . . . 97 • Rombo in carpione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 102 • Turbot “in Carpione” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103
Innnovare è un po’ come… | Innovating is a Lile Like… . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104 • Sardina e burro
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• Sardines and Buer
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Le idee forti non fanno la voce grossa (Come i buoni pia i, che non hanno bisogno di stupirti con effe i speciali, sennò dove li me iamo i nostri Bru i-ma-Buoni?) | Strong Ideas do not Have to Speak Loudly (Like good dishes, that do not need to shock you with special effects. Otherwise, what would we do with our ugly-but-delicious cookies?). . . . . . 112 Rami secchi? Tanti saluti (e baci) | Dead Wood? Thanks and Goodbye . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115 • Cavolfiori, caviale di limone, capperi e uva di mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 120 • Cauliflower, Lemon Caviar, Capers and Sea Grapes . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121
Sono un figo POP | I am a POP Dandy
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Cucina POP: fare piccole cose ma con grande amore | Cucina POP: Doing Small Things with Great Love . 128 • Vellutata di cavolo viola e rosso, striche i al grano arso e uova arancio. . . . . . . . . . . 134 • Velouté of Purple and Red Cabbage, Strichei of Burnt Wheat and Orange Eggs . . . . 135
Non ho l’età. Oppure sì? | I’m not Old Enough. Or am I? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 136
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• Aged Banana. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 159
Fare il pieno di ascolti o di tavoli? (Insomma, è nato prima l’uovo o la gallina?) | Filling Tables or Making Audience? (In other words, what came first, the chicken or the egg?) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 160 Tu i insieme impensabilmente | Everyone Surprisingly Altogether . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162 Mangia come parli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 164 Eat the Same Way You Talk. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 165 • Carota e cioccolato
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Non è tuo in quello che vedi, ma in come la vedi (Altrimenti visto come “Il LA del D’O”, ovvero che cosa si vede quando si entra) | It’s not in Everything that you See, but it’s in How you See it (Or, seeing “the LA in D’O”, or in other words, what you see when you come inside) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 170 Comodità con le C di Calore e Colore | Comfort with Warmth and Colour . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 172 Identità...noiose | Boring Identities . . . . . . . . . . . . . . . . . 175 Scoature da meere a fuoco | Geing my Fingers Burned. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 178 Per ogni cosa ci vuole il suo tempo | Everything Needs the Time it Takes . . . . . . . . . . . . . . . . 180 • Mille s-foglie di mela, meringa, cracker ai semi, paneone e spezie D’O . . . . . . . . . . 184 • Millefeuille of Apple, Meringue, Seed Crackers, Paneone and D’O Spices . . . . . . . 186 Il passato è la tavola della domenica, il futuro una drogheria computerizzata, il presente è…questo qui . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 188 The Past is the Sunday Dinner Table, the Future is a Computerized Grocery Store, the Present is…Now . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 190
Acqua, zafferano e riso alla milanese D’O Milano 2015 | Water, Saffron and D’O Milanese Rice - Milan 2015 . . . . . . . . . . . . . . . . . . 195 • La ricea
Pensare al D’O, pensare il D’O (terra soo i piedi oltre che cielo sopra la testa) | Thinking about D’O, Thinking D’O (The earth beneath my feet and the sky above my head) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 140 • Galleo in vescica
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• Carrot and Chocolate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 169
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Il talento senza umiltà è come il Duomo senza guglie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 126 Talent without Humility is Like Milan’s Duomo without Spires . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127
L’etica e l’estetica del D’O The Ethics and Aesthetics of D’O
• Banana invecchiata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 158
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• Bladder-Cooked Coquelet . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147
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• The Recipe
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La cucina NON regionale italiana (Cucina regionale ragionata italiana) | NON Regional Italian Cuisine (Reasoned Regional Italian Cuisine). . . . . . . . . . . . . . . . . 200
Etica dell’estetica. E viceversa | The Ethics of Aesthetics. And Vice Versa . . . . . . . . . . 148
Il sogno continua… | The Dream Continues… . . . . . 204
L’equilibrio dei contrasti e lo squilibrio dei sogni | The Balance of Contrasts and the Imbalance of Dreams . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153
di Rosangela Percoco |
Tue le C di cuoco Oldani All the C’s of Chef Oldani by Rosangela Percoco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 206
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Credo sia conveniente tenere sempre nel casseo un sogno di scorta. Perché i sogni troppo sognati rischiano di infrangersi contro quello stupido e minuscolo imprevisto, che è così piccolo ma così piccolo da farti fare la fine dell’elefante con il topolino: ti capovolge la vita. A me è successo con un portiere davanti a una porta in un campo di calcio. Non che fosse un topolino, ma era sicuramente un imprevisto. E in fondo non mi ha nemmeno capovolto la vita. Visto come sono andate poi le cose. Ma è stato il sogno di scorta a darmi la forza di andare avanti. I think that it is always important to have a spare dream hidden away somewhere. Because when dreams are dreamt too oen there is a risk of them breaking against something small, silly and unexpected, so small that it ends up being like the elephant and the mouse: it will turn your life upside down. For me it happened with a goal keeper in front of the goalposts in a soccer field. It wasn’t as small as a mouse, but it was certainly unexpected. In the end, it didn’t really turn my life upside down, seeing how things went. But having that extra dream tucked away gave me the strength to go on.
