Pensieri dal carcere 8887847126, 9788887847123


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Pensieri dal carcere
 8887847126, 9788887847123

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Pensieri dal Carcere di Pierre Clémenti

_/\__ /\_ il S i r e n t e

IL SIRENTE FUORI

© Editrice il Sirente Società Cooperativa a.r.l. Via Fonte di Sotto 1, 67020 Ripa di Bagnano Alto (AQ), Italia http://www.sirente.it + [email protected]

© 1973 Editions SEF Philippe Daudy © 1973 il Formichiere © 2005 Éditions Gallimard

© 2007

il

Sirente

TITOLO ORIGINALE

Quelques messages personnels TRADUZIONE DAL FRANCESE

Simone Benvenuti IN COPERTINA

Foto di Chiarastella Campanelli ISBN

978-88-87847-12-3

Il mattino del 24 luglio 1971 suonano al!appartamento romano di uriamica di Pierre Clémenti dove l’attore risiede. Suo figlio Balthazar, di cinque anni, apre la porta. E la polizia in borghese che viene a fare una perquisizione, ben sapendo quel che sta cercando: pochi grammi di cocaina e qualche briciola di haschisch. (Suo figlio dirà poi che era stata la polizia stessa a nascondere la cocaina sotto al letto dicendogli: «Non è nulla, riaddormentati»). Tutto porta a credere che il potere voglia creare un esempio clamoroso. L’arresto di Pierre Clémenti, star del cinema e al contempo icona della controcultura, fa grande scalpore. L’attore viene rinchiuso nella prigione di Regina Coeli sulla base di semplici sospetti, mentre nega di essere stato a conoscenza della presenza della droga nell’appartamento. Aspetterà otto mesi prima di essere giudicato. Condannato a due anni di reclusione, ottiene l’archiviazione in appello dopo diciotto mesi di detenzione. Pierre Clémenti ne uscirà segnato a vita. Il suo libro è una testimonianza contro il codice penale italiano risalente al fascismo, contro il regime carcerario e la società repressiva, perché nelle celle ci sia più luce e umanità.

Balthazar Clémenti

PENSIERI DAL CARCERE

A Louis Aragon

L’arca di Noè

- Signor direttore... In Francia, ci si mette sull’attenti per parlare al direttore. E accan­ to a te, mezzo passo indietro e la mano pesante, i tuoi due angeli cu­ stodi, i due secondini che t’inquadrano come per passarti in rassegna. - Signor direttore, vorrei il mio flauto... Nelle prigioni italiane, con il direttore è sufficiente essere edu­ cati. E sufficiente parlargli gentilmente, con naturalezza, come a un vecchio amico di cui si ha spesso bisogno. In Francia devi salutare, come nell’esercito. - Signor direttore, vorrei poter parlare un po’ più a lungo con mia madre... Ha percorso duemila chilometri per vedermi... Se hai qualcosa da chiedere, devi rivolgerti al direttore. E a lui che devi andare a far visita. E un’occasione per cambiare aria, per sgranchirsi le gambe, per conoscere meglio i corridoi. E anche la speranza di fare un po’ di conversazione. Anche se lui non parla molto. Che sia quello di Rebibbia o quello di Regina Coeli, aspetterà che tu abbia finito di parlare. Ti ascolta sorridendo, un po’ di luce attraversa il suo viso, e questo t’incoraggia a insistere. Ti osserva. Dopo risponderà sì o no. Ti dispenserà un po’ di bontà, o ti rispedirà dai tuoi fratelli, indifeso come loro. E tu ripartirai per un viaggio di ritorno attraverso i corridoi e le scale di ferro, passerai i cancelli e udirai le chiavi, camminerai il più lentamente possibile, 4

respirando a pieni polmoni, per arrivare infine nella tua cella. Tre metri per tre. - Signor direttore, mi permetta di suonare il flauto. Me lo ha inviato una ragazza dalla Francia. Lei non è contrario alla musica? Lo guardi negli occhi, senza aggressività, ma anche senza timi­ dezza. Fissi i suoi occhi, che non possono sottrarsi. La musica non è proibita, vero? Gli sorridi gentilmente. In Francia è veramente come in caserma. Se non saluti, se non ti metti sull’attenti, sei buono per quindici giorni d’isolamento. O trenta, a seconda dell’umore e del tuo aspetto. Quindici giorni (ma non si può più parlare di giorni!) nelle segrete della prigione, solo di fronte a te stesso, cercando una luce che può venire solo da te. Queste sono le regole del gioco. Il saluto o la segreta. Qui ti ascoltano. Se sei educato, loro sono educati. Sì o no, è tutto. - Gli strumenti musicali sono autorizzati solo per i minori. Lei è minorenne, signor Clementi? - Lei somiglia a mio padre, signor direttore... Qui siamo tutti bambini. Nelle mie prigioni romane ho conosciuto tre direttori. Il primo era una specie di apostolo. Un funzionario che si rite­ neva investito di una missione. Padre superiore di clausura, voleva trasformare le prigioni. Diceva: «Farò di questa prigione un centro creativo, invece che di un centro di repressione». Non mancava chi ridesse di ciò — fuori, negli uffici e nei corridoi delle amministrazio­ ni —, ma a Rebibbia non era il solo a crederci. Voleva mettere dei prati nei cortili, perché un giorno i detenuti potessero invitare le loro donne e i loro figli a distendersi accanto a loro sull’erba per un pomeriggio... a prendere il sole... a vedere il tempo passare prima di tornare al lavoro — al loro debito, come si dice. Pagare il loro debito. Quali debiti, non so. Ma c’è chi ha dei debiti. La ragazza mi aveva inviato il flauto perché potessi riceverlo per Natale, ma ho lasciato prima Rebibbia. Rebibbia è la prigione mo­ dello di Roma, liberale e moderna, l’equivalente di Fleury-Mérogis1. C’è più luce che a Regina Coeli, ma ciò non impedisce le rivolte.

i Carcere situato nella periferia sud di Parigi. Con Fresnes e la Sante è uno dei tre prin­ cipali istituti penitenziari della regione parigina ed è il più grande in Europa. [N.d. 77]

- Signor direttore, questo flauto, non avrò il tempo di suonarlo... Glielo regalo. Mi ha guardato e ha sorriso. Si è alzato e gli ho detto: - La sua grande famiglia, le migliaia di figli suoi, lei può scegliere cosa farne di loro: o distruggerli, o aiutarli a vivere, seguendo o meno l’insegnamento cristiano della carità e della fraternità. «Perfino i più diseredati tra loro sono suoi fratelli. Eccoli, con­ dannati a essere irrecuperabili, perché non si esce mai dalle prigioni in cui si è sofferto troppo a lungo... «Lei sa che questi uomini di cui ha la responsabilità potrebbero essere trasformati. Se lo Stato le ha affidato questi ragazzi, non è certo per massacrarli una volta per tutte. Forse è anche perché si dia loro un po’ di felicità e di energia nuova, perché possano imparare qualcosa che li tiri fuori dai guai quando saranno rimessi in libertà. Qualcosa che possa evitare loro di essere sistematicamente condan­ nati a tornare qui, con lei, lei che li manderà nuovamente là dove non devono essere, all’inferno... Il direttore mi ha guardato con aria sorpresa. - Io sono un insegnante. Ho imparato che i colpevoli devono essere condannati e che i condannati devono essere tenuti in condizione di repressione... Non diceva queste cose con cattiveria. Mi faceva pensare a Vit­ torio De Sica nei suoi ruoli migliori. Ho continuato dicendo: - Spetta a lei trasformare la politica di repressione in politica di educazione. Spetta a lei crearla. Ma non la creerà da solo, bensì con tutti gli uomini che sono lì sotto. Tutti gli uomini che sudano nelle stive della sua nave. Se lei oggi farà loro del male, essi le risponderan­ no con il male. Lo faranno perché sanno che lei avrebbe potuto fare del bene e non lo fa. Lei aveva la scelta. Non parlava più, era di fronte all’evidenza, aveva veramente la scelta. Dopo questa discussione, l’amministrazione ha tentato di farmi cambiare carcere: io cercavo di dire le cose con semplicità, di parlare come un figlio parla al padre. E veramente sovversiva la verità detta in un grido d’amore e non già di odio? I miei avvocati sono riusciti a farmi restare in quel carcere, il carcere modello, a quanto pare; mi piacerebbe che lo creassero, il 6

carcere modello; per ora, Rebibbia rimane un inferno nelle mani di militari dai poteri assoluti. - Signor direttore, prenda questo flauto, e se un giorno avrà qui un ragazzo, potrà fargli provare il piacere di suonarlo. Mi ha accompagnato fino alla porta. Diceva che non era facile, che aveva parecchi problemi con i detenuti, perché i carcerati non sono docili ma agitati, come i bambini. Uscendo dal suo ufficio ho pensato che il fatto di riaccompagnarmi facesse parte del ruolo che si era imposto. Cosahafinitoperfarnedi questo flauto?L’hapoiregalatoaqualcuno o aspetta in un cassetto un altro sbandato, un altro viaggiatore o un altro direttore? Il mio primo direttore era troppo buono per Rebibbia. I suoi progetti mettevano in discussione l’istituzione carceraria stessa. Più felicità per i carcerati: che idea folle! Così l’ispettorato penitenziario si è affrettato a sostituirlo. Ci ha riuniti per la sua partenza e ci ha detto semplicemente: «In bocca al lupo!». Al suo posto hanno nomi­ nato un repressivo. Non è durata: tre rivolte una dietro l’altra hanno provocato la sua destituzione. Non è una cosa da poco, una rivolta in un carcere. La guerra, la paura nella pancia, il muso duro dei secondini, le grida, la ferraglia che batte sul pavimento, le porte sbattute, lo stridore dei fischi da un capo all’altro del braccio. La routine è spezzata. Dalle cantine alle passerelle non funziona più nulla, gli ordini non passano. All’ester­ no, i CRS2 italiani, fucili e manganelli in mano, aspettano l’ordine di intervenire. Nel momento della rivolta, le piccole abitudini dei secondini, la partitina a carte, il giro d’ispezione, tutto finisce: hanno paura. E l’indomani pestano per un sì o un no, per scaricare i nervi della tensione alle stelle accumulata in poche ore. Nel cuore della notte silenziosa si sentono salire le grida dai lunghi corridoi di questa città sotterranea. Le guardie stanno massacrando. Alla terza rivolta l’amministrazione ha capito. Era il direttore a non andar bene. Sbagliava col suo carico di anime. E stato trasferito, 2 Le Compagnie! Républicaines de Sécurité sono un corpo antisommossa della polizia nazionale francese, assimilabile alla nostra Celere. L’acronimo CRS identifica per me­ tonimia il poliziotto membro di una delle Compagnie! Républicainei. [Nd. T.]

il duro dopo quello morbido. Ancora una cosa diversa dalla Francia: quando ci sono degli ammutinamenti, si tiene il capitano, è lui che tiene il timone. Una prigione è come l’arca di Noè, con i rappresentanti di tutte le razze e di tutte le classi dell’umanità imbarcati insieme per una lunga traversata. Non si può uscirne: fuori è il diluvio. Si aspetta il ritorno delle colombe, portatrici del loro messaggio di perdono e di pace. Ma in carcere le cattive notizie corrono più rapidamente di quelle buone. Nella più isolata delle celle di Rebibbia si aveva già la notizia delle rivolte nelle carceri francesi e ci si rallegrava di ciò. In Italia, le ragioni della nostra rivolta erano fondate su un codi­ ce penale, su un sistema giudiziario e su un ordinamento carcerario risalenti a Mussolini. Trent anni non sono bastati per modificarli. Si sono insediate centinaia di commissioni, centinaia di onorevoli parlamentari hanno rivolto interpellanze a decine di governi, tutti invano. Il codice fascista è sempre in piedi. E così che nelle carceri ci si ribella. Siamo saliti sui tetti, come a Toul. C era molta gente, gli ospiti anziani, quelli abituati ai colpi duri, ma anche il settore dei minori. Fu una bella notte di festa. Le famiglie di Trastevere erano lì per applaudirci, per salutare l’amico o il parente. I secondini non si ve­ devano più, tanto erano rintanati nelle cantine, barricati come se avessimo voluto la loro pelle, mentre ciò che si voleva era solo far prendere coscienza al mondo dell’esistenza deplorevole che condu­ cevamo, eliminare per una sera le mura del carcere. Certo, come a Toul, per calmarci ci hanno mandato la Celere. Si sapeva come, in Francia, i CRS affrontassero questo genere di problemi. In un’ora o due, con i calci dei fucili o il gas, tutto torna in ordine. Abbiamo dunque invitato allo spettacolo i giornalisti, e i ce­ lerini si sono detti che se si fossero messi a pestare ci sarebbe stato del sangue. Non sarebbe stata una cosa buona per il governo. E la regola del gioco politico italiano: va fatto tutto con prudenza, con flessibi­ lità. Abbiamo parlamentato. Un tipo del ministero della Giustizia ci ha fatto grandi promesse. E, naturalmente, ci siamo fatti fregare. Molti dei poliziotti e dei magistrati in servizio sotto Mussoli­ ni sono ancora lì. E la maggior parte della gente oggi al potere ha succhiato il latte nero del biberon fascista. L’Ordine e la Patria: se si ascolta questa musica per vent’anni, è certo che essa finisce per 8

segnare, per registrarsi da qualche parte in fondo al cervello per non muoversi più. Certo, col tempo hanno preso un po’ di distanza nei confronti del fascismo. Sono diventati, per esempio, democristiani. Non esitano dunque a condannare ad alta voce i «lati negativi» di Mussolini. Ma ciò sinifica che ce n’erano di positivi e che essi non li dimenticano. - Cosa vogliono i suoi detenuti? - Chiedono un nuovo codice... La questione passa dal tetto al cortile, dal direttore al commis­ sario. Ribellarsi contro una legge! Se almeno fosse per i soldi, si po­ trebbe discutere. - Ah!... Tra un anno, prima non è possibile. - Allora date loro subito qualcosa... La notte seguente, i secondini hanno bloccato ottanta ragazzi che si erano esposti troppo in cima ai tetti. Il solito massacro, la routine. Una coperta sulla testa, otto a colpire, uno a incassare. Ma l’indomani, uno dei tipi passava in giudizio. Non ha avuto bisogno di parlare. Ha aperto la camicia e mostrato il petto a quelli che erano venuti al suo processo: i giudici, i giornalisti, la famiglia, gli amici. Nel tardo pomeriggio, le madri e le mogli dei carcerati, centinaia di famiglie, si ammassavano davanti al carcere. Abbiamo ricominciato. - Signor direttore, vorremmo... - Cosa volete ancora? - Vorremmo vedere più spesso le nostre mogli... Vorremmo po­ ter abbracciare i nostri figli... Avere il diritto di toccarli. Niente da fare. Questo codice penale era proprio duro a mori­ re. Ogni giorno, decine di persone venivano rinchiuse sulla base di semplici sospetti, centinaia di detenuti aspettavano, come me, otto mesi, un anno o più, prima di comparire davanti al tribunale per es­ sere processati. Al parlatorio gli avvocati ci dicevano: «Siate pazienti, l’opinione pubblica sta cambiando». Tornando nelle celle, le persone si guardavano: «Cosa si fa?». Un ragazzo ha detto sottovoce: «Sciopero della fame...». Le anime che digiunano prendono forza. Lo sciopero si è esteso. Uno sciopero della fame generale, i secondini e il direttore non capivano. Ci guar­ davano come si guardano dei folli — a distanza, con precauzione. - Cosa volete ora?

- Vorremmo essere felici. Vorremmo dei programmi culturali nelle carceri, per non farci rincretinire. Organizzare concerti, andare a teatro, formare orchestre con le guardie che sanno suonare... Io vedo bene, un giorno, la compagnia di Sing-Sing al Theatre des Nations. Il coro dei guardiani, come quello degli angeli.

io

Le stelle cadenti

Il 24 luglio 1971, alle nove del mattino, mentre dormivo, è arrivata la polizia in casa della mia amica Anna Maria. Ero a Roma per lavoro. Avevo appena terminato il film di un giovane regista italiano, Luca Branconi, sul mito della necropoli at­ traverso le civiltà. Ero Attila. Attila che entra nella Roma decadente e va in una cripta della necropoli sotterranea per essere iniziato da Montezuma, l’ultimo degli imperatori aztechi. Nella cripta mi denu­ dano, mi coprono con un mantello di lana sanguinante, mi mettono in testa un’aquila che afferro immediatamente, strangolandola. Mi dirigo allora verso la tomba di famiglia. Vi trovo un arco e delle frec­ ce, e un cavallo bianco che mi aspetta. Monto e gli grido: «Cavallo, conducimi nelle città sotterranee a salutare i miei fratelli e rispondere al saluto della mano invincibile che pesa sulle nostre teste, al fine di liberare gli uomini dalla loro ignominia!». Il cavallo parte al galoppo attraverso lo studio. E un flash, una scena molto corta, parabola pro­ fetica della caduta dell’imperialismo. Dopo sono realmente entrato nella chiesa sotterranea e ho visto i miei fratelli imprigionati. E stato Balthazar, mio figlio, ad aprire e subito l’appartamento è stato invaso da guardie che rovistavano dappertutto. - I vicini si sono lamentati, spiega un commissario ad Anna Ma­ ria, facciamo una perquisizione. 12

Ero venuto a Roma per meditare sul senso della cristianità. Ho sempre pensato che per essere attore bisogna obbedire a un ordine, a una regola di vita e di pensiero, a un ascetismo quasi reli­ gioso. Per ritrovare il senso del sacro, dei Misteri che furono anche le prime rappresentazioni teatrali. E presentare questa sacralità a spet­ tatori che forse aspettano una rivelazione. Volevo tentare di ritrovare ciò che c’è nella vita di più misterioso e al contempo di più luminoso. Avevo voglia di partecipare a spetta­ coli che liberano la gente, che portano loro la luce, che li sollevano dalle angosce, dal sentimento di colpevolezza che opprime la mag­ gior parte di noi. E così che immagino gli artisti del Medioevo, che avevano per missione di informare il popolo con i loro spettacoli e sono divenuti così saggi, così rivoluzionari che la Chiesa non ha più esercitato su di essi alcun potere di guida. Questi artisti rendevano il popolo troppo intelligente e la Chiesa li ha scomunicati. E quanto è accaduto in America con gli hippies: la società americana trova pericolosi per il proprio «ordine» questi giovani che predicano un ideale di amore, di pace, di creazione, di bellezza. L’ordine di una società fondata sulla violenza e sulla paura, dove la gente si barrica in casa ogni giorno alle nove di sera, con moglie e figli e un fucile carico dietro la porta. Bisognava impedire alla luce di risplendere, di propagarsi. A questo è servito il crimine di Manson: a bloccare il processo, a far sì che il popolo americano si mettesse a odiare le nuove generazioni, a far sì che questo popolo divenisse lo strumento della loro morte. E necessario che si sappia che l’apparato di Stato può compiere le cose più terrificanti, provo­ care odio e distruzione. E se lo si sa, bisogna tentare di impedirlo, dappertutto, al livello della politica come a quello dell’informazione o dell’arte, bisogna combattere per la vita. Per diciotto mesi ho avuto il tempo di rigirare da tutti i lati la seguente domanda: perché, un mattino d’estate, le guardie sono ve­ nute a bussare alla porta di Anna Maria? Già da tempo l’anarchico Valpreda si trovava in galera, da tem­ po si era certi della sua innocenza e la stampa dava grande risalto a questo scandalo. L’apparato di Stato italiano aveva bisogno di un diversivo, di qualcosa che allontanasse l’attenzione del popolo da questa storia, assai pericolosa per il sistema giudiziario e poliziesco. 13

Un buon diversivo che aizzasse nuovamente l’opinione perché essa non fiutasse la corruzione e le imposture. Ci si è subito rivolti verso questi tipi strani, che portano i capelli lunghi e sono sporchi, che si rifiutano di lavorare e si drogano, questi hippies, questi nuovi ebrei. Un pezzo di carne da gettare nella gabbia dei leoni. Cosa avevo fatto io a Roma per meritare l’attenzione della po­ lizia? Avevo lavorato molto, girato uno dopo l’altro molti film, stu­ diato diversi progetti, e per il resto vivevo quasi in clausura. La mia camera era il mio ritiro. Non amo la café society romana. La Roma degli artisti è un vil­ laggio i cui intrighi esauriscono le energie. Tutto questo microcosmo fatto di attori, giornalisti, registi, pittori, è straordinariamente affa­ bile, vi accoglie con generosità, ma ci si accorge subito che esso vive ripiegato su se stesso, in un vaso chiuso. Essi sono, e ne sono forse consapevoli, del tutto privi di efficacia, inutili, «lussuosi». Hanno finito per formare una specie di casta, con i suoi privilegi — il denaro, la protezione dei potenti — e i suoi riti: l’eterna sosta alla terrazza di Rosati, in piazza del Popolo, il giro notturno a Trastevere, a vedere il popolo più da vicino... Una casta i cui membri passano la maggior parte del tempo a riceversi a vicenda, a mettersi in mostra gli uni agli altri, a unirsi e a dividersi, a intromettersi gli uni per gli altri in un girotondo senza fine. Non si può dire che lavorino granché per il bene del popolo - lavorano soprattutto per se stessi, per assicurarsi il proprio piacere egoista. Forse perché mancano d’immaginazione, a dispetto della loro celebrità o del loro potere, oppure perché disillusi, hanno rinunciato a battersi, poiché la complessità dei problemi ita­ liani è al di sopra delle loro forze. Preferiscono lasciarsi vivere, guar­ darsi tra loro morire, e lasciare gli altri crepare nel proprio angolo. E proprio vero che abitano a Roma, la Città eterna, che è come una grande tomba aperta alla luce. Allora, aspettano la notte, si ritrovano la notte, i giorni sono soltanto l’attesa delle notti. Penso al contadino della campagna vi­ cina, che lavora la terra tutto il giorno, una terra indurita dal sole, e che, scesa la sera, rientra a casa, accende il fuoco, guarda la fiamma salire.

Quel che avevo fatto per poter incuriosire la polizia è forse, per l’ap­ punto, il fatto di non essere entrato in questo girotondo, di non aver 14

giocato la parte del divo con macchina di lusso e piccola corte, di essere andato più spesso a discutere con gli hippies o gli operai di Trastevere che con gli habitués di Rosati. Amo il popolino italiano, la povera gente, quelli che sgobbano come bestie per dar da vivere a famiglie incredibili. Sanno molte cose sulla vita, molto di più di quanto credano i potenti. Sanno fino a qual punto il sistema li renda schiavi, ma sono pieni di speranza e di energia. Sono la vera forza dell’Italia. E io avevo, è certo, la barba e i capelli lunghi, una fama di fuma­ tore di haschisch e non abbastanza protettori per essere dimenticato. Le guardie non ci hanno messo molto a trovare quel che cerca­ vano. Anna Maria, la mia stella cadente, l’hanno portata via. Stavano portando via anche me, ma io non volevo lasciare Balthazar, e Bal­ thazar si è arrabbiato. Hanno permesso che mi accompagnasse. Penso al contadino che semina la terra e che lavora forse inconsape­ vole per le generazioni future, perché il mondo continui. Il suo grano o il suo mais sono già il pensiero, la forza misteriosa della verità. Ogni essere che viene al mondo porta in sé una scienza e il suo com­ pito è di farla germogliare su questa terra. Per me la vita è una cosa seria. Non dura a lungo, la vita: trent anni, quaranta, cinquanta? In cinquant anni devi realizzare la tua parte di mondo. E anche se la parte del contadino si limita nel suo modo di vedere a mantenere nella serenità una moglie e dei figli, egli crea per gli altri. La gente non lavora per i posteri, lavora per vivere, ma il divenire del mondo è già presente in quel lavoro. Questo l’ho capito soltanto in carcere. Quando ho visto tutte queste energie riunite in uno stesso luogo, concentrate fino ai limiti dell’esplosione, e abbandonate, rese improduttive. Tutte queste terre incolte. La povera gente dei quartieri popolari di Roma che avevo vi­ sto in famiglia o al lavoro e che era stata incarcerata per un nonnulla, per un piccolo furto, perché senza lavoro, l’ho vista girare in tondo per ore, oppure gridare, in piedi al centro del cortile, senza altro motivo che un’energia da liberare. In Italia, le carceri sono piene anche perché non c’è abbastanza lavoro per i figli del Sud che salgono, ogni anno, a cercare fortuna al Nord. Le carceri aiutano ad assorbire la disoccupazione e il sotto­ sviluppo del Mezzogiorno. Almeno il venti per cento dei carcerati è 15

gente “di passaggio ”, migranti che si spostano da un carcere all’altro, perché c’è solo questo da fare. Non potendo lasciare il paese, perché non hanno denaro sufficiente per emigrare veramente, o perché non hanno compagni installati in Francia, in Svizzera o in Germania, si fanno fregare, e ogni tanto la febbre li riprende, si fanno una banca, un portafogli, la cassa di una drogheria, e subito vengono acchiap­ pati. La logica del sistema li obbliga prima a lasciare il loro Sud, poi a rimanere disoccupati, a rubare e a finire in galera. Il vantaggio eco­ nomico è duplice: diminuire il numero dei disoccupati e alimentare l’industria carceraria, facendo lavorare i fornitori della carceri e l’ap­ parato giudiziario e poliziesco. E il vantaggio politico è di giustificare la mobilitazione permanente di una polizia potente, l’ampliamento dei suoi effettivi, il perfezionamento del suo apparato repressivo. In­ somnia: giustificare l’organizzazione di una forza in grado di blocca­ re qualsiasi movimento rivoluzionario. A Balthazar la polizia non piaceva. - Voglio delle pistole per uccidere la polizia... L’avvocato cercava di tranquillizzarlo, il commissario è interve­ nuto. Balthazar non voleva andar via con l’avvocato. Ecco cosa si fa con mio figlio. Gli si mente. Gli si insegna l’odio e la collera. Gli si mostra il padre colpevole e al contempo gli si dice che non è niente, che lo rivedrà presto... Frottole che le guardie si credono obbligati a sciorinare allorché si trovano davanti un mistero che è al di sopra di loro: un bambino. Cosa hanno loro insegnato le madri? Le mamme italiane sono ammirevoli. Le lupe di Roma. Con i denti e le unghie difendono l’uomo e i figli. La famiglia. Sanno bene che qualche volta l’uomo va a far l’amore con una puttana. Ma poi torna, e se non torna, con la stessa energia strappano ciò che difendevano. Impazziscono. Nelle carceri italiane ci sono centinaia di Medee. Una che ha uc­ ciso i suoi tre figli perché il marito l’ha lasciata per un’altra... Una ragazza alla quale il suo uomo prometteva sempre il matrimonio, e il matrimonio non arrivava. Fino al giorno in cui ha deciso di uc­ ciderlo, e così, clac, ha ucciso anche i due figli che aveva avuto da lui. Queste stelle cadenti non conoscono il compromesso, sono tutte d’un pezzo; se il loro sogno crolla, bruciano tutto. Le donne 16

possono bruciare: sono fertili. La terra può essere coperta di ceneri. Donne, donne, terra sacra della mia nascita, gli uomini sono soltanto polemici. Balthazar è stato perfetto. Attorno a lui c’erano almeno quindici guardie, a parlamentare, a fare a gara in sorrisi. Ma per quanto dolci volessero apparire, il tono non era tale. Balthazar ripeteva, testardo: «Voglio delle pistole per uccidere la polizia...». Io l’ho abbracciato. Eh va, figlio mio!

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La regina dei cieli

Il regime penitenziario è la negazione dell’essere umano, della sua vita. Significa far tornare l’uomo allo stato di feto nel ventre materno, perché si riconverta in macchina benpensante. La società si serve dell’uomo in carcere come di un combustibi­ le. Carbone nella sua caldaia perché sia mantenuta la pressione sugli uomini in libertà, affinché questi conservino piena coscienza della necessità di proteggere questa libertà, i loro beni e le loro comodità. Altrimenti essi dimenticano. Dimenticano che degli uomini muo­ iono ogni giorno nelle caldaie dello Stato, nelle carceri di tutto il mondo, muoiono affinché da qualche parte possano nascere l’amore, la fratellanza, la creazione collettiva. Essere in carcere significa tro­ varsi in prima linea nella battaglia contro i detentori del potere, del denaro, della cultura. Nelle loro celle, nella loro miseria, i carcerati offrono una testimonianza. Essi rappresentano il senso della vita. Sono passato per quasi tutti i meccanismi repressivi della socie­ tà, che fossero case di correzione, collegi statali, ospedali psichiatrici, manicomi criminali e ora, per finire, le carceri. Tutte le voci soffo­ cate che ho sentito per anni raccontano di cosa ne è della verità e della giustizia in questo mondo. Esse esigono che sia data all’uomo in carcere la possibilità di creare, di reinventarsi, di reincarnarsi, al momento della sua “liberazione”, in un universo di amore e di fratel­ lanza. Oggi l’individuo che esce di prigione è infatti minuziosamente fabbricato per farvi ritorno. 20

Tornare in questo luogo di terrore divenuto il suo “focolare”; e la cosa più grave è che egli finisca col sentirsi bene in questo focolare terrificante. Le carceri fabbricano i criminali come le università fab­ bricano i sapienti, le scuole d’arte gli artisti. Che almeno si offra a chi venga condannato da un sistema il mezzo di emergere dagli abissi. I condannati mi hanno insegnato l’innocenza. Sono entrato a Regina Coeli con lo spirito libero, calmo, come per una semplice passeggiata con gli amici. Avevo forse finito con il credere alle favole che i poliziotti raccontavano a Balthazar per tran­ quillizzarlo? Mi dicevo che avrei dovuto aspettare fino al processo e che il processo sarebbe arrivato presto, perché non c’era da fare una grande inchiesta: l’istruttoria era semplice. Regina Coeli è la prigione del popolino di Roma, la casa del­ la sventura dove finiscono immancabilmente i disgraziati, i deboli, quelli che hanno dodici figli e nessun lavoro, quelli che non hanno potuto nutrirsi delle briciole del festino romano. Prigione vecchia quanto la città, pietre nere consumate da centinaia di generazioni di murati vivi. Si è oppressi sia dal loro peso che da quello delle mura. Ma una prigione nella città è fatta dalla città stessa, dalle sue pietre come dalla sua gente. Come la città, ha i suoi traffici, i suoi scandali, i suoi ricchi e i suoi poveri, le sue caste, i suoi signori e i suoi schiavi. Per quanto spesse ne siano le mura, per quanto numerose le inferria­ te e le porte, essa è attraversata dalla vita della città, dai suoi rumori, dai suoi odori e persino dalle sue visioni. A Regina Coeli non ci sono finestre. Le celle, o piuttosto i bu­ chi, sono illuminate soltanto dalle “bocche di lupo”, strette feritoie che si aprono su un piccolo angolo di cielo. Ma dal cortile interno della prigione si scorge, di fronte, una terrazza della città dove ogni sabato le mogli, le fidanzate e le puttane dei detenuti vengono a mostrarsi nude, portando loro un po’ di consolazione. E anche da lì che, durante i quaranta minuti di aria, gli amici, le famiglie e persino alcuni giornalisti ci guardavano, ci gridavano le notizie del mondo, le gioie e i problemi. Come andava il paese, le riforme penitenziarie o come stava l’ultimo nato... E così che ho potuto vedere, nei giornali che circolavano clandestinamente, alcune foto di me che giravo nel cortile.

