Pensare la politica. Per una analisi critica della politica contemporanea 9788878706163

Questo testo affronta soprattutto due temi essenziali per la comprensione dell’universo politico: il potere e lo Stato n

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Italian Pages 330 Year 2011

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Pensare la politica. Per una analisi critica della politica contemporanea
 9788878706163

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Carlo Mongardini

PENSARE LA POLITICA Per una analisi critica della politica contemporanea

Bulzoni editore

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-7870-???-? © 2011 by Bulzoni Editore S.r.l. 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

Alla memoria di Giorgio Sola per ricordare il grande contributo dato alla Scienza Politica italiana

Indice Prefazione .................................................................................................

p.

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Capitolo I. La politica moderna 1. Le origini della politica moderna ......................................... 2. L’universo politico .................................................................. 3. Universo politico e potere .................................................... 4. Il potere come interazione .................................................... 5. Consenso e democrazia ......................................................... 6. Dimensioni della politica .......................................................

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21 23 25 27 30 32

Capitolo II. Politica e scienza politica 1. I percorsi storici della politica .............................................. 2. La politica contemporanea ................................................... 3. La scienza politica ................................................................... 4. L’elitismo .................................................................................. 5. Recenti indirizzi della scienza politica ................................

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Capitolo III. Il contesto dell’agire politico 1. Società civile e società politica ............................................. 2. I condizionamenti del sociale ...............................................

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Capitolo IV. Le trasformazioni della politica 1. Capitalismo e politica ............................................................. 2. La politica nel regime di massa ............................................ 3. La trasformazione dei gruppi politici ..................................

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Parte seconda Le forme del potere Capitolo I. Le manifestazioni del potere 1. Politica e potere ....................................................................... 2. Conflitti di potere ................................................................... 3. La lotta politica ........................................................................ 4. Istituzionalizzazione del potere politico ............................ 5. Configurazioni del potere ..................................................... 6. Mutazioni del potere oggi .....................................................

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Parte prima Questioni preliminari

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Capitolo II. Autorità, legittimità, sovranità 1. Autorità ..................................................................................... 2. Legittimità ................................................................................ 3. Sovranità ...................................................................................

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Capitolo III. Il potere ideologico 1. L’ideologia e la sua storia ...................................................... 2. Il bisogno di credere ............................................................... 3. Il pensiero ideologico. Ideologia e verità ........................... 4. Il controllo della realtà ........................................................... 5. Le condizioni ideologiche del nostro tempo .................... 6. Economia come ideologia? ................................................... 7. Sulle trasformazioni delle forme ideologiche ....................

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129 133 134 138 139 144 149

Capitolo IV. I valori della democrazia 1. Premesse ................................................................................... 2. Le ragioni di una crisi ............................................................. 3. Tra democrazia e capitalismo ............................................... 4. Democrazia e biopolitica ......................................................

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151 157 159 165

Capitolo I. Il popolo 1. Il popolo come rappresentazione e come soggetto politico 2. Opinione pubblica e partecipazione politica ..................... 3. Cittadinanza e rappresentanza ............................................. 4. Il voto ........................................................................................

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Capitolo II. Gruppi, movimenti e partiti 1. Gruppi sociali e politici .......................................................... 2. La leadership ............................................................................ 3. Gruppi e movimenti .............................................................. 4. I partiti........................................................................................

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Capitolo III. Il popolo elettore e il personale politico 1. Il corpo elettorale .................................................................... 2. La classe politica ...................................................................... 3. Classe politica e democrazia . ................................................ 4. L’elitismo oggi .........................................................................

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199 208 212 215

Parte terza Il potere comunità

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Parte quarta Il potere apparato Capitolo I. Lo Stato moderno 1. Stato e politica ......................................................................... 2. Se lo Stato è un’idea ............................................................... 3. Stato e nazione ........................................................................ 4. La vicenda dello Stato moderno ..........................................

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Capitolo II. La Costituzione 1. Tra potere comunità e potere apparato ............................. 2. Il senso delle costituzioni ...................................................... 3. Costituzione formale e costituzione materiale .................. 4. Costituzione e società moderna ........................................... 5. Funzioni della costituzione ................................................... 6. Il dilemma del costituzionalismo .........................................

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241 243 244 247 249 251

Capitolo III. I poteri dello Stato 1. Lo stato rappresentato ........................................................... 2. Il potere legislativo ................................................................. 3. L’esecutivo ............................................................................... 4. Il potere giudiziario ................................................................

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255 256 260 267

Capitolo IV. Il quarto potere e la politica 1. Comunicazione pubblica e comunicazione politica ........ 2. La comunicazione elettorale ................................................. 3. La propaganda politica .......................................................... 4. La comunicazione politica nelle società contemporanee ..

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274 277 281 282

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Bibliografia ...............................................................................................

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Indice dei nomi ........................................................................................

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Capitolo V. Il futuro dello Stato 1. Fine o trasformazione dello Stato ....................................... 2. Universalismo, localismo, e federalismo ............................ 3. La Geopolitica e le Relazioni internazionali ...................... 4. Lo Stato nello scenario internazionale: capitalismo e globalizzazione ................................................................................... 5. L’impero come futuro? ..........................................................

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Prefazione

1. Pensare la politica implica una riflessione sui vari aspetti dell’universo politico: sui rapporti tra lo Stato e il cittadino, sulle complesse componenti strutturali ed ideali della società politica e sui valori, i significati e le istituzioni che sostengono questa società. Pensare la politica perciò non vuol dire rappresentare la politica solo attraverso la molteplicità dei suoi meccanismi costituzionali ed istituzionali, sviluppando in sostanza una “scienza delle istituzioni” che perde di vista il senso e la complessità dell’agire politico. Pensare la politica è un tentativo di comprendere quell’universo politico dal quale deriva poi la molteplicità dei meccanismi attraverso i quali la politica si materializza nella vita quotidiana. L’universo politico è innanzitutto il quadro di senso dal quale nascono la forma e la funzione che le istituzioni svolgono nella nostra società. Da esso non si può prescindere senza rinunciare ad intendere problemi e prospettive del momento storico che la politica attraversa. Di questo si è occupata in vari periodi la scienza politica che, nella sua storia, ha privilegiato aspetti e manifestazioni diverse della vita politica. Ogni ordine sociale produce le sue filosofie, le sue immagini metafisiche, i suoi ideali, le sue ideologie. Produce anche il suo modo di percepire e rappresentare la realtà del mondo fisico e sociale. Nel mondo moderno queste rappresentazioni si chiamano scienze della natura e scienze dei fenomeni sociali e politici. La scienza politica è una rappresentazione e interpretazione dei fenomeni che concernono il potere, le istituzioni che lo rappresentano e le sue manifestazioni. Di scienza politica in senso moderno si parla già nell’opera di Saint-Simon agli inizi dell’Ottocento (v. Vidal, 1959). Nel corso degli ultimi due secoli, poi il senso della scienza politica e dell’analisi politica tutta è stato sempre più il risultato delle condizioni dell’ordine sociale e politico. Nei periodi di rivolgimento e di transizione essa è tornata a riconsiderare le radici del potere e il rapporto fra governan11

Pensare la politica

ti e governati. Così è avvenuto a fine Ottocento e ai primi del Novecento quando l’antiparlamentarismo, che si rivolgeva contro un sistema politico borghese-aristocratico, ha costituito le premesse per la formulazione della teoria della classe politica da parte di Gaetano Mosca e della teoria delle élites da parte di Vilfredo Pareto, laddove invece nel periodo fascista i teorici del regime hanno esaltato la figura etica e totalizzante dello Stato. La restaurazione dell’ordine democratico nel secondo dopoguerra, sulla via del comportamentismo americano, ha adottato una visione strutturalfunzionalista della politica privilegiando l’analisi dei comportamenti elettorali, della funzione delle istituzioni, dei processi sistemici, delle tecniche decisionali e delle politiche pubbliche in un contesto pragmatico e di rigoroso empirismo che ha reso il politologo un tecnico di supporto all’azione del potere. Dopo gli anni ’70 tuttavia, a seguito di radicali trasformazioni del capitalismo e dell’ordine economico, tali da superare i confini e la sovranità degli Stati, con la comunicazione di massa e l’affermarsi dei fenomeni di massa a minimizzare le differenze di classe, il senso e le funzioni della politica sono tornati in discussione e nuovamente negli ultimi anni sono stati rimessi in questione i principali concetti dell’analisi politica come sovranità, rappresentanza, legittimità, consenso, cioè le diverse dimensioni di quella società politica che aveva costituito il quadro d’insieme dell’ordine politico borghese. Il modo di fare politica è cambiato. La ricerca del consenso politico si affida alla curiosità, allo spettacolare, a ciò che attrae e distrae. Il mercato politico vive di scelte contingenti e di stimolazioni epidermiche. L’“etica della convinzione” e l’“etica della responsabilità” del regime politico borghese sono scomparse nel retroscena e quasi non hanno più significato rispetto al libero gioco degli attori politici. 2. Le grandi trasformazioni del nostro tempo ora rendono necessaria una revisione dei concetti più significativi dell’analisi politica. Di questi concetti ha bisogno sia lo studente che per la prima volta si avvicina agli studi politici, sia il cittadino che attraverso la stampa o la televisione segue gli avvenimenti del giorno. C’è spesso bisogno di chiarezza concettuale e storica su quei termini che il senso comune, il linguaggio popolare, il vocabolario dei mezzi di comunicazione di massa usano abitualmente, spesso con significati assai diversi. Colpisce il fatto, scrive Rosanvallon, “che la concettualizzazione delle istituzioni democratiche sia rimasta sorprendentemente stabile per due

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Prefazione

secoli. Dalla fine del XVIII secolo al 1980, gli interrogativi e le controversie si sono svolti in un campo concettuale che non è mutato. È una cosa che può constatare ogni storico delle grandi rivoluzioni moderne. I problemi del governo rappresentativo, della democrazia diretta, della separazione dei poteri, del ruolo dell’opinione, della garanzia dei diritti dell’uomo, sono stati posti durante tutto questo periodo in termini pressoché identici” (Rosanvallon, 2008, pp. 25-23). Noi potremmo aggiungere che oggi il conflitto politico e ideologico avviene con idee e concetti sfuggenti se non vuoti non solo per l’opinione pubblica ma anche per chi coltiva lo studio dei fenomeni politici. La scienza politica in una prima elementare presentazione deve far luce su questi concetti e deve chiarire che questi sono la base (e saranno il punto di riferimento) di qualunque ulteriore analisi e studio specialistico. C’è sempre il pericolo che la frantumazione e la specializzazione di una disciplina rendano nebulosi i suoi concetti di base, e con ciò diano per scontati o assumano significati che sono solo frutto di scelte ideologiche. Così le scienze sociali finirebbero per reintrodurre sotto l’etichetta di “scienza” proprio quello che volevano superare con la riflessione e la critica (Elias, 2010. p. 35 e segg.). Molte volte diffondere un sapere esclusivamente tecnico e specialistico è una forma di narcisismo, serve solo a chiudersi in un territorio riservato che esclude, con un astratto e pretenzioso linguaggio iniziatico, coloro ai quali dovrebbe essere spiegato il significato della realtà, sia essa sociale o politica. Peraltro serve anche a illudere il potere e a eludere ogni critica. In generale la scienza politica ha come oggetto il potere, le sue manifestazioni, le sue forme istituzionali e le sue giustificazioni, che si manifestano tanto nel contesto sociale e di vita quotidiana, quanto in una forma di società gerarchica che permette la formazione della volontà collettiva e la costituzione politica dei corpi sociali. Questa società, per le sue caratteristiche e per le sue funzioni, viene giustamente definita società politica perché nella sua configurazione ideale dovrebbe unire in una “comunità artificiale” governanti e governati attraverso un tacito patto di dominio per il quale alla sottomissione dei governati corrisponde una guida responsabile dei governanti rivolta al bene comune. Questo patto si definisce nella carta costituzionale e nell’apparato istituzionale che essa crea a garanzia di legalità e legittimità, fondata questa su valori comuni, del potere e dei meccanismi di protezione dei governati dagli abusi del potere stesso. Sul funzionamento della società politica, del patto di dominio che la fonda, del rapporto fra 13

Pensare la politica

governanti e governati, sul grado in cui si realizza quella “comunità artificiale” fra maggioranza e minoranza che governa, si fondano i valori della democrazia rappresentativa che è la più raffinata formula politica della modernità. Ma la politica non è solo organizzazione e struttura rivolta a costituire una volontà collettiva. Essa è anche azione e arte politica, è processo inarrestabile che produce sempre nuove manifestazioni e significati del potere e delle forme in cui esso si manifesta. Questa fluidità e poliedricità del potere non permette di fissarlo in schemi e rappresentazioni stabili e coerenti, confacenti al concetto abituale di scienza, molteplici essendo gli elementi di cui esso si compone e sui quali fa leva. Perciò i fenomeni politici che noi riusciamo ad analizzare costituiscono scienza in un significato tutto particolare, che poco ha a che fare con quello che caratterizza le scienze naturali e ci richiama piuttosto alla differenza che faceva Max Weber fra scienze della spiegazione, che si fondano su una simmetrica verifica e applicabilità di postulati, e scienze della comprensione che permettono soltanto una approssimazione “comprensiva” alla complessità degli elementi che compongono la società politica e le manifestazioni del potere. 3. Perciò anche il modo di studiare la politica nasce dalla relazione che si vuole stabilire tra politica e potere. Dobbiamo forse rovesciare la tendenza oggi dominante volta a considerare il potere come un prodotto della politica. Proviamo a riprendere la tradizione, legata al nome di Machiavelli e, nel secolo scorso, di Mosca e Pareto, secondo cui è la politica che nasce dal potere. Una tradizione ben chiara nell’antico regime e che via via si perde con lo sviluppo della modernità perché la complessità del sociale nasconde il potere sotto le apparenze di funzioni e di istituzioni. Tutto lo sviluppo del secolo scorso ha portato a queste conclusioni e ha dato alla scienza politica una nuova veste: quella di scienza delle istituzioni. Aspetto senza dubbio importante per lo studio della politica ma che, sotto forma di comportamentismo, di istituzionalismo, di meccanismi funzionali, riesce a velare la realtà di fondo costituita dalle reali manifestazioni del potere e dai mille aspetti in cui potere si manifesta, trasformandosi poi in politica, in istituzioni e leggi per il controllo della complessità sociale. Proprio l’esplosione della complessità che il potere si trova a dover fronteggiare, ci richiama a questa prima elementare condizione della vita associata. Il potere come relazione sociale si costituisce in ogni rapporto, su varie basi di forza (fisica, militare, psicologica o ideologica), per poi tra-

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Prefazione

sformarsi, nel caso dei grandi gruppi in politica e in istituzioni. Per questo però l’analisi dei fenomeni sociali è imprescindibile per poter intendere la politica, che ci appare come sintesi e rappresentazione unitaria di una società e di una cultura. Per cui l’essenza della politica moderna sta nel tentativo di creare l’unità tra le molteplici forme in cui il potere si manifesta: sia esso potere di maggioranze, di corpi costituiti, di istituzioni, di rappresentazioni collettive o di soggetti carismatici. L’unità può formarsi attorno ai principi morali sui quali si fonda la cittadinanza, all’eguaglianza che ne caratterizza lo statuto, alla legittimità della rappresentanza, alla presenza di un progetto di società o indirizzo politico attorno al quale mobilitare l’azione collettiva, a valori ideali che alimentano questo progetto. È quindi l’elemento ideale o ideologico che caratterizza, ciò che è più politico nella politica nell’insieme di elementi che fondano la società politica, cioè il complesso rapporto fra governanti e governati costituitosi dopo il passaggio determinante, avvenuto con la rivoluzione francese, del principio di sovranità da Dio al popolo. 4. Elementi costituenti l’analisi della politica sono dunque: 1. Il potere e le allocazioni del potere; 2. Il personale politico e la società politica; 3. Valori, ideali e ideologie; 4. Le istituzioni politiche. Ogni prospettiva che prescinda dall’insieme di questi elementi, dalla loro interdipendenza e reciproca azione deve considerarsi una prospettiva parziale e distorta. È sulla base di questo quadro complesso che vogliamo qui proporre un’analisi dei fenomeni politici più aderente alle grandi trasformazioni sociali intervenute negli ultimi decenni, un’analisi più vicina alle questioni che ci pone il XXI secolo, che superi certo dogmatismo strutturale e rigido della scienza politica contemporanea, verificandola, come voleva Gaetano Mosca, con “ciò che la storia potrebbe insegnare” (Mosca, 1958, p. 3 e segg.). Una prospettiva oggi nuova ma vecchia per la grande tradizione che la sostiene e per la quale bisogna salire, per usare un’immagine di Robert K. Merton, “sulle spalle dei giganti”. L’idea di presentare nuovi “elementi di scienza politica” è già un richiamo all’opera di Gaetano Mosca. Ma l’esperienza contemporanea non ci richiama né al diritto né alla storia, ma soprattutto alla forza che i rapporti economici, la mentalità economicista, così diffusa fino a diventare quasi un’ideologia sociale, hanno assunto via via per mutare il senso della politica. Seguiremo perciò le forme del potere nei loro aspetto tradizionali, ma anche nelle espressioni nuove in cui esse si manifestano, per cogliere poi le loro trasformazioni in significati e valori politici e in obiettivi dell’agire col-

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Pensare la politica

lettivo, per arrivare infine a osservare i cambiamenti di talune istituzioni sulle quali si fonda l’agire politico. Centri ricorrenti di tutto questo panorama saranno la società politica e la democrazia rappresentativa che si formano e si sviluppano per due secoli, a partire dalla rivoluzione francese, e che oggi presentano non poche situazioni di criticità, dovute soprattutto ad una transizione politico-istituzionale dal regime borghese al regime di massa e da una realtà, circoscritta e interpretata dallo Stato-Nazione, ad una realtà globale che rende evanescenti, sul piano psicologico prima che economico e sociale, i confini sui quali lo Stato nazionale si fondava. Regime di massa e processi di globalizzazione non hanno ancora dato luogo a corrispondenti valori e istituzioni politiche. I poteri che in essi si manifestano hanno ancora solo un carattere dirompente che nasce dalle tumultuose trasformazioni del capitalismo. La distruttività che colpisce le istituzioni politiche derivate dal regime borghese non si è ancora trasformata in creatività di nuove forme politiche e ideologiche. La politica in crisi si rifugia nei templi dove è nata, diceva un grande politologo francese, e i templi nel nostro caso sono quelli del fondamentalismo religioso, ma anche, per altri archetipi presenti nell’animo umano, del localismo, del radicalismo etnico, razziale e regionale. A questi fenomeni di distruttività dello Stato-Nazione e decadenza delle vecchie forme e formule politiche, si accompagna la tensione verso nuove esperienze che oscillano fra l’utopia di nuove immagini di democrazia, deliberativa o plebiscitaria, e la ricerca di nuove esperienze di cesarismo autoritario. Le trasformazioni in atto non possono non sollecitare una revisione di tutte quelle tematiche che riguardano forme e allocazioni del potere, rappresentanza e comunicazione politica, ideologia e immaginario politico. Mentre il potere si occulta dietro le liturgie politiche di una società gestita al presente, compito dello studioso è quello di rivedere i concetti di cui si serve e di adattarli ad una più adeguata descrizione della realtà. Ho trattato questi temi anche in precedenti pubblicazioni. Qui tuttavia essi si ripropongono in un’analisi sistematica e coerente fondata sulle considerazioni che ho anticipato. Approfondirò anzitutto le premesse per uno studio dei fenomeni politici contemporanei. Passerò quindi ad una analisi delle forme e delle trasformazioni del potere nella società attuale per poi occuparmi della società politica, delle ideologie e infine di alcune istituzioni che le rappresentano. Si tratta, ripeto, solo di elementi dell’analisi politica che più risaltano nella fase di transizione attualmente in corso. Elementi perciò dei quali la scienza politica contemporanea non può fare a meno. 16

Prefazione

La prima parte di questo lavoro è dedicata a “questioni preliminari” che sono della massima importanza per comprendere le mutazioni delle forme politiche e del contesto sociale che le determina e per intendere anche le nuove prospettive che si aprono all’analisi politica. La seconda parte è dedicata alle forme del potere, mentre la terza e quarta analizzano il potere comunità e il potere apparato. *** Ringrazio per aver collaborato alla stesura di questo volume: Maria Cristina Antonucci che ha scritto il capitolo su “Il quarto potere e la politica” e Gabriele Natalizia per aver scritto il paragrafo su “Geopolitica e relazioni internazionali” (cap. V) e aver collaborato alla stesura del paragrafo successivo. Ringrazio inoltre per la preziosa collaborazione redazionale, Consuelo Antimi, Elena Laurenti e Daniela Petriglia.

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Parte prima Questioni preliminari

I La politica moderna

1. Le origini della politica moderna La politica moderna nasce e si sviluppa in parallelo con la crescita dello Stato nazionale territoriale, dopo i trattati di Westfalia del 1648. Essa riceve la sua spinta decisiva dall’evoluzione e dall’autonomia della società civile nel XVIII secolo, dallo sviluppo della classe borghese e degli albori del capitalismo. La svolta decisiva si ha alla fine del Settecento con la Rivoluzione americana del 1776 e la Rivoluzione francese del 1789. La fine dell’antico regime e l’avvento del regime moderno segnano anche il passaggio della sovranità da Dio al popolo e il riconoscimento della forza politica della società civile sulla base dei principi di libertà, uguaglianza e fraternità. Questi principi hanno imposto allora una politica nuova alla quale era affidato il compito di “creare l’unità dal molteplice” rispettando appartenenza e cittadinanza e realizzando quella ‘comunità artificiale’ che doveva unire non solo i membri della società civile ma anche governanti e governati nel perseguire il bene comune. La gerarchia dell’ordine politico poteva essere tollerata solo sulla base di un tacito patto di dominio nel quale ai privilegi del potere dovevano corrispondere la responsabilità dei governanti nell’indirizzare l’azione collettiva verso il bene comune. L’ordine gerarchico e il rapporto comandoobbedienza venivano a fondarsi perciò sulla capacità dei governanti di recepire e rappresentare le istanze della società civile e istituzionalizzare quell’agire collettivo capace di corrispondere ai bisogni della società. Venivano poste così progressivamente le basi della democrazia rappresentativa e veniva a costituirsi quella società politica fondata sul suddetto patto di dominio per il quale comando e obbedienza erano subordinati al rapporto di rappresentanza. Questi elementi hanno dato forma alla politica del regime borghese dalla Rivoluzione francese fino alla fine del secolo scorso quando, come 21

Pensare la politica

vedremo, il regime di massa ha in gran parte sostituito l’ordine politico instaurato dalla borghesia. Con l’avvento della società politica il rapporto governanti-governati ha sostituito un potere lineare che si imponeva dall’alto verso il basso con un’unica volontà, quella del sovrano, che trovava la sua legittimazione nel rappresentare il diritto divino di sovranità. La nuova politica, sulla base del popolo sovrano, nasceva dalla collettività e per la collettività. Il popolo sovrano eleggeva i propri rappresentanti chiamati a governare sulla base oggettiva della sovranità delle leggi dello Stato. Lo Stato con le sue leggi rappresentava così la sovranità oggettiva come proiezione della sovranità soggettiva del popolo. Dalla rappresentanza delle diverse forze, interessi, tendenze presenti nella società civile doveva nascere quella unità di indirizzo politico rivolta a realizzare il bene comune. Il principio maggioritario avrebbe segnato il cammino assicurando tuttavia i diritti delle minoranze e assicurando l’equilibrio fra i diversi poteri dello Stato. L’ordine politico formale doveva rispondere a questi principi. La politica come organizzazione, come società politica in funzione dell’ordine sociale e dell’azione collettiva per il bene comune veniva così a distinguersi ancora più nettamente dalla idea espressa da Aristotele che l’uomo è “un animale politico”. La differenza fra ‘il politico’ e ‘la politica’ consiste nel fatto che mentre ‘il politico’, riferito all’agire individuale, rappresenta la tendenza dell’individuo a ottenere dalla vita di relazione i maggiori vantaggi possibili mettendo a frutto capacità e abilità per massimizzare i vantaggi e limitare i danni, ‘la politica’ nasce dalla collettività e per la collettività, per l’esigenza di ricercare “l’utile per la società” pur nel rispetto di ciò che è “l’utile della società” cioè la conservazione e il rafforzamento del legame sociale. Il ‘politico’, indica perciò la socialità essenziale dell’individuo mentre la ‘politica’ è finalizzata alla sintesi, alla rappresentazione e all’agire comune di una società, perché “l’essenza della funzione pubblica è quella di costruire l’uno attraverso il molteplice, cioè il sociale” (Burdeau, 1979, p. 7). Compito non facile a fronte di una società complessa. Già Hegel notava che la società civile è il mondo della scissione, della contrapposizione e della frammentazione. In questa diversità la politica si trova a dovere costruire l’unità ricorrendo a valori, a elementi culturali, individuando progetti di società verso i quali indirizzare l’azione collettiva. Ma spesso la politica moderna supera anche queste funzioni impegnandosi in un volontarismo politico che non si limita più a controllare o a correggere la società, ma vuole crearla secondo i canoni di un razionalismo astratto. 22

La politica moderna

2. L’universo politico La storia della politica moderna si identifica dunque con il percorso storico della società politica. Un percorso storico che crea numerosi campi di tensione fra polarità estreme: ordine e libertà, volontarismo e creatività, Stato e individuo, governanti e governati, istituzioni e cittadino, gerarchia e uguaglianza, politica e società. Su questi campi di tensione si estende l’universo politico cercando di costruire il consenso su idee, ideali e ideologie che tuttavia producono conflitti nuovi di ordine trascendentale. L’universo politico colora i fatti reali, di per sé neutri, con i nostri pregiudizi, le nostre credenze o le nostre scelte di valore. Il fatto specificamente politico, come scrive Georges Burdeau, non esiste (Burdeau, 1979. p. 11). Forme organizzative e istituzionali sono fatti sociali neutri propri di ogni collettività. Ciò che è propriamente politico è la colorazione che questi fatti assumono o perdono attraverso le valutazioni collettive che le rapportano ai valori e al bene comune. Perciò, continua Burdeau, “l’universo politico non è dello stesso ordine dell’universo fisico perché, definito dal nostro pensiero, ha un carattere artificiale” (Ivi, p. 34). Sulla realtà concreta, frammentaria e eterogenea “l’universo politico costituisce un mondo totale e coerente. Nel momento in cui integra i fatti, esso li ordina in una specie di surrealismo da cui procede il significato del reale concreto” (Ivi, p. 34). Il termine universo perciò designa “non dei fatti o degli avvenimenti, ma un apparato mentale che, servendo loro da quadro di riferimento li inserisce in un sistema di concetti e di credenze autosufficiente. Ecco perché, di fronte all’obiettività dell’universo naturale, l’universo politico mi appare come un universo mentale e, per così dire, artificiale” (Ivi, pp. 34-35). Così i fenomeni che chiamiamo politici “devono il loro carattere politico alla loro integrazione in un sistema di rappresentazioni che non è iscritto nella fenomenologia concreta. La realtà è neutra, è la coscienza che è politica ed è essa, per così dire, che dà colore ai fatti” (Ivi, p. 35). L’universo politico, continua Burdeau, “non è dunque una semplice concettualizzazione di un dato sperimentale, è un mondo popolato di credenze, di convenzioni e di simboli dai quali i fenomeni che noi osserviamo traggono i loro significati” (Ivi). In conclusione l’universo politico “è della stessa natura dell’universo poetico. Come quello esso è il prodotto di una ri-creazione indispensabile di un ordine e di una armonia”(Ivi). La finalità dell’universo politico è quella di costituire un ordine politico fondato sul consenso. Nella società politica è fondamentale la sotto23

Pensare la politica

missione degli individui a tale ordine. Ma nessuno accetterà mai di sottomettersi ad altri individui se non vi sia costretto con la forza. Pertanto sul piano del consenso occorre che l’individuo, come hanno notato molti classici dell’Ottocento e del Novecento, “sia spinto ad attribuire un valore soprannaturale alla potenza che lo costringe e della quale vede che domina egualmente gli altri membri del gruppo” (Burdeau, 1979, p. 118). Pertanto l’ordine politico ha sempre avuto bisogno del sacro anche nel pieno di un processo di secolarizzazione. Sia questo rappresentato da valori civili (v. Rusconi, 1999), da ideologie politiche (v. Vögelin, 1939) o credenze religiose. La sacralizzazione dell’ordine pubblico e del potere non rappresentano altro che “la manifestazione di un atteggiamento più profondo per il quale il gruppo celebra se stesso in quanto realtà trascendente rispetto alle individualità che lo costituiscono” (Burdeau, 1979, p. 119). Poiché la vita politica è sempre scossa da forze centrifughe, a riportare l’ordine può essere solo l’effetto di una ritrovata sacralità e finalità dello stare insieme. È possibile pertanto che l’economico colonizzi la politica. Non è possibile che esso riesca a instaurare un ordine politico. Ciò significa che la cultura, i valori, gli ideali e le ideologie rappresentano nella politica le forze centripete: ciò che è più propriamente politico nell’universo politico volto alla costruzione del consenso. Quell’universo di significati che interpretano e danno senso ad una realtà di per sé neutra non può che fare centro su questi elementi. Il mondo della politica si vuota di senso se perde il riferimento ai valori ideali. Questi valori costituiscono identità nello spazio simbolico, danno certezze, suscitano speranze e alimentano i significati del confronto politico. Vi è una forza, per molti aspetti ‘immaginale’, scrive Maffesoli, “che fonda il politico, gli serve da rassicurazione e da legittimazione per tutto il corso della storia umana”. Occorre perciò, continua, mettere l’accento sulla “dimensione mentale del politico” che ha sempre all’origine “un’idea fondatrice”. “Questa può essere mito, storia razionale, fatto leggendario, poco importa, essa serve da cemento sociale. È questa idea che serve da fondamento al dominio legittimo dello Stato” (Maffesoli, 1992, p. 29). Alla scienza politica dunque anzitutto il compito di esplorare l’universo magico e mitico della politica che determina i meccanismi del consenso dando senso alla realtà vissuta, giustificando l’azione delle istituzioni, interpretando la storia, il presente e progettando il futuro, alimentando il conflitto politico nel molteplice intreccio di forza e consenso, di personalità e di maschera dei suoi attori singoli e collettivi. La scienza politica, scrive Burdeau, “non potrà sormontare il disordine degli avvenimenti che alla 24

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condizione di non vedere nel politico semplicemente un dato ma di considerarlo per quello che esso è, cioè una costruzione dello spirito” (Burdeau, 1979, p. 32). 3. Universo politico e potere Lo svolgersi dei fatti e degli accadimenti rappresenta la contingenza disordinata, discontinua e imprevedibile. Nei rapporti di relazione essa è condizionata da mutevoli rapporti di forza. Ma questa realtà acquista uniformità, coerenza e valore trascendente nell’universo politico che la interpreta. Il politico scaturisce dunque dallo spirito che interpreta e qualifica i fatti e “questa interpretazione è concepita e questa qualificazione attribuita in funzione dell’incidenza che si accorda loro e che ci si attende sulla struttura e il destino del gruppo” (Burdeau, 1979, p. 14). Ma ogni interpretazione e ogni qualificazione all’interno dell’universo politico si muove attorno al potere che l’ordine politico istituisce. Su di esso, pro e contro di esso, riposa l’immaginario dei valori che agita la mentalità collettiva. Perciò, scrive Burdeau, “invano un’analisi realista avanzerebbe la pretesa, senza alcun riferimento a fattori irrazionali, di rendere conto del rapporto politico, cioè della relazione autorità-obbedienza” (Ivi, p. 91). In ogni società politica si fa leva su questi fattori irrazionali per sostenere o sfidare il potere e per guidare il consenso o il dissenso. Se al centro dell’universo politico si colloca il potere bisogna chiarire subito che è dal potere che nasce la politica e non, come si crede abitualmente, il potere dalla politica. Il potere come forza nasce dalla società e si orienta sulla società istituzionalizzandosi nella politica per poter poi conservarsi ed espandersi. Natura, società, cultura ci pongono fin dalla nascita in condizioni di evidente disuguaglianza che tendono a mantenere le posizioni di forza già esistenti. A queste condizioni è sempre difficile trovare forme adeguate di correzione perché i canali di mobilità sociale sono in genere difficilmente praticabili. I poteri sociali di forza tendono perciò a mutarsi in forme politiche che facilmente, nella società contemporanea, alimentano centralismo e totalitarismo, e che possono trovare un certo temperamento solo laddove si riscontra una certa poliarchia. Sociale e politica devono perciò essere considerati in stretta connessione e quindi ogni interpretazione che pensi di spiegare la politica isolandola dalle interazioni con i fenomeni sociali e culturali ragionerebbe a vuoto, anche perché, come si è detto, il fatto politico in sé non esiste. 25

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Se poniamo al centro dell’universo politico il potere dobbiamo subito considerarlo come una condizione di forza, di potenza la cui consistenza ha un fondamento sociologico o psicologico. Il potere come forza è potenza la cui essenza è sostanzialmente sociale. Max Weber infatti intendeva il potere come una forma specifica della condizione e dell’agire sociale che, nei processi di interazione si configura in un rapporto di comandoobbedienza. Weber usava la parola tedesca Macht per indicare di volta in volta la potenza o il potere, intendendo per potenza una posizione sociale di forza, nel senso che noi usiamo quando diciamo “è una potenza” cioè una condizione di potenzialità non ancora espressa di un soggetto, e intendendo per potere un agire nel quale queste potenzialità vengono esplicate nei confronti di un altro soggetto. Il potere dunque si riferisce a una relazione nella quale un soggetto ha “la capacità di affermare la propria volontà anche nei confronti di una opposizione, quale che sia la base sulla quale tale capacità si fonda”. La potenza è dunque uno status e il potere è una azione. In quanto status la potenza ha origine e radici sociali e può derivare dalla nascita (un tempo la condizione di nobile), dal possesso di beni materiali (la ricchezza), dal possesso di mezzi tecnici di controllo, perché oggi, come scrive Popitz, il progresso tecnico ha incrementato le potenzialità sociali dei soggetti dominanti (Popitz, 2001, p. 108 e segg.), dal possesso di carisma (potenziale psicologico), dal possesso di capacità intellettuali (potenziale conoscitivo o ideologico) e infine dal possesso monopolistico di strutture coercitive. In quest’ultimo senso la suprema potenza è lo Stato in quanto ha il monopolio della violenza. Anche in campo internazionale noi usiamo indicare come grandi potenze quei paesi che dispongono di mezzi di coercizione e di dissuasione tali da condizionare le azioni degli altri. La condizione di potenza non implica un agire ma già di per sé riesce a limitare l’azione di altri soggetti. Non è pensabile tuttavia che chi si trovi in condizioni di forza non la eserciti come potere. Il potere dunque implica una relazione e l’uso della forza può degenerare in violenza tanto da parte degli individui quanto da parte degli ordinamenti, come lo Stato, in quanto gli ordinamenti riservano a sé il diritto di usare la violenza per contenere la violenza. Scrive il Popitz che gli ordinamenti sociali che delimitano la violenza “non la fanno miracolosamente sparire. Al contrario essi stessi hanno bisogno di violenza, una ‘violenza propria dell’ordinamento’ per poter difendere se stessi. Ogni ordinamento che viene progettato sottostà a questo circolo vizioso della repressione della violenza: l’ordinamento sociale è una condizione necessaria del contenimento della violenza; la violenza è 26

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una condizione necessaria del mantenimento dell’ordine sociale”. Ma allora sorgono spontanei alcuni interrogativi: “Chi protegge i cittadini di un ordinamento dall’arbitrio e dalla violenza delle loro istituzioni di difesa dell’ordinamento stesso? Come può riuscire la delimitazione della violenza istituzionalizzata? Come viene superata la violenza volta a reprimere la violenza?” (Popitz, 1990, pp. 80-81). 4. Il potere come interazione Di potere, autorità e sovranità parleremo più diffusamente in altre parti di questo lavoro ma è bene fin da ora fissare alcuni concetti. Abbiamo già detto che l’idea di potere esprime una relazione nella quale un soggetto dominante impone la sua volontà a uno o più soggetti dominati anche nei confronti di una opposizione, quale che sia la causa dalla quale deriva questa imposizione che, ad esempio, può riferirsi ad una supremazia di ordine psicologico o di ordine sociologico. Va aggiunto che, come dimostra ampiamente Simmel, (Simmel, 1978): 1. Il rapporto di potere rappresenta un’interazione nella quale il soggetto dominato esercita sempre una qualche influenza sul soggetto dominante, come prova oggi il fatto che la classe dominante ha bisogno dei sondaggi per conoscere gli umori e le tendenze della classe dominata. Il soggetto dominato è quindi per il dominante un valore e lo scopo del dominio non è quello di eliminare il dominato ma quello di sottomettere la sua volontà a quella del dominante. Quindi anche nelle forme che apparentemente lasciano pensare a una influenza totale del dominante sul dominato esiste sempre una qualche possibilità di influenza e di reazione del dominato sul dominante. Anche quando il primo non vuole utilizzare le possibilità che avrebbe perché non vuole andare incontro ai costi punitivi del suo possibile atteggiamento. 2. L’interazione cessa solo nei casi di una minaccia di violenza immediata o quando l’altro rappresenta semplicemente un ostacolo da eliminare per il raggiungimento del fine che un soggetto si propone. 3. Il potere può essere esercitato come potere formale, potere occulto e potere di influenza. Il potere di influenza si riferisce prevalentemente all’azione dei gruppi su chi è chiamato a decidere per orientarlo nelle sue decisioni a proprio vantaggio (v. Mattina, 2010). Secondo la tipologia, che esamineremo meglio in seguito, questi gruppi comprendono: 1. I gruppi di interesse, presenti non solo nel campo dell’economia, che esprimono rivendicazioni di vario genere in maniera più o meno continuativa. 2. I gruppi di pressione che si costituiscono e si organizzano con ca27

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rattere contingente attorno ad una necessità specifica ed esercitano la forza di cui dispongono, minacciando spesso anche una sanzione per ottenere una certa decisione. 3. Le lobbies, vere e proprie agenzie o canali di rappresentanza, svolta da professionisti, di interessi o di richieste indirizzate ai decisori politici o volte a influenzare le scelte delle politiche pubbliche (v. Sola, 2006, pp. 95-96). Se una situazione di potere si stabilizza e se il rapporto comandoobbedienza si formalizza e si istituzionalizza il potere diventa dominio. Il dominio quindi esprime un rapporto costante di sopra- e sott’ordinazione. “Potere e dominio – scrive Popitz – sono stati legati reciprocamente in molteplici modi. Io intendo qui il dominio come potere istituzionalizzato. Anche Max Weber pensava così” (Popitz, 1990, p. 41). L’istituzionalizzazione sempre secondo Popitz comprende tre tendenze: 1. una crescente spersonalizzazione; 2. una crescente formalizzazione; 3. una crescente integrazione dei rapporti di potere in un ordinamento onnicomprensivo, e “ciò significa globalmente un innalzamento della stabilità” (Ivi, p. 42). Il potere, come si è detto, fa riferimento a una posizione di forza (potenza) e si apre alla politica, cioè alla ricerca del consenso che lo rende un potere legittimo in quanto riconosciuto e accettato da chi lo subisce. “Si governa – scriveva Pareto – con la forza e con il consenso”. Ma ogni soggetto dominante, singolo e collettivo, sa che la stabilità del dominio è legata ad un alto grado di consenso. Per cui si potrebbe dire che la politica è la continuazione della forza del potere con altri metodi e soprattutto con quelli della convinzione. Nessuno è disposto a sottomettersi e a limitare in qualche misura i propri interessi se non è convinto che ciò giova alla collettività e che perciò anche l’individuo singolo finisce per ricavarne dei vantaggi. Il potere che si apre alla politica e che ottiene il riconoscimento dal basso diviene, come detto, potere legittimo. Se questo tipo di potere si stabilizza oppure è inserito in un quadro istituzionale, dove la legittimità è propria della posizione che il soggetto dominante va a occupare, il potere si trasforma in autorità. Seguendo ancora Simmel, l’autorità si costituisce in due modi. O si forma dal basso perché un soggetto acquista nel suo gruppo una tale stima e fiducia da essere considerato quasi, nel suo campo, un’istanza oggettiva (nel linguaggio comune diciamo ad esempio “è un’autorità nel campo della medicina o della critica d’arte”) oppure un soggetto va a occupare una posizione alla quale è connesso il riconoscimento di legittimità dell’attore che la detiene. In questo caso l’autorità discende dall’alto e riveste il soggetto che occupa quella posizione. Ma in 28

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questo caso deve essere ancora provato, e potrà esserlo solo dopo, se il soggetto ha le qualità necessarie a rappresentare l’autorità che gli deriva dalla posizione che occupa. In caso contrario si avrebbe un processo di delegittimazione dello stesso ruolo che egli rappresenta (v. Simmel, 1978, p. 41 e segg.). A differenza dell’autorità, il carisma, che deriva dalla forza, dalle qualità personali e dal fascino di un individuo, coinvolge, trascina ma non vincola, mentre il prestigio si riferisce alla singolarità preminente di un soggetto nella interpretazione del suo ruolo (diciamo per esempio: “è una firma di prestigio” nel campo della moda ecc…). Se il potere come forza si apre alla politica come ricerca del consenso, e quindi della legittimazione attraverso le forme della convinzione, l’ordine che si instaura nell’universo politico, creato dalla carta costituzionale sulla base di valori che sono valori culturali, si raffigura come una gerarchia di posizioni di autorità attorno ai tre poteri dello Stato che in sé rappresenta l’autorità suprema. Le posizioni di autorità investono i titolari di poteri formalmente legittimi in quanto essi hanno occupato quelle posizioni attraverso procedure legalmente corrette. Ma se la legalità conferisce una legittimità formale, questa è diversa dalla legittimità sostanziale che, come vedremo, consiste nell’identificarsi dei cittadini con l’azione di chi li rappresenta nelle diverse funzioni. Un partito che arriva al potere con il 30% dei voti validi può rivendicare una legittimità formale legata alla legalità delle procedure che lo hanno portato al potere. Non può rivendicare una legittimità sostanziale perché costituisce sempre una minoranza che fa maggioranza. La suprema autorità formale si identifica con la sovranità, che ha anche essa due aspetti: formale e sostanziale. Nelle democrazie moderne la sovranità soggettiva formale spetta al popolo. Nel nostro ordinamento essa è limitata dal fatto che il popolo “la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione”. Peraltro la sovranità popolare si proietta in una sovranità oggettiva, che è quella dello Stato e dei suoi poteri, la cui divisione e equilibrio sono il presupposto della democrazia. Ma anche l’ordinamento dello Stato deriva dalla carta costituzionale per cui sembrerebbe che alla “suprema norma”, quella della costituzione, vada ricondotta la sovranità sostanziale. Così è secondo Kelsen e la sua scuola. Ma, realisticamente, a chi appartiene la sovranità sostanziale? Alla suprema norma, a chi la interpreta, alla classe politica che agisce rappresentando lo Stato o a altri soggetti? I dibattiti ai quali ha dato luogo il problema della sovranità sono fra i più spinosi del diritto pubblico. Alcuni la identificano come una qualità tipica dello Stato, altri la attribui29

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scono a un organo specifico dello Stato o alla forza preponderante di un gruppo politico. Altri infine vedono in essa un’idea-forza capace di dare unità al gruppo. Così però la sovranità resta una nozione misteriosa (Burdeau, 1980, p. 297). Si tratta sempre di decidere in senso oggettivo o soggettivo. Meno confuso potrebbe apparire questo concetto se lo si riferisce alla società politica nel suo rapporto dinamico con la società civile. È indubbio che dalla costante evoluzione della società civile emergano uno o più poteri sociali dominanti i quali rappresentano la forza a fondamento del rapporto politico. Per la politica, scriveva Max Weber, “il mezzo decisivo è la forza” (Weber, 1966, p. 110). In questo caso la sovranità non va vista come attributo dello Stato in generale o della sua norma fondamentale (Kelsen), ma come volontà che decide. Ecco perché secondo Carl Schmitt sovrano è chi decide dello stato di eccezione. Lo stato di eccezione diviene decisivo per la stessa norma e per la condizione di normalità dello Stato. Scrive in proposito Giuseppe Duso: “Tutta la costruzione formale e oggettiva del potere rivela allora, per la sua genesi e il suo funzionamento, un’anima di soggettività e di decisione, che non è immediatamente ravvisata in una razionalità formale, ma è ciò che rende quella razionalità possibile, ciò che rende possibile parlare di norma e di normalità” (Duso, 1999, p. 142). Secondo Burdeau, poi, il soggetto sovrano è posto al di sopra di ogni statuto costituzionale che perciò non lo vincola. Egli lo crea ma non gli deve nulla (Burdeau, 1980, p. 301). Il segno essenziale della sovranità è il possesso del potere costituente. In questo, in effetti, il sovrano detiene ad un tempo “il controllo dell’idea di diritto che serve da principio direttivo alla vita dello Stato e alla scelta dei governanti” (Ivi). Sovrano, dunque, è chi può gestire l’idea di diritto al di sopra della sua definizione formale. 5. Consenso e democrazia Se la forza è l’origine e resta il “mezzo decisivo della politica”, il compito che questa assume è quello di costruire un tipo di società, la società politica, fondata su un tacito patto di dominio, e quindi su regole che limitano lo stesso uso della forza, e su valori che, in funzione del bene collettivo, servono a ottenere fiducia e consenso da parte dei governati nei confronti dei governanti. In funzione della fiducia e del consenso nasce la colorazione più propriamente politica di fatti, strutture e istituzioni che di per sé hanno valore neutro e che sono tipici di qualunque organizzazione so30

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ciale. Una forza che ricerca il consenso ha bisogno di un riferimento oggettivo, e perciò di valori, comunemente condivisi, di un valore ideologico che è propriamente l’elemento più politico della politica. Per questo la democrazia ci appare come la forma istituzionale di società politica più raffinata della modernità, in base alla quale “singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare”. Su questo principio Schumpeter sostiene che l’elemento caratteristico del regime democratico consiste nella libera concorrenza per ottenere il consenso politico, mentre le autocrazie si presentano come una forma monopolistica o oligopolistica di possesso del potere. Successivamente l’americano Robert Dahl, riprendendo il principio della democrazia come concorrenza, userà il termine poliarchia per indicare che in un regime democratico, nessun gruppo è in grado di monopolizzare il potere politico in quanto questo risulta diffuso fra una pluralità di soggetti singoli e collettivi in contrapposizione fra loro. La poliarchia comprende perciò una serie di principi istituzionali che permettono ai cittadini di esprimere preferenze di eguale importanza nel condizionare le scelte dei governanti. Nel sistema democratico o poliarchico l’indirizzo politico, cioè le scelte o le decisioni che vincolano l’intera collettività, si determinano attraverso un processo di interazione fra potere apparato, organizzato, che detiene la legittimità formale, e perciò il monopolio della violenza, suddiviso fra i poteri dello Stato non sempre in armonia fra loro, e il potere comunità, non organizzato e segmentato che esercita la sua influenza in quanto assegna a istituzioni e soggetti politici quelle forme e quelle percentuali di consenso, attraverso organi di opinione e organizzazioni, che determinano la legittimità reale dell’agire politico. Il confronto fra potere apparato e potere comunità, così come tra i vari gruppi politici alla ricerca del consenso, è tuttavia tutt’altro che pacifico. Esso avviene in maniera conflittuale dentro e fuori le regole istituzionali. Il conflitto politico è la condizione costante di un confronto che si sviluppa nell’antinomia “amico-nemico”. Non c’è politica, scrive J. Freund “senza un nemico reale o virtuale”. “La politica porta in sé il conflitto che può, in casi estremi, degenerare in guerra” (Freund, 2003, p. 446). Per la Arendt la politica è conflitto costante “perchè nasce tra gli uomini, dunque decisamente al di fuori dell’Uomo”. Essa deve regolamentare la loro convivenza cercando di organizzare e regolamentare l’essere-insieme di diversi, non di uguali. Pertanto “non esiste una sostanza propriamente politica. La politica nasce nell’infra e si afferma come relazione” (Arendt, 2001, p. 7). La sua essenza è il conflitto, tanto che “guerre e rivoluzioni, non il funzionamento dei governi parla31

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mentari e degli apparati dei partiti, costituiscono le esperienze politiche fondamentali del nostro secolo” (Ivi, p. 97). Nell’arena della politica si scontrano così ideali, interessi, aspirazioni al potere e bisogni sociali. 6. Dimensioni della politica Abbiamo fin qui seguito il percorso che dalle posizioni di forza porta alla politica come insieme di valori, di significati e di convinzioni che dovrebbero produrre consenso per sostenere o conquistare il potere. Come forza la politica è quel complesso di attività, volte alla conquista o alla gestione delle posizioni di potere, che si manifestano con l’affermazione della propria volontà sull’altro anche nel caso di una opposizione. Dal punto di vista del consenso la politica è il confronto e lo scontro di ideali, pregiudizi, espressioni dell’immaginario collettivo, interpretazioni della realtà: tutti elementi volti a convincere, a creare consenso e a mobilitare l’azione attorno a un determinato progetto di società e ai gruppi che ne sono portatori. Il conflitto ideologico è il più acceso perché sia chi ha il potere, sia chi lo vuole conquistare sa che solo il consenso porta ad uno stabile coinvolgimento e ad un convinto sostegno della forza politica. La politica non ha altro scopo che convincere e creare consenso, e perciò interpretare, dare significato e una particolare colorazione a istituzioni, decisioni, conflitti su valori, rappresentazioni e giustificazioni capaci di sostenere le scelte che vincolano, sul piano della forza, intere collettività. In base a quanto detto l’analisi della politica dovrà tener conto: 1. delle forme e delle allocazioni del potere come espressione di forza all’interno di una società; 2. del personale politico o classe politica e più in generale degli attori politici diretti e indiretti; 3. delle istituzioni che hanno funzione politica in quanto orientano e cercano di sostenere decisioni che vincolano la collettività con la ricerca del consenso; 4. dei valori, ideali e ideologie presenti embrionalmente o anche in forma inconscia nella società storica, che possono servire alla ricerca del consenso; 5. delle forme di consenso e di conflitto che si sviluppano fra potere apparato e potere comunità in ordine alle decisioni che coinvolgono l’azione collettiva. La politica perciò è spazio (di valori e di significati – l’universo politico), è azione, fondata sulla forza del potere, è arte, alla ricerca della convinzione e del consenso: interpretazione per un verso e manipolazione per l’altro. L’analisi della fenomenologia politica è politics, se ha come oggetto la dinamica dei rapporti di potere, la loro distribuzione e la loro regolamenta32

La politica moderna

zione; è polity se si occupa delle interazioni fra società civile e società politica in termini di conflitto e consenso, di classi sociali, partiti, elezioni, rappresentanza, partecipazione e competizione; è policy se si occupa delle scelte e delle decisioni di governo, cioè delle politiche pubbliche, delle tecniche di decisione e dei loro risultati. Dare la preminenza alla policy nella scienza politica rispetto alla politics, come avviene oggi, significa “esaltare il carattere processuale della politica e abbandonare le tradizionali immagini di natura gerarchico-conflittuale dei rapporti politici a favore di nuove configurazioni che ne evidenziano il carattere comunicativo-negoziale” (Sola, 2006, p. 135). Lo scenario della scienza politica deve tuttavia fare riferimento alla politics e alla polity, senza le quali la policy sarebbe solo un esercizio scolastico perché privo di un riferimento essenziale al potere, alle sue manifestazioni e ai rapporti fra società e politica.

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II Politica e scienza politica

1. I percorsi storici della politica Una storia della politica moderna, così come questa si è sviluppata nella prassi e nella mentalità dei paesi occidentali, non è stata mai scritta in modo completo e documentato. Ci sono solo frammenti e documentazioni parziali. Per storia della politica non intendiamo ovviamente una ‘storia politica’, né una storia dello Stato, né una storia sociale, né una storia delle ideologie, storie che abbondano. Intendiamo una storia dei rapporti fra società e politica, una storia delle collocazioni di senso della politica, nelle varie epoche, nelle mentalità dei popoli occidentali e nella prassi della loro vita quotidiana. La politica in Occidente ha un suo percorso particolare che la distingue da quella di tutti gli altri popoli. Il senso della politica occidentale comincia a formarsi nella Polis greca dove “fu letteralmente inventata la politica, intendendo con questo termine la partecipazione di tutti i cittadini alle decisioni sulle questioni che li riguardano; tali decisioni vengono attuate da incaricati che svolgono il loro ufficio per conto dei propri cittadini e ne rispondono a essi senza utilizzare la propria posizione, come di solito accadeva altrove, come una proprietà conseguita per diritto ereditario o divino” (Reinhard, 2010, p. 19). Nella Polis greca dunque la politica era sinonimo di democrazia diretta, cioè della gestione della cosa pubblica da parte di un piccolo gruppo di cittadini che ne avevano diritto e che non facevano distinzione fra sfera pubblica e sfera privata. Peraltro questa forma di politica di tipo comunitario “poteva realizzarsi solo in collettività di dimensioni modeste” (Ivi). Nel mondo romano il comunitarismo delle città-stato greche si dissolve nella pluralità del sociale, governato dal diritto e da un diffuso prag35

Pensare la politica

matismo che distingue privato e pubblico, politica e affari. La decadenza dell’impero romano, le invasioni dei barbari a partire dal V secolo provocano il declino delle città occidentali e dello spirito civico e la crescita del ruolo politico della Chiesa. S. Agostino (354-430), distinguendo la Città di Dio dalla Città dell’Uomo, pur ritenendo le due città indipendenti afferma che la società civile, inserendosi nel piano divino, non deve ostacolare la società religiosa. Con Carlo Magno poi la Chiesa assume la guida del potere politico. Il mondo feudale segnerà un suo ulteriore indebolimento evidenziato da San Bernardo (1091-1153) con la teoria delle due spade. Nel suo Liber de Consideratione Bernardo afferma esplicitamente che la spada spirituale e la spada materiale “appartengono entrambe alla Chiesa, ma la seconda deve usarsi a difesa della Chiesa, la prima invece dalla stessa Chiesa; l’una è impugnata dal prete, l’altra dal soldato sotto la guida del prete e al comando dell’Imperatore” (Touchard, 1903, p. 143). La crociata contro gli Albigesi (1209-1249) non ha rappresentato che l’applicazione più evidente di questo principio. Solo con i secoli XV-XVII, con l’apertura degli orizzonti di un mondo nuovo comincia il processo di secolarizzazione della politica e si pongono le premesse dello Stato moderno. Machiavelli all’inizio del Cinquecento sancisce l’autonomia della politica dal potere religioso e dalla morale. La finalità della politica perseguita dalla volontà e dall’azione del principe è quella di realizzare il bene della collettività. Morale civile e morale politica, secondo Machiavelli, hanno due riferimenti diversi. La prima riguarda la rettitudine degli atti personali secondo le norme del dovere. La seconda risponde alle necessità della vita sociale, cioè quelle di salvaguardare la pace interna e la sicurezza esterna di uno Stato. È stato scritto che per Machiavelli “non vi è una politica morale ma una morale della politica” (Freund, 1965, p. 243). Machiavelli, secondo Althusser, “è il filosofo dell’inizio, di qualcosa di mai accaduto e pensato in precedenza” (Althusser, 1999). Un passo deciso verso le condizioni che avrebbero generato la politica moderna avviene con l’opera di Jean Bodin ( Six livres de la République, 1576), per il quale la sovranità è una, assoluta, indivisibile e inalienabile. Questo principio crea una base solida allo Stato e al “potere assoluto dei principi e delle signorie” che può essere limitato solo “dalle leggi di Dio e della natura” (Touchard, 1963, p. 231). Ma un’eguale spinta verso la politica moderna deriva dalla riforma luterana che prende l’avvio nel 1517 e dai principî del Calvinismo che si diffondono verso la metà del Cinquecento. La Riforma luterana rappresentò una svolta politica, perché diede ai prin36

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cipi tedeschi quel potere che tolse alla Chiesa di Roma. Marx e Engels la considerarono la prima delle rivoluzioni borghesi. Essi videro nel Calvinismo, che promosse un’etica di azione nella società alla ricerca del successo, il quale doveva testimoniare per l’individuo “la prova” di essere fra gli eletti da Dio, una molla decisiva per lo sviluppo della borghesia e del capitalismo. A questa tesi si riallaccerà poi Weber ne L’Etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-5) per evidenziare l’influenza di radici religiose nello sviluppo del capitalismo. Le modalità della nuova politica verranno poi enunciate nelle opere di Hobbes tra il 1640 e il 1651 con il principio di sottomissione totale alla legge e al sovrano. La legge deve vincolare tutti meno il sovrano stesso e permettere una sopravvivenza razionale degli individui altrimenti succubi nella lotta di tutti contro tutti. Il principio della sottomissione non esclude per Hobbes la ribellione, ma questa nel solo caso in cui il sovrano non rispetti il principio di garantire la sicurezza dei cittadini per la quale nasce appunto il contratto sociale. Opposti sono invece i principî esposti nelle opere di John Locke (1632-1704) il quale rivendica i diritti innati e irrevocabili di ciascun individuo, difende la proprietà privata e affida al governo il compito di difendere, attraverso l’ordinamento giuridico, la libertà e i diritti dei cittadini. Per Locke è la moralità che fa la legge e non la legge che crea la moralità. Chi governa deve realizzare e difendere ciò che è giusto naturalmente prima ancora che ciò venga scritto nella legge. Infine Montesquieu nello Spirito delle Leggi (1748) si preoccuperà del diritto, della costituzione e dell’equilibrio dei poteri tra funzioni legislative, esecutive e giudiziarie per realizzare un sistema di controllo che eviti la prevalenza e quindi l’eccessivo potere di una funzione sulle altre. A fine Settecento la piattaforma teorica sulla quale si sarebbe mossa la politica moderna era completa. Dal 1648 e cioè dalla pace di Westfalia che concludeva le guerre di religione, si registrarono in Europa l’ascesa dello Stato moderno e la progressiva crisi delle strutture dell’antico regime sotto la spinta propulsiva della crescente borghesia. L’assolutismo e lo Stato patrimoniale vennero lentamente sostituiti dal contrattualismo, dai diritti naturali, dall’idea di rappresentanza, dalla necessità di creare istituzioni politiche che sostituissero il potere personale del sovrano gestendo i problemi e le attività della società civile. L’idea di nazione e di cittadinanza vengono a costituire l’elemento ideologico di quello che sarà il dominio politico borghese. La rivoluzione americana (1776) e la rivoluzione francese (1789) segnano una svolta politica decisiva: l’avvento al potere della borghesia e il 37

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passaggio della sovranità da Dio al popolo. Con ciò si poneva per la politica un nuovo compito: quello di costruire l’unità della volontà e dell’azione politica dal molteplice, costituito dalla diversità di interessi, di passioni di idee presenti nella vita del nuovo soggetto sovrano: il popolo. Perciò il nuovo ordine politico poteva costituirsi solo sul principio della rappresentanza, dando lentamente vita alle istituzioni della democrazia rappresentativa. “La trasformazione dell’antico Stato assoluto – scrive Gaetano Mosca – nel moderno Stato rappresentativo ha reso possibile a quasi tutte le forze politiche, ossia a quasi tutti i valori sociali, di partecipare alla direzione politica della società”. Su questa base la classe politica si è suddivisa “in due rami distinti: quello proveniente dalle elezioni popolari e quello burocratico”. La visibilità della sfera pubblica attraverso la libertà di stampa e i dibattiti parlamentari, continua Mosca, ha potuto “richiamare l’attenzione del pubblico su tutti i possibili abusi dei governanti” e questo testimonia “la grande superiorità dei regimi rappresentativi. La quale ha permesso la costituzione di una forma di Stato fortissima, che ha potuto incanalare verso fini d’interesse collettivo una somma immensa di energie individuali e nello stesso tempo non le ha schiacciate e soppresse; e perciò ha lasciato ad esse una vitalità sufficiente per conseguire altri grandi risultati, soprattutto nel campo scientifico e letterario ed in quello economico” (Mosca, 1953, II vol., pp. 212-13). Gli spazi e le articolazioni della nuova politica crescono durante tutto l’Ottocento sotto la spinta di una più ampia base borghese e del dinamico sviluppo del capitalismo. Il modo aristocratico, paternalistico e privatistico di gestire gli affari politici cede di fronte alla molteplicità di problemi che pone la gestione della cosa pubblica. La politica deve proporsi sempre più come sintesi e rappresentazione di una società e di una cultura. A storici, letterati e filosofi la configurazione offerta dalla politica appare come una società politica che ordina e gestisce la vita della società civile in funzione del bene comune attraverso un rapporto dialettico fra rappresentanti e rappresentati, governanti, sempre più professionisti della politica (v. Weber, 1966), e governati che, in base a una vita sociale sempre più complessa, rivolgono sempre maggiori istanze all’agire politico. Al centro della società politica sta un tacito patto di dominio che istituisce un rapporto di comando-obbedienza fra governanti e governati fondato sull’obbligo di rappresentanza-responsabilità degli uni e partecipazione-legittimazione degli altri. Come ogni altro gruppo che si consolida oggettivando e rappresentando se stesso, anche la società politica trova la sua unificazione rap38

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presentandosi negli ideali che devono tenere unito il gruppo e guidare l’azione collettiva. Così l’elemento ideologico, nelle sue varie rappresentazioni, diviene per la società politica ciò che è più propriamente politico nella politica, la piattaforma sulla quale si consolida la società politica. Il termine e il significato della società politica si ritrovano tanto nella grande storiografia francese dei Tocqueville, dei Guizot, dei Taine, quanto nelle riflessioni dei teorici del liberalismo. Il ventesimo secolo apporterà nuove modificazioni allo spazio sociale e politico. La rivoluzione industriale, la maggiore densità della vita sociale, l’urbanizzazione massiccia, l’intensificarsi della vita di relazione trasformano l’ordine sociale e l’organizzazione della vita collettiva. Già nell’Ottocento l’aggregazione umana nelle fabbriche e le folle che percorrevano le vie delle città avevano impressionato filosofi e letterati come Balzac o Mallarmé. Le opere di Marx e Engels avevano messo in evidenza lo sfruttamento della forza lavoro e avevano creato le basi per l’organizzazione politica e sindacale a difesa del proletariato. Questi fenomeni agli inizi del Novecento impongono alla politica il compito di aprirsi a nuove forme di democrazia, di rimodellare e dare struttura a un più complesso ordine sociale. Cominceranno allora a formarsi organizzazioni sindacali, nuove forme di partito su più consistenti basi ideologiche, nuove istanze per un allargamento del diritto di voto. Occorreva insomma creare nuove istituzioni per fissare l’instabilità e la fluidità delle ‘folle’ in una condizione di ‘massa’. Mentre lo stato di folla significava una condizione di aggregazione instabile, imprevedibile e una continua minaccia per la stabilità dell’ordine sociale, la ‘massa’ avrebbe riportato la densità delle aggregazioni sociali a forme omogenee per atteggiamenti e per mentalità, permettendo di gestire l’ordine sociale e generando condizioni prevedibili, manipolabili e idonee al prevalere di tendenze conservatrici. Già agli inizi del secolo sia Georg Simmel che Max Weber avevano notato l’importanza che le masse avevano acquisito nella vita contemporanea. Ma la classe politica, ancora aristocratico-borghese si mostrava incapace di aprirsi a cambiamenti adeguati a rispondere a nuove istanze. Così sulle rovine della prima guerra mondiale potevano insediarsi in Italia e in Germania le dittature del fascismo e del nazismo capaci di fissare l’immaginario delle masse attorno a miti primitivi quali il mito di Roma per il fascismo e il mito della razza per il nazismo. Negli anni quaranta veniva pubblicato uno studio di Emil Lederer sullo ‘Stato delle masse’ (Lederer, 2004). L’elemento di unione degli individui, scrive Lederer, “è sempre di carattere emozionale. Una folla può essere u39

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nita soltanto dalle emozioni, mai dalla ragione, la ragione non avrebbe effetti sulle masse, anche quando fosse ben fondata psicologicamente” (Ivi, p. 12). Qualche decennio più tardi anche uno studioso italiano, Giacomo Perticone, avrebbe pubblicato una serie di saggi sui caratteri del regime di massa (Perticone, 1984). 2. La politica contemporanea Dopo la seconda guerra mondiale e la restaurazione di ordinamenti democratici i partiti politici diventano partiti di massa e la politica si fonda sul coinvolgimento emozionale delle masse orientate da nuove mitologie gestite dai mezzi di comunicazione di massa. Questo produce nuovi radicali sconvolgimenti nell’azione politica, nel modo di fare politica e di ricercare il consenso. Mentre l’interesse delle masse viene soddisfatto e pilotato emozionalmente, la razionalità politica si orienta sull’interesse economico e sulle sue necessità di gestione. L’economicismo come mentalità crea un modo universale di unificare tutti i valori e di trovare nel senso dell’economia la giustificazione dell’azione politica. Così l’economia diviene ideologia (Mongardini, 1997) e in base ad essa la politica è solo gestione del presente, si riduce a fare fronte alla contingenza (Mongardini, 2009), all’amministrazione di accordi e negoziazioni che avvengono ormai al di fuori della sfera propriamente politica. Lo sviluppo del capitalismo costituisce oggi un nuovo impulso alla trasformazione della politica. La globalizzazione rappresenta un superamento degli Stati nazionali creati dallo sviluppo dell’economia borghese e dalla necessità di un ordine democratico. Tutto il sistema degli Stati-nazione viene subordinato alla nuova fase di sviluppo del capitalismo. Questo pone numerosi interrogativi. Siamo arrivati alla “fine dello Stato”? (v. Hobsbawm, 2007 e Reinhard, 2010, p. 118 e segg). Oppure lo Stato muterà semplicemente le sue funzioni? O, ancora, la riorganizzazione della politica avverrà sui grandi spazi, sulle grandi zone di influenza, di cui parla Carl Schmitt (Schmitt, 1941)? Quello che oggi è certo, è che si è creato un fossato profondo tra la virulenza della trasformazione economica e la politica ancora prigioniera delle vecchie forme e formule borghesi. In questo spazio si è inserita la religione, come avviene sempre nelle fasi di crisi della politica, la quale viene a condizionare sempre più, a fronte dell’economia, i rapporti politici interni o internazionali. Rimane per il futuro, come si è detto, l’opzione dei “grandi spazi”, come sfere egemoniche, o quella dell’“Impero” di 40

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una superpotenza occidentale o orientale, o ancora quella di una “governance” economica mondiale (v. Mongardini, 2007, cap. 7). Certamente la trasformazione della politica si propone su due piani: quello interno, con il passaggio dal regime borghese al regime di massa, nuove forme di potere e il problema del consenso e della legittimità; quello internazionale che pone il problema dell’espansione e della natura di un nuovo capitalismo, di una costituzione politica che vada oltre lo Stato e di nuove forme di sovranità, senza le quali non sarà possibile regolare l’economia. A questi problemi è connessa anche la crisi della società politica sviluppatasi nel regime borghese e la necessità di una revisione o di un ripensamento dei concetti fondamentali dell’analisi politica. 3. La scienza politica Il regime borghese è stato il mondo delle differenze e delle gerarchie fondate su valori, il regime di massa è fondato sull’omogeneità e sull’appiattimento sul valore economico che giustifica tutto, anche la corruzione. Il regime borghese differenziava le classi sociali, il regime di massa contrappone produttori e consumatori in termini di quantità (prodotte e consumate), pubblicità e speculazione. Questa differenza è estremamente importante per lo studio dei fenomeni politici perché essa si riferisce alle caratteristiche dell’ordine sociale, del quale l’ordine politico è un “sottosistema”, e perché lo studio della politica ha una necessaria dimensione storica, senza la quale esso non sarebbe in grado di comprendere le linee di che orientano il mutamento politico (Bobbio, 2004, p. 865). Come si è detto la politica moderna ha a fondamento una gerarchia di potenzialità presenti nell’ordine sociale. Si può governare un ordine sociale fondandosi sulla forza o sul consenso. L’universo politico si fonda sulla ricerca del consenso e sull’azione di quelle istituzioni che agiscono nella sfera pubblica e perciò hanno anche un nome che le caratterizza come organi politici (es. il parlamento) ma che di fatto sono strutture di per sé neutre, che ritrovano in qualsiasi tipo di organizzazione sociale. La caratteristica della politica è perciò la colorazione tipica di un agire che investe la collettività fondandosi sul consenso o alla ricerca del consenso. La struttura di potere permane un fatto sociale nella sua consistenza, nella collocazione e nell’azione istituzionale, il senso della politica subentra nel fatto che l’azione nel rapporto comando-obbedienza è capace di giustificarsi sui fini che persegue (bene comune), di essere sorretta dal consenso o di ricercare consenso. 41

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I fenomeni politici sono stati studiati anzitutto, nel contesto di concezioni filosofiche, nei termini di politicità umana (Aristotele), di potere (Machiavelli), di Stato come ordine politico o fondazione politica del potere (Bodin e Hobbes). Carattere molto diverso assume lo studio dei fenomeni politici con l’avvento, con la Rivoluzione francese, della politica moderna, del passaggio della sovranità da Dio al popolo, del principio della rappresentanza e della sua istituzionalizzazione, che stabilisce un costante processo di interazione fra rappresentanti e rappresentati. Nasce la società politica e nasce la scienza politica “in senso ampio e non tecnico per denotare qualsiasi studio dei fenomeni e delle strutture politiche, condotto con sistematicità e con rigore, appoggiato su un ampio e accurato esame di fatti, esposto con argomenti razionali che cerca di contrastare l’opinione, le credenze e i condizionamenti ideologici” (Bobbio, 2004, p. 862). Così la scienza politica si colloca tra le scienze umane, ha un campo di indagine complesso e di ampio respiro, è strettamente correlata alla sociologia e in particolare alla sociologia storicista, si propone come “scienza della comprensione” piuttosto che “scienza della spiegazione”, come le scienze naturali, ricerca, data la sua complessità, uniformità e non leggi, ha come suo riferimento il potere, le sue collocazioni e le sue mutazioni. Questa scienza politica nasce già con Saint-Simon, per ammissione dello stesso Gaetano Mosca (v. Vidal, 1959), si sviluppa con l’apporto di autori tedeschi che separano la “scienza dello Stato” (Staatswissenschaft) dall’“arte dello Stato” (Staatskunst) (v. Mosca, 1953, I, p. 8, n. 2) e si articola organicamente nel 1896 con la pubblicazione del primo volume degli Elementi di scienza politica di Gaetano Mosca. A questa accezione della scienza politica se ne aggiunge un’altra che si impone a partire dagli anni ’60 del secolo scorso e che ha un senso più ristretto e più tecnico della precedente. Scienza politica in questo caso vuole indicare “un orientamento di studi che si propone di applicare all’analisi del fenomeno politico nei limiti del possibile, cioè nella misura in cui la materia lo permette, ma con sempre maggiore rigore, la metodologia delle scienze empiriche” (Bobbio, 2004, p. 862). A seguito della “rivoluzione compertamentista” avvenuta in America nella prima metà del secolo scorso, questa nuova via della scienza politica si presenta come “un orientamento o un punto di vista che mira a descrivere tutti i fenomeni di governo in termini di comportamenti umani osservati e osservabili” (Truman, 1951). Il comportamento è ritenuto un fenomeno direttamente osservabile e perciò suscettibile di misurazioni quantitative. Questa scelta, scrive Gior42

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gio Sola, “non significa che i politologi abbiano trascurato le motivazioni, le aspettative e gli atteggiamenti né che abbiano ignorato i processi cognitivi, affettivi e valutativi che determinano la condotta di un singolo attore. Essa significa tuttavia aver circoscritto l’oggetto di indagine e aver perso l’opportunità di trarre profitto da una tradizione scientifica che, ponendo l’azione al centro dell’analisi, ha accumulato un patrimonio di conoscenze che non ha eguali in altri campi del sapere” (Sola, 2006, p. 68). Dal suo punto di vista, facendo uso della metodologia delle scienze empiriche e con l’intento di avvicinarsi alle scienze naturali, la nuova scienza politica ha posto sotto osservazione fenomeni di breve periodo interessandosi tra l’altro, al voto, alla partecipazione e alla comunicazione politica, alla rete clientelare, a processi e tecniche di decisione ai diversi livelli e alle politiche pubbliche. Alla scienza politica tradizionale orientata sul potere e sull’azione politica si è così affiancata una scienza politica, oggi predominante, concentrata sul comportamento e sull’apparato, sui meccanismi istituzionali e decisionali. Non interessa il potere e si dà per scontato che essendoci istituzioni democratiche viviamo in democrazia e dobbiamo solo cercare di far funzionare e migliorare i meccanismi della vita democratica. Questa scienza politica ha perciò un interesse pratico, aspira a prevedere e a suggerire che cosa fare nel caso di disfunzioni delle istituzioni. Si riduce in sostanza a una scienza delle istituzioni che trova il suo quadro di riferimento nel diritto costituzionale, così come l’altra lo trova nella storia e nelle trasformazioni sociali. Aspira ad essere, come nelle scienze naturali, una scienza della spiegazione. Con ciò il comportamentismo “viene a segnare un vero e proprio spartiacque fra due modi opposti di concepire la scienza politica: un modo tradizionale rivolto alla predisposizione di una teoria generale dello Stato e del potere e un modo innovativo caratterizzato da un deciso orientamento empirico. Nel proporre l’individuo come punto focale dell’esperienza politica e conseguentemente della ricerca politologica, il comportamentismo non solo dismette concetti e categorie di origine ottocentesca, ma introduce nell’analisi politica un nuovo vocabolario…”(Sola, 2006, p. 70). L’aspetto tecnico prevale sull’aspetto contenutistico, come in altri campi del sapere, e alla relazione umana vengono sostituiti, sul modello dell’economia, gli schemi formali dell’organizzazione e dei processi di interazione. Le due dimensioni della scienza politica si pongono così l’una accanto all’altra: quella del potere e dell’agire politico, che comprende anche la politica come arte e quella formale istituzionale e di tecnica delle decisioni. Si riproduce così in qualche modo quella che è la differenza fra economia politica 43

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e politica economica. Ciò non significa che queste due prospettive non possono convivere come due anime di una stessa disciplina. Nell’uno e nell’altro caso tuttavia occorrerà tener conto nell’insieme di quelle che sono le dimensioni della politica: struttura e allocazione del potere in un quadro poliarchico, personale politico, istituzioni, valori, ideali e ideologie che determinano i percorsi della politica. 4. L’elitismo Vediamo ora di avvicinarci di più e di comprendere meglio gli interessi e gli sviluppi dei diversi indirizzi della scienza politica in Italia partendo dalla distinzione fra una corrente tradizionale e una corrente moderna. La prima, storico-teorica e dottrinaria, con intento analitico-descrittivo, si presenta come scienza della comprensione (per usare termini weberiani) e non scienza della spiegazione, non ha perciò intenti schematico-riduttivi, utilizza il metodo storico, che l’altra nega, non propone teoremi sui quali costruire modelli astratti, ma solo fenomeni complessi da rilevare e analizzare. Il suo campo di indagine è il potere e i rapporti di potere, la sua analisi si svolge sulla storia e sui fenomeni di mutazione della società. Scrive Gaetano Mosca: “Qualunque possa essere nell’avvenire l’efficacia pratica della scienza politica, è indiscutibile che i progressi di questa disciplina sono tutti fondati sullo studio dei fatti sociali e che questi fatti non si possono cavare che dalla storia delle diverse nazioni. In altre parole se la scienza politica deve essere fondata sullo studio e l’osservazione dei fatti politici è all’antico metodo storico che bisogna tornare” (Mosca, 1953, p. 64). La corrente moderna della scienza politica italiana, affermatasi dopo gli anni ’60 è pragmatica, ha come matrice di riferimento la scienza politica americana, segue un indirizzo strettamente tecnico-scientifico con la pretesa di avvicinarsi all’economia e alle scienze naturali. Si pone quindi come una scienza della spiegazione, ha come riferimento il presente con la pretesa di fornire proposte e prescrizioni per l’attività di governo, è quindi concentrata su piani operativi concreti, si impegna solo su fenomeni empiricamente verificabili, non si interessa del potere, dà per scontata la democrazia perché esistono le istituzioni democratiche, non aspira a funzioni critiche se non necessarie alla funzione che vuole svolgere di supporto scientifico del potere (Bobbio, 1969), non si preoccupa perciò di essere compresa dall’intellettuale medio, ma usa linguaggio e tecniche accessibili solo agli iniziati. 44

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Vediamo ora brevemente come sono nati e si sono sviluppati i due indirizzi e quali sono le loro principali tematiche. Già si è detto che la fondazione della scienza politica italiana tradizionale fa riferimento all’opera di Gaetano Mosca, Elementi di scienza politica, pubblicata in prima edizione nel 1896 e ripubblicata con un secondo volume aggiunto nel 1923. Mosca rovescia le teorie tradizionali di interpretazione del potere e dei regimi politici soggettivando con la teoria della classe politica le forme oggettive usate per classificare i regimi politici come monarchie, aristocrazie o democrazie. Scrive Mosca all’inizio del suo volume che in tutti gli organismi politici, dai più primitivi ai più evoluti, si riscontrano due classi di persone, quella dei governanti e quella dei governati: “La prima, che è sempre la meno numerosa, adempie a tutte le funzioni politiche, monopolizza il potere e gode i vantaggi che ad esso sono uniti, mentre la seconda, più numerosa, è diretta e regolata dalla prima in modo più o meno legale, ovvero più o meno arbitrario e violento, e ad essa fornisce, almeno apparentemente, i mezzi materiali di sussistenza e quelli che alla vitalità dell’organismo politico sono necessari” (Mosca, 1953, p. 78). Negli stessi anni Vilfredo Pareto (1848-1923) nei suoi lavori di sociologia enuncia la sua teoria delle élites secondo la quale in qualunque tipo di gruppo e in ogni campo dell’agire si produce la distinzione di coloro che sono più abili e più capaci rispetto agli altri. I migliori, i più capaci formano l’élite: un fenomeno che ci permette di interpretare sia la stratificazione che il mutamento sociale (circolazione delle élites) e che rappresenta un fenomeno parallelo alla curva della distribuzione dei redditi. La circolazione delle élites serve a interpretare la storia, che è “un cimitero di aristocrazie” e a comprendere la politica come processo di formazione, consolidamento e decadenza di élites. Nella politica Pareto distingue élites di governo e non di governo, osserva che il governare rappresenta sempre un insieme di forza e di consenso e prevede una “trasformazione della democrazia” nella quale si assisterà alla “crisi della sovranità centrale” e a “risorgenti forme di feudalità” (Pareto, 1964). Attorno alla teoria delle élites e alla moschiana teoria della classe politica si sviluppa gran parte della scienza politica italiana del primo Novecento. Secondo queste teorie il potere politico, “cioè il potere di prendere e di imporre, anche ricorrendo alla forza, decisioni valevoli per tutti i membri della collettività, appartiene sempre e comunque a una ristretta cerchia di persone” (Sola, 2000, p. 7). Queste teorie rappresentavano peraltro un punto d’arrivo dell’evoluzione del pensiero politico dell’Ottocento, come ampiamente riconosciuto da Mosca. Subito dopo la Rivoluzione francese 45

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Saint-Simon (1760-1825), teorico dell’industrialismo, interpreta il potere in termini di classe e di produttività, sente l’esigenza di una politica scientifica, riconosce come unico potere legittimo il potere economico (Vidal, 1959). In una famosa parabola esprime il suo disprezzo per la classe politica nobiliare, la cui perdita improvvisa, scrive Saint-Simon, addolorerebbe certamente i francesi “per ragioni sentimentali e non produrrebbe alcun danno politico allo Stato” (v. Mongardini, 1993, p. 460). Mosca riconosce in Saint-Simon un suo ispiratore, così come trova elementi che lo portano a formulare la teoria della classe politica nella storiografia francese, in Tocqueville e soprattutto in H. Taine (1828-1893), al quale si riferirà anche Pareto. Nel suo studio sulle “Origini della Francia contemporanea” (1875-1893) Taine nota come nel regime moderno, “in mancanza del gran numero che si sottrae” è “una minoranza che si impadronisce del potere” (v. Mongardini, 1965, p. 365). Questa minoranza sarà costituita non dai migliori ma dai più adatti anche se ciò, in tempi di sconvolgimenti sociali, significherà scegliere i capi politici tra la canaglia, gli avventurieri e i banditi. Inoltre, secondo Taine, la politica nel regime moderno potrebbe diventare una vera e propria professione per coloro che le subordinano i loro interessi privati o vi trovano il loro vantaggio personale. Per questo Taine sostiene la necessità che la classe politica non sia il prodotto dell’avventura o dell’interesse ma sia reclutata nell’élite naturale che la ricchezza, l’ingegno e la capacità hanno già selezionato sul piano sociale. Solo con questa élite al potere sarà possibile garantire la stabilità dell’equilibrio politico, poiché “ciò che mantiene una società politica è il rispetto dei suoi membri gli uni per gli altri, in particolare il rispetto dei governati per i governanti e dei governanti per i governati” (Ivi, p. 372). Ma i riferimenti che animano la discussione sui fenomeni politici a cavallo fra Ottocento e Novecento sono la dottrina di Hegel e quella di Marx. Così anche per Mosca e per Pareto, sebbene, specie per Mosca, ciò non avvenga sempre in modo diretto. Hegel aveva enfatizzato la rappresentazione ‘sacra’ dello Stato in una società borghese e secolarizzata. Lo Stato avrebbe rappresentato la suprema istanza etica e “l’ingresso di Dio nel mondo”, il superamento delle divisioni e dei conflitti propri della società civile e del mondo degli interessi di parte. Marx non solo rovescia la dialettica hegeliana rimettendo “sui piedi” la visione della realtà, ma ribalta anche i rapporti fra società civile e Stato. Per la dottrina marxista le istituzioni politiche sono il prodotto della distribuzione delle forze produttive che formano l’ossatura della società, e lo Stato non è che lo strumento di 46

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governo della classe dominante. Anche il mondo della cultura e i suoi interessi non sono che il riflesso del dominio di una classe, perché “le idee dominanti non sono che le idee della classe dominante”. Ad una visione oggettivante e stabilizzante della politica borghese, quella di Hegel, si contrapponeva così una visione soggettivante e conflittualista, quella del dominio di classe di Marx. Le teorie elitiste, pur contrapponendosi alla visione del marxismo, ne hanno continuato la visione soggettivista e conflittualista non più orientata sulle classi sociali ma sulle classi politiche, elemento determinante nella storia per la loro composizione e per il livello di circolazione. La corrente elitista fonda dunque la sua interpretazione della politica sull’esistenza di minoranze che lottano per la conquista del potere e che poi, occupandolo e usandolo, si trasformano da aristocrazie in oligarchie e successivamente decadono. La storia perciò appare a Pareto “un cimitero di aristocrazie”. Questa prima fase della teoria elitista riguarda dunque la formazione delle classi politiche, la lotta per la conquista del potere e la sua strumentalizzazione. Una fase successiva segna l’ampliamento e l’articolazione del concetto di élite, un interesse maggiormente centrato sul rapporto governanti-governati, sul rapporto tra sistema sociale e sistema politico, e vede svilupparsi fuori d’Italia interessanti interpretazioni e critiche della teoria delle élites. Un passo significativo nello sviluppo dell’elitismo come interpretazione dei fenomeni politici è segnato dalle opere di Roberto Michels (1876-1936) e di Guglielmo Ferrero (1871-1941). Michels, con il suo lavoro sui partiti politici (Michels, 1966) si occupa delle forme di organizzazione dei gruppi politici e evidenzia sia, sulle orme di Weber, lo sviluppo di apparati burocratici che nei partiti frenano l’impatto propulsivo-ideologico, sia il fenomeno oligarchico all’interno dei partiti stessi. L’apparato burocratico provoca la crisi del rapporto di rappresentanza e quindi il distacco fra rappresentante e rappresentato. Il fenomeno oligarchico è inevitabile. “Chi dice organizzazione dice oligarchia”, scrive Michels. Per Guglielmo Ferrero il potere politico nasce per dare sicurezza ai rapporti sociali e per regolare i rapporti fra i forti e i deboli (Ferrero, 1981). Per questo la legittimità del potere è per lui il caposaldo delle istituzioni politiche e della stabilità sociale. Solo quando il potere è riconosciuto dai governati, non solo in forme legali ma anche moralmente, e viene attribuito a chi lo detiene il diritto di comandare, solo allora l’ordine legale riceverà stabilità e sostegno. Per Ferrero se il potere scende dall’alto, la legittimità, come consenso e riconoscimento, sale dal basso. Questa seconda fase della 47

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scuola elitista si preoccupa dunque piuttosto dell’interazione fra governanti e governati, perché, come aveva già notato Simmel, ogni rapporto di dominio costituisce una interazione. Un ulteriore sviluppo sarà costituito dalla scuola dell’elitismo democratico. Già Gobetti, recensendo Mosca, aveva notato che non c’è democrazia dove non c’è aristocrazia. Tra gli anni ’30 e ’40, con le opere di Guido Dorso e Filippo Burzio, la teoria delle élites si sviluppa ulteriormente e evidenzia ulteriori aspetti del rapporto governanti-governati. Per Burzio “un programma politico di impostazione liberal-democratica deve tendere a selezionare le élites mediante la concorrenza e far sì che esse vengano elette e controllate dai cittadini. Solo a queste condizioni si avranno élites aperte, tolleranti, benefiche; élites che ‘si propongono’ e non ‘si impongono’ ai governati” (v. Sola, 2000, p. 38). Ma il maggiore esponente dell’elitismo democratico negli ultimi decenni può essere considerato Norberto Bobbio (1909-2004), soprattutto con i suoi “Saggi sulla scienza politica in Italia” (1969). Bobbio vi segnala i limiti delle nuove correnti di scienza politica. La riapparizione della scienza politica tra il ’50 e il ’60, scrive “fu un fatto eminentemente politico”. In queste correnti il valore sociale della scienza “viene posto in primo piano e quasi assolutizzato”, cosicché “la scienza finisce per diventare il primo motore e il fine ultimo della società, onde all’ideologia della politica scientifica, della politica come scienza, si accompagna l’ideale utopico di una società perfettamente razionale, della società come sistema scientifico” (Bobbio, 1969, pp. 9-10). Di fronte a queste correnti Bobbio rilegge Mosca e Pareto e riprende i principi dell’elitismo democratico. Sottolinea l’importanza dell’analisi degli elitisti relativa “al ruolo delle oligarchie nella storia, ai limiti strutturali del processo di democratizzazione, alla funzione delle ideologie nella società, alle dinamiche della corruzione e del declino”. Vede infine nel primo elitismo “il contraltare conservatore al realismo rivoluzionario di Marx” (Portinaro, 2008, p. 99). Nel secondo elitismo, quello di Michels e di Ferrero coglie invece l’importanza dei partiti e della funzione che essi svolgono in democrazia, cosa in parte sfuggita “ai liberali di vecchia generazione” (v. Ivi, p. 47). Nelle sua versione dell’elitismo democratico, Bobbio tende a sottolineare la distinzione fra democrazia formale e democrazia sostanziale. La prima “indica un certo insieme di mezzi, quali sono appunto le regole procedurali”, la seconda “indica un certo insieme di fini, quale è soprattutto il fine dell’eguaglianza non soltanto giuridica ma anche sociale se non economica, 48

Politica e scienza politica

indipendentemente dalla considerazione dei mezzi adoperati per raggiungerli”. “Come una democrazia formale – afferma Bobbio – può favorire una minoranza ristretta di detentori del potere economico e quindi non essere un governo per il popolo pur essendo un governo del popolo, così una dittatura politica in periodi di trasformazione rivoluzionaria, quando non ci sono le condizioni per una democrazia formale, può favorire la classe più numerosa di cittadini e quindi essere un governo per il popolo pur “ non essendo un governo del popolo”. La democrazia perfetta, aggiunge, “sinora in nessun luogo realizzata, e quindi utopica, dovrebbe essere insieme formale e sostanziale” (Bobbio, 2004²). Un’idea realistica di democrazia è per Bobbio quella del positivismo giuridico, legata ai principi del giusnaturalismo e ai diritti umani. Questa idea è peraltro ancora lontana dalle forme di democrazia oggi esistenti che alimentano piuttosto le “promesse non mantenute della democrazia” che riguardano la partecipazione dei cittadini, il controllo dal basso e la libertà di dissenso (v. Bobbio, 1984). Un filone particolare dell’elitismo, più vicino alla tradizione del socialismo, si preoccupa delle mutazioni sociali che influenzano la realtà politica consolidatasi con il regime borghese. Questo filone è particolarmente sensibile allo sviluppo del regime di massa e alle sue conseguenze nell’ordine politico e nella dinamica governanti-governati. Questi interessi avevano trovato espressione, per esempio, nel 1940, nel libro di Emil Lederer su “Lo Stato delle masse” (Lederer, 2004) e esprimevano la preoccupazione per l’avvento dello “Stato totalitario” come “Stato delle masse”o “Stato massa”. Queste stesse preoccupazioni trovano un esponente in Italia in Giacomo Perticone (1892-1979). In diretta continuità con i temi del secondo elitismo Perticone concentra la sua attenzione sulla nuova totalità storica rappresentata dalla massa, e quindi dai fenomeni di massa e dall’uomo-massa. Questa nuova realtà gli appare modificare tanto la struttura sociale quanto l’organizzazione del potere e le sue giustificazioni. Il nuovo soggetto storico dà all’azione politica il carattere dell’immediatezza svincolata da ogni premessa di valore, da ogni legame morale, da ogni coerenza e continuità con idee o dottrine. Il criterio dominante è quello dell’utilità e dell’efficacia. La natura del regime di massa peraltro non avrebbe riprodotto altro che un legame diretto, anch’esso primitivo e di tipo carismatico, fra il capo e le masse. Questo nuovo rapporto, secondo Perticone, avrebbe finito per trasformare radicalmente la configurazione politica, sviluppatasi su altre basi con la modernità, e avrebbe costituito le premesse di nuove esperienze totalitarie (v. Perticone, 1984). Quello che Ferrero aveva individuato come il ricorrente cesarismo 49

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nella storia moderna trovava così, con Perticone, nel regime di massa, la base per nuovi sviluppi. Dominio della massa e dominio sulla massa rappresentano due tendenze destinate a rincorrersi e a contrastarsi in una fase della vita sociale che ha perso il senso della mediazione politica. Non ci sarebbe da sorprendersi del ripetersi di fenomeni di turbolenza attraverso i quali scompaiono le vecchie forme dell’organizzazione e della dinamica politica lasciando insoluto il dilemma sul futuro della politica non più costituita su elementi di mediazione sociale, non più fondata su valori e su quelle basi comunitarie che danno forza e spessore all’organizzazione della vita collettiva (v. Mongardini, 1995). Perticone assiste disincantato all’emergere dell’uomo-massa e al prevalere dei fenomeni di massa sull’autonomia e la libertà individuale, sui valori e le loro rappresentazioni. La decadenza del mondo della vecchia cultura gli appare inevitabile, così come inevitabile appare la fine di un’esperienza politica. La pluralità di interpretazioni della teoria delle élites che, dopo Bobbio e Perticone, ha contributi in gran parte marginali e solo nei tempi più recenti segua un importante recupero di significato, lascia scoperto anche un diverso uso terminologico fra classe dominante, classe dirigente, classe politica di governo e non di governo, élite sociale e élite politica ecc. L’uso di questi termini è diverso secondo i diversi autori non solo in Italia ma anche all’estero dove la teoria delle élites trova riscontri e sviluppi. È noto che Max Weber conobbe l’opera di Mosca segnalatagli da Roberto Michels. Nel 1909 scrive a Michels che il libro di Mosca “è un libro forte. Il Mosca ha capito dello Stato e l’anima e l’ingranaggio. Ha molto del Taine, ma mi sembra più equilibrato e direi meno ‘partito preso’. Se avesse studiato le condizioni politiche dell’America, la party machine, il boss ecc. egli avrebbe visto anche di più” (v. Sola, 2000, p. 95). Ancora Weber “dedica espressamente un paragrafo della sua sociologia del dominio al tema del potere mediante organizzazione (Herrschaft durch Organisation), incentrandolo attorno alla nazione di ‘superiorità del piccolo numero’ (Vorteil der kleinen Zahl). Con questa formula Weber vuole indicare il fatto che la politica è sempre controllata dall’alto e per giunta da gruppi ristretti. Come per altri teorici delle élites, anche per Weber la partecipazione delle masse alla vita politica non muta la realtà oligarchica della distribuzione del potere, “ma piuttosto comporta un cambiamento nella selezione del gruppo dirigente e nelle modalità di esercizio del potere” (Ivi, p. 94). 50

Politica e scienza politica

Elementi della teoria elitista si ritrovano poi in Gustave Le Bon (1841-1931) ma soprattutto in Ortega y Gasset (1883-1955) che nel suo libro La rebelión de las masas (1929) scrive che il rapporto politico sarà caratterizzato dall’azione dinamica di una minoranza su una massa laddove la prima sarà composta da elementi innovatori e creativi, mentre la seconda, composta da elementi medi e tendenzialmente gregari e conservatori, subirà passivamente le decisioni del potere. Anche negli Stati Uniti, a partire dagli anni ’30 numerosi autori vedranno negli elitisti italiani una base realistica e onnicomprensiva per interpretare la struttura e le dinamiche del potere. Fra questi Charles Wright Mills (1916-1962), Harold D. Lasswell (1902-1979), James Burnham (1905-1987) e il grande economista austriaco Joseph A. Schumpeter (1883-1950). 5. Recenti indirizzi della scienza politica A partire dagli anni ’60, come si è detto si sviluppa in Italia un indirizzo più empirico e pragmatico della scienza politica, fortemente ispirato dal comportamentismo americano. A questo dà l’avvio Giovanni Sartori che introduce in Italia l’esperienza americana, diventa il primo professore ordinario di scienza politica e fonda nel 1971 la “Rivista italiana di scienza politica” che da allora sarà il punto di riferimento della sua scuola. Negli Stati Uniti, dopo i lavori di Charles Merriam (Merriam, 1925), la scienza politica americana aveva preso le distanze dalla scienza politica europea, “sia sotto il profilo dei temi, sia in riferimento alle tecniche di ricerca. Essa intraprende una lenta marcia verso una maggiore ‘scientificità’ intesa come indagine sul campo e non a tavolino, come acquisizione di dati quantitativi, verificabili da qualunque osservatore, indipendentemente dalla nazionalità o dai valori che lo caratterizzano” (Sola, 2000, p. 31). Negli anni ’50 la rivoluzione comportamentista segna uno spartiacque. Il comportamentismo si propone di interpretare istituzioni, strutture e processi come conseguenza di azioni e reazioni individuali effettuate in un contesto caratterizzato dall’assegnazione imperativa dei valori. Perciò dagli anni Sessanta, come scrive il Sola, “la maggior parte dei ricercatori accantona il problema dell’individuazione di leggi e presenta le regolarità rilevate sotto forma di condizioni, di relazioni dirette o inverse, di nessi di associazione e nessi causali. Si consolida così un sapere politologico in cui un fenomeno viene abitualmente affrontato alla luce delle condizioni che lo rendono possibile e che possono essere necessarie o sufficienti, facilitanti o, inversamente, 51

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ostacolanti” (Sola, 2000, p. 32). Su questa linea la scienza politica ha progressivamente perso di vista la storia, si è concentrata sul presente “abbandonando i problemi perenni della politica per dedicarsi alle questioni urgenti che emergono dalla quotidianità” (Ivi, p. 27). In questo senso la scienza politica analizza le istituzioni e la loro funzionalità rispetto ai principi della democrazia e si propone come scienza di riferimento per una politica che diventa sempre più politica della contingenza. Rispetto allora alla componente storica della scienza politica tradizionale essa si presenta come scienza del contingente rappresentando in qualche modo la stessa diversità che si ha tra economia politica e politica economica. Un modello che si inserisce in questo sviluppo e che incontra grande fortuna e numerose applicazioni è costituito dalla configurazione sistemica della funzione politica delineata negli anni ’60 da David Easton. Ogni sistema politico secondo Easton comprende: la comunità politica, costituita da coloro che ne fanno parte, il regime, che consiste di valori, norme e strutture sulle quali si regge, e le autorità, rappresentate da coloro che svolgono ruoli dai quali è possibile prendere delle decisioni. Il sistema politico riceve dalla collettività istanze o inputs insieme a un certo grado di sostegno inteso come fiducia e consenso verso le istituzioni. Il sistema elabora le istanze e risponde con una serie di decisioni e di azioni o outputs che soddisfano o non soddisfano tutta o una parte della collettività che reagisce con una retroazione, con ulteriori domande e con la variazione del sostegno. Le domande rappresentano per Easton la “materia prima”, le decisioni o outputs i “manufatti”. Questo processo pone due problemi al sistema politico. Il primo è quello di distinguere i problemi che vengono dalla collettività da quelli che sorgono all’interno del sistema. Il secondo è quello di risolvere i vincoli che potrebbero sorgere sul processo decisionale costituiti: 1. dal possibile sovraccarico delle domande; 2. dalla possibilità che le decisioni portino a lacerazioni insanabili del sostegno (v. Sola, 2000, p. 71 e segg.). Dopo gli anni ’70 il comportamentismo subisce un periodo di declino e lascia spazio a nuovi paradigmi che orientano l’osservazione dei fenomeni politici principalmente su: 1. la razionalità dell’azione: 2. la struttura istituzionale e il suo funzionamento; 3. idee, valori ideologie come componenti della “cultura politica”. Il paradigma della scelta razionale segue un’impostazione individualistica e si basa sul principio che l’individuo che agisce in politica “non diversamente da quanto accade nel mercato economico, orienta la propria condotta alla valutazione dei costi e dei benefici ed è motivato esclusivamente dalla convenienza e dall’utilità” (Sola, 2009, 52

Politica e scienza politica

p. 47). La politica perciò è vista come “un’arena di scambi e di negoziazioni” in cui ciascun soggetto adotta scelte razionali individuali orientate egoisticamente. Il paradigma neo-istituzionalista vede la politica nell’insieme come risultato dell’azione regolatrice delle istituzioni, che non solo fissano la cornice nella quale si svolge la vita della comunità, ma devono essere considerate come attori politici autonomi, funzionali e coerenti. Della loro funzione va preso in esame tanto l’aspetto organizzativo quanto l’efficacia delle regole che definiscono le identità e giustificano le scelte individuali e collettive (v. Sola, 2000, p. 47). Infine il paradigma culturale ritiene determinanti, nell’agire politico, le idee, i valori, le ideologie che lo accompagnano. Questi fattori sarebbero alla base delle istituzioni, dei comportamenti degli attori individuali, delle percezioni e valutazioni che portano alle scelte del potere e alla sua legittimazione. Con maggiore o minore interesse per questi modelli interpretativi dell’agire politico, la scienza politica contemporanea ha indirizzato una miriade di ricerche e di studi sulle politiche pubbliche “intese come l’insieme delle scelte e delle azioni compiute da una pluralità di soggetti, pubblici e privati, che siano in qualche modo correlate alla soluzione di un problema, percepito come collettivamente rilevante” (Sola, 2000, p. 133). Alcuni studiosi vedono in questo grande sviluppo di interessi una vera e propria “rivoluzione concettuale” ma si tratta in realtà della combinazione fra la tendenza empirico-pragmatica della scienza politica e la riduzione della politica stessa alla gestione del presente e della contingenza, cosa che richiede sempre più un supporto tecnico da parte di chi non è immerso nel confronto politico quotidiano. L’interesse per la policy, che si distacca pertanto sia dalla politics (che ha per oggetto la conquista del potere) che dalla polity (che richiama i concetti del confronto politico, come consenso, conflitto, ecc.), si riversa su una pluralità di campi dei quali si occupano i pubblici poteri, come sanità, industria, lavoro, ecc. con una serie di importanti conseguenze: 1. che la politica pubblica “viene interpretata come fenomeno capace di influire sulle diverse componenti della struttura istituzionale e della lotta politica”; 2. che l’interesse per la policy esalta il carattere processuale e tecnico della politica e la porta ad abbandonare le tradizionali immagini di natura gerarchico-confittuale dei rapporti politici a favore di nuove configurazioni che ne evidenziano il carattere comunicativo-negoziale; 3. che lo studioso dei fenomeni politici è incoraggiato “ad abbandonare la tradizionale posizione di neutralità nei confronti della materia studiata per assumere la funzione dell’esperto, che non è soltanto ‘autorizzato’ a pre53

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scrivere delle soluzioni o delle alternative, ma è ‘tenuto’ ad intervenire direttamente nei problemi di cui si occupa” (Sola, 2000, pp. 133-135). Il percorso della scienza politica così si amplia e si differenzia, si distacca dai grandi temi dell’analisi politica e si risolve nella tecnica, diventa strumento del potere e finisce per perdere qualunque tipo di contatto con chi vorrebbe comprendere il senso, la direzione e i fini dell’azione politica.

