Poliziotti senza paura. Stelvio Massi e il cinema d'azione 8876062785, 9788876062780

Stelvio Massi è stato un grande maestro dei film d'azione. Negli anni '70 e '80 ha fatto divertire e sogn

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Italian Pages 236 Year 2010

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Table of contents :
Direttore: Fabio Zanello
www.ilfoglioletterario.it
Via Boccioni, 28 - 57025 Piombino (LI)
Comune di Civitanova Marche (MC)
Il talento e la gavetta
La riscossa dei b-movies
Civitanova Marche, il primo amore
Danilo
Stelvio e Danilo
A Roma per sognare, primi passi a Cinecittà
Stelvio Massi agli esordi
Stelvio Massi agli esordi
Western e “musicarelli”, ecco la svolta
Gli esordi alla regia
dal surreale al poliziottesco
Stelvio e l’amico Stelvio:
una musica durata trent’anni!
Dopo un thriller, arrivano i tre “Mark”
Franco Gasparri, un divo degli anni Settanta
Gasparri con Stella
Un western ben “camuffato”
e una parata di giganti
John Saxon, da Hollywood
alla “corte” di Massi
Un Monnezza trucido e... “rivoltato”
Mauro Bonanni, in sala di montaggio mai uno screzio
Lo sbirro dagli occhi di ghiaccio
“Cara Civitanova, ti regalo un film”
Giustizia va fatta, con qualsiasi mezzo
Massimo Mirani:
“Fui scambiato per un vero criminale”
Morte annunciata del poliziesco all’italiana
Ricominciare a… tutta velocità
Fabio Testi:
un mito del cinema italiano anni ‘70
La “sceneggiata” sul grande schermo
I docu-film da brivido
L’avventura americana e le “fiction” Rai
Taxi killer (1989)
Recommend Papers

Poliziotti senza paura. Stelvio Massi e il cinema d'azione
 8876062785, 9788876062780

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EDIZIONI IL FOGLIO

COLLANA CINEMA

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Edizioni Il Foglio Collana CINEMA Direttore: Fabio Zanello www.ilfoglioletterario.it Via Boccioni, 28 - 57025 Piombino (LI) © Edizioni Il Foglio - 2010 1a Edizione - Settembre 2010 ISBN 978 - 88 - 7606 - 278 - 0 Elaborazione grafica e impaginazione | [email protected]

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FULVIO FULVI

POLIZIOTTI SENZA PAURA STELVIO MASSI E IL CINEMA D’AZIONE

Edizioni Il Foglio

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Dedico questo libro a mio zio Primo Ventura che mi ha insegnato ad amare il cinema

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PREFAZIONE

Comune di Civitanova Marche (MC)

Civitanova Marche, lì 10 agosto 2010 La decisione di patrocinare questo libro nasce da un incontro avvenuto nei padiglioni della Fiera di Civitanova Marche durante la rassegna “Carta Canta” del 2009. Il presidente della Biblioteca Comunale “Silvio Zavatti”, dottor Marco Pipponzi, mi presentò Fulvio Fulvi, un giornalista di origini marchigiane che vive a Milano, il quale mi disse che stava preparando una pubblicazione sul regista Stelvio Massi, nostro illustre concittadino. Accolsi con piacere la notizia, anche perché su questo protagonista del cinema popolare italiano nessuno aveva mai scritto, finora, una monografia, ed era intenzione di questa Amministrazione sostenere iniziative editoriali in tal senso: come è stato fatto per Sibilla Aleramo, Annibal Caro ed Enrico Cecchetti, altri "figli" civitanovesi che hanno reso lustro alla cultura e all’arte nazionale. Fulvi mi chiese se potevo dargli delle informazioni, dei riferimenti per le sue ricerche. Cosa che feci ben volentieri, anche ricorrendo ai miei ricordi personali. Mi capitò di incontrare Stelvio più volte sul treno per Roma, quando, giovane studente di Medicina, tor5

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navo all’università dopo un periodo di vacanze trascorso a casa. Lui si era già affermato a Cinecittà come operatore di macchina e direttore della fotografia e veniva nella sua Civitanova ogni tanto per rivedere amici e parenti. Ma non ci conoscemmo mai personalmente. In seguito ebbi modo di vederlo all’opera, come regista, proprio nella sua città, dove aveva allestito il set di "Un poliziotto scomodo". Tutta Civitanova allora si mobilitò, incuriosita per l’eccezionale avvenimento, assistendo alle riprese e accogliendo con entusiasmo la troupe. Era l’autunno del 1978. Ricordo che un giorno, mentre ero di servizio al Pronto Soccorso dell’ospedale cittadino, arrivò, accompagnata da alcuni addetti alla produzione del film, Olga Karlatos, che interpretava la parte della maestra. Era svenuta mentre girava una scena, forse a causa del duro lavoro di quei giorni. Ma si trattava, per fortuna, solo di un leggero malore. Ho sentito parlare molto di Stelvio qui a Civitanova: era una persona tranquilla, che non faceva mai pesare a nessuno la sua notorietà. Molti civitanovesi se lo ricordano ancora. Nacque in corso Garibaldi 90, il 26 marzo del 1929, il padre aveva una tabaccheria. Qui frequentò le scuole elementari e visse fino a quando non decise di iscriversi ad Architettura a Roma. Aveva a Civitanova due amici fraterni con i quali intrattenne rapporti anche dopo il suo trasferimento nella capitale: il compianto Nino Quintabà, giornalista del Corriere Adriatico, e Aurelio Ciferri che ha dato un preziosissimo contributo alla ricostruzione della biografia di Stelvio, filo conduttore dell’intero saggio. Approfitto dell’occasione per ringraziare, oltre all’autore del libro, anche la casa editrice “Il Foglio Let6

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terario”, attraverso la persona del suo presidente, Gordiano Lupi, a cui si deve la felice intuizione di volere questo titolo nella collana dedicata al cinema, il Presidente della Biblioteca Zavatti, Marco Pipponzi, e tutti coloro che con la loro testimonianza hanno consentito la realizzazione di “Poliziotti senza paura – Stelvio Massi e il cinema d’azione”, un volume che ha il merito, come hanno sottolineato nelle post-fazioni Luca Pallanch e Domenico Monetti, del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, di far conoscere a tutti un maestro italiano del cinema d’azione, troppo spesso dimenticato, o sottovalutato, dalla critica. Il sindaco

DOTTOR MASSIMO MOBILI

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POLIZIOTTI SENZA PAURA STELVIO MASSI E IL CINEMA D’AZIONE

IL TALENTO E LA GAVETTA

È stato un grande maestro dei film d’azione, un raffinato artigiano del cinema. Negli anni Settanta e Ottanta ha fatto divertire e sognare milioni di spettatori inventandosi uno stile, impastando insieme talento, passione e duro lavoro. Stelvio Massi si è affermato dopo una lunga e robusta gavetta. Cominciò come aiuto operatore: otto anni a custodire bobine, calcolare distanze tra obiettivo e soggetto, mettere a fuoco le inquadrature, rispondere alle esigenze di registi e direttori della fotografia. Poi passò a fare, per altri otto anni, l’operatore di macchina collaborando anche con cineasti come Pietro Germi, Sergio Leone, Sergio Corbucci. Per un decennio fu direttore della fotografia nei “musicarelli” di Ettore Maria Fizzarotti e nei “spaghetti western” diretti soprattutto da Giuliano Carnimeo (Anthony Ascott), uno dei più creativi autori del genere con una spiccata propensione al grottesco. Infine divenne regista e sceneggiatore egli stesso, lasciando un’impronta nella storia del cinema popolare italiano con i suoi 30 film. Accanto a Enzo G. Castellari, Fernando Di Leo e Lucio Fulci, Massi figura tra gli autori più innovativi e fecondi del “poliziesco all’italiana”, genere apprezzato dal pubblico ma attaccato, spesso con ferocia, dalla critica “militante” che sospettava i suoi “discepoli” di «rimestare insistente9

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mente nel torbido per suggerire (…) soluzioni politiche forti» (“Il commissario di ferro”, L’Unità, 9 marzo 1979) in un Paese che in quel periodo era stato gettato nel caos da terroristi, mafiosi, drogati e criminali comuni. Per questo i critici cosiddetti “progressisti”, nella maggior parte dei giornali, bollarono il “poliziottesco” – sprezzantemente e senza distinzioni – come un cinema rozzo, violento, fascistoide e giustizialista. È vero, molte di quelle pellicole furono girate in fretta, scimmiottando i nuovi crime-movies americani ma con scarsi mezzi e senza badare troppo alle sceneggiature, che risultavano spesso rabberciate o inverosimili. Però al pubblico piacevano quei poliziotti “irregolari”, spavaldi e cocciuti alle prese con sanguinari gangster che infestavano le città e che alla fine venivano solennemente sconfitti. Perché chi andava al cinema in quel periodo aveva bisogno di quelle rassicurazioni che nella vita reale non trovava. Sì, qualche volta le storie erano un po’ stonate e fuori dalle righe: non è giusto, però, accumunarle tutte nello stesso spartito. La produzione di Massi, infatti, come quella di altri maestri del “polar italien” di quell’epoca, è ricca di film degni di essere ricordati, e celebrati, per aver dato una risposta alle angosce e alle paure degli italiani e alla loro voglia di andare al cinema per sognare e svagarsi, immedesimandosi nei commissari “liberi”, decisi e tenebrosi che avevano le facce e i corpi atletici di Maurizio Merli, Tomas Milian, John Saxon, Luc Merenda o dell’indimenticabile divo dei fotoromanzi Franco Gasparri, che proprio grazie a una felice intuizione del regista marchigiano venne scelto per dar vita sul grande schermo al poliziotto Mark, protagonista di un “trittico” che sbancò i botteghini segnando un successo che la critica non potè trascu10

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rare. Perché il cinema porta da sempre con sé questa scommessa: interessare, intrattenere, evadere, contribuire a formare l’immaginario dello spettatore anche attraverso “una vita di ricambio che nella realtà rifiuterebbe” (Ennio Flaiano, Diario degli errori). Perciò un regista deve essere sempre se stesso, con lo scopo di raggiungere i gusti del grande pubblico. E Massi questo fece, con competenza, umiltà e senso dell’autocritica nei confronti di certi giudizi troppo “tranchantes”. Infatti, alla presentazione del film Poliziotto senza paura, sollecitato dai giornalisti che lo punzecchiavano sul “valore artistico” del genere poliziesco, lo stesso Massi rispose, con estrema sincerità: «Sì, lo so, non sono sempre film di qualità. Ma che possiamo fare? Ogni volta che presentiamo un progetto diverso i distributori rispondono che è meglio battere sul filone che ha successo, finchè dura. E allora? Rifiutare vuol dire non lavorare più, o almeno essere tagliati fuori» (“Siamo poliziotti ma, credete, ci dispiace proprio”, Paese Sera, 24 novembre 1977). Insomma, è la solita legge del mercato a cui bisogna adeguarsi per poter lavorare. Ciò non ha impedito, però, a lui e ad altri registi, la creazione di film eccellenti. Per realizzarli, i più capaci si sono dovuti affidare spesso solo alla propria tecnica, a un uso abile e scaltro della camera a mano (era ancora lontana l’epoca del digitale) e alla bravura degli attori. Questa è stata anche la forza vincente di Stelvio Massi, uno dei pochi registi di poliziotteschi (e non solo) in grado di sfruttare al massimo le inquadrature per riempire con immagini ad effetto (attraverso primi piani, campi lunghi, dettagli, stratagemmi visivi) le eventuali lacune del copione e ridare un’anima a vicende troppo spesso uguali a se stesse e che seguivano il medesimo 11

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cliché: lo sbirro violento e dalla pistola facile agisce da solo e in barba alla legge ma nell’interesse del cittadino, per assicurare alla Giustizia mascalzoni di ogni risma. Sotto l’occhio attento di Massi, dunque, e grazie ai suoi colpi di genio, la macchina da presa diventa un efficace strumento narrativo, un “aggeggio” che può fare miracoli sul set, quando è guidato dal talento e da mani esperte. Perché, come sostiene Tim Burton, «il cinema è fatto di sensazioni, cariche ed emotive e quindi un’immagine che sa colpirti forte è già, essa stessa, una storia».

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LA RISCOSSA DEI B-MOVIES

All’inizio del Duemila, con l’incrinarsi della dittatura culturale di una certa critica miope e sinistrorsa, il “poliziesco all’italiana”, già ben accolto in Francia e celebrato addirittura dalla Cinemateque National con un ciclo di film dedicati a Fernando Di Leo, è stato riscoperto e riabilitato anche da noi. Ci ha pensato poi, oltreoceano, il grande Quentin Tarantino a zittire i critici più recalcitranti affermando con orgoglio di essersi sempre ispirato per i suoi capolavori, oltre che ai maestri dello “spaghetti western” e dell’horror “made in Italy”, anche ad autori noir come lo stesso Di Leo (da lui paragonato a Don Siegel), Enzo G. Castellari (non è un caso che Bastardi senza gloria ricalchi la vicenda di Quel maledetto treno blindato), Sergio Sollima, Umberto Lenzi e allo stile iperrealistico di Mario Bava (Cani arrabbiati è stato il riferimento per Le iene). Tarantino ama però, per sua stessa ammissione, anche Squadra Volante, di Stelvio Massi, un film unico, perché rappresenta un anello di congiunzione tra il western all’italiana, giunto al declino, e il nascente filone poliziottesco che, come vedremo, ne ha mantenuto alcuni canoni caratteriali e narrativi. Inoltre, Tarantino deve essersi lasciato influire molto dalla “poetica” di Massi nell’ambientazione, di stampo thriller, della parte centrale de Le iene: quell’enorme magazzino dove avviene la “mattanza” ricorda molto, infatti, per atmosfera e suspense, il capannone abbandonato, vicino a Pavia, dove Stelvio girò la sparatoria finale di Sbirro, la tua legge è lenta, la mia no, con tanto di “triello finale” (lo stallo alla messicana tipico 13

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del western, dove tre personaggi si tengono sotto mira con la pistola) e un lungo piano sequenza: si tratta di scene e tecniche adottate quasi sempre da Tarantino nei suoi film e che anche Massi amava usare. E non c’è da stupirsi, visto che il cineasta americano, esponente del cosiddetto avantpop, non ha mai nascosto i suoi “saccheggi”, trasformati in “devoti omaggi” agli autori che lo hanno ispirato. Perché, come diceva Igor Stravinski, «gli artisti veri non imitano, ma rubano». Cosa che fece, peraltro, anche Massi, mutuando talvolta delle tipologie di inquadrature da grandi maestri del cinema americano o rifacendosi a film di successo. Senza mai derogare, però, dal suo stile e dalle sue capacità “narrative”. Va detto, infine, che nel settembre del 2004 anche la Mostra del Cinema di Venezia rese omaggio al poliziottesco, e agli altri b-movies di casa nostra, tanto bistrattati fino a quel momento dalle élite della cinematografia made in Italy: lo fece con una retrospettiva intitolata Storia segreta del cinema italiano. Il cinema di genere tra autorialità e alto artigianato (1960-1980). Ma Stelvio Massi ormai non c’era più, se n’era andato sei mesi prima consumato da una brutta malattia. Non potè partecipare, purtroppo, a una “festa” che lo riguardava da vicino. Eppure se lo sarebbe meritato, lui, che aveva un talento innato e che si innamorò del cinema facendone la sua professione, la sua vita, fino all’ultimo istante.

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CIVITANOVA MARCHE, IL PRIMO AMORE

Stelvio Massi nacque il 26 marzo 1929 a Civitanova Marche (Macerata) in un appartamento di corso Giuseppe Garibaldi 90, nel cuore vivo della città marinara, dietro all’antico borgo dei pescatori, a due passi dal lungomare Piermanni e dalla centrale piazza XX Settembre. Il padre, Amedeo, aveva una tabaccheria mentre la madre, Maria Stella Rossini era la classica casalinga. Aveva una sorella, Eura, che attualmente vive a Roma. Il piccolo Stelvio fece le Elementari e l’Avviamento (equivalente dell’attuale Media) nella cittadina adriatica, poi frequentò l’Istituto d’Arte a Macerata. Al secondo anno di Avviamento, indirizzo Industriale, quando aveva dodici anni, Stelvio conobbe Aurelio Ciferri con il quale stabilì un sodalizio destinato a durare oltre mezzo secolo. Sedevano tutti e due sullo stesso banco e divennero subito grandi amici. «Eravamo così affiatati che, sin da allora, ci siamo sempre considerati come fratelli e tali siamo rimasti 15

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per tutta la vita» racconta Ciferri. Finita la Media si iscrissero entrambi all’Istituto Tecnico Industriale di Fermo, città che però abbandonarono dopo un paio d’anni per seguire un corso di studi ritenuto più congeniale alle loro capacità: l’Istituto d’Arte, a Macerata, in quella che sin allora veniva chiamata “L’Atene delle Marche” per via dell’antica università e di una certa vivacità culturale. Ma la scelta del loro trasferimento fu influenzata soprattutto dalla difficile situazione economica delle rispettive famiglie, ricorda Ciferri: «Eravamo nell’immediato Dopoguerra, tempi duri per tutti. A Fermo dovevamo stare per forza in collegio, e costava troppo, allora si decise di fare gli studenti pendolari prendendo tutti i giorni il treno: percorrevamo i 20 km di distanza da Civitanova a Macerata, e viceversa, con la littorina (che noi chiamavamo il ciuff-ciuff), dove ci divertivamo un sacco a fare scherzi bonari ai compagni. Stelvio sin da allora si rivelò una persona buona e generosa: fondò a Civitanova la prima sezione degli Scout. Ricordo, durante il fascismo, che lui era un “balilla marinaretto” e giocava nella squadra di calcio del nostro rione, che si chiamava La Pineta; era un portiere formidabile: parava tutto, si tuffava da una parte all’altra della porta, aveva molto coraggio». Fu qui, probabilmente, nei campetti parrocchiali, che Massi cominciò ad amare l’azione, ad apprezzarne il valore e ad affinarne il senso che lui aveva innato. «Ma Stelvio era anche un ottimo nuotatore» aggiunge Ciferri «eccelleva nelle gare scolastiche sui 400 metri che facevamo nella striscia di mare davanti alla spiaggia di Civitanova». E la sua passione per il cinema? «Non aveva ancora quindici anni e tutte le sere andava alla Casa del Balilla (nel cui edificio, in viale Vittorio Veneto, oggi si trova la 16

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Biblioteca Civica Silvio Zavatti, ndr), dove venivano proiettati dei film: ma lui non si sedeva quasi mai in sala, andava a trovare l’operatore in cabina (se l’era fatto amico…) perché era curioso di vedere come lavorava, voleva star lì quando si mettevano le “pizze” sul proiettore e partecipare alle operazioni di legatura della pellicola quando si bruciava, cosa che a quei tempi accadeva abbastanza spesso. Stava lì, in cabina, per tutta la durata del film che voleva vedere da quella posizione privilegiata, senza distrarsi mai». Sembra di ascoltare la storia di Totò in Nuovo cinema Paradiso, il film premio Oscar del 1990 in cui Giuseppe Tornatore parla di sé e di come è nato il suo amore per il cinematografo. Siamo di fronte a una straordinaria analogia! È così, dunque, che Massi ha imparato i primi, rudimentali trucchi del mestiere di proiezionista, così ha preso dimestichezza con la pellicola, gli effetti della luce e le reazioni del pubblico osservate dalla finestrella della cabina di proiezione. È così, insomma, che ha incominciato a innamorarsi della “settima arte”. «E in effetti, il cinema diventò molto presto il suo “chiodo fisso”, uno dei suoi amori, insieme alle ragazze e alle automobili». Racconta ancora il suo vecchio amico Ciferri: «Un giorno in aula, durante la ricreazione, si impossessò della macchina da presa in dotazione alla scuola, che era appoggiata su un tavolo, e si mise a giocare insieme con me e altri compagni, fingendo di girare un film. Ma all’improvviso entrò il professor Guglielmo Ciarlantini (il pittore amato dal Fascismo che dipinse, tra l’altro, l’affresco di Mussolini a cavallo nel Municipio di Corridonia, ndr): era il nostro insegnante di educazione artistica e si arrabbiò molto perché ci trastullavamo così, senza badare 17

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ai disegni che ci aveva ordinato di fare come compito in classe. A ripensarci tremo ancora… Quante ne abbiamo combinate insieme, io e Stelvio! A lui piaceva molto andare a ballare il sabato sera e la domenica al Lido Cluana (uno storico spazio davanti alla spiaggia di Civitanova, ndr), dove si innamorò di parecchie coetanee. Conoscemmo e frequentammo insieme anche un’avvenente ereditiera… Gli piacevano anche le macchine e la velocità. Stelvio noleggiava spesso vetture da un concessionario del quartiere San Marone scorazzando con me e altri amici lungo tutta la riviera adriatica. Un giorno però ebbe un incidente e costrinse il padre a pagare un sacco di soldi per risarcire i danni provocati dalla sua guida troppo disinvolta. Dopo il diploma all’Istituto d’arte Stelvio andò a studiare a Roma e noi ci vedemmo più raramente: si iscrisse all’Accademia di Belle Arti per potersi laureare in Architettura. Credo che non avesse ancora pensato di fare il regista. Io invece scelsi un’altra strada. Comunque, abbiamo continuato a vederci ogni estate. Anche quando diventò famoso non disdegnava mai di tornare nella sua città in vacanza: alloggiava sempre all’albergo Villa Eugenia con la moglie Pina e il figlio Danilo. Stelvio ebbe anche una figlia che morì però durante il parto, proprio in una clinica di Civitanova, nel 1960: lui girava un film in Jugoslavia e non ebbe la possibilità di rientrare in Italia: ne rimase profondamente addolorato per parecchio tempo. Cosa posso dire di lui, in conclusione? Per me, e per chi lo ha conosciuto, è sempre stato un ragazzo d’oro». Un altro caro amico del regista a Civitanova fu il giornalista Luigi (detto Nino) Quintabà, corrispondente locale del “Corriere Adriatico”, scomparso qualche anno fa che a lui dedicò articoli e recensioni. 18

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IL RICORDO AFFETTUOSO DEL FIGLIO DANILO

Danilo

Stelvio e Danilo

Ha cominciato all’età di otto anni facendo l’attore nei film “musicarelli” diretti da Ettore Maria Fizzarotti, 19

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nei quali il padre era il direttore della fotografia, poi è stato sceneggiatore, soggettista, aiuto-regista e regista. Tra le sue opere ricordiamo: Ciao cialtroni! (1979), prodotto da Salvatore Smeriglio, interpretato da Francisco Rabal, Vincenzo Crocitti e Mattia Sbragia e girato a Civitanova Marche; Una notte chiara (1989), con Pierpaolo Capponi (anche questo ambientato nella cittadina marchigiana); Il sesto giorno – La vendetta (1994), girato in Venezuela e firmato con lo pseudonimo di Daniel Stone. Come Stelvio, anche Danilo Massi (nato a Roma il 25/01/1956), dunque, ha trovato nel cinema la sua vocazione. Il papà lo ha aiutato a introdursi in un ambiente difficile lasciandolo sempre libero, però, di esprimere la sua creatività e le sue idee. Come ci ha raccontato in questa intervista. Qual è l’insegnamento più importante che suo padre le ha lasciato, nel cinema e nella vita? Di rispettare le persone e il lavoro e di non dimenticare mai che siamo dei privilegiati, perché facciamo un mestiere che amiamo. Lei in molti film di Stelvio Massi è stato aiuto regista, attore, soggettista e sceneggiatore, qual è, secondo lei, l’esperienza in cui il vostro sodalizio si è espresso al meglio? Mio padre mi ha permesso sempre di collaborare con lui. Tra noi sul set c’era complicità e rispetto e spesso mi lasciava molto spazio (ho fatto molte “seconde unità” nei suoi film). Ci sono stati anche degli scontri di vedute di stile e di narrazione. Ma oggi, con un po’ di saggezza acquisita con il passare del tempo, devo riconoscere che aveva sempre ragione lui. C’è qualche episodio, nel rapporto professionale con suo padre, che lei ricorda con più 20

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affetto? Quando avevo ventitré anni mio padre produsse la mia opera prima Ciao cialtroni! (1979). Oltre ad essere il produttore fece anche il direttore della fotografia firmandosi con lo pseudonimo di Stefano Catalano. Io ero molto preoccupato, perché pensavo che dall’alto della sua esperienza, avrebbe sicuramente cercato di influenzare il mio lavoro. Invece fu l’opposto, non si intromise mai nelle mie scelte stilistiche ed artistiche permettendomi di esprimermi liberamente, magari anche sbagliando, lasciandomi così unico artefice del mio lavoro. Questa dimostrazione di stima professionale e di affetto nei miei confronti è una cosa che non dimenticherò mai. Quale tra gli attori che lei ha incontrato sui set diretti da Stelvio lo ha colpito di più? Senz’altro Lee J. Cobb che oltre ad essere un attore eccezionale era un grandissimo signore, anche sul set. Stava sempre lì, tra una scena e l’altra si metteva da una parte aspettando il suo turno. Leggeva. Parlavamo sempre di cinema. Gli chiedevo di Marlon Brando con il quale aveva recitato in Fronte del porto di Elia Kazan. Ma non mi pare che lo stimasse molto… Come dirigeva gli attori Stelvio Massi? Era severo? No, tutt’altro. Con gli attori era molto aperto. Lasciava che liberassero al massimo la loro creatività. Poi prendeva quello che riteneva “credibile” e lo rielaborava. Però, quando vedeva che qualcuno scambiava la sua democratica disponibilità in una debolezza, allora poveri loro! E con gli sceneggiatori? Gli capitava di modificare il copione in... corso d’opera? In quegli anni le sceneggiature a volte si scriveva21

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no mentre si preparava il film, quindi durante le riprese c’era sempre qualcosa che non funzionava. In quei momenti di “panico produttivo”, lui con grande mestiere riusciva a modificare i testi “in corsa” e portare a casa la sequenza. I produttori lo amavano anche per questo. Che rapporto avevate con Franco Gasparri, con il quale avete girato la trilogia di Mark il poliziotto? Vi vedevate anche fuori del set? Mio padre non aveva delle vere amicizie nel mondo del lavoro. Con Franco Gasparri fuori dal set ci vedevamo spesso, ma solo ed unicamente per parlare del lavoro in corso e di futuri progetti. Non c’era tra loro una profonda amicizia, ma una grande stima e complicità. Lo apprezzava molto per la sua timidezza e bontà d’animo, ma soprattutto per la sua voglia di migliorarsi. Quale tra i registi italiani suo padre amava di più? Uno su tutti? Pietro Germi, con il quale aveva lavorato quando era operatore alla macchina. Il film che amava di più era quel capolavoro de Un maledetto imbroglio. Come è nata a Stelvio l’idea di ricorrere, per firmare alcuni suoi film, a pseudonimi americani come Max Steel o Max Stone? Quando lo ha fatto, e perché? Questi pseudonimi sono opera esclusivamente di scelte fatte dalla distribuzione. Può descrivere, magari raccontando un episodio particolare, l’amore di suo padre per la macchina da presa? Che rapporto aveva con questo strumento di lavoro? L’amore per la macchina da presa ha generato un 22

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rapporto di vera e propria monogamia. Anche da regista, molte volte ha fatto il direttore della fotografia e l’operatore alla macchina perché non riusciva a staccarsi da quel ruolo e da quello strumento che amava così tanto. Alcune volte, costretto dal produttore a ricoprire solo la funzione di regista, lo vedevo soffrire, perché non poteva osservare la scena attraverso il mirino della macchina da ripresa. “In quel piccolo rettangolo…” mi diceva “ogni volta si compie un miracolo… la fantasia diventa realtà!” (in quegli anni non c’era il monitor di controllo e tutto era molto più artigianale rispetto a oggi). In virtù di questa sua considerazione mi ha confidato che spesso, guardando il modo attraverso quel confine “dell’immaginario” che è la macchina da presa, non si è reso conto di rischiare anche la vita. Il film documentario che fece a metà degli anni Ottanta, intitolato Mondo cane oggi, in giro per il globo sulla via della droga e nelle situazioni più pericolose, ne è una prova lampante. Perché, secondo lei, la critica osteggiò spesso suo padre? I suoi film venivano definiti anche “reazionari” e lui era qualche volta tacciato di essere un “fascista”. Ma lo era davvero? Il mio bisnonno, Giuseppe Rossini, era repubblicano, aveva la tessera del partito repubblicano delle Marche numero tre. Mio nonno Amedeo Massi è stato un fervente antifascista, quindi mio padre non poteva che percorrere la stessa strada. I critici cinematografici degli anni Settanta/Ottanta erano troppo influenzati dai deliri marxisti di una certa cinematografia cosiddetta “impegnata” e ottenebrati da questo non vedevano che quei film erano solo storie di intrattenimento e svago e ben lontani da messaggi politici. Poi, dopo anni, qualcuno con onestà intellettuale se ne è 23

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accorto ed è iniziata una vera e propria celebrazione di questo genere. Secondo me, forse anche un po’ esagerata…

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A ROMA PER SOGNARE, PRIMI PASSI A CINECITTÀ

Stelvio Massi agli esordi

Stelvio Massi non visse però il suo arrivo a Roma come un classico emigrato. Ce lo spiega il figlio Danilo: «La sua esperienza capitolina, iniziata nel 1952, in poco tempo lo coinvolse così appieno che si sentì parte della città, ma soprattutto sposò quello spirito romano così fatalista che lui amava tanto. Questa sensazione di trovarsi in una città che sembrava la sua da sempre, non gli fece rinnegare o dimenticare le sue origini, ma gli fece vivere quel distacco con serenità ed ogni suo ritorno al paese natale, lo viveva come un ritorno da un’eterna vacanza, dove parenti e amici ogni volta lo ricaricavano di energie». Mentre studiava, Stelvio pensava già al suo futuro: avrebbe voluto entrare nel mondo del cinema per fare lo scenografo, con la laurea in Architettura già in tasca. Ma non fu così. Conobbe subito una bella ragazza, Giuseppina Catalano, e si innamorò di lei. Stavolta sul serio. Gra25

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zie alla fidanzata Stelvio entrò nel mondo dello spettacolo perché uno zio di “Pina” (che molto presto diventerà la signora Massi), faceva di mestiere il direttore della fotografia: si chiamava Carmelo Petralia. «Un giorno zio Carmelo lo portò sul set dove stava girando un film» racconta ancora Danilo «e quando mio padre vide la cinepresa fu un vero e proprio colpo di fulmine e così dimenticò subito le sue aspirazioni da scenografo.

Stelvio Massi agli esordi

Fece il suo primo film Il bandolero stanco interpretato da Renato Rascel, Lauretta Masiero e Tino Buazzelli, per regia di Fernando Cerchio, come assistente operatore (non accreditato, ndr)». Così nel 1952 sbocciarono i due amori della vita di Stelvio Massi: uno per la sua futura moglie e l’altro per la macchina da presa che non abbandonò mai, nemmeno quando, diventato regista, poteva permettersi di far girare solo i suoi operatori risparmiandosi una fatica non in26

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differente. Furono due matrimoni indissolubili. «Stelvio e Pina sono rimasti sposati per cinquantadue anni» sottolinea Danilo «si sono separati solo quando mio padre è morto, il giorno del suo settantacinquesimo compleanno (il 26 marzo 2004, ndr); mia madre se n’è andata invece il 18 maggio dello stesso anno, appena cinquantatre giorni dopo!».

Stelvio e Pina

“Galeotta” fu la capitale, dunque, per Stelvio Massi che, in nome dei suoi due amori, decise di non lasciare mai più. «Va detto però che a Roma papà conosceva sì molta gente» aggiunge Danilo «ma amici veri, forse, non ne ha avuti mai perché il cuore lo portava a mantenere il suo rapporto affettivo con Civitanova e con i parenti e le persone che più gli volevano bene nella città dove era nato». Dopo la prima esperienza cinematografica diretto da Cerchio (Il bandolero stanco era una parodia del 27

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western in stile rivistaiolo), Massi venne chiamato, l’anno seguente, dal regista e documentarista Elìa Marcelli, per fare l’operatore in La grande savana, ambientato in Venezuela e uscito in Italia nel 1954 (è la storia di un uomo che va in Sudamerica in cerca di diamanti e si innamora di una ragazza). Sempre nel 1953 lavora per il grande Vittorio Cottafavi in Una donna libera, storia noir sull’emancipazione femminile, con François Christophe e Gino Cervi. L’anno successivo arriva un doppio incarico da parte di Roberto Bianchi Montero, un ex attore romano della compagnia di Ettore Petrolini che scoprì nel primo Dopoguerra il cinema e ne divenne un bravo artigiano anche dietro la macchina da presa: diresse, tra gli altri, i film Giuramento d’amore e Cantate con noi, nei quali il ventiseienne Massi si mostrò già un cineoperatore di talento. Nel 1956, ecco un’altra esperienza dietro l’obiettivo: il film di guerra Ciao pais, realizzato in Val d’Aosta dal cineasta lombardo Osvaldo Langini e interpretato da due grandi attori dell’epoca, Carlo Ninchi e Leda Gloria. Mentre si stava girando, in una clinica romana nasceva Danilo. Ma Stelvio, impegnato sul set, potè vedere il figlio soltanto un mese dopo, a riprese finite: le regole imposte alla troupe dalla produzione come sempre erano ferree e andar via significava sospendere il lavoro mandando tutto all’aria. Nello stesso anno, l’operatore Massi è ingaggiato per le riprese del melodrammone La trovatella di Pompei di Giacomo Gentilomo, dove recita un’altra gloria marchigiana del cinema, Massimo Girotti. Il regista triestino rimase molto soddisfatto del lavoro svolto da Massi e lo chiamò subito dopo anche per Sigfrido, il racconto della leggenda dei nibelunghi ispirato all’opera di Richard Wagner: in questo set 28

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Massi conobbe Carlo Rambaldi, reclutato da Gentilomo per curare gli effetti speciali del film (costruì, per l’occasione, un impressionante drago meccanico). Sempre nel 1956 Massi è richiesto da Renato Polselli, per Solo Dio mi fermerà, con Memmo Carotenuto nei panni di un prete che aiuta giovani disadattati: un film che piacque al grande pubblico dell’Italia cattolica e democristiana di allora. Tre anni di pausa (secondo quanto risulta dalla filmografia ufficiale), e poi nella vita professionale di Massi arriva la chiamata di Luciano Ricci e dell’inglese Irving Rapper che a Cinecittà stanno per realizzare insieme, e a basso costo, Giuseppe venduto dai fratelli, un mini-colossal in costume, ambientato nell’antico Egitto. Appartiene allo stesso filone storico-mitologio, chiamato in gergo “peplum”, anche il film Maciste nella valle dei re, del 1960, di Carlo Campogalliani, regista di grande esperienza, che volle Massi nel suo team. Si trattava, stavolta, di una produzione internazionale e molte scene vennero girate in Jugoslavia: lì, mentre si trovava sul set, Stelvio apprese della morte della figlioletta avvenuta in Italia durante il parto: anche stavolta non potè lasciare il posto di lavoro per recarsi oltre l’Adriatico (la moglie era ricoverata a Civitanova), la sua assenza avrebbe compromesso l’intera produzione. Chi fa questo mestiere è come un soldato di ventura, soggetto a una logica spesso disumana. A Maciste seguirà pochi mesi dopo, Ursus, dello stesso Campogalliani: una pellicola piacevole e divertente nella quale recitarono anche Moira Orfei e Mario Scaccia. Il genere storico-mitologico andava fortissimo allora a Cinecittà, tant’è che Massi fece parte, sempre come operatore di ripresa, delle troupe di al29

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tri peplum, coadiuvando i registi Riccardo Freda (Maciste alla corte del Gran Kahn, del 1961) e Antonio Leonviola (Maciste nella terra dei Ciclopi). Un altro incontro decisivo per la carriera di Stelvio Massi avvenne nel 1960 quando Sergio Corbucci lo richiese alla produzione, su consiglio del suo direttore della fotografia Enzo Barboni, per le riprese di Romolo e Remo. Quasi in contemporanea, Stelvio lavorò, con l’immancabile cinepresa in spalla e sempre per Corbucci, ne I due marescialli con Totò e Vittorio De Sica, commedia grottesca che risultò molto gradita al pubblico. «Due attori straordinari, impareggiabili, se Corbucci non gli dava lo stop loro continuavano a recitare fin dentro i camerini» riferisce Massi nell’intervista rilasciata a Matteo Norcini per la rivista Amarcord (gennaio-febbraio 1997). Durante la prima settimana di riprese a Cinecittà, Massi, Corbucci e tutti gli altri del cast tecnico lavoravano su questo set solo il pomeriggio perché la mattina erano impegnati a girare le ultime scene di Romolo e Remo: era davvero un momento d’oro per il cinema italiano e il lavoro non mancava di certo! Infatti, nel 1960 per l’operatore Massi ci sono altri tre incarichi da parte di registi importanti: I quattro monaci, di Carlo Ludovico Bragaglia, con uno scoppiettante quartetto di attori comici composto da Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo, Erminio Macario e Nino Taranto; Totò Diabolicus di Steno (un giallo-comico dove il principe della risata interpreta la parte di tre fratelli), e l’importante documentario di Antonio Petrucci sui lavori dello storico Concilio Ecumenico Vaticano II. In seguito, Massi è impegnato in altre sei pellicole dirette da Corbucci, fino al 1964: si tratta ancora di un peplum (Il figlio di Spartacus), di tre commedie 30

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con Totò (Lo smemorato di Collegno, Il monaco di Monza e Gli onorevoli), di un western spaghetti (Massacro al grande canyon) e persino in uno dei tanti film-parodia realizzati all’insegna del “mordi e fuggi” (le riprese duravano sempre meno di un mese) con la “coppia d’oro” dei comici siciliani Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (Il giorno più corto, parodia de Il giorno più lungo, un must dei war-movies). Ed è proprio nel 1964 che Stelvio, divenuto uno degli migliori operatori di macchina sulla piazza di Cinecittà, ha l’opportunità di lavorare a fianco del maestro del cinema che ha amato di più: il grande Pietro Germi, autore nel 1959 di Un maledetto imbroglio, film che possiamo definire “l’antenato nobile dei polizieschi all’italiana”, il film tratto dal romanzo “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” del quale anche Massi si innamorò tenendolo sempre nel cuore. Per volere di Aiace Parolin, il collaboratore più stretto del regista genovese, Stelvio entra nella nutrita e autorevole troupe di Sedotta e abbandonata, uno dei capolavori della commedia all’italiana, girato nel borgo di Sciacca, in Sicilia. «Germi era un grande anche nello spirito – ricorda Massi nella citata intervista per Amarcord – a volte si metteva in un angolo del set con il cartello “Non disturbatemi, sto pensando”, ma lo faceva apposta». Stare a contatto quotidianamente con due geni del cinema come Germi e Parolin (direttore della fotografia anche del mitico Stromboli terra di Dio di Roberto Rossellini) fu per Massi un’esperienza esaltante che servì ad affinare le sue capacità nell’uso della camera di ripresa e a comprendere meglio quel sogno chiamato cinema in cui era entrato, come per incanto, in punta di piedi, dieci anni prima. Un sogno che adesso voleva vivere davvero da prota31

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gonista. Tornato a Roma dalla Sicilia, Stelvio raccontò al figlio Danilo, che allora aveva sette anni, dello splendido mare siciliano, dei pescherecci e del porto che gli evocavano la sua Civitanova. E incominciò anche a pensare che la svolta nella sua carriera sarebbe arrivata molto presto.