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La censura è terribile a Regina Coeli. Si ricevevano giornali ri­ tagliati come merletti. Nessuna informazione, né sulla politica né tanto meno su ciò che accadeva nelle carceri italiane o francesi. Se ne veniva a conoscenza egualmente. Lì, come in tutte le prigioni del mondo, il telefono “arabo” funziona a meraviglia. Una stampa underground, un servizio postale underground. Per fortuna, perché le lettere che passavano per le vie ufficiali non arrivavano, o non partivano. Salvo, a volte, in brandelli. Sono certo che la mia posta veniva tutta fotocopiata. E che in qualche laboratorio di psicologia penale qualcuno analizzava chi fos­ si, cosa facessi, quali fossero le mie idee politiche, quelle sul sesso, se mi masturbavo tre volte al giorno, quale influenza avessi sui miei vicini, se ero pericoloso o contagioso. Gente certamente molto seria e coperta di diplomi dedica a que­ ste cose otto ore al giorno. Una necessità di grandissima importan­ za: e se fossi stato irrecuperabile? Bisogna però risolvere la crisi del lavoro, offrirlo a tutti quei giovani appena escono dalle università per incasellarli al più presto e inserirli nel sistema prima che vi si mettano a riflettere troppo. I carcerati sono molto utili, danno lavoro a migliaia di persone. I dieci edifici di Regina Coeli sono concepiti per contene­ re millecinquecento detenuti, ma ne contengono più di tremila. Il sistema è coerente con se stesso. Tremila, più i “servizi”: l’am­ ministrazione, la direzione, le guardie, le cucine, i fornitori, gli psicologi, i cappellani, ne dimentico sicuramente qualcuno. Un carcere non è fatto solo di carcerati. Come del resto non è fatto per i carcerati. Sono rimasto poco più di otto mesi a Regina Coeli. Sino al mio processo, che non ci si è del resto affrettati ad attivare. Otto mesi di detenzione preventiva, in base a semplici presunzioni, nel nome deir«intima convinzione» del giudice e della polizia. Perché i sospet­ tati di essere «drogati» beneficiano di un regime del tutto speciale. Per esempio, non si pensa assolutamente a mandarli a disintossicarsi in un ospedale. E la cura del carcere quella di cui hanno bisogno, e subito. Non hanno diritto al regime di libertà provvisoria. La deten­ zione preventiva è la regola. Le prigioni romane sono piene di gio­ vani di tutti i paesi e di tutte le razze che si è ritenuto indispensabile rinchiudere perché trovati a fumare uno spinello a piazza di Spagna o 22

a Trinità dei Monti... Sono convinto che questi ragazzi non conosce­ ranno mai più la pace. Basta un sospetto, una denuncia infondata, perché il rapporto della polizia arrivi all’ufficio del giudice istruttore e questi dia l’ordine di metter loro le manette: detenzione preventiva. Mesi d’inferno per una sigaretta. E forse per niente, se il tribunale decide l’assoluzione. Vite buttate all’aria. Ecco un pericolo ben più grande del fumare un po’ di erba. L’inizio, i primi momenti sono gli stessi per tutti. Lo sbattere di una porta, la porta della celia che si richiude su di te, e tu resti là, immobile, agghiacciato, ma con il cuore in gola. E vero che senti i battiti del cuore. Prima hai la mente vuota. Impossibile allineare un pensiero dopo l’altro. Respiri, o piuttosto ricominci a respirare. Poi i tuoi occhi si fissano su un punto nel muro. Là, davanti a te. Perché proprio là? Può esserci una scalfitura della pietra, una fessura, una crepa. Il disegno maldestro di chi ti ha preceduto, un sedere o un paio di seni. Pensi: è là da anni. Quanti? Due, dieci, venti anni? Ti sei rimesso a pensare: e tu, per quanti anni? Due, dieci, venti? Ma no..., è assurdo! Ti risvegli da un breve incubo. Eri in un vuoto d’aria, in caduta libera. E finito, passa. Non ti lasceranno qui. I riflessi ri­ prendono a funzionare: il tuo spirito si difende, ti difende. Bisogna sopravvivere, sperare. Ti dici: sono gli altri a crepare qui, non io. E cominci a capire che dovrai batterti anche contro te stesso. Come tutti i carcerati, mi nutrivo non della zuppa disgustosa, ma delle più dolci illusioni. A ogni rumore di passi nel corridoio, a ogni stridere di cancelli, ti dici: «Ci siamo, è per me, vengono a cer­ carmi». A ogni speranza delusa ci si crede meno, ma si finisce con lo sforzarsi a crederci ancora, a mantenere in funzione il meccanismo, a giocare la commedia dell’happy end. Ti passa di tutto per la testa: ci sarà un’amnistia, cambieranno la legge, personaggi influenti stanno muovendo cielo e terra per farmi uscire di qui. Nel momento stesso in cui pensi queste cose, sai che sono solo favole. Le coltivi per qualche giorno, forse una settimana. Avevo letto da qualche parte che Giovanni Leone, il Presidente della Repubblica italiana, era stato avvocato, e mi dicevo: ecco uno che ha potere e conosce la realtà delle carceri. Farà qualcosa... E poi si abbandonano perfino queste flebili speranze. Ho resistito più a lungo di altri: due settimane a sognare l’im­ possibile. Il problema è ignorare la data del processo. Tutto il sistema 23

si regge su questo: potrebbe essere domani, tra un mese, un anno, non lo saprai mai nei primi giorni né nelle prime settimane del tuo arresto. Ed è la ragione per cui malgrado tutto, malgrado i giorni che si aggiungono ai giorni, speri e ti consumi nella speranza. Sapevo di essere innocente, ma sapevo anche che chi entra in carcere è come l’astronauta che entra in un mondo sconosciuto senza la certezza di tornare un giorno sulla terra... Se sai di dover aspettare due o cinque o dieci anni, puoi disporre il tuo animo ad aspettarli in pace. Ma è il tuo processo che aspetti. E sono convinto che questa attesa è fatta per farti dondolare nella follia. Ricordo le parole che mandavo a una stella cadente: «Equilibrio e squilibrio rompono l’armonia della speranza. Resto solo nell’oscurità, nell’attesa che domani accada qualcosa di nuovo, ma lo spirito si affatica a desiderare eternamente la stessa cosa, e il ciclo si perpetua come una morte lenta, perché so che domani nulla accadrà. La giustizia è lenta ed estenuante, e l’innocenza, se anche provata, soltanto ferita uscirà di prigione». La follia ti apre le braccia non appena cominci a capire che po­ tranno passare mesi o un’eternità prima che qualcuno si occupi del tuo dossier. Ciò dipende dalla fortuna, da chi vorrà o meno ascoltare la tua protesta muta. Ciò dipende da troppe incognite che non puoi conoscere né controllare. Un’ingiustizia e una repressione sottili si aggiungono a quelle dell’incarcerazione, a quelle che ogni giorno subisci nella tua cella. Il dispositivo è più raffinato di quanto si im­ magini. Credo di non avere detto una parola per ben due mesi. Come ogni detenuto, avevo diritto a vedere il mio avvocato. Ma a Regi­ na Coeli nessuno entra nelle celle; nessuno, neppure gli avvocati, penetra il cuore della prigione. C’è un parlatorio dove una folla di carcerati conversa con una folla di avvocati. Per due mesi mi sono rifiutato di andarci per incontrarlo. In ogni caso non ne sapeva più di me della data del processo, e io preferivo le mie favole alle sue. Già isolato dal mondo, mi ero isolato anche dalla prigione. Ma non era soltanto disperazione. Nella solitudine estrema l’animo si tempra per la lotta. Il peggio doveva ancora venire. Era per salvarmi che mi isolavo. Come fa un nuotatore trasci­ nato da un turbine improvviso e che ha solo un modo per uscirne:

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lasciarsi andare passivamente a fondo e lì dare un bel colpo di tallone per risalire in superficie. Dopo il silenzio e l’isolamento, dopo settimane di vita vege­ tativa, è arrivata la ribellione. Ho trovato la forza di ribellarmi. Le armi di cui dispone un carcerato sono se stesso, il proprio corpo: ho rifiutato di alimentarmi, ho rimandato in cucina la scodella piena. Più volte, più giorni di seguito. Il direttore ha finito per turbarsi. Lo sciopero della fame, vio­ lenza dei deboli, tocca un punto molto sensibile per i borghesi: la vergogna di abbuffarsi come principi in mezzo alla miseria. Mi ha chiesto cosa non andasse. Cosa non andava? Era il primo a saperlo. Ho chiesto la modifica del regolamento del carcere, il cui solo scopo sembrava essere la distruzione totale del carcerato. Ho chiesto... Il risultato? Hanno ritenuto che fossi un elemento pericoloso, una minaccia per la tranquillità della prigione. Bella tranquillità, certo. Avevo conosciuto la solitudine, stavo per conoscere la cella di rigore. Cinque giorni di isolamento. Cinque giorni: non sarebbero poi così lunghi, se non mancasse l’aria a ogni respiro, se attraverso il buco arrivasse la luce del giorno e non solo un raggio sottile, se non si dovesse bere l’acqua con cui bisogna anche lavarsi. Ma allora, se hai ancora qualche dubbio, tutto si chiarisce, sai con certezza il ruolo che il destino ti assegna in questa prigione. Sei là come esempio. Affinché la tua detenzione non sia inutile, affinché aiuti gli altri, quelli di dentro e quelli di fuori, a prendere coscienza di cosa sono le carceri e di ciò che si può e vi si deve fare senza indu­ gio per impedire che si distrugga l’uomo nel carcerato. Uomini, cosa sono le vostre prigioni? Campi di concentramen­ to, inferni permanenti che bruciano a due passi dalle vostre case. A chi vi viene gettato nessuno tenderà la mano per rendergli più sop­ portabile la sorte, per impedirgli di cadere più in basso di una bestia, e meno ancora per aiutarlo a preparare il suo ritorno alla vita. Sapete che tenere un individuo rinchiuso in una cella ventidue ore su ventiquattro significa farlo morire? Lentamente, e in modo premeditato. Ogni uomo porta dentro di sé il mondo, ma il mondo del carcerato si riduce tragicamente alle quattro mura della sua cella, ai quattro passi della sua passeggiata nel cortile, al nulla che lo circonda. Allora, la repressione riguarda non più soltanto gli atti del passato, il gesto criminale, ma l’animo stesso, abbrutito, distrutto. L’uomo che ucci­ 25

de, uccide anche se stesso. Bisogna punirlo? Certo. Ma se gli si toglie la libertà, che ci si sforzi allora di ridargli una coscienza. Altrimenti è meglio metterlo subito a morte. Ho viso cose terribili a Regina Coeli. E uomini sublimi. Poco prima di Natale a Roma è iniziato un gran freddo, e ancor più a Regina Coeli, dove le celle non sono riscaldate. Ricordo che inviavo lettere pressanti a mia madre per chiederle di farmi maglioni e calzini di lana. Parlavo il più spesso possibile con chiunque volesse ascoltarmi e insegnarmi i misteri della prigione, fosse un carcerato, un prete o un secondino. Il sistema ha paura dell’energia delle masse. Ha bisogno di bloc­ carla o canalizzarla, di tentare a ogni costo di riconvertire ciò che è forza creativa in forza di repressione. Si vanno a cercare gli uomini più rozzi, più puri d’Italia, i figli disoccupati del Sud o i ragazzi del­ le montagne, dell’Adige o degli Abruzzi, giovani di ventanni che non hanno mai visto una città, che non sanno leggere né scrivere. I sergenti reclutatoti fanno il giro delle campagne e fanno loro il seguente discorso: «Venite a Roma, a Milano, è pieno di ragazze, le più belle e dolci del paese, c’è il cinema, vi offriamo una carriera favolosa, guadagnerete centottantamila lire al mese...». Ce ne sono cento, duecento, mille che lasciano la campagna e la famiglia, che scendono dalle montagne ogni fine estate. Si fanno selezioni, test, ne resta la metà. Li si manda a scuola, si insegna loro a leggere e a scrivere. E gli si fa poi firmare un contratto di arruolamento nella Celere o nel corpo delle guardie carcerarie. Si insegna loro a pestare. Gli si dà un po’ d’anfetamina prima delle manifestazioni. E come per i ragazzi del contingente che sbarcavano in Algeria. Si dava loro un fucile e si diceva: «Gli arabi vogliono la vostra pelle, difendetevi...». Vengono inquadrati da vecchie volpi, militari di carriera, specialisti della repressione e del condizionamento psicologico. Si fa balenare la possibilità di una promozione. Se si sposano, ricevono centomila lire, centoventimila al primo figlio e così di seguito. Ed è così che a venticinque anni si ritrovano nel carcere, a fare la guardia a ragazzi che in fin dei conti sono come loro, figli del Sud o delle montagne, loro fratelli. Quando nelle prigioni la tensione sale, quando ci sono troppe proteste, se non aspetti pazientemente la risposta del Ministero alle 26

tue rivendicazioni ti trovi di fronte centinaia di tipi pronti a prendere il fucile e il manganello per massacrarti. Se il Ministero dice no e tu insisti, ti trovi di fronte cento tipi prefabbricati per romperti la faccia finché non ti pieghi alla forza. Per giorni e giorni i loro superiori avevano ripetuto a questi ra­ gazzi che venivano dalle montagne che eravamo gente pericolosa, fondamentalmente malvagia, pronta domani a uccidere le loro mogli e i loro figli, che eravamo irrecuperabili, che capivamo soltanto le mazzate. E dunque essi diffidavano e picchiavano. In una prigione l’armonia è data dall’equilibrio della paura. Hai paura dei secondi­ ni e loro hanno paura di te. Nella situazione in cui ti trovi, è que­ sto circolo vizioso della diffidenza e del taglione che puoi cercare di spezzare. A volte bastano poche parole, uno sguardo, per cambiare l’ordine generato dal terrore. Le guardie più giovani non sono ancora del tutto coinvolte nel sistema o da esso guastate da non capire che tutte le cose loro raccontate sono leggende. Che anche loro si sono fatti fregare. Che coloro che essi sorvegliano sono semplicemente persone che, invece di farsi sfruttare dallo Stato o da un padrone, hanno avuto i coglioni di raccogliere quattro amici per attaccare una banca, visto che le banche saccheggiano il popolo... A volte basta dire la verità alla persona che hai di fronte, anche se è in uniforme, perché questa verità faccia il suo cammino e mini l’impalcatura dei falsi valori che le hanno inculcato. C’erano secondini di ventidue, ventitré anni, che venivano a tro­ varmi in cella. Mi dicevano: - Lei è Pierre Clémenti? - Sì, sono io, Pierre Clémenti... - Ah!... Ho visto Bella di giorno, Benjamin... Ma perché lei è qua? - Sono qui per droga. Mi dicevano: «In Italia la legge sulla droga è dura ». «Sì, è molto dura», dicevo, e poi: - Quanti hanni hai? - Ventidue... - Sai che resterai ancora venticinque anni in questa prigione? - Cosa? - Io sono privilegiato, farò forse due o tre anni e poi sarò libero. Ma tu resterai qui venticinque anni. E perché? 27

- Hai scelto una carriera.... Forse fra venticinque anni sarai ca­ poguardia. No, no, io non voglio restare venticinque anni in prigione! Che farai allora? E molto difficile trovare lavoro qui, sai. Ho firmato per tre anni. Gli dicevo: «In capo ai tre anni vattene, togliti di torno, prendi una nave, viaggia, non rovinare la tua giovinezza in prigione. E bene che tu faccia uno o due anni dentro una galera, così puoi conoscere i tuoi fratelli, accusati di essere irrecuperabili; avvicinati a loro, parla, per non dimenticare che sei un uomo prima di essere un’uniforme, ma poi scappa di qui, vai a vivere la tua vita, parti per l’estero, vai a girare il mondo a creare ciò che hai voglia di creare...». Verso Natale, quattro giovani guardie erano riuscite a imboscarsi col certificato medico: «Non idoneo ad adattarsi all’ambiente carce­ rario». Se ne sono andati per sempre, uno è diventato steward su una nave, gli altri non so. Si può contare sui ragazzi delle montagne, han­ no una buona salute, non hanno bisogno del sindacato dei carcerieri per capire che ciò che fanno è merda. A Rebibbia ci sono state anche evasioni di guardie. La direzione ha fatto installare telecamere interne per sorvegliare i propri secondi­ ni. Ciò dimostra che essi sono in prigione più di noi. Dopo la seconda rivolta, quando la direzione ha dato l’ordine di massacrare quelli che sospettava fossero i capi, su cinquanta secon­ dini che pestavano con Ì loro tubi di piombo, tre hanno rifiutato di obbedire. «Io sono venuto qui solo per tenere le chiavi delle celle, per fare la guardia ai detenuti e non per prenderli a mazzate, non per trattarli come cani». Il tribunale militare li ha condannati a sei mesi di prigione per insubordinazione. Sei mesi dall’altra parte della porta. E si è vista un’assemblea di guardie esigere la liberazione dei compagni incarcerati! Molti secondini cominciano a capire che non si devono massa­ crare i ragazzi. Perché non sono i detenuti a colpire per primi o, se lo fanno, è solo perché provocati alla violenza, per legittima difesa. Una brutta storia ha contribuito a far progredire la verità, get­ tando il turbamento fra le guardie. Un detenuto aveva schiaffeggiato un secondino che lo insultava. Il secondino non ha reagito. Ma nella notte è entrato nella cella di quel tipo con quattro dei suoi colleghi. L’hanno arrotolato nella coperta in cui dormiva. L’hanno colpito sui 28

genitali, forse alla cieca, forse sapendo bene dove puntavano i loro colpi, e quel tipo si è ritrovato castrato. In prigione, tutto si viene a sapere molto rapidamente. L’indo­ mani si sapeva che le guardie avevano fatto una carognata. L’atmo­ sfera si raggela, le porte si chiudono, i silenzi si allungano. Allora i secondini si sentono soli, cominciano a tremare di paura. La rabbia muta dei carcerati è una forza terrificante, che trasforma le guardie in belve impazzite che girano in tondo per ore nei corridoi. Cerca­ no lo sguardo di un ragazzo, non foss’altro che per trovarvi l’odio. Incontrano solo occhi vuoti. L’enorme macchina repressiva è allora bloccata, l’arca va alla deriva, esplode l’assurdità dei gesti, degli ora­ ri, delle regole. La sensazione della profonda e disperata inutilità di tutto questo circo. Sono convinto che la maggior parte dei secondini preferirebbe in quei momenti crepare sotto terra. Per quanto sia fra­ gile e vessata, c’è malgrado tutto un po’ di vita in prigione. Ma può continuare solo grazie a quella specie di complicità che, nonostante tutto, unisce i carcerati e le guardie. Se il bambino testardo non ri­ spetta più le regole del gioco, il gioco s’interrompe. Ho imparato a fare la differenza fra le guardie e i funzionari imboscati dietro le quinte, che non si avventurano mai sulle scale di ferro, nei corridoi delle celle. Ogni prigione impiega un discreto apparato burocratico, caperti che con le loro note di servizio fanno il bello e il cattivo tempo. Che inebriante sensazione di potenza per un sottotenente decidere, nella solitudine del suo ufficio, il menu dei seimila pasti giornalieri. Potere inebriante, e altrettanto redditizio. I veri traffici non si fanno infatti fra i secondini: questi si posso­ no certo comperare, ma per quattro soldi, mentre enormi sono le somme che circolano sottobanco negli uffici. Lo Stato italiano versa all’amministrazione penitenziaria settemila lire al giorno per ogni detenuto. Uno dei nostri passatempi preferiti era calcolare quanto costassimo realmente alla prigione. Prendendo come base i prezzi praticati nei mercati di Roma — senza tener conto cioè degli sconti e delle mazzette di cui beneficiano gli acquirenti all’ingrosso, senza tener conto soprattutto della pessima qualità del cibo —, arrivavamo a un massimo di duemila lire. Ne mancavano cinquemila, che si per­ devano da qualche parte per strada. Un milione mezzo di lire ogni giorno solo per Regina Coeli. Dai carcerati viene decisamente qual­

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cosa di buono! Direttamente o indirettamente, nutrono più parassiti di quanti ne contengano le prigioni.

A Regina Coeli non si lavora. La maggior parte dei detenuti, che si trovano nella miseria più completa, preferirebbe un regime di lavoro, dove è possibile guadagnare quasi quindicimila lire al mese. I pochi lavori indispensabili al buon funzionamento del carcere — cucine, pulizia, infermeria — sono riservati agli anziani o a quelli che stanno per diventarlo. Ho conosciuto un vecchio professore che era lì da venticinque anni. Venticinque anni è il massimo della pena (in Italia non si condanna più all’ergastolo), e va ben oltre il tempo che un essere umano può passare in prigione. Era molto sciupato, cammi­ nava a fatica, ma privarlo del suo lavoro di aiuto infermiere avrebbe significato ucciderlo. Accompagnava mattina e sera l’infermiere nel suo giro, trascinando la gamba, ma fiero del suo ruolo che di fatto si limitava a distribuire ai malati pillole e calmanti. Si era messo a studiare medicina, dava consigli, spiegava ai carcerati le cause delle loro malattie, che il medico ufficiale si accontentava di guarire. Il suo grande timore era il fatto che presto sarebbe dovuto uscire. I venti­ cinque anni volgevano al termine. - Stai per uscire, dottore? - Sì... Ma cosa farò? Parli facile, ma dopo venticinque anni! - Vivrai in campagna, potrai andare a pesca... - Pescavo, quando ero ragazzo, prendevo delle carpe enormi. Ho visto detenuti in angoscia di fronte alla prospettiva della loro liberazione. Avevano paura dell’arrivo di quel giorno come il con­ dannato a morte teme quello della sua esecuzione. Un secondino viene a cercarti. Ti conduce nell’ufficio del direttore. Lo sai già, è la fine ed è l’inizio. Hai diritto al breve discorso di circostanza del di­ rettore. Si spera proprio di non rivederti mai più, ti si augura fortuna in famiglia e nel lavoro... Tu ascolti solo in parte. Quale famiglia? Quale lavoro? Come sono i seni di mia moglie? Gli occhi dei miei figli? Non porto forse su di me l’odore della prigione? Dopo essermi tanto masturbato, sarò ancora in grado di far l’amore con quella che tornerà ad essere la mia compagna? Riconoscerò la strada, la casa da cui mi hanno strappato dieci anni fa? Tutte le domande che ti sei fatto per dieci anni tornano ad assalirti in un secondo. La testa ti gira, hai le vertigini. Il direttore ti fa sedere. Sa che alcuni detenuti, 30

appena varcato il portone, cadono nella polvere, svenuti, fulminati. Dalla prigione all’ospedale, per una difficile convalescenza. I più non tardano a tornare. Neanche «fuori» li si voleva. Con la moglie non andava, con il lavoro ancor meno. In Italia, colui che esce di prigione non è un proscritto, come in Francia. C’è una soli­ darietà di popolo. Egli non viene messo al bando, i suoi amici, i suoi vicini fanno del suo ritorno un giorno di festa. Ma ciò nonostante non ha più un lavoro. E così. Già da tempo altri hanno preso i posti che avrebbe potuto ottenere. Ha addirittura dimenticato il proprio mestiere, se mai ne ha avuto uno, e non ne ha imparati altri. Allora la prigione torna a essere l’unica soluzione. Diventa recidivo. A Regina Coeli, i detenuti con il coraggio, la forza, la pazienza di studiare erano una minoranza. Di tempo, tutti ne avevano. Ma la volontà, la perseveranza? Quella di aprire un libro e di finirlo, di prendere appunti, di seguire corsi per corrispondenza, di passare ol­ tre le battute e le vessazioni dei vicini e delle guardie? Ho conosciuto un detenuto che studiava diritto romano da sei anni. Aveva preso la laurea, era diventato “dottore”. Probabilmente lui se la caverà, una volta «fuori». Ma nulla, nell’organizzazione carceraria, era fatto per aiutarlo, né per incoraggiare gli altri a imitarlo. Procedure estenuanti per ottenere un libro che non faccia parte del fondo — miserabile — della biblioteca, questionari, formalità, scartoffie di tutti i tipi da riempire per essere autorizzati a dare un esame. In otto mesi non ho aperto un libro a Regina Coeli, e a malape­ na leggevo le lettere che riuscivano ad arrivare fino a me. Ma non ho smesso un momento di pensare a tutto quello che si sarebbe potuto fare di queste energie imprigionate, inutilizzate. Tremila uomini che navigano assieme per mesi, anni..., ma incatenati al loro ozio forzato, come gli schiavi in fondo alla stiva delle navi negriere, senza la possi­ bilità di influire neanche un po’ sulla meta del viaggio, che è tuttavia la loro liberazione. Ho capito che là ci sono forze sufficienti per tra­ sformare tutta la prigione in centro di creazione e di studio — studio per gli stessi carcerati, e non per gli psicopoliziotti che li schedano. Ho anche scritto lettere a tutte le stelle che sono cadute nel cor­ so della mia vita: «Fran^oise... Ti spedisco questa, lettera con un mezzo senza censura. Forse quando la riceverai sarò stato giudicato e dichiarato innocente, altrimenti passerò il Natale tra i miei fratelli, lottando per trionfare sulla violenza e restare consapevole. Devi sapere che qui noi 3i

portiamo avanti una battaglia, e, credimi, il sistema carcerario è più difficile da cambiare di quanto lo sia creare il mondo in sette giorni... Il popolo conserva la sua energia, nonostante la repressione. Ognuno di noi è rinchiuso in una gabbia ventidue ore su ventiquattro, come l’animale selvatico che esce solo per un giro di pista a colpi di frusta. Ma noi siamo più forti dei nostri domatori e conquisteremo il diritto a essere rispettati... » Appena prima di Natale il mio vicino di cella è stato ripreso. Era uscito quindici giorni prima. Era un ragazzo cupo, di poche parole, mi pare piemontese. Non ho mai saputo esattamente perché fosse stato condannato, anche lui si dichiarava innocente. Quindici gior­ ni prima di Natale era stato amnistiato. A Natale le carceri italiane si svuotano. Migliaia di detenuti vengono liberati. Molti ci ricasca­ no. Anche lui, visto che lo riportavano nella cella che occupava due settimane prima. Accanto alla mia. Non si sa come fosse riuscito a nascondere alla perquisizione il filo di nylon con cui si è impiccato. Impiccato male. Il filo si è rotto, ma l’osso del collo era già spezzato. Ho sentito il tonfo del corpo sul pavimento e qualche rantolo. Ho picchiato alla mia porta come un forsennato. Non si è aperta subito. Comunque, era ormai morto.