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III

Il contesto dell’agire politico

1. Società civile e società politica L’ascesa della borghesia ha costruito nel Settecento l’autonomia della società civile come sfera autonoma di rapporti. Ha successivamente fondato su questa, e in contraddizione con questa, la società politica come forma nuova della politica moderna in sintonia con il nuovo principio di sovranità. Nell’antico regime il valore dell’unificazione politica era fondato sulla sovranità di diritto divino interpretata e rappresentata dal re. La volontà politica scendeva dall’alto, espressione di un unico soggetto. Il re per un verso era l’interprete della volontà divina e per l’altro si presentava al popolo come il buon padre di famiglia impegnato per il benessere dei suoi sudditi. Ancora nel 1610 Giacomo I poteva dire nel Parlamento inglese: “La condizione della monarchia è al mondo la più elevata, perché i re non sono solo i luogotenenti di Dio in terra e siedono sul trono di Dio, ma da Dio stesso sono chiamati dei…I re sono paragonati ai padri di famiglia, perché un re è davvero parens patriae, il padre politico del suo popolo”. Nell’antico regime dunque il valore unificante è un dato sul quale non si discute. Nel regime moderno, nel quale il sovrano è rappresentato da una molteplicità di individui tra i quali domina la diversità, la scissione e il conflitto di idee e di interessi, il valore unificante è ciò che è cercato per unire in primo luogo governanti e governati: è la colorazione del politico che opera per ottenere il consenso. Il compito della politica è quello di unificare il molteplice. La legittimità per la prima volta si differenzia dalla legalità e si pone come problema. La società politica non è un dato ma un processo di strutturazione che non arriva mai a termine e che oscilla fra la forza e il consenso. Per questo la costituzione materiale si differenzia dalla costituzione formale (Mortati). 55

Pensare la politica

Nella società politica la forza o potenza si apre alla ricerca della politica come necessità, come ricerca di senso e di valore dell’azione collettiva, come giustificazione dei privilegi di cui gode il personale politico. Nel mondo incantato della politica non esistono più i fatti ma le interpretazioni dei fatti. Le motivazioni delle azioni vengono sostituite da giustificazioni che spiegano l’interesse comune perciò che si è fatto e deciso. Perciò il mondo della politica non ha autonomia. Il fatto politico non esiste. Interessi, idee, valori diversi tentano di presentarsi come vie maestre per realizzare il bene comune. Tutta la realtà politica non è che una sovrastruttura, un modo di essere della realtà sociale il cui profondo significato, il senso più proprio dell’essere ‘politica’, sta nei significati, nelle interpretazioni, nei valori dati ai rapporti sociali e agli avvenimenti. È una sovrastruttura che si uniforma e si trasforma sulla società e i suoi cambiamenti. Quella che chiamiamo società politica non è che un modo di essere del sociale e tutte le uniformità della politica non sono che variabili dipendenti della società e della cultura. Isolare il senso del ‘politico’, pensare all’autonomia del politico su base razionale, istituzionale, valoriale o tecnico-decisionista, (i paradigmi ai quali precedentemente si è fatto cenno) significa perdere il senso della realtà storica e sociale per inseguire il mito scientista. La società politica è stata ed è (nella misura in cui oggi sopravvive) la proiezione politica del regime borghese, le sue istituzioni sono espressioni dei valori ed dei significati del mondo borghese che hanno dato senso al nuovo rapporto tra governanti e governati. Un senso ancora nuovo si propone ora e si afferma, dovuto al regime di massa, che muta profondamente il modo di governare. Ma è sempre la società civile che produce incessantemente le forme del potere e perciò del politico. È a partire da questa che bisogna interpretare il modo di essere della società politica. I punti di crisi che la società politica presenta oggi non sono che il prodotto delle mutazioni intervenute nell’ordine e nei valori sociali con lo sviluppo del regime e dei fenomeni di massa. Il problema della legittimità, ha scritto Guglielmo Ferrero, è “la questione più importante e più difficile dell’epoca moderna”. Questo problema mette in crisi la società politica perché cancella ogni autorità politica e lascia apparire il potere solo come forza e costrizione. È questa la crisi profonda della modernità borghese. In fondo la nostra epoca non rappresenta la decadenza della modernità o la postmodernità ma un diverso tipo di modernità: la modernità borghese lascia il posto alla modernità del regime di massa che assume forme e contenuti completamente diversi. L’uniformità del regime di massa si sostituisce alle tendenze selettive e alla struttura piramida56

Il contesto dell’agire politico

le del regime borghese. Alle élites esemplari come rappresentazioni di valori morali si sostituiscono élites come sintesi e rappresentazioni dell’uomo medio, dei suoi ideali e dei suoi desideri. Il senso della società e della cultura si sviluppa così su un piano orizzontale. Il potere perde in parte la sua coloritura politica, si differenzia in una serie di poteri sociali, sostenuti da una ideologia, anch’essa sociale, come è l’economicismo, mentre è la comunicazione che offre le condizioni di un legame sociale formale e necessario. La ragione calcolante ispira prevalentemente l’agire sociale, perché, come scrive Georges Bataille, la massa possiede solo la morale utilitaria e avanza, persino riguardo ai valori più comunemente riconosciuti, la domanda: “A che cosa serve?”. E ciò che non serve a nulla è considerato vile, privo di valore (Bataille, 2000, p. 25). Per l’individuo contemporaneo, per l’uomo massa, la guida è costituita soltanto dalla morale utilitaria. Egli apprezza ciò che ha valore strumentale, che sviluppa il feticismo dei mezzi, che risolve i problemi contingenti e non si pone il problema dei fini, cioè propriamente i problemi più generalmente politici e di visioni alternative della realtà. Fatte queste considerazioni preliminari ma importanti per comprendere il mutamento di senso della politica a partire dalla Rivoluzione francese, concentriamoci ora sulla società politica perché questa è il centro della nostra analisi. È qui che nascono i problemi più scottanti della realtà contemporanea come quelli della sovranità e della legittimità, dei rapporti fra governanti e governati, della rappresentanza e delle influenze politiche dei poteri sociali. Il tutto concerne i grandi mutamenti verificatisi nell’ordine e nei valori della società tardo-moderna. Il passaggio dalla modernità borghese alla modernità dei regimi di massa ha implicato una trasformazione della politica e quindi della società politica come è stata vissuta fino agli ultimi decenni del secolo scorso. Per società politica si intende un tipo di unione, in funzione dell’azione collettiva, che nasce su una dimensione verticale, in contrapposizione con la società civile, che si sviluppa invece, sul principio dell’eguaglianza, in senso orizzontale. La società politica, cioè, costituisce un rapporto di sopra e sotto-ordinazione come qualunque tipo di organizzazione che voglia ordinare l’azione di un gruppo per conseguire una determinata finalità. Qui il fine è il bene comune, il miglioramento delle condizioni di vita della collettività, lo sviluppo della cultura materiale e non materiale di un popolo. Per questo si crea un apparato funzionale che è proprio di qualunque tipo di aggregazione, quale che ne sia la dimensione o il carattere. L’organizzazio57

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ne di attività rivolte ad un fine, la divisione del lavoro e delle funzioni è propria tanto dei piccoli come dei grandi gruppi, di un’industria come di un club sportivo. La società politica dà ordine e finalità all’intera collettività definita in termini di nazione o di Stato. Qualunque organizzazione, e quindi anche la società politica, si fonda, per poter funzionare, su rapporti di dominio, sia che si tratti di piccoli o di grandi gruppi. Solo che, a seconda delle dimensioni del gruppo, il rapporto di dominio acquista carattere diverso. È psicologico e informale nei piccoli gruppi, ma sviluppa qui forti potenzialità di controllo sociale. È invece sociologico e formale nei grandi gruppi, dove però la relativa anonimità delle relazioni sociali impedisce un consistente controllo sociale. Il primo caso interessa gruppi primari e si estende fino ai gruppi clientelari, laddove quindi c’è ancora un legame comunitario. Il secondo caso interessa associazioni di qualunque tipo, nelle quali il dominio viene istituzionalizzato e definito in ruoli e comportamenti specifici. Nel primo caso, data la sua natura psicologica, la posizione di dominio viene continuamente rimessa in discussione e rinegoziata, nel secondo invece essa è fissata ad uno schema oggettivato di organizzazione che, per essere rimesso in discussione, richiede un radicale mutamento strutturale o funzionale, che quindi finisce per coinvolgere aspetti fondanti della cultura. Il rapporto di dominio nei grandi gruppi nasce formalmente, con la loro organizzazione. Dà ad essi così senso e capacità di espressione. Ogni organizzazione significa costituzione di rapporti formali di dominio. Le posizioni di dominio si costituiscono, qui come nei piccoli gruppi, parallelamente all’esistenza del gruppo e corrispondono nell’organizzazione a ruoli nei quali il gruppo si rappresenta e agisce, indipendentemente dal fatto che gli individui che tali ruoli rappresentano abbiano o meno le caratteristiche, le capacità e le qualità per svolgere tali ruoli. Solo in un secondo momento, dalla funzionalità o disfunzionalità di questo o quel settore dell’attività di gruppo, sarà possibile capire se l’individuo sia adeguato o meno alla posizione che occupa. Ma il suo potere non potrà essere rinegoziato o rimesso in discussione senza coinvolgere l’intera organizzazione o addirittura l’aspetto della cultura che l’ha fatto nascere. Richiamare l’attenzione sulla società politica significa mettere in evidenza che in ogni gruppo, fin dalla sua formazione, coesistono una dimensione orizzontale di appartenenza, cittadinanza, eguaglianza formale, e una dimensione verticale di natura psicologica o sociologica che permette al gruppo di organizzarsi, di agire, di essere rappresentato. Nel primo caso definiamo come legame sociale la solidarietà (di sangue, di religione, di finalità) 58

Il contesto dell’agire politico

che si crea fra i membri. Nel secondo caso definiamo come rapporto di dominio la relazione di sopra e sottoordinazione che rende possibile l’organizzazione e l’azione del gruppo. I fenomeni politici che noi vogliamo considerare non sono che il risultato di una certa struttura della società politica e di come essa, in molteplici combinazioni, si interseca con la società civile. La società politica quindi non ha autonomia rispetto alla società civile che la produce ma ne è una sintesi e rappresentazione, è un modo di riaffermare e gestire i valori di una cultura. Ma al tempo stesso la società politica rappresenta un particolare tipo di società, la cui fondazione (il rapporto di dominio), le cui regole e funzioni sono diverse da quelle tipiche della società economica, giuridica o religiosa. Ciascun tipo di società ha le sue regole, ha la sua logica e ciò è tanto più evidente oggi quanto più le diverse esperienze del sociale, la religiosa, l’economica, la giuridica e la morale, si differenziano tra loro e quindi rappresentano società diverse. Peculiare però resta il fatto che la società politica dovrebbe creare la sintesi e la rappresentazione dell’intera esperienza sociale. La società politica risponde quindi a questa duplice necessità: 1) Creare e stabilizzare rapporti istituzionali di dominio che permettono il controllo sociale e l’azione collettiva; 2) Costituire l’unità del gruppo, dando all’azione collettiva finalità che raccolgano consenso e segnino dei limiti agli interessi individuali, e esaltare ideali che creino un Super-io collettivo nel quale i membri del gruppo si possano identificare. La società civile è invece il luogo della soggettività, dell’interesse personale, della frammentazione e del conflitto. Questa condizione ci potrebbe però alla lunga alla rottura del legame sociale ove non fosse contenuta entro regole che assicurino l’integrità del gruppo, ove non fosse parzialmente superata da un agire collettivo rivolto a perseguire il bene comune. Su queste finalità di controllo sociale, di ricerca dell’unità e del bene comune, di creazione di una comunità artificiale, si costituisce la politica. Nella modernità essa ha dato vita ad una molteplicità di istituzioni che, date appunto le sue finalità, si sono tanto più sviluppate quanto più complessa e conflittuale è diventata la società civile. La complessità della società ha determinato l’estensione della politica, il suo maggior controllo, la maggiore incisività della sua azione e la creazione di un immaginario politico collettivo (ideologie), sul quale si costituisse la differenziazione dominanti-dominati, si orientassero le regole e le istituzioni, si giustificasse la forza cogente dello Stato e il fatto che esso possiede il monopolio della violenza. Tutti questi elementi costitutivi configurano la società politica, la quale può essere scissa solo logicamente della società civile, anche se le 59

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premesse costitutive sono diverse: il legame sociale per quest’ultima, il rapporto di dominio per la prima. L’una si riferisce strettamente all’altra e viceversa. Si possono configurare come due dimensioni di una medesima realtà che produce insieme e in maniera contraddittoria eguaglianza formale e dominio sostanziale, tendenze conservatrici e spinte innovative. L’una dimensione è di volta in volta il riflesso e la base delle condizioni dell’altra. Per ciascuna contano i bisogni materiali e ideali del gruppo, le rappresentazioni collettive dominanti, le qualità degli individui, le costrizioni ambientali, storiche e istituzionali. Spesso si tende a sottovalutare o a non considerare il ruolo delle rappresentazioni collettive che invece è essenziale. Come scriveva Durkheim, la società è in primo luogo costituita dall’idea che essa si fa di se stessa. Una società, nota infatti il sociologo francese “non è costituita dalla massa degli individui che la compongono, dal suolo che essi occupano, dalle cose di cui si servono, dai movimenti che essi compiono, ma, in primo luogo, dall’idea che essa si fa di se stessa” (Durkheim, 1979, p. 604). L’elemento vivente e pulsante della realtà sociale è perciò la società civile, nella quale, come in un crogiolo, si mescolano i vari aspetti della vita collettiva, l’economico, il religioso, l’estetico ecc. Anche il politico vi è compreso, poiché più degli altri resta aderente alla vita di gruppo, in quanto ha come funzione la mediazione delle posizioni di parte e la costituzione della sua unità materiale e ideale. La società civile è perciò la matrice di ogni dimensione del sociale. In essa si incontrano e scontrano le autonomie dei singoli e dei gruppi. Rappresenta la sfera delle relazioni che liberamente gli uomini stabiliscono tra loro. È anche il luogo dei rapporti privati, di parentela, di amicizia, di amore. A questa società civile e alle sue diverse dimensioni che vanno dal lavoro alla religione, all’arte, si sovrappone la società politica come regolazione dei rapporti pubblici e delle istituzioni. Le attività e le relazioni della vita pubblica si sottopongono così alla tutela dello Stato che, nella modernità, è diventata sempre più pervasiva e più rigida man mano che la società civile si è sviluppata in complessità. La società civile ha bisogno della società politica. Senza di essa sarebbe un agglomerato informe pieno di conflitti e di paura, dove regnerebbe la legge del più forte. Solo il dominio politico è in grado di dare ordine, garanzia, protezione. Non solo, ma è proprio l’elemento ‘politico’ che, con la ricerca del consenso su un fine comune, cerca di orientare le energie collettive verso lo sviluppo e il progresso. La funzione della politica, perciò, è quella di creare una comunità artificiale, rispetto alla quale l’individuo si senta partecipe e coinvolto nell’agire collettivo. D’altra parte la 60

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società politica non può utopisticamente proporsi di creare o trasformare la società civile senza rispettare le condizioni materiali, spirituali e storiche che essa presenta. La società politica non può indicare finalità dell’agire collettivo che non siano compatibili con la società civile che essa rappresenta. Il volontarismo politico di matrice razionalista e illuminista è stato uno dei peggiori mali della storia contemporanea. La società politica non è che un modo di essere della società tutta. Non ha autonomia rispetto alla società civile, ha il dovere di interpretarla e di rappresentarla, anche se esprime autonomamente, cioè ideologicamente, le basi sulle quali ricercare il consenso e fondare la legittimità. Un punto nodale dell’analisi politica è dunque quello di comprendere i rapporti fra società civile e società politica, di individuare le forze centripete e centrifughe che in esse operano, i bisogni che supportano l’azione del potere e quelli che spingono alla sua contestazione e rinegoziazione. Comprendere la società politica attraverso le sue interconnessioni con la società civile significa perciò individuare la dislocazione dei poteri sociali, analizzare il personale politico che la compone, valutare la funzionalità delle istituzioni e gli ideali e i valori che le supportano. Fra società civile e società politica resta comunque sempre un rapporto dialettico perché l’una si fonda sui principi dell’eguaglianza e della cittadinanza, l’altra sulla gerarchia e il comando. Uno studio del rapporto politico presso gli antichi greci dal titolo “Il cerchio e la piramide” (Bonanni, 1992) rende bene l’idea dei due aspetti essenziali della vita di gruppo: da una parte l’appartenenza, la cittadinanza, dall’altra la costruzione gerarchica del rapporto di dominio come rapporto politico. Eguaglianza e gerarchia, due necessità della vita di gruppo, due tipi di società che si costituiscono contemporaneamente. Lo statuto della cittadinanza, il senso di appartenenza, l’eguaglianza morale che rendono possibile accettare l’ineguaglianza delle fortune e lo stesso rapporto di dominio. L’eguaglianza di fronte alla legge alla quale anche i dominanti sono soggetti è la condizione sulla quale può essere costruito il rapporto di dominio. Agli occhi dei governati solo il mantenimento dell’eguaglianza morale e giuridica permette di sostenere la società politica. Questa condizione è essenziale per sanare la contraddizione che nasce dal costituire un’ineguaglianza gerarchica su un’eguaglianza sostanziale sul piano dell’appartenenza. Per questo il politico deve poter giustificare la disuguaglianza con la finalità dell’azione di gruppo, con il perseguimento del bene comune. Solo se questa giustificazione sarà efficace, sarà possibile mantenere l’unità di gruppo. 61

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Cerchiamo ora di riassumere sinteticamente, in pochi punti, quanto enunciato nelle considerazioni precedenti. 1. La politica non è un ordine razionale autonomo dal sociale e dalle sue configurazioni ma il prodotto di una “qualità mentale” che attribuisce valori e significati in ordine al “bene comune”. Essa non ha autonomia perché condizionata dall’assetto sociale e dai valori della cultura. Come azione e come arte politica essa si esprime come sintesi e rappresentazione di una società e di una cultura per ottenere consenso e coesione verso un indirizzo dell’azione collettiva. 2. A partire dalla Rivoluzione francese e dallo spostamento del principio di sovranità da Dio al popolo si costituisce una società politica in ordine gerarchico su un tacito patto di dominio fra chi detiene la sovranità e chi di fatto la gestisce, fra chi esercita il potere e chi lo subisce, sulla base di principi e valori condivisi, che dovrebbero indirizzare l’azione collettiva verso il bene comune. L’ordine della società politica impone una gerarchia, perché non è concepibile una politica senza alcuni che comandano e altri che obbediscono. 3. L’ordine gerarchico della società politica non deve apparire come una divisione e pertanto esso viene giustificato, da parte di chi comanda in nome dei valori comuni, che servono a preservare l’unità dell’insieme, e in nome delle funzioni che l’attività politica comporta. Questa pretesa comunità artificiale viene sempre rimessa in questione nella dialettica governoopposizione. Pertanto la società politica è in continua strutturazione, è mutevole e soggetta a profonde crisi. 4. La forma della società politica e l’agire politico sono in rapporto di interdipendenza con l’ordine sociale e i valori culturali, come di seguito vedremo. Non vi può essere analisi dei fenomeni politici senza un costante riferimento a questi rapporti di interdipendenza. Fra gli elementi che influenzano la società politica vanno considerati: le forme della cultura, la morale, la religione, le condizioni dell’economia, e in particolare lo sviluppo e le trasformazioni del capitalismo e le gerarchie sociali. 5. Una politica che si limita a rappresentare un solo principio e un solo interesse (il capitalismo, l’economia) finisce di essere politica (funzione di unificazione) e apre profondi fossati fra governanti e governati. Allo-

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ra tutto diventa politica come difesa degli interessi di parte. Per questo alcuni chiamano società politica non la sfera che unisce i rapporti governanti-governati ma quella condizione in cui tutti i rapporti sociali vengono politicizzati (Greven, 2010). 6. Quando si arriva alla sospensione della politica perché un solo elemento del sociale viene rappresentato (come oggi l’economicismo e i valori del nuovo capitalismo), allora l’opposizione si esprime non con un progetto politico alternativo ma come antipolitica, che di fatto è una mobilitazione alla ricerca di una nuova politica. Cancellando dalla politica gli elementi ideologici, gli aspetti ideali e progettuali che le sono propri, lasciando al solo volontarismo di una ragione calcolante la guida di decisioni che investono l’intera collettività, l’economicismo contemporaneo ha creato le premesse della ingovernabilità. 7. Un’azione di governo incapace di svolgere una funzione politica si limita a gestire la contingenza, fare fronte agli eventi e ai problemi quotidiani. È incapace anche di prevedere e di gestire il futuro. La contingenza sembra essere il senso e il destino del nostro tempo. In sé la contingenza non è politica. È il minimo di difesa dell’esistente. Oppure è manipolazione, ideologia di una cultura del presente. 2. I condizionamenti del sociale Esaminiamo qui quelli che sono i condizionamenti che il sociale impone alla politica e gli elementi, che si è visto presenti nell’ordine sociale e culturale, che la politica deve essere in grado di rappresentare, anche come valori di cui essa deve rendersi portatrice. La politica è decisione, azione e arte. È arte nella misura in cui il soggetto agente riesce a legittimare la propria azione con un forte livello di aggregazione e un alto grado di consenso. L’azione politica è, secondo Julien Freund, una delle grandi categorie delle attività umane che si specifica con la finalità di essere “al servizio della collettività”. Essa si affianca alle altre attività, economica, artistica, morale o scientifica, con le quali è in costante rapporto di interazione. Ma essa deve compiere lo sforzo di dare senso ad una finalità generale collettiva che le rappresenti tutte. Così essa è ‘politica’. Altrimenti tutto diventa politica e cioè misurazione dei rapporti di forza, senza più limite e conflitto sulla base del principio amico-nemico (v. Taguieff, 2008, pp. 79-80). 63

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Nell’azione politica dobbiamo anzitutto distinguere progetto, risultato e senso. I risultati possono essere anche conseguenze non volute dell’azione e anche approdare a effetti opposti a quelli che si volevano ottenere. A tutta l’attività e alle conseguenze che se ne hanno occorre poi dare senso, cioè dimostrare la coerenza dell’azione e giustificarla in funzione del bene comune. L’azione può essere poi rivolta all’utile per la società, per incrementare cioè il suo benessere materiale, o rivolta all’utile della società, per rafforzare il legame sociale. Infine, in base alla distinzione di Max Weber, può essere guidata da un principio di responsabilità, cioè essere attenta alle possibili conseguenze che essa può avere su altri, oppure dal principio della convinzione, cioè fiduciosa che essa è in sé il bene assoluto, quali che siano le conseguenze che essa può produrre per gli altri. L’arte politica, oltre che arte nel produrre consenso, è anche arte nella decisione, che consiste tanto nell’individuare la direzione che sembra più opportuna, quanto nell’avere senso di responsabilità per la causa che si vuole difendere (v. Freund, 1965, p. 65). Se l’azione politica deve in primo luogo, nel contenuto e nelle forme, rispondere alla cultura di un popolo deve adeguarsi al tessuto di questa cultura. La cultura è l’insieme di comportamenti valori e significati che fissano per tradizione i rapporti materiali e il legame sociale fra i componenti di una società. Una fondamentale distinzione è quella fra cultura materiale e non materiale. Un grave errore politico sarebbe quello di seguire lo sviluppo della cultura materiale, rappresentandola, e al tempo stesso trascurare gli elementi valoriali più significativi che compongono la cultura non materiale. Questi elementi si riflettono nell’immagine che la società ha di se stessa e perciò nei miti e nei simboli che sostengono questa immagine. Queste componenti di unificazione solidale “si iscrivono nel quadro delle affabulazioni attraverso le quali le società proteggono la loro coesione, spiegano la loro struttura e immaginano il loro destino” (Burdeau, 1979, p. 21). È in questo immaginario sociale, su questi elementi culturali che la politica accorta gioca per ricercare il consenso su un progetto politico. È su questa piattaforma che il potere diventa politica. Viene condizionato dalla cultura e diventa cultura politica. Qualunque scelta politica, di destra o di sinistra, deve fare i conti con la cultura e fondare una cultura politica se vuole imporsi in forma egemonica. Oggi l’idea di egemonia come forza dirompente del confronto politico, che abbiamo ereditato dall’era delle ideologie politiche, entra in crisi di fronte al regime di massa almeno nelle sue forme. Qualcuno, come Scott Lash, vede nascere un’epoca “post-egemonica” e sorgere forme di “neovitalismo”. Da forme meccaniciste si passerebbe a 64

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forme vitalistiche, da norme egemoniche a fatti intensivi, dalla nozione del potere come dominio al potere come potenza, forza che il potere deve continuamente inventare e usare. Di parere diverso uno studioso di Gramsci, Richard Johnson, per il quale l’egemonia non sta solo nella politica culturale, ma rientra in tutte le manifestazioni del potere, anche nella forza delle relazioni economiche. Piuttosto le forme egemoniche sono estese e rese complicate attraverso “un unico mercato mondiale” e dall’intensificarsi “delle relazioni sociali capitaliste all’interno degli spazi sociali” (AA.VV., 2002). Il problema tuttavia si amplia sul tema della crisi della cultura occidentale che non trova equilibrio tra cultura materiale, valori e sviluppo politico. Questo produce una crisi di senso della politica. Già nel 1979, un famoso politologo tedesco Richard Löwenthal, notava: “La perdita dell’immagine del mondo e la perdita dei legami esteriori chiariscono insieme il frequente fenomeno della ‘perdita di significato’ che nell’ultimo decennio ha portato molti giovani occidentali o alla rivolta o al ritiro passivo dalla società verso comunità di hippies, verso il culto della droga e recentemente verso sette giovanili pseudo-religiose. Tutte queste forme di dissidenza giovanile si accompagnano ad uno sconvolgimento della fede nei valori fondamentali dell’occidente; anzi spesso la sostituzione viene cercata in direzioni polarmente opposte” (Löwenthal, 1979). La crisi della cultura occidentale come crisi di senso, che ha comunque radici lontane e si ritrova in tutti i pensatori della decadenza, come per esempio Spengler, si accentra oggi nel feticismo degli oggetti e delle invenzioni tecnologiche, nell’emarginazione, come vedremo, della morale e della politica, nell’utilitarismo e nell’economicismo delle masse i cui interrogativi essenziali sono il “quanto?” e “a che serve?”. L’emergere di elementi culturali che stimolano incessantemente l’individuo portano, come già notato da Simmel, all’intensificazione della vita nervosa, che è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori” (Simmel, 1995, p. 36). Questo produce scissioni nella vita individuale e con ciò la precarizzazione dell’individuo che perde allo stesso tempo la propria coerenza e le certezze della “società”. “L’erranza – scrive giustamente Maffesoli – oltre al suo aspetto fondamentale di qualsiasi insieme sociale, traduce bene la pluralità della persona e la duplicità dell’esistenza. E, allo stesso modo, esprime la rivolta, violenta o discreta, contro l’ordine stabilito” (Maffesoli, 2006, p. 34). “Spogliato come è dei suoi diritti politici – aveva scritto H. Arendt – l’individuo, a cui la vita pubblica ufficiale si presenta sotto la maschera della necessità, ha questo nuovo accresciuto interesse per la sua vita privata e le sue sorti 65

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personali. Escluso dalla partecipazione alla gestione degli affari pubblici che riguarda tutti i cittadini, perde il suo legittimo posto nella società e il vincolo naturale con i suoi simili” (Arendt, 1967, p. 196). Sono proprio la “maschera della necessità” e la contingenza che caratterizzano la “cultura del presente”, come non cultura, e una gestione della politica che si limita a fronteggiare i problemi del momento. A questa gestione non possono rispondere né la precarietà della vita individuale né le aggregazioni momentanee senza progetto, che perciò si limitano a una sterile protesta. Il problema non è della politica ma della cultura che non offre spazi e profondità per superare una visione di corto respiro e di routine quotidiana. D’altra parte una condizione di contingenza esclude i valori. L’unico valore è il valore del presente, dell’attuale, dell’evento. L’orientamento dell’individuo non nasce perciò da valori ma da scelte dettate dalla contingenza. La stessa morale diviene episodica e situazionista (Marchetti, 2009). La cultura non offre più stimoli alla politica, anche essa oscilla “tra contingenza e perdita della realtà” (Rehberg, 2010). La nuova politica fondata su una cultura del presente ha perso di senso. Essa ha scisso perciò legalità e legittimità, potere e autorità, espressione di voto e consenso. La democrazia è quasi una formula vuota. Una politica che si muova solo sulla gestione del presente può essere solo una politica della contingenza e della necessità e perciò può solo oscillare tra la fredda logica dell’economia e le illusioni del populismo volte ad adescare le masse. Un’ulteriore sfida alla politica è mossa dalla morale, anche civile, e dalla religione. Ogni gruppo, ogni società si fonda su principi morali, di origine religiosa e civile. La morale riesce a tenere a freno gli istinti, a disciplinare le passioni e costituisce il fondamento dell’autorità e del diritto. Il senso della morale sta nel vivere e sentire la relazione con gli altri come “un valore in sé” (Colozzi, 2004). Una volta formatosi all’interno di tutte le unioni di individui, dalla famiglia al gruppo di studio o di lavoro, “il codice morale funziona da rifugio del senso morale naturale, che è sistematicamente minato dalla pulsione a sacrificare la relazione al perseguimento dei propri desideri o all’affermazione dell’Io…” (Ivi, pp. 213-214). Ecco perché la morale resta a fondamento dell’unità del gruppo, lo consolida e lo rinnova quando è necessario. Scriveva Durkheim che non può esserci società “che non senta il bisogno di conservare e rinsaldare, a intervalli regolari, i sentimenti collettivi e le idee collettive che costituiscono la sua unità e la sua personalità. Tale rinnovamento morale può essere sostenuto soltanto per mezzo di riunioni, di assemblee, di congregazioni, in cui gli indi66

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vidui strettamente riuniti fra loro riaffermano in comune i loro comuni sentimenti” (Durkheim, 1963, p. 65). La morale è anche all’origine del sentimento borghese di società. È David Hume che mostra quanto morale e virtù abbiano forza fondativa nel rapporto sociale e quanto la morale si radichi nei sentimenti e nelle passioni piuttosto che nella razionalità. È Adam Smith che, prima ancora di svelare la funzione dell’egoismo nelle relazioni sociali, nel precedente lavoro sulla Teoria dei sentimenti morali (1759), spiega fin dall’inizio che per quanto egoista si possa considerare l’uomo, “sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principî che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla”. Per la politica i codici morali che regolano la società civile sono fortemente limitativi, ma nel mondo moderno, da Machiavelli in poi, molti autori hanno sottolineato che “non c’è una politica morale ma una morale della politica”, perché “la politica non ha per oggetto di perseguire un fine morale ma il fine del politico, cioè la pace interna e la sicurezza esterna di uno Stato, con il rischio, se necessario, di fare degli strappi alla morale individuale” (Freund, 1987, p. 243). Morale civile e politica rispondono, secondo Freund, a esigenze diverse: “La prima risponde a una esigenza interiore e concerne la rettitudine degli atti personali secondo le norme del dovere, ciascuno assumendo pienamente la responsabilità della propria condotta. La politica, al contrario, risponde a una necessità della vita sociale e colui che si impegna su questa strada intende farsi carico del destino di una collettività” (Freund, 1965, p. 6). L’identificazione di morale e politica, continua Freund, “è anche una delle cause del dispotismo e delle dittature. Ne risulta che la morale non è né concettualmente né logicamente inerente all’attività politica, cioè agire politicamente non è la stessa cosa che agire moralmente e viceversa” (Ivi). Tra morale civile e politica si inserisce tuttavia il diritto come elemento di mediazione razionale tra società civile e politica. Se da una parte esso trae la sua forza dal soggetto dominante che lo produce, dall’altra limita l’azione di quello stesso soggetto nei confronti dei dominati, che trovano in esso la “difesa giuridica” (G. Mosca) nei confronti delle prevaricazioni del potere che offenderebbero la morale civile. Morale e diritto “si sviluppano simultaneamente per differenziazione ma si integrano reciprocamente nel senso che il diritto rafforza il senso morale aggiungendo alla sanzione interna, tipica della morale, la sua capacità istituzionale di cogenza garantita dalla sanzione esterna, mentre la convinzione della sostanziale 67

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coerenza della norma giuridica con il senso morale rafforza la legittimità del diritto e rende l’obbedienza meno sacrificale” (Colozzi, 2004, p. 216). Un discorso in parte diverso va fatto per il rapporto fra religione e politica perché qui non vale solo un codice morale che opera dall’interno secondo i dogmi della religione, ma entra in gioco anche l’azione della Chiesa come apparato istituzionale parallelo a quello dello Stato, che interferisce indirettamente nella sfera pubblica e nel rapporto governantigovernati. Per tutto il Medioevo la Chiesa ha avuto grande influenza sulla politica fondandosi sulla sovranità di diritto divino (nulla potestas nisi a Deo) che dunque la autorizza a controllare gli atti del sovrano come interprete della volontà divina. Già con Machiavelli comincia a delinearsi tuttavia la separazione tra potere politico e potere religioso, soprattutto perché il principe deve fare riferimento al suo popolo e la morale della sua azione si ispira al bene comune e non può identificarsi con la morale privata. Dopo le guerre di religione e la nascita dello Stato moderno la sovranità di diritto divino tornerà ad assumere un significato rilevante, soprattutto a sostegno del nuovo Stato nelle sue tendenze accentratrici e assolutistiche, ma, rispetto al passato, come ispiratrice diretta delle decisioni del sovrano. Dopo la Rivoluzione francese, con il regime moderno, e la politica borghese, i rapporti fra religione, Chiesa e politica si faranno più complessi. Ne Le forme elementari della vita religiosa (1912) Emile Durkheim fisserà chiaramente il senso di religione, religiosità e Chiesa per distinguerle dalle fedi politiche. Per lui religione e religiosità sono rappresentazioni collettive che hanno la funzione “di elevare l’uomo oltre se stesso per fargli vivere una vita superiore nella collettività alla quale appartiene”. Perciò la religione è esperienza e esaltazione collettiva. Nel suo aspetto strutturale è costituita da “un sistema di credenze e di pratiche relative alle cose sacre, cioè separate, interdette; credenze e pratiche che uniscono in una medesima comunità morale, che chiamiamo Chiesa, tutti quelli che vi aderiscono” (v. Gentile, 2001, p. 14). ma come esistono le fedi religiose esistono anche le fedi politiche, cioè le religioni della politica, che hanno perciò percorso e manifestazioni parallele. Danno vita a gruppi in entrambi i casi guidati dalla fede. Le religioni politiche corrispondono al bisogno di sacro della politica e all’apparato di miti, simboli e riti di cui essa ha bisogno. La religione politica è dunque “una nuova religione” che risponde al bisogno di fede delle masse in cerca di nuove credenze per avere un orientamento nella vita, come accade in periodi di profondi sconvolgimenti e di decadenza delle antiche fedi, quando più impellente diventa la speranza nell’avvento di un 68

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mondo religioso” (Gentile, 2001, p. 13). Il processo di secolarizzazione della politica, inauguratosi con lo Stato moderno, ha avuto sempre bisogno di valori, di una “teologia politica” e per questo ha utilizzato contenuti religiosi, in una forma secolare istituzionale. In lungo periodo questo processo, mentre ha garantito alla politica una qualche apparenza di sacralità, ha anche indebolito le varie chiese di Stato e ne ha molto attenuato il potere di influenza politica (v. Marramao, 1994, p. 74 e segg.). Religione e politica seguono così, negli ultimi due secoli, percorsi paralleli con periodi si scontro, di simbiosi e di scambio nei processi di strutturazione istituzionale. Lo scontro avviene soprattutto per quanto riguarda l’occupazione della sfera pubblica. Relegata nel privato, la religione, negli ultimi decenni, tende a rioccupare parte della sfera pubblica. Altro campo di sfida è l’uso del mito della salvezza e della rigenerazione che per la politica ha un significato solo terreno e per la religione riguarda solo la vita ultraterrena (Gentile, 2001, p. 34). La simbiosi avviene invece nelle proiezioni ideali che religione e politica gestiscono. Come detto quelle religiose servono, con adeguate trasformazioni, a reintrodurre il sacro nella politica, sia che si tratti di “religione civile” che di “religioni della politica”; quelle politiche servono a creare quelle forme di solidarietà che portano a riscoprire la religiosità come elemento vivificante del gruppo. Cosicchè nella crisi della politica è sempre possibile per la religione ricoprire quel vuoto di identità che la politica lascia scoperto nella sfera pubblica. Per cui giustamente è stato scritto che quando la politica è in crisi si rifugia nei templi oppure utilizza emozioni forti che risvegliano il sentimento di religiosità, come nel caso del fascismo, del comunismo e del nazismo che, in maniera diversa, hanno cercato di colmare il vuoto generato dal profondo sconvolgimento sociale e politico (v. Aron, 1944). Vi è infine un processo di scambio nell’organizzazione strutturale di religione e politica, per il quale le chiese hanno sempre più introiettato le istituzioni dell’ordine politico, cosa che ha permesso loro di fare fronte a un mondo laico e secolarizzato, mentre la politica ha potuto usufruire di miti e simboli dell’ordine religioso. Particolarmente rilevante è lo scenario che segna oggi il rapporto tra religione e politica nelle relazioni internazionali, soprattutto fra occidente e medioriente. Questo rapporto, fin dalle origini dello Stato moderno, ha influenzato le relazioni fra stati (v. Natalizia, 2011), ma ora, data la crisi sistematica prodotta dalla globalizzazione, diviene più incisivo nel determinare le grandi zone di influenza, le identità e le ragioni di conflitto fra i popoli. 69

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In conclusione, come nota Maffesoli, “non c’è politica senza religione. Religione nel senso più stretto, di ciò che unisce persone che condividono un insieme di presupposti comuni”. Si può esprimere ciò in diversi modi come il “divino sociale” per Durkheim, o ancora “la politica come forma profana della religione per Marx…”. In ogni caso, come notava Talleyrand, “non vi è impero che non sia stato fondato sul meraviglioso” ed è vero che il sacro occupa una parte non marginale nella struttura politica (v. Maffesoli, 1992, p. 37). Un ulteriore caso di intersezione fra cultura non materiale e politica è rappresentato dal rapporto fra potere e informazione. Nel mondo borghese l’informazione era patrimonio degli intellettuali che potevano asservirla agli interessi del potere suscitando quel “tradimento dei chierici” così criticato da J. Benda, cioè quel tradimento da parte degli intellettuali della custodia e del culto dei valori della conoscenza che l’umanità ha loro affidato. Nel regime di massa l’informazione è più strumentale, più epidermica e meno soggetta a critica. È affidata ai media che hanno in parte sostituito l’intellettuale. I media sono strumento della politica e fanno politica. Tra i media e la politica si verifica un nuovo caso di simbiosi. I media offrono alla politica lo scenario di massa al quale essa aspira e al tempo stesso sono pronti a subentrare in un ruolo politico quando la politica perde forza o capacità di comunicazione. “Il potere della comunicazione – scrive Castells – sta così al centro della struttura e della dinamica della società” (Castells, 2009). Per questo la comunicazione serve alle necessità del potere. Essa rappresenta oggi una forza essenziale per fissare e stabilizzare in fenomeni di massa, in quanto forme sociali passive e ricettive, la molteplicità e l’effervescenza dei gruppuscoli e degli interessi divergenti che caratterizzano la società contemporanea. Sarebbe quasi impossibile per il potere politico ottenere il consenso in questo tipo di società senza la strumentalizzazione della comunicazione. La comunicazione crea massa sia all’interno del rapporto politico, attraverso miti, simboli e rappresentazioni che emozionalmente esaltano la figura del capo nei suoi rapporti con il popolo, proiettando in lui vizi e virtù dell’umano, come avveniva per le immagini degli dei nell’antica Grecia, sia fuori del rapporto politico con forme di distrazione e di alleggerimento del rapporto politico stesso. Chi riesce a creare massa ha potere e al tempo stesso il potere ha bisogno delle masse. Per quanto riguarda poi i rapporti della politica con elementi della cultura materiale, bisogna almeno evidenziare principalmente i rapporti con l’economia ma anche quelli con il diritto e con la tecnica. I rapporti fra econo70

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mia e politica richiedono un lungo discorso di chiarimento. Chi ripercorre l’evoluzione della cultura europea nell’ultimo mezzo secolo potrà notare come la razionalità economica, favorita dall’espandersi del sistema capitalistico e dalla diffusione dell’economia monetaria, abbia occupato posizioni sempre più centrali nella cultura e nell’organizzazione della vita collettiva, fino a costituire il modo di pensare e di ragionare, qualche volta l’ideologia stessa della modernità. Questa posizione dell’economia all’interno della cultura non trova riscontro nelle società premoderne (v. Dumont, 1984, pp. 32e 55). In queste società la dimensione economica della vita è stata sempre considerata una zona marginale del rapporto natura-società e del problema di come realizzare la ‘virtù’ e la ‘felicità’ dell’uomo. Solo quando il problema centrale della convivenza è diventato “come ordinare e come governare la società”, solo allora la mentalità economica ha cominciato ad assumere una posizione di rilievo nella costruzione della modernità: una posizione che per molti anni si sarebbe sempre più rafforzata. Questa posizione di rilievo della dimensione economica della vita è stata visibilmente sostenuta dalla politica. Nella razionalità economicistica e nel principio dell’utile la politica ha scoperto la possibilità di una riduzione e di un controllo della crescente complessità sociale. Essa ha scoperto anche la possibilità di dirottare sulla passione ‘fredda’ dell’interesse economico e del puro calcolo la considerazione dell’“altro” e il senso dei processi sociali di interazione. Questo ha permesso alla politica di controllare meglio gli istinti e le passioni distruttori dell’ordine sociale e di arrivare, su questa base, a governare più facilmente e a produrre un ordine politico più stabile e un mondo più pacifico” (v. Hirschman, 1987, p. 55). Su questa direttrice la politica ha potuto instaurare e può oggi mantenere la propria egemonia, che è anche egemonia della razionalità economica. La diffusione dell’economia del denaro ha dato nuovo significato ai rapporti sociali. Il denaro, come scrive Simmel, ha permesso “una precisione nuova, una certezza nella definizione delle identità e delle differenze e un’assenza totale di ambiguità negli accordi e nelle intese” (cit in Moscovici, 1988, p. 389). Mentre aumentava la complessità della vita sociale, governare diveniva tanto più facile quanto più i rapporti intersoggettivi si orientavano sull’utile e potevano essere oggettivati attraverso la riduzione quantitativa del denaro. Su queste possibilità si fondavano gli ideali della politica nella tarda modernità. Costruire una società perfetta e simmetricamente ordinata sembra ormai un risultato che la politica può raggiungere. Riducendo l’individuo al calcolo razionale e all’interesse, non solo si rende possibile produrre più società 71

Pensare la politica

e programmare il progresso in funzione di questi elementi, ma governare diventa più facile, perché si governa sulle quantità e non più sulle qualità: il comportamento diventa prevedibile, il sociale può essere spiegato, gestito e manipolato. È in funzione di questa trasformazione che la politica ha potuto gradualmente mettere in soffitta le vecchie ideologie dell’Ottocento volte a suscitare ma anche a canalizzare le passioni sui grandi temi della vita sociale. La forza della ragione strumentale è sembrata sufficiente a trasformare il mondo. L’apprendista stregone sembrava aver trovato la formula di controllo della realtà: l’interesse e la sua definizione quantitativa, cioè monetaria. Ma se la politica ha utilizzato l’economia come strumento di controllo della realtà, alla lunga ha dato vita a forze che oggi non è più in grado di controllare. La crisi della politica non nasce soltanto dalla disaffezione e dalla perdita di consenso. Questa non è che una faccia della medaglia. La crisi della politica nasce dal fatto che oggi le forze economiche emarginano la politica e le impediscono qualunque libertà di azione in campi che non siano quelli definiti dal rigido determinismo economico. L’economia emargina la politica e la sostituisce fino al punto in cui la politica è l’economia. L’egemonia della razionalità economicistica, che tollera gli istinti e le passioni solo nei limiti in cui favoriscono la crescita economica, si è sostituita alla mediazione politica. Il calcolo delle quantità ha fatto del tutto dimenticare che gran parte dell’umano resta fuori del modello puramente astratto dell’homo oeconomicus. Lo spirito di simmetria di una concezione puramente quantitativa della società ha portato a non considerare più ciò che non è quantificabile eppure ha valore essenziale per il legame sociale, vale a dire ciò che è vita, cultura, sacralità, spontaneità, donazione. L’egemonia della politica come economia è uno dei motivi della crisi, perché lascia fuori aspetti costitutivi essenziali del legame sociale, che in passato il senso del politico ha sempre incluso. Questi aspetti oggi erompono come elementi di rottura della cultura moderna. Anche qui operano prepotentemente due forze divergenti: da un lato l’esigenza di aspetti della vita e della cultura, non riducibili alla razionalità economica, di essere rappresentati; dall’altro il ruolo sempre più centrale che svolge il mercato nelle vicende interne e internazionali, ruolo che si fonda su una innovazione senza precedenti: “la separazione radicale degli aspetti economici dal tessuto sociale e la loro costituzione in un ambito autonomo” (Dumont, 1984, p. 21). Il totalitarismo di questa innovazione sta nel fatto che la società tende a coincidere con il mercato; ogni interazione tende ad assumere un aspetto 72

Il contesto dell’agire politico

competitivo escludendo la solidarietà; il modello di razionalità al quale ogni organizzazione si ispira è quello economico burocratico; sulla morale prevale la logica del mercato. Non è più un valore non materiale che dà senso alle cose, ma le cose acquistano o perdono valore in relazione alle vicende quotidiane del mercato. Una delle conseguenze più importanti è che la politica si confonde con l’economia e mette in questione la democrazia semplicemente perché l’economia non conosce la democrazia, che è essenzialmente un meccanismo di difesa politica dei più deboli. In questo contesto la politica si autosospende, si limita al contingente oppure ricorre alla paura o al terrorismo. Terrorismo e paura finiscono col condizionare la formazione di una politica globale e gli indirizzi di una politica nazionale, che può così imporre misure restrittive della libertà e sviluppare processi di militarizzazione della vita collettiva (v. Mongardini, 2007, p. 209 e segg.). Grande attenzione meritano, come si è detto, anche il diritto e la tecnica. Il diritto è un insieme unitario di norme di condotta e di organizzazione che da una parte garantisce i rapporti fondamentali di convivenza e di sopravvivenza del gruppo sociale, dall’altra sanziona tutti i comportamenti giudicati negativi per l’ordine e il legame sociale. Le basi del diritto si trovano nelle costituzioni e su di esse si fonda anche la legalità, che è la base di ogni convivenza. Essa corrisponde ad una rappresentazione legalerazionale della vita collettiva così come è disegnata dal legislatore per corrispondere ai bisogni della società. Ma il legislatore è chi ha in mano le leve del diritto e dunque il soggetto dominante che è anche il soggetto costituente ogni volta che ciò si rende necessario. Se il diritto è dunque la proiezione ideale dei valori e dei desideri del gruppo, questa proiezione risponde all’interpretazione del legislatore che limita e si autolimita negli spazi e nelle direttive di azione che egli predispone. Il diritto è spazio di libertà e principio di ordine ma corrisponde a un punto determinato del processo storico, nel quale esso nasce “dalla necessità di assicurare lo svolgersi dei rapporti sociali in modo da sottrarli, per quanto possibile, all’arbitrio dei singoli che li contraggono e che potrebbero dai loro impulsi egoistici essere indotti a venire meno all’osservanza degli obblighi che da essi derivano” (Mortati, 1958, p. 3). Creando il diritto il potere politico vi si sottomette ma ciò non toglie che nella sua attuazione esso abbia lo spazio che è proprio dell’interprete, spazio che è invece negato alla classe governata. Inoltre il costante processo di mutamento sociale crea dei vuoti giuridici o per mancanza di norme o per norme che divengono desuete, cioè non più applicabili, rispetto ad una situazione che è mutata. In questi inter73

Pensare la politica

stizi la politica può operare fuori della sfera del diritto creando spazi pregiuridici o antigiuridici anche per quanto riguarda diritti fondamentali come i diritti umani o quelli della persona. Del rapporto fra tecnica e agire politico si occupa infine Heinrich Popitz (v. Popitz, 1990, p. 95 e segg.). Dopo aver definito la ‘tecnica’ come “qualcosa che l’uomo fa, mette in opera, a differenza di ciò che si è fatto senza il fare dell’uomo, è cresciuto senza il suo fare” e sottolineato che gli oggetti tecnici “sono ‘artefatti’, qualcosa di fatto artificialmente e con abilità” (Ivi, p. 95), Popitz afferma che ciò che gli uomini fanno tecnicamente “diviene ‘oggettivo’, diviene un oggetto. L’artefatto che noi produciamo ci si para dinnanzi come un ob-jectum. L’agire tecnico appartiene (come anche la produzione di oggetti simbolici) al tipo dell’agire oggettivante. Esso dà forma alle intenzioni, alle capacità, alle rappresentazioni di chi agisce. In questa forma – nell’agire esternato e diventato forma – l’agente è messo a confronto con le sue intenzioni, capacità e rappresentazioni” (Ivi, pp. 104-5). Il progresso si è realizzato con una moltiplicazione di oggetti, creando per le azioni umane nuove forze e nuove potenze. Perciò con il progresso tecnico si è avuto anche l’incremento del potenziale del potere sociale. “Il perfezionamento degli strumenti tecnici viene in aiuto del perfezionamento dell’esercizio durevole del potere in molti campi” (Ivi, p. 109). Soprattutto emerge il fatto che l’uso della tecnica appare inegualmente distribuito e nella sua accelerazione emargina progressivamente fasce di individui che non possono accedere, o non possono accedere con la stessa velocità dei ceti dominanti, all’uso dell’oggetto tecnico. Pertanto il controllo dell’agire tecnico, nella nostra epoca produce un “controllo di potenziali di potere enormi e mostruosamente in crescita”. Per questo conclude Popitz, dobbiamo aspettarci per il futuro una ulteriore crescita del potenziale di potere, con la conseguenza che “i problemi del controllo del potere diventano sempre più difficili da risolvere”. (Ivi, p. 111).

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IV Le trasformazioni della politica

1. Capitalismo e politica Dobbiamo ora chiederci quali sono le forze sociali che operano in questo periodo di transizione e in quale direzione esse orientino le trasformazioni della politica che seguono inevitabilmente i radicali cambiamenti sociali. Il modo di costruire e dare senso all’universo politico non può che orientarsi sulle mutazioni sociali. È dunque a partire da queste mutazioni che possiamo comprendere oggi la politica. Ha scritto Max Weber che il capitalismo è “la più grande forza della nostra vita moderna” e rappresenta nel mondo moderno un modo particolare di rappresentare e di gestire su grandi spazi fisici e sociali l’economia, che è la sfera più superficiale e più logicamente gestibile della vita collettiva (v. Max Weber, 1985). Ma la sfera economica non può essere compresa autonomamente, perché interferisce con altri “cerchi sociali” della vita. La modernità ha però enfatizzato questa sfera e negli ultimi decenni l’ha considerata come decisiva sulle altre, proprio sotto l’influsso e la spinta del capitalismo, il quale ha dato una nuova coloritura e nuovi significati alla vita sociale e all’universo politico. Questa nuova visione della realtà, secondo T.H. Marshall, comincia a farsi strada a partire dagli anni cinquanta, quando entra in scena la “società opulenta” e con essa l’idea di una “libertà incondizionata nella quale ognuno ha il diritto di avere tutto quello che gli riesce di avere, in base all’assunto che ce n’è d’avanzo” (Marshall, 1976, p. XVI). Nasce allora una dissociazione tra produzione e guadagno, e il guadagno diventa l’unico fine soggettivo da perseguire. Il senso soggettivo del lavoro viene separato dal senso oggettivo e sociale (Ivi). A partire dagli anni ’70 il capitalismo si trasforma operando su nuovi spazi fisici e sociali (v. Mongardini, 2007). “La società capitalistica – scrive 75

Pensare la politica

Paolo Maranini nell’introduzione al libro di Marshall – è una società dominata dalla razionalizzazione e dalla lotta di mercato…nel quadro di un freddo funzionamento dei meccanismi amministrativi, dove in altre parole prevale la fredda violenza della legalità formale, che impone o tutela l’ordine contrattualistico del mercato” (Marshall, 1976, p. VII). La società allora coincide con il mercato. La competizione esclude ogni forma di appartenenza e di solidarietà, il modello di razionalità è quello economicoburocratico e la morale deve arrendersi alla logica del mercato: da valore in sé che dà senso alle cose diventa un elemento a valore variabile secondo le vicende quotidiane del mercato. In questo contesto il capitalismo può trasformarsi in forme e formule più astratte e universali. Diviene capitalismo finanziario per essere più anonimo, più mobile, capace di coprire l’intero globo attraverso la fluidità del denaro elettronico e materializzarsi solo dove può ottenere profitto in tempi brevi. Il nuovo capitalismo impone alla politica di concentrarsi sull’economia e l’economia colonizza la politica: diviene un modo di pensare e di valutare (v. Mongardini, 1997) che si afferma al di là di ogni limite relativo ad altre sfere della vita. Perciò giustamente Alain Touraine parla di un “capitalismo estremo” (Touraine, 2007). L’economia diventa allora la sfera dominante della tarda modernità e l’economicismo un prodotto del capitalismo estremo. Ciò fa dell’economia l’ideologia del nostro tempo e rende la politica non più una forma di mediazione di interessi e bisogni diversi in funzione della coesione sociale, ma semplicemente un terreno di scontro fra fondamentalismi diversi. La politica perde le funzioni che in passato le erano proprie e da ciò deriva uno “sgretolamento della sovranità centrale” (Pareto, 1964, p. 53 e segg.) e una deistituzionalizzazione e scontro delle principali istituzioni politiche, che non servono più a unire ma rappresentano solo interessi di parte. Il ruolo dell’economia nei confronti della politica moderna subisce dunque un ulteriore passaggio. Nel Medioevo l’economia era una funzione privata legata alla sfera e alle attività familiari (Le Goff, 2010). Solo nello Stato moderno, dal colbertismo in poi, essa assume una dimensione pubblica. Scopre la propria autonomia all’interno della società civile con le opere di Adam Smith, Malthus e Ricardo, diventa poi il motore pulsante dell’ascesa e della affermazione della borghesia e al tempo stesso, nella forma del capitalismo, rappresenta l’elemento portante della modernità fino al punto in cui, come negli ultimi decenni, come capitalismo finanziario, si identifica con la modernità e, con i simboli del mercato e dello sviluppo, 76

Le trasformazioni della politica

identifica i suoi fini e i suoi interessi con quelli della modernità. L’economicismo emargina perciò la politica e la morale come limiti alle proprie potenzialità di radicamento e di sviluppo nella vita sociale e nella mentalità collettiva. Una nuova questione sociale si pone allora accanto a un nuovo universo politico e a una ideologia debole che lascia aperti i problemi del consenso, della legittimazione e della mediazione politica. Questi problemi nel ventunesimo secolo si collocano a fronte di una accentuata trasformazione finanziaria del capitalismo, che esalta la funzione del denaro, non più solo mediatore dello scambio, ma artefice del legame sociale. L’ideologia fredda del nostro tempo ha a fondamento proprio la razionalità del denaro che assorbe ogni passione tranne che se stessa (v. Hirschman, 1979). In questo feticismo del denaro consiste l’ultimo e più astratto prodotto del capitalismo, che sostituisce il valore reale con un simbolo e la società reale con la sua rappresentazione. La società che esso crea è stata definita “uno Stato virtuale senza territorio, frontiere, distanze o cittadini”. Uno Stato nel quale, potremmo aggiungere, non esiste più alcun controllo o difesa morale nelle relazioni di dominio. Quella che Gaetano Mosca chiamava “difesa giuridica”, a protezione della classe governata nei confronti degli abusi della classe governante, è ormai uno strumento in disuso. I molteplici aspetti di questa trasformazione non sono senza rischi. E sono anche rischi di natura economica, soprattutto quello, come rilevava un autore francese, “dell’implosione di una economia mondializzata e totalmente finanziaria, nella quale il denaro si riferisce al denaro, senza nulla vendere né altro comprare che se stesso”. Così il denaro però diventa il punto di riferimento di ogni rapporto sociale: esso diventa “un parassita che divora l’economia e il capitale un predatore che spoglia la società” (Gorz, 1997, pp. 14-17). Ma in che misura l’economia può assumere un aspetto totalizzante? In che misura può controllare la mentalità collettiva e fagocitare la politica e la morale? L’ottica totalizzante dell’economicismo riconduce l’azione umana alla mera oggettivazione dello scambio nel paradigma già descritto di Simmel (v. Simmel, 1976, p. 27). “A che serve?”, “Quanto costa?”, “Quale utilità può produrre?”, “A prezzo di quali sacrifici?”, sono tutte domande che rappresentano le precondizioni dello scambio oggettivato e che indubbiamente costituiscono la parte più superficiale dell’interazione sociale, la sua parte pubblica, traducibile quantitativamente, rappresentabile fenomenologicamente in ruoli e funzioni. In questa rappresentazione la società appare nella sua dimensione più oggettiva e razionale e l’economia appare la livellatrice dei rapporti fra gli individui. Ma questa resta solo la 77

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facciata di una realtà ben diversa. L’aspetto fondante della società è tutt’altra cosa. Si può ben rappresentare la vita sociale in termini di scambio, mercato, produzione, lavoro, disoccupazione, ma questa rappresentazione è funzione di un significato della realtà che la legittima. Ed è proprio l’inglobare la realtà in questo significato che apre una discussione non aperta sull’economicismo e sulle sue pretese totalizzanti. Questo ordine sociale, dal momento in cui non è sostenuto da altri principî che dalla pura ragione calcolante, apre la via al disordine delle componenti che esso non comprende e che lascia quindi senza controllo. Quando, esaminando la condizione dell’uomo moderno, Hannah Arendt critica il carattere patologico dell’espansione non controllata dell’economico, mette in luce proprio questo, cioè la superficialità di un ordine che non rappresenta le radici profonde dell’umano e del sociale (v. Arendt, 1964). L’essenza dell’economico, scrive la Arendt, è il consumo e non la produzione. Tutte le produzioni del processo economico sono destinate ad essere distrutte dal processo vitale, cosa che non avviene per le opere del pensiero o le opere d’arte. Per questo gli antichi greci ne avevano fatto un’attività privata, domestica, separata dalle attività nobili che erano costitutive della polis. La nostra società ha compiuto invece, continua la Arendt, la scelta opposta, cercando di mascherare con la tecnica e la produttività il carattere futile e secondario che l’economico ha, a fronte di ciò che fa la grandiosità della civiltà. Fino a quando l’economia occuperà lo spazio pubblico, conclude la Arendt, non potrà esservi un vero e proprio dominio pubblico ma solo attività private esposte alla luce del sole. Si può dire, tuttavia, che la nostra cultura conserva ancor oggi una sorta di ambivalenza nei confronti dell’economico. Mentre ne accetta le pretese normative ne disprezza le funzioni. Il mondo dell’economia non produce eroi, non crea miti, non esalta; la sua nobiltà, come diceva Balzac, è solo aristocrazia: ha il potere ma è priva di ogni autorità e prestigio. La contaminazione col denaro, strumento del diavolo, fa scomparire le qualità del migliore degli uomini, che viene perciò invidiato, non ammirato (v. Le Goff, 2010). E anche l’attore sociale, identificato come homo oeconomicus, non ci piace perché, scrive la Douglas, “non concepisce alcuna responsabilità verso gli altri. È un uomo solo, per il quale la comunità non ha alcun significato” Esso, scrive ancora la Douglas, come straniero all’ennesima potenza, è arrivato a dominare la concettualizzazione che abbiamo di noi stessi (Douglas, 1995). In questo contesto anche la politica, come si è detto, appare gestita dall’economia e perde la sua funzione di mediazione. Questo significa che: 78

Le trasformazioni della politica

1. Il rapporto politico è oggi strettamente ancorato agli interessi economici; 2. Sul piano simbolico la politica diviene una forma di consumo; 3. Ciò che era pubblico si trasforma, come per ogni genere di consumo, in pubblicitario; 4. In un regime di massa, chi riesce a creare massa ha potere; 5. Il potere non ha più legittimità, cioè autorità, ma tende a ridursi alla mera forza, che è forza di mercato; 6. Mentre il potere politico tende a mantenere il controllo e a conservarsi come costrizione, anzi ad accrescere un processo di militarizzazione della società, all’interno del mercato i poteri sociali si esercitano come attrazione, distrazione, emarginazione e esclusione nella ripartizione di beni materiali e simbolici. 2. La politica nel regime di massa L’impulso dato dal capitalismo, prima industriale poi finanziario, e dall’economicismo come ideologia alla società tardomoderna non poteva non produrre radicali trasformazioni nella morfologia della società segnando il passaggio dal regime borghese, che nei suoi valori e nelle sue strutture ha caratterizzato la società moderna per quasi due secoli, al regime di massa. Ciò ha prodotto anche l’evanescenza delle classi sociali, la sostituzione del soggetto moderno all’individuo, creazione del regime borghese e, infine, una rilevante modificazione dei gruppi sociali (v. Mongardini, 2007b). Tutti questi fenomeni non potevano non modificare l’universo politico, tanto nei suoi valori e significati, quanto nel modo di fare politica. Occupiamoci qui più particolarmente dei fenomeni sociali contemporanei e dei riflessi che essi hanno sulla politica. In primo luogo consideriamo il passaggio dal regime borghese al regime di massa, puntualizzando che cosa è massa, come si è venuto sviluppando il fenomeno e che cosa significa una politica per le masse. Il termine massa designa una forma di aggregazione di individui orientati da una comune predispozione o da un interesse comune, che inducono comportamenti, atteggiamenti e reazioni uniformi. La massa corrisponde perciò a manifestazioni uniformi e coerenti di individui portatori di interessi comuni o che reagiscono ad uno stimolo comune. La massa è quindi un aggregato funzionale di un gran numero di individui in atteggiamento passivo e ricettivo nell’esposizione ad un determinato fenomeno. La massa stabilisce una eguaglianza di comportamento fra individui certamente fra loro eterogenei. Essa non ha organizzazione, regole, leadership, né si preoccupa della loro produzione. Rispetto al concetto di popolo e alla dinamica dei gruppi che lo compongono, la partecipazione ai 79

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fenomeni di massa gratifica gli individui alla ricerca di un elevato e generalizzato soddisfacimento di bisogni culturali e sociali. La passività e il lasciarsi andare dell’uomo-massa non si supera facilmente perché ciò implica presa di coscienza, scelta, decisione, responsabilità che possono invece facilmente essere eluse. L’uomo massa non vive ma si lascia vivere. I fenomeni di massa hanno interessato i sociologi fin dall’inizio del XX secolo. In un saggio scritto nel 1899 Georg Simmel comincia con la frase: “L’importanza pratica che in questo secolo hanno conseguito le masse di fronte agli interessi dell’individuo…” (Simmel, 1976, p. 1). Weber, da parte sua, mostra grande attenzione all’agire di massa e mentre da una parte esclude che “l’agire condizionato di massa” possa dare luogo ad una relazione sociale nel senso che egli attribuisce a questa espressione (Weber, 1980, 1, p. 20), dall’altra riconosce che, per la teoria del carisma, il rapporto emozionale della massa con il capo carismatico crea una relazione nel senso pieno del termine. La massa, la società di massa, il regime di massa diventano comunque elementi essenziali dell’analisi sociologica, ma rappresentano anche il problema politico proposto dall’evoluzione del capitalismo industriale. Un problema che non può trovare soluzione nei ristretti ambiti dell’organizzazione liberale di fine Ottocento. Costruire una politica per le masse confacente con i bisogni di un capitalismo dirompente diventa allora il compito che si pongono e che risolvono in maniera primitiva e scenografica i regimi autoritari sorti in Europa dopo la prima guerra mondiale. Le masse vengono calamitate politicamente attraverso i loro istinti primordiali e esprimono una fiducia cieca nel capo carismatico. Solo il secondo dopoguerra segna però l’ingresso delle masse in politica e provoca una trasformazione radicale dei partiti. Già nel 1940 appariva postumo il libro di uno studioso socialista tedesco su Lo Stato delle masse. La minaccia della società senza classi (Lederer, 1940), nel quale egli metteva in guardia da una politica orientata sulle masse che sarebbe inevitabilmente approdata al totalitarismo e alla dittatura. Per Lederer lo Stato-massa è un fenomeno storicamente unico, sconosciuto prima della guerra, che “rende necessaria la revisione di tutto il nostro pensiero su società, evoluzione, rivoluzione e trasformazione del sistema economico” (Ivi, pp. 74-75). Il libro si chiude con il monito: “Dobbiamo scegliere tra lo Stato massa e la società, tra la schiavitù e la libertà”. Lederer si chiede:”Che cosa è la dittatura moderna?” E risponde: “È un sistema politico moderno basato sulle masse amorfe. Le masse formano la sostanza di un movimento tramite il quale si istituzionalizzano e, in quanto masse 80

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istituzionalizzate, spingono il dittatore al potere e lì lo mantengono. A meno che il dittatore non possa contare su queste masse istituzionalizzate, egli viene minacciato dalle forze sociali. La dittatura è perciò costretta a distruggere la società: la società è sempre stata una struttura stratificata, con idee e interessi differenti. Il nostro periodo di dittatura segna una nuova epoca nella storia, nella quale tutte le potenzialità di un movimento di massa distruttivo si traducono in un sistema politico. Se i paesi che sono ancora liberi non si renderanno conto di dover difendere da soli la propria civiltà, contro un movimento che mira a porli in schiavitù, la minaccia di una dittatura è molto concreta… [La dittatura] è un regime fondato sull’entusiasmo delle masse amorfe, nemico della ragione e distruttore della civiltà; deve per forza mantenere alto il livello emozionale” (Lederer, 1940, p. 7). Negli stessi anni, dei rapporti fra regime di massa e politica si occupa la scuola di Francoforte e in Italia Giacomo Perticone che era stato allievo di Simmel a Berlino. Ai nostri giorni molti fenomeni, intuiti in passato, sono diventati ancora più evidenti. E si può dire che si è quasi compiuto il passaggio dal regime borghese al regime di massa: il primo gerarchico, selettivo, meritocratico e orientato da valori, il secondo mutevole, epidermico, orientato su ciò che stupisce, su ciò che provoca emozione, che si regge perciò sulle emozioni collettive e episodiche. Sono i fenomeni di massa nella loro molteplicità, nella diversità dei contenuti, nel loro scomporsi e ricomporsi che costituiscono la linfa vitale del nuovo capitalismo alimentando sempre molte forme di consumo e di controllo sociale. Su questi fenomeni la mentalità economicista tenta di costruire la sua società così come in passato si è tentato di realizzare la società militare, la società religiosa o la società comunista in maniera totalitaria, come società in assoluto. Il nuovo capitalismo ha compreso che il regime di massa può aprire spazi infiniti al suo sviluppo e che ciò che provoca curiosità o emozione crea massa e chi riesce a creare fenomeni di massa ha potere. Perciò conservare nelle masse il feticismo delle cose, ricreare la forma-massa su una pluralità di contenuti e di occasioni, coltivare una cultura del presente sembrano essere le linee di condotta del nuovo capitalismo. Ma, seguendo questo indirizzo, esso è costretto ad abbattere le gerarchie naturali del regime borghese, a dissacrare i valori borghesi, a emarginare le forme politiche e religiose della vita civile. Sennonché proprio quelle gerarchie e quei valori rappresentavano la garanzia del proprio sviluppo e della propria legittimazione, anche se ne segnavano il limite. Perciò il nuovo capitalismo ha espulso degli elementi dell’umano che finiscono per rivolgerglisi contro. 81

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E questo si ritrova oggi nell’erratica ricerca del sacro, dell’etica, dei valori politici. Prova ne è che ritroviamo il settarismo religioso, il neoesoterismo o pratiche neocongregazioniste persino nell’economia dei consumi o nelle organizzazioni americane di promozione e di vendita di beni e servizi. La diffusione del fenomeno massa ha messo in evidenza anche l’evanescenza della stratificazione sociale e della divisione della società in classi. Più volte negli ultimi anni i sociologi si sono chiesti se esistessero ancora le classi sociali (v. AA.VV., 1993). Di fatto può sembrare che la vecchia contrapposizione delle classi sociali, con le loro condizioni economiche, stili di vita, valori e bisogni, sia stata sostituita da una pluralità di interazioni di stimolo-reazione fra produttori e masse di consumatori, interazioni fondate su bisogni, domande e offerte sia di beni materiali che immateriali. L’impatto del nuovo capitalismo e la propensione delle masse al consumo, anche in fatto di comunicazione e di intrattenimento, sono stati velati sotto il nome, apparentemente neutro, di ‘società di mercato’, senza peraltro richiamare l’attenzione sulle grandi trasformazioni della società civile. Già Scheler, agli inizi del ventesimo secolo, sottolineava che chi ha successo porta in se stesso come atteggiamento spirituale la “massa” e che su di essa si muove la “macchina degli affari”. Ma la massa porta in sé altri interessi rispetto alla tensione verso la costruzione della volontà politica. Rispetto ai sentimenti politici dell’anima popolare, essa mostra indifferenza per tutto ciò che è amministrazione e politica, a meno che non ritrovi in questi settori spettacolo e emozioni. Essa rimane fredda di fronte alla perdita dei valori di un mondo in decadenza, nei confronti del quale si sente estranea. Di fronte ad esso la massa rappresenta una figura “priva di complicazioni e complessità” che tende a sostituire i valori “mediati” della cultura con l’immediatezza sia pure epidermica dell’esperienza vitale vissuta “qui e subito” e che, nel momento in cui fa propria la critica delle generazioni precedenti agli ideali di progresso, libertà e eguaglianza, alimenta i propri pregiudizi e stereotipi (v. Perticone, 1984, pp. 45-46). L’uomomassa ha valore solo nella massa ed è segnato “da un orientamento spirituale generico, una disposizione che è dedizione incondizionata” (Ivi). L’individuo borghese è così sostituito dal soggetto moderno e dalle sue contraddizioni (v. Mongardini, 2007 b, p. 47 e segg.). Ciò segna l’eclissi dell’autonomia della personalità individuale e il conseguente diffondersi di una disposizione gregaria, dogmatica e eteronoma. Questo tipo umano è perciò, scrive Giacomo Perticone, particolarmente congeniale ai movimenti totalitari per ottenere il consenso, perchè “sul piano dell’eteronomia ope82

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ra la suggestione e l’imposizione, non la comprensione e la discussione, che sono proprie di un altro piano, indipendente e incomunicante” (Perticone, 1984, p. 46). Le possibilità di conservare la libertà di fronte al livellamento e all’oppressione del potere, nota in proposito la Arendt, permangono solo laddove gli individui appartengono a determinati gruppi che li rappresentano o formano una gerarchia sociale e politica. E anche qui è proprio il livellamento delle gerarchie naturali operato dal regime di massa che costituisce un altro fattore importante verso una esperienza totalitaria. 3. La trasformazione dei gruppi politici Proprio a proposito dei gruppi è opportuno rilevare un altro dato significativo per le conseguenze che esso ha nell’azione e nella responsabilità politica. È noto dalla sociologia che il concetto di popolo vuole rappresentare simbolicamente una unità coesa e integrata, ma comprende di fatto una molteplicità di gruppi con attività, interessi e idee diverse che solo possono trovare un riferimento comune nell’idea di nazione, di tradizione, di miti, simboli e rappresentazioni in cui essi possono riconoscersi e fondersi. Qui la molteplicità degli individui e dei gruppi si risolve in unità attraverso una simbiosi di valori e di fini sui quali esprimono un consenso politico. Sulle finalità dell’azione politica concorrono perciò progetti politici e costruzioni ideologiche che aspirano a superare gli interessi di parte e le condizioni del presente. Su questo si basa allora la mobilitazione per l’azione politica da parte di gruppi politici che richiedono consenso per la conquista o la gestione del potere in funzione di un progetto di società. I gruppi politici sono in qualche modo simili ai gruppi religiosi perché sono guidati dalla speranza e dalla fede civile di poter cambiare la società realizzando al contempo quella “comunità artificiale” che la politica aspira a costruire. Dalla sociologia ci è anche nota la distinzione fra gruppi primari, il cui legame poggia su affetti, emozioni, sentimenti e gruppi secondari, la cui unione è soltanto strumentale. Ebbene i gruppi politici come i gruppi religiosi si collocano al confine fra gruppi secondari e gruppi primari proprio perché la loro coesione e la loro forza sta nella fede comune, la loro azione ha un forte livello di spontaneità, anche se l’organizzazione e l’istituzionalizzazione hanno carattere strumentale. Di qui la particolare importanza che in questi gruppi hanno la morale e il principio di responsabilità che invece sono solo presenti in forme attenuate e formalizzate nell’organizzazione oggettivata dei gruppi secondari. Il gruppo politico è 83

Pensare la politica

tanto più forte quanto più l’ideale, la morale e la responsabilità accrescono l’identificazione dei singoli con il gruppo. Se ciò non accade la struttura del gruppo politico si burocratizza e l’azione non è più spontanea ma frutto dell’organizzazione formale e del controllo. Essa ha perciò come conseguenza la cristallizzazione del potere, la formazione di oligarchie e la manipolazione della vita di gruppo, come a suo tempo ha provato Roberto Michels con la sua ricerca sui partiti politici (Michels, 1966). Ciò che evidenzia la cultura tardo-moderna è proprio la secondarizzazione dei gruppi primari e di conseguenza anche dei gruppi politici e religiosi per i quali gli elementi ideali, la fede e la fiducia, lasciano il posto a motivi strumentali dello stare insieme e dell’azione collettiva. I gruppi sociali divengono sempre più gruppi di interesse in senso lato (v. Mattina, 2010), cioè gruppi di sostegno di azioni collettive, gruppi di domanda rivolta al sistema politico e infine gruppi di influenza. Il loro orientamento è rivolto all’utile immediato e temporaneo e ciò ha forti influenze negative sull’incisività della loro azione e sul tipo di consenso, piuttosto superficiale e epidermico, che essi riescono a raccogliere. La facilità con la quale nei gruppi politici si passa da una esperienza politica ad un’ altra, l’instabilità dell’elettorato, la leggerezza con la quale si fa mercimonio della propria scelta politica, stanno a testimoniare la crisi della rappresentanza politica e il crescente distacco tra rappresentanti e rappresentati. La gestione dei propri interessi è superiore all’interesse pubblico sul quale dovrebbe fondarsi la democrazia. Il privato invade e trasforma il pubblico annullando ogni possibilità di mediazione nel confronto-scontro fra parti. Così le criticità che presentano gli attuali gruppi politici riguardano in primo luogo la crisi delle loro identità politiche, della coesione e del consenso interni. In secondo luogo la limitazione del loro orizzonte alla gestione del presente, che non offre alcuna possibilità per un ampio progetto di società. Infine una gestione di interessi eterogenei e fra loro contrapposti, che non trovano soluzioni omogenee e coerenti. Con questa politica circoscritta al quotidiano e al contingente i gruppi politici cercano di sostituire all’intensità del consenso la sua ampiezza, suscitando però la sensazione di grande instabilità. Ancora una volta risulta vitale per l’azione dei gruppi politici la forza degli ideali che coinvolgono gli individui e non quella puramente meccanica e transitoria degli interessi. Gli ideali rappresentano perciò ciò che è più propriamente politico nella politica per ottenere la stabilità e la coerenza dei gruppi e insieme la capacità della loro azione di ottenere il consenso. Fallita l’utopia dei fini perseguita dal marxismo, scrive Lepenies, “è già 84

Le trasformazioni della politica

in crisi l’utopia dei mezzi progettata dal capitalismo per costruire una società globale. Tuttavia la rinuncia a ogni trascendenza potrebbe essere pagata con l’insorgere di molteplici fondamentalismi” (Lepenies, 2006, p. XXVI). La trasformazione dei gruppi politici in senso strumentale e burocratico segna perciò la decadenza della politica contemporanea e la perdita di senso della funzione di unificazione della politica per trasformarsi nella difesa di interessi di parte. Al cittadino si sostituisce l’ “avente diritto” e i rapporti sociali risentono di una crescita di aggressività e di situazioni microconflittuali. Si può parlare perciò di sospensione della politica così come l’abbiamo conosciuta, orientata da norme morali e da grandi ideali, per lasciare il posto ad una politica strumentale, circoscritta al presente e limitata a fronteggiare la contingenza. C’è forse al fondo un altro aspetto della trasformazione sociale che indirizza la politica in questa direzione. Significativo è il fatto che la percezione del sociale, il confronto fra culture diverse siano oggi per complessità molto superiori alle nostre capacità di assimilazione e elaborazione. La “pressione della realtà” che ne deriva ci spinge ad una riduzione della complessità al presente, a ciò che oggi ci attrae come attuale, curioso, stimolante, spettacolare. Si sviluppa così una “cultura del presente” che è un controsenso, in quanto contraddice il significato che finora abbiamo dato al concetto di cultura (v. Mongardini, 1993). La radicalizzazione della cultura del presente ha poi prodotto e sviluppato una condizione permanente di contingenza che coinvolge il nostro orizzonte: il nostro immaginario come il nostro comportamento. La contingenza dà un nuovo significato al legame sociale in quanto lo stare insieme ha un senso diverso dalla produzione di più elevate forme di vita e si riduce al superamento dei problemi del momento e alla ricerca di sicurezza nei confronti dell’aggressività della natura e dell’incertezza dei rapporti sociali. La contingenza che caratterizza la nostra cultura è una particolare condizione psicologica, sociale e politica di questa fase della modernità nella quale si accentua il ruolo e la pressione dell’imprevedibile, del “tutto è possibile” e di conseguenza della congiuntura, della circostanza e dell’occasione che il quotidiano ci offre. Essa evidenzia accidentalità e necessità come fenomeni non casuali ma costanti. L’incertezza estesa a largo raggio nello spazio fisico, sociale e simbolico impone un sistema di necessità, al presente che limita l’azione e la libertà dell’individuo e ne soffoca la creatività. Un nuovo tipo di consenso si associa a questa condizione, un consenso del quale si serve la politica della contingenza, un consenso di necessità 85

Pensare la politica

frutto di un atteggiamento remissivo che non reagisce neppure di fronte alla violazione dei diritti più elementari della persona. L’attenzione rivolta al presente e alla contingenza dissolve spazi, scenari e interessi di medio e lungo periodo e mina le strutture razionali delle istituzioni sociali e politiche. La politica rinuncia al futuro e perdendo i suoi valori ideologici perde anche la propria identità e la propria autonomia. Da una parte non svolge più la sua funzione di sintesi e di rappresentazione di una società e di una cultura. Perde la sua posizione di preminenza e lascia spazio ai poteri sociali. Diviene semmai pianta parassita di questi poteri e per questo terra di nessuno, invasa da questi stessi poteri. D’altra parte la complessità della vita sociale è tale che scarica sulla politica una serie di aspettative che prima venivano risolte sul piano individuale, sul piano della morale collettiva, del diritto o della religione. Queste aspettative rivolte alla politica producono la “politicizzazione” della società. Tutto diviene politica perché manca la politica, perché la politica è debole e ha perso il suo fondamento di preminenza e di legittimità. Gli interessi conflittuali della società civile, racchiusi nello spazio corto del presente, si scaricano sulla politica che non ha la forza di rappresentarli e di mediarli. La società che ne risulta è una “società politica” senza politica, perché priva di ideali di riferimento che possano limitare gli interressi di parte. In una condizione di contingenza è ancor più valida l’osservazione di Carl Schmitt secondo cui “uno stato pluralista di partiti diviene uno stato totale non per vigore e efficacia ma per debolezza: interviene in tutti i campi della vita perché ci si attende da lui che assolva le rivendicazioni di tutti gli interessati”. (cit. in Freund, 1987). La debolezza della politica sta nella fine dei grandi confronti ideologici, nella crisi degli ordini gerarchici per una supposta “uguaglianza di ciascuno con chiunque” e l’esaltazione della “pura contingenza di ogni ordine sociale”, con la conseguenza di dare spazio al progetto utopico “di realizzare la politica sopprimendola” (J. Rancière). Ma la soppressione della grande politica porta solo a conflitti di interesse e al lento sviluppo di tendenze totalitarie. L’ordine razionale della politica moderna affonda nella politicizzazione di ogni interesse e di ogni aspettativa.