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WESTERN E “MUSICARELLI”, ECCO LA SVOLTA

Sergio Leone e troupe

Nel dicembre del 1963 Stelvio Massi andò a vedere insieme con l’amico Enzo Barboni (il direttore di fotografia preferito da Sergio Corbucci) il film del giapponese Akira Kurosawa, La sfida del samurai (titolo originale, Yojimbo) proiettato al cinema Arlecchino di Roma. Uscirono entrambi dalla sala piacevolmente sorpresi da quel piccolo capolavoro. Fecero due passi nella vicina Piazza del Popolo e s’imbatterono per caso con Sergio Leone, seduto ai tavolini del Bar Canova insieme a Cesare Ceschi, al soggettista Luigi Emanuele e al regista e sceneggiatore Roberto Natale. «Abbiamo appena visto un film stupendo: vacci anche tu, ti potrà ispirare!» gli disse Barboni. E il giorno dopo Leone andò al cinema con la moglie Paola per godersi il film nipponico tanto osannato dal suo collega. Così nacque l’idea di realizzare “Per un pugno di dollari”, il cui soggetto è stato… “tratto di peso” dalla 33

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vicenda narrata da Kurosawa. Anzi, si può dire che, escluse l’ambientazione (diventò, infatti, il primo western all’italiana) e un ritmo decisamente più serrato, si tratta proprio della stessa trama anche se plasmata con uno stile che diventerà la chiave del successo di Sergio Leone anche a Hollywood generando un filone che nel decennio 1964-1973 contava in Italia oltre quattrocento titoli! L’apporto di Massi come operatore alla macchina fu consigliato a Leone dallo stesso Barboni: nei titoli del film, però, il nostro figura con lo pseudonimo di Steve Rock. Si decise infatti di adottare per tutti, attori e tecnici, dei nomi americani perché il film sarebbe stato distribuito anche Oltreoceano e non si doveva sapere chi aveva così spudoratamente copiato la storia di Kurosawa. Le riprese cominciarono il 25 marzo del 1964 e durarono 9 settimane. Si girò per quindici giorni in località della provincia di Roma e per il resto nella desolata regione spagnola dell’Almeria, con pochi mezzi e numerose difficoltà, tra cui la carenza di pellicola e improvvisi guasti degli impianti elettrogeni. Il film costò solo 120 milioni di lire e incassò quasi due miliardi!

Massi controlla la luce 34

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Dopo essersi appena gustato l’imprevisto successo di Per un pugno di dollari (gli spettatori facevano la fila davanti ai cinema per andarlo a vedere) arriva per Massi la prima di una lunga serie di collaborazioni con il regista napoletano Ettore Maria Fizzarotti che aveva conosciuto dieci anni prima sul set di Una donna libera di Cottafavi. Con lui Stelvio diventa finalmente direttore della fotografia: lo affiancherà quasi sempre nella realizzazione dei suoi film che si ispiravano a canzoni famose, i cosiddetti “musicarelli”. Il primo fu In ginocchio da te, nel 1964, durante la cui lavorazione Gianni Morandi si innamorò della sua futura moglie Laura Efrikian. Anche questo film nelle sale spopolò e poche settimane dopo la produzione (Ultra Film) decise di cominciare le riprese di Non son degno di te: squadra che vince non si cambia e così l’intera troupe venne riconfermata. Quindi è la volta, sempre nello stesso anno, di Una lacrima sul viso, con Bobby Solo. Il successo di pubblico è incredibile e Fizzarotti insiste: nel 1965 ecco Se non avessi più te, e Mi vedrai tornare, ancora con il ragazzo di Monghidoro protagonista e Massi a dirigere con mano agile e occhio esperto la fotografia. Nel 1964 il cineasta spagnolo José Luis Monter realizza Genoveffa di Brabante-La lancia della vendetta, un seguito della storia di Sigfrido e per le immagini e le luci si affida a Massi che in questa produzione italo-iberica ha la possibilità di esprimere in pieno il suo senso estetico contribuendo all’ottimo risultato stilistico del film, sceneggiato da Riccardo Freda, interpretato da Alberto Lupo (reduce dall’enorme successo ottenuto nello sceneggiato televisivo La cittadella) ma passato quasi inosservato, purtroppo, dalla critica e dal grande pubblico. 35

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L’ottimo esito commerciale di Per un pungo di dollari spinse in seguito anche gli spagnoli a realizzare un cospicuo numero di film western, spesso in coproduzione con gli italiani e i francesi: così, stavolta, è il regista catalano Alfonso Balcàzar a chiamare Massi, ormai specializzatosi anche nelle riprese di questo genere, come direttore della fotografia ne L’uomo dalla pistola d’oro, del 1965. Il lavoro, per Stelvio, non ha soste. Gli incarichi si susseguono uno dietro l’altro e qualche volta si sovrappongono: sul set di All’ombra di una colt, diretto da Gianni Grimaldi (noto soprattutto come sceneggiatore cinematografico, televisivo e teatrale) svolge il ruolo di “supervisore” della fotografia. Poi torna a lavorare con Fizzarotti nel 1966 per Nessuno mi può giudicare, costruito sulla canzone della vibrante Caterina Caselli da Sassuolo, detta “il casco d’oro” per via della bionda capigliatura. In otto anni, dal 1965 al 1973, saranno ben trenta i lavori a cui l’infaticabile Massi parteciperà nel ruolo di direttore della fotografia. Tra questi vanno ricordati, oltre ai musicarelli di Fizzarotti (Il suo nome è donna Rosa, 1969) e di Mariano Laurenti (I ragazzi del Bandiera gialla, 1967), una raffica di spaghetti western della migliore tradizione. Su tutti va senz’altro menzionato Per il gusto di uccidere, di Tonino Valerii, del 1966: è la storia di un implacabile cacciatore di taglie che annienta gli assalitori di banche con un fucile di precisione. Il film, semplice nella trama ma di buona fattura, racchiude in sé il germe dei poliziotteschi, cosa che si può dire anche di Per un pugno di dollari, al quale Valerii collaborò. Lo stesso discorso vale per Vendo cara la pelle, del 1968, uno sconfinamento di Fizzarotti nel genere dei duelli a 36

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colpi di revolver (la colonna sonora è curata da Enrico Ciacci, fratello di Little Tony). Il soggetto del film presenta delle straordinarie analogie con l’opera di esordio di Massi come regista, Squadra volante (lo vedremo più avanti), anche se il finale non è così amaro: un pistolero cerca di vendicarsi degli assassini dei suoi familiari e, nonostante innumerevoli complicazioni, alla fine ce la fa e vive felice e contento con la sua nuova donna. E che dire, poi, di Dio perdoni la mia pistola, dignitosa quanto misconosciuta pellicola del 1969 di Mario Gariazzo e Leopoldo Savona? Qui un ranger rimedia a un’ingiustizia subita da altri facendo piazza pulita dei malandrini a colpi di colt. Anche questo sarà un tema ricorrente nei polizieschi all’italiana. Si scosta invece dai consueti canoni del western per avvicinarsi a quelli propri del “giallo politico” l’originalissimo film Il prezzo del potere, del 1969, con Giuliano Gemma protagonista, diretto da Valerii e fotografato splendidamente da Massi: l’assassinio di John Kennedy a Dallas viene trasposto all’epoca immediatamente successiva alla Guerra di Secessione e la trama si basa sulla ricerca del colpevole. Forse Valerii ha già percepito l’inizio del declino di un genere e cerca nuove soluzioni… Nell’età d’oro dei western spaghetti, comunque, Massi è tra le figure più richieste dai cineasti per la sua professionalità e per l’estro dimostrato nelle riprese, soprattutto con la macchina a mano che consente di dare maggior dinamismo alle scene d’azione. Ma bisogna essere bravi davvero per ottenere i risultati voluti dal regista. E Massi non si ferma un minuto. La sua attività è frenetica. Gira sette film per Giuliano Carnimeo (che si firma Anthony Ascott) un maestro che ha saputo rinnovare il genere soprattutto dando 37

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un’impronta grottesca ai bounty killer. A parte Il momento di uccidere (1967), ambientato nella Guerra di Secessione Americana, gli altri film di Carnimeo sono tutti western stravaganti e divertenti, che rasentano la parodia di quelli americani, a cominciare dagli originalissimi, ammiccanti titoli: Buon funerale amigos… paga Sartana e C’è Sartana, vendi la pistola e comprati la bara! (dove Massi scommise con i colleghi sulla capacità dell’attore Gianni Garko di tenere la pistola in pugno perché gli cadeva sempre dalle mani) entrambi girati nel 1970; Gli fumavano le colt… lo chiamavano Camposanto (spopolò, a Roma bisognava prenotare un biglietto due settimane prima per poterlo vedere!) e Testa t’ammazzo, croce… sei morto, mi chiamano Alleluja (dove i protagonisti “si giocano” una finta suora gnocca) del 1971. Ma l’apoteosi del grottesco viene toccata con Il West ti va stretto amico, è arrivato Alleluja (con atmosfere da “Oggi le comiche”), del 1972, e con Lo chiamavano Tressette… giocava sempre col morto (“quello che venderebbe la madre anche a rate…”) dell’anno successivo. Tutti film bizzarri ma che riempivano ogni volta le sale, e non solo di giovanotti. Stelvio Massi si cimenta anche con due pellicole di spionaggio dirette dall’ottimo Sergio Grieco (Terence Hathaway): Tiffany Memorandum (1967), ispirato alla figura dell’agente 007 e Rapporto Fuller, base Stoccolma (1968), la cui storia venne ripresa dai racconti di Segretissimo, la collana di “Top secret” pubblicata allora dalla Mondadori. Con lo stesso regista, Massi lavorò anche ne Il sergente Klems (1971), una vicenda avventurosa ambientata nella Legione Straniera (forse il miglior film dell’autore padovano). Stelvio in seguito farà il responsabile della secon38

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da unità per Mario Russo nella commedia Top crack e tornerà a dirigere la fotografia sia per l’ultrasettantenne Nunzio Malasomma nel western Quindici forche per un assassino, che narra di due bande rivali accusate di aver assassinato tre donne, sia per Michele Lupo in Troppo per vivere, poco per morire, un thriller in salsa londinese che la critica definì un bmovies di lusso. Nel 1968 Grimaldi propone una parodia del capolavoro di Luis Bunuel Bella di giorno con il duo Franchi-Ingrassia e sforna Brutti di notte chiamando ancora Massi per la fotografia. Nell’anno della contestazione giovanile, inoltre, ecco L’alibi, un film autobiografico e fuori dagli schemi della triade Vittorio Gassman, Adolfo Celi, Luciano Lucignani, tre uomini accumunati dall’arte e dall’anno di nascita, il 1922: Massi è alla macchina da presa anche stavolta e ha a che fare con due mattatori del cinema e del teatro e con uno sceneggiatore di rango: se la caverà benissimo. Finito il lavoro in questo set, passa subito a quello di Un posto all’inferno, di Giuseppe Vari (Joseph Warren): film di guerra a basso costo con Fabio Testi tra gli interpreti. La vicenda ispirerà Massi per la realizzazione del suo war-movie Eroi dell’inferno, nel 1987. Nel frattempo Stelvio viene interpellato da Giorgio Albertazzi per un progetto televisivo importante. È il 1968 e anche la Tv si sta trasformando: il grande attore toscano è impegnato nella trasposizione per il piccolo schermo del romanzo vittoriano Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson in una rilettura in chiave moderna, e vuole nel suo staff il miglior direttore della fotografia, per creare, con i giusti giochi di luci e ombre, le atmosfere inquietanti e orrifiche previste dal copione. Lo 39

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sceneggiato prodotto dalla Rai e intitolato Il dottor Jekyll, scritto (con Ghigo De Chiara), diretto e interpretato da un superbo Albertazzi (eccellente co-protagonista è Massimo Girotti), andò in onda all’inizio del 1969 in quattro puntate di un’ora ciascuna ed ebbe un successo straordinario. La vicenda, incentrata sulla doppiezza della natura umana, è ambientata negli anni ’60 in un’imprecisata località, si recepiscono i fermenti dell’epoca e Jekyll non è un medico ma un biologo molecolare che si occupa di ricerche genetiche. Massi cura personalmente anche le riprese filmate e il risultato è un bianco e nero emozionante che comunica allo spettatore sensazioni allucinanti e claustrofobiche. «Io e Stelvio eravamo amici, mi sono divertito molto con lui anche fuori dal set, ricordo le gran risate che ci siamo fatti» rammenta Albertazzi al quale abbiamo telefonato durante le prove de La tempesta di Shakespeare che avrebbe debuttato il giorno dopo al teatro romano di Verona. Il maestro ha 87 anni, da l’impressione di essere affaticato dal duro lavoro e dal grande caldo di quei giorni di luglio. Ma quando gli parliamo di Massi non vuole mollare l’apparecchio. Anzi, di colpo sembra ringiovanito, la sua voce inconfondibile si fa più baldanzosa e brillante. «Per realizzare Jekyll avevo bisogno di un bravo fotografo, di uno che oltre a saper usare bene la telecamera fosse in grado di introdurre effetti elettronici durante le riprese e in sede di montaggio, per questo chiamai Massi, che riuscì perfettamente nell’intento. Quello sceneggiato ha rappresentato una svolta nella storia della televisione italiana. Un giorno Stelvio mi disse che nella sua carriera avrebbe voluto fare il regista ma io lo sconsigliai… secondo me poteva raggiungere più alti livelli limitandosi a fare il direttore 40

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della fotografia». In seguito Albertazzi fu chiamato da Massi regista per interpretare due film: Cinque donne per l’assassino, come protagonista, e Mark il poliziotto, in cui vestì i panni di un austero questore.

Albertazzi sul set di 5 donne…

Dopo questa parentesi televisiva, Massi tornò all’amato cinema, sempre come responsabile della fotografia. Il 1969, per lui, è l’anno de L’arcangelo, una commedia tinta di giallo diretta da Giorgio Capitani che si distingue soprattutto per il suo protagonista sulla scena: quel mattatore di Vittorio Gassman affiancato da una briosa Pamela Tiffin (l’ex modella americana che recitò in Uno, due e tre, diretto da Billy Wilder). Nel 1970 Tonino Valerii, realizza una versione cinematografica del bel romanzo di Milena Milani: La ragazza di nome Giulio che tratta delle esperienze saffiche di una giovane alla ricerca della sua identità. La protagonista Silvia Dionisio e gli altri attori del cast se la cavano con molto mestiere. Ma il ri41

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sultato non è granché. Massi come sempre, fa un lavoro inappuntabile alla macchina da presa, nel consueto ruolo di direttore della fotografia. È il 1971 e il cinema italiano sta mutando pelle: il western è un genere ormai logoro e i produttori non intravvedono ancora un filone che convinca il pubblico e ridia ossigeno all’industria cinematografica italiana. Duccio Tessari, considerato uno dei padri del western-spaghetti (ha inventato il personaggio di Ringo, affidandolo a Giuliano Gemma), interpella Massi per un film tecnicamente molto difficile da realizzare: Forza G, la storia di un ardimentoso aviatore. Per filmare un decollo ad effetto e le acrobazie aeree viste da vicino, Stelvio si fece legare alla carlinga del velivolo, rischiando la pelle. La crisi di idee dei cineasti di casa nostra porta a ripiegare le case di produzione sulle commedie sexy: e la scelta, dal punto di vista commerciale, sembra funzionare. Sergio Martino assume Massi nel 1972 per la fotografia di Giovannona coscialunga disonorata con onore: un lavoro non proprio banalissimo, raccontato con una certa dose di ironia e recitato da un cast di tutto rispetto: l’affascinante Edwige Fenech quasi sempre in calze nere e guepierre, è affiancata da Pippo Franco, Vittorio Caprioli, Riccardo Garrone e dall’ottimo caratterista fiorentino Gigi Ballista dalla voce rauca. Incassò 827.000.000 di lire. Questo film precede uno dei primi “poliziotteschi” di cui Sergio Martino è autore, pellicola considerata un caposaldo del filone: Milano trema, la polizia vuole giustizia, con Luc Merenda nei panni del commissario e Richard Conte in quelli del boss: è il naturale sviluppo dei western che pure videro il regista romano tra gli interpreti più efficaci e popolari. Ma stavolta Massi 42

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non c’è. Il giallo torna a colorare la già vivida carriera di Stelvio grazie a un altro film diretto da Giuliano Carnimeo (Anthony Ascott) nel 1972: Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer? Protagonista è ancora la Fenech, ma stavolta un po’ più vestita del solito, anche se interpreta una fotomodella. Tra gli attori figurano pure George Hilton, Paola Quattrini, la procace Annabella Incontrera e Oreste Lionello. Forse il film, il cui titolo riprenderebbe dei versi ossianici, è un po’ lascivo ma riesce a provocare i brividi giusti agli spettatori. Più complessa è la storia raccontata da Brunello Rondi (fratello minore del critico Gian Luigi) nel film Ingrid sulla strada, un mix tra commedia, thriller e giallo tradizionale. È incentrato sull’indagine psicologica della figura femminile ma non riesce a far presa sul pubblico nonostante il cast. Esce nel 1973 ed è la penultima fatica di Massi come direttore della fotografia in film non diretti da lui. L’ultima esperienza del genere infatti è rappresentata da una commedia leggera, Il brigadiere Pasquale Zagaria ama la mamma e la polizia, del giovane Mario Forges Davanzati con Lino Banfi (che, guarda caso, all’Anagrafe fa proprio Pasquale Zagaria…), nel ruolo di un poliziotto arruffone e … “incasineto”. E così, nel 1973 si chiude un altro capitolo della carriera di Stelvio. C’è solo da registrare una parentesi, ventuno anni dopo, nel 1994, quando decide di curare le immagini di Tuono di proiettile, una pellicola di spionaggio diretta da Vincent Ricotta (in arte James Lloyd) e interpretata da Bob Freeman che narra di uno scienziato della CIA inventore di un proiettile di straordinaria potenza in grado di far esplodere il corpo di chi viene colpito: si tratta di un 43

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film prodotto in Italia ma destinato al mercato estero (ora disponibile anche da noi nella versione dvd).

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GLI ESORDI ALLA REGIA DAL SURREALE AL POLIZIOTTESCO

«Quando papà stava sul set era talmente a suo agio che sentiva quasi un senso di onnipotenza perché poteva creare storie e modificare i destini dei personaggi rendendoli credibili». Sta in queste parole di Danilo l’essenza umana e professionale di Stelvio Massi regista. La sua personalità era equilibrata, non aveva mai scatti di rabbia, come vedremo dalle testimonianze degli attori che lui ha diretto nei suoi 30 film. Con l’esperienza accumulata facendo per tanti anni il direttore della fotografia acquisì una cifra stilistica che gli consentì di ottenere, con i movimenti che sapeva dare alla macchina da presa, anche ciò che agli altri sembrava impossibile. Era innamorato del cinema d’azione americano e non disdegnava di salire nei posti più impensati pur di realizzare la scena che aveva in mente, e molte volte si esponeva mettendo in pericolo la propria vita (lo aveva fatto spesso anche prima). Come quando - racconta Tomas Milian in un’intervista a Nocturno - sul set di Squadra Volante rischiò di essere decapitato mentre, sportosi dal finestrino dell’auto, riprendeva l’attore che correva a più di duecento all’ora per le vie di Roma! Anche per questo (oltre che per la robusta sceneggiatura di Dardano Sacchetti) il film si è dimostrato subito un piccolo capolavoro del genere poliziottesco. E fece una barca di soldi, nonostante gli attacchi della critica. Alla prima nazionale, il 2 maggio del 1974, nella sala del Metropolitan di Roma, il pubblico applaudì la spettacolare scena in cui l’auto della polizia prende fuoco per una raf45

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fica di mitra sparata dai banditi. E Massi, seduto in prima fila, arrossì di vergogna. La proiezione del film a Civitanova qualche mese più tardi, diventò, invece, l’occasione per festeggiare il ritorno del “figliol prodigo” che aveva fatto le valigie 26 anni prima per andare a Roma in cerca di fortuna. Stelvio ritrovò tutti i suoi amici e quelli del padre, che intervennero in massa, e ricevette dall’Amministrazione comunale, guidata allora dal sindaco Antonio Bertoni, una pergamena e la riproduzione di una barchetta vichinga. La critica, comunque, lo stroncò: Pietro Bianchi su Il Giorno del 3/05/1974 scrisse: “Siamo di fronte a un film B che non nasconde il suo scopo gastronomico: vuol farsi digerire in fretta senza l’aiuto del bicarbonato”. Per lui si tratta di un “melodramma contemporaneo”. Il Corriere della Sera del 3/05/1974 con un articolo siglato L.A. parla invece di “sceneggiatura striminzita” e giudica il film “prevedibile, ingenuo, banale nel disegno dei personaggi” e, addirittura “appesantito da una regia senza polso”! Ma l’avrà visto davvero? L’impressione, anche in questo caso, è che abbia pesato molto il pregiudizio nei confronti del genere poliziottesco. Ma il film con Milian e Moschin, benché uscito prima nelle sale italiane, non è l’opera d’esordio di Stelvio Massi regista, che nel 1973 aveva già ultimato le riprese di un polpettone drammatico-sociale dal titolo criptico: Macrò. Il film, che rientra nel filone “cristologico”, venne distribuito (poco e male) due anni dopo. E purtroppo risultò un flop.

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MACRÒ - GIUDA UCCIDE IL VENERDÌ (1975)

Macrò in vhs

Regia: Stelvio Massi; Produzione: Solfilm International; Direttore di produzione: Aurelio Serafinelli; Soggetto: Mario Gariazzo; Sceneggiatura: Enrico Roda, Mario Gariazzo, Paolo Levi; Direttore fotografia: Sergio Rubini; Montaggio: Mauro Bonanni; Musiche: Nico Fidenco; Cast: Leonard Mann (il Salvatore), Sofia Cammara (Maddalena), Dadda Gallotti, Angelo Infanti (Giuda), Franco Citti, Umberto D’Orsi, Luciano Rossi; Durata: 92’. Racconta la storia di Cristo come se fosse ai giorni nostri. Maddalena è una prostituta di alto bordo e lavora a Roma. Un giorno, per caso, incontra un gruppo di hippy che viene arrestato ingiustamente dalla polizia: rimane affascinata dal capo, un capellone con la barbetta incolta che predica l’amore vero e suona la 47

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chitarra per strada con la sua eccentrica band. La squillo vuole smettere di fare l’ingrato mestiere e seguire il carismatico leader dei figli dei fiori. Così, grazie ai favori di un politico suo cliente, fa liberare dalla prigione il giovanotto mettendosi contro il suo protettore, Gino, che quindi le rende la vita alquanto difficile. Ma nulla può il mantenuto per dissuadere la ragazza dal suo proposito: lei è innamorata del salvatore al punto che ne disegna il volto col rossetto su un vetro, baciandone l’effigie come fosse un’icona. Tutto sembra andare secondo i suoi desideri finché il magnaccia non escogita un tranello per tenere con sé la donna ed eliminare il suo rivale in amore (che gli toglierebbe anche il reddito…). Lo inganna, proprio come fece Giuda con Gesù, durante un convivio tra amici. Lui ci casca, si reca nottetempo allo squallido luogo convenuto, viene travolto da un carosello di moto in corsa e finisce spappolato sull’asfalto tra le braccia della sconsolata Maddalena. Macrò, dal francese maquereau, è una parola desueta che vuol dire, appunto, magnaccia. Il film è un’amara trasposizione, ai tempi d’oggi, della vita di Cristo vista con lo sguardo, e il cuore, di Maria di Magdala. Ma non ci sia annoia. La sceneggiatura originale gli sembrava troppo surreale e così Massi lavorò a lungo insieme alla moglie Pina (non accreditata) per affinarla e renderla più credibile. Nonostante i tempi stretti e la fretta del produttore, il risultato fu più che dignitoso, ma pubblico e critica snobbarono il film. La storia è raccontata con garbo, senza blasfemie. Molti i primi piani che scavano negli occhi dei personaggi, le inquadrature sono sempre efficaci; le inevitabili scene di violenza e brutalità sono rese con realismo e senza mai esagera48

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re. Come il pestaggio della prostituta ribelle sulla quale i bastardi papponi, per spregio, mingono senza ritegno. Uno squarcio documentaristico su Gandhi e Luther King simboli della pace universale spezza il ritmo alla vicenda regalandole un’inutile retorica. Franco Citti è perfetto nel ruolo dello spietato capo dei manutengoli. Molto belle le musiche di Nico Fidenco. Il film, divenuto un cult anche perché raro da trovarsi nelle edizioni vhs e dvd, è stato distribuito pure col titolo L’ala sotto il piede, prendendo spunto dalla scena iniziale in cui Maddalena raccoglie un aquilone a forma di uccellino, finito, dopo un volo leggiadro, sotto una scarpa dell’uomo straordinario di cui si innamorerà.

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SQUADRA VOLANTE (1974)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: CBA Distributori Associati; Produttore esecutivo Amleto Adami; Soggetto: Dardano Sacchetti; Sceneggiatura: Dardano Sacchetti, Adriano Bolzoni, Franco Barberi, Stelvio Massi; Direttore della fotografia: Sergio Rubini; Montaggio: Mauro Bonanni; Scenografie: Carlo Leva; Direttore di produzione: Antonio Girasante; Aiuto regista: Dardano Sacchetti; Operatore: Michele Pensato; Assistente operatore: Aldo Bergamini; Truccatore: 50

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Franco Di Girolamo; Parrucchiera: Jole Angelucci; Musica: Stelvio Cipriani; Cast: Tomas Milian (agente Tommaso Ravelli), Gastone Moschin (il marsigliese), Stefania Casini (Marta), Guido Leontini (Mario Bellotti detto Cranio), Ilaria Guerrini (Federica, la cognata di Ravelli), Mario Carotenuto (Lavagni), Raymond Lovelock (Rino, il filosofo), Giuseppe Castellano, Marcello Venditti (Serbia), Gabriella Cotignoli, Fabrizio Cazzotti, Nino Curatola, Giorgio Basso, Carla Mancini, Antonio La Raina, Enzo Andronico, Luca Sportelli (il postino), Orazio Stracuzzi; Durata: 90’.

Tomas Milian

Durante una rapina a un portavalori nel centro di Pavia un poliziotto viene ucciso. La banda, per poter agire indisturbata, finge di essere una troupe cinematografica impegnata a girare un film (un’invenzione geniale!). L’agente dell’Interpol Tommaso Ravelli, inca51

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ricato di indagare, si mette subito sulle tracce del clan capeggiato dal marsigliese: è lo stesso gangster che anni prima gli uccise la moglie mentre usciva da un supermercato. Il film è tutto incentrato sull’estenuante caccia all’uomo e alla banda di criminali che piano piano viene decimata autoeliminandosi. Alla fine il poliziotto riesce a incastrare il boss: lo affronta sulla banchina di un porticciolo del Po in una specie di duello fatto di sguardi truci. Ma a un certo punto quel bastardo di Ravelli butta via il distintivo di agente dell’Interpol uccidendo il suo rivale a sangue freddo infischiandosene del fatto che lui, ormai senza scampo, aveva alzato le mani in segno di resa. «Ce l’hai fatta, poliziotto» commenta il poveretto prima di essere crivellato di colpi. «È lì che ti sbagli» replica Milian nell’ultima battuta del film, con la pistola in pugno un attimo prima di premere il grilletto «io non sono più un poliziotto!». Ma la vendetta è compiuta. Milian fa la parte di uno sbirro solitario e ruspante, torvo, dai modi spicci e dal grilletto facile, che sembra incapace di sorridere, distrutto dall’atroce morte della consorte. L’attore non è doppiato e si sente il suo accento spagnolo. Un toscanello gli pende sempre dalle labbra, lo mastica come faceva Clint Eastwood in Per un pugno di dollari, indossa jeans e un giubbino di pelle, in testa ha un basco marrone, ai piedi veste un paio di stivaletti neri con la fibbia. È una specie di sceriffo dell’era moderna, insofferente verso le autorità, un cane sciolto. Perfetto! Il personaggio interpretato da Gastone Moschin, invece, non sembra ben tratteggiato, assomiglia troppo all’Ugo Piazza di Milano calibro 9 di Fernando Di Leo, ha la stessa camminata veloce e furtiva: solo la bravura dell’attore lo riempie di personalità originale. Un esempio? Il marsigliese è asma52

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tico perché fuma troppo e non vuole farsi scoprire così debole dai suoi scagnozzi. Massi insiste molto sui primi piani, evita abilmente i campo-controcampo e ricorre anche alla finezza dell’inquadratura dei volti dallo specchietto retrovisore dell’auto, uno stratagemma narrativo caro a molti autori americani (come Nicholas Ray, quando illumina gli occhi indagatori di Humphrey Bogart in Diritto di uccidere o come Martin Scorsese con Robert De Niro in Taxi driver). La tensione si percepisce sin dall’inizio: la vicenda appare credibile ed è raccontata in modo efficace, sempre con i ritmi giusti. I cazzotti volano, le pallottole fischiano, proprio come nei film western. Impressionante la morte di “Rino il filosofo” che, colpito dal pugno di un suo compare finisce con la nuca conficcata nello spigolo di un gradino. Tanti inseguimenti con sparatorie (anche dall’elicottero, con Sacchetti, aiutoregista, che in questo caso fa anche da controfigura a Milian!), zoomate improvvise all’indietro: scene da manuale del cinema d’azione! Ottima anche la scelta delle location, Pavia e i bacini del Po e del Ticino, che concedono alla vicenda un’atmosfera cupa. È il primo film della lunga serie delle “Squadre”, che darà all’attore cubano grande popolarità. Anche qui Milian, sulla scena, non ha alcun senso della disciplina ed è trasandato: sono i prodromi del “Monnezza”. «Beh, almeno lui non scalda la poltrona» commenta il giudice che una volta tanto, in questo genere di film, sembra stare dalla parte giusta. Stefania Casini, vestito rosso con lo spacco e pelliccia bianca (prodotta a Pavia…), è la pupa del gangster, una splendida svampita tutta moine e sempre “fuori” come un balcone. Buona anche l’interpretazione di Mario Carotenuto che interpreta Lavagni, l’aiutante di Ravelli: ironico e sornione, 53

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inventato dagli sceneggiatori per attirare quella simpatia che il pubblico non ha potuto rivolgere al protagonista. La colonna sonora di Stelvio Cipriani è molto appropriata e accattivante. Il tema musicale è in stile lounge, secondo la moda di allora, con percussioni e basso in evidenza: un accompagnamento morbido e rilassante che stempera l’aggressività del protagonista e il senso di vendetta che muove il film. E anche questa fu una scelta geniale.

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STELVIO E L’AMICO STELVIO: UNA MUSICA DURATA TRENT’ANNI!

Stelvio Cipriani

Anche lui, ironia della sorte, si chiama Stelvio ed è l’autore delle colonne sonore di ben dieci film di Massi, da Squadra Volante, del 1974, a Taxi killer, del 1988. Cipriani è un personaggio straordinario che ha musicato per il cinema, non solo italiano, più di 300 film, soprattutto del genere poliziesco. Sua è la partitura dell’indimenticabile concerto per oboe in do 55

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maggiore del film Anonimo veneziano (benché sia, in parte, un rifacimento da Benedetto Marcello) opera prima di Enrico Maria Salerno regista. Fu un “blockbuster”, con 14 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Nato a Roma il 30 agosto del 1937, Stelvio Cipriani si è diplomato in pianoforte e composizione al Conservatorio Santa Cecilia. Cominciò la sua carriera come accompagnatore di Rita Pavone poi andò a perfezionarsi in America dove studiò jazz. Tornato in Italia, Stefano Vanzina lo chiamò per comporre le musiche di La polizia ringrazia, che diventerà un must del genere poliziottesco. Tra i suoi capolavori vanno ricordati anche l’assillante tema di Cani arrabbiati, film di Mario Bava del 1973 e la suite con grandi aperture orchestrali di La polizia ha le mani legate, di Luciano Ercoli, del 1974. Ben presto diventa il compositore più richiesto dai registi italiani. Molti brani gli sono stati commissionati anche dal Vaticano. Fece clamore, negli anni Sessanta, lo scoop del fotografo Adriano Bartoloni che immortalò Stelvio Cipriani insieme ad Antonella Lualdi (moglie di Franco Interlenghi), scoprendo la passione che li legava. Chiamo al telefono il maestro Cipriani nella sua casa romana della Camilluccia. Come tutti i giorni, si sta esercitando al pianoforte, cerca l’ispirazione, studia, provoca la sua creatività. «Ogni volta che sento parlare del mio fraterno amico Stelvio Massi mi si apre il cuore», dice. Così, la nostra intervista si arricchisce di divagazioni, anche musicali, che mi giungono a commento di questo rapporto speciale esistito tra i due Stelvio del cinema italiano. «Sì, per me era proprio come un fratello. Mi invitava spesso a pranzo, alla domenica, nella sua villa di Velletri. Da buon marchigiano, benché romanizzato, mi proponeva ogni 56

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volta manicaretti succulenti, pappardelle al sugo di lepre, abbacchio… Ma io, abituato a una dieta sobria, gli chiedevo solo spaghetti pomodoro e basilico, petto di pollo, acqua minerale e una mela, cioè quello che mangio sempre. L’unica eccezione che facevo per l’occasione era un caffè a fine pasto… Ma lui si arrabbiava, perché voleva che partecipassi al banchetto che allestiva apposta per me. Non c’era verso, tutte le volte era così. Bisticciavamo da buoni amici. Anzi, eravamo qualcosa di più. Abbiamo trascorso insieme trent’anni, praticamente una vita!». Ma com’era il vostro rapporto professionale? Tra noi due c’era molto affiatamento anche dal punto di vista del lavoro: ecco perché mi ha chiesto di comporre le colonne sonore di ben dieci dei suoi film del filone poliziottesco. Come sono nate le musiche dei film di Massi? Sempre dopo lunghe discussioni, spesso animate ma sempre costruttive. Stelvio era una persona amabilissima ma non conosceva la musica. Discutevamo molto e alla fine lui capiva e accettava con entusiasmo le mie soluzioni dopo che gliele avevo amabilmente spiegate e, ovviamente, suonate al pianoforte. Andavamo in sala di montaggio e discutevamo: ecco il nostro criterio. Mi faceva vedere delle scene per introdurmi alle atmosfere del film. Lavoravo anche sul girato in moviola e mi ispiravo all’istante. È vero che Danilo, che aiutava il padre nella regia e nelle sceneggiature, le portava dei dischi dei Pink Floyd e dei Genesis chiedendole di trarre spunto da quella musica? Sì, allora era poco più di un ragazzo… ma io gli dicevo che, semmai, avrei potuto ispirarmi a Beethoven, Mozart, Bach… Tutta un’altra musica… 57

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Quale tra le dieci colonne sonore composte per Massi ricorda più volentieri? Poliziotto sprint. Per i suoi tratti jazzistici, a me più cari. Sono stati ispirati dalle musiche di un mio mito, il grande Henry Mancini (premio Oscar per le colonne sonore di Colazione da Tiffany e Victor Victoria, ndr), che avevo conosciuto in quegli anni a Roma, in occasione della sua visita in Italia per promuovere il film I girasoli di Vittorio De Sica, del quale aveva curato le musiche, ispirandosi dichiaratamente a una mia composizione per il film western Un uomo, un cavallo, una pistola di Vance Lewis (Luigi Vanzi). Mancini si innamorò di quella partitura scegliendola tra decine di altre proposte. Lo andai a ringraziare per aver fatto conoscere la mia musica in tutto il mondo… Il suo disco ha venduto più di un milione di copie!”. E dopo Poliziotto sprint, cosa le è rimasto nel cuore? Un altro film di Massi che ricordo sempre volentieri è Squadra Volante, con il mio amico Tomas Milian, una specie di Serpico all’avanguardia nei panni di Ravelli e poi del Monnezza. Con lui esiste un rapporto indelebile, nato addirittura nel 1966! Fu Milian ad iniziarmi al cinema. È stato lui il mio pigmalione. Insomma, devo a Tommaso il mio successo e la mia carriera come autore di colonne sonore. E di Franco Gasparri e Maurizio Merli, gli altri attori a cui Massi si affidò più spesso per le parti da poliziotto, cosa ricorda? Gasparri era un tipo adorabile e molto disponibile sul set: ma non abbiamo legato molto. Ma sono soddisfatto delle musiche create per Mark il poliziotto, dei ballabili con un ritmo scandito dalle percussioni, 58

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come andava di moda allora. Di Maurizio Merli invece ero molto amico, anche se con gli altri poteva sembrare un po’… antipatico! Giocavamo a pallone insieme. Il giorno della sua morte per infarto uscimmo dal campo verso le 14, poi lui andò a fare una partita di tennis e poco dopo si sentì male. Fui il primo a parlare con la moglie Rita appena seppi della sua tragica fine. Mi ricordo bene: era il 10 marzo del 1989 e Maurizio aveva solo 49 anni. Maestro, le sue musiche per i poliziotteschi sono una diversa dall’altra, tutte piacevolissime: aiutano lo spettatore a emozionarsi, a partecipare alle vicende e all’azione dei protagonisti. Qual è il segreto della sua creatività? Mah… È una cosa innata. C’è soprattutto l’intuizione, e poi tanto mestiere.