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Un salvagente verso l’ignoto

L’altro mio vicino di cella era un pittore. O piuttosto, dipingeva. Dopo la cella d’isolamento, avevo conquistato il diritto a qual­ che riguardo. E buona regola, nelle prigioni, che, passati i primi mesi — due, tre a seconda del “soggetto” — il regime divenga più mite. Il periodo di osservazione, in cui ti lasciano dibatterti con te stesso, bloccato nel cemento, murato nel silenzio, in cui eminenti specialisti della disperazione testano le tue difese, viene sostituito da un’atmosfera più mite. Passata la prova dell’iniziazione, sei ammesso nel circolo della routine carceraria. Il tuo status si banalizza. Il filo teso della confidenza ti lega ogni giorno di più agli altri carcerati, alle stesse guardie. Si sa che hai superato la prova e che, salvo incidenti, berrai la tua purga fino all’ultima goccia. Eccoti finalmente mem­ bro dell’immensa famiglia, le sei solidale, non attirerai su di essa la rappresaglia dei potenti, non tradirai i segreti che essa divide con te. I volti si aprono al tuo passaggio, diventi il nuovo confessore di confidenze ripetute mille volte e che riacquistano freschezza nella tua qualità di novizio. Tu le senti per la prima volta. I tuoi vicini vengo­ no a parlare con te. I compagni delle tue passeggiate nel cortile fanno sfilare davanti ai tuoi occhi la scena della loro vita. Bisogna direcheilperiododiariasièallungato:dueoreinvecedei qua­ ranta minuti concessi all’inizio, il triplodi passi inpiù, il tempo di saperne di più. - Ci sono giorni in cui sono di buon umore, giorni in cui tengo il muso... Non so perché... Cosa rispondere a questa voce che continua la litania dei mali quotidiani? 34

- Forse è il sonno, i sogni... Sai, mi succede ancora di sognarlo... Non so quale sia il sogno ricorrente del tipo che mi ha preso il braccio per alcuni passi nel cortile. Sua moglie, il crimine che l’ha portato là, il giorno in cui tornerà libero? - Quando entri in un bar, devi pagare, non puoi evitarlo... Quel che è certo, è che il detenuto ha bisogno prima di tutto di parlare. Non basta camminare aspirando con tutte le tue forze allo stesso tempo l’ossigeno e gii odori della città che arrivano fin qui. Il cortile è attraversato da domande e risposte: «Come va il processo? Giustizia di merda! E l’avvocato? Va a fare in culo l’avvocato!» Rapi­ to, sentivo risuonare le ingiurie della lingua italiana. - Anche se prendi soltanto un caffè, non puoi non pagare... - Puoi entrare in un bar e ordinare un caffè. Guardi il tipo che beve accanto a te. Lo guardi negli occhi e lui ti paga il caffè. Mi trascinavo per Saint-Germain. Per fumare raccoglievo cic­ che per strada. Un giorno, un tizio mi avvicina: «Vieni, abbiamo bisogno di te, sono sicuro che tu andrai bene». L’ho seguito in una grande casa, dove alcune persone in costume medioevale recitavano. Si trattava del Procès aux Templiers. Uno di loro è venuto verso di me, mentre gli altri continuavano a recitare. Mi ha guardato negli occhi. Anch’io l’ho guardato, e da questo sguardo è nata una lunga amicizia. Come ti chiami? Pierre Clementi... - Io mi chiamo Jean-Pierre Kalfon. Vuoi fare teatro? Vieni, ti faccio vedere. Il detenuto — Giuseppe, ma tutti lo chiamavano Pino — non voleva credere alla mia storia del caffè. «Queste cose non succedono mai, tranne che nei sogni». Ho tentato di spiegargli che non ripone­ va abbastanza fiducia in chi si ritrovava vicino. Il mondo è pieno di amici sconosciuti che possono aiutarti a trovare il cammino. Siamo nati tutti sulla stessa terra. E così che sono diventato attore. Ho incontrato uno sconosciu­ to che mi ha detto: «Buttati in acqua! Tuffati!». Credo che la prima recita mi sia servita soprattutto a farmi prendere coscienza dei miei difetti. Voce, dizione, corpo, gesti, ho capito che dovevo lavorare, ed è ancora Jean-Pierre che mi ha dato la forza di imparare, il coraggio di seguire regolarmente un corso di arte drammatica. Sono stato al 35

Vieux-Colombier, da Dullin alla Scuola del Theatre National Popu­ late, e sono perfino passato per rue Blanche, al Petit Conservatoire, anche se solo per tre settimane, perché lì non ho resistito. L’importante è che qualcuno riponga fiducia in te, dandoti la possibilità di agire, di creare, la determinazione di compiere ciò che senti dentro di te più o meno distintamente, senza che tu possa an­ cora identificarlo del tutto. Sono sicuro che in ogni uomo c’è un cre­ atore e che dipende dagli altri che questa luce s’accenda o si spenga, che essa trovi o meno il suo cammino. Le prigioni sono piene di ar­ tisti che non sanno a cosa dedicarsi, perché nessuno viene a dir loro: «Ne hai per cinque anni, per venti? Vai, vecchio mio, costruisci!...». Alcuni l’hanno capito da soli, fanno ciò che possono con i limitati mezzi a loro disposizione. Per quanto ridicolo possa apparire il loro gesto allo sguardo dell’“arte sacra” — ho conosciuto persone che raccoglievano tutti i fiammiferi che trovavano per costruirci minuziosamente, amore­ volmente, caravelle favolose, navi che mai navigheranno su nessun mare del mondo - questo gesto rivela la forza creatrice e irreprimibile dell’uomo. In prigione ho conosciuto grandi artisti che impiegavano un anno per dipingere un quadro — ma perché affrettarsi, nessun mer­ cante aspetta la loro merce. Il mio vicino aveva avuto sette anni per l’assassinio della moglie. Quando l’ho conosciuto ne aveva già scon­ tati cinque... era in un brutto stato. Non parlava a nessuno, ma un giorno è venuto a cercarmi. - Dovresti cercare di dipingere... Passava più o meno per pazzo, la gente diffidava un po’ di lui. Si diceva che piangesse in continuazione, che non avrebbe retto il colpo. Ora dovrebbe essere fuori, spero che abbia retto. - Perché non provi? - È difficile, no? Era un esperto di affreschi, aveva dipinto la cappella della prigio­ ne, e sperava che questo lavoro gli avrebbe valso una riduzione della pena. Forse per questo diffidavano di lui: si sapeva che era pronto a tutto pur di uscire al più presto. Per dipingere, diceva, basta sentire. «La bellezza? Per creare una cosa bella, vai all’essenza stessa della vita, al desiderio...».

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Si chiamava Raphael. Ho cominciato a dipingere; un circo che avevo visto da bambi­ no, che ho cercato di rendere come gli occhi dell’infanzia me l’ave­ vano fatto vedere. Lo splendore delle luci, la violenza dei colori, pro­ prio ciò di cui la prigione ti priva. Il circo s’era installato vicino al villaggio dove abitavamo e i nostri zii ci avevano accompagnato, me e mio fratello Maurizio. Avrò avuto sette anni. Ho combattuto con questa prima tela, mi ci sono aggrappato come a un salvagente; non potendo più vedere il mondo, lo dipingevo. Io stesso ero lo spetta­ tore disperato al quale penso spesso quando recito a teatro o in un film: questa persona che è entrata là per caso, per dimenticare un po’. Attraverso l’atto creativo al quale hai partecipato, ti rivolgi in effetti a lui, gli lanci un salvagente che forse l’aiuterà a salvarsi. Il circo era la comunione, la gioia, l’incuria, sentimenti che mi assalivano quando dipingevo, come quando partivamo con gli zii per la foresta di querce da sughero alla ricerca di funghi, o quando passa­ vamo la giornata sulle colline, a dissotterrare le radici di erica che gli zii andavano a vendere in fabbrica. La sera, ebbri di aria e sfiniti dalle corse, ci mettevamo a tavola insieme, divoravamo la zuppa che le zie avevano fatto scaldare a lungo nell’angolo del camino, ascoltavamo il nonno che aveva sempre una leggenda còrsa da raccontare... Il pittore aveva ragione: bastava sentire. E niente è senza dubbio più propizio della cella di un carcerato. Isolato dal mondo, ti apri all’altro mondo, quello dei ricordi, fissi per ore un punto lontano in te stesso, cammini fino all’orizzonte dell’infanzia. O di una sorta di follia, se l’onda delle impressioni antiche ti travolge. E la seduzione e al contempo il rischio del carcere quello di aprire del tutto le porte solo ai fantasmi. Dipingo come i bambini, nello stile detto “naif”; colui che mi ha iniziato alla pittura sorrideva quando gli dicevo che non sapevo da che parte cominciare un quadro. «Dipingi tutto insieme», rispon­ deva. Era quel che facevo, perché sia le impressioni che i ricordi con i quali dipingo si affacciano nella mia memoria tutti insieme. Su un brutto rettangolo del contro-soffitto, su un cartone grossolano, con pennelli e colori da scolaro facevo entrare il mondo nella prigione, tutto in una volta, facevo di ogni immagine naive una finestra che buca le pareti.

Il giudizio del padre

Vedevo ormai i miei avvocati tutte le settimane. Il mio impresario, la William Morris, aveva fatto le cose per bene: avevo due avvocati, Filippo Ungaro e Paolo Appella. Anche in questo, ero un privilegiato a Regina Coeli. Quanti carcerati possono contare solo su un difen­ sore d’ufficio, che senza dubbio farà tutto il dovuto, ma che peserà meno su Procura e giudici di quanto pesi l’avvocato che ti sei potuto scegliere. E ancora così che la giustizia, a dispetto del principio di uguaglianza proclamato dappertutto, pende dalla parte dei ricchi colpendo i poveri. L’istruttoria era praticamente completata, gli avvocati si diceva­ no fiduciosi: «Sai, il giudice istruttore può legare il suo nome a una “prima” in giurisprudenza... Per lui è importante...». L’avevo già incontrato tre volte, per gli interrogatori e i con­ fronti. Tre volte gli avevo ripetuto che ero all’oscuro di tutto, che ero innocente. Sentivo che egli non sapeva bene come trattarmi. Allora, mi parlava come a un bambino, con una dolcezza un po’ forzata. «Ma, signor Clémenti, com’è possibile? Lei abitava in quell’apparta­ mento da sei mesi e non sapeva che c era della droga?». Insisteva, con prudenza, attento a mostrarsi il meno aggressivo possibile. - Ma dicono che lei si droga? - Io non mi drogo. - Ma fuma? - Sì, fumo sigarette... 40

Gli avvocati avevano iniziato una battaglia procedurale — di fatto, una battaglia per i principi: una legge, votata un anno prima, ma, sembra, non ancora applicata, obbliga la polizia a effettuare interro­ gatori e perquisizioni solo in presenza dell’avvocato del sospettato. Evidentemente, le cose non erano andate così in via dei Banchi Vec­ chi, a casa di Anna Maria. I fondamenti stessa dell’istruttoria erano inficiati di nullità. La polizia non rispettava la legge... Si trattava, almeno, di ricordarlo al giudice e all’opinione pubblica. A ogni nuovo incontro con il giudice, senti il cerchio stringersi attorno a te. I fatti rilevanti del tuo passato vengono registrati nel fascicolo. Ma no. Non è questa la tua storia. Tutt’al più è la storia delle tue catene. Io sono diverso da colui che i rapporti descrivono e preten­ dono di aver descritto, fissato una volta per tutte. Protesti: non è possibile che la sentenza che rischi sia già firmata, resa con il solo riferimento alle tue tribolazioni ufficiali da un centro a un asilo, da un «focolare» a una «casa». La tua vita, lo sai, non si ri­ duce a questa lista che, ogni volta che ti viene letta, si allunga di una riga. Tu hai anche costruito. Per quanto spesso ti abbiano rinchiuso, sei uscito, hai lottato, hai superato la prova. «Ciò non risulta nel vostro fascicolo, signor Giudice. Mancano i dati positivi...». Manca sempre l’essenziale nel fascicolo che ti accompagna. «Ma lei non può negare di avere familiarità con questi luoghi, signor Clémenti! Come lo spiega?». Ha poi aggiunto con il sorriso benevolo di chi è pronto al perdono: «Vorrei crederle...».

Il giudice ha respinto il ricorso degli avvocati. La macchina non si sarebbe fermata, il processo si sarebbe svolto. - Ma dove sono le prove, signor Giudice? Ci sono solo sospetti. E vero che il sistema repressivo non mi ha mai fatto regali. Spes­ so mi ritrovavo nella gabbia del commissariato di Saint-Germain, semplicemente perché un’auto della polizia aveva incrociato la mia strada. Avevo capelli lunghi e forse non mi reggevo bene sulle gambe, comunque non abbastanza per poter correre. Non avevo un soldo, e mi capitava di passare due settimane senza mangiare. Quando non nutri il tuo corpo per due settimane e vaghi per le strade, cammini in una luce favolosa, lo spirito della vita abita in te, non hai neppure più da controllare in te il desiderio di mangiare, perché il solo fatto 4i

di continuare a vivere bevendo un po’ di acqua dalle fontane basta a nutrire il tuo spirito. Plani, la luce ti acceca e cadi abbagliato sul selciato, come altri cadono di debolezza. E vero che la società non ha perso occasione per condannarmi. La prima ribellione contro l’ordine costituito porta a sanzioni cui si reagisce con ribellioni che immancabilmente fanno loro eco. Con­ dannato per esserti ribellato, condannato a ribellarti. Forse è perché sono un figlio naturale — non ricordo di avere cono­ sciuto mio padre, mi avevano detto che era morto in guerra alcuni mesi prima della mia nascita, e nella famiglia di mia madre non si parlava molto di lui: non l’aveva sposata. «Nato da padre ignoto», «figlio illegittimo», il giudice aveva ragione d’insistere su ciò che egli chiamava i miei «precedenti»: è dalla mia nascita che parteggio per la trasgressione.

A Regina Coeli ho incontrato un francese, Charlie, che ha preso an­ che lui due anni di galera per aver fumato uno spinello. Era un tipo veramente in gamba. Orfano di padre e di madre, assistenza sociale, case di rieducazione, asili, la Santé, Fresnes3, la solita trafila. Lavava le mattonelle nella prigione e tutti lo rispettavano. Poteva permettersi di dir loro tutto, perché la verità non gli faceva paura. Era molto violento, ipernervoso, ma nessuno diffidava di lui, sapevano che era rodato. Ha finito il suo tempo tre settimane prima del mio processo. Mi diceva ridendo: «Mi farò riacchiappare, è certo. Non potrò essere lasciato in pace, con il mio bagaglio!». Il cappellano l’ha chiamato, alla vigilia della sua uscita. Questi sapeva che senza grana non aveva alcuna possibilità di cavarsela. Gli ha dato ventimila lire. Per partire, per mangiare per strada. Venti sacchi, non è gran cosa, ma ti permette almeno un pacchetto di siga­ rette, di mangiare in un ristorante, dormire in un albergo, trovare un amico che ti apra la porta di casa. E arrivato fino ad Amsterdam, è ancora là, credo stia bene, sgob­ ba, ha trovato la sua stella. Mi mandava cartoline postali a Rebibbia, qualche parola scarabocchiata, semplici come le sue parole abituali: «Credo di essere veramente felice, ho ritrovato il senso della vita. Mi 3 La Santé è un carcere parigino situato in una zona residenziale del XIV arrondissement; Fresnes è una delle maggiori carceri francesi situata alla periferia sud di Parigi. [N.d. 77] 42

chiederai cos’è. Avere qualcuno di fronte a te che ti illumini, un lavo­ ro che ti permetta di mangiare, di non essere più schiavo...». Da sempre mi sono ostinato a identificare mio padre con la so­ cietà. Con la comunità degli uomini. Ma la società con la quale ho avuto più spesso a che fare è quella degli sbirri e dei giudici. Allora, che mio padre sia Buddha!

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Le facce verdi

Il 17 febbraio, sei mesi e tre settimane dopo il mio arresto, mi hanno fatto uscire da Regina Coeli, tra due carabinieri, per una giornata di folla e discorsi, di vertigine. La brutale interruzione del ciclo quotidiano della prigione stor­ disce chi viene tirato fuori dalle sua cella alle otto del mattino per essere condotto in tribunale. Certo, c’è l’attesa: nei corridoi, alle por­ te dell’aula, in macchina; da subito ci si prepara a questo evento, discutendo con gli avvocati, soppesando le possibilità, riaffermando le posizioni. E la prima uscita, e ti si augura che sia il primo passo verso la liberazione, la possibilità di pregustare la libertà che, senza dubbio, sarà decisa in udienza. Ma tutti gli argomenti utilizzati per rassicurarti finiranno per acuire l’inquietudine, e dalla cella all’aula del processo il contrasto è così grande e il passaggio così breve che, quando finalmente sali i quattro gradini di legno che ti portano al banco, finisci per perde­ re l’equilibrio. Sbagli la tua entrata in scena. Almeno ai tuoi occhi, perché per gli altri questo cedimento risponde perfettamente al tuo ruolo di accusato: il tribunale è un teatro in cui nessuno deve uscire dal proprio ruolo e la messa in scena non cambia mai.

- Imputato, si alzi! Non ricordi più il copione. L’abitudine al palcoscenico non ser­ ve a nulla: tremavo, non osavo neppure aprire gli occhi. La folla era la stessa, curiosa e complice, gli stessi amici noti e ignoti, ma niente a che vedere con l’atmosfera dei caffè-teatro... Alla fine sono riuscito 46

a guardare l’aula. In macchina ci avevo messo molto ad abituare gli occhi al movimento della strade che attraversavamo. E ci sono voluti ancora lunghi minuti prima di far entrare in me le immagini del pubblico, identificando le facce che avevo tanto desiderato di rivede­ re e che ora esitavo a riconoscere. «Ciao, Lu Leone, mia madre romana del cinema, che hai raccol­ to Balthazar quando ha perso suo padre...». «Ciao a tutti, amici, che siete venuti a vedermi...». Sono venuti anche i registi, gli attori, i giornalisti. L’avvocato diceva: «Vedrai, sarà un grande processo». Passava in rassegna i pre­ senti, contando le teste. Il calcolo era semplice: la solidarietà di nomi celebri del cinema e della stampa, i flash dei fotografi, le petizioni che venivano fatte firmare perfino nei corridoi avrebbero messo anche i giudici nella condizione di essere giudicati. - Declini le sue generalità. - Pierre Clémenti, nato il 28 settembre 1942, a Paris XIVe, alle sei del mattino... Più tardi i miei amici mi diranno a che punto facessi paura quando mi sono alzato per rispondere alle domande del presidente. Ciò nonostante riuscivo a tenermi dritto, a testa alta. Ma ero pallido come una persona agonizzante a cui il sangue si fosse ritirato dalle vene, avevo le guance incavate e gli occhi infossati. - Ai sensi della legge n. 1041 del 22 ottobre 1954, lei è accusato di detenzione e uso di stupefacenti, avendo il rapporto di polizia stabilito... Non ascoltavo più. Sapevo tutto a memoria. E sapevo anche quali risposte dare. Avrei voluto voltarmi verso Anna Maria, seduta a fianco, sullo stesso banco. Non ne ho avuto la forza. Avrei anche voluto provare il piacere un po’ perverso, come mi ero ripromesso: assistere da spettatore al mio processo, valutare tesi e confutazioni, arringhe e colpi di scena come se si fosse trattato di un’altra perso­ na. Ma non ne ero capace. Semplicemente, non potevo restare in quell’aula della quarta sezione penale limitandomi a obbedire alle ingiunzioni di rito. - Può sedersi. Ricondotto in cella la sera stessa, ho scritto. «...La tenerezza, la calma, il privilegio di sognare, ho incontrato i fratelli in fondo al vicolo cieco 47

in cui il dolore divora il giorno dei condannati, ho errato attraverso i princìpi, ho amato la nascita, l'amore, il destino, la stanza, i rumori della strada. In lontananza il mare si è alzato spumeggiante. E là, lo so, che si trova il giardino meraviglioso che è stato seminato, ho ritrovato la città immobile e viva, ho rivisto i neon di tutti i giorni...». Ho iniziato a scrivere all’epoca in cui mi trascinavo nelle strade di Parigi per scoprire la vita in un altro modo, per scoprire un’altra vita. Avevo rinunciato a cercare lavoro. Ho camminato per un anno a Saint-Germain-des-Prés, la testa rivolta a terra, e da questa solitudine nel cuore della città -Saint-Germain è infatti una vera città nella città, con le sue popolazioni e le sue classi, i suoi riti, gli arrivi e le partenze, lo sparire improvviso e definitivo di gente che si è vista per mesi allo stesso posto, l’apparire di nuovi volti, che in qualche ora diventavano familiari a tutti — è nato un grande bisogno di parlare, il violento desiderio della poesia. Ho scritto, quando ero perfino in­ capace di leggere un libro, di concentrarmi su una pagina, di fissare la mia attenzione su una parola. Ero del tutto incapace di leggere e forse proprio questa mancanza mi ha spinto a scrivere. - Cosa ha da rispondere in sua difesa? In piedi, ancora una volta. Essere là il meno possibile, abbrevia­ re la grande cerimonia. «Confermo quanto ho detto in istruttoria. Sono del tutto estraneo ai fatti che mi sono contestati». Un istante dopo sono già al banco nel mio angolo. Tanto peggio se ho deluso i giudici e forse anche l’aula, che si aspettavano uno spettacolo più appassionante. E un problema degli avvocati. Sono sbarcato a Saint-Germain e praticamente non mi sono più mosso di lì. A quell’epoca, eravamo nel ‘57-‘58, a Saint-Germain c’era gente in gamba: gente che ha conservato un po’ di vita e di calore, che sa ancora guardare negli occhi, riconoscersi, anche se non si è mai vista né parlata. Si tratta di persone attente a rimaner vive, che conoscono la fragilità delle cose, dei sensi, dei sentimenti. Non si fanno molte illusioni, ma sono solidali con tutti quelli alla deriva, poiché conservano gli occhi aperti sul mondo e perfino si battono a modo loro, costruendo per gli altri. Poeti, illuminati, medici, profeti, attori, filosofi, architetti, pen­ so a tutti quelli tra di voi che sono passati molto rapidamente nella 48

mia vita e sono morti, come Adamov, o che continuano un nuovo viaggio forse meno doloroso o forse più di quello che vivevano a Saint-Germain-des-Prés... Scrivere, dipingere, lottare nella mia prigione era un modo di tentare di raccogliere le energie che il tempo aveva disperso, esaurito, significava resuscitare tutta la vita che mi era stata data, per farne una forza capace di aiutare i fratelli, di comunicare loro la speranza creatrice.

- Ma insomma, lei non nega che viveva in questo appartamento come fosse stato il suo? - Sì, ma non sapevo che ci fosse della droga... I giudici sono tre, due uomini e una donna. E lei a insistere. E chiaro che le mie risposte non la soddisfano. E proprio necessario che si accanisca, che mi colga in fallo, e in nome di quale smania rab­ biosa di infierire? Ho la sensazione di farle orrore, che si batta come per proteggere il figlio dalla decadenza in cui crede che io sia finito, che giudichi in nome delle madri che hanno perduto la fiducia dei propri figli. Donna, non respingere la vita, non opprimere i figli con leggi che non sono fatte dalle madri, apriti alla tenerezza... Dopo il processo sono rimasto una settimana a Regina Coeli, ho dipinto, ho rappresentato il mio processo per vederne finalmente lo spettacolo. Il palco, l’aula nella quale ho dipinto gli occhi di ogni spettatore, e i giudici: il verde è il colore che è venuto fuori sui loro visi. Verdi, perché essi sono ai margini della vita, nonostante abbiano sicuramente casa e famiglia e si annoino con le mogli e i figli. Verdi, perché non hanno più il tempo né la voglia di conoscere nulla del mondo: per loro esistono solo i fascicoli, non gli uomini. Non sanno neppure più cosa succede nel loro paese, come vive il contadino, l’operaio, il disoccupato, la prostituta; non lo sanno, ma li giudica­ no, il fascicolo parla chiaro, la carta ha la meglio.

La voce di Anna Maria, lì vicino, mi riporta nell’aula. Si è alzata, vedo la sua capigliatura nera. «Non ho nulla da modificare alla mia deposizione». - Può spiegare come la droga sia potuta arrivare in un mobile della sua camera? 49

Neppure il presidente si rassegna a crederci. Sarebbe troppo semplice, il processo perderebbe gran parte del suo clamore. Un pre­ sidente è là per scoprire i sotterfugi, per non lasciarsi confondere. Di questa specie ne ho conosciuto più d’uno, maestri del gioco, che pongono una domanda solo perché sicuri di possederne già la rispo­ sta. Ciò che puoi dire confermerà allora sempre la sua certezza: tu stai mentendo. E dalle tue risposte si aspetta solo una cosa, che esse ti imprigionino ancor più nella tua menzogna. Tu sei la menzogna, lui è la verità. Quando ero uscito dalla casa di rieducazione di Montesson avevo pressoché una sola cosa: una lettera di raccomandazione per il centro di assunzione delle Poste. Mi hanno preso come postino apprendista. Per un anno e mezzo ho consegnato telegrammi per tutta Parigi. Il tempo di farmi crescere i capelli. Quando sono diventati molto lunghi, un portiere mi ha dato della checca. Ebbene, gli ho risposto! Ha telefonato per segnalarmi. Ho avuto diritto a una nota biasimo, poi a un rapporto del capo servizio, la cui della motivazione in sostanza era: “Capelli lunghi e tenuta bohémienne ”. Tanto peggio per la bicicletta, sono comunque riuscito trovare un posto come fattorino all’hotel Littré. AH’improwiso, Anna Maria si è messa a gridare. - Ma la mia casa era aperta a chiunque giorno e notte. Non co­ noscevo almeno la metà di quelli che vi dormivano! Come potrebbero questi giudici credere in cose così semplici come una casa sempre aperta, accogliente, un rifugio per il migran­ te, una luce nella notte per chi ha errato a lungo? Una casa senza serrature, finestre senza inferriate, la virtù dell’ospitalità. Immagino la loro abitazione, il mazzo di chiavi in tasca e le imposte chiuse per paura che una corrente di aria si porti via i segreti familiari.

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La bella addormentata

Si chiamava Anna Maria anche la donna che ci giudicava. Immagino sempre il giudice come un vegliardo solenne, come il decano della tribù. Invece no, lei non era così vecchia, non molto tempo prima allattava ancora il figlio, ammesso che ne avesse uno. Volevo che durante tutta l’udienza sentisse su di sé il mio sguardo filiale. Mi dicevo: una madre non può dubitare dell’innocenza, una donna che ha amato non può uccidere la giovinezza. Guardami, donna! Sono io a farti giudice, dimentica il tuo vestito di vedova. Il pubblico ministero si è alzato. Improvvisamente ci siamo tro­ vati nel pieno di un processo da melodramma, indice puntato, tono tragico, facili effetti da vecchia volpe del palcoscenico. Per lui era tut­ to chiaro. Io abitavo da molto tempo a casa di Anna Maria, quell’ap­ partamento era frequentato «gente strana» (questa è l’espressione che egli ha usato) e perciò non potevo ignorare che vi si trovasse della droga. D’altra parte molti miei amici si drogavano, dunque anch’io mi drogavo. Ero sbalordito. Mi dicevo: non è possibile, tutta l’au­ la scoppierà a ridere... L’avvocato mi faceva dei piccoli segni: «Non regge, ce la facciamo!...». Ha parlato a sua volta, forse per un’ora. Io non ascoltavo più. Solo una parola riusciva ad arrivare là dove mi trovavo: liberazione.

E arrivata una turista come ne arrivano ogni giorno in tutti gli alber­ ghi. Aveva quel profumo di lusso delle turiste di lungo corso, quel­ le pellicce, quelle valigie sempre più pesanti di gradino in gradino. Veniva da Londra e aveva già prenotato un biglietto per Milano. Il 52

nome di queste città per me sconosciute appagava il mio delirio, e oggi penso che, se ho sgobbato prima alle poste e poi in un albergo, è per ricevere qualche carezza del viaggio, percorrendo il mondo per procura. Essere uscito dalla prigione dei centri sorvegliati non mi bastava, avevo bisogno di errare per terre sconosciute. Passeggera, ti aspettavo da molto tempo, ero sicuro che saresti venuta. Anche tu sei di quelle che non chiudono la loro porta. L’ho aiutata a portare le valigie nella sua camera. Ho cercato il suo sguardo, voglio vedere gli occhi di tutte le donne. Nei suoi ho visto un lampo. Mi ha fatto cenno di avvicinarmi. Ha preso la mia mano nella sua, ha richiuso le mie dita su una banconota. Sorride­ va. Sono andato subito via. Sono corso d’un fiato fino alla porta dell’albergo, come per evadere, ma un ordine mi ha richiamato. Non l’ho rivista per tutta la giornata. Il mio servizio finiva alle otto, ma quella volta non ho lasciato l’albergo. Lei è rientrata verso le undici, attraversando l’atrio senza vedermi; i suoi capelli non erano più sem­ plicemente abbandonati sulle spalle, bensì ricci, e anche più biondi. Mi è apparsa più giovane che al mattino. Non ricordo più quanto tempo ho aspettato ancora, sfogliando un libro senza distinguerne una sola riga. Non ho acceso la luce nel corridoio del terzo piano, conoscevo a memoria la disposizione delle stanze. Sono rimasto nell’oscurità, im­ mobile, spiando i movimenti e i rumori dell’albergo. Amo gli alber­ ghi, regno del provvisorio, di un’incertezza permanente che rassicura molto il vagabondo. Lì non sei proprietario di nulla, non hai alcun legame, né il letto dove ti sdrai né il foglio su cui scrivi. Salvo spalan­ carlo ai quattro venti, per me ogni appartamento finisce con l’essere una prigione. Invece l’albergo dà la vertigine stessa del viaggio, la sensazione che provi quando fumi, che esseri e cose siano sospese, in balia dell’ignoto, propizi alla sorpresa.

Qualche anno fa, a una giornalista che mi domandava se mi drogas­ si, avevo risposto mi capitava di fumare, come a tutti, ma che ero contrario alle droghe, perché non sono un viaggio ma una prigione. Hanno interrogato questa ragazza, Ornella, assillandola di domande. E stata in gamba. E venuta a testimoniare in mio favore. Ciò no­ nostante, hanno considerato la sua intervista come prova a carico. E rimasta sconvolta per la mia condanna, ha tentato di uccidersi. 53

Un suicidio per una domanda, due anni di prigione per una risposta.