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Parte seconda Le forme del potere

I Le manifestazioni del potere

1. Politica e potere Il problema del potere è il problema centrale di ogni analisi politica. “La scienza politica, intesa come disciplina empirica, – scrivono Lasswell e Kaplan – è lo studio della formazione e della distribuzione del potere” (Lasswell-Kaplan, 1979, p. 5). Tutta la tematica della scienza politica può essere perciò ricondotta nell’ambito di questo concetto generale del quale conviene qui tracciare una prima rappresentazione, che non può essere ovviamente esaustiva data la sua complessità. Una studiosa della società democratica ha anche notato che il problema del potere è stato attualmente messo in ombra dal fatto di confondere la politica con la morale, con il diritto, con l’economia e, aggiungerei, con le tecniche della decisione politica. Prodotto dal pensiero liberale, ciò ha portato all’ “incapacità di comprendere la specificità del politico”. Questa prospettiva “postpolitica” ci renderebbe incapaci di pensare politicamente, di sollevare questioni politiche e di fornire risposte politiche” (Mouffe, 2002, pp. 3-4). Il potere moderno resta tuttavia al centro dell’universo politico in termini di posizioni, di significati e di azione politica. Esso si è razionalizzato in forma di società politica, come sistema formale di comando-obbedienza, ma anche di costrizione, di riconoscimento, di consenso, e come sistema di supporto all’agire politico. Studiare la politica significa studiare le manifestazioni del potere nelle sue allocazioni, nelle sue tipologie, nelle sue forme istituzionali e nel suo esercizio. C’è potere, scrive Burdeau, “in ogni fenomeno in cui si rivela la capacità di un individuo di ottenere da un altro un comportamento che spontaneamente non avrebbe adottato. I fatti del potere sono innumerevoli. Perché rivestano un carattere politico, è necessario che la loro finalità 89

Pensare la politica

sia socializzata” (Burdeau, 1982, p. 26). Il potere è anzitutto generalmente e universalmente un fatto sociale che si manifesta in ogni gruppo, sia piccolo che grande. Nei piccoli gruppi è prevalentemente un fatto psicologico perché nel processo di interazione faccia a faccia emerge sempre una personalità dominante, la cui leadership è riconosciuta e seguita, ma messa continuamente alla prova. Nei grandi gruppi esso diviene un fatto sociologico che nasce dalla necessità del gruppo di darsi una organizzazione. Attraverso la divisione del lavoro, la distribuzione di posizioni sociali formali, l’organigramma, che precede talvolta la costituzione stessa del gruppo, si determinano posizioni di potere che verranno poi occupate da singoli individui. La distribuzione dei ruoli sarà funzionale all’azione del gruppo. Infatti la numerosità del gruppo impone l’organizzazione in vista dell’azione e ogni organizzazione si definisce gerarchicamente in posizioni di dominio e di subordinazione. Ogni gruppo finisce così per avere una sua leadership, della quale parleremo diffusamente in seguito. La leadership può avere base psicologica o sociologico-formale. Considerata a sé la posizione di potere ha una carica potenziale, è potenza, è “un’energia sociale disponibile” (Burdeau, 1979, p. 107). Il potere in atto invece, rappresenta sempre una relazione fra chi domina e chi è dominato. La potenza è dovuta alla stratificazione sociale e ai valori in gioco, il potere in esercizio è un processo di costante aggiustamento fra comando e obbedienza, fra azione e reazione. Esso crea un rapporto sociale in verticale che Max Weber definisce come “ogni possibilità, all’interno di un rapporto sociale, di affermare la propria volontà malgrado le opposizioni, indipendentemente dal fondamento di tale possibilità”. Simmel sottolinea come in questo rapporto vi sia sempre interazione. Anche laddove sembra che il potere sia esercitato in forma tirannica resta sempre la libertà del subordinato di disobbedire, e se ciò non avviene, è solo perché esso non vuole pagare gli alti costi della disobbedienza. L’interazione cessa solo quando esiste una minaccia fisica immediata oppure l’altro rappresenta un ostacolo da eliminare per il raggiungimento di un fine. Tranne questi casi il soggetto dominante non mira a eliminare l’altro ma solo a sottoporlo alla sua volontà. Il subordinato diviene perciò per il dominante un valore e potrà esercitare sempre una qualche influenza nel rapporto con il dominante. L’esercizio del potere mette comunque in evidenza una pressione dall’alto verso il basso che, secondo Simmel, in una struttura stratificata, si orienterà secondo la linea della minor resistenza (Simmel, 1978, p. 105). 90

Le manifestazioni del potere

Nell’universo politico distinguiamo dunque i concetti di potenza, potere e dominio. Weber usa la parola tedesca Macht per indicare, a seconda dei casi, potenza o potere. Il dominio è indicato con la parola Herrschaft e serve a definire un potere che ha acquistato continuità e consistenza e dunque un potere che si è istituzionalizzato. Proprio perché potere istituzionalizzato, le forme della dominanza non sono mai espressioni unilaterali del potere, ma forme di interazione fra dominanti e dominati all’interno di un rapporto costante. Con tre conseguenze essenziali. La prima è che l’influenza dei secondi sui primi non si annulla mai. “Anche nei più crudeli e opprimenti rapporti di subordinazione – scrive Simmel – esiste pur sempre un rilevante grado di libertà personale. Noi non ne siamo coscienti “perché in questi casi la sua conservazione costa sacrifici che non vogliamo nemmeno pensare di sopportare”. La libertà del subordinato si annulla “solo nel caso di violenza fisica immediata”. Perciò l’interazione si realizza in tutte le forme di superiorità e di subordinazione, “anche laddove, per il concetto abituale di costrizione esercitata da una delle parti, l’altra viene privata di ogni spontaneità̀, che sarebbe un lato dell’interazione” (Simmel, 1978, pp. 40-41). Anche Harold Lasswell riprende questo concetto. Per lui il potere “non può essere concepito come una relazione unilaterale…L’efficacia che può avere anche una resistenza passiva è una chiara indicazione del potere che si trova nelle mani di un gruppo soggetto” (Lasswell-Kaplan, 1979, p. 217). Il potere è perciò sempre una relazione circolare asimmetrica, così come qualunque distribuzione dei ruoli di autorità che istituzionalizza questa relazione. La seconda conseguenza è che nella relazione il potere è a somma zero, per cui ad un aumento di potere di un soggetto fa riscontro una equivalente diminuzione di potere di un altro soggetto. La terza conseguenza è che la relazione di dominio, divenuta stabile e istituzionalizzata, dà vita alla burocratizzazione dell’attività politica e alla diffusione della politica come professione (v. Weber, 1966). L’attività politica, scrive Weber, “si trova di fatto nelle mani di coloro i quali svolgono un lavoro, continuativo in politica”. Si tratta quindi di funzionari e di individui di medio livello culturale che organizzano il consenso in settori particolari o a livello locale e divengono catalizzatori di clientele e di voti. 2. Conflitti di potere La dinamica del potere si svolge tra accordi e conflitti, tra costrizioni e influenze, tra visibile e invisibile, tra espressivo e simbolico. La politica è 91

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eminentemente conflitto, con mezzi diversi, che comprendono anche il ricatto e lo scandalo politico (Thompson, 1999), per la ripartizione delle risorse e per l’occupazione delle posizioni dominanti. Oggi si tende a nascondere questa parte essenziale della politica, per cui giustamente la Mouffe nota: “Conflictual politics is deemed to belong to the past; the favoured type of democracy is consensual and depoliticized. Nowadays the key terms of political discourse are ́good governance ̀ and ́partisan-free democracy ̀. In my view it is the inability of traditional parties to provide distinctive forms of identification around possible alternatives which has created a terrain on which right-wing populism can flourish. Indeed, rightwing populist parties are often the only ones which attempt to mobilize passions and to create collective forms of identifications” (Mouffe, 2002). In generale il conflitto è connesso con ogni forma di gruppo e di società. Non c’è ordine sociale senza conflitto poiché gli uomini sono diversi e la pluralità è generatrice di conflitti. In sociologia il conflitto è considerato una delle forme possibili di relazione sociale, una delle forme elementari e essenziali di socializzazione che tende a creare condizioni di pace (v. Simmel, 1976, p. 87 e segg.). “La conflittualità – scrive J. Freund – è inerente, consustanziale a ogni società, così come la violenza e la benevolenza” (Freund, 1983, p. 23). La politica, secondo Freund, trova nel conflitto il suo campo tipico (Freund, 1965, p. 11). È conflitto per la conquista del potere, conflitto fra governo e opposizione, fra redditieri e speculatori (come voleva Pareto), fra conservatori e riformisti, fra partiti di destra e di sinistra. Freund è d’accordo perciò con Carl Schmitt, il quale scriveva che l’antagonismo politico “è il più forte di tutti, è l’antagonismo supremo, e ogni conflitto concreto è tanto più politico quanto più si avvicina al suo punto estremo, alla configurazione che oppone amico e nemico” (cit. in Tagouieff, 2008, p. 79). Importante è anche la dinamica che si svolge tra potere di costrizione e potere di influenza, tra potere visibile e invisibile. Le democrazie dovrebbero offrire la massima visibilità al potere ma è nota l’influenza che sull’esercizio del potere hanno le cosche, le sette, le società segrete, i servizi segreti che lo Stato crea per difendersi da operazioni occulte di forze interne ed esterne. Il potere visibile sul piano oggettivo è rappresentato dall’apparato istituzionale e dal punto di vista soggettivo dalla classe politica o élite politica intesa come gruppo ristretto di soggetti decisori, che perciò si distingue dalla classe dirigente che, a sua volta, può essere di governo o non governo. Potere invisibile, che non va sottovalutato, è anche il potere 92

Le manifestazioni del potere

ideologico e simbolico, come è quello dei media. Questo potere produce, riceve e trasmette forme simboliche dotate di significato. Il potere dei media, molto forte in politica, è al tempo stesso ideologico, in quanto esprime idee che influenzano la condotta degli individui, e simbolico in quanto riproduce i simboli di una cultura. Un ulteriore elemento della dinamica del potere è rappresentato dall’alternanza di fasi storiche in cui il potere si rappresenta oggettivamente e di altre in cui il potere si personalizza. Nelle prime il potere si identifica con le istituzioni, con rappresentazioni collettive o con una ́superiore istanza ̀ che giustifica l’azione del soggetto dominante. Qui è il gruppo, che si proietta in una rappresentazione oggettiva, che può essere costituita dallo Stato, dalla divinità o da un ideale che orienta e controlla l’azione dei singoli. “Che ci si ricordi – ha scritto Simmel – di quegli dei che gli uomini hanno creato sublimando le qualità che trovavano in se stessi, e da cui hanno atteso dopo sia una morale sia la forza di praticarla” (Simmel, 1974, p. 57). Le superiori istanze, la sovranità divina, lo Stato visto come “ingresso di Dio nel mondo” (Hegel), l’economia vista come elemento portante del progresso e dello sviluppo, nascono in un periodo di stabilizzazione e di forza delle culture e corrispondono a momenti di razionalizzazione della gestione del potere. Allora, scrive Burdeau, gli individui “provano soddisfazione a sentire che essi non obbediscono all’uomo ma a ciò che egli rappresenta” (Burdeau, 1979, p. 247). Nei periodi invece di transizione e di crisi, quando si sgretola l’ordine sociale e politico si fa forte il richiamo alla personalizzazione del potere, alla ricerca di un capo dalle virtù taumaturgiche. In questo caso colui che esercita il potere “deve la sua superiorità a qualità personali”. Egli “è capo perché è il più forte, il più ricco, il più abile ecc.”(Ivi p. 245). Il capo può avere carisma, può avere un fascino e una attrattiva personale, come oratore, per la sua iniziativa politica, per il successo che riesce a ottenere. Il capo carismatico si pone al di sopra del relativo e del transeunte. Porta con sé il destino del suo popolo, riesce ad unirlo fortemente perché è lui stesso a rappresentare la superiore istanza. Il carisma è un dono che hanno determinate persone, che ottengono consenso non per costrizione o calcolo ma per una qualità propria che esse posseggono. 3. La lotta politica All’interno di ogni organizzazione sociale si manifesta una lotta più o meno accesa per la conquista delle posizioni di potere da parte di singoli 93

Pensare la politica

o di piccoli gruppi. La lotta si svolge con ogni mezzo a livello formale-istituzionale, a livello informale e a livello simbolico e ideologico. Nel primo caso tende a modificare gli equilibri esistenti fra le diverse istituzioni; nel secondo caso tende a cercare nuove risorse per aumentare la potenza del soggetto agente; nel terzo caso a gestire valori, ideali e bisogni non materiali presenti nella società civile e nella cultura. Un caso tipico di lotta politica a livello informale è quello che ha come riferimento il bossismo e le possibilità di procurarsi sostegno e consenso a livello locale o settoriale attraverso l’opera del boss. Il boss è “un detentore informale di potere effettivo”. Serve il potere istituzionale, scrivono Lasswell e Kaplan, ma non aspira ad acquisire un ruolo istituzionale (Lasswell e Kaplan, 1979, p. 175 e segg.). Il suo potere, per quanto effettivo, non è “formalizzato nelle prospettive di autorità”. Il potere del boss, continua Lasswell, “è spesso nascosto: egli non appare come il detentore di potere nelle prospettive di una larga parte del gruppo; quando il potere del boss viene esercitato apertamente è, per definizione, il potere nudo. Ma l’elemento della coercizione prende spesso la forma dell’allettamento, anziché quella della costrizione; i vantaggi che derivano dal sottomettersi al potere del boss hanno spesso un ruolo più importante delle privazioni che derivano dal rifiuto di sottomettersi a tale potere” (Lasswell e Kaplan, 1979, p. 176). Il boss è dunque soprattutto il legame informale essenziale tra politica e società. La funzione del boss può essere quella del procacciatore di voti come quella di strumento dell’apparato di partito per controllare alcuni settori della società. In questo caso il boss diventa un vero e proprio strumento di controllo sociale al sevizio dell’apparato politico. Nella lotta politica entrano in gioco la forza e il consenso disponibili da parte di un individuo o di un gruppo. Il quadro in cui si svolge la lotta può essere più o meno vicino al pluralismo democratico o all’autocrazia, può essere orientato al recupero di valori tradizionali oppure ad accentuare la spinta innovativa; può sfruttare la tendenza a razionalizzare l’ordine politico, oppure, quando questo entra in crisi nei ruoli dei suoi rappresentanti, nei valori sui quali si fonda e nelle finalità che si prefigge, fondarsi su elementi più emozionali come la paura (v. Mongardini, 2004) o su interessi contingenti. Un altro modo, per il politico, di utilizzare l’emozionalità dei governati nella lotta politica si trova nell’atteggiamento ambivalente di questi nei confronti del potere. Da una parte essi ne hanno bisogno per sentirsi protetti, per avere un riferimento di indirizzo e di azione e per scaricarsi della responsabilità di decidere, che è poi quanto blocca le forme partecipative e 94

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deliberative delle democrazie. Dall’altra reagiscono alla pressione che il potere esercita su di loro e lo combattono ciecamente. Due momenti delle reazioni alla presenza del potere che si intrecciano e si contraddicono. Per un verso il potere appare come una necessità per tutelare l’ordine sociale, per garantire la sicurezza, per controllare la violenza e indirizzare l’azione collettiva. Per altro verso la pressione che il potere esercita genera reazioni volte a riprendere la libertà personale, a tutelare i propri diritti, a difendere i propri interessi. Così le sorti del potere, dal punto di vista dei cittadini che lo subiscono, varia tra consenso e opposizione, tra partecipazione e protesta. L’azione del potere, nel momento in cui si afferma nell’universo politico, consiste nel costruire e consolidare l’ordine politico e la propria supremazia. Il potere nasce come posizione sociale di forza (potenza) e ricerca il consenso e l’unificazione della molteplicità sociale per gestire e indirizzare l’azione collettiva. Se si fonda sulla forza, chi detiene il potere sa che non può a lungo fare assegnamento sulla paura che esso incute e tende a ricercare non un consenso di soggezione ma un consenso di convinzione. In questa ricerca si apre tutto l’universo della politica. Far sentire la forza senza mai ricorrervi e stimolare il consenso è l’ arte della politica, il cui ideale è la costituzione, attorno a valori, di una comunità artificiale capace di accumunare gran parte dei dominati (v. Eulau, 1981). Il potere ricerca la legittimità, cioè il riconoscimento che “chi governa ha il diritto di governare” e che esso persegue il bene collettivo (v. Ferrero, 1981). Questo riconoscimento può avere come oggetto il carisma di un individuo o di un piccolo gruppo, cioè la personalità, l’attrazione psicologica, la fede capace di coinvolgere intere collettività verso un vertice oppure può riferirsi a un ordine razionale dell’organizzazione politica fondato su valori condivisi. Nella legittimità convergono dunque elementi psicologici e valutazioni razionali e in periodi diversi il potere politico tende a personalizzarsi per trasformarsi oppure a ordinarsi in un sistema coerente di istituzioni che rappresentano determinati valori e soddisfano bisogni collettivi. In entrambi i casi il senso più propriamente politico della vita collettiva si trova nello stretto legame fra una condizione di dominio e la giustificazione che tiene insieme la società politica fra dominanti e dominati, giustificazione che rende legittimo il dominio e doverosa la subordinazione. Le giustificazioni del potere, che sostengono l’ordine gerarchico della società in contraddizione con il principio dell’eguaglianza, costituiscono, come ha scritto Guglielmo Ferrero, i “principî di legittimità”, i quali rappresentano il sostegno e il riferimento della società politica “perché fra tutte le ineguaglianze umane, nessuna ha 95

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conseguenze tanto importanti e perciò tanto bisogno di giustificarsi, come l’ineguaglianza derivante dal potere”. È solo su un tacito patto di dominio, fondato su diritti e doveri di governanti e governati, che si rende possibile la società politica come tipica forma di organizzazione delle società moderne. Il “patto”, che si regge su valori e finalità condivisi, rende possibile costruire l’unità del gruppo a partire dall’interesse molteplice dei singoli, rende possibile stabilire norme valide per tutti che regolino la sua attività, dare ad esso dei fini condivisi e mobilitare verso essi l’azione collettiva. Patto di dominio e legittimità del potere rappresentano gli elementi essenziali per comprendere la politica moderna e la funzionalità della rappresentanza che la classe politica assume nei confronti del popolo sovrano. Il rapporto di rappresentanza si regge sulla fiducia e il consenso da parte della maggioranza rappresentata, dalla quale derivano la legittimazione della minoranza e della sua azione e l’impegno della classe politica rappresentante a costruire l’unità del gruppo attorno a valori comuni, in funzione del bene comune, nell’ambito di una sfera pubblica come area di confronto dei gruppi e delle opinioni politiche. La società politica nelle costituzioni moderne può funzionare solo sulla base della legittimità del potere, sul suo grado di rappresentatività, sul rispetto che la sua gestione ha delle norme e della morale che regolano la vita di gruppo. Se questa è la società politica ideale la realtà presenta sempre situazioni di criticità rispetto ad essa, inerenti alla rappresentanza, alla legittimità, alla accessibilità della sfera pubblica e alle finalità dell’azione politica. I maestri della scienza politica italiana classica, da Mosca a Pareto, da Michels a Ferrero hanno più volte sottolineato questa criticità nella società politica che avevano di fronte. Si tratta in genere della tendenza della classe politica a chiudersi su se stessa e a trasformarsi in oligarchia, a sostituire i propri interessi al bene comune, a manipolare l’opinione pubblica o a usare la costrizione laddove il consenso viene meno. Per altro verso i governati, al deficit di rappresentanza e di legittimità fanno seguire la protesta, il rifiuto della politica, atteggiamenti anarchici o azioni terroristiche (Sulla “mentalità estrema” che porta al terrorismo vedi Bronner, 2009). Seguire le vicende storiche della società politica significa perciò analizzare il rapporto di rappresentanza, le forme del consenso e della legittimazione, la circolazione delle élites, le tendenze oligarchiche, la dialettica dei centri di potere, i loro rapporti, il grado di pressione che il potere esercita sui governati e i canali di manipolazione dell’opinione pubblica. Tutta questa realtà, che è spesso trascurata dalla scienza politica contemporanea deve aggiungersi 96

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all’analisi, che essa compie, delle forme istituzionali e dei comportamenti degli attori politici. È in questo senso che la “società politica” va vista come sintesi e rappresentazione di una società e di una cultura e l’universo politico come un insieme estremamente complesso di fenomeni. La ́vita politica ̀ allora non è che la vita della società che si organizza, che si dà un assetto dinamico e un centro di potere in base a valori riconosciuti, a regole che permettono di raccogliere consenso e di mobilitare l’azione collettiva verso un determinato fine. 4. Istituzionalizzazione del potere politico Abbiamo più volte sottolineato la differenza fra potenza e potere. Segnalata da Weber, essa è stata anche ripresa successivamente da Carl Friedrich (1963) per il quale il potere è al tempo stesso tanto un possesso quanto un rapporto. Il potere è un possesso in quanto è legato a una posizione sociale o a una carica politica ma è anche un rapporto in quanto coinvolge almeno due attori: uno che impone la propria volontà in forma di comando e l’altro che adegua ad esso la propria azione come obbedienza, rinunciando alla propria libertà. Quando questo rapporto si ripete nel tempo e si dà una forma istituzionale possiamo parlare di dominio. Se il dominare è accompagnato dal riconoscimento da parte del soggetto dominato, allora possiamo parlare di autorità che, come si è visto può avere una duplice origine: nascere in relazione a una specifica competenza o capacità all’interno di un gruppo, in modo da raggiungere quasi il valore di un’istanza oggettiva (ad esempio diciamo: Tizio è un’autorità nel campo dell’informatica); nascere di riflesso in quanto un individuo riceve questa “investitura” perché occupa una posizione sociale o politica che la collettività consacra come fonte di autorità. Il dominio come concetto è però circoscritto al ripetersi di uno stato di soggezione. Utilizzato da Simmel, da Weber e poi da Michels, questo concetto è stranamente poco usato nella scienza politica contemporanea, quasi che, scrive Giorgio Sola, “la rimozione di una parola dal suono così duro e definitivo potesse cancellare una realtà che può essere caratterizzata ancora oggi come nel passato, da sopraffazione, soprusi, violenza e sottomissione” (Sola, 2005, p. 70-71). Il dominio può assumere forme diverse, in particolare secondo che si riferisca al potere economico o al potere politico. Secondo Weber il primo si sviluppa sul piano degli interessi in un mercato “formalmente libero”, il secondo si riferisce ad una forma di autorità, che 97

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potremmo dire primaria o derivata, che definisce il diritto di comandare e il dovere di obbedire. Il primo ha come riferimento la distribuzione di risorse, il secondo l’attribuzione di riconoscimenti e gratificazioni. Il primo si esercita oggi sul piano dei consumi, il secondo sull’apparire e l’essere in scena. “Mentre il potere economico – scrive Sola – si fonda semplicemente sull’influenza che si fa valere – in virtù di qualche possesso garantito o di qualche abilità professionale – sull’agire formalmente libero dei dominati in relazione alla rete degli interessi che accomunano le persone coinvolte nel rapporto sociale, il potere politico si fonda su un semplice dovere di obbedienza che viene preteso prescindendo da ogni motivo o interesse. Il tipo più puro della prima specie di potere è costituito dal potere monopolistico che si afferma sul mercato; il tipo più puro della seconda specie è rappresentato dal potere del padre di famiglia o dal potere del principe o di un funzionario” (Sola, 2005, p. 77). Nel dominio politico si intrecciano motivi ideali, motivi psicologici e motivi gerarchico-organizzativi che si riferiscono alla struttura organizzativa che pro tempore il potere assume. Di qui la definizione di Weber per cui nel dominio si deve vedere “la possibilità che determinati comandi trovino obbedienza da parte di un determinato gruppo di uomini”. Ogni situazione di dominio perciò, nota ancora Giorgio Sola “è caratterizzata da due componenti: una culturale e l’altra istituzionale. La prima, strettamente connessa ai valori, richiama i principî di giustificazione dell’esercizio del potere quindi le ragioni dell’obbedienza; la seconda, di natura organizzativa, sottolinea il carattere e le modalità dei rapporti che si instaurano tra il detentore o i detentori del potere e l’apparato amministrativo e di entrambi con i governati. Da un lato si evidenzia il fenomeno della legittimazione dei rapporti comando-obbedienza, dall’altro lato, si accentua la dimensione dell’organizzazione di tali rapporti sotto il profilo della ripartizione dei poteri di comando” (Sola, 2005, p. 78). Weber ci indica questa differenziazione quando definisce tre tipi di potere: quello tradizionale e dunque strettamente connesso a principî di legittimità; quello carismatico connesso alle capacità o al fascino di un capo che può rappresentare il profeta, l’eroe o il rivoluzionario; quello legale-razionale che è connesso a un principio di ordine e alle regole che ne derivano. La cultura moderna vede per Weber nella democrazia la formula politica nuova che sposta il principio di sovranità da Dio al popolo e quindi si fonda sul suffragio universale e sulla partecipazione politica dei governati. Proprio la complessità del nuovo sovrano richiede tuttavia un rigido ed e98

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steso apparato burocratico per fissare e indirizzare le molte componenti e i molti fermenti dell’animo popolare. Così il popolo, apparentemente sovrano, finisce di fatto per essere governato da funzionari specializzati. Così nasce il politico di professione che è la spina dorsale della politica moderna, così nascono le clientele e il bossismo per controllare interi pacchetti di voti. Perciò nelle moderne democrazie, nota Weber, il potere effettivo “si trova di fatto nelle mani di coloro i quali svolgono un lavoro continuativo nell’ambito dell’attività politica” (Weber, 1966, p. 3). Ma la lotta politica si svolge anche al di là delle rigide strutture dell’apparato burocratico e delle istituzioni e fa leva nell’etica delle convinzioni, che corrispondono ad una fede radicale e intransigente che la dottrina in cui si crede possa rinnovare il mondo e che pertanto occorre realizzarne il progetto abbattendo ogni ostacolo, noncuranti delle idee e della vita degli altri, e per contro sull’etica della responsabilità che commisura le decisioni al rispetto nei confronti degli altri e al controllo dei sentimenti attraverso la ragione. Sarebbe auspicabile che l’una temperasse l’altra e viceversa perché da una parte “nulla si fa senza passione”, come scriveva Saint-Simon, e dall’altra dietro la passione si scatenano gli istinti, anche i più aggressivi e distruttivi. L’equilibrio è difficile da trovare, specialmente nella democrazia di massa del nostro tempo che rischia di non essere più una democrazia perché la condizione di massa porta facilmente all’autoritarismo e al dispotismo mentre il dominio, specie in una società complessa, si rafforza decisamente attraverso il livellamento (v. Simmel, 1978, p. 58). Ne segue che, nel regime di massa, la politica cerca legittimazione attraverso il populismo e la demagogia, che segna “il trionfo dell’irrazionalità e dell’emotività di una massa attratta da un capo carismatico e irresponsabile”, mentre la necessità del rispetto delle regole e dell’ordine razionale porta all’enorme sviluppo della burocratizzazione, “in cui la burocrazia usurpa di fatto il processo di decisione politica trasformando, senza responsabilità né possibilità di controllo, ogni problema politico in problema amministrativo” (Sola, 2005, p. 85). Le situazioni estreme nell’uno e nell’altro caso producono i fermenti che portano al terrorismo (v. Wieviorka, 1988). 5. Configurazioni del potere Il dominio o potere istituzionalizzato è una delle quattro forme del potere che Heinrich Popitz analizza insieme al potere come violenza, come autorità e come sapere tecnico (Popitz, 1990). A queste ne aggiungerei una quinta : quel99

Pensare la politica

la del potere come manipolazione e persuasione. Il potere istituzionalizzato, secondo Popitz, segue tre tendenze. La prima è quella della spersonalizzazione, per la quale i comandi non provengono da una particolare persona ma si collegano “a determinate funzioni e posizioni che possiedono un carattere sovrapersonale”. La seconda è quella della formalizzazione, per la quale l’esercizio del potere “si orienta sempre più nettamente a regole, procedimenti e rituali”. Infine, la terza tendenza è quella dell’integrazione, per la quale i rapporti di potere si rapportano ad un ordinamento onnicomprensivo. “Il potere si addentella alle ́condizioni vigenti ̀. Si lega e viene legato ad una struttura sociale che lo sostiene e che viene da esso sostenuta” (Ivi, p. 42). Con l’istituzionalizzazione il potere consegue un “innalzamento della stabilità”. “L’istituzionalizzazione del potere rientra fra i processi fondamentali del ́consolidamento ̀, della ́stabilizzazione ̀ e della ́fissazione ̀ delle relazioni sociali, e quindi fra quei processi che sono essenziali alla costruzione della convivenza umana quale noi la conosciamo” (Ivi). Il potere come violenza è la forma più diretta di potere, è “il puro potere di azione: il potere di recar danno agli altri con un’azione diretta contro di essi, il potere di fare qualcosa agli altri” (Ivi, p. 65). Questa forma del potere era già stata sottolineata da Max Weber quando attribuiva allo Stato il “monopolio della violenza”. “La forza d’offesa e l’esposizione all’offesa determinano insieme in modo essenziale ciò che noi chiamiamo in un senso fondamentale ́sociabilità̀. Non si deve mai ignorare totalmente l’esistenza della preoccupazione, del timore, della paura l’uno di fronte all’altro come modalità dell’essere sociabile. Vivere insieme significa sempre anche temersi e difendersi” (Ivi). Per questo l’ordinamento sociale “è una condizione necessaria del contenimento della violenza; la violenza è una condizione necessaria del mantenimento dell’ordinamento sociale” (Ivi, p. 80). Il discorso sulla violenza e sulla paura peraltro non è nuovo nel pensiero politico. Per Hobbes la violenza e la paura dominano nello stato di natura. La liberazione dalla paura è la base della convivenza civile ed è a fondamento dello Stato e del carattere assoluto che acquista la sua sovranità. L’intera organizzazione e istituzionalizzazione della politica può così definirsi per Hobbes come la razionalizzazione della vita civile che pone un freno alla paura. La società politica e il dominio assoluto dello Stato permettono agli uomini di uscire da una situazione di “timore reciproco” in cui si trovano allo stato di natura, “evitando di cadere nelle braccia del mostro cattivo della guerra civile” (Bobbio, 1987). Tra i moderni, anche per Guglielmo Ferrero il potere “è la manifestazione della paura che l’uomo fa 100

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a se stesso, malgrado gli sforzi per liberarsene” (Ferrero, 1981, p. 38). Violenza e paura, necessità di sicurezza e di ordine sono alla base della fondazione della società politica, ma questa, nel mondo moderno si basa su un patto di dominio fra governanti e governati, il cui mancato rispetto porta per un verso all’anarchia e per l’altro al totalitarismo. Paura e violenza possono perciò riprodursi anche all’interno della società politica. I governati “hanno sempre paura del Potere a cui sono soggetti, il Potere ha sempre paura dei soggetti a cui comanda… Non vi è stato né mai vi sarà un Potere che sia assolutamente sicuro di essere sempre e totalmente assecondato. Tutti i poteri hanno saputo e sanno che la rivolta è latente nella soggezione più supina e può scoppiare un giorno o l’altro sotto l’impulso di circostanze non previste: tutti i Poteri si sono sentiti precari e ciò precisamente in proporzione della forza con cui sono costretti a imporsi…Non appena le minacce e i rigori intervengono, subito nasce la paura: gli uomini hanno paura del Potere che li assoggetta; il Potere ha paura degli uomini che possono ribellarsi” (Ferrero, 1981, p. 41). Violenza e paura costituiscono una condizione antropologica che sollecita continuamente il bisogno di sicurezza. Per questo lo Stato si attribuisce il monopolio e la gestione della violenza contro ogni violenza. L’essere umano, scrive Popitz, “non è mai costretto ad agire violentemente, ma può sempre farlo, non è mai costretto ad uccidere, ma può sempre farlo, singolarmente o collettivamente, assieme o suddividendo il lavoro, in tutte le situazioni, lottando o celebrando festività, in diverse condizioni di spirito, con rabbia, senza rabbia, con piacere, senza piacere, urlando o tacendo (in un silenzio di morte), per tutti gli scopi immaginabili, chiunque” (Popitz, 1990, pp. 70-71). Contro la violenza possibile che metterebbe a rischio la convivenza civile si erige allora lo Stato che ne assume il monopolio e se ne serve per reprimere. Ma si propone allora un problema di fondo per l’uso della violenza da parte dello Stato. Un problema senza soluzione. Se cioè “le istituzioni o quasiistituzioni di contenimento della violenza devono essere esse stesse capaci di violenza, il problema della sua delimitazione si pone inevitabilmente di nuovo e ad un nuovo livello. Chi protegge i cittadini di un ordinamento dall’arbitrio e dalla violenza delle loro istituzioni di difesa dell’ordinamento stesso? Come può riuscire la delimitazione della violenza istituzionalizzata? Come viene superata la violenza ́volta a reprimere la violenza ̀?” (Ivi, p. 81). Una terza manifestazione del potere passa attraverso l’autorità cioè il potere riconosciuto e legittimato. L’autorità crea un legame unitario tra dominante e dominato perché essa “riposa sul riconoscimento di una su101

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periorità che porta ad una forte disponibilità ad adeguarsi” (Ivi, p. 26). Il legame che si crea è specifico perché è “il legame di un uomo con ciò che un altro fa o tralascia di fare. Colui che dipende dall’autorità è ancorato agli altri, in particolare a tutte le azioni che egli interpreta come reazioni a se stesso. Egli è incatenato alla relazione che realmente o immaginariamente lo lega all’altro” (Ivi, p. 21). Nell’affermazione del potere come principio di autorità si nasconde una forte tendenza a costruire una rete clientelare, al di là di ogni struttura burocratica, mentre, da parte del subordinato, il riconoscimento di autorità dell’altro nasconde implicitamente una aspirazione al riconoscimento sociale. “Se osserviamo l’origine dei vincoli di autorità – scrive Popitz – possiamo di regola distinguere un duplice processo di riconoscimento: il riconoscimento della superiorità di altre persone, l’attribuzione di prestigio e, in connessione con ciò, l’ancoraggio della nostra aspirazione al riconoscimento a quelle persone o gruppi superiori. Da coloro cui diamo particolare riconoscimento vogliamo essere in particolare riconosciuti” (Ivi, p. 27). Una quarta manifestazione del potere passa attraverso l’agire tecnico che, secondo Popitz, è finalizzato ad un impiego e quindi è utilizzabile per determinati scopi, modifica in qualche modo la situazione esistente, produce nuove capacità che possono essere apprese, diversificate o accresciute. La complessità della società moderna ha bisogno di sempre maggiori mezzi di controllo e l’agire tecnico fornisce questi mezzi al potere, tanto più quanto più il progresso tecnico accelera e si specializza, mettendo a margine un numero sempre maggiore di individui. L’agire tecnico significa l’accrescimento del potere di alcuni uomini su altri uomini ed è connesso al progresso tecnico e alla sua velocità. “Il perfezionamento degli strumenti tecnici viene in aiuto del perfezionamento dell’esercizio durevole del potere in molti campi. Ad esempio con mezzi di trasporto, con tecniche di incatenamento dei sottomessi, come le reti elettrificate e i campi minati; con tecniche di elaborazione elettronica dei dati; con l’accentramento degli approvvigionamenti, ad esempio della corrente elettrica, che vincolano al distributore centrale anche i più semplici avvenimenti della vita” (Popitz, 2005, p. 109). Questa modificazione tecnica del mondo oggettivo “mette un numero spesso indeterminato di interessati di fronte a ́fatti compiuti ̀ che ridefiniscono il loro margine di decisione”, cosicchè “in linea di principio ogni modificazione tecnica può diventare un atto di esercizio del potere. E senza dubbio la dimensione del possibile esercizio del potere si è ingrandita con la crescente efficienza tecnica” (Ivi, p. 110). Questo, secon102

Le manifestazioni del potere

do Popitz, crea non pochi problemi per il futuro, nel quale “dobbiamo aspettarci un’ulteriore crescita del potenziale di potere”, ampliando i problemi di controllo del potere, il cui cardine, nelle società moderne “è il controllo dell’agire tecnico”. Ma un controllo dell’agire tecnico in quanto controllo di potenziali di poteri enormi e in seguito mostruosamente in crescita, non è pensabile senza cambiamenti difficili e difficilmente immaginabili, paragonabili ad esempio alle innovazioni ideali e istituzionali che hanno portato al moderno Stato costituzionale” (Ivi, p. 111). L’enorme crescita del potere della tecnica, la perdita dell’esperienza reale da parte dell’uomo nella società di massa, il dissolvimento dei rapporti veramente umani con fenomeni di alienazione, erano stati già precedentemente percepiti da artisti come Baudelaire, dalla Scuola di Francoforte, e in particolare da Walter Benjamin (2000), e da Hannah Arendt che vede emergere un totalitarismo totalmente nuovo dal controllo monopolistico delle nuove tecnologie, con la possibilità di sfruttare i mezzi di comunicazione di massa per penetrare e politicizzare tutte le cellule del tessuto sociale e sfruttare, con l’uso di tali mezzi, “una forza di penetrazione e mobilitazione della società qualitativamente nuova rispetto a qualsiasi regime autoritario e dispotico del passato”. Una forma di potere che Popitz non considera è la manipolazione e la menzogna, che è invece messa ben in evidenza da Hannah Arendt nel suo saggio su Verità e politica (2004). Anche questo tuttavia è un tema ben presente nella storia del pensiero politico. “L’uso della menzogna, finalizzato esclusivamente al mantenimento del potere, – scrive Lorella Cedroni – viene perorato da Machiavelli: colui che governa deve esercitare una ́virtù ̀ che non è conoscenza della verità, né cristiana identificazione con i precetti evangelici, quanto piuttosto aristotelica ́abilità ̀ di simulare e dissimulare, di unire l’astuzia alla forza, senza apparire spergiuro e mentitore” (Cedroni, 2010, p. 11). Per la Arendt la funzione della menzogna in politica è essenziale come strumento di persuasione e di camuffamento della realtà e nella politica moderna essa assume anche nuove funzioni (v. Ivi, p. 138 e segg.). La menzogna è una forma di azione politica con finalità diverse mentre la verità “non è mai annoverata tra le virtù politiche, perché essa può contribuire veramente poco a quel cambiamento del mondo e delle circostanze che è tra le più legittime attività politiche (cit. Ivi, p. 145). Rispetto alla menzogna tradizionale la menzogna moderna in politica tende, più che a negare, a distruggere, a manipolare la realtà per “proteggere ideologie e immagini dell’impatto della realtà e della verità” (Ivi, p. 146). L’inganno, la 103

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menzogna e la “bugia manifesta” sono “strumenti legittimi per l’ottenimento di fini politici. Chiunque rifletta su tali questioni non può che sorprendersi della scarsa attenzione che la nostra tradizione politica e filosofica ha dedicato ad esse” (cit. Ivi, p. 150). Comporre, aggiustare, unificare la visione di un mondo così complesso o dinamico in funzione della persuasione e del consenso: questa è la funzione della menzogna per proteggere le immagini di ogni parte politica. Questa funzione si estende e si specializza per l’opera dei media soprattutto nella interpretazione dei fatti. C’è nell’opera dei media una capacità di spostamento e di travisamento che riesce spesso a costruire un’immagine coerente e funzionale di come ciò che accade deve apparire nell’ambito di un determinato discorso politico. La verità, come dice la Arendt, è “ciò che non possiamo cambiare”, perciò la sua natura è non politica, se non antipolitica, mentre la menzogna ha la capacità di costruire l’immagine più congeniale alla politica (v. Cedroni, 2010, p. 149). 6. Mutazioni del potere oggi Qualche accenno va ancora fatto alle importanti mutazioni che attraversa oggi il potere politico. In primo luogo va notato che la crescita in complessità della società contemporanea, che si manifesta negli spazi fisici, sociali e simbolici, importa una sempre più estesa planetarizzazione dell’universo sociale e politico. Ne deriva la moltiplicazione dei centri di potere sociale, soprattutto nel settore: a) economico, rivolto alla produzione e alla ripartizione dei beni materiali, b) religioso e morale, che acquisisce sempre maggiore forza per la crisi della sfera pubblica; c) ideologico-persuasivo, che si manifesta soprattutto nell’influenza dei media; d) coercitivo e di controllo, esercitato dalla burocrazia e dalla magistratura. Ciascuno di questi poteri si differenzia sempre più dagli altri creando proprie regole e seguendo propri interessi, al di fuori delle capacità di integrazione della politica. Questa non ha più capacità di sintesi e di indirizzo politico e, condizionata dalla contingenza, non riesce più a esprimere un progetto di società verso il quale indirizzare le energie collettive. Soggiace quindi alla fredda razionalizzazione degli interessi e precipita in un primitivismo tribale che le aliena le ultime risorse di rappresentazione e di legittimazione. La funzione che la politica può assolvere non è più quella tradizionale di integrazione e di indirizzo, ma si limita alla ricerca di compensazioni e di compromessi fra spinte e controspinte di poteri sociali diversi. Peraltro 104

Le manifestazioni del potere

non è aiutata più dagli intellettuali che si limitano a tradurla in sondaggi, in misurazioni numeriche di eventi e in formule di ingegneria costituzionale. Il potere politico vive nel mezzo di un “gioco di poteri” con conseguente perdita di senso (v. Poggi, 1998). In un “gioco di poteri”, in un mondo di organizzazioni con fini e interessi diversi, esso non riesce più a gestire un’azione di unificazione. Può solo creare equilibri provvisori e gestire la concertazione. Di fronte alla crescente complessità del sociale e alla mancanza di ideali dovuta al diffondersi della mentalità economicista, né la politica, né uno dei centri di potere sociale sono in grado di esercitare un adeguato controllo sociale. La vita, come dice Simmel, afferma se stessa rompendo le forme borghesi dell’ordine sociale senza proporne delle altre (Simmel, 1976, p. 105 e segg.). Così per la politica e per lo Stato esiste un deficit strutturale fra le loro potenzialità e la realtà della vita moderna. Sembra che nessun governo, nessun parlamento sia oggi in grado di costruire adeguate forme di integrazione e di controllo. Secondo Tom Burns i deficit della politica attuale si possono così riassumere in: a) un deficit di rappresentanza di fronte alla pluralità dei gruppi sociali; b) un deficit di conoscenza e qualificazione di fronte al moltiplicarsi di settori e conoscenze tecniche; c) un deficit di impegno politico di fronte alla pressione della rappresentanza di interessi (v. Burns, 1994). Questi “deficit di potere” della politica verrebbero compensati, sempre secondo Burns, da una “governance organica” composta da soggetti motivati da obiettivi e interessi diversi che si impegnano selettivamente su tematiche specifiche e contesti di rilievo pubblico, che comprendono finanza, banche, rapporti industriali, mercato del lavoro, tematiche ambientali, risorse, consumatori, servizi ecc. Questo significa che soggetti privati rilevanti suppliscono i deficit dell’agire politico pubblico e che perciò “il potere politico viene in parte sempre maggiore gestito da soggetti che appartengono alla società e a settori particolarmente rilevanti nell’incidenza sociale e nella percezione dell’opinione pubblica” (Burns, 1994). Seguendo questa tendenza, osserva ancora Tom Burns, si finisce per realizzare una democrazia diretta di fatto, di interessi organizzati, di lobbies ecc. Una democrazia alla quale mancano però gli strumenti di controllo, di regolazione, di livellamento delle chances di vita, propri della democrazia rappresentativa. La piazza così riprenderebbe il suo potere, con i suoi umori e la sua volubilità, si affermerebbe un populismo al servizio degli interessi dominanti, senza nessuno strumento di difesa per i più deboli. Il discorso si fa più ampio se si nota che nel gioco dei poteri sociali rientrano non solo agenti nazionali, ma agenzie e organizzazioni 105

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internazionali, come il Fondo Monetario Internazionale, che impongono vincoli difficilmente soggetti a controllo. Altri vincoli derivano alla classe politica dalla crescita sistematica di campi di conoscenze tecniche e scientifiche proprie di settori specializzati. Questi vincoli superano le capacità degli agenti politici e condizionano ogni decisione. La sovranità degli esperti entra qui in competizione con la sovranità parlamentare e popolare. Sorge perciò un interrogativo. Può il potere oggi essere circoscritto dagli schemi di una democrazia rappresentativa? Viene da pensare a un secondo livello non istituzionalizzato di rappresentanza, a forme di cogestione di governo nelle quali potrebbero rientrare, oltre al sistema parlamentare, il sistema industriale, quello sindacale, poteri transnazionali e poteri locali. Il tutto darebbe vita a quella governance organica alla quale faceva riferimento Tom Burns. In direzione opposta invece si cerca di far sopravvivere il potere tradizionale, personalizzandolo e ricorrendo al leader carismatico. Ma per molti non può esistere più un unico centro di potere politico e la moderna funzione di governo appare oggi multipolare. Se questa dovesse rimanere la tendenza predominante, emergerebbero con sempre maggiore evidenza una serie di rilevanti conseguenze che minerebbero le basi della democrazia rappresentativa: 1. Dal punto di vista della vecchia e permanente struttura di potere diventerebbe sempre più difficile sostenere l’immagine pubblica della centralità della democrazia parlamentare (v. Burns, 1994). 2. Gruppi economicamente forti, che sfuggono a ogni controllo, continuerebbero ad alimentare abuso di potere e corruzione. 3. Grandi settori di opinione pubblica non organizzati, trovandosi a subire la pressione del potere senza strumenti di difesa e non sentendosi rappresentati, potrebbero moltiplicare situazioni di microconflittualità e atteggiamenti di protesta, di insoddisfazione, di disaffezione per la politica, provocando instabilità e crisi di governabilità alla quale i gruppi politici sarebbero incapaci di rispondere. 4. Il predominio dei gruppi sociali farebbe venir meno la trasparenza e la responsabilità tipiche del governo parlamentare e della democrazia rappresentativa.

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Le manifestazioni del potere

5. Le pressioni esercitate dagli stessi gruppi sulle decisioni politiche metterebbero in crisi l’integrazione necessaria, il collegamento e la coerenza fra le diverse decisioni politiche. 6. Si aprirebbero vuoti di legittimazione perché le forme organiche che operano come poteri sociali non sono in grado di legittimarsi nella sfera pubblica e si servono sempre più, come succedaneo, di una discutibile funzione ideologica della scienza. Quali allora le proposte possibili per ridurre l’impatto sui cittadini di queste conseguenze? Seguendo ancora Burns, almeno due: 1. Una revisione sostanziale della costituzione con l’inserimento della cittadinanza di nuovi soggetti sociali con diritti e doveri. 2. Introduzione di nuovi strumenti di garanzia e di difesa dei governati (la “difesa giuridica” di Gaetano Mosca) contro lo strapotere di minoranze sociali forti e ben organizzate.

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II Autorità, legittimità, sovranità

1. Autorità Abbiamo già visto che l’autorità, sia nella sua forma primaria, che nasce dal basso e pertiene alle qualità, alle capacità o alle conoscenze di un individuo, sia nella sua forma secondaria, per cui essa deriva all’individuo dalla posizione che occupa, che ‘conferisce’ autorità, in entrambi questi casi implica il consenso e riconoscimento del potere di comandare. Questo costituisce un livello di oggettività che trasforma la costrizione di chi obbedisce a un comando in un dovere morale o in una conseguenza razionale. Alla forza si sostituisce la convinzione, alla soggezione la legittimazione della fonte in funzione delle superiori finalità che le si riconoscono. Alla fattispecie dell’autorità si associa, secondo Max Weber, “la probabilità che un comando venga eseguito dagli individui ai quali è rivolto”. Ciò mette in evidenza la spontaneità e la libertà del soggetto subordinato nel legittimare l’azione di comando. In questo l’autorità si differenzia dal prestigio, che concerne invece il fascino personale di un individuo. Mentre l’autorità eleva l’individuo ad una istanza oggettiva (diciamo è un’autorità, per esempio, nel campo della medicina) il prestigio esalta la personalità e la forza di attrazione che esso ha. Il prestigio fa riferimento a una “forza interamente individuale e scaturisce da puri punti della personalità, allo stesso modo in cui l’autorità scaturisce dall’obiettività di norme e di poteri” (Simmel, 1978, p. 42). Mentre l’autorità presuppone la massima libertà del soggetto subordinato nel riconoscerla, ma poi lo vincola strettamente a seguire le sue decisioni, il prestigio coinvolge totalmente, per forza di attrazione, i soggetti che ne risentono il fascino, i quali però possono liberarsene facilmente quando questo fascino viene meno. Per il subordinato, dunque, c’è una maggiore libertà nel riconoscimento dell’au109

Pensare la politica

torità, anche se poi contro i vincoli dell’autorità egli non è in grado di difendersi. Al contrario lo slancio con il quale si segue un individuo di prestigio si scioglie facilmente quando il prestigio viene meno per una qualche ragione. Autorità e prestigio rompono la dialettica dei rapporti di mero potere e creano l’unità dei soggetti. L’ambivalenza dei subordinati, che per un verso hanno bisogno del potere, per un’esigenza di certezza e di sicurezza, e per l’altro lo contrastano per la sua pressione e limitazione della libertà personale, qui in qualche misura è superata. L’autorità può essere attribuita ad un singolo, ad un gruppo, a una istituzione, a un’idea o ad una istanza superiore. Nell’antica Grecia la società rappresentava se stessa attraverso gli dei dell’Olimpo e poi cercava di trarre da quelle raffigurazioni le regole della convivenza e dell’azione individuale. Si stabiliva così un processo circolare in cui la proiezione del sociale creava un’immagine di potere, costituiva un soggetto simbolico, legittimato poi a regolare la vita sociale. Ogni gruppo perciò finisce per proiettare se stesso in una sfera ideale per poi cercare di corrispondere a questa nel regolare la reciproca convivenza degli individui. Nella cultura moderna l’imputazione dell’autorità tende a trasferirsi dagli individui e dai piccoli gruppi alle istituzioni, alle superiori istanze e ai sistemi astratti generalizzati. Se l’autorità istituzionale lascia ai subordinati la maggiore libertà, tuttavia ciò trova un limite nella generalità delle norme imposte alla vita collettiva, che non comprendono particolari situazioni individuali, che, al contrario, potrebbero trovare ascolto nel caso del potere di un singolo. Il freddo predominio di una istituzione, con la sua razionalità e le sue regole, o di una forza simbolica, come oggi potrebbe essere quella del denaro con la sua astratta oggettività, non lascia spazio a deroghe relative a casi individuali. Nei percorsi della storia l’autorità si personalizza o si oggettivizza in periodi diversi. All’esperienza emozionale del soggetto carismatico prescelto per le sue doti personali, fa seguito un processo di razionalizzazione che ristabilisce l’autorità della legge all’interno di un’organizzazione politica razionale. L’autorità in entrambi i casi non ammorbidisce la pressione del potere sui sottoposti ed essa si scarica lungo la linea della minor resistenza che interessa i gruppi più deboli e più esposti della società. Scrive Simmel che in ogni gerarchia “una nuova pressione o pretesa si muove lungo la linea di minima resistenza, la quale, in definitiva, anche se non subito, risulta essere quella che va verso il basso…Infatti, risulta evidente che l’aumento originario di pressione risulta distribuito non nella sua grandezza assoluta, ma 110

Autorità, legittimità, sovranità

in quella relativa, che corrisponde alla misura già esistente della violenza del superiore sull’inferiore… Questa è la tragedia di colui che occupa le posizioni più basse in qualsiasi ordine sociale. Egli non deve solo soffrire per rinunzie, privazioni, fatiche e trattamenti ingiusti, la cui somma caratterizza la sua posizione, ma qualunque nuova pressione che colpisce in qualche punto gli strati a lui sovrapposti, se ciò risulta possibile dal punto di vista tecnico, viene indirizzata verso il basso e si ferma solo su di lui” (Simmel, 1978, p. 105). La funzione dell’autorità nell’insieme è tuttavia quella di cancellare la costrizione nel rapporto di dominio e di sostituirvi una corrispondenza di intenti e di azione fondata su una identificazione che dà stabilità alla società politica. Per questo le società in crisi risentono del vuoto di autorità. Nell’autorità si costituisce la sacralità della vita di gruppo e il riconoscimento del “noi” che attribuisce ad esso una identità forte e rafforza le istituzioni che lo rappresentano. In una lettera a Gaetano Mosca del 1920, Guglielmo Ferrero nota l’indebolirsi del principio di autorità nel nuovo secolo per lasciare il posto a governi via via “più evoluti e più duri, perché più forti e meno autorevoli…che oggi stanno diventando tutti delle tirannidi basate sul denaro e sulla forza”. “Quanto alla rinascita del principio di autorità, – afferma più avanti – credo che sarà un avvenimento inevitabile ma lento e lontano. Noi non lo vedremo. E probabilmente il nuovo principio di autorità si formerà intorno alle persone, alle istituzioni, alle dottrine che difenderanno gli uomini contro questa orrenda tirannide” (v. Mongardini, 1980, pp. 295-6-7). 2. Legittimità Si governa con la forza e con il consenso. La politica, come si è visto, è la posizione di forza che, in funzione dell’agire ricerca il consenso della maggioranza e la partecipazione collettiva. “In tutta la storia – scrive Pareto – consenso e forza appaiono come mezzi di governo”. E ancora: “tolte eccezioni, che sono in piccolo numero e che durano poco, si ha dappertutto una classe governante poco numerosa, che si mantiene al potere, parte colla forza parte col consenso della classe governata, che è molto più numerosa. Le differenze stanno principalmente: in quanto alla sostanza, nelle proporzioni della forza e del consenso; in quanto alla forma, nei modi coi quali si usa la forza e si consegue il consenso” (Pareto, 1963, par. 2251 e 2244). 111

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La legittimità è quell’elevato grado di consenso rivolto a chi occupa il potere che gli assicura “il diritto di comandare “ in base ad una “giustificazione morale del potere” che permette ai governati di riconoscere una supremazia altrimenti basata sulla sola forza. Anche se nato dalla violenza, anche se manifesta la sua forza, il potere riconosciuto legittimo si armonizza con la mentalità e gli interessi dei dominati segnando l’ “orientamento generale degli spiriti”. La legittimità non va confusa con la legalità. La legalità è l’insieme delle condizioni, delle procedure e dei meccanismi che, in un ordine giuridico, definiscono i percorsi per arrivare al potere. La legittimità presuppone la legalità costituita o costituenda ma non si esaurisce in essa. La legittimità si fonda su principî, valori, idee che legano governanti e governati e che i governati e la pubblica opinione esprimono in vario modo supportando il potere e identificandosi con esso. Non è il voto, che è un meccanismo di scelta, che rappresenta la legittimità, ma l’insieme di espressioni e di atteggiamenti che, in un arco di tempo, consolidano il supporto dei governati a chi detiene il potere. Guglielmo Ferrero, uno dei maggiori studiosi del principio di legittimità, confessa di essere rimasto colpito nel 1918, leggendo alcune pagine delle Memorie di Talleyrand sulla legittimità, e di aver intuito da allora che la legittimità è la chiave per poter interpretare tutta la storia d’Europa dopo la Rivoluzione francese. I principî che regolano la legittimità sono per Ferrero convenzionali e relativi. Sono tuttavia i pilastri che sostengono la società politica, “i geni invisibili delle città”, le forze vive che “nascono, crescono, invecchiano e si spengono”. Quattro sono stati per lui i principî di legittimità riconosciuti dalle società umane: quello ereditario, quello monarchicoaristocratico, quello elettivo e quello democratico. Quest’ultimo però si rivela più fragile degli altri per il fatto che esso ha rovesciato l’ordine delle cose, secondo cui il potere scende dall’alto e il consenso sale dal basso. Con lo spostamento della sovranità al popolo il potere sale dal basso e chi governa cerca di garantire la legalità e ottenere dal basso consenso e legittimità. Il potere può ottenere la legittimità, cioè “può raggiungere la propria perfezione soltanto mediante una specie di contratto sottinteso”, attraverso il quale il rapporto di dominio si costituisce sulla garanzia reciproca dei dominati di prestare obbedienza e dei dominanti di perseguire certi fini e di osservare determinate regole. In quanto determina la legittimità del potere politico il consenso si conferma come l’asse portante e il senso dell’universo politico: ciò che determina l’ordinamento razionale della società politica, la regola della vita civile e la sicurezza nei confronti di ogni forma di violenza. 112

Autorità, legittimità, sovranità

“Quando una delle parti non rispetta più il contratto – scrive Ferrero – il principio di legittimità perde la sua forza” e “rinasce la paura” (Ferrero, 1981, p. 48). All’interno della società si riproduce la paura primordiale: i dominati hanno paura della forza di cui il potere dispone e il potere stesso ha paura della ribellione dei sottoposti e della labilità del consenso su cui può fare assegnamento. La condizione primordiale e hobbesiana dell’uomo si supera dunque solo attraverso la costituzione quasi religiosa di un poterelegittimità. Ma si tratta di una religiosità tutta civile, alla quale non devono mancare un credo razionalizzato, il prestigio dei governanti e il consenso dei governati. Tutto deve legarsi in un “principio di legittimità”, che è la vera costituzione materiale del gruppo, perché gli uomini “non riconosceranno mai in altri uomini il diritto di comandare loro, se non per un sentimento di origine mistica, di cui l’intelletto non può render ragione” (Ferrero, 1920¸ p. 280). Il sacro, che si ritrova nei principî di legittimità, rende ragione del significato religioso della politica, non solo perché la politica “è nata nei templi”, ma anche perché ciò è connesso alla natura stessa della dimensione politica delle cose (Burdeau, 1979, p. 6 e segg.). Almeno due problemi si pongono in relazione alla società moderna, secondo Ferrero: il primo è il rapporto tra il principio di legittimità e talune interpretazioni del concetto di ideologia come “formula politica” capace di manipolare le masse. Il principio di legittimità comprende anche un possibile uso distorto e manipolatorio da parte dei governanti per sollecitare il consenso delle masse, facendo apparire l’azione di governo rispondente ai loro interessi, ma non si riduce a questo. Infatti il senso della legittimità sta proprio nel coinvolgimento di tutti gli attori del processo politico in quanto è il fondamento del contratto tacito che istituisce il rapporto di dominio. Il secondo problema consiste, come accennato, nella debolezza del principio democratico che, fondato sul suffragio universale, non riesce a supportare adeguatamente il rapporto di dominio. Esso si riduce al numero, a una macchina elettorale, perde ogni significato metafisico e morale, corrompe il rapporto di rappresentanza, viene sostanzialmente dall’alto, non ha significato mistico per la collettività (Ferrero, 1981, p. 61 e 203). Le conseguenze si avvertono in tutta la storia dell’Europa moderna. “Tutte le autorità sono cadute” e per un verso l’Europa si è affidata al mito della “violenza rigeneratrice che non ha vinto e non poteva vincere, che ha generato solo forme di follia, per l’altro tutti hanno reclamato lo “Stato forte”, mentre lo Stato contemporaneo è solo una strana mescolanza di forza e di debolezza, immensa forza, sostenuta da un’autorità vacillante” (Ferre113

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ro, 1924, pp. 65-66). Il risultato si è concretizzato in un serie di dittature che non hanno potuto giustificare il loro potere e hanno cercato di resuscitare nella misura del possibile l’antico potere monarchico. La legittimità riguarda l’organizzazione gerarchica della società politica, la legittimazione pertiene invece all’azione del potere stesso nella sua funzione di governo. Dal punto di vista dei comportamenti dell’attore sociale il processo di legittimazione politica riguarda le regole del gioco che vincolano l’azione di tutti i membri del gruppo in funzione del fine collettivo. Il rispetto della regola e il suo carattere vincolante per tutti sono le premesse della legittimazione. Questo in un sistema politico in equilibrio. Ma le condizioni sociali e culturali, i bisogni collettivi e le risposte dei gruppi politici cambiano frequentemente. Così frequentemente muta il livello e il tipo di consenso. Potremmo avere un consenso interiorizzazione che esprime identificazione con un’idea, con un individuo, con un gruppo o un sistema di regole, un consenso accordo che si fonda su uno scambio, sull’utilità e i vantaggi tangibili che il consenso espresso può conseguire, un consenso conformità, che esprime solo una passiva adesione a quello che gli altri vogliono e fanno, e infine un consenso di necessità, che in una politica di contingenza (Mongardini, 2009) si limita a ratificare quello che è necessario fare per risolvere i problemi del presente. È ovvio che il secondo tipo di consenso ha una stabilità relativa, condizionato dalla fluidità degli interessi, mentre i due ultimi tipi sono del tutto superficiali e provvisori e non testimoniano la solidità dell’ordine politico. Ci si può porre allora la domanda: “fino a quando un ordine politico è legittimo, anche se, da un punto di vista procedurale è legale?”. Secondo Max Weber “un ordine è legittimo fino a quando è valido, cioè fino a quando gli individui si orientano su di esso, tanto nel senso dell’approvazione, del riconoscimento, quanto nel senso della violazione delle norme di questo ordine”. Per Max Weber allora la legittimità sarebbe legata al comportamento rispetto alla norma, come elemento di riconoscimento della validità. Manca però un riferimento più solido alla differenza fra legalità e legittimità che prenda in considerazione, in un arco di tempo, il tipo e il livello di consenso per cui alla necessità della legalità può associarsi un basso livello di legittimità sul quale si fonda la tendenza al mutamento. Weber rimane legato, per la legittimità, a forme comportamentali, che lo portano a dover riconoscere un “potere non legittimo” (v. Scaglia, 2007), che invece dovrebbe essere classificato, in relazione al consenso, come potere non legale ma legittimo perché fondato su qualità e quantità del consenso che lo sostiene. 114

Autorità, legittimità, sovranità

Max Weber, che ha identificato tre tipi di legittimazione, la razionale legale, la tradizionale e la carismatica, si rende dunque conto che esistono situazioni di potere non legittimo come idealtipo. Questo tipo di potere egli lo riscontra nel sorgere di quegli elementi socioculturali che hanno contribuito “alla formazione della cultura borghese e in seguito di quella capitalistica” (v. Scaglia, 2007, p. 19 e segg.). Questi elementi crescono gradualmente accanto all’ordine politico medievale, rappresentano un diverso potere, un ordinamento non-legittimo, ma non illegittimo, in formazione. “L’espressione usata da Max Weber scrive Scaglia – non è potere illegittimo bensì potere non legittimo; un potere dunque che solo temporaneamente appare come non legittimo rispetto al vecchio ordinamento giuridico, ma che è perfettamente in grado di realizzare un nuovo ordinamento sociale legittimo” (Ivi, p. 24). Il potere non legittimo “sarebbe pertanto da considerare come un nuovo potere in formazione, il quale è interessato in primo luogo a sostituire il vecchio ordinamento in modo creativo; e per far questo il potere non (ancora) legittimo deve contrapporre alla legittimazione del vecchio potere una legittimazione sociale e storico-costituzionale cogente e affermarla” (Ivi, p. 26). Questo importa, in un discorso più ampio, che legittimità e legittimazione vengano riferiti in parallelo alla vita dei gruppi. In questo senso è possibile seguire processi di legittimazione e delegittimazione dovuti a cause interne alla vita dei gruppi o a molteplici cause esterne. In ogni collettività umana, nota Pareto, stanno di fronte due forze, una “che potrebbesi dire centripeta” spinge all’integrazione e al rafforzamento del potere centrale, l’altra “che potrebbesi dire centrifuga” porta alla disgregazione e alla perdita di legittimità del potere (v. Pareto, 1964, p. 53). Ne segue che, quando prevalgono le forze centrifughe, il potere, per mantenersi, ricorre alla violenza, pur con la consapevolezza che il potere più solido è quello che si basa sul consenso e che ha come riferimento l’interiorizzazione dei valori di una cultura. Un potere fondato sulla violenza è un potere debole, è un potere che ha paura e che potrebbe cadere al minimo scossone. Altre analisi dei processi di delegittimazione le troviamo in Georg Simmel e Roberto Michels. Per Simmel questi processi sono conseguenza del fatto che la vita si ritrae lentamente dalla forme della cultura una volta che essa le ha prodotte. Sia lui che Michels hanno analizzato alcuni fenomeni per i quali nelle forme di una cultura e nelle organizzazioni della vita collettiva si determina una frattura progressiva tra le strutture della cultura stessa che tendono a rendersi autonome e a cristallizzarsi e la costituzione e la mobilità dei gruppi che tendono a seguire il pulsare della vita e l’emergere 115

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di nuovi bisogni. Il consenso e la legittimazione della vita collettiva che vengono facilmente a formarsi in una fase di espansione della cultura, quando nuove forme e nuove organizzazioni si costituiscono in funzione di bisogni emergenti, si mantengono in seguito con difficoltà. Il potere un tempo legittimato tende ad essere delegittimato, cioè ad essere semplicemente tollerato o subito, non più riconosciuto e approvato. Perciò il processo di delegittimazione non è un fatto patologico ma fisiologico in tutte le formazioni sociali (v. Mongardini 1995, p. 44 e segg.). Nell’epoca contemporanea, accanto al volontarismo politico che cerca di autolegittimarsi su un modello di società fondato sulla razionalità e sul calcolo ma costruito dall’alto, le forze centripete nella vita dei gruppi sono deboli, tranne quelle che si fondano su interessi contingenti, mentre sono forti e molteplici quelle centrifughe. Cosicché, come scrive Freund, “tutte le attività umane sono sottomesse nel medesimo tempo ad una contestazione interna e a una critica radicale… La conseguenza è una lenta erosione conflittuale di tutta la società” (Freund, 1983, p. 9). D’altra parte l’organizzazione del potere è così tenace e radicata attorno al suo modello di ordine politico, da considerare come immutabile quel sistema di bisogni e di valori che gli ha dato la vita. Perciò chi è al potere tende ad operare come se quell’ordine non dovesse mai modificarsi. Gli rimane difficile percepire che la funzione dei vecchi gruppi, orientata su un preesistente sistema di bisogni, si è esaurita e ha perso consenso e legittimità, e che le istituzioni politiche cessano di essere rappresentative e di fornire canali istituzionali ai conflitti sociali. Ogni mutamento nell’ordine e nell’intensità dei bisogni collettivi avvia processi di delegittimazione di strutture e gruppi politici e insieme indirizza il consenso su nuovi gruppi che intendono rappresentare il nuovo ordine sociale e politico. È senz’altro possibile costruire un insieme di indicatori per misurare il livello di legittimità del potere o di qualunque altra struttura gerarchica. Si possono almeno prevedere tre diverse situazioni: - Un massimo livello di legittimità può essere caratteristico di una società ideale nella quale tutti i cittadini obbediscono, in quanto si riconoscono e si identificano nell’ordine politico e nell’azione che da esso deriva. - Al contrario, un livello minimo di legittimità identifica una situazione nella quale massima è la costrizione e minimo il consenso pur operando il potere nell’ambito della legalità.

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- Infine un grado zero di legittimità caratterizza quella situazione in cui il potere fa esclusivo affidamento all’uso della forza, non si sente legato ad alcun valore giuridico o politico, vede i governati solo come soggetti al suo potere. Il politologo americano Samuel Huntington definisce questa situazione come caratteristica dei regimi pretoriani, come nel tardo impero romano, quando era la fedeltà del corpo di guardia che decideva dell’ascesa o della caduta dei Cesari; era la guardia pretoriana che dichiarava decaduto un Cesare e ne innalzava un altro. Spesso nella politica moderna sono i centri di potere sociale che decidono chi deve comandare e lo decidono in base ai propri interessi. L’epoca storica più recente sembra caratterizzata, per la politica dei paesi occidentali, da una perdita di consenso e dalla delegittimazione dell’azione politica. Il basso livello di cultura politica e la segmentazione dei gruppi, i fenomeni settari e le forme di protesta così come un controllo sempre più minuto e opprimente della vita collettiva, sembrano segnali di un processo di delegittimazione, di rifiuto della politica e al tempo stesso di ricerca e di mobilitazione verso una nuova politica. Le premesse della legittimità della politica borghese sono venute meno mentre mancano nel regime di massa idee e valori per la costituzione di un nuovo e stabile ordine politico (v. Mongardini, 1995, p. 36 e segg.). 3. Sovranità Con la crisi di ogni autorità, di ogni ordine gerarchico e con la modificazione degli spazi per noi significativi sia di ordine fisico che sociale e politico, è tornato in questione quel vecchio concetto di sovranità con il quale il linguaggio politico definiva l’imputazione del supremo potere e del grado più alto di autorità. Nell’antico regime e fino alla Rivoluzione francese la sovranità era di diritto divino e il re era “sovrano” in quanto interprete della volontà di Dio. Infatti l’espressione “nulla potestas nisi a Deo” significava che a Dio spettava l’imputazione del supremo potere, ma era il monarca, suo rappresentante, ad esercitarlo. C’era dunque una sovranità formale e una sovranità sostanziale. Con la Rivoluzione francese la sovranità è imputata al popolo, ma anche qui la sovranità formale è del popolo ma chi di fatto la esercita sono i suoi rappresentanti. Inoltre per non personalizzare la sovranità nei rappresentanti e per tradurre in un sistema oggettivo quella che nel popolo è una 117

Pensare la politica

sovranità soggettiva e articolata, la sovranità popolare si proietta nella sovranità dello Stato (diciamo “lo Stato sovrano”) i cui principî sono fissati nella carta costituzionale. Questa è la configurazione che si compone nell’ordine politico borghese e che dà vita alla società politica e alla democrazia rappresentativa, fondata sul rapporto di rappresentanza, come precedentemente abbiamo descritto. Abbiamo quindi una sovranità formale e un uso del potere e del controllo effettivi. Si evidenziano allora, come nota anche Harold Lasswell due configurazioni della sovranità: autorità formale e controllo effettivo non si riducono a uno solo dei due termini, costituiscono due ruoli diversi nel processo di imputazione del potere. In ogni caso però il concetto classico di sovranità presuppone l’individuazione di un soggetto che possegga incontestabilmente il diritto di determinare il quadro e le regole giuridiche e politiche operanti all’interno di un determinato territorio (importanza dei confini) o di una determinata istituzione (lo Stato). Dal punto di vista giuridico-politico la sovranità consiste nel potere di decisione ultima: sovrano è colui che in ultima istanza decide e che è, come dicevano i giuristi, “superiorem non recognoscens”, cioè quella autorità politica che non riconosce un potere sovraordinato, quella volontà suprema alla quale tutte le altre sono sottoposte. Per questo la forma articolata della sovranità nella politica borghese ha reso difficile, come vedremo, l’individuazione del soggetto sovrano. Nella formulazione classica invece Jean Bodin nei Six livres de la République (1576) ci ha presentato la sovranità come potere assoluto, indivisibile, inalienabile e imprescrittibile. Su questa base dottrinaria si sarebbe fondato l’assolutismo, rafforzato dal fatto che la sovranità riferita a Dio ancorava la politica alla religione. Il mondo laico che si andava sviluppando era in qualche modo legato politicamente ai valori religiosi. Questo legame era espresso con forza ogni volta che i re cercavano di giustificare il loro potere. Giacomo I, inviando un messaggio al parlamento inglese nel 1610, così scriveva: “La condizione della monarchia è la più alta al mondo, perché i re non sono solo i luogotenenti di Dio in terra e siedono sul trono di Dio, ma da Dio stesso sono chiamati dei… I re sono paragonati ai padri di famiglia, perché un re è davvero parens patriae, il padre politico del suo popolo”. In questa immagine da una parte si riconosceva la sovranità formale imputata a Dio, dall’altra si proclamava la sovranità sostanziale del re che rivendicava di essere il rappresentante di Dio. Un altro scenario si apre dopo la Rivoluzione francese. Il concetto di sovranità si laicizza e si sviluppa con lo Stato territoriale moderno e con l’idea di nazione. Tende però a conservare alla sovranità dello Stato il ca118

Autorità, legittimità, sovranità

rattere del sacro. Così nella formula di Hegel lo Stato è “l’ingresso di Dio nel mondo”. Egualmente i re cercano di conservare un velo di sacralità continuando a dichiararsi rappresentanti di Dio. La monarchia conserverà a lungo la formula, riferita al sovrano, “per grazia di Dio e volontà della nazione”. Un processo inverso si verifica nell’organizzazione della Chiesa che progressivamente si uniforma a quella dello Stato. La Chiesa assume i caratteri di centralità e di razionalizzazione burocratica dell’ordinamento statale. Marc Bloch sottolinea il processo di secolarizzazione dello Stato e di statalizzazione della Chiesa: un interscambio simbolico tra Chiesa e Stato. Tuttavia nel processo di secolarizzazione dello Stato l’elemento del sacro, come simbolo rappresentativo dell’unità del gruppo, rimane legato alla sovranità e all’ideologia, che diviene una “religione politica” che orienta l’azione del gruppo (v. Voegelin, 1959). Come effetto delle “religioni politiche” si afferma per tutto l’800 e fino a oggi il volontarismo politico come sforzo per realizzare un determinato modello di società, orientato, in fasi successive, sull’etica (lo ́Stato etico), sul diritto, sul benessere, sul mercato e sullo sviluppo secondo i principî dell’economia. Così la politica assume su di sé, in una versione terrena, quella funzione salvifica dell’umanità che da sempre è stata patrimonio della Chiesa. Compito della politica diviene quello di trasformare l’umanità realizzando un modello di società secondo un progetto politico orientato da valori. La sovranità popolare ha aperto la via alla secolarizzazione, alla nuova politica, allo sviluppo della modernità con nuovi spazi di iniziativa e di partecipazione. Da allora la politica deve risolvere il problema di costruire l’unità del molteplice, costituito dai diversi interessi, orientamenti, idee, valutazioni che si manifestano nel popolo sovrano. Mentre quindi per un verso si sviluppa il volontarismo politico verso un modello ideale di società, la politica deve al tempo stesso costruire una volontà collettiva sulle diversità del popolo sovrano. Potere apparato e potere comunità, progetti ideali, formule politiche e vita quotidiana si intrecciano e si scontrano in una miriade di situazioni sulle quali il popolo sovrano chiede a chi lo rappresenta decisione e responsabilità. Di qui l’importanza della rappresentanza come cardine essenziale per il funzionamento della società politica. Dalla rappresentanza deve nascere un indirizzo politico, cioè un orientamento dell’azione collettiva volta a perseguire il bene comune. Qui nascono le difficoltà e le contraddizioni della politica moderna spesso troppo orientata su modelli astratti o al contrario rinunciataria di qualunque progetto, per reagire solo agli eventi e ai feno119

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meni contingenti. Orientamenti che eludono la vera funzione della politica: quella di unificare e orientare. Ma per questo occorre che valori e situazioni contingenti possano alimentare un ampio dibattito nella sfera pubblica e riferirsi agli elementi più incisivi di una particolare condizione culturale. Prima di essere una istituzione politica, la rappresentanza è un fatto sociologico di grande importanza per lo sviluppo della modernità. Nella democrazia rappresentativa essa ha assunto il compito di interpretare, dare senso e indirizzare la volontà del sovrano. Sulla decisione e la responsabilità dei rappresentanti si fonda la possibilità che la sovranità, imputata al popolo, rimanga un’idea forza e realizzi l’unificazione e l’oggettivazione della collettività alla quale si riferisce. Consapevole delle difficoltà della rappresentanza nei confronti della sovranità popolare e del fatto che l’attività dei rappresentanti può snaturarsi in autocrazia o può bloccarsi per varie ragioni, il legislatore ha previsto forme di democrazia diretta come il referendum o la proposta di legge di iniziativa popolare per creare dei canali attraverso i quali il popolo venga chiamato direttamente in causa quando le sue esigenze non vengono percepite da chi lo rappresenta. Tra rappresentanti e rappresentati si sviluppa perciò un gioco di potere e contropotere, per l’uso effettivo della sovranità. Gaetano Mosca ha illustrato questo principio, in una lezione inaugurale del 1902 all’Università di Torino, come confronto fra il “Principio aristocratico e democratico nel passato e nell’avvenire”: due posizioni che esprimono un modello di sovranità che non si realizza mai in senso assoluto perché anche l’uso della forza ricerca il consenso, mentre anche le democrazie poggiano sul monopolio della violenza che lo Stato detiene. Le stesse dittature, forme estreme di autocrazia, non sono, nella società moderna, che “espressioni di cesarismo”, come le chiamava Ferrero, alla ricerca di mobilitare il consenso popolare. Questa formula di “governo misto”, che caratterizza la moderna sovranità a baricentro mutevole, si afferma a partire dal ’700, con l’autonomia della società civile come sfera autonoma di rapporti e con lo sviluppo di molteplici poteri sociali a loro volta tesi a conquistare un loro propria autonomia. Mentre nell’antico regime la volontà di Dio, soggetto sovrano, poteva essere facilmente idealizzata e trovare riscontro sostanziale nella volontà e negli interessi del sovrano che la interpretava, la configurazione moderna mette di fronte interessi contrapposti di due poteri, quello dei rappresentati e quello dei rappresentanti, cioè di una sovranità formale, che cerca di emergere e di acquistare peso, e di una sovranità sostanziale, quella dei rappresentanti o classe politica, che gestisce di fatto la vita pub120

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blica cercando di giustificare le proprie decisioni di fronte al popolo. Teoricamente il regime rappresentativo, riferito alla sovranità popolare, imporrebbe ai rappresentanti solo di interpretare e mediare fra la molteplicità e la diversità della volontà popolare. Questa, sul piano formale rimarrebbe vincolante, ma sul piano sostanziale finisce per segnare il predominio dei rappresentanti sui rappresentati. La forza reale di cui godono i rappresentanti aumenta tanto più, quanto più l’espressione della sovranità popolare viene ridotta alla sola cerimonia del voto. La rappresentanza non è più allora un rapporto costante tra rappresentante e rappresentato, ma solo la possibilità del rappresentato di scegliere il suo rappresentante, quando anche questa scelta non sia condizionata dai partiti come avviene nel sistema delle liste bloccate. Se il rapporto di rappresentanza è ristretto al solo momento del voto, cioè al meccanismo di scelta del rappresentante, e non è di fatto un rapporto che si sviluppa sul tempo, il senso della rappresentanza perde ogni valore: mancano meccanismi di controllo dell’azione del rappresentante e mancano possibilità di revoca della rappresentanza stessa. La forma attuale della rappresentanza dà naturalmente maggior forza ai rappresentanti, ma per questo essa si riduce a mera formula politica e la sovranità del popolo è solo una dichiarazione formale di fronte al potere reale dei rappresentanti. Eppure, nella sua configurazione idealtipica, la democrazia rappresentativa costituisce l’ordine politico più raffinato espresso dalla cultura moderna. Al contrario, collegando una inefficiente e inespressa volontà popolare con un reale e spesso incontrollabile potere dei rappresentanti, essa ha generato costanti oscillazioni nella storia europea tra anarchia e totalitarismo e spesso, invece di esaltare la volontà popolare, si è risolta nelle espressioni più autoritarie della rappresentanza. Il problema della rappresentanza, della scelta dei rappresentanti, della nascita, natura e morte di una classe politica, ha costituito fin dall’inizio il nodo centrale della nuova sovranità e del suo principio di legittimazione. È qui che la democrazia moderna riamane “incompiuta” e che il popolo sovrano resta “introvabile” (v. Rosanvallon, 1998 e 2000). Il problema della rappresentazione politica è la forza e insieme la debolezza della sovranità moderna, in quanto fa esplodere tutte le sue contraddizioni: la molteplicità e l’unità, l’imputazione della sovranità e l’esercizio della sovranità, il potere prodotto dalla forza e il potere prodotto dal consenso, la politica come “tempio della vita di gruppo” e la politica come piazza, la politica fondata sui valori borghesi e la politica fondata sulla sensibilità epidermica delle masse, la secolarizzazione e la 121

Pensare la politica

razionalizzazione della vita e la necessità dell’elemento sacro della politica, l’interesse privato, il bene comune e la sfera pubblica. Sono situazioni di conflitto che si determinano attorno al nodo della rappresentanza e che si ripetono nella storia moderna mettendo in crisi le funzioni della politica o facendole regredire ad un rapporto diretto fra il capo e le masse, riproducendo una sovranità di tipo primitivo legata al fascino del carisma. Un primitivismo che nasce dal fatto che né l’idea di popolo, né l’idea di massa sono facilmente traducibili in termini di rappresentanza politica capace di formare una gerarchia funzionale alla vita di gruppo. È il rinascere di primitivismo all’interno dell’estrema razionalizzazione formale della costituzione politica che suggerisce a Max Weber la formula della “democrazia plebiscitaria”, capace di sciogliere l’apparato burocratico che blocca la politica moderna e di coniugare la rappresentanza delle masse con un vertice decisorio, responsabile ed elettivo: il capo e le masse. Secondo Weber la democrazia plebiscitaria ristabilendo una collocazione democratica, unitaria e responsabile della sovranità sostanziale, pur nell’ambito delle garanzie costituzionali, avrebbe potuto superare le strettoie di una politica burocratizzata e in qualche modo “senz’anima”. Nella sovranità si concentra l’aspetto simbolico-religioso della politica. Essa si afferma e va in crisi con la forza e la debolezza della politica. È il valore supremo che può raggiungere la politica e il massimo principio di unificazione del gruppo, sia che essa si concentri sull’idea di popolo, su quella di nazione o quella di Stato. Le diverse idee le danno diverse colorazioni, ma la funzione che essa compie è la medesima. La sovranità è dunque un principio politico, è la concentrazione delle energie della collettività in un vertice che dà ad essa senso e indirizzo nell’azione collettiva. Trovare le ragioni di questa forza ed efficacia della sovranità non è semplice. Forse ha ragione Simmel quando ci riporta all’antica Grecia e alla funzione di rappresentazione e concentrazione di virtù umane che avevano gli dei. Gli antichi, dice Simmel, creavano gli dei “sublimando le qualità che trovavano in se stessi” e dunque istituendo una sovranità superumana, per poi trarre da essa “sia una morale, sia la forza di praticarla”. Per questo, rimanendo ad un livello umano e di primato che la sovranità rappresenta nell’ordine politico, è difficile decidere a chi la sovranità vada imputata nell’ordine democratico, considerando anche le contraddizioni di cui s’è detto. Georg Burdeau scrive che i dibattiti ai quali ha dato luogo la nozione di sovranità passano, a giusto titolo, fra i più spinosi del diritto pubblico. C’è chi ci vede un attributo tipico dello Stato, chi la con122

Autorità, legittimità, sovranità

sidera come riferita alla forza preponderante all’interno di un gruppo, chi infine la ritiene come un’idea-forza o un’immagine capace di creare l’unificazione del gruppo. In ogni caso, per molti aspetti, la sovranità resta “una nozione misteriosa” (Burdeau, 1980, p. 297). Riferendola al concetto di società politica, questa nozione risulta forse meno misteriosa. È indubbio che dalla dinamica della società civile finiscono per emergere potenti idee o gruppi dominanti che rappresentano poi la forza a fondamento del rapporto politico. E per la politica “il mezzo decisivo è la forza”, come scrive Weber (Weber, 1966, p. 110). È questa forza che dà poi forma e senso all’ordinamento politico cercando di ottenere il consenso. Perciò nell’ordine democratico la sovranità popolare, che di fatto fa velo alle possenti forze che emergono nella società civile, manifesta tutta la sua debolezza. Il popolo raffigurato dalla democrazia moderna, resta un’entità indeterminata nella molteplicità degli interessi e delle tendenze che vi si manifestano. Questo concetto, scrive Rosanvallon, “non ci riporta ad una evidenza sociologica sulla quale possa fondarsi l’imperativo della sovranità del popolo. La difficoltà proviene dal fatto che questo popolo non possiede chiaramente una forma” (Rosanvallon, 1998, p. 18). Di qui anche l’enorme difficoltà di tradurre la sovranità popolare in azione politica. Quale è, su questa base, l’elemento decisore sul quale si concentra in ultima istanza la sovranità popolare? Su questo interrogativo si sono accese tutte le discussioni dei giuristi. A chi va imputata una sovranità effettiva ed efficace, che sia portatore dello spirito della sovranità popolare? Si ripresenta qui dunque la distinzione fra sovranità formale e sovranità sostanziale. La sovranità sostanziale si è pensato di attribuirla ad un potere costituente, ma questo concetto è indeterminato e ambiguo perché può significare attribuire la sovranità a un potere demiurgico, capace di creare la sintesi fra l’uno e i molti, un potere che non esiste se non come potere mitico delle origini; può significare addirittura introdurre una versione secolarizzata del potere divino. Inoltre creare un ordine senza esservi sottomessi non può essere una caratteristica della sovranità nelle nostre democrazie. Da questo principio inaccettabile derivano però due versioni: quella di H. Kelsen che individua la sovranità nella norma fondamentale (Grundnorm), che sostiene la costituzione e che deriva dalla realtà del sociale, e dunque in un elemento giuridico e oggettivo e quella di Carl Schmitt che attribuisce la sovranità a chi è in grado di decidere dello stato di eccezione e dunque in un elemento soggettivo. Lo stato di eccezione diviene decisivo per la stessa norma e per lo stato normale. “Tutta la costruzione formale e oggettiva 123

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del potere – scrive Giuseppe Duso – rivela allora, per la sua genesi e il suo funzionamento, un’anima di soggettività e di decisione, che non è immediatamente ravvisata in quella razionalità formale, ma che è ciò che rende quella razionalità possibile, ciò che rende possibile parlare di norma e di normalità” (Duso, 1999, p. 142). “La situazione eccezionale – nota Freund – si caratterizza per il fatto che essa sfugge alle norme, è proprio questo che le conferisce un carattere di eccezione”. E per di più è necessario che si controlli l’eccezione affinché “l’ordine gerarchico ritrovi il suo senso”. Perciò la situazione eccezionale non richiede di far riferimento alle norme ma di prendere una decisione e, in funzione di questa rientrano in gioco tutti elementi non giuridici, di ordine politico, economico, religioso e scientifico. Si comprende come, nota ancora Freund, Kelsen, affrontando il problema della sovranità e ragionando in termini di norme preesistenti, abbia potuto dichiarare che “il concetto di sovranità dovrebbe essere radicalmente abbandonato”. “Egli non era che un giurista puro per il quale non è lo Stato che è sovrano, ma solo il diritto.” (Freund, 1987). Il discorso di Georges Burdeau è più complesso. Per lui il sovrano si pone al di sopra di ogni statuto costituzionale e non è vincolato da quest’ultimo. Egli lo crea ma non gli deve nulla, anche se, potremmo obiettare, gli deve la trasformazione formale del potere in sovranità, la trasformazione di una posizione soggettiva in una posizione oggettiva che, nell’immaginario collettivo, rappresenta, sintetizza e simboleggia l’intero gruppo. Comunque il segno essenziale di questa sovranità è il possesso del potere costituente. In effetti il sovrano detiene “il controllo dell’idea di diritto che serve da principio direttivo alla vita dello Stato e alla scelta dei governanti” (Burdeau, 1980, p. 301). Sovrano perciò è colui che ha il controllo assoluto dell’idea di diritto che costituisce la società politica. Sovrano, scrive Burdeau, “è colui che decide quale è l’idea di diritto valida nella collettività. Può essere un individuo… può essere anche una classe della nazione, come avviene nei regimi oligarchici, può essere la nazione tutta intera come decise la filosofia politica del XVIII secolo. In ogni caso, quale che sia il titolare della sovranità., il suo carattere sovrano consiste nel fatto che è padrone assoluto dell’idea di diritto che agisce nel gruppo politico” (Burdeau, 1982, pp. 6465). In questo senso la sovranità è la personalizzazione di un’idea-forza nella quale si ritrovano la necessità storica, la capacità di chi detiene il potere e le condizioni essenziali di una cultura. L’idea di diritto, e dunque, per dirla con Ferrero, il principio di legittimità 124

Autorità, legittimità, sovranità

che fonda la sovranità, deriva, scrive Burdeau “dalla considerazione di un ordine sociale desiderabile, essa è imposta da una determinata rappresentazione del futuro”. La sovranità “è una forza che nasce dall’insieme delle circostanze storiche o nazionali in cui si trova impegnata la comunità politica in una certa fase della sua esistenza. La sovranità va alla forza politica preponderante e sarà sua caratteristica di non dipendere, quanto alla sua esistenza, da nessun ordine giuridico prestabilito che faccia di essa una nozione esclusivamente politica. Non c’è uno statuto di sovrano come c’è uno statuto dei governanti; c’è un fatto: la potenza di un uomo o di una collettività che, padroni di decidere quanto all’avvenire del gruppo sono perciò padroni di tutto l’ordinamento giuridico” (Burdeau, 1980, pp. 306-7). E riporta di seguito una frase di Jurieu a proposito della rivoluzione inglese, per cui “l’autorità non ha bisogno di aver ragione per convalidare i suoi atti”. Il tema della sovranità è oggi più che mai attuale. La crisi della politica, lo sviluppo dei poteri sociali, la trasformazione dello Stato-Nazione e infine i rapporti tra lo Stato e gli organismi internazionali evidenziano le difficoltà di usare il concetto di sovranità nel senso che esso ha avuto in passato. Quale ruolo ha oggi la sovranità nelle trasformazioni della politica? “Bisogna partire dal carattere indeterminato e problematico della politica moderna – scrive Rosanvallon – per pensarla, e non cercare di superare questa indeterminazione con una imposizione di normalità, come se una scienza pura del linguaggio potesse fornire agli uomini una soluzione ragionevole alla quale essi non dovrebbero che conformarsi” (Rosanvallon, 2000, p. 34). Una serie di elementi affermatasi nella politica interna e internazionale degli ultimi decenni impongono una riconsiderazione della sovranità. Tra questi: a) lo sviluppo dei processi di globalizzazione e i più intensi rapporti di interdipendenza tra gli Stati; b) una crescente soggezione dell’ordinamento giuridico interno alle direttive di organismi internazionali che pure gli Stati contribuiscono a creare e a sostenere; c) la sempre maggiore affermazione di autonomie locali; d) il disfacimento dell’ordine gerarchico della società borghese sotto la pressione, in senso orizzontale, dei poteri sociali. Potrebbero sembrare questi problemi puramente politici o di potere ma sono in realtà problemi di società e di cultura che impediscono la funzione di unificazione e di ordine gerarchico della politica e dissolvono i valori della sovranità costruiti dal regime borghese, senza che emergano possibili alternative. Per questo la sovranità sembra essere storicamente un attributo particolare del potere che lo eleva da posizioni di parte a potenza 125

Pensare la politica

suprema in quanto lo coniuga con i valori di una cultura e lo identifica con l’oggettivazione del gruppo. Ecco perché il problema della sovranità si propone tutte le volte che cambiano i valori sociali, tutte le volte che si allarga la base della piramide sociale e le forme sociali divengono più complesse. Questo significa rimettere in questione ogni gerarchia; significa che la precedente formula della sovranità non è più capace di creare una “political community”, che essa rientra nel gioco delle contingenze sociali e diviene una sovranità negoziata, senza spessore e senza predominio indiscusso: si affermano forze che la possono rimettere in gioco ogni momento mettendo in crisi i suoi attributi. Una delle ragioni dell’indebolimento della sovranità sta dunque nel fatto che, mentre si è costantemente richiamata, giuridicamente o politicamente, la sovranità dello Stato, la sovranità democratica moderna si è sempre più legata alle vicende della società civile; si è immersa in queste vicende e ne ha seguito i contraccolpi, fino alla demolizione di parte della gerarchia politica, fino alla disfunzione dei meccanismi del consenso, alla dissacrazione di molte forme di autorità. La sovranità si è sottoposta non più soltanto all’ordine giuridico che essa ha creato, ma ora anche all’ordine sociale che essa ha voluto instaurare, cioè, nel suo ultimo sviluppo, la società dei consumi, il Welfare State, la società dell’informazione e la società globalizzata. Come l’apprendista stregone, essa non è stata più in grado di controllare le forze che ha messo in moto e soprattutto, nella frammentazione della vita mondana, ha perso quella sacralità che le assicurava il riconoscimento dell’intero corpo sociale. Numerosi autori hanno recentemente cercato di chiarire il senso di una nuova sovranità, così come si profila in ordine ai mutamenti che abbiamo sopra descritti. Tra questi il francese Bertrand Badie sostiene che i sistemi politici non sono sovrani né per principio né per necessità. L’idea di sovranità, scrive Badie, non è stata chiara che per quelli che ne facevano la causa dei loro sacrifici e per quelli che, più prosaicamente, vi hanno trovato dei vantaggi. La sovranità è stata lì a testimoniare che lo Stato ha goduto di un potere illimitato, creando proprie leggi e un proprio ordine sociale senza dover rendere conto a nessuno. Perciò sovranità e potenza appaiono legate fra loro e la seconda è la premessa per l’affermazione della prima. La sovranità perciò, continua Badie, “è finzione nel senso più pieno del termine”, ha caratterizzato un percorso storico che è giunto al termine, andiamo verso un mondo senza sovranità (Badie, 1999). È ancora utile oggi questo concetto, si chiede Badie, in una scena mondiale in cui si mol126

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tiplicano le interdipendenze socio-economiche? “Delocalizzazione delle imprese, flussi finanziari, comunicativi e migratori non obbediscono più alla grammatica della sovranità, anche se non segnano la morte dello Stato”. Un’idea diversa sulla mutazione della sovranità è espressa da Tom Burns e da Saskia Sassen, per i quali la dinamica della società e della politica moderna¸ la pluralità dei soggetti che agiscono in quella che viene definita global governance o all’interno degli Stati, la demolizione di una rigida struttura gerarchica del potere ci spingerebbero piuttosto a parlare di una sovranità diffusa e ripartita fra lo Stato e gli altri poteri nazionali e internazionali (v. Burns, 1994 e Sassen, 2000). Ancora più decisi in questo senso quanti, prevedendo la “fine dello Stato”, vedono di conseguenza il concetto di sovranità come concetto obsoleto e appartenente ormai ai simulacri della società politica (v. Hobsbawm, 2007). Ai primi si potrebbe obiettare tuttavia che una “sovranità diffusa” è un non senso che vuole salvare un concetto distorcendone il significato, mentre ai secondi c’è da ribattere che non siamo alla fine storica dello Stato sovrano ma al mutamento delle sue funzioni di fronte alla complessità delle relazioni internazionali e alla molteplicità di poteri sociali che si manifestano all’interno degli spazi nazionali. Nella vita internazionale è sempre lo Stato che creando e sostenendo relazioni e poteri sovranazionali vi si sottopone, ma potrebbe sottrarvisi. Così all’interno la sua funzione è oggi più quella di regolazione e di arbitraggio fra poteri sociali che quella di iniziativa diretta e cogente. Lo Stato tuttavia resta pur sempre il luogo della decisione ultima che non può escludere la sovranità. In sostanza si tratta di una molteplicità di relazioni sia interne che internazionali che trasformano lo Stato in un centro più che in un vertice. Si tratta quindi di una sovranità negoziata per singoli settori e con singoli poteri che tuttavia devono allo Stato la loro esistenza e la loro possibilità di limitare e di negoziare. La tesi della fine della sovranità legata allo Stato nazionale territoriale sembra compiere lo stesso errore che si è compiuto con la tesi della “fine delle ideologie” o “fine della storia”. È tramontato un tipo di ideologia, non le ideologie, che sono tuttora moneta corrente delle nostre società. Forse assistiamo oggi non alla fine della sovranità ma alla sua metamorfosi, necessariamente connessa con le mutazioni della società politica. La sovranità viene volutamente negoziata con istituzioni e forze che devono allo Stato la loro esistenza e la loro capacità di imposizione. Ponendosi dal vertice al centro di un sistema planetario di poteri, lo Stato si è trasformato e indebolito ma ha conservato la capacità di gestire in maniera più fluida e 127

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elastica il potere di fronte ad una molteplicità di soggetti la cui esistenza è pure vitale per lo sviluppo della modernità. D’altra parte allo Stato più debole fa da contrappeso un governo più forte. Alla rigidità di una istituzione destinata a dare continuità e certezza alla vita collettiva si contrappone una maggiore possibilità di gestione di una realtà più complessa e articolata che richiede decisioni e interventi capaci di fronteggiare rapidamente gli eventi.