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DOPO UN THRILLER, ARRIVANO I TRE “MARK”

Il terzo film di Massi è un giallo classico che punta sulla suspense: Cinque donne per l’assassino. Il titolo richiama un gioiellino girato da Mario Bava nel 1965 che di donne, invece, ne contemplava sei. Questo, però, non è un capolavoro. Per colpa soprattutto di un testo gracile e superficiale (malgrado la presenza di Roberto Gianviti nel pool degli sceneggiatori). Il film di Massi, comunque, si distingue per una regia agile e acuta, e rappresenta un cult del genere “argentiano”. Incassò solo 87 milioni di lire. La cronaca degli spettacoli di Milano del quotidiano L’Unità, il 7/01/1975 lo definiva un “giallo ginecologico” e l’interpretazione di Albertazzi “sgradevolmente attraente”: ma il giudizio risulta tutto sommato positivo. Il solito Bianchi su Il Giorno, invece parla di “debole invenzione” della trama ma anche di “una regia svelta che non risparmia brividi e colpi di scena”. Il titolo originariamente doveva essere “Due occhi di acqua chiara”, poi fu cambiato, come sempre per ragioni commerciali. Vi recitò Ilona Staller, all’epoca già “allieva” di Riccardo Schicchi e diva erotica di Radio Luna, ma non ancora affermata e spregiudicata porno-star. In seguito, nel ricco carnet di Stelvio Massi, entrarono tre vere e proprie perle, una serie di film che farà storia, se non altro per il successo di pubblico: ecco Mark il poliziotto, nato dall’intuizione del regista marchigiano che chiamò sul set Franco Gasparri, un divo dei fotoromanzi della Lancio, trasformandolo in uno sbirro sui generis. Era popolarissimo: a Mila60

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no, dove si girò il film, l’albergo dove alloggiava fu preso d’assalto da una folla scatenata di sue ammiratrici. Il primo film della trilogia fece entrare nelle casse della PAC la bellezza di due miliardi e settecento milioni delle vecchie lire (costò solo 214 milioni). La critica, stavolta, accolse benevolmente l’ennesima fatica di Massi. La Gazzetta del Mezzogiorno, in un articolo del 5/09/1975 a firma P. Virgintino, si sofferma sulla novità e sull’efficacia della trama (sceneggiatura di Dardano Sacchetti), raccontata “sull’eco dei film d’azione americani”. Definisce il film “uno spettacolo spesso stringato e avvincente, mosso dal regista con un ritmo teso”. Il Corriere della Sera del 4/08/1975 riconosce a Gasparri “lo sforzo di conferire qualche credibilità all’improbabile questurino, con risultati tutto sommato apprezzabili”. Ma la tiepidezza del giudizio complessivo del principale quotidiano nazionale sembra condizionata più che altro da un fattore “politico”: stavolta “il colpevole non viene abbattuto a sangue freddo ma finisce regolarmente fra le braccia della Giustizia”. Piace, insomma, il finale di “impronta costituzionale”. La recensione del quotidiano Il Giorno del 4/08/1975, però, torna sul terreno politico-sociale con un titolo che sembra più adatto alla cronaca nera che a una pagina degli spettacoli: “Milano porto della droga”. E nel terzo capoverso si legge: “Il film, il cui sfondo è la metropoli lombarda, naviga spesso nell’approssimativo, soprattutto quando deve affrontare il tema della droga (sic!, ndr)…”. Poi, però, l’anonimo articolista affronta con equilibrio temi più cinematografici: “il dialogo è quasi mai banale, la recitazione è misurata, c’è un buon dosaggio degli ingredienti drammatici, il linguaggio è quasi sempre corretto (non ci sono parolacce, ndr)”. Lusinghiero è an61

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che il giudizio sul pugile Carlo Duran reclutato da Massi per la parte di un narcotrafficante: “è una faccia da indio che al cinema potrebbe dare qualcosa”. La pellicola venne distrubuita anche all’estero, per il mercato anglofobo con il titolo Blood, Sweat and Fear. Visto il successo della pellicola, arriva nello stesso anno nelle sale italiane, il sequel: Mark il poliziotto spara per primo, lanciato come “film di Natale” (titolo di lavorazione Ultimatum alla città, in Francia uscì come Mark la gachette). La vicenda vede gli stessi protagonisti della precedente, tranne Giampiero Albertini, l’aiutante di Mark, che non può essere resuscitato in quanto perito sul campo nella storia precedente (ma tornerà nel terzo film della serie). Lo scenario stavolta è Genova, le storie sono due e si intrecciano. Il ritmo è sostenuto e gli ingredienti sempre gli stessi: sparatorie, inseguimenti, karate e il fascino tenebroso di Mark-Gasparri, poliziotto playboy. Sembra ancora una volta pregiudizievole, però, la critica de Il Giorno (31/12/1975), siglata C.R. e intitolata: “Giustiziere in divisa alle prese col maniaco”. L’attacco del pezzo, riletto oggi, ci fa un po’ sorridere, forse perché viviamo in un’epoca di presunti “fannulloni”: “Continuano le avventure (…) del commissario Mark, che in ufficio non ci sta mai e gira l’Italia con la colt a sgominare agguerrite gang”. Ma cosa dovrebbe fare un poliziotto di fronte alla violenza che spadroneggia? Scaldare la sedia e occuparsi delle scartoffie? Comunque, C.R. riconosce che Stelvio Massi “ha il merito di approfondire un po’ di più la psicologia del commissario pistolero che combatte i cattivi”, ammette che lo stesso Gasparri “si sta affinando” e che “la narrazione è abbastanza serrata, seppur con qualche caduta”. Ma il 62

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vero capolavoro giornalistico è di Maurizio Porro sul Corriere della sera dell’ultimo dell’anno 1975, titolo della misurata recensione: “L’eleganza del poliziotto”. Gasparri, per il noto critico milanese, mostra nel film uno sguardo “cupo ma intenso” anche se Mark, “idolo di giovinette sospirose”, viene definito qualche riga più in là “un personaggio da Carosello”. Poi, però, Porro incensa anche Massi scrivendo di lui: “Giunto al suo terzo film, non pecca certo di estrosità, né di personalità”. E ci azzecca in pieno. Il terzo capitolo del serial è costituito da Mark colpisce ancora, uscito nel 1976. Il poliziotto interpretato da Gasparri qui si chiama Patti, e non più Terzi, ed è un tipo scapigliato e meno curato nel vestirsi, parla romanesco e non ha lo stesso piglio strafottente mostrato in precedenza. “Il film ha come unico pregio di non presentarci Mark come il solito ammazzasette” commenta la rivista Segnalazioni Cinematografiche nel n. 82 del 1977. Mentre Alessandro Ferraù, su Paese Sera (28/01/1977) scrive: “Il filone reazionario del “poliziotto-killer” all’italiana si aggiorna: Lucio De Caro ha scritto un soggetto che internazionalizza il nostro bel tenebroso Mark. (…) Stelvio Massi ha la mano abbastanza disinvolta - ai poliziotti è ormai abituato - ma pur nascondendo l’eventuale matrice del gruppo terroristico, commette alcuni errori, per cui la pellicola non è verosimile. (…) Rispetto ai film del filone “all’italiana”, il nostro poliziotto ha imparato a sparare meno, a spargere meno sangue e a inseguire meno gonnelle. Ma tutto rimane in un ambito da fumetto, senza alcun riferimento preciso ai motivi storici e politici del terrorismo, guardandosi bene dallo spiegare chiaramente a chi giova la politica del disordine”. La vicenda, alquanto ingarbugliata, si snoda tra Roma e Vienna e ha 63

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a che fare con i servizi segreti deviati e il terrorismo. Fu una delusione per i produttori: incassò solo mezzo miliardo di lire, o poco più. Titolo pensato per il mercato internazionale: The 44 Specialist. Fu l’ultimo film interpretato da Franco Gasparri prima dell’incidente che lo costrinse su una sedia a rotelle. Stelvio Massi ricordava Gasparri con simpatia: «L’estate che abbiamo girato a Genova il nostro primo Mark» racconta a Matteo Norcini della sopracitata intervista «ragazzine arrivate da ogni parte gli chiedevano l’autografo e lui le mandava via sdegnato perché andavano in giro con la camicetta sbottonata che faceva intravedere il seno!».

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CINQUE DONNE PER L’ASSASSINO (1974)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: Carlo Maietto per Thounsand Cin.ca di Roma e Les Film La Boétie di Parigi; Soggetto: Roberto Gianviti e Gianfranco Clerici; Sceneggiatura: Roberto Gianviti, Gianfranco Clerici, Vincenzo Mannino; Dialoghi: Jacques Barclay; Direttore della fotografia: Sergio Rubini; Montaggio: Mauro Bonanni; Musiche: Giorgio Gaslini; Scenografie: Sergio Calmieri; Durata: 95’. Cast: Francis Matthews (Giorgio Pisani), Pascale Rivault (dottoressa Lidia Franzi), Giorgio Albertazzi (professor Aldo Betti), Howard Ross (commissario di polizia), Kathia Christine (Alba Galli), Catherine Diamant (Oriana, giornalista), Gabriella Lepori (Sofia), Maria Cumani Quasimodo (zia Marta), Tom Felleghi (direttore giornale), Ales65

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sandro Quasimodo, Milvia Bonamore, Torquato Tessarin, Amadeo Baratti, Franco Morali, Ugo Pompognini, Piero Corbetta, Elena Mercury, Edmondo Sannazzaro, Alberto Carrera, Lorenzo Piani, Carla Mancini, Ennia Rossetto, Lia Bresciani. Erika, moglie dello scrittore Giorgio Pisani muore improvvisamente per un parto prematuro mentre si trova nella sua villa presso Pavia. L’uomo accorre al suo capezzale, scopre che era incinta e cade nel panico sapendo di essere impotente. Chi l’ha fatto becco? In seguito altre donne nell’ambiente dello scrittore vengono squartate, con bisturi, coltello o accetta, in circostanze misteriose. Tutte le vittime hanno inciso sul ventre il simbolo della fecondità. Pisani, anche per allontanare da sé i sospetti, indaga per conto suo e scopre grazie a un’acuta deduzione, che l’autrice dei delitti è la ginecologa dell’ospedale. Ma un pignolo commissario di polizia riesce a scovare un secondo assassino, cioè il primario della clinica pediatrica: ha ucciso lui l’unica delle cinque donne che non era in attesa di un bambino e quindi finisce in manette. Alla fine viene fuori anche che le analisi dello sperma di Pisani erano state falsate dalla dottoressa assassina per far ricadere su di lui la colpa dei delitti. Lo scrittore non è impotente, dunque, e il bambino nato da Erika è il suo! Massi esprime in questo giallo tutta la sua capacità tecnica: sa come provocare i brividi sulla schiena dello spettatore. Suggestive le inquadrature dal basso, come quella di Matthews-Pisani che entra di notte nella clinica per vedere di nascosto a chi assomiglia il bimbo nato dalla moglie e che non ritiene suo. All’inizio sembra proprio lui lo psicopatico assassino. Poi, invece, l’attenzione si sposta sul cognato, personaggio perfido e malvagio. Albertazzi è un con66

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vincente professore di neonatologia, davvero insuperabile quando commenta, visitando i suoi piccoli pazienti dentro l’incubatrice: «Siamo troppi, ci vorrebbe uno come Erode!». Il personaggio gli si attaglia: altezzoso e sottilmente antipatico. L’attore toscano appare nudo mentre fa l’amore con la sua amante infermiera. Che poco dopo ucciderà, per non farsi scoprire dalla moglie… Geniale l’idea dei titoli di coda che scorrono dentro la prima pagina della Provincia Pavese fissata sullo schermo. Coinvolgente la musica del grande compositore jazz Giorgio Gaslini che però, a nostro avviso, sembra un po’ troppo invadente. Nel cast figurano anche le “ragazze del mese” di Playmen, Ilona Staller detta Cicciolina (accreditata col nome di Elena Mercury) e Katia Christine.

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MARK IL POLIZIOTTO (1975)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: PAC (Produzioni Atlas Consorziate); Soggetto: Dardano Sacchetti; Sceneggiatura: Adriano Bolzoni, Raniero Di Giovambattista, Dardano Sacchetti, Stelvio Massi; Direttore della fotografia: Marcello Gatti; Montaggio: Mauro Bonanni; Scenografia: Sergio Palmieri; Direttore di produzione: Teodoro Agrimi; Aiuto registi: Daniele Sangiorgi, Domenico D’Alessandria, Renato Ferraro; Musiche: Stelvio Cipriani; Cast: Franco Gasparri (commissario Mark Terzi), Lee J. Cobb (avvocato Benzi), Giampiero Albertini (brigadiere Bonetti), Giorgio Albertazzi (il questore), Sara Sperati (Irene), Carlos Duran (Gru68

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ber), Andrea Aurei (collaboratore dell’avvocato Benzi), Francesco D’Adda (giudice istruttore), Luciano Comolli, Cesare De Vito, Dada Gallotti, Danilo Massi, Dino Mattielli, Vittorio Pinelli, Flora Saccese; Durata: 85’. Il bellimbusto Mark Terzi, zelante commissario di polizia in forza alla Narcotici di Milano, cerca di incastrare l’industriale Benzi, sospettato di essere al centro di un grosso traffico internazionale di eroina. Ma il giovanotto deve fare i conti con l’ondata di violenza che si scatena intorno a lui e con i freni che gli mettono i capi per arginare la sua esuberanza. Nelle indagini è affiancato dal brigadiere Bonetti, figura di poliziotto simpatico e coraggioso, interpretato da Giampiero Albertini, attore dalla solida esperienza e doppiatore di rango (è stato anche la voce del tenente Colombo). Quando il cerchio sembra stringersi attorno alla banda dei criminali capeggiata da uno straordinario Lee J. Cobb, Bonetti viene ammazzato e una ragazza (Irene, la bella Sara Sperati) viene trovata morta per overdose in casa di Mark che per questo viene sospeso dal servizio. Ma lui se ne infischia e prosegue le indagini. Dopo inseguimenti, rapine sventate da solo e sparatorie con annesse capriole, Mark scopre che la droga viene nascosta dagli spacciatori dentro “souvenir vaticani” e finalmente becca il suo nemico, Benzi, con le mani nel sacco. Non gli spara, lo cattura mentre tenta di scappare. Insomma, fa il bravo poliziotto. La storia è efficace. Il personaggio piace: Gasparri è bello, nella fondina porta una 44 magnum fuori ordinanza e gira con un sanbernardo chiamato Whisky. È un Serpico all’italiana, un Philip Marlowe “de noandri”. Quando nel film chiedono a Mark come mai uno come lui si è arruolato nella Madama risponde: «Me lo ha 69

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ordinato il dottore, nel ’68, quando ero all’università. Siccome prendevo sempre botte in testa mi ha detto: arruolati nella Polizia e vedrai che non ne prenderai più!». Già, i poliziotti non rompono la testa a un loro collega… «No, la testa no….» replica il sagace capellone alle prese con la burocrazia imposta dai suoi superiori. In queste battute è racchiusa tutta la filosofia del commissario che tornerà sul grande schermo per altre due volte, senza deludere i suoi fan (ne era prevista una quarta, ma Gasparri ebbe l’incidente di moto che gli impedì di lavorare). Massi ce la mette tutta, anche qui, per dare alla vicenda una suspense degna di un film americano. E ci riesce. Il copione di Dardano Sacchetti era rimasto chiuso nel cassetto di un produttore per due anni e mezzo: fu lo stesso Massi a recuperarlo proponendolo alla PAC che fiutò subito l’affare. Azzeccata anche la scelta del cast. Sorprendente l’interpretazione del gangster Gruber da parte di Carlos Monzon, campione mondiale di pugilato prestato momentaneamente al cinema: è sicuro e determinato più di altri attori professionisti. Memorabile la scena in cui entra in casa della persona che sta per uccidere e, prima di compiere l’esecuzione, prende in tutta calma un bicchiere d’acqua con l’aspirina per farsi passare un fastidioso mal di testa.

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MARK IL POLIZIOTTO SPARA PER PRIMO (1975)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: PAC; Soggetto: Dardano Sacchetti; Sceneggiatura: Dardano Sacchetti, Stelvio Massi, Raniero di Giovambattista, Teodoro Agrimi; Direttore della Fotografia: Federico Zanni; Montaggio: Mauro Bonanni; Scenografia: Carlo Leva; Assistente alla regia: Danilo Massi; Aiuto Regista: Cesare Frugoni; Musica: Adriano Fabi (arrangiamenti di Gianni Mazza); Cast: Franco Gasparri (Mark Terzi), Lee J. Cobb (commendator Benzi), Ely Galleani, Massi71

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mo Girotti (commissario capo), Nino Benvenuti (capo contrabbandiere), Ida Meda, Andrea Aureli (giornalista), Spiros Focas (un gangster), Guido Celano (un gangster), Francesco D’Adda (ragionier Ghini), Margherita Horowitz (Maria Clerici), Tom Felleghi (direttore clinica psichiatrica), Giovanni Cianfriglia (un gangster), Roberto Caporali, Mauro Vestri, Edoardo Florio, Archimede Muzi, Gianni Ottaviani, Leonardo Severini; Durata: 100’. Genova è sconvolta da un pazzo che si fa chiamare “la sfinge”: uccide a colpi di fucile personaggi importanti dell’economia locale. Nello stesso tempo il presidente del Consorzio bancario, il dottor Benzi, viene rapito. L’agente della criminalpol, Mark Terzi, è incaricato di risolvere i due casi, che a un certo punto si intrecciano. Fa tutto da solo. Il maniaco viene individuato e bloccato da Terzi prima che commetta un attentato dinamitardo, sul terrazzo del generatore dell’Italsider: è una bella scena, col panorama del porto sullo sfondo. La “sfinge” è un poveretto spinto a commettere i delitti a causa dell’avido banchiere Benzi che lo ha rovinato. Quest’ultimo alla fine risulta il capo, insospettabile, dell’anonima sequestri e viene inchiodato dal solito Mark tra lo stupore del commissario capo, un Massimo Girotti che recita, qui, senza troppi guizzi. Tra le battute più significative del film, sceneggiato dal creativo Sacchetti, eccone una che la dice lunga, ancora, sulla figura del poliziotto “che spara per primo”, su cui si fonda il genere poliziottesco: dice il capo (Girotti) allo stravagante Mark (Gasparri): «Ma lei veste sempre così? Non sarà mica uno di quei piantagrane che vogliono il sindacato di polizia?». «No, io sono un piantagrane e basta!» risponde l’impenitente commissario. Dopo aver ingag72

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giato Duran, Massi stavolta ha pensato a Nino Benvenuti per un ruolo di secondo piano, un gioielliere che tira i fili del contrabbando. Il grande Nino tirava sventole forti sul ring ma sul set, la mimica facciale e i movimenti hanno lasciato molto a desiderare: fa il cattivo, ma non troppo (più convincente era stato il suo collega italo-argentino, che però abbandonò la carriera da attore per fare il rappresentante di commercio). Un po’ fiacca, stavolta, è risultata anche la recitazione di Lee J. Cobb nella parte, seppure a lui congeniale, del potente corrotto: usa solo il mestiere. Location ideali e suggestive con magazzini e cantieri abbandonati, inseguimenti tra i carrugi, duelli nella semioscurità di navi in disarmo. Lo spettacolo c’è! Soprattutto nella prima mezz’ora. Un colpo da vero maestro del cinema Massi lo mette a segno, in questo film, con la sequenza della sparatoria all’interno della sala cinematografica, con le pallottole che fischiano tra gli spettatori increduli e urlanti mentre sullo schermo scorrono le immagini della scena principale del film La polizia ha le mani legate, di Luciano Ercoli, un must dei poliziotteschi.

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MARK COLPISCE ANCORA (1976)

Regia: Stelvio Massi; Produzione PAC; Soggetto: Lucio De Caro; Sceneggiatura: Dardano Sacchetti, Direttore della fotografia: Mario Vulpiani; Montaggio: Mauro Bonanni; Scenografie: Carlo Leva; Direttore di produzione: Carlo Agrimi; Aiuto regista: Flavia Sante Vanin; Assistente alla Regia: Danilo Massi; Musiche: Stelvio Cipriani; Cast: Franco Gasparri (Mark Patti), John Saxon (ispettore Altman), Marcella Michelangeli (Olga Kuber), Giampiero Albertini (commissario Mantelli), John Steiner (Paul Henkel), Paul Muller (ispettore au74

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striaco), Malisa Longo (Isa, la modista), Andrea Aureli (Pappadato, l’ispettore dell’antiterrorismo), Pasquale Basile (autista a Vienna), Massimo Mirani (Mark), Pasquale Zucchet; Durata: 95’. L’aitante Mark qui fa di cognome Patti (e non più Terzi) ma il suo stile non cambia. Parla il romanesco perché deve prevenire gli scippi a Trastevere, però fa sempre come gli pare. Lavoro ingrato, quello del poliziotto di borgata... Finché, nel cuore di Roma, non incontra due terroristi e si infiltra. Comincia a fare il doppiogioco per smantellare la cellula degli estremisti ma è così convincente nei panni del cospiratore che i capi della banda lo invitato a partecipare a una delicata operazione a Vienna. Lui fa la spia all’Interpol anticipando le mosse dei terroristi ma non riesce ad evitare sanguinosi attentati. Si convince allora che la colonna abbia dei fiancheggiatori molto in alto, tra le autorità. Ci sono di mezzo i servizi segreti deviati. Mark va avanti di testa sua e la spunta, anche senza impugnare la Magnum (almeno quando non è strettamente necessario…). Tema di grande attualità, allora, era quello del terrorismo internazionale (siamo negli “anni di piombo”). L’argomento è narrato bene anche se la trama sembra svilupparsi, a un certo punto, un po’ troppo alla spicciolata. Piena di suspense la scena dell’attentato sul treno, con un superbo John Steiner nella parte di un isterico capo dei terroristi che vuole uccidere tutti gli ostaggi, a cominciare dai bambini (ma non lo farà…). La guest star del film, John Saxon, è un poliziotto corrotto così bravo che bisognerebbe incorniciarlo: l’attore italo-americano, divo di Hollywood, si trova a suo agio tra sparatorie e cospirazioni: nel film cerca di eliminare una spia ma finisce lui stesso impallinato dal “fuoco amico”. Spigliata e sicu75

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ra nella sua parte da terrorista, Marcella Michelangeli (Olga), che finisce stecchita sul divano di casa sotto i colpi di revolver del compagno Steiner accortosi che la donna aveva fatto entrare il poliziotto-spia nell’organizzazione criminale. La scena in cui Mark scampa (per puro caso: va a spostare la macchina per evitare una multa…) a un feroce attentato all’interno dell’ufficio dei servizi segreti è molto coinvolgente: Massi nel descriverla sembra essersi ispirato al film I tre giorni del Condor di Sydney Pollack. Il terzo Mark, comunque, risulta meno interessante degli altri due. E il pubblico se ne accorse.

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FRANCO GASPARRI, UN DIVO DEGLI ANNI SETTANTA

Gasparri con Stella

Gianfranco Gasparri, detto Franco, nacque a Senigallia (Ancona), il 31 ottobre 1948. Il padre putativo, Rodolfo Gasparri, era un cartellonista cinematografico, autore di manifesti e locandine di film celebri negli anni ’50, divenuto in seguito pittore (delle sue opere, cinematografiche e non, esiste un museo allestito dal Comune nella sua città natale, Castelfidardo). Gianfranco debutta nel cinema a tredici anni, nel 1961, partecipando ai film “peplum” intitolati Goliath contro i giganti di Guido Malatesta e Sansone di Gianfranco Parolini che l’anno dopo lo chiama per un ruolo ne La furia di Ercole. Nel 1970 Franco Gasparri diventa uno dei più affermati attori di fotoromanzi, amatissimo dal pubblico femminile: i giornaletti della Lancio con le storie di cui era protagonista arrivavano a vendere, in quegli anni, fino a cinque milioni di 77

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copie ogni mese con un numero di lettori (erano soprattutto lettrici) che sfiorava i 15 milioni! Sull’onda del grande successo nei fotoromanzi, Gasparri tornò a lavorare per il cinema in film come La preda (1974), per la regia di Domenico Paolella e La peccatrice di Pier Ludovico Pavoni, entranbi a fianco della splendida attrice eritrea Zeudi Araya. Ma la grande notorietà presso il pubblico cinematografico la conquisterà grazie alla serie di film polizieschi in cui interpretò Mark, diretto sempre da Stelvio Massi. Appassionato motociclista, a causa di un gravissimo incidente avvenuto nel giugno del 1980 nei pressi di Roma in sella alla sua Kawasaki, rimane paralizzatoi ed è costretto a vivere su una sedia a rotelle rinunciando alla carriera di attore. Morirà il 28 marzo del 1999 all’ospedale San Carlo di Nancy, in Francia, dopo un’improvvisa crisi respiratoria. Sua figlia Stellina, anch’essa attrice e doppiatrice, ha voluto raccontare la storia del padre in un documentario dal titolo Un volto tra la folla (Franco Gasparri appunti, frammenti, ricordi di un… fotoromanzo italiano). Il film è stato presentato nel 2008 e si avvale dei contributi di Sandra Milo, Valerio Mastandrea, Sebastiano Somma, Zeudi Araya, Michele Gammino, Kirk Morris, Enzo Avolio, Paolo Persi, Ornella Pacelli, Giorgio Caputo. «L’idea di girare il documentario mi è venuta dopo aver visto una mostra sulla vita di mio padre organizzata a Senigallia, dove è nato. Chi lo aveva conosciuto da bambino aveva raccolto foto di famiglia, fotoromanzi e articoli di giornale per esporli alla Rocca Roveresca qualche estate fa. Sono rimasta colpita dal grande interesse suscitato dalla mostra nel pubblico. Prima ho pensato di riproporre la mostra a Roma, poi ho scoperto di poter chiedere un finanziamento all’IMAIE, la società 78

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che cura i diritti d’immagine degli attori, e ho deciso così di usare quel materiale per un film». Abbiamo intervistato Stella Gasparri per capire meglio il rapporto che intercorreva tra suo padre e il regista che lo ha portato al successo nel cinema. Ma anche per conoscere il personaggio che ha dato vita a un mito, sullo schermo: Mark il poliziotto.

Stella Gasparri

Signora Stella, suo padre le ha mai raccontato come e perché venne scelto da Stelvio Massi e dalla produzione (la PAC) per interpretare Mark il poliziotto? Ebbene, in verità non me ne ha mai parlato in termini di ricostruzione dei fatti, spesso durante i pomeriggi invernali ci si riuniva per visioni domestiche di vari film (cosa che a mio padre piaceva molto fare) e tra questi saltava fuori di tanto in tanto uno dei suoi 79

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lavori. Li seguiva in preda al ricordo ma, seppur con trasporto, ne apprezzava la forma dal punto di vista più oggettivo e critico. Mio padre non parlava moltissimo di sè e questo faceva di lui una persona poco egocentrica. Quindi, dalle mie deduzioni, parlando di tutto, con lui, ho capito che quello che gli é stato proposto a livello cinematografico, dopo il suo successo con i fotoromanzi, per mio padre è stata una bella sfida, entusiasmante da affrontare. Ma non si è mai “dato” senza prima aver preso ben in considerazione le parti che erano state pensate per lui o i film all’interno dei quali il suo talento di attore sarebbe venuto fuori. Era un perfezionista quindi il signor Bregni (produttore dei 5 films per cui ha lavorato, ndr) e in seguito Stelvio Massi, si sono trovati di fronte a questo tipo di persona, a questo genere di attore. Il primo film della serie fu un formidabile successo, di pubblico e di critica (nonostante l’avversione di certa stampa per il genere poliziottesco...). Costò 208 milioni di lire, incassò più di due miliardi. Anche le altre due produzioni mantennero le aspettative. Quale fu, secondo lei, la ragione di questi risultati? Un altro pregio di Franco era quello di saper ragionare con la sua testa senza lasciarsi condizionare da preconcetti e opinioni comuni ai più. Se il genere poliziottesco veniva in gran parte visto come un sottogenere, evidentemente la sua visione aperta e un atteggiamento teso a fare il meglio, lo ha messo in condizioni di apportare ulteriori modifiche al genere stesso, proponendo al pubblico esattamente il tipo di poliziotto che piaceva a Massi. Un poliziotto giovane, meno spigoloso e violento di quelli interpretati dai vari Maurizio Merli, Tomas Milian, Luc Merenda, En80

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rico Maria Salerno. Un poliziotto nuovo che anche visivamente infondeva una certa trasparenza e lealtà nella lotta contro il male. Insomma, un poliziotto del quale ci si poteva fidare. Mark Terzi è uno sbirro anomalo, con un passato da studente contestatore, capellone, abiti alla moda, uno stile hippy. Molto atletico e gran tiratore con la pistola. È un tipo al tempo stesso deciso e pensieroso. E un poliziotto essenzialmente solitario. Si tratta di un personaggio che corrisponde a quello che era, nella realtà, Franco Gasparri? Com’era suo padre nella vita di tutti i giorni, che carattere aveva? Mi fa sorridere il fatto di immaginare mio padre come Mark ma devo ammettere che forse un certo atteggiamento potrebbe essergli appartenuto... tipo il suo modo di riflettere ricercando una particolare intimità e l’assoluta tendenza ad essere un uomo con principi positivi. Forse Mark era più estroverso di mio padre e forse entrambi avevano un buon ascendente sulle donne, ma mentre il primo non aveva granchè tempo di innamorarsi, tutto preso dal suo lavoro di poliziotto, l’altro senza la sua famiglia non si sarebbe mai sentito protetto e vivo. Credo che se Franco avesse avuto il successo che poi ha avuto dal punto di vista professionale e la sua vita privata fosse ruotata principalmente attorno a questo, non sarebbe stata la persona felice e bella che era. Per cercare di descrivere mio padre ho scritto addirittura un film e non è stato abbastanza! Perchè la parte più intima del suo carattere è venuta fuori sì, con mia grande soddisfazione, ma a grandi linee. Solare e leale fino all’inverosimile, Franco nascondeva sempre il suo mistero nei profondi meandri della sua anima bella, sofferen81

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te e felice allo stesso tempo. Crede che i film di questa serie, e quindi le interpretazioni di suo padre, siano stati troppo condizionati dal cliché del divo del fotoromanzo, idolo delle ragazzine? Se avessero proposto tali film a mio padre in questi termini non avrebbe accettato di farli. Di questo me ne parlò. Sempre teso alla sua crescita professionale non si voleva adagiare sul suo successo di attore proveniente esclusivamente dai fotoromanzi. Non vi era sfida alcuna in questo genere di proposta per Franco attore. Pretese dunque che l’immagine di Franco-Mark fosse slegata da quella degli innumerevoli personaggi ai quali aveva dato vita sulla carta dei fotoromanzi. Un nuovo eroe più reale, più vero e finalmente... impresso su una pellicola cinematografica! Come si trovò suo padre a interpretare Mark? Può raccontarci aneddoti o fatti curiosi che accaddero durante le riprese dei tre film e che le sono stati riferiti da papà? Quali furono le scene più difficili da interpretare? Io all’epoca ero davvero molto piccola (avevo 2-3 anni) e non conosco aneddoti particolari. Apprezzando molto il mestiere che svolgeva, mio padre voleva impararlo e farlo sempre meglio, osservando i suoi errori: da un girato, per esempio, rivisto e preso in esame, o addirittura dai colleghi con più esperienza. Nel primo dei tre Mark si trovò a lavorare accanto a un attore molto importante di teatro: Giorgio Albertazzi, che interpretava il ruolo di un suo superiore. Credo che questa esperienza, e quelle analoghe a questa, siano state le sfide maggiori per lui: affrontare le sue paure, il fatto magari di provare soggezione per il 82

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teatro, che Franco considerava come la forma d’arte più grande per un attore e che il caso ha voluto che non ne facesse mai esperienza. Come furono i rapporti con Stelvio Massi sul set? Il regista dichiarò che quello della trilogia di Mark fu per lui un “bellissimo periodo”, specialmente per i rapporti, disse, con il “bravo e sfortunato” Franco Gasparri. Che lei sappia, si frequentavano anche in occasioni extra lavoro? Magari per le loro comuni origini marchigiane... Le loro origini marchigiane saranno sicuramente contate per quella particolare sensazione di appartenenza a determinati luoghi fatti di modi di essere, di parlare, di mangiare di vivere insomma che entrambi conoscevano e riconoscevano l’uno nell’altro. Per quel che ne so io i loro rapporti furono molto buoni e cordiali sui vari set senza particolari frequentazioni esterne ma forse mi sbaglio. Con quali attori si trovò meglio a recitare nei tre film di Mark? Credo per la stima e l’ammirazione con i colleghi che più di lui avevano esperienza, come appunto il già citato Albertazzi o Massimo Girotti. Ma come affinità di carattere, che ha generato di fatto una coppia artistica, con l’attore Giampiero Albertini che interpretava il ruolo del suo braccio destro nella lotta contro il crimine. Franco Gasparri esordì nel cinema giovanissimo. Aveva solo dodici anni quando partecipò a un paio di film di genere mitologico. Che ruolo svolse il padre, Rodolfo, famoso cartellonista di manifesti e locandine, nell’introdurre il figlio nel mondo del cinema? Rodolfo Gasparri fa il pittore, anche lui come Vio83

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letta la madre di Franco è di origini marchigiane (Castelfidardo). La sua storia lavorativa lo lega a Roma dal 1948, e qui arriva con l’idea ben precisa di fare il pittore per il cinema o meglio il Cartellonista. Sono anni di dura gavetta e sacrifici, ma verso i primi anni ‘50, Rodolfo comincia ad ottenere successo, firmando numerosi manifesti. Per Franco, quest’uomo ha rappresentato in modo concreto il primo stimolo per quello che sarà poi il suo lavoro d’attore. Già da piccolino, infatti, Rodolfo lo introduce nell’ambiente di Cinecittà, presentandolo al suo amico regista Gianfranco Parolini il quale celebrerà il battesimo cinematografico di Franco allora tredicenne, in tre film mitologici al fianco di attori internazionali. Anche la conoscenza dei fratelli Bregni proprietari della PAC, avvenne in seguito all’amicizia lavorativa che legava Rodolfo con i due produttori. Lei è attrice, doppiatrice, regista. Lavora per il cinema, il teatro, la televisione. Qual è l’eredità artistica, e umana, che le ha lasciato suo padre e di cui tiene conto nella sua attività? Diciamo che molte passioni di mio padre sono diventate o sono sempre state anche le mie ad esempio l’equitazione (adoro come lui adorava andare a cavallo) oppure la moto. Ma come può ben comprendere, qualcosa mi ha sempre frenato nel prendere un patentino che mi abilitasse a guidarne una.... Poi c’è la recitazione. Nella mia attività ho dovuto tener conto di alcune sue descrizioni dell’ambiente nel quale mi andavo a mischiare o almeno tentavo di farlo per seguire questa passione. Descrizioni che non erano esattamente idilliache. Mio padre tendeva a mettermi in guardia sulla futilità e la poca solidità e certezza sulla quale un lavoro del genere va a poggiare. Voleva 84

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prepararmi alle varie delusioni che inevitabilmente avrei ricevuto, non perchè non credesse in me come attrice anzi! Mi sosteneva e veniva a vedermi a teatro... piuttosto, per la reale difficoltà di riuscire in un mondo così competitivo. Sorrideva, saggio, nello scorgere in me delle ambizioni, come se averne significasse peccare in qualcosa. E questo non l’ho mai capito anche perchè ho sempre creduto che senza ambizione non si può accedere, se non per sbaglio o per miracolo, a quello che si vuole fare nella vita. O forse semplicemente vedeva di malocchio quel genere di ambizione che ti fa dimenticare di quello che sei e che può portarti a fare cose poco gradite soltanto fatte in suo onore. Credo che umanamente sia questo il messaggio più bello che mi ha fatto passare, rimanere se stessi in tutte le situazioni! Allo stesso tempo mi esortava ad avere coraggio a prendere in mano le mie richieste e non aver paura di bussare alle porte della gente che mi avrebbe potuto aiutare ad esaudirle. La sua serietà nel lavoro mi piaceva molto e allo stesso modo anche io mi prefiggo questo atteggiamento. Ognuno poi ha il suo carattere e le possibilità che arrivano dall’esterno sono differenti. La difficoltà che ho nel fare l’attrice è legata al mio tempo che è diverso da quello in cui mio padre si esprimeva come attore. Le opportunità sono diverse, e anche i talenti. Essere figli d’arte, infatti, è complicato proprio per questo.....! Il confronto ci potrebbe annientare. Il documentario sulla vita di Franco Gasparri che lei ha realizzato è anche un lucido ritratto della società italiana degli anni ‘70. Come è nato? È stato prima di tutto un mio bisogno impellente: mettermi in contatto con mio padre. Istintivamente l’ho cercato tra le foto del suo passato, immagini pri85

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vate, del suo lavoro, con gli amici, con la famiglia, con il suo mondo del cinema e dei fotoromanzi, e attraverso le persone che me ne hanno parlato le quali hanno risposto con gioia alle domande che ho pensato per ognuno di loro proprio per soddisfare la mia curiosità di figlia. Poi, andando avanti, sentivo di dover allargare il campo, che queste mie curiosità potevano essere quelle di molte altre persone e da lì ho esteso la mia ricerca emotiva e privata a un contesto più ampio, capace di accogliere il periodo storico nel quale mio padre Franco Gasparri, l’uomo Franco Gasparri e l’attore Franco Gasparri si muoveva, proprio per capirne meglio il percorso, l’eccezionale successo dovuto alla bellezza di un animo come il suo, in un periodo particolare: gli anni ‘70.