L’albergo era tranquillo. Mi sono avvicinato alla sua porta, non era chiusa. L’ho spinta. La sconosciuta sembrava dormire. Sentivo ap­ pena il suo respiro, mentre trattenevo il mio. I miei occhi si sono abituati all’ombra, ma non osavo andare più in là della soglia della camera. - Vieni... Mi hai parlato, o forse ho sognato questo invito. Ho fatto i pochi passi che mi separavano dal letto dove eri addormentata, dove ora sa­ pevo che fingevi di dormire. Ho voluto rompere subito il ghiaccio. - Mi aspettavi? Non ha risposto, ma si è voltata verso di me, appoggiata ai cu­ scini. Ha acceso la lampada da notte. - Vieni, voglio vederti. Mi hai preso la mano tirandomi dolcemente verso di te. - Cosa direbbe il tuo capo se venisse a sapere che entri la notte nelle camere delle clienti? Mi piace la forza tranquilla delle donne, mi piace che, quando hanno scelto una strada, nulla riesce a distoglierle alla stessa maniera in cui nulla impedisce alla stella di descrivere la sua traiettoria nel cielo. Lei sorrideva. Diceva: «Non voglio sapere il tuo nome, con un fattorino io ci faccio l’amore». Ma io avevo bisogno di parlarle, come si parla alla madre ritrovata dopo una lunga erranza. Rideva: faccio l’amore con un fattorino che è poeta...». Voleva darmi dei soldi ma ho rifiutato. - Perché? Va bene così. - Sei stupido. Allora compro le tue poesie. Ebbene, gliele ho vendute. Ciò mi ha permesso di lasciare quel lavoro e di resistere alcune settimane, finché un amico mi ha trovato un lavoro presso un taglia­ tore di pietre. Era inverno e ho avuto un inizio di congelamento delle mani. Per fortuna, due giorni dopo quelli della cava si sono messi in sciopero. Non ci sono più tornato.

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La pietra di vita

- Cosa avete da rispondere? Qui, tra due carabinieri in tenuta da angeli custodi e la sciabo­ la fiammeggiante a portata di mano, o altrove, quando cadevo per strada dalla fame e mi svegliavo in un letto d’ospedale tra due infer­ miere dai camici splendenti, come rispondere? Talvolta è necessario passare sotto silenzio quel che si è, tacere di fronte a chi ti esamina e ti giudica, per farlo riflettere un po’ su quel che realmente sei, sulla tua natura refrattaria, perché cominci a comprendere che quel che cerca di trovare nella tua persona è anche la sua stessa colpevolezza o la propria innocenza. Tacendo, volevo far prendere coscienza ai miei giudici che non dovevo loro nulla, che avevo il loro stesso diritto al rifiuto, che eravamo sulla stessa arca e percorrevamo lo stesso viaggio. Volevo far prendere loro coscienza che l’individuo silenzioso che essi giudicano fa sentire il suono del loro giudizio. «E una cosa aberrante considerare con pietà, come fosse un di­ sgraziato, una vittima, una persona smarrita, chi coscientemente e deliberatamente ha fatto uso di droghe, anche solo nella fase di ini­ ziazione. E aberrante paragonare il drogato a chi fuma abitualmente tabacco o all’alcolista. In realtà, l’uso della droga non permette un cosumo occasionale, moderato e controllabile, perché le sostanze stupefacenti, anche nella dose più leggera, creano sempre un bisogno e una soggezione più grandi».

Quando il presidente ebbe terminato, sapevo che la sentenza era sta­ ta resa ancor prima dell’escussione dei testimoni. Non era il mio 56

processo a svolgersi, bensì quello alla droga e ai drogati. O a co­ loro che avrebbero potuto o che potrebbero esserlo... Che impor­ tanza ha allora preoccuparsi della verità e anche solo della sorte di un individuo, se è sufficiente che il tuo caso sia «esemplare», che tu risponda all’identikit del drogato, che agli occhi di tutti tu pos­ sa incarnarlo, che tu sia adatto al ruolo, insomma. E addirittura più grave ancora, penso, che la droga non fosse là come un prete­ sto, ma come un simbolo. Non è solo alla figura del drogato che si mira, ma anche attraverso di essa ai figli bastardi della società, alla fratellanza degli emarginati, di chi non si conforma alle nor­ me del momento. E la differenza a essere giudicata, a essere rimessa in riga. Avevo sofferto nei primi momenti del processo, perché volevo parlare e non ne avevo la forza, dovevo far uscire parole imprigionate per sei mesi, il tribunale sarebbe stata la mia tribuna. E poi, quando ho capito perché veramente fossi lì e a cosa servisse la rappresenta­ zione del processo, quando ho capito che punendomi la giustizia italiana voleva fare di me un esempio, ho taciuto. Era meglio che ci fosse un grande silenzio in aula, lasciare questi giudici esecutori an­ dare fino in fondo con il loro ingrato lavoro, così che tutti potessero vedere fino a qual punto avrebbero osato. Allora ti fissi, sei il mono­ lito, la statua senza identità che scavando in un campo è appena stata portata alla luce e che rigira agli esperti che la interrogano e la sonda­ no la domanda della loro stessa origine, del loro proprio destino. Tu sei la pietra di vita che chiede: «A cosa servite? Sapete perché siete in questo posto? Siete vivi?» Ho capito che erano morti con il rendere giustizia, con Tesserne gli strumenti. Un procuratore che reclama i «suoi» due anni come se fosse stato umiliato per non averli ottenuti, una sacerdotessa che non celebra altro che la sepoltura della vita, un presidente che si rompe le palle mentre gli avvocati si schierano per salvarti. Ammiro gli av­ vocati mentre tentano di risvegliare questi morti viventi, mentre si ostinano a infondergli un po’ di vita, un po’ di calore, a ridar loro qualcosa di umano, poiché per essi, sprofondati nella noia, il caso è da subito già chiuso e aspettano impazientemente il momento in cui non saranno più costretti a fare le comparse. Il dolore più grande è pensare che essi passano le proprie giornate a rifilare quattro, cinque

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anni di galera, a spedire decine di persone in prigione, e che la sera, quando sono a casa, non hanno voglia di vomitare. Se non possono far nulla per il fatto che le leggi sono queste, se è il sistema a essere responsabile, che almeno si rivoltino o che tentino di trasformarlo. Non sono cristiani questi giudici, hanno forse di­ menticato il catechismo della loro infanzia? Quando l’uomo è stato cacciato dal paradiso non è stato privato della sua sposa, gli è stato permesso di costituire una famiglia, non è stato completamene di­ strutto: loro, invece, distruggono. E distruggono sicuramente più di quanto abbia potuto farlo il delinquente che devono giudicare. Dalla mia posizione di imputato, li ricuso. Il mio silenzio de­ nuncia la pagliacciata delle loro domande. Eccoli tutti occupati a interessarsi al tuo «caso», ad analizzare il mistero della tua vita, a domandarsi solennemente se la tua infanzia difficile — da cui natu­ ralmente viene tutto il male — possa giocare o meno come circostanza attenuante... Falsa premura. Fingono di interessarsi a te mentre ti hanno già dimenticato, ti hanno già condannato, poiché dalle tue risposte non si aspettano certo di conoscerti meglio, ma semplicemente una conferma della condanna già decisa. «La personalità e la condotta di Clementi dimostrano una predi­ sposizione fìsica e psicologica alla detenzione e al consumo di stupe­ facenti...». Il gioco è fatto: nulla ti condanna se non tu stesso, la tua faccia e le tue idee sono una testimonianza sufficiente. - Ma non ci sono prove! - Come? Guardatele! E inconfutabile, in effetti. Non sarebbe cortese da parte dei giu­ dici non convalidare un’auto-accusa del genere, tanto più che essa lascia loro le mani pulite. Si limitano a consacrare l’evidenza. Quella che vuole che tutte le persone con i capelli lunghi siano sospette e che tutti i sospetti siano colpevoli. Per la borghesia, sconvolta perché i figli non vogliono assomi­ gliare ai padri, per tutti quelli che, ritti nell’ordine morale, non con­ cepiscono il fatto che i figli del mondo possano sognare un ideale diverso da «lavoro, patria, famiglia», la droga è diventata la spiega­ zione suprema, l’ultima risorsa. Cosa ti spinge a rifiutare di lavorare al tuo posto in questa società marcia? Che cosa ti spinge a vedere solo disordine, violenza, sfruttamento, ingiustizia, là dove la maggioranza vede comodità e progresso? Cosa ti spinge a denunciare l’esercito, 58

gli asili, le prigioni? La droga, certo. L’idea che non possa essere essa stessa un effetto di questi mali appare loro secondaria, poche persone hanno questa idea, e io credo che in molti abbiano interesse che non si diffonda troppo. E infinitamente preferibile che essa appaia come una causa prima, che ci si serva di essa come di un capro espiatorio, il quale evita appunto che si pongano troppe domande, permettendo di tracciare una frontiera certa tra i «normali» e gli altri. - Vorrei parlarvi dell’inferno delle vostre carceri... - Parlateci piuttosto dell’inferno della droga. - Vorrei... - Non ascoltate, delira. Da questo punto di vista, la legge italiana è perfetta. Essa non stabilisce alcuna differenza tra il consumo, la detenzione, la vendita, il traffico: chiunque faccia uso di droga, piccolo o grande che sia, finisce nello stesso sacco. «Chiunque, senza autorizzazione, com­ pri, venda, ceda, esporti, importi, faccia transitare, procuri ad al­ tri, utilizzi o detenga sostanze o preparati inscritti nella lista degli stupefacenti è punito con una pena detentiva da tre a otto anni e con un’ammenda da trecentomila a quattrocentomila lire». Ciò vuol dire, molto semplicemente, che chi viene beccato a fumare uno spi­ nello ha diritto alla stessa sanzione di chi porta due chili di eroina, che il tossicomane è sulla stessa barca del trafficante: il carcere, an­ ziché la clinica. Probabilmente i giudici hanno ancora la possibilità di attenuare un po’ le sanzioni, ma la legge lascia loro solo un sottile margine di manovra. Il mio processo (sarà almeno servito a questo) ha scatenato nella stampa italiana una serie di polemiche quanto alla ragionevolezza di questa legge. Giuristi e deputati ne hanno chiesto la modifica o l’abrogazione. Mettendo sullo stesso piede il traffico e il consumo (se non addirittura la semplice detenzione), essa contraddice infatti il principio costituzionale dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge: pene identiche per casi identici, pene differenti per casi differenti, come lo sono probabilmente quello del drogato e quello del traffi­ cante. Il nuovo testo, adottato otto giorni dopo il mio secondo pro­ cesso, riserva la prigione al primo, e indirizza l’altro verso un centro di disintossicazione. Spero di aver contribuito a questa revisione; lo spero anzitutto perché escano da Regina Coeli e da Rebibbia i centocinquanta ra­ 59

gazzi che ho visto rinchiusi per un tiro, e perché altri non prendano il loro posto. Dicevo che, quando la legge è ingiusta, tocca ai giudici giocare, correggerne le aberrazioni per quel poco che sia possibile, prendersi la responsabilità senza rifugiarsi dietro un testo dicendo: « E così, cosa possiamo farci noi?»; spetta ai giudici rendere una sen­ tenza più fraterna di quanto non lo sia il sistema, che non lo per­ mette. Ebbene, i miei giudici non si nutrivano di quel pane lì! Non contenti di applicare la legge nel suo stupido rigore, hanno creduto di essere tenuti a giustificarla. Le motivazioni della sentenza che mi condanna concludono approvando la legge per il fatto di essere tale quale è: «Il reale obbiettivo che il legislatore si è proposto appariva senza equivoco quello di estirpare la piaga della tossicomania attraverso un’azione e una regolamentazione vaste e radicali. La necessità, che è unanimemente riconosciuta, di reprimere il traffico di droga fino al livello della distribuzione al dettaglio, non potrebbe mai avere suc­ cesso se non si punissero anche le persone che, per una qualunque ragione, con o senza fine di lucro, alimentano questo traffico, perché è il vizio che suscita la distribuzione della droga e, per via di conse­ guenza, il suo commercio all’ingrosso». Detto in altre parole: per estirpare la malattie, uccidiamo i ma­ lati. I drogati sono gli istigatori, portano in sé il vizio; i trafficanti, dopo tutto, non sono che dei commercianti... Quando ho sentito tutto ciò, questa tiritera ipocrita rivoltante per il suo servilismo, quando ho sentito che era per questo che mi rifilavano due anni, ho capito di aver avuto ragione a opporre loro il silenzio, a lasciarli andare a fondo della loro logica. Ho provato una grande gioia, la conferma che il mio posto era lì, al banco dei pro­ scritti, dentro le carceri, e che a partire da lì avrei dovuto consacrare il tempo che mi era stato dato per portare a termine la missione più positiva della mia vita, lottare e creare con i miei fratelli in prigione. Sono tornato a Regina Coeli fiero di questa condanna, perché, in definitiva, i miei giudici avevano condannato l’innocenza, avevano condannato la creazione, avevano condannato la vita: in breve, si erano condannati da sé. Ho preso questo tempo e abbiamo creato.

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Addio idolo

È arrivato un giorno in cui ho sentito la necessità di andare oltre le parole della poesia, affinché queste parole prendessero corpo dive­ nendo gesti, atti: questo superamento furono per me il teatro e il cinema, la poesia della vita. Un salvagente in mare, una camera d’albergo in un calamaio, un letto con alcuni amici. Dolce voce della strada che geme per le conquiste, per le lotte di potere nei ghetti delle città, in quanti si sono suicidati? Quanti sono quelli che avete divorato? Credete voi che il Principio dei vostri princìpi continuerà?

Io non lo credo. So quel che non sapevo. Seguirò la strada fino a che i fuochi saranno spenti, e il monologo dell’esistenza, dal manicomio fino alla comunicazione, fino al cinema, arte della sopravvivenza. 62

Mi piace molto il cinema, amo l’immagine che è la traccia di quello che hai dimenticato, della parte di te che hai perduto. Molto veloce­ mente, in un istante, ritorni ad avere familiarità con il tuo passato. Io sono stato quell’uomo che corre attraverso lo schermo. E nel mo­ mento stesso in cui reciti, sei già colui che poi ti vedrà. Credo che un film sia un legame che ti unisce agli altri come a te stesso, a ciò che sei stato come a quello che non sei, un luogo di incontro tra fratelli che non si conoscono e i cui destini sono uniti attraverso il tempo e lo spazio dalla casualità di una rappresentazione.

Dopo Jean-Pierre, ho incontrato Marc’O. Stava nel suo angoletto, io nel mio. Un giorno sono venuto a sapere che cercava qualcuno, e sono andato da lui. Stava provando uno spetacolo con Bulle Ogier. - Ecco, abbiamo uno spettacolo, ci piacerbbe allestirlo... Ma non abbiamo denaro... Gli ho chiesto di farmi leggere un pezzo di quello che aveva scritto, si trattava di uno spettacolo intitolato Le printemps. Mi è sembrato talmente favoloso che mi sono buttato e ho fatto lo spetta­ colo. Ho invitato alla prima gli amici di Saint-Germain, Jean-Pierre, Barbout, tutti i ragazzi. Ed è così che dall’incontro con una persona straordinaria e un’attrice meravigliosa si è costituito un gruppo. Abbiamo lavorato assieme per quattro, cinque anni. Abbiamo partecipato alla creazione dei primi caffè-teatro di Parigi. Per noi tut­ to ciò era fantastico, perché ci permetteva di non attendere per anni l’opportunità di recitare in pubblico gli spettcoli sui quali avevamo lavorato. Potevamo fare quello che sognano tutte le persone del tea­ tro: scrivere un testo, provarlo e subito dopo rappresentarlo. Poteva­ mo concretizzare immediatamente le nostre idee, metterle a punto, viverle. Ci è servito molto basarci costantemente su un’esperienza vissuta della scena, confrontarci senza tregua con l’elemento vivente del teatro, e cioè è il pubblico. Questo ci ha permesso di non dover portare avanti le nostre esperienze senza alcun contatto con l’esterno. Tentavamo ogni volta di andare un po’ più lontano, ma partendo sempre da una pratica comune, senza isolarci dagli spettatori, poiché è davanti a loro, con loro, che ogni sperimentavamo sera le nostre nuove idee e testavamo le nostre ricerche. Il gruppo di Marc’O fu un’arca e un viaggio, cinque anni di lavoro collettivo, di superamento, di iniziazione e di invenzione, una

medesima energia che ci nutriva, una comunità di uomini e di don­ ne che univano le proprie forze per convergere verso la stessa fonte, che si davano interamente al gruppo, senza sentirsi frenati da consi­ derazioni di carriera o di successo personale. Questo tipo di lavoro e di vita comunitaria mi ha insegnato molto, anche se in breve tempo diventa per un gruppo sempre più difficile rinnovarsi, perché sono sempre gli stessi a lavorare assieme: ci si conosce troppo e l’abitudine che si instaura rischia di favorire una certa regressione, di portarci a girare a vuoto. Dopo Les Bargasses cominciavamo a essere un po’ conosciuti, e con Les Idoles venne il successo. Certo, era una satira del mondo dello show-businnes, della moda «yé-yé», dell’ideologia e della mi­ tologia «Saiut les copains», ma si trattava anche di uno spettacolo su di noi, sul momento cruciale della nostra vita nel quale ci trovavamo in quel momento: la prefigurazione dell’esplosione del gruppo, della sua disgregazione. E nel destino di ogni gruppo di sciogliersi un giorno, arrivando al termine della traversata. Abbiamo voluto fissare l’immagine del momento in cui ciascuno si trova obbligato a una scelta, nella necessità di seguire la propria strada. Lo spettacolo era una sorta di happening non solamente perché dialogavamo con gli spettatori e gli offrivamo un bicchiere di rosso durante la festa, ma anche perché noi stessi vi eravamo impegnati e implicati. In quel caso il teatro si ricongiungeva davvero alla vita. Il sistema e la tradizione vogliono che gli attori siano macchine per far ridere o piangere la gente, per dare spettacolo a comando. Noi la pensavamo diversamente: recitare significava partecipare a un’avventura che sconvolgeva la nostra vita. Allora il gruppo portava una violenza molto grande dentro di sé, e questa violenza poteva di­ struggerci e anzi avrebbe distrutto il gruppo. Bisognava che non fosse un’energia negativa, ma che venisse utilizzata positivamente, ed è la ragione per cui noi l’abbiamo utilizzata, concentrandola in questo spettacolo. Abbiamo voluto trasmettere questa energia allo spettato­ re, condividere con lui la nostra rabbia perché da questo viaggio di due ore uscisse con una energia nuova. Spero che la nostra violenza sia servita a rendere un po’ più luminosa per una sera la vita dei no­ stri passeggeri, a far loro comprendere un po’ meglio come funziona il sistema che falsifica le nostre vite, che ci imprigiona nelle case, nelle fabbriche, nelle carceri per la «felicità della nazione». 64

Tale era anche la scelta alla quale ciascuno dei «divi» del grup­ po si trovava confrontato: continuare, come avevamo fatto sino ad allora, a decidere liberamente di fronte alle proposte che ci arrivava­ no dal teatro, dal cinema e dalla televisione, oppure lasciarci met­ tere le mani addosso dal business, dagli affaristi, dagli speculatori di «talenti». Lasciarci trascinare nelle manovre che comprano la tua sottomissione con un bella macchina, un bell’appartamento, una bella donna... Denunciando nei nostri spettacoli questo sistema, criticando la macchina che fabbrica gli idoli e li getta sul merca­ to, dichiaravamo il nostro rifiuto di entrare nel suo gioco, di di­ ventare noi stessi prodotti commerciali, di beneficiare dei privilegi legati al denaro — e che alla fine non sono mai che le «attrattive» di una prigione dorata, poiché vieni rinchiuso, vieni condizionato per­ ché tu produca quello che gli investitori vogliono e non quello che

tu vorresti. Ad esempio, quelli che sono a caccia di volti nuovi, della car­ ne fresca dei giovani attori, hanno proposto a tutti noi di lanciarci nell’industria discografica: era sufficiente che firmassimo dei contratti impegnandoci a lavorare come schiavi per un anno e ci veniva garan­ tito che avrebbero fatto di noi delle nuove super-star. No, noi non ci siamo stati. La nostra violenza e il nostro bisogno di indipendenza ci hanno salvato. E giocando a fare gli idoli abbiamo rifiutato di diventare tali, benché per il pubblico marginale dei caffè-teatro noi lo fossimo, in una certa misura. Ma ciò non aveva nulla a che vedere con quel che l’industria desiderava sfruttare di noi, non era redditizio né per essa né, dunque, per noi. L’idolo è anzitutto una macchina destinata a far guadagnare un mucchio di soldi a una piccola mafia. Il giorno in cui non rende più abbastanza, la si lascia cadere, non la si sostiene più pubblicitariamente, è come una statua che precipita dal piedistallo spezzandosi a terra. Ha dato tutto e non le resta più nulla. E stata spremuta fino all’ultima goccia di forza creativa e di denaro ed è divenuta un guscio vuoto. Inutile, morta. Detesto l’inquadramento, mi piace restare aperto alle avventure che il destino trama, e che la mia «carriera», come si dice, non sia regolata, controllata, pianificata per anni da un brain-trust. Credo che solo la libertà, pur implicando problemi, povertà, difficoltà, possa permetterti di creare veramente secondo il tuo spirito, di portare ai tuoi fratelli un messaggio che non li alieni e dia invece loro la forza 65

di liberarsi anche dalle carceri dove lo stesso sistema che vuole ap­ propriarsi della tua essenza li tiene rinchiusi. So che nell’industria dello spettacolo quale è oggi in Francia, completamente marcita dal denaro, è molto difficile se non impossibile tener duro restando fedeli a se stessi; so che è molto difficile conservare la purezza che dà senso a ogni creazione «compilando il contratto» e soddisfacendo gli interessi degli uomini d affari che scommettono su di te. O ti vendi e ti svuoti molto rapidamente, o resti ai margini e ti batti per le tue idee. Ecco perché, giudici romani, ho trovato scandalosa la vostra insisten­ za nel pretendere che io aderissi assolutamente all’idea che voi vi fate del «divo del cinema». Per voi, infatti, un attore conosciuto e squat­ trinato non poteva esistere. Perché il mio processo e la mia condanna fossero esemplari, era necessario non solo che io fossi un attore abba­ stanza noto, ma che fossi anche pieno di soldi. Fatto incredibile, ho dovuto produrre dei testimoni per provare che, a dispetto della mia «carriera» e dei film che avevo girato prima del mio arresto, non ero per nulla ricco, e lungi dal poter concedermi il lusso della droga... - Ma come, voi avete girato un film dopo l’altro... - Ma, signore presidente, informatevi sui film in cui ho lavorato. - Eravate la star di questi film? - Sì, ma essere la star, come dite voi, in film più o meno mar­ ginali e senza soldi, significa essere meno pagati di un figurante di superproduzione... Come fargli capire che non è con i film dei giovani registi che ci si guadagna da vivere? E che, quando si scelgono le sceneggiature, non si gira tutti il giorno per l’industria cinematografica? Quando un progetto e una persona mi piacciono, lavoro per compensi simboli­ ci, e spesso non becco addirittura un soldo — è la mia politica. Ma questa cosa non corrispondeva al suo cliché: Clémenti è un divo, i divi hanno soldi, quindi lui ha i soldi. I divi si drogano, quindi lui si serve del proprio denaro per pagarsi le dosi... Avete anche voi esitato un secondo? Non credo, tanto le cose appaiono chiare a coloro che vivono nella mitologia della star. «Quanto alle presunte difficoltà economiche dell’attore, che non gli avrebbero consentito di acquistare stupefacenti, il tribunale os­ serva che Pierre Clémenti realizzava ottimi guadagni. Prima del suo arresto aveva ricevuto più o meno venti proposte di film, e tre giorni 66

prima di essere arrestato aveva accettato una proposta della televisio­ ne francese per recitare in un telefilm. E dunque fondato sostenere, sulla base stessa del senso comune, che Clementi disponeva di ampie e sicure disponibilità pecuniarie, e che queste promettevano di essere ancor più abbondanti nell’avvenire immediato. Appare allora risibile la tesi, sostenuta dalla testimonianza di un impiegato della società William Morris, secondo la quale l’attore sarebbe senza mezzi né occupazione, alla ricerca di lavoro e denaro». - No, signori, il lavoro e il denaro non vanno necessariamente assieme. E mi si permetterà di ammirare che avete fatto appello al «sen­ so comune»: cosa di meglio di esso, in effetti, garantisce il vostro ragionamento? Il mito funziona pienamente, imperioso, e tu ne sei vittima, anche se non hai smesso di lottare per spezzare l’immagine della star. La maggior parte degli attori che «bucano» non resiste: penetra­ no nell’Olimpo, prendono posto tra i semidei, credono al mito che li deifica e che essi alimentano, rinnovandolo attraverso lo spettacolo della loro vita pubblicitaria. Possono questi idoli — odio la cosa e la parola — suscitare qualcosa di diverso da sogni di paccottiglia e pensieri vuoti: desideri di lusso, di ostentazione, di vanità, di denaro, che intossicano gli spiriti giovani in maniera molto più grave di tutte le droghe? Eccolo, il vero oppio, che svia le energie da un cammino creativo, che inaridisce i cuori, che mobilita le forze vive verso l’obbiettivo meschino e negativo della riuscita individuale. Credo che sia molto più importante, per chi è attore, diventare realmente uomo, imparare a comunicare con i propri fratelli nella semplicità della vita quotidiana, aiutare con il proprio lavoro a met­ tere in luce la parte del mondo che è verità, e non quella che è fasul­ la, prefabbricata, illusione. L’attore è il rappresentante dell’inconscio collettivo, il suo lavoro permette a ognuno di prendere coscienza del­ la propria felicità o infelicità, di tentare di perpetuare l una o di fare cessare l’altra per ritrovare il sentiero della gioia. L’attore può essere la scintilla che farà nascere un focolare da cui ciascuno potrà attingere un po’ di calore, di energia per continuare il suo viaggio. Penso che l’arte debba essere al servizio del popolo, ed è per questa ragione che essa mi sembra inconciliabile con lo status di ido­ lo, che è al di sopra del popolo, che lo domina e lo umilia, che si fa

servire da lui. Io vedo l’artista come un operaio tra i tanti. Egli deve compiere la sua missione quotidiana di rappresentare le gioie e le sofferenze, con serietà e umiltà. Egli, anche, non deve smettere di cercare, di sviluppare la propria esperienza e le proprie conoscenze, e, soprattutto, non deve fermarsi ai fini e ai mezzi che il sistema gli offre. Fermarsi significa morire.