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III Il potere ideologico

1. L’ideologia e la sua storia Ogni società, ogni sistema politico si regge sulla tradizione, sui valori, sugli ideali e sull’immaginario collettivo che lo sostengono e lo giustificano. Per questo l’ideologia è al centro dell’universo politico moderno. Aprendosi la politica dalla forza al consenso e non amando gli uomini il sentirsi dominati da altri individui, se non in condizioni di estremo pericolo, gli ideali, le idee, i progetti forniscono il punto di riferimento del consenso e costituiscono perciò, come si è visto, ciò che è più propriamente politico nella politica. Il potere ideologico è perciò la capacità di controllo e di gestione di questo sistema di guida dell’agire politico. Una collettività non può sentirsi unita solo sugli interessi e sulla soddisfazione di bisogni materiali. Questi sono legami provvisori e instabili. Ciò che determina la durata e l’intensità della vita di gruppo risiede nei sentimenti di appartenenza e, come notava Durkheim, nei principî morali che ne derivano. L’ideologia è quindi costituita da un insieme di valori, di proiezioni ideali, di dottrine che costituiscono le idee-guida che determinano il comportamento politico degli individui e dell’azione politica dei gruppi che detengono il potere o aspirano ad esso. Anche se presenta una visione ideale di società che non si realizzerà mai, l’ideologia produce una grande forza di attrazione e di coesione, uno schema di riferimento e di controllo all’interno del gruppo che in essa si riconosce. Essa non è una costruzione arbitraria dell’immaginazione ma nasce come proiezione ideale di bisogni materiali e immateriali che gli individui di una data epoca e civiltà avvertono con maggiore insistenza. Nell’ideologia si proiettano i desideri, le insoddisfazioni e le evasioni dalla “pressione della realtà”, creando una forma di sublimazione completa e compensatoria che, al tempo stesso, produce e129

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nergia creativa di mutamento sociale. In modo più sintetico si può dire che l’ideologa politica è un progetto di società fondato su valori condivisi che spiega il passato, interpreta il presente e progetta il futuro nel tentativo di indirizzare l’agire collettivo verso la realizzazione di un modello di società. I grandi ideali che guardano al futuro sono dunque una importante molla nella costruzione del consenso, nel sostegno dell’agire politico e nella legittimazione di gruppi politici che detengono il potere o che aspirano ad esso. Sono al tempo stesso potenti strumenti nelle mani di chi detiene il potere per manipolare la realtà, gestire l’immaginario collettivo e l’emozione delle folle, sia in senso positivo, mobilitando l’azione collettiva verso ideali e valori, sia in senso negativo, fino a provocare le più grandi tragedie dell’umanità come l’olocausto (v. Bauman, 1989). Questo avviene quando l’etica della convinzione arriva a espressioni radicali attivando odi e violenze. Ma l’ideologia non può essere ridotta solo a falsa coscienza e strumento di manipolazione delle masse. Essa è anche uno strumento di controllo della rappresentanza e della legittimità del potere, e nelle democrazie permette, nella sfera pubblica, un confronto costante e civile fra le scelte ideologiche e le loro capacità di soddisfare i bisogni della collettività. La necessità del legame ideologico e della sua forza creatrice si avverte ogni volta che la politica è ridotta alla gestione del presente, all’economicismo e alla contingenza. Viene a mancare lo slancio vitale che ci apre la visione del futuro. Non vengono meno le ideologie ma spesso si riproducono in forme primitive e radicali come fondamentalismi religiosi, localismi, razzismi e nelle varie forme di populismo che allettano il popolo per mascherare interessi di parte. Sono forme che emergono nelle degenerazioni della democrazia, che si è visto essere un legame ideologico debole, laddove, come scriveva Nietzsche, “l’eroe esce di scena e al suo posto subentra l’attore”. E così i sentimenti morali regrediscono nella violenza fondatrice. Un sistema politico ha perciò bisogno di fondarsi su un patrimonio ideale, che comprende una tradizione di convivenza, spesso identificata nella “cultura” o nella “nazione”, su valori pro-tempore significativi e su un progetto per il futuro capace di ispirare l’azione collettiva, giustificare l’ordine gerarchico e la società politica. Il potere ideologico, che trova il suo limite nella capacità dell’opinione pubblica e degli intellettuali di smascherare la manipolazione, consiste nella gestione di questo patrimonio ideale, che serve alla percezione dell’unità e dell’identità, e che è spesso usato per ‘far credere’ o ‘far apparire’. In base a quanto detto, l’ideologia assolve nell’universo politico le seguenti funzioni: a) di rappresentare l’idea-guida, lo schema di riferimento 130

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e il principio di identificazione del gruppo che in essa si riconosce; b) di indirizzare l’azione collettiva verso un progetto di società che costituisca la soluzione ideale ai bisogni e alle carenze dell’esperienza presente; c) di essere strumento di conoscenza, di comunicazione e di rappresentazione fra i diversi strati della società; d) di costituire uno strumento di legittimazione ma anche di controllo della rappresentanza politica; e) di essere, in senso opposto, per la classe governante, la cinghia di trasmissione del consenso, di supporto e giustificazione dell’azione del potere. Fra i concetti dell’analisi politica non ce n’è forse un altro che sia così controverso e così discusso come quello di ideologia. Molti autori, specialmente nella tradizione tedesca, lo usano solo nell’accezione più negativa, sulle orme del marxismo, come distorsione della realtà a vantaggio del potere e come falsa coscienza; altri intendono sostituirlo con il termine “rappresentazione collettiva”, più rispondente, secondo loro, alla politica in un regime di massa (v. Moscovici, 1999); altri ancora lo utilizzano in senso neutro, e come tale qui viene utilizzato, considerandolo un progetto di società fondato su valori condivisi. Se come termine la parola ideologia è di conio moderno e significa semplicemente “scienza delle idee”, il concetto che esso esprime si ritrova, anche se embrionalmente, in tutta la storia delle idee. Coniato da Destutt de Tracy all’inizio dell’Ottocento il termine ideologia fu adottato dalla corrente illuministica degli “Idéologues” che voleva empiricamente depurare dai pregiudizi e dalle distorsioni della realtà i contenuti della coscienza, la formazione delle idee e l’uso del linguaggio. Anche Napoleone partecipò inizialmente agli interessi degli “Ideologi”, successivamente però volendo imporre un nuovo ordine politico non potè più accettare la critica demolitrice dell’età rivoluzionaria. Chiuse allora la classe di scienze morali e politiche dell’Istituto al quale facevano capo gli “ideologi” e nel 1812 assunse nei confronti dei cultori di quella “tenebrosa metafisica” un atteggiamento decisamente ostile e fortemente critico delle loro tesi. Successivamente furono Marx e Engels a descrivere come ideologia le idee dominanti, cioè le “idee della classe dominante”. La classe, scrive Marx, “che rappresenta il potere materiale dominante della società, rappresenta in pari tempo anche il suo potere spirituale dominante… Le idee dominanti non sono niente altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti sotto forma di idee; dunque i rapporti che rendono una classe dominante, dunque i pensieri del suo dominio”. La storia dell’ideologia rappresenta dunque per Marx la storia dell’alienazione umana (v. Mon131

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gardini, 1968, p. 53 e segg.). Di ideologia si parlerà poi in varie forme e in vari termini, dal mito di Sorel, alle derivazioni di Pareto, alla formula politica di Gaetano Mosca. Un chiarimento concettuale ci è venuto successivamente da Karl Mannheim, con il suo libro Ideologia e utopia (v. Mannheim, 1965). Mannheim associa le ideologie al pensiero conservatore perché la mentalità ideologica, anche quando si orienta “verso oggetti che sono estranei alla realtà e che trascendono l’esistenza attuale, finisce nondimeno per concorrere al consolidamento dell’ordine delle cose esistenti”. Inoltre, sebbene esse “si presentino spesso come giuste aspirazioni”, il loro significato “viene molto spesso deformato”. È solo all’utopia che si possono associare le intenzioni di modificare il presente. “Anche le utopie – scrive Mannheim – trascendono la situazione attuale, in quanto orientano la condotta verso elementi che la realtà presente non contiene affatto. Ma esse non sono ideologie, non lo sono nella misura e fino a quando riescono a trasformare l’ordine esistente in uno più confacente con le proprie concezioni”. Mentre le ideologie restano dentro la razionalità storica, le utopie la trascendono, rappresentano il non luogo, e quindi sono fattori di reale trasformazione (v. Mongardini, 1968, p. 132 e segg.). Un’altra interessante distinzione di Mannheim riguarda ideologia totale e ideologia parziale, alla quale ultima appartiene anche l’ideologia politica. Noi siamo figli del nostro tempo. Siamo quindi immersi fin dalla nascita in forme culturali, in una gerarchia di valori, di modi di pensare, di immagini e rappresentazioni che, come un fiume in piena, ci trascinano con sé e non possiamo che guardare la realtà con le lenti che la nostra epoca, il mondo nel quale viviamo, ci ha fornito. L’ideologia totale è dunque come l’aria che respiriamo e che non possiamo non respirare; è l’aria del nostro tempo che ci forma in un certo modo, ci dà certi valori, ci insegna come valutare certi fenomeni. All’interno poi di questo contesto culturale totale nel quale siamo immersi si formano punti di vista sulla realtà, dipendenti per esempio dalla nostra condizione sociale o dalle nostre esperienze o dalle convinzioni che ci siamo fatte. Sono queste le ideologie parziali, sono queste anche le radici delle nostre ideologie politiche, che ci spiegano la realtà e ci danno una identità che ci permette di agire come soggetti politici. Le ideologie politiche sono perciò il prodotto di una situazione reale all’interno di una cultura e di una posizione particolare all’interno della società. Rappresentano bisogni reali singoli e collettivi. Perciò i gruppi politici si formano su visioni e progetti di società, se ne fanno portatori e richiedono il consenso su di essi. 132

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2. Il bisogno di credere L’uomo, per Pareto, è un “animale ideologico”. Il bisogno di credere fa parte della sua natura, conferma Norberto Bobbio. Il bisogno di credere è il bisogno di certezze su tutto ciò che ci circonda specialmente oggi che, con la globalizzazione, l’orizzonte della realtà significativa si è enormemente allargato. Il campo della nostra esperienza è al confronto estremamente ridotto. Abbiamo bisogno di avere fiducia, di affidarci a chi sa, a chi conosce, a chi interpreta, alle grandi idee o alla metafisica che ci spiegano il mondo sensibile o il mondo ultraterreno. Il mondo è più complesso, gira vorticosamente e credere è più semplice che pensare: il primo è “pensiero indiviso”, il secondo è “pensiero riflesso”. Per le nostre scelte, per le nostre azioni abbiamo bisogno di basi salde, di credere negli eventi, nelle cose, negli altri ma anche in noi stessi. Per questo attingiamo alla cultura, al senso comune, all’immaginario collettivo. Il meccanismo del credere è alla base delle fedi, delle ideologie, della fiducia, di atteggiamenti e comportamenti (v. Legrenzi, 2008). Il fascismo aveva esaltato la forza del credere nel suo slogan “credere, obbedire e combattere”. Le credenze sono dunque forme pre-religiose e pre-politiche collegate a legami inconsci come le emozioni e queste forme producono comportamenti radicali che vanno dagli atti di eroismo alle azioni più nefande. Il rifiuto dell’incertezza porta ad un distacco dalla realtà, a un “salto della realtà”, come diceva Freud, a una super-fiducia in ciò che si crede, dal quale nascono i fondamentalismi. Si giustificano così la teatralizzazione, l’esaltazione e la demonizzazione delle folle che portano gli individui a comportamenti al di sopra o al di sotto del normale livello di razionalità. C’è perciò una fisiologia e una patologia del credere, la quale porta al fanatismo o, all’opposto, allo scetticismo radicale. D’altra parte non è immaginabile poter vivere senza credere, ma il credere ci porta su un altro terreno rispetto a quello della conoscenza, che è dubbio, relatività, esperimento. Lo scienziato dice io cerco. Quando poi dice io so, si pone su un altro piano. Diventando possesso la scienza diventa potere, mitizza se stessa e diventa ideologia della scienza, della quale si serve la politica contemporanea. Allora la scienza si trasforma in concezione del mondo e si pone su un pian diverso da quello della ricerca. La fede in ogni caso è importante perché rompe i limiti dell’ economicità del quotidiano e spinge verso le grandi azioni. Ma la fede è totalità mentre la conoscenza scientifica è relatività. Ci può essere dialogo ma

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non congiunzione fra l’un campo e l’altro. Non c’è ponte, come è stato scritto, che porti da ciò che è a ciò che deve essere. La scelta è una scelta di probabilità, che non nega altre scelte, tuttavia “chi vuole lo spettacolo vada al cinema, chi vuole la predica vada in convento”, come ha scritto Max Weber. Studiare i meccanismi dei fenomeni ideologici significa muoversi nei territori del credere: una forma di conoscenza che fissa gran parte della realtà attorno a noi per darci quel grado di certezza e di sicurezza che ci permette di operare con qualche probabilità di ottenere i risultati sperati. 3. Il pensiero ideologico. Ideologia e verità Il pensiero ideologico è come si è detto pensiero indiviso fondato sulla necessità o sulla convinzione. La necessità deriva dal fatto che il campo delle nostre conoscenze dirette è molto limitato e per gran parte della realtà ci affidiamo ad altri, a fonti di informazione, a persone nelle quali abbiamo fiducia e che acquistano per noi significato oggettivo nel fissare la realtà secondo certi principî. La convinzione riguarda invece i valori e i significati che assegnamo alla realtà della quale abbiamo esperienza o veniamo a conoscenza. Le convinzioni, questi principî dogmatici che diventano metri di valutazione, hanno influenza decisiva sulle nostre azioni. È ovvio perciò che il potere abbia grande interesse a utilizzare e diffondere queste convinzioni e a far apparire in un certo modo, ad attribuire un certo significato alla realtà. Come scriveva Machiavelli “lo universale degli uomini si pascono così di quel che pare come di quello che è: anzi molte volte si muovono più per le cose che paiono che per quelle che sono” (Machiavelli, 1938, II, p. 169). Di qui anche la funzione della menzogna in politica per travisare i fatti, per “far apparire”, per provocare nelle masse reazioni istintive e emozionali (v. Cedroni, 2010). Quelle che Pareto chiamava “derivazioni”, cioè insieme di ragionamenti atti a diffondere o consolidare una certa dottrina, non sono che elucubrazioni per costruire una logica interpretativa della realtà. Del resto lo aveva già illustrato Tocqueville, il quale aveva sottolineato l’importanza della funzione sia conoscitiva che valutativa delle “credenze dogmatiche” e l’uso che ne fa il potere. “Se io considero l’uomo isolatamente, – scrive Tocqueville – trovo che le credenze dogmatiche non gli sono meno indispensabili per vivere solo che per agire insieme ai suoi simili. Se l’uomo fosse costretto a dimostrare a se stesso tutte le verità di cui si serve quotidianamente, non finirebbe mai; egli si perderebbe in dimostrazioni preliminari senza proseguire, poiché non avrebbe il tempo, a cau134

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sa del corto spazio della vita, né la facoltà, a causa della insufficienza del suo spirito, di agire; così è costretto a tenere per sicuri una quantità di fatti e di opinioni che non ha avuto agio né possibilità di esaminare e verificare da sé, ma che altri, più abili, hanno trovato e che sono adottati dalla massa. Su questo primo fondamento egli eleva l’edificio dei suoi pensieri. Non vi è al mondo un filosofo tanto grande che non creda un’infinità di cose sulla fede altrui e che non supponga molte più verità che non ne stabilisca” (Tocqueville, 1953, II, pp. 14-15). Non vi è società, scrive ancora Tocqueville sulle credenze dogmatiche, sulla loro funzione come “pensiero indiviso” e come efficacia propulsiva dell’azione, “che possa prosperare senza simili credenze e piuttosto non ve ne è alcuna che sussista così, poiché senza idee comuni non vi può essere azione comune, e, senza azione comune vi possono essere ancora degli uomini, ma non un corpo sociale” (Ivi). Dopo Tocqueville, un altro grande storico francese, Hippolyte Taine, ci offre nella sua opera storica una profonda analisi delle ideologie, dimostrando la loro forza, la loro efficacia, il fatto che nulla può la ragione contro la fede e che una fede perciò può essere sostituita solo da un’altra fede. Le ideologie non sono invenzioni né artefatti, ma prodotti delle condizioni sociali degli uomini. “Quando parlate ad uomini in tema di religione o di politica, quasi sempre la loro opinione è fatta; i loro pregiudizi, i loro interessi, la loro situazione li ha già accaparrati; vi ascoltano solo se dite a voce alta quello che essi pensano in silenzio” (Taine, 1907, II, p. 88). Le convinzioni rispondono sempre ai grandi ideali che riescono a far leva sulle emozioni e sui sentimenti spingendo l’individuo all’azione. “L’umanità – scrive – non è così egoista né così grossolana come si crede. Un istinto segreto la porta verso le figure ideali; quando ella crede di vederne una cade in ginocchio” (Taine, 1902, p. 279). Il patrimonio di osservazioni della storiografia francese e del pensiero sociale dell’Ottocento sulle ideologie viene ripreso da Vilfredo Pareto nelle sue analisi sugli ideali, le fedi, le fedi politiche e sui rapporti fra fede e scienza, specie ne I sistemi socialisti (1902) e nel Trattato di sociologia generale (1916), a proposito di quelle che chiama “derivazioni” (v. Bobbio, 1957). Un importante elemento che Pareto introduce nell’analisi delle ideologie, e in genere di ogni dottrina, e che qui ci interessa in modo particolare, è la distinzione fra verità, utilità e efficacia che esse possono avere. La verità si riferisce al loro contenuto logico-sperimentale, cioè al loro rigoroso accordo con i fatti, l’utilità alla funzione che esse possono svolgere in un corpo sociale, vere o false che siano le sue asserzioni. Il problema che comunque ci si dovrà sempre porre 135

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in termini di utilità è: “utile alla società?”, oppure “utile a chi?”. Utile alla società può significare principalmente utile a rafforzare il legame sociale oppure utile a conseguire fini di bene comune. Altrimenti vi potrà essere un utile per i governanti, per rafforzare il loro potere o un utile per i governati nel senso di rafforzare la loro capacità di difesa nei confronti del potere. “La verità sperimentale di una teoria – scrive Pareto – e la sua utilità sociale sono cose diverse. Una teoria vera sperimentalmente può essere utile – o dannosa – alla società, e tale può essere una teoria falsa sperimentalmente” (Pareto, 1963, par. 249). Il distacco dei due piani di giudizio deve essere assoluto. Ove affermo, scrive ancora Pareto, l’assurdità di una dottrina, “non intendo niente affatto affermare implicitamente che è nociva alla società; anzi può essere utilissima. Viceversa, ove affermo che una teoria è utile alla società, non intendo per nulla affermare in modo implicito che è vera sperimentalmente” (Pareto, 1963, par. 73). In Francia, un contemporaneo di Pareto, Maurice Millioud, esprimeva lo stesso concetto. Le idee “hanno un valore logico, che è la loro verità, e un valore psicologico, che produce la loro azione, e la loro verità non è la misura della loro azione, quanto la loro azione non è la misura della loro verità” (Millioud, 1908). Dunque i criteri applicabili per giudicare una teoria sono diversi. Dal punto di vista scientifico “una teoria che si discosti dai fatti è da respingere, mentre diverso è il punto di vista che considera la sua efficacia, cioè i sentimenti che essa è capace di suscitare negli uomini”. “I libri sacri di tutte le religioni – scrive ancora Pareto – traggono valore non dalla loro precisione storica, ma dai sentimenti che possono evocare nel cuore di coloro che li leggono; e l’uomo che, afflitto dal dolore, invoca soccorso dalla religione, desidera non una dotta dissertazione storica, della quale non comprenderebbe nulla, ma parole di conforto e di speranza” (Pareto, 1927, p. 78). Il legame di una teoria con l’azione, cioè la sua efficacia nell’indurre l’uomo ad agire per realizzare gli ideali che essa presenta, sta appunto nelle emozioni e nei sentimenti che essa riesce a suscitare. I sentimenti appunto sono l’eterno presente dell’animo umano. Essi rappresentano la congiunzione di passato e futuro. Per questo nella struttura del pensiero ideologico e nelle forme che esso presenta occorre distinguere: a) un elemento mitico, legato al passato dell’umanità ma anche all’inconscio collettivo, all’uomo eterno che è presente in noi; b) la proiezione utopica, la speranza di poter realizzare nel futuro una “perfetta società” e con essa la “fine della storia”. Resta poi l’insieme dei ragionamenti che giustificano questa speranza, che vogliono convincere, che spiegano le insoddisfazioni del pre136

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sente e come sarà possibile arrivare dalla condizione presente a quel modello di società che dovrebbe realizzare i desideri umani. È quella parte dell’ideologia che Pareto definisce come: c) insieme di derivazioni. Queste rappresentano la terza componente del pensiero ideologico. Sulla base del rapporto mito-utopia esse interpretano il presente e indicano come è possibile trasformare la società. Se assumiamo come riferimento la parte ideologica del marxismo, il mito sarà rappresentato dal “ruolo liberatore dei ‘giusti’, dei ‘prescelti’, dei ‘puri’, le cui sofferenze sono chiamate a mutare le condizioni di vita del mondo” (Eliade, 1954 e Aron, 1955, p. 78); l’utopia è rappresentata dalla possibilità di arrivare a una società egualitaria, senza classi, nella quale “il dominio dell’uomo sull’uomo sarà sostituito dall’amministrazione delle cose” (v. Pareto, 1951); le derivazioni spiegano come dalla situazione attuale, per l’evoluzione dell’ordine economico e del processo storico, si raggiungerà questo tipo di società. Ciascuno di questi tre elementi dell’ideologia utilizza canali espressivi diversi: il mito si esprime attraverso i simboli, l’utopia si rappresenta attraverso immagini intellettuali e futuribili, le derivazioni attraverso il senso comune e le espressioni linguistiche più accessibili a tutti. Non si può concludere questa analisi del pensiero ideologico senza fare riferimento alla sua dinamica, che è strettamente connessa all’evoluzione dell’equilibrio sociale e politico generale. La diffusione o la crisi di grandi idee dominanti corrisponde sempre a modificazioni di quell’equilibrio e ad una trasformazione e riorganizzazione della vita degli uomini in società. Nuove forme ideologiche corrispondono sempre a bisogni profondi e perciò alla necessità della società di ricostruire su nuove basi i suoi riferimenti ideali. Perciò i periodi di transizione, di crisi, di rivoluzione, di cambiamenti profondi presentano una proliferazione di dottrine politiche. Sono intuizioni nuove che trovano la loro espressione in una nuova concezione del mondo e della natura umana. Attraverso le rappresentazioni ideali allora, spiega Paul Valéry, la società si eleva “dalla brutalità all’ordine”. Se la barbarie è “l’era del fatto, è necessario che l’era dell’ordine sia l’impero delle finzioni, perché non ci sono potenze capaci di fondare l’ordine sulla sola costrizione dei corpi mediante i corpi. Ci vogliono delle forze fittizie. L’ordine esige dunque la presenza di cose assenti…Si sviluppa un sistema fiduciario o convenzionale che introduce tra gli uomini legami e ostacoli immaginari i cui effetti sono del tutto reali e sono essenziali alla società” (Valèry, 1926). Le ideologie sono quindi le fondamenta dell’ordine, vivono nella massa e per la massa e rappresentano l’elemento catalizzatore dei gruppi sociali. Quando poi le idee fondatrici non sono più in correlazione con le 137

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condizioni di vita e finiscono col produrre più danni che benefici, quando l’instaurarsi di nuovi rapporti sociali produce un conseguente mutamento nella concezione della natura umana, allora le vecchie immagini della società, i vecchi quadri ideali, i valori che avevano accompagnato la forma sociale precedente si vanificano e perdono con il significato anche la loro funzione, mentre si pone alla nuova società l’esigenza di trovare una diversa rappresentazione di se stessa. 4. Il controllo della realtà Una delle funzioni dell’ideologia di fronte alla complessità dell’esistente è quella di assicurare il controllo della realtà e del suo percorso storico e di dare significato all’agire dell’attore sociale e politico. Ma l’orizzonte della tarda modernità è diventato molto complesso. Mentre in passato questa funzione di controllo era particolarmente sensibile sia per i governati, che attraverso le ideologie politiche potevano spiegare la realtà e il senso dell’indirizzo politico e al tempo stesso potevano controllare il comportamento dei loro rappresentanti, sia per i governanti che potevano utilizzare l’efficacia delle ideologie per far apparire la loro azione come rivolta a conseguire il bene comune, oggi si potrebbe dire che appare estremamente difficile costruire una dottrina fondata su valori capace di ottenere largo consenso e svolgere quelle funzioni. Si potrebbe dire allora che è finita l’era delle ideologie? Direi di no. Si potrebbe dire che siamo in un’epoca di transizione nella quale è difficile riferirsi ad una gerarchia stabile di valori sulla quale costruire un progetto di società. Da un potere puramente ideologico-politico, siamo passati ad un potere economico-tecnologico, la cui capacità di dominio si esprime nel controllo del mutamento e quindi nella continuità di una cultura del presente che basa la propria stabilità sulla forza convincente della razionalità economicistica. Oggi gli ideali più astratti della modernità, calcolo, efficienza, produttività, scienza, controllo del tempo e dello spazio, esprimono solo i residui più epidermici di ciò che era un’ideologia. La crisi ideologica non nasce perché mancano le ideologie ma perché quella dominante è incapace a svolgere le funzioni che le ideologie hanno svolto in passato. Essa «annebbia la percezione delle finalità e provoca una crisi di legittimità» (Rosanvallon, 1995, p. 8), i suoi valori si sono esteriorizzati e esteticizzati: da convinzioni morali sono diventati puri segni o simboli, ponendo fine alle ortodossie e a vere tensioni ideologiche. Nella tarda modernità non sono tramontate le ideologie. Si è esaurito un tipo di ideologia che con il concetto di società ha inventato il suo oggetto, dedicandosi poi alla 138

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costruzione di un progetto politico di controllo e di sviluppo di questo. Ciò ha portato via via al controllo economico e tecnologico, fino all’estrema astrazione con la quale si affida alla fluidità e alla mobilità del denaro il compito di costruire una società (come avviene con l’Euro per l’Europa) o di controllare e regolare una società globalizzata (come avviene per il Fondo Monetario Internazionale). Ma affidando l’unificazione e la regolazione della società al denaro, si scambia il simbolo con la realtà, il controllato con il controllore, si riduce la realtà al presente e si lascia la complessità del sociale nella più completa anarchia che sfugge a ogni unificazione e che precipita nel primitivismo e nel tribalismo. Sembra così di assistere al fallimento di un estremo tentativo della modernità di racchiudere la propria esperienza in una immagine unitaria e di controllo della realtà. In questo tentativo l’ideologia rinunciando alla storia nega se stessa e si rinchiude nel recinto del presente, legittimandosi come ideologia economicistica. Le condizioni ideologiche del nostro tempo si caratterizzano quindi per una trasformazione del fenomeno ideologico non per una sua estinzione. Se Marx con l’idea di una società senza classi, come nota Walter Benjamin, “aveva secolarizzato l’idea di tempo messianico”, oggi l’estrema secolarizzazione e razionalizzazione del significato della società ha portato alla perdita di questa idea e di ogni elemento di religiosità. La fine dell’idea e del senso della società, che ha accompagnato l’estinguersi delle vecchie ideologie, non ha però segnato, come voleva Marx, il passaggio dal potere dell’uomo sull’uomo al potere dell’uomo sulle cose ma, al contrario, l’affermazione del potere delle cose sull’uomo con il ritorno di mitologie pagane e l’estendersi di una condizione di alienazione. 5. Le condizioni ideologiche del nostro tempo Le trasformazioni ideologiche che caratterizzano la nostra epoca hanno come causa la fine del regime borghese, con i valori che lo caratterizzavano, e l’avvento del regime di massa, con il suo carattere edonista e utilitarista; l’emergere di una cultura che enfatizza il presente e la diffusione di una mentalità economicista e pragmatica, che è la nuova forma di pensare e di valutare la realtà, e quindi una nuova ideologia; la trasformazione del capitalismo in capitalismo finanziario globale, fondato sulla moneta elettronica e il controllo dello spazio attraverso la rete. Solo l’economicismo e il capitalismo finanziario potevano realizzare un tipo di globalizzazione che è di fatto una globalizzazione economica. La tendenza del capitalismo all’espansione glo139

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bale e al controllo globale ha raggiunto ormai alti livelli ma ha estromesso molti aspetti della vita individuale che non trovano spazio in una visione tutta materialistica del benessere sociale. La storia della modernità è stata anche la storia del progetto di estendere il controllo umano allo spazio, al tempo, alla natura e alla società. Attorno a questo progetto sono fiorite le ideologie sociali e politiche del nostro tempo ed esso ha dato loro la particolare tendenza non solo a rappresentare il sociale e il politico, ma a voler costruire una società e una politica. Questo volontarismo nasce già con l’Illuminismo ed è affascinato “dall’utopia dell’uomo nuovo”, da una speranza che trova forza nella vita collettiva e che finisce per trascurare gli aspetti più reali della condizione umana. Con una conseguenza importante: che la forza trainante della speranza legata agli ideali della modernità, e quindi la sua ideologia fondante, nega la possibilità di una qualunque alternativa ad essa. Di qui il paradosso che il trionfo della modernità nei suoi valori ideologici più astratti viene presentato come la fine delle ideologie e addirittura la fine della storia, creando le premesse di un triste risveglio. Oggi, ha scritto François Furet, “l’idea di un’altra società è divenuta quasi impossibile da pensare… Eccoci condannati a vivere nel mondo in cui viviamo. È una condizione troppo austera e troppo contraria allo spirito delle società moderne perché essa possa durare” (Furet, 1995, p. 572). Le ideologie sono allora ideologie sociali. Non sono più le “religioni politiche” dell’umanità e neppure le forze morali e solidaristiche che promuovono l’azione collettiva e l’orientano verso un progetto di società. L’ideologia contemporanea è semplicemente l’ “utopia capovolta” della quale parla Norbert Elias, una utopia tutta concentrata al presente, che si affida alla continuità e all’eternità del presente. Tutte quelle espressioni di religiosità e di solidarietà un tempo presenti nelle ideologie trovano oggi altri spazi, spazi per lo più ‘pagani’ e si proiettano contro la politica: costituiscono l’antipolitica. Sono economicismo e globalizzazione, ragione calcolante e capitalismo finanziario i riferimenti della nuova ideologia che si sovrappone alle differenze culturali e ai problemi sociali. Essa rappresenta l’estremo sforzo della modernità per il controllo di una società sempre più complessa. La globalizzazione segna un punto d’arrivo e la nascita di una nuova formazione sociale che supera il concetto di società in quanto: 1) Moltiplica ed estende i fenomeni di massa, poiché le masse più facilmente possono essere controllate. Ma l’ordine delle masse è riproduzione, è negazione di ogni azione creativa.

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2) Tende ad eliminare le differenze nazionali e culturali, uniformando l’azione sociale sui criteri dell’economia e sui prodotti della tecnologia. Ma oggi la tecnologia, a differenza del secolo precedente, non è più vista come sviluppo della forza fisica ma come sviluppo del calcolo e delle capacità combinatorie del cervello. 3) Tende a formare una nuova classe dominante a livello mondiale, di potere industriale-finanziario e di controllo tecnologico-mediatico della vita collettiva, così da far risaltare, sulla staticità sociale delle masse, la fluidità di un nuovo ordine finanziario, anonimo e senza frontiere. L’ideologia che supporta questa trasformazione assume il comportamento economico come metro di misura della realtà che permette il controllo delle masse in nome di una pretesa scienza. È perciò una ideologia totalitaria fondata su una razionalità astratta. Di fronte al ruolo sacro della scienza, che rappresenta uno dei valori portanti della nostra cultura, ci si dimentica persino dell’esistenza del potere. Con questa ideologia il capitalismo contemporaneo sviluppa un’idea di Marx secondo il quale l’economia è la sola scienza sociale che può raggiungere la dignità delle scienze naturali e fondare un nuovo ordine sociale. Focalizzandosi sul presente questa ideologia tende a realizzare altresì quel principio di Nietzsche per il quale “imprimere al divenire il carattere dell’essere è la prova suprema di potenza”. Se però si sviluppano queste premesse resta da vedere che cosa rimane della democrazia rappresentativa che ha fondato l’ordine politico moderno e del quale un ordine fondato sull’economia è l’antitesi. Resta a vedere che cosa rimane dei problemi sociali che si sottraggono ai principî dell’interesse e del calcolo; che cosa rimane della stessa borghesia, “l’altro nome della società moderna” dopo che essa ha orientato i significati del sociale interamente sull’economia, significati che essa ha sviluppato e imposto come modo di fare società capace di trasformare il mondo. È appunto la demitizzazione del mondo borghese che, accanto all’economicismo, caratterizza la condizione ideologica del nostro tempo. Nella dissacrazione dei miti borghesi si moltiplicano la frammentazione, la dissociazione e la pretesa. Il mito dell’imprenditore come homo faber capace di produrre combinazioni vincenti fra capitale e lavoro lascia spazio all’anonimato irresponsabile dei consigli di amministrazione e al reflusso della produttività in una passiva riproduzione. Capitale e lavoro prendono strade diverse. L’astrazione creativa del mondo della finanza si accompagna alla perdita di identità del mondo del 141

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lavoro. Se è vero che una delle conseguenze della globalizzazione, scrive Robert Hettlage, “è la perdita di territorialità del mondo, è vero in egual misura anche il contrario… Il capitale finanziario può girovagare da uno Stato all’altro in modo cosmopolitico, mentre la forza-lavoro in mobilità va in cerca, nonostante tutto, di un proprio radicamento identitario. Questi attori, se da un lato percepiscono il mondo (ossia principalmente i centri economici) come disponibile e ‘transitabile’ a causa della compressione spaziotemporale, dall’altro, in virtù della precarietà delle proprie condizioni economiche, non lo considerano affatto come un campo di azione componibile come un collage e liberamente intercambiabile” (Hettlage, 1998, p. 174). Un secondo mito borghese che si perde è l’impegno politico dell’intellettuale e la spinta che esso dava alla politica a perseguire il bene comune. Alla “afasia” degli intellettuali ha fatto seguito il progressivo degrado della politica ridotta al quotidiano e al contingente. Oggi, scrive ancora Hettlage, “il postmoderno ha fatto cadere gli intellettuali nella stessa crisi di orientamento in cui si trovano gli altri membri della società. Il mito del progresso è andato completamente perduto: l’ideale della modernità è stato liquidato dalla perversione del potere camuffato da benefattore dell’umanità, dalla perdita di fiducia nella capacità dell’economia di produrre prosperità, dalla crisi dell’arte intesa come discrezionalità estetizzante, dal disincanto della scienza ecc… Invece, pensatori e scrittori hanno perduto la propria base di massa a vantaggio del potere mondiale dei media, della produzione di novità con potere di intrattenimento (infotainment) e di altre distrazioni da parte della cultura del divertimento. Per questo motivo essi non si sentono più in grado di fungere da élite cui spetta il compito di spiegare i fenomeni e di mettere in risalto anche ciò che permane pur in mezzo alle trasformazioni, ma aderiscono anch’essi – per cinismo o per sfiducia – alla festa di Dioniso e al relativismo degli stili di vita. L’esistenza intellettuale è stata assorbita nella postmoderna società dal vivere intensamente al rango di progetto fra i tanti. Sempre più raramente si distingue tra varietà dell’agire empirico e criteri normativi dell’agire, cosicché la fattualità contingente del pensare e del fare assurge improvvisamente a norma” (Ivi, p. 200). Un terzo mito borghese in demolizione si potrebbe vedere poi nella crisi dell’università come istituzione di trasmissione del sapere da una generazione all’altra e di formazione umanistica dell’individuo e del cittadino al di là di ogni specializzazione. Al disorientamento dello studente si associa perciò la frustrazione di quanti vedevano nell’università una palestra del pensiero e un laboratorio di cultura. Adottando l’economia come valore supremo e 142

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l’economicismo come mentalità anche l’università ha adottato acriticamente come ideologia la forma di conoscenza più unilaterale fra le scienze umane. Ma così facendo ha messo in evidenza anche i fattori della sua crisi. Dal punto di vista fenomenologico le condizioni ideologiche del nostro tempo vedono affiorare conflittualità latenti che si focalizzano in costanti contrapposizioni, tra le quali: a) La forza dell’organizzazione, della burocrazia e del controllo tecnologico della società e la debolezza del consenso, dell’idea dello Stato e delle funzioni della politica. b) Il grande sviluppo dell’economia, della globalizzazione e della comunicazione e le forme di neotribalismo, localismo, settarismo. c) Lo sviluppo di una politica secolarizzata e il riaccendersi dei fondamentalismi religiosi. Se le vecchie ideologie sono venute meno non si può proprio dire che il nostro tempo manchi di tensioni ideologiche. Se il razionalismo dell’economico tende a costruire l’unificazione della società a un livello astratto e formale si moltiplicano nei fenomeni della vita reale manifestazioni primitive di recupero di quelle componenti dell’umano espulse dall’iperrazionalismo della tarda modernità. È come se l’estensione di una razionalità solo formale provocasse la crescita parallela di nuove espressioni di irrazionalità. Il fatto è che una società, e tanto più una società che vive un processo di globalizzazione, non si può reggere soltanto su quello che Vilfredo Pareto chiamava “istinto delle combinazioni”. Essa deve trovare il suo equilibrio, sempre per usare termini paretiani, nella “persistenza degli aggregati”. Così per poter rappresentare una ulteriore tappa nello sviluppo dell’umanità il capitalismo selvaggio e senza controllo di oggi ha bisogno di una dura opposizione. Un’opposizione di natura ideologica che dia espressione a quelle tendenze che altrimenti sfocerebbero nel fanatismo e nella violenza. Qui sta a mio giudizio il compito degli intellettuali e la ripresa di quella sociologia critica che tanti meriti ha avuto nello sviluppo della modernità. A questa sociologia il compito di opporsi alle nuove forme di dominio e di esclusione. Questa opposizione può svilupparsi sui seguenti quattro temi: 1. Critica dell’economia come visione unilaterale della relazione sociale. È necessario, come voleva Schumpeter, ricollocare l’economico nel

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sociale e ricostituire i limiti della visione economicistica della realtà. 2. Ricostruire su nuove basi ideologiche, guardando alla società globalizzata, le funzioni della politica di aggregazione sociale, di mediazione degli interessi e di controllo dell’economia. È necessario ridare senso alla cittadinanza, alla rappresentanza e alla difesa istituzionale degli strati più bassi della società. 3. Opporsi ai nuovi fondamentalismi ridiscutendo gli ideali della modernità e le forme di disagio emerse in questi ultimi decenni. 4. Riconsiderare i termini della nuova questione sociale che non può essere risolta né dal Welfare né da schemi puramente economicistici. Infine è tutta l’organizzazione politica dei paesi occidentali che deve essere ripensata per una società ormai diversa da quella che, con la democrazia rappresentativa, ha costituito una delle più evolute e raffinate esperienze di governo politico. Se le vecchie ideologie sono tramontate, con esse anche la democrazia come l’abbiamo conosciuta si è vanificata. Si è trasformata in una formula senza significato. Perciò il senso della democrazia politica deve trovare una nuova espressione pratica per la società del XXI secolo. In questo modo si potrà evitare lo scontro fra l’iperrazionalismo economicistico di una società globalizzata e i diversi fondamentalismi che continuano a reclutare la “parte maledetta” dell’esperienza sociale (v. Baudrillard, 1990, p. 111). 6. Economia come ideologia? Si può dire che il processo di razionalizzazione e secolarizzazione che ha coinvolto la cultura occidentale negli ultimi due secoli ha trovato oggi il suo completamento e perfezionamento nell’economico come senso e valore guida dell’azione e delle valutazioni della società contemporanea. Nel regime borghese il significato dell’economia era ancora temperato da una “religione civile”, da una morale pubblica e dalle “religioni politiche”, costituite dalle grandi ideologie che avevano come riferimento i valori diffusi dalla Rivoluzione francese: “libertà, uguaglianza, fraternità”. Lo sviluppo della mentalità economicista e dell’egoismo acquisitivo ha accantonato la morale e la politica, ha trasformato le qualità in quantità assumendo come metro di misura il denaro, ha enfatizzato il presente e i poteri sociali, ha adeguato infine il senso della realtà al regime di massa. La modernità bor144

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ghese ha lasciato il posto ai comportamenti irriflessivi delle masse e alla ragione calcolante. La tendenza all’uniformità del regime di massa si è sostituita alle tendenze selettive e alla struttura gerarchica predominanti nell’epoca borghese. Se le élites borghesi volevano rappresentare valori morali e civici, le élites che i fenomeni di massa producono sono sintesi e rappresentazioni dell’uomo medio, dei suoi desideri repressi, che non possiamo chiamare più ideali. L’organizzazione e la comunicazione si sviluppano in senso orizzontale e formale e si differenziano in senso planetario. Il potere politico non è più vertice ma centro di negoziazione dei poteri sociali. L’agire sociale si ispira alla ragione calcolante perché, come scrive Bataille, “la massa possiede solo la morale utilitaria e avanza, persino riguardo ai valori più comunemente riconosciuti, la domanda: ‘A che cosa serve?’. E ciò che non serve a nulla è considerato vile, privo di valore” (Bataille, 2000, p. 25). La massa apprezza ciò che ha valore strumentale, sviluppa il feticismo dei mezzi e non si pone il problema dei fini. Vuole vivere il presente ma ha paura del domani perché va incontro al futuro bendata. Lentamente le società occidentali perdono la forza di coesione ideologica e gli ideali della modernità, dal progresso alla democrazia, scadono a formule vuote. A rappresentare un presente complesso e difficilmente comprensibile per un pensiero che perde il gusto del ragionamento servono le immagini, purchè scorrano velocemente, senza lasciar traccia; servono i numeri, attraverso i quali l’essenza della realtà è ridotta a quantità senza interpretazione; serve un’idea di scienza e di comunicazione che, nella sua formalità, non metta mai in dubbio se stessa, che tenda a nascondere ogni complessità e che quindi non sia né scienza né comunicazione, ma solo simulacro. Le scienze sociali hanno la pretesa di spiegare, non di far comprendere e perciò svolgono in primo luogo una funzione ideologica. Tra queste soprattutto l’economia, alla quale, in termini di mercato, di sviluppo, di tecnologia, viene affidato in esclusiva il processo di emancipazione dell’umanità. L’economia come ideologia diviene una religione laica e così una mentalità e un linguaggio capace di passare sopra tutte le differenze culturali e di unificare popoli e civiltà diverse. L’economicismo, la rete elettronica, il denaro come misura di ciò che è materiale ma anche di ciò che è comportamento e di ciò che è valore e significato, hanno prodotto la globalizzazione e un nuovo stadio di sviluppo del capitalismo, del quale ho illustrato i caratteri in precedenti scritti (v. Mongardini, 1997 e 2007). La transizione dalle ideologie politiche al Welfare e poi all’economicismo ha segnato negli ultimi decenni il passaggio “dall’ideologia alla 145

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scienza” cioè a dire la transizione da una visione orientata su valori e proiettata nel futuro di una perfetta società, una visione comunque capace di mobilitare emozionalmente gli individui e di conciliare gli interessi con la passione, a una visione fredda e calcolatrice (v. A.O. Hirschman, 1979), orientata al presente e circoscritta agli interessi del presente, di ciò che è utile alla società e di conseguenza all’individuo, secondo la quale sarebbero sufficienti la ragione e la scienza (economica, medica e biologica) a guidare l’azione collettiva verso l’emancipazione dell’uomo e a indicare i mezzi adeguati per perseguirla. Naturalmente questa concezione, emersa con l’affermarsi delle masse e utile per il controllo delle masse, facendo riferimento al tabù di una concezione illuminista e totalitaria della scienza, ha creato un potentissimo strumento di limitazione e di costrizione della libertà degli individui, di sostegno dei grandi interessi organizzati, non certo inferiore e per tanti versi ripetitivo di certe condizioni in atto nelle dittature del ventesimo secolo. Per altro verso tuttavia essa ha stimolato l’egoismo individuale verso l’interesse personale orientato al presente, sviluppando conflitti e contrasti, mettendo in crisi il legame sociale, trasformando il cittadino nell’“avente diritto”, sviluppando forze centripete che hanno emarginato le tradizionali forme di aggregazione del regime borghese. L’economicismo ha sviluppato dunque un’ideologia fondata sullo scientismo, non meno coinvolgente e totalitaria delle ideologie politiche, con la quale il capitalismo ha prestato la sua anima alla società e con la quale, in una cultura del presente, la maggiore densità della vita sociale, il crescente sviluppo dei processi di interazione, sono stati quasi bilanciati dalla diversificazione e esplosione degli interessi di parte. La trasposizione delle ideologie politiche in una ideologia scientista e economicista ha radicalizzato la componente illuminista e razionalista della modernità, modificandone il senso e la gerarchia dei valori culturali. In particolare essa ha trasformato la politica in politica economica, riducendone il ruolo e legandola al gran carro dello sviluppo capitalistico. Ridotta al livello della gestione degli interessi di parte la politica perde la funzione di legare, di rappresentare le scelte collettive, per cui giustamente Louis Dumont vede nell’ideologia economica la perdita di senso della politica e la causa “delle malattie della politica moderna”. Le ideologie sono per lui “l’insieme delle idee e dei valori – o rappresentazioni – comuni in una società, occorrenti in un determinato ambiente sociale” (v. Dumont, 1991). Questo insieme di rappresentazioni non può essere ridotto, semplificato o radicalizzato senza mettere in crisi l’unità della collettività, cioè il 146

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processo di unificazione, compito della politica moderna, attraverso il quale una società si concepisce come ordinata. Le ideologie o rappresentazioni collettive hanno perciò un ruolo importante da giocare anche nella tarda modernità e la loro emarginazione dalla sfera pubblica provoca la loro reviviscenza in forme fondamentaliste e violente, specie contro posizioni di potere che non trovano più una giustificazione in un progetto di bene comune al quale tutti sono chiamati a contribuire. Le rappresentazioni collettive si concepiscono perciò come un grande sistema culturale nel quale valori e progetti ‘tengono insieme’ le attività che gli individui svolgono tanto sul piano materiale quanto sul piano simbolico e contribuiscono alla percezione di questo insieme come una ‘società’. In questo senso le ideologie sono per loro natura conservatrici in quanto mantengono l’integrità del sistema e contribuiscono a riprodurlo. E qui appare subito il limite razionalistico dell’ideologia economica che, per supportare lo sviluppo del capitalismo, stravolge il ruolo di queste rappresentazioni collettive. “Non è una delle più piccole ironie della storia intellettuale moderna – ha scritto Clifford Geertz – che anche il termine ideologia sia diventato ideologico” (cit. in Taguieff, 2003, p. 152). La lotta politica della borghesia attorno all’idea di nazione fu la prima ad aprire la funzione delle ideologie in uno Stato che, di fronte alle scissioni della società civile e poi in relazione alla sovranità popolare, della quale diveniva oggettivazione, doveva trovare una formula politica di consenso, di aggregazione e di giustificazione, una formula cioè capace di costruire l’unità dal molteplice. L’idea di nazione diventa qualche cosa di più dell’appartenenza, diventa l’unità simbolica alla quale si lega il senso dello Stato, nella quale si ritrova l’unità della società civile e la sacralità delle istituzioni. Lo Stato etico può nascere solo perché alla sua base resta l’unità simbolica della nazione. È solo con la maggiore articolazione della società civile, con la differenziazione delle classi, che l’elemento di unificazione e l’apparato simbolico si spostano sulle ideologie politiche, le quali proiettano nel futuro e nel ruolo della classe che ha assunto il potere la perfettibilità della società. Seguono poi le varie accentuazioni della funzione dello Stato, fino allo Stato sociale e fino a che l’economicismo non consacra il limite estremo del razionalismo e dell’individualismo segnando una fase di transizione o di sospensione della politica, nella quale l’unificazione di una società secolarizzata, che non si può neppure più chiamare società, è affidata ad un generico ideale di sviluppo attorno al quale si muovono i fenomeni di massa. Qui il capitalismo presta la sua anima alla società e frantumando l’equilibrio individuale utilizza ai propri fi147

Pensare la politica

ni due atteggiamenti opposti del soggetto moderno: l’egoismo individualistico per imporre una mentalità e enfatizzare lo spirito acquisitivo e l’emozionalità istintuale e epidermica per sfruttare la passiva acquiescenza delle masse. In questo però si perde l’azione delle forze centripete, che possono riprodursi solo a livello locale su una motivazione religiosa, razziale o etnica, mentre al cittadino si sostituisce l’‘avente diritto’ e l’organizzazione politica dei partiti attorno a progetti di società si dissolve nella leadership non sempre carismatica di individui che rappresentano più sette, fazioni, centri di potere occulto che non interessi collettivi. L’ideologia politica sosteneva la politica e ne permetteva il controllo. Oggi, emarginata dall’economicismo, la politica è ridotta alla amministrazione del presente e alla contingenza, cercando affannosamente il consenso nelle due dimensioni che l’economicismo le offre: l’egoismo individuale che trasforma i cittadini in “aventi diritto” e il populismo utilitarista e strumentale che le garantisce una provvisoria approvazione delle masse. Effetti della contingenza sono non solo una radicale trasformazione culturale ma anche un mutamento del senso e delle funzioni della politica (v. Mongardini, 2009). Dalla politica borghese orientata da valori, meritocratica e gerarchica siamo passati ad una politica circoscritta al quotidiano che sfrutta l’immaginario collettivo e gioca con le sue emozioni e le sue paure. Anche qui all’iperrazionalismo del ragionamento economico si contrappone la sollecitazione emotiva dell’ipersensibiltià delle masse. Nessuna meraviglia se anche i partiti, la cui identità era fortemente definita dalle ideologie politiche, hanno perso identità culturale, affidabilità e fiducia. La politica della contingenza ha premiato l’attore, l’istrione, l’adescatore delle masse e ha penalizzato tutti quei partiti che vivevano di grandi ideali e non hanno saputo adattarsi al cambiamento. L’ideologia economicista potrebbe essere però la rovina dell’economia, per aver distrutto, come prevedeva Schumpeter, le “radici romantiche” che hanno sempre sostenuto l’economia reale. Potrebbe essere un richiamo forte alle funzioni della politica e dell’ideologia, come progetto di società fondato su valori, capace di creare legame sociale e identità collettiva. L’ideologia è il male solo quando, divenendo radicale, risponde solo all’etica della convinzione e diventa arma di scontro e di oppressione. Nella sua natura di scelta responsabile di valore è invece lo strumento che attiva la sfera pubblica e una democrazia competitiva. Non è questo il caso dell’ideologia economicista che, negando i principi di autorità e di legittimità rafforza soltanto il nudo potere. 148

Il potere ideologico

7. Sulle trasformazioni delle forme ideologiche La razionalità puramente economicistica, l’enfasi sul presente, l’aggregazione di poteri dominanti, la smitizzazione dello Stato e l’abuso del diritto sembrano dunque le linee portanti della politica del postmoderno. Rimane tuttavia aperto il problema del rapporto tra potere e valori, che è un problema fondamentale per la stabilità politica, sul quale si fonda gran parte delle possibilità della comunicazione politica. Per più di un secolo nel periodo di espansione e di sviluppo della modernità, in un’epoca di crescente articolazione della vita collettiva, le grandi ideologie hanno avuto la funzione di ridurre la complessità del sociale, di spiegarci il senso del mutamento e di rappresentarci il futuro. Ma la maggiore ‘vicinanza’ della complessità sociale e il ritmo del cambiamento nella vita quotidiana hanno reso inservibili le ideologie come strumento di controllo e di rappresentazione della realtà. Esse sono state lentamente sostituite in questa funzione di rappresentazione e di catalizzazione del consenso dalle immagini prodotte dai media e in particolare dalla televisione, che è l’espressione più coinvolgente ma insieme più superficiale ed epidermica dei media. Si può dire quindi che la nostra epoca non ha visto il tramonto delle ideologie ma semplicemente di alcune forme ideologiche e che la televisione è diventata il contenente-contenuto dell’ideologia della tarda modernità. La funzione ideologica si è spostata, con alcune mutazioni, dalle idee alle immagini e dai contenuti al mezzo. La crescente complessità dell’esperienza sociale, la sua maggiore vicinanza ai ritmi della vita quotidiana, hanno reso insufficiente la rappresentazione ideologica nell’immaginario collettivo. Occorreva una riproduzione più immediata e più superficiale, che assicurasse al soggetto una ‘presenza distaccata’ e nello stesso tempo potesse fargli provare gli stimoli e le emozioni della partecipazione. Occorreva un effetto moltiplicatore della presenza dell’individuo nel tempo e nello spazio anche se questa presenza non poteva essere riferita che a ciò che era vissuto da altri e non poteva essere realizzata che in forma puramente superficiale. L’immagine televisiva si prestava a questo scopo. In una società in cui le esperienze vissute si moltiplicavano, si intrecciavano e si contraddicevano essa otteneva l’effetto magico di sincronizzare gli individui, di riportarli a massa rispetto a determinate sensazioni ed emozioni. Quella magia che lo stregone riusciva a realizzare nei confronti della natura creando l’illusione di ottenerne il controllo, l’immagine televisiva la realizza nei confronti della 149

Pensare la politica

società sincronizzando gli individui e estendendo la loro ‘presenza’ nel tempo e nello spazio. Si è ottenuto così un ‘controllo della società’ che ha sviluppato il potere del mezzo che lo ha reso possibile: fino a permettergli di ‘costruire l’avvenimento’ e fino a rendere equivalente a “non avvenuto” l’avvenimento non rappresentato. Un ulteriore rinforzo al potere del mezzo è venuto poi dalla decadenza della modernità e in particolare dal fatto che l’inconsistenza dei valori ha portato a sostituire ciò che vale con ciò che è efficace, trasformando l’efficacia del mezzo in un simbolo di valore.

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IV I valori della democrazia

1. Premesse La moderna democrazia rappresentativa ha almeno tre radici storiche: a) le vicende costituzionali inglesi del XVII secolo; b) la Rivoluzione americana del 1776; c) la Rivoluzione francese del 1789. Con fasi alterne la democrazia rappresentativa si è poi sviluppata per tutto il XIX secolo ampliando la sua base sociale e la sua struttura istituzionale. L’inizio del XX secolo vede l’emergere dei fenomeni di massa e delle prime formazioni sindacali e insieme l’impreparazione dell’aristocrazia borghese ad affrontare la nuova configurazione sociale. Il disastro della prima guerra mondiale produce le condizioni per il sovvertimento dei principî democratici e l’avvento dei regimi dittatoriali che si richiamano, per il consenso, a forme di primitivismo e a mitologie che muovono l’emozionalità delle masse, come il mito di Roma, quello della razza o quello di una società senza classi libera dal bisogno. Lo Stato-totalitario o Stato-massa cancella ogni apparenza di democrazia, segnando l’assoluto asservimento del cittadino allo Stato o all’idea di società. La dittatura moderna, scrive Emil Lederer, “è un sistema politico moderno basato sulle masse amorfe” (Lederer, 2004, p. 7). Solo dopo la seconda guerra mondiale il cammino della democrazia riprende su più ampie basi sociali e culturali, associando la partecipazione politica allo sviluppo economico. Dalla metà degli anni Settanta, con la prima crisi energetica e successivamente con la fine dei regimi comunisti, il processo di democratizzazione deve affrontare nuovi problemi dovuti: 1. alla crescita della complessità sociale che le vecchie istituzioni politiche sono incapaci di controllare; 2. allo sviluppo del capitalismo che ha un effetto dirompente sull’ordine e le strutture degli Stati nazionali e avvia i processi di globalizzazione; 3. al gigantismo dell’economia come forma mentale e 151

Pensare la politica

culturale che tende a emarginare il peso della morale e della politica; 4. allo sviluppo dei fenomeni di massa che frenano la partecipazione e la responsabilità individuale nella vita politica. La democrazia affronta così una fase di trasformazione nella quale sembrano necessarie nuove forme che ne conservino il senso e nello stesso tempo corrispondano ad un contesto sociale e culturale diverso: possano conservarne i valori cambiando le istituzioni e adattandole ad un nuovo contesto sociale. Ma quali sono gli aspetti più evidenti dell’esperienza democratica? Anzitutto la democrazia è un modo di interpretare la costituzione e la gestione del potere che presuppone l’esistenza di una società politica e un tacito patto di dominio; presuppone inoltre la partecipazione politica e la responsabilità degli individui e un alto grado di circolazione delle élites politiche. Sostanzialmente perciò la democrazia è una forma di “produzione” che nasce dall’attività dei gruppi e degli individui e poco si adatta al “consumismo politico” delle masse. La democrazia razionalizza in una certa misura la creazione e la gestione del potere sottraendo queste alla emozionalità delle masse. Ma per questo essa deve svilupparsi attraverso un tempo storico. La contingenza riprodurrebbe quella emozionalità che essa cerca di cancellare. La democrazia non nasconde il potere ma lo regola. Per questo la crisi della democrazia diviene evidente quando si abbandona l’idea di potere per confondere la politica con il diritto, la morale o l’economia come percorsi di razionalità oggettiva (v. Mouffe, 2002). In secondo luogo la democrazia ha profonde radici culturali e per questo bisognerebbe parlare di democrazie e non di democrazia. Si potrebbe dire che la democrazia è un fatto culturale prima che politico, in quanto le culture sono le radici della storia e trasmettono una propria identità alle forme politiche, identità che si esprime sia nello statuto della cittadinanza, sia nella misura in cui si realizza quella “comunità artificiale” che la politica moderna dovrebbe costruire fra governanti e governati. Infine per democrazia si può intendere: 1. una condizione politica ideale, mai realizzata, e quindi utopica, soggetta a molteplici interpretazioni e versioni; 2. una formula politica che può essere adattata a giustificare qualunque tipo di potere; 3. un insieme di istituzioni che realizzano formalmente la partecipazione del cittadino alla creazione e alla gestione del potere; 4. una situazione reale nella quale si concretizza il processo di democratizzazione e si svolge il rapporto tra governanti e governati, situazione che può essere rappresentata attraverso una serie di indicatori. Si tratta, in questo ultimo caso, di delineare un processo in atto che coinvolge tanto la pressione del po152

I valori della democrazia

tere quanto le garanzie e gli strumenti di protezione dei cittadini nei confronti delle prevaricazioni del potere stesso. La situazione reale della democrazia fa emergere il confronto, tanto caro a Norberto Bobbio, fra democrazia formale e democrazia sostanziale. La prima è caratterizzata da “universali procedurali” volti a realizzare un “governo del popolo” attraverso la selezione del personale politico e dei programmi politici, ottenuta con il sistema del voto; la seconda riferita all’attività di governo come “governo per il popolo” secondo gli ideali tradizionali del pensiero democratico e segnata da un “quanto di legittimità” che il potere riesce a ottenere e che quindi poco ha a che fare con la scelta elettorale, che resta semplicemente un meccanismo di selezione del personale politico. “Come una democrazia formale – scrive Bobbio – può favorire una minoranza ristretta di detentori del potere economico e quindi non essere governo per il popolo, pur essendo governo del popolo, così una dittatura politica, in periodi di trasformazione rivoluzionaria, quando non ci sono le condizioni per una democrazia formale, può favorire la classe più numerosa dei cittadini e quindi essere un governo per il popolo, pur non essendo un governo del popolo”. Dall’apparenza della democrazia formale alla consistenza della democrazia sostanziale comunque il passo è lungo e difficile. Resta il fatto, conclude Bobbio, che la democrazia perfetta “sinora in nessun luogo realizzata e quindi utopica dovrebbe essere insieme formale e sostanziale” (Bobbio, 2004). Una ulteriore premessa al discorso sulla democrazia contemporanea deve tenere conto delle difficoltà e delle mutazioni che l’idea di democrazia ha subito negli ultimi decenni. Le cause sociali di ciò, come si è spesso notato, stanno nello sviluppo del regime di massa, nei processi di globalizzazione che hanno modificato gli elementi fondanti degli Stati, all’interno dei quali la democrazia rappresentativa si è sviluppata, nell’economicismo come linguaggio e pensiero unico che ha accompagnato l’avvento del razionalismo liberale e la crisi di ogni altro modello di società. Indebolendosi la sua componente ideologica e i suoi valori sostanziali e culturali, la democrazia si è ridotta a formula politica e a elementi politico-formali di un economicismo radicale. Così le sue istituzioni si sono svuotate di senso e di funzionalità; il problema del potere che essa doveva risolvere si è dissolto dietro l’astrazione dei segni che lo rappresentano, come il denaro, dietro la passività della massa e la rapidità del mutamento che accresce la forza delle posizioni esistenti di potere. Si può parlare di crisi della democrazia, di postdemocrazia, di una democrazia ridotta alla scelta del voto, la qual cosa “evoca 153

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una democrazia minima, nella quale i cittadini esercitano la loro sovranità attraverso un atto della durata di pochi secondi, ripetuto a distanza di anni” (Diamanti, 2010, p. VII), mentre i partiti sono “delegittimati e rimpiazzati da partiti personali”; l’organizzazione e gli apparati “surrogati e quasi sostituiti dai media, dal marketing, dai sondaggi” e i cittadini “non sono più fedeli, ma spettatori di una scena politica sempre più spettacolarizzata. Dove la realtà e le persone sono argomento di storie e narrazioni. Dove la democrazia del pubblico sfocia nella democrazia del privato. In quanto il privato diventa pubblico, al centro della comunicazione e alla base del consenso” (Ivi, p. XV). Il problema sostanziale del potere lascia spazio alla sostanza dei nuovi poteri sociali dell’economia, della comunicazione, delle sette ecc., che sono poteri sociali personalizzati, i quali si trovano a sostenere un totalitarismo diffuso di carattere societario che sostituisce la democrazia come sistema ideale regolato e garantito. Di qui la frammentazione e la perdita di senso e di funzione della politica. Di qui “la sfiducia, la protesta, la diffusione di pratiche deliberative a livello sociale e locale, gli stessi populismi. In altri termini lo sbriciolarsi della partecipazione politica in mille esperienze collettive ma anche individuali” (Diamanti, 2010, p. XIV). Ma nella segmentazione c’è anche la tensione e l’effervescenza alla ricerca di nuove forme di politica e di democrazia che convivano con le abituali critiche alla “democrazia che non c’è” (Ginsborg, 2006), alla sovranità popolare come “finzione” (Reinhard, 2007, pp. 26-27), al popolo come sovrano “introvabile” (Rosanvallon, 1998). La ricerca di una ‘nuova’ democrazia percorre strade diverse per superare l’attuale formula della democrazia rappresentativa e soprattutto il pericolo di una democrazia populista che è sempre più incombente. C’è chi propone di sviluppare gli strumenti di democrazia diretta fino ad arrivare a una democrazia partecipata, chi crede in una democrazia deliberativa, laddove ogni decisione dovrebbe essere confortata da una lunga e consapevole discussione, chi vuole riprendere e rivedere l’idea di rappresentanza come “processo politico” che supera il momento del voto (Urbinati, 2007), chi pensa ad una democrazia delegata che imponga un controllo successivo delle decisioni, chi infine riprende l’idea weberiana della democrazia plebiscitaria con un rapporto diretto fra il capo e le masse, che tuttavia aprirebbe la strada a esperimenti autoritari. Particolarmente significative fra le tesi sul futuro della democrazia sono quelle di Colin Crouch sulla postdemocrazia (Crouch, 2003) e di Pierre Rosanvallon sulla contro-democrazia (Rosanvallon, 2006). Per Crouch i nuovi 154

I valori della democrazia

poteri sociali, e soprattutto il potere economico, cercano di mantenere una democrazia formale limitata alle manifestazioni elettorali, mentre la massa dei cittadini “svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’interazione tra i governi eletti e le élites che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici… La mia tesi è che ci muoviamo sempre di più verso il polo postdemocratico e questo spiega il diffuso senso di disillusione e disappunto per il livello della partecipazione e per il rapporto tra la classe politica e la massa dei cittadini in molte, forse, nella maggior parte, delle democrazie avanzate… Nelle condizioni in cui la postdemocrazia cede sempre maggior potere alle lobby economiche, è scarsa la speranza di dare priorità a forti politiche egualitarie che mirino alla redistribuzione del potere e della ricchezza o mettano limiti agli interessi più potenti” (Crouch, 2003, pp. 6-7). Crouch esplora quindi le condizioni della postdemocrazia e rileva che oggi “la forza più evidente in campo è la globalizzazione economica. Le grandi multinazionali hanno spesso superato la capacità di amministrazione di singoli Stati… Semplicemente la democrazia non ha tenuto il passo con la corsa del capitalismo alla globalizzazione. Al massimo riesce ad amministrare certi raggruppamenti internazionali di Stati, ma anche quello di gran lunga più importante, l’Unione Europea, è un goffo pigmeo a paragone con gli agili giganti delle multinazionali” (Ivi, pp. 37-38). La conclusione di Crouch è che “la causa fondamentale del declino della democrazia nella politica contemporanea sia il forte squilibrio in via di sviluppo tra il ruolo degli interessi delle grandi aziende e quelli di tutti gli altri gruppi, almeno in linea teorica. Accanto all’inevitabile entropia della democrazia, questo riporta la politica a essere una faccenda che riguarda élites chiuse, come accadeva in epoca predemocratica” (Ivi, p. 117). Per Pierre Rosanvallon occorre riformare una democrazia limitata al voto e all’opera di istituzioni che negli ultimi due secoli non hanno subito modifiche sostanziali, una democrazia che evidenzia crisi, malessere e disaffezione, che è stata coinvolta da un mondo economico meno prevedibile “perché retto da un sistema di interazioni più aperto e più complesso”. Occorre perciò “ridisegnare il campo della democrazia complicandolo” e tenendo conto delle istituzioni rappresentative ma anche delle forme di contro-democrazia e del lavoro del politico (Rosanvallon, 2006, p. 297). Occorre tentare di elaborare “una teoria rinnovata delle forme della democrazia a partire dall’osservazione minuziosa dell’universo contro-democra155

Pensare la politica

tico” (Ivi, p. 321). La contro-democrazia “non è il contrario della democrazia. È piuttosto la forma di democrazia che contrasta l’altra, la democrazia dei poteri indiretti, disseminati nel corpo sociale, la democrazia della sfiducia organizzata di fronte alla democrazia della legittimità elettorale” (Ivi, p. 16). La contro-democrazia si manifesta attraverso tre modalità: i poteri di sorveglianza, le forme di impedimento e la messa in questione dei giudizi. Al popolo elettore del contratto sociale, scrive Rosanvallon, “si sono sovrapposte in forma sempre più attiva le figure del popolo-sorvegliante, del popolo-veto e del popolo-giudice. Ne risultano modi di esercizio indiretto della sovranità secondo forme non organizzate dalle costituzioni”. Questo esercizio indiretto della sovranità si manifesta con un insieme di effetti, “senza procedere formalmente da una autorità né esprimersi sotto forma di decisioni esplicite che potrebbero essere qualificate come politiche” (Ivi, p. 23). La nostra epoca, conclude Rosanvallon, deve rivedere l’idea di democrazia in termini di regime misto, di costituzione mista, come s’era imposta nel Medioevo per qualificare il buon governo, che avrebbe tratto dall’aristocrazia, dalla democrazia e dalla monarchia gli elementi più positivi per comporre una forma politica ragionevole e generosa al tempo stesso (v. Ivi, p. 319). “Il governo elettorale-rappresentativo, la contro-democrazia e il lavoro riflessivo e deliberativo del politico costituiscono i tre pilastri dell’esperienza democratica. Ciascuno apporta il suo contributo all’organizzazione della città. Il governo elettorale-rappresentativo le dà il suo assetto istituzionale, la contro-democrazia la sua vitalità contestatrice, il lavoro del politico la sua densità storica e sociale. Ma ciascuno è anche carico di patologie o perversioni che potrebbero svilupparsi” (Ivi, p. 318). Ripoliticizzare la democrazia significa, per Rosanvallon, vitalizzare la politica che soffre di una crisi di senso non per una mancanza di volontà. Risimboleggiare la politica significa riporre al centro di un nuovo disegno di democrazia l’anima vivente del popolo, trasformando quel “popolo introvabile” in una “comunità politica vivente” (Ivi, p. 317). Le riflessioni sulla democrazia si arricchiscono ogni giorno di nuovi contributi mentre la pratica della politica si insabbia nel presente e nella contingenza. Come riprendere allora i valori della democrazia per un rinnovamento della politica? Alcune riflessioni importanti qui di seguito serviranno a valutare la crisi dei regimi democratici e i rapporti fra democrazia e capitalismo. E ciò per spingere le nuove generazioni a pensare il loro futuro in termini democratici. 156

I valori della democrazia

2. Le ragioni di una crisi La democrazia è come la moneta corrente. Il suo valore rispecchia le capacità, la creatività e il carattere di un popolo. Non è perciò un’etichetta capace di legittimare qualunque situazione o decisione. E tuttavia il termine democrazia è fra i più abusati. Viene utilizzato da qualunque governo nel tentativo di legittimarsi e, poiché “la moneta cattiva scaccia la buona”, finisce, per i suoi aspetti formali, col coprire di apparenze anche realtà di violenza e di brutalità e la violazione dei diritti più elementari degli individui. Eppure, nella seconda metà del ventesimo secolo, la democrazia, anche sotto l’impulso del capitalismo, ha rappresentato l’ideale di riferimento per la costruzione di un futuro di benessere, di libertà e di pace per l’intero globo. Le trasformazioni del capitalismo, i processi di globalizzazione, la decadenza degli Stati-nazione ci hanno successivamente introdotto in un mondo in cui l’economia ha assorbito la politica, mentre il senso della democrazia si è ridotto alla formale presenza di istituzioni democratiche e alla identificazione della legittimità con la sola espressione del voto. Si sono così progressivamente confusi potere e autorità, legalità e legittimità, rappresentanza politica e scelta elettorale. Si sono accentuate quelle che Norberto Bobbio chiamava le “delusioni della democrazia”, mentre il richiamo ad essa, usato e abusato, ha perso di significato perché ha perso ogni riferimento concreto ad un quadro storico e ideologico definito. È cioè venuto meno il rapporto tra le forme di democrazia e la diversità delle culture, l’agire politico e la vita intellettuale di un paese. Democrazia è diventata una etichetta capace di giustificare tutto e tutti. Come la cattiva moneta, essa ha finito per cacciare la buona, cosicché, come scrive Luigi Bonanate, “la democrazia la si vuole esportare ma non la sappiamo vivere” (Bonanate, 2010). La democrazia è qualcosa di più di una libera competizione elettorale e di un mercato politico. Richiede pari opportunità per i cittadini, un vincolo di rappresentanza permanente, il prevalere di una autorità riconosciuta sul nudo potere e infine una solida base di legittimità a sostegno della legalità. Se il cittadino vede crescere i privilegi e le ineguaglianze, vede minacciato o mal retribuito il lavoro, vede restringersi le sue libertà e crescere l’insicurezza mentre la gestione dell’economia, nelle mani di pochi, non conosce più i limiti della politica, alimenta privilegi, scarso interesse per il bene pubblico e corruzione, finisce per disconoscere il significato della democrazia. Così le nuove generazioni perdono il senso della democrazia invece di apprezzarne il significato.