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UN WESTERN BEN “CAMUFFATO” E UNA PARATA DI GIGANTI

Cambia ancora registro, Massi, con gli altri due film che seguiranno la fortunata trilogia di Mark. Con Il conto è chiuso è come se il regista di Civitanova tornasse indietro di undici anni, ma senza sterili nostalgie: rifà, infatti, in chiave moderna e con una nuova efficacia narrativa, la storia di Per un pugno di dollari. Non lo dichiara apertamente, ma la trama imbastita dallo sceneggiatore Piero Regnoli, un vero specialista di b-movie, riporta per filo e per segno alla storia di Joe lo straniero e dello scontro tra due famiglie rivali in una località di frontiera. La vicenda si svolge però ai nostri giorni in una megalopoli non meglio identificata (Roma? Milano?). Inoltre, gli omaggi a Sergio Leone, come vedremo, non mancano. Film commerciale, si direbbe, ma non privo di originalità e con una stupenda fotografia. Non è un poliziottesco ma un noir. Luc Merenda, qui, è un boss che possiede un’inaspettata cattiveria ma anche un certo charme. Sul set si mostra un dandy con gusti pedofili ed è un pistolero coi fiocchi. Non pronuncia mai la fatidica frase: «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il coltello (Monzon, ndr), quello con il coltello è un uomo morto», ma è come se lo dicesse. Sarebbe stato, in questo caso, per Massi, osare troppo, apparire immodesto nell’ossequio rivolto al padre del western-spaghetti che ha dato una svolta alla sua carriera. L’argentino Carlos Monzon, riconosciuto dall’International Boxing Hall of Fame come uno dei più grandi pugili di ogni tempo (è stato campione mon87

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diale dei Pesi Medi dal 1970 al 1977 battendo per due volte il nostro Nino Benvenuti, già chiamato da Massi nel cast del Mark n.2) fa la parte di Marco Russo, il Joe di questo western urbano, il forestiero con un “conto da chiudere” per vendicare lo stupro e l’assassinio di moglie e figlia. È, ovviamente, bravo e veloce a menar pugni (soprattutto di destro, col quale stese una comparsa) ma non si trova a disagio sulla scena. Nemmeno come lanciatore di coltelli. Meno imbalsamato di quello che si potrebbe pensare, ha una faccia scolpita che ben si adatta al personaggio e si muove con disinvoltura anche nelle scene più ardue (il suo pestaggio dura ben cinque minuti, e appare incredibilmente vero!). Il film non ebbe, in ogni caso, il successo che si sperava. Ma negli anni è diventato un cult. Subito dopo, ecco una delle opere alle quali Stelvio Massi è rimasto più affezionato: La legge violenta della squadra anticrimine che si distingue per avere un plot con più punti di vista e con risvolti sociali ed umani. Eccellente il cast artistico che presenta una sfilza di attoroni: Lee J. Cobb (due volte candidato all’Oscar come attore non protagonista, recitò tra l’altro, a fianco di Marlon Brando ne Il fronte del porto di Elia Kazan e ne Il dominatore di Chicago di Nicholas Ray); John Saxon (lavorò con registi del calibro di Vincente Minnelli, Blake Edwards, John Huston e Otto Preminger); Lino Capolicchio (protagonista de Il giardino dei Finzi Contini, film Oscar di Vittorio De Sica, interprete teatrale di grande talento scelto da autori importanti nel cinema come Franco Zeffirelli, Pupi Avati, Dino Risi, Carlo Lizzani); Renzo Palmer (caratterista di lusso, doppiatore, interprete di numerosi sceneggiati televisivi, con una vasta esperienza cinematografica). Il filo conduttore del film è la caccia 88

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a un giovane rapinatore ma dentro a questa storia si infilano altri temi: il difficile rapporto tra la polizia e la stampa che si sviluppa (poco) tra un commissario violento e “giustizialista” e un giornalista che «sputerebbe alla propria madre pur di aumentare la tiratura…». A proposito del conflitto tra poteri, V. Spiga, in un articolo sul Resto del Carlino del 21/06/1976, commenta: “…Massi non approfondisce il discorso, tutto teso com’è allo spettacolo: cosicché il racconto risulta solo una serie di emozionanti episodi densi di inseguimenti, sparatorie, karaté, suspense, agguati, morti e sangue”. Il giornalista comunque riconosce al regista di essere riuscito ad “amalgamare il tutto con un buon montaggio vibrante e un buon senso dello spettacolo”. Gran lavoro, dunque anche per Mauro Bonanni, fedele collaboratore di Massi al mixer e in truka. Incassò solo 165 milioni di lire ma ne avrebbe meritati tanti di più…

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IL CONTO È CHIUSO (1976)

Regia: Stelvio Massi; Produttore: Fral Production; Direttore di produzione: Giuliano Simonetti; Sceneggiatura; Piero Regnoli; Soggetto: Franco Mogherini; Aiuto Regista: Danilo Massi; Direttore della Fotografia: Franco Delli Colli; Montaggio: Mauro Bonanni; Musica: Luis Enriquez Bacalov; Cast: Luc Merenda (Rico Manzetti), Carlos Monzón (Marco Russo), Gianni Dei (Beny Manzetti), Giampiero Albertini (Sapienza), Mario Brega (Bobo Belmondo), Mariangela Giordano 90

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(madre di Lisa), Susanna Gimenez (Maristella), Luisa Maneri (Lisa), Leonora Fani (Nina), Claudio Zucchet (Alex Manzetti), Nello Pazzafini, Giovanni Cianfriglia, Claudio Ruffini, Renato Basso, Marcello Venditti; Durata: 93’. È un western truccato da gangster-noir, la medesima storia di Per un pugno di dollari ambientata in tempi moderni. Se fu lecito per Sergio Leone riprendere tale e quale la trama di un film nipponico (La sfida del samurai, di Akira Kirosawa), lo è stato anche per Massi “copiare”, con stile, il western-spaghetti che ha segnato un’epopea. Un uomo che sembra venire dal nulla giunge in una imprecisata città del Nord. Usa benissimo i pugni (ma ne prende anche tanti), è abilissimo nel tirare di coltello e si fa assumere dal boss della mala locale, lo spietato Rico Manzetti (un mago a sparare con la pistola) facendo finta di mettersi al suo servizio. Con sé lo straniero porta soltanto un sacco verde e un carillon con dentro le foto di due donne, ma nel cuore nasconde la piú crudele delle vendette. Mette in lotta tra loro due famiglie potenti del posto, i Manzetti, appunto, e i Belmondo, e semina zizzania tra le due fazioni. Quando Rico si accorge del doppio gioco, lo fa picchiare a sangue, fino a rompergli le nocche. Ma se ne dovrà pentire. Il duello finale si svolge nei capannoni della Inc Export e si risolve con la vittoria del buono contro il cattivo. Monzon, doppiato da Ferruccio Amendola (che gli da un accento napoletano) rende splendidamente il suo personaggio. Nel film di Leone il duello era tra il fucile e la pistola, qui invece è tra la pistola (di Merenda) e il coltello (di Monzon). Un flashback finale svela il motivo della vendetta posta in essere dal misterioso forestiero: l’uccisione e lo stupro di sua moglie e di sua figlia 91

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da parte del vile Merenda, un gagà con gravi turbe sessuali. Usando la formula narrativa della “rievocazione” per chiudere il film, Massi fa un altro omaggio a Sergio Leone che ricorse al flashback in Per qualche dollaro in più (dove c’è anche il suono di un carillon che segna i momenti cruciali…). La presenza di Mario Brega nel cast toglie ogni dubbio sulle intenzioni “celebrative” del regista di Civitanova nei confronti di uno dei suoi maestri. Brega, infatti, era l’attore preferito da Leone. Delicata e molto misurata è l’interpretazione di Giampiero Albertini nel ruolo di Sapienza, un poveretto che vive in una catapecchia con la figlia adottiva Nina, una ragazza cieca stuprata dai fratelli di Rico Manzetti: sarà grazie al suo aiuto che lo sconosciuto verrà fuori dai guai nei quali si è cacciato per la sua brama di vendetta. Sapienza pronuncia una frase che può rappresentare una chiave di lettura del film: “La gente come noi ha un gran vantaggio rispetto al resto del mondo... sappiamo resistere bene al dolore”. Le affascinanti musiche di stampo andino, nelle quali spiccano i sikus e il suono del carillon ricordano molto le armonie di Ennio Morricone e degli Inti Illimani (gruppo cileno molto alla moda in quel periodo): merito dell’autore, l’italo-argentino Luis Enriquez Bacalov, che ha saputo evocare senza copiare.

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LA LEGGE VIOLENTA DELLA SQUADRA ANTICRIMINE (1976)

Regia: Stelvio Massi; Produttore: PAC; Soggetto: Lucio De Caro; Sceneggiatura: Lucio De Caro, Piero Poggio, Maurizio Mengoni, Dardano Sacchetti; Direttore della fotografia: Mario Vulpiani; Montaggio: Mauro Bonanni; Scenografia: Carlo Leva; Musiche: Piero Pintucci; Cast: John Saxon (commissario Jacovella), Lee J. Cobb (Dante Ragusa, il boss), Renzo Palmer (Maselli, il di93

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rettore del giornale), Lino Capolicchio (Antonio Blasi), Rosanna Fratello (Nadia, la sua ragazza), Antonella Lualdi (Anna Jacovella), Thomas Hunter (agente Turini), Giacomo Piperno (il giornalista Giordani), Guido Celano (padre di Antonio Blasi), Alfredo Zammi (Pasquale Ragusa detto Nino), Francesco D’Adda (operatore radio), Renato Basso Rondini; Durata: 92’.

Lee j. Cobb

Un baldanzoso e sfaccendato giovane barese, Antonio Blasi, partecipa a una rapina e uccide un poliziotto. Inorridito dal suo gesto, fugge rubando l’auto del fratello di un potente mafioso sulla quale c’è una borsa con carte che “scottano”. Viene braccato dal commissario Jacovella ma anche dai “mammasantissima” che vogliono recuperare i documenti compromettenti che potrebbero rovinare la carriera del boss Dante Ragusa. Il ragazzo ha i giorni contati. E infatti, nonostante i tentativi di scamparla, viene ammazzato dai crimina94

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li: ma lui, complice la fidanzata, riesce a far accalappiare lo stesso il capo della cosca proprio grazie alle prove trovate nella borsa. È un bel film, al quale Massi teneva molto. È vero che il ritmo incalzante dell’azione non lascia il tempo per un approfondimento dei personaggi ma bisogna dire che quasi tutti gli attori sono eccezionali e la loro recitazione riesce a colmare questa lacuna. Ma c’è anche l’intervento del regista con i suoi primi piani che fa la differenza. Basta guardare due scene per rendersene conto. Nella camera ardente dove giace il corpo del fratello ucciso dalla polizia, Lee J. Cobb, con un ghigno di ira e dolore, inveisce contro John Saxon: «Ci è permesso mancare di rispetto ai vivi e non ai morti: cosa è venuto a fare qui, commissario Jacovella?». E il poliziotto risponde senza parlare, prima con un sorriso sottile e beffardo, poi con uno sguardo così intenso che sembra quasi voler annientare solo con gli occhi il suo nemico. Lo fa pur sapendo di non essere visto, perchè il boss è cieco. L’altro faccia a faccia tra i due giganti del cinema americano avviene alla fine del film, quando il commissario entra in casa del mafioso per arrestarlo: Cobb percepisce la presenza di una persona davanti a sè ma è cieco e non sa chi è. Gli tocca il viso e capisce. Per lui è finita. È atterrito e rabbioso. Saxon lo guarda con gli occhi cinici di chi ha di fronte a sé, finalmente, il nemico sconfitto. Anche in questo caso tace ma con un leggerissimo, quasi impercettibile movimento delle labbra sembra volergli gridare, beffardamente: «Ti ho incastrato, farabutto, coi miei metodi e lottando contro tutti!». E il film termina qui. Interpretazioni impeccabili e di grande impatto emotivo. Anche la prova di Lino Capolicchio è stata molto toccante. L’attore stava girando un film nel Salento, 95

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vicino a Gallipoli, quando, durante una pausa, gli si presentò un signore che non conosceva: «C’è un ruolo bello in un mio film e lei secondo me è molto adatto” gli disse “domani le porto la sceneggiatura». Quel signore era Stelvio Massi. Il giorno dopo gli consegnò il copione e Capolicchio, dopo attenta lettura, accettò. Nel film sarà Antonio Blasi, il giovane attorno al quale ruota la trama. L’attore di Merano si esprime, qui, in tutta la sua bravura: è un rapinatore atterrito che spara per paura uccidendo un poliziotto, fugge disperato e confessa il suo dramma alla fidanzata (un’intimidita Rosanna Fratello, la pugliese che cantava Sono una donna non sono una santa) recitando un monologo intenso e pieno di drammaticità che comincia così: «Ho ucciso un uomo… ho premuto il grilletto senza accorgermene… tutto quel sangue…E allora ho pensato solo a correre, correre lontano, con tutti questi soldi nelle tasche (un milione di lire, ndr)». Racconta Capolicchio in una intervista raccolta da Paolo Toccafondi e Tommaso Santi per la General Video: «Stelvio mi disse: il monologo fallo tu come te lo senti, sei un grande attore, improvvisalo». In questa frase sta il metodo adottato dal regista Massi con i suoi attori, lo stesso che aveva imparato da Vittorio Gassman sul set del docu-film L’alibi: «Se un attore è bravo non c’è nulla da dirgli. Se non lo è, inutile dirgli qualsiasi cosa. A quel punto meglio mille sguardi a una parola». «Stelvio era umanamente straordinario, ti faceva piacere lavorarci» commenta Capolicchio «tecnicamente era molto bravo, e umile». Ma non aveva paura quando si trattava di girare scene pericolose e incitava gli altri a vincere ogni titubanza, rassicurandoli. Fece così anche con Capolicchio nelle riprese sul piazzale di Castel del Monte, in cui l’attore doveva essere inve96

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stito dall’auto dei criminali che lo braccavano: «Fui legato al cofano con la faccia che toccava il parabrezza» ricorda l’attore. Aveva paura ma tutto andò bene. Niente controfigure durante i giri forsennati dell’auto sul polveroso interrato, se non al momento cruciale della caduta di Blasi a terra. È anche questo uno dei segreti del succeso dei film di Stelvio: le emozioni dal vero. La pellicola avrebbe dovuto chiamarsi “La dura legge del commissario Frank” ma la produzione scelse il più commerciale La legge violenta della squadra anticrimine (a voler evocare, forse, Il braccio violento della legge, film con Gene Hackman che vinse l’Oscar nel 1971). A Massi però, che voleva incentrare l’opera sul difficile rapporto tra stampa e polizia, questi titoli non piacevano. «E si arrabbiò molto!» commenta l’amico e montatore Mauro Bonanni. Ci credeva tantissimo in quel film. Ma, tanto per cambiare, finirono i soldi e a montaggio avvenuto Massi e Bonanni si accorsero che il film durava poco più di un’ora: era cortissimo! Così nacque l’idea di rimediare con riprese di tipo documentaristico sulle location pugliesi. Le immagini furono inserite in un secondo momento, poco prima di consegnare il film alla distribuzione: ne è venuto fuori un affresco molto accattivante di Bari, con la basilica di San Nicola e la città vecchia, il porto, il Castello Svevo e il lungomare, e di Trani, con la splendida cattedrale romanica. Forse stavolta si largheggiò nelle spese, ma non per colpa del regista o della troupe. Ecco un episodio che può spiegare i presunti “sprechi” di un budget che si presentava comunque limitato. Le comparse venivano reclutate sul posto e spesso facevano di tutto per farsi inquadrare in faccia, anche se si sarebbero dovuti vedere solo di spalle (la cosa avrebbe potuto, 97

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infatti, alterare il significato stesso della scena). Così, a causa delle intemperanze di un “Paolini ante litteram”, la rissa al bar del grande Albergo delle Nazioni, sul Lungomare Crollalanza di Bari, fu fatta ripetere più volte da Massi. Con un dispendio di mezzi e pellicola che non poteva essere evitato.

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JOHN SAXON, DA HOLLYWOOD ALLA “CORTE” DI MASSI

John Saxon

John Saxon è una star di Hollywood. È nato a Brooklyn (New York) il 5 agosto del 1935 ma ha radici italiane: il suo vero nome è Carmine Orrico, i genitori venivano da Salerno. Americano dunque, ma non troppo. Nella sua lunga carriera di attore ha interpretato più di cento film. Cominciò a recitare quando aveva appena sedici anni. Western, noir, thriller, horror e polizieschi: ecco il suo repertorio. Saxon è stato diretto da registi del calibro di John Huston, George Cukor, Otto Preminger, Sydney Pollack, Don Siegel, Blake Edwards. Quentin Tarantino stravede per lui. Indimenticabile la sua interpretazione del mezzosangue Johnny Portugal nel western Gli inesorabili di John Huston, a fianco di Audrey Hepburn e Burt Lancaster. In Italia è conosciuto dal grande pubblico soprattutto per aver interpretato il ruolo dell’agente 99

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letterario Bullmer in Tenebre di Dario Argento e per una decina di film del genere poliziottesco. Ma non si può dimenticare il suo “dottor Marcello” ne La ragazza che sapeva troppo, del 1962, un piccolo capolavoro in stile hitchcockiano di Mario Bava, considerato il primo giallo nella storia del cinema italiano. Aveva 27 anni e recitò a fianco della protagonista, Leticia Roman e di una grande Valentina Cortese. Tra i titoli più importanti della sua carriera sono da ricordare anche Il cinico l’infame e il violento e Napoli violenta, di Umberto Lenzi e Italia a mano armata, di Marino Girolami (alias Franco Martinelli), pellicole dove lui fa sempre la parte di un fuorilegge, di un gangster italo-americano che uccide persino usando le palle da golf, per esempio, o di un imprenditore maneggione legato alla camorra. Ed è sempre perfetto, intenso, preciso, convincente. Nel film La legge violenta della squadra anticrimine Stelvio Massi lo chiama però a stare… dall’altra parte, ricoprendo il ruolo di un “commissario dalla pistola facile” che usa metodi forti, contrapposto a uno spietato boss e a un giornalista d’assalto. In Mark colpisce ancora Massi scelse invece Saxon per interpretare il ruolo di uno sbirro corrotto, l’ispettore Altman, che farà una brutta fine. Abbiamo chiesto al grande attore italo-americano di raccontarci la sua esperienza sul set di uno dei film più importanti di Stelvio Massi. Signor Saxon, cosa le fa venire in mente il film La legge violenta della squadra anticrimine? Pochi giorni fa ho visto qui a casa mia (abita ad Hollywood, di fronte alla villa di Arnold Schwarzenegger, ndr) il film di Massi per la prima volta, in un dvd doppiato in inglese e sottotitolato in una lingua strana… forse arabo. Me lo sono proprio goduto! E mi 100

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sono ricordato di Mr Massi e del mio amico Lee J. Cobb. Che belle sono Bari e Trani, dove abbiamo girato il film! Quelle immagini mi hanno fatto venire la nostalgia dell’Italia. Ricordo con tenerezza quando sono tornato in America dopo le riprese del film insieme a mia moglie a mio figlio piccolo che aveva girato anche alcune scene con me e Antonella Lualdi (che interpretava la moglie, ndr). Può raccontarci qualche episodio curioso capitato durante le riprese? Senta questa. Arrivai da solo la sera tardi a Bari (o forse era Trani? Non ricordo con esattezza) in un albergo molto buio. Il giorno dopo avremmo cominciato a lavorare sul set. Ero stanco ma non riuscivo a dormire. Per vincere la solitudine mi misi ad ascoltare in camera delle canzoni in italiano che avevo registrato in una cassetta. A un certo punto sentì bussare alla porta: nell’oscurità del corridoio intravvedevo due persone. Uno, parlando in inglese all’altro, diceva: “Will you tell him to shut up? He was singing so loud I could hear him from my room… where I was sleeping! So, tell him to shut up, will ya?” (“Vuoi dirgli di stare zitto? Canta così forte che lo sento dalla mia camera... stavo dormendo! Digli di stare zitto, lo farai?”). A causa del buio non distinguevo bene la faccia dell’uomo che stava parlando ma riconobbi la voce… era quella di Lee J. Cobb! Gli risposi, in inglese: “Lee! I’m John Saxon. Come in, please” (Lee! Sono John Saxon. Entra, dai”). L’altro, evidentemente, era la persona che gli faceva da traduttore. Spensi subito il registratore (con mio grande dispiacere…). Lee entrò nella stanza, si mise seduto e poco dopo cominciò a parlarmi del maccartismo durante la Guerra Fredda che rovinò la carriera a centinaia di attori americani 101

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del cinema e del teatro accusati ingiustamente di essere sovversivi. Lui, per continuare a lavorare, fu minacciato e costretto a denunciare una ventina di colleghi… Se ne era pentito. Sì, ricordo che si parlava molto di politica anche sul set con un primo aiuto regista (Giorgio Maulini? Ndr) comunista… Ma adesso so che in Italia la situazione politica è molto cambiata… Come si è trovato a lavorare con Stelvio Massi? Durante il film Mr Massi sembrava contento del mio lavoro e diceva che mi avrebbe chiamato per un altro lavoro. Ma la cosa più importante per me era la libertà che mi veniva concessa nel modo di recitare. E non solo. Una volta sul set accadde che, durante una pausa, l’operatore alla macchina ed io cominciammo a fare le prove di una scena senza la presenza del regista: beh, è venuta così bene che è stata inserita nel film! Cose del genere a Hollywood accadono molto raramente.

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UN MONNEZZA TRUCIDO E... “RIVOLTATO”

Nel 1977 Massi dirige un altro film che potremmo definire un poliziottesco “insolito”. È La banda del trucido, che segna il ritorno di Tomas Milian dietro i ciak del regista marchigiano. È di scena il “Monnezza” prima maniera, quello che ancora fa il ladro (per niente gentiluomo) ma che è sulla via della conversione perché i tempi sono cambiati e lui ripudia la violenza: non si è trasformato ancora nel commissario Nico Giraldi protagonista della lunga serie di film diretti da Sergio Corbucci ma già si impegna, aiutato dalla sua banda, a far catturare un rapinatore che ha bruciato vivo un suo protetto. E per questo combatte in parallelo una battaglia con il terribile poliziotto impersonato da Luc Merenda, un tipo precisino, efficace, violento, freddo e sanguigno quanto basta. Si tratta di una delle migliori interpretazioni di questo attore ex lavapiatti ed ex fotomodello che dopo una quarantina di film (in gran parte “poliziotteschi”), si è ritirato a 103

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vita privata. Merenda vive attualmente a Saint-Ouen, in Francia, e assieme alla moglie Annie Minet ha aperto un negozio di mobili d’antiquariato orientale al Marché Biron di Parigi. Il film non piacque alla critica. “Un poliziesco alla romana a base di parolacce, pistoleros da strapazzo, commissari dal capello ossigenato, si è sposato con il genere comico” è il commento di G. Gs. sul Corriere della Sera dell’1/04/1977. Il giornalista conclude il pezzo con la solita pedagogia di chi vorrebbe cambiare il mondo con la penna: “I cittadini che si fanno giustizia da soli e i poliziotti che agiscono in nome di una legalitaria ideologia armata hanno ormai molte facce nel nostro cinema e parlano molti dialetti. Questi di Monnezza & Company sono i peggiori”. “Qui Tomas Milian si fa il più laido possibile” scrive Vice sull’Unità del 5/04/1977. Sulla stessa lunghezza d’onda, ma senza usare l’accetta, è Il Giorno che nella cronaca degli spettacoli di Milano del 3/04/1977 parla del film paragonandolo a un “cocktail praticamente insapore”. Gli spettatori comunque si divertirono. Incassò un miliardo e duecento milioni di lire. A dispetto della sua “romanità” (o forse proprio per questo…) la pellicola venne distribuita anche in Francia con il titolo L’exécuteur vous salue bien. La trama sembra ben congegnata e lineare anche se sviluppata attraverso due episodi distinti, quello del trucido e quello del poliziotto, dove i due protagonisti non si incontrano mai (anche perché non si sopportavano). Inoltre, la sceneggiatura originale è stata “rovesciata” in sede di montaggio, come ci ha raccontato Mauro Bonanni, fidato collaboratore di Massi: la scena iniziale, cioè, doveva essere quella finale, e viceversa.

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LA BANDA DEL TRUCIDO (1976)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: Flora Film e Variety Film; Soggetto: Elisa Briganti, Sceneggiatura: Dardano Sacchetti, Elisa Briganti, Stelvio Massi; Direttore della Fotografia: Franco Delli Colli; Montaggio: Mauro Bonanni; Musiche: Bruno Canfora; Durata: 99’; Cast: Luc Merenda (commissario Ghini), Tomas Milian (Sergio Maraschi detto Monnezza), Elio Zamuto (Belli), Katia Christine (Carmen, fidanzata di Ghini), Corrado Solari 105

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(questore Alberti), Franco Citti (Lanza), Imma Piro (Agnese Rinaldi), Aldo Barberito (il giornalista), Francesco D’Adda (gioielliere ucciso), Paolo Bonetti (giocatore di flipper), Franco Balducci (Nino, il ricettatore), Salvatore Billa (Minone, il rapinatore), Massimo Vanni (Osvaldo Rinaldi detto Ranocchio), Nicoletta Piersanti (Maria Ciacci), Fortunato Arena (tassista), Alessandra Cardini (Laura), Mimmo Poli (barista), Nello Pazzafini (complice di Lanza), Rosario Barelli, Mario Brega (questore), Stefano Raspi, Giuseppe Mischi. Sergio Maraschi, detto er Monnezza, il trucido, è un ladro di lunga esperienza che vive in una borgata romana e comanda un manipolo di piccoli delinquenti all’antica. Gestisce una trattoria, ha una compagna grassona che vuole fare a tutti i costi l’attrice e un figlio che non gli somiglia per niente ma che tutti chiamano er Monnezzino. Ruba e fa rubare, Maraschi padre, ma odia assai la violenza. Ha una scuola in cui insegna ai suoi discepoli come sottrarre portafogli senza farsi accorgere e come fuggire senza lasciare tracce. “Non dovete usà le pallottole, dovete adoperà queste… ‘e palle!” spiega il professor Monnezza. Ma a un certo punto arriva nella capitale il siciliano Belli (Elio Zamuto), un cinico criminale che vuole rapinare un portavalori. Gli manca un bravo autista e chiede al collega borgataro di “prestargli” il fidato “Ranocchia”. Così è. Questi però nell’operazione ci rimette la pelle, insieme a tante altre persone eliminate dal sanguinario fuorilegge. Scatta allora la vendetta del l’amico Monnezza che non può fare a meno di allearsi, stavolta (seppur da posizioni contrapposte) con il biondo e atletico commissario Ghini (Luc Merenda), uno che spara senza ritegno, tira pugni d’acciaio e tratta i suoi 106

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uomini senza tanti complimenti: “Certo che siete come un albero di banane: non ne fate mai una dritta!”. Chi è più trucido tra i due “vendicatori”? Ma alla fine giustizia è fatta: Ghini ammazza il bandito e Monnezza, cuore d’oro e cervello fino, fa fessa la polizia e si impossessa del bottino di Belli che devolverà in gran parte alla vedova del suo amico defunto. Poi, spirito ribelle, il Trucido abbandona la moglie in trattoria e, col Monnezzino sulle spalle, scappa in cerca di una nuova vita. Parolacce a gogo, carneficine e doppi sensi: ma noi non ci scandalizziamo (quanto sono più volgari le immagini e i “non detti” di certi film di oggi e di ieri?). Volendo, si ride e ci si intenerisce. Il plot e la sceneggiatura (benché risulti sbrindellata dai dialoghi che Milian ha voluto scrivere per sé e da scelte obbligate dalla produzione) sono firmate dalla inossidabile coppia (anche nella vita) Elisa Briganti-Dardano Sacchetti. Tomas Milian è bravo, Luc Merenda pure, soprattutto nelle scene di azione. Ma l’attore cubano non amava il collega francese e prima dell’inizio delle riprese chiamò da una parte il regista per dirgli: “A Ste’ non lo fa venì… oggi giri tutto a me, domani tutto a lui…”. Franco Citti interpreta un pericoloso bandito di periferia che il poliziotto Merenda insegue fino a un deposito di bus dove si accende la solita sparatoria (la scena è piena di tensione). C’è anche “Jimmy il fenomeno” col suo sguardo sbieco. E, in un clima spesso volutamente farsesco, non manca l’auto-ironia: il regista fa dire infatti a uno dei suoi personaggi (la fidanzata di Ghini-Merenda): «Annamo prima ar cinema e poi a cena? Vabbé, basta che non sia un orribile poliziesco all’italiana!».

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Mauro Bonanni, in sala di montaggio mai uno screzio Il montaggio è fondamentale in un film, soprattutto quando si tratta di cinema d’azione: serve per dare i ritmi giusti alla suspense, per rendere più vere ed emozionanti le scazzottate, gli inseguimenti, le sparatorie e tutto quanto prevede il repertorio del genere, dove sono impegnati attori e controfigure. Stelvio Massi dava un’importanza capitale al lavoro di assemblaggio delle scene perché sapeva che un buon montaggio poteva anche migliorare di molto il prodotto finale. Per questo, sin dall’inizio della sua carriera di regista, si affidò a un montatore di grande talento, Mauro Bonanni, che lo affiancherà in questo delicato compito in ben sedici film, da Macrò, girato nel 1974, a Guapparia, del 1985. Undici anni di intenso lavoro insieme, in sala di montaggio, ma anche un’amicizia sincera che non li ha fatti mai litigare. Bonanni, romano, sessantadue anni, è un pezzo importante del cinema italiano: ha lavorato con grandi registi in quasi cento film, si è fatto le ossa incominciando questo duro lavoro a diciannove anni. Come è nata la lunga collaborazione tra lei e Stelvio Massi? È stato un amico comune a farci conoscere, uno scenografo che lavorava a Cinecittà. Parlando mi disse che aveva bisogno di un montatore per un film particolare, Macrò, e per un poliziottesco che voleva realizzare entro breve, Squadra Volante. Io avevo 25 anni. All’inizio ero restio ad accettare, perché volevo continuare a fare film d’autore, opere “underground”, come si chiamavano allora. Ma lui era così convinto dei suoi progetti che, alla fine, mi convinse. E non me ne sono pentito. È stato Stelvio a farmi amare il cine108

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ma vero, a insegnarmelo. Era sempre un fiume, un uragano che riusciva a trascinare tutti dietro alle sue idee. Quindi fece il montaggio dei primi due film diretti da Massi superando le sue iniziali perplessità… Sì. E tra mille ostacoli! Macrò venne girato in fretta, il produttore decise di cambiare all’improvviso la protagonista con un’attrice meno brava ma che gli piaceva di più… Poi la distribuzione fu un fiasco… I soldi per le riprese di Squadra volante, invece, finirono anzitempo e per fare i trailer mi dovetti arrangiare. Fu ancora una volta Stelvio a incoraggiarmi: “dai che tu hai tante buone idee!”. Ma stavolta proprio non mi venivano. Allora, ricordo che andai a pranzo in un ristorante vicino a Cinecittà, mi abbuffai di gamberetti in padella e bevvi del buon vino, anche se ero astemio. Entrai in sala di montaggio che ero mezzo brillo ma, forse proprio per questo, riuscì a fare un lavoro sopraffino tanto da meritare il plauso di Stelvio: “Bravo, vedi? Che ti avevo detto?”. Qual è stato il film che vi ha dato più grattacapi dal punto di vista tecnico? Beh, sicuramente La banda del trucido perché fummo costretti a rovesciare totalmente la sceneggiatura… Scusi, in che senso? Siccome Luc Merenda era impegnato nello stesso periodo in un altro set, il primo giorno di riprese girammo con lui la scena del titolo finale. Poi, durante la lavorazione, a causa di questo e di altri inghippi dovuti alla disponibilità degli attori, ci furono ulteriori sconvolgimenti tanto che Stelvio ogni giorno non sapeva quale parte di sceneggiatura avesse potuto co109

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prire: andava in giro con fogli sparsi del copione da utilizzare secondo necessità. Finite le riprese, montato tutto, alla prima proiezione, dopo appena 40 minuti di film, Stelvio si alza e urla: “Fermi tutti, così la storia non sta in piedi! Ma niente panico, troveremo una soluzione”. Passa una settimana e rivediamo tutto il film alla moviola. Decidiamo di tutte le scene sono state “riscalettate” e lo abbiamo montato da capo: così il finale è diventato l’inizio, e viceversa. Ovviamente abbiamo dovuto far rifare anche molti dialoghi. Il risultato finale, comunque, è stato buono, il film è stato accolto bene dal pubblico. Già, incassò parecchio. E poi la sa una cosa? Cosa? Ha presente i capelli ricci e gonfi di Tomas Milian nel film? Come no, li ha portati così anche in seguito, quando ha continuato a fare “er Monnezza”, sono un elemento della sua “maschera”… Beh, Tomas li ha voluti fare come i miei, cioè come li portavo io allora, quando avevo una chioma fluente e tutta riccioluta! Complimenti! Ma, piuttosto, dica, lei e Stelvio siete andati sempre d’accordo? Sempre! C’è stata sempre sintonia tra noi, mai una discussione. Io seguivo anche il doppiaggio, lui veniva al mixer, abbiamo sempre collaborato bene. Ci fidavamo totalmente uno dell’altro. Ma quali erano le principali qualità di Stelvio, secondo lei? Caricava e scaricava ogni volta l’energia giusta. Era capace di convincere tutti, anche le pietre! A Franco Gasparri, per esempio, ha insegnato a correre 110

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nel modo giusto, a impugnare la pistola, a comportarsi da Mark il poliziotto. Ha fatto recitare persino i pescatori di Civitanova dove abbiamo girato Poliziotto scomodo. Inoltre era un grande tecnico, avendo fatto per molti anni l’operatore e il direttore della fotografia, conosceva bene l’ottica ed era in grado di fare un primo piano a Roma e un controcampo a Hong Kong senza che nessuno se ne accorgesse! Quale rapporto aveva Stelvio con gli attori? Con alcuni i rapporti erano davvero ottimi. Il grande Lee J. Cobb, divo di Hollywood, aveva un immenso rispetto per lui, che lo aveva diretto in tre film. Lo incontrai un giorno mentre giravo un telefilm in America. Appena mi vide disse: “Mi saluti tanto Stelvio”. Carlos Monzon, poi, lo adorava. Su di lui ho un episodio da raccontare. Racconti… Fu scelto da Stelvio come protagonista di Il conto è chiuso. Lì c’è una scena, quasi all’inizio, dove Monzon con un cazzotto butta un avversario contro la rete di recinzione. Carlos era talmente veloce che, seppure voltato dall’altra parte, si accorgeva della presenza del suo antagonista prima che fosse inquadrato! Stelvio fu costretto a far ripetere la scena sei volte! E in un altro ciak capitò che “il campione” dette un pugno vero nello stomaco a una controfigura la quale si accasciò a terra dal dolore regalando al film un altro momento di realismo.