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La strada

Quando ho recitato per la prima volta su un palcoscenico — nel ruo­ lo di un templare — e ho dovuto cavarmela con un testo, una regìa, uno spazio, con la mia voce e il mio stesso corpo (che era la cosa più imbarazzante), ero bloccato, impacciato e teso, avevo l’impressione angosciante di entrare in un universo a me del tutto ignoto, in cui leggi differenti da quelle alle quali sino a quel momento ero stato abituato reggevano il più piccolo fenomeno, il minimo atto, anche il più familiare, come ad esempio quello di salutare e andar via. JeanPierre Kalfon sorrideva garbatamente del mio smarrimento e non sembrava da parte sua messo minimamente a disagio da tutto quello che mi paralizzava, cosa che attribuivo alla sua esperienza. - Proprio per niente! Ascolta, qui siamo tutti principianti e spero che lo resteremo a lungo, perché è questa la nostra forza. Quindi fai quel che puoi e soprattutto non comportarti secondo i modelli che hai in testa... Ho ripensato spesso a queste parole al momento di affrontare un nuovo ruolo: essere ogni volta il principiante aperto a ogni scoperta, non lasciarmi imprigionare in uno stile, in un sistema di abitudini, in quella collezione di tic che è considerata indicativa della maturità di un attore. Per me creare significa fare ogni cosa come se fosse la prima volta, senza mai accontentarsi della tecnica e dell’esperienza acquisite. Significa affrontare ogni volta problemi così radicalmente nuovi che la tua esperienza si rivela — fortunatamente — incapace di risolverli e che essa addirittura diventa per te un impaccio, un freno da spezzare. Significa essere vergine di fronte a ciò che è nuovo. 70

Ho capito in fretta che l’industria aveva poco a che fare con questa preoccupazione di verginità. Essa non aveva come obbiettivo principale quello di facilitare la ricerca né di sconvolgere le abitudini, arrischiandosi in quel che è originale. Lungi da ciò, anzi, poiché essa funziona secondo il principio della ripetizione, poiché sa soprattutto ripetere fino allo sfinimento formule che hanno conosciuto un po’ di successo. Dopo Benjamin, i produttori non mi vedevano altro che nel ruolo del puro adolescente. Dopo Bella di giorno, in quello dell’inquietante cattivo ragazzo... Dunque, non solamente devi bat­ terti per tentare di imporre una nuova immagine di te, ma, ancor prima di arrivar lì, devi cominciare con l’allontanare dal tuo cam­ mino i progetti che ti piovono addosso e che non ti offrono (a un buon prezzo) altra prospettiva che imitare te stesso, prolungare il tuo precedente ruolo. Rari sono i registi che costruiscono, che hanno abbastanza palle per avventurarsi nell’ignoto. Ho avuto la fortuna di incontrarne qualcuno, e non ho incoraggiato gli altri. Il grande incontro, quello che per me ha determinato molte cose, fu quello con Bunuel. Mi avevano detto: «Vedrai, è un tipo strano. Non si sa mai quel che pensa, se se ne frega di te o se è serio...». Mi avevano detto tante cose. Era circondato da una leggenda, dall’aura del genio, aveva familiarità con il mistero e l’insolito. Arrivavo pieno di un sacro terrore e al contempo folle di speranza. Sono stato colpito immediatamente da una cosa, una sola: è un uomo di cui si vede soltanto il volto. Un volto favoloso, lavorato dalla vita, pesante e scavato, con gli occhi incavati, ma con una luce splendente nelle occhiaie scure. Ero incapace di dire una parola, piantato là, non ricordo nemmeno più se si trattava di un ufficio di produzione, di un appartamento o di una camera d’albergo. Osser­ vavo la terra profonda di quel volto, l’acqua chiara dello sguardo. Mi avevano detto: «Parla forte, non si sa mai se è sordo o se fa finta di esserlo..». Ma cosa dire? Mi ripetevo: «devo finirla, devo parlare»; pensavo che il mio silenzio e la mia insistenza nel fissarlo dovessero avere qualche cosa di insopportabile. Un’altra persona si sarebbe sicuramente rivolta a me, avrebbe cominciato a parlare, non foss’altro che per abbassare un po’ la tensione. Anche lui si accon­ tentava di osservarmi. Semplicemente, direttamente, come se ci tro­

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vassimo assieme lì per un esame reciproco senza che fosse necessario ricorrere alle parole per spiegarsi. E quindi entrato un tipo, forse un assistente, non so più. Bunuel si è voltato verso di lui. - E Clementi, mostragli il copione. Se avevo capito bene, ero appena stato scritturato per Bella di giorno. Dopo, ho visto anche le sue mani, le mani possenti dello sterrato­ re, appoggiate sulle cosce mentre stava seduto, come i contadini al Sud quando prendono il fresco alla porta aspettando, immobili, che scenda la sera. In scena non dava molte indicazioni, né ai tecnici né agli attori. Se si poneva un problema, se ad esempio era impossibile eseguire una carrellata come era stato previsto, la cosa non aveva nes­ suna importanza, la scena sarebbe andata bene lo stesso... Nessun regista con cui ho lavorato sembrava preoccupato meno di lui dei problemi estetici. Per tutto quanto si dice costituisca la scrit­ tura stessa, lo stile di un film — colori, inquadrature, luci, movimenti — pareva affidarsi completamente alla sua troupe. Poche ripetizioni, poche correzioni della recitazione, una messa a punto sommaria, e si girava nel modo più semplice del mondo. Il fatto è che il film era già costruito, i personaggi, le situazioni, i caratteri così marcati, così lavorati al livello di sceneggiatura, che non dovevano far altro che seguire la loro traiettoria, compiere il loro destino così come era stato chiaramente e ineluttabilmente tracciato. Tutto avveniva come se la sola presenza del regista, anche nella sua apparente inattività, fosse sufficiente ad assicurare la coesione finale degli elementi del puzzle. Con nessun altro regista ho provato un tale senso di fiducia, e probabilmente nessun altro ha quanto Bunuel la cognizione rigorosa dell’obbiettivo che si è fissato e la certezza di raggiungerlo. Nulla conta più — né rischi nelle riprese né difficoltà nella recitazione — di fronte alla forza tranquilla dell’idea che domina tutto il film, dal suo concepimento alla sua realizzazione, senza che ci si preoccupi mai dei dettagli. Lavorare con Bunuel significa imparare l’economia e la semplicità. Significa imparare a tener conto solo di ciò che è neces­ sario e strettamente utile, mettersi totalmente al servizio di ciò che è fondamentale: la logica sovrana del sogno. Significa dunque fare a meno, senza neanche che lui debba chiedertelo, degli abbellimenti 7*

e degli effetti ai quali si è sempre tentati di ricorrere e nei quali, alla fine, ci si perde. Tuttavia questa semplicità è sottile. La canaglia di Bella di giorno non è un personaggio tutto d’un pezzo. Doppio, ambiguo, indeci­ dibile, è come tutti i personaggi di Bunuel, angelo e demone, bello e brutto, violento e calmo. Ne ho incontrati di tipi così in prigione, marci e al contempo puri, seri e aH’improvviso attraversati dal ful­ mine della follia. Nemmeno il Cristo-Diavolo de La Via lattea era facile da comprendere e interpretare. Ma la contraddizione che batte nel cuore di tutti questi personaggi è la loro forza e la loro verità. Se Bunuel non dà mai ai suoi attori spiegazioni né addirittura indica­ zioni sulla psicologia del loro ruolo, è perché il discorso va oltre la psicologia. Che ci sarebbe da spiegare? Atti e comportamenti de­ terminano conseguenze logiche e allo stesso tempo contraddittorie. Non c era infatti bisogno che parlasse molto, il padre che conosce i sogni dei propri figli e li realizza, nonostante i loro errori. A volte non ne potevamo più e, durante il pasto, qualcuno della troupe si lanciava, interrogando Bunuel sul significato della scena ap­ pena girata. Faceva orecchio da mercante, ma dal suo sorriso un po’ ironico si vedeva che aveva capito bene la domanda. Insistevamo. - Ma perché? - Vi giuro che non c’è nulla da capire. - Ma non è possibile, c’è un significato simbolico... Allora si arrabbiava — o fingeva di arrabbiarsi — e tagliava corto dicendo: «Dopo tutto, non ne so più di voi, cercate pure, io non cerco». Penso che se gli si domandasse a cosa potessero servire tutte le strade che si vedono nei suoi ultimi film, La Via lattea o IIfascino di­ screto della borghesia, risponderebbe: «A camminare». La mia risposta è che in effetti esse servono a viaggiare, a farti compiere un periplo senza inizio e senza fine al cuore di un paese che ti sembra familiare ma che non riesci a riconoscere, a farti girare in tondo attorno alla tua verità nascosta.

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Il tribunale illuminato

Mi rimettono le manette. - L’udienza è sospesa fino alle quindici. Le manette italiane sono veramente incredibili. Più pesanti di quelle francesi, anzitutto. E infinitamente più barbare. Non hanno nulla del bracciale di acciaio che si limita a cingere i polsi, che li lega uno all’altro consentendo una certa comodità: assomigliano piut­ tosto a uno strumento di tortura. Le barre di metallo nero, lunghe più di quindici centimentri, stringono il polso come le pinze di una morsa e, raffinatezza supplementare, sono dentellate, in modo da poterle regolare con precisione e anche, se si vuole, stringere un po’ di più... Il carabiniere conosceva molto bene il loro funzionamento. Ha lasciato un po’ di gioco tra il metallo e il polso. Probabilmente rite­ neva che non fossi proprio in condizione di ribellarmi. In effetti, per tutta la mattinata avevo oscillato al mio banco. La maggior parte del tempo assente, errando nei miei pensieri, e, quando tornavo in aula, sconfortato dalla ridicola farsa che vi si stava recitando. Mi aspettavo molto dal pomeriggio, perché non sarei stato più solo sul banco degli imputati, di fronte ai tre giudici. Era il turno dei nostri testimoni. Quando ho visto Fellini arrivare in sala passando per la porta la­ terale e avvicinarsi alla sbarra, ho avuto la sensazione che fosse un po’ come se giudicassero anche lui. Anche il semplice testimone estraneo alla vicenda che viene a deporre per solidarietà deve provare, di fron­ te ai giuidici, di fronte all’apparato cerimonioso della magistratura, tutto il peso della giustizia. Penso che sentire questo peso significhi già essere in posizione di accusato, di giudicabile. Anche se rispondi alla convocazione del tribunale solo per testimoniare in favore di un amico giocando la tua carta per farlo uscire, nel momento in cui ti trovi alla sbarra non sei già più per niente uno spettatore, sei in 76

scena, partecipi alla rappresentazione, è a te che vengono rivolte le domande e sei tu la persona che ci si sforza in qualche modo di far confessare.

Non avevo mai lavorato con Fellini, ma l’avevo incontrato spesso quando preparava Satyricon. Mi aveva proposto una parte. Allora avevo i capelli fino alle spalle. Mi si è avvicinato e con le mani ha sollevato i miei capelli liberandomi il volto. - Devi mostrare le orecchie. Hai le orecchie appuntite di un lupo, non devi nasconderle. Mi diceva che per lui un film è anzitutto una successione di vol­ ti, una sfilata di teste. «Passo mesi, dieci ore al giorno, a veder facce. Metto annunci sui giornali popolari di Roma: Fellini cerca fornai, donne delle pulizie, pescatori. Vengono a centinaia. Passano tutti per questo ufficio, un minuto, due. Io scelgo le facce. Il popolo romano ha le teste più meravigliose nel mondo. E solamente da loro che è possibile vedere i tratti della vecchia razza mescolati, trasformati, sconvolti dagli incroci, appesantiti o deformati fino alla caricatura. Faccio fotografie di queste teste e le comparo per ore, combinandole e costruendo scene tra soli visi. Quando ho finito, quando ho scelto la mia galleria di ritratti, è come se il film fosse fatto. Tutto quel che segue — scenografia, costumi, dialoghi e anche il dettaglio dell’azione — è la diretta conseguenza dei volti di uomini e di donne del popolo di cui mi sono innamorato...». Anch’io mi sono innamorato di Fellini e della sua testa che as­ somiglia a quelle dei suoi film, ma in quel momento della mia vita non ero molto entusiasta di lavorare con lui. Le sue riprese sono infatti un po’ come la fabbrica, e soprattutto il Satyricon era come la Fiat, centinaia di attori, migliaia di operai, di figuranti, di artigiani all’opera per mesi, una città intera da costruire e da abitare, l’eser­ cito, insomma. Gli ho detto che mi seccava un po’ entrare in quel calderone, uno in più, che avrebbe cambiato poco se al mio posto avesse preso un pittore o un muratore dalle orecchie appuntite, che sapeva bene che se accettavo era solo per tirar fuori qualche soldo al produttore ed era quindi meglio, se volevamo che si trattasse di qualcosa di diverso, di una creazione comune, aspettare progetti più calmi. Credo me ne avesse voluto un po’, e ciò nonostante era lì, alla sbarra, con i capelli scompigliati.

- Cosa avete da dichiarare in difesa dell’imputato? - Signor presidente...

Mi piacciono molto i registi italiani, Fellini, Visconti, Pasolini, Ber­ tolucci, De Sica, Franco Brocani... Penso che siano gli eredi diretti dello spirito del Rinascimento. Hanno il senso della bellezza e della raffinatezza, ma non sono isolati dal popolo. Non si comportano come un’élite, un’aristocrazia di artisti che vivono come parassiti delle elargizioni del sistema, e ciò nonostante sono, come si dice, “arrivati fin là”. Penso che lavorino veramente per le masse popolari italiane, che sappiano mettere la loro antica e vasta cultura al servizio della vita. Pasolini, ad esempio, un san Paolo a modo suo, vuole essere portatore di uno spirito del popolo, ritiene di avere per missione di liberare il popolo italiano dalle costrizioni morali e dalle regole cattoliche che lo hanno castrato per secoli, rendendolo vergognoso del proprio sesso. Allora è andato a scavare alle radici popolari della cultura italiana, trovando una grande libertà morale, e con i suoi film dice al popolo: «Ecco come eravate. Perché siete cambiati? Che cosa volete tutti voi? Avere delle donne, fare l’amore?» Allora Pasolini di­ pinge grandi affreschi erotici, fa dimenare il culo alle più belle donne al mondo, come se spedisse a milioni di amici cartoline postali un po’ pornografiche... L’Italia si muove, i tabù sessuali crollano, si hanno meno com­ plessi, e tuttavia il rapporto di polizia sul mio arresto diceva che l’ap­ partamento di Anna Maria era sorvegliato da parecchi mesi, perché i vicini si erano lamentati delle «orge» che lì si tenevano. Avevano incontrato delle ragazze nude sul pianerottolo. Ogni notte sentivano grida d’amore. C’erano feste che duravano fino all’alba. Scandalo. Vedi, Pasolini, hai ancora molto lavoro da fare! Il presidente non parlava più, che fosse Fellini a rivolgersi a lui. Penso che i giudici italiani fossero impressionati, ma che soprattutto non volessero apparire tali, e hanno quindi assunto l’aria altezzosa di co­ loro la cui veste li pone al di fuori della portata di ogni sentimento umano. - Ho incontrato Clémenti due volte. La prima volta ho passato molti giorni con lui. Lo avevo scelto per uno dei ruoli del Satyricon, 78

gli ho parlato a lungo e non ho mai avuto l’impressione che fosse drogato neanche un poco. Mi sembrava una persona affascinante, che ispira la simpatia e la tenerezza, che cerca i consigli e si preoccu­ pa di comprendere a fondo i problemi del proprio lavoro. Un attore coscienzioso, insomma, e un uomo squisito. Hai detto queste parole lentamente, senza effetti di voce, ed ero allo stesso tempo fiero e pieno di vergogna, con te tutti gli artisti italiani venivano a testimoniare che finalmente ero uno di loro. Ho girato più film in Italia che in Francia, e film forse più importanti, più vicini al senso che do all’atto creativo. Era come se gli artisti italiani, delegando al processo Fellini e De Sica, si esponessero tutti a prende­ re due anni di prigione. Fu una protesta comune contro un processo che era anche una forma di censura. Il cinema italiano non ha mai esitato a denunciare le ingiustizie, gli scandali, le manovre della giustizia e della polizia. E così che, di quando in quando, il potere tenta di dare un giro di vite. Sa infatti quale forza considerevole possono rappresentare gli artisti, gli intel­ lettuali e i giornalisti in Italia e di questa forza ha paura. Sono loro a essersi battuti per Valpreda, a non aver mai smesso di smascherare le menzogne, i cattivi pretesti della polizia e delle istruttorie, ad aver criticato il codice penale, il sistema della detenzione preventiva, le lentezze calcolate dei tribunali. E grazie a loro che la polizia non mette più in prigione, non uc­ cide più, non “suicida” ancora tutte le persone che le danno fastidio. Credo che per condurre una lotta del genere sia necessario molto coraggio, perché in Italia il potere della polizia è tale che nessuno, nemmeno gli artisti, per quanto celebri, può sfuggire alla sua minac­ cia. Sono stati intentati processi a Pasolini, a Bertolucci... Una lettera anonima, una storia di ragazzine o di ragazzini, una perquisizione truccata in cui gli sbirri “trovano” un po’ di droga in casa tua, le tue conversazioni telefoniche spiate costantemente, i tuoi incontri sor­ vegliati: tutti, anche se si chiamano Fellini, sono forzatamente alla mercè della polizia che può mandarli in galera, se lo ritiene necessa­ rio alla sua concezione dell’ordine. E per tale ragione che la vostra solidarietà mi toccava, ridandomi fiducia. Un po’ di luce entrava nel tribunale, illuminando l’anima dei giudici. Mi avrebbero condannato comunque, probabilmente, 79

ma ciò era meno importante, ora che non sarei stato condannato più da solo. Quel che improvvisamente per me diventava chiaro era so­ prattutto il senso della mia presenza a questo banco del tribunale di Roma. I testimoni si indirizzavano anzitutto a me: «Pierre, stai tranquillo, non hai avuto torto a scegliere un giorno l’Italia come tua patria del cuore. Non hai avuto torto a preferire di lavorare con noi, per noi. Siamo venuti a testimoniare che qui, tu hai trovato dei fratelli...».

Ecco, quasi dieci anni fa sono sbarcato per la prima volta alla Stazio­ ne Termini di Roma, centro vivo del paese, dove convergono tutte le strade che lo attraversano. E per questi dieci anni credo di aver vissuto più spesso in Italia che in Francia. Amo questo paese e il suo popolo, anche se non provo alcuna simpatia per la sua classe dirigen­ te, completamente corrotta, asservita al profitto mentre tratta i pove­ retti come schiavi buoni solo a faticare per lei. Ma il popolo è grande, forte, a dispetto delle divisioni che permangono al suo interno, tra Nord e Sud, tra una regione l’altra, tra città e campagna, a dispetto dell’oppressione secolare della Chiesa, a dispetto della lunga purga del fascismo. E qui che mi sento bene, in questo regno delle famiglie e dei bambini, su questa terra di fermento e fecondità.

Mi trascinavo a Saint-Germain. Avevo finito per conoscere quasi tutte le glorie del quartiere. Alain Delon, che girava non pochi film, sapeva che ero del tutto squattrinato, alla deriva. Una sera lo incon­ tro a due passi dal Flore: «Vieni, ti porto a Roma. Giro con Visconti, ti troverà qualcosa, una piccola parte». Ho accettato, naturalmente. Sono partito così com’ero, in jeans e giubbotto di pelle. Il giorno dopo era la festa del sole. Ho visto Visconti nel suo palazzo, in mezzo alla sua corte. E venuto verso di me e mi ha afferrato le mani ridendo. - Per un giubbotto nero, hai mani da principe... E così che ho fatto qualche scena ne II Gattopardo e, soprattutto, ho preso gusto all’Italia.

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posta della sera

Facciamo appello, è chiaro. Caro Pierre, soprattutto tieni duro. Non dimenticare che, fintanto che la senten­ za definitiva non sarà pronunciata, tu non sei condannato e il tuo status è sempre quello della detenzione preventiva, anche se sappiamo bene che concretamente non cambia nulla per te. Il tuo avvocato, Paolo Appella.

E così che ci si nutre di speranza, di promesse, di considerazioni giuridiche che permettono di sopportare un po’ meglio la durez­ za dei fatti. Ero raggiante nell’aula d’udienza quando la sentenza fu resa, ma la gioia di essere nel vero, che si avvicina all’esaltazione del martire, non è durata a lungo. Al ritorno nella mia cella di Regina Coeli avevo la nausea. Mi sono messo a dipingere furiosamente, a schiacciare con un ardore selvaggio la pasta verde sull’immagine dei miei giudici. Che siano, anch’essi, condannati dalla loro immagine, come essi mi avevano condannato per la mia: « E indiscutibile che lo stesso aspetto fisico di Clémenti denota, almeno in apparenza, le caratteristiche di colui che si dà alla droga». Siete belli, voi giudici. Il vostro aspetto fisico la dice lunga, anch’esso. Non abbiamo bisogno di osservarvi a lungo per sapere in quale merda avete nuotato. 82

Caro Pierre, coraggio, facciamo progressi. Abbiamo chiesto che la procedura di appello sia accelerata, sottolineando alla Corte che se l’appello tarda troppo, il tuo eventuale proscioglimento potrebbe arrivare dopo due anni di carcerazione preventiva, mentre tu avrai ormai scontato una pena alla quale alla fine non sarai condannato! I tuoi avvocati, E Ungaro e P. Appella. Ci vuole coraggio, sì, quando arriva la posta della sera. Ce ne vuole per leggere queste lettere che pure vogliono riconfortarti ma che get­ tano una luce insopportabile sull’assurdità della tua situazione. An­ cor prima di essere prigioniero di una prigione, lo sei di una logica, di un meccanismo kafkiano. La legge italiana prevede un massimo di due anni per la deten­ zione preventiva. Essa prevede anche, per il capo d’imputazione di «detenzione di stupefacenti», una pena minima di due anni. Essa non prevede, in compenso, la libertà provvisoria per chi sia accusato di detenzione di droga. E siccome la giustizia, invece di essere ra­ gionevole, è lenta, il tuo periodo di carcerazione preventiva è spesso compiuto per più di due terzi prima che il tribunale ti abbia o meno giudicato colpevole e prima ancora che cominci — se non sei assolto — il periodo della tua pena reale... In tal modo, nessun problema, nessun pericolo: innocente o colpevole, avrai fatto lo stesso più di un anno di galera. Questo ti insegnerà a essere un sospetto. E con questo genere di contraddizioni che si smaschera il vero volto del diritto borghese: al livello dei gran­ di principi, della «democrazia», predica che ogni sospettato debba essere presunto innocente fino alla sua condanna. Ma al livello dei fatti, della pratica quotidiana della giustizia, è tutt’altra storia: si pre­ ferisce tenere piuttosto che lasciare, imprigionare gli innocenti tanto a lungo fino a che non daranno essi stessi prova della loro innocenza, e in ogni caso abbastanza a lungo perché essi si consumino in questa missione. Ma tu parli ancora di innocenza? E bella, la tua innocenza: quel­ la di un carcerato, quella di un condannato non hanno lo stesso peso di quella di un uomo in libertà! Anche se è possibile trovare giudici più ispirati per rivedere il giudizio dei primi, essi non solamente non cancelleranno mai i mesi della tua vita gettati nella pattumiera della 83

prigione, ma neppure sopprimeranno questo semplicissimo fatto: tu sei passato di lì. E si può scommettere che ci sarà sempre, in un mo­ mento o nell’altro della tua vita, un poliziotto, un tribunale, o anche delle buone anime a pensare che dopo tutto «non si va in galera per niente», che non c’è fumo senza fuoco... E come la perdita della verginità, la prigione: dopo, non si è più come prima. Certo, ne sei uscito, e arriverà un momento in cui finirai addirittura per dimenti­ care di esserci stato, ma ci sarà sempre da qualche parte un fascicolo, delle memorie in cui ciò rimarrà impresso — come è impresso dentro di te, anche se hai fatto di tutto per cancellarlo dal tuo pensiero. E a partire da là che si comprende, più o meno velocemente, la fragilità delle nozioni di innocenza e di colpevolezza. Dal momento in cui nessun apparato — tribunali, polizie, prigioni — ufficialmen­ te destinato a scegliere tra l’una e l’altra non sceglie affatto, sia per incapacità, sia per pura scelta politica, si è ben costretti a constata­ re che è questione non più di «sbavature», di «errori», di «incidenti deplorevoli», di «eccezioni veramente straordinarie», come la stampa indulgente con i potenti non smette di ripetere, ma piuttosto della regola, della logica profonda del sistema. Chi è innocente, chi non è colpevole di fronte a una società fondata sulla repressione? Da quale lato ti volti, non senti che un grido: imprigionateli tutti! Imprigionate, anzitutto, e solo in seguito si esaminerà il caso di ognuno, ognuno sarà ammesso a far valere i propri diritti, solo in seguito si giudicherà. E la società della strizza e del manganello: prima si pesta, poi si discute. Tutto quel che va al di là dell’imposizione delle «norme», capelli, idee, costumi, ci si affretta a farlo rientrare a colpi di randello, e se ciò si rivela impossibile, si imprigiona al più presto, si ricorre a manette, camicie di forza, sche­ mi, reticolati. Alla fine, la prigione è un’ottima scuola politica, per poco che tu voglia darti la pena di penetrare il mistero di quel che ti sta suc­ cedendo. Prima del mio arresto, pensavo che la politica fosse una scienza riservata agli specialisti, o un lusso da intellettuali, il regno dell’astrazione. E in prigione che ho capito che essa sola poteva spie­ gare perché e come funziona il mondo nel quale viviamo, perché noi occupiamo in esso il posto della sofferenza. E soprattutto, che essa poteva essere anche lo strumento della felicità degli uomini.

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Allora la lotta all’interno delle prigioni prende un significato differente. Non si tratta più solamente — ed è già tanto! — di mi­ gliorare le condizioni di detenzione, la sorte quotidiana di migliaia di carcerati, di attenuare i rigori che in tutta buona coscienza si è minuziosamente previsto di far loro subire ogni giorno, poiché non è sufficiente privarli della libertà ma è anche opportuno mortificarli nella carne e nello spirito. Si tratta di aprire le porte della prigione alla società tutta intera: di mostrare che la prima è la conseguenza logica dello stato in cui si trova la seconda. Che le prigioni sono il ritratto fedele e veritiero dei regimi che le istituiscono e le fanno fun­ zionare. Che esse ne smascherano l’ipocrisia; giudicateli dalle loro prigioni, questi difensori della «libertà individuale», questi «liberali», questi «democratici» che hanno la sfrontatezza di dirsi missionari del «mondo libero». La loro libertà vale quanto valgono le loro prigioni. Oppressiva, ingiusta, corrotta come lo sono queste. Il carcerato non desidera nulla quanto la libertà, ma l’esercizio della prigione finisce per insegnargli che gli si è mentito sui vantaggi di questa libertà, e che non sarà libero fino a che altri saranno incar­ cerati, che non sarà uomo fino a che gli altri saranno trattati come cani. Spero, fratello mio, che finirai per sapere che una società che autorizza prigioni come quelle che tu conosci deve essere trasforma­ ta al più presto, che un sangue nuovo deve spazzare via le vecchie cellule. Per posta mi arrivavano anche gli echi del processo. Le polemiche procedevano speditamente sulla stampa italiana. Si mettevano in luce le assurdità della legge sugli stupefacenti e il fatto che essa con­ traddicesse altri articoli di legge. Si sottolineava l’incoerenza di una legislazione che vieta di lasciare in libertà provvisoria chi sia stato pizzicato a fumare uno spinello, mentre il delinquente «ordinario», che ha truffato i suoi vicini o il suo padrone, aspetta tranquillamente a casa propria che il giudice trovi il tempo di decidere sul suo caso. Ci si domandava se il primo fosse veramente più «pericoloso per la società» del secondo. Si notava anche che l’Italia, a dispetto della sua democrazia e del suo cristianesimo al potere, non aveva ancora ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sulla repressione del commercio della droga, che raccomanda di mettere i tossicomani non nelle mani dei secondini, ma in quelle dei medici. 85

Caro Pierre, Ti facciamo pervenire per posta della sera uriimportante dichiara­ zione dello psichiatra Sebastiano Fiume: «Insomma, una parte della società diagnostica il male, o meglio, la malattia, dopodiché essa af­ fida il trattamento... terapeutico all’altra parte della società, che fa ricorso agli articoli del codice penale. In ultima analisi, il riconosci­ mento in diritto della malattia è contraddetto in fatto da una serie di interventi repressivi che negano questo riconoscimento: la malattia implica la cura, e dovrebbe vietare ogni forma di repressione, che è un insulto alla scienza, e che, è del tutto evidente, non cura affatto il malato». Vedi come le cose vanno avanti. Le idee si muovono, probabilmente grazie al tuo processo. Non perdere la speranza. I tuoi avvocati. Magra consolazione quando sei in galera, ma consolazione, comun­ que. Il sentimento che, ora che sei stato rimesso dentro, puoi non essere inutile a coloro che sono dentro come a quelli che sono fuori. E ciò che mi fa reggere. E anche le lettere, le informazioni, gli articoli di giornale italiani e francesi che mi si faceva arrivare durante la pas­ seggiata della sera, perché altrimenti la censura li avrebbe bloccati. Parallela e collegata a quella che funzionava all’interno, una rete di solidarietà si era organizzata all’esterno. Anche questo cambia la vita del carcerato, rafforza le sue possibilità di lotta interna, di rendersi conto che può contare sull’appoggio clandestino di persone in liber­ tà, che finalmente le prigioni sono permeabili alla fraternità degli uomini. Ho militato duramente nelle ultime settimane a Regina Coeli. Sapevo trovare gli argomenti necessari per toccare le persone. Co­ minciavamo ad agitarci non poco e di nuovo correva voce di uno sciopero della fame di tutti i detenuti. E probabilmente per questa ragione che si è immediatamente dato seguito alla vecchia richiesta dei miei avvocati di trasferirmi a Rebibbia, carcere considerato meno duro. Facevo troppo rumore, avevo troppi compagni. Altrove, sarei stato più calmo. Era comunque una buona notizia.

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Cara mamma, Non impazzire per via di questa condanna. Se Dio vuole, presto le porte si apriranno. In ogni caso, attualmente ho sufficienti forze per affrontare la realtà. L'ingiustizia mifa bruciare di un sacro fuoco. Spero che la nuova casa alla quale vengo destinato sarà un po' più libera di questa. Qui non è una gran divertimento, ma l'esperienza è sempre stata la scuola migliore...