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L’uso sovrabbondante del concetto di democrazia è oggi contestato da numerosi studiosi che vedono invece crescere la deriva totalitaria e estendersi forme di società militarizzata e sorvegliata giustificate in nome della sicurezza. Si governa con la paura e ci si giustifica con la contingenza. Ma la contingenza, circoscritta al presente, non è politica, può giustificare tutto in nome dello stato di eccezione che perciò nega le premesse della vita democratica. La contingenza è il minimo di difesa dell’esistente o la giustificazione di un potere che varca i limiti della democrazia (v. Mongardini, 2009). In questo contesto ciò che si chiama politica è la negazione della politica, cioè l’utopia di realizzare la politica uccidendola. La democrazia moderna come democrazia rappresentativa è nata e si è sviluppata all’interno degli Stati nazionali con significati culturali diversi ma come forma univoca di razionalizzazione del potere e come strumento di “difesa giuridica” dei governati dagli abusi del potere stesso. La crisi dello Stato nazionale, l’incertezza o l’inadeguatezza dell’apparato costituzionale, l’ha rimessa in discussione. La crisi della politica democratica è stata determinata da una radicale trasformazione sociale prodottasi negli ultimi decenni attraverso: 1. l’affermarsi di un nuovo capitalismo, finanziario e globale, che Alain Touraine definisce “estremo” nelle sue manifestazioni; 2. il passaggio da un regime borghese, elitario, gerarchico, fondato su valori e su una rappresentazione storico-ideologica della realtà a un regime di massa ben visibile nella diffusione di una mentalità economicista, nel consumismo e nella comunicazione strumentale. “L’agire di massa”, ha scritto Max Weber, non è un agire sociale, in quanto non è “un atteggiamento orientato in maniera dotata di senso in vista dell’atteggiamento di altri individui”. L’agire sociale non si identifica “né con un agire uniforme di più individui, né con un agire qualsiasi influenzato dall’atteggiamento di altri”. Perciò “l’agire condizionato di massa” è una “reazione” emotiva e unificante rispetto ad uno stimolo, resa possibile “dal semplice fatto che l’individuo si sente parte di una massa” (Weber, 1980, 1, pp. 20-21). La situazione di massa non è dunque socialmente creativa ma semplicemente e passivamente reattiva e per questo pronta a sostenere il dispotismo, anche mite, anche democratico del potere politico, come aveva già previsto Tocqueville, un dispotismo che, malgrado la sua mitezza, si presenta “più uniforme, più centralizzato, più ampio, più potente che altrove” (Tocqueville, 1968, II, p. 817). Giustamente perciò le “condizioni democratiche” della nostra vita politica che si sviluppano con un ritualismo ormai vuoto, vengono rimesse 158

I valori della democrazia

in discussione. Si fa notare come “la democrazia del voto” finisce per bloccare le manifestazioni della vita democratica, le quali perciò assumono l’aspetto di una contro-democrazia, che non è, come si è visto, il contrario della democrazia. Se la forza del nuovo capitalismo è riuscita, attraverso la diffusione dell’economicismo come ideologia e del consumismo, a trasformare il cittadino nell’“avente diritto” e a trasformare l’effervescenza della vita collettiva, base di ogni democrazia, nella piatta uniformità e ritualità dei fenomeni di massa, così facendo ha tolto ogni autonomia alla politica e affidato il potere a quelle oligarchie che dominano l’economia globalizzata, che tentano di dare senso a ciò che resta dei partiti politici e della loro funzione di cinghie di trasmissione del consenso, che si sforzano di governare indebolendo il peso dei parlamenti e che mostrano ancora una volta che, quando la politica è in crisi, essa si rifugia nei templi, dove essa è nata (Burdeau, 1976 b, p. 6), rinunciando al processo di razionalizzazione che la democrazia rappresentativa ha realizzato nell’arco di due secoli. La democrazia rappresentativa, si è detto più volte, ha costituito la forma più evoluta e raffinata di organizzazione politica della modernità. Essa ha dato corpo a quella “società politica” che, dopo la Rivoluzione francese, doveva fissare la nuova sovranità, definire il compito della politica di costruire l’unità dal molteplice, organizzare la “difesa giuridica” dei governati dagli arbitri del potere. La base del “patto di dominio” fra governanti e governati poggiava su una morale civile pubblica e sull’impegno dei governanti a perseguire il bene comune e a orientare verso di esso l’azione collettiva. Su questa base è stato possibile costruire un progetto di società orientato da valori, discussi e condivisi, posti al centro dell’ordine costituzionale. Ora le mutazioni economiche e sociali di cui si è detto vengono a minare le basi della società politica e lasciano, al posto della cultura politica, la plutocrazia demagogica e il populismo come del resto aveva predetto Vilfredo Pareto (v. Pareto, 1964). Ripensare la democrazia in un diverso contesto sociale e culturale deve perciò essere un impegno per chi crede che la politica possa ancora svolgere il compito di costruire una comunità artificiale in una situazione di dominio, evitando che esso diventi espressione di nudo potere. 3. Tra democrazia e capitalismo L’esperienza contemporanea appare contrassegnata nelle democrazie occidentali da un diffuso sentimento di antipolitica, che però significa 159

Pensare la politica

anche mobilitazione per la politica e rende esplicito un senso di delusione, soprattutto nei riguardi della rappresentanza, che, nella maggiore densità della vita sociale, si vorrebbe in costante sintonia con i bisogni e i mutamenti della collettività. Sfiducia e delusione coinvolgono uomini e idee: sfiducia nei rappresentanti e incapacità di raccogliere il consenso attorno a un progetto di società. Dalla politica ci aspettiamo più libertà, opportunità e riconoscimenti, mentre la realtà evolve in senso opposto. La democrazia ci appare un ideale “tradito e sfigurato” (Rosanvallon, 1998, p. 9) proprio quando la parola è logora e ha perso significato per l’uso eccessivo. Un uso che è un chiaro indicatore della crisi di ideali della politica: una politica che si vede regredire sull’economico diventandone dipendente. Un uso volgare e assolutamente generico del termine democrazia lo porta a comprendere i più diversi contenuti ed a inglobare tutto il desiderabile politico. Finisce per irretire gli individui e spingerli ad un salto della realtà. L’uso volgare scaccia il significato reale. “Oggi, nella retorica pubblica occidentale – scrive Hobsbawm – si sentono più assurdità e sproloqui sulla democrazia, e specialmente sulle miracolose qualità che apparterrebbero ai governi eletti da maggioranze aritmetiche di votanti che scelgono tra partiti rivali, che su qualsiasi altro concetto o termine politico. Nella recente retorica statunitense, questa parola ha perso ogni contatto con la realtà” (Hobsbawm, 2007, p. 15). Anche per questo, continua Hobsbawm, “un dibattito pubblico razionale sulla democrazia è tanto necessario quanto insolitamente difficile” (Ivi, p. 44). Assistiamo perciò senza capacità di critica alla decadenza di un sistema che in una certa misura ha garantito la difesa giuridica e politica dei governati; un sistema di governo che è stato il più raffinato prodotto politico della modernità. Vediamo crescere senza reazioni la sfiducia nella democrazia perché le istituzioni democratiche appaiono come gusci vuoti che assicurano la legalità ma perdono in legittimità, garantiscono il potere ma perdono in autorità. Così l’ordine giuridico è più temuto che vissuto, perché, come scriveva H. Laski, “la giuridicità della legge riposa sul giudizio che i cittadini danno di essa” (Laski, 1955, p. 50). Queste tendenze demoliscono l’ordine razionale fondamento dei sistemi democratici e accentuano il processo di personalizzazione del potere con i pericoli che esso comporta. La politica democratica attraversa una fase di sospensione, apre un vuoto ideale ed una carenza istituzionale che coinvolgono lo Stato moderno così come si è formato a partire dai trattati di Westfalia. Quei trattati misero fine alle guerre di religione trasferendo alla politica il compito di istituire un ordine razionale della vita civile. La religione, perciò, torna a riempire i vuoti politici della sfera 160

I valori della democrazia

pubblica, riaccendendo a diversi livelli le divisioni religiose (v. Mongardini, 1994). Si apre un’epoca di transizione politica alla cui base c’è un mutamento radicale di ordine economico e sociale sul quale è bene porre attenzione. Questa fase di transizione nasce da nuovi spazi significativi per la vita individuale e collettiva, da nuove dimensioni nell’uso e nella percezione del tempo, da una maggiore densità della vita sociale e da una radicalizzazione dei valori della modernità in termini di efficienza, produttività e razionalizzazione. La transizione, a sua volta, ha certamente un effetto dirompente non solo sulla mentalità e il comportamento dei soggetti singoli e collettivi, ma anche su tutta l’organizzazione politica e il senso che essa ha avuto dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni. Le vicende della politica, la sorte dello Stato e delle istituzioni democratiche di fronte a nuovi spazi fisici, sociali e simbolici, così come le delusioni e i fermenti dei governati nei confronti dei governanti, tutti questi fenomeni non possono essere analizzati senza considerare un nuovo, complesso ordine di rapporti tra la società civile e la società politica. Rapporti che, nel regime borghese, dovevano giustificare la contraddizione tra l’eguaglianza morale che legittimava il fondamento della società e la gerarchia, l’autorità, il decisionismo vincolante, l’insieme dei privilegi che hanno contraddistinto l’organizzazione politica. Su questa base la politica borghese ha sempre avuto bisogno di una giustificazione, di un valore capace di legittimarla a fronte della sovranità popolare: giustificazione che ha rappresentato, dunque, ciò che è più propriamente politico nella politica, una giustificazione sentita e diffusa che oggi è ridotta ad una parola svuotata di senso come avviene per l’uso formale e spesso improprio del termine democrazia. L’immagine della democrazia si fa carico di tutto il desiderabile ma così ha perso ogni riferimento alla realtà concreta dei rapporti tra governanti e governati e non riesce più a legittimare la contraddizione fra il principio di eguaglianza della società civile e l’ordine gerarchico dell’organizzazione politica. Già di per sé la democrazia è una formula politica debole perché ha una base puramente razionale, concernente un tipo di relazione con il potere, non riconducibile a simboli e coinvolgimenti emotivi con il suolo o il gruppo. Occorre perciò fondarla e difenderla su altri valori ideali, come la libertà e la giustizia, capaci di sostenerla. Se questo ideale viene meno, la democrazia perde il significato di bene collettivo e diventa l’espressione degli interessi di parte. Una situazione complessa nella quale si afferma, con l’immagine della democrazia, il nudo potere. Una situazione che si presenta oggi e che non è analizzabile da una scienza politica ridotta a scienza delle istituzioni o scienza go161

Pensare la politica

vernamentale, perché essa si limita a guardare la realtà dall’alto e si presta ad essere strumento dei governanti, e anche con scarso successo. Questa ottica della scienza politica potrebbe avere semmai un senso in un periodo di relativa stabilità, assumendo la premessa, tutta da dimostrare, che viviamo in una democrazia solo perché abbiamo istituzioni democratiche. Un’analisi della politica che voglia comprendere almeno alcuni aspetti e tendenze degli attuali regimi democratici non può prescindere dal coniugare almeno quattro dimensioni della realtà politica: l’allocazione del potere sociale e politico; il personale politico; le istituzioni politiche; i valori, gli ideali e le ideologie politiche. Sono queste le componenti della società politica (termine usato da Tocqueville, da Taine e da Mosca), una società proiezione del regime borghese, nata e sviluppatasi dopo la Rivoluzione francese sulla base di un tacito patto di dominio tra governanti e governati. Ho dimostrato altrove che le trasformazioni del capitalismo e l’economicismo come mentalità dominante sono in grado di spiegare almeno una parte delle mutazioni sociali e politiche contemporanee e perciò anche delle condizioni delle democrazie occidentali (v. Mongardini, 2007). Ho cercato di chiarire che il senso della politica e in particolare della politica democratica non può essere ridotto all’economicismo senza mettere in crisi i valori stessi della democrazia e crearle costanti pericoli. L’economicismo attiva in contrapposto reazioni radicali di tutte quelle esperienze dell’umano che si trovano emarginate o escluse da questo tipo di logica e per le quali la politica come sintesi e rappresentazione di una società e di una cultura riusciva a creare equilibri e compensazioni. Decadenza della politica e della sfera pubblica significa anche decadenza dello Stato. Anzi per questo, secondo lo storico inglese Eric Hobsbawm, lo Stato si avvia già alla sua fine (v. Hobsbawm, 2007). La democrazia è nata e si è sviluppata con caratteristiche culturali diverse nell’ambito degli Stati nazionali e a sua volta si è fatta portatrice di una idea di Stato rispondente alle condizioni storiche dei popoli. La crisi dell’idea di Stato, indebolita dai suoi riferimenti fondamentali, come sovranità, popolo, ordine giuridico, priva la democrazia del suo naturale contesto culturale e ne fa un’idea astratta o tutt’al più legata al funzionamento dei meccanismi istituzionali e non a realtà e bisogni reali. Essa diventa, per riferirmi a una distinzione di Norberto Bobbio, una democrazia dei mezzi, oggi tutti legati alle vicende dell’economia, e non una democrazia dei fini (v. Bobbio, 2004). Un pericolo per la democrazia, che ha bisogno di creatività e di un costante e civile confronto di idee e di progetti nell’ambito della sfera pubblica, sta nel passaggio dal regime borghese al regime di massa con il con162

I valori della democrazia

seguente indebolimento della vitalità e della creatività dei gruppi sociali. I fenomeni di massa, ai quali noi tutti partecipiamo, accentuano la passività e la conformità, che sono le condizioni ideali per far crescere un “autoritarismo modernizzato”, come qualcuno ha detto. L’autoritarismo e le sue espressioni totalitarie si sviluppano sulla passività delle masse e la debolezza dello Stato. Infine un ulteriore consistente pericolo è costituito dalle nuove generazioni che associano alla democrazia tutti i mali della esperienza politica. Rivolgono grandi aspettative nei confronti della politica e si trovano a pagare per gli sperperi e la corruzione delle generazioni precedenti e a subire l’emarginazione sociale. Queste condizioni possono spingere le nuove generazioni alla violenza e a rivolgere contro le istituzioni democratiche il malessere della loro esperienza politica. Se questi sono i pericoli della democrazia occorre che quanti studiano i fenomeni politici indichino anche delle linee guida per evitare nuove forme di totalitarismo. Sarebbe stupido lottare contro l’espansione del capitalismo, ma altrettanto stupido sarebbe non riconoscerne i limiti e i pericoli in quanto occultamento, mascheramento e politiche che ci portano all’anarchia nella misura in cui si astraggono dalla vita sociale e si propongono in forme totalizzanti. Uno sforzo da compiere è, in primo luogo, ricollocare l’economia nella società, come voleva Schumpeter, e ridefinirne i limiti ideologici ed i percorsi di sviluppo sia sul piano nazionale che globale anche per evitare reazioni fondamentaliste di tipo etnico, razziale, nazionalista o religioso. Occorre ricostruire il primato della politica come baricentro delle diverse espressioni e logiche della vita civile e recuperare i valori della democrazia in un diverso contesto spaziale e culturale. Per questo le nostre costituzioni sono vecchie di fronte a un rapido mutamento e sono tenute in vita dalle oligarchie che se ne servono. Solo se l’immaginazione creativa potrà architettare nuove forme di rappresentanza, un nuovo raccordo tra società civile e società politica ed una gestione del potere che rivitalizzi i valori della democrazia sarà possibile ristabilire quei principi di autorità e legittimità sui quali dovrebbe fondarsi ogni organizzazione politica. Il rischio di una deriva della democrazia di fronte a violenza, terrorismo e totalitarismo impone la ricostruzione di un rapporto politico e di un patto di dominio fra governanti e governati in forma ideale prima ancora che istituzionale. Solo su questa base è possibile pensare ad una attività decisionale legittima ed efficace, adatta alla vita contemporanea e rispettosa del senso della democrazia. Occorre per altro verso adattare le forme della 163

Pensare la politica

democrazia moderna ai nuovi spazi, attraverso un percorso che, superando la crisi o il formalismo delle istituzioni, ricostituisca, adatti o rinnovi le garanzie del cittadino di fronte al potere. Compito della scienza politica contemporanea, perciò, non è tanto quello di giocare con l’ingegneria costituzionale e istituzionale quanto quello di riflettere sulle sorti della democrazia reale in un regime di massa, caratterizzato dall’abbattimento delle gerarchie naturali, dalla emarginazione delle élites politiche, che finiscono per rappresentare non più ideali ma quasi esclusivamente interessi economici, dalla passività e perdita di partecipazione dei cittadini che manifestano così la loro delusione nei confronti delle classi politiche. Oggi il popolo-elettore esprime una partecipazione puramente formale alla vita della società politica. I cittadini si esprimono invece attraverso una “contro-democrazia”, rivendicando una “sovranità diffusa”, che non può essere istituzionalizzata ma che rappresenta la critica e l’opposizione alla democrazia formale. Il popolo nelle sue espressioni di controllo, di veto, di giudizio crea le alternative ad una democrazia evanescente. Rinnega la riduzione del rapporto politico alle regole del mercato e la democrazia come mercato. È inutile nascondere che siamo di fronte ad una profonda crisi delle democrazie occidentali. È al tempo stesso una crisi di sistema e una crisi ideale che si puntualizza in tutte quelle che Bobbio ha indicato come delusioni della democrazia (v. Bobbio, 1984). La crisi ideale ovviamente non può risolversi senza la ricostituzione della società politica e questa richiede una nuova cultura e un nuovo patto di dominio. Senza questa nuova cultura l’ideale della politica resta patrimonio della religione o del preteso razionalismo dell’economia, potenze estreme ma certamente distanti dalla poliedricità della vita quotidiana alla quale solo il relativismo e il realismo della prassi politica possono far fronte. Ripensare la democrazia come sistema e come ideale politico significa valutare le possibilità di una democrazia complessa che deve tener conto di nuovi spazi fisici, sociali e ideologici, di nuovi attori sociali e politici, di nuove istanze culturali. Occorrono forse molteplici meccanismi rappresentativi e raccordi diversi tra governanti e governati che possano ricostituire il senso dell’autorità e della legittimità. Democrazia complessa significa anche democrazia soggettivamente partecipata (v. Wallerstein, 1999) attraverso livelli diversi di rappresentanza. Solo se si ricostituisce un legame forte e responsabile di rappresentanza è possibile pensare a particolari forme di democrazia deliberativa che altrimenti resterebbe pura utopia. Dopo il fallimento dell’utopia dei fini proposta dal marxismo, stiamo assistendo al fallimento dell’utopia dei mezzi progettata dal capitalismo: logi164

I valori della democrazia

che totalitarie e giacobine che rappresentano altra cosa rispetto alla logica di sintesi della politica e che vorrebbero imporre l’impegno cieco o la fredda ragione. Occorre trovare una soluzione realista al disincanto della politica, una soluzione capace di trasformare il regime di massa in una comunità politica attiva attraverso una “risimbolizzazione della politica” e l’articolazione di una costituzione mista, che in altre forme si era imposta nel Medioevo e che oggi dovrebbe rispettare la necessità e l’urgenza della decisione, la funzione di controllo e di stimolo della sovranità popolare e le necessità vitali della aristocrazia economica. Una costituzione mista che dovrà ridisegnare i confini giuridici non solo fra poteri interni di uno Stato, ma anche fra le democrazie nazionali e le nuove istituzioni politiche cosmopolite. Al di fuori dei tentativi possibili di “rigenerazione” della democrazia, rappresentativa o meno, rimangono solo l’anarchia delle masse sottomesse alla sola logica della ragione calcolante e le polarità estreme del terrorismo e del totalitarismo. Tra questi, il primo risponde all’antico istinto rivoluzionario di chi crede di poter cambiare il mondo con la “violenza rigeneratrice”, un credo che si espande sempre più nel ceto borghese e che trova terreno fertile in persone insospettabili (v. Bronner, 2009). Serve ad alimentare le paure e a fare il gioco di chi governa con la paura. Il vero pericolo del terrorismo, scrive Hobsbawm, “non è quello costituito da qualche pugno di fanatici anonimi, ma quello che nasce dalla paura irrazionale che le loro attività provocano, una paura che oggi viene incoraggiata sia dai media sia da governi insensati. Questo è uno dei maggiori pericoli del nostro tempo, un pericolo senz’altro più grande di quello di alcuni piccoli gruppi terroristici” (Hobsbawm, 2007, p. 116). 4. Democrazia e biopolitica Anarchia, terrorismo, tecniche di controllo delle masse sono le radici e il sostegno del nuovo totalitarismo. Fra le tecniche che sostengono il totalitarismo e fra le più insidiose minacce alla libertà e alla democrazia va ricordata la biopolitica. A richiamare l’attenzione su potere e biopolitica è stato, nei primi anni ’70, Michel Foucault in un corso di lezioni tenute al Collège de France, con la tesi che “bisogna difendere la società” dalle nuove tecniche di potere (v. Foucault, 2005). “Quanto sono libere e sono aperte le nostre società?”, si chiede Foucault. A fronte dei “vecchi poteri disciplinari”, politici, culturali e religiosi, egli vede sorgere, nella società postindustriale, poteri disciplinari fortissimi, spesso mascherati sotto pratiche 165

Pensare la politica

di lavoro, di divertimento e di consumo. Foucault vede nel programma della politica come un “far vivere e lasciar morire”, uno sbocco diretto verso il totalitarismo. Il problema nasce, scrive Foucault, quando il potere prende in gestione la vita, i processi biologici della specie umana per assicurare su di essi non tanto una disciplina, quanto una regolazione, mentre in parallelo si giunge ad una progressiva dequalificazione della morte (v. Cedroni, 2003, p. 37). Nel trattamento delle sue esigenze la società acquisisce diritto sovrano sul corpo e sulla sua gestione. Così essa organizza e fa funzionare gli individui disciplinandoli e modificando le loro capacità creative e immaginative. Le tecniche disciplinari si moltiplicano e danno forza a poteri ieri più evidenti ed espliciti, oggi più occulti e perciò ancora più potenti. La tecnologia del potere si esercita dunque sulla vita delle persone, sul “governo dei viventi”, nella “regolazione delle popolazioni” attraverso processi come la riproduzione, la salute, l’igiene, la nutrizione. La popolazione diviene “il bersaglio principale dell’economia politica” e “la forma privilegiata di sapere”; i dispositivi di sicurezza sono “uno strumento tecnico essenziale”. Lo Stato si impone nella gestione globale dei “processi biosociologici delle masse umane, mettendo da parte le singole attività disciplinari praticate in istituzioni più limitate come ospedali, scuole ecc., così la biopolitica è “bioregolazione attraverso lo Stato” per il quale la sovranità sulla vita sostituisce la sovranità sul territorio. Si tratta, scrive ancora Foucault, “di una presa di potere sull’uomo in quanto essere vivente, di una sorta di statalizzazione del biologico” (v. Cedroni, 2003, p. 34). Secondo Foucault la biopolitica mostra quale invasione può fare la politica nelle sfere più intime della vita umana, in nome della sicurezza e della salute pubblica. Facendo riferimento alla “produttività della vita”, cosa che mostra un richiamo diretto alla filosofia del tardo capitalismo, essa riesce ad invadere l’esistenza di tutti e tutta l’esistenza, volendo costituirsi come un estremo tentativo di ridefinizione dell’umano. Questa ridefinizione porta alla “società sorvegliata” e al controllo radicale, sempre più stretto quanto più si sviluppano i fenomeni di massa, l’indifferenza degli individui, lo sviluppo di tecnologie avanzate che moltiplicano la pressione del potere (v. Antonini, 2006). È ovvio che in questo nuovo tipo di totalitarismo, del resto già previsto da Tocqueville, la democrazia, che vive di iniziativa, di confronto, di creatività, non abbia più spazio. I margini della libertà si restringono in sempre maggior misura: paura, burocrazia, biopolitica creano le condizioni per un totale assoggettamento al potere.

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Parte terza Il potere comunità

I Il popolo

1. Il popolo come rappresentazione e come soggetto politico Il panorama dell’universo politico moderno può essere esplorato da una duplice prospettiva: 1. quella in cui si formano il consenso, la rappresentazione, la legittimità, l’autorità che sale dal basso, secondo i bisogni materiali e spirituali del momento storico e secondo i quadri ideali nei quali questi bisogni si proiettano; 2. quella invece in cui si articolano le forze e le istituzioni che detengono ed esercitano il potere tentando di rappresentare, fissare e governare la società attraverso un ordine tradizionale e stabile che si ritiene possa assicurare la continuità e il benessere sociale. La prima prospettiva considera l’aspetto magmatico e fluido dell’agire politico, la seconda la continuità dell’ordine e della politica tradizionali che si cerca di mantenere garantendo la pace sociale, la sicurezza e un determinato indirizzo politico. La prima prospettiva può essere considerata come una fucina in cui si forma un nuovo potere o si rafforza con il consenso un potere esistente, la seconda come il momento della stabilità politica e della governabilità secondo le regole e i programmi che la classe politica al governo pretende di rappresentare. I giuristi che, dopo la seconda guerra mondiale, hanno scritto la nostra costituzione, distinguevano queste due prospettive come potere comunità e potere apparato e, in riferimento all’ordine giuridico, come costituzione materiale e costituzione formale (v. Mortati, 1958). Seguiremo perciò queste distinzioni. Il popolo è alla base del potere comunità. Tutte le costituzioni democratiche imputano la sovranità al popolo e perciò dal popolo nasce e si sviluppa il potere comunità, in esso si forma il consenso che supporta i gruppi politici, in esso si muovono le forze che sostengono o contestano l’ordine politico esistente. Ma il popolo come soggetto politico è una unità 169

Pensare la politica

solo pensata e rappresentata. Popolo, società, Stato, sono semplificazioni che servono a ridurre e rappresentare la complessità del reale. Sono realtà che nella loro unità vivono solo in quanto sono pensate. Possono essere utilizzate solo come tali. Altrimenti sono inganni della politica. La democrazia rappresentativa fa riferimento al popolo come soggetto che attribuisce “il potere di”. Ma qui nasce la contraddizione fra il principio politico della democrazia e il suo principio sociologico. “Il principio politico consacra la potenza di un soggetto collettivo di cui il principio sociologico tende a dissolvere la consistenza e a ridurre la visibilità” (Rosanvallon, 1998, p. 12). Nella democrazia, scrive ancora Rosanvallon, il popolo non ha forma, “perde ogni densità corporale e diviene positivamente numero, cioè forza composta di eguali, di individualità puramente equivalenti sotto il controllo della legge. È ciò che esprime in maniera radicale il suffragio universale: esso segna l’avvento di un ordine seriale. La società non è composta che da voci identiche, totalmente sostituibili, ridotte, nel momento fondatore del voto, a unità di conto che si raccolgono nell’urna: essa diviene un puro fatto aritmetico” (Ivi, p. 14). La serializzazione è allora nello stesso tempo “condizione per l’uguaglianza e problema per l’identità” (Ivi, p. 15). Nella sua unità il popolo è solo rappresentazione: è un corpo immaginario. Lo spirito comunitario non può essere che relativo, legato al sentimento di appartenenza. Esso non può fondarsi su elementi razionali (per es. economici), che richiamerebbero tutti gli interessi di parte e le valutazioni contrapposte. Può trovare episodicamente lo spirito unitario solo attraverso i sentimenti e le emozioni. Solo in queste forme è possibile dare al popolo un’anima collettiva, fare di esso una comunità artificiale realizzando il compito della politica moderna (Eulau). E in questo riescono spesso meglio le dittature che le democrazie. Di qui anche la grande difficoltà dell’agire politico democratico. Se non c’è un forte legame sociale è difficile dare un indirizzo all’azione collettiva. Perciò le migliori democrazie sono quelle in cui l’identità e il legame sociale sono sufficientemente forti da sostenere la diversità delle opinioni e degli interessi che si confrontano e si agitano nella sfera pubblica. Proprio l’esistenza di una sfera pubblica nella quale si manifesta la vivacità e la creatività di individui e gruppi è la garanzia della coscienza democratica di un popolo, mentre il conformismo, l’imitazione e il comportamento gregario delle masse si appiattisce sulla curiosità e sul privato. Ciò che è interessante in questo caso è solo attrazione e distrazione e viene a mancare ogni forma di impegno per la collettività, mentre proprio la vivacità della sfera pubblica e la dif170

Il popolo

fusione della cultura politica sono le uniche garanzie di una vita democratica. Come trasformare il popolo, che può essere massa amorfa e indifferente, in soggetto politico interessato e attivo? Finché è solo massa amorfa, finchè rimane solo positivamente “numero”, cioè soggetto “indeterminato”, esso si colloca in un contesto di “democrazia negativa” (Rosanvallon, 1998, p. 14 e 2006, p. 21), cioè perde la sua percezione di essere “corpo vivente” e la tensione dell’impegno per una democrazia attiva. Perciò molti autori parlano di “una democrazia senza popolo”, specialmente da quando, con la globalizzazione e l’erosione dello Stato-nazione è difficile disegnare il futuro della democrazia. I mutamenti strutturali che si verificano nell’ordine politico creano la necessità di ripensare la realtà democratica dei sistemi emersi dalle rivoluzioni del XVIII secolo, i quali hanno forgiato l’immagine della democrazia fino ad oggi dominante. Rendono anche necessario chiarire attraverso quali strade è possibile recuperare nel popolo la tensione verso una nuova sensibilità democratica (v. Colliot-Thélène, 2011). Perché questa tensione si attivi occorrono determinate condizioni che si possono puntualizzare nella presenza di: a) un’elevata fiducia verso l’altro; b) un consistente capitale sociale come patrimonio collettivo; c) un attivo processo di socializzazione e d) una diffusa cultura politica. La fiducia è il collante della vita sociale e della relazione politica: più è elevato il grado di fiducia, più è alta la coesione sociale, più è possibile sviluppare creatività e spirito di iniziativa. Se il compito della politica è quello di aggregare, di “costruire l’unità dal molteplice”, di ricreare consenso e di perseguire il bene comune, allora più elevata è la fiducia, più facilmente questi fini potranno essere raggiunti. Nelle società moderne la fiducia, all’interno dei gruppi come degli Stati, potrà essere di tipo individuale e quindi riguardare singole persone; di tipo istituzionale, e perciò riferirsi alle istituzioni che regolano politica o, infine, di tipo generalizzato, riferendosi all’intero sistema sociale e politico (v. Mongardini, 2001, p. 163 e segg.). Il capitale sociale di una società si può definire come il quanto di sociabilità e di sociazione esistente, che permette di allargare il raggio di azione di un soggetto nella certezza delle aspettative e contando sulla collaborazione dell’altro. Ciò significa che il capitale sociale si può identificare in un certo senso con l’insieme dei legami sociali e con l’apertura dei singoli nei confronti dell’altro, quindi con un legame sociale di tipo potenziale (sociabilità) nel secondo caso e con il legame già realmente esistente (sociazione) nel primo caso. È poi ovvio che un consistente capitale sociale presuppone una fiducia generalizzata e un’ampia disponibilità del contesto, 171

Pensare la politica

disponibilità intesa come apertura sociale e come certezza e prevedibilità dei comportamenti. Il capitale sociale è un fatto culturale che riguarda l’intera collettività. Quanto più si sviluppa, tanto più predispone all’azione creativa e attiva il processo di innovazione (v. Ivi, p. 109 e segg). Il terzo elemento sopra citato riguarda la socializzazione. In generale si intende per socializzazione il processo mediante il quale l’individuo, entrando a far parte di un gruppo, ne interiorizza i comportamenti, i valori e i significati in atto nel suo contesto culturale. La socializzazione politica si riferisce all’universo culturale della società politica, ai valori, ai significati, agli ideali e ai progetti in esso attivamente presenti. Operare all’interno dell’universo politico significa perciò posizionarsi nel suo contesto culturale definendo responsabilmente delle scelte, che implicano consenso, dissenso e opposizione, e contribuiscono a sviluppare la dialettica democratica. Il processo di socializzazione è perciò in stretto rapporto con la cultura politica che Almond e Verba in un famoso libro degli anni sessanta (1963) definiscono come l’insieme di valori, di sentimenti, di valutazioni nei confronti del sistema politico che si traduce in atteggiamenti e orientamenti nei confronti della politica stessa da parte di un popolo. Tali atteggiamenti, secondo i due autori, possono poi essere classificati di tipo affettivo, conoscitivo e valutativo. Gli atteggiamenti di tipo affettivo si riferiscono alla sfera emozionale e comprendono comportamenti come l’adesione a un partito o l’obbedienza a un leader carismatico. Atteggiamenti di tipo conoscitivo e valutativo coinvolgono invece la sfera razionale e ideazionale. Dall’insieme di questi elementi deriva la spinta alla partecipazione politica di cui parleremo in seguito. Gran parte della socializzazione politica e della cultura politica sono oggi fortemente influenzati dai mezzi di comunicazione di massa. I media sostituiscono la piazza nell’attivazione dei sentimenti politici di consenso e opposizione, nel diffondere i significati dell’agire politico, nel sostituirsi agli stessi partiti politici nell’interpretare ciò che le masse pensano in silenzio. Funzione particolarmente pericolosa per il futuro della democrazia perché alimenta il passivo essere-numero dei cittadini. Del resto già Max Weber ne “La politica come professione” (Weber, 1966) prevedeva come conseguenza della diffusione della comunicazione di massa il prevalere di scelte politiche superficiali e la possibilità di nuove forme di dittatura fondata sullo sfruttamento della natura “puramente sentimentale” delle masse. Se sono presenti le condizioni per cui il popolo diviene soggetto attivo e partecipativo nella vita politica, se si percepisce non solo come corpo elettorale, ma si riscopre anche come detentore della sovranità, allora 172

Il popolo

cercherà di esercitare questa sovranità non solo con una scelta elettorale consapevole ma anche attraverso istituti come i referendum, nelle occasioni in cui la classe politica mostrerà di non percepire le istanze che da esso provengono, o come i progetti di legge di iniziativa popolare. Il popolo come soggetto politico attivo si esprime anche, come si è visto, attraverso una sovranità indiretta o contro-democrazia con le tre figure del popolo-controllore, del popolo-veto e del popolo-giudice. Il popolo-controllore esercita una funzione di sorveglianza sui suoi rappresentanti, una funzione che è stata definita come il grande rimedio alle disfunzioni istituzionali, rimedio cioè “a quella che si potrebbe chiamare entropia rappresentativa (o altrimenti degrado della relazione tra eletti e elettori)” (Rosanvallon, 2006, p. 20). Il popolo-veto è potere di rifiuto sia nelle scelte elettorali che nelle reazioni alle scelte del governo: una forma di democrazia che si sovrappone alla democrazia di progetto, nel senso che il governo democratico non è più soltanto definito da una procedura di autorizzazione e legittimazione ma “viene a strutturarsi essenzialmente attraverso il confronto permanente con diverse categorie di veto provenienti da gruppi sociali e da forze politiche o economiche” (Ivi, p. 22). Infine il popolo-giudice manifesta la tendenza alla giudiziarizzazione dell’attività politica. Tutto si svolge come se i cittadini attendessero dalla giustizia quei risultati che essi disperano di ottenere attraverso le elezioni. Questa giudiziarizzazione corrisponde al declino di reattività dei governi di fronte alle domande dei cittadini. Si vuole che i governi diano conto della loro azione in quanto sembrano meno sensibili alle aspettative della società. “Siamo così passati – scrive Rosanvallon – da democrazie del confronto a democrazie dell’imputazione” (Ivi, p. 23). L’epoca della contingenza e della moltiplicazione dei conflitti sociali non poteva non offrire al popolo nuove forme di coscienza e di identità politica volte a rinforzare nuove espressioni di democrazia e di partecipazione politica. 2. Opinione pubblica e partecipazione politica Le nuove espressioni del popolo come soggetto politico attivo accrescono anche la sensibilità dell’opinione pubblica alle vicende politiche e rappresentano uno stimolo verso una maggiore partecipazione politica. L’opinione pubblica è il primo livello di partecipazione politica: il livello dell’interesse e della reazione informale a tutto ciò che avviene ed è politicamente rilevante, a tutto ciò che la politica decide e il potere impone. Il fatto che ci sia una opinione pubblica individua già una distinzione fra co173

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loro che si occupano di politica e coloro che non se ne occupano. Tra quelli poi che se ne occupano, quando ci si riferisce ad un atteggiamento della pubblica opinione, si fa riferimento ad una opinione dominante, che “non è necessariamente l’opinione della maggioranza”. Infatti, “l’opinione che di fatto ha la maggiore efficacia può essere quella di una minoranza influente” (Lasswell-Kaplan, 1979, p. 54). Di fatto però questa minoranza non costituisce ancora un gruppo, resta piuttosto un aggregato di interesse e di reazione uniforme che rende con ciò anche evidenti istanze e aspettative. Essa è il risultato della “distribuzione delle opinioni in un pubblico”, laddove il pubblico rimane costante, “ma la partecipazione all’opinione pubblica può cambiare da problema a problema” (Ivi). L’opinione pubblica è una grande forza disorganizzata, capace, in tutte le democrazie, di influenzare le scelte e gli orientamenti della classe governante. Essa alimenta il dibattito pubblico, rappresenta i valori e le tradizioni della cultura contro le decisioni pragmatiche della politica, lotta per i grandi principî e risponde sul piano emozionale, non su quello razionale. Con lo sviluppo dei sistemi democratici l’opinione pubblica ha assunto un ruolo sempre più importante soprattutto per misurare la legittimità del potere. Una politica che risponde alle attese della pubblica opinione è percepita come legittimata e al contrario, una che le disattende, è accusata di illegittimità. Si parla spesso di manipolazione dell’opinione pubblica da parte dei media ma in realtà potere mediatico e potere della pubblica opinione, quando questa rivolge il maggiore interesse alla politica, sono in costante rapporto di interazione. I giornalisti più famosi sono quelli che riescono ad esprimere con intuizione ed ironia ciò che il pubblico pensa in silenzio. Perciò essi devono avere una particolare sensibilità nel catturare e rappresentare le reazioni dell’opinione pubblica. D’altra parte è pur vero che la presa che i media esercitano sul pubblico è capace di esercitare un importante impatto emozionale e perciò di indirizzare le sue reazioni. “Quando parlate ad uomini in tema di religione o di politica – scriveva un grande storico francese – quasi sempre la loro opinione è fatta; i loro pregiudizi, i loro interressi, la loro situazione li ha accaparrati; vi ascoltano solo se dite loro a voce alta quello che essi pensano in silenzio” (v. Mongardini, 1965, p. 389). Un altro grande problema in tema di opinione pubblica e politica, riguarda la misurazione e la valutazione degli atteggiamenti e delle tendenze dell’opinione, specialmente in tempi di scelte elettorali. I sondaggi di opinione sono oggi molto frequenti. Divengono sempre più importanti quanto 174

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più si approfondisce il distacco fra governanti e governati. Se i governanti hanno perso la capacità di percepire i mutamenti e le tendenze della pubblica opinione, si affidano ai sondaggi per cercare di capire cosa la gente pensa e quali sono le reazioni nei confronti della loro azione politica. Così il sondaggio è l’unico mezzo per avere una rapida misurazione quantitativa degli umori della gente. Tuttavia i sondaggi sono molto criticati per la loro superficialità e perché spesso presentano notevoli margini di errore dovuti alle distorsioni dell’intervista o anche al fatto che “le strutture delle opinioni sono qualcosa di più di ciò che è rilevato attraverso la demoscopia. Senza lo studio del ‘contesto politico’ appare incerto come si sviluppino le strutture d’opinione e come queste debbono essere interpretate”. Inoltre la demoscopia pur con tutta la sua professionalità metodologica “si limita quasi esclusivamente a comportamenti verbali. In genere in situazioni fortemente strutturate vengono registrate solo reazioni verbali. Ne consegue che è incerto che cosa nell’opinione espressa è un artefatto provocato dal questionario e che cosa viene espresso ‘nel proprio linguaggio’” (Atteslander, 1987, p. 169). Nell’opinione pubblica, come si è visto, si trova il primo livello di partecipazione politica. Essa è la fucina che prepara ulteriori forme di coinvolgimento nell’universo politico. Con il concetto di partecipazione politica si vuole indicare l’atteggiamento più vicino o più distante del cittadino dalla attività politica. Vicinanza e partecipazione possono assumere forme di consenso o dissenso. Il consenso a sua volta può assumere diverse forme e avere intensità diverse. Nella dottrina si è soliti distinguere un consensointeriorizzazione, fondato su valori condivisi e profondamente sentiti, un consenso-accordo, fondato su convenienze, interessi o possibili vantaggi derivanti dalla vittoria di questo o quel gruppo, un consenso-conformità, accordato senza alcuna convinzione e per imitazione di quello che gli altri fanno o decidono (v. Mongardini, 1980 b). È questo il consenso più labile e incerto che facilmente può trasformarsi al mutare delle condizioni sociali e politiche. A queste tre tipologie si aggiunge oggi il consenso di necessità che si manifesta in situazioni di contingenza: di fronte ad un evento imprevisto è necessario adottare decisioni sgradite che perciò ottengono questo tipo di consenso. Per esempio una crisi economica può richiedere sacrifici e misure la cui accettazione è determinata dalla necessità (v. Mongardini, 2009). Il dissenso invece può manifestarsi come sfiducia, protesta e ribellione. A questi vanno aggiunti i comportamenti di partecipazione alla “contro-democrazia” del popolo-controllore, del popolo-veto e del popolo-giudice. La distanza dall’attività politica si misura invece in termini di indifferenza, a175

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stensione o defezione. Mentre consenso e dissenso sono entrambe forme di partecipazione, in positivo e negativo, indifferenza, astensione e defezione sono forme di non partecipazione. In particolare l’indifferenza indica il disinteresse per un certo tema politico; l’astensione indica il non prendere parte a decisioni riguardo alle quali si è chiamati ad esprimersi, come nel caso del non voto; la defezione è il grado più accentuato con cui si dichiara il proprio completo rifiuto della politica. Gli atteggiamenti di distanza dalla politica in genere si risolvono in una posizione di consenso-conformità che rinforza il potere: il politico sa che esiste questa “sacca” di cittadini indifferenti che si adeguano a quello che viene deciso da altri e dunque sa che può contare sul loro silenzioassenso in merito a determinate questioni. Al contrario dell’indifferenza la mobilitazione politica segna un alto livello di partecipazione in una situazione di crisi della politica. La mobilitazione politica non è tanto una presa di posizione nella politica ma una presa di posizione “per” la politica, per la costituzione o riattivazione della partecipazione attraverso nuove forme. L’esempio più tipico di partecipazione politica è poi la partecipazione elettorale. Spesso la partecipazione politica viene studiata solo sotto questa forma, perché è quella più istituzionale e dunque più facilmente osservabile, ma bisogna aver presente che si tratta solo di un aspetto esteriore, momentaneo di partecipazione perché la vera partecipazione è un coinvolgimento continuo che nasce dallo stesso processo di socializzazione e dalla cultura politica che ne deriva. In linea generale e salvo situazioni particolari la tendenza delle società contemporanee è quella alla riduzione della partecipazione sia attiva che passiva se non proprio alla defezione politica. Tale tendenza indica l’inadeguatezza dell’organizzazione politica di fronte alla complessità raggiunta dalla società civile. Accanto al crescente astensionismo elettorale, si registra un sempre più basso livello di esposizione al messaggio politico. Peraltro la mobilitazione politica, per esempio nei confronti della globalizzazione, sta ad indicare la necessità di dare nuove forme e significati all’ordine politico. La rappresentatività di questo sistema è ridotta. L’indifferenza cresce quanto il non voto e ciò provoca situazioni per cui coloro che escono vincitori dalle elezioni costituiscono in realtà minoranze che fanno maggioranza. Tra gli elementi che provocano il basso livello di partecipazione politica va considerata anche la forte carenza di elementi ideali in un discorso politico che sempre più si riduce a mera politica economica. La crescente indifferenza verso la politica ha finora spinto i partiti e l’apparato politico in generale, 176

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ad associare all’esposizione al messaggio politico gratificazioni e soddisfazioni relative agli interessi privati o ai piaceri dei singoli cittadini. Anche questo testimonia la povertà ideale della politica contemporanea. Questa fattispecie corrisponde a quel fenomeno espresso in sociologia con il teorema di Olson inerente alla logica dell’azione collettiva. Il teorema di Olson dice che, dato un gruppo numeroso di individui portatori di un comune interesse, coscienti di esso, che hanno a disposizione i mezzi per soddisfarlo, i membri di questo gruppo non faranno personalmente nulla per promuovere tale interesse. Il regime di massa ha attenuato l’interesse individuale per la politica. La politica ha bisogno essa stessa di creare i suoi fenomeni di massa e oggi può farlo solo attraendo gli individui sul piano del vantaggio personale, del piacere e della distrazione. La massa è assolutamente passiva, può esprimere soltanto un consenso passivo. La sua condotta è più prevedibile, più istintiva e meno immediata rispetto a quella di gruppi organizzati. Ortega y Gasset, studiando la psicologia delle masse, le considerava composte da una serie di individui “amorfi”, capaci di agire solo nell’ambito di un gruppo organizzato. 3. Cittadinanza e rappresentanza La volontà di partecipazione politica riaccende il confronto fra società civile e società politica perché per un verso richiama l’eguaglianza a fondamento dello statuto della cittadinanza, dei diritti del cittadino e dei suoi obblighi morali nei confronti dell’altro, per altro verso impone il vincolo della rappresentanza, cioè la necessità di costruire la volontà collettiva e l’azione del gruppo attraverso decisioni che possono prese solo attraverso un ordine gerarchico che interpreti i bisogni della collettività e indichi un indirizzo politico di mediazione degli interessi di parte e di finalità da perseguire per il bene comune. Il sistema di partecipazione politica si concentra perciò in una manifestazione elettorale, in un voto che, sul piano ideologico e programmatico, premia un gruppo politico rispetto ad altri e seleziona il personale politico che dovrà prendere decisioni che coinvolgono l’intera collettività. Il voto esprime anche un giudizio sull’esperienza politica trascorsa e sul funzionamento delle istituzioni politiche. La democrazia rappresentativa ha dato al voto un significato quantitativo e di creazione della rappresentanza, anche se esso puntualizza una scelta momentanea, non confortata da una specificazione del consenso e non soggetta a revo177

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ca. L’idea di rappresentanza implica peraltro un rapporto costante fra rappresentante e rappresentato, che è fondamentale per la vita della società democratica e che perde di senso se questo rapporto è ridotto al solo momento della espressione del voto. La confusione fra principio della rappresentanza e manifestazione del voto ha determinato non pochi fraintendimenti nei progetti di riforma politica. Cerchiamo ora di approfondire il senso della cittadinanza e della rappresentanza per la vita delle società democratiche. Fare parte di un gruppo di una collettività, di una nazione implica innanzitutto un sentimento di appartenenza che è un dato psicologico importante per il soggetto politico e un fattore di identità e di identificazione. Questo sentimento crea un legame particolare, divide chi fa parte del gruppo (in-group) da coloro che non ne fanno parte (out-group), costituisce il “noi”, crea una comunità artificiale e le premesse per l’agire collettivo. Il sentimento di appartenenza è ciò che lega tra loro i membri del gruppo, è la sensazione della comune esperienza, della necessità della coesistenza e collaborazione con l’altro, delle finalità e del destino comuni. Lo statuto della cittadinanza definisce la base della vita di gruppo. Esso si fonda sull’eguaglianza, morale e giuridica di tutti i cittadini (siamo tutti uguali di fronte alla legge). Tutte le diseguaglianze che nascono da altri fattori nello sviluppo della vita reale (ricchezza, successo, fortuna) divengono accettabili solo nella misura in cui viene rispettato questo principio di eguaglianza morale e giuridica. Cittadinanza e rappresentanza sono i nodi vitali del rapporto politico ed esprimono l’essenza della vita democratica: la prima con il rispetto dell’eguaglianza, la seconda creando un rapporto di dominio funzionale fondato sull’interazione fra governanti e governati. Il rapporto di rappresentanza rende democratica la vita di gruppo per il fatto che il potere è creato dagli stessi individui che lo subiscono. Né la cittadinanza né la rappresentanza sono traducibili in rapporti di mero interesse o di mero diritto. Dire che il cittadino oggi è stato sostituito dall’ “avente diritto” significa dire che il senso della cittadinanza è stato stravolto in termini puramente economici; così dire che il problema della rappresentanza si risolve in termini di sistema elettorale significa dire che il valore della rappresentanza e la responsabilità del rappresentante si risolvono in una tecnica di scelta del personale politico. La cultura moderna ha sviluppato il senso della cittadinanza in parallelo con l’allargamento della democrazia rappresentativa. Nello sviluppo dello statuto della cittadinanza, mentre si ampliava il corpo elettorale, si è 178

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passati così dai diritti civili all’estensione dei diritti politici, fino ad aprire la strada, ancora lunga da percorrere, ai diritti sociali, molto spesso formulati sulla carta e poco applicati nei fatti. Pur con grandi proclami però la cittadinanza, nella tarda modernità, ha perso gran parte del suo valore morale e comunitario per acquistare piuttosto un valore strumentale e di cittadinanza “secondaria” (v. Marshall, 1976), cioè fondata soltanto su diritti riconosciuti di natura contrattualistica e economicistica. Marshall sottolinea che perciò l’idea di cittadinanza ha perso gli elementi morali e ideali e si è risolta in un apparato di diritti, di interessi e di garanzie. Da parte sua Jürgen Habermas osserva che la solidarietà connessa alla cittadinanza si è persa con la fine dell’idea di nazione e con la decadenza dello Stato nazionale territoriale. Questo collegamento all’idea di nazione è indicativo dell’evoluzione della cittadinanza, che si è affermata e rafforzata man mano che questa idea ha fatto da cemento della vita collettiva, contribuendo a creare quella comunità di cui parlava Eulau. Nel momento in cui invece l’idea di nazione è venuta decadendo come elemento ideologico di coesione degli Stati e di creazione di comunità all’interno del gruppo, è cominciato a declinare anche il senso dello statuto della cittadinanza, trasformandosi questa da fatto solidaristico a fatto economicistico. Habermas dice ancora che il dissolversi nella tarda modernità della cittadinanza in una serie di legami di interesse, ha determinato il passaggio dal cittadino all’avente diritto, dal legame morale al rapporto burocratico. La cittadinanza diventa perciò un apparato di rapporti burocratici, non più di elementi solidaristici, diventa in fondo, anziché una percezione di co-appartenenza e di coesistenza, un elemento astratto, razionalizzato, affidato alla norma scritta e alla burocrazia. Mentre decadono le forme tradizionali della cittadinanza si assiste oggi alla ricerca di nuove forme di appartenenza e alla creazione di nuovi soggetti politici, che finiscono per occupare l’area dei vecchi partiti. Emergono fenomeni spesso radicali di aggregazione fondati sul localismo, sul nazionalismo, sul fondamentalismo e sul settarismo. Questi nuovi gruppi offrono legami ideali e morali come base per la creazione di nuovi soggetti politici ed in sostituzione della vecchia forma solidaristica della cittadinanza, dissoltasi in senso economicistico. Anche i nuovi soggetti politici, di fronte al declino della politica, diventano radicali ed estremisti, con l’aspirazione a rompere uno schema fondato solo su elementi di tipo economicistico. Essi fanno leva sulla vita quotidiana e cercano di ridare senso solidaristico anche se totalitario alla cittadinanza e di ricostruire il rapporto di rappresentanza. Si riscopre la forza di aggregazione politica propria dello spazio (localismo), della reli179

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gione (fondamentalismo), dell’idea di nazione (nazionalismi). Se, in altre parole, è decaduta per un certo periodo la forza solidaristica di alcune idee (di nazione, di patria, ecc.) per il tradursi della vita collettiva in forme prevalentemente economicistiche, questo ha dato luogo a una reazione caratterizzata dalla ricerca di legami forti ed esclusivi, di potenti forze di aggregazione, di un nuovo statuto della cittadinanza e di nuove istanze politiche. I nuovi soggetti politici sono tuttavia il prodotto di un periodo di transizione e di ricerca. Fanno riferimento a singole istanze della vita quotidiana e costituiscono di fatto movimenti anti-politica in quanto i loro riferimenti non tendono alla sintesi e rappresentazione della società ma a dare senso politico a una singola istanza sociale (movimenti monotematici). Più che soggetti politici essi appaiono come i soggetti dell’antipolitica che esprimono un forte bisogno di identità e identificazione, che rifiutano l’apparato di dominio della vecchia organizzazione politica e sollecitano nuove forme di cittadinanza e di rappresentanza. Essi costituiscono una istanza forte contro il volontarismo politico che ha contraddistinto l’organizzazione politica del XX secolo. Ma l’antipolitica è solo un sintomo non è un rimedio alla crisi della politica, le cui radici stanno nella trasformazione della cittadinanza e della rappresentanza. L’antipolitica è a suo modo una forma di mobilitazione politica ma non offre soluzioni. È possibile che la forma della politica moderna, così come noi l’abbiamo conosciuta, sia finita con la decadenza della modernità. Ma allora solo con la nascita di una nuova cultura possiamo aspettarci, su nuove basi, l’avvento di nuovi soggetti che ristabiliscano la funzione sociale essenziale della politica. 4. Il voto L’espressione più immediata e più formale della partecipazione politica è il voto. Qui il cittadino diventa elettore e il popolo corpo elettorale secondo i principî della costituzione. Il voto è il rituale della pratica democratica e permette al popolo di esercitare la sua sovranità con la scelta del personale politico che comporrà le assemblee legislative. Se è vero che la partecipazione politica si riflette in due polarità e cioè quella strumentale (o efficiente) e quella espressiva (o simbolica) (Raniolo, 2002, p. 13 e segg.), nella scelta elettorale essa trova una sintesi empirica che riunisce aspetto strumentale e aspetto ideale. La scelta elettorale avviene secondo un sistema elettorale che è definito per legge tra le seguenti categorie: a)sistemi elettorali maggioritari a turno 180

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unico in collegi uninominali; b)sistemi elettorali a doppio turno in collegi uninominali; c) sistemi di rappresentanza proporzionale. Ogni categoria può assumere diverse varianti, alla cui elaborazione si applica con grande impegno l’ingegneria costituzionale. Ma va ancora una volta sottolineato che il sistema elettorale è solo il meccanismo di scelta della rappresentanza e non va confuso con il rapporto di rappresentanza e i suoi importanti elementi sociopsicologici. In genere i sistemi elettorali che vengono scelti si adattano non alla cultura di un popolo ma agli interessi delle forze dominanti, aggregando o disaggregando le forze politiche in un complicato sforzo per garantire la stabilità del sistema politico. La scelta elettorale tende invece piuttosto a soddisfare interessi e ideali della classe governata sulla base dei programmi, in genere poco realistici e fatti per ottenere consenso se non addirittura con intenti populistici, presentati dai partiti. Sia nelle scelte dei governati che nei programmi dei partiti si ritrovano le componenti culturali di un popolo, la struttura e le divisioni della società, gli elementi dell’immaginario collettivo che, nel momento storico, ne determinano gli orientamenti.

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II Gruppi, movimenti e partiti

1. Gruppi sociali e politici L’attività politica è essenzialmente attività di gruppo, attività collettiva per l’affermazione di ideali, progetti, interessi che possono essere raggiunti solo attraverso la conquista del potere. Gli ideali e i progetti affiorano nella società civile e nella cultura di un popolo come proiezione dei bisogni al momento più intensi. Talvolta gli ideali appartengono alla tradizione, come l’idea di nazione, altre volte si formano su nuove configurazioni della società o della vita collettiva. Sono gli ideali e i progetti di società che determinano la formazione di un gruppo politico e sono poi essi che costituiscono il cemento del gruppo e la forza che spinge all’azione politica, cioè a richiedere il consenso attorno a quei bisogni e a quegli ideali che si vogliono rappresentare. Alcuni richiami alla sociologia ci aiuteranno a capire meglio le caratteristiche dei gruppi politici. Dalla sociologia ci è nota la distinzione fra gruppi primari o espressivi, fondati su rapporti personali, intimi, affettivi, di parentela o clientela, che coinvolgono la personalità e la sfera emozionale, e i gruppi secondari o strumentali, le cui finalità sono esterne al gruppo e vengono perseguite attraverso una organizzazione che prevede rapporti formali e codificati. Mentre nel gruppo primario prevale un legame di tipo emozionale e un rapporto comunitario, nel gruppo secondario prevale un rapporto funzionale e di interesse e perciò strumentale, connesso ad una logica egoistica e calcolatrice tipica dell’economicismo. Le relazioni all’interno del gruppo saranno perciò prevalentemente formali nei gruppi secondari e prevalentemente informali ma profondamente radicati e vissuti nei gruppi primari. L’ordine gerarchico all’interno del gruppo è fondato sulla personalità e sulla leadership dei soggetti dominanti nel gruppo primario, che possono essere sempre messe in discussione, mentre 183

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si uniformerà ad un organigramma, predefinito nei comportamenti e nella durata, nel gruppo secondario. Infine l’azione collettiva sarà spontanea e creativa nel gruppo primario mentre nel gruppo secondario seguirà gli schemi di un comportamento burocratico e funzionale che tende a escludere la partecipazione della personalità, perché questa sarebbe di disturbo nell’ordine organizzativo della vita di gruppo. I gruppi politici, come i gruppi religiosi, condividono elementi sia dei gruppi primari che dei gruppi secondari. Per un verso sono guidati dalla fede, dai valori nei quali credono, dal sentimento che li unisce e per l’altro, come i gruppi secondari, hanno bisogno dell’apparato, dell’organizzazione che assicura una funzionale capacità di agire verso finalità che sono esterne al gruppo. Fede e organizzazione sono entrambe necessarie alla vita di questi gruppi. Se prevale l’organizzazione, gli interessi personali finiscono per oscurare la fede. Se prevale la fede, la forza del gruppo, sul piano dell’agire politico, si perde nella mistica e nel fondamentalismo. Prevale allora lo spirito settario che emargina il gruppo dalla vita societaria. Fondamentale è da una parte lo spirito comunitario, la conservazione della fede e degli ideali. Se ciò non accade, la struttura del gruppo si burocratizza e l’azione non è più spontanea, ma frutto dell’organizzazione formale e del controllo. Essa ha perciò come conseguenza la cristallizzazione del potere, la formazione di oligarchie e la manipolazione della vita di gruppo. L’alta coesione del gruppo ha un ruolo fondamentale nei gruppi politici e religiosi e questa coesione può essere solo il prodotto di ideali fortemente condivisi. In senso opposto agisce invece la secondarizzazione di questi gruppi, che fa riemergere gli interessi e le ambizioni personali e incide negativamente sulla loro azione e sul consenso che riescono a raccogliere. Si realizzano allora di nuovo le condizioni del teorema di Olson: l’azione di gruppo perde in spontaneità e creatività e i valori che lo guidano perdono di efficacia. Ciò che più conta, nella dialettica dei gruppi politici è rappresentato dalle differenze ideologiche e dalla contrapposizione dei progetti di società. Quando questi elementi si attenuano subentra la logica del calcolo, della contrattazione e della spartizione di quote di potere. Spesso il gruppo che detiene il potere non si trova più di fronte una vera opposizione perché in termini di interessi e di ragione calcolante non è difficile raggiungere accordi, anche se nascosti dietro posizioni conflittuali di facciata. Perciò l’opposizione è portata, quando perde vigore l’elemento ideologico, a negoziare le forme e i livelli di contrasto all’azione del potere. 184

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Il gruppo politico richiede consenso e perciò si presenta come gruppo aperto che sollecita adesioni e si dichiara democratico nella sua struttura interna. Di fatto però spesso esso comprende sottogruppi chiusi, come correnti, fazioni e consorterie se non proprio gruppi settari o società segrete. Inoltre esso si presenta molto fluido alla base e chiuso al vertice malgrado le dichiarazioni di democraticità. La ricerca di Roberto Michels sui partiti politici del 1911, che si è svolta sulla socialdemocrazia tedesca (Michels, 1966), ha palesemente dimostrato la formazione di fenomeni oligarchici anche nei partiti teoricamente più democratici. Nel suo libro Michels ritiene di poter formulare una “legge ferrea dell’oligarchia”. Nel mondo moderno, scrive Michels, il fenomeno della formazione delle élites politiche è accompagnato da strutture di organizzazione e dalla creazione di apparati burocratici. Se questo contribuisce a dare solidità e permanenza all’apparato del dominio, crea distacco tra governante e governato, blocca la circolazione del personale politico e genera il fenomeno oligarchico. L’oligarchia è inevitabilmente connessa con l’organizzazione. “Chi dice organizzazione dice oligarchia”, scrive Michels. Quando dall’effervescenza e dal comunitarismo di un movimento si passa alla struttura di un corpo organizzato, si ottiene il consolidamento dell’élite che in esso ha il potere e il controllo sociale del gruppo, il quale è sempre gestito da una minoranza dirigente cioè da un numero inferiore alla metà dei suoi membri. Dalla partecipazione alla vita del gruppo politico l’individuo riceve una identità che lo qualifica nel dibattito pubblico e che egli tanto più avverte quanto più alto è il livello di identificazione con il gruppo al quale appartiene. La fede e i valori sono non solo, come si è detto, il cemento della vita di gruppo, ma soprattutto l’elemento propulsivo dell’azione politica. Se sono intensamente sentiti, servono a attivare l’organizzazione verso la realizzazione del progetto di società nel quale il gruppo crede. Se invece la fede e la fiducia si affievoliscono, allora l’organizzazione diventa burocrazia e il gruppo, per restare attivo, ha bisogno di personalizzare il potere. Organizzazione e personalizzazione rappresentano dunque due momenti diversi nella vita dei gruppi politici. Il gruppo può aver bisogno dell’organizzazione o del capo carismatico per ottenere il consenso. La perdita o la mancanza di forza di una fede politica viene spesso recuperata dal carisma di un capo. Negli ultimi decenni i gruppi politici hanno subito un profondo mutamento dal quale è emerso un eccesso di organizzazione, di razionalizzazione e di burocratizzazione che ha oscurato gli elementi primari della fede 185

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e della fiducia propri di questo tipo di gruppo. Il personale politico ha fatto della politica una professione o è entrato in politica rappresentando solo se stesso o il suo specifico ruolo nella società civile, mentre soggetti rappresentativi di bisogni o ideali della vita civile non hanno trovato spazio nel mondo della politica. Per altro verso l’economicismo, come valore dominante, ha segnato il prevalere dei gruppi di interesse sui principî di indirizzo della politica verso l’interesse generale e il bene comune e sulla funzione di mediazione che essa svolge. Come è stato notato, nel mondo contemporaneo il rapporto tra governanti e governati è “sempre più mediato e organizzato”. La politica, ha scritto Schmitter, “è divenuta sempre più un gioco che si svolge tra un numero relativamente fisso di organizzazioni prestabilite: ha da tempo cessato di essere un dibattito fra individui su fini pubblici, o una lotta tra classi mobilitate”. Ormai “sono le organizzazioni gli effettivi cittadini delle democrazie odierne” (v. Raniolo, 2002, p. 77). L’organizzazione, la burocratizzazione e la professionalizzazione trasformano il politico nel politicante e attribuiscono alla sfera politica una autonomia che essa non ha, allontanandola dal mondo vitale della società civile. Anche in conseguenza di questo i gruppi politici perdono la loro identità e la loro coesione interna; vivono la politica come contingenza, la limitano al presente senza lasciare spazio per un progetto di società, la gestiscono come prodotto da fornire ai cittadini consumatori. 2. La leadership Al loro interno i gruppi politici presentano un apparato gerarchicoburocratico che per un verso li rende simili ai gruppi secondari, per l’altro però si struttura in funzione della leadership cioè del rapporto psicologico e del carisma che lega uno o più leaders ai membri del gruppo e ai simpatizzanti. Accanto alla struttura formale che regola l’organizzazione del gruppo, si costituisce quindi, e qualche volta si sostituisce, un forte rapporto psicologico informale fra il leader e il gruppo che dà l’indirizzo e attribuisce senso all’azione collettiva. La presenza e la funzione della leadership all’interno del gruppo politico testimoniano ancora una volta la compresenza di rapporti secondari e primari all’interno di questo tipo di gruppo. C’è perciò una profonda differenza fra il presidente di una società per azioni e il segretario di un partito politico. In questo secondo caso è la personalità individuale dotata di carisma che emerge per forza propria dal confronto con altri, supera le ristrettezze e i vincoli dell’organizzazione 186

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formale e si erge a legislatrice della vita di gruppo. I membri del gruppo le attribuiscono un riconoscimento che va al di là delle regole e dei rapporti formali. Non è l’abilità tecnica che dà forza al leader ma il fascino personale che nasce dal basso e viene riconosciuto dal basso. La leadership di un individuo dà la propria impronta al gruppo, lo solleva dalla sfera materiale alla sfera ideale, dà quella spinta all’azione politica che di per sé l’organizzazione non riesce a dare, unifica il gruppo e lo mobilita oltre le regole funzionali dei singoli ruoli. La leadership aggiunge al nudo potere la potenzialità dell’elemento ideale e risolutore, alla forza la rappresentanza coinvolgente dell’intera collettività. Il capo è anche capo perché gli viene riconosciuto il diritto di comandare. Nei periodi di trasformazione storica il potere nasce personalizzato, poi si istituzionalizza e si oggettivizza. Torna a personalizzarsi in epoche di decadenza e di transizione, spesso sotto forma di “cesarismo”, come lo definiva Guglielmo Ferrero. Ma allora emergono anche eroi, innovatori, legislatori e interpreti che svolgono quelle funzioni che in periodi di stabilità sono svolte dalle istituzioni. Alla ricerca dell’ascendente personale del leader risolutore si associa l’urgenza di ricostruire la vita di gruppo e di ridare ad essa certezze e codici di comportamento. Gli stati di necessità si risolvono con la personalizzazione del potere. I leaders diventano non solo il punto di riferimento dell’azione del gruppo, ma anche i “centri di imputazione delle rappresentazioni collettive” (Burdeau). Le qualità che, combinate con altri elementi, caratterizzano la leadership sono: la competenza, la popolarità e il prestigio o carisma. La competenza gioca un ruolo importante nei piccoli gruppi e soprattutto in quelli che svolgono una attività tecnico-specifica. Nei grandi gruppi e quindi nei gruppi politici, competenza vuol dire soprattutto capacità di prevedere, di negoziare, di temporeggiare e di osare. La popolarità è connessa all’ascendente che si è in grado di esercitare sugli altri. Popolarità è capacità di fare presa sull’immaginario collettivo e perciò di mobilitare l’energia latente nella vita di gruppo, l’energia sociale che un centro di potere può attivare. La popolarità di un leader all’interno di un gruppo sta anche nella capacità di presentarsi come “uno di noi”, nella capacità di farsi comprendere, di saper dire ad alta voce ciò che gli altri pensano in silenzio, nel saper liberare il gruppo dalle sue frustrazioni, dalle paure, dalle sue acquiescenti passività. Il leader popolare non è un pensatore politico ma è portatore di un progetto politico che sa esprimere in termini semplici. La sua è una funzione liberatoria proiettata verso il futuro. 187

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La popolarità non è esente da rischi. Il leader ha, nei confronti del suo gruppo, grandi opportunità. Riesce a far accettare decisioni che, prese da altri, sarebbero intollerabili. Ma, per mantenere questa sua influenza sul gruppo, deve anche cercare di conservare e accrescere la sua popolarità. Perciò egli è costretto a mantenersi in scena e se affronta questioni politiche o di interesse pubblico deve evitare quello che i sociologi chiamano effetto saturazione. L’effetto scena si deve rinnovare costantemente e deve interessare il pubblico. Altrimenti, prigioniero del suo personaggio, il leader popolare non avrà gli spazi di manovra sufficienti per indirizzare i suoi seguaci nella soluzione di particolari situazioni o nella accettazione di determinate decisioni politiche. Infine un ulteriore pericolo connesso con la popolarità sta nel fatto che chi detiene la leadership e intende conservarla è costretto a sottomettersi ad una serie di servitù intellettuali, morali, di interesse e comunicative che spesso divengono non compatibili con la sua azione politica. Scriveva Roberto Michels che tra le qualità della leadership ci sarebbero l’“energia del volere”, la superiorità del sapere, la saldezza delle convinzioni, la fiducia in se stessi e le qualità morali che “risvegliano nelle masse sentimenti religiosi”. Questi sentimenti sono affidati al prestigio ma più ancora al carisma del leader. Il prestigio è una qualità che in molte situazioni si fonde con la popolarità e con i risultati dell’azione. La leadership, scrive Georges Burdeau, dal quale riprendo molte delle idee qui esposte, “è sempre azione effettiva, non mero prestigio”. Quando si realizza uno scarso esercizio di potere effettivo “abbiamo un’autorità formalistica, non una leadership”. Il prestigio politico è sempre strettamente legato alle credenze che assicurano la coesione sociale e svolgono una funzione di unificazione. L’unità del molteplice ha sempre carattere religioso che perciò si connette in questo caso al prestigio, almeno indirettamente. Il carisma è, fra gli elementi che caratterizzano la leadership, il più importante, il più incisivo e il più vicino all’aspetto religioso della politica. Il carisma consiste in una qualità considerata straordinaria, il cui possesso determina in un gruppo un riconoscimento incondizionato del leader. Il leader gode allora di fiducia e obbedienza assolute per una “missione” che egli annuncia di voler compiere (M. Weber). Come detto, i leaders, siano essi militari, politici o religiosi, emergono in situazioni storiche di crisi come portatori di nuovi valori o comportamenti. La loro qualità “straordinaria” produce un consenso entusiasta capace di superare la tendenza passiva delle masse o il calcolo economicistico dell’azione individuale. 188

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Secondo Max Weber solo il leader carismatico ha capacità innovative che, particolarmente nella società contemporanea, vanno oltre la cristallizzazione del sistema e la tendenziale apatia o irrazionalismo delle masse. Sempre secondo Weber è possibile che il carisma sia posto al servizio delle moderne democrazie minacciate dalla burocratizzazione. Però a due condizioni: 1. Che il leader utilizzi la forza positiva del carisma per lo sviluppo storico e umano della collettività e non per i suoi vantaggi personali o del gruppo che lo circonda più da vicino. Che esso, dice Weber, si faccia interprete della storia di un popolo e quindi della sua continuità e della sua forza di sviluppo, prima di tutto in senso culturale. 2. Che il leader non pensi di manipolare le masse sfruttandone il carattere irrazionale, emotivo e suggestionabile ma di infondere in esse la coscienza del momento storico e il senso dell’azione politica. Le masse, dice ancora Weber, anche nelle strutture “razionali” delle nostre società, agiscono “approssimativamente” senza alcuna conoscenza dello scopo e del senso di tali strutture. Esse rinnovano un “consenso di conformità” che è abituale e che corrisponde al carattere di un agire di massa senza riferimento di senso. Questo consenso deve essere invece motivato e reso un “consenso di legittimità”. Solo se il potere poggia su queste condizioni si potrà realizzare quella che Weber chiama una democrazia plebiscitaria che si fonda sul carisma responsabile del capo e sul consenso consapevole delle masse: una democrazia il cui leader rappresenti una moderna incarnazione del capo carismatico, connessa con le strutture della società razionalizzata e da esse controllato. Per questo rapporto però il leader deve poter contare su una élite soprattutto intellettuale e creativa capace di svolgere un ruolo intermediario ma essenziale fra lui e le masse. Così la democrazia plebiscitaria, organizzata attorno ad un capo provvisto del carisma e del consenso necessario a dirigerla, può sostituire una “democrazia acefala” che, nel migliore dei casi, può risultare solo, per veti e blocchi incrociati, una democrazia della paralisi. Per Weber la democrazia plebiscitaria unisce due elementi essenziali della politica moderna: la legittimazione che parte dal basso e la centralità, la capacità decisionale e la responsabilità del potere. Perciò la democrazia plebiscitaria è l’unica formula capace di produrre una politica attiva e creativa e l’unica capace di contrastare la “gabbia d’acciaio” della progressiva burocratizzazione che produce appunto una condizione di paralisi. Nel considerare il ruolo della leadership, Gerth e Mills (1969) si sono chiesti quali siano i possibili comportamenti di un leader all’interno del189

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le istituzioni esistenti. Hanno così distinto questi comportamenti in tre tipi: 1. È un leader di routine colui che non crea il suo ruolo ma svolge una funzione guida in una istituzione già esistente. 2. È un leader innovatore colui che rielabora anche radicalmente un ruolo già esistente. 3. È infine un leader promotore colui che, come un imprenditore politico, crea sia il suo ruolo che il contesto nel quale si esercita. Quali sono gli accorgimenti per conservare una posizione di leader? Ancora Gerth e Mills sottolineano l’importanza della capacità da parte del leader di mantenere una posizione centrale all’interno del gruppo, di comunicare, di percepire bisogni e interessi emergenti, di saper conformarsi ai valori che cambiano e infine di saper usare volta a volta il consenso, la forza e la paura. Nella società moderna in particolare è necessario saper conservare innovando come voleva Gaetano Mosca, mentre un tasso di mutamento troppo elevato finirebbe col coinvolgere le stesse radici della leadership. Importante è anche saper sviluppare una politica di immagine. La presenza sui media è a questo fine particolarmente necessaria, ma un eccessivo presenzialismo andrebbe incontro ad un effetto saturazione che metterebbe in crisi quell’elemento di mistero che deve circondare la figura del leader. Il leader deve saper comunicare. La sua è una comunicazione politica nella quale egli deve saper dimostrare di comprendere e interpretare l’opinione pubblica, di rappresentare i suoi valori e i suoi desideri, di promuovere un’azione politica efficace in funzione di questi valori e di questi desideri. Le posizioni di leadership possono entrare in crisi per diverse ragioni. Un leader di partito inglese che perde le elezioni deve mettersi da parte e lasciare il posto ad altri. Qui la motivazione è la cattiva gestione del partito. Un caso di corruzione può causare la fine di una leadership. Ma altre ragioni più sottili possono determinare una crisi, dovuta al mutamento dei valori di cui il leader si faceva portatore, alla perdita di visibilità che permette ad altri di occupare la scena di fronte alla pubblica opinione e infine alla perdita di quelle funzioni sulle quali era fondata la posizione di leader. 3. Gruppi e movimenti Ai gruppi politici che si organizzano su un progetto di società fondato su valori condivisi, che dispongono di un apparato e agiscono per la conquista del consenso, la società civile oppone alcune formazioni o aggregazioni, portatrici di interessi particolari e rappresentanti poteri sociali, la cui azione è volta a influenzare le scelte e le decisioni politiche in funzione di 190

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questi poteri. Sono formazioni a stabilità relativa e talvolta informale che animano il confronto fra politica e forze sociali e che sono impropriamente dette gruppi data la loro coesione sociale molto labile perché fondata sugli interessi. Si tratta di clientele, gruppi di interesse, gruppi di pressione e lobbies. I gruppi clientelari si formano attorno ad una figura politica o di elevato livello sociale e sono costituiti da un insieme di individui disposti a rendere servigi al leader in cambio di favoritismi, di protezione e difesa nei confronti delle istituzioni. La contropartita di questa protezione è costituita dai consensi elettorali su cui il leader può contare. Le formazioni clientelari si manifestano ampiamente anche nei partiti di massa, laddove il consenso viene scambiato dai politici con la distribuzione di pubbliche risorse e dei vantaggi del potere di cui dispongono. Ad una fitta rete di ‘fedeltà personali’ corrisponde perciò una quota di partecipazione ai privilegi del potere. Una forma molto avanzata di clientelismo è rappresentata, come si è visto, dalla figura del boss americano che dispone di un potere effettivo ma non istituzionale di controllo di un certo pacchetto di voti. Il boss, scrive Lasswell è “colui che esercita un potere effettivo senza che questo sia formalizzato nelle prospettive di autorità”. Egli è l’istituzione di raccordo fra partito politico e società civile. La sua funzione perciò è tanto quella del procacciatore di voti quanto quella di strumento dell’apparato di partito per controllare alcuni settori della vita civile. I gruppi di interesse sono attori collettivi del sistema sociale per rappresentare e rivendicare interessi della società civile di natura non soltanto economica e per “evidenziare la presenza di atteggiamenti condivisi da parte di un aggregato di persone che danno luogo a rivendicazioni di natura più o meno continuativa” (Sola, 2006, p. 95). Nella categoria più generale dei gruppi di interesse vanno distinti i gruppi di pressione che rappresentano una struttura organizzata con proprie logiche di azione per imporre determinate decisioni in sede politica. La pressione esercitata è accompagnata dalla minaccia di una sanzione nel caso in cui la richiesta non venga accolta. L’azione dei gruppi di interesse è sempre più diffusa sia in relazione alla crescente complessità sociale, sia in relazione al fatto che l’economicismo è diventato la logica dominante dell’azione politica. Resta comunque una profonda differenza fra partiti politici e gruppi di pressione, perché: a) mentre i partiti mirano alla conquista e all’esercizio del potere, i gruppi di pressione mirano solo ad agire sul potere per affermare e difendere un determinato interesse; b) l’azione del gruppo di pressione non ha significato o peso ideologico, non mira al consenso ma 191

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è azione circoscritta e limitata all’interesse da rappresentare e fondata sulla sua forza sociale. Le lobbies il cui nome deriva dalle sale del parlamento o dei grandi alberghi in cui avvengono gli incontri informali tra rappresentanti di interessi e parlamentari prima o durante l’iter parlamentare di una legge, sono vere e proprie organizzazioni di professionisti tecnicamente preparati, per convincere i decisori politici e influenzare le loro scelte. I lobbisti possono essere: a) “funzionari inquadrati all’interno degli uffici di ‘relazioni istituzionali’ appositamente istituiti da gruppi che per le loro dimensioni ed esposizione pubblica ritengono necessario creare una struttura permanente dedicata a coltivare rapporti continui con i governanti o la burocrazia”; oppure b) soggetti inquadrati “in agenzie indipendenti che mettono a disposizione dei gruppi le proprie competenze e i contatti istituzionali per promuovere una causa che sta a cuore ai loro clienti” (Mattina, 2010, pp. 151-152). L’attività di lobbying è istituzionalizzata e regolata in alcuni paesi, come gli Stati Uniti, ma non in Italia, dove tuttavia è in pieno sviluppo. Molto diffusa è a livello di Unione Europea. All’inizio degli anni ’90 si ipotizzava che fossero operative a Bruxelles circa 3.000 agenzie di consulenza “guidate in maggioranza da consulenti inglesi o statunitensi che avevano trasferito nella dimensione europea la tradizione, radicata nei loro paesi, dello scambio di informazioni ad elevato contenuto tecnico tra rappresentanti dei gruppi e burocrazie pubbliche” (Ivi, pp. 156-157). Come ha scritto recentemente un professore dell’università di Oxford “Washington e Bruxelles competono per il titolo di paradiso dei lobbisti. Emerge che entrambe queste enormi, tentacolari, eterogenee entità politiche, l’Unione Europea e gli Stati Uniti, sono bravissime nell’aggregare interessi particolari e a soddisfarne il più possibile in contemporanea” (Ash, 2011). Diversamente dai gruppi con obiettivi limitati e strumentali, i movimenti rappresentano la forza irruente e dirompente della società civile nei confronti di istanze e problemi che la politica non riesce a rappresentare o risolvere. Questi problemi aumentano tanto più, quanto più le aspettative nei confronti della politica aumentano, anche in settori nei quali la politica è tradizionalmente incapace di proporre delle soluzioni, perché questi settori investono la sfera dell’etica, della biologia, della vita privata dei cittadini. I movimenti in genere non hanno forma, né struttura o apparato burocratico. Le loro finalità sono spesso provvisorie e limitate e la loro irruenza costituisce la forza dirompente che essi hanno rispetto ai gruppi. I movi192

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menti rappresentano l’effervescenza della società civile, sono in nuce la possibilità di una società allo stato nascente, l’espressione di forze non ancora istituzionalizzate portatrici di bisogni della società civile non recepiti dalla politica. Tra i molteplici movimenti che si sviluppano nella società contemporanea è possibile distinguerne almeno quattro tipi: 1) Movimenti valoriali, che intendono affermare o difendere valori significativi per la società o per la politica, come i movimenti a sostegno dei diritti dell’uomo o per la difesa della democrazia; 2) Movimenti di contestazione o di protesta contro decisioni o silenzi della politica su temi ritenuti rilevanti per la società civile; 3) Movimenti di repressione, rivolti contro idee, individui e gruppi, come sono stati i movimenti contro gli ebrei nella Germania nazista; 4) Movimenti rivoluzionari, rivolti a sovvertire l’ordine politico, in funzione di una ideologia o come reazione alla tirannia. Le rivoluzioni sono un fenomeno politico molto studiato nelle sue caratteristiche e nei suoi esiti. La rivoluzione è un tentativo violento, che coinvolge un’intera società, inteso a rovesciare il potere esistente sostituendo sia i valori che lo legittimano, sia l’ordine giuridico sul quale si regge. È una nuova legittimità che si afferma contro la legalità esistente per sostituirvi un altro ordine giuridico. La rivoluzione si differenzia dal colpo di stato perché è spinta da un ampio consenso popolare e perché produce un radicale rivolgimento dei valori sociali e politici. Il successo di una rivoluzione produce l’organizzazione e la stabilizzazione di un nuovo ordine sociale e politico. Con questo appare un nuovo spirito conservatore per proteggere le istituzioni appena create. “Dei giacobini ministri – diceva Talleyrand – non saranno mai dei ministri giacobini”. Per evitare il blocco dello spirito rivoluzionario, si è imposta l’idea, come è avvenuto in Cina, della “rivoluzione permanente” che dovrebbe stimolare una costante mobilitazione delle masse verso la realizzazione degli ideali rivoluzionari, impedendo così l’affermarsi di tendenze conservatrici sempre presenti in una società e sostenute dai processi di istituzionalizzazione, burocratizzazione e stabilizzazione. Tutti i movimenti, e non solo quelli rivoluzionari, hanno breve durata come tali. Il movimento cessa di essere uno strumento di mobilitazione e si istituzionalizza trasformandosi in gruppo di pressione o in partito. Oppure si commercializza diventando una agenzia che fornisce beni o servizi, come alcuni movimenti di volontariato. Infine può trasformarsi in senso involutivo (viene cioè riassorbito dal mutamento sociale) o in senso radicale sviluppando elementi conflittuali e antisistema (v. Raniolo, 2002, pp. 94-5). 193

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4. I partiti Il concetto di partito, come ‘parte’ di un gruppo che lotta per far prevalere o per difendere le proprie idee, è un concetto sociologico che si concretizza in tutte le forme di associazione. Il partito politico in senso lato è sempre esistito come insieme di più individui che, condividendo le stesse idee, lottano per conquistare il potere politico, guidati o meno da un proprio ideale di società da realizzare. Portatori di ideali e di valori sono certamente i partiti politici moderni, perché è su questi che essi cercano il consenso e tentano di costruire quella unificazione della volontà collettiva che è compito della politica moderna. Per cui il partito politico moderno ha caratteristiche proprie che non si riscontrano nel passato. Il partito nasce dal popolo e per il popolo sfruttando bisogni, interessi e esigenze materiali e spirituali. Il partito porta in sé un’idea di società e ha come riferimento la società reale. Su questa sviluppa i propri programmi e i propri comportamenti. Proprio per questo nella storia moderna esso muta di forma adattandosi alle trasformazioni del contesto sociale. Non si potrebbe comprendere la storia dei partiti politici senza fare riferimento alle trasformazioni del contesto sociale e ai rapporti tra società e politica. Il partito politico moderno nasce dalla esperienza del parlamento inglese e dagli esiti della Rivoluzione americana. Nel suo discorso agli elettori di Bristol (1770) Edmund Burke definiva il partito come “un corpo di uomini uniti per promuovere con i loro sforzi congiunti l’interesse nazionale sulla base di un principio particolare che essi condividono” (v. Lasswell-Kaplan, 1979, p. 186-7). Con lo sviluppo della democrazia rappresentativa il partito diviene uno strumento essenziale del rapporto fra società e politica e della manifestazione elettorale. Fra società e politica il partito rappresenta la “cinghia di trasmissione del consenso” e quindi un centro vitale di raccordo fra le esigenze della società e le decisioni della politica. Le prime formazioni politiche moderne nascono in Inghilterra con il Reform Act del 1832 e da allora in poi il partito si evolve in organizzazione sempre più strutturata in concorrenza con altre per ottenere, attraverso il voto, il consenso popolare sulla promessa di realizzare un progetto di società. Il partito politico rappresenta l’organizzazione politica del potere comunità, il passaggio dalla forza diffusa dell’opinione pubblica alla forza consapevole e organizzata. Se è un partito di governo, la sua funzione sarà quella di canalizzare gli atteggiamenti della comunità che rappresenta e di tradurli in decisioni politiche del potere apparato legittimate dal consenso. Tuttavia,

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come vedremo, nello sviluppo dei partiti, la forza predominante e organizzata dell’apparato finisce col prevalere sulla forza maggioritaria ma diffusa dell’opinione pubblica. Così, come è stato scritto (Mortati, 1958), con il partito di massa è la “Società che si fa Stato” finendo però, proprio per il carattere passivo delle masse, per diventare uno strumento di controllo politico delle masse, facilmente influenzabili quando viene meno il pluralismo creativo delle idee (v. su questo Massari, 2004, p. 13-14). Sulla formalizzazione e istituzionalizzazione della volontà della comunità finisce così per prevalere l’attrazione del potere, l’accentramento burocratico e oligarchico nel senso descritto da Michels nella sua ricerca sul partito politico (1966). Perciò appare molto appropriata la definizione dei partiti che, già all’inizio del XX secolo, dava Max Weber, come associazioni “fondate su un’adesione (formalmente) libera, costituite al fine di attribuire ai propri capi una posizione di potenza all’interno di un gruppo sociale, e ai propri militanti attivi possibilità – ideali o materiali – per il perseguimento di fini oggettivi o per il raggiungimento di vantaggi personali o per entrambi gli scopi” (v. Massari, 2004, pp. 16-17). Idealmente, scrive Burdeau, i partiti dovrebbero saper interpretare la volontà popolare e tradurla in decisioni razionali e, se così fosse, la loro differenziazione si riferirebbe a interpretazioni diverse della ragione e le loro divisioni sarebbero divisioni intellettuali e non sociologiche. È l’idea di potere, è l’idea di una politica creatrice, di una politica volontarista che mette in crisi questa concezione privilegiando il progetto di riformare la società, cioè di rifarla in base ad una razionalità astratta che nega la ragione storica. In questo modo la rappresentanza espressa dal partito si riferisce ad una società fondamentalmente divisa (v. Burdeau, 1982, vol. I, p. 260 e segg.). Il partito in sostanza non rappresenta ma diviene la “casa ideologica” del cittadino moderno. È stato detto che, con le attrazioni della società moderna, la casa è diventata piuttosto un albergo. Ebbene anche il partito, senza riferimenti ideologici, non è che un albergo, l’albergo degli elettori e molto spesso un “albergo dei poveri”. Questo si riscontra nell’evoluzione della forma partito. Il partito politico nasce come partito di notabili o di quadri. Sono “forme di associazione tendenzialmente effimere che si aggregano, soprattutto nella campagna elettorale, attorno a personalità di rilievo nella vita della comunità. Vero e proprio seguito personale di individui che si occupano di politica in virtù della loro condizione economica privilegiata, questi partiti hanno come fondamento la ‘deferenza’, intesa come considerazione sociale diffusa e 195

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consolidata nel tempo, e come scopo quello di portare al governo figure eminenti della società civile” (Sola, 2006, p. 103). Dunque questi partiti non hanno né una organizzazione né una diffusione sul territorio. I rapporti fra elettori ed eletti sono per lo più personali, anche per il numero molto ristretto di elettori. Il partito apparato nasce alla fine dell’Ottocento con il sorgere e l’affermarsi dei partiti socialisti. Una struttura rigidamente gerarchica comprende sezioni, federazioni e una direzione centrale. Nascono il funzionario professionista della politica (si ricordi il saggio di Max Weber su “La politica come professione”), la disciplina di partito, che lega i rappresentanti eletti, la dottrina di partito, cioè la base ideologica che unisce la base con il vertice. Ai primi del Novecento il partito sviluppa una politica per le masse, ma le masse entreranno in politica solo dopo la seconda guerra mondiale. Il partito di massa perfeziona il partito apparato con le tecniche della propaganda e l’uso dei mezzi di comunicazione di massa. La comunicazione politica diviene un raffinato strumento per il controllo e la manipolazione politica delle masse. Il lento abbandono delle vecchie ideologie politiche e la concentrazione degli interessi politici al presente portano ad un uso strumentale delle emozioni e dei sentimenti. Al vecchio partito di classe si sostituisce il partito di elettori che bisogna catturare non su un progetto ideologico ma sugli interessi del momento. Nasce così il “partito pigliatutti”, cioè il catch-all party, al quale segue, in tempi più recenti secondo Katz e Mair (1995), il cartel party. Questo tipo di partito non sarebbe più la struttura di intermediazione fra società e Stato, partecipando contemporaneamente di entrambe queste sfere, ma taglierebbe i rapporti con la società e si insedierebbe all’interno dello Stato come sua agenzia sconvolgendo il modello democratico. I partiti non sarebbero più associazioni di e per i cittadini e la politica sarebbe più una occupazione che una vocazione. Se la politica è orientata da un cartello fisso di partiti che ha il monopolio del mercato elettorale, e perciò il controllo politico delle masse, gli elettori non hanno più possibilità di scelte innovative e la democrazia “diventa un mezzo per mantenere la stabilità sociale” con un rituale consolidato, senza possibilità di cambiamento sociale (v. Massari, 2004, pp. 77-82). A questo punto la vecchia democrazia rappresentativa diventa una forma vuota e, come si è visto, lascia emergere la contro-democrazia, attraverso la quale il popolo sovrano cerca di riprendere le sue prerogative. In primo luogo fallisce, dopo due secoli, il volontarismo politico perché si perde la relazione fra il politico e il sociale. Il volontarismo politico, scrive196

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va Georges Burdeau, ha fatto seguito alla convinzione secondo cui “la società costituisce un dato grezzo, una sorta di materia prima alla quale la volontà dei governanti è chiamata a dare una forma, a conferire uno stile. In breve, la società è chiamata ad essere ciò che di essa faranno i poteri. L’aspetto essenziale di questa concezione è che questa volontà politica creatrice è perfettamente autonoma. I governanti sono liberi sia nella rappresentazione che si fanno dell’ordine sociale desiderabile sia nella scelta delle modalità della sua realizzazione. Nel contesto democratico, naturalmente, questa libertà è subordinata alla volontà popolare che designa i detentori del potere. Ma, una volta ottenuta l’investitura, questi dispongono dell’apparato del potere pubblico e soprattutto delle leggi per modellare il materiale sociale secondo il progetto che hanno concepito” (Burdeau, 1987, pp. 55-6). Ora, da una parte il partito politico ha perso il fascino di un progetto per il futuro come immagine coinvolgente e promozionale di impegno e partecipazione, dall’altra ogni scenario a lungo periodo, sia che riguardi il passato o il futuro, si perde nell’immediatezza del presente, rispetto al quale il vecchio partito è come un pesce fuor d’acqua. L’immediatezza è l’evento, è la televisione. Negli anni ’80, Stefania De Seta scriveva, nell’introduzione ad un notevole volume collettaneo sulla crisi dei partiti, che quando la vita collettiva diventa più convulsa, “quando la società cresce in complessità e si segmenta, i bisogni si diversificano e gli obiettivi individuali e comunitari si moltiplicano. È allora più difficilmente proponibile il “grande progetto”, bello ma lontano: lontano nel tempo, lontano dagli interessi più immediati del singolo o del piccolo gruppo. Ed ecco che l’immagine di un partito politico che voglia essere ancora espressione di un’ideologia, e si proponga come garante del perseguimento di questa in un tempo differito, si appanna. Il partito perde la sua forza di impatto, non comunica più col sociale, non riesce ad ottenere il sostegno dei cittadini che ‘hanno fretta’, che non intendono scambiare i loro obiettivi più prossimi con ideali da realizzare in futuro” (De Seta, 1987, p. 14). Se il partito diventa una forma vuota, inadeguata ad un nuovo tipo di società, non ha più attrattiva per l’elettorato e questo è evidenziato da una serie di indicatori messi bene in luce da Oreste Massari nella sua ricerca sui partiti (2004). Un primo indicatore è dato dal calo della partecipazione elettorale, un trend evidente e visibile, nota Massari, già a partire dagli anni Settanta, “ma cresciuto nettamente negli anni Novanta, sebbene sulla sua grandezza ci siano stime contrastanti, a seconda anche dei sistemi di calcolo adottati e del numero e qualità dei casi prescelti” (Ivi, p. 100). Ri197

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salta poi un aumento della volatilità elettorale, cioè l’indice di cambiamento elettorale. In Italia essa è valutata oltre il 22% negli anni Novanta. Un terzo indicatore è costituito dall’indebolimento dell’identificazione partitica che “indica il grado e l’intensità dell’attaccamento psicologico del singolo individuo verso un partito” (Ivi, p. 106 e segg.). Infine, un quarto indicatore è costituito dalla crescita elettorale dei nuovi partiti che testimonia il cedimento e l’indebolimento dei partiti tradizionali. Accanto ai nuovi partiti emergono poi i movement parties che cercano di trasformare la rigidità della vecchia struttura partitica e i single issue parties o partiti monotematici che trasformano in tema politico uno degli interessi più significativi della vita civile (come sono i partiti dei pensionati, degli automobilisti ecc.) (Ivi, p. 111 e segg.). La decadenza dei partiti politici e delle loro funzioni si svolge in parallelo con il mutamento della società e con il passaggio dal regime borghese, che li aveva visti nascere, al regime di massa, che richiede nuove forme e formule di rappresentanza politica. Se i partiti non riescono più a gestire la rappresentanza politica per la sua complessità, per la difficoltà di superare gli interessi di parte e la cristallizzazione dell’apparato oligarchico, altre istituzioni se ne fanno carico e sono in primo luogo i media, alcuni centri di potere economico e alcuni poteri dello Stato. Ma tutte queste forze possono rendere palese e rappresentare una condizione di critica e di denuncia, ma non possono supplire all’azione politica che si insabbia nell’apparato burocratico-oligarchico e non scioglie il nodo più delicato del sistema democratico, quello cioè del rapporto di rappresentanza che occorre ricostituire in nuove forme.