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LO SBIRRO DAGLI OCCHI DI GHIACCIO

Maurizio Merli aveva già il cliché dello sbirro dal sangue caldo appiccicato addosso quando cominciò lo stretto sodalizio con Stelvio Massi, un rapporto di collaborazione destinato a durare sei film, quelli che accompagnarono il crepuscolo del poliziesco all’italiana. Era il 1977 e l’occasione fu Poliziotto sprint, un film di genere molto diverso dagli altri, dove non si spara ma si corre sulle quattro ruote con grande dispendio di adrenalina. I due si conobbero un anno prima, per caso, sul set di Mark colpisce ancora. Massi, che voleva svincolarsi dai soliti schemi del poliziottesco, parlò subito all’attore romano di una nuova storia a cui teneva molto e sulla quale lo sceneggiatore Gino Capone stava lavorando. Si trattava di un film ispirato alle gesta del brigadiere Armando Spatafora della squadra Mobile di Roma, che negli anni ’60 andava a caccia dei malviventi rincorrendoli con una Ferrari sulle strade della capitale. I colleghi e la stampa lo soprannominarono “poliziotto sprint”. Merli accettò il ruolo: gli serviva anche per rinnovare il suo personaggio. Infatti, eccolo sul set per la prima volta senza baffi, con un’aria perennemente sbarazzina, per interpretare un agente di polizia con la passione dei motori e quindi un eroe con cui i giovani di allora potessero identificarsi. E fu proprio così. Matteo Norcini in un articolo su Merli pubblicato da Amarcord (n. 4, settembre-ottobre 1996) riferisce un commento di Massi in proposito: “Ricordo alla prima del cinema Brancaccio di Roma gli applausi del pubblico e la soddisfazione di Maurizio. I ragazzi all’uscita sgommava112

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no appena saliti in auto, eccitati dal film…”. E stavolta, anche la critica fu benevola. “Il film ha il non piccolo merito di non cadere nell’esibizione di violenza gratuita e nell’ideologia reazionaria….” scrive E.G. su Il Giorno del 1/09/1977. Il punto di forza, secondo il quotidiano milanese, sta negli spericolati inseguimenti automobilistici: “sono davvero prodigiose le piroette effettuate da Julienne Remy e dalla sua squadra di stunt-men francesi, ma tutta la pellicola è ben ritmata da una svelta regia sostenuta dalle interpretazioni di Maurizio Merli e Giancarlo Sbragia”. Anche Il Corriere della Sera, con la recensione di G. Gs. esalta il presunto “buonismo” della storia e dei personaggi di un film ritenuto “più amabile e astuto di altri del filone”: “Si spara pochissimo e il gangster veste di grisaglia, frequenta gli ippodromi perché ama i purosangue e preferisce farsi incastrare piuttosto che travolgere un neonato in carrozzella….”. Ma la pellicola non incassò in Italia quello che il produttore Di Clemente sperava: i proventi arrivarno a 385 milioni di lire. Distribuito in Francia con il titolo S.O.S. Jaguar casse-gueule. La strada del rinnovamento del poliziottesco era stata intrapresa. Ma adesso, per proseguirla senza rompere del tutto gli schemi, ci volevano altre idee. Massi sceglie allora un soggetto di Fulvio Gicca Palli (lo sceneggiatore di Confessione di un commissario di polizia al Procuratore della Repubblica, di Damiano Damiani) che gli sembrava adatto per un nuovo film: è la storia di un ex agente di P.S. che, stanco del suo lavoro in commissariato, apre un ufficio per conto suo e diventa un investigatore privato. Il film avrebbe dovuto intitolarsi Italian detective ma produzione e distribuzione lo cambiarono in Poliziotto senza paura, più appetibile sul mercato italiano, 113

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però in contrasto con il mutamento del genere che Massi stava tentando. Merli si rifà crescere i baffi e riprende il suo personaggio, il quale stavolta si chiama Walter Spada e veste un impermeabile bianco, come nella migliore tradizione dei detective americani. Alle consuete imprese a base di revolverate, inseguimenti e cazzotti, Merli aggiunge un pizzico d’ironia nelle battute (come richiesto dalla sceneggiatura di Capone) e qualche sorrisetto ingenuo in più, di quelli che piacciono tanto alle signore. L’eroe si trova a dover risolvere il caso del rapimento di una ragazzina che lo porterà in Austria dove agisce un racket della babyprostituzione minorile. Il cast è ancora una volta di tutto rispetto: a cominciare dalla diva americana Joan Collins e da un buffo Gastone Moschin nei panni di un improbabile poliziotto viennese. Sei settimane di lavorazione, tre a Roma e tre a Vienna, per un film che la stampa definì “eurogiallo” e che comportò entrate nelle casse della produzione per circa 350 milioni di lire. Titolo austriaco Die Zuhalterin. “Massi tenta una carta nuova (…) messi da parte volgarità romanesche ed erotismo casereccio, sposa il film d’azione allo spaghetti-thriller (…) ma l’operazione non convince…” è il commento soft di G. Gs sul Corriere della Sera del 10/03/1978. Va giù duro, invece, “d.g.” sull’Unità del 10/03/1978: “Il poliziotto senza paura è oggi un vero e proprio sicario della giustizia sommaria (…), la regia è ancora latitante, Merli sovrappone la sua viva voce al penoso ritratto, e il vaso è colmo”. L’articolo però è impreciso: si parla per esempio di una trasferta di Spada in RFT (Repubblica Federale Tedesca) quando si tratta in realtà dell’Austria (ma il giornalista avrà visto il film?). Non mancano poi inutili riferimenti politici alla Cia; tutto lascia pensare, insomma, 114

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a una critica che muove dal solito pregiudizio. Forse aveva ragione Ennio Flaiano quando diceva che “il critico cinematografico è soprattutto uno che non capisce niente di cinema ma frequanta l’ambiente delle sale e scrive il pezzo sul film parlando d’altro (…) e spesso considera questo l’unico modo per protestare contro il fascismo” (Lettere d’amore al cinema, Rizzoli Editore, 1978). Per P.Me, invece, che scrive la recensione su Il Giorno dell’11/03/1978 “Tutto sembra scontato, tirato via, noioso: rimane Joan Collins ma in questo marasma è decisamente troppo poco”. In realtà il film, girato un po’ frettolosamente, noioso non è. E non mancano, come vedremo, gli spunti interessanti.

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MAURIZIO MERLI, UN AMABILE SBRUFFONE

“Daje Ste’, inquadra ‘sti du laghetti azzurri…”. Chiedeva sempre a Massi di non risparmiargli i primi piani e di puntargli la macchina da presa sugli occhi da maliardo, una delle sue forze. Maurizio Merli era bello e se ne vantava. Gli piaceva fare lo sbruffone al bar sotto casa, in quel di Lavinio, con gli amici che gli volevano bene, raccontando le sue avventure sul set. Aveva sempre l’aria del bullo, anche fuori dal lavoro. Fisico aitante, mascella volitiva, carattere schivo, a tratti poteva sembrare rude e scostante. Ma sotto quella corteccia si nascondeva un animo da fanciullo. Nato a 116

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Roma l’8 febbraio 1940, Merli, dopo il diploma all’Accademia d’Arte Drammatica, debutta nel cinema nel ‘63 come comparsa nel capolavoro di Luchino Visconti Il gattopardo. In seguito fa l’attore di fotoromanzi per la rivista Grand Hotel e approda al teatro leggero con la compagnia di Carlo Dapporto dove faceva il cantante ballerino. Al 1964 risale l’esordio in televisione con lo sceneggiato I grandi camaleonti di Edmo Fenoglio. Il cinema nel frattempo gli offre due particine, in un western comico di Marino Girolami dal titolo Due rrringos nel Texas, del ‘67, con Franchi e Ingrassia, e in un giallo di Ruggero Deodato, Fenomenal e il tesoro di Tutankamen, del 1968. Ma è il regista Luca Ronconi a dargli le maggiori soddisfazioni in quel periodo: lo chiamerà infatti sulle tavole del palcoscenico per la parte di Ricciardetto nell’Orlando furioso. Dopo altri due b-movies diretti da Girolami (Raptus e Decameron proibitissimo – Boccaccio mio statte zitto) e il film erotico di Carlo Infascelli Le mille e una notte all’italiana, in cui fa ancora parti di secondo piano, sarà il ritorno sul piccolo schermo a segnare il suo primo vero successo e a regalargli una grande popolarità: interpreta, infatti, l’eroe dei due Mondi ne Il giovane Garibaldi (1974) di Franco Rossi. Nello stesso anno, al cinema esce Zanna bianca alla riscossa, di Tonino Ricci: stavolta Merli è protagonista, comincia a menare le mani e a sparare, specialità che gli sarà sempre più richiesta da registi e produttori per il resto della sua carriera. Dopo aver fatto rimpiangere Amedeo Nazzari nel malriuscito remake di Catene, diretto da Silvio Amadio, per Merli arrivano quindi altre fiction televisive finché sul grande schermo non esplode il genere poliziottesco, che si adatta di più al suo carattere esube117

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rante. L’amico Girolami gli propone di interpretare il commissario Betti in Roma violenta (1974) al posto di Richard Harrison caldeggiato dal produttore Edmondo Amati: lui accetta con entusiasmo, si fa crescere i baffi (i maligni dicono per assomigliare di più a Franco Nero, l’eroe di La polizia incrimina, la legge assolve) e decide di non ricorrere alle controfigure nelle scene più pericolose. Il film piace: incasserà due miliardi e 750 milioni di lire. Ed è l’inizio di una fortunata serie di film del medesimo filone che lo consacrerà nel giro di soli sei anni “re dei poliziotti senza paura”: la gente lo fermava per strada complimentandosi con lui come se fosse il “vero” commissario. È questa la sua vera vocazione cinematografica, dimostrata anche dal fatto che era l’unico attore che quando sparava sul set non chiudeva gli occhi (cosa difficilissima, dicono i registi). Betti, Olmi, Tanzi, Murri, Palma i nomi di alcuni degli sbirri da lui interpretati, tutti di cinque lettere, nomi brevi, veloci come uno sparo…. Anche la sequenza dei film che lo vedono protagonista con la pistola in pugno sembrano una raffica che non lascia respiro. In Napoli violenta di Umberto Lenzi, del 1976, Merli recita a fianco di John Saxon che dice di lui: «Merli parlava di sé in terza persona, come il Papa; diceva: “Merli pensa di fare questa scena così, Merli ha finito, Merli se ne va…”». Nel 1976 in Paura in città di Giuseppe Rosati è un altro grande del cinema americano a fare da suo antagonista sulla scena: James Mason. Nello stesso anno ecco Roma a mano armata di Umberto Lenzi con Tomas Milian nella parte del Gobbo. Poi è la volta di Italia a mano armata, ancora per la regia di Marino Girolami e con John Saxon di nuovo co-protagonista. Un altro “gioiello” del genere è Il Cinico l’infame il violento, del 118

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1977, di Umberto Lenzi, con Tomas Milian e Renzo Palmer. Prima della splendida sestina piazzata da Stelvio Massi, con altrettanti poliziotti sul trono, Maurizio partecipa a due film che furono però una delusione: I Gabbiani volano basso di George Warner (Giorgio Cristallini), un noir alla francese venuto male (l’unica veramente originale era Nathalie Delon) e uno degli ultimi spaghetti-western, Mannaja, di Sergio Martino, nel quale il biondo tendente al Clint (Eastwood) anziché sparare con la colt lancia un’ascia che taglia di netto le braccia e si pianta dritta sulla fronte dei cattivi. Splatter, insomma, ma senza indugiare troppo nelle scene cruente. Il genere poliziottesco incominciava a scricchiolare, c’era bisogno di innestare nuove idee. Massi, che ha sempre avuto “il senso comune della gente”, proverà con coraggio altre soluzioni affidandosi allo sbirro più famoso d’Italia e ritagliando su di lui la figura del giustiziere stanco, sconfitto, che vorrebbe rinunciare alla sua battaglia ma non ce la fa, e tira fuori ancora la sua rabbia. Il risultato sono sei film che rappresentano una nuova (seppur breve) era del poliziottesco. Ma Merli si ribellava anche alle sferzanti critiche che la stampa gli rivolgeva accusandolo di fare solo film “commerciali” sfruttando la sua “faccia da sbirro”. E lui si difendeva così: «Per un attore è sempre difficile farsi conoscere dal pubblico. Anche interpretando film commerciali. Per questo non accetto i giudizi basati più sulla qualità della pellicola in cui si appare che sulla bravura o meno di un interprete. Anche a me piacerebbe girare con registi impegnati film di qualità, e avere tempi di lavorazione lunghi come succede per altri attori. Ma a parte qualche iniziativa personale (un film in cooperativa senza pren119

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dere i soldi) nessuno mi permette di scostarmi dal clichè del commissario» (Paese Sera del 24/11/1977). Questo desiderio rimarrà insoddisfatto. Merli nell’ultima parte della sua carriera reciterà nella spy-story Sono stato un agente CIA per la regia di Romolo Guerrieri (1978) e in un giallo di Umberto Lenzi, Da Corleone a Brooklyn (1979). Ancora un western, lo spagnolo Buitres Sobre la Ciudad di Gianni Siragusa (1980), e poi partecipa a Priest of Love (1981) di Christopher Miles, prodotto in Gran Bretagna e interpretato insieme a Massimo Ranieri, Ava Gardner, James Faulkner e Sarah Miles. L’ultima fatica al cinema del biondo guascone dagli occhi azzurri è stato un film diretto da Alberto Bevilacqua, Tango blu: lui ci sperava molto ma ai botteghini fu un disastro. Merli morirà stroncato da un infarto il 10 marzo 1989 a Roma, durante una partita di tennis. Aveva 49 anni. Ebbe un malore sotto gli occhi della figlia, che lo aveva accompagnato, venne soccorso in tempo ma spirò durante la corsa all’ospedale. È sepolto al cimitero di Lavinio, la località vicino Anzio che aveva scelto per vivere, fuori dai clamori della capitale, per essere più vicino alla famiglia e agli amici di sempre. Perché in fondo anche lui era un inguaribile provinciale. Secondo Umberto Lenzi aveva solo un difetto: pensava che il suo sguardo bastasse da solo a riempire i cinema.

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POLIZIOTTO SPRINT (1977)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: Giovanni Di Clemente per Cleminternazionale; Soggetto e Sceneggiatura: Gino Capone; Direttori della fotografia: Riccardo Pallottini e Franco Delli Colli; Aiuto regista: Danilo Massi; Montaggio: Mauro Bonanni; Effetti speciali: Renato Martinelli; Musiche: Stelvio Cipriani; Cast: Maurizio Merli (agente Marco Palma), Angelo Infanti (Jean-Paul Dossena, detto il Nizzardo), Giancarlo Sbragia (maresciallo Tagliaferri), Lilli Carati (Francesca), Glauco Onorato (Pistone), Orazio Orlando (Silicato), Gaetano Balistrieri, Rosario Barelli (maresciallo Bresciani), Tullio Casarino, Paolo Casella, Gabriele Dominghini, Vittorio Fanoni, Tom Felleghi, Manfred 121

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Freyberger (il questore), Claudio Giorgi, Mario Granato, Michelangelo Jurlaro, Giuseppe Ruschini, Domenico Poli; Durata: 105’.

Film poliziottesco-automobilistico. Lasciate le pistole nelle rispettive fondine, la sfida tra delinquenti e sbirri avviene a colpi di acceleratore. Marco Palma, soprannominato “il matto”, è un agente della Mobile di Roma fissato con le macchine e la velocità. Se ne infischia degli ordini dei superiori e provoca disastri quando fa servizio mettendosi al volante. Corre, insegue i malviventi anche quando non dovrebbe con la sua Giulietta Alfa Romeo. Si schianta e la scampa, ma il suo collega Silicato (un ottimo Orazio Orlando) non esce vivo dalle lamiere dell’auto. Palma è prostrato e vuole lasciare la polizia. Il maresciallo Tagliaferri, però, anche lui appassionato di auto riconosce nel giovane poliziotto un talento simile al suo (anche lui in gioventù era un pilota provetto) e lo incarica di catturare un abilissimo rapinatore francese, detto “il 122

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Nizzardo” che alla guida di una Citroen riesce a beffare sempre la polizia dopo aver compiuto clamorosi colpi nelle banche della capitale. Tagliaferri allora (c’è chi ha visto nel personaggio interpretato da Giancarlo Sbragia il brigadiere Antonio Spatafora, alle cui gesta il film è dedicato) affida allo scapestrato Palma la sua vecchia Ferrari 250 GTE, adeguatamente truccata, e lo manda nella tana dei malfattori. Lui si spaccia per criminale infiltrandosi nella gang specializzata in rapine. Ci riesce bene ma sarà tradito da un banale imprevisto. Alla fine, come sempre, i cattivi (che stavolta lo sono un po’ meno…) perderanno: il Nizzardo perirà al volante durante una pericolosa corsa col poliziotto sprint. Durante la lavorazione sono state distrutte ben sei auto della polizia. La Carati disse di non essersi trovata a suo agio a recitare con il “divo” Merli, che pensava solo a se stesso: “con lui non ho mai legato”, ha dichiarato l’attrice. Strepitosi gli stunt-men di Remy Julienne con le loro esibizioni dentro la città: macchine che si inseguono percorrendo vicoli e scalinate, sorpassi mozzafiato, testacoda, crash e cappottamenti come fossero reali. Misurata e credibile la prova attoriale di Angelo Infanti che ha vestito la tuta del Nizzardo. Ritmi spasmodici, regia impeccabile. Efficace e originale la colonna sonora di Stelvio Cipriani, improntata su registri jazzistici.

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POLIZIOTTO SENZA PAURA (1977)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: Silvio Siano e Nicola Venditti per Promer (Roma); Soggetto: Fulvio Gicca Palli; Sceneggiatura: Gino Capone, Stelvio Massi, Franz Antel; Direttore della fotografia: Riccardo Pallottini; Montaggio: Mauro Bonanni; Aiuto Regista: Danilo Massi; Musiche: Stelvio Cipriani; Cast: Maurizio Merli (Walter Spada, detective privato), Joan Collins (Brigitte), Gastone Moschin (Karl Koper), Werner Pochat (Strauss), Anna Rita Grapputo (Annelise Von Straben), Franco Ressell (dottor Zimmer), Alexander Trojan (Von Straben), Massimo Vanni (Vinnie), Luciana Turina, Andrea Scotti, Heidi Gutruf; Durata: 100’. 124

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Il detective privato romano Walter Spada si ispira spudoratamente al “collega” Philippe Marlowe e tiene il poster di Robert Mitchum nel suo scalcinato ufficio. Il coraggio ce l’ha, come quando lavorava al commissariato, ma i clienti gli mancano. Non ha nemmeno i soldi per pagare le bollette. Ma un bel giorno, l’investigatore viennese Karl Koper lo incarica di ritrovare la quattordicenne Annelise von Straben, figlia di un ricco banchiere austriaco, che è arrivata a Roma per entrare in una comunità buddista. Spada si mette sulle tracce della ragazza che però, nel frattempo, viene rapita. Per proseguire le ricerche, Willy si deve trasferire a Vienna dove scopre un complicato giro di prostituzione minorile nel quale le giovani che si ribellano vengono ammazzate. L’italian detective rischia la pelle in più occasioni. Durante le indagini incontra Renata, una delle vittime del racket: le sue rivelazioni gli consentiranno di individuare gli sfruttatori-assassini. La ragazzina viene uccisa subito dopo ma Spada riesce a mettere le mani sui capi dell’organizzazione in cui aveva una losca parte anche il padre di Annelise. A rapire la bambina, anch’essa fatta fuori dalla banda, era stata Brigitte, un’avvenente spogliarellista che intendeva ricattare il banchiere. Spada conclude la sua missione e riscuote la parcella di duemila dollari. Tornerà a Roma annunciando che per il suo prossimo caso è stato assunto dalla Cia... La prima scena, intrisa di suspense, è degna dei migliori film d’azione americani: mostra il rapimento di una bambina nel Parco del Pincio. Viene presentato così agli spettatori il tema al centro della vicenda che si dipana senza annoiare. Ma appare subito evidente l’intenzione del regista di sottrarsi agli schemi del poliziottesco tradizionale tratteggiando la figura del de125

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tective tricolore a cui non manca un pizzico di autoironia: “I suoi film li ho visti tutti” dice Spada ammirando il poster di Robert Mitchum nei panni di Philippe Marlowe. Merli fa il gradasso e il piacione: «Pupa, a me le lacrime non mi commuovono» ma riesce anche ad essere… cinico, infame e violento quando alla fine del film sevizia la Collins con la canna della pistola e dice: «Voglio vedere il corpo di una donna che ha raggiunto il massimo splendore solo perché a 14 anni non ha mai trovato nessuno che l’ha violentata in modo bestiale!». La scena non è volgare perché la cinepresa non insiste sui particolari ma inquadra Merli e il corpo nudo dell’attrice inglese lasciando intuire quello che sta accadendo. Massi riesce a mixare alla perfezione i registri del film d’azione con quelli della commedia, anche grazie al personaggio interpretato da Gastone Moschin, divertente, ai limiti della macchietta. Joan Collins è una splendida dark lady che mette in mostra, anche, la sua esperienza nei ruoli di donna che seduce, trama e manipola la realtà: una figura che, però, non è propria dei poliziotteschi, dove la femmina è più che altro è un succulento contorno per sbirri e gangster anche se qualche volta si traforma in spietata traditrice. Come la “bambola” Barbara Bouchet in Milano calibro 9 di Fernando Di Leo. Non a caso, in seguito, la Collins diventerà famosa per aver interpretato la perfida Alexis nella lunga serie televisiva americana Dynasty (dal 1981 al 1989). Memorabili, per il cinema, le sue scabrose parti da protagonista in The Stud-Lo Stallone (1978) di Quentin Masters e The Bitch (1979) di Gerry O’Hara, girati subito dopo il film di Massi.

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“CARA CIVITANOVA, TI REGALO UN FILM”

Stelvio Massi ha sempre avuto nel cuore la sua città. Non poteva mancare quindi un omaggio a Civitanova, un film “dedicato” che però, in coerenza con il suo modo di lavorare, non fosse solo oleografico-celebrativo. Ma come puntare l’obiettivo su una piccola realtà di provincia e proseguire nella linea di rinnovamento di un poliziottesco morente? Come riempire di contenuti questo “regalo”? Non poteva essere soltanto una dedica sentimentale, affettiva. L’idea per un film ambientato nella cittadina adriatica arrivò dal figlio Danilo, autore del soggetto che darà vita a Un poliziotto scomodo. Gino Capone ritagliò la sceneggiatura sul personaggio di Maurizio Merli. E sarà una svolta importante. Nella capitale il commissario Merli-Olmi è al culmine della crisi, stressatissimo, accerchiato da criminali, giornalisti, giudici collusi con la mafia, killer che lo vogliono far fuori. È stanco di combattere contro le sue stesse istituzioni. Uccide per eccesso di difesa un metronotte e viene trasferito a Civitanova Marche. E qui tutto sembra essere più lento, tranquillo: è l’ambiente ideale per depurarsi dalle scorie della violenza e dei soprusi. Ma sarà proprio così? Massi descrive la sua città con attenzione e senza retorica: la chiesa di San Marone, il porto e la spiaggia, lo stadio, palazzo Cesarini Sforza e piazza XX Settembre, la torre merlata di Porta Marina con il caratteristico cipresso nella città alta, dal quale il regista apre una panoramica verso le colline dell’entroterra maceratese. Olmi a Civitanova, in compagnia della bella maestrina dagli occhi verdi (una splendida 127

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Olga Karlatos), si accorge che la dannata pistola finalmente non serve più e allora la ripone nel cassetto, togliendo le pallottole dal caricatore. Ma la violenza, cieca e brutale alligna anche sulla riviera adriatica: un commercio di armi e una banda di rapitori di bambini infestano la città. E Olmi deve fare giustizia, non può rinunciare a compiere il suo dovere di poliziotto. L’epilogo sarà una strage. Il film fu veramente una novità, come sottolinea V. Spiga nella recensione pubblicata sul Resto del Carlino del 3/02/1979, una “voce fuori dal coro”: “Il poliziesco all’italiana ha trovato in Stelvio Massi un regista che ha saputo rinnovare il genere: mutuando gli stilemi del western nostrano, la violenza e la tipologia, cogliendo dal cinema americano il lato spettacolare, il ritmo veloce (…). Denso di avvenimenti, di colpi di scena e di sequenze spettacolari, Un poliziotto scomodo è senza dubbio il miglior film della serie vantata da Stelvio Massi”. Di segno completamente opposto, la velenosa critica dell’immarcescibile G.Gs, sul Corriere della Sera del 3/04/1979. Stavolta il giornalista si trasforma da spettatore a sociologo: “La regia sposa la suspense del thriller ai colpi di pistola del genere poliziesco e disegna con la consueta banalità le vittime (tutti calabresi emigranti sfruttati dalla città) e i cattivi (tutti ricchi e fascisti così il pubblico non solidarizza”. Il Messaggero invece riesce a mantenere un giudizio equilibrato. Ecco in sintesi l’articolo uscito nella pagine degli Spettacoli il 18/02/1979: “Il solito Maurizio Merli nelle vesti del commissario di polizia duro e inflessibile che non esita a malmenare colpevoli e non colpevoli e che, più d’ogni altro, ama la sua “pistola”. (…) Sulla base di un “cliché” di maniera, il film, pur offrendo scarsi spunti originali, si di128

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stingue per la vivacità dell’azione e per una certa dose di suspense concentrata nelle sequenze finali. Troppi, forse, i morti, e accentuata in eccesso la violenza, ma, dato il genere nessuna meraviglia che la regia, per il resto corretta, abbia sfruttato al massimo i suggerimenti della sceneggiatura. Maurizio Merli è il ‘solito’ tutore della legge e, come sempre, convincente”. Durante le riprese del film, l’intera città si mobilitò: si trattava di un avvenimento eccezionale. I pescatori vennero coinvolti per interpretare loro stessi…. Racconta Nicola Orlandi, allora direttore della locale Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo: «Il cast e la troupe vennero ospitati nell’Hotel Villa Eugenia, vicino all’omonima residenza di Napoleone III, nel quartiere di San Marone. All’organizzazione del film, per alcune location e il reclutamento delle comparse parteciparono Il Club della Vela, l’Associazione dei Pescatori, Telecivitanova, la discoteca il Gatto Blu e la ditta di trasporti Traini & Torresi». Civitanova era in festa. «Nei momenti di riposo dalla lavorazione, quando Merli e la Karlatos facevano shopping insieme nelle boutique di corso Umberto I, erano sempre seguiti da una marea di persone, curiose di vedere da vicino queste star del cinema a spasso per la città» prosegue Orlandi. E Massi? «Vedevo Stelvio lavorare alacremente sul set, teneva sempre stretto un mezzo toscano tra le labbra e in ogni scena voleva sempre la perfezione: era capace di affrontare con coraggio qualsiasi difficoltà, sembrava proprio tagliato per le imprese più complicate». E, in effetti, anche stavolta i problemi non mancarono, come ricorda il montatore Mauro Bonanni: «Abbiamo dovuto girare prima il secondo tempo ambientato a Civitanova, e poi il primo, a 129

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Roma. C’erano pochi soldi e poco tempo a disposizione: il film doveva uscire per Natale. Si corse molto. Il doppiaggio cominciò mentre ancora si girava. Ce la facemmo proprio sul filo del rasoio!».

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UN POLIZIOTTO SCOMODO (1978)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: PAC; Soggetto: Danilo Massi; Sceneggiatura: Gino Capone, Teodoro Agrimi, Stelvio Massi; Direttore della fotografia: Sergio Rubini; Montaggio: Mauro Bonanni; Aiuto regista: Danilo Massi; Musiche: Stelvio Cipriani; Cast: Maurizio Merli (commissario Francesco Olmi), Massimo Serato (Degan padre), Olga Karlatos Anna), Mario Feliciani (il questore), Mimmo Palmare (Corchi), Marco Gelardini (Degan figlio), Attilio Duse (brigadiere Ballarin), Piero Gerlini (un giornalista), Nello Pazzafini 131

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(un malvivente), Luigi Casellato, Maurizio Gueli, Luciano Roffi, Mirella Frumenti, Alfredo Zamarion, Alice Gherardi, Alessandro Poggi, Sergio Mioni, Paola Maiolini, Franco Salamoi, Ugo Giannangeli; Durata: 99’. Olmi è un commissario “scomodo” in servizio alla Questura di Roma. È incorruttibile e non si lascia condizionare dai “potenti”. Indaga su un duplice omicidio e scopre un traffico di diamanti nel quale è implicato il figlio del direttore della dogana di Fiumicino. C’è chi, dall’alto, copre il responsabile delle malefatte ma lui è ostinato e vuole andare fino in fondo. Così tentato di ammazzarlo. In un conflitto a fuoco sotto casa sua, Olmi uccide per sbaglio una guardia notturna. Viene trasferito al Commissariato di Civitanova Marche dove, gli dicono i colleghi, “l’unica cosa da sbrigare ogni giorno è la noia”. Cerca di rifarsi una vita, ripone il revolver nel cassetto, si innamora di una giovane che fa la maestra nella scuola della città, sembra essersi convertito alle buone maniere anche contro i piccoli delinquenti. Ma quasi per caso scopre un traffico illecito di armi che arrivano nottetempo nascoste tra le cassette di pesce nelle barche dei pescatori locali per essere poi caricate su camion verso lontane destinazioni. A dirigere i loschi movimenti c’è un ricco e potente editore che ha messo in piedi una pericolosa organizzazione. È tempo di riprendere la pistola. E quando la fidanzata resta coinvolta in un sequestro insieme alla sua scolaresca Olmi torna all’attacco. Entra nella scuola con uno stratagemma e uccide tutti i rapitori a sangue freddo. Mentre si avvia sconsolato verso l’uscita, lo sbirro lascia la pistola su un tavolo. Forse stavolta è davvero finita. Merli qui da il meglio di sè senza controfigure, neanche nella pericolosissima scena finale in cui si ar132

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rampica su una fune come Tarzan per entrare dalla finestra al terzo piano della scuola elementare (la “Mestica”, che oggi non esiste più perché demolita) dove i banditi tengono in ostaggio maestra e ragazzini. Ma una delle scene più significative del film, l’ennesimo colpo di genio di Massi, è quando lo sbirro prende possesso del nuovo ufficio a Civitanova e decide di mettere nel cassetto la pistola d’ordinanza: per mostrare la metamorfosi etica del commissario la macchina da presa sfuoca il volto di Merli mentre toglie le pallottole dal caricatore. Ma le invenzioni del regista in questo film sono innumerevoli: per raccontare una scazzottata è ricorso al sistema delle ombre cinesi proiettate sul muro di una casa; un agguato ai carabinieri è provocatoriamente commentato solo dalle musiche di Cipriani; l’uccisione di un bandito da parte di Merli che spara da un elicottero è sottolineta da un lungo ralenti. E non mancano, ancora una volta, immagini riflesse da specchi o altre superfici dove sono mirabilmente racchiusi tutti i personaggi che in quel momento si confrontano sulla scena. Una curiosità: il titolo del film nella versione francese è Un flic explosif (Un poliziotto esplosivo).

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GIUSTIZIA VA FATTA, CON QUALSIASI MEZZO

Uscì nel dicembre del 1978 (come Un poliziotto scomodo), anche Un commissario di ferro. C’erano due lungometraggi di Massi in contemporanea nelle sale italiane, nonostante il declino del genere! Il film avrebbe dovuto intitolarsi “Una dannata domenica”, ma siccome c’era una pellicola americana con un titolo simile (Domenica, maledetta domenica, di John Schlesinger) la produzione decise all’ultimo momento di ribattezzare questa ulteriore fatica del duo MassiMerli con un titolo che non piaceva a nessuno, tanto meno all’autore, ma che negli anni successivi ha avuto il merito di entrare nel linguaggio comune… Il commissario di ferro. Così “cult” che il gruppo musicale “Elio e le storie tese” ha deciso di inserire un brano dei dialoghi del film (quello che precede la scazzotta al bar tra Merli e i piccoli criminali di periferia) come incipit del suo disco Studentessi (2008), forse in omaggio a Rocco Tanica, il tastierista del gruppo, il cui vero nome è Sergio Conforti, proprio come il sottoproletario romano interpretato da Massimo Mirani che muove la drammatica vicenda del film. La novità, stavolta, sta nel fatto che il poliziotto impulsivo e violento si scopre fragile e insoddisfatto. Il commissario Mariani (Merli) ha un matrimonio fallito alle spalle, un’ex moglie succube di una madre astiosa e borghese, un figlioletto di cinque anni che non lo chiama papà ma Mauro e con il quale può giocare come un amichetto a…“guardie e ladri” solo la domenica. Sembra a un certo punto che il poliziotto “duro e puro” vacilli, non sia più sicuro di se stesso. Ma poi viene 134

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fuori la rabbia. Secondo Maurizio Merli, che non aveva peli sulla lingua, questa sarebbe una pellicola “fatta di niente”. Fu una dichiarazione sorprendente, visto l’orgoglio che lui aveva per se stesso e le sue interpretazioni. Ma il giudizio trovò d’accordo (ovviamente) gran parte della stampa. Il Giornale dell’8/03/1979 nella recensione del film scrive che Merli “non riesce a rendere il suo personaggio particolarmente simpatico”, al contrario del poliziotto creato da Vittorio Mezzogiorno ne Il giocattolo di Montaldo”. “In questo prodotto l’unica cosa salvabile sono le scene d’azione, realizzate con buon mestiere e con l’aiuto di validi stuntmen”, sostiene invece F. Fossati sulla Gazzetta del Lunedì del Corriere Mercantile. L’Unità del 9/03/1979, nel già citato articolo di L.P., parla, tra l’altro, di “assurdità ammantate di cronaca nera quotidiana” (come se cose del genere non succedessero…) ma nella recensione sbaglia clamorosamente il nome dell’interprete di Sergio Conforti (il “giovanotto riccioluto e rincitrullito”) scambiandolo per Chris Avram (invece è Massimo Mirani). Ci viene ancora il dubbio che chi ha scritto la critica abbia visto veramente il film. Sferzante anche il giudizio di Leonardo Autera sul Corriere della Sera del 17/12/1979: “Ultimi eredi del consunto ‘poliziesco all’italiana’, lo sceneggiatore Roberto Gianviti, il regista Stelvio Massi e il biondo e opaco interprete Maurizio Merli propongono l’ennesima stanca avventura del commissario dalla pistola facile, deciso a fare di testa sua infischiandosi della disciplina e degli ordini superiori. E ancora una volta le maniere forti vengono sconsideratamente esaltate. (…) Facile prevedere come allora il commissario di ferro si scateni fino allo scontatissimo epilogo. Meno facile 135

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è immaginare le ingenuità, le inverosimiglianze, le esasperanti lentezze (madornale controsenso per un film che dovrebbe definirsi “d’azione”) fra cui procede il racconto”. Ma a noi non è sembrato così. Tutt’altro. Il film è alimentato dalla suspense, lo spettatore attento trepida dall’inizio alla fine. La storia è scandita da un ritmo incessante. Proprio come quella che si sviluppa in Sbirro, la mia legge è lenta, la tua no! che un anonimo giornalista sulla rivista Segnalazioni Cinematografiche (la n. 89 del 1980) definì “un cervellotico poliziesco all’italiana, la cui vittima principale è senza dubbio la verosimiglianza del racconto e dei personaggi”. Come se un poliziotto scaltro e senza scrupoli non potesse mettersi d’accordo con un mafioso, per far arrestare un inafferrabile camorrista… (sarai mai successo nella realtà?). Ma le riprese del film, si sa, furono condizionate soprattutto dalle bizze dei due protagonisti, Merli e Merola. Per la prima volta l’attore partenopeo recitava in un film di Stelvio Massi (seguiranno due lacrima-movie) e si presentò subito a tutta la troupe come un vero boss, oscurando la figura di Merli, che ci teneva a fare sempre il primo della classe. «O’ cinese, si presentava sempre puntualissimo sul set ed era un tipo al quale… bastava la parola» ricorda il produttore Salvatore Smeriglio. «Andava sempre in giro con due scagnozzi e appena arrivato mi disse: “Uè, diamoce del tu” e volle pagare lui la cena a tutta la compagnia!». Ne scaturì anche un battibecco tra l’attore napoletano e Merli che non mandò giù questo gesto di “generosità non richiesta”. Erano una cinquantina di persone e andarono a mangiare al ristorante Porta Rossa di Milano, nei pressi della stazione Centrale. Racconta ancora Smeriglio: «Il locale era gestito da pugliesi i quali ci riservarono 136

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una lunga tavolata nella taverna sottostante alla sala: avevano chiamato anche un suonatore di mandolino e Merola ne approfittò per cantare, dedicandomi O’ zappatore…».

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IL COMMISSARIO DI FERRO (1978)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: Roberto Bessi e Renato Angiolini per Belma Cin.ca; Soggetto e Sceneggiatura: Roberto Gianviti; Direttore della fotografia: Sergio Rubini; Montaggio: Mauro Bonanni; Scenografia: Claudio Cinini; Aiuto Regista: Danilo Massi; Musiche: Lallo Gori; Cast: Maurizio Merli (commissario Mauro Mariani), Janet Agren (Vera), Ettore Manni (ispettore Ingravallo), Chris Avram (commissario 138

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capo Crivelli), Massimo Mirani (Sergio Conforti), Mariangela Giordano, Dora Calindri (madre di Sergio), Walter Di Santo (Claudio, figlio di Vera e Mauro), Gian Piero Beccherelli (maresciallo Monti), Enzo Fiermonte (l’ingegnere), Elisa Mainardi (portinaia), Margherita Horowitz (vicina di casa del Conforti), Franco Odoardi, Franco Garofano, Mario Granato, Federico Corallo; Durata: 85’. Il film si apre con il rapimento di una giovane da parte dell’anonima sequestri “raccontato” attraverso un lungo ralenti. Sono tempi in cui la delinquenza dilaga e il commissario Mauro Mariani ha deciso di combatterla con ogni mezzo, lecito e non. Alla violenza si risponde con la violenza, sembra essere la sua filosofia: «E sennò, mandiamola a casa questa polizia. Leviamoci di mezzo e lasciamo i ladri, gli assassini, i terroristi padroni delle città» giustifica così, il “commissario di ferro” i suoi metodi bruti di fronte ai superiori che cercano di tenerlo a freno. Ma non c’è niente da fare e così il dirigente Mariani viene trasferito, per punizione, dalla sede centrale della Squadra Mobile a un commissariato di borgata. La musica non cambia. Mariani e il suo collaboratore Ingravallo (si chiama come l’ispettore di Un maledetto imbroglio, tratto dal romanzo di Carlo Emilio Gadda Quer pasticciaccio brutto de via Merulana: è un omaggio di Massi e Gianviti al maestro Pietro Germi?) si occupano a modo loro del rapimento della ragazza, la liberano, sgominano la banda e recuperano i soldi del riscatto. C’è pure un brutto ceffo che finisce stritolato tra gli spazzoloni roteanti di un autolavaggio. Mariani però è insoddisfatto. «Ha preso i rapitori, liberato l’ostaggio, restituito il bottino e non è contento: ma cosa cazzo vuole?» commentano i colleghi. Chissà quali senti139

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menti nasconde l’anima di un poliziotto che spara e uccide, che è divorziato dalla moglie, ha una suocera antipatica, un figlio che non lo chiama più papà e il ritratto di Gramsci sul comodino. Sembra fragile Mariani, dentro di sé, e pieno di contraddizioni. È solo e non ha tempo di pensare alla vita. Finché, una maledetta domenica, un folle entra nel suo ufficio, tiene sotto minaccia quattro poliziotti e un barista, ammazza un piedipiatti e rapisce suo figlio Claudio. Il pazzo, tale Sergio Conforti, vuole vendicarsi perché il commissario di ferro un giorno gli arrestò il padre che poi si impiccò in cella. È un personaggio inquietante, un allucinato da cui ci si può aspettare qualsiasi reazione. Mariani allora fa venire fuori tutta la rabbia che cova dentro e si mette alla caccia spasmodica dell’uomo, fuggito col ragazzino a bordo di una 127 verde. L’epilogo è previsto dal Conforti alla stessa ora e nello stesso luogo dove fu arrestato l’adorato papà. Al buio, in uno scalo ferroviario di periferia, il commissario di ferro sta quasi per rimetterci la pelle. Ma tutto si concluderà per il meglio. Il bravo Ingravallo libererà Claudio, e il rapitore dallo sguardo luciferino verrà messo in condizioni da Mariani di non nuocere più, e per sempre. Da sottolineare le prove degli attori Massimo Mirani, perfetto nel ruolo del folle ragazzo di borgata (che le ha prese davvero da Merli nel pestaggio finale!), e di Ettore Manni, corpulento ma dinamico e concreto assistente del commissario di ferro. Dolce, pur nelle asperità previste dal personaggio, Janet Agren nella parte della moglie di Mariani e mamma del bambino rapito. Nonostante il tema affrontato la sceneggiatura e le interpretazioni ci sono sembrate del tutto prive di retorica. Purtroppo il film, che pare 140

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scritto e girato un po’ in fretta, incassò solo 168 milioni di lire.