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Una scintilla per mettere a fuoco tutte le carceri

Più luce, anzitutto. L’oscuramento delle celle finalmente trafitto da vere finestre. Una luce tale da provocare anche nei primi giorni dolore ai tuoi occhi abituati ai buchi bui di Regina Coeli. E come per rifrangere, amplificare questa illuminazione, le celle di Rebibbia sono dipinte di bianco. Il contrasto è brutale. Ti dici: eccoci, alla fine arrivo al porto dopo la traversata della notte. Ti dici che la leggenda dorata che agitava i sogni dei morti viventi di Regina Coeli è fondata: esistono queste prigioni più umane che sono proposte come esempio per le altre. E subito dopo essere entrati, fin dal primo avvistamento dei luoghi, ti prende una sorta di entusiasmo: qui il tempo non sarà più affatto perduto, l’energia dei detenuti non sarà del tutto esaurita dalla resistenza continua all’oppressione materiale e morale. Qui, ci saranno ancora forze vive per costruire. Le tue prime impressioni di «detenuto modello» rafforzano que­ sta speranza. E vero che il regolamento è più liberale. Il tempo delle passeggiate nel cortile è doppio: quattro ore di esercizio e di aria pura al posto delle due al giorno. Non soltanto hai il diritto di decorare a modo tuo i muri della tua «camera», con qualcosa di diverso da graffiti rabbiosi, ma puoi riceverci i compagni, offrire loro un caffè. La biblioteca non è irrisoria né ostinatamente chiusa a tutto quanto rischia di risvegliare lo spirito. Ho letto molto a Rebibbia, poeti che in prigione sono gli amici più preziosi. Flaubert, Aragon. Ma anche politici, de Gaulle, certo, regalo del consolato francese, e cose meno evidenti per una prigione: Lenin, un’antologia di Mao... 90

I secondini sono cambiati anche loro, e puoi discuterci più facil­ mente che a Regina Coeli, si sentono meno presi in trappola e in un certo senso più realmente utili. Sono infatti lasciati un po’ meno soli di fronte ai detenuti. Rebibbia è il regno dei «consiglieri penitenzia­ ri», degli psicologi, degli psichiatri, dei medici, un esercito di gente pagata dallo Stato per seguire il tuo «caso». Ti dici: bello, è il sogno, ci si occupa di me, non sono più un peso morto, non vengo lasciato colare a fondo, si prepara la mia uscita. E la televisione. Due ore ogni sera, in gruppo. Dapprincipio, come per tutto il resto, saluti questa innovazione come una piccola rivoluzione. Ti dici: la televisione è il mezzo migliore per non perdere il contatto con l’esterno. Almeno saprò, al momento di uscire, quali opere il mondo ha compiuto, quali imprese, quali guerre, mentre ibernavo. Cammino con lo stesso passo degli uomini liberi, anche se io lo faccio in tondo in un cortile sorvegliato. Ti dici molte cose. In poche settimane i fatti vengono a tem­ perare il tuo delirio. A Rebibbia l’oppressione è meno vistosa che a Regina Coeli, meno immediatamente tangibile, meno cruda. Non è però meno reale. E sintomatico che le rivolte più dure siano partite da questo paradiso. - Ma cosa vogliono, i detenuti? Non sono contenti qui? Gli ab­ biamo dato tutto. Non saranno mai contenti. Sì, l’oppressione è meno selvaggia. Ma ciò vuol dire che essa è più razionale, che il suo meccanismo è più sottile, più scientifico — e, quindi, più inevitabile. Comprendi molto velocemente che ogni vantaggio di cui beneficia realmente il detenuto finisce per rivoltar­ si contro di lui. Maggior libertà nelle prigioni, maggior comodità, meno sorda angoscia quotidiana, tutto ciò vuol dire che i bisogni degli uomini incarcerati cambiano di natura, che diventano meno elementari, meno rozzi, che si pone con una ben maggiore intensità la questione di sapere cosa fare del proprio spirito ora che il corpo è meno inquieto. E una cosa buona accordare ai detenuti un impiego del tempo più flessibile, meno idiota, favorire i contatti e le occasioni di ricreazione. Ma subito questo addolcimento pone la questione seguente: cosa fare di questo tempo, di questa libertà supplementare? Ogni progresso porta con sé la questione del suo prolungamento,

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suscita il bisogno di superarlo, di utilizzarlo per trasformare ancor più la realtà carceraria. Il carcere modello è il regno delle mezze misure. Si migliora l’inferno, si ristruttura l’istituzione, non si cambia la sua funzione, non si va fino a porsi la questione della sua destinazione sociale, che è alla fine la sola questione importante per la gente che vi è rinchiusa. Attraverso riforme evidenti, e che è scandaloso non siano genera­ lizzate, si corregge l’atrocità delle carceri classiche. Si restituisce ai carcerati un’ombra di umana dignità. Li si fa uscire dallo stato di bestie ammassate che marciano al primo fischio. Bene. Ottimo. Ma quale programma si propone ora che è stata data loro la possibilità di pensare a se stessi come a qualcosa di diverso da individui agoniz­ zanti il cui unico problema è la sopravvivenza? Non si mette nulla a loro disposizione per uccidere il tempo, poiché si tratta sempre di questo: uccidere il tempo, uccidere le ore, i giorni, i mesi, gli anni. Non viene l’idea che questo tempo possa essere utilizzato per altra cosa che la propria sepoltura. Voi ridate il gusto di vivere, voi liberate energie invece di reprimerle sistematicamente, ma di queste energie non sapete cosa fare, vi impedite di fare alcunché, le lasciate andare alla deriva, ognuna per sé, o vi sfinite nel «canalizzarle» perché la loro esplosione non vi infanghi. La paura di sporcarvi. Ecco perché i direttori riformisti di Rebibbia finivano in un circolo vizioso. - Non saranno mai contenti. Eppure hanno i libri, la doccia quotidiana, la televisione... La televisione, parliamone. Lungi dall’essere l’indispensabile apertura sul mondo, ne è stata fatta la droga del detenuto. Dapprin­ cipio, i programmi erano filtrati. Dietro il pretesto che erano neces­ sarie trasmissioni che potessero piacere a tutti, poiché la guardia­ mo tutti assieme, si eliminavano le trasmissioni anche solo un poco culturali e naturalmente politiche o sociali. Cosa restava, gettato in pasto a migliaia di occhi affascinati tutte le sere dell’anno? Lo sport, certo, i varietà, qualche film, e la pubblicità. I detenuti non sarebbero meno abbrutiti dei loro milioni di con­ cittadini «liberi». E soprattutto, questa televisione familiare all’inter­ no di un monastero, queste continue incitazioni al lusso, ai consumo sfrenato, al romanzo (Marlene, quanti carcerati hanno sognato il tuo corpo inafferrabile? Abbiamo visto uno dopo l’altro quattro dei tuoi 92

film), si credeva davvero che potessero ammansire gli uomini? Esse li provocavano con piaceri impossibili e li rendevano, logicamente, fol­ li di rabbia. E le rivolte contro la lentezza dei tribunali aumentavano, e i direttori non comprendevano più, mentre gli esperti rimanevano a bocca chiusa. La televisione, sia pure. Ma allora che serva ad altro che a far ec­ citare gli uomini per delle ore, ad accenderli di fantasmi. Di cose così ne hanno abbastanza! Che serva a far loro comprendere i problemi che agitano il paese mentre sono sul telecomando della televisione. Che diventi lo strumento di un ritorno nella società che non sia provvisorio, breve intervallo tra due galere. Il popolo intero ha biso­ gno di una televisione educativa, ma ancor più i carcerati, ritornati a essere figli di un mondo che è cresciuto senza di loro. Ma ecco, questi sono i miei stessi fantasmi. E dubito che si troverà un giorno una prigione, una società per realizzarli. Non è nell’interesse del sistema che i prigionieri escano dalle prigioni più forti, più sapienti, più avveduti di quando vi sono entrati. Più degli psicologi, che si accontentavano di «comprenderci» senza tentare di spiegare alcunché, probabilmente gli unici a voler che le cose cambiassero non solo in apparenza erano i preti, i cappel­ lani. Forza della Chiesa in Italia, l’amministrazione lasciava loro le mani relativamente libere. Non nascondevano il loro progetto: aiuta­ re affinché le prigioni divenissero luogo di riflessione, di formazione, di apprendistato alla vita. A Rebibbia, era possibili vederli tutti i giorni, a tu per tu. E in effetti compivano perfettamente la loro mis­ sione di collegamento con l’esterno, ma non si limitavano a questo ruolo caritatevole di agenti di comunicazione. Né al reclutamento di fedeli per la messa. Essi organizzavano tutti i sabati un «incontro», piccola conferenza in cui uno di loro veniva a commentarci qualche passaggio del Vangelo. Questo non durava molto a lungo. Regolar­ mente, non appena veniva pronunciato il nome di Cristo, una voce o l’altra nell’uditorio gridava: «Ma il Cristo è qui, in prigione!» Il conferenziere si interrompeva, ci guardava. - E vero che il Cristo è qui. E partiva la discussione, non sul Cristo, ma sulla prigione. E stato necessario battersi per ottenere il diritto ad altre confe­ renze che non fossero tutte religiose. Assillare la Direzione, convince­ re gli psicologi in servizio, e questa non fu la cosa più semplice. 93

- Ma diteci, a cosa ci serve, a noi, che voi stiate lì a osservarci? Siamo stufi che ci prendiate per cretini. Vogliamo imparare. Non sapevano più cosa pensare. Rivendicazioni che non poteva­ no misurare, quantificare, inserire in statistiche, che cosa voleva dire tutto ciò? Non erano d’altronde necessariamente contrari, ma non avevano alcuna idea concreta sulla questione. - Fate semplicemente un rapporto favorevole, ci occuperemo del resto. - Ah no! Questo non è possibile. Noi siamo responsabili dei programmi... - Ma non ci sono programmi! Abbiamo finito per ottenere una serie di corsi sulla droga, appro­ fittando del fatto che il ministero della Sanità aveva inviato un medi­ co per fare un’inchiesta sui tossicomani di Rebibbia. Il tizio è rimasto stupito, perché sino ad allora ci vedeva uno ad uno, ci interrogava e ci esaminava come se fossimo strani malati, ed elaborava la propria tesi solo nel suo angolo. Ora siamo noi, in gruppo, che gli abbiamo posto delle domande. E ha dovuto dare risposte che andassero oltre le sue conoscenze mediche. Alla fine, in poche discussioni collettive, credo che abbia imparato più lui da noi, di quanto noi da lui. Credo che queste riunioni e queste conversazioni fuori dalla costrizione del suo questionario-tipo l’abbiano aiutato a trasformarsi, a cambiare la sua concezione tanto dei drogati quanto dei carcerati. Probabilmente ha compreso meglio chi fossero veramente que­ ste persone che hanno il volto di Cristo e degli apostoli, e come fosse un gesto criminale rinchiuderli. Che essi erano più luminosi e sani di molti altri, perché non facevano male a nessuno e anziché succhiare il biberon patriottico si nutrivano della vita stessa, negli incontri, nella musica, nella creazione. Che era meglio che viaggiassero tra i loro fratelli per un anno o due piuttosto che fare, per esempio, il loro servizio militare e camminare al passo per il bene dello Stato. Bene, tutto ciò è durato tre settimane, quindi la Direzione ha re­ agito. Il comportamento del medico è stato considerato scandaloso, irresponsabile. Gli è stato proibito di rivederci. L’amministrazione penitenziaria ha paura di tutti, dei medici come dei detenuti. Per essa, un medico del carcere deve attendere nel suo studio la fila per la visita. Non se ne parla che circoli nei corridoi, che beva un bicchieri­

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no con i ragazzi. Lo si castra del tutto. Poi ci si volta verso di lui e si esigono spiegazioni quando c’è una serie di suicidi. - Non avete notato nulla d’anormale? Eppure questo è il vostro lavoro, vecchio mio! E cosi che siamo entrati nel ciclo delle rivolte. Ci siamo fatti da noi la nostra educazione, sul posto. Abbiamo imparato una cosa che non si insegna né alla Sorbona, né a Saint-Cyr4, né al Politecnico, e che conta più di quello che si insegna in questi luoghi prestigiosi: abbiamo imparato a batterci per farci rispettare. A essere uniti, ad agire assieme, a restare solidali a dispetto delle provocazioni e delle manovre della Direzione volte a dividere. Credo che i detenuti che abbiano provato almeno una volta la forza straordinaria che dà loro l’unità non lo dimenticheranno più. Lo sa anche la Direzione che, dopo ogni tempesta, sparpaglia i ragazzi per le carceri del paese. Bi­ sogna ripartire daccapo, tutto ciò prenderà del tempo, ma le fiamme cresceranno, le porte cederanno.

4 La scuola militare di Saint-Cyr è una grande eco le che forma gli ufficiali dell’esercito di terra francese. [N.d. 7?]

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Rifiuto di obbedienza

Dopo il fuoco, le ceneri. Le rivolte furono represse, i ragazzi dispersi. Ma essi non furono i soli a lasciare Rebibbia: il carcere cambiò direttore. L’amministra­ zione, che aveva incoraggiato e coperto i suoi selvaggi metodi repres­ sivi, fu costretta per «ristabilire la pace» a metterlo in congedo straor­ dinario. In riserva. Nel caso in cui ci fosse stato bisogno di un bruto in un’altra occasione. Gli fu certamente mantenuto lo stipendio e gli fu concesso di andare in giro con una pistola in tasca, avendo egli fatto porcherie tali che i fratelli, i cugini, i compagni dei detenuti lo avrebbero senza dubbio conciato per le feste, se mai fossero riusciti a stanarlo. Volevano che anch’io sloggiassi. Ero considerato come l’istiga­ tore dei disordini, un elemento pericoloso. I miei avvocati hanno tenuto duro, sono riuscito a restare. Ma sarei stato sorvegliato, mi accerchiavano. A ogni modo, l’atmosfera non era più la stessa, i nuo­ vi arrivati erano talmente felici di arrivare in una galera più confor­ tevole che sarebbe stato necessario molto tempo perché capissero. E poi la Direzione aveva fatto delle promesse, di cui era stato investito il Parlamento, insomma, era l’ora del sonno. Di questi ultimi mesi a Rebibbia, prima del processo di appello, ho solo ricordi frammentari, incoerenti, dei flash, isolotti di coscien­ za, le lettere che ho scritto, quel che i miei amici romani dicevano ai giornali. Credo che stessi andando veramente alla deriva. Non si sen­ te salire la follia, non se ne è coscienti quando si infiltra dentro di te, quando la respiri attraverso i pori della pelle e si diffonde nel sangue, 98

poiché con essa viene l’oblio, che chiude ogni breccia ch’essa ha sca­ vato. Visto da fuori, dovevo dare l’immagine dell’animale in letargo. Sonno e meditazione, immobilità salutare, silenzio eclatante. Senza più lasciare la mia tana, rinunciando praticamente a ogni passeggia­ ta, visita, conversazione... Prostrato, dicevano i medici. «Ma voi non comprendete che è al limite della pazzia», gridavano gli avvocati. Né gli uni né gli altri, non voglio più vederli. Il mio nome è pace, dentro di me il tripudio aumenta. Quando, grazie a un controllo completo del respiro, la porta del cie­ lo si apre e si chiude secondo il tuo desiderio, puoi essere come lafemmina dell’uccello, l’embrione spirituale, annegare il potere dell’anima nella purezza e nella quiete, eguagliare con la tua intelligenza la luminosità del sole, conformare la tua azione alla regolarità delle stagioni, battere al ritmo della vita ritrovata, sviluppare una luce che si diffonde ai quattro angoli della terra...

Scrivevo, ma non avevo l’impressione di scrivere. Avevo l’impressio­ ne di gridare, piuttosto. L’impressione che attraverso la mano fosse la voce a parlare. E, d’altra parte, come avrei potuto scrivere visto che non ricordo più di aver visto altro che la notte. Mi dicevo: «Sei il mo­ naco del Medioevo, con il tuo bastone fai il grande viaggio mistico, cammini sulla Via lattea». Ho disegnato un albero di Natale e l’ho inviato, con una lunga lettera, al Papa, per augurargli, a nome di tutti i detenuti della Città eterna, un gioioso Natale. Io che sono pellegrino di San Giacomo, ti dico, Papa, che il posto della Chiesa è nelle carceri. Che il suo ruolo su questa terra è di vegliare non sulla salvezza delle anime, ma sulla salvezza di chi si trova in galera. Ho fatto dieci copie di questa lettera e le ho fatte pervenire ai giornali, al Presidente della Repubblica, alle ambasciate. Non l’han­ no pubblicata, l’hanno certamente conservata nei loro archivi. Eppu­ re era un bel manifesto. Ponevo la questione: anzitutto, se il Cristo ritorna in terra, gli renderete la sua Casa? E in quale stato? Facevo vedere tutto quello che la Chiesa poteva fare e non faceva nelle pri­ gioni. Suggerivo azioni immediate: c’è a Rebibbia una sala teatrale di duemila posti. Chiusa. Un cinema completamente sistemato, funzio­ nante. Chiuso. E anche una grande chiesa, nuovissima. Si preferisce 99

ad essa la piccola cappella: va detto che sebbene tutti gli Italiani siano cattolici, dei settecento detenuti di Rebibbia forse trenta andavano regolarmente a messa. Ma perché non aprire, subito, questi luoghi di cultura? Perché aspettare cinquant’anni? Aprite le porte, voi di fronte ai quali tutte le porte si aprono. Vi piace fare del bene, preferite fare il bene piuttosto che il male, e ne avete il potere, dunque se non lo fate è perché siete morti... Resuscitate! Credo che la macchina repressiva stesse per impadronirsi di me. Per spezzare, l’una dopo l’altra, le resistenze che mi ero accanito a opporgli — ed era probabilmente ciò, questa sconfitta, che volevano significare la dolce euforia e l’aspirazione mistica in cui mi rifugiavo, e non già il fatto di accontentarmi nella calma attesa della tomba che alla fine dell’inverno il sole venisse a riscaldare il mio sangue... Quan­ do ogni possibilità di azione sembra bloccata, rimane la meditazione. Ma non è proprio questa una delle trappole più certe che il sistema ti possa tendere? Accerchiarti a doppio giro, imprigionarti due volte: tra le mura, certo, e in modo ancor più decisivo nel sogno.

Caro Pierre, Insistiamo: è assolutamente necessario che accetti di parlarci. Il tuo processo di appello èfissato alprossimo 6 dicembre, è una grande notizia, ma come vuoi che possiamo prepararlo se rifiuti ogni visita? Renditi con­ to: sono quasi tre mesi che non vuoi più vedere nessuno, nemmeno noi. Siamo molto preoccupati. I tuoi avvocati Allora, bisogna saper andare molto lontano. In ogni caso, così lon­ tano che il sistema non possa tollerare il viaggio e l’assenza. Se ti accontenti di ripiegarti su te stesso, di restare nel tuo angolo sempli­ cemente rifiutandoti di sottoporti ancora alle abitudini che regola­ no e banalizzano la vita carceraria, finirai solo per renderti imbelle. L’amministrazione, i secondini, lo stesso personale medico si adegue­ ranno perfettamente a un detenuto meno «partecipante», abbattuto, completamente divorato dai suoi pensieri e, per la maggior parte del tempo, out. E la trappola di cui parlavo: puoi sognare, ma ciò non impedirà alla macchina di girare. E anzi, essa ti preferisce così piuttosto che at­ IOO

taccabrighe, aggressivo o militante. Andrà del tutto diversamente se la tua illuminazione interiore ti spinge in fondo, ti induce a un rifiu­ to più radicale. Se la tua distanza, le tue assenze diventano una forza di negazione estrema. E il tuo corpo, ad esempio, comincia a portare le stimmate della crisi. Tu sarai allora la prova (ancora) vivente della logica stessa della macchina, e in quanto tale per essa insopportabile. Essa distrugge gli uomini: guardate me, sono il ritratto stesso di que­ sta distruzione. Essa devasta i corpi, fa andar fuori le menti: vedete, ne manifesto la realtà fino alle sue estreme conseguenze. Sono solo il più normale dei suoi prodotti. Ho dunque rifiutato tutto il cibo a parte l’acqua e il pane della cella di isolamento, ho fatto della mia stessa cella una cella di isola­ mento — benché fosse luminosa e bianca. Non ne sono uscito, ho rinunciato a leggere, ho rinunciato alla televisione, alla chiacchiera, al tran-tran delle distrazioni. In tre mesi ho perso sei chili. Ma tutto questo non bastava. Alla fine li ho visti, i miei avvocati — cosa che non li ha rassicura­ ti, anzi. Non appena conosciuta la data dell’appello, mi avevano fat­ to arrivare una parolina, consigliandomi vivamente di farmi tagliare un po’ i capelli, probabilmente per non spaventare giudici partico­ larmente impressionabili. Rompendo l’isolamento, ero quindi anda­ to a fare la mia prima visita ufficiale al barbiere della prigione. Un vecchio detenuto, che dieci anni di pratica avevano reso abbastanza abile. Non voleva credermi. - Vuoi veramente che te li tagli? Afferrava i lunghi ciuffi ricci e li tirava per apprezzarne appieno la lunghezza. - Finirai per essere più leggero... La sua felicità di lavorare con una testa del genere, cinque o sei anni di crescita senza il minimo taglio, non è durata molto. - Marco, ascolta bene. Taglia tutto. - Come? - La testa a zero. - Ma sei matto! - Tutto, Marco. Non ha detto nulla, sentivo che era triste e che dopo tutto avreb­ be preferito non tagliare niente, malgrado il suo orrore per gli hip­ pies, piuttosto che di rasare tutto. Ha riposto il pettine e le forbici, IOI

e con la tosatrice ha aperto lunghe scanalature nella massa nera. C’è sempre una sorta di gravità nell’atto che sacrifica la capigliatura. Non ha più parlato. Benché non ci fosse gelo fra noi nella cella-salone, tenevo gli occhi chiusi. Indirizzavo tutta la mia energia a incidere dentro di me lo stridio, il raschiare feltrato delle molle della tosatrice. Mi dicevo: «Le mani del padre ti purificano. Esse compiono su di te il gesto antico di iniziazione dei servitori di Buddha. Esse rompono gli ultimi fili che ti legano al passato, tagliano i tuoi legami terrestri. Con il digiuno e ora con il rito, tu evadi, nessuna prigione saprà più trattenerti».

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Posto a sedere, dal lato in ombra.

- Allora, signor Clementi, mi dicono che non sta bene? Tutto ciò aveva finito per arrivare alle orecchie del nuovo diret­ tore: il cranio rasato, il fatto che non mi nutrissi più, che passassi ore seduto a terra nella posizione del loto, a inspirare e a espirare metodi­ camente, profondamente, lo sguardo perduto... La mia offensiva non violenta doveva cominciare a infastidirlo. E mi convocava. Qualche giorno prima, avevo scritto a Philippe: «Conduco una vita da monaco senza messa. Lo Spirito Santo viene spesso a farmi visita, aiutandomi ad accettare l’ingiustizia umana come la croce che tutti de­ vono portare. Tra queste mura, la visione perfetta della verità non può mentire. Chi crederà quel che io so, che le più belle esperienze umane si fanno nella solitudine? Ho sete di lavoro, di avventura, di amore. Ho sete di voi, amici. Ho sete di sincerità e di verità — ed è in questo che vi amo». Mi dicevo, scrivendo questa lettera, che ci fosse veramente qual­ che cosa di profetico nel cinema. I due ultimi film che avevo girato in Francia, proprio con Philippe Garrel, Le lit de la Vierge e La Ci­ catrice intérieure, erano senza ombra di dubbio la prefigurazione dei momenti che avrei vissuto qui. Una ricerca del rifiuto e della pace allo stesso tempo. Abbiamo voluto mostrare come la solitudine che, attraverso l’ascetismo e il misticismo tende verso la morte come libe­ razione, può anche aprirsi alla salvezza: la fratellanza degli spiriti cre­ atori, l’unità nell’azione, il progresso. Abbiamo voluto mostrare che l’uomo iniziato, essendo riuscito lui stesso a liberarsi dalla solitudine 104

e dai riti, può ritrovare il senso della vita, la pace che darà luce allo spirito universale. La nostra ipotesi era che se il Cristo tornasse ora su questa terra, non potrebbe far più granché, poiché sono migliaia e migliaia i Cristi che si trovano oggi in Occidente, che si sforzano di impedire che il mondo sia un inferno. - Sa che i suoi avvocati raccontano ai giornalisti che lei sta impazzendo? Nessuna risposta. - Non è vero, chiaramente... Silenzio. - Ma che cosa vuole? Che mi si addossi la responsabilità? Taci, lasci parlare. Meno il tuo rifiuto è compreso, più esso è forte.

Era il momento delle lettere. Le scrivevo quasi ogni sera, ma senza inviarle. Le indirizzavo ai miei amici, in qualche parte del mondo, ma era come se fosse sufficiente scriverle perché fossero lette. Erano piuttosto il modo per parlare a me stesso che di parlare a voi di me. Lettore, te ne affido una che non mi ha mai abbandonato: Fran^oise, Sì, il mio corpo, la mia anima e il mio spirito sono felici, perché ti so sul sentiero... Ho attraversato il deserto della sofferenza e in questo giorno in cui l’armonia può parlarti senza ipocrisia ti scrivo, perché tu resti per me colei che ha saputo bussare alla mia porta per ascoltare la mia voce. Scriverti questa sera, sì, ma per trasmetterti questa luce me­ ravigliosa capace di guarire gli individui che il sistema attuale vota alla distruzione. Tu sei una ragazza pura, vorrei che prendessi coscienza che talvolta abbiamo bisogno di tacere per sfuggire alla meccanizzazione, alla trappola diabolica di coloro che hanno scelto di difendere la pro­ prietà con tutti i mezzi. Resto malgrado tutto barbaro e selvaggio — non ho avuto diritto all’affetto che molti bambini hanno ricevuto, appartengo alla natura, che ha preso il posto del padre che non conosco. Credo che ancora una volta passerò il Natale tra gli esseri più diseredati, che tuttavia, come me, aspirano alla felicità. Qui ho visto molte persone la cui purezza è autentica, poiché hanno conservato il linguaggio originario che permette agli individui di tutti i colori di amarsi in questa prigione dove li rin­ chiude la giustizia. Da quando sono nato, proseguo, solitario, la ricerca 105

del senso di questo viaggio meraviglioso che tutti gli uomini cominciano dalla loro nascita. E diffìcile per un uomo ritrovare con fede una vita naturale. Per coloro che portano le stimmate di questa società poliziesca, è diffìcile tro­ vare una nuova terra, un mondo senza terrore in cui poter vivere liberi tra i propri fratelli e sorelle, fuori dalla violenza e senza la minaccia di una ricaduta. Alla loro liberazione, una catena invisibile li manterrà loro malgrado prigionieri di un sistema che rifiuta di dimenticare, che si accanisce nelfare ricadere chi, con la vita, ha pagato gli errori della propria gioventù... Ho interrotto ogni lavoro, poiché non bisogna avere paura di inter­ rompere tutto per comprendere un po’ meglio ciò con cui devi confrontar­ ti. Ho interrotto ogni creazione, poiché è al sole, mi sembra, che si trova l’energia, e poiché qui tutto il mio corpo agonizza per non poter accettare il posto all’ombra che gli viene assegnato. Non posso nemmeno più leg­ gere: le parole mi trascinano davanti a uno specchio nel quale mi perdo. La notte è arrivata, le piccole celle attorno alla mia si sono socchiuse per lo spettacolo quotidiano del terzo occhio televisivo, del rincretinimento al servizio del potere, rendendo la gente docile, facendole credere che tutto va bene. Io non partecipo più a queste sedute. Ero incapace di guardare un programma fino alla fine, i miei occhi si chiudevano. Sono senza età, ora, poiché il mio spirito dimentica tutti i piaceri. Sono mai stato felice senza sogni? Mi lascio lentamente scivolare fino in fondo per non girare più nel vuoto. E anche la ragione per cui non scrivo più ogni sera, come facevo prima: per evitare il contagio della routine, che uccide ogni spontaneità. Ho rasato la mia testa. Perché?Non so, forse per chiedere a Dio di liberare le carceri, di far cessare le ingiustizie dello Stato. Forse ho obbedito a un desiderio di purificazione? Forse è un atto simbolico perché i miei fratelli non muoiano più nei campi di concen­ tramento italiani. Ad ogni modo, con o senza capelli, il carcere per me è lo stesso, e non mi dispiace ritrovarmi come il neonato, di pretendere un’innocenza che mi sveglia dall’asfissia quotidiana. Frango ise, vorrei parlarti di Balthazar. Sì, lo amo come il bambino meraviglioso che la natura e l’amore mi hanno affidato. Ho paura di non essere all’altezza e tuttavia ho un grande desiderio di essergli vicino per poter nuovamente imparare da lui...

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Era anche il momento per i miei agenti di tentare di riportarmi alla vita e alla luce, facendo luccicare sotto i miei occhi progetti di film e promesse di ruoli. Assolto o meno, sarei uscito entro sei mesi. Le proposte, mi facevano sapere, non mancavano. Ho paura di aver fat­ to loro perdere la speranza attraverso la mia risposta: «Non voglio più girare film pseudointellettuali... Voglio conservare le mie forze per fare film per tutti i bambini del mondo, per insegnar loro, attraverso parabole molto semplici, il mistero della vita; e che la battaglia senza fine del bene contro il male faccia in modo che un giorno la terra ritrovi la pace. Non voglio più compromettermi con un’industria disonesta, che tradisce le potenzialità culturali del cinema e fa i soldi coltivando solo la debolezza umana...». - Siamo seri, signor Clementi! I suoi avvocati hanno messo in allar­ me sua moglie. E venuta con suo figlio. Sono qui. Mica si rifiuterà di vederli? Balthazar e Margaret avevano sentito il mio appello silenzioso. Figlio mio, sapevi dunque che tuo padre è ancora vivo? - Sì, voglio vederli. - Vi concedo due ore. - Da soli? - Sì, da soli.

Dovevo apparire veramente in pessimo stato per beneficiare di un favore del genere. Li ho visti. Ci hanno lasciato soli per due ore, in una piccola stanza attigua al parlatorio. E per due ore ho pianto abbracciando Balthazar.