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III Il popolo elettore e il personale politico

1. Il corpo elettorale La società moderna, scrive Rosanvallon, non ha mai cessato di radicalizzare il carattere convenzionale e astratto del legame sociale. “Lo sviluppo delle convenzioni e delle finzioni giuridiche è in effetti legato alla preoccupazione di assicurare una uguaglianza di trattamento a individui per natura diversi e di istituire uno spazio comune tra uomini e donne tra loro molto diversi. La finzione è in tal senso una condizione di integrazione sociale in un mondo di individui, mentre nelle società tradizionali sono al contrario le differenze che sono un fattore di integrazione” (Rosanvallon, 1998, p. 14). Democrazia e popolo assolvono questa funzione. “Nella democrazia il popolo non ha più forma: perde ogni densità corporale e diviene positivamente numero, cioè forza composta di eguali, di individualità puramente equivalenti sotto il regno della legge. È ciò che esprime in maniera radicale il suffragio universale: esso segna l’avvento di un ordine seriale. La società non è più composta che da voci identiche, totalmente sostituibili, ridotte nel momento fondatore del voto a unità di conto che si accumulano nell’urna: essa diviene un puro fatto aritmetico” (Ivi). In questa forma la democrazia è potere del popolo e il popolo prende forma politica andando a votare. Il potere comunità si esprime politicamente in forma propria e generalizzata scegliendo la propria rappresentanza. Nel momento delle elezioni l’interesse dei cittadini si concentra sulla scena politica: aumentano le tensioni e le divisioni, le scelte possibili vengono radicalizzate, le motivazioni della scelta sono molteplici ma trovano poi la loro unità numerica nell’urna. Il procedimento elettorale comprende, come fasi rilevanti: a) la presentazione dei partiti e la campagna elettorale, b) il corpo elettorale, c) il voto, d) il sistema elettorale, e) il comportamento elettorale. 199

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Nella campagna elettorale i partiti si presentano con un programma e cercano di migliorare l’immagine di cui godono presso l’opinione pubblica. Il partito si apre agli elettori, la comunicazione politica si fa intensa per sollecitare il consenso. In genere il programma è attraente ma irrealistico. Come catch-all-party il partito contemporaneo cerca di blandire gli interessi dei singoli gruppi, offre un bilancio positivo del proprio passato, processa i rivali su passato e futuro, adesca le masse non sul piano razionale ma su quello dei loro gusti e dei loro istinti. Il corpo elettorale comprende tutti i cittadini che hanno i requisiti necessari per farne parte. Si tratta di requisiti positivi, come la cittadinanza e la maggiore età e dell’assenza di condizioni negative, come l’incapacità civile e la indegnità morale. Ciascun membro del corpo elettorale esprime un voto. Il voto, per la nostra costituzione è universale, personale, uguale, libero e segreto. Il voto è una scelta che esprime un giudizio positivo e uno negativo. È “la moneta della politica” che segna un investimento di fiducia e fornisce, scrive Catlin, “la migliore unità di misura per calcolare ciò che si può e non si può fare” (cit. in Lasswell, 1979, p. 185). Il potere di scelta ha però un diverso significato in un sistema bipartitico o bipolare e in un sistema multipartitico. Nel primo il potere di scelta è diretto. L’elettore esprime un voto positivo e uno negativo. Egli sceglie chi governerà e indica il leader e al tempo stesso designa la forza di opposizione. Nel secondo l’elettore compie una scelta indiretta e prevalentemente ideologica perché la costituzione del governo e le alleanze di coalizione avverranno dopo le elezioni e quindi sfuggono alla sua decisione. Mentre in un sistema bipartitico si realizza una situazione concorrenziale, in un sistema pluripartitico la configurazione dei partiti è praticamente cristallizzata: nessuno ha interesse a muoversi. Sotto l’apparenza di una pluralità di operatori e quindi di una situazione concorrenziale “i prezzi che si formano sono sottratti al libero gioco del mercato e tendono a identificarsi con i prezzi di monopolio”. Si crea di fatto un oligopolio (D’Amato, 1993, p. 149 e ss.). La rappresentanza politica che risulta dal voto, come scrive la Urbinati, “è la sintesi dinamica di due forme di rappresentanza, quella elettorale o formale da un lato, e quella virtuale o ideologica dall’altro” (Urbinati, 2009, p. 70). Tuttavia questa rappresentanza risulta in qualche modo pilotata dal sistema elettorale vigente, il quale, a sua volta, è in stretta correlazione con il sistema partitico e con gli interessi dei maggiori partiti. Si discute tanto sul fatto che i sistemi elettorali favoriscono certi sistemi partitici e si discute poco, invece, sul fatto che sono gli interessi dei partiti e 200

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non la situazione storica o culturale che fanno, mantengono o modificano i sistemi elettorali. Schematicamente questi sistemi si distinguono in: a) “Plurality”, cioè sistemi maggioritari a un turno in collegi uninominali: vince il candidato che ottiene la maggioranza relativa dei voti; b) “Majority”, cioè sistemi maggioritari a doppio turno in collegi uninominali: vince al primo turno il candidato che ottiene la maggioranza qualificata dei votanti (metà + 1 degli elettori) e al secondo turno il candidato che ottiene la maggioranza semplice; c) Rappresentanza proporzionale. Con il proporzionale puro si ha la riproduzione nell’organo rappresentativo dei rapporti di forza presenti nell’elettorato. Ma il proporzionale può essere corretto da: 1) un premio di maggioranza, che dovrebbe garantire la stabilità e la funzionalità del governo; 2) uno sbarramento (in genere tra il 3 e il 5%) per le liste che non raggiungono tali percentuali. Molte variabili sono state introdotte nei tre sistemi, dando luogo a sistemi misti. Esistono poi sistemi non maggioritari non proporzionali, per esempio quelli con voto limitato, nei quali si vota per un numero di candidati inferiore ai seggi da assegnare e un numero di questi viene attribuito di fatto dalla legge alle minoranze (per es. 1/5). Un grosso problema è poi quello posto dal recupero dei resti nei sistemi proporzionali, per il quale si ricorre a diverse tecniche di aggiustamento. Infine nei collegi plurinominali i partiti presentano proprie liste che possono influire fortemente sulla rappresentanza politica e sulla democraticità della scelta elettorale secondo che la scelta avvenga su lista libera, lasciando all’elettore la possibilità di esprimere anche voti negativi o di votare candidati al di fuori della lista votata (panachage), oppure su lista semilibera dove l’elettore deve esprimere una preferenza nominativa, oppure infine su lista bloccata, sulla quale l’elettore non ha scelta e deve rimettersi all’ordine di preferenza deciso dal partito. Ci si può chiedere se l’introduzione, la diffusione e magari il perfezionamento delle primarie riuscirà a rendere più democratica la scelta dei candidati da parte dei partiti e la composizione delle liste. Indubbiamente le primarie rappresentano una forte spinta alla democratizzazione e all’ampliamento della partecipazione alla vita politica. Tuttavia giustamente Oreste Massari fa notare che la selezione dei candidati all’interno dei partiti “si muove tra due opposti pericoli: quello delle decisioni prese dalle oligarchie partitiche e quello di una deriva populistica” (2004, p. 147). Per cui “mentre una maggiore democratizzazione può condurre ad una minore responsabilità collettiva dei partiti e a una diminuzione della capacità di questi di 201

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operare efficacemente nell’arena parlamentare e governativa”, d’altra parte le tendenze oligarchiche dentro i partiti, proprio come aveva dimostrato Roberto Michels, “sono una realtà e sono sempre più mal sopportate da una cittadinanza (e in particolare da coloro che partecipano alla politica) assai più sensibile del passato alle istanze di democratizzazione e di coinvolgimento nelle decisioni” (Ivi, p. 149). Sistemi maggioritari e proporzionali presentano in varia misura pregi e difetti. In genere il maggioritario favorisce un più stretto rapporto di rappresentanza fra elettore ed eletto e una maggiore sensibilità al senso della rappresentanza. Nella politica contemporanea si cercano accorgimenti per creare una solida maggioranza che dia più stabilità all’esecutivo (come avviene peraltro nel proporzionale con il premio di maggioranza), ma questo produce l’emarginazione delle minoranze e possibili posizioni autocratiche. Di fronte a queste Gaetano Mosca diceva che le minoranze non devono badare tanto al numero dei loro rappresentanti. Basta, diceva, una piccola minoranza attiva e preparata che sappia svolgere una funzione di critica, non di alternativa. Il proporzionale invece dà maggiori garanzie alle minoranze contro gli abusi delle maggioranze, ma favorisce il formarsi delle oligarchie di partito perché il rapporto con il partito prevale sul rapporto con l’elettore. Per questo non sono pochi i tentativi di progettare sistemi elettorali misti che uniscano al sistema maggioritario una quota di seggi riservata al proporzionale. Lo studio del comportamento elettorale è uno dei temi più delicati e scottanti dell’analisi politica. La scelta dell’elettore può derivare da situazioni concrete, contingenti e mutevoli, oppure da fattori emozionali e slanci ideali. Catturare l’interesse pratico o la sensibilità ideale dell’elettore per ottenere il consenso significa immergersi nella situazione storica e nel presente e cercare di misurare interessi e sensibilità delle diverse componenti dell’elettorato, fotografarne l’immagine della politica e quella offerta dai singoli partiti. A questo concorrono i vari sondaggi e le analisi motivazionali che accompagnano la campagna elettorale. Ma c’è ancora un altro elemento di cui bisogna tener conto avendo anche di fronte i rapporti di vicinanza-lontananza dell’elettore dai singoli partiti. Questo elemento è, come nota Georges Burdeau, “che l’elettore non vota per un partito astratto ma in funzione di una configurazione generale delle forze presenti e che spesso il suo voto sarà più un voto negativo che positivo: voto contro A, dunque voto per B”. Questo ci richiama ai tipi di consenso che il voto esprime e al livello di legittimazione che esso manifesta nei confronti delle forze politiche. Un 202

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conto è, come si è visto, un consenso di necessità o, come in questo caso, un consenso di contrasto, un conto è un consenso interiorizzazione o un consenso accordo. La mancanza di una marcata componente ideologica rende l’elettorato incerto e fluttuante e di conseguenza l’azione politica delle maggioranze e del governo debole e insicura. Anche la crescita dell’astensionismo è una prova dell’apatia nei confronti della politica se non addirittura di un atteggiamento antipolitica. Le ragioni dell’astensionismo sono di solito l’incertezza, l’indifferenza, la sensazione di estraneità al sistema o l’atteggiamento anti-politica. L’astensionismo è una forma di autoesclusione dalla vita politica e manifesta la rottura del rapporto di comunicazione o di rappresentanza fra governanti e governati. Per questo, venendo a mancare la percezione delle idee e degli atteggiamenti prevalenti nella società civile, la classe governante, ormai troppo distante dalla società che dovrebbe governare, moltiplica i sondaggi, che sono sulla stampa pane quotidiano. Con tecniche raffinate essi estrapolano giudizi sugli eventi del giorno o giudizi sul governo e le sue decisioni. Sono eventi essi stessi che influenzano l’opinione pubblica, specie in periodo elettorale. Nelle ultime elezioni francesi un quotidiano si è posto la questione se il diffondersi dei sondaggi in occasione delle elezioni, enfatizzando le scelte degli intervistati, rendendole pubbliche, misurabili, confrontabili, non contribuisca a uccidere il voto e il significato più profondo che esso ha in una democrazia. In fondo il sondaggio non è solo informazione, è tentativo di influenzare la scelta politica. Esso non ci lascia più soli nello scegliere, con la nostra responsabilità individuale e con i nostri ideali da rispettare. Ci dice che cosa fanno gli altri. Cosicché le scelte degli altri diventano al limite determinanti per le nostre scelte. Credere di conoscere in anticipo quali saranno i risultati delle elezioni introduce un elemento di valutazione che finisce col pesare in maniera decisiva sul nostro comportamento elettorale. A ciò si deve aggiungere poi che l’attendibilità dei sondaggi e la mancanza di motivazioni delle risposte sollevano molti dubbi sulla loro interpretazione (v. Atteslander, 1987). Le variabili del comportamento elettorale sono piuttosto complesse. Riguardano in primo luogo il condizionamento del sistema elettorale. Per chi devo votare? Per un candidato o per un partito? Propendo per una scelta ideologica, per una scelta di interesse, per una scelta tecnica o per una scelta personale? In secondo luogo è relativa alla situazione sociale dell’elettore in termini di istruzione, occupazione e reddito. Infine è connessa alla percezione soggettiva o immagine della realtà politica: può influire l’immagine generale 203

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della società e della politica, così come lo stato di frustrazione o di euforia per lo svolgersi del conflitto politico (così come avviene assistendo ad una partita di calcio); può derivare dall’immagine che sono riusciti a trasmettere i singoli candidati o partiti; può essere il prodotto di una ricerca di valori fondanti della politica come la libertà, la giustizia sociale, la democrazia ecc. Il voto è una scelta politica. Premia un partito, che risulta vincitore delle elezioni, e indica l’indirizzo politico che la maggioranza degli elettori vuole seguire. L’insieme dei candidati eletti forma la rappresentanza politica alla quale è affidato il processo decisionale, che comprende le scelte, i fini e i mezzi dell’azione collettiva. Dopo l’atto formale della selezione attraverso il voto si pone il problema del rapporto di rappresentanza, cioè della continuità e della forma del legame fra rappresentante e rappresentato. Sono elementi importanti per questo nodo vitale della società politica e di tutti i sistemi politici moderni che è la rappresentanza. Quale può essere la natura della rappresentanza politica? Essa può essere vista: 1) Come un rapporto di delega. In questo caso il rappresentante sarebbe un mero esecutore della volontà del rappresentato. Non sembra tuttavia che questa interpretazione sia accettata dalle costituzioni moderne, in quanto la maggior parte di esse fa esplicito riferimento al divieto di “mandato imperativo”. 2) Come un rapporto fiduciario. In questo caso l’azione del rappresentante è libera da vincoli, sebbene si ipotizzi che essa sia diretta espressione dell’interesse dei rappresentati. 3) Come riproduzione sociologica nell’organismo rappresentativo di un corpo politico caratterizzato da una serie di variabili significative. Si pone allora il problema di definire quali variabili devono essere valutate con preferenza rispetto alle altre. Nel regime borghese le variabili più considerate sono state quelle politico-ideologiche, dominanti rispetto a quelle religiose, economiche, professionali ecc. La rappresentanza politica implica in ogni caso una responsabilità nei confronti dell’elettorato che dovrebbe essere continuamente verificabile. Non si tratta peraltro di una responsabilità giuridica e diretta ma generale e latente che si collega al senso che Max Weber dava all’“etica della responsabilità” che pertiene alla gestione della cosa pubblica. La mappa della rappresentanza politica uscita da una prova elettorale disegna una maggioranza e una minoranza. La maggioranza ha il diritto di governare sulla base della legalità della propria elezione ma deve rimanere aperta all’apporto delle opposizioni. Deve trattare con le opposizioni. Non può applicare un autoritarismo assoluto facendo appello alla “volontà del popolo”. In primo luogo perché legalità non è legittimità data la diversa natura del consenso. In secondo luogo essa non è che una minoranza che fa maggioranza. In204

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fatti se le schede valide non superano il 70-75% degli elettori chiamati alle urne e il partito vincitore delle elezioni ottiene solo il 25-30% dei voti validi, esso rappresenta decisamente una minoranza del corpo elettorale. La maggioranza uscita dalle elezioni occupa dunque il potere e esprime un indirizzo politico in confronto dialettico con le opposizioni. Tuttavia i partiti contemporanei non seguono un progetto di società fondato su valori e dunque non hanno un profilo ideologico né quella rigidità tipica dei partiti ideologici. Hanno quella elasticità e quella enfasi sul presente che corrisponde alla logica dell’economicismo. Cosicché la loro rappresentanza politica è piuttosto una rappresentanza di interessi, che è, come diceva Max Weber, una forma degradata di rappresentanza. È ovvio peraltro che, mancando il limite della politica, gli interessi più curati sono quelli dei poteri sociali, mentre diventa evanescente la distinzione del mondo borghese tra destra e sinistra. Le forze politiche convergono verso il centro, anche perché non sembra possibile che la gestione dell’economia possa subire grandi mutamenti da parte di questo o quel partito. Muterà forse la ripartizione delle risorse fra i grandi poteri sociali ma non la considerazione rivolta ai gruppi marginali. La prevalenza di una politica che si occupa in gran parte della gestione dell’economia ha spostato gli interessi generali dalla politica alle politiche. Così l’attenzione e gli studi si sono rivolti dalla vecchia politica ai policy studies che sono diventati uno dei settori più sviluppati della scienza politica. Ci si occupa del processo e della tecnica di decisione nei vari settori dell’attività di governo. Il politologo diventa il tecnico che aiuta il politico. Mentre la politica designa “quella dimensione umana che ha per oggetto la conquista del potere, la sua distribuzione e la sua regolamentazione”, la policy “fa riferimento a una linea di condotta o a una attività, e viene impiegata in relazione a una dimensione più propriamente dinamica della politica e con particolare riguardo all’azione delle autorità pubbliche”. La policy quindi “rimanda agli interventi, alle iniziative, all’attuazione delle scelte e delle decisioni del governo e si sofferma più sulle conseguenze della politica che sulle condizioni di partenza”. Infine lo studioso delle politiche pubbliche rovescia il punto di vista tradizionale “secondo cui una politica pubblica veniva interpretata come una variabile dipendente, e cioè determinata nelle sue forme e nel suo contenuto dalla volontà e dagli interessi degli attori politici nonché dalle relazioni che si stabiliscono tra governanti e governati, e configura la policy come una variabile indipendente” (Sola, 2006, pp. 133-134). Il fenomeno del popolo elettore, che abbiamo qui affrontato sotto molteplici aspetti merita un’ultima considerazione generale. Il voto non è 205

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solo un rituale dei regimi democratici ma di tutti i regimi politici perché tutti, anche i più violenti tendono a rappresentarsi legalmente come sostenuti dal consenso. Ma il fenomeno elettorale non compie solo una funzione di facciata nei confronti della classe politica. Esso svolge anche, come scrive Georges Burdeau, una funzione latente perché “è un potente fattore di unificazione della collettività politica”. Anche se può sembrare strano, in quanto mette in luce le divisioni sociali, una elezione “non è soltanto un procedimento utilizzato per designare i governanti; essa è in se stessa, indipendentemente dai suoi risultati e per il cerimoniale che la circonda, un fenomeno sociale che assomiglia al rito. Ed è in questo carattere di rito che risiede la sua virtù unificatrice” (Burdeau, 1977, p. 247). Se l’idea di popolo come concetto unitario è un mito, continua Burdeau, “il rito elettorale deve essere considerato come uno degli strumenti di esteriorizzazione del mito, cioè come un rito di comunione”. Non è il voto né le sue motivazioni che creano queste sensazioni comunitarie, ma l’atto stesso del votare. “La cerimonia elettorale rivela agli elettori, in maniera sensibile, la loro appartenenza alla comunità”. Attorno alle urne elettorali “è tutto il popolo che si riunisce, senza riferimento alle differenze di condizione sociale, di cultura o di opinione. E abbiamo visto tutto ciò che simboleggia la scelta della domenica per essere il giorno del voto. Essa permette all’allegoria nazionale di prendere corpo; il popolo che vota coincide col mito del popolo indivisibile detentore della sovranità” (Ivi, pp. 247-249). Dal momento del voto si pone il problema della rappresentanza come rapporto politico. Nell’800 si discuteva sulla necessità che i rappresentanti fossero “imparziali, virtuosi e competenti”, “isolando la propria volontà da quella degli elettori” per “risolvere il problema della parzialità e della corruzione”. Rispetto a questo modello ideale di rappresentante le elezioni sarebbero inutili e l’allargamento del suffragio (in Italia nel 1910 votava ancora solo l’8,3% dei cittadini), così come è stato criticato da molti autori all’inizio del ’900, veniva a rappresentare un incitamento alla parzialità, alla corruzione e all’inquinamento del “tempio della politica”. Poi, con la rappresentanza su matrice ideologica, che consentiva una scelta elettorale fondata su valori condivisi, “le elezioni sono diventate un requisito indispensabile e solenne della legittimità politica”. (v. Urbinati, 2009, p. 49 e 33). Attualmente, con una rappresentanza la cui azione politica è indirizzata soltanto dall’economicismo e dall’idea di sviluppo economico, che ha scisso potere e autorità, legalità e legittimità, si è approfondita la distanza fra rappresentanti e rappresentati ed è divenuto più evidente che il popolo elettore ha perso il 206

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controllo dei propri rappresentanti ed è privo di qualunque possibilità di iniziativa politica, se si esclude il referendum o l’iniziativa di legge popolare su temi specifici. Per questo recentemente alcuni autori parlano di una “democrazia senza popolo” (da ultimo v. Colliot-Thélène, 2011). Il referendum apre uno scenario particolare nei percorsi della società politica come forma di contestazione della scelta politica attraverso il confronto e la discussione. Il referendum nasce da una possibile insensibilità della rappresentanza politica istituzionalizzata a recepire istanze e bisogni della collettività. Indire un referendum da parte di un certo numero di cittadini elettori (in Italia un numero non inferiore a mezzo milione) o di consigli regionali (cinque) significa non ritenere aderente alla volontà del paese determinate decisioni prese dalla maggioranza al potere (Mortati, 1958, p. 607); significa creare una situazione di contrasto tra le Camere e il corpo elettorale o, come scrive Carl Schmitt, dar vita a una “situazione intermediaria” che oppone due legittimità: quella parlamentare e quella referendaria. “Se il parlamento può invocare la continuità di un processo di razionalità, il referendum privilegia la discontinuità della volontà creatasi nell’espressione di una decisione immediata e non reversibile. In effetti il referendum è un mezzo di decisione senza ricorso, cosa che spinge alla prudenza coloro che lo vogliono usare. Il fallimento di una scelta referendaria è in qualche modo una condanna mentre un voto di sfiducia in parlamento si può riparare. Da un lato c’è una scelta, unica, decisiva e irreversibile, dall’altra una selezione fra diverse opinioni che possono poi tra loro arrivare a compromessi diversi. Il referendum non accorda validità che a una sola risposta… Mentre un parlamento può tergiversare, rinviare la questione a una commissione e concedersi tempo. Si può anche non decidere e trovare un compromesso mentre il referendum è una decisione immediata e irrevocabile: la decisione popolare” (Freund, 1987 b). La costituzione italiana non ha privilegiato il referendum perché, come è noto, lo ha ritenuto un istituto eccezionale e lo ha limitato all’abrogazione di legge o parte di essa escludendo poi la sottoposizione a referendum per alcuni tipi di legge. Peraltro sono oggi allo studio alcune possibilità di sviluppare questo istituto e di dare più spazio al principio popolare di sovranità formale. Per esempio si potrebbe prevedere una mozione di sfiducia nei confronti dell’esecutivo di iniziativa popolare, promossa da uno o più partiti e attuata con le stesse modalità del referendum. Ovviamente questo potrebbe essere un caso unico ed estremo nel corso della legislatura ma potrebbe costituire, in 207

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un contesto politico come l’attuale, una importante forma di riappropriazione della sovranità popolare. 2. La classe politica Il vertice del potere comunità è costituito dal personale politico, ovvero dalla classe politica che si forma, nelle due dimensioni di governo e opposizione a seguito delle elezioni. A questa classe politica spetterebbe il compito di essere l’interprete, la rappresentante e l’elemento unificatore della volontà popolare, di per sé disaggregata nei molteplici interessi, idee e percezioni che costituiscono il tessuto della vita quotidiana. Interpretare e rappresentare unitariamente ciò che emerge nella vita quotidiana non dovrebbe tuttavia significare rimanerne politicamente prigionieri, come nella politica della contingenza, privando la politica stessa di un progetto per il futuro e della forza di realizzarlo. Dovrebbe significare al contrario elevare i bisogni della collettività e le conseguenti aspettative per il futuro al livello di indirizzo politico capace di mobilitare le energie di un popolo. Idealmente la rappresentanza politica costituitasi attraverso il voto dovrebbe dare corpo ad una “democrazia deliberativa” e costruire la volontà popolare di governo. Attraverso l’attività legislativa essa dovrebbe fissare le regole della convivenza, fissare le linee generali dell’azione politica, le sue finalità e i mezzi per conseguirle. Essa risponderebbe così al mitico processo unificatore connesso all’idea di popolo. Di fatto essa segna il primo stadio dell’autonomia della classe politica e pone il primo problema che essa vuole risolvere: chi governa? L’evoluzione della democrazia rappresentativa evidenziava nella seconda metà dell’Ottocento questi fenomeni e in Italia, anche perché qui i fenomeni risultavano più evidenti, veniva formulata la teoria della classe politica, con interpretazioni in parte diverse, da parte di Gaetano Mosca (1896) e Vilfredo Pareto (1902). Lo studio della classe politica veniva presentato come il tema centrale per l’interpretazione dei fenomeni politici. La teoria della classe politica si contrapponeva, su un piano realistico e soggettivo, tanto all’idealismo hegeliano, che vedeva nello Stato la sintesi e l’eticità della vita collettiva, quanto al materialismo storico di Marx e Engels che vedevano nel possesso dei mezzi di produzione e dunque in un fatto socio-economico e anonimo, il fattore di evoluzione del processo storico e la base dell’ordine politico. Con la teoria della classe politica veniva superata anche la classica tripartizione delle forme di governo in monarchia, aristocrazia e democrazia e si definiva la struttura e la dinamica della moder208

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na società politica come rapporto gerarchico tra governanti e governati che contraddiceva di fatto il principio della democrazia ideale. Generalizzando, la teoria della classe politica (Mosca) e quella delle élites politiche (Pareto) si possono unitariamente definire dicendo che “in tutte le organizzazioni sociali – dallo Stato al partito politico, dal parlamento alla burocrazia, dall’esercito alla chiesa – esistono due classi di persone; quella dei governanti e quella dei governati. La prima, che è sempre la meno numerosa, monopolizza il dominio e gode i vantaggi che ad esso sono uniti; la seconda, più numerosa, è diretta e regolata dalla prima, in modo più o meno legale, ovvero più o meno arbitrario e violento, e ad essa fornisce almeno apparentemente i mezzi materiali di sussistenza” (Sola, 2000, p. 7). Questo concetto e il termine “classe politica” erano stati più volte usati, nel corso dell’Ottocento, a partire da Saint Simon, a Comte, a Tocqueville e allo stesso Marx, che afferma, con riferimento al dominio borghese, che “le idee dominanti non sono che le idee della classe dominante”. Qui l’antagonismo è visto in termini di classe sociale, e sociale è pure l’ordine gerarchico che fa da base alla sovrastruttura politica, ma il dominio risultante dalla distribuzione delle forze produttive è pur sempre un dominio politico. Più significativo fra tutti i precursori è forse il grande storico francese Hippolyte Taine, al quale si riferisce esplicitamente lo stesso Mosca. “Taine – scrive Sola – sostiene la necessità che la classe politica non sia il prodotto dell’avventura o del caso, ma sia formata dall’élite naturale che la ricchezza, l’ingegno e la capacità hanno già selezionato sul piano sociale. Solo il governo di questa élite può garantire la stabilità dell’equilibrio politico dal momento che, ciò che mantiene una società politica è il rispetto dei suoi membri gli uni per gli altri, in particolare il rispetto dei governati per i governanti e dei governanti per i governati” (Sola, 2000, p. 59. Vedi anche Mongardini, 1965). In Italia, dunque, la scienza politica viene fondata da Gaetano Mosca a fine Ottocento proprio sulla base della teoria della classe politica. Questa teoria, detta anche dell’elitismo, secondo il termine usato da Pareto, si sviluppa in tre diverse fasi. La prima è quella dell’identificazione da parte di Mosca e di Pareto, di una classe o élite che detiene il potere e mantiene la gerarchia dell’ordine politico sulla base di una giustificazione (ideologia) secondo la quale essa sarebbe al servizio dell’interesse generale. A differenza di Mosca, che studia il fenomeno della classe politica da un punto di vista storico-giuridico, Pareto arriva alla formulazione della sua teoria delle élites sotto il profilo economico-sociologico. “Pareto lega il termine élite alle “capacità” degli individui; capacità misurate in relazione al grado di 209

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successo raggiunto. A tal fine, egli propone di definire l’élite come quella classe di persone che, a giudizio di un esaminatore attento e rigoroso in cui egli stesso si immedesima, hanno gli indici più elevati di prestazione nel ramo della loro attività “(Sola, 2000, p. 22). Lo studio delle élites politiche nasce quindi sulla base di un fenomeno sociologico generale. In questo caso, per le élites politiche, trattandosi di una configurazione politica, e quindi di interesse generale, diviene rilevante la circolazione delle élites e quindi il tasso di ricambio del personale politico: tema che poi sarà sviluppato da Roberto Michels. In questa fase vengono esaminati principalmente la formazione e la conquista del potere da parte di minoranze organizzate, il ruolo dell’ideologia (per Mosca formula politica e per Pareto derivazione) e la decadenza delle élites. Una seconda fase della teoria si incentra principalmente sulle opere di Roberto Michels e di Guglielmo Ferrero. Michels è noto soprattutto per la sua ricerca sul partito politico (1a ed. 1911) nella quale mette in evidenza come in tutte le organizzazioni, anche nelle più democratiche, i gruppi dirigenti formino alla lunga delle oligarchie (la sua ricerca si riferisce in particolare al partito socialdemocratico tedesco). Michels enuncia così una “legge ferrea dell’oligarchia”. Chi dice organizzazione, scrive Michels, “dice tendenza all’oligarchia” e poi per esteso nota: “chi dice democrazia dice organizzazione; chi dice organizzazione dice oligarchia; chi dice democrazia dice oligarchia”. Il primo enunciato, commenta Giorgio Sola, “mette in evidenza come i processi e le strutture organizzative in genere importino l’insorgenza di una leadership stabile e professionale che, con il passare del tempo, può degenerare in oligarchia. La seconda formulazione pone l’accento sull’esistenza di tendenze oligarchiche anche nelle organizzazioni volontarie e adombra l’impossibilità di riscontrare una direzione democratica persino all’interno dei partiti e dei sindacati di ispirazione rivoluzionaria. Le prove che Michels porta a sostegno di quest’ultima affermazione sono di quattro tipi e vengono tratte principalmente dalle vicende del partito socialdemocratico tedesco negli anni che vanno dalla sua costituzione al primo decennio del Novecento (Sola, 2000, p. 96). Anche Ferrero, amico di Mosca, riprende il tema della classe politica e della società politica sotto il profilo della legittimità del potere. (v. Ferrero, 1981, 1a ed. 1942). Per lui i principi di legittimità attraverso i quali i cittadini riconoscono a chi governa il diritto di governare e i governanti testimoniano di agire per il bene collettivo, sono essenziali per la conservazione della società politica. I principi di legittimità sono “i genî invisibili della 210

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città”. La legittimità è “il diritto di comandare, la giustificazione morale del potere” che rende accettabile ai dominati una supremazia altrimenti basata sulla sola forza. Il potere riconosciuto legittimo, anche se nato dalla violenza, cerca di armonizzarsi con la mentalità e gli interessi dei dominati, di concordare con l’“orientamento generale degli spiriti”. Sia Michels che Ferrero dunque affrontano, l’uno in termini di organizzazione, l’altro in termini di legittimità, il problema dei rapporti di interazione fra governanti e governati, della dinamica politica e dunque della democrazia. Il problema non è più solo quello della formazione e della gestione del potere ma anche quello del consenso e del ricambio della classe politica. Nel 1908, Georg Simmel, autore ben noto ad entrambi, aveva dimostrato che l’interazione si realizza anche nei casi di superiorità e di subordinazione “e li muta in una forma sociale, anche laddove per il concetto abituale di ‘costrizione’ esercitata da una delle parti, l’altra viene privata di ogni ‘spontaneità’ e con ciò di qualsiasi vera ‘efficacia’, che sarebbe un lato dell’interazione” (Simmel, 1978, p. 41). Una terza fase dell’élitismo si sviluppa prima e dopo la seconda guerra mondiale e porta ad una rilettura della teoria della classe politica sulla base delle trasformazioni sociali soprattutto concernenti l’ingresso delle masse in politica e il ruolo dei partiti di massa. Si ripropone perciò il tema di forza e consenso in relazione ad una nuova realtà sociale e politica. Al gruppo di teorici di rilievo di questo periodo appartiene Antonio Gramsci (1891-1937), il quale, pur essendo fortemente critico nei confronti degli autori classici dell’élitismo, “finisce per fare proprie molte osservazioni della teoria classica delle élites, a partire dall’accettazione del fatto ‘primordiale, irriducibile (in certe condizioni generali)’, che ‘esistono davvero governanti e governati, dirigenti e diretti’” (Sola, 2000, p. 36). Sua è poi la distinzione tra classe dirigente e classe dominante, nel senso che la prima è costituita da quel gruppo che si afferma attraverso il consenso e assume la leadership in un certo momento storico, mentre la seconda indica quel gruppo che si impone prevalentemente attraverso la forza. Una classe può essere dominante e non dirigente e viceversa, dirigente ma non dominante. Così la classe politica ideale dovrebbe esprimere una combinazione dei due elementi, in modo da gestire un corretto equilibrio tra ricorso alla forza e impiego dell’egemonia. Ma questa non è che una applicazione del principio paretiano per cui si governa con la forza e con il consenso. A questo gruppo di studiosi appartiene anche Giacomo Perticone, la cui analisi della classe politica si lega strettamente all’osservazione di una 211

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nuova società che enfatizza il presente e l’uomo-massa. (Perticone, 1984). Questa società tende a sostituire i valori “mediati dalla cultura con l’immediatezza, sia pure epidermica, dell’esperienza vitale vissuta qui e subito”. In essa l’uomo-massa è segnato da “un orientamento spirituale generico, una disposizione che è dedizione incondizionata”. Questo tipo umano è perciò particolarmente congeniale alle classi politiche autoritarie che riescono a blandirlo per ottenere il consenso attraverso la suggestione e l’imposizione (Ivi, pp. 45-46). Figura di spicco tra tutti è poi Norberto Bobbio (19092004). Egli si colloca senz’altro tra le figure più rilevanti dell’élitismo democratico (Portinaro, 2008, p. 108). Muovendosi fra positivismo giuridico e realismo politico egli fa propria, con qualche correzione, la lezione degli elitisti “relativa al ruolo delle oligarchie nella storia, ai limiti strutturali del processo di democratizzazione, alla funzione delle ideologie nella società, alle dinamiche della corruzione e del declino… A questi autori largamente attingerà elaborando la sua diagnosi circa gli ‘ostacoli non previsti’ e le ‘promesse non mantenute’ della democrazia” (Ivi, p. 99, Vedi anche Bobbio, 1984). Di rilievo sono poi i contributi ad una più moderna teoria della classe politica forniti da alcuni autori, tra i quali Piero Gobetti, Guido Dorso, Filippo Burzio, Mario Stoppino, Giovanni Sartori e Luciano Cavalli, le cui opere, sotto questo profilo, devono ancora essere meglio valutate. 3. Classe politica e democrazia. Già con i primi autori classici (Mosca e Pareto) la teoria della classe politica ha avuto fuori d’Italia ampio sviluppo. Max Weber aveva letto l’opera di Mosca segnalatagli da Roberto Michels. Nel 1909 scrive allo stesso Michels che il libro di Mosca (gli Elementi di scienza politica) “è un libro forte. Il Mosca ha capito dello Stato e l’anima e l’ingranaggio. Ha molto del Taine, ma mi sembra più equilibrato e direi meno ‘partito preso’. Se avesse studiato le condizioni politiche dell’America, la party machine, il boss ecc. egli avrebbe visto anche di più” (v. Sola, 2000, p. 95). Nella sua opera poi Weber parla frequentemente di dominanti e dominati (Herrschende und Beherrschten) oppure di minoranza o strato dominante (herrschende Minderheit- herrschende Schicht). Infine nel 1922 dedica alcune pagine della sua sociologia del potere a quel fenomeno che indica come “superiorità del piccolo numero”. A parte alcuni autori francesi, come Julien Freund e Raymond Aron, e tedeschi come Heinrich Popitz, il maggiore sviluppo della teoria della classe politica fuori d’Italia lo si trova nella scienza politica americana. Nel 212

Il popolo elettore e il personale politico

1943 James Burnham pubblica un libro dal titolo The Machiavellians, tradotto poi nel 1947 in italiano con il titolo I difensori della libertà, nel quale vede nell’opera di Mosca e Pareto la continuazione dell’opera di Machiavelli, il quale, egli scrive, “è interessato all’uomo in relazione al fenomeno politico, cioè alla lotta per il potere, all’uomo che agisce politicamente, non come si comporta verso gli amici, verso la famiglia, verso Dio” (Ivi, p. 60). Mosca e Pareto, secondo Burnham, continuano questo tipo di analisi in un indirizzo di realismo politico. Se però in America molti autori seguono le teorie di Mosca e di Pareto, come ad esempio Wright Mills e Harold Lasswell, altri contestano gli studiosi italiani per aver supportato l’avvento del regime fascista. In realtà, come riconosce anche Bobbio, il fascismo arrivò al potere con un colpo di forza, senza riferimenti ad una qualche dottrina politica, se si esclude forse qualche accenno alla teoria di Sorel. Arrivato al potere si impadronì di tutto quel pensiero politico da cui poteva trarre in qualche modo un sostegno per il potere, e quindi anche delle teorie minoritarie. Ma questo fu di breve durata perché già dopo pochi anni, in funzione della stabilizzazione del regime, ripiegò sul neoidealismo e la sua concezione dello Stato forte. Un fraintendimento, dunque, quello di alcuni autori americani, ma ben radicato. La teoria della classe politica non è e non poteva essere un supporto all’autoritarismo. Recensendo nel 1924 su “L’Ora” di Palermo gli Elementi di Mosca, un democratico come Piero Gobetti sconfessa già questo tipo di critica. Il concetto di élite, scrive, significa scelta “e deve intendersi non nel senso che ci sia chi scelga, ma nel senso di un processo storico attraverso cui si rivelano i migliori. L’esservi gli scelti implica che vi siano i non scelti, che non sono condannati per natura, ma partecipano al processo, si preparano, si svolgono, si provano ogni giorno. In questo senso quasi fisiologico i governanti devono rappresentare i governati. Non c’è aristocrazia dove la democrazia è esclusa”. Ovviamente allora aristocrazia e democrazia si integrano reciprocamente e fanno parte di quel tipo di governo misto che oggi viene invocato da molti. Una visione particolare dei rapporti fra élite e democrazia è poi quella di Schumpeter, peraltro molto diffusa, il quale nel volume Capitalismo, socialismo e democrazia (1942) sottolinea il fatto che la democrazia non è una situazione politica definita ma un metodo che permette a individui o gruppi di lottare in concorrenza tra loro: tale metodo regola la concorrenza stessa il cui oggetto è la conquista del potere. Schumpeter afferma che “la democrazia non implica che non vi siano élites ma implica piuttosto uno 213

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specifico principio di formazione delle élites”. Mentre da una frettolosa contrapposizione tra élites e democrazia risultavano due possibilità contrapposte: o democrazia o struttura elitaria, Schumpeter vede nella democrazia non una struttura o una organizzazione politica ma un “metodo di formazione delle élites”. Sembrerebbe perciò superata la visione dualistica che contrappone visione elitistica e democratica dei fenomeni politici. In un periodo tuttavia in cui si perde il senso della democrazia come apertura alla concorrenza, in cui l’apparato si irrigidisce in tendenze oligarchiche, in cui si torna alla personalizzazione del potere e sembrano rinascere l’antiparlamentarismo e l’antipolitica, democrazia e elitismo potrebbero di nuovo contrapporsi. Ma il centro del problema non sta nella mentalità elitista come aspirazione ad un rigido ordine gerarchico, ma, come sottolineava Bobbio, nella crisi delle democrazie occidentali, che è una “crisi di sistema” e una “crisi di ideali”, che deriva da quelle che egli ha chiamato “delusioni della democrazia” (v. Bobbio, 1984). Tornando allo sviluppo dell’elitismo negli studi politici americani, va notato che dopo un primo periodo di accettazione o di rifiuto totale della teoria, si profilano oggi tre tendenze chiaramente distinte e ben motivate. La prima, che possiamo dire elitista pura e tradizionale, continua a sostenere la tesi che il potere è detenuto da una minoranza di persone, una élite, descritta come un gruppo più o meno unitario e monolitico. È in sostanza la continuità della tesi di Wright Mills ne L’élite del potere (1959). La seconda tendenza, che si può dire elitista pluralista, sostiene la compresenza di una serie di élites eterogenee in competizione tra loro. In questa corrente hanno particolare rilievo: a) il modello della poliarchia di Robert Dahl (1981), il quale afferma che in un regime di questo tipo nessun gruppo è in grado di monopolizzare il potere politico, il quale risulta relativamente diffuso tra una pluralità di organizzazioni e associazioni concorrenti e contrapposte e quindi costituisce una forma particolare di democrazia (v. Sola, 2006, p. 112); b) la tesi di Suzanne Keller (2000) che nota la sostituzione delle élites politiche nella conquista del consenso da parte, prima, delle élites strategiche e poi delle celebrities che manifestano maggiore forza di attrazione delle élites politiche. Infine una terza tendenza nega la possibilità che si formino élites e preferisce indirizzare la propria attenzione sui gruppi di interesse e di pressione. Ritiene che il processo politico sia il risultato “non tanto delle strategie e delle scelte di minoranze più o meno ampie e organizzate quanto dell’interazione di una pluralità di associazioni e di gruppi in costante equilibrio fra loro” (Sola, 1996, p. 192). Inoltre il processo politico si svolgerebbe 214

Il popolo elettore e il personale politico

in un’area di scambio “in cui i diversi interessi, più o meno condivisi dai membri dei gruppi in cui si articola la collettività, si confrontano e si armonizzano, si controllano e si accomodano reciprocamente”. Interessante è la diversa concezione della variabile potere nelle tre tendenze. Mentre nella concezione elitista il potere è a somma zero, cioè all’aumento di potere di un soggetto deve corrispondere la perdita di potere in un altro soggetto, per le concezioni pluraliste non esiste una struttura gerarchica permanente e la distribuzione del potere assume un aspetto variabile, contraddistinto da una costellazione di forze continuamente soggette a mutamento (Ivi, p. 193). 4. L’elitismo oggi Quale può essere oggi il ruolo della teoria delle élites nell’analisi politica? Di fronte a una società più complessa, più estesa, che ha sconvolto l’ordine gerarchico sociale e politico borghese, non è ammissibile che la teoria delle élites rimanga il solo punto di riferimento dell’universo politico. È piuttosto una variabile, quella più in generale del personale politico, che va considerata insieme a allocazione del potere, istituzioni, valori, ideali e ideologie che rappresentano la cultura politica. È la dinamica del sociale che, come coinvolge il concetto stesso di società, non permette un processo omogeneo e consolidato di formazione e di circolazione di élites. Ad ostacolarlo c’è da una parte la motilità dell’economicismo e della ragione calcolante e la volatilità dei fenomeni di massa e, dall’altra, proprio in relazione a questo, la maggiore rigidità e chiusura oligarchica del sistema che, per poter operare deve ricorrere alla personalizzazione del potere. Così da una spinta e controspinta ne esce un tipo di politica che Georges Burdeau aveva descritto come “governare Babele” (1977). Un conto dunque era l’efficacia interpretativa della teoria delle élites a fine Ottocento e per gran parte del Novecento e un conto è quella che essa può avere oggi come strumento concettuale. Quando si è sviluppato, a fine Ottocento, il discorso sulle élites è stato per un verso una conseguenza polemica dell’antiparlamentarismo (si veda il passaggio di Pareto dalla polemica delle Cronache sul Giornale degli economisti alla teoria dei Sistemi socialisti), e per l’altro la sistemazione teorica di una realtà politica del regime borghese che più volte, per tutto il secolo, era stata segnalata dalla storiografia e da buona parte del pensiero sociologico. Era l’ interpretazione di una realtà politica sulla base di un’immagine omogenea di società, una interpretazione parallela e diversa da quella del marxismo che metteva l’ac215

Pensare la politica

cento su fattori oggettivi e sul significato “in ultima istanza” determinante degli elementi economici nel processo storico. Contrapponendo elementi soggettivi a strutture e processi oggettivi quali le “forze produttive” e il potere del “capitale”, il neomachiavellismo italiano metteva l’accento sulla personificazione del potere e in sostanza sul capitale umano impegnato nella vita politica. Per cui mentre da una parte risultavano essenziali i rapporti di produzione e di scambio, anche se “sono gli uomini che fanno la storia” (Engels), dall’altra fenomeno determinante delle condizioni politiche di un paese era il processo di circolazione, ascesa e decadenza delle élites. Ma il fenomeno delle élites si pone anche su un piano ben più ampio dello scenario politico. È in primo luogo, come ha mostrato Pareto, un fenomeno sociale di rilevante importanza nella vita collettiva e in quello che Pareto stesso definiva l’“equilibrio sociale”. In una società selettiva e fortemente orientata da tradizioni e valori il discorso sulle élites si poneva, come detto, in modo certamente diverso da quello che può interessare la società contemporanea. In una realtà sociale prevalentemente guidata dall’interesse e dal calcolo, sviluppatasi su modelli di razionalità economicistici, fondata sull’estensione dei fenomeni di massa, nella quale l’esperienza personale si intreccia con l’esperienza mediata e i mondi vitali limitati vengono sostituiti dallo scenario della globalizzazione, in questa società il problema delle élites ha una rilevanza diversa e la stessa esistenza del fenomeno assume caratteristiche profondamente mutate. Cosicché in primo luogo occorre oggi riflettere sulla validità stessa del concetto di élite in quanto riferito ad una società la quale non riconosce più “principi trascendenti” o ideologici e non possiede modelli istituzionali aventi funzioni autonome. Se per un verso, in tale contesto, il vecchio concetto di élite sembra offuscarsi, per l’altro però assistiamo ad un processo di circolazione sociale nel quale le élites dominanti in una società improntata dalla tradizione e dalla continuità, come élites religiose, militari, culturali, sono state messe da parte e sostituite da quelle più adatte a rappresentare una cultura del presente, cioè pronte a cogliere e a rappresentare momenti emergenti della vita sociale, come élites mediatiche, economico-finanziarie e, per così dire, della “cultura di strada”. Questa tipologia di élites che si adeguano all’effervescenza del sociale e della dinamica del presente assume un carattere di instabilità e di provvisorietà legato alla precarietà dei fenomeni di massa. Perciò: 1) non si può più parlare di un quadro istituzionale in cui determinate élites si costituiscono e si affermano; 2) un’élite non può più contare sulla continuità suffi216

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ciente ad affermare un proprio carisma; 3) non si può più parlare di circolazione delle élites all’interno dei nuovi fenomeni, ma di un elitismo satellitario che orbita attorno ai fenomeni di massa. Frammentazione e inconsistenza segnano dunque la particolare effervescenza delle élites contemporanee moltiplicandone le lotte e diminuendone la funzione di coesione e di rappresentatività. Sviluppatosi assieme all’idea di società, il concetto di élites sembra vanificarsi in una socialità che nasce ma non riesce a fissarsi in società. Pertanto l’immagine tradizionale di élite lascia il posto a una fioritura di personalità e di preminenze alle quali manca lo spessore, la forza e il carisma delle élites. Si deve notare l’altra parte che, escluso dallo scenario abituale del sociale, il fenomeno delle élites nella espressione tradizionale, si riproduce a margine, nei gruppi esclusivi e chiusi, nelle sette, in tutte le esperienze in cui predominano elementi emozionali forti. In sostanza, a fronte della società contemporanea, dovremmo porci i seguenti problemi: 1) Esistenza, tipologia e incidenza delle élites nel nostro tipo di società e di cultura; 2) Caratteristiche delle élites contemporanee: loro conflittualità e mobilità; 3) Élites economiche, mediatiche, globali come “élites strategiche” e “celebrities”, come nello schema della Keller; 4) Le élites tradizionali come élites marginali; 5) Movimenti di élites e resistenza oligarchica. A questo proposito va notato che più complesso è oggi lo scontro tra élites volatili e la rigidità del sistema oligarchico. Quando Michels notava che “il formarsi dell’oligarchia in seno alle molteplici forme di democrazia è un fenomeno organico e perciò una tendenza a cui soggiace necessariamente ogni organizzazione, anche socialista e perfino quella libertaria”, mostrava fiducia nella solidità delle élites e nella relativa fragilità delle forme oligarchiche di fronte al cambiamento sociale. In sostanza la democrazia avrebbe avuto sempre modo di rigenerarsi. Più difficile appare poter ipotizzare la stessa possibilità di cambiamento di un regime di massa dati gli scenari istituzionali che esso riesce a costruire, nei quali più consistente si fa il pericolo di una “società senza classi” (v. Lederer, 2004) nella quale gli interessi del capitalismo portano a creare una omogenea e indifferenziata massa di consumatori. È un tipo di società che esprime una cultura oggettiva fondata sulla quantità e sulla “pura materialità”. La cultura moderna, scrive Simmel, è “caratterizzata dall’economia del denaro”. In essa “l’uomo come produttore, compratore o venditore, si avvicina all’ideale dell’assoluta oggettività. Eccetto per le posizioni molto elevate e dominanti, la vita individuale, il tono della personalità nel suo insieme sono scomparsi dal rendimento. Gli uomini so217

Pensare la politica

no portatori di una equazione di prestazione e controprestazione che si sviluppa secondo norme oggettive e tutto ciò che non appartiene a questa pura materialità è anche scomparso dalla vita. L’“oltre” ha assorbito interamente la personalità con la sua colorazione particolare, la sua irrazionalità, la sua vita interiore e ha lasciato da parte per le attività sociali solo le energie per esse specifiche” (Simmel, 1976, p. 27).

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Parte quarta Il potere apparato

I Lo Stato moderno

1. Stato e politica Lo Stato non è la politica ma la proiezione oggettiva di quella unità politica che, in forma moderna, simbolica e soggettiva è rappresentata dal popolo detentore della sovranità formale. La sovranità del popolo si riflette perciò nello Stato che, per questo, è Stato sovrano, cioè superiorem non recognoscens, ha il “monopolio della violenza” e può imporre la sua volontà, elaborata attraverso procedimenti costituzionali, cioè vincolanti e condivisi da tutti, a tutti i cittadini. In questo lo Stato moderno è una realtà specifica che non ha riferimenti al passato. Ha come fondamento la volontà collettiva di esistere come Stato, che è superiore alle divisioni della politica che pure esso legittima, in quanto viene riconosciuto come una entità ad esse superiore e da esse rispettata. Tra Stato e gruppi politici, orientati da una interpretazione del bene comune e da un progetto per il futuro, esiste una dialettica e una dinamica in tutto simile a quella che, in epoca premoderna, caratterizzava la figura del re nei confronti della classe nobiliare. I nobili riconoscevano il re, gli giuravano fedeltà e tuttavia cercavano di condizionarlo nelle sue decisioni. Pertanto, come nota Carl Schmitt, la riduzione di ciò che è Stato alla politica “è inesatta e induce in errore”, anche perché nelle società moderne esistono processi politici non riconducibili allo Stato (v. Freund, 1987 b). È spesso la semplificazione giuridica che riporta l’attività politica nell’angolo visuale dello Stato. Ma lo Stato presuppone la politica alla quale dà poi legittimità. Perciò non bisogna spiegare la politica a partire dallo Stato, ma al contrario lo Stato a partire dalla politica. Pertanto lo Stato è innanzitutto l’idea dell’unità e della continuità del corpo politico che in esso vive e in esso si differenzia. Non può essere ridotto alla norma giuridica senza cristallizzare la sua esistenza; non può essere ridotto alle struttu221

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re e alle tecniche di dominio senza privarlo della sua oggettività; non è possibile assorbirlo nella società senza produrre uno “Stato totale” (Schmitt), che non è uno Stato totalitario ma uno Stato che invade tutti i settori della vita sociale. In questo caso si rischierebbe di identificare lo Stato con la società, moltiplicando le aspettative nei suoi confronti e indebolendolo, perché incapace di soddisfare tutte le istanze materiali e morali che gli vengono rivolte. Questo passaggio allo “Stato totale”, che appare tanto congeniale ai regimi di massa, è caratterizzato dalla monopolizzazione del potere da parte di un partito unico, o da più partiti fortemente coalizzati, che invadono la società con l’intento di realizzare uno Stato sociale e tutelare dietro l’apparenza di una democrazia sempre più intervenzionista (Schmitt, 1931). Infine lo Stato non può trasformarsi in Stato imprenditore senza tradire la sua condizione di istanza politica suprema e disperdere la sua energia, trasformando la politica in economia, come se fosse un industriale o una società di mutuo soccorso. E tuttavia lo Stato ha il compito di intervenire politicamente negli affari economici e sociali quando la situazione lo richiede (v. Freund, 1987 b). In quanto non si disperde in situazioni particolari, giuridiche, sociali o economiche lo Stato può rappresentare di fronte al ‘particolare’ l’unità politica indipendente e la garanzia dell’unità e della continuità dell’esistenza di una collettività, anche quando essa si differenzi in attività e interessi diversi e contrastanti, quando si sviluppi la complessità sociale, quando lo stato di necessità richieda sacrifici che non tutti sono disposti a sopportare. Lo Stato è l’idea, che si proietta verso il futuro, di continuare ad esistere in forma unitaria e solidaristica malgrado tutte le divisioni, l’idea di coagulare le energie di tutti verso quelle finalità che importano un più elevato livello di vita civile. Ogni riduzione dello Stato a un modo di essere della società (giuridico, economico, religioso ecc.) segnerebbe inevitabilmente la crisi dello Stato moderno. Come l’idea di democrazia, l’idea di Stato nella sua essenza è difficile da coltivare e da mantenere, ma dalla sua forza dipende la prosperità di ciò che chiamiamo popolo. 2. Se lo Stato è un’idea Lo Stato moderno è dunque una realtà complessa alla quale forse viene dedicata scarsa attenzione perché in gran parte lo si identifica e lo si specifica con i tre elementi che lo compongono, cioè territorio, popolazione e ordinamento giuridico, così come ce lo presentano i giuristi. Per com222

Lo Stato moderno

prendere lo Stato moderno occorre però ampliare la prospettiva interpretativa della sua essenza e delle sue funzioni. A tal fine continueremo a chiederci che cosa è lo Stato, seguendo in parte le idee di Georges Burdeau, uno dei classici della scienza politica francese (v. Burdeau, 1982). È vero, nessuno ha mai incontrato lo Stato (Ivi, p. 17), come nessuno ha mai incontrato la società nella quale viviamo. Eppure lo Stato è sempre presente nella nostra vita quotidiana, quando paghiamo le tasse, quando facciamo il sevizio militare o quando uniformiamo il nostro comportamento alle prescrizioni di legge. Così siamo società e facciamo società tutte le volte che ripetiamo modelli di comportamento che fanno parte della nostra tradizione o della nostra cultura. Ma allora che cosa è lo Stato? Non è una realtà metafisica, come quando si vede in esso l’espressione della suprema istanza etica (Hegel); non è solo uno strumento di dominio, come afferma chi lo confonde con la classe governante o chi vede in esso lo strumento di potere della classe socialmente dominante (Marx); infine non è solo un apparato giuridico di controllo della vita collettiva, non va confuso con il carabiniere o con la guardia forestale. Se allora nessuno ha mai incontrato lo Stato eppure lo Stato è così presente nella nostra vita quotidiana, la sua dimensione è molteplice. “Gli uomini pensano lo Stato e questo pensiero gli dona l’essere. Se arriveremo ad afferrare i motivi che hanno ispirato questo pensiero, potremo rendere conto della ragion d’essere dello Stato e quindi non solo del suo significato passato ma della sua natura presente” (Burdeau, 1982, p. 35). Lo Stato quindi “non è territorio, né popolazione, né corpo di regole obbligatorio. Certo, tutti questi dati sensibili non gli sono estranei, ma esso li trascende. La sua esistenza non appartiene alla fenomenologia tangibile, appartiene alla categoria dello spirito. Lo Stato è, nel pieno senso del termine, un’idea. Non avendo altra realtà che quella concettuale, esiste solo in quanto è pensato”. Come idea, tuttavia, esso non è “una costruzione destinata a rendere conto di una realtà preesistente; è, esso stesso, tutta la realtà che esprime, perché questa realtà risiede interamente nello spirito degli uomini che la concepiscono” (Ivi, p. 18). Sulla base di questa tesi vogliamo dimostrare che lo Stato è un’idea vissuta e rappresentata, la quale: 1. si materializza diversificandosi in una serie di istituzioni rivolte alla soddisfazione dei grandi bisogni collettivi; 2. contiene un’anima politica che, nella modernità, corrisponde alla dinamica della società politica e delle forze materiali e ideologiche che detengono il potere sociale; 223

Pensare la politica

3. ha sempre un compito da realizzare (come per esempio lo Stato di diritto o lo Stato del benessere) che corrisponde ad un ordine sociale ritenuto desiderabile; 4. corrisponde alla necessità della società di mantenersi unita e di rappresentarsi in un modello di coesione e di continuità ideale (come avviene con l’idea di Stato-nazione). Ne deriva che lo Stato possiede una forza soggettiva in quanto è vissuto come potere, come limite, come regola, come necessità di ordine sociale, e una forza oggettiva in quanto unificazione, rappresentazione ideale di tutto ciò che unisce e che vive nell’anima collettiva. Quando il cittadino pensa lo Stato nella prima maniera se lo rappresenta nella sua dimensione materiale. “Cerca una spiegazione soddisfacente alla sua condizione di subordinato, cioè, in definitiva, a quel fenomeno di cui sperimenta ad ogni istante la presenza: il Potere. Così l’idea dello Stato non è che un pensiero secondo, il primo oggetto della interrogazione è il Potere. Proprio per questo non è sbagliato vedere nello Stato un prodotto del senso comune” (Burdeau, 1982, p. 10). In questo senso lo Stato moderno deriva dall’istituzionalizzazione del potere. Ma dal momento in cui lo Stato diviene un’istituzione, esso è pure “un apparato di mezzi al servizio di un’idea. Questa idea è una rappresentazione dell’ordine desiderabile di cui il Potere deve assicurare la realizzazione” (Ivi, p. 11). È evidente perciò che lo Stato se da una parte non rappresenta che un modo di essere del potere, descritto da teorie che seducono per il loro realismo (la differenziazione fra governanti e governati) o per la loro sottigliezza (la teoria di Kelsen); dall’altra però non si lascia così cogliere nella sua vera ragion d’essere, cioè “che esso deriva la sua esistenza ed essa non risiede altrove che nello spirito degli uomini che la concepiscono” (Ivi, p. 10). Di qui la forza oggettiva dello Stato che deriva: 1. dal bisogno della società di sentirsi unita e funzionante per soddisfare i bisogni collettivi; di fondarsi sulla tradizione e su un senso di appartenenza rinforzato dalla percezione e dalla coscienza di costumi, usi, abitudini, lingua e cultura comuni. 2. dal bisogno dei cittadini di sentirsi governati non da altri uomini, ma da una istanza oggettiva che garantisce loro “una difesa giuridica” dai soprusi del potere. 3. dalla convinzione che lo Stato nella sua oggettività esprima la volontà popolare e sia perciò in qualche modo la proiezione della sovranità popolare. 224

Lo Stato moderno

Per questa sua presenza oggettiva anche lo Stato rientra in quell’“universo magico che è l’universo politico... pieno di credenze e di simboli senza i quali, abbandonato ai soli imperativi di una oggettività razionale, cesserebbe di esistere” (Ivi, p. 19). In questo contesto vanno specificate le diverse dimensioni dello Stato: di un corpo nel quale si materializza, di una anima politica nella quale si manifesta la dinamica del potere e di una finalità sociale e culturale: quella di realizzare un ordine pensato come desiderabile. Se lo Stato si materializza e assume un corpo attraverso le sue istituzioni e funzioni, esso si presenta tuttavia come “un’impresa al servizio di un’idea e organizzata in modo che, essendo l’idea incorporata in essa, questa dispone di una durata e di una potenza superiori a quelle degli individui per mezzo dei quali agisce. È chiaro che nello Stato ritroviamo tutti gli elementi che l’analisi distingue nelle istituzioni” (Burdeau, 1982, p. 72). Se lo Stato-istituzione incorpora un’idea, questa “ è quella che deriva dalle rappresentazioni dell’ordine desiderabile” (Ivi) e quella che gli dà forza e continuità al di sopra degli individui che lo rappresentano, come l’idea di nazione, che gli permette di affrontare “l’usura del tempo e le contraddizioni degli uomini” (Ivi, p. 73). Se dunque per certi aspetti lo Stato può apparire un artificio “non è per questo concepito una volta per tutte. Al contrario è una creazione continua che esige da parte degli individui uno sforzo di pensiero attraverso il quale i suoi meccanismi e le sue attività assumono il loro vero significato. È necessario che attraverso il gendarme vedano il potere pubblico, che la cartella delle tasse evochi in loro i servizi sociali che il fisco mantiene…. In breve bisogna che associno le manifestazioni esteriori del Potere all’idea di un progetto collettivo che il gruppo formula per dominare il proprio destino” (Ivi, p. 57). Occorre quindi che lo Stato, nel momento in cui esercita il proprio potere, faccia valere le proprie funzioni, di protezione, di garanzia, di riconoscimento, di difesa giuridica dei ceti maggiormente soggetti alla pressione del potere. Occorre che le istituzioni siano in grado di soddisfare i bisogni collettivi e che le attività di ordine e di controllo siano svolte nell’ambito del principio di sovranità e nel rispetto dell’oggettività che il cittadino riconosce allo Stato. In secondo luogo, come si è detto, lo Stato ha un’anima politica. Esso è la sede del potere e rispecchia la dinamica dei centri di potere economico e ideologico che si affermano nella società civile e aspirano a una rappresentazione politica. L’anima politica esprime la soggettività del potere e perciò si rivolge all’occupazione, alla gestione e all’attribuzione di significa225

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to dello Stato. “In effetti lo Stato, sede del Potere, diviene la posta in gioco della politica. rendersene padrone è disporre di quell’ineguagliabile mezzo d’azione sulla società che è la facoltà di creare regole di diritto, beneficiando di tutta l’autorità attribuita alla norma legale. Si tratta anche, per gli uomini o le forze politiche che sono giunti a farsi riconoscere come agenti dello Stato, di accedere ad una legittimità che condanna i loro rivali ed avversari o ad accettare, per farsi intendere, le sole procedure che autorizza l’apparato statale, o ad adottare l’atteggiamento del ribelle, non disponendo che del ricorso, aleatorio e eticamente condannabile, alla prova di forza” (Ivi, p. 21). Se questa è la dinamica politica che agita lo Stato si comprende come spesso lo Stato sia considerato come l’alibi di maggioranze o presunte tali che governano in suo nome. Ma al di sopra di ogni scontro politico lo Stato possiede “una ragion d’essere che non può essergli tolta senza danno per la società. È il regolatore della lotta di cui è la posta in gioco” (Ivi, p. 21). È il campo in cui si gioca la politica ma è anche l’arbitro imparziale di questo gioco. In questo senso lo Stato si distacca dalla volontà dei governanti e si fa forza dell’idea che la collettività si fa del suo futuro e dell’organizzazione politico-sociale capace di realizzarlo. Questo è il consenso espresso o tacito che sostiene l’idea di Stato, il consenso che attribuisce legittimità, cosa ben diversa dalla legalità. È lo sviluppo da costruire verso una unità del vivere insieme secondo una rappresentazione dell’ordine desiderabile. In questa immagine di un futuro condiviso e da realizzare lo Stato ritrova quella sacralità che aveva perso con l’antico regime e la distruzione di ogni tradizione personale. O, detto altrimenti, l’idea di Stato è la razionalizzazione, in una società evoluta, del potere leggendario o carismatico, ma anche arbitrario dei capi. Nel momento in cui il carisma si sfaldava e la sovranità di diritto divino si perdeva, “un’altra credenza, questa volta razionalmente fondata è venuta a sostituirla… il concetto di Stato ha salvato il Potere razionalizzandolo” (Burdeau, 1982, pp. 77-78). Se questa razionalizzazione crea “un’impresa al servizio di un’idea”, questa idea deve essere attiva, permeare la cultura politica, dare senso all’azione dello Stato. Rispetto ad essa i governanti devono essere veri rappresentanti e strumenti delle finalità dello Stato. Non creatori ma interpreti delle finalità dello Stato. Se l’idea viene meno, se lo Stato si limita ad amministrare, se la sua finalità si disperde nelle scissioni della società oppure se emerge una società-Stato, allora il nudo potere utilizza lo Stato come uno strumento trasformandolo in uno Stato totalitario, mentre le forze di opposizione non rispettano più le regole e proclamano l’anarchia. Così to226

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talitarismo e anarchia si rafforzano e si giustificano a vicenda. L’idea di diritto che dovrebbe essere patrimonio dello Stato si piega alle esigenze del potere e così si rovescia il rapporto fra Stato e Potere e si torna a cercare giustizia nella figura di un capo carismatico. Nelle vere democrazie fra Stato e società politica permane un’importante distanza e un riconoscimento e rispetto reciproco. La società politica per crescere ha bisogno dello Stato e lo Stato ha bisogno di una finalità proiettata al futuro per rappresentare l’unità della società politica e mobilitare le energie collettive. Altrimenti la società politica marcia alla conquista dello Stato e lo Stato per mantenersi deve ricorrere ad un uso sempre più diffuso della violenza. Bisogna dunque che l’idea di Stato sia protetta e corretta, così come dovrebbe essere protetta ogni idea che rappresenti il cemento della società, come è stata e in parte continua ad essere oggi l’idea di nazione. Sono idee che conferiscono identità sociale e culturale al corpo del “noi” e che hanno anche una valenza politica, oggi spesso trascurata, che non è riducibile all’economico o alla momentanea scelta elettorale. Sono idee che esprimono una rappresentatività che vive nella coscienza collettiva e che non può essere tradotta in termini numerici ma solo in azioni significative come appunto la scelta elettorale. Anche nella politica rappresentativa, scrive Nadia Urbinati, “i voti non sono riducibili a mere quantità, essi riflettono la complessità delle opinioni e dell’influenza politica, ovvero entità simboliche e immateriali che non possono essere calcolate in termini aritmetici. Nel tradurre le idee in voti elettorali si tende talvolta a dimenticare tale complessità e a pensare che i voti più che rappresentare opinioni e convinzioni riflettano semplicemente preferenze individuali”. (Urbinati, 2009, pp. 63-64). 3. Stato e nazione La forza dell’idea di Stato deriva da una finalità desiderabile che ad essa si associa e che colloca lo Stato al di sopra della lotta politica. Deriva anche dalla continuità e dallo spessore che le attribuisce la tradizione e che ha trovato un forte impatto psicologico nell’idea di nazione. La nazione è la continuità di un sentimento comune che dal ricordo del passato si proietta in un progetto per il futuro. È l’elemento che mobilita le forze della collettività e che, rinforzando la percezione dell’unità rende più solida l’idea di Stato come attore e garante per il bene comune. La nazione, ha scritto Georges Burdeau, “nasce da un sentimento legato alle fibre più intime del nostro essere. Senza dubbio si possono censire i fattori di questo sentimento: la razza, 227

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la lingua, la religione, i ricordi comuni, l’habitat, ma, quale che sia la loro influenza, avrebbero poco effetto se non trovassero nella coscienza dei membri del gruppo la colorazione che li rende attivi. La nazione dipende più dallo spirito che dalla carne. Ciò a cui lo spirito aderisce attraverso la nazione è la perennità dell’essere collettivo. Sicuramente la tradizione, il ricordo delle prove comuni, ciò che si ama insieme e ancor più il modo in cui si ama hanno una larga parte nella formazione della nazione. Ma se i cittadini sono attaccati a questo patrimonio spirituale, non è tanto per ciò che rappresenta del passato quanto per le sue promesse per l’avvenire… La nazione è continuare ad essere ciò che si è stati e, di conseguenza, ad assicurare attraverso l’interdipendenza materiale, la coesione sociale per mezzo della fede in un ricordo comune; è una possibilità di sopravvivenza con cui l’uomo corregge la fugacità del suo destino personale” (Burdeau, 1982, pp. 37-38). Da un più ampio punto di vista sociologico si deve osservare che ogni aggregazione di individui che voglia essere durevole non può fondarsi solo sugli interessi, che sono superficiali e variabili. Deve trovare spessore e forza in una base psicologica che rappresenti il “cemento” dell’essere insieme e crei una identità alla quale la collettività possa fare riferimento. “The psychological dimension of national identity – scrive Monserrat Guibernau – arises from the consciousness of forming a group based on the ‘felt’ closeness uniting those who belong to the nation. Such closeness can remain latent for years and suddenly come to the surface whenever the nation is confronted with an external or internal enemy – real, potential or imagined – threatening its people, its prosperity, its traditions and culture, its territory, its international standing or its sovereignty” (Guibernau, 2007, pp. 11-12). L’identità che la nazione crea è ampia e dinamica e non viene posta in discussione se non nei comportamenti che essa genera. “National identity – scrive ancora la Guibernau – is a collective sentiment based upon the belief of belonging to the same nation and of sharing most of the attributes that make it distinct from other nations. National identity is a modern phenomenon of a fluid and dynamic nature. While consciousness of forming a nation may remain constant for long periods of time, the elements upon which such a feeling is based may vary” (Ivi, p. 11). Se l’identità nazionale è un fenomeno moderno non bisogna però dimenticare che di nazione, seppure in un senso diverso, parlavano anche gli antichi. Le parole natio, gens e populus erano qualche volta sinonimi (v. Curcio, 1977, p. 16 e segg.). Solo nel Settecento si venne lentamente a formare il moderno concetto di nazione. Nel suo Essai sur les privilèges 228

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(1788) l’abate Siéyès “conferiva al Terzo Stato caratteri e diritti della nazione completa” (Curcio, 1977, p. 25). Nell’Ottocento poi già Fichte può dire, nei Discorsi alla nazione tedesca, che lo Stato rappresenta lo strumento per il progresso della nazione e, nella seconda metà del secolo, Renan affermerà che l’esistenza di una nazione “è un plebiscito quotidiano” ma che le nazioni “non sono eterne. Hanno avuto un inizio e avranno una fine” (cit. in Reinhard, 2007, p. 87). Progressivamente la nazione diviene sinonimo di individualità storica. Come idea-forza essa si colora di simboli e produce il nazionalismo, inteso come “un sistema simbolico che rende un gruppo di uomini consapevoli della propria affinità, attribuisce ad essa particolare valore e unisce i suoi membri delimitandoli rispetto al contesto in cui si trovano. Il nazionalismo integrale, propugnato esplicitamente a partire dal 1900, è caratterizzato dal fatto di considerare la nazione valore supremo e senso ultimo. Il nazionalismo diviene così una religione… La nazione intesa come comunità dei vivi, dei morti e dei nascituri sostituisce la Chiesa come entità trascendente e profana. Su questo carattere religioso si basa l’enorme capacità del nazionalismo di mobilitare le emozioni in un modo comparabile solo a quello della religione” (Ivi, p. 87). Considerando la nazione il più alto e il più puro dei valori il nazionalismo assorbe in questa immagine di società lo Stato e la sua azione politica. Per questo il nazionalismo va considerato come “un principio politico che afferma che l’unità politica e l’unità nazionale devono essere congruenti”. Esso è “una teoria della legittimità che esige che i confini etnici coincidano con i confini politici e, in particolare, che i confini etnici all’interno di uno Stato… non separino i detentori del potere dal resto del popolo” (Gellner, 1983, pp. 11-12). La nazione “è anzitutto un’emozione”, “è un prodotto della storia”, è “una realtà specifica e un’idea forza dei tempi moderni”, si presenta come “una comunità culturale” che non è “che la parte emersa di un iceberg le cui fondamenta sono assai insondabili, anche se si scopre che la sua forza di cristallizzazione è tanto economica quanto politica” (Fougeyrollas, 1987, pp. 1-25). Questa idea-forza ha sostenuto lo Stato per due secoli e lo Stato ha utilizzato la nazione, di volta in volta come fattore di aggregazione, come valore ideologico e come principio di azione politica interna e internazionale lasciando anche spazio alle forme più radicali del nazionalismo. Queste forme violente si sono avute particolarmente agli inizi dell’industrializzazione, nei periodi di protezionismo industriale e di espansione coloniale. In altri momenti il nazionalismo è apparso come un fatto cultu229

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rale rivolto a rivendicare supremazie ed esclusioni. L’ideologia nazionalista utilizza miti che spesso rovesciano la realtà: pretende di difendere la cultura popolare e sviluppa invece ragionamenti di alta cultura; pretende di proteggere le forme arcaiche della tradizione e aiuta invece a costruire una società di massa anonima (v. Gellner, 1989, p. 177). La sua idea di fondo è così semplice e così facile che può utilizzarla chiunque e in qualunque momento facendo apparire il nazionalismo come un sentimento naturale. “L’importante è sapere – secondo Gellner – se le condizioni di vita sono tali che danno a questa idea un carattere ineluttabile, piuttosto che assurdo, come è accaduto normalmente nel passato” (Ivi, p. 179). Le esplosioni di nazionalismo della prima metà del XX secolo hanno relegato l’idea di nazione per un lungo periodo, nel secondo dopoguerra, ad un ruolo marginale connesso soprattutto ai processi di autodecisione dei popoli (v. Curcio, 1977, p. 335 e segg.). Il discorso sull’idea di nazione si è però riaperto negli anni ’80 sia per gli effetti dovuti alla crescente complessità sociale e alla frammentazione degli interessi in una società dominata dalla ragione economicistica, sia per l’avvio dei processi di globalizzazione. Questi hanno privato il cittadino di gran parte di quei riferimenti ad una comune tradizione, ad un comune linguaggio e comune cultura che sostenevano il sentimento di unità nazionale e quindi di una comune identità. Tanto è vero che si sono diffusi fenomeni di localismo con propri simboli e proprie espressioni politiche (come la Lega in Italia) atti a sostituire, alla debolezza dell’idea di nazione di fronte ai nuovi orizzonti, una nuova identità forte costruita sui piccoli cerchi della vita quotidiana. All’effervescenza delle “città-mondo” il localismo ha risposto rivendicando l’autonomia e la persistenza di un “piccolo mondo” con una sua sfera psicologica, morale e di esistenza pratica che non può essere compresa e assorbita dalla realtà dei grandi spazi. Ma l’idea di nazione si spegne veramente di fronte all’economicismo e al cosmopolitismo? Le opinioni degli studiosi sono diverse. È cauto Fougeyrollas che, dopo aver sottolineato che “l’universalizzazione del fenomeno nazionale o, almeno, dell’ideologia nazionalista, è uno dei tratti caratteristici del XX secolo”, si chiede quale potrà essere il valore di riferimento della nazione di fronte al globalismo delle società moderne, trovandosi essa messa in questione da un nuovo corso della storia del quale è difficile discernere chiaramente la direzione e il significato. “Da idea-forza rivoluzionaria, poi conservatrice non sta per trasformarsi in un nuovo problema del quale bisogna tentare di chiarire i termini?” (Fougeyrollas, 1987, 230

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pp. 192-93). Di fatto, quella che è stata la forza di sostegno dello Stato borghese nel XIX e XX secolo si scinde in due elementi diversi che impongono un ripensamento del senso e delle funzioni dello Stato: il razionalismo universalistico della ragione economicista e l’impatto emozionale e simbolico del localismo capace di ricostruire una identità forte. La denazionalizzazione in atto non lascia spazi vuoti ma impone una rifondazione di senso dello Stato. Meno scettico sul futuro dell’idea di nazione è Ernest Gellner, soprattutto perché vede il nazionalismo risolversi in espressioni culturali, che potrebbero essere utili a coprire le disaggregazioni e gli interessi di parte di una società dominata dal valore dell’economico. In questa società l’economia ha bisogno “sia di un nuovo tipo di cultura centrale che di uno Stato centrale” e d’altra parte “la cultura ha bisogno dello Stato e lo Stato ha probabilmente bisogno di contrassegnare il suo gregge con una cultura omogenea, in una situazione nella quale non può contare su dei sottogruppi, ampiamente erosi, per disciplinare i suoi cittadini o per inspirare loro quel minimo di entusiasmo, senza il quale la vita sociale diviene molto difficile”. In questa triangolazione trova posto una nuova espressione (culturale) del sentimento e dell’identità nazionale. La relazione tra uno Stato e le culture moderne “è qualche cosa di totalmente nuovo che nasce, inevitabilmente, dalle esigenze dell’economia moderna” (Gellner, 1989, p. 197). Anche la Guibernau, nel suo recente lavoro, rivendica la capacità unica dell’idea di nazione di creare una identità comunitaria, che supera ogni differenziazione di status. “National identity – scrive – is extremely valuable to individuals because it provides them with a sense of dignity regardless of their class, gender, achievements, status and age. By belonging to the nation, individuals identify with and, up to a point, regard as their own the accomplishments of their fellow nationals. It is by identifying with the nation that individuals’ finite lives are transcended and that the nation comes to be revered as a higher entity. One of the most outstanding features of national identity is its ability to cut across class division while strengthening a sentiment of belonging to an artificial type of extended family, the nation” (Guibernau, 2007, p. 169). Questa funzione può rimodellarsi nell’era globale e fornire quel contrappeso culturale che manca all’ideale dello sviluppo economico. “At the beginning of the new millennium – scrive ancora la Guibernau – the identity of nations remains strong and acts as a powerful political mobilizer. National identity now, however, is different from that at other periods of time, simply because, in the 231

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global age, national identity is simultaneously more solidly constructed by efficient strategies of nation-building and much more open to alien influences impossible to control and exclude from the national space. National identity has acquired a new dimension that makes it more open and able to include foreign elements without fundamentally changing its core. To put it another way, national identity tolerates a higher degree of hybridity and fuzziness than in previous times” (Ivi, p. 189). Infine, diversa è la tesi di Jürgen Habermas in un’analisi molto ampia del mutamento sociale e politico del nostro tempo. Habermas sottolinea come i fenomeni di globalizzazione, i mutamenti intervenuti nella comunicazione e nella percezione e nell’uso dello spazio e del tempo ci portino necessariamente oltre lo Stato-nazione e lo Stato-sociale. “Le tendenze – scrive – che stanno rapidamente avviandoci ad una costellazione postnazionale vengono da noi percepite come sfida politica solo in quanto le descriviamo ancora nell’ottica abituale dello Stato-nazione” (Habermas, 1999, p. 32). Le società che, “oggi travolte dai processi di de-nazionalizzazione stanno ‘aprendosi’ nei confronti di una società mondiale già avviata sul piano economico” (Ivi, p. 33) presentano un duplice problema: quello di una riorganizzazione della politica differenziata a più livelli (locale, nazionale e internazionale) e quello di una integrazione funzionale che venga a sostituire l’integrazione sociale effettuale e simbolica alla quale corrispondeva in passato l’idea di Stato-nazione (Ivi, p. 61). Anche la funzione identitaria e unificatrice dell’idea di nazione potrebbe perciò essere sostituita come fatto culturale, in un sistema come quello europeo, da un “patriottismo costituzionale” che, sulla base di un livello di fiducia transnazionale crei forme di attaccamento e di lealtà nei confronti di questo sistema che si fondino unicamente su istituzioni e sui valori dei quali esse sono portatrici e non più sulle “storie nazionali” dei singoli popoli. Certamente questa tesi è suggestiva e rappresenta una possibilità che si pone alla coscienza collettiva, ma la sua realizzazione sembra essere piuttosto remota, perché difficilmente realtà tuttora psicologicamente distanti come l’Europa potranno sostituire l’impatto dei piccoli cerchi della vita quotidiana, che già hanno difficoltà a proiettarsi nell’idea di nazione. Certo l’immaginario dell’intellettuale scambia spesso il possibile con il desiderabile, che è ben più difficile da impiantare e da tradurre simbolicamente nell’anima collettiva. È vero invece che l’idea di nazione deve trovare una diversa e molteplice modulazione culturale, non più solo ideale. E di fatto il sentimento nazionale si apre e si materializza in una serie di attività, come quella spor232

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tiva, di produzioni culturali, come la produzione cinematografica e letteraria, che rendono tangibili il senso di appartenenza e della singolarità a fronte dell’anonima, piatta e omogenea ideologia economicista globale. 4. La vicenda dello Stato moderno Stato e nazione, ideale politico e ideale sociale e culturale nei quali si è sedimentata la percezione dell’unità della società, hanno una storia nella modernità che va seguita e interpretata per intendere i mutamenti in atto e i fenomeni di transizione che stiamo attraversando. È lo sviluppo del mondo moderno che crea lo Stato moderno. Nel Settecento l’autonomia della società civile, lo sviluppo dei rapporti economici, la crescita e l’influenza della borghesia, l’Illuminismo e il nuovo significato del concetto di nazione, formano la base dalla quale si afferma lo Stato moderno. Si afferma con la Rivoluzione francese che pone termine alle fasi dello Stato patrimoniale e dello Stato assoluto, che trasferisce la sovranità da Dio al popolo, che muta il significato della rappresentanza, che formalmente vede salire il potere dal basso e non più scendere dall’alto e vede nello Stato la proiezione oggettiva della sovranità popolare e nella carta costituzionale la tutela dei diritti dei cittadini e non più la benigna concessione del sovrano. Il processo e l’esecuzione di Luigi XVI “non avevano molto a che vedere con la colpevolezza o l’innocenza personale del re... furono la dimostrazione della sottomissione del re alla sovranità popolare” (Reinhard, 2010, p. 29) La “costruzione simbolica di un ‘popolo’ fa dello Stato moderno uno Stato nazionale” e con il passaggio dalla sovranità del re alla sovranità popolare “i diritti dei sudditi si trasformano, sul piano idealtipico, nei diritti dell’uomo e nei diritti del cittadino, ossia nei diritti liberali e politici dei cittadini” (Habermas, 1999, p. 37). I poteri del nuovo sovrano, simbolicamente rappresentato come unità, possono tuttavia essere esercitati solo attraverso la rappresentanza e perciò l’istituto della rappresentanza muta radicalmente. “Mentre i parlamenti moderni rivendicano la rappresentanza dell’interesse generale della nazione, pur dando espressione a concezioni diverse di tale interesse, le assemblee degli ordini premoderni sostenevano dichiaratamente gli interessi particolari o il loro insieme. La rappresentanza, infatti, inizialmente non era intesa nel senso moderno di ‘presenza per conto di’, ma era basata su una personificazione reale o simbolica. Ciò significa che, per quanto atteneva all’appartenenza agli ordini, essa era definita per nascita e riguardava coloro 233

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che erano titolari di particolari dominî; essi non si consideravano rappresentanti del paese, ma erano il paese. In questo senso, ancor oggi in Inghilterra sovrano è il parlamento e non, come nel resto d’Europa, il popolo rappresentato dal parlamento” (Reinhard, 2010, p. 55). È in relazione al nuovo significato della rappresentanza che i rappresentanti dovranno essere i migliori in senso assoluto, come già indica Saint-Simon, perché solo i migliori saranno in grado di decidere sul bene comune. Per questo la politica è considerata come un tempio e l’attività politica come un servizio reso alla società. La democrazia rappresentativa è una costruzione lenta ma progressiva. Attraverso processi di istituzionalizzazione e rappresentazione si passa dallo Stato istituzione allo Stato costituzione. “Se lo Stato deriva da ciò che noi chiamiamo l’istituzionalizzazione del potere – scrive Burdeau – questa operazione non si produce per caso. È determinata da una serie di circostanze che concorrono, a un dato momento, a renderla nello stesso tempo possibile e necessaria. Queste circostanze costituiscono le condizioni oggettive della formazione dell’idea dello Stato. Non bastano tuttavia a provocare la sua apparizione. Bisogna che vi si aggiunga una attitudine intellettuale verso il potere. Vuol dire che l’idea dello Stato, per quanto condizionata da dati oggettivi, non procede senza il supporto psicologico che le fornisce la disposizione, tanto del gruppo che dei capi, a concepire l’istituzionalizzazione” (Burdeau, 1982, p. 35). Gradualmente lo Stato costituzionale acquista una fisionomia ben definita sulla scia dell’esperienza inglese. Allora vengono fuori gli interpreti dello Stato moderno. Per Hegel lo Stato è “la totalità etica”, la “realizzazione della libertà; ed è finalità assoluta della ragione che la libertà sia reale”. “L’ingresso di Dio nel mondo è lo Stato; il suo fondamento è la potenza della ragione che si realizza come volontà” (Hegel, 1954, pp. 368-69). Per lui lo Stato rappresenta l’essenza suprema della vita dello spirito. In questo vede “l’ingresso di Dio nel mondo”. Sarebbe stato vero se, invece dell’immagine metaforica, avesse considerato che la sovranità, con il nuovo Stato, passava dall’immagine di Dio costruita dalla religione, ad un dio terrestre raffigurato come “popolo”, attorno al quale sarebbe nata tutta una mitologia e la liturgia della democrazia rappresentativa. O forse Hegel voleva dire proprio questo imputando al popolo quella sacralità che la nuova politica cercava per sostituire la vecchia base religiosa del potere? Questa sembra essere l’interpretazione di Carl Schmitt che scrive: “Si sono citate innumerevoli volte le definizioni hegeliane dello Stato come ‘regno della 234

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ragione oggettiva e dell’eticità’, consentendo o dissentendo su di esse, ma raramente si è stati consapevoli del fatto che le costruzioni teoriche di Hegel, che si suppongono tanto metafisiche, hanno un significato storico eminentemente politico-pratico. Esse sono in massimo grado ontonome, ontologicamente giuste, e portano ad espressione una realtà storica di due secoli. Le formulazioni di Hegel, che si pretendono smarrite nella dimensione metafisica, sostengono infatti in ultima analisi che è stata la forma storica, spazialmente concreta, di organizzazione di quest’epoca – lo Stato – a operare, perlomeno sul territorio europeo, quale portatrice del progresso inteso come crescente razionalizzazione e limitazione della guerra” (Schmitt, 2003, pp, 175-76). Per Marx e Engels invece lo Stato non è il santuario della nuova società, ma un episodio storico destinato a tramontare. Esso costituisce lo strumento di governo della classe economicamente dominante. Mentre per Hegel lo Stato è la sintesi etica in cui si sanano i conflitti della società civile, per Marx “lo Stato, l’ordine politico è l’elemento subordinato, mentre la società civile, il regno dei rapporti economici è l’elemento decisivo”. Non solo, ma lo Stato ha un’esistenza storicamente delimitata. “Come nasce lo Stato?”, si chiede Engels nell’Origine della famiglia. “Era necessaria – scrive riferendosi alle prime forme di organizzazione sociale – una istituzione che avesse eternato oltreché la nascente divisione della società in classi, anche il diritto della classe possidente di sfruttare quella che nulla possedeva e di conservare il dominio di quella su questa. E questa istituzione venne: fu inventato lo Stato”. In tutte le sue manifestazioni lo Stato è vissuto e vive come espressione della classe dominante. Ma, scrive ancora Engels, “lo Stato non è eterno”. “Vi sono state delle società che se la sono sbrigata senza di lui. Ad un determinato livello di evoluzione economica, che era necessariamente collegata alla scissione della società in classi, tale scissione fece dello Stato una necessità. Noi ci avviciniamo ora a grandi passi ad un livello di sviluppo della produzione, raggiunto il quale l’esistenza di queste classi non solo avrà cessato di essere una necessità, ma costituirà un ostacolo positivo alla produzione. Esse cadranno altrettanto inevitabilmente come a suo tempo sorsero. Con esse cadrà inevitabilmente anche lo Stato”. Lo Stato dunque non si deve abbattere ma si estingue per lo sviluppo del processo storico e della società industriale in particolare. È questo uno dei temi sui quali si aprirà il dibattito all’interno del pensiero marxista. La società comunque non può essere compresa a partire dallo Stato. Essa deve essere interpretata a partire dalla sua stessa struttura, dall’articolazione 235

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in classi, dalla proprietà dei mezzi di produzione (ecco perché il marxismo è una teoria sociologica e non una dottrina dello Stato). Questo è il significato del materialismo storico. Con tale termine, scrive Engels, si vuole indicare “quella concezione dello sviluppo della storia che cerca le sue cause prime e la forza motrice decisiva di tutti gli avvenimenti storici importanti nello sviluppo economico della società, nella trasformazione dei modi di produzione e di scambio, nella divisione della società in classi che ne deriva e nella lotta di queste classi tra di loro” (v. Mongardini, 1992, p. 473). Una visione che diremmo ‘funzionale’ dello Stato, affiora invece nella concezione del socialismo utopista e del positivismo. Saint-Simon (1760-1825) esalta la fede nel progresso e nella scienza ed è il primo teorico dell’industrialismo. La società è concepita come un’unità organica che trova nello Stato il suo elemento ordinatore e regolatore, che permette lo sviluppo delle attività economiche e industriali in modo da far cessare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo: “A ciascuno secondo le sue capacità, ad ogni capacità secondo le sue opere”. Questo sarà anche il principio seguito a fine secolo dal socialismo umanitario e positivista che vedrà nello Stato un organismo giuridico regolatore dei rapporti sociali, un “Rechtsorganismus” che doveva suscitare l’ironia pungente di Vilfredo Pareto (v. Pareto, 1965, p. 250). L’idea di Stato di diritto si afferma in quanto lo Stato si presenta come garante dei rapporti sociali di fronte al crescente sviluppo in complessità della società civile dovuto alle scoperte scientifiche, alla crescita dell’economia, al progresso tecnologico e all’evoluzione delle comunicazioni. Proprio sulla base del diritto lo Stato può “garantire” la vita collettiva preservandola dalle crescenti tendenze destabilizzatrici che si manifestano con la diffusione dell’utilitarismo individualistico. Ciò è possibile, scrive il Reinhard, “per il fatto che lo Stato moderno ha il monopolio non solo della violenza ma anche del diritto… Il diritto di altre organizzazioni può discendere da quello dello Stato… o può essere applicato in forza del riconoscimento o della tolleranza dello Stato… Anche il diritto internazionale, che di recente sembra limitare fortemente la sovranità dei singoli Stati, basa ancora oggi la propria efficacia sulla ratifica da parte del singolo Stato” (Reinhard, 2010, pp. 21-22). Anche i diritti fondamentali derivano da una autolimitazione del potere statale stabilita dalla costituzione. “In caso di emergenza nulla e nessuno potrebbe impedire a quello stesso potere di abolire la costituzione o di creare, accanto a essa e in contrasto con essa, un regime di totale o parziale sospensione del diritto” (Ivi, p. 23). Questa possibilità rende decisivi “gli interessi e il potere reale dei detentori del potere statale. Di essi 236

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fa parte anche il modo in cui essi si pongono nei confronti delle aspettative e delle consuetudini politiche dei governati” (Ivi, p. 24). Il rilievo dato al potere e alle intenzioni dei governanti nelle vicende dello Stato finiscono col confondere l’idea di Stato con la classe governante. Per la nascente scienza politica italiana, a fine Ottocento, con le opere di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, dietro l’emblema dello Stato c’è il potere di una minoranza e ogni analisi politica deve fare centro su questa realtà. Essi trasferiscono la dualità sociale delle classi vista dal marxismo nel rapporto politico fra governanti e governati. Per Mosca la minoranza che governa “adempie a tutte le funzioni politiche, monopolizza il potere e gode i vantaggi che ad esso sono uniti”. La funzione dello Stato e del diritto che esso esercita è perciò solo quella di regolare la società politica e di garantire la difesa giuridica dei governati dalle possibili sopraffazioni del potere. Ancor più per Pareto la funzione politica è svolta da una piccola élite che governa con il consenso o con la forza, mentre il diritto non è che espressione e imposizione di una forza autoregolantesi. “Il diritto – scrive Pareto – ha cominciato con la forza di individui isolati, esso ora si realizza con la forza della collettività, ma è sempre la forza” (Pareto, 1951, p. 27). La scuola del realismo italiano mette quindi in dubbio l’oggettività dell’idea di Stato per dare risalto all’azione di quelle minoranze che guidano la società politica. Abbiamo così a fine Ottocento almeno quattro interpretazioni dello Stato moderno: 1. Lo Stato come espressione di una coscienza etica che si pone idealmente al di sopra della società; 2. Lo Stato come strumento di oppressione della classe economicamente dominante; 3. Lo Stato come istituzione giuridicofunzionale volta a sviluppare il processo di emancipazione dell’uomo; 4. Lo Stato come insieme di istituzioni attraverso le quali si dà ordine alla società politica e si danno strumenti di governo alla minoranza che detiene il potere. L’inizio del XX secolo vede emergere due fenomeni importanti per la politica: 1. L’estensione della forza dello Stato moderno attraverso il suo apparato burocratico, le sue maggiori capacità funzionali e di intervento nella gestione della società. Così lo Stato diventa la posta in gioco della lotta politica; 2. La formazione delle masse, dovuta all’industrializzazione, che cominciano a giocare un ruolo significativo nella vita sociale e politica: “L’importanza politica che in questo secolo hanno conseguito le masse di fronte agli interessi dell’individuo…” nota Simmel all’inizio di un suo scritto del 1899. Ha così inizio una lotta per la conquista dello Stato come rappresentazione e come realtà dalla quale è possibile rendere più istituzionale e più stabile il potere. È lotta delle masse guidate da movimenti socialisti e sin237

Pensare la politica

dacali che ha successo rapidamente, come in Russia, laddove l’ordine politico è ancora primitivo e traballante; che dà luogo a dittature fondate su mitologie arcaiche (la razza e il mito di Roma), laddove, come in Germania e in Italia, una vecchia oligarchia borghese è incapace di far fronte alle nuove realtà. Lo Stato diventa “lo Stato delle masse” e perciò, come notava poi Carl Schmitt, uno “Stato totale” perché totalmente coinvolto nella società: uno Stato che lascia trasparire “la minaccia della società senza classi” (Lederer, 2004). È una minaccia che si ripete ogni volta che si accentua l’omogeneità sociale per reddito, per condizione sociale, per appiattimento spirituale, diminuendo la capacità di resistenza al potere che può nascere solo attraverso la differenziazione. L’emergere dello Stato-massa, scrive Lederer alla fine degli anni ’30, “sconosciuto prima della guerra, rende necessaria la revisione di tutte le nostre idee sulla società: evoluzione, rivoluzione e trasformazione del sistema economico” (Lederer, 2004, pp. 74-75). Laddove i valori si condensano attorno agli status di produttori e consumatori, la libertà politica rischia di essere compromessa. Lo Stato totale diventa anche perciò lo Stato totalitario, come nel caso del nazismo e del fascismo. Il partito unico o il partito egemone “formano” la società e combattono il dissenso. Ma anche lo Stato dei partiti rappresenta la distruzione dell’idea di Stato. I partiti lottano non solo per la conquista del potere ma anche per l’occupazione dello Stato che diventa uno Stato dei partiti, non più uno Stato al disopra dei partiti. Il partito controlla gli umori e le esigenze delle masse, cerca il consenso, quale che esso sia, sulla piazza quotidiana (partito pigliatutti – catch-all party) e nello stesso tempo si inserisce dentro lo Stato (cartel party), occupa lo Stato proponendosi come agenzia statale e non più come struttura di intermediazione (v. Massari, 2004, p. 77). L’idea di Stato e le sue manifestazioni sono orientate e interpretate dai partiti. Venendo a mancare la dimensione oggettiva dello Stato, travolta dalla lotta politica, viene meno la garanzia della morale collettiva e il senso della stessa politica. Questa “colonizzazione dello Stato da parte dei partiti” che ha caratterizzato la seconda metà del XX secolo e i primi anni del XXI “rischia di condurre – nota Burdeau – all’esplosione della comunità nazionale che non trova più un Potere adatto a costituire lo strumento della propria volontà di essere, ma soltanto dei Poteri attraverso i quali si oppongono le concezioni relative al suo modo di essere” (Burdeau, 1982, p. 96). Le conseguenze per la politica sono molteplici. “Se lo Stato – scrive ancora Burdeau – non può contare, per appoggiarvisi, su un consensus che gli sia pro238

Lo Stato moderno

prio, arriva presto o tardi un momento in cui i governanti si troveranno nell’incapacità di assolvere la loro funzione. Subordinati ai partiti, non potranno trascenderne le esigenze per decidere in quanto organi dello Stato, cioè come agenti dell’interesse globale della collettività” (Ivi, p. 97). Inoltre il governo sarà obbligato “a giostrarsi con la congiuntura quotidiana, ad approfittare dell’appoggio occasionale di un gruppo, ad utilizzare la riserva provvisoria di un altro, a sfruttare la rivalità che nell’opposizione neutralizza i suoi avversari, a cedere su un punto per essere sostenuto su un altro, in breve a fondare il suo potere su una base instabile e continuamente contestata” (Ivi, p. 98). La ressa dei partiti attorno allo Stato non ha più una base ideologica e per questo si trasforma in una occupazione del centro, nella gestione dei temi di giornata, nel mascheramento dei giochi di potere con l’economia, apparente scienza guidata da “leggi naturali” e che comunque non può creare contrapposizioni perché mira allo sviluppo e al benessere della collettività. Così nella facciata la lotta per il potere appare semplicemente come l’interpretazione di norme scientifiche per realizzare il bene di tutti. Ma dietro questa facciata si manifesta la debolezza dello Stato che non è più l’idea in cui tutti si riconoscono ma il modo di gestire le vicende del mercato conservando o accrescendo le distanze fra forti e deboli, stimolando i consumi e facendo dello sviluppo industriale la meta per il mantenimento di quella massa che fa da supporto al potere esistente. Lo Stato si è immerso fino in fondo nella società e si è fatto imprenditore e promotore del benessere sociale. Con la formula del Welfare State è diventato Stato-provvidenza e si è assunto compiti e responsabilità che ha sottratto all’azione individuale. Fino alla crisi dello Stato sociale, che non ha retto alla trasformazione del capitalismo in capitalismo finanziario (v. Mongardini, 2007), e alla crisi dell’idea di Stato. Lo Stato, prima utilizzato dal capitalismo, è stato poi messo da parte, come vedremo, quando il capitalismo ha cercato più ampi sviluppi con la globalizzazione ponendo l’interrogativo sulla “fine” o la trasformazione dello Stato e sulla possibilità di andare “oltre lo Stato”. La figura dello Stato dei partiti è oggi un insieme di forza e di debolezza. La pressione di uno Stato che, agganciato all’economia, deve gestire la contingenza manifesta la debolezza dell’idea di Stato che non trova più un suo proprio consenso e quindi non permette di realizzare riforme e non può contare sulla dinamica politica perché la politica è un cumulo di macerie, a cominciare dal rapporto di rappresentanza. Del resto la debolezza dello Stato nell’esperienza italiana risale fino 239

Pensare la politica

all’opera della Costituente, le cui posizioni rispetto all’idea di Stato erano ben definite. Nella Costituente risultò evidente la posizione anti-statalista tradizionalmente assunta dalla corrente cattolica e ancor più rafforzata dopo l’esperienza dello Stato totalitario, appena drammaticamente conclusasi con la partecipazione dell’Italia al conflitto mondiale. Contro l’“idea di Stato” si schierarono peraltro anche gli esponenti di ispirazione comunista anche se le loro obiezioni erano storicamente orientate contro il modello di Stato che andava a quel tempo profilandosi, ossia quello “capitalista”. La forma di Stato che ne derivò, sancita dal dettato costituzionale, fu così ispirata ad una funzione integrativa e di controllo della società civile, per la quale funzione lo Stato non necessita di strumenti ideali e ideologici di aggregazione degli individui, di cui infatti non dispone. Il modello di Stato disegnato dalla costituzione non appare perciò lontano dal coevo prototipo dello “Stato funzionale” della cultura d’oltreoceano il quale, però, coltiva da sempre, fra le pieghe della società civile, i principî ideologici, spesso religiosi, dell’aggregazione e della convivenza, affidando allo Stato-apparato esclusivamente il ruolo di “amministratore del benessere collettivo”. Ben diversa è la condizione sociale storicamente affermatasi in Europa, dove la forza ideologica dello Stato ha puntualmente costituito l’unico riferimento per la mediazione delle eterogeneità e delle pluralità di interessi di un tessuto “civile” tradizionalmente composito e conflittuale. Per questo l’aspetto “amministrativo” – e quindi il senso ideologico “debole” – dato allo Stato dalla costituzione, in un’Italia che usciva dal secondo conflitto mondiale, ha fatto sentire il suo peso. Il fatto di alleggerire la forza dello Stato fu anche dovuto alla necessità di non creare intralci all’espansione economica e all’uso dell’economia come strumento della politica per il controllo e il “governo” della società, che andava affermandosi prepotentemente in quegli anni. Questa enfasi, con la quale si è data la preminenza ai valori dell’economia, ha finito per produrre una strumentalizzazione della politica da parte del mondo economico. La politica si è ridotta a “politica economica” e con ciò al riconoscimento dell’utilitarismo come principio dominante. Di qui l’“economia come ideologia” (Mongardini, 1997), principio che ha prodotto un ulteriore indebolimento dell’idea di Stato.