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SBIRRO, LA TUA LEGGE È LENTA, LA MIA NO! (1979)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: Cooperativa Cinematografica Conero; Soggetto: Josè Sanchez, Marino Girolami, Vincenzo Mannino; Sceneggiatura: Josè Sanchez, Stelvio Massi; Direttore della fotografia: Pierluigi Santi; Montaggio: Mauro Bonanni; Musiche: Stelvio Cipriani; Cast: Maurizio Merli (commissario Ferro), Mario Merola (Raffaele Acampora), Carmen Scarpitta (sorella di Ferro), Francisco Rabal (don Alfonso), Nando Marineo (Arrivo), Massimo Dapporto (Stefano), Matilde C. Tisano (Eva Stefani), Massimo Mirani, Ida Costanzo, Remo Varisco, Gianni Cajafa, Nino Carillo, Francesco Scelsi, Anna Canzi, Francesco Ferri, Sergio Masiero, Toni Raccosta, Francesco Morali, Salvatore Puccinelli; Durata: 103’.

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Maurizio Merli, Matilde C. Tisano e Stelvio Massi

Film di azione con sfumature psicologiche e atmosfera da sceneggiata napoletana. Il commissario Paolo Ferro torna a Milano dopo una missione in Germania per indagare su una serie di misteriosi delitti che si ritiene opera della mafia. Ma lui non è convinto che i mandanti appartengano a Cosa Nostra e, insieme al fedele aiutate Arrivo, si muove negli ambienti della malavita per scoprire i veri responsabili degli efferati omicidi. Irrompe in una sala durante un summit segreto tra siciliani e marsigliesi e scopre che i francesi per far fuori i loro antagonisti hanno nascosto le pistole nel distributore di Coca-cola: un vecchio trucco americano. Lo sbirro, questa volta non ha lasciato che le due fazioni si eliminassero a vicenda ma ha salvato i siciliani perché «sono italiani come me; e poi mi servono». Qui prende corpo il suo piano. Ferro si incontra con don Alfonso, capo mafioso che gli porta rispet143

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to e amicizia, il quale conferma i sospetti: gli assassini sono pilotati dalla camorra che agisce attraverso un insospettabile gestore di ristoranti, il napoletano Raffaele Acampora. O “malommo” organizza anche un fiorente traffico di droga e per le esecuzioni di chi gli fa lo sgarbo ha reclutato un manipolo di giovani della Milano-bene che sparano senza pietà indossando una maschera di gomma sul viso (come la banda del mitico Rapina a mano armata di Stanley Kubrick). Ma il biondo commissario non riesce a trovare le prove per incastrare Acampora e allora si allea con don Alfonso che ha interesse a eliminare la concorrenza «perché si sta allargando troppo». È il boss, quindi, a far entrare in azione i suoi picciotti per proteggere il poliziotto e “giustiziare” il camorrista. «La tua legge è fatta di prove, giudici e testimoni, la nostra no, per noi chi sbaglia paga» chiarisce il vecchio mafioso al suo amico sbirro. Da qui il titolo del film che, anche in questo caso, richiama i “spaghetti western”. Merli interpreta il solito poliziotto solitario dal grilletto facile (becca a pistolettate due rapinatori pure a Bergamo Alta, davanti alla cappella del Colleoni), ma ripensa al suo passato e non disdegna di mettersi d’accordo con un criminale pur di compiere la sua missione. È, in un certo senso, il riconoscimento di una sconfitta. Il plot di questo film “politically uncorrect”, complicato e non sempre convincente, sembra aver scardinato con intelligenza la struttura tradizionale del genere poliziottesco pur riaffermandone il punto di forza: lo Stato ha le mani legate, la Giustizia è incapace di assolvere al suo compito e gli sbirri da soli sono destinati a perdere. Pellicola girata ancora una volta con grande maestria da Massi che ha cercato di mettere una pezza a una sceneggiatura lacunosa e non sempre agile 144

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dovendo far fronte pure alle bizze dei due protagonisti. Merola, che fuori dal set girava sempre con due guardaspalle armati, in quel periodo aveva male ai piedi e pretendeva di non essere ripreso dalle ginocchia in giù perché costretto a portare le pantofole. L’attore romano invece, al suo quindicesimo film da poliziotto ribelle, era visibilmente stanco, rimorchiava troppe gonnelle e davanti alla cinepresa non ha reso al massimo delle sue possibilità. Va detto poi che qui si è doppiato da solo perdendo la consueta grinta conferitagli dalla voce dura ma suadente del grande Pino Locchi (il doppiatore italiano, per intenderci, di Sean Connery e Tony Curtis…). Incolore, purtroppo, anche la prova di Francisco Rabal, solo un fantasma del grande interprete dei film di Bunuel: il suo ingaggio fu consigliato a Massi dall’amico produttore e regista Silvio Siano. Brava, ma senza strafare, Carmen Scarpitta. Colpisce, invece, per asciuttezza e determinazione, un giovanissimo Massimo Dapporto nei panni del nipote del commissario, studente assoldato dal crimine per uccidere e smerciare droga. Particina per un irriconoscibile e sbarbatello Francesco Salvi, non ancora un comico (ricordate la canzone C’è da spostare una macchina!?) ma, qui, sfortunato questurino all’inseguimento di Massimo Mirani, l’assassino del professor Guidi, dagli occhi spiritati e la mano armata e tremante. La scena finale, girata in un opificio diroccato vicino al ponte Coperto di Pavia, è una delle più coinvolgenti e piene di suspense mai viste nei tanti “poliziotteschi”: la macchina da presa nelle sapienti mani di Massi si muove con la giusta velocità e precisione da una parte all’altra del freddo capannone per riprendere il duello stile western tra Merli e Dapporto con inquadrature dal basso di grande effetto emo145

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tivo. Uso ricorrente dello zoom. Stelvio Cipriani ha composto per l’occasione una colonna sonora malinconica, dove predominano pianoforte e sax. Il film incassò 329 milioni di lire. Non pochissimo, ma comunque un ulteriore prova che il “filone” ormai era quasi esaurito e in stato di agonia.

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MASSIMO MIRANI: “FUI SCAMBIATO PER UN VERO CRIMINALE”

Mirani, oggi

Magro come un chiodo, capelli ricci, faccia tirata e sguardo allucinato, tiene sotto tiro con una pistola cinque persone in un ufficio di polizia, uccide un piedipiatti e rapisce il figlio del capo con il quale aveva un conto da chiudere. Ma il commissario di ferro lo bracca, lo acciuffa e lo uccide senza pietà. Tutta la trama del film ruota attorno al suo personaggio dal nome abbastanza comune, Sergio Conforti. L’attore che lo ha interpetato si chiama Massimo Mirani, oggi ha 67 anni essendo nato a Milano il 7 settembre del 147

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1943. Mirani, una lunga esperienza sui palcoscenici italiani (ma ha recitato anche in teatri tedeschi e francesi), ricorda volentieri episodi curiosi legati alle riprese del Commissario di ferro, che lo ha reso famoso al pubblico del grande schermo e di un altro film girato sotto la direzione di Stelvio Massi: Sbirro la tua legge è lenta, la mia no! L’attore milanese (che vive a Roma da tanti anni) fu scelto dal regista marchigiano anche per una piccola parte di Mark colpisce ancora. Il suo debutto al cinema risale al 1974, con un ruolo nel film La circostanza, di Ermanno Olmi.

Mirani, lei non aveva molta esperienza nel cinema avendo fatto sin da allora soltanto teatro. Come fu scelto per la parte di Sergio Conforti? Stelvio era un esteta. Ricordo lo strano provino fatto con lui... Si mise ad esaminare meticolosamente la mia faccia, la fronte, il naso, la distanza degli occhi, l’angolazione della mascella, il tre quarti, il prospetto.. eccetera. Io ero piuttosto imbarazzato, ma poi capì che c’era un certo distacco ma anche un’amore in quello che faceva e allora mi sono rilassato. Va detto 148

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che dai provini che si facevano allora ne uscivi distrutto a forza di rotolarti per terra e gridare come una bestia... A parte l’atteggiamento da folle spiritato previsto dal copione, nel film Il commissario di ferro lei aveva una bella testa piena di riccioli. Come “er Monnezza” e come … il direttore del montaggio, Mauro Bonanni. C’era una ragione particolare? Su questo set chi aveva più da fare era proprio la parrucchiera Katia Luksza. I capelli erano importantissimi… Merli ne era ossessionato, usava quantità industriali di lacca. Quanto a me, dovevo subire strani trattamenti per avere una testa spropositata di riccioli. Perché gli emarginati dovevano avere i riccioli… Come ce li ha descritti Pier Paolo Pasolini nelle sue opere. Cosa ricorda ancora del backstage? Giravamo di notte in uno svincolo ferroviario vicino Roma e nonostante fosse piena estate faceva freddo. C’era un’unica roulotte per Ettore Manni, l’ispettore Ingravallo, e per me. Ma io, che ancora non conoscevo le complicate regole del set, gironzolavo infreddolito mentre Manni era nella “nostra” roulotte che riposava. E siccome aveva fama di essere un tipo un po’ “orso”, a me non sembrava giusto disturbarlo. Allora Stelvio col suo mezzo toscano in bocca e il suo fare “ruvido” mi disse che se non prendevo possesso della roulotte in fretta Ettore l’avrebbe senz’altro considerato uno “sgarbo”. Così entrai.. Ma trovai davanti a me un uomo fragile, con problemi di alcol e di donne, una persona piena di conflitti. Parlammo tutta la notte della vita, di questo nostro maledetto lavoro, di politica… Imparai un sacco di cose da lui. Pochi mesi dopo Ettore, che stava facendo un ruolo da pro149

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tagonista con Fellini (era Katzone in La città delle donne, ndr), pulendo una Smith & Wesson 365 Magnum si è sparato all’inguine. È stato davvero un incidente? Io non ci ho mai creduto. Mirani, com’era Maurizio Merli sulla scena e fuori? Non era un tipo facile. Tampinava tutte le ragazze. E poi me le diede di santa ragione…Nel senso che il pestaggio finale in cui il commissario Mariani massacra Sergio Conforti è vero! Mi picchiava sul serio per rendere la scena più realistica! E invece cosa può dirci sull’altro film di Stelvio Massi che lei ha interpretato con un ruolo importante, Sbirro la tua legge è lenta, la mia no? Su questo set percepivo una grande tensione esistente tra Merli e Merola, e in effetti c’era… Nonostante ciò Stelvio quando girava si divertiva come un matto. Diventava come “un bambino”, come tutti gli artisti degni di questo nome, aveva un’ingenuità di fondo. Io in certe scene giravo con una maschera (non ricordo che tipo di maschera fosse) e Stelvio rideva. Perchè ridi? Gli dissi. “Perchè ti conosco e vederti così, mi fa proprio ridere…” rispose. Durante la lavorazione del film commisi un errore... La mia parte doveva essere più lunga, ma avevo preso l’impegno di fare un altro lungometraggio, Uomini e no di Valentino Orsini, tratto dal romanzo di Elio Vittorini, un’opera che sarebbe poi stata premiata al Festival di Venezia. Così, ridussi l’interpretazione nello Sbirro… È stata una mia scelta, di allora, tra cinema cosiddetto “basso” e cinema “alto”. Adesso e con tutto il rispetto per Valentino Orsini (il suo film è molto bello) di Uomini e no non se ne ricorda più nessuno, mentre il “poliziottesco” è diventato di culto in tutto il mondo… Chi 150

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se lo poteva immaginare? È vero che lei si prese un grande spavento mentre si girava il film perché durante un inseguimento venne bloccato da poliziotti veri che la volevano arrestare credendola un delinquente in fuga? Sì, me lo ricordo come se fosse ieri. Successe a Milano, nei pressi dei giardini dell’Arena. Io scappavo in auto inseguito da una volante della Polizia mentre Stelvio ci riprendeva a bordo di un’altra macchina. Dovevamo simulare una sparatoria e i colpi di pistola si sentivano anche nelle case vicine. Qualche abitante che si era affacciato dalla finestra vide la scena e non capì che si trattava di un film perciò, preoccupatosi, avvisò la polizia. Ma la produzione aveva avvisato solo i carabinieri e così, in un batter d’occhio, arrivarono sul posto 13 gazzelle vere della Squadra Mobile. I poliziotti spararono alcuni colpi di avvertimento in aria e io scesi. Fui bloccato da un agente al quale cercavo di spiegare, invano, che stavamo girando un film: “Stai zitto” mi disse puntandomi un’arma contro. Sudavo freddo. Ma poi fui riconosciuto: “Ma lei, per caso, non è quell’attore…?”. “Sì, sono Massimo Mirani”, risposi. E tutto venne chiarito. Un attimo dopo arrivarono Stelvio e quelli della produzione per far vedere i permessi. Ma me la sono vista davvero brutta.

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MORTE ANNUNCIATA DEL POLIZIESCO ALL’ITALIANA

L’ultimo film interpretato da Merli per la regia di Stelvio Massi si intitola Poliziotto solitudine e rabbia. Siamo al crepuscolo del genere, e forse anche oltre. Si sconfina nel noir. Tant’è che qui lo sbirro, che ha appeso la pistola al chiodo, non ha più nemmeno un cognome ma solo un nome, Nicola, e si è ritirato a vivere in campagna. Il suo ritorno in servizio è dovuto soltanto a un collega e amico che gli chiede un favore. Ma forse la molla che fa scattare ancora il… grilletto, è proprio la rabbia che cova dentro al poliziotto vecchio, stanco e deluso. Ecco riaffiorare, nelle parole dell’agente dell’Interpol Francisco Rabal, il tema di sempre ormai giunto all’esasperazione: «Siamo diventati come dei birilli da tiro a segno e se non colpiscono noi colpiscono i nostri cari. La nostra è impotenza. Ci ammazzano, ci distruggono poi ci dicono state calmi, questa è la giustizia! Calmi un paio di palle! Quando becchiamo qualcuno poi lo mettono libero per spararci ancora». Nel film, oltre all’azione, si legge un interesse di Massi verso gli aspetti intimistici del protagonista che descrive sia nel rapporto con Vivien, la donna che Nick manda inconsapevolemente alla morte, sia nel finale, “poetico”: lo sbirro spara per l’ultima volta e lo fa a tradimento, la macchina da presa lo riprende di spalle arretrando, mentre lui si allontana... Bene ha sottolineato Francesco Ruggeri nel saggio “Stelvio Massi: cinema, solitudine e rabbia” nel sito www.sentieriselvaggi.it: “La vita da difendere e filmare è quella che perdura in sguardi impensabili, in promesse d’a152

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more, in sacrifici di morte, all’interno di un set domestico in cui si consuma lentamente la morte del genere”. Altrettanto azzeccata, la critica del film che fa Piero Zanotto in “L’immagine e il mito di Venezia nel cinema (1983): “Asciutto e freddo intreccio poliziesco d’azione con spruzzata di psicologismo”.

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POLIZIOTTO SOLITUDINE E RABBIA (1980)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: Salvatore Smeriglio per Simba Film Ancona, C.C.C. Filmkunst Monaco; Segretario di produzione: Aldo Santalucia; Soggetto: Massimo De Rita, Huber Boschi; Sceneggiatura: Massimo De Rita, Huber Boschi, Art Bernd; Direttore fotografia: Pierluigi Santi; Montaggio: Mauro Bonanni; Musiche: Stelvio Cipriani; Cast: Maurizio Merli (Nicola), Jutta Speidel (Vivien), Francisco Rabal (Tony, l’agente dell’Interpol), Artur Brauss (Klaus White), Bobby Rhodes (Mike “Jamaica”), Reinhard Kolldehoff (Herman Stoll), Benito Pacifico (Lucien), Ottaviano Dell’Acqua; Durata: 102’. Poliziesco a forti tinte noir. Un collega dell’ex sbirro Nicola fa 300 km per andarlo a trovare nella sua 154

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casa di campagna e chiedergli di aiutarlo arruolandosi in un corpo speciale dell’Interpol che si occupa di proteggere importanti uomini d’affari. Il poliziotto dagli occhi azzurri si lascia convincere e torna al lavoro, ma l’industriale tedesco che deve difendere da una banda criminale viene ammazzato lo stesso. Il delitto si consuma in modo rocambolesco sulla laguna di Venezia durante un soggiorno del magnate. Così Nick, dopo aver acciuffato il driver del motoscafo dal quale hanno sparato gli assassini, si sostituisce a lui e va a Berlino per infiltrarsi nell’anonima omicidi e svolgere, tutto da solo, un pericoloso doppio gioco volto a debellare l’organizzazione internazionale che ricatta facoltosi imprenditori. Le estorsioni fruttano al racket 100 milioni di dollari l’anno. E se il riccone non paga, viene ucciso senza pietà. Lo sbirro, mentre cerca il modo di eliminare il clan, si innamora però della bella prostituta Vivine che aveva avuto dai capi il compito di controllarne le mosse. L’affetto è ricambiato. Ma i banditi scoprono la tresca e la bionda fa una brutta fine. La rabbia del poliziotto, allora, esplode. È venuto il momento di agire: tra le brume della darsena di Berlino, Nick, usando astuzia, agilità e la solita pistola, accoppa i delinquenti uno per uno. Tutti, tranne il capo, che verrà colpito però inesorabilmente – ma alla schiena - con l’ultima pallottola rimasta in canna, sulla scaletta dell’aereo che avrebbe dovuto portarlo in salvo. Finale amaro: la macchina da presa indietreggia rapidamente mentre riprende di spalle Merli che, mesto, si allontana. Questa ripresa è diventata un simbolo: sancisce la fine del genere “poliziottesco”. Si tratta infatti dell’ultimo film girato da Maurizio Merli che pure ha dato prova, qui, ancora una volta, delle sue doti di attore di film d’azione: sfonda una vetrata 155

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per catapultarsi sulla banchina e sparare all’assassino che fugge sul motoscafo al largo di Murano, salta, rimbalza, rotola e preme il grilletto con la consueta impressionante velocità. E senza controfigura. Ma nell’ambientazione del film si percepisce un’atmosfera decadente: vedi la sequenza girata allo stadio di Berlino ricoperto di neve e chiuso da un cielo color cemento. Sempre appassionanti gli inseguimenti, come nello stile “americano” di Massi: tra motoscafi sulla Laguna, o nelle corse pazze tra Mercedes, Maggiolini e Bmw sui fondi ghiacciati dei viali berlinesi. Stavolta non ci sono Giuliette, ma solo macchine tedesche. Un’epoca è proprio finita.

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RICOMINCIARE A… TUTTA VELOCITÀ

Tre anni dopo il successo di Poliziotto sprint, in cui il tema della velocità viene spettacolarizzato in un contesto da “polar italien”, Stelvio Massi ci riprova con altri due road-movie, entrambi interpretati da Fabio Testi, un asso davanti alla cinepresa nei film d’azione, e un asso alla guida di motori, di cui è un grande appassionato (possiede anche il brevetto di pilota aereo). Con Speed cross l’obiettivo del produttore Giovanni Di Clemente è raggiungere i “tifosi” della velocità e il vasto pubblico femminile: il volto giusto è quello di Fabio Testi, amatissimo dalla donne e famoso per essere stato il fidanzato delle dive Ursula Andress e Charlotte Rampling. L’attore si era anche guadagnato una certa popolarità grazie ai poliziotteschi girati con Tonino Valerii, Sergio Sollima ed Enzo G. Castellari (al quale fu proposto all’inizio di dirigere Speed cross, ma rinunciò per un altro progetto da realizzare in Messico). Insomma, Fabio Testi, pronto ormai anche per Hollywood, poteva essere l’emulo italiano di Steve Mc Queen, non soltanto per il “phisique du role” ma anche per il suo carattere dinamico e le competenze sportive. Il mondo della velocità su due e quattro ruote non era mai stato affrontato cinematograficamente in Italia e questa poteva essere l’occasione giusta per agganciare milioni di appassionati portandoli dalle piste al grande schermo. Ma ci voleva un copione in grado di non annoiare, non bastava parlare solo di motori e di corse: si pensò allora a un thriller con venature sentimentali ambientato nel mondo delle moto da cross. Steno, De Caro e Patou si misero al 157

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lavoro e ne scaturì un racconto drammatico e vibrante, con i buoni da una parte (Testi e Vittorio Mezzogiorno), amici-rivali che si contendono le grazie di una ragazza (Daniela Poggi) e i cattivi dall’altra (il racket delle scommesse) destinati come sempre a una sonante sconfitta. Nelle sale italiane fu un discreto successo al quale seguì… a ruota, un altro film dello stesso genere: Speed driver, sempre diretto da Massi e interpretato da Testi, ma stavolta più impegnativo dal punto di vista delle riprese e dell’ambientazione che avrebbe riguardato le macchine da corsa e la Formula Uno. “Il mio film si propone una forte spettacolarità, vuole alzare il sipario sugli aspetti umani che possono esserci in uno dei grandi protagonisti di queste gare, mettendone in evidenza l’aspetto privato e i suoi sentimenti” dichiarò il regista in un’intervista pubblicata dal Secolo XIX (28/09/1979). Il lungometraggio, girato nei circuiti di Vallelunga, del Jarama a Madrid e del Nurburgring in Germania durante gare ufficiali, si rivelò, in effetti, uno spaccato di vita dei box e uno sguardo “dietro le quinte” delle corse automobilistiche popolate da piloti, tecnici, tifosi, belle donne, sponsor, giornalisti e interessi di vario genere. In un periodo in cui la televisione non era così invadente come oggi, puntare su una curiosità come questa poteva essere una scelta vincente. Il soggetto del film venne in mente al produttore Salvatore Smeriglio, esperto corridore e profondo conoscitore del mondo dell’automobilismo, il quale si prestò a fare anche da controfigura a Testi in alcune scene, a bordo di una Osella biposto motore Bmw con la scritta “Ciao cialtroni!” sul cofano, un simpatico sfottò rivolto ai piloti che venivano sorpassati. L’idea di fare un film sui motori era da tempo un 158

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chiodo fisso di Smeriglio ma si concretizzò solo durante una cena sul lago di Garda con Massi e l’industriale bresciano Angelo Ricchini. «Io e l’amico Stelvio ci infervorammo subito intorno a questo progetto, prendemmo un appuntamento con lo sceneggiatore Massimo De Rita che dopo qualche giorno ci presentò il soggetto: così nacque il film, che volevamo intitolare Grip (in gergo automobilistico significa “tenuta di strada”, ndr) ma che in seguito, non per nostra decisione, diventò Speed driver, una specie di sequel della pellicola appena ultimata da Massi per Di Clemente» racconta il produttore anconetano che prosegue: «All’inizio pensammo a Luc Merenda come protagonista ma il Distributore insistette per chiamare sul set Fabio Testi e noi fummo subito d’accordo, visto che aveva già fatto con Stelvio il precedente Speed cross». Si trattava di un progetto su scala internazionale e per finanziare il film si costituì una cordata insieme a tedeschi e spagnoli. Accanto a Testi, furono chiamati a recitare come co-protagonisti Orazio Orlando, Senta Berger e Francisco Rabal. Venne ingaggiato anche un consulente tecnico, il campione italiano di Formula Due Arturo Merzario con il quale Smeriglio e Massi si incontrarono spesso, soprattutto all’autodromo di Monza, per mettere a punto alcuni particolari prima di cominciare le riprese. Il pilota lombardo insegnò a Testi con lezioni intensive per una ventina di giorni come si guida una cilindrata 3.500. Per preparare bene il suo personaggio l’attore veneto, da vero perfezionista, riempì di appunti più di un block notes osservando in azione i veri corridori di automobilismo: “L’immagine mi viene fuori da tanti piccoli particolari – spiegò l’attore in un’intervista a Franca Borasio di Eva Express poco prima di girare 159

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Speed driver – che mi aiutano a capire come si muove un pilota, come cammina, quali gesti abituali può avere….”. Ma nonostante Testi avesse l’abilitazione alla guida di auto veloci, durante le riprese nel circuito tedesco del Nurburgring ebbe un incidente, per fortuna non grave: si stava svolgendo una gara ufficiale e lui partì per ultimo dopo il giro di perlustrazione della pista andando a sbattere contro la rete di recinzione. “Quei bolidi lì, se non impari a dominarli non partono nemmeno – fu il commento di Testi – tanto che se in partenza acceleri troppo, la macchina ti rimane ferma perché le ruote corrono per conto loro e non ti mandano avanti, inoltre devi avere il cambio sempre in mano, con una tensione estrema” (intervista a Eva Express, marzo 1981). La realizzazione del film fu molto impegnativa per tutti: a Madrid si ammalò all’improvviso un cineoperatore e Massi stesso dovette sostituirlo facendo di continuo avanti e indietro dalla postazione della macchina da presa a quella della regia. «Lavorammo tutti come forsennati - ricorda ancora Smeriglio – e alla fine ne uscimmo stremati». La composizione della colonna sonora fu affidata a Stelvio Cipriani che stavolta si mise al lavoro prima che il film fosse girato: «Ci incontrammo con Massi e Smeriglio in ufficio, parlammo un po’ e quindi mi consegnarono la sceneggiatura: me la lessi e cominciai subito a tirar fuori un tema adatto al film. Per comporre la musica mi ispirai a questa emozione: anche le macchine da corsa hanno un’anima…». Lusinghieri i risultati da parte di pubblico e critica. Ecco un esempio di come fu accolto Speed driver da un autorevole rivista del settore: “È sostanzialmente un film avventuroso sul mondo delle corse. Con felici 160

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accorgimenti, gli sceneggiatori e la regia sono riusciti a vivacizzare la frusta materia con l’inizio (...) e con il successivo accostamento della vicenda sportiva a quella criminale. Ne è risultato un prodotto abbastanza variato e ottimamente appoggiato sulle figure principali” (Segnalazioni Cinematografiche, vol. 91, 1981).

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FABIO TESTI: UN MITO DEL CINEMA ITALIANO ANNI

‘70

Testi – Smeriglio - Massi

Mentre seguiva le lezioni all’Accademia d’Arte Drammatica, a Roma, il giovanissimo Fabio Testi (nato a Peschiera del Garda, Verona, il 2/08/1941), fisico atletico e sguardo da bel tenebroso, comincia a frequentare gli studi di Cinecittà (dopo aver girato insieme a Laura Antonelli alcuni spot per la Coca-Cola) proponendosi come controfigura, acrobata e figurante soprattutto nei film d’azione. Sergio Leone lo nota e gli affida un ruolo da stuntmen nel western spaghetti Il buono, il brutto, il cattivo. Il regista romano intuisce, però, le sue potenzialità di attore e lo chiama per una parte nel successivo C’era una volta il West. «Dovevo interpretare un pistolero elegante e “bello” della banda di Henry Fonda» racconta Testi «mi han162

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no fatto i provini ma in proiezione si sono resi conto che sembravo il protagonista di un altro film, che non c’entrava niente con tutti gli altri personaggi». “Sullo schermo sfondi troppo” fu il giudizio di Leone. E quindi nel film fece una parte di secondo piano. Il suo esordio come protagonista avviene nel 1969 con un altro western, Ed ora raccomanda l’anima a Dio, di Demofilo Fidani. La prima occasione importante, però, quella che lo farà conoscere a tutte le platee del mondo, arrivò per lui l’anno seguente, quando Vittorio De Sica lo scelse per ricoprire la parte del giovane Giampiero Malnate ne Il giardino dei Finzi Contini, che otterrà l’Oscar come miglior film straniero. Nel 1971, ecco un’altra parte da protagonista nel film di Giuseppe Patroni Griffi, Addio fratello crudele, dove recita con Charlotte Rampling che di lì a breve diventerà la sua compagna (l’altra donna fatale che ha segnato la sua vita è stata la Bond girl Ursula Andress). Pasquale Squitieri lo vuole in seguito come interprete principale in Camorra e I guappi, a fianco di Claudia Cardinale e Franco Nero. Dalla metà degli anni ’70 arrivano per Fabio Testi anche i successi all’estero: vince il Premio Cesar 1974 per L’importante è amare, del regista polacco Andrzej Zulawski, viene diretto dal grande Claude Chabrol in Bolero (1981) e Amore, piombo e furore (1978). Nel 1975 Testi ha una parte importante nel “robusto” film di Tonino Valerii Vai gorilla (è la guardia del corpo di un industriale che teme di essere rapito). Un’altra interpretazione degna di nota dell’attore veneto in questo periodo è L’eredità Ferramonti di Mauro Bolognini (1975). Lavora quindi con due mostri sacri del cinema, Susan Sarandon e Anthony Hopkins nel film di Alberto Negrin, Io e il duce. Poi, so163

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prattutto dopo la forte esperienza del “gorilla” di Valerii, Testi si “specializza” nei film poliziotteschi, che interpreta con il consuento spirito baldanzoso e spesso senza farsi sostituire dagli stuntmen: dal movimentato e palpitante Revolver (1973) di Sergio Sollima (è un detenuto braccato dai servizi segreti), a Il grande racket (del ’76, dove è un commissario che lotta contro i taglieggiatori dei commercianti) e La via della droga (del ’77, nel quale è uno sbirro che cerca di sgominare una banda di spacciatori) entrambi di Enzo G. Castellari, fino al cruento Luca il contrabbandiere di Lucio Fulci (del 1980, in cui è un motoscafista d’altri tempi, alle prese con lo spaccio delle “bionde”): un successo dietro l’altro. Fondamentale, nella sua carriera, anche l’esperienza sotto la direzione di Stelvio Massi in Speed cross e Speed driver nei quali l’avventura e i motori si coniugano con la commedia romantica. Fabio Testi è diventato così un mito del cinema italiano degli anni Settanta. Attualmente vive tra Roma e una tenuta a Torri di Benaco, sul lago di Garda, dove coltiva kiwi. Signor Testi, lei ha girato con Stelvio Massi due film che hanno riscosso notevole successo di pubblico e dei quali è stato il protagonista: Speed Cross, ambientato nel mondo delle moto, e Speed Driver, che ha come sfondo le gare di automobilismo e della Formula Uno. Che ricordo ha del regista? Stelvio era un supersimpatico, ti conquistava sempre. Sembrava essere nato con la macchina da presa in mano. Sapeva tenere bene il set, cosa fondamentale per un regista. E aveva anche una grande tecnica, spesso geniale. Senta questa: sul set di Speed Cross 164

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non avevamo il dolly (un carrello sul quale si monta una macchina da presa per le riprese dall’alto, ndr) e lui se lo inventò: si fece legare a una scala con la camera in mano, ordinò a un tecnico di alzarla in posizione verticale e di spostarsi seguendo l’azione che noi stavamo svolgendo. Questo stratagemma funzionò alla perfezione per una carrellata! E poi, sempre nello stesso film, ricordo un’altra scena: io, che interpretavo la parte del protagonista Paolo Corti, dovevo aprire una scatoletta di cibo da mangiare: Massi utilizzò la latta sollevata come un piccolo specchio che rifletteva l’immagine del mio antagonista che mi stava per assalire. Una trovata geniale! E di Speed driver quale episodio particolare ricorda? Giravamo la ripresa cruciale del film nel circuito di Jarama, vicino Madrid, quando Emilio de Villotta, il pilota che mi faceva da controfigura, all’improvviso uscì di strada alla prima curva stravolgendo i piani previsti. Allora Stelvio fece dipingere l’auto su un blocco di polistirolo e concluse le riprese previste senza che, a montaggio concluso, nessuno si accorgesse dall’immagine, passata sullo schermo molto velocemente, della sostituzione forzata della vettura. Che genio! Ma come nacque l’idea di fare questo film sul mondo delle corse di automobili che all’inizio doveva intitolarsi Grip? Il produttore Salvatore Smeriglio ha la passione per le corse, proprio come me. Ci incontrammo un giorno per caso all’autodromo di Vallelunga e mi propose di fare un film sul mondo della Formula Uno. La cosa mi divertiva da morire e accettai subito. Smeriglio mi ha raccontato che qualche giorno 165

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dopo, durante una gita in motoscafo sul lago di Garda insieme a Massi, vennero a trovarla a Torri di Benaco, dove lei abita, per sottoporle il copione. È così? Già. L’avventura di Speed driver per me cominciò così. Prima c’era stato il successo di Speed cross, sempre per la regia di Stelvio, dove la protagonista era invece la moto… Lei interpretava anche qui la parte di un pilota, Rudy Ruffo, e recitava a fianco del grande Vittorio Mezzogiorno. Sì, il film ebbe molto successo perché era azione pura, molto emozionante, con vicende senza respiro. Si trattava di una storia vera raccontata bene, con un buon copione. Il successo fu determinato anche dalla moda in voga allora per il motocross. Recitare con Vittorio era una meraviglia! Era un attore così meticoloso, che si preoccupava anche dei minimi particolari, un professionista quasi esasperato dal suo lavoro. Ma anche, per me, un grande amico, con il quale mi sono trovato molto bene. Parlo spesso di lui con la figlia Vittoria… Ma Stelvio Massi, che rapporto aveva con voi attori? Sapeva trattare molto bene con noi attori, ci sapeva coinvolgere, cercava di “rubare” la verità che c’era dentro di noi per metterla al servizio del film da realizzare. Si discuteva insieme sulle cose da fare. Lui ascoltava e tratteneva ciò che gli sembrava più utile. Ma non aveva nessuna presunzione intellettuale, come altri suoi colleghi. Ricordo che mentre giravamo una scena di Speed Driver mi inventai una scazzottata buttandomi a pesce sul mio antagonista: lui lasciò tutto così, aveva colto la spontaneità della situazione 166

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scenica. In quel periodo noi attori ci dedicavamo anima e corpo al film che facevamo. Esisteva solo quello. Lo facevamo con amore il nostro mestiere…

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SPEED CROSS (1979)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: Giovanni Di Clemente per ClementInternazionale Cinematografica; Sceneggiatura: Sergio Patou, Lucio De Caro, Steno; Direttori della fotografia: Pierluigi Santi, Giuseppe Bernardini; Montaggio: Mauro Bonanni; Musiche: Toto Torquati; Cast: Fabio Testi (Paolo Corti), Vittorio Mezzogiorno (Nicola), Daniela Poggi (Inge), Jacques Herlin, Marilda Donà, Franco Odoardi (ispettore Muller), José Luis de Villalonga, Lia Tanzi (Resy), Marco Bonetti, Guerrino Crivello (speaker della corsa), Sasha D’Arc, Massimo Ghini (un giornalista), Gianni Gori, Romano Puppo; Durata: 105’. Il contesto del “poliziottesco” stavolta è assai tenue ed inserito nel mondo del moto cross. Molto marcati anche i connotati della commedia sentimentale È ancora il re degli stuntmen, Remy Julienne, ad occuparsi delle acrobazie motoristiche e degli inseguimenti mozzafiato, stavolta sulle due ruote. Vittorio Mezzogiorno è un corridore scapestrato e parla con 168

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un singolare accento napoletano, Testi è un pilota della polizia infiltrato nel mondo delle corse e forse per questo appare più misurato ed accorto del collega-amico-rivale.

Massi - Testi

La gara si svolge in Germania ma la mafia italiana, che gestisce il racket delle scommesse, avrebbe già stabilito chi deve vincere. Un giornalista (un giovanissimo Massimo Ghini) annusa il “biscotto” e viene pestato in un bar dai delinquenti, con tanto di costrizione a bersi l’olio… Daniela Poggi è la pupa contesa dai due eroi della moto: farà una brutta fine. I protagoinisti cercano di far venire alla luce gli intrighi, in collaborazione con gli investigatori “ufficiali”, rappresentata dall’ottimo ispettore Franco Odoardi. Al termine di mille avventure l’organizzazione viene smascherata. È uno spettacolo totale, con ralenti, incidenti, sorpassi al cardiopalma. Massi si dimostra ancora un grande, in 169

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un genere che cerca di rigenerarsi: la macchina da presa nelle sue mani (o sulle sue spalle) sembra volare insieme alle moto. Purtroppo i tre sceneggiatori (nonostante la presenza di firme prestigiose del cinema italiano) sembra che abbiano corso altrettanto velocemente con i polpastrelli sulla macchina da scrivere. I dialoghi, infatti risultano piuttosto superficiali, scontati e prevedibili. Il film ebbe però un certo successo nelle sale. Per i patiti delle due ruote è diventato un cult. Sottotitolo: “C’era una volta la legge”.