Ha deo bene De André: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori. Salvo che nelle sue canzoni puzze e sudori diventano poesia, nei miei ricordi invece diventano lae, mucche e terra. Il primo acquisto che ho fao è stato proprio il lae, alla faoria, quand’ero bambino. E credo di averlo visto lì. Di aver visto che dove prima c’era puzza di umanità e di sudore, poi arrivano frui profumati. Arrivano conquiste e meraviglie. E forse si realizzano anche i sogni. De André said it best: that nothing is born of diamonds and flowers are born from manure. Except that in his songs, odours and sweat become poetry, in my memories they become milk, cows and the earth. The first purchase I ever made was milk from a farm when I was a boy. That is where I think I saw this for the first time. To have first seen the stench of humanity and sweat, to be followed by fragrant fruits. Conquests and wonders come with time. Maybe even dreams will come true.
Avevo girato il mondo, avuto grandi maestri, conosciuto tante cucine. Mi sentivo abbastanza pronto per aprire un ristorante tuo mio. E ciò nonostante, mio padre continuava a preferire i ravioli della mamma ai miei piai infarciti di mondo e di esperienza. Avevo tecnica e conoscenza, mi mancavano “solo” amore e tradizione. I have travelled the world, had incredible teachers, known many different cuisines. I felt ready to open a restaurant of my own. Even so, my father continued to prefer the ravioli my mother makes to my dishes filled with the world and experience. I had technique and knowledge, what I was missing was “only” love and tradition.
Va bene l’equilibrio dei contrasti, va bene il gioco di squadra, va bene il rispeo per tui, ma l’ideale sarebbe – almeno in fase di correzione del sale – avere tui la stessa idea. Non è una metafora della politica, è soltanto buon senso misto a praticità. È uso intelligente del tempo misto a concretezza, è voglia di raggiungere l’obieivo mista a necessità di non disperdere energie. Insomma, con la politica non c’entra niente. It’s great to have a balance of contrasts, it’s great to have team play, it’s great to have respect for everyone, but the ideal would be – at least at the last stage, when correcting for salt – that everyone has the same idea. It isn’t a political metaphor; it is merely a mixture of common sense and practicality. It is intelligent use of time mixed with concreteness and a desire to reach the objective combined with a necessity to not waste energy.
Il cibo è spensieratezza e riflessione. Un piao è armonia ed equilibrio di contrasti. Come in un coro, dove le voci sono tante e nello stesso tempo una sola. E dove c’è, è vero, una voce che prevale sulle altre. Prevale, non prevarica. Perché una buona musica ci impegna in un ascolto aento, ma lo fa in modo lieve. Così come un buon piao chiama a raccolta tui i nostri sensi, ma lo fa in modo piacevole e senza che un ingrediente sovrasti l’altro. Food is carefree and reflective. A dish is harmony and a balance of contrasts. As in a choir where there are many voices, yet at the same time only one. There is, however, a voice that stands out above the rest. It stands out but does not overpower. Good music draws us into listening carefully, but it does so gently. The same way a good dish brings all our senses to aention, but it does so pleasantly without one ingredient that stands out above the others.
La cucina ben fatta, come ogni cosa ben fatta, non ha scorciatoie. Se arrivi al traguardo troppo presto o troppo facilmente, non è che non te lo sei meritato o che per forza hai sbagliato. Semplicemente, ti sei perso qualcosa per strada. Qualcosa che, in qualsiasi punto ti trovi, prima o poi dovrai andare a riprenderti. Cooking needs to be well done, and as in every thing that is well-made, there are no shortcuts. If you get to the finish line too early or too easily, it doesn’t mean that you don’t deserve it or that you have made a mistake. It simply means you have missed something along the way. Something that, no maer where you are, sooner or later, you will have to go back and repeat.
Grazie A loro, che credono come me nell’etica prima ancora che nell’estetica… …I ragazzi della prima squadra del D’O: Alessandro Procopio, Wladimiro Nava, Matteo Romanò, Riccardo Merli, Filippo Amodeo, Manuele Pirovano e Davide Novati. A tutte le giovani promesse del vivaio.
Thanks To those who believe, as I do, in ethics before aesthetics… …The guys of the first team at D’O: Alessandro Procopio, Wladimiro Nava, Maeo Romanò, Riccardo Merli, Filippo Amodeo, Manuele Pirovano and Davide Novati. And to the young team that is growing with us.