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II La Costituzione

1. Tra potere comunità e potere apparato A partire dalla rivoluzione francese lo Stato nazionale è stato per due secoli il modello di organizzazione politica del mondo occidentale. Occorreva in questo modello istituire un assetto giuridico e organizzativo della società politica che esso configurava, e con esso, dei rapporti che i cittadini avevano con lo Stato. Questi rapporti pubblici, nell’antico regime, erano circoscritti a “collettività strutturate da poteri intermedi” che solitamente “si autoregolavano”. Il nuovo ordine giuridico “ che nelle intenzioni doveva essere duraturo, fu chiamato – ispirandosi alle ex colonie britanniche del Nordamerica divenute indipendenti – “costituzione”. Una moderna costituzione è redatta in un unico documento scritto, discende teoricamente dal popolo e per questo i titolari del potere statale non ne possono disporre, essa definisce la forma di governo e garantisce i diritti fondamentali e i diritti umani” (Reinhard, 2010, pp. 89-90). La costituzione è la legge fondamentale di uno Stato e si pone come ponte tra la società politica e la suprema idea di Stato che risponde al desiderio di vivere insieme di una collettività sottoponendosi a regole comunemente condivise. La costituzione è perciò l’atto che delinea le norme essenziali della convivenza, i valori che le ispirano e i principî che ne sono alla base. Definisce inoltre l’organizzazione politica sulla quale la collettività si regge e agisce. La costituzione indica la gerarchia dei poteri, tanto del potere comunità che si articola in movimenti di opinione, associazioni, gruppi di interesse ecc., quanto del potere apparato che comprende quell’insieme di istituzioni legittimate all’esercizio del potere di imposizione, che a tal fine, all’interno di una comunità, detengono il monopolio della forza. Possono usare la forza ma ricercano il consenso, cioè il riconoscimento che quell’impo241

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sizione è giusta perché va nel senso del bene comune. In questa ricerca del consenso, come si è visto, consiste la politica, perché il consenso riveste il potere di quella legittimità che lo consacra e lo integra come valore all’interno della vita di gruppo. Sintesi della struttura del potere apparato è lo Stato, che per questo assume una dimensione oggettiva rispetto all’uso strumentale del potere da parte della classe politica. Questa dimensione oggettiva è perciò indipendente dalla politica e poggia su dei valori e su un contesto ideologico (Stato etico, Stato di diritto, Welfare State) che danno significato alla sua esistenza e alla sua azione. Tale natura dello Stato moderno è stata spesso contestata come prodotto del regime borghese, in quanto lo Stato sarebbe “strumento della classe dominante” (Marx e Engels) e non sarebbe altro che una istituzione “inventata” (Engels) e destinata a perire insieme al dominio borghese. Di fatto lo Stato è una rappresentazione che si materializza nell’azione delle sue istituzioni. “Nessuno ha mai visto lo Stato. Chi potrebbe tuttavia negare che esso sia una realtà?” (Burdeau, 1982, p. 17). Lo Stato è perciò l’unità rappresentata che dà alla vita di gruppo una identità oggettiva e impersonale e svolge nei confronti del gruppo stesso quella funzione che, secondo Simmel, svolgevano, nei confronti degli individui, gli dei dell’antica Grecia. “Che ci si ricordi – scrive Simmel – di quegli dei che gli uomini hanno creato sublimando le qualità che trovavano in se stessi, e da cui hanno atteso poi sia una morale sia la forza di praticarla!” (Simmel, 1976, p. 57). Non a caso Hegel, come si è detto, parla dello Stato come dell’ingresso di Dio nel mondo. Nel momento in cui si riconosce nello Stato la rappresentazione dell’unità del gruppo, nessuno può dimenticare tuttavia che esso detiene il monopolio della forza del quale le sue istituzioni potrebbero abusare. Di qui il principio della separazione dei poteri e del loro reciproco controllo, principio definito da Montesquieu, che scrive : “È una perenne esperienza che ogni uomo che ha potere è spinto ad abusarne finché non incontra dei limiti…. Affinché non si possa abusare del potere occorre che il potere fermi il potere” (cit. in Burdeau, 1979, p. 61). Con lo sviluppo del liberalismo e del capitalismo la separazione dei poteri ha avuto tuttavia scarsa fortuna. Ha avuto “più una funzione decorativa che una utilità reale” (Ivi, p. 60). M. Debré ha scritto: “Non esiste una separazione dei poteri perché la responsabilità della vita sociale è indivisibile. Le costituzioni che dividono l’autorità in settori portano le società all’anarchia” (cit. in Ivi, p. 62). È nelle costituzioni, in ogni caso, che dobbiamo ricercare il meccanismo di equilibrio fra potere comunità e potere apparato e dunque il sen242

La Costituzione

so reale dello Stato che deriva dalla tradizione così come dalle condizioni attuali di una società e di una cultura. Le costituzioni non rappresentano, nei sistemi democratici, il soggetto sovrano ma l’incontro tra due potenziali sovranità, quella formale del popolo e quella sostanziale di chi pretende di rappresentarlo. La costituzione più che dominare, regola, più che rappresentare un esercizio di potere, dà senso e organizzazione allo Stato all’interno dei suoi confini. Nella costituzione, ha scritto Rehberg, “nella sua stesura e nei dibattiti attorno ad essa si cristallizza la cultura politica di un paese – e proprio qui sta il suo significato istituzionale” (Rehberg, 2008, p. 65). Il suo valore sta nel significato simbolico che essa esercita, significato e funzione che oggi vengono sfidati e messi in crisi dai processi di globalizzazione che rendono permeabili i confini e con ciò sovrappongono allo Stato una realtà più complessa che in parte lo libera dal suo ambito territoriale. La globalizzazione, come è stato notato, promuove élites più consapevoli e una forte domanda di repubblicanesimo, costituzionalismo e federalismo, mentre per contro si afferma il trionfo del mercato e si sviluppano la dissoluzione della sfera pubblica, la decostituzionalizzazione delle società e il federalismo dissociativo (Portinaro, 2007, p. 138). Perciò la costituzione resta il terreno dello scontro sul quale si gioca il futuro dello Stato nazionale territoriale che sta perdendo lentamente i suoi elementi costitutivi (Hobsbawm, 2007). 2. Il senso delle costituzioni Spesso i giuristi legano strettamente il significato di costituzione all’idea di Stato. Ciò che non è Stato, si dice spesso, non può avere una costituzione nel senso proprio della parola. Per esempio non si dovrebbe parlare di “costituzione per l’Europa” perché questa non sarebbe mai una costituzione in senso stretto in quanto l’Europa non è uno Stato. Se noi identifichiamo la costituzione come l’ordine giuridico fondamentale dello Stato, questa critica può essere giusta, cosa che per esempio troviamo spesso nell’opera di Carl Schmitt (v. Schmitt, 1954). Ma è bene chiedersi se questo concetto di costituzione strettamente correlato all’idea di Stato sia adeguato alla situazione attuale (v. Lübbe-Wolff, 2007, pp. 52-53). Il termine “costituzione” contiene in sé il senso della stabilità, della certezza ma anche l’idea di ciò che si evolve e dà vita ad un processo di costante strutturazione. Ed è in questa duplicità che esso può essere riferito tanto alla società civile e alla cultura, nella quale alla funzione regolatrice dei costumi si 243

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associano i processi creativi della vita quotidiana (v. Giddens, 1990), quanto alla società politica, nella quale accanto all’apparato istituzionale emerge un lento mutamento di valori, di rappresentazioni collettive, di indirizzi politici e tensioni verso nuove finalità dell’azione collettiva. La stretta relazione fra l’aspetto normativo delle costituzioni e il loro fondamento sociale e culturale è stata sottolineata da tutto il pensiero politico e giuridico dell’800, dal grande storico E. Burke, il quale sosteneva che una costituzione deve essere adattabile ai mutamenti delle forze sociali, al giurista tedesco Friedrich Karl von Savigny, fondatore della scuola storica del diritto, che scriveva, parafrasando Hegel: “On ne fait pas une constitution, elle se fait”. Un altro grande storico, H. Taine notava poi, a proposito della società inglese, che “al di sotto delle istituzioni, delle carte, dei diritti scritti, dell’almanacco ufficiale, vi sono le idee, le abitudini, il carattere, la condizione delle classi, la loro posizione rispettiva, i loro sentimenti reciproci, in breve un groviglio ramificato di profonde radici sotto il tronco e il fogliame visibili. Sono queste che nutrono e sostengono l’albero. Piantate l’albero senza le radici, esso languirà e cadrà alla prima burrasca” (Taine, 1872, p. 217). Ogni costituzione perciò raccoglie in sé l’esperienza e la cultura di un popolo, gli elementi ideali espressi dal corpo sociale che indicano mete, che forse non saranno mai raggiunte, ma che fanno parte di un orizzonte verso il quale si mobilita l’azione collettiva. In senso lato e sociologico la costituzione è l’ordine fondamentale, il senso, la finalità della vita di gruppo. Il gruppo si “costituisce” e a partire da questa “costituzione” organizza la propria vita attraverso istituzioni che definiscono i valori, i principî e i programmi dello stare insieme. La costituzione in questo senso, anche se non formalizzata, richiede uniformità di comportamenti e di aspettative per realizzare le finalità comuni, richiede un controllo sociale, una fiducia reciproca degli appartenenti e perciò produce una integrazione dei membri nel pensare e nell’agire. Le singole istituzioni poi caratterizzano e garantiscono le diverse articolazioni della vita di gruppo. 3. Costituzione formale e costituzione materiale Lo Stato moderno trova nella costituzione le norme giuridiche che lo sostengono nella sua oggettività, gli danno senso nelle sue finalità, enfatizzano il suo valore simbolico e di integrazione della vita dei cittadini. Le costituzioni fissano i principî della legalità sulla base dei valori che vengono affermati e attualizzati nelle istituzioni che esse creano. Ma l’apparato giu244

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ridico non esaurisce né il senso della costituzione né la configurazione dello Stato. Così come la legalità costituzionale non significa automaticamente legittimità. Come la costituzione formale sostiene l’autonomia dello Stato dalla politica, la politica, le forze politiche, la cultura con le sue norme non scritte, i suoi costumi o mores, le sue tradizioni o stili di vita, creano una costituzione materiale che supporta e rende viva la prima. La costituzione scritta è la forma, quella sostanziale o materiale è la vita che si esprime nella dinamica sociale e politica e che trova poi nella forma scritta il suo prodotto puntuale e storico, parziale e limitato nel tempo. La prima fissa la legalità, la seconda, fondandosi sulla dinamica delle forze politiche e sul consenso che esse raccolgono determina la legittimità. In questo senso la costituzione materiale è anche la “constitutio libertatis” (H. Arendt) della vita di gruppo. La costituzione va dunque intesa in un aspetto normativo formale e in un aspetto vitale e dinamico, e quindi materiale, che comprende tutte le forze politiche e culturali che, nel loro dinamico sviluppo, la sostengono e la rappresentano. Su tutto si eleva l’idea di Stato, volontà dell’essere insieme autoregolandosi, che non è solo diritto, che cristallizzerebbe l’idea e la priverebbe di vita, che non può essere politica senza perdere quel consenso generale che le appartiene. Nella costituzione in senso materiale risiede l’essenza della dinamica politica che è prevista da ogni ordinamento e che esprime finalità e mezzi del corpo sociale organizzato come entità statale. Essa, scrive Mortati, “agisce come fonte di validità o di positivizzazione della costituzione formale” e opera come “sostegno e mezzo di integrazione delle leggi costituzionali” (Mortati, 1998, p. 124). Oltre al valore giuridico, la costituzione formale, in contrapposizione alla dinamica della costituzione materiale, acquista quel valore simbolico e integrativo di cui si diceva, perché rappresenta, come dice Schmitt, “la decisione totale sulla specie e la forma dell’unità politica”. Questi valori consentono di parlare di “patriottismo costituzionale”, quasi a sostituire, in senso razionale e in un’epoca postborghese, l’idea di nazione e il suo impatto prevalentemente emotivo. Consentono inoltre di supportare il principio e le regole della cittadinanza e dell’insieme di diritti e doveri che legano i cittadini. Il patriottismo costituzionale è possibile finchè reggono il senso della cittadinanza e il sentimento di appartenenza. Questi però mutano con il regime di massa e quindi con l’evoluzione della costituzione sostanziale. Di qui la crisi di un formale principio politico di cittadinanza (v. Donati, 2008, p. 76), che si riproduce tuttavia in forme diverse e differenziate nella società civile. La crisi della cittadinanza politica è connessa anche al fatto 245

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che essa si intreccia con una serie di interessi diversi di associazioni, lobbies, organizzazioni che rappresentano se stesse e non sono regolate dalla costituzione formale. Per questo bisognerebbe “rendere esplicito il concetto di cittadinanza delle organizzazioni e definire dal punto di vista costituzionale il ruolo, i diritti e i doveri delle organizzazioni nella funzione di governo contemporanea. Dovrebbero essere formulate leggi esplicite che regolino l’accesso delle organizzazioni, il loro comportamento e la loro responsabilità, in modo che siano inserite nel più ampio contesto del diritto pubblico” (Burns, 1998). Il principio costituzionale tende dunque a identificare e integrare un concreto Stato storico e una determinata condizione sociale. Esso tuttavia si mostra sempre incapace di rappresentare tutte le situazioni e gli eventi che si manifestano nell’effervescenza della vita collettiva. Qualche volta diventa ostacolo all’innovazione e ad un necessario cambiamento. È perciò incompleto e storicamente deperibile ma resta il punto di riferimento, nei suoi valori e significati, per l’individuazione del tipo di Stato e dei valori che esso rappresenta. Questo principio supremo di ordine, con le sue caratteristiche, costituisce dunque la costituzione formale: è la legge scritta che determina tutte le altre, le precede e le condiziona (Mortati, 1958, pp. 51-52). La costituzione materiale, che si differenzia dalla costituzione formale e che è il suo punto di riferimento, non può mai mancare e “si concreta nello Stato-società, nel corpo sociale raccolto in una serie di concezioni e di fini comuni, fornito di una forza messa a loro servizio, limitata e condizionata nella misura resa necessaria per il loro conseguimento” (Ivi, p. 52). Non si tratta solo di una realtà sociologica, che pure va considerata come realtà pregiuridica, ma di elementi, che “pur non esaurendosi nell’ordine formale dei poteri, partecipano tuttavia del requisito della giuridicità, e quindi entrano a integrare l’ordine formale medesimo”(Ivi, p. 53). Individuare la strutturazione costituzionale, cioè la costituzione materiale che sottintende quella formale ci porta al centro della società politica in quanto “comunità sociale ordinata intorno a gruppi formati nel suo seno, portatori di una ideologia politica, cioè di una particolare concezione degli scopi dello Stato e dei valori da affermare attraverso l’azione dell’ordinamento statale e forniti di una capacità di azione, di una effettività di potere capace di ottenere un’obbedienza media da parte dei cittadini” (Ivi, p. 57). La costituzione materiale ci riporta dunque alla tradizione e al senso della società politica, al patto di dominio che fonda e sostiene la costituzione 246

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formale e ne causa i cambiamenti, secondo determinati procedimenti, senza alterare l’identità dell’ordinamento positivo. 4. Costituzione e società moderna Le costituzioni moderne nascono dal tacito patto di dominio che, a partire dalla rivoluzione francese e dal trasferimento del principio di sovranità da Dio al popolo, ha segnato il rapporto tra governanti e governati. Dopo la rivoluzione francese, mentre il principio dell’eguaglianza (uguali di fronte alla legge, uguali nello statuto della cittadinanza e nel diritto di voto) ha governato la società civile, il patto di dominio ha definito il fondamento della società politica, una società in verticale che ha ristabilito le differenze e la gerarchia dell’ordine politico attribuendo ad una minoranza la responsabilità e l’onere, ma anche i privilegi a questo connessi, di rappresentare il gruppo, di definire il bene comune, di indirizzare l’azione collettiva seguendo un indirizzo politico e di gestire il potere in tutte le sue manifestazioni. Pertanto sono sempre emerse contraddizioni fra l’eguaglianza, che regola giuridicamente la società civile, e la gerarchia creata dalla società politica. Alla costituzione il compito di comporre queste contraddizioni limitando e controllando il potere dei pochi, definendo le condizioni della cittadinanza, fissando le condizioni della partecipazione politica dei cittadini e creando nei loro confronti dei meccanismi di protezione dagli abusi del potere politico: quei meccanismi che Gaetano Mosca ha chiamato di “difesa giuridica” e che soli possono garantire l’esistenza di regimi democratici. La democrazia rappresentativa derivava dalla sovranità del popolo, ma non si poteva pensare che una costituzione potesse dare prerogative illimitate a questo soggetto sovrano. Tuttavia, quale che sia la sua forma, essa rappresenta “una garanzia di sicurezza per i cittadini per il solo fatto che, con la sua esistenza, essa limita il potere” (Burdeau, 1979, p. 57). In tutte le costituzioni moderne il controllo del potere ha come regola la separazione dei poteri e la possibilità dell’uno di controllare l’altro. Su questa via la costituzione dà aspetto formale al potere costituitosi attorno a principi generali sul piano sostanziale. Laddove non arriva la costituzione formale arriva la costituzione sostanziale. “La costituzione – scrive Harold Lasswell – è il modello fondamentale della politica; la costituzione formale, il modello fondamentale del regime; la costituzione effettiva (sostanziale) il modello fondamentale del dominio. La carta è la simbolizzazione fornita d’autorità della costituzione” (Lasswell, 1979, p. 232).

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Nel fissare i rapporti fra governanti e governati le costituzioni formali esprimono nei valori e nelle istituzioni quello che è il regime che caratterizza la costituzione sostanziale. Ci sono così costituzioni che vogliono rappresentare il modello liberale dello Stato di diritto e che perciò esaltano la divisione dei poteri, cercano di affermare il pluralismo delle forze sociali e politiche, attuano un sistema di garanzia a protezione dei diritti del cittadino e tendono a tutelare i diritti sociali, dai quali nasce poi il Welfare State. Altre costituzioni, tipiche delle democrazie progressive e popolari, accentuano i poteri al vertice e alla base, negano il pluralismo sociale, economico e politico, mirano alla eguaglianza economica e alla pianificazione, vogliono realizzare l’omogeneità politica e sostengono il partito unico, considerano la libertà strettamente connessa non alla concorrenza ma all’eguaglianza economica e alla sua realizzazione attraverso un potere forte e un esteso apparato burocratico. Dato il suo complesso fondamento, ogni costituzione comprende valori, principî e istituzioni destinate a realizzarli. Perciò si articola in norme programmatiche, più generali e riferite ai grandi valori ai quali si ispira, e norme attuative o precettive che creano le forme e gli apparati istituzionali con funzione operativa. Questi apparati istituzionali creano i percorsi di un ordine politico volto a realizzare un ideale di società. Le costituzioni poi possono essere rigide o flessibili. Quelle rigide impongono uno speciale e complesso procedimento di revisione costituzionale, come nel caso italiano; quelle flessibili invece affidano la revisione all’organo legislativo, imponendo solo particolari vincoli. Infine essendo la costituzione la legge fondamentale dello Stato, ogni carta costituzionale prevede particolari garanzie costituzionali che concernono l’applicazione e l’interpretazione delle norme previste dalla carta. In genere la funzione di garanzia viene affidata ad un organo estraneo ai poteri attivi che, su istanza o su propria iniziativa, reagisce ai comportamenti antigiuridici messi in atto da organi o istituzioni pubbliche al fine di reintegrare l’ordine violato. Molto ampia in questo senso è la competenza della Corte suprema degli Stati Uniti che ha la facoltà di “emettere la sentenza finale su tutti i procedimenti giudiziari” e ha la competenza di impugnazione. In genere la garanzia costituzionale dei paesi europei è, come in Italia, affidata a Corti costituzionali che vengono considerate da alcuni come una “camera aggiuntiva al Parlamento”. “L’austriaco Hans Kelsen (1942), ideatore delle Corti costituzionali, riteneva che esse dovessero ricoprire una funzione legislativa ‘negativa’ e lasciare al parlamento la funzione ‘positiva’. Certamente l’impostazione è più politica e flessibile rispet248

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to alle Corti supreme, più giuridica. Le Corti costituzionali praticano la revisione astratta valutando la legittimità di una legge o emettendo, su richiesta del Governo o del Parlamento, un giudizio consultivo su una proposta di legge, spesso senza che la cosa sia legata a un caso specifico” (v. HagueHarrop, 201, pp. 217-218). 5. Funzioni della costituzione Costituendo la base giuridica del patto di dominio fra governanti e governati, le costituzioni acquisiscono un valore generale e assolvono diverse funzioni. In primo luogo danno certezza al rapporto di dominio. Per dirla con Guglielmo Ferrero, attenuano la paura dei governati nei confronti del potere, che detiene il monopolio della forza, e al tempo stesso rassicurano i governanti, supportando l’ordine sociale e il principio rappresentativo. Ogni costituzione indica i valori sui quali deve fondarsi l’indirizzo politico e quindi crea i presupposti per il consenso che deve unire governanti e governati. È questo consenso che crea integrazione e identità nella società politica, fino al punto da ipotizzare, secondo Habermas, il “patriottismo costituzionale” che dovrebbe essere l’unica forma di patriottismo che potrebbe unirci. Se però la costituzione sancisce il primato oggettivo della legge, deve in pari tempo sostenere questo primato con i valori e i significati che rappresentano i bisogni e la cultura di un’epoca e di un paese. Laddove la costituzione si distacca, con il passare del tempo, da questa piattaforma, laddove la norma costituzionale si astrae dal pulsare della vita sociale, perde un riferimento morale o non rappresenta più il patto di dominio fra governanti e governati, allora essa e la legge in generale, come scrive Burdeau, sono solo il risultato di una prova di forza. La sovranità della legge dipende allora dalla forza del legislatore. “Questa mutazione – nota Burdeau – è capitale, giacché ormai la legge dovrà la sua autorità più alla sua forma che al suo contenuto. Essa perde la sua virtù morale per essere niente più che la sanzione di una vittoria in un conflitto di interessi o di ideologie. È allora che essa assume un carattere repressivo: non è più Mosé che parla, è la guardia campestre. Naturalmente nella teoria giuridica legge e legalità sono legate come la causa all’effetto, poiché la legalità è il carattere di ciò che è conforme alla legge. Ma quando la legge si degrada al punto di non trarre la sua autorità che dalle procedure della sua adozione, la legalità è sufficiente a se stessa. Essa è una delimitazione dei comportamenti permessi. Un atto legale è un atto che si è autorizzati a compiere. È 249

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questa interpretazione che ha generalizzato il liberalismo formalista dello Stato liberale” (Burdeau, 1979, pp. 148-49). Le tendenze dello Stato liberale sono dunque sempre più quelle che mirano a formalizzare la legge e a svincolarla dalla morale e dai bisogni sociali. Ecco perché per rinforzare questa legge, che è solo frutto della loro supremazia, i governanti hanno bisogno di un costante monitoraggio del consenso, che non si rivolge più ai principî morali delle leggi ma a loro stessi. Questo monitoraggio è sempre più necessario in una società ad alto tasso di mutamento sociale. “Tutto ciò che è solido si disperde nell’aria” ha scritto Marx a proposito della dissoluzione del regime borghese, e oggi il ruolo di certezza e di definizione dell’ordine sociale e politico delle costituzioni, la loro funzione di integrazione, di creazione di una identità verso la quale potrebbe manifestarsi anche il “patriottismo costituzionale”, sono messi in crisi almeno sotto tre aspetti. In primo luogo per il passaggio da un regime borghese a un regime di massa con il relativo cambiamento dell’ordine dei valori nella vita civile e politica (v. Lederer, 2004); in secondo luogo per la rapidità del mutamento che non sopporta più la rigidità delle forme giuridiche; in terzo luogo per lo sviluppo di nuovi poteri economici, tecnologici e mediatici che sono fuori dalla regolazione costituzionale e che perciò stimolano richieste di adeguamento e di revisione delle sue norme. Mentre si sviluppano così processi di “Entcostitutionalisierung” (decostituzionalizzazione) e si moltiplicano le richieste di revisione costituzionale verso tutte le costituzioni dei paesi occidentali, in realtà nessun governo ha intenzione di toccare la costituzione perché attiverebbe situazioni fuori controllo che finirebbero per travolgere i già difficili assetti politici. Perciò mentre si moltiplicano le insofferenze nei confronti di un apparato giuridico inadeguato, si alzano più voci a difesa delle costituzioni, nella loro integrità e funzione. Per questo prevale secondo alcuni il “conservatorismo costituzionale” e le domande di riforme vengono bloccate dai partiti maggiori malgrado le frequenti dichiarazioni in contrario. Nella contesa fra conservatori e innovatori va messo in rilievo che, se da una parte è importante la certezza dell’ordinamento e della norma scritta, d’altra parte risalta la necessità di un aggiornamento ponderato ma progressivo capace di dare ordine a situazione nuove. Più che la creazione di un “seminario costituzionale permanente”, come proposto da alcuni, sarebbe auspicabile la creazione, accanto alla corte costituzionale, chiamata prevalentemente a giudicare atti o comportamenti di organi costituzionali in violazione della costituzio250

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ne, di un consiglio costituzionale capace di progettare soluzioni normative per bisogni o situazioni nuove emergenti nel processo storico. Si tratterebbe dunque di affiancare a un potere costituito un laboratorio costituente. Questo sarebbe una soluzione ponte tra le costituzioni rigide che impongono laboriose e spesso impraticabili procedure di revisione costituzionale e le costituzioni flessibili che finiscono per abbandonare la revisione costituzionale all’arbitrio delle forze dominanti. 6. Il dilemma del costituzionalismo È difficile sostenere che il senso delle costituzioni non sia mutato rispetto a quello che esse avevano nel regime borghese, nel quale si rifletteva tutta la complessità del patto di dominio fra governanti e governati. La fluidità delle “costituzioni materiali” e le istanze di revisione costituzionale creano una situazione nella quale la riflessione sulle costituzioni deve svilupparsi “nelle dimensioni delle scienze della cultura”, anche se tali scienze “integrano ma non sostituiscono le concezioni giuridiche tradizionali del diritto costituzionale” (Häberle, 2001, pp. 186-7). Esse possono costituire un supporto allo Stato costituzionale “che potrà fiorire anche a livello europeo come un progetto culturale non invece come una semplice scatola per liberi mercati”. Per cui una dottrina della costituzione come scienza della cultura “può contribuire a ridurre la presa delle ideologie del benessere e del materialismo, ad abbandonare l’economicismo che domina il pensiero e l’agire politico contemporaneo. Le repubbliche non si basano solo sui mercati. Lo Stato costituzionale non è un gioco dell’azzardo economico, né lo è l’Europa” (Ivi). Sotto il profilo dell’agire politico l’incerto futuro degli Stati nazionali di fronte alla globalizzazione, a più ampie aggregazioni da una parte e a tensioni verso scissioni etniche e nazionalistiche dall’altra, offre lo spunto per una più ampia riflessione sul senso delle costituzioni nella storia moderna e nell’epoca contemporanea, sulla loro origine e attuazione, sui fattori di integrazione che esse sviluppano e su come e perché possono diventare vuote formule, non più adatte a istituire e conservare un ordine sociale. Il “pactum dominationis” che fonda la “società politica” ha trovato le sue regole nella costituzione degli Stati. Queste regole definiscono i privilegi e le responsabilità dei governanti e i meccanismi di partecipazione politica e di difesa giuridica dei governati. Ma sarebbe ingenuo credere che le regole derivino la loro natura e la loro forza solo da principî astratti introdotti dal 251

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volontarismo politico. Esse poggiano la loro consistenza sulle tendenze ideologiche, sulle rappresentazioni collettive e sulla cultura di un popolo. Se una costituzione si fonda su questi elementi avrà una grande forza di integrazione; se in tutto o in parte ne sarà priva cadrà nel vuoto o per alcuni aspetti resterà inapplicata. Per questo è importante valutare il rapporto fra costituzione materiale e costituzione formale e per questo nelle costituzioni le norme programmatiche si distinguono da quelle precettive. La sfida all’assetto costituzionale viene oggi tanto dai molteplici e rapidi progressi della scienza, della tecnica e della comunicazione che possono renderlo obsoleto già nel passaggio da una generazione all’altra, quanto dall’estensione degli spazi significativi per la vita individuale e collettiva e dalla permeabilità dei confini a flussi migratori, comunicativi e finanziari. Questo mette in questione il principio di sovranità degli Stati e di conseguenza la forza e l’efficacia dell’ordinamento costituzionale che fornisce agli Stati una propria identità e che oggi tende a divenire flessibile. Stiamo per assistere alla fine del principio di sovranità perché legato solo ad un particolare periodo storico? (v. Badie, 1999). Vedrà la nostra epoca la fine dello Stato nazionale (v. Hobsbawm, 2007) oppure semplicemente un suo mutamento di ruolo e di funzioni in assetti politici più ampi? Quale che sia lo sviluppo di tendenze oggi evidenti occorre certamente cambiare il modo di pensare la costituzione di fronte ad una realtà più ampia, più complessa e in rapida trasformazione. Il senso delle costituzioni formali è stato finora strettamente connesso agli assetti materiali e culturali di un regime borghese ormai al tramonto. Il regime di massa che lentamente lo sostituisce ha altri valori e presenta altri problemi. L’emergere di poteri sociali che sfuggono al controllo politico e costituzionale rappresenta uno dei più significativi tra questi problemi. Se si vuole che tutta questa realtà non si sviluppi anarchicamente al di fuori dell’ordine giuridico occorre provvedere quanto meno ad una ampia riforma degli apparati costituzionali tanto nelle norme programmatiche quanto nei meccanismi giuridici che le attuano. Questa riforma deve tenere conto tanto della “costituzione materiale” consolidatasi negli ultimi decenni quanto delle relazioni e dei rapporti di interdipendenza sempre più stretti con altre culture. Le vicende della costituzione europea sono da questo punto di vista significative. Esse sottolineano la forza delle costituzioni materiali rispetto ai rapporti economici o ai formalismi giuridici. Il progetto di costituzione europeo è nato dalla necessità di integrare quelle norme e quelle istituzioni che, per accordi fra gli Stati, l’Europa si era già data in campo economico e 252

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giuridico. Per questa necessità, da tutti condivisa, l’opinione pubblica europea ha accolto con grande favore l’idea di una costituzione europea. Ma nel redigere la costituzione sono emersi aspetti culturali e simbolici dell’Europa contemporanea non ancora maturi per essere sottoposti a regole comuni. In questo caso, senza pretese universalistiche e generalizzanti, si sarebbe dovuto procedere regolando e integrando attraverso trattati solo ciò che era regolabile e integrabile, lasciando il tempo necessario affinché altre e più profonde componenti culturali si aprissero a soluzioni di compatibilità. Si sarebbero dovute mantenere quella flessibilità e quella elasticità normativa che avrebbero evitato almeno in parte forti contrapposizioni, che si sono rafforzate perché il fallimento del Trattato ha determinato un polo di attrazione di tutte le insoddisfazioni e i risentimenti nei confronti dell’Europa. L’insegnamento che ne deriva è che per l’Europa il progetto culturale deve precedere la definizione della sua organizzazione politica, lasciando intanto ai trattati lo sviluppo di una organizzazione economica e giuridica progressivamente unitaria. Mentre l’organizzazione economica e giuridica può fondarsi su criteri di pura razionalità, l’unificazione politica richiede autorità e legittimità prima che sia possibile arrivare ad un testo costituzionale. Il senso delle costituzioni si pone di nuovo come una questione di grande rilievo per tutto l’Occidente. Il significato politico che esso assume non può prescindere dal suo valore culturale. Questioni come quelle della sovranità, della rappresentanza, del consenso, della legittimità, della partecipazione non possono essere trattate e risolte con semplici meccanismi giuridico-formali. Le costituzioni sono realtà vive e perciò devono dare corpo all’anima e allo spirito delle collettività alle quali conferiscono una identità e un senso di appartenenza.

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III I poteri dello Stato

1. Lo stato rappresentato L’aspetto oggettivo dello Stato, espresso nella sua sovranità e nei valori della costituzione, deve essere rappresentato nell’universo politico, anche perché esso gode di un consenso proprio da parte dell’intera collettività. Il compito di tale rappresentanza spetta nell’ordine costituzionale al Presidente della repubblica. Egli è testimone e garanzia della vita politica, della volontà e della sovranità popolare. Nelle repubbliche presidenziali in cui il presidente è anche capo del governo la sua figura rappresenta anche l’unione, in una stessa persona, della funzione di garanzia e dell’indirizzo politico dominante, della costituzione formale e della costituzione sostanziale. Per questo egli non può che essere eletto direttamente dal popolo. Nelle repubbliche parlamentari invece il Presidente della repubblica è in genere eletto a maggioranza qualificata (in Italia per sette anni) dalle camere riunite (in Italia integrate dai delegati regionali). Il Presidente svolge un compito di rappresentanza dell’unità dello Stato, di garanzia costituzionale e si tiene a distanza dalla lotta politica anche se esercita un attento controllo dei rapporti fra potere esecutivo e potere legislativo avendo la possibilità, quando se ne manifestasse la necessità, di sciogliere una o entrambe le camere. Oltre che rappresentanza simbolica dell’unità dello Stato, la sua è anche “suprema sopraintendenza degli organi costituzionali” (Mortati, 1958, p. 370). Abbiamo visto che l’equilibrio tra i poteri, esecutivo, legislativo e giudiziario, così caro a Montesquieu, è la condizione ideale della democrazia, ma è destinato a rimanere una condizione ‘ideale’, perché la lotta politica è anche lotta per la supremazia tra i poteri dello Stato. Più che di equilibrio si dovrà perciò parlare di squilibrio. Al Presidente della repubblica spetta quindi anche il compito di attenuare questo squilibrio e di cercare 255

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un’adeguata composizione dei conflitti che possono insorgere nei confronti fra poteri. Non è difficile ad esempio osservare oggi la supremazia del potere esecutivo e la debolezza del legislativo. La necessità di decisioni rapide e tecnicamente fondate supporta la netta prevalenza dell’esecutivo e la debolezza crescente dei parlamenti tenuti sotto rigido controllo dai partiti. Così nei parlamenti viene meno il senso della democrazia e il principio della rappresentanza popolare. Anziché un mandato imperativo dal basso si accentua un mandato imperativo dall’alto (dai partiti) che inficia la libera manifestazione della volontà parlamentare. Siamo, come ha scritto qualcuno, al “crepuscolo dei parlamenti”? (Perroux, 1964). La moderazione, da questo punto di vista, del Presidente della repubblica, appare difficile. Questo fenomeno costituzionale richiederebbe freni e contrappesi, che difficilmente potrebbero essere introdotti senza una nuova costituzione. 2. Il potere legislativo All’origine del potere legislativo e di ogni potere dello Stato c’è l’“Assemblea Costituente”, organo collegiale rappresentativo e temporaneo che ha come compito la stesura della Carta Costituzionale e quindi delle fondamenta giuridiche dello Stato. L’opera dell’Assemblea è produzione del diritto oggettivo e agisce sulla volontà di tutti di convivere e agire insieme, cioè sulla fondazione unitaria dello Stato, sulla sua costituzione come figura oggettiva al di sopra di ogni interesse e di ogni partito. È la volontà costituente che riporta le relazioni sociali all’unità dell’organizzazione giuridica. È perciò il potere costituente che detiene le leve del diritto e lo definisce in base alla cultura e alla tradizione di un popolo. Una volta creato, il potere legislativo costituzionale si esercita attraverso gli istituti della rappresentanza politica. Esso è costituito da un organo complesso, composto in Italia da due Camere che derivano direttamente dal popolo. Esse sono il punto d’arrivo della rappresentanza politica, cioè “del potere che sale dal basso”. La vita delle Camere dura per una “legislatura” cioè il periodo che intercorre dall’inizio alla fine della loro attività. Alle Camere pertiene la funzione legislativa, nella quale si verifica l’incontro e, qualche volta, lo scontro fra le due anime della costituzione, quella formale e quella sostanziale; pertiene la funzione deliberativa su questioni pubbliche e pertengono altri poteri come quello di inchiesta. Su queste questioni emerge sempre il confronto fra maggioranza e opposizione, la quale ha a disposizione alcuni mezzi per evidenziare o far valere le proprie ragioni. Tra questi mezzi c’è 256

I poteri dello Stato

l’ostruzionismo, che è “tecnico” quando ricorre all’applicazione del regolamento e “fisico” quando usa comportamenti rivolti a disturbare o a interrompere i lavori. L’ostruzionismo, nota Costantino Mortati, “può adempiere una importante e utile funzione politica quando abbia lo scopo di impedire l’approvazione di misure che contrastino con lo spirito informatore della costituzione, o incontrino nel paese un dissenso diffuso: quando cioè l’abuso di potere da parte della minoranza tende a neutralizzare un contrario, e più grave, abuso della maggioranza” (Mortati, 1958, p. 364). Ma il compito principale delle Camere è quello di sostegno e di controllo dell’esecutivo, che si esprime in varie forme, tra le quali la principale è il voto di fiducia, i cui esiti confortano l’esecutivo o lo fanno cadere provocandone una crisi che impegna il Presidente della repubblica ad aprire le consultazioni per la formazione di un nuovo governo. In Italia infatti non esiste il voto di sfiducia costruttivo. Questo può essere espresso solo quando esiste la possibilità concreta della sostituzione di un nuovo governo al vecchio esecutivo. La democrazia parlamentare si sviluppa nella dialettica fra maggioranza e opposizione, la quale può fare riferimento: a) a una diversa ideologia o progetto di società; b) a finalità contrastanti con quelle della maggioranza; c) a forme di controllo e critica con l’operato della maggioranza, rispetto alla quale essa si propone come alternativa. Svolgendo questa funzione, la minoranza può manifestarsi tanto come opposizione creativa, (come avviene con il voto di sfiducia costruttivo), quanto come opposizione distruttiva (come avviene con l’ostruzionismo o l’appello alla piazza). Con il tramonto dei conflitti ideologici l’opposizione non è più quella che cerca di apparire ai suoi elettori. Si tratta spesso di un’opposizione morbida, negoziata, che entra in concorrenza solo per occupare la posizione di centro e conquistare la classe media. L’opposizione può manifestarsi con mezzi legali in parlamento, che servono a fare presa sull’opinione pubblica e a ottenere consenso, oppure con mezzi illegali e violenti fuori del parlamento con gruppi (extraparlamentari), che vogliono distruggere il sistema con ogni mezzo fino a praticare il terrorismo. Nell’opposizione legale non è il numero ma la capacità e la preparazione che ottengono i risultati più significativi. La difesa dei diritti dei deboli e delle minoranze ottiene i maggiori effetti sull’opinione pubblica. Su questa l’opposizione cerca di far valere la propria credibilità e la possibilità di rappresentare una alternativa alla maggioranza. Diversa è la collocazione e l’incidenza dell’opposizione a seconda del sistema partitico esistente. Nel sistema a partito unico l’opposizione 257

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non compare nel quadro sistemico ma si manifesta all’interno del partito. Nel bipartitismo essa si manifesta nell’attività parlamentare, è incanalata in forme legali ed è fortemente competitiva. Nel multipartitismo ha invece una competitività debole, gioca, per così dire, nel palazzo, cercando di mutare le coalizioni o escogitando formule di compromesso. Nell’insieme l’opposizione appare qui cristallizzata e facilmente dà vita a gruppi antisistema. L’opposizione extraparlamentare, come si è detto, lotta contro il sistema, spesso con mezzi violenti che servono a rendere pubblica la sua scelta rivoluzionaria. Essa ha bisogno di azioni espressive che suscitino paura o emozione. Ha quindi bisogno dei media che la rendano visibile e credibile. Non possiede un canale di comunicazione diretta con l’opinione pubblica. Si serve perciò di comunicati e di volantini per diffondere le sue idee e i suoi programmi. Tornando all’ordinaria attività parlamentare, questa si sviluppa sulla base di una doppia sensibilità, rivolta per un verso al potere comunità, alle correnti di opinione e alle istanze delle associazioni e dei gruppi, soprattutto gruppi di interesse, e, per l’altro, alle intenzioni, all’indirizzo politico e alle norme del potere apparato. La volontà collettiva si realizza così cercando di conciliare queste due realtà attraverso il confronto e il dibattito. Affinché però tutto questo sia esempio di democrazia occorrerebbe la necessaria indipendenza degli eletti sia dai vincoli degli elettori, che comunque sono impediti dal divieto di mandato imperativo (v. Mortati, 1958, p. 347), sia dai partiti. È certamente necessario che il partito sia centro di orientamento delle scelte politiche, ma ci sono casi nei quali le scelte parlamentari devono corrispondere alla coscienza o alla valutazione personale al di là degli obblighi di gruppo. Uno dei temi più rilevanti per una riforma del parlamento è costituito dagli interrogativi: “Quante assemblee?” e “Quanti membri?”. Al primo si risponde in genere che la forma più diffusa è quella di un parlamento monocamerale e che la forma bicamerale ha un senso solo sulla base della differenziazione della rappresentanza, così come avviene negli USA, dove il Senato rappresenta gli Stati federati. Altrimenti una seconda camera è inutile. Probabilmente anche in Italia, con il federalismo si arriverà ad una differenziazione delle Camere. Alla seconda domanda si può rispondere che, in generale si ritiene che raramente i grandi numeri, soprattutto se legati a un forte condizionamento dei partiti, favoriscano la democrazia, esprimano una posizione di forza del parlamento e facilitino i compiti che esso deve assolvere. 258

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Se, come si è visto, si ritiene che la funzione e il ruolo politico dei parlamenti siano in crisi, c’è stato chi, come Tom Burns, ha esaminato gli aspetti di questa crisi (v. Burns, 1998). Anzitutto, secondo Burns, si riflettono nei parlamenti in maggior misura quelli che sono oggi i problemi della decisione politica. In particolare si moltiplicano le aspettative nei confronti della politica, mentre i centri di decisione manifestano incapacità e impreparazione nei confronti: a) della maggiore complessità della società moderna, della “differenziazione e complessità dei mercati” e della “complessità della ‘funzione di governo’ (governance)”; b) del progresso tecnico e l’applicazione “delle nuove tecnologie attraverso la ricerca, le innovazioni teoriche e tecniche, gli esperimenti e gli studi”; c) della specializzazione e differenziazione “nei vari tipi di organizzazione, nella varietà dei servizi, nelle coscienze e nei saperi che devono essere presi in considerazione”; d) della espertocrazia, cioè del “gran numero e varietà di esperti…e della loro presenza e influenza in gran parte dei campi della vita moderna, in particolare nelle attività legislative e di indirizzo politico”; e) del crescente mondo delle organizzazioni, costituite da imprese, enti pubblici, gruppi di interesse, associazioni di volontariato, ecc., le quali “mobilitano risorse, conoscenze, impegno, esprimono valori e obiettivi, formulano programmi di azione”. Questi settori della società civile “non sono controllati dallo Stato, anche se possono essere influenzati e regolati in misura più o meno ampia” nel rapporto che essi istituiscono con enti statali. Finora non c’è, nota anche Burns, “una regolamentazione sufficientemente efficace dei centri di potere della società civile e del loro operato” e pertanto esiste “un deficit strutturale tra le istituzioni dello Stato e le loro capacità, da un lato, e la realtà della società moderna, dall’altro”. Ciò importa, conclude Burns, “un deficit di rappresentanza”, “un deficit di conoscenza e qualificazione”, ai quali si aggiunge un “deficit del livello di impegno”, perché i parlamentari “sono, per definizione, ‘rappresentanti generali’, non impegnati o interessati a molti dei problemi e delle istanze che sono all’ordine del giorno di qualsiasi attività politica e decisionale nella società moderna… Un parlamento privo di sufficienti capacità di rappresentanza, di conoscenza e di impegno, non sarà in grado di monitorare efficacemente, di valutare, di regolamentare la vasta gamma di nuovi sviluppi che la società contemporanea presenta, molti dei quali richiedono un livello, anche minimo di regolamentazione” (Burns, 1998). Quale può essere, si chiede ancora Burns, il ruolo del parlamento per il futuro? Anzitutto quello, scrive il professore svedese, di aiutare a su259

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perare il “senso di crisi istituzionale e morale”, definendo in forma normativa “attori ‘appropriati’ per regolare la varietà dei processi di governance”. In primo luogo, afferma Burns “è necessario rendere esplicito il concetto di cittadinanza delle organizzazioni e definire dal punto di vista costituzionale il ruolo, i diritti e i doveri delle organizzazioni nella funzione di governo contemporanea”, inserendole così “nel più ampio contesto del diritto pubblico”. Analogamente dovrebbe essere definito e regolato il ruolo degli esperti. Questioni, scrive Burns, che si possono risolvere “nell’architettura di un nuovo ordine politico legittimato, in grado di combinare le forme parlamentari di governo con quelle organiche e le loro interrelazioni”. Da una nuova concezione del parlamento dovrebbe risaltare una sua “funzione integrativa globale”, “il suo ruolo come rappresentante di un popolo, che si occupa delle problematiche che riguardano la società nel suo insieme, nonché delle tematiche di lungo termine, piuttosto che di una miriade di temi e di politiche altamente specializzate”. Ma il problema di fondo appare oggi quello della rappresentatività gravemente compromesso dal fatto che i partiti occupano lo Stato e modificano le leggi elettorali in modo da assicurare il sostegno della classe dominante a scapito del rapporto di rappresentanza. Si possono avere così dei parlamenti eletti legalmente ma che non hanno legittimità in quanto si impedisce all’elettore di scegliere il proprio rappresentante. Situazione paradossale che dimostra come oggi vengano a scindersi potere e autorità, legalità e legittimità. 3. L’esecutivo La differenza fra Stato e governo sembra oggi quasi scomparsa nell’opinione pubblica. Eppure c’è una grande differenza e distanza fra l’idea di Stato come figura oggettiva che regola la convivenza civile e si pone al di sopra delle organizzazioni e dei partiti e il governo, attorno al quale si muove tutta la dialettica e la dinamica politica: costituzione formale, sovranità e continuità per un verso; costituzione materiale, dominio di minoranze organizzate e conflitto politico per l’altro. Non a caso gli autori tedeschi di fine Ottocento separavano la “scienza dello Stato” dall’“arte dello Stato”, cioè la capacità di governo (v. Mosca, 1953, I, p. 8, nota 2). Lo Stato non può governare e il governo non può appropriarsi dello Stato. Se dunque il governare rappresenta “l’arte della politica”, la prima domanda alla quale si deve rispondere è “Chi governa?”. La risposta è venuta dalla scienza politica italiana (Mosca e Pareto) a fine Ottocento: una 260

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minoranza organizzata che, sulla base di un programma politico, si è imposta con la forza o con il consenso e che gestisce il potere cercando di rafforzarlo e in ogni caso di ottenere consenso facendo a meno della forza. Di fronte alla visione della società-Stato in cui prevalgono le forze economicamente dominanti, gli studiosi italiani affermavano una visione della politica tutta orientata sul personale politico e sulle minoranze capaci di conquistare il potere e di gestirlo. In questa visione è prevalso il rapporto governantigovernati, maggioranza-minoranza, formula politica o ideologia e giustificazione del potere. Abbiamo visto l’evoluzione di questa teoria e pregi e limiti che essa presenta. La complessità della società contemporanea e il passaggio dal regime borghese al regime di massa implicano una visione più complessa dell’organizzazione politica. Questa deve già prendere in considerazione i rapporti reali tra chi formalmente detiene il potere e i poteri occulti, i poteri sociali, le organizzazioni e i gruppi di interesse che compaiono nell’universo politico senza avere talvolta una collocazione formale o una qualche forma di regolazione pubblica. Il potere esecutivo si scompone allora in una triade alla quale pure occorre fare attenzione: governo-governare-governance. Identificare chi governa, come si è detto, significa definire delle zone di influenza e il peso che queste possono avere nelle decisioni. Spesso, scrive Burdeau, “non vi è coincidenza tra la personalità dei detentori effettivi del Potere e dei governanti ufficiali”. È allora interessante “cercare dietro il solenne decoro delle istituzioni, la sede del potere autentico. Non bisogna però dimenticare che quelli che si agitano dietro le quinte desiderano il posto dei personaggi che si mostrano sulla scena e che, anche se coloro che tirano i fili restano nella penombra, non possono agire che per mezzo di coloro che la qualificazione giuridica mette in piena luce” (Burdeau, 1982, p. 67). Proprio per questa qualificazione giuridica, costoro “sono assoggettati ad una funzione, sottomessi ad uno statuto determinato dalla struttura dell’istituzione… Il diritto di comandare e di costringere non ha che un titolare permanente ed esclusivo: lo Stato” (Ivi, p. 73). Quindi “conviene mantenere fermo il principio che l’autorità cessa là dove finisce la funzione” (Ivi, p. 75). Il quadro poi si complica perché l’autorità di governo, anche nell’immagine popolare, non può più essere imputata a un solo individuo o ad un gruppo ristretto e chiuso come è stata la nobiltà veneziana. “Sembra che diventi smisurata e quindi intollerabile la sproporzione fra le qualità o la potenza di un uomo, per eccezionali che possano essere, e la mansione che gli incombe di orientare l’attività collettiva secondo l’idea di diritto dominante nel gruppo” (Ivi, p. 76). 261

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Le moderne costituzioni perciò adottano forme di governo diverse, a seconda che vogliano concentrare o meno il potere di decisione, la responsabilità politica e accelerare i processi decisionali. Così abbiamo forme di governo parlamentari, presidenziali e semipresidenziali. Le forme di governo parlamentari sono le più problematiche sia dal punto di vista della stabilità che dal punto di vista decisionale. Se la loro base è formata da un solo partito avranno minori problemi di decisione e di durata rispetto a coalizioni formate da due o più partiti. Le coalizioni saranno forse più corrispondenti alla rappresentatività e saranno più flessibili ma offrono una maggiore instabilità. Per limitare questa e il prolungarsi di un periodo di transizione è stato adottato in Germania il “voto di sfiducia costruttivo” nei confronti del cancelliere che impone che il voto negativo sia seguito subito da una nuova designazione (v. Pasquino, 1997, pp. 188-190). Nei sistemi presidenziali il capo dell’esecutivo è eletto direttamente dal corpo elettorale in piena autonomia dall’elezione del parlamento. I due poteri non si possono contrastare: il presidente non può sciogliere il parlamento e il parlamento non può sfiduciare il presidente. Si hanno così “due istituzioni separate che condividono il potere”. Il maggior problema che il presidenzialismo presenta, nota Pasquino, è la possibilità che il presidente in carica non abbia la maggioranza in uno o in entrambi i rami del parlamento. Questa situazione può attivare il potere di veto del presidente sulle leggi votate dal parlamento, il quale a sua volta può respingere o ritardare i disegni di legge del presidente (Ivi, p. 184). Più complessa è la struttura delle forme di governo semipresidenziali. Qui il presidente della repubblica, come avviene in Francia, è eletto direttamente dai cittadini, nomina il primo ministro con il quale condivide, in determinati campi, il potere esecutivo. L’esecutivo risulta così come “un’aquila a due teste”. Il primo ministro, che ovviamente non deve essere sfiduciato dal parlamento, opera come “camera di decompressione” tra parlamento e presidente e “ha una doppia responsabilità: nei confronti del presidente della repubblica e nei confronti del parlamento”. Può verificarsi che le elezioni per il presidente e per il parlamento abbiano esiti diversi e si configuri così una coesistenza o coabitazione di due maggioranze e di due personaggi politici diversi. Si ha in genere un compromesso di equilibrio perché, “volendo essere rieletto il presidente non forzerà la coabitazione a suo favore per non apparire poco rispettoso della volontà di un elettorato che ha dato la maggioranza parlamentare a partiti diversi da quelli che avevano sostenuto la sua elezione. Volendo probabilmente candidarsi alla presidenza, e 262

I poteri dello Stato

comunque non volendo creare problemi al suo partito, neppure il primo ministro forzerà la situazione. Le due ambizioni contrapposte riusciranno virtuosamente a controbilanciarsi senza produrre una paralisi politico-istituzionale” (Ivi, p. 187). Un conto è però la forma di governo nella sua configurazione istituzionale, nella quale risiede il supremo potere di decidere, un altro conto è il governare di fatto, che deve fare i conti con la complessità del sociale, con i conflitti che in esso si generano e con le situazioni di contingenza che da esso derivano, mentre ancora diversa è la governance, concetto usato talvolta con significati diversi (v. Iannone, 2005). Con la governance il governare si apre alla complessità del sociale e include nei vari livelli del procedimento deliberativo quelle forze e quelle organizzazioni che, per il rilievo sociale che hanno, possono orientare le scelte che devono esser prese. Rispetto al government affidato in via esclusiva all’apparato istituzionale, il concetto di governance intende evidenziare una accezione più ampia e partecipata di stile di governo, non caratterizzato dal modello di direzione verticistica e gerarchica di dominio esclusivamente istituzionale, ma, al contrario, impostato sulla cooperazione e condivisione con una pluralità di soggetti pubblici e privati che interagiscono, partecipano, contribuiscono con elementi decisionali e controllano i processi politico-amministrativi riferiti ad un dato sistema (Mayntz, 1989). Il concetto di governance puntualizza quindi due principali aspetti: 1. un ordine processuale del governare anziché una struttura gerarchico-istituzionale di governo; 2. un processo partecipato, aperto anche a soggetti di natura non istituzionale, in grado di contribuire con indicazioni, proposte, decisioni, forme di controllo alla efficacia della determinazione degli obiettivi collettivi stabiliti e implementati. Il riferimento immediato da un punto di vista del sistema di analisi delle politiche pubbliche è al modello delle reti decisionali miste, caratterizzate tanto dalla presenza di soggetti pubblici quanto di soggetti privati. Le principali applicazioni del concetto, come ricorda ancora la Mayntz, si riferiscono: 1. alla integrazione tra policy a livello nazionale con policy di livello substatale (governance multilivello); 2) alla peculiarità del modello di assunzione delle decisioni del sistema politico della Unione Europea (governance europea e concetto di sussidiarietà verticale ed orizzontale); 3) alla evoluzione della organizzazione delle relazioni internazionali (esigenza di individuare una global governance, in cui tutti i soggetti pubblici e privati a qualunque titolo dotati di

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potere collaborino per la individuazione di un nuovo ordine mondiale) (Ivi). Ovviamente la governance multilivello ha vasta ed estesa applicazione a livello statuale, mentre la governance europea stenta a decollare, soprattutto per la mancanza di un circuito chiuso di ordine politico. Infine molto rarefatta e di carattere prevalentemente economico, per lo stesso motivo, è la governance globale, la quale non è altro che il risultato di negoziazioni fra le forze economicamente dominanti del nuovo capitalismo. A livello statuale si può parlare ormai di governance organica, nel senso che si viene a stabilizzare un gruppo di attori politici in funzione un determinato settore dell’attività decisionale. Governo, governare, governance distinguono perciò diversi livelli di decisione politica, interrelati ma non decisamente sovrapponibili. Nella struttura generale dell’ordine politico, se lo Stato rappresenta la finalità generale e ideale della politica e dell’ordine sociale, se la costituzione definisce un regime politico in ordine a quella finalità, il governo segue una linea politica per perseguire la finalità contenuta nell’idea di Stato e nei principî espressi dalla costituzione. Questa linea è indicata anche come indirizzo politico, un tempo fortemente rilevante e oggi spesso messo in crisi proprio dalla complessità sociale, dalla contingenza e dal tipo di partito dominante. La forza e la linearità di un indirizzo politico corrispondeva meglio al senso della democrazia. La sua frantumazione nelle vicende del quotidiano che portano spesso a “governare a vista”, lasciano emergere proprio quelle “delusioni della democrazia” manifestate da Norberto Bobbio, di cui s’è detto. Mentre la linea di governo è in genere la più realistica e tende a rinforzare la stabilità politica e la posizione del gruppo dominante, l’opposizione fa appello a motivi ideali e a valori particolarmente attivi nell’immaginario collettivo che rinforzano la sua azione contro il governo. I governanti, scrive Lasswell, “sono le autorità dello Stato, il governo è il modello delle pratiche dei governanti” (Lasswell, 1979, p. 200). Governare è perciò interpretare le finalità dello Stato: “sono gli stessi dominanti che determinano in larga misura l’interpretazione della formula politica (per es. democrazia), ciò che consente loro una notevole possibilità di manovra nell’ambito del regime” (Ivi, p. 207). Rivestito da questa dimensione istituzionale il governo rappresenta una maggioranza che si confronta con la minoranza. Può darsi che una maggioranza in parlamento non ci sia, come avviene spesso in un sistema pluripartitico e allora si cerca di costituirla formando un governo di coalizione. Ove questo non sia possibile si può ricorrere a un governo a maggioranza variabile o a un governo di minoranza che, proprio perché 264

I poteri dello Stato

non ha alternative, è spesso più duraturo di un governo di coalizione. Da ultimo è possibile ricorrere a un governo tecnico. Questo tipo di governo vive sul prestigio dei componenti e, nell’immaginario collettivo, rappresenta la superiorità della ‘scienza’ sulla politica. In realtà spesso fa apparire tecniche quelle che sono scelte politiche e nasconde dietro di sé il potere reale. Poiché non è direttamente rappresentativo è irresponsabile di fronte all’elettore e quindi può far passare provvedimenti gravosi e far accettare pesanti sacrifici. Può agire più speditamente di altri governi e anche rendersi impopolare. Il governo dei tecnici nasconde molto spesso la gestione diretta del potere da parte di gruppi economicamente dominanti. Governare significa scegliere fra possibilità alternative. Scegliere significa seguire un progetto politico. Non può significare, specialmente nelle situazioni di crisi, ricadere nella governance, cioè disperdersi nella pressione dei poteri espressi dalla società civile. In un sistema rappresentativo la possibilità di scegliere è legata all’esistenza di una maggioranza ed è questa che può rendere flessibile la rappresentanza delle diverse correnti di opinione (v. Burdeau, 1974, VI, vol. II, p. 260). Si può discutere e si è molto discusso sulla posizione di ‘maggioranza’ e sul principio maggioritario. Dal punto di vista ideologico nessun dubbio che il principio maggioritario, ritenuto ‘vero’, ‘giusto’ ecc., sia un dogma e che nulla possa confermare la sua validità (v. Burdeau, 1979 b, p. 138). Il fatto che esso sia rispettato è una prova della forza che acquistano le credenze. Il principio della maggioranza è di fatto “un mito che trae valore da se stesso” (Ivi). Una democrazia pluralista “rifiuta di giustificare il regno della maggioranza come il solo effetto di una operazione aritmetica. La maggioranza non costituisce il valore della decisione, essa lo prova. È in quanto chiude il dibattito che la maggioranza è rispettabile, ma è la discussione che la valorizza” (Ivi, p. 141). Ecco allora il significato realistico e non utopico della democrazia deliberativa: una apertura alla discussione e alla pluralità delle idee. Non la rinuncia al confronto ma la decisione dopo il confronto. Legittimando e dando spazio all’opposizione si evidenzia la consapevolezza di un potere che riassume quello della società intera. È in questo che si mantiene il principio, vitale per la collettività, che l’opposizione non è successiva al potere ma gli è contemporanea. Per parte sua l’opposizione si presenta allora, nel contesto del dialogo e della discussione, non una forza contro il governo ma una limitazione interna al potere. Il confronto fra maggioranza e opposizione non è lo scontro tra due potenze estranee l’una all’altra ma un tentativo di composizione di interessi 265

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e punti di vista differenti. Integrando così l’opposizione, il potere coinvolge la minoranza in un processo regolare di dinamica politica e le impedisce di assumere atteggiamenti violenti e di fare secessione. Con ciò esso garantisce la pace sociale. È tuttavia necessario che anche l’opposizione mantenga il suo ruolo. Un’opposizione morbida, contrattata, negoziata, con scambi e favori reciproci, con colpevoli collusioni è la negazione dell’opposizione e una minaccia per la pace sociale. Bisogna evitare cioè che, come scriveva G. B. Shaw, “il primo ministro sia più intimo con il capo dell’opposizione che con la propria moglie”. È infine importante, nell’azione del governo, il livello di legittimazione che la sostiene. Essa può ottenere risultati significativi solo se questo livello è sufficientemente alto e, in pratica, se non vi sono fratture fra l’azione del governo e la parte più significativa della pubblica opinione. Alcune sfide si preparano in futuro al ruolo politico dell’istituzione governo. La prima di queste sfide consiste nella necessità dell’esecutivo di prendere decisioni rapide specialmente di fronte a situazioni contingenti. Abbiamo visto in precedenza quale è la relazione Stato-governo. Ora questa necessità potrebbe accentuare la condizione di governo forte-Stato debole: una condizione che verrebbe percepita come un maggiore uso dell’imposizione e della forza da parte del potere. L’indebolimento dell’idea di Stato come patrimonio comune a difesa e garanzia dell’agire politico farebbe perdere quel senso comunitario del quale la politica ha estremamente bisogno. Una seconda sfida può nascere dal fatto che l’economia emargini l’aspetto culturale dell’azione del governo e della sua base di consenso, accentuando, sul ruolo degli interessi, la frammentazione politica. Una terza sfida si riferisce alla formazione, sul piano tecnico e delle competenze di ordini politici differenziati con l’istituzionalizzazione di nuovi ruoli e nuove istanze settorialmente politiche che diverrebbero fortemente condizionanti le decisioni del governo. Infine un ulteriore condizionamento può venire dallo spazio europeo con competenze, istanze e poteri che vincolino l’azione dell’esecutivo senza che vi sia un regolamento specifico dell’interazione fra i due ordini politici. Il rischio della frammentazione dell’agire politico dell’esecutivo è connesso con la sua differenziazione in una molteplicità di politiche pubbliche, spesso fra loro in contrapposizione, che disperdono la coerenza e l’efficienza decisionale del potere. Focalizzare la politica sulle politiche pubbliche significa privilegiare il momento della decisione e le tecniche della decisione a scapito delle finalità generali dell’azione politica. Pertanto si perde il senso del potere quanto quello dell’attore politico. Le definizioni delle politiche 266

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pubbliche sono varie. Tra le altre, come riporta Pasquino, le politiche pubbliche “sono quelle dispiegate da funzionari o organismi governativi” oppure “una politica pubblica è il prodotto dell’attività di un’autorità provvista di potere pubblico e legittimità costituzionale” (v. Pasquino, 1997, p. 197). Se l’attenzione è qui rivolta solo al processo decisionale, le conseguenze sono che: a) lo studioso non deve più occuparsi di potere o di comportamento politico, ma solo di ciò che i governi scelgono di fare o non fare; b) lo studioso deve impegnarsi direttamente nella soluzione dei problemi dei quali si occupa (v. Sola, 1997, p. 39). Il principio è che se la politica si risolve nei procedimenti di decisione, sono questi che creano la politica e non viceversa. Tutto il potere apparato si riduce al processo decisionale. Quindi il politologo diviene consulente e può proporre al governo la “scelta razionale”: razionale nel senso che l’azione politica, come l’azione economica, tende a massimizzare l’utilità del soggetto decisore nel suo campo specifico. In sostanza il politologo non è più lo studioso che analizza la politica, ma fa politica. È innegabile che tutta la dinamica politica tenda a produrre decisioni e che questo sia il campo più delicato dell’attività politica. Prendere delle decisioni solleva una serie di domande, fra le quali: “Chi le prende?”, “Come vengono prese?”, “Quale è il loro contenuto?”, “Come vengono applicate?”, “Quali sono i loro effetti?”. La risposta a queste domande può essere meramente tecnica, ma ciò elude di fatto l’analisi politica perché prescinde dalle condizioni storico-culturali, dall’idea di governo e dai centri di potere. In realtà la risposta alle domande precedenti deve tener conto di tre piani diversi: a) del piano istituzionale, nel senso che le decisioni nascono all’interno di istituzioni politiche con procedure previste, che possono essere tanto procedure consolidate, quanto procedure innovative, sulle quali può concentrarsi la lotta politica; b) del piano culturale e simbolico, considerando che ogni decisione si realizza in un campo di valori nel quale già si scontrano abitualmente l’etica della responsabilità e l’etica della convinzione, valori che poi caratterizzano il processo decisionale con un’immagine, un significato, una identificazione e un comportamento; c) del piano umano relativo al personale politico che adotta la decisione e che attraverso di essa esprime una volontà politica nell’ambito più generale di un’idea di Stato e di società. 4. Il potere giudiziario La forza e la certezza del diritto rappresentano l’aspetto più rigido, stabile e più definito dei poteri dello Stato. Lo Stato è il nostro destino co267

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mune, il patrimonio dello stare insieme e di poter guardare al futuro seguendo un processo di ulteriore civilizzazione. Pertanto l’idea di Stato si associa a quella di ordine e di diritto rivolta a garantire questo futuro. Ordine e diritto che acquistano importanza, rivolta ad una maggiore efficienza, in società nelle quali l’egoismo individualistico spinge al disconoscimento dei diritti dell’altro e in un’epoca in cui predominano i valori materiali e la presunzione che tutto si possa misurare, valutare e comprare attraverso il denaro. Di fatto però ci sono cose che il denaro non riesce a misurare e valutare e queste sono le potenzialità insite nella natura e negli uomini: quelle potenzialità che si manifestano nei sacrifici, negli eroismi e negli atti di generosità. Se l’ordine è garanzia del futuro e se il diritto assicura il rispetto della giustizia, la funzione del potere giudiziario è quella di garantire l’osservanza del diritto e di assicurare il rispetto, non solo da parte dei cittadini, ma anche delle associazioni e degli organi dello Stato, di quelle regole che permettono di conservare il comune patrimonio civile e di perseguire le finalità rivolte a potenziare il bene comune. Noi chiediamo allo Stato soprattutto protezione dalle paure, dall’aggressività dei nemici interni ed esterni; garanzia e certezza nei comportamenti e nelle relazioni sociali; una giusta ripartizione di gratificazioni e riconoscimenti e infine i mezzi e le decisioni per perseguire quelle finalità che potranno produrre sviluppo, progresso e un più elevato tenore di vita. In questo lo Stato è fattore di ordine, di giustizia e di equilibrio sociale. Lo Stato moderno è Stato di diritto “in quanto promette di garantire che i processi politici, sociali ed economici si svolgano in base al diritto e alle leggi. Ciò è possibile unicamente per il fatto che lo Stato moderno ha il monopolio non solo della violenza ma anche del diritto”. Anche il diritto internazionale “che di recente sembra limitare fortemente la sovranità dei singoli Stati, basa ancora oggi la propria efficacia sulla ratifica da parte del singolo Stato” (Reinhard, 2010, pp. 21-22). L’idea di diritto che determina l’ordinamento giuridico dello Stato ha all’origine “una credenza e una rappresentazione. Una credenza nella possibilità di un ordine sociale che venga a soddisfare le condizioni del bene comune. Una rappresentazione dell’ordinamento al quale si deve conformare il gruppo affinché questo bene comune sia realizzabile” (Burdeau, 1980 b, p. 222). Così il diritto, che sembra voler fermare la storia, in realtà, a partire da certe condizioni sociali, è proiettato verso il futuro. È la premessa affinché un certo futuro, pensato in un determinato momento storico, si possa realizzare. Esso si associa alle finalità dello Stato, le rende possibili nella 268

I poteri dello Stato

misura in cui le regole di condotta verranno rispettate e il potere giudiziario riesca a supportare l’idea di giustizia nei diversi campi della vita sociale. In questo ultimo caso il diritto si impone come coercizione non meno della morale e della religione. Tutte queste norme servono a rendere possibile il futuro. Tutto l’universo sociale, scrive Burdeau, “è pieno di rappresentazioni coercitive. Dal tabù alla moda, dalla tradizione allo snobismo esso non è altro che un sistema di pressioni e di controllo che fanno della società un ‘insieme di modi di fare consolidati’ (Durkheim). Ma l’obbligazione che deriva dall’idea di diritto è di un’altra natura. Essa non è fondata su una casualità, ma su una finalità. Non sono obbligato perché… ma affinché. E questo fine che mi obbliga è il tipo di vita collettiva che i nostri comportamenti – il mio e quello degli altri – conformi alla regola permettono di stabilire” (Burdeau, 1980 b, p. 339). Il sistema di coercizione si orienta sull’idea di giustizia e mantiene una oggettività che “deriva dalla sua sottomissione alla finalità dell’ordine sociale” (Ivi, p. 234). L’ordine giudiziario, che ha il monopolio della violenza, ci garantisce dalla violenza. Non dobbiamo dimenticare che “gli ordinamenti sociali che delimitano la violenza non la fanno miracolosamente sparire. Al contrario, essi stessi hanno bisogno di violenza, una ‘violenza propria dell’ordinamento’ per poter imporre il contenimento della violenza e per poter difendere se stessi. Ogni ordinamento che viene progettato sottostà a questo circolo vizioso della repressione della violenza: l’ordinamento sociale è una condizione necessaria del contenimento della violenza; la violenza è una condizione necessaria del mantenimento dell’ordinamento sociale” (Popitz, 1990, p. 80). Il problema che nasce da ciò, che coinvolge il potere giudiziario e che ogni ordine costituzionale deve risolvere è: “Chi protegge i cittadini di un ordinamento dall’arbitrio e dalla violenza delle loro istituzioni di difesa dell’ordinamento stesso? Come può riuscire la delimitazione della violenza istituzionalizzata? Come viene superata la violenza ‘volta a reprimere la violenza’?” (Ivi, p. 81). A queste forme di protezione primaria lo Stato di diritto assicura delle importanti garanzie che rendono stabile l’ordine sociale: la prima riguarda i principî e le norme costituzionali la cui osservanza è garantita dalla corte costituzionale, le altre si riferiscono alla certezza del diritto, all’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, alla ‘difesa giuridica’ degli stessi nei confronti di possibili soprusi da parte del potere. Ma il diritto svolge anche una parte attiva indicando regole di condotta fondate su valori per ottenere gratificazioni e riconoscimenti (per esempio il titolo di avvocato). “Tutte le regole 269

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di condotta sociali – scrive Burdeau – riposano su dei valori che le giustificano. Questi valori sono credenze che rivestono carattere oggettivo dal momento in cui, pensate dai membri del gruppo, si distaccano dalle coscienze individuali per motivare i comportamenti. Le regole giuridiche, come tutte le norme sociali, incarnano dunque dei valori” (Ivi, pp. 211-12). L’ordine giuridico resta tuttavia un “ordine neutro”, “non crea dei valori” ma rende sistematici e coordina “quelli che sono rilevanti all’interno del gruppo” (Ivi, pp. 212-13). Il diritto così ordina il presente rendendo possibile di perseguire il futuro che è nell’idea di Stato. Esso tende a stabilizzare un certo tipo di società e dunque l’ordinamento giuridico è “una tecnica messa al servizio di una politica”, non nel senso di servire agli interessi di una parte ma di coinvolgere gli ideali politici di un’intera forma sociale (Ivi, p. 286). È per questo che l’idea di diritto “è interamente rivolta verso il futuro”. La sua sostanza “è il risultato di una costante anticipazione dell’avvenire, ma ancora essa contribuisce a crearlo e da questo carattere derivano sia il posto dell’individuo nell’ordine giuridico positivo, sia il valore stesso di questo ordine… D’altra parte è dalla rappresentazione dell’avvenire, che essa include, che l’idea di diritto costituisce il principale cemento della coesione sociale” (Ivi, pp. 306-7). Non si potrebbe pensare un progetto di società senza legarlo a un ordine giuridico che definisca le finalità collettive attraverso percorsi e divieti, attraverso aspettative di comportamento che possano rendere più agevole la soddisfazione di tutti quei bisogni che richiedono l’interazione sociale e l’apparato istituzionale. Ecco perché il diritto non conosce l’individuo singolo, ma solo il personaggio che esso rappresenta nei processi di interazione. Il diritto, scrive ancora Burdeau, “non conosce l’individuo che attraverso le situazioni giuridiche di cui egli l’investe. Sono esse che gli attribuiscono un’esistenza sociale, un ruolo, come dicono i sociologi, grazie al quale il suo posto è definito nella vita del gruppo. Senza le situazioni giuridiche, l’uomo sarebbe un estraneo nel gruppo, subordinato alla propria volontà, ma anche limitato dalla debolezza delle sue facoltà che si scontrerebbero da ogni parte con le personalità sociali e con le situazioni giuridiche degli altri uomini… Così l’uomo non può essere preso in considerazione dal diritto che in quanto si trova in una situazione giuridica: il diritto conosce il lavoratore, il proprietario, il fattore, l’indigente, l’azionista, il commerciante ecc. Li conosce attraverso innumerevoli suddivisioni di queste categorie principali, ma in ogni caso ignora l’uomo. Ora, in relazione a questa personalità sociale che la sua situazione giuridica gli conferisce, l’individuo si trova integrato in un ordine la cui configurazione e finalità 270

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superano ciò di cui si soddisferebbe la propria meschina personalità particolare. Egli è sottomesso a una disciplina; la scelta dei fini, così come la scelta dei mezzi, non è lasciata alla sua discrezione; senza dubbio la sua libertà non è soffocata, ma essa non può esprimersi che partecipando” (Ivi, pp. 318-319). In altre parole, il diritto crea un sistema neutro e indifferente di situazioni oggettive, alle quali sottomette l’individuo, il potere e se stesso. Certamente le forze politiche dominanti cercheranno di strumentalizzare il diritto, di utilizzarlo a proprio vantaggio in quanto possono disporre delle leve per modificare il diritto stesso. Ma qui è la forza dell’idea di Stato che pone limiti e eleva barriere ai tentativi del potere di utilizzare il diritto a proprio vantaggio. Affinché questo sia possibile, il potere giudiziario deve mantenersi indipendente dalla politica e garantire il rispetto delle leggi da parte dei cittadini come da parte delle organizzazioni e dei poteri dello Stato. In caso di crisi dell’idea di Stato esso stesso corre il pericolo di diventare soggetto politico come nella Roma del tardo impero. Si pone allora il problema della rigidità del diritto e della sua trasformazione. Certamente la sua oggettività presuppone un alto livello di rigidità. Non può piegarsi a determinate situazioni politiche, non può divenire ‘flessibile’ senza snaturarsi come diritto. Ciò è indispensabile alla conservazione del gruppo (v. Simmel, 1976, p. 65). Ma per altro verso l’eccessiva fissità del sistema giuridico di fronte ai mutamenti della società può creare ostacoli: a) al mutare dei bisogni sociali; b) alla crescente complessità dei rapporti individuali. Allora il diritto “acquista più della giusta indipendenza che è conforme al suo fine. Attraverso un vero circolo vizioso, esso si arroga non so qual diritto di restare tale e quale, verso e contro tutto. Ora può accadere che ad un certo momento la società, per mantenersi, abbia bisogno che il diritto muti. È allora che nascono quelle situazioni false di cui sono espressione le formule conosciute: ‘Fiat justitia, pereat mundus’, oppure ‘summum jus, summa injuria’” (Ivi, pp. 65-66). Anche l’idea di diritto ha quindi uno sviluppo fisiologico. Anche essa “è mortale. Viene un momento in cui – nota Burdeau – cessando di essere arricchita dalle rappresentazioni dei membri del gruppo, essa si distacca dalle sue radici sociali… Le succede allora quello che succede a ogni idea quando, incapace di essere ispiratrice della vita, non diventa che oggetto di speculazione” (Burdeau, 1980 b, p. 220). Il cambiamento sociale richiede il cambiamento del diritto, particolarmente nella società contemporanea, la quale per la sua “dirompente dinamica di sviluppo… non può più 271

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basarsi su una norma fissata in base a una presunta natura immutabile dell’uomo, ma dipende da un diritto puramente positivo che, se necessario, può essere modificato anche a breve scadenza. Tuttavia la contrapposizione, ormai storicamente superata, fra il diritto, avente valore immutabile in forza della sua giustizia, e il diritto definito in base a esigenze mutevoli si rispecchia puntualmente in queste due facce dello Stato di diritto moderno” (Reinhard, 2010, p. 25). Il diritto vive quindi sotto la spinta di una duplice e contraddittoria esigenza: quella di fissarsi in regole certe e quella di corrispondere ai rapidi mutamenti della vita sociale. L’importante è che le mutazioni del tessuto giuridico avvengano “con una lentezza e una moderazione tali da trasformare insensibilmente l’idea senza alterare la sua coerenza. Tranne il caso della rivoluzione che implica la sostituzione di un’idea di diritto ad un’altra, si può così dire che l’idea di diritto è stabile” (Burdeau, 1980 b, p. 219).

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IV

Il quarto potere e la politica∗

Nel contesto dei poteri della politica si colloca con sempre maggiore evidenza l’attività destinata alla comunicazione. La politica ha bisogno della comunicazione nel momento in cui la sovranità si frantuma e i poteri dello Stato manifestano l’esigenza di comunicare per convincere e di convincere per governare. In questo senso la comunicazione, con le sue strutture, la sua organizzazione interna, i suoi soggetti dotati di un sapere specialistico, si pone come un potere sociale di cui la politica dimostra di avere bisogno al fine di conseguire il consenso. Nell’ambito di questa relazione tra potere politico e comunicazione come potere sociale, verranno analizzate, in primo luogo, le forme della comunicazione pubblica riferite all’intera collettività e non caratterizzate da finalità politiche; in secondo luogo, i profili della comunicazione politica riferita alla definizione di un progetto di società da realizzare mediante l’azione dei poteri dello Stato, con un particolare richiamo alla fase precedente le elezioni (comunicazione elettorale) e, infine, i lineamenti di propaganda politica, intesa come strumento di comunicazione volto a trasmettere ad un determinato pubblico un insieme di idee e opinioni al fine di creare una immagine positiva o negativa in relazione a determinati fenomeni politici o sociali (Sani, 2004, p. 775). Nelle tre fattispecie presentate, comunicazione pubblica, comunicazione politica e in particolar modo elettorale, propaganda, si evidenzia una situazione in cui i poteri dello Stato impiegano gli strumenti e i modelli della comunicazione al fine di rivolgersi ai cittadini per conseguire il consenso. I poteri della politica necessitano pertanto del potere sociale della comunicazione, incarnato nella nostra società dal sistema dei mezzi di comunicazione di massa, mentre questi ultimi manifestano un ∗

Questo capitolo è stato scritto da Maria Cristina Antonucci.