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SPEED DRIVER (1980)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: Salvatore Smeriglio per Audax Film Ancona, CCC FilmCust Monaco di Baviera, Lotus Film Internacional Madrid: Soggetto: Massimo De Rita; Sceneggiatura: Arthur Bernd, Luis Delgado, Massimo De Rita; Direttore fotografia: Domingo Solano; Montaggio: Walter Diotallevi; Scenografia: Wolfgang Burman, Francesco Raffa; Segretario di produzione: Aldo Santalucia; Musiche: Stelvio Cipriani; Cast: Fabio Testi (Rudy Ruffo), Orazio Orlando (“Napoli”), Senta Berger (Suzan), Francisco Rabal (Lucky Esposito), Romano Puppo (Dave), Manuel Zarzo, Luis Rivera, Herbert Chwoicka, Ingolf Gorges, Be171

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nito Pacifico, Settimo Scacco, Natale Longo; Durata: 112’. Rudy Ruffo, affiancato dall’inseparabile amico “Napoli”, un meccanico sopraffino e sboccaciato, sfida la morte per scommessa in duelli motociclistici pericolosissimi. Per guadagnare i soldi necessari alle cure del fratello tossicodipendente Franco, l’intrepido Rudy corre persino lungo i cornicioni dei ponti. Finchè un giorno viene notato da un losco personaggio, tale Lucky Esposito che lo sprona a guidare una macchina da corsa all’autodromo di Vallelunga facendo leva sulla sua passione per la velocità. Il giovane pilota però è proprio bravo anche al volante della biposto e viene reclutato per il Gran Premio di Formula Uno che si corre in Germania. Entra a far parte del grande circo e sembrano tutti felici e contenti. Ma c’è un tranello: Lucky è uno spacciatore e utilizza l’inconsapevole Rudy come corriere della droga. Quando lui se ne accorge, succede il patatrac: gli scagnozzi del boss cercano di farlo fuori e pestano a sangue il suo amico Napoli mandandolo all’ospedale. Nel frattempo Rudy si innamora della giornalista americana Suzan che cerca di dargli una mano nella carriera di pilota e nello sbrogliare la delicata matassa in cui il giovanotto è rimasto impigliato suo malgrado. Alla fine, i cattivi avranno la peggio ma la conclusione è drammatica. È il seguito ideale di Speed cross. Le scene riprese da Massi nei circuiti automobilistici si intrecciano con immagini di repertorio tratte da vere gare. La teutonica Senta Berger riesce ad essere “tosta” e sensuale al tempo stesso. Impareggiabile l’interpretazione del napoletanissimo Orazio Orlando, tutto frizzi, lazzi e spontaneità, anche nelle scene più drammatiche. Non impressiona più di tanto, invece, lo spagnolo Franci172

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sco Rabal che sembra non essersi troppo sprecato nella parte dell’infido narcotrafficante. Testi si muove bene tra donne e motori, languidi baci e violente scazzottate. L’adrenalina scorre a fiumi e il regista offre l’ennesima prova della sua bravura nel saper tenere i ritmi della vicenda e nel dosare con maestria la suspense. Ne esce un ritratto esaltante e plausibile del “circo” di F1. Accanto agli attori “recitano” la parte di se stessi campioni del calibro di Scheckter, Villeneuve, Lauda, Regazzoni e Lella Lombardi, la seconda donna nella storia dell’automobilismo a guidare una monoposto di Formula Uno e l’unica a entrare nella “zona punti”. Anche Tore Smeriglio, titolare della casa cinematografica Simba, si è esibito al volante di una potente vettura da corsa prestandosi a fare la controfigura di Testi.

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LA “SCENEGGIATA” SUL GRANDE SCHERMO

Chiusa definitivamente l’esperienza dei poliziotteschi, Stelvio Massi tenta altre strade. Il mercato cinematografico all’inizio degli anni ’80 non offre però tante idee nuove e il regista, al quale resta appiccicata addosso l’etichetta di autore di film d’azione, deve ripiegare sui cosiddetti lacrima-movie, molti dei quali sono costituiti da rifacimenti su pellicola delle classiche sceneggiate napoletane. Il fatto che il regista civitanovese avesse maturato una larga esperienza nelle riprese dei “musicarelli” degli anni ’60, quando curava la fotografia dei film di Ettore Maria Fizzarotti, convinse Giovanni Di Clemente ad affidargli due progetti, entrambi da realizzare con il più grande protagonista del genere, il cantante e attore partenopeo Mario Merola (nato a Napoli il 6 aprile 1934 e morto a Castellammare di Stabia il 12 novembre 2006), che aveva già lavorato con lui in Sbirro la tua legge è lenta… la mia no! Si girarono quindi Torna e Guapparia, due titoli che riprendono altrettante celebri canzoni del repertorio meroliano, destinati quasi esclusivamente alle sale cinematografiche della Campania. Massi non ne fu entusiasta, nonostante la buona riuscita tecnica dei prodotti. “Comunque non è stata un’esperienza negativa – fu il suo commento – ho conosciuto un personaggio completamente al di fuori del mio mondo, che alla fine mi è rimasto pure simpatico, nonostante all’epoca fosse un po’ presuntuoso e discutesse spesso con la troupe” (intervista di Matteo Norcini su Amarcord, Gennaio-Febbraio 1977). 174

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GUAPPARIA (1983)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: Giovanni Di Clemente per Clemicinematografica; Soggetto: Gino Capone; Sceneggiatura: Gino Capone; Direttore fotografia: Stefano Catalano (Stelvio Massi); Montaggio: Mauro Bonanni; Musiche: Eduardo Alfieri; Cast: Mario Merola (Salvatore Di Donato), Ida Di Benedetto (Margherita), Marzio Honorato (Don Gennarino Esposito), Ria De Simone (donna Concetta), Pamela Paris, Ernesto Mahieux, Tilde De Spirito, Nino Vingelli, Roberto Caporali, Rosa Mirando, Tony Scarf, Gianni Scember; Durata: 90’. 175

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Lacrima-movie che sviluppa la storia della celebre canzone napoletana cantata da Merola, la serenata tragica che attacca così: “Scetateve uaglijune ‘e malavita….”. Salvatore Di Donato è il guappo più temuto e rispettato del rione Sanità, sostiene i deboli del suo quartiere, affrontando i prepotenti a suon di schiaffoni e coltellate. Riceve tutti i giorni a casa sua, a mezzogiorno in punto chi è sfrattato, chi cerca un posto in ospedale chi ha bisogno di aiuto. E da la precedenza alle questioni d’onore. Agli scugnizzi che gli ricordano quando era un faniciullo regala dieci mila lire. È innamorato, don Salvatore, e convive con la giunonica Assuntina, che canta e recita in un teatro di periferia. Durante un pellegrinaggio alla Madonna dell’Arco il guappo e la sua bella incontrano l’avvenente Margherita, una commerciante di oro amica d’infanzia della donna. Don Salvatore se ne innamora perdutamente e decide di lasciare Assunta per andare a convivere con lei. Ma la gioielliera è molto libera e indipendente e non accetta le imposizioni del suo amante, “geloso pure dell’aria”. I due litigano e lei lo caccia da casa. L’uomo d’onore è messo nel ridicolo e per riscattarsi cerca di riconquistare Margherita. Ma non ci riesce perché lei, intanto, ha ceduto ai corteggiamenti di un collega, don Gennarino, e se lo porta a casa. “È fernuta…”, commenta o’ guappo, annientato dal dolore. Si rifugia nel vino ma è sempre innamorato della malafemmena. Una sera scoppia la tragedia. Don Salvatore canta Guapparia sotto l’abitazione di Margherita ma dopo la serenata Gennarino scende e lo sfida all’arma bianca: “Io t’accido!”. I due rivali si affrontano e l’orafo muore ammazzato. La donna si affaccia dal balcone fiorito e lancia una rosa rossa. “È ppe ‘mme?” dice don Salvatore, illudendosi. “No, è pp’o muorto” pigola 176

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lei nella battuta che chiude il film. Lo stile brioso di Massi alla regia rende questo melodrammone godibile e non noioso, malgrado la retorica insita nella vicenda. La sceneggiata napulitana è sbarcata al cinema. Merola canta, “chiagne” e fotte. È un grande, nel suo genere! Chitarre e mandolini suonano mentre don Mario interpreta “Come t’ha fatto mammeta” e l’immancabile “Guapparia”; un organo lo accompagna in chiesa mentre canta l’Ave Maria di Schubert in lingua partenopea. Ida Di Benedetto, dagli occhi neri e pungenti, è bravissima a fare la “donna forte” senza togliere nulla alla sua sensualità, fatta di sguardi furtivi e intriganti. Marzio Honorato nella parte del gioielliere spavaldo mette in mostra le sue doti di attore eduardiano basate sulla mimica facciale e la gestualità. Il film venne distribuito, per ovvie ragioni, solo nell’Italia meridionale anche se di recente è uscita la versione in dvd su tutto il territorio nazionale (e, a quanto pare, l’iniziativa ha avuto successo).

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TORNA (1984)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: Clemi Cinematografica; Soggetto e Sceneggiatura: Gino Capone; Direttore della fotografia: Stefano Catalano; Montaggio: Mauro Bonanni; Musiche: Edoardo Alfieri; Cast: Mario Merola (Salvatore), Agostina Belli (Angela), Paola Paris, Ernesto Mahieux, Tilde De Spirito, Nino Vigelli, Vincenza Serrapiglia (la piccola Teresa), Ria De Simone, Ivan Rassimov; Durata: 90’. 178

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Agostina Belli

Lacrima-movie riveduto e corretto. Tutto comincia con un funerale. La moglie di Salvatore, un meccanico che vive in un paesino vicino Caserta dove gestisce una pompa di benzina, è morta per un male incurabile lasciando il consorte senza figli. Il vedovo “chiagne” in silenzio: “Tu si state tutto ppe ‘mme: mamma, mugliera e fija”. Una notte arriva alla stazione di servizio una ricca coppia milanese diretta a Napoli: hanno l’auto in panne e buttano giù dal letto il buon Salvatore. Ma bisogna sostituire un pezzo del motore e l’intervento è possibile solo la mattina seguente. Nella zona non ci sono alberghi e il titolare dell’officina offre a Carlo e Angela ospitalità a casa sua. La situazione tra i due però è molto agitata: litigano, e l’uomo il giorno dopo riparte piantando Angela che dorme placida nel lettone. Salvatore si intenerisce nel vedere la bella signora sedotta e abbandonata, e le chiede se vuole restare ancora. Ma la donna deve correre dalla 179

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figlioletta Teresa, in collegio dalle suore. Non ce la fa però a rinunciare alle agiatezze e alla polvere bianca che gli fornisce Carlo. I due si riappacificano. Passano i giorni e Angela, che non sopporta più le angherie del partner e vuole uscire dal vortice della droga, si decide e torna dal meccanico. Sviene tra le sue braccia, rimane e si porta pure la figlia. I tre formano una bella famigliola. Salvatore è un padre e un marito esemplare. Con Angela realizza il sogno della sua ex moglie: aprire una trattoria. Tutti vivono felici e contenti. Fino a quando un giorno, per caso, Carlo si ferma a mangiare nel ristorante con la sua nuova fiamma e incontra Angela che, smessa la pelliccia e indossato il grembiule, si è ridotta a fare l’ostessa. Le lascia sul tavolo una bustina di coca e lei ricade nel vizio. Il giorno dopo, di nascosto, Angela se ne va lasciando la bimba a Salvatore (non sarà un caso che si chiama così….). Il tenero omone è nuovamente disperato e, da solo, in cucina, canta il suo amore napulitano: Torna, sta casa aspietta a te! E lei, in effetti, torna. I due si ritrovano e suonano le campane. Massi si è cimentato nel genere “sceneggiata napoletana” con mestiere e acume sgrossandolo di certe melensaggini. Nonostante Merola, che ha imposto il suo personaggio. Ma per fortuna qui il bravo “Marione”, tenuto a freno, canta una sola volta. La storia scorre bene senza troppi sussulti retorici e con un certo realismo. Tutto sommato, visti anche i rapidi tempi di realizzazione, è un buon film, con finale convenzionale ma efficace. La critica lo ha ignorato e solo in Campania ha fatto riempire (quasi sempre) le sale.

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I DOCU-FILM DA BRIVIDO

Un filone senz’altro congeniale al modo di fare cinema caro a Stelvio Massi, basato sull’azione e la presa diretta, è quello del cosiddetto “mondo-movie”, scaturito da un film documentario realizzato nel 1962 per la Cineriz da Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti e Franco E. Prosperi: Mondo cane. Il lungometraggio fu presentato al Festival di Cannes e riscosse un grande successo a livello internazionale. La colonna sonora, la celeberrima More (Ti guarderò nel cuore), di Ritz Ortolani e Nino Oliviero, ottenne una nomination all’Oscar. Si tratta di immagini raccapriccianti e spesso cruente girate dal vivo che raccontano i più strani usi e costumi dei popoli sparsi nel pianeta. Dopo Mondo cane 2, degli stessi tre autori italiani, uscito nelle sale nel 1963, ecco, a distanza di 23 anni, una versione più moderna e aggiornata di questo genere che affronta temi scabrosi e piccanti senza censurare nulla. A realizzarla è proprio Stelvio Massi, che dopo una permanenza di sei mesi in Sud America dove raccolse parecchio materiale filmato, montò Droga sterco di Dio (film poco distribuito nelle sale italiane e conosciuto anche con i titoli Crack l’insidia del Duemila e Mondo Ossesso). Subito dopo, con una parte delle immagini già acquisite e con altre girate in Asia e Africa, diede forma a Mondo cane oggi, l’orrore continua. Questo docu-film, anch’esso inevitabilmente vietato ai minori di 18 anni come il precedente, venne presentato nei trailer e nelle locandine con questa frase: “Avete uno stomaco di ferro? Non vi basterà…”. Ed è forse il migliore della serie. Nel 1988 arriva un altro 181

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sequel, Mondo cane 2000, l’incredibile, anch’esso girato dal regista marchigiano che non ha esitato ad affrontare ancora situazioni pericolose e ai limiti della sopportazione umana nei luoghi più sperduti del globo. Danilo Massi ricorda che il padre nel girare queste inchieste rischiò spesso la vita. Entrambi i film, destinati soprattutto al mercato estero, ebbero in Italia un discreto successo di pubblico, ma la critica si coprì gli occhi.

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MONDO CANE OGGI - L’ORRORE CONTINUA (1986)

Regia, Fotografia e Soggetto: Max Steel (Stelvio Massi); Produzione: General Cine Internazional Film 2; Sceneggiatura: Gino Capone e Stelvio Massi; Montaggio: Cesare Bianchini; Musiche: Claudio Cimpanelli, Walter Martino; Durata: 95’. Come gli altri film del genere, le raccapriccianti immagini sono tutte legate da un “filo rosso” basato sul “that’s incredible” e vengono commentate da un’ammiccante voce fuori campo. Ecco le situazioni orrende affrontate in un’ora e mezza di pellicola: l’autopsia di un gay morto di Aids, massaggi orientali… spinti, il macabro cadavere di un corriere della droga 183

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che nascondeva i sacchetti di polvere bianca nell’addome, le strane terapie contro l’impotenza e la frigidità, serpenti scuoiati vivi, sangue di renna a colazione, le intrepide pescatrici thailandesi di alghe che fanno ringiovanire, i bambini indiani storpiati dai genitori per avviarli all’accattonaggio, l’operazione chirurgica (vista dal vivo) per cambiare sesso a Casablanca, le sensuali modelle di biancheria intima, il taglio delle dita come prova di coraggio, il ristorante erotico in Giappone (con il corpo di una donna nuda cosparso di sashimi e altre prelibatezze), dietro le quinte e davanti all’obiettivo di un film hard. Della produzione mondo-movie realizzata da Massi questo è forse il documentario più accattivante (per chi ama il genere) e meglio riuscito.

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MONDO CANE 2000, L’INCREDIBILE (1988)

Regia e Fotografia: Stelvio Massi; Produzione: Gabriele Crisanti (che si firma anche come co-regista); Sceneggiatura: Luigi Mangini; Montaggio: Cesare Bianchini; Musiche: Claudio Cimpanelli; Voce narrante: Renzo Stacchi; Durata: 80’. Dagli Stati Uniti all’Africa, un ulteriore viaggio alla ricerca delle nefandezze e delle crudeltà di cui è capace il genere umano. Ancora a tema la droga, argomento che si aggiunge stavolta alla prostituzione minorile, alla vivisezione e al commercio degli organi finalizzato ai trapianti. Volendo dare uno sguardo alle situazioni più scabrose raccontate nel documentario, ci imbattiamo nei porno-taxy, nella speciale pasticceria ispirata all’erotismo più spinto, nella violenza esercitata sui bambini per costringerli a lavorare foglie di coca provocandosi gravi ferite cutanee, fino all’estrazione del cuore e dei testicoli (per ottenere il testosterone) dalle scimmie vive e al mercato nero delle cornee. Molte le scene di sesso.

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L’AVVENTURA AMERICANA E LE “FICTION” RAI

Nella seconda metà degli anni Ottanta il cinema italiano vive un momento di splendore con i cosiddetti film d’autore che trionfano nel mondo (Bertolucci e Tornatore vinsero l’Oscar) ma il resto della produzione lascia piuttosto a desiderare, con un’abbondanza di film trash e sexy e solo qualche lampo nell’ambito della commedia brillante (Verdone e Villaggio ne sono un esempio). L’affermarsi della televisione sottrae spettatori, interesse e denaro alla settima arte. Massi si convince allora che per continuare a fare il proprio mestiere per il cinema sia necessario realizzare dei prodotti esportabili, che rispondano cioè alle caratteristiche richieste dal mercato internazionale, americano in particolare. Ma prima che prendano corpo dei progetti rivolti al pubblico oltreoceano, la Rai si ricorda di Stelvio Massi, di quel direttore della fotografia che nel 1969 dette un’impronta così nuova ed efficace al Jekyll di Albertazzi, e gli affida la regia di cinque puntate della serie TIR- Due assi per un turbo, ideata da Luciano Perugia e ambientata nel mondo dei “bisonti della strada”. L’intero sequel, dodici telefilm della durata di un’ora ciascuno, andò in onda su Raiuno dall’11 marzo al 28 giugno del 1987. Si trattava di una coproduzione internazionale ItaliaUngheria-Svizzera-Francia. Un’esperienza nuova e soddisfacente, per Massi, anche perché gli consentì di esprimere le competenze acquisite in più di dieci anni di cinema popolare d’azione, dove i motori hanno sempre avuto un ruolo importante. Gli episodi, interpretati da Renato D’Amore, Christian Fermont e Phi186

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lippe Leroy, furono girati in diverse località del mondo, le rocambolesche avventure dei camionisti hanno quasi sempre un intreccio giallo. Ma ben presto l’America fa sentire il suo richiamo. L’idea per realizzare un film nella terra del grande cinema esiste. È del figlio Danilo che scrive soggetto e sceneggiatura. Luciano Appignani si impegna a finanziarlo. Nasce così Black Cobra, un “action-movie” che prende le mosse da un film americano di successo intitolato Cobra, per la regia di George Pan Cosmatos, interpretato da Sylvester Stallone e Brigitte Nielsen. Massi sceglie come protagonista l’attore afroamericano Fred Williamson, una star della cosiddetta blaxploitation: è lui, stavolta, il poliziotto senza paura. Nel difficile compito di acchiappare la banda che terrorizza New York, Fred è affiancato da una giovanissima e avvenente Eva Grimaldi. Il film, uscito nel 1987, ebbe un discreto successo. Non ne esistono versioni in italiano. Antonio Margheriti, altro regista mito per gli appassionati dei b-movies portò subito dopo sul grande schermo, in Italia, The black cobra 2. Di pellicole targate “Cobra” in seguito ne arriveranno altre, e non tutte di apprezzabile qualità. Sempre nel 1987 Massi gira negli Stati Uniti anche Taxi killer, un film “rape and revenge” (del genere “stupro e vendetta) pensato e scritto da Mario Gariozzo. Si tratta però di una “pellicola fantasma”, regolarmente montata ma priva del sonoro e quindi mai distribuita. Ne esiste solo una copia lavoro. Rimase incompiuta a causa del fallimento dei produttori tra cui figurava Fred Williamson che, secondo quanto affermato dallo stesso Gariazzo in un’intervista pubblicata dalla rivista Nocturno nel gennaio 2010, sarebbe stato il principale responsabile del flop. Malgrado questa cocente delusio187

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ne, il regista marchigiano continua a mantenere lo sguardo rivolto al mercato statunitense. E siccome uno dei temi principali trattati dal cinema a stelle e strisce in questo periodo è la guerra del Vietnam, Stelvio Massi, con il suo raffinato stile di regista di film d’azione, allestisce per la Cineglobo un viet-movie, girandolo interamente nelle foreste del Venezuela per destinarlo, anch’esso al mercato americano. Si tratta di Eroi dell’inferno, un prodotto, nel suo genere, più che dignitoso.

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TIR-DUE ASSI PER UN TURBO (1987)

Produzione: Raiuno (Italia), Vianco Stùdio (Ungheria), Polivedo (Svizzera), Video Realizzazione Programmi (Italia), Zini Film (Francia), Magyar Tv (Ungheria). Sceneggiatura: Tonino Valerii, Cristina Ambrosetti; Cast: Philippe Leroy (Orazio), Renato D’Amore (Franco), Christian Fremont (Vanni), Alba Mottura (Giò). Musiche: Detto Mariano; Durata: 60’. Gli episodi realizzati da Stelvio Massi sono: Chi si ferma è perduto (il primo della serie, girato ad Amsterdam), Il Barone Von Reber (il secondo, che ha per sfondo Vienna, con William Berger, Serena Bennato e Jinni Steffan), Parigi-Dakar (l’ottavo, che segue il tracciato della famosa gara motociclistica), Sahara (il decimo, girato in Tunisia, con protagonista una giovanissima Isabel Russinova), Robinson Crusoe (il nono). I due assi del volante viaggiano con un Iveco 190.42 Turbostar. Non esistono ancora versioni in Dvd della serie.

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BLACK COBRA (1987)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: Luciano Appignani per l’Immagine; Soggetto e Sceneggiatura: Danilo Massi; Direttore della fotografia; Stefano Catalano; Montaggio: Alessandro Lucidi; Scenografia: Franco Cuppini; Aiuto regista: Danilo Massi; Scenografie: Franco Cuppini; Musiche: Paolo Rustichelli; Cast: Fred Williamson (Robert Malone, il poliziotto), Eva Grimaldi (Elys Trumbo), Karl Landgren (Black Cobra), Maurice Poli (tenente Walker), Sabrina Siani (la figlia del tenente Walker), Vassili Karis (Kazinski, il poliziotto), Aldo Mengolini (uomo politico), Sabina Gaddi (l’infermiera), Laura Lancia (la ragazza di Ka190

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zinski), Ronald Russo (Alan), Rita Bartolini (modella), Luciana Cirenei (vicina di casa), Jane Keller (ragazza sulla spiaggia); Stant: Riccardo Mioni, Claudio Zucchet, Angelo Ragusa, Pietro Sarubbi, Umberto Moschini, Giovanni Cianfrigli; Durata: 90’.

Fred Williamson

In una cittadina americana non meglio identificata (molte scene sono state girate in una plumbea New York), un giovane violento e la sua banda, tutti motociclisti vestiti con giubbotti di pelle nera, terrorizzano un intero quartiere con le loro scorribande assassine. Black Cobra, il capo del clan, uccide due persone ma è visto da una ragazza, la fotografa di moda Elys Trombo (una giovanissima Eva Grimaldi), che quindi di191

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venta pericolosa perché può accusarlo al processo. Robert Malone, poliziotto di New York, un reduce dal Vietnam dai metodi spicci e violenti, è incaricato dal commissario Kazinski (il bravo Vassili Karis) di proteggere la testimone. Per sgominare la gang e portare in salvo la donna, lo sbirro, un convincente Fred Williamson, non si pone scrupoli e mette a ferro e fuoco la città. Si contano morti e sparatorie a non finire, in piscina, sulla spiaggia, in un albergo, sotto un gigantesco capannone abbandonato che diventa anche teatro di forsennati inseguimenti in automobile e di raid dei teppisti in moto. Black Cobra è interpretato da uno ieratico Karl Landgren il cui volto assomiglia a quello di Arnold Schwarzenegger. Il film termina con un primo piano che inquadra un largo sorriso del protagonista mentre la ragazza che lui ha salvato gli scatta una foto. È il primo di un lungo sequel targato Cobra. L’unico però diretto dal regista marchigiano. Pubblicato in VHS col titolo La setta del crimine (ma solo nella fascetta) e in lingua inglese. I ritmi del film sono molto veloci, non ci si annoia (quasi) mai. Ma i gloriosi poliziotteschi di Massi erano un’altra cosa.

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TAXI KILLER (1989)

Regia: Stelvio Massi (Max Steel); Produzione: Fred Williamson e Joe Venuti per Abaco Film; Soggetto e Sceneggiatura; Mario Gariazzo (Roy Garrett) e Paola Pascolini; Direttore della fotografia: Marcello Anconetani; Montaggio: Alessandro Lucidi; Scenografia: Franco Cuppini; Aiuto Regista: Danilo Massi; Musiche: Stelvio Massi; Cast: Chuck Connors, Renato D’Amore, Eddie J. Fernandez (un gangster), Fred Williamson; Catherine Hickland (Jenny), Van Johnson (capitano della polizia), Jack Kandel (Bennie Natt), Jane Linck, Stefano Maria Mioni, Mary Gratioso. La bionda Jenny, una tassista a cui dei criminali uccisero il marito rimanendo impuniti, viene stuprata e rapinata durante il turno di notte. I teppisti, per terminare l’opera, incendiano anche l’auto della povera vedova. La polizia della metropoli brancola nel buio e non muove un dito. Allora la ragazza decide di farsi giustizia da sé. Ma avrà la vita difficile. Si fa aiutare da 193

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un manipolo di scalmanate colleghe. Insieme tendono una trappola ai quattro banditi riuscendo ad ucciderne tre. L’affare però si complica: Jenny adesso è braccata sia dai poliziotti sia dal quarto uomo il quale credendo di colpirla in un agguato, uccide per sbaglio un’altra tassista. Così, stavolta, sono tutti i tassisti della città a coalizzarsi per dare la caccia al mostro. Vendetta sarà presto fatta. Il film, interamente girato in America, era destinato a mercati stranieri. Ma non fu mai concluso, nè distribuito nelle sale, perché i produttori fallirono. Per interpretare Jenny fu contattata dapprima Margaux Hemingway (figlia del grande scrittore Ernest) che però rinunciò al ruolo (forse per una questione di compenso). La giovane attrice stava girando in America Il segreto di una donna di Aristide Massaccesi. Allora arrivò sul set Sandra Wey con la quale però Massi non andava d’accordo e che quindi lasciò il set (è forse l’unico caso in tutta la carriera del regista marchigiano). La scelta infine cadde sulla graziosa Catherine Hickland (divenuta in seguito diva di Hollywood, ha recitato anche in Beautiful e nel film Miliardi di Carlo Vanzina, nel 1990). Non fu un semplice ripiego, perché la Hickland rese molto bene la difficile parte. Ecco alcuni passaggi critici del film scritti da Davide Pulici su Nocturno del gennaio 2010, uno dei pochi che ha potuto vedere il film incompiuto: «Il lavoro manca di qualunque violenza e non riesce a caricare l’odio al punto minimo e sufficiente perché la vendetta della protagonista abbia forza. Anche l’idea, buona, della squadriglia di taxi che gioca alla caccia all’uomo con uno degli stupratori, inseguendolo per campi nebbiosi fino a ucciderlo, si risolve nel calligrafismo fotografico di Massi, che recalcitra da qualsiasi affondo crudo, scelta che nei polizie194

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schi tipo Poliziotto sprint magari pagava, ma che in un film del genere equivale al suicidio. Tolta la Hickland, degli altri attori c’è poco da dire; Van Johnson andava ormai incontro alla mummificazione, come Chuck Connors, mentre l’italiano Walter D’Amore (in realtà è Renato, ovvero il “Sandrino u mazzulatore” di Eccezzziunale veramente del 1982), che Massi si era portato appresso dal serial televisivo Due assi per un turbo, è solo imbarazzante».

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EROI DELL’INFERNO – HELL’S HEROES (1987)

Regia: Max Steel (Stelvio Massi); Produzione: Cineglobo; Soggetto e sceneggiatura: Roberto Leoni; Direttore della fotografia: Stefano Catalano; Scenografia: Giorgio Fenu; Montaggio: Cesare Bianchini; Direttore della produzione: Maurizio Mattei; Musiche: Ubaldo Continiello; Cast: Mils O’Keeffee (sergente Darkin), Fred Williamson (Feather), Renato D’Amore, Gabriel Gory, Giuseppe Pianviti, Chuck Connors, Daniel Alvarado; Durata: 92’. Film di guerra che rientra nella categoria dei vietmovie. Cinque marines, agli arresti per indisciplina e 196

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alto tradimento, scampano alla distruzione del campo militare americano di Huè, in Vietnam, da parte degli spietati vietcong. Il manipolo di bastardi jankee, guidati dal sergente Darkin, riesce a fuggire da quell’inferno per dirigersi, attraverso la pericolosa giungla, al confine cambogiano oltre il quale i superstiti potranno salvarsi dalla furia dei nemici e dal processo per diserzione. Mentre scappano, però, braccati dai sanguinari soldati dagli occhi a mandorla, i cinque “rambi” decidono di distruggere un arsenale dei “rossi” rischiando di rimetterci le penne. Alla fine, solo in due di loro ce la faranno: ma anziché scegliere la libertà in Cambogia continueranno a combattere contro l’odioso nemico. Il coraggio ha trasformato i figli di puttana in eroi, e sicuramente andranno in paradiso perché se lo meritano: è questa la morale della storia. Il film, destinato soprattutto ai mercati internazionali, è stato girato in Venezuela. Spericolate e suggestive riprese dall’elicottero, primi piani delle bocche infuocate dei mitra, combattimenti notturni, brutali agguati nella foresta e cascate spumeggianti, non bastano però a mantenere sempre in tensione la vicenda bellica. Non c’è, comunque, il rischio di annoiarsi. Per rendere ancora più verosimili i cruenti scontri a fuoco, Massi si inventa pure uno schizzo di pomodoro-sangue che fuoriesce dal petto di un vietcong e colpisce l’obiettivo della telecamera. Azzeccate le immagini del “fiume rosso” che appaiono all’inizio, accompagnate dalla coinvolgente musica del maestro Continiello. Simpatico il cameo di Chuck Connors (grande interprete di western made in Usa), nella parte di un senatore americano in visita a Huè: l’omone incanutito salta in aria, benché avvertito dall’acuto Darkin, per via dei fiori imbottiti di esplosivo che gli ha regalato un (ap197

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parentemente ingenuo) bambino del luogo. La trovata di Massi (che firma con uno dei suoi pseudonimi) ci ispira una battuta: che i vietcong abbiano preso troppo alla lettera il motto pacifista “mettete dei fiori nei vostri cannoni”? Il protagonista, Mils O’ Keeffee (Tarzan, l’uomo scimmia, 1981), è una specie di Clint Eastwood decisamente meno espressivo anche se mastica allo stesso modo il mozzicone di sigaro che gli penzola tra le labbra (proprio come amava fare Massi con i suoi “Garibaldi” ammezzati!). Il film non ebbe successo nel nostro Paese. Il titolo italiano non deve essere confuso con Eroi all’inferno (1974), di Joe D’Amato, con Klaus Kinski, e quello in inglese non può essere scambiato con l’omonimo Hell’s Heroes di William Wyler, del 1929, in italia distribuito come Eroi del deserto. Comunque, si sa, le scelte dei distributori spesso hanno una logica che sfugge ai più…

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DAL PORNO-SOFT AI BUONI SENTIMENTI

Si tratta sicuramente di una delle produzioni minori e meno convincenti di Stelvio Massi. Un “tardo giallo” vagamente argentiano su sfondo porno-soft che scivola nell’hard e nello splatter. Il film Arabella, l’angelo nero, storia di un serial killer, è nato su commissione, solo con l’intenzione, quindi, di far cassetta. Uscì nel 1989. Non ebbe grande successo nelle sale italiane ma fu esportato nel vasto mercato cinematografico americano col titolo di Black Angel. Per gli appassionati dei b-movies porno-soft è senz’altro un Vhs da tenere nella videoteca di casa (ma rigorosamente lontano dalla disponibilità dei bambini!). Il film punta tutto sull’abilità tecnica del regista che ancora una volta riesce a dare suspense e carica emotiva allo spettatore supportando una sceneggiatura a dir poco sfilacciata e un cervellotico plot. Ma fa presa anche sull’avvenenza di Tinì Cansino, attrice di origini greche (nacque in un paesino vicino ad Atene nel 1959, vero nome, Photina Lappa), una ragazza dai capelli rossi che dopo gli studi di danza classica si diede allo spettacolo leggero. Esordì in televisione nel sexy show Playgirl insieme a Minnie Minoprio. Ma diventò celebre per aver partecipato, dal 1983 all’1988, al programma Drive in, su Italia 1, inventato da Antonio Ricci. Nel film di Massi si mostra spessissimo nuda o in guepierre e calze nere, si produce in performance al limite dell’hard-core, ammicca e seduce i maschietti in modo sfrontato. Fa la parte di una ninfomane. Ed è il suo ultimo ruolo da protagonista dopo altri quattro lavori nel cinema: Arrapaho (1984) di Ciro Ippo199

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lito, Carabinieri si nasce (1985) di Mariano Laurenti, Delizia (1986) di Aristide Massaccesi (Joe D’Amato), A un passo dall’aurora (1990) di Mario Bianchi (Martin White). Il cantante venezuelano Cosmo de la Fuente, suo ex compagno, la ricorda così: «Tinì Cansino è stata sposata e adesso ha ben tre figli tra cui Tamara che è diventata attrice. Per anni Tinì è vissuta in Abruzzo, dimenticata da tutti. Si è separata dal marito per il quale aveva lasciato il mondo dello spettacolo. Malgrado il suo personaggio sexy era una madre dolcissima e attenta e all’epoca del Drive in la sua unica preoccupazione era per la sua figlia più grande. Chi si ricorda di lei sa che ha avuto alcune storie più o meno importanti, da Vasco Rossi a Saverio Vallone (e si dice anche Warren Beatty, ndr) finché, quasi per caso, è nata la nostra relazione. Lavoravamo in studio insieme per la realizzazione di un disco, erano gli anni Ottanta e io ero poco più di un ragazzo, è nata una simpatia tra di noi e ci siamo anche divertiti a farci fotografare insieme a Roma e a Milano». Dopo questa parentesi giallo-erotico-splatter, arriva finalmente per Stelvio l’opportunità di girare un film d’amore, come aveva sempre desiderato. Siamo nel 1992. «Qual è il suo sogno nel cassetto?» gli aveva chiesto il giornalista Matteo Norcini nella già citata intervista per Amarcord, nel gennaio del 1997. Massi rispose così: «Fare un film di sentimenti, e in parte ci sono quasi riuscito quando, dopo 27 film polizieschi e d’azione ho diretto L’urlo della verità, una vicenda sui giovani ambientata nel mondo della scuola. È stata la mia prima pellicola dove non si sparava e non c’erano inseguimenti mozzafiato. C’è solo una scazzottata». Ecco, questo brano dell’intervista è più esaustivo di qualsiasi commento. Il film fu realizzato an200

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che con il contributo del Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Gli esterni vennero girati a Sora, in provincia di Frosinone. Protagonista, la brava Antonella Lualdi nei panni di una professoressa di liceo alle prese con una classe problematica.

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ARABELLA, L’ANGELO NERO (1989)

Regia: Max Steel (Stelvio Massi); Produzione: Arpa International; Soggetto e sceneggiatura: Riccardo Filippucci; Direttore della fotografia: Stefano Catalano (Stelvio Massi); Montaggio: Cesare Bianchini; Musiche: Michel Serfran; Cast: Tinì Cansino (Arabella Veronesi), Francesco Casale (Francesco Veronesi), Valentina Visconti (Gina Falco), Carlo Murari (Alfonso De Rosa), Renato D’Amore (Scognamillo), Rena Niehaus, Evelyn Stewart, Vinicio Diamanti, Giosé Davì (il detective), David D’Ingeo; Durata: 86’. Giallo-thriller e porno-soft. Arabella è la moglie ninfomane dello scrittore Francesco Veronesi, sulla sedia a rotelle per un incidente d’auto provocato proprio dalla focosa quanto sfrontata signora. La donna conduce una doppia esistenza: di giorno coccola il marito paralitico in crisi di ispirazione letteraria, di 202

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notte frequenta postriboli e prostituti di strada. Ma viene beccata da un poliziotto e da un fotografo impiccione che la ricattano. Arabella, sorpresa dal consorte mentre si intrattiene piacevolmente con l’agente della buoncostume, uccide sotto i suoi occhi il ricattatore, chino su di lei, con un colpo di martello sulla testa. In seguito vengono ferocemente assassinati, tutti con un paio di forbici da sarto: il fotografo ed altri personaggi coinvolti in torbide vicende fanno una fine orribile. Lo scrittore, che crede la moglie responsabile dei macabri delitti, ritrova la creatività e finalmente compone il suo romanzo. Le indagini sugli omicidi sono condotte da un’ispettrice lesbica che dopo varie peripezie scopre il serial killer: si tratta addirittura della madre, una schizofrenica che uccise il marito per gelosia e in seguito ebbe da un altro uomo un figlio, lo scrittore Francesco, che quindi è suo fratello. Questi, che si fingeva paralitico, inizia a seguire Arabella sperando di coglierla sul fatto: ma per un tragico errore la pazza con le forbici, nell’intento di assassinare la nuora, colpisce a morte il figlio e viene smascherata. L’intricatissimo caso si risolve, Arabella sembra essersi convertita alla castità ma presto riprende la sua vita spericolata alla ricerca di sordide emozioni. In fondo, come si legge sul muro del bordello, “Il vizio non è peccato e l’onestà non conosce vergogna” (un tema sempre di attualità…). Il plot di questo film, seppure improbabile, è intricato e coinvolgente. La suspense si intreccia bene all’erotismo, a tratti molto spinto. Traumi psicologici, incubi notturni, sangue a fiotti, sesso, perversioni e tanto mestiere nell’uso della macchina da presa: tutto sommato, seguendo le muse ispiratrici di Dario Argento e Tinto Brass, Massi-Steel se l’è cavata egregiamente in 203

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questa sua prima, ed unica, esperienza nel genere giallo-erotico. Anche se non ha sempre evitato di cadere nel trash (ad esempio, la violenza esercitata sulla vagina con le forbici). La ben tornita Tinì Cansino ha sfoderato qui tutta la sua sensualità cimentandosi in un ruolo che non fa certo rimpiangere le aggraziate moine della scosciata “cassiera del fast food” nel Drive in televisivo che l’ha resa famosa al grande pubblico italiano all’inizio degli anni Ottanta. Non sa recitare, e si capisce subito. Ma forse, in questo caso, non era proprio necessario.