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Senza biglietto di ritorno

Tre settimane dopo entravo con passo leggero nell’aula bianca della Corte di appello di Roma. Non assomigliava molto ai tribunali che abbiamo in Francia: arredamento ultramoderno (come l’architettura del palazzo stesso), mura incise di motivi astratti e, soprattutto, un solo livello per tutti: seggio dei giudici, banco degli imputati, dei testimoni e degli avvocati, sedie del pubblico. Niente pedane solle­ vate da cui la potenza giustiziera ti schiacci, niente pedana da cui il procuratore ti guardi dall’alto. Nello spazio, se non nello spirito, la preoccupazione dell’eguaglianza, del riavvicinamento. Di nuovo il circo, dunque, ma meno ristagnante, più aereo, meno anchilosato nella gravità del rituale. Ho visto tutti gli amici, ancora una volta fedeli, quelli celebri e gli hippies, e li ho salutati accennando un passo di danza, per dire loro che ero nella speranza e nella gioia. Laura Betti si è fatta avanti fuori dalla folla ed è riuscita a toccarmi la mano, come per portarmi fortuna. Anche i giudici apparivano più diafani di quelli che mi ave­ vano condannato. Non erano verdi, questi qua. Avevano un colore della pelle più bello, più luminoso, si sentiva che erano maggiormen­ te nutriti dallo spirito, maggiormente coscienti della loro responsabi­ lità, che erano più vicini all’autentico esercizio del giudizio piuttosto che della macchina repressiva. E probabilmente erano anche impressionati dalla presenza, nell’aula delle udienze, della televisione e della radio. Fatto straordi­ nario, i dibattiti e la sentenza sarebbero stati ritrasmessi in tutta Ita­ lia. La gente avrebbe potuto osservare più da vicino il funzionamento no

della giustizia. Il giudizio che sarebbe stato reso qui, confermando o cassando il precedente, avrebbe avuto milioni di testimoni. I giudici si sarebbero costantemente confrontati con la propria immagine, da essa giudicati. Non erano più tra di loro, ben protetti nella piccola bomboniera di casta, dove hanno l’abitudine di regolare tra di loro i propri conti, senza che fuori si sappia nulla delle loro manovre. Ora avrebbero dovuto giudicare a viso scoperto, nudi come su un ring. Il processo, il tribunale, la disposizione della giustizia sono sem­ pre uno spettacolo, un teatro. Ma tutto cambia se questa scena si limita ai parenti, al piccolo numero degli spettatori presenti, invece di essere amplificata, esplosa su migliaia di schermi. La commedia giudiziaria non ha più la stessa andatura. Gli effetti ben collaudati da dieci anni di pratica non passano più allo schermo. Gli attori devono rinnovare il proprio repertorio di trucchi e di atteggiamenti. La posta in gioco prende un’importanza diversa quando la giustizia viene resa pubblicamente, alla testimonianza del popolo. Non è più soltanto l’imputato a correre un rischio. I giudici e l’istituzione giudiziaria stessa prendono il rischio di apparire ridicoli o ottusi. Probabilmente le telecamere erano lì solo per offrire un mo­ mento di suspense, di dramma e forse di scandalo per i milioni di telespettatori, alla stessa maniera in cui esse non avrebbero mancato di filmare una partita di pallone o una scena di guerra, ma la loro presenza aveva un altro effetto: quello di trasformare radicalmente la natura della rappresentazione, la sua portata. Tutto ciò era molto po­ sitivo, non soltanto per gli imputati, ma per tutti, giudici e pubblico, poiché avrebbe potuto demitizzare tutto il cerimoniale. «Hai visto la testa del presidente?... Guarda, ha sbadigliato... Recita male, questo procuratore... Quanto sono coglioni, con le loro toghe...» Ero con­ tento, poiché immaginavo i commenti che non sarebbero mancati, nelle famiglie italiane, attorno al pasto serale. Ogni spettacolo, è vero, ha qualche cosa di alienante. Ma quan­ do è la vita a essere filmata, attraverso i servizi televisivi o quello che si chiama cinema-verità, può realizzarsi un evento prezioso: che le maschere cadano, che l’ipocrisia dei potenti salti agli occhi di tutti, che si legga la menzogna, la vigliaccheria, sui volti che giocano a essere importanti. Che quel che è già spettacolo, un processo, per esempio, essendo intensificato dal film, si denunci come parodia. Era un po’ su quello che contavo, e sulla possibilità, è chiaro, di una in

tribuna da cui avrei potuto indirizzarmi, oltre che ai giudici, alla gente di questo Paese. - Cominciamo, se vuole. Imputato, risponda alle domande della Corte... Ho concentrato tutte le mie forze per poter parlare in un italia­ no sufficientemente comprensibile. - Se volete che si cominci, cominciamo, insomma!, e non fer­ miamoci. La verità è che la giustizia dovrebbe essere più giusta. Nelle carceri non si rieducano i detenuti, ma si distrugge sistematicamente la loro personalità. Le carceri sono un’industria di Stato e il carbone che serve ad alimentare le caldaie di questa industria è fatto della stessa carne dei prigionieri... - Si attenga ai fatti del processo. Lei è qui non per tenere una conferenza, ma per rispondere alle nostre domande. Naturalmente, questa cosa non poteva durare. Ero comunque riuscito a piazzare qualche frase di quello che avevo a cuore, e anzi, per interrompermi il presidente era stato costretto a usare maggior dolcezza e prudenza di quanto non avrebbe fatto prova in circostanze più normali. Mi sono rimesso a sedere. Fino alla sentenza, quello che sarebbe seguito non avrebbe più avuto grande interesse: una ripetizione del primo processo. Ho guardato mia madre nell’aula. Aveva fatto di tutto per ve­ nire, aveva ottenuto un permesso dall’albergo parigino nel quale lavorava come donna delle pulizie, era là, timida, impaurita, senza abbandonarmi mai con gli occhi. Il solo legame che per me rimane sacro è quello che mi lega a te, madre, che hai lottato tutta la vita per noi. Noi ti abbiamo fat­ to piangere mentre avremmo dovuto benedirti. Ammiro mia madre per aver tenuto duro quando era condannata dalle leggi barbare di un’epoca che disapprovava la ragazza madre. Malgrado la perfidia e l’ipocrisia della società, che considerava la donna non sposata come disonorata, tu hai saputo che ogni vita è più importante di una mo­ rale che avvelena il popolo con le sue superstizioni. Ora hai vinto tu, anche se noi, mio fratello e io, non abbiamo quasi mai smesso di farti soffrire, ma hai pagato questa vittoria sul tempo della tua vita e della tua salute, senza contare gli affronti, quelli che ti furono destinati e quelli che ti colpivano per la cattiva condotta dei tuoi figli, sempre colpevoli, da una parte o dall’altra, nei confronti dell’ordine costitu­ ii!

ito. Non devi essere sorpresa di vedermi a questo banco, benché sia certamente il primo processo al quale assisti. E probabilmente hai pregato molto, nella tua fede semplice, perché la sequenza nera che mi perseguita trovi qui il suo termine. I tuoi desideri sono esauditi. Hai dovuto ascoltare senza capire nulla la lettura della sentenza, ma agli applausi della folla hai com­ preso: «Nel nome del popolo italiano, la Corte di appello di Roma, visti gli articoli 523 e 213 del codice di procedura penale, annulla la sentenza precedente, ritiene Clémenti Pierre, André, prosciolto dai fatti che gli sono rimproverati, per insufficienza di prove, e ordina il suo rilascio immediato. E invece confermata la condanna inflitta a Lauricella Anna Maria» Le grida di gioia, gli applausi non mi hanno impedito di senti­ re l’ultima frase, crudele e ingiusta fra tutte. Come, io prosciolto e Anna Maria condannata? Trovati nella stessa abitazione, sospettati assieme, arrestati assieme, incarcerati entrambi, condannati entram­ bi alla stessa pena per gli stessi motivi, i giudici di appello ci separa­ no, liberando me e rinviando te in cella? Non ci capivo nulla, se non che questa disparità di trattamento era un abuso più grave di quello di mantenere in prigione due innocenti ancora per qualche mese. Cosa valeva questa assoluzione, se era al prezzo della tua infelicità? Mi aspettavo tutto, tranne un giudizio salomonico. O tutti e due colpevoli, o tutti e due innocenti, uniti come lo siamo sempre stati malgrado la prigione — ma non questa indegna mezza misura! Gli amici mi hanno subito circondato, liberato dalle mani dei carabinieri e spinto, portato tra le braccia di mia madre. Ma avevo avuto tutto il tempo di notarti, Anna Maria, nel momento in cui di­ stoglievi lo sguardo, come se mi considerassi responsabile dell’ignominia di questi giudici! Ma ci sarebbe di più: un’altra brutta sorpresa. Non avevo fatto ancora tre passi, libero, nei corridoi del tribunale, che due ufficiali di polizia mi pregano di compiere un’ultima formalità. Che accusassi ricevuta dell’ordine di espulsione emesso nei miei confronti: avevo ventiquattr ore per lasciare Roma e mi veniva addirittura pagato il biglietto aereo. Ero persona non grata e — questa storia non finirà mai! — pericolosa per l’ordine pubblico». Così, anche una sentenza di bontà, di giustizia, di pace, sanziona e punisce, richiude quello che ha aperto, come se la macchina repres­ 113

siva fosse così potente, così ben tirata sulla sua pendenza, che anche le decisioni positive, liberatrici, debbono portare con sé una fetta di ombra, lasciare il gusto della disgrazia, ferire ancora colui che esse dicono di salvare. Sono colpito oggi dal fatto che la logica del sistema sia profondamente negativa. Che anche il sogno di una giustizia un po’ più giusta sia derisorio poiché non soltanto l’aspetto repressivo ha la meglio sull’aspetto educativo e liberatorio, ma quest’ultimo, quando, raramente, è messo avanti, resta frenato, canalizzato e final­ mente distolto dal suo obbiettivo in ragione delle condizioni, delle clausole vincolanti che sempre lo accompagnano. Così che tutti gli innocenti sono in potenza dei condannati, tutti i non detenuti sono in libertà provvisoria, tutte le persone prosciolte non vengono libe­ rate che dietro cauzione. Anche quando è costretto a concedere un po’ di libertà, il sistema non cede in nulla sull’essenziale: la minaccia pesa sempre, l’oppressione non abbandona la presa.

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Signor ministro della Giustizia

Mi piacerebbe, un giorno, quando mi verrà permesso di calpestare di nuovo il suolo italiano, tornare a Rebibbia, a vedere come sta la gente, se si sono ancora ribellati, se il direttore non ha dimenticato le parole di pace di uno dei suoi ragazzi. Tornarci, per rappresenta­ re un’opera teatrale nel vasto cortile delle passeggiate, o proiettare un film. Forse allora le cose saranno cambiate, forse i padroni delle prigioni avranno messo da parte qualche mattone, non per farsi co­ struire ville in riva al mare, ma per offrire, per esempio, una piscina ai carcerati, perché questi possano fare di quando in quando cento metri nell’acqua, perché fa bene bagnarsi, soprattutto a Roma dove d estate fa caldo. Forse allora quella gente, poco a poco, avrà essa stessa preso le cose in mano, forse il carcere sarà autogestito come una grande co­ munità, forse i detenuti avranno organizzato corsi permanenti su tutti i problemi che li interessano e anche gli artisti di Roma verran­ no a insegnare alla scuola di arte drammatica di Rebibbia... Forse Fellini presenterà lì le grandi prime dei suoi film: presentare Roma davanti a duemila prigionieri, è meglio, no, che davanti alla borghe­ sia romana? Forse così quella gente comincerà a comprendere perché si trovano su questa terra e in questa prigione, e che l una e l’altra devono essere non un luogo di condanna e di repressione, ma anzi­ tutto un luogo di creazione. Forse sarà stata data loro la possibilità di prendere la vita là dove essa è — anche e soprattutto se è in prigione — e di prendere questa vita in un senso creativo e non distruttivo. n6

Non dite: utopia. Ciò può accadere. Ciò accadrà comunque, e grazie alla rivoluzione. In carcere ho incontrato militanti politici — anche in Italia li si imprigiona con quelli di ’’diritto comune”. Ho parlato con loro. Essi sanno quel che sono le carceri, chi sono i carcerati. Coloro che ho conosciuto non tenevano discorsi politici astratti, che sarebbero passati al di sopra delle teste della gente. Essi ascoltavano. Tenevano a mente le lamentele, i problemi, fornivano la loro spiegazione della giustizia, della repressione. Ma soprattutto imparavano dai carcerati e penso che sapranno servirsi di ciò che così hanno imparato. I maoisti (poiché sono principalmente i maoisti a essere in galera in Italia) dicevano che per guarire la malattia non si dovesse uccidere l’uomo. Ma non è necessario aspettare che la tempesta rivoluzionaria strappi le porte delle prigioni per agire, ora e qui. Molte cose di­ pendono evidentemente da coloro ai quali il mestiere permette di avvicinare e di conoscere meglio la realtà carceraria: preti, medici, psichiatri, avvocati e così via. Essi hanno, certo, più o meno sopra di loro l’amministrazione penitenziaria, che può o meno facilitare il loro compito, che può allontanarli, sostituirli, biasimarli, ma essi dispongono egualmente di un frammento di potere non trascurabi­ le — e della forza immensa del testimone. Voi che passate una parte della vostra vita tra i carcerati, senza esserlo, voi non avete potuto non vedere l’intollerabile. A meno che non abbiate chiuso i vostri occhi, tappato le vostre orecchie... Voi avete visto. Se avete i coglioni, parlate. Se pensate che la dignità dell’uomo sia indivisibile, che essa non sia riservata ai potenti, ai ricchi, a coloro che sono (ancora...) in libertà, e che gli altri, poveri sfruttati, imprigionati, abbiano anch’es­ si diritto a rivendicarla, pariate. Voi avete la possibilità non soltanto di parlare, ma di agire, di mobilitarvi, di far muovere coloro che non sanno o che preferiscono non sapere. Fatelo. Non aspettate più. Di cosa ci sarà bisogno altrimenti per stimolarvi? Delle rivolte? Queste non cessano, e tuttavia i carcerati che si rivoltano rischiano molto più di voi. Dei suicidi? Sono già più di trenta nelle prigioni francesi dall’inizio dell’anno. Questo non vi basta? Ma penso anche a coloro che, comodamente sistemati nel loro piccolo mondo, dimenticano addirittura l’esistenza delle prigioni. Certo, essi sono fuori, e non fanno nulla, così credono, che possa condurli dentro. Io vi dico che è falso pensare alla prigione sempli117

cernente come a qualcosa di contrario alla libertà, l’incarcerazione come «privazione di libertà». E la definizione legale della prigione, non è la realtà. Essere incarcerati non significa essere privati dell’au­ tonomia dei propri movimenti, delle proprie relazioni, delle proprie distrazioni. Poiché in prigione ci si muove (un po’), si allacciano relazioni, e ci si distrae anche. La cosa intollerabile non è in questa limitazione. Oppure bisogna dire che tutti coloro che si credono li­ beri sono di fatto prigionieri della loro maniera di vivere e delle loro abitudini: del loro appartamento, della loro famiglia, del loro quar­ tiere, del loro lavoro e anche delle loro vacanze. La cosa in tollerabile è piuttosto che la prigione faccia di tutti i vivi dei morti. Che essa fabbrichi ogni giorno, da carne e spirito vivi, dei cadaveri, delle teste vuote, dei pesi morti. Che essa produca costantemente l’inutile, il negativo. C’è ipocrisia nel grande dibattito sulla soppressione della pena di morte: come se la scelta fosse tra la morte e la vita, e non tra una morte istantanea e una morte un po’ più lenta, ma non meno dura. Poiché la prigione non è nient’altro che una macchina per far agoniz­ zare — e d’altronde non gli ci vuole tanto tempo per riuscire a uccide­ re. Se la questione fosse la soppressione delle carceri, d’accordo. Ma sopprimere la pena di morte come un atto particolarmente barbaro e rivoltante, e commutarla nella pena del carcere a vita, significa met­ tersi la coscienza a posto torturando più abilmente colui del quale si pensa di aver salvato la testa. La testa, sia, ma quello che c’è nella testa? Quello a cui serve? Se non lo si sapesse già, in prigione si impara che tutti gli uo­ mini possono essere trasformati, che essi cambiano in funzione delle condizioni di vita che sono create per loro e del loro ambiente: che i loro pensieri, le loro abitudini e anche i loro riflessi si adattano alla natura del suolo e del clima nel quale crescono. Dunque, come si­ curamente esse trasformano piccoli delinquenti in criminali incalliti, criminali in recidivi e recidivi in agonizzanti, le prigioni potrebbero trasformare coloro di cui esse hanno la responsabilità in esseri utili, e non più in esseri nocivi ai loro fratelli. Allora, che tutti coloro che non si preoccupano delle carceri perché non ci si trovano riflettano sul fatto che essi comprano la loro libertà con l’oppressione e con il massacro degli altri — e che a tal prezzo questa libertà è certamente preziosa. Che essi sappiano di

n8

vivere su un vulcano il cui sonno è sempre più fragile. Che il giorno in cui le prigioni esploderanno, esse faranno andare in frantumi non pochi pezzi della vecchia società. La caldaia stessa non tollererà la pressione crescente che tiene al suo interno. Per me è chiaro che si può, dal di dentro come dal di fuori, agire sull’amministrazione delle carceri, sull’esercizio della giustizia e sull’applicazione delle pene. Quel che alcuni uomini fanno, altri possono disfare. Quel che gli uni nascondono, gli altri possono de­ nunciare. Non lasciate più le mani libere ai boia moderni. Non si tortura solo nelle galere del Vietnam del Sud o nelle fortezze brasilia­ ne: esploriamo la nostra casa. Penso, per esempio, ai secondini. In Francia come in Italia hanno dei sindacati che dicono: siamo dei lavoratori come gli altri, abbiamo i nostri problemi e le nostre rivendicazioni. Bene, se sono dei lavora­ tori come gli altri, discutiamo la questione con loro. Perché lasciare ai detenuti il privilegio del rapporto con loro? Spieghiamo loro a cosa servono esattamente e che anche se sono educati per pestare con gli occhi chiusi sul primo carcerato che capita, non è così evidente che essi abbiano interesse a farlo. Che essi stessi sono vittime del sistema di cui sono i preziosi ausiliari. Ma sto sognando... Sogno lei, signor ministro della Giustizia. Amerei, una sera, una sera che lei è nel suo letto, trovarla con un’ insonnia tenace. Niente da fare, nessun modo di scivolare nel sonno. E che lei ha dei proble­ mi: il suo stato è doloroso. Tutti i poteri di cui dispone, e non sapere cosa farne! Le hanno telefonato da tutti gli angoli del Paese: le cose non vanno nelle carceri, le cose non vanno nei tribunali, nessuno è contento. Si lamentano i detenuti e i guardiani. I giudici e i giudica­ ti. E tutto ciò la riguarda. Si rigira nel suo letto, e non sa cosa fare, né per trovare il sonno né per trovare la soluzione. Troppo lavoro? E sovraccarico di lavoro? Non solo. E anche il fatto che lei manca di immaginazione, che in fondo lei non prova piacere nel compito che le è stato affidato. Ci sono persone che si agitano un po’ dappertutto, ci sono manifestazioni, proteste, dei tipi fanno lo sciopero della fame nel momento stesso in cui lei cerca invano di prendere sonno. E la sola idea che le viene è: imprigionateli tutti! Coloro che sono fuori, in galera. Coloro che sono in galera, in isolamento. Lei crede che chiudendo i suoi brutti sogni le cose andranno meglio per lei.

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Dice a se stesso: però rappresento la giustizia in questo Paese. Ma è all’altezza? Rendere giustizia è infatti una cosa sacra. Lei può guarire o distruggere. Lei ha la scelta, lei è il ministro. Ed è forse questo a turbare il suo sonno. Lei può precipitare nell’infelicità degli uomini sempre più numerosi. I deboli sono senza difesa tra le sue mani. Lei potrebbe così diffondere la luce nelle menti. Ma non lo fa, e questo finisce per tormentarla. Si ricordi del suo ultimo cenone di Natale... C era un’ombra sulla festa e forse negli occhi stessi dei suoi bambini. Lei ha privato l’immensa famiglia dei suoi prigionieri dei loro piccoli regali. Che idea! Perché ha sempre idee così cattive? Credo che sarebbe bene che in una notte d’insonnia lei pren­ desse la macchina e andasse, verso mezzanotte, l una, a vedere un po’ quel che succede alla Santé. Penso che le apriranno. A volte basta declinare la propria identità perché tutte le porte si aprano. Entri, faccia accendere le luci, veda più da vicino quello che disturba la sue notti. Guardi un mondo dove tutto va cambiato, tutto va inventato. Non si tagli le vene. Respiri e crei. La saluto.

120

Postfazione

C’è la mancanza... e c’è la mancanza di Pierre. Bello, tenebroso, metà angelo e metà demone, così oscuro e luminoso allo stesso tempo. Visionario, anticonformista e senza compromessi. Eri un Puro. Lo eri fino a morirne, « A N G E L O », lo sei per sempre. Sei l’esempio per tutta una generazione di un passaggio folgorante che pochi artisti possono vantare di aver compiuto, un percorso senza compromessi al servizio dell’Arte e della Creazione. Al Maestro Fellini ha avuto il coraggio di dire no, cosa che nessun attore avrebbe mai osato fare. Al rifiuto delle proposte più allettanti tanto dal punto di vista della regìa che da quello del denaro hai preferito mettere da parte il tuo status di « ST A R » per voltarti verso la creazione e aiutare i giovani registi. Oggi queste regìe, considerate all’epoca marginali, sono diventate grazie a te film di culto. Artista \ per mancanza di conformismo, proprio come Caravaggio nella propria cella, dipingi la luce Zenitale che ti aprì il canto spirituale della poesia e la luce che ci hai dato attraverso la tua opera. Esprimerai il tuo spirito critico: «Libertà» attraverso la propria realizzazione. Resti un modello da seguire per le generazioni future per il modo di realizzarsi nella vita e nell’arte. Sei andato via il 27 dicembre 1999, periodo di grandi tempeste, a raggiungere gli angeli... Ci manchi...

Balthazar Clémenti, maggio 2005

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Breve guida biblio filinografica

(1986)

» Histoire en marche: Le serment, Z’(1985)TV

» 44 ou les récits de la nuit (1985)

» Quelques messages personnels,

» Christmas Carol ( 1984) TV » Patrik Pacard (1984) (mini) » Clash (1984) » Canicule (1984) » Rapt, Le (1984) » Etrange chàteau du docteur Leme, Z/(1983) TV » Homme de la nuit, E (1983)

Paris, Gallimard, 2005-

mini TV Series

» Carcere italiano, Milano, Il

»

formichiere, 1973.

» » » » » » » » »

LIBRI

INTERPRETAZIONI » Goùt des fraises, Le ( 1998) TV » Hideous Kinky ( 1998) » Bassin de J. W., Le ( 1997) » Nègre, Le ( 1997) » Aquila della notte, E ( 1994) » Ipoptos politis ( 1994) » Attendre le navire ( 1993) » KL Transit (1993) » Massacres (1991) » Lapsus (1991) » Céleste (1991) » Autrichienne, £,’(1990) » Es ist nicht leicht ein Gott zu sein (1990) » Clones (1990) » Une femme tranquille (1989) TV

» Manon Roland (1989) TV » Bambino di nome Gesù, Un (1987)

» Une femme innocente (1986) TV

» A I ombre de la canaille bleue 126

Ediths Tagebuch (1983) Ilfaut marier Julie (1983) Par ordre du Roy (1983) TV Exposed ( 1983) Bruckenschldge (1983) TV Steppe, La (1982) TV Chassé-croisé (1982) Amour des femmes, E ( 1982) Deuil en vingt-quatre heures

(1982) mini TV Series

» Pont du Nord, Le ( 1981 ) » Quartet (1981) » Enquètes du commissaire Maigret, Les » Une confidence de Maigret (1981) TV

» Histoires extraordinaires: La chute de la maison Usher (1981) TV

» Cauchemar (1980) » Stridura (1980) » Brune et moi, La (1980) » Madame Sourdis (1979) TV » Zoo zèro (1979) » New old ou les chroniques du temps présent (1979) » Vraie histoire de Gerard

Lechòmeur, La (1979) » Piccole labbra (1978) » Grandes conjurations: Le tumulte d’Amboise, Les (1978) » Chanson de Roland, La (1978) » Mardi et mercredi (1978) » Plages sans suites (1978) » Apprentis sorciers, Les (1977) » Ces oiseaux de feu ( 1977) » Affiche rouge, L’ (1976) » Berceau de cristal (1976) » Fils d'Amr est mort, Le ( 1975) » Steppenwolf (1974) » Sweet Movie (1974) » Ironie du sort, L' ( 1974) » Jennifer (1974) » De quoi s’agit-il? (1974) » Cicatrice intérieure, La (1972) » Passion, La (1972) » Crush Proof (1972) » Vittima designata, La (1971) » Jupiter (1971) » Wheel ofAshes (WH} » Matin, Le ( 1971 ) » Famille, La (1971) » Pacifista, La (1970) » Nini Tirabusciò: la donna che inventò la mossa (1970) » Necropolis (1970) » Cabezas cortadas (1970) » Cannibali, I ( 1970) » Conformista, Il (1970) » Le(on de choses, La (1970) » Renaissance (1970) » Porcile (1969) » Sua giornata di gloria, La (1969)

» » » »

Voie lactée, La (1969) Antenna (1969) Lit de la vierge, Le ( 1969) Partner (1968)

» Idoles, Les (1968) » Benjamin (1968) (1968)

»

» » » » » » »

Visa de censure ( 1968) Chromo sud ( 1968) Homeo (1967) Belle de jour ( 1967) Un homme de trop ( 1967) Pop Game (1967) Scusi, facciamo l'amore?

(1967)

» Lamiel ( 1967) » Compagnoni de Jehu,

Les

( 1966) TV Series

» Brigade antigangs ( 1966) » Uomo che ride, L' ( 1966) » Cent briques et des tuiles (1965)

» Ilhas Encantadas, As ( 1965) » Cinq demières minutes, Les » Une affaire de famille (1963) TV Episode

» Gattopardo, Il (1963) » Adorable menteuse ( 1962) » Flore et Blancheflore (1961) TV

» Chien de pique ( 1960)

REGIA » A l'ombre de la canaille bleue (1986)

» New old(\979) » Ange et le démon, L' ( 1971 ) » Esméralda (1970) » Art de vie ( 1969) » Revolution riest quun début. Continuous, La (1968) » Visa de censure ( 1968) » Film ou Visa de censure numéro (1967)

127

Filosofìa della pena e istituzioni penitenziarie Articolo già apparso sulla Rivista Iride, 14 (2001), 32, pp. 47-58

Danilo Zolo

Danilo Zolo (Rijeka, 1936) è professore di Filosofia del diritto e di Filosofia del diritto internazionale nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Firenze. Tra i suoi libri più recenti: Invoking Humanity*. War, Law and Global Order (2002), Globalizzazione. Una mappa dei problemi (2003), La giustizia dei vincitori (2006), L'alternativa mediterranea (2007).

DANILO ZOLO

1.1 dilemmi della giustizia punitiva Una riflessione sul significato filosofico della pena dovrebbe riguar­ dare anzitutto le ragioni per le quali i gruppi umani stabilmente or­ ganizzati ricorrono, senza eccezioni, a pratiche di carattere penale. Si tratterebbe cioè di indagare sulle ragioni profonde che, nell’antichità più remota come nel mondo moderno, hanno indotto e continuano a indurre i gruppi sociali ad imporre ad alcuni loro membri, in forme rituali e collettivamente condivise, sofferenze fisiche o psichiche, tor­ ture e mutilazioni fino al limite della soppressione della loro vita. Le afflizioni penali vengono applicate attraverso strutture socia­ li, più o meno differenziate e complesse, che hanno il compito di individuare come ‘pericolosi’ alcuni membri del gruppo o di proibi­ re e contrastare certi comportamenti giudicati devianti rispetto alla normalità’ della vita sociale. La repressione penale si accompagna molto spesso a forme di intervento pubblico con le quali si cerca di neutralizzare in anticipo i soggetti ritenuti pericolosi o di prevenire il verificarsi dei comportamenti giudicati devianti, in particolare at­ traverso pratiche di dissuasione, individuale o collettiva, di carattere premiale o, più spesso, punitivo. Nelle società evolute’ il compito di individuare i soggetti pe­ ricolosi e di sanzionare le condotte devianti viene normalmente affidato ad organi speciali e ‘indipendenti’ — le autorità giudiziarie — che sono tenuti ad operare secondo procedure predeterminate 130

FILOSOFIA DELLA PENA E ISTITUZIONI PENITENZIARIE

dal diritto. Queste autorità hanno il potere di infliggere sanzioni, e cioè di produrre sofferenze legali’ di vario tipo e intensità, autoriz­ zando comportamenti ostili nei confronti di soggetti che siano sta­ ti preventivamente sottoposti ad un qualche tipo di identificazione e di indagine. Nel mondo moderno le indagini giudiziarie hanno come obbiettivo l’accertamento della responsabilità del sospettato o dell’imputato, in base al principio generale del carattere personale della responsabilità penale. E questo principio rinvia all’assunzione filosofica, fortemente controversa, della libertà del soggetto. Senza supporre una libera volizione individuale — il cosidetto ‘libero arbi­ trio’ — sarebbe impossibile attribuire responsabilità morale e penale ai singoli attori sociali e ritenerli quindi individualmente imputabili e punibili. Essi potrebbero, al più, essere oggetto di misure ammini­ strative di carattere terapeutico, come la filosofia sovietica del diritto penale propose nei primi decenni del novecento. Nelle società occidentali le ‘afflizioni legali’ vanno dalla sanzio­ ne pecuniaria alla carcerazione temporanea, all’ergastolo, alla pena di morte. Quest’ultima, anche se oggi è formalmemte (apparente­ mente) meno diffusa rispetto a un passato dominato dalle punizioni corporali, resta simbolicamente la sanzione penale per eccellenza: realizza l’espulsione radicale e definitiva di un soggetto da parte del suo gruppo di appartenenza, oltre che la distruzione violenta della sua identità e dignità. In Occidente la pena di morte ha sempre go­ duto di un largo consenso e oggi continua a goderlo negli Stati Uniti, sia presso le classi dirigenti che nell’ethos popolare. Con l’eccezione dei paesi europei, oggi in tutto il mondo l’applicazione della pena capitale, in forme giudiziarie ed extragiudiziarie, come il ‘suicidio carcerario’, tende ad estendersi, corroborata dal contagioso esempio degli Stati Uniti e sostanzialmente approvata dalle grandi religioni positive, inclusa la Chiesa romana1. In questa cornice generalissima, l’interrogativo filosofico cen­ trale riguarda anzitutto la giustificazione della pena: la pretesa della comunità di sanzionare i soggetti devianti, arrivando sino alla loro i Si veda Particelo 2266 del testo recente del Catechismo della Chiesa cattolica: “Difendere il bene comune della società esige che si ponga l’aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, l’insegnamento tradizionale della Chiesa ha riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere pene pro­ porzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte”. 131

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uccisione, ha un fondamento morale? perché a qualcuno viene rico­ nosciuto il diritto di punire e ad altri viene attribuito il dovere di su­ bire le sofferenze che gli vengono inflitte? Esiste un principio filoso­ fico che fondi in generale i diritti e i doveri penali? In secondo luogo ci si può chiedere: quali sono le effettive funzioni sociali della pena, e cioè le sue finalità implicite e latenti? E infine: il sistema penale esiste perché ci sono comportamenti umani che devono, in assoluto, essere proibiti? O è lecito pensare, invece, che le politiche della repressione penale corrispondono a contingenze sociali, politiche ed economi­ che molto variabili e prive di giustificazioni generali?

2. Perché punire? La filosofia occidentale ha offerto risposte diverse all’interrogativo circa la giustificazione della pena. Con una semplificazione teorica molto drastica, ma a mio parere plausibile, i paradigmi della giusti­ ficazione possono essere ricondotti essenzialmente a due, uno antico ed uno moderno: (1) il paradigma nomologico dell’ordine cosmico e (2) il paradigma utilitaristico della difesa sociale e della risocializza­ zione (o ‘rieducazione’) del reo.

1. Per fondare moralmente o giuridicamente la ‘giustizia punitiva’ (e la violenza persecutoria) è stata invocata l’idea dell’ordine e dell’ar­ monia universale. Questo paradigma, risalente alla filosofia greca, è stato elaborato nella sua forma più caratteristica dalla teologia cat­ tolica medioevale. La sanzione è stata concepita come una sorta di risarcimento cosmico: punire ed espiare significa ripristinare l’equi­ librio infranto dal comportamento immorale o illegale, significa re­ staurare Lordine naturale’, rimettendo in vigore la razionalità imma­ nente nella creazione, lesa dalla ‘colpa’ del ‘peccatore’. La sofferenza imposta ha sia un valore penitenziario — con effètti di redenzione e di purificazione soggettiva —, sia un valore risarcitorio. E’ Dio stesso — e i suoi rappresentanti investiti di potere spirituale o di potere temporale — che ha il diritto di punire in nome della sua trascendente giustizia, imponendo delle penitenze’. Non a caso le radici prime del diritto penale moderno sono rintracciabili nei cataloghi delle azioni vietate da Dio di cui si sostanziano i trattati medioevali di teologia morale. 132

FILOSOFIA DELLA PENA E ISTITUZIONI PENITENZIARIE

Nella storia europea l’intenzione purificatrice, ispirata ad un in­ flessibile ossequio nei confronti dell’ordine oggettivo della creazione, ha giustificato, come é noto, le più atroci torture, sino alla raffinata spietatezza dei tribunali ecclesiastici della Chiesa romana e in parti­ colare della Santa Inquisizione. La repressione dell’eresia ha sacra­ lizzato la tortura intendendola e praticandola non come espressione di ostilità o di crudeltà, ma come strumento spirituale per aiutare l’imputato a rendersi trasparente verso la verità e a confessare’ (se re­ sisteva alla tortura e non confessava, l’imputato veniva normalmente assolto ed evitava quindi di essere impiccato, decapitato o bruciato). La sofferenza inflitta era dunque essenzialmente un omaggio all’ar­ moniosa regolarità normativa del mondo (alla volontà di Dio’) e, indirettamente, un’espiazione collettiva per le colpe commesse da un membro della comunità cristiana. Nei contesti primitivi’ delle società mitico-rituali, ha sostenuto René Girard, la pena come conferma collettiva dell’ordine cosmico assume un esplicito significato vittimario e sacrificale. In situazioni di crisi, di lacerante conflittualità e instabilità del gruppo sociale, il rito penale ha la funzione di riportare la pace e di riconquistare il favore degli dei. Ciò si realizza sacrificando un individuo — il capro espiatorio’ — sul quale vengono concentrate simbolicamente le colpe del gruppo. L’espulsione e la distruzione sacrificale della vittima — spesso accompagnata da rituali cannibalici di tipo eucaristico — ha un effetto di purificazione e di redenzione dell’intero gruppo sociale e quindi di restaurazione di un rapporto positivo con l’ambiente, di allontanamento dei pericoli, di ingraziamento del favore divino. Nella civilissima e ‘democratica’ Atene, come nella culture america­ ne precolombiane, in particolare quelle atzeca e maia, il sacrificio umano svolge un effetto rassicurante: è una sorta di medicina socia­ le, di fdrmakon, appunto, che protegge, guarisce e rinsalda i legami collettivi. 2. Il paradigma laico e utilitaristico della difesa sociale si afferma len­ tamente in Europa a partire dalla fine del settecento, mentre è ai suoi inizi la rivoluzione industriale. Diviene dominante nel corso dell’ot­ tocento con raffermarsi di filosofie penali di ispirazione illuministica e positivistica ed è tutt’oggi l’apparato di giustificazione ‘razionale’ della pena più utilizzato dalle penologie ortodosse occidentali. (Un 133

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discorso molto diverso andrebbe fatto per le filosofie della pena non occidentali, ad esempio quella islamica e quella confuciana). La pena tende a non riferirsi più al dovere di ripristinare e risarcire l’ordine universale infranto dal peccatore: punire ha come obbiettivo princi­ pale quello di isolare il deviante dal gruppo sociale, di neutralizzare la sua pericolosità e di riammetterlo nel gruppo solo dopo averlo ‘rieducato’ all’obbedienza e alla disciplina sociale (ma solo nei casi in cui questo recupero sia ritenuto possibile). Ciò che ora si chiede al reo non è la confessione della propria colpa e il riconoscimento di un ordine universale improntato a valori trascendenti (anche se questo aspetto soprawirerà a lungo come una sorta di meccanismo postumo di rafforzamento teologico-morale della pena). Ciò che si richede è piuttosto l’accettazione e il rispetto delle regole politiche ed economiche adottate dal gruppo. La soffe­ renza procurata al deviante non è più intesa come espiazione, purifi­ cazione e redenzione. E’ una sofferenza che ha una duplice funzione: per un verso ha un significato retributivo nei confronti dei valori e degli interessi sociali violati o messi a repentaglio dal crimine; per un altro verso intende svolgere una funzione correzionale e dissuasiva. Il ricordo della sofferenza patita dovrebbe dissuadere il reo dal ripetere i suoi comportamenti criminali, mentre lo spettacolo sociale della sofferenza inflitta ad alcuni membri del gruppo dovrebbe operare come un deterrente generale, inducendo la grande maggioranza dei cittadini al rispetto delle regole collettive che il gruppo si è libera­ mente (democraticamente) dato. Nei casi estremi il soggetto viene esiliato’ per sempre, e cioè tenuto in permanenza segregato dal grup­ po sociale perchè ritenuto irreversibilmente pericoloso e non ‘riedu­ cabile’. E’ il caso del ricovero (di fatto) permanente in manicomio criminale, dell’ergastolo e della pena di morte, sanzioni quest’ultime che si ritengono dotate di un’alta efficacia deterrente per la generalità dei consociati. Nel carcere cellulare filadelfiano, che inaugura la grande stagione della giustizia carceraria nella quale ancora oggi ci troviamo immersi, il silenzio e la preghiera perdono gradualmente il ruolo di strumenti di ‘rieducazione’ dei detenuti. Il lavoro, come registra Tocqueville nel suo viaggio americano, tende a diventare lo strumento princi­ pale per addestrare e disciplinare i detenuti e per inculcare loro la logica dell’efficienza economica. Questa è una pedagogia essenziale 134

FILOSOFIA DELLA PENA E ISTITUZIONI PENITENZIARIE

entro una società sempre più dominata dai processi della produzione industriale e dell’economia mercantile. Non a caso Bentham aveva concepito il suo celebre Panopticon come un carcere a struttura circo­ lare, dove, grazie a sofisticati meccanismi ottici, i guardiani poteva­ no tenere costantemente sotto controllo i detenuti senza essere visti. L’architettura e l’ingegneria panottica erano gli strumenti economi­ camente più efficienti, riteneva Bentham, in tutti i casi in cui fosse necessario che i pochi controllassero i molti: non solo nel carcere ma anche nella scuola, nell’ospedale e, soprattutto, nella fabbrica. Come ha sostenuto Michel Foucault, il sistema penale moderno — e cioè, in sostanza, il sistema carcerario — pretende di sorvegliare e di punire disciplinando i soggetti. La segregazione e l’afflizione devono produrre, in forme il più possibile economiche, disciplina e confor­ mismo, non emenda e redenzione. Il paradigma penale e penitenziario della difesa sociale si pro­ pone come una radicale innovazione rispetto alla irrazionalità del sistema penale premoderno: intende umanizzare le pene, addolcir­ le’, finalizzarle al recupero del reo e togliere loro la sommarietà ed esemplarità simbolica che per secoli aveva fatto del ‘supplizio’ la pena per antonomasia. La penologia illuministica si impegna, con piglio scientifico, ad elaborare il duplice registro dei delitti e delle pene: ad una rigorosa tassonomia delle figure di reato si fa corrispondere una puntigliosa determinazione quantitativa delle pene. E la pena carceraria diviene rapidamente la pena per eccellenza perchè consi­ derata pena ‘razionale’ per eccellenza: non solo perchè ritenuta più mite e più rispettosa dell’integrità fisica e psichica dei soggetti, ma perchè essa si presta ad essere commisurata alla gravità dei reati e alla pericolosità sociale dei rei con la semplice variazione della sua durata temporale. Ma essa è anche flessibile dal punto di vista dell’afflizione procurata — accanto al ‘carcere duro’ ci possono essere varie forme di ‘custodia attenuata’ e di semilibertà — e relativamente reversibile. Il sistema penitenziaro fondato sul carcere, oggi si sostiene in Occidente, è perfettamente corrispondente alle esigenze di difesa sociale di una società moderna, liberale, democratica, rispettosa dei diritti fondamentali degli individui. Intende infliggere ai devianti la minima sofferenza necessaria, compatibilmente con le esigenze del mantenimento dell’ordine pubblico, del senso di sicurezza dei citta­ dini e della difesa dei valori occidentali incentrati sulla ‘dignità della 135

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persona’. E’ un sistema, come recita la carta costituzionale italiana, che ispira il trattamento penitenziario al ‘senso di umanità’ e che in­ tende attribuire alla reclusione carceraria una finalità rieducativa.

3. La razionalità funzionale del sistema penitenziario moderno Al di là delle motivazioni formali, qual è l’effettiva funzione socia­ le del sistema penitenziario moderno? Sono credibili gli argomenti della criminologia e della penologia ufficiali che lo presentano come uno strumento razionale di difesa sociale, di prevenzione della de­ vianza, di rieducazione e risocializzazione dei condannati? Di quale razionalità si tratta? La questione della razionalità delle misure detentive è un tema classico della filosofia politica e della storiografia europee, da Toc­ queville a Foucault, a Ignatieff, alle recenti analisi di Loì'c Wacquant. Ma è anche un tema piuttosto trascurato sul terreno dell’indagine empirica e della riflessione teorica: è trascurato sia dai sociologi che dai penalisti, per non parlare dei filosofi del diritto, a tutt’altre fac­ cende affaccendati. La razionalità del carcere è un tema culturalmente e socialmente rimosso, ma che riemerge senza sosta in forme paradossali e inquie­ tanti. Riemerge perchè il carcere, entro una società che si pretende ispirata a valori di libertà e di rispetto della dignità umana, è, esso stesso, un’istituzione fortemente deviante e altrettanto contestata. E’ contestata anzitutto dagli operatori che vi sono addetti. In Italia, ad esempio, è accaduto che il direttore del carcere milanese di San Vit­ tore abbia cinicamente (e impunemente) parlato dello stabilimento di cui è responsabile come di un luogo di tortura2. E la razionalità del carcere è clamorosamente contestata anche dai cittadini che vi sono reclusi, soprattutto se appartenenti alle categorie sociali medio-alte. Sul piano teorico, il carcere è contestato in generale dai sostenitori dell’abolizionismo penale e lo è, in termini più puntuali, dai sosteni­ tori di uno specifico abolizionismo carcerario’, che vorrebbero l’abo­ lizione del carcere senza tuttavia propugnare l’ambiguo ideale di una società senza devianza o senza repressione penale. Ma nonostante tutto questo l’istituzione carceraria è in continua espansione. In Italia, in Europa e nel mondo si costruiscono senza 2 Cfr. l’intervista a Luigi Pagano a cura di Enrico Deaglio, in Rapporto degli ispettori europei sullo stato delle carceri in Italia, Palermo, Sellerio Editore, 1995, pp. 11-20.

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posa nuove carceri e aumenta a dismisura la popolazione carceraria. Negli Stati Uniti, ad esempio, negli ultimi quindici anni la popo­ lazione carceraria si è triplicata superando la cifra di due milioni di detenuti, ciò che rappresenta sotto molti profili un record mondia­ le. Negli ultimi sei anni negli Stati Uniti sono state costruite oltre duecento nuove carceri, senza contare le prigioni private. Accanto ai penitenziari pubblici è infatti fiorito il correctional business, il cui vo­ lume di affari ha segnato una crescita esponenziale. In circa quaranta istituti penitenziari privati è oggi rinchiusa una popolazione di oltre centotrentamila detenuti3. Anche in Italia, dopo varie oscillazioni attorno alla cifra di 45.000 detenuti, la popolazione carceraria ha raggiunto recentemente il record di oltre 54.000 unità, fra reclusi definitivamente condannati e reclusi in attesa di giudizio. Che cosa può significare il termine ‘razionalità’ se riferito alle istituzioni penitenziarie? A quale razionalità corrispondono la quan­ tità e la qualità afflittiva della pena carceraria? Trascurando qui ogni aspetto metodologicamente sofisticato — si rischierebbe altrimenti di restare impigliati nel labirinto dell’epistemologia dei fenomeni nor­ mativi — per razionalità dell’esecuzione carceraria si può intendere molto semplicemente la congruità dei mezzi rispetto ai fini sociali formalmente dichiarati e istituzionalmente legittimati. Secondo l’ap­ proccio razionalistico, come abbiamo visto, il contenimento repres­ sivo della devianza ha come fine la produzione di ordine politico e di sicurezza e quindi il rafforzamento delle aspettative individuali re­ lativamente ai beni e ai valori protetti dall’ordinamento giuridico. E questi sono anzitutto l’integrità personale, la libertà e la proprietà. Per affrontare in termini non accademici la questione della ra­ zionalità strumentale del carcere è indispensabile qualche accenno di sociologia delle istituzioni penitenziarie. Si può fare riferimen­ to, ad esempio, alla qualità afflittiva (o, in ipotesi, rieducativa) del carcere in Europa e in particolare in Italia. Sul tema disponiamo oggi di documentazioni autorevoli, in particolare dei rapporti de­ gli ispettori del Comitato del Consiglio d’Europa per la preven­ zione della tortura e dei trattamenti disumani e degradanti (in si­ gla CPT). In più, il libro di Antonio Cassese, Umano-disumano. 3 Cfr. L. Wacquant, Les prisons de la misere, Paris, Editions Raisons d’Agir, 1999; trad. it. Milano, Feltrinelli, 2000, pp. 66-7■ 137

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Carceri e commissariati nell’Europa di oggi4, fornisce un quadro approfondito e una testimonianza diretta della realtà carcera­ ria europea, essendo stato Cassese presidente del CPT per oltre quattro anni. Questi testi documentano la sistematica violazione dei più ele­ mentari diritti dei cittadini reclusi non solo in un paese come la Tur­ chia, tradizionalmente irrispettoso dei diritti soggettivi, ma anche in un paese di lunga tradizione democraticam come l’Inghilterra. Cruciale è il tema della tortura: essa non viene più esercitata con le apparecchiature un tempo usate dalla Santa Inquisizione: ruote, corde nodose, cavalletti irti di aculei di acciaio, etc., che lasciavano tracce vistose nei corpi dei torturati. La tortura, come osserva Casse­ se, si è fatta casalinga e dimessa’, ma non per questo meno crudele, umiliante e dolorosa. Una forma diffusissima, soprattutto nei paesi mediterranei, è la falanga, che consiste nel picchiare ripetutamente con un bastone la pianta dei piedi o il palmo delle mani dei detenuti. Un altro metodo molto diffuso è la sospensione palestinese’ e un altro ancora consiste nell’infìlare un uovo bollente sotto l’ascella del detenuto, oppure, molto semplicemente, nel colpirlo ripetutamente sul capo con un grosso elenco telefonico, fino a stordirlo e a provo­ carne lo svenimento. In un paese europeo la polizia usa bastoni di plastica da cui fuoriescono due aghi metallici percorsi a comando da una violenta scarica elettrica. Per quanto riguarda l’Italia, si può fare riferimento a due rapporti della commissione del CPT5. Da questi documenti emerge che sono largamente praticate forme di maltrattamento e di violenza fisica contro i cittadini arrestati e indagati. Spesso i fermati, soprattutto gli stranieri extracomunitari e i tossicodipendenti, vengono colpiti con pugni e calci, schiaffeggiati, tenuti lungamente a digiuno, insultati. Oltre a ciò, i rapporti degli ispettori europei denunciano le condizio­ ni inaccettabili dal punto di vista del rispetto dei diritti fondamentali in cui versano gli istituti che essi hanno visitato, inclusi gli Ospedali psichiatrici giudiziari. La ragione principale è il sovraffollamento de­ gli stabilimenti: i reclusi, stipati in celle anguste, sporche, fatiscenti, 4 Si veda A. Cassese, Umano-disumano. Carceri e commissariati nell’Europa di oggi, Roma-Bari, Laterza, 1994. 5 II primo rapporto è stato pubblicato, a cura di Adriano Sofri, dall’editore Sellerio: Rapporto degli ispettori europei sullo stato delle carceri in Italia, Palermo, 1995. Il secon­ do rapporto è stato reso noto nel 1998.

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non riscaldate e male illuminate, dispongono mediamente di non più di due o tre metri quadrati a testa. Spesso sono costretti a con­ servare i propri indumenti e oggetti personali in scatole di cartone disposte sul pavimento. E sul pavimento sono sistemati i materassi sui quali dormono. Le attività collettive sono scarse, le relazioni con l’ambiente esterno sono difficoltose, mentre la comunicazione fra il personale penitenziario e i detenuti stranieri è impedita dall’assenza di conoscenze linguistiche o di interpreti. Talora per il trasferimento dei detenuti vengono usati ceppi molto stretti e pesanti catene, in violazione delle disposizioni penitenziarie europee. Il sovraffollamento degli stabilimenti è una delle ragioni più gra­ vi, ma non è la sola, della tortura carceraria. Pesanti sono le condi­ zioni di vita dei malati di Aids, dei tossicodipendenti e degli stranieri extracomunitari. Quest’ultimi si avviano ormai a divenire la metà della popolazione carceraria italiana. Una componenente afflittiva non trascurabile è l’astinenza sessuale imposta di fatto come una pena accessoria: essa è fonte, come è noto, di violenza, di distorsio­ ni psico-sessuali, della pratica a lungo andare avvilente e debilitante dell’auto-erotismo. Se si aggiungono la mancanza del lavoro e di at­ tività socializzanti, lo squallore degli ambienti, la cattiva qualità del cibo e la difficoltà ad essere curati fisicamente ed assistiti psicologi­ camente (che non significa essere affidati alle ambigue cure degli psi­ chiatri carcerari), si capisce perché sia così alto e in crescita costante il tasso dell’autolesionismo, del tentato suicidio e del suicidio nelle carceri italiane. Lo stato delle istituzioni carcerarie in Italia e negli altri paesi europei — la situazione negli Stati Uniti è notoriamente ancora più grave6 — non consente dunque alcuna illusione circa la loro funzione di rieducazione e di recupero sociale. Il fallimento del progetto rie­ ducativo è segnalato fra l’altro dagli alti tassi di recidiva (in Italia at­ torno al 50%), oltre che dall’esiguità dei risultati per quanto riguarda il reinserimento sociale e lavorativo degli ex-detenuti. Si può dunque concludere che in Europa (come negli Stati Uni­ ti) l’istituzione carceraria è imputabile di una duplice irrazionalità: è irrazionale non solo rispetto al fine rieducativo, ma anche rispetto al controllo della devianza e della garanzia dell’ordine pubblico. L’ir­ razionalità general-preventiva è provata dall’aumento costante della 6 Cfr. ad esempio L. Wacquant, Les prisons de la misere, trad. it. cit., pp. 58 ss.

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popolazione carceraria in termini sia assoluti che relativi e, dato sul quale occorrerebbe riflettere in modo approfondito, indipendente­ mente dalle variazioni del tasso di criminalità, che nei paesi occiden­ tali non tende comunque a ridursi7. Il carcere è semplicemente un luogo di afflizione — talora di vera e propria tortura fisica e psichica — e di violazione dei più elementari diritti dei cittadini. Esso opera come un luogo di autoidentificazione differenziale e di professionalizzazione del detenuto: alimenta subculture della devianza, assegna identità incancellabili a chi vi mette piede anche per poco tempo, attribuisce competenze e propensioni psicologiche che, nella stra­ grande maggioranza dei casi, non preludono ad un reinserimento del condannato nella vita civile, ma al contrario lo escludono stabilmen­ te. A ciò si aggiungano i costi sociali del carcere, dovuti alla grande dispersione di energie lavorative ed intellettuali e, non ultimo, il suo carattere iniquo dal punto di vista della composizione sociale, poiché la prigione, oggi come ieri, resta un luogo riservato essenzialmente agli strati più deboli e poveri della società.

4. Conclusione L’irrazionalità funzionale del sistema penitenziario moderno autoriz­ za a mio parere risposte negative all’intera gamma degli interrogativi filosofici con i quali ho iniziato questo saggio. La pretesa dei sistemi penitenziari occidentali di sanzionare ‘razionalmente’ i comportanenti devianti in termini di pura ‘difesa sociale’ non sembra possede­ re un grado di legittimità etica superiore a quello di cui disponeva­ no i tribunali ecclesiastici dell’inquisizione. Né è formulabile alcun principio filosofico che giustifichi in termini universali i diritti e i doveri penali: il diritto di alcuni di produrre sofferenze e il dovere di altri di subirle. Quanto vale per l’antico paradigma nomologico, vale anche per il paradigma moderno della difesa sociale. In realtà, anche nei sistemi penali in vigore entro le società più ricche ed evolute — in particolare negli Stati Uniti — le funzioni sociali della pena carceraria sembrano molto lontane da quelle formalmente dichiarate dalle clas­ si dirigenti e divulgate dai mezzi di comunicazione di massa.

7 Cfr. su questo punto specifico L. Wacquant, Les prisons de la misere, trad. it. cit., pp. 58-67.

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Nonostante tutto questo è facile prevedere che il carcere reste­ rà ancora a lungo la modalità centrale dell’esecuzione della pena in Italia, in Europa e nel mondo occidentale. E oggi nulla autorizza a pensare che l’evoluzione sociale in corso possa rendere obsoleto il sistema delle sanzioni penitenziarie, come immaginano i teorici dell’abolizionismo penale. L’abolizionismo è, ieri come oggi, una elementare utopia moralistica, che nega una funzione essenziale del sistema politico: quella di garantire sicurezza in cambio di obbedien­ za, fedeltà e complicità. Occorrerebbe piuttosto accompagnare la discussione sulle possibili alternative al carcere — o almeno su una sua incisiva riforma8 — con una riflessione filosofica sulle ragioni pro­ fonde che ancora oggi ne fanno una ‘istituzione totale’, e cioè un luogo di segregazione, di afflizione e di negazione dell’identità in­ dividuale (in forme sicuramente meno drastiche, ma da ogni punto di vista analoghe a quelle della pena capitale). Capire queste ragioni forse potrebbe contribuire a liberare le pratiche penali dalla pesante componente irrazionale che in esse sopravvive, nonostante i processi di secolarizzazione che vorrebbero una netta distinzione fra diritto, etica e teologia. Quali sono queste ragioni? Senza necessariamente sposare le tesi di René Girard, sembra difficile negare che al fondo della logica penitenziaria ci sono, oggi come ieri, pulsioni collettive profondamente irrazionali: i sistemi pe­ nali moderni non si sono affrancati da una tradizione millenaria che ha visto la giustizia punitiva strettamente intrecciata con la vendetta, la tortura, il supplizio e il sacrificio rituale di vite umane.

8 Sul piano strettamente teorico oggi si profila la possibilità che l’adozione di misure alternative al carcere, come la detenzione domiciliare, l’affidamento ai servizi sociali e {'electronic monitoring, sostituisca gradualmente la detenzione carceraria o consenta per lo meno di riservarla ad una categoria esigua di reati di eccezionale pericolosità sociale. Nel frattempo resterebbe comunque il problema delle ‘afflizioni accessorie’

— ulteriori rispetto alla limitazione della libertà personale — prodotte dal carcere in violazione dei diritti fondamentali dei cittadini reclusi. Una riforma carceraria do­ vrebbe muovere dall’idea che in società evolute e complesse la limitazione della libertà

personale ha già, in se stessa, un sufficiente effetto afflittivo sul singolo detenuto — e quindi un sufficiente effetto dissuasivo generale — perché sia possibile senza rilevanti rischi sociali eliminare le ‘afflizioni accessorie’ e le lesioni della dignità e identità per­ sonale che la reclusione carceraria oggi comporta. 141

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Per un verso, sopravvivono elementari meccanismi psicologici che attribuiscono alla sanzione penale una funzione vendicativa e retributiva che nulla ha in comune con il fine della difesa sociale. Come ha esemplarmente mostrato Garfinkel, il processo penale è anzitutto una cerimonia di degradazione morale dell’imputato nel corso della quale alla vittima vengono imposti i pregiudizi morali condivisi dalla maggioranza del gruppo. In secondo luogo, il proces­ so è una pratica di stigmatizzazione del condannato che lo carica di indelebili segni vittimati. Chi è passato attraverso il cerimoniale del giudizio penale — paradossalmente anche chi ne è uscito giuridica­ mente indenne — non sarà mai più un membro normale’ del gruppo sociale: su di lui graveranno ipoteche che tenderanno a discriminar­ lo, a emarginarlo e a ripetere contro di lui, informalmente, infinite imposizioni di ‘sofferenza legale’. Per un altro verso i meccanismi penali sono intrisi di emozioni collettive essenzialmente riconducibili all’insicurezza e alla paura. La loro funzione latente è quella di produrre stabilità e di rinsaldare la coesione del gruppo attraverso il trattamento ostile o il sacrificio di alcuni membri del gruppo, sui quali si concentrano i sensi di colpa e le frustrazioni collettive. C’è, ben oltre l’indifferenza, una sorta di gratificazione sociale inconscia, anche nei paesi più sviluppati e de­ mocratici, che viene prodotta dalla consapevolezza della quantità di inutili sofferenze, di brutalità e di soprusi di cui sono normalmente vittime i cittadini incriminati o reclusi. Se è vero, come ha sostenuto Ulrich Beck, che le società occi­ dentali contemporanee possono essere considerate ‘società del ri­ schio’, nelle quali sono sempre più diffusi sentimenti di insicurezza, di sfiducia e di abbandono sociale, allora non è azzardato ipotizzare che proprio qui vada cercata la chiave per cogliere le ragioni della continua espansione della popolazione carceraria alla quale stiamo assistendo in Occidente. Lo stesso fervore giustizialista che esalta le virtù terapeutiche del carcere (e persino della pena di morte) o plau­ de alle politiche repressive della ‘Tolleranza Zero’9, non corrisponde affatto ad una richiesta di razionalizzazione e modernizzazione del controllo sociale e del trattamento della devianza. Al contrario, al fondo di tutto questo ci sono nuove insicurezze e nuove, impellenti richieste di protezione. Accanto a estesi processi di emarginazione 9 Si veda A. De Giorgi, Zero Tolleranza, Roma, Derive-Approdi, 2000.

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sociale, di discriminazione razziale e di impoverimento collettivo, ci sono paure irrazionali che riemergono in un mondo meno sempli­ ficato dalle ideologie e dalle credenze religiose e, nello stesso tempo, più complesso, turbolento e diviso, nonostante i processi di informa­ tizzazione e di globalizzazione10.

io Aggiungo qualche ulteriore indicazione bibliografica per un approfondimento dei temi trattati in questo saggio: E. Goffman, Asylums, New York, Anchor Books, 1961 (trad. it. Torino, Einaudi, 1968); H. Garfinkel, Conditions of Successfill Degra­ dation Cerimonies, American Journal of Sociology’, (1955), 61; M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975 (trad. it. Torino, Einaudi, 1976); M. Ignatieff, A Just Measure ofPain: Penitentiaries in the Industrial Revolution in England, 1750-1810, New York, Pantheon Books, 1978 (trad. it. Le origini del penitenziario, Milano, Mondadori, 1982); L. Ferrajoli, Diritto e ragione, Roma-Bari, Laterza, 1989; R. Girard, Le bouc émissaire, Paris, Grasset & Fasquelle, 1982 (trad, it. Milano, Adelphi, 1987); J. Bentham, Panopticon: ovvero la casa di ispezione, con introduzione di M. Foucault, Venezia, Marsilio, 1983; T. Mathiesen, Prison on Trial: A CriticalAssessment, London, Sage Publicatons, 1990; Scraton P., et. al., Prison under Protest, Philadelphia, Open University Press, 1991; E. Santoro, Carcere e società libe­ rale, Torino, Giappichelli, 1997.

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Indice

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L’arca di Noè Le stelle cadenti La regina dei cieli Un salvagente verso l’ignoto Il giudizio del padre Le facce verdi La bella addormentata La pietra di vita Addio idolo La strada Il tribunale illuminato La posta della sera Una scintilla per mettere a fuoco tutte le carceri Rifiuto di obbedienza Posto a sedere, dal lato in ombra Senza biglietto di ritorno Signor ministro della Giustizia

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POSTFAZIONE

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BREVE GUIDA BIBLIOFILMOGRAFICA

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Filosofia della pena e istituzioni penitenziarie

3

ii i9 33 39 45

5i

55 61 69

75 81 89

97 103 109

Opere già pubblicate in questa collana:

i. Norman Nawrocki, L'Anarchico e il Diavolo fanno cabaret 2. Pierre Clémenti, Pensieri dal carcere 3. Francois Barcelo, Agenor, Agenor, Agenor e Agenor

IL SIRENTE FUORI

STAMPA E LEGATURA

Lavoratori della Società Tipografica Romana S.r.l. Finito di stampare nel novembre 2007 presso lo Stabilimento di Pomezia (RM). Printed in Italy.