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rapporto ambivalente nei confronti della politica, interpretata come uno strumento per fare audience da un lato e come interlocutore in grado di esercitare pressioni nel circuito mediale. Le relazioni tra politica e sistema dei media si connotano come uno degli aspetti più interessanti nel gioco dei poteri (Poggi, 1998) all’interno delle società politiche globali. 1. Comunicazione pubblica e comunicazione politica L’espressione “comunicazione pubblica” pone in relazione l’ attività di comunicazione, definita come ogni forma di diffusione circolare e retroattiva di un messaggio da un emittente a uno o più riceventi sulla base di un canale di trasmissione e di un codice comunicativo condiviso, con la dimensione della “pubblicità”, ovvero il carattere che riguarda la sfera collettiva, il vivere associato. In questo senso, possiamo definire la comunicazione pubblica come quell’insieme di flussi di informazione diretti da attori politici alla collettività (e viceversa) inerenti la sfera pubblica, il sistema delle decisioni collettive, gli obiettivi di una società. Tale flusso circolare di informazioni viene veicolato mediante un codice linguistico lessicale condiviso tra i vari attori (il lessico della politica) e può essere trasmesso mediante ogni tipologia di canale, sia legato alla comunicazione interpersonale o faccia a faccia (si pensi alla importanza nella politica moderna delle grandi adunate di popolo in piazza in occasione di discorsi di leader, o di manifestazioni indette da partiti politici o rappresentanze sindacali, o di riunioni collettive convocate da movimenti sociali), sia basati sulla trasmissione mediale (si rifletta sull’importanza della comunicazione politica veicolata da mezzi di comunicazione di massa quali la radio e la televisione). La comunicazione pubblica, sia nella forma interpersonale sia nella trasmissione basata sui mezzi di comunicazione di massa, concerne tanto la pubblicità degli attori da cui essa promana (partiti, gruppi di pressione, movimenti, istituzioni) quanto la dimensione associata del sistema politico (la determinazione di obiettivi, valori e visioni destinati alla vita collettiva di un sistema sociale). Le finalità che la comunicazione pubblica si propone di conseguire sono collettive e riguardano tutti i cittadini, l’intero sistema sociale e politico, le istituzioni e gli attori politici, indipendentemente dalla visione di parte, espressa dalle culture politiche. All’interno della comunicazione pubblica si collocano la comunicazione istituzionale, ovvero quella forma di comunicazione riferita alla vita e alla attività delle istituzioni politiche, la comunicazione sociale, detta anche 274

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comunicazione di pubblica utilità e finalizzata a promuovere la consapevolezza e la sensibilizzazione dei cittadini su specifiche questioni legate al benessere sociale e la comunicazione politica. Quest’ultima è rappresentata dall’insieme di dati e notizie scambiati tra i soggetti della società politica, quali corpo elettorale, istituzioni, partiti, movimenti, gruppi di pressione; essa riguarda l’azione politica all’interno della dimensione pubblica (Campus, 2004, p. 134). In particolare, è stato osservato (Mazzoleni, 2004) che esiste una pluralità di elementi che determina la politicità della comunicazione. Essi possono essere individuati in relazione a: 1. i soggetti emittenti; 2. il contenuto del messaggio; 3. le finalità del flusso di comunicazione. Con riferimento al primo elemento, si nota la politicità della comunicazione quando i soggetti emittenti sono attori che agiscono propriamente nel campo della politica: è il caso della comunicazione che proviene dagli esponenti politici, dai partiti, dai soggetti che ricoprono cariche istituzionali, dai candidati alle elezioni. Questo primo elemento si riferisce ad una dimensione soggettiva degli emittenti e dei riceventi. Tuttavia, questo principio di classificazione può non essere considerato sufficiente per individuare la politicità della comunicazione e sembra opportuno considerare un secondo criterio, ovvero l’oggetto, il contenuto del messaggio della comunicazione. Ci troviamo di fronte a comunicazione politica ogni volta che il flusso di comunicazione tra soggetti individuali o collettivi è inerente i temi della politica, della decisione, della selezione di opzioni da applicare in maniera autoritativa nei confronti di un sistema sociale e politico in vista di un fine collettivo. Si fa in questo caso riferimento all’elemento oggettivo, rivolto ad affermare la valenza collettiva del messaggio per comprendere la politicità della comunicazione. Indipendentemente dai soggetti emittenti e dall’oggetto della comunicazione, inoltre, un terzo elemento, inerente le finalità con cui viene proposto il messaggio, consente di determinare la politicità della comunicazione. Adottando un criterio finalistico possiamo affermare di trovarci di fronte ad una forma di comunicazione politica ogni volta che un messaggio comunicativo si proponga lo scopo di conseguire un obiettivo di natura pubblica, di influenzare l’elettorato, di intraprendere delle azioni comuni volte a modificare l’assetto sociale e politico. Da un punto di vista della collocazione della comunicazione politica all’interno della disciplina politologica, appare importante porre una ulteriore distinzione. Da un lato la comunicazione politica è legata alla dimensione del potere, in quanto solo pochi soggetti hanno la possibilità di accedere come emittente del messaggio ai canali di trasmissione. Le risorse 275

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messe a disposizione delle comunicazione politica (accesso al sistema dei media, accessibilità di format e contenuti informativi, disponibilità di tempi, canali e codici per comunicare) sono scarse e dominate da una logica di mercato. Tale situazione genera un conflitto tra attori politici per colonizzare gli spazi e i contenuti comunicativi gestiti dal sistema dei media. In questo senso, è possibile ricondurre la comunicazione politica come forma di potere scarso e limitato da barriere di accesso (la disponibilità dei mezzi di comunicazione di massa di raccogliere e distribuire su vasta scala i messaggi comunicativi). L’accesso alla comunicazione politica appare di esclusivo appannaggio delle élites di potere; si tratta, come è stato osservato (Costabile, Fantozzi, Turi, 2006), di una visione propriamente politologica della comunicazione politica. Dall’altro lato si propone una opposta interpretazione, volta a sottolineare la dimensione dello scambio comunicativo che interviene tra i soggetti istituzionali coinvolti. In particolare, sono protagonisti della comunicazione politica tre diverse tipologie di soggetti, in costante rapporto di interazione reciproca: il sistema politico, ossia l’insieme delle istituzioni politiche che costituiscono l’ossatura della vita politica in un paese (parlamento, governo, magistratura, ma anche soggetti politici come partiti, movimenti, gruppi di pressione); il sistema dei media, ossia l’insieme delle istituzioni mediali che producono e distribuiscono il sapere (informazioni, idee, cultura); la maggioranza dei destinatari della comunicazione, costituita dai cittadini-elettori, interessati in maniera sporadica alla comunicazione politica. È importante considerare che ambedue le dimensioni di analisi e collocazione della comunicazione all’interno della scienza politica, la lotta tra poteri politici per l’accesso alle risorse del potere comunicativo e l’interazione negoziata tra sistema dei media, società e sistema politico istituzionale, contengono elementi importanti. Da un lato la comunicazione politica è funzione del potere e il potere e’ di prevalente appannaggio delle élites politiche che esercitano pressione sul sistema della comunicazione; dall’altro la crescente rilevanza del potere delle istituzioni comunicative può essere rappresentata e opposta anche nei confronti dei detentori del potere politico, in una costante dialettica fra poteri. Infine, vale la pena di ricordare che la comunicazione politica assume dei significati totalmente diversi rispetto a quelli di pochi decenni fa; in particolare la sua evoluzione può essere riassunta in tre fasi principali: 1. dal dopoguerra agli anni ’50: la comunicazione politica si inserisce in un contesto fatto di identità e valori politici ben saldi; i leader politici

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non hanno bisogno di utilizzare strategie d’immagine o particolari tecniche di comunicazione, perché ai cittadini basta che essi rappresentino una espressione di quell’appartenenza di tipo ideologico-culturale. 2. dagli anni ’60 agli anni ’80: con la diffusione della televisione come principale strumento della comunicazione di massa, si assiste ad un accresciuto potere di tale medium nei confronti delle forme comunicative interpersonali sviluppate in precedenza. La televisione assume forme di potere sociale rilevanti ai fini della politica e, contestualmente, si allentano le tradizionali strutture e gli strumenti dei partiti, messi a dura prova dall’emergere di un modello di consumo di massa. Il mezzo televisivo raggiunge in maniera egalitaria e indifferenziata anche gli elettori che in qualche modo si sottraevano alla comunicazione partitica e inducono convincimenti politici anche mediante forme di comunicazione non tradizionalmente legate ad oggetti e soggetti della politica. Da un punto di vista teorico, si comincia a riflettere sugli effetti elettorali della comunicazione televisiva. 3. dagli anni ’90 ad oggi si nota una abbondanza e una pervasività dei mezzi di comunicazione di massa, che spesso utilizzano la politica non solo in termini di informazione dei cittadini, ma anche in chiave di intrattenimento. Il potere crescente dei mezzi di comunicazione di massa più recenti (televisione e internet) determina una modificazione della centralità della politica sulla comunicazione e induce sempre di più i politici a ricorrere ad esperti della comunicazione per conseguire i risultati di consenso elettorale. Alla luce di tali considerazioni, appare importante individuare con chiarezza una definizione della comunicazione elettorale, dal momento che essa rappresenta, per i cittadini-elettori, per gli esponenti politici e istituzionali e per il sistema dei media, il cuore pulsante della comunicazione politica. 2. La comunicazione elettorale La campagna elettorale è un momento simbolico di grande impatto: elemento cruciale del meccanismo della rappresentanza, essa rappresenta il contesto in cui il candidato e il partito politico si presentano davanti ai cittadini-elettori con idee, proposte, progetti e programmi, dichiarando, al fine di conseguire il consenso popolare, la propria interpre277

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tazione del ruolo politico e la propria modalità di rappresentazione della volontà popolare. Il momento politico precedente le elezioni cattura, inevitabilmente, l’attenzione della classe politica, alla ricerca di un canale per comunicare efficacemente con l’elettorato, dell’opinione pubblica, in cerca di indicazioni relative alla espressione del proprio voto, e, infine, del sistema dei mezzi di comunicazione di massa, che, sulla scorta della importante funzione informativa svolta in un contesto di confronto per il consenso, si pongono in maniera centrale tra le istanze di classe politica ed elettorato. In questo senso, tanto per la rilevanza della posta in gioco per la classe politica, quanto per l’esigenza dei cittadini di rivolgersi alle istituzioni della comunicazione per comprendere le questioni della politica, si può affermare che la comunicazione elettorale rappresenti il momento più significativo della comunicazione politica. Il nesso tra sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa, tipologie di campagna elettorale e modelli della comunicazione realizzata dagli attori della politica appare stretto. In questo senso si rivela possibile operare una distinzione tra campagne elettorali pre-moderne, moderne e tardo-moderne. Nelle prime, tipiche del periodo che va dall’inizio del 1900 al 1950 in cui si afferma nella politica occidentale l’universalità del suffragio, la comunicazione politica si colloca all’interno di un sistema di condivisione ideologica, fondata sulle strutture del partito di massa e in grado di orientare i comportamenti elettorali dei cittadini tramite l’ideologia. La comunicazione basata sull’identificazione ideologica dell’elettorato e sul ruolo di informazione delle masse e di organizzazione del consenso, svolto dai partiti, si realizza soprattutto attraverso forme di interazione diretta tra candidati ed elettori, mediante un modello comunicativo che vede la presenza fisica dei riceventi il messaggio e dell’emittente: si pensi ai grandi comizi di piazza, tipici del mondo urbano e industriale, alle riunioni in occasione di particolari momenti della vita collettiva (scioperi, manifestazioni contro decisioni della politica, raduni di movimenti politici) e alla importanza che il leader, nella sua funzione retorica, ha nel convincere, persuadere, orientare le masse in ascolto. Successivamente a questa dinamica comunicativa di massa e di piazza si affianca il medium televisivo che, in un contesto in cui all’ideologia si sostituiscono altri valori e modelli di orientamento degli elettori, tende a modificare impianto e strutture della comunicazione politica; in questo senso, la televisione diventa il contesto mediale privilegiato per rappresentare la competizione elettorale, grazie alla capacità di diffondere informa278

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zioni e comunicazione politica presso l’intera audience. L’intero corpo elettorale viene trasformato in pubblico televisivo in occasione di dibattiti, confronti tra leader politici, tribune politiche di partito, tutti modelli fondati su una ricezione individualizzata e domestica (non dialogica e non partecipativa) dei messaggi elettorali. In questo senso, non solo la televisione moltiplica la capacità comunicativa di partiti e candidati e la possibilità di far arrivare i loro messaggi anche a segmenti del corpo elettorale mai raggiunti dalla dimensione di piazza della politica, ma trasforma le modalità con cui, da un lato, si emette il messaggio politico, basato su logiche di efficacia della comunicazione piuttosto che di efficienza dei contenuti politici. La ricezione della comunicazione politica si traspone in una dimensione non più ideologica e associata, che portava gli elettori a scendere in piazza per comunicare con leader ed esponenti politici, ma individualizzata e passiva. Le conseguenze di questa trasformazione sono rilevabili tanto dal punto di vista degli emittenti/attori politici, che ricorrono a pratiche per l’organizzazione e la gestione della campagna grazie a figure professionali specifiche come spin doctors, sondaggisti politici, esperti di marketing politico, pubblicitari, con il conseguente accrescimento delle dimensioni spettacolari delle campagne elettorali, quanto dal punto di vista dei riceventi/elettori, sempre più coinvolti dall’aspetto televisivo e mediatico, piuttosto che politico, della ricezione della propaganda. È in questo periodo che si registra la trasformazione dei partiti, con il passaggio dal partito burocratico di massa a quello professionaleelettorale. Si tratta di un mutamento socio-economico, dovuto a cambiamenti della struttura sociale e degli atteggiamenti culturali, e tecnologico, basato sulla centralità delle nuove tecnologie di comunicazione. La comunicazione elettorale è fondata sulla figura del candidato, che in questo modo scalza l’intero partito dal centro del processo comunicativo. Inoltre la campagna elettorale, concepita in termini massmediali, viene costruita sulla base di temi specifici, in grado di catturare il consenso. Tali elementi vengono supportati da dati tecnici, confezionati da esperti di marketing politico al solo scopo di persuadere l’audience. Si registra una significativa capacità di influenza del mezzo televisivo nel determinare gli orientamenti di voto non solo sulla base dei contenuti politici ma sulla scorta della capacità di comunicazione dei leader e dei partiti. In questo senso, Sartori ha coniato la definizione di telecrazia, intendendo indicare il potere che il medium televisivo ha di influenzare gli orientamenti politici dell’elettore. Quest’ultimo viene ridotto alla stregua di audience, ovvero soggetto dotato di una sostanziale passività e di una limitata capacità di partecipazione politica anche in un contesto in 279

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cui vengano messi in gioco interessi e motivazioni legati alla condizione della cittadinanza (Sartori, 1997). Infine, nuove forme della comunicazione elettorale tardo-moderna si sviluppano dagli anni ’90 ad oggi, rappresentando la naturale evoluzione dello sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa. Tre sono gli aspetti che assumono rilevanza ai fini della comunicazione politica: in primo luogo la secolarizzazione della politica, con la definitiva perdita di rilevanza non solo delle ideologie, ormai al tramonto secondo alcuni, ma anche delle tradizionali appartenenze partitiche, basate su processi di identificazione collettiva; in secondo luogo la moltiplicazione dei mezzi mediali disponibili per scopi e obiettivi di natura politico-elettorale; in terzo e ultimo luogo la completa professionalizzazione di tutte le attività di pianificazione e gestione della campagna elettorale da parte di specialisti della comunicazione politica. In particolare, l’aumento dei mezzi di comunicazione di massa allarga enormemente lo spazio del mercato elettorale, rendendo più complesse le sue dinamiche, ed introduce una sorta di sistema “premiante” basato non più su logiche democratiche di natura elettorale, ma di efficacia e immediatezza della comunicazione persuasoria, che attribuisce il successo elettorale ai soggetti politici maggiormente in grado di accedere ed utilizzare i mass media (televisione, ma anche internet, mailing lists di posta elettronica, sondaggi elettorali pubblicati su siti web) e di sostenere i relativi costi. Si ricorre in maniera massiccia allo strumento del sondaggio e l’elettorato viene studiato in profondità, anche perché, l’elettore, ormai distaccato da ogni forma di appartenenza partitica può essere influenzato più facilmente sulla base della persuasione comunicativa, sulla trasmissione di dati e di orientamenti di carattere indirizzato, e sulla base di informazioni veicolate in maniera diffusa grazie ad una pluralità di supporti mediali convergenti. Le campagne elettorali diventano campagne elusivamente mediali ed i mezzi di comunicazione di massa assumono la veste di fonte esclusiva di informazione e di conoscenza politica, in grado di indicare agli elettori, in via univoca, chiavi interpretative della realtà. La trasformazione in corso è ben resa dalla espressione “mediatizzazione della politica” (De Rosa, 2000) che viene utilizzata per indicare un processo di dominio della logica massmediale sulla razionalità della politica. Si pone in concreto un rischio di crescita della capacità dei mezzi di comunicazione di massa di operare un effettivo controllo sulla politica, sui suoi attori, sulle policies, esclusivamente sulla base di una ricerca costante del consenso, della persuasione, della identità tra audience ed elettorato. 280

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3. La propaganda politica È stato osservato (Lasswell, 1927, pp. 627-631) che la propaganda costituisce la gestione degli orientamenti collettivi mediante la manipolazione di simboli significativi. In questo senso, si può affermare che con propaganda politica intendiamo designare la diffusione sistematica e voluta di messaggi indirizzati ad un particolare uditorio, mirati a creare una determinata immagine di un fenomeno allo scopo di indurre precise reazioni ad esso. Strumenti della propaganda politica sono l’utilizzo di emozioni e sensazioni, il ricorso a riduzioni concettuali in modo da raggiungere il pubblico più ampio possibile (meglio ancora se con concetti sintetizzati da slogan, strumenti mutuati dalle campagne di commercializzazione pubblicitaria) e stereotipi di facile memorizzazione. Si tratta di tecniche in grado di contenere il messaggio entro confini concettuali e linguistici di semplice accesso da parte delle masse destinatarie. In questa direzione si colloca l’impiego di esperienze e strumenti pubblicitari (frequente ripetizione del messaggio, formato accattivante e facilmente memorizzabile senza pensare troppo all’autenticità del contenuto, sinestesia, o abbinamento di immagini, suoni e concetti in grado di rafforzarsi reciprocamente), per raggiungere una audience potenzialmente universale e per persuaderla, secondo forme e schemi basati sugli automatismi. Le funzioni della propaganda sono particolarmente specifiche e consentono, in primo luogo, di comunicare alcuni precisi temi ritenuti importanti dagli emittenti del messaggio, in seguito di trasmettere specifiche idee, opinioni, posizioni, di carattere parziale come se fossero dotate di universalità e infine di catturare il consenso dei destinatari grazie ad un indottrinamento basato su un approccio emozionale anziché razionale. È appena il caso di ricordare gli effetti realizzati dagli strumenti e dalle tecniche della propaganda all’interno dei sistemi politici totalitari del XX secolo: mediante gli strumenti di confezionamento di messaggi elementari, basati su posizioni parziali e fuorvianti presentate come universali e corrette, condizionati dell’emotività dei toni e rafforzati da una ripetizione ossessiva da parte del sistema dei mass media è stato possibile cancellare le strutture della società civile di interi stati e modificare la percezione collettiva e individuale degli eventi nelle masse. Di fatto, assolvendo in maniera efficace alle proprie funzioni, la propaganda assume una importanza di primo piano all’interno del sistema politico, non solo cambiando il sistema di preferenze elettorali, ma modifi281

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cando di fatto gli elementi della cultura politica (quell’insieme di idee, opinioni e atteggiamenti che un popolo nutre nei confronti dello Stato e della vita politica associata) di interi sistemi politici e sociali, come nel caso del nazismo hitleriano e del modello sovietico stalinista. Pertanto si può affermare che la rilevanza politica di tale fenomeno emerge dalla lotta costante tra i poteri al vertice – in grado di esercitare influenza mediante la propaganda in un contesto in cui il sistema dei mezzi di comunicazione di massa è asservito alla politica – e i poteri emergenti in competizione per il controllo dei canali di informazione e delle relative istituzioni (ad esempio, le istituzioni culturali e simboliche che, tramite una visione politicizzata dell’arte e della letteratura, possono essere impiegate come strumenti di propaganda). Il pluralismo tanto dei soggetti organizzati presenti all’interno del sistema politico, quanto delle forze attive nella società civile organizzata, quanto infine, delle molteplici voci indipendenti all’interno del sistema delle comunicazioni di massa, sembra rappresentare la migliore garanzia contro le degenerazioni della propaganda. Si comprende facilmente che lo strumento portante per ogni forma di propaganda politica sia costituito dalle strutture della comunicazione di massa (in grado di amplificare, ripetere, affermare il messaggio), in particolar modo dalla comunicazione politica e che una attenzione costante alla organizzazione interna del settore dei mass media, e al pluralismo nell’ambito della informazione rappresenti uno strumento di vitale importanza per le garanzie democratiche contro le minacce della propaganda. 4. La comunicazione politica nelle società contemporanee Alcune tendenze generali sembrano caratterizzare il rapporto tra politica, elettorato e media all’interno dei sistemi politici occidentali, contesti in cui maggiore è la penetrazione dei nuovi media, delle tecniche di comunicazione politica basate su marketing politico, pubblicità, impiego di sondaggi e previsioni di voto. In primo luogo è necessario rilevare l’importanza crescente dell’impiego di tecniche della comunicazione a scapito dei contenuti di natura più propriamente politica. In particolare, si segnala la specializzazione di apposite discipline all’interno della comunicazione elettorale, come il marketing politico – definibile come un insieme di tecniche aventi l’obiettivo di favorire l’adeguamento di un candidato al suo elettorato potenziale, garantire la conoscibilità di nome e programma tramite i mass media, creare la diffe282

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renza rispetto ai concorrenti e agli avversari in modo tale da ottimizzare il numero di voti necessari per essere eletti. Ulteriori strumenti operativi impiegati nella nuova comunicazione politica sono i sondaggi e le statistiche sulle intenzioni di voto – strumenti rivolti non solo ad individuare la capacità dei leader di catturare consenso, ma anche ad identificare i temi e le proposte politiche maggiormente vicine agli interessi degli elettori, di modo tale da costruire un programma elettorale e di policies attorno ad essi. Si segnala inoltre il ruolo della pubblicità elettorale, elemento in grado di individuare la sintesi di una posizione politica mediante formule dotate di potere semplificante e di impatto mnemonico, ripetute all’interno di ogni possibile spazio mediale. L’utilizzo di tali tecniche, unitamente alla pervasività della funzione comunicativa in ambito sociale e politico tende a creare un predominio della logica dei media, istantanea e concreta, ma anche auto-referenziale e basata sull’effetto annuncio e non sulla realizzazione delle proposte avanzate, sulla razionalità della politica, che deve misurare gli obiettivi e le richieste di un determinato sistema sociale con le risorse economiche e giuridiche disponibili, in un’ottica di mediazione e di bilanciamento degli interessi in gioco, di difficile implementazione, di rielaborazione e di valutazione delle politiche in un periodo medio – lungo e secondo parametri di valutazione ben differenti dalla efficacia comunicativa. La seconda riflessione che è opportuno svolgere è relativa al molto commentato avvento delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e alle relative conseguenze non solo mediali ma anche politiche. È stato sostenuto (Hacker e van Dijk, 1996) che le nuove tecnologie, per la capacità stessa di rendere disponibili strumenti per la partecipazione politica diretta, siano intrinsecamente dotate di effetti di progressiva democratizzazione. Altrove invece si nota (Bagnasco, Barbagli e Cavalli, 2004) che i nuovi media elettronici presentano caratteristiche completamente differenti rispetto al medium televisivo, grazie ai quattro fattori della selettività dei contenuti, della interattività con altri soggetti interessati ai temi della medesima “agenda”, multimedialità, ovvero impiego di più strumenti (scrittura, video, audio) integrati finalizzati a declinare in maniera complessa i contenuti della comunicazione politica e virtualità della comunicazione, tesa a replicare temi e argomenti della realtà politica in un cyberspazio dedicato alla politica. In sostanza, un discreto numero di studiosi concordano sul fatto che la rete internet rende accessibili una serie potenzialmente universale di opportunità di informazione sui temi della politica, di interazione con i rappresentanti istituzionali e politici e di strumenti di supporto alla 283

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decisione e di partecipazione politica per gli utenti. In questo senso, si comprendono le motivazioni sulla scorta delle quali viene sostenuto che la rete sia intrinsecamente in grado di democratizzare la comunicazione politica, creando più snodi di accesso alla informazione libera e alla comunicazione tra pari. Gli avvenimenti più recenti verificatisi sulla scena politica internazionale forniscono indicazioni in tal senso: in particolare, l’impiego di tali tecnologie e supporti nelle recenti rivolte libertarie e democratiche del 2011 (la cosiddetta primavera araba) si pone come un elemento a supporto di tale teoria, con l’affermazione dell’incremento delle capacità di attivazione e partecipazione politica tramite la disponibilità e l’accessibilità dei nuovi mezzi di comunicazione di massa. L’avvento di tali supporti per la comunicazione di massa consentirebbe, anche nella vita politica, e non solo nella vita sociale, un maggiore controllo diffuso delle informazioni sul sistema politico e al tempo stesso una maggiore interattività e partecipazione, in grado di capovolgere, grazie alla emissione/ricezione many to many, il tradizionale schema emittente Æ ricevente, basato su mass media cui l’accesso è risorsa limitata per motivi tecnico-economici e di barriere all’entrata (televisione, radio, stampa). L’efficacia delle considerazioni volte ad enfatizzare una nuova dimensione di democrazia basata più sugli strumenti della comunicazione che sulle risorse della politica sembra, tuttavia, limitata a particolari settori di fruitori delle nuove tecnologie (i giovani, coloro che, in virtù di una alfabetizzazione elettronica hanno accesso a tutte le risorse e le potenzialità della rete), anziché all’intero corpus della cittadinanza. In particolare, anche se appare evidente come la presenza stessa di un ulteriore medium di comunicazione politica sia utile alla causa del pluralismo nella informazione, è importante considerare la persistenza della centralità assunta dal supporto televisivo per la comunicazione politica, in particolar modo elettorale. La televisione, per la sua natura stessa di medium legato ad un consumo tipico del focolare domestico – mentre le nuove tecnologie della informazione e comunicazione appaiono maggiormente legate a strumenti di lavoro come il pc o a dispositivi di svago e tempo libero, come i tablet e gli smartphone – sembra rivestire ancora una funzione particolarmente significativa tanto per quanto riguarda la capacità di veicolare capillarmente la comunicazione politica, sia nelle sue forme tradizionali, sia nelle manifestazioni spettacolarizzate, quanto per ciò che concerne il potenziale di persuasione insito nella sua natura mediale. In questo senso, si può affermare che le critiche legate alla passività della condizione di ricezione della comunicazione politi284

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ca televisiva si scontrano con la estrema familiarità della esposizione a tale tipo di medium, con la capacità sottile ma iterata nel tempo e nei differenti contenitori di proporre un messaggio di natura politica, con la sostanziale esigenza, se si intende accedere a modalità differenziate di informazione politica mediante le nuove tecnologie della comunicazione e della informazione, di un grado maggiore di attivazione, di specifiche conoscenze e competenze e, in ultima analisi, di una capacità di interessamento verso il tema specifico non sempre presente nella dimensione dell’audience di massa. Pertanto si può notare come la diffusione della comunicazione politica tramite i new media sia limitata per fasce di età, per categoria di requisiti culturali e competenze operative e per ragioni di specifico interesse, mentre il mezzo televisivo, con la ormai strutturata distinzione tra informazione politica e politica spettacolo costituisca e continui a rappresentare il più diffuso e capillare strumento di trasmissione della comunicazione politica, in particolar modo nella fase elettorale. Un’ultima riflessione che sembra opportuno avanzare in questa sede è relativa alla funzione della comunicazione e della politica all’interno del contesto di quella che è stata definita “la società dello spettacolo” (Debord, 1968). Se da un lato la politica sembra dedicare i propri orientamenti verso un crescente tecnicismo, che si risolve nell’impiego di strumenti di marketing elettorale, di rilevazione del consenso e dei temi di interesse pubblico mediante sondaggi e indagini di mercato, dall’altro essa trasforma sempre di più le proprie modalità comunicative abbandonando l’informazione e orientandosi verso lo spettacolo. La prima direzione di sviluppo, dalla politica come professione, dotata di una sua pratica rivolta alla mera determinazione di obiettivi e finalità collettive sulla esclusiva scorta di tecnicismi finalizzati al consenso elettorale, ha progressivamente svuotato la missione stessa della attività politica, smarrendone senso e destinazione. Il secondo orientamento, diretto verso una spettacolarizzazione della comunicazione politica – non più basata sulla condivisione di informazioni relative ai programmi e alle proposte di società e scevra ormai dalle grandi narrazioni ideologiche, una volta in grado di creare unità e coesione tra gli elettori – sembra teso verso una logica di personalizzazione dei leader (sempre più al centro dell’attenzione degli elettori, non solo per la loro dimensione politica, ma per ogni aspetto esistenziale) e di enfasi sull’acutezza del tono comunicativo, sulla rincorsa alla continua novità delle proposte politiche avanzate (che molto spesso si risolvono in un mero effetto annuncio, destinato a conseguire il consenso elettorale). Si tratta di forme spettacolari di 285

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comunicazione in grado di generare un consenso solo epidermico, anziché di stabilire un rapporto durevole basato su un duplice canale comunicativo di rappresentanza politica e di rappresentazione delle istanze originate dalla società politica tra classe politica e corpo elettorale. Questo peculiare orientamento verso la dichiarazione dell’ultimo minuto che cancella il punto previsto nel programma elettorale, verso l’improduttivo accanimento nell’argomentazione tra avversari politici, verso l’efficacia comunicativa piuttosto che l’adeguatezza politica caratterizza il sistema globale della comunicazione politica, maggiormente interessato alle telecamere che all’oscuro lavoro di traduzione di un programma elettorale in politiche pubbliche. In questo senso la comunicazione, per la sua capacità di conseguire effetti politici occupando i mass media e trasmettendo in maniera ripetuta e secondo modalità non palesemente politiche i propri messaggi, si qualifica come un potere che si affianca e, in taluni casi arriva a sostituirsi, al potere politico. Sul predominio della comunicazione sulla politica, sul prevalere della spettacolarizzazione sulla informazione, occorre riflettere per immaginare delle concrete alternative comunicative, in grado di riconciliare la dimensione del consenso con i meccanismi della rappresentanza, della democrazia, del dialogo tra elettori ed eletti. In questo senso, le nuove tecnologie della comunicazione possono rappresentare non tanto una alternativa quanto un argine di verifica diffusa della veridicità dei contenuti comunicativi al modello attuale.

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V Il futuro dello Stato

1. Fine o trasformazione dello Stato La vicenda dello Stato moderno potrebbe essersi conclusa. Molti autori lo credono e cercano di provarlo soprattutto sulla base delle grandi trasformazioni sociali e tecnologiche degli ultimi decenni. Sul piano della comunicazione, degli scambi e dell’economia finanziaria le innovazioni dell’elettronica e dell’informatica hanno reso permeabili i confini e quindi messo in crisi l’elemento territoriale che definiva la sovranità dello Stato. La crisi di territorialità è crisi della fisicità dello Stato, conseguenza soprattutto dei processi di globalizzazione, per i quali “tutto un complesso di strutture e di processi economici, tecnologici, ecologici e culturali esercitano i loro effetti su scala planetaria, o comunque possiedono un raggio d’azione che ignora la dimensione territoriale propria degli Stati in quanto tali o ne nega la rilevanza” (Poggi, 1992, p. 267). Ma anche sul piano politico lo Stato appare sottoposto a molteplici sfide. L’idea di Stato viene sfidata dalla globalizzazione, che le sottrae la matrice culturale, dall’economia, che si sovrappone alla gestione politica, e dalla contingenza che impone l’abbandono di progetti a lungo periodo. L’azione dello Stato poi, sul piano interno è condizionata dai partiti che occupano lo Stato e si presentano oggi come vere agenzie dell’apparato statale. Inoltre lo Stato è sfruttato dal potere, che utilizza la sua forza materiale, e quindi quello che è il monopolio della violenza, per le proprie finalità, cancellando e indebolendo quell’idea di Stato che deve invece rappresentare il sostegno dell’ordine giuridico e della forza di cui lo Stato dispone. Di altro tipo è la sfida che proviene allo Stato dall’esterno, sia per il condizionamento che deriva alla sua sovranità da quegli organismi internazionali che pure lui crea e sostiene, sia per effetto della globalizzazione, sia dell’in287

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cisività del nuovo capitalismo che, in maniera più occulta, condiziona la politica economica e finanziaria degli Stati. In conclusione, i molteplici vincoli che lo Stato si trova a subire, il fatto che la sua forza di imposizione è sfruttata, senza il sostegno del patrimonio ideale che lo Stato rappresenta, fanno temere, se non la fine, almeno una radicale trasformazione di quello che ha rappresentato finora lo Stato moderno. Anche perché il venir meno di un ideale laico di orientamento della vita collettiva riaccende conflitti e contrasti etico-religiosi che lo Stato moderno aveva contribuito a superare dopo la pace di Westfalia. Sempre più numerosi sono gli autori che si occupano della crisi dello Stato. Spesso è difficile dire se per ‘crisi dello Stato’ intendano crisi dell’idea di Stato, della sovranità dello Stato o della funzione dello Stato. Un primo riferimento alla crisi dello Stato ce lo offre Carl Schmitt (1888-1985), per il quale lo Stato è “una forma di organizzazione specifica dell’unità politica, legata assolutamente al tempo e condizionata storicamente…che avrà probabilmente presto fine” (cit. in Freund, 1987 b, p. 24). La sua fine sarà determinata soprattutto dal fatto che lo Stato si fonda su una localizzazione territoriale che perderà significato per l’avvento dei grandi spazi che segnerà la fine del predominio della terra e l’avvento di una “totale delocalizzazione”. L’affermazione di una mentalità universalistica aiuterà anche intellettualmente e spiritualmente questo processo. Questa trasformazione non significherà però la dissoluzione del politico ma soltanto la fine dell’ “era dello Stato”. La politica si rigenererà nei grandi spazi sotto il dominio di una potenza “egemone” che considererà lo spazio delimitato come sua zona di influenza, come una “riserva di caccia” al riparo da ogni influenza degli Stati che vi risiedono e di ogni altro “grande spazio” esistente. L’organizzazione di questo nuovo spazio non avrà bisogno né di una validità scientifica, né di una competenza culturale o tecnica, poiché essa deriverà da una volontà politica le cui ricadute modificheranno anche il diritto internazionale. L’avvento di queste nuove potenze spaziali avrà molteplici conseguenze. Segnerà il destino dello Stato e dell’ordine europeo fondato sull’idea delle nazionalità. Lo Stato classico è destinato a perdere a poco a poco la sua sostanza, in particolare la sua sovranità, che è stata finora, dal punto di vista giuridico, la sua caratteristica principale (Ivi, p. 25). Le conseguenze sul diritto interno degli Stati satelliti e sulla loro capacità legislativa saranno dipendenti “da una nuova legittimità che li trascende” per cui la sovranità “non può essere concepita giuridicamente, sul modello dei teorici dello Stato, ma interpretata politicamente come una decisione di ultima i288

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stanza” (Ivi). Una ulteriore conseguenza è che lo “jus publicum europaeum, fondato sull’indipendenza e la sovranità degli Stati su uno spazio più o meno ridotto non può che divenire precario e, alla lunga, francamente obsoleto” (Ivi). Negli stessi anni Emil Lederer, nel suo libro The State of the Masses, vedeva l’irruzione delle masse nella storia delle società occidentali come la formazione di grandi spazi sociali che avrebbero alterato l’essenza e la funzione dello Stato borghese. La diffusione del fenomeno massa trasforma la società e con essa la natura dello Stato. Nasce lo Stato delle masse o Statomassa come fenomeno unico nella storia. Le masse, scrive Lederer “si ‘sentono’ totalitarie negando il diritto di esistenza a qualsiasi entità sociale che stia fuori di esse. La loro unità, che nasce dall’emozione, non ha una struttura e impedisce il raziocinio. Lo Stato-massa, costruito sullo sradicamento dei gruppi, sostituisce la ragione con la propaganda e mette l’uomo in uno stato di schiavitù, consegnandolo alle sue emozioni” (Lederer, 2004, p. 5). Lo Stato massa è la dittatura moderna, “un sistema politico moderno fondato sulle masse amorfe”. La continuità dello Stato massa è affidata alla possibilità di distruggere la società, la quale “è sempre stata una struttura stratificata, con idee e interessi differenti” (Ivi, p 7). Lo Stato delle masse diventa allora lo Stato totalitario, di un totalitarismo nuovo (su questo v. Antonini, 2006), che lo differenzia da ogni Stato “che è fondato sui gruppi sociali e ne accetta l’esistenza”. Questo tipo di Stato è costretto a cambiare tutto. Ha costruito uno spirito in conformità con il movimento di massa: distrugge ogni potenziale forma di opposizione politica e costruisce un centro di potere che è al di sopra e al di là di ogni attacco. Non c’è alcuno Stato nella storia che possa essere paragonato allo Stato totalitario e, a questo punto, è facile capire perché “non è mai esistito uno Stato che abbia distrutto fino a questo punto la struttura sociale, e non c’è mai stata un’epoca che abbia offerto le odierne opportunità tecniche di trasformare l’intera popolazione in massa e di tenerla in questo stato” (Ivi, pp. 20-21). Le trasformazioni economiche e sociali seguite agli anni della ricostruzione, aprono, a partire dagli anni ’70, nuovi scenari sulla crisi dello Stato e sulle sue possibili soluzioni. Si sviluppano e si accentuano i processi di globalizzazione, l’elettronica fornisce gli strumenti per una comunicazione globale e in tempo reale, l’economia industriale si delocalizza e l’economia finanziaria apre la strada verso un nuovo tipo di capitalismo. Così negli anni ’80 Georges Burdeau prova a descrivere un nuovo tipo di Stato che definisce come Stato funzionale, uno Stato nel quale preminente ri289

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spetto alla lotta per il potere diventa la gestione del potere: la finalità dello Stato si riduce alla gestione del presente. La gestione diventa un fatto tecnico e specialistico dal quale dipende la prosperità del gruppo. “La politica deve assumerne la responsabilità perché il nuovo ordine sociale è molto complesso, in esso le attività sono così strettamente collegate che possono garantirne la giusta evoluzione solo decisioni fondate su una considerazione globale degli interessi della comunità” (Burdeau, 1982, p. 147). Nella misura in cui gli uomini sono sensibili agli ideali del benessere materiale e della prosperità “la lotta per il potere importa meno di ciò che il Potere fa, qualunque sia la sua colorazione politica…È all’interno della società esistente, rispettando le strutture fondamentali e la sua filosofia, che ha luogo il confronto” (Ivi, p. 157). In questa visione euforica, scrive ancora Burdeau, “la politica consiste più nell’esercitare il Potere che nel contestarlo. Questo esercizio si riduce alla tradizione in atto di una volontà regolatrice, cioè a sottomettere ad una razionalità energie di cui non si discute il principio” (Ivi, p. 158). Il potere statale “non è dunque niente altro che il Potere assoggettato alla società tecnologica” (Ivi, p. 164). Di fronte al sistema razionale che questa impone “l’era delle scelte è chiusa. Tutto avviene come se, per la sua stessa pesantezza, la società escludesse la possibilità di quelle scelte radicali che ancora ieri drammatizzavano l’azione politica. È la finalità della società che determina la finalità del Potere” (Ivi, p. 159). Anche lo Stato funzionale poggia su un’idea, ma è un’idea “di cui la società è la base. Solo che questa idea è in realtà un imperativo. Essa non nasce da un’immagine che gli individui si fanno di un avvenire auspicabile, procede direttamente dalle strutture sociali esistenti” (Ivi, p. 164). Questa società “che si chiamerà talora società industriale, talora società del benessere, talora società dei consumi, obbedirà ad una razionalità che supera le vecchie opposizioni tra capitalismo e socialismo, così come risolve gli antagonismi tra borghesia e classe operaia. In queste condizioni la politica non ha alcun titolo per pretendere di cambiarla; suo unico compito è di gestirla conformandosi alla sua essenza profonda” (Ivi, p. 165). Lo Stato funzionale “è precisamente quel tipo di Stato in cui il potere intende fare la felicità del popolo senza autorizzarlo a scegliere le vie che vi conducono” (Ivi, p. 171). La razionalità, alla quale esso si riferisce per giustificare la sua forza, differisce profondamente da quella del Secolo dei Lumi. Quest’ultima “liberava lo spirito per renderlo padrone delle cose, scopriva nell’uomo i valori che si trattava in seguito di imporre ai meccanismi sociali. Invece la razionalità che noi professiamo ci assoggetta alla forza di attrazione della società esi290

Il futuro dello Stato

stente ed erge a valori i comportamenti che la sostengono. Proprio per questo il nuovo despota, per illuminato che sia o pretenda di essere, non è in realtà che un Leviatano teleguidato” (Ivi, p. 172). Negli anni ’90 gli orizzonti si allargano e divengono più incisivi i processi di globalizzazione e i fenomeni di massa che minano la democrazia tradizionale. Ci si pone di nuovo il problema della sorte dello Stato sociale e dello Stato nazione. Jürgen Habermas riprende allora il discorso sulla democrazia di massa e la sorte dello Stato (v. Habermas, 1999). Per Habermas la sorte dello Stato sociale è segnata dai processi di globalizzazione. Le funzioni che esso finora ha assolto “potrebbero ancora essere realizzate nelle stesse proporzioni solo se potessero trasferirsi dallo Stato nazione a unità politiche che si mettessero per così dire al passo con una economia transnazionalizzata” (Ivi, p. 22). Quanto agli Stati nazionali, Habermas sottolinea l’indebolimento degli Stati come soggetti autonomi, la subordinazione di questi “alle interdipendenze crescenti nella società mondiale”, che porta a smarrire il confine tra politica interna e politica estera, il deficit di democrazia provocato dallo svuotamento delle istituzioni democratiche, i “vuoti di legittimità” che si producono con lo spostamento di competenze dal piano nazionale al piano sopranazionale” (Ivi, pp. 44-46) e infine l’ “esautoramento della ‘politica’ da parte del ‘mercato’”, che si manifesta nel fatto che “allo Stato nazionale viene meno la capacità politica di proteggere la sua base di legittimità rastrellando risorse fiscali e stimolando la crescita economica” (Ivi, pp. 56-57). Sviluppo dei mercati e sostituzione del potere da parte del denaro corrisponderebbero, secondo i principî del neoliberalismo, al “fluidificarsi delle società un tempo organizzate nel quadro degli Stati nazione”. Questo porterebbe “alla fine della politica” e con ciò alla demolizione dello Stato. Contro questa tendenza, secondo Habermas, “una politica che voglia riguadagnare terreno dovrebbe collocarsi non in un progetto di Stato mondiale” ma in forme di governance globale, “nelle forme organizzative non statali dei sistemi internazionali di negoziato già oggi esistenti per alcuni settori della politica” (Ivi, pp. 69 e 97). In tempi molto recenti sulla fine dello Stato sono tornati autori di diverse tendenze e fra questi lo storico marxista Eric J. Hobsbawm e lo storico e politologo liberale Wolfgang Reinhard. Per entrambi lo Stato attraversa oggi una crisi di identità, a causa delle grandi e rapide trasformazioni sociali ed economiche, e la sua esistenza storica sta per concludersi. Secondo Hobsbawm (2007) le “grandi identità”, come quelle degli Statinazione si stanno sbriciolando e al loro posto sorgono “gruppi di identità 291

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autoreferenziali più circoscritte” o anche “identità private a-nazionali dell’ubi bene ibi patria” (p. 41). Caratteristiche sarebbero le forme di identità create a livello locale o quelle prodotte da attività come la moda, lo spettacolo e soprattutto il calcio (p. 37). Il regime di massa, con il riprodursi del bisogno delle masse di ritrovarsi in questo o quell’evento, ricrea la percezione superficiale e provvisoria di identità collettiva. L’identità dello Stato semmai si trasferisce dal livello nazione al livello massa. Anche per questo la sovranità del mercato sulla massa di consumatori sostituisce quella dello Stato sulla collettività dei cittadini. “L’ideale della sovranità del mercato non è un complemento, bensì un’alternativa alla democrazia liberale. Di fatto esso è un’alternativa a ogni sorte di politica, poiché nega la necessità di decisioni politiche, che sono esattamente le decisioni sugli interessi comuni o di gruppo in quanto distinti dalla somma di scelte, razionali o meno che siano, dei singoli individui che perseguono i propri interessi personali” (p. 56). Lo Stato perde progressivamente le sue funzioni di indirizzo e di controllo, come risulta “dalla incapacità degli Stati di controllare, o anche solo monitorare le transazioni finanziarie internazionali” (p. 106). Pertanto si fa sempre più evidente la crisi, iniziata alla fine degli anni Sessanta “di quel tipo di Stato in cui tutti noi ci siamo abituati a vivere nell’ultimo secolo: lo Stato nazione territoriale” (p. 102). Nel XXI secolo, si chiede Hobsbawm, “ che cosa sostituirà lo Stato nazione (ammesso che venga sostituito da qualcosa) come modello di governo popolare? Non lo sappiamo” (p. 42). Concludendo la sua “Storia dello Stato moderno” Wolfgang Reinhard si chiede se questo Stato abbia ancora un futuro (2010, p. 118 e segg.) “Lo Stato moderno – scrive Reinhard – sviluppatosi nel corso di vari secoli di storia europea e diffusosi nel mondo attraverso l’espansione dell’Europa, ha già cessato di esistere. Ad aver perso validità è soprattutto il criterio della modernità tout court: l’unità, a suo tempo conquistata all’Ancien régime, tra il popolo e il potere statale, tra il territorio e la sovranità dello Stato. Il monopolio statale del potere si è dissolto in favore di istanze intermedie e raggruppamenti substatali. D’altra parte, gli Stati sono collegati e vincolati a livello sovranazionale in un modo che non può più essere adeguatamente compreso utilizzando le vecchie categorie di un diritto internazionale fra Stati sovrani” (Ivi, pp. 118-19). Ciò non vuol dire, continua Reinhard, che lo Stato si estinguerà del tutto. Esso “sopravviverà in una forma ridotta e in concorrenza con altre istanze” (Ivi, p. 119). Nella situazione attuale “sembra si stia sviluppando una collettività con numerose istanze intermedie: un ‘nuovo medioevo’ privo tuttavia (a differenza del precedente) di i292

Il futuro dello Stato

dee valoriali in comune… La volontà generale su cui si regge lo Stato, propria della filosofia dell’identità democratica, ha abdicato in favore di identità di gruppi in concorrenza tra loro. I gruppi si incontrano ormai soltanto sul mercato. E tuttavia è ragionevole supporre che i meccanismi di mercato da soli non bastino a regolare i rapporti fra gruppi, poiché nemmeno un livello minimo di disponibilità all’intesa è ottenibile a costo zero in termini morali” (Ivi, p. 119). In entrambe le interpretazioni della politica contemporanea, quella di Hobsbawm e quella di Reinhard, sembra prevalere la tesi che la sfera economica, dominata dal mercato, abbia assorbito tutte le altre sfere della vita, e quindi lo Stato abbia perso la posizione di supremazia che lo caratterizzava per assumere un ruolo polifunzionale, soprattutto rispetto alle esigenze vitali del capitalismo globale. È diventato agente di mediazione fra interessi e istanze diverse. Ma questo emargina la funzione ideale e valoriale dello Stato: quell’idea di Stato sulla quale si è retta per due secoli l’unità e l’identità morale e territoriale dei cittadini di un paese. 2. Universalismo, localismo e federalismo La dissoluzione dell’effetto identitario e morale di Stato e nazione, l’abbandono della percezione culturale di una continuità storica creano un bisogno al quale si cerca di trovare soluzioni che oggi perseguono vie diverse, cioè una nuova identità per la vita collettiva, per l’unità della società civile e come supporto delle istituzioni politiche quali sono o quali verranno. Una prima soluzione insegue una identità universalista, generalista e intellettualistica, che potrebbe supportare l’espansione del capitalismo globale e insieme l’azione di una governance globale sotto la “sovranità” del mercato. L’universalismo, tuttavia, sfugge ad ogni determinazione e localizzazione. Corrisponde perciò alla de-localizzazione tipica della nostra epoca, ma, proprio per la vacuità che esso rappresenta, non può che alimentare atteggiamenti contro ciò che esiste e quindi risolversi nel negativo, poiché “tutto ciò che è positivo è delimitabile, caratterizzabile o almeno suscettibile di essere precisato. Si può pensare sotto la categoria dell’universale, ma non si può agire sotto quella dell’universalismo, poiché l’azione si iscrive inevitabilmente in un tempo e in uno spazio determinati” (Freund, 1987). Una seconda ricerca identitaria si sviluppa nel senso del localismo. Esso ha un’ampia diffusione perché risponde alla tendenza che contrappone alla distanza o alla dissoluzione del potere la ricerca di una identità forte e del 293

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senso della politica nei piccoli cerchi della vita locale e quotidiana. Il localismo ha un significato psicologico e storico prima che politico (v. Mongardini, 1995, p. 93 e segg.). Di più, il localismo ha una valenza decisamente emozionale e si presta a un diffuso apparato simbolico che porta a riconoscersi come comunità nella tradizione e nell’esperienza dei luoghi. Il senso di patria si ritrova e si restringe nella piccola realtà della vita quotidiana che si contrappone alla distanza del potere al quale è attribuito il ruolo di oppressore. Il localismo crea perciò un contropotere e agita la ribellione del sociale contro un’autorità politica alla quale viene imputata l’uniformità oppressiva della sua regolamentazione, la sua sottomissione agli interessi dello sviluppo industriale concepito unilateralmente da una burocrazia anonima. Come scrive Burdeau il localismo si presenta così come “la nuova forma di resistenza all’assolutismo”. È la dissociazione delle forme di potere “che deve ispirare la strategia della lotta per le libertà. Dissociazione nello spazio per restaurare l’autonomia dei poteri regionali, dissociazione nel tempo rompendo la continuità del potere con consultazioni popolari che escludono la continuità indefinita di professionisti al governo; dissociazione delle procedure di decisione, rimettendo agli interessati la competenza di decidere sulle misure che li concernono. La ricostruzione delle differenze e il rispetto dei particolarismi restituiranno alle libertà i loro significati concreti, poiché il loro esercizio sfuggirà a una norma unica e astratta” (Burdeau, 1979, pp. 247-48). A questa tendenza libertaria alla dissociazione si oppone la necessità per cui lo Stato moderno non può rinunciare alla centralizzazione dell’organizzazione politica e questa non può farsi carico di aspettative, di identità e di relazioni che pertengono alla sfera della piccola società. Tuttavia il centralismo politico dello Stato moderno potrà sopravvivere solo se saprà utilizzare in senso culturale e non emozionale i prodotti del localismo. Il localismo infatti può stimolare una mobilitazione ideologica, oggi tanto necessaria alla riproduzione dei significati e delle identità della nostra società, può stimolare la funzione creativa di gruppi emergenti, che possono così alimentare il ricambio delle idee e del personale politico a livello centrale, può animare la funzione di presa di coscienza autonoma da parte dell’individuo di una realtà che non può essere mediata dalla grande società. Assunto come fatto culturale e non come fatto emozionale, il localismo può aprire un nuovo capitolo nella storia della civiltà. Esso può realizzare le previsioni del sociologo tedesco Ferdinand Toennies, il quale, analizzando le tendenze centralistiche della società moderna, scrisse che tuttavia “l’essere e le idee della comunità” avrebbero potuto “ricevere nuovo ali294

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mento e sviluppare una nuova cultura nell’ambito di quella in estinzione” (Toennies, 1979, p. 295). Un percorso razionale per recuperare identità e redistribuire distanze e funzioni all’interno dello Stato si può trovare nel federalismo. Le implicazioni che il progetto federalista può assumere sono molteplici, specialmente di ordine giuridico e politico. Non possiamo qui che semplificare in tre punti: 1. Il principio sul quale si fonda il federalismo; 2. La forma dell’organizzazione federale; 3. Le possibili vie di strutturazione dell’ordine federale. Per quanto riguarda il primo punto va subito sottolineato che il federalismo è “un modo di concepire l’autorità “nel quale l’associazione si sostituisce alla costrizione” (Burdeau, 1980, p. 493). Se il principio democratico mira ad associare i cittadini affinchè prendano parte alle decisioni che li coinvolgono, l’idea federalista cerca di costituire una associazione di gruppi a livelli diversi. In effetti, scrive Burdeau “la concezione federale dell’autorità è il corollario di una concezione della società intesa come insieme articolato di raggruppamenti di ogni ordine. Ciascuno di essi vi gioca un ruolo che gli è proprio nei campi dell’economia, della cultura, della formazione professionale ecc. E ciascuno è egualmente libero nel suo ordine perché questa libertà è la condizione necessaria affinchè le funzioni siano correttamente esercitate, cioè senza che sia fatta violenza alle esigenze dell’ambiente, dei suoi bisogni, delle sue tradizioni e dei suoi modi di pensare e di agire. Tuttavia, poiché anche la società globale ha i suoi imperativi, è necessario che una autorità coordini i comportamenti delle parti componenti. È questa autorità che il federalismo intende stabilire sulla base di una associazione” (Ivi). A base del federalismo c’è quindi un accordo, un trattato (foedus) anche tacito volto a costruire un ordine sociale legato all’idea di libertà. Esso rende costituenti e attive la molteplicità delle strutture sociali che sono chiamate a partecipare alle decisioni che interessano l’intera società. Se e nella misura in cui questo modello riesce a funzionare l’autorità costrittiva è sostituita dall’autorità deliberativa. Non c’è federalismo senza che i soggetti associati abbiano la possibilità di partecipare alla costituzione di istituzioni comuni e di avere in esse potere deliberativo. Perciò il federalismo implica la dialettica “di due principî che gli sono essenziali: la legge della partecipazione e la legge dell’autonomia” (Ivi, p. 503). Dal punto di vista della forma il federalismo appare come una governance multilivello, particolarmente adatta a organizzare la distribuzione territoriale o funzionale del potere. Mentre nell’ordine politico classico l’autorità si concentra nel vertice e viene solo delegata, nel federalismo essa promana da 295

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tutti i centri dell’organizzazione mentre il vertice può avere solo potere di coordinamento o di veto. Ciò impone naturalmente un principio costituzionale e un accordo politico che definisca autonomie, livelli di potere e ambiti di competenza. Il federalismo è quindi una struttura di potere stratificata. Non è federalismo quello in cui il potere rimane concentrato nel vertice, viene semplicemente delegato nelle strutture inferiori ed è soggetto a revoca. In questo caso, cioè nel caso in cui la distribuzione dei poteri deriva dalla volontà del soggetto dominante, essa non porta all’indebolimento ma al rafforzamento del potere di vertice. La costituzione di una reale struttura federale può perciò seguire due vie: una che parte dal basso e una che muove in un certo modo dall’alto. La prima si ha quando gruppi, associazioni e istituzioni si associano per creare un ordine e una volontà comune affidando ad una autorità superiore il compito di coordinamento e di rappresentanza dell’intero corpo così costituito, conservando la propria autonomia e partecipando alla formazione della volontà collettiva. Nella seconda forma il potere autocratico del soggetto dominante si dissolve lentamente, scivolando all’ingiù, conservando la posizione ma perdendo le funzioni di cui si appropriano i corpi e i gruppi sottostanti, rivendicando autonomie e poteri di decisione. Quando il potere degli strati superiori si frantuma, ciò avviene “sia perché esso è interamente impossibile da mantenere, e la proporzione precedentemente messa in evidenza fra sottomissione e libertà individuale non viene da esso mantenuta, sia perché i singoli soggetti sono troppo indolenti e troppo poco esperti nella tecnica del dominio per conservare il loro potere” (Simmel, 1978, p. 69). Il modello ideale di federalismo, comunque si realizzi, potrebbe però essere sottoposto a distorsioni di diversa natura. Anche a non voler considerare il principio per cui tendenzialmente ogni posizione di potere tende sempre ad accumulare maggior potere, vanno tenuti in conto altri elementi di non poco conto, come quello del rapporto fra gli individui e le singole funzioni che sono chiamati a svolgere. “La struttura di una piramide di potere – scrive Simmel – soffrirà sempre di una principale difficoltà, che le qualità irrazionali e fluttuanti delle persone non si adatteranno mai completamente agli schemi e contorni delineati quasi con rigore logico per le singole posizioni: una difficoltà formale di tutte le organizzazioni di rango costruite partendo da uno schema dato…” (Ivi, p. 71). Non si può chiudere il discorso sul federalismo senza segnalare che un tipo di federalismo è conosciuto come federalismo cooperativo, piuttosto noto in Germania, il quale si fonda su un meccanismo di solidarietà che 296

Il futuro dello Stato

unisce gli attori coinvolti. Alla solidarietà si unisce qui la sussidiarietà, cioè il principio che le funzioni, se è possibile, devono essere trasferite da organismi ampi e complessi a istituzioni più piccole e più semplici. Così il precetto morale della solidarietà “si traduce nella prassi della sussidiarietà, ossia l’idea che le decisioni vadano assunte al livello più basso possibile” (Hague-Harrop, 2011, p. 237). A conclusione di questa panoramica sulle sfide interne alle quali lo Stato è sottoposto e prima di esaminare le sfide esterne che lo coinvolgono dobbiamo ancora chiederci perché abbiamo bisogno dello Stato, almeno finchè una nuova civiltà non lo sostituisca con un nuovo tipo di organizzazione politica. Lo Stato che conosciamo rappresenta la razionalizzazione moderna della volontà politica dei cittadini, che abitano in un territorio delimitato, di vivere insieme dandosi delle regole che permettono loro di organizzarsi secondo reciproche aspettative di comportamento. Queste regole costituiscono l’ordine giuridico dello Stato, indipendente da ogni idea metafisica e da ogni carisma individuale. Pertanto lo Stato, in quanto idea condivisa, è il principio di riferimento della morale, del diritto e dell’apparato simbolico, che regola l’unione dei cittadini, al di sopra delle parti e degli interessi di parte, principio senza il quale la società si sfalderebbe. Come gli dei dell’antica Grecia rappresentano le qualità e le virtù ideali degli uomini, così lo Stato rappresenta la configurazione ideale del vivere insieme dei cittadini. In questo senso e in quanto “razionalizzazione moderna”, lo Stato è veramente “l’ingresso di Dio nel mondo”. In quanto idea che rappresenta una unità complessa, lo Stato non può essere solo Stato etico o al contrario lo strumento della classe dominante; non può identificarsi con la classe politica, né essere solo un soggetto giuridico o un attore economico. Tutte queste interpretazioni unilaterali, prese a sé, finirebbero per distruggere la società. Lo Stato è perciò un’idea complessa: realtà molteplice e insieme rappresentazione della necessaria unità del gruppo. 3. La Geopolitica e le Relazioni internazionali ∗ La nascita dell’idea di nazione, l’affermazione dell’uguaglianza giuri∗ Questo paragrafo è stato scritto da Gabriele Natalizia che ha collaborato anche alla stesura del paragrafo successivo.

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dica degli individui e la levée en masse prodotte dalla Rivoluzione francese hanno generato una profonda trasformazione della società politica, che si è tradotta nel graduale ampliamento dei soggetti coinvolti nella gestione della cosa pubblica e nell’attività di indirizzo delle decisioni politiche. Successivamente il sorgere degli Stati-nazione e lo scontro titanico della Prima guerra mondiale, hanno rappresentato un salto di qualità nella mobilitazione di uomini, nel ricorso alla propaganda e nell’utilizzo di risorse materiali. In altre parole si è venuto a concretizzare un progressivo dilatamento degli spazi di significato non solo della politica, ma anche delle questioni ricomprese nella categoria del politico. A differenza della politica interna, che già prima dell’irruzione delle masse sulla scena pubblica aveva costituto un oggetto privilegiato dell’analisi scientifica, la politica internazionale negli ambienti accademici risultava affrontata solo indirettamente e con un alto livello di astrazione quale oggetto degli studi di teoria politica, diritto internazionale e storia diplomatica. Sul perseguimento del cosiddetto interesse nazionale, riformulazione ottocentesca del concetto di ragion di Stato, gravava la tradizionale prospettiva per cui le scelte dei governanti nella sfera internazionale dovessero rimanere avvolte nella cortina di fumo degli arcana imperii. Di conseguenza il suo studio restava limitato alla ristretta cerchia dei cosiddetti consiglieri del principe, ossia i diplomatici e i componenti del governo. L’ampliamento degli effetti generati dalle scelte internazionali degli Stati sulla società civile, tuttavia, ha incentivato l’incremento dell’attenzione pubblica sulla politica internazionale e favorito il sorgere di un ambito disciplinare autonomo, seppur eterogeneo per i metodi utilizzati e per i settori disciplinari di provenienza dei suoi membri, incentrato sulla sua analisi. A cavallo tra la seconda metà del XIX secolo e gli inizi del XX secolo, l’incontro tra le diverse sensibilità della politologia, della storia e della geografia, unito alla volontà di definire e legittimare le strategie internazionali degli Stati, ha favorito l’affermazione della Geopolitica, un approccio scientifico che analizza la politica internazionale attraverso il suo rapporto con la dimensione spaziale. Sulla scorta dell’immagine hobbesiana del Leviatano, gli studiosi di Geopolitica hanno descritto lo Stato alla stregua di un organismo vivente, identificandolo con il corpo della nazione. Un’immagine sostenuta dalla crescente complessità dell’organizzazione statale, contraddistinta dalla specializzazione dei suoi enti e dal legame stabilito con gli attori economici nazionali. Non di rado questa prospettiva ha coinciso con la presentazione dello Stato quale un attore unitario e razionale e, 298

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di conseguenza, consapevole degli obiettivi da perseguire in un’arena internazionale popolata da unità simili. Prendendo in considerazione il rapporto tra lo Stato, un’organizzazione animata dalla volontà di accumulare potere, e lo spazio, la dimensione dove prendono forma le dinamiche politiche, la Geopolitica è stata descritta come lo studio delle relazioni che esistono tra la condotta di una politica di potenza sviluppata sul piano internazionale e il quadro geografico in cui essa si esercita. Nella prospettiva di Yves Lacoste, più incline a considerare quali strumenti di analisi non solo il potere di coercizione e gli attori statuali, ma anche il potere di persuasione e gli attori non statuali, la Geopolitica si profila come “l’individuazione e il confronto sistematico delle percezioni e dei convincimenti che ogni gruppo politico ha nei riguardi dello spazio, derivanti non da una valutazione razionale e oggettiva dei propri interessi, ma dai suoi valori e ideologie, dalla sua cultura e dalla sua esperienza storica”. In una prima fase la Geopolitica ha conosciuto uno sviluppo parallelo nel Regno Unito, dove prendendo le mosse dallo studio dei fattori che avevano permesso l’affermazione dell’Impero britannico ha contribuito alla formulazione di strategie volte a preservare il dominio inglese sui mari, e in Germania, dove è risultata funzionale a presentare in chiave deterministica prima il destino imperiale dell’Impero guglielmino e poi l’espansione verso il Grossraum (grande spazio) orientale del Terzo Reich. In questa prospettiva la Geopolitica è divenuta una rappresentazione che i soggetti politici, statali e non, hanno dei rapporti internazionali in funzione dei propri interessi, dei loro valori e della visione del loro futuro e di quello del mondo. Solo qualche decennio dopo la diffusione delle prime teorie geopolitiche, nell’ambito della scienza politica ha ottenuto autonomia scientifica lo studio delle Relazioni internazionali. Tale disciplina, secondo Carlo Maria Santoro, si prefigge lo scopo di studiare la politica internazionale intesa “come il complesso degli eventi politici che scaturiscono dall’interazione fra unità politiche all’interno del contesto internazionale”. Il concetto-oggetto delle Relazioni internazionali non è la politica estera di uno Stato o la semplice sommatoria delle politiche estere di un certo numero di Stati, ma quello di sistema internazionale. Quest’ultimo, cui viene attribuita un’esistenza autonoma rispetto agli attori che lo compongono, deriva la sua eccezionalità dal principio regolatore anarchico che ne connota la struttura e la distingue dalla dimensione domestica, ordinata e gerarchica. L’anarchia internazionale, da intendersi come assenza di un’autorità deputata a garantire l’ordine nell’am299

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biente internazionale, determina una condizione di incertezza e insicurezza che influenza l’azione degli Stati imponendo loro l’obiettivo primario della sopravvivenza (Cesa, 2007, pp. 25-26). Dalla comune volontà di affrontare in maniera sistematica lo studio delle dinamiche collegate alla natura del sistema internazionale, alla sicurezza degli Stati e alla guerra, sono emerse due principali tradizioni di pensiero: 1. Dopo la conclusione della guerra del 1914-1918 ha visto la luce la scuola liberale, chiamata anche idealista. I suoi principali esponenti sono stati Alfred Zimmerm, Philip Noel-Baker e David Davies, la cui riflessione partiva dalla constatazione che la portata distruttiva della guerra nell’età contemporanea ne aveva irrimediabilmente reso disfunzionale il ricorso. Non consideravano, inoltre, la condizione di anarchia e la conflittualità come connaturate ai rapporti internazionali, ma causate dalla miopia dei governanti e dall’egoismo degli Stati. L’idealismo si è così rivolto verso l’individuazione delle condizioni e delle procedure in grado di incrementare la cooperazione a scapito del conflitto, fornendo alla teoria kantiana della “pace perpetua” un supporto empirico e scientifico. In tal senso sono state avanzate alcune proposte: la diffusione di principi etico-politici universali, l’influenza pacifista dell’opinione pubblica sui governi e, soprattutto, la creazione di organizzazioni internazionali. Quest’ultima idea ha trovato il suo più importante riscontro concreto nel progetto riformista del presidente americano Woodrow Wilson e nella fondazione della Società delle Nazioni. Negli anni successivi al 1945, nell’ambito di questa tradizione, si è sviluppata la corrente funzionalista, che ha rilanciato il dibattito sulla possibilità di una progressiva integrazione politica attraverso il moltiplicarsi di agenzie specializzate nella risoluzione di problemi concreti. Secondo autori come David Mitrany e Ernst Haas la funzione positiva svolta da queste agenzie avrebbe fatto guadagnare loro la lealtà delle popolazioni, segnando il tramonto dell’autorità statale e la nascita di un’organizzazione politica globale (Koenig-Archibugi, 2007, pp. 107-111). 2. Il precipitare degli eventi politici nel corso degli anni Trenta e Quaranta, al contrario, ha favorito l’ascesa della scuola realista. Riformulando le idee di Tucidide, Niccolò Machiavelli e Thomas Hobbes, il realismo ha denunciato il carattere prescrittivo delle posizioni idealiste, accusate di utopismo, e affermato l’immutabilità della natura anarchica della politica internazionale e l’importanza dell’analisi dei rapporti di forza tra le uni-

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tà per una corretta comprensione delle dinamiche del sistema internazionale. Questa prospettiva ha negato l’efficacia dell’azione delle organizzazioni internazionali, confermata dal fallimento della Società delle Nazioni nel prevenire lo scoppio della Seconda guerra mondiale, e ribadito l’assoluta centralità dello Stato, considerato l’unico attore in grado di agire sia legittimamente, che effettivamente, nell’evento dirimente della vita internazionale: la guerra. Il realismo, i cui maggiori esponenti sono stati Edward Carr, Hans Morgenthau ed Henry Kissinger, si è così prefisso lo scopo di studiare la politica internazionale in funzione del comportamento concreto degli Stati e non in base a un loro comportamento auspicabile (Cesa, 2004, pp. 13-16). Nel secondo dopoguerra, parallelamente al realismo ortodosso, si è sviluppata la scuola inglese, che pur sottolineando le conseguenze di un ambiente anarchico sui rapporti di forza internazionali, ha enfatizzato la possibilità che la presenza di un’identità tra gli Stati possa portare al rispetto di alcune regole fondamentali e, quindi, all’attenuazione del grado di disordine internazionale. Sulla base di questo ragionamento Martin Wight e Hedley Bull hanno tracciato una distinzione tra una società internazionale, in cui gli Stati membri riconoscono il loro comune interesse nell’adeguarsi alle norme che hanno contribuito a istituire, e un sistema internazionale, dove gli Stati sono costretti a prendersi in considerazione solo in funzione di calcoli fondati sulla politica di potenza. In Europa sia la Geopolitica che le Relazioni internazionali hanno conosciuto un grande sviluppo nel corso della prima metà del Novecento, mentre la seconda metà del secolo ha rappresentato un momento critico, anche se in misura evidentemente diversa, per entrambe le discipline. In questa fase la Geopolitica ha subito una vera e propria damnatio memoriae, non solo perché associata ai progetti espansionistici della Germania nazionalsocialista, ma anche in quanto vittima della logica di proscrizione in cui sono incappate le narrazioni politiche diverse da quella dello scontro tra i due blocchi. Le Relazioni internazionali, dal canto loro, hanno risentito in un altro senso dell’assetto bipolare sorto dopo il 1945. Il primato di Washington sugli Stati alleati dell’Europa occidentale si è tradotto nell’affermazione delle università, delle riviste scientifiche e dei think tank americani quali motori del dibattito sulle Relazioni internazionali, tanto che questa è stata considerata alla stregua di una scienza americana. Ne è derivata la marginalizzazione di autori europei del calibro di Carl Schmitt e Raymond Aron, causata dalla loro distanza dai temi verso cui la comunità scientifica

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d’Oltreoceano ha orientato la sua attenzione. L’americano-centrismo, inoltre, ha sostenuto la fiducia nelle tesi relative al superamento dei principi classici sui cui è stata fondata la politica internazionale europea, sovranità e non ingerenza, ad opera di nuovi valori, norme e istituzioni (Colombo, 2007, pp. 33-35). Già nel corso della fase conclusiva della Guerra fredda, tuttavia, si è verificata un’inversione di tendenza. Il profilarsi del tramonto delle ideologie, l’emergere di fratture etno-nazionalistiche e l’incrinarsi della compattezza del blocco socialista hanno permesso lo sdoganamento pubblico della Geopolitica e il suo affrancamento dagli studi geografici in favore di un parziale assorbimento nel settore politologico. Le Relazioni internazionali negli Stati Uniti hanno confermato la loro importanza, grazie all’analisi sistemica dell’interazione tra struttura e unità politiche di Kenneth Waltz e alle riflessioni su hard power, soft power e smart power di Joseph Nye. Contemporaneamente il margine di manovra crescente ottenuto dagli Stati europei di fronte alla crisi del blocco comunista e gli scenari collegati all’evoluzione della Comunità economica europea in una vera e propria unione, hanno rilanciato l’interesse nei confronti della disciplina sul nostro continente e, soprattutto, in Italia. La fine del bipolarismo, l’euforia sulla globalizzazione degli anni Novanta e la fase di crisi seguita ai bombardamenti contro la Serbia nel 1999 e all’attentato dell’11 settembre 2001 hanno definitivamente consacrato questa tendenza (Bonanate, 2009, pp. 6-8). Si sono così imposti all’attenzione pubblica temi, che stanno per trasformarsi in classici, come il confronto tra la teoria della “fine della storia” di Francis Fukuyama e quella dello “scontro delle civiltà” di Samuel Huntington, la contestazione della legittimità dell’Onu e del monopolio della violenza degli Stati (Colombo, 2006), l’inevitabilità dell’alleanza tra Stati Uniti ed Europa (Parsi, 2003), e ancora, la politicizzazione della religione e la sua influenza sulla condotta delle unità politiche. 4. Lo Stato nello scenario internazionale: capitalismo e globalizzazione La scena internazionale, che fino a pochi decenni fa si presentava come una fitta rete di relazioni tra Stati in un gioco diplomatico di alleanze, compromessi e conflitti, appare oggi profondamente condizionata dalle evoluzioni del capitalismo, della comunicazione e dei processi di globalizzazione. L’identità degli Stati quasi scompare nel retroscena rispetto all’apertura di grandi spazi planetari, nei quali giocano piuttosto grandi ag302

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gregazioni di forze economiche e finanziarie e interessi che legano o contrappongono attori la cui azione non conosce confini. È questa una sfida al ruolo dello Stato sulla scena internazionale? Questa possibilità ci impone di guardare con sempre maggiore attenzione oltre lo Stato nell’analisi dei fenomeni politici. Dopo la fine della Guerra fredda, lo sviluppo del tardo capitalismo ha avuto ragione degli steccati economici e culturali che si opponevano ad una sua maggiore espansione, tanto da permettergli oggi di mettere in discussione anche quelli politici. La sua espansione, infatti, implica l’allargamento dei mercati, la concentrazione dei capitali finanziari, il disallineamento tra i gruppi economici e i loro Stati di origine, la delocalizzazione dei sistemi di produzione, nonché l’estensione dei consumi di massa. La completa liberazione delle energie del modello capitalistico, rimaste compresse fino al 1989, presuppone anche il superamento della barriera costituita dai confini degli Stati nazionali. Questa tendenza ha avuto un primo impulso già al termine della Seconda guerra mondiale con la creazione di agenzie di controllo e coordinamento del sistema economico globale, come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione mondiale del commercio, per poi conoscere ulteriori fattori di sviluppo nell’utilizzo del dollaro come valuta di riserva sul piano internazionale (ma il primato del dollaro è attualmente messo in discussione dall’euro) e nella nascita di un numero sempre maggiore di società multinazionali. A completare il quadro è intervenuta la progressiva finanziarizzazione dell’economia i cui flussi hanno offerto maggiore uniformità al mercato e disincentivato le economie fondate sulla produzione di beni materiali, che avevano costituito l’altra faccia della medaglia della nascita degli Stati-nazione, favorendo l’aumento di attività speculative. Queste trasformazioni hanno avuto conseguenze all’interno degli Stati. Hanno messo in discussione il corretto funzionamento dei sistemi politici che, durante l’età moderna, si sono sviluppati nell’ambito degli Stati nazionali e per gli Stati nazionali. La politica, in questa fase, ha avuto una funzione centrale rispetto alla crescente complessità sociale, quella di costituire la sintesi e la rappresentazione di una società e di una cultura. Ma questo poteva avvenire all’interno di uno Stato e nell’ambito di un’epoca che possiamo definire come regime borghese. La crisi ha colpito la funzione unificatrice della politica, emarginata dai processi economici e priva di un progetto di società sul quale fondare la riorganizzazione di una realtà in rapida trasformazione. La conseguente apertura degli spazi in virtù delle esigenze del tardo capitalismo, la percezione del tempo circoscritta al presente, la perdita di identità dello 303

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Stato, l’evanescenza dei confini e l’avvento di un regime di massa, hanno profondamente cambiato le condizioni dell’agire politico, mettendo in dubbio anche l’elemento costitutivo dello Stato: la sovranità. Per tentare di porre rimedio a questo andamento il potere politico cerca di far sentire il proprio peso, finendo per assecondare tendenze totalitarie, ma senza creare nuovi legami sociali che rimangono limitati agli interessi economici. Le forme di razionalizzazione estrema, al contrario, rischiano di sostenere la riapparizione di una cultura pre-moderna, che si traduce nella necessità di un legame forte tra gli individui, lo spazio ristretto dove vivono e una dimensione eterna del tempo. Il ritorno dei nazionalismi, sotto forme radicali e localistiche, ha un significato diverso rispetto a quello del passato: questi ultimi erano creativi, quelli di oggi appaiono regressivi. Stentano a produrre, se non in forme superficiali, una nuova società e una nuova cultura. Si sovrappongono alle esperienze nazionali come radicalizzazione della modernità e provocano dei contraccolpi altrettanto radicali nei quali compaiono razzismo, settarismo e fondamentalismo etnico o religioso. La globalizzazione, per il momento, non si è attestata come un processo in grado di fondarsi su un’ideologia capace di generare cooperazione e legami culturali all’interno della società, ma è rimasta circoscritta alla conquista e alla colonizzazione di nuovi spazi economici da parte di poteri che riescono a superare il controllo degli Stati. Sul piano politico, come detto, si pone il problema di una riconfigurazione del potere politico e delle funzioni degli Stati. Lo Stato, infatti, si trova di fronte a un numero consistente di organizzazioni sovranazionali, di agenzie e regimi internazionali che operano in diversi ambiti spaziali, al punto che sembra trasformarsi sotto molti aspetti in uno strumento di mediazione fra esigenze nazionali e necessità di corrispondere a nuove realtà di portata mondiale. È una mediazione che si gioca tutta sugli interessi ma che, come si diceva, non possiede principi ideologici da rappresentare o da proporre per la fondazione di una nuova società. Le stesse formule politiche e i regimi usati all’interno degli Stati appaiono inadeguati e scoloriti per la realtà sovranazionale, mentre l’economicismo cambia i termini della democrazia rappresentativa perché esso è forza, occulta perché oggettivata, e in quanto il suo potere non opprime ma esclude. Accanto allo Stato, inoltre, fioriscono nuove forme della cosiddetta governance, che trasferiscono ai poteri sociali quelle negoziazioni che, di fatto, solo lo Stato sarebbe in grado di ricondurre all’interesse generale. La sovranità dello Stato risulta attaccata da più parti. Certamente non si dissolve, ma diventa una sovranità negoziata, in un contesto di denazionalizzazione e di redistribuzione dei poteri. La globalizzazione, dun304

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que, crea una società in formazione che si sovrappone e interagisce con le società nazionali. È una società che si costituisce tanto in senso spazialeorizzontale, quanto in senso verticale-strutturale. La società globale presenta, perciò, una radicale trasformazione nell’organizzazione territoriale e istituzionale dell’attività economica e del potere politico. Di conseguenza occorre modificare il nostro concetto di comunità politica e, in particolare, l’immagine che abbiamo di democrazia rappresentativa, ormai così intimamente legata a quella di Stato nazionale. La società politica globale che sta prendendo forma presenta caratteristiche innovative e include punti di forza e di debolezza, che possiamo provare a riassumere: 1. Assorbe parte della sovranità degli Stati, ma, al tempo stesso, ha bisogno di essere prodotta, riprodotta, finanziata e istituzionalmente sostenuta dagli Stati. 2. È strutturata su istituzioni giuridiche proprie, con norme, regimi o pratiche legali che interagiscono con lo Stato, o meglio con la sovranità degli Stati (basti citare l’arbitraggio commerciale internazionale della Camera di Commercio di Parigi o dell’American arbitration association), e la varietà di istituzioni che esercitano funzioni essenziali per l’economia globale. Al tempo stesso queste nuove istituzioni si orientano sul modello giuridico e culturale di quelle dei paesi dominanti (ad es. sul diritto commerciale degli Stati Uniti). 3. Si impone come “governance senza governo”, indirizza gli Stati verso la deregulation e, contemporaneamente, per superare una condizione tendenzialmente anarchica ricerca forme costituzionali o di controllo politico che presupporrebbero un volontarismo politico a livello globale sulla falsariga di quello che ha caratterizzato gli Stati-nazione nel XIX secolo. 4. Dipende dagli Stati, ma modifica radicalmente le funzioni degli Stati. Questi da soggetti sovrani e formalmente autonomi diventano sempre più unità interdipendenti in una molteplicità di settori, spesso condizionati dalla volontà di organizzazioni sovranazionali. Lo Stato da centro di produzione normativa diviene elemento di mediazione fra due società, conservando il controllo dell’una (nazionale) e fungendo da supporto all’altra (globale). Acquista, quindi, una dimensione plurifunzionale rispetto ad una società a più livelli: locale, nazionale, globale.

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5. L’impero come futuro? Importanti trasformazioni di natura non economica accompagnano lo sviluppo della società politica globale. A queste si presta minore attenzione rispetto a quella riservata ai fenomeni economici, anche a causa della loro prospettiva di lungo periodo che le contrappone a quella di breve e medio termine di questi ultimi, tradizionalmente immediati e incentrati sul presente. Per comprendere queste trasformazioni va valutata una serie di fattori di natura culturale, ideologica e politica che possono evolvere nel senso: a) della formazione di un impero globale; b) dell’organizzazione politica di grandi aree culturalmente omogenee; c) della ridefinizione delle funzioni dello Stato in un contesto globale. Alcune considerazioni ci possono chiarire le diverse Tendenze. 1. Per le forze che l’hanno messa in moto la globalizzazione porta i segni delle culture delle economie più avanzate nel processo di modernizzazione. Per molti aspetti, dunque, la globalizzazione diventa sinonimo occidentalizzazione, se non di una vera e propria americanizzazione (Sassen, 2000). Ha segnato finora l’estensione dell’egemonia culturale e politica degli Stati Uniti aprendo il dibattito sull’esistenza di un impero globale. La condizione di sostanziale egemonia è sostenuta dallo sviluppo della rete di comunicazione globale e dalle conquiste in campo tecnologico, che ha fatto prefigurare da McLuhan la realizzazione di un “villaggio globale”. Anche sul piano della gestione dell’economia mondiale organismi internazionali come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e l’Organizzazione mondiale del commercio sono portatori di interessi, iniziative e visioni della realtà di stampo americano. Molti sono gli esempi che confermano come le linee della politica di sviluppo gestite da questi organismi rispecchino gli interessi e le tesi degli Stati Uniti. Inoltre, come nota Saskia Sassen, il diritto commerciale globale segue sempre più quello americano, diventando una specie di jus commune incorporato esplicitamente o implicitamente nei contratti transnazionali. 2. Oltre a mutare lo Stato e il significato della sovranità, la globalizzazione cambia la struttura del potere, dando ad esso una tipica impronta economicistica e plurale. Esso, sia nella dimensione interna che internazionale, non appare più centralizzato ma si planetarizza articolandosi in rete. Non opprime più direttamente e con la forza, ma attrae, distrae e esclude. Più in particolare:

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a) Il potere politico effettivo non si concentra più solo sul governo nazionale, ma viene a dividersi tra diverse forze e agenzie nazionali, locali e transnazionali. Ovviamente i tentativi di egemonia culturale e politica a livello globale tendono a ricostituire l’unità al cospetto di tale frammentazione. b) L’idea di rappresentanza politica comincia a collocarsi oltre il singolo Stato-nazione, creando problemi di equilibrio e di peso, così come si è visto nella Commissione e nel Parlamento europeo. Peraltro la rappresentanza politica appare solo parziale rispetto alla pluralità dei centri di potere decisionali. Il “gioco dei poteri” (Poggi, 1998), che avviene al di là e al di fuori di ogni meccanismo di rappresentanza, evidenzia un deficit di democrazia. Se il potere politico rimane solo un mediatore, sarà difficile per ogni rappresentanza politica condizionare decisioni che vengono prese in altre sedi. 3. Mentre la società globale è sprovvista di una struttura di potere istituzionalizzato, questa è presente sia a livello regionale, come nel caso dell’Unione europea, sia a livello nazionale, continuando a contraddistinguere l’esistenza degli Stati. 4. Si moltiplicano le questioni transnazionali che gli Stati si trovano ad affrontare, la cui gestione non può avvenire su scala nazionale ma è collegata all’interdipendenza tra gli Stati, come la bioetica, i diritti umani, l’emigrazione, il traffico di armi e di droghe, la regolazione dei mercati finanziari. Lo sviluppo della globalizzazione influenza le relazioni fra gli Stati, contribuendo ad intensificare la loro sfera di rapporti che diventa più fitta e coinvolge un numero sempre più ampio di dimensioni. Ne consegue un mutamento nella collocazione e nella funzione dello Stato sia nei confronti dei propri cittadini, che verso gli altri Stati. Parallelamente si sta affermando l’idea di una responsabilità globale di alcuni attori politici, gli Stati Uniti in particolare, nei confronti dell’intera popolazione mondiale, che risulta fondata sulla contestazione del diritto internazionale classico, nell’ambito del quale gli unici portatori di diritti sono gli Stati. È stata così attribuita soggettività giuridica nella dimensione internazionale anche agli individui, titolari dei cosiddetti diritti umani, il cui primato sui diritti degli Stati legittimerebbe anche azioni che infrangono i tradizionali principi politici della sovranità e

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della non ingerenza. Tale prospettiva teorica ha trovato applicazione pratica nella rivendicazione del diritto di ingerenza umanitaria da parte degli Stati della Nato nella Guerra del Kosovo del 1999 e nella Guerra di Libia del 2011, nonché nel più radicale progetto di esportazione della democrazia, che si è tradotto nelle missioni internazionali per favorire il regime change in Afghanistan e in Iraq. È evidente, perciò, che molti attributi dello Stato e numerose delle nostre idee sullo Stato potrebbero conoscere in futuro una profonda rivisitazione. In primo luogo i concetti di democrazia e di rappresentanza politica potrebbero essere oggetto di dibattito, tanto da essere riadattati ad un contesto politico-sociale in mutamento. Secondo la scuola neo-marxista le trasformazioni in atto si sviluppano nel senso della costituzione di un impero, il quale però avrebbe caratteristiche diverse rispetto agli imperi del passato (v. Hardt, Negri, 2001). La nuova organizzazione politica si ergerebbe a piramide e comprenderebbe elementi distribuiti in un vasto spettro di corpi nei quali rientrerebbero tanto gli Stati-nazione, quanto le organizzazioni internazionali. Queste unità si diversificherebbero in funzione delle loro specializzazioni in istituzioni propriamente politiche o economiche, militari o sanitarie, di comunicazione o educative. La piramide immaginata da Hardt e Negri risulta suddivisa in una pluralità di livelli di potere, il cui vertice sarebbe occupato dagli Stati Uniti in virtù della loro superiorità nell’uso della forza. Michael Mann, al contrario, ha contestato l’idea del primato americano relativo alla forza militare (v. Mann, 2004), sottolineando gli elementi di debolezza che caratterizzano le pretese egemoniche americane non solo sul piano del potere militare, ma anche su quello del potere politico, economico e ideologico. A questa critica Negri e Hardt replicano sostenendo che gli Stati Uniti, sono consapevoli che un governo mondiale fondato sulla minaccia o sul ricorso alla forza comporterebbe costi economici e d’immagine troppo alti, tanto da rendere preferibile un coinvolgimento di un gruppo più ampio di attori nel processo decisionale. Essi ritengono perciò che il superpotere degli Stati Uniti sarebbe perfettamente in grado di operare da solo, ma preferisce agire in collaborazione con gli altri poteri sotto l’egida delle Nazioni Unite”. Il governo mondiale sarebbe fondato su istituzioni volte al controllo dei flussi monetari, degli scambi internazionali e delle regole di mercato, il cui orientamento sarebbe di volta in volta deciso nell’ambito di consessi come il G8 e i Clubs di Parigi, Londra e Davos in parallelo con la rete del capitalismo internazionale. In tale contesto gli Stati nazionali “agirebbero essenzialmente in veste di organizzazioni territorializzate”, svolgendo fun308

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zioni di mediazione politica nei confronti di poteri egemoni su scala mondiale e di “redistribuzione delle risorse in ordine ai bisogni biopolitici che emergono nel quadro dei loro territori”. L’insieme di centri di potere che ricomprende gli Stati-nazione costituirebbe il secondo livello della piramide, mentre il terzo sarebbe costituito da organismi rappresentativi di bisogni e istanze della società civile. Qui si riproporrebbe sotto nuovi aspetti il problema della rappresentanza. Chi rappresenterebbe, e attraverso quali meccanismi, il popolo in una costituenda costituzione globale? La risposta andrebbe ricercata nell’emergere di una varietà di organizzazioni indipendenti dagli Stati-nazione, capaci di proporsi come organi rappresentativi delle nuove istanze della società civile. “Sotto le nuove vesti globali di queste organizzazioni – scrivono Hardt e Negri – possiamo riconoscere le istanze delle componenti più tradizionali della società civile, come i media e le istituzioni religiose”. In ogni caso le più recenti e forse le più importanti tra queste sono le cosiddette organizzazioni non governative (ONG). Nell’insieme, concludono Hardt e Negri, il nuovo impero è costituito “da un equilibrio funzionale tra queste tre forme di potere: l’unità monarchica del potere con il suo monopolio globale della forza; le articolazioni dell’aristocrazia attraverso le multinazionali e gli Stati-nazione; la rappresentanza democratica dei comitia compresi negli Stati-nazione, nelle ONG, nei media e negli altri organismi popolari. Ma quale sarebbe il collante di questo nuovo mondo politico, il cui scenario funzionerebbe come se “i media, il potere militare, il governo, le multinazionali e le istituzioni finanziarie globali fossero organicamente dirette da un unico potere, anche se in realtà non è così?”. Secondo i due autori andrebbe ricercato in un’arma vecchia come il mondo, cioè la paura, che è oggi “il meccanismo primario di controllo adeguato della società dello spettacolo”. Comunicare la paura provoca un processo di assoggettamento e asservimento che rende la massa uniforme. “Nel quadro della filosofia della prima modernità, la comunicazione della paura era chiamata superstizione. In effetti, la politica della paura è sempre stata diffusa da un certo tipo di superstizione. Quello che è cambiato sono le forme e gli strumenti a disposizione della superstizione per comunicare la paura”. Nell’esperienza contemporanea la paura si generalizza e fa massa e con la paura l’individuo regredisce a livello primitivo annullando le possibilità di produrre nuove forme culturali (v. anche Mongardini, 2004). Un’altra prospettiva sulle evoluzioni in corso della politica internazionale è quella secondo cui lo sviluppo dei processi di globalizzazione 309

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porterebbe alla creazione di sfere di influenza egemoniche, tanto che i “grandi spazi” prospettati da Carl Schmitt verrebbero costruiti sotto forme politiche nuove attraverso una gerarchia di attori in rapporto funzionale con la potenza dominante che gestisce la propria zona di potere difendendola dai tentativi di ingerenza esterna. Nella propria sfera di influenza lo Statoleader imporrebbe agli Stati-satelliti l’orientamento culturale comune, così come l’ideologia, il sistema economico, il modello di organizzazione politica e giuridica, tutti caratterizzati da una portata né locale, né universale. Se queste linee di sviluppo di un nuovo assetto globale, individuate da Schmitt, dovessero realizzarsi ci troveremmo dinanzi una nuova configurazione dell’ordine internazionale e, al tempo stesso, livelli diversi di società tra i quali emergerebbero Stati con vari gradi di integrazione e di funzionalità. Ne deriverebbe un nuovo senso della politica, in cui lo Stato svolge una funzione subordinata e limitata, incentrata sulla ripartizione fra i suoi cittadini dei vantaggi derivanti dalla cooperazione comune. Nell’insieme si tratta di un processo di cambiamento che coinvolge tanto “la distribuzione globale del potere”, quanto gli ordini regionali e le istituzioni globali. Per questo, scrive Charles Kupchan, le istituzioni internazionali “che hanno retto la politica mondiale per oltre mezzo secolo stanno rapidamente diventando obsolete e di scarsa utilità. Molte di queste, globali e regionali, furono costituite nell’immediato dopoguerra. Dopo sessant’anni risultano tristemente fuori moda e si affannano per rimanere legittime ed efficaci in uno scenario globale che ha ormai pochi aspetti in comune con quello del ’45”. Lo stesso ripensamento delle organizzazioni e degli istituti della vita internazionale, come ad esempio l’Onu, potrebbe prendere forma nell’ambito di una generale ristrutturazione dell’ordine internazionale collegato ad una redistribuzione del potere su scala regionale. Nel caso dell’Europa, invece, appare evidente la necessità di rifondare il suo progetto su basi non esclusivamente economiche. Anche secondo Weber, l’unità politica nasce o da un atto di forza o da una profonda e solidale convinzione ideologica, che possiamo considerare come la continuazione della forza sul piano della cultura. Quest’ultima, che appare l’unica opzione praticabile al cospetto degli orrori del passato, rischia di rimanere incompiuta in assenza di una formula politica unificante e del consolidamento di un’identità comune che renderebbe concreta l’immagine di Ortega y Gasset del “molte api, un solo volo”. Controllo egemonico dunque o governo fondato sulla paura? Le conseguenze che questo secondo tipo di controllo totalitario genera 310

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nell’atteggiamento degli individui portano alla demolizione di ogni forma di democrazia. La democrazia della paura non è una democrazia anche se ne conserva le forme. La democrazia è critica e concorrenziale. È azione creativa rivolta al futuro, mentre la paura porta alla passività e alla rinuncia ad ogni critica anche quando si toccano i diritti più elementari degli individui e le condizioni della loro libertà. L’idea di popolo si afferma solo quando esistono le condizioni della piena libertà degli individui. Allora dal sottoposto nasce il cittadino che riconosce tutelati i suoi diritti. Se non possiamo parlare di popolo non esiste costituzione e se non c’è una costituzione non c’è democrazia nel senso moderno. Questa è il prodotto di una coscienza collettiva attraverso un lento processo di sedimentazione di un comune apparato simbolico-valoriale, cioè di una cultura che forma il substrato dell’ordinamento giuridico. Se manca questa cultura politica, cioè se manca una costituzione materiale, viene meno anche la rappresentatività della costituzione formale. È questa la critica che viene anche rivolta al processo di unificazione europeo, avviato dagli Stati nazionali presupponendo o prefigurando un popolo; scegliendo cioè un procedimento inverso a quello storicamente consolidato. Mentre non esiste un demos, cioè un popolo europeo, gli Stati presumono, continuando il volontarismo del secolo scorso, di poterlo creare. Ma il tentativo di unire le diverse etnie in un unico demos resta necessariamente astratto. Resta un’ideologia debole che si infrange sulla scarsa rappresentatività dal basso delle organizzazioni politiche europee; una scarsa rappresentatività che giustifica l’accusa più volte rivolta alla nascente Europa politica di un deficit di democrazia. Il popolo europeo resta per ora soltanto un popolo di elettori una tantum. Non esiste neppure un’opinione pubblica europea ma solo correnti di opinione che si formano su questo o quel problema. Manca per l’Europa una comunicazione pubblica, per cui i cittadini rimangono chiusi nei circuiti nazionali. Tutto questo ci permette di avanzare seri dubbi sulla formazione di una società politica europea e su un rapporto di rappresentatività democratica fra governanti e governati. Mentre i primi gestiscono i grandi interessi economici che, per principio, non conoscono la democrazia, che è solo un fatto politico, i secondi perdono il senso della vita democratica dal momento che la gestione della cosa pubblica avviene in nome della paura, o quanto meno di una astratta e intellettualistica pianificazione burocratica, si tratti della sicurezza o della sanità, dell’economia o del lavoro, della previdenza o della difesa. Quando manca un progetto di società le politiche pubbliche si frammentano e trovano la 311

Pensare la politica

loro giustificazione solo nella superstizione e nella paura, o in un astratto ordine burocratico senza nessun rapporto con la società reale: dunque nelle emozioni e nelle utopie, non certo in una consapevolezza razionale e critica rivolta verso il futuro. L’esperienza degli ultimi anni ha evidenziato, oltre ai processi di globalizzazione, anche la differenziazione funzionale di sfere di attività economica e sociale che hanno formato veri e propri mondi di esperienza, linguaggi e stili di vita, tutti fra loro interrelati in un processo oggettivo di razionalizzazione, ma che, per la vita individuale, hanno rappresentato un progressivo isolamento di senso e di significato rispetto all’essenza della società e della politica. Ciò che spesso è stata chiamata complessità non è altro che la progressiva chiusura dell’individuo in una propria sfera particolare di esperienza, sempre più lontana dalla percezione sociale della diversità di altri modi di vivere la società, privilegiando questa o quella attribuzione di senso. L’elemento unificante e induttore di condivisione, di senso e di consenso è stato visto allora nell’economico, cioè nella sfera più superficiale e materiale della vita umana. L’economico, la versione materiale della convivenza, ha alterato la dinamica delle classi, ha tradotto il sociale nel confronto tra produttori e consumatori, ha dato significato all’identità sociale in termini di lavoro, possesso