Tini Cansino

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L’URLO DELLA VERITÀ (1993)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: Tria Film; Soggetto e Sceneggiatura: Giuseppe Costantini; Direttore della fotografia: Stefano Catalano (Stelvio Massi); Montaggio: Pierluigi Leonardi; Musiche: Stelvio Cipriani; Cast: Tommaso Givogre, Stefania Mega, Eliana Miglio, Pier Paolo Capponi, Antonella Lualdi (professoressa Vitali), Giuseppe Marini, Domiziano Arcangeli (Roberto), Alessio Maliandi, Franco Alpestre, Marzia Barbarossa, Francesco Casale, Nello Pazzafini; Durata: 99’.

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La professoressa Vitali insegna in una scuola di periferia, è attenta alle esigenze dei suoi studenti e cerca di aiutarli. In classe ci sono ragazzi di varia estrazione sociale: uno si occupa dell’amico handicappato; un’altro, Roberto, benché sensibilissimo e bravo negli studi, è frustrato dai compagni che lo deridono perché appartiene all’alta borghesia e quindi risulta un po’ snob. C’è una giovane con la madre ammalata che deve lavorare per mantenersi: un giorno il suo datore di lavoro cerca di violentarla e lei, fuggendo, viene investita da un’automobile e muore. A scuola comincia a girare la droga e c’è chi cade nella tremenda trappola. Tra gli studenti, come sempre a quell’età, nascono amori e scoppiano gelosie. L’insegnante si impegna a stare accanto a ognuno di loro, cerca di capirli aiutandoli a crescere. Una storia d’altri tempi, piena di sentimenti, che si propone soprattutto di mettere l’accento sul valore dell’educazione. Ma si muove troppo, forse, seguendo i soliti stereotipi. Spiccano, su tutte, le interpretazioni di Antonella Lualdi e Pier Paolo Capponi. Il film incassò soltanto 47.664.000 lire.

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IL TRITTICO FINALE, UN TRIONFO DI AZIONE E SPIONAGGIO

Nel 1993 Stelvio Massi gira i suoi ultimi tre film, tutti prodotti dalla PAC e destinati al mercato estero. Due vengono girati in Bulgaria, Alto rischio e La pista bulgara, uno in Venezuela, Il quinto giorno (Wardogs). Escono l’anno successivo ma in Italia vengono quasi ignorati. Stavolta è il trionfo delle spy-stories internazionali. Nei due film balcanici, dove ha recitato l’enfante du pais Isabel Russinova, protagoniste diventano le donne, quasi sempre bistrattate nei film d’azione di stampo americano. Massi qui le fa diventare donne “forti”, “cattive”, che non perdono, però, la sensualità. Anzi, in qualche modo il loro fascino viene rafforzato dal ruolo. Basti pensare al personaggio interpretato da una sorprendente Maria Grazia Cucinotta in Alto rischio: una bella fatalona che uccide senza pietà, indossando con charme sia gli abiti sexy sia la tuta con la quale esegue le sanguinose mattanze. Passato ormai il tempo dei “vecchi poliziotti”, si affacciano all’orizzonte nuovi eroi, che si chiamano Stephane Ferrara, un ex pugile italo-francese con una discreta carriera da attore, e Vincent Ricotta, con il quale Massi lavorerà anche come direttore della fotografia in un buon film da lui diretto, Tuono di proiettile, e uscito anch’esso nel 1994. Ma queste figure non entreranno mai nella storia del nostro cinema. I tempi sono cambiati. E i talenti pure.

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ALTO RISCHIO (1994)

Regia: Stelvio Massi (Max Steel); Produzione: PAC; Soggetto: Teodoro Agrimi e Gianmaria Vismara; Sceneggiatura: Domenico Paolella, Alberto Bell e Stelvio Massi; Direttore della fotografia: Stelvio Massi; Montaggio: Cesare Bianchini; Aiuto regista: Danilo Massi; Musiche: Walter Rizzati; Cast: Stephane Ferrara (Mike), Isabel Russinova (Vera), Angelo Infanti (Sjberg), Massimo Lodolo (Anatolj), Dale Wyatt (Mitzi), Maria Grazia Cucinotta (Olga), Giovanni Oliveri (Johnson), Gianmaria Vismara (Alex), Plamen Manassiev (Stefan), Stefan Dimitriev (Jordan), Francesca Benny (Oshka), Gabriele Torsello (barman). Durata: 90’. Sjberg è un misterioso uomo d’affari che opera a Sofia e vuole realizzare guadagni illeciti con investi208

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menti fasulli alla Borsa di New York. Per questo assolda un hacker con il compito di entrare nel sistema informatico di Wall Street e inquinarne i dati. Ma Vera, ricercatrice informatica coinvolta suo malgrado nella faccenda, si accorge degli strani movimenti e cerca di ostacolarli. La Cia scopre il piano criminale e incarica l’agente Mike di farlo fallire proteggendo la giovane scienziata dalle grinfie del perfido Sjberg che vuole usarla per i suoi loschi affari. Il truffatore si avvale dei servigi di un’avvenente sexy-signorina di nome Olga, muta e implacabile killer che invano cercherà di uccidere Mike. Sparatorie a non finire, inseguimenti a piedi nelle affascinanti piazze della capitale bulgara, tra mercati, chiese bizantine e minareti. Alla fine di rocambolesche vicende, Vera troverà l’antivirus per cancellare in tempo il programma truffaldino e Mike riuscirà ad acciuffare l’imprenditore senza scrupoli proprio mentre si sta per dare alla fuga. Il film si conclude con le splendide riprese dall’alto del monastero di Rila (fondato nel X secolo) dove si svolge l’ultima parte della storia.

Splendida fotografia, ritmi perfetti, azione allo stato puro. Ma non mancano ingenuità narrative: come 209

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quando Mike, per sfuggire al killer che gli vuole sparare con un kalashnikov spuntatogli di colpo da sotto la giacca, si nasconde tra le cosce di una prostituta improvvisando un rapporto con la “posizione di Andromaca”... O, ancora, quando Mike, inseguito dal solito gangster, salta su un treno in corsa che, guarda caso, si muove con le porte aperte... Sorprende l’interpretazione di Maria Grazia Cucinotta in una delle sue prime apparizioni cinematografiche. Qui, la futura diva di Hollywood veste i panni di una sexyssima donna del “cattivo”, muta e sensuale, che sa trasformarsi in spietata assassina. È espressiva, ma non convince affatto come “pistolera”: le sue mani affusolate e magre fanno fatica a stringere e a puntare l’arma, le dita le tremano quando tira il grilletto. La Russinova da l’idea di non essersi troppo sprecata nel ruolo della ricercatrice che scappa. Buone le interpretazioni di Angelo Infanti, un attore tagliato per fare il duro, e del protagonista Stephane Ferrara che appare qui come una specie di Sylvester Stallone in salsa italo-transalpina. Abbiamo colto due “genialate” di Massi: quando Mike guarda in tv alcune scene di Mark il poliziotto (un ritorno alle radici...) e il simpatico orso bruno ammaestrato che balla alla stazione di Sofia nel bel mezzo di una scena ricca di suspense.

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LA PISTA BULGARA (1994)

Regia: Max Steel (Stelvio Massi); Produzione: PAC; Soggetto e Sceneggiatura: Danilo Massi e Salvatore Pareti; Direttore della fotografia: Stefano Catalano (Stelvio Massi); Montaggio: Cesare Bianchini; Musiche: Antonello Libonati; Cast: Daisy White (Sura), Isabel Russinova (Mirna), Stephane Ferrara (Marc), Giuseppe Pianviti (Istvan), Giovanni Olivieri (Andrej), Lino Salemme (Dimitri), Peicho Peichev (Peicho), Teodoro Corrà (il giudice), Gianmaria Vismara (Jò), Claudio Zucchet, Paul John Flint; Durata: 90’. 211

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Siamo a Sofia. L’agente della squadra antidroga Nicolaj Fedorov viene ucciso durante un’imboscata da Sura, la spietata esponente di un’organizzazione criminale. La vedova del poliziotto, Mirna, vuole vendicarsi e si offre di collaborare con Marc Fremont, l’investigatore internazionale che ha avuto l’incarico di sgominare la banda. Quest’ultimo scopre che Sura è legata ad Andrej Solivec, direttore della prigione di Plovdiv nonché potentissimo trafficante d’armi. Per poter entrare nel blindatissimo penitenziario e prendere il boss con le mani nel sacco, Marc si fa arrestare. Ma Solivec scopre ben presto la sua vera identità. Vuole ammazzare Marc ma non ci riuscirà perché al momento giusto faranno irruzione nel carcere Mirna e il poliziotto Istvan che salveranno il collega. La storia si conclude con un faccia a faccia armato tra le due donne. E col trionfo della vendetta. Qui viene ribaltato il classico ruolo delle donne nei film d’azione: non sono più soltanto uno splendido ornamento, le pupe del gangster, ma diventano protagoniste assolute della vicenda. Si riscattano. Lo schema del film è quello del western, e quindi del poliziot212

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tesco: il filo conduttore è la vendetta, la “giustizia fai da te” che si compie, alla fine, dopo scazzottate, sparatorie e inseguimenti, con un duello alla pistola. Come sempre la fattura è ottima, impeccabile nelle immagini. Ma si capisce che il film è stato realizzato con la solita fretta imposta dai tempi stretti della produzione. La Russinova è bella ma stavolta recita male. Il resto del cast è senza infamia e senza lode. Si distingue però il dinamismo di Stephane Ferrara, “poliziotto senza paura”.

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IL QUINTO GIORNO (1994)

Regia: Stelvio Massi; Produzione: PAC; Soggetto, sceneggiatura e aiuto regista: Danilo Massi; Montaggio: Cesare Bianchini; Direttore della fotografia: Stefano Catalano (Stelvio Massi); Assistente alla regia: Armando Gudinò; Musica: Antonello Libonati; Cast: Neil Duncan (Brian), Vincent Ricotta (Robert), Emma Croft (Denise), Marcel Cassol, Hamish Chanfield, Erich Juhasz, Javier Chiaraluce, Raimundo Mijares, Roberto Montemarani, Roberto Roman, Juan Manuel Cabirujas, Alfredo Sandoval (generale Rodriguez), carlo belgado, Ricardo Blanco: Durata: 98’.

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Vincent Ricotta

Il film, girato in Venezuela, comincia mostrando in un vicolo della capitale una prostituta che cerca di sottrarsi dalle violenze di un uomo. L’intervento di Robert salva la ragazza da uno sfregio. Già si capisce chi sarà l’eroe. Poco a poco la vicenda si svela. Il dottor Balls, scienziato candidato al Premio Nobel, e la sua equipe vengono sequestrati e tenuti in ostaggio dal crudele dittatore di una nazione centroamericana, dove i ricercatori si erano insediati per svolgere studi su delle radici miracolose che si trovano nella vegetazione locale. Per il rilascio dei prigionieri vengono avanzate al loro Paese spropositate richieste da soddisfare entro cinque giorni, termine oltre il quale 215

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saranno uccisi. Nel tentativo di liberarli, i servizi segreti incaricano Robert e l’amico Hasley che ingaggiano altri otto impavidi mercenari per compiere la difficile missione. A loro vengono consegnati 500 mila dollari in banconote, altrettanti soldi saranno versati su un conto svizzero se l’operazione andrà in porto. Il resto della storia viene narrato seguendo gli stereotipi dell’action-movie a stelle e strisce: conflitti a fuoco, agguati, razzi incendiari lanciati con le balestre, attacchi dagli elicotteri, fughe e inseguimenti, imboscate e tradimenti. Tutto risulta ben confezionato, anche se con qualche caduta di ritmo. C’è pure lo spazio per un tenero flirt tra Robert e la scienziata Denise, stroncato però dal duro atteggiamento del mercenario: «Per quelli della mia razza non c’è stato mai posto per i sentimenti». Lieto fine in extremis. È l’ultimo film diretto da Stelvio Massi, con tanto mestiere. E un po’ di nostalgia.

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CALA IL GRANDE SILENZIO

Massi anziano con l’assessore di Civitanova Marinelli

Il 1994 segna la fine della carriera per il grande regista marchigiano. A 65 anni è il momento della pensione. Ma lui avrebbe voluto continuare l’avventura, avrebbe voluto portare ancora in spalla la sua amata cinepresa per raccontare storie. Nello stesso anno partecipa come direttore della fotografia e sceneggiatore al film del figlio Danilo Il sesto giorno – La vendetta. Poi, più nulla. Qualche anno dopo comincia a soffrire i primi sintomi di una malattia che lo logorerà piano piano. Il grande silenzio arriva il 26 marzo del 2004 in una clinica di Velletri, paese alle porte di Roma dove aveva deciso di vivere con la moglie Pina, con Danilo e la sua famiglia. Si spegne nel giorno del 217

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suo ottantesimo compleanno. Il cinema ha perso un maestro, buono, umile e sempre appassionato.

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POST-FAZIONI

STELVIO MASSI E LE STRADE PERDUTE DEL CINEMA ITALIANO

di Luca Pallanch Nella più celebre storia del cinema italiano (Cent’anni di cinema italiano di Gian Piero Brunetta, Laterza, Roma-Bari, 1991) a Stelvio Massi non è dedicata nemmeno una riga. È completamente ignorato, al pari dei suoi film. Basterebbe questa osservazione a giustificare e legittimare il presente volume e a destare l’interesse di un lettore curioso. Eguale sorte è riservata a molti altri registi di genere, verso i quali negli ultimi anni abbiamo assistito ad analoghe operazioni di “recupero”, dettate, da un lato, da una forma di nostalgia verso un passato più luminoso, dall’altro dalle lacune, spesso gravi, della storiografia ufficiale. Lacune che hanno reso possibili le recenti retrospettive della Mostra di Venezia, dai bmovies allo spaghetti-western, dalle due edizioni di Questi fantasmi fino al comico, legate dalla ricerca di film ingiustificatamente rimossi o dimenticati. È un continuo riaffiorare dal passato di opere meritevoli all’epoca di maggiore considerazione e di registi da rileggere e approfondire: lentamente si stanno gettando le basi per una controstoria del cinema italiano, i cui tasselli sono disseminati, se non dispersi, nelle fonti più svariate, da apprezzabili riviste di cinema come «Nocturno» e «Cine 70» (senza dimenticare la compianta «Amarcord»), a siti Internet, cineclub e associazioni culturali sparse nella penisola, fino a pub219

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blicazioni, come questa, che esaminano la carriera di registi ritenuti minori. E invece proprio percorsi professionali come quello di Stelvio Massi offrono l’occasione per riflessioni sullo stato del cinema italiano ben più stimolanti di quelle che ogni giorno riempiono le pagine dei quotidiani. Massi ha cominciato nei primi anni Cinquanta come assistente operatore, poi è diventato operatore e solo dopo una decina di anni è stato promosso direttore della fotografia, per poi compiere l’ulteriore salto ed esordire come regista agli inizi degli anni Settanta. In questo cammino ritroviamo concetti oggi completamente sminuiti: gavetta e mestiere. Varie strade si profilavano dinanzi a un giovane che nel dopoguerra voleva “fare il cinema”, ma ognuna bisognava percorrerla interamente, dal basso verso l’alto, senza salti. Il premio finale non era solo il raggiungimento dell’obiettivo prescelto (diventare direttore della fotografia, costumista, montatore, direttore di produzione, ecc.), ma l’apprendimento della professione in ogni sua componente. Era un sistema virtuoso che garantiva al suo interno un ricambio continuo, mantenendo sempre alti gli standard qualitativi, anzi, di generazione in generazione, elevandoli sempre più in virtù di un patrimonio crescente di competenze ed esperienze. Negli ultimi decenni questo processo naturale di formazione si è arrestato, complici vari fattori: film girati in poche settimane, con mezzi modesti e linguaggio televisivo, il (falso) mito di uscire di casa con una cinepresa in mano e sentirsi dei piccoli Godard, la pellicola che scompare, il digitale che consente e impone nuove forme di ripresa. Non solo l’industria cinematografica è in crisi, come testimoniato dal numero di film prodotti (nel 2010 siamo ai minimi 220

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storici), ma è la stessa macchina cinema, su cui si interrogavano negli anni Settanta Agosti, Bellocchio, Rulli e Petraglia, che sta svanendo. Gli ingranaggi che la costituivano stanno venendo meno, la tecnica si è diffusa, ma inesorabilmente verso il basso, per cui non si può non rimanere insensibili di fronte al virtuosismo tecnico di un regista come Massi e non si può non rimpiangere un cinema ancora definibile come tale. Prima dell’avvento della televisione, del declino dei generi, prima di una fine, di cui siamo tutti testimoni. La figura di Massi, e dei grandi artigiani del cinema italiano (citiamo, per analogie di percorsi, Massimo Dallamano, Aristide Massaccesi, Camillo Bazzoni, e per affinità tematiche Umberto Lenzi, Enzo G. Castellari, Fernando Di Leo, ma l’elenco è lunghissimo), va quindi ripensata nella prospettiva dell’industria cinematografica, nelle sue diverse stratificazioni, concepita allora come una piramide al cui vertice stava il regista, e composta alla base da una squadra di tecnici altamente specializzata, all’interno della quale vigeva un ulteriore gerarchia interna. Basta scorrere i titoli di testa e di coda di un film degli anni Quaranta, Cinquanta o Sessanta per ritrovare fra gli aiuti e gli assistenti delle varie figure professionali futuri protagonisti del cinema italiano. Il tutto avveniva con naturalezza come nelle botteghe d’arte della grande pittura italiana. Il mestiere si trasmetteva di generazione in generazione, spesso di padre in figlio (come è avvenuto per lo stesso Massi con il figlio Danilo), e in queste condizioni i maestri del cinema riuscivano a sfornare capolavori a ripetizione (quanti ne possiamo elencare nel cinema italiano dal dopoguerra alla fine degli anni Sessanta? E quanti successivamente?). Inu221

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tile qui ripetere i soliti discorsi sul cinema commerciale che consentiva ai produttori di guadagnare i soldi necessari per produrre film cosiddetti d’autore, perché sarebbe ingeneroso nei confronti di registi chiamati a fare i conti con le necessità del botteghino e spesso in grado di coniugare tale esigenza con buoni risultati artistici. Piuttosto, tornando al cinema di Massi, riflettiamo sul tramonto del concetto di cinema popolare, in totale simbiosi con il pubblico, che si è spezzata fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta con l’avvento delle tv locali e il ridimensionamento del cinema italiano, (auto)rinchiusosi in ottantametriquadri, per citare un film emblematico di un minimalismo imperante. Di quella decadenza, anzitutto estetica, Massi è stato vittima, costretto, come molti colleghi, a tentare di reiterare un cinema che stava scomparendo. A distanza di trent’anni, con l’avvento del 3D e la necessità di emozionare lo spettatore, avremmo tanto bisogno di registi come lui, capaci di raccontare storie e di appassionare avvalendosi di tutti mezzi a disposizione, anzi cercando, con tipico genio italico, di trovarne sempre di nuovi. Chi sarebbe oggi in grado di realizzare un inseguimento come quelli che ci lasciavano senza fiato nei film di Massi? Non è una questione nostalgica, ma puramente tecnica, su cui dovrebbero riflettere quanti, oggi, si limitano a constatare il divario esistente fra il cinema italiano e quello americano. Dagli anni Cinquanta fino ai primi anni Settanta – la lunga stagione della Hollywood sul Tevere insegna – gli americani eravamo noi…

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STELVIO MASSI, O L’EPIGONISMO DI UN GENERE di Domenico Monetti

Quando leggo nei titoli di un testa di un film “Regia: Stelvio Massi”, subito il mio pensiero va alla mia infanzia, a quando, grazie alle televisioni private, mi cibavo di cinema d’ogni genere. Ma sono solo pochi i film di quel periodo che mi sono rimasti impressi: Django il bastardo (1969) di Sergio Garrone, Macchie solari (1975) di Armando Crispino, Colpi di luce (1985) di Enzo G. Castellari e la trilogia di Mark il poliziotto di Stelvio Massi. Di quei tre film ricordo quel linguaggio cinematografico che coniugava volentieri il genere poliziesco a quello del fumetto, al fotoromanzo grazie alla presenza, al corpo di Franco Gasparri. I primissimi piani sul divo e i contro campi sul villain di turno rimandavano a quelle immagini ferme, mute, con i dialoghi racchiusi in balloon. Le scene d’azione invece evocavano il Don Siegel dell’Ispettore Callaghan: una violenza schietta, diretta, senza inutili didascalie. Ma Stelvio Massi è anche autore di quel La banda del trucido (1977), a mio modesto avviso, capolavoro indiscusso della serie del Monnezza, proprio per la sua irrisolutezza, per essere schizofrenicamente diviso a metà: da una parte un poliziesco con l’eroe di turno, il commissario Ghini, interpretato da Luc Merenda, dall’altro sketch talmente volgari da diventare surreali e che raccontavano la quotidianità di un ladruncolo di borgata soprannominato Er Monnezza (Tomas Milian), gestore insieme alla moglie obesa e scorreggiona di una trattoria chiamata non a caso “La pernacchia” e docente a tempo pieno dell’ar223

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te dello scippo. Ecco ciò che m’incuriosiva e che m’incuriosisce ancora oggi era la sapienza dell’operato di Stelvio Massi come sublime metteur en scène: mettere cioè in scena dei corpi, prima ancora che degli attori diversissimi tra loro (Milian così come Merenda, ma anche il pasoliniano Franco Citti, il sublime Mimmo Poli, e la romanità di un Mario Brega) in paesaggi che richiamavano anche qui il Pasolini di Accattone e Mamma Roma. Ecco, voglio richiamare l’attenzione proprio su questa cifra autoriale di Massi, perché se ne è parlato sempre troppo poco, enfatizzando la maestria artigianale, derivatagli dalla lunga esperienza come operatore e direttore della fotografia. Non è un caso che Massi esordisce alla regia con quell’opera invisibile Giuda uccide il venerdì (1974), successivamente rieditato nel 1976 con il titolo Macrò – Giuda uccide il venerdì. Non è solo una variante hippy del percorso cristiologico di un ennesimo Cristo e di un’ennesima Maddalena, ma è una rappresentazione di corpi pronti a essere strapazzati, martoriati in un milieu sottoproletario diventato, come nelle peggiori profezie pasoliniane, non luogo, carnefice e al contempo vittima, marionetta di un Potere che si diverte a giocare sulla carne altrui. Massi racconta tutto questo con una macchina da presa che si fa corpo, prolungamento ipotetico dei nostri e degli altrui sguardi, in quella visione deleuziana della soggettiva libera e indiretta. La scena dello stupro alla povera Maddalena è stata girata e aggiunta all’insaputa del regista e costituisce una sorta di violenza extra filmica all’opera stessa e al suo autore. Ma Stelvio Massi non è solo l’autore d’innumerevoli polizieschi, ma anche di numerose e interessanti varianti, come è ben testimoniato in questo esaustivo e lodevole volume, primo 224

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fra tutti quel Poliziotto sprint (1977) in cui vige la pura azione, l’inseguimento di automobili, coereografia di un ipotetico balletto dove le battute sono ridotte all’osso. Ed è sempre lo stesso Stelvio Massi a far maturare la figura dell’attore Maurizio Merli nella parte consueta del commissario, coniugando il genere al noir (Poliziotto senza paura, 1978); il mancato finale happy ending con una figura di commissario sempre più chiaroscurale (Un poliziotto scomodo, 1978); lo smontaggio della moralità classica del poliziesco (Sbirro, la tua legge è lenta… la mia no!, 1979) fino al suo annullamento definitivo in cui il poliziotto è sempre più solo, un uomo sempre meno di legge e sempre più perduto, tipico di molti noir (Poliziotto, solitudine e rabbia, 1980). Nell’epigonismo di un genere, in questo caso il poliziesco, Massi ritrova la sua autorialità nella rappresentazione di una Weltanschaung cupa e pessimista, giocando con un corpo attoriale (Maurizio Merli), con la stessa intensità con cui giocò Raffaello Matarazzo in un altro genere (il melodramma) e con un altro attore, altro corpo filmico: Amedeo Nazzari. Come ha scritto giustamente Francesco Ruggeri in un bellissimo articolo Stelvio Massi: cinema, solitudine e rabbia sul sito www.sentieriselvaggi.it, a proposito del cinema crepuscolare e poliziesco di Massi, con particolare riferimento a Poliziotto, solitudine e rabbia «Massi indugia negli interni, si concede ancora qualche disparato momento spettacolare sempre più timido e sparuto, ma quella filmata dal suo occhio è l’eclisse dei vasi comunicanti con la realtà. La vita da difendere e filmare è quella che perdura in sguardi impensabili, in promesse d’amore, in sacrifici di morte, all’interno di un set domestico in cui si consuma 225

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lentamente la morte del genere. Tutte tracce precise allora di una messa a morte che arriva con quello che è a tutti gli effetti l’ultimo vero poliziesco del nostro cinema, Poliziotto, solitudine e rabbia dove tutto concorre alla definizione di un orizzonte di perdita lacerato e ridotto a brandelli. L’ombra pungente e malinconica di una stagione cinematografica irripetibile e sognante, che Massi ha impresso sul nostalgico riflesso di un’emozione terminale».

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APPENDICE

FILMOGRAFIA

Stelvio Massi regista 1973: Giuda uccide il venerdì (Macrò); 1974: Squadra volante (anche sceneggiatore); 5 donne per l’assassino; 1975: Mark il poliziotto (anche sceneggiatore); Mark il poliziotto spara per primo (anche sceneggiatore); 1976: La legge violenta della squadra anticrimine; Mark colpisce ancora; Il conto è chiuso; La banda del trucido (anche sceneggiatore); 1977: Poliziotto sprint; Poliziotto senza paura (anche sceneggiatore); 1978: Il commissario di ferro; Un poliziotto scomodo (anche sceneggiatore); 1979: Sbirro, la tua legge è lenta… la mia no! (anche sceneggiatore); Speed Cross; 1980: Speed Driver (anche sceneggiatore); Poliziotto, solitudine e rabbia (anche sceneggiatore); 1983: Guapparia (anche direttore della fotografia, col nome di Stefano Catalano); Torna (anche direttore della fotografia, col nome di Stefano Catalano); 1985: Mondo cane oggi – L’orrore continua (anche soggetto, sceneggiatura e direttore della fotografia, col nome di Max Steel); 1986: Due assi per un turbo (serie di telefilm; Massi ne dirige cinque); 1987: Taxi Killer (inedito); The Black Cobra (anche direttore della fotografia, col nome di Stefano Catalano); 1988: Eroi dell’inferno (col nome di Max Steel; anche direttore della fotografia, col nome di Stefano Catalano); 1989: Arabella, l’angelo nero (col nome di Max Steel; anche direttore della fotografia col nome di Stefano Catalano); 1991: L’urlo della verità (anche direttore della fotografia); 1994: Alto rischio (anche sceneggiatore); La pista bulgara; Wardogs – Il quinto giorno. Stelvio Massi direttore della fotografia 1964: In ginocchio da te di E.M. Fizzarotti; Non son degno di te di E.M. Fizzarotti; Una lacrima sul viso di E.M. Fizzarotti; 1965: Se non avessi più te di E.M. Fizzarotti; Mi vedrai tornare di E.M. Fizzarotti; Genoveffa di Brabante di J.L. Monter; L’uomo dalla pistola d’oro di A. Balcazar (in collabo227

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razione); All’ombra di una colt di G. Grimaldi (supervisore); 1965-66: Per il gusto di uccidere di T. Valerii; 1966: Nessuno mi può giudicare di E.M. Fizzarotti; 1966-67: Tiffany Memorandum di S. Grieco; 1967: Le due facce del dollaro di R. Bianchi Montero; Top Crack di M. Russo (2ª unità); Il momento di uccidere di G. Carnimeo; 15 forche per un assassino di N. Malasomma; I ragazzi di Bandiera Gialla di M. Laurenti; Rapporto Fuller, base Stoccolma di S. Grieco; Vendo cara la pelle di E.M. Fizzarotti; Troppo per vivere, poco per morire di M. Lupo (in collaborazione); 1968: Brutti di notte di G. Grimaldi; L’alibi di V. Gassman, A. Celi, L. Lucignani; Un posto all’inferno di G. Vari; 1969: Dio perdoni la mia pistola di M. Gariazzo e L. Savona; L’arcangelo di G. Capitani; Il prezzo del potere di T. Valerii; Il suo nome è donna Rosa di E.M. Fizzarotti; 1970: Buon funerale amigos… paga Sartana! di G. Carnimeo; C’è Sartana… vendi la pistola e comprati la bara! di G. Carnimeo; La ragazza di nome Giulio di T. Valerii; 1971: Gli fumavano le colt… lo chiamavano Camposanto di G. Carnimeo; Forza “G” di D. Tessari; Testa t’ammazzo, croce… sei morto, mi chiamano Alleluja di G. Carnimeo; Il sergente Klems di S. Grieco; 1972: Giovannona coscialunga disonorata nell’onore di S. Martino; Il west ti va stretto, amico… è arrivato Alleluja di G. Carnimeo; Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer? di G. Carnimeo; 1973: Ingrid sulla strada di B. Rondi; Il brigadiere Pasquale Zagaria ama la mamma e la polizia di M. Forges Davanzati; Lo chiamavano Tressette… giocava sempre col morto di G. Carnimeo; 1979: Ciao cialtroni! di D. Massi (col nome di Stefano Catalano); 1994: Il sesto giorno la vendetta di D. Massi (col nome di Stefano Catalano); Tuono di proiettile di Vincent Ricotta. Stelvio Massi operatore alla macchina 1954: Una donna libera di V. Cottafavi; 1955: Giuramento d’amore di R. Bianchi Montero; Cantate con noi di R. Bianchi Montero; 1956: Ciao pais… di O. Langini; La trovatella di Pompei di G. Gentilomo; 1957: Sigfrido di G. Gentilomo; Solo Dio mi fermerà di R. Polselli; 1960: Giuseppe venduto dai fratelli di L. Ricci; Maciste nella valle dei re di C. Campo228

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galliani; Ursus di C. Campogalliani; 1961: Romolo e Remo di S. Corbucci; I due marescialli di S. Corbucci; Maciste alla corte del Gran Kahn di R. Freda; Maciste nella terra dei Ciclopi di A. Leonviola; 1962: Il figlio di Spartacus di S. Corbucci; Il giorno più corto di S. Corbucci; Lo smemorato di Collegno di S. Corbucci; I quattro monaci di C.L. Bragaglia; Totò diabolicus di S. Vanzina; Il Concilio Ecumenico Vaticano II di A. Petrucci; 1963: Il monaco di Monza di S. Corbucci; Gli onorevoli di S. Corbucci; Per un pugno di dollari di S. Leone; 1964: Massacro al grande canyon di S. Corbucci. Stelvio Massi assistente operatore 1952: Il bandolero stanco di F. Cerchio (non accreditato); 1954: La grande savana di E. Marcelli.

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Ringraziamenti: Ringrazio vivamente per la collaborazione: Danilo Massi (per la testimonianza e le foto di famiglia); l’editore del “Foglio Letterario” Gordiano Lupi; il direttore della Collana Cinema del “Foglio letterario” Fabio Zanello; il sindaco di Civitanova Marche, Massimo Mobili; il presidente della Biblioteca Silvio Zavatti di Civitanova Marche, Marco Pipponzi; l’ex direttore dell’Azienda di Soggiorno e Turismo di Civitanova Marche, Nicola Orlandi; il produttore e distributore cinematografico Salvatore Smeriglio; il capo ufficio stampa della Provincia di Macerata, Sandro Feliziani; Luca Pallanch e Domenico Monetti del Centro Nazionale di Cinematografia di Roma. E inoltre: Giorgio Albertazzi, Mauro Bonanni, Aurelio Ciferri, Stelvio Cipriani, Stella Gasparri, Mario Gerosa, Massimo Mirani, John Saxon, Fabio Testi, Alessandro Tordini.

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INDICE

PREFAZIONE

p. 5

IL TALENTO E LA GAVETTA

p. 9

LA RISCOSSA DEI B-MOVIES

p. 13

CIVITANOVA MARCHE, IL PRIMO AMORE

p. 15

IL RICORDO AFFETTUOSO DEL FIGLIO DANILO

p. 19

A ROMA PER SOGNARE, PRIMI PASSI A CINECITTÀ p. 25 WESTERN E “MUSICARELLI”, ECCO LA SVOLTA

p. 33

GLI ESORDI ALLA REGIA DAL SURREALE AL POLIZIOTTESCO

p. 45

MACRÒ - GIUDA UCCIDE IL VENERDÌ (1975)

p. 47

SQUADRA VOLANTE (1974)

p. 50

STELVIO E L’AMICO STELVIO: UNA MUSICA DURATA TRENT’ANNI!

p. 55

DOPO UN THRILLER, ARRIVANO I TRE “MARK”

p. 60

CINQUE DONNE PER L’ASSASSINO (1974)

p. 65

MARK IL POLIZIOTTO (1975)

p. 68

MARK IL POLIZIOTTO SPARA PER PRIMO (1975)

p. 71

MARK COLPISCE ANCORA (1976)

p. 74

FRANCO GASPARRI UN DIVO DEGLI ANNI SETTANTA

p. 77

UN WESTERN BEN “CAMUFFATO” E UNA PARATA DI GIGANTI

p. 87

IL CONTO È CHIUSO (1976)

p. 90

LA LEGGE VIOLENTA DELLA SQUADRA ANTICRIMI- p. 93 NE (1976)

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JOHN SAXON, DA HOLLYWOOD ALLA “CORTE” DI p. 99 MASSI UN MONNEZZA TRUCIDO E... “RIVOLTATO”

p. 103

LA BANDA DEL TRUCIDO (1976)

p. 105

LO SBIRRO DAGLI OCCHI DI GHIACCIO

p. 112

MAURIZIO MERLI, UN AMABILE SBRUFFONE

p. 116

POLIZIOTTO SPRINT (1977)

p. 121

POLIZIOTTO SENZA PAURA (1977)

p. 124

“CARA CIVITANOVA, TI REGALO UN FILM”

p. 127

UN POLIZIOTTO SCOMODO (1978)

p. 131

GIUSTIZIA VA FATTA, CON QUALSIASI MEZZO

p. 134

IL COMMISSARIO DI FERRO (1978)

p. 138

SBIRRO, LA TUA LEGGE È LENTA, LA MIA NO! (1979) p. 142 MASSIMO MIRANI: “FUI SCAMBIATO PER UN VERO CRIMINALE”

p. 147

MORTE ANNUNCIATA DEL POLIZIESCO ALL’ITA- p. 152 LIANA POLIZIOTTO SOLITUDINE E RABBIA (1980)

p. 154

RICOMINCIARE A… TUTTA VELOCITÀ

p. 157

FABIO TESTI: UN MITO DEL CINEMA ITALIANO ANNI ‘70

p. 162

SPEED CROSS (1979)

p. 168

SPEED DRIVER (1980)

p. 171

LA “SCENEGGIATA” SUL GRANDE SCHERMO

p. 174

GUAPPARIA (1983)

p. 175

TORNA (1984)

p. 178

I DOCU-FILM DA BRIVIDO

p. 181

MONDO CANE OGGI - L’ORRORE CONTINUA (1986)

p. 183

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MONDO CANE 2000, L’INCREDIBILE (1988)

p. 185

L’AVVENTURA AMERICANA E LE “FICTION” RAI

p. 186

TIR-DUE ASSI PER UN TURBO (1987)

p. 189

BLACK COBRA (1987)

p. 190

TAXI KILLER (1989)

p. 193

EROI DELL’INFERNO – HELL’S HEROES (1987)

p. 196

DAL PORNO-SOFT AI BUONI SENTIMENTI

p. 199

ARABELLA, L’ANGELO NERO (1989)

p. 202

L’URLO DELLA VERITÀ (1993)

p. 205

IL TRITTICO FINALE, UN TRIONFO DI AZIONE E p. 207 SPIONAGGIO ALTO RISCHIO (1994)

p. 208

LA PISTA BULGARA (1994)

p. 211

IL QUINTO GIORNO (1994)

p. 214

CALA IL GRANDE SILENZIO

p. 217

POST-FAZIONI STELVIO MASSI E LE STRADE PERDUTE DEL CINE- p. 219 MA ITALIANO di Luca Pallanch STELVIO MASSI, O L’EPIGONISMO DI UN GENERE di Domenico Monetti

p. 223

FILMOGRAFIA

p. 227

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

p. 230

Ringraziamenti

p. 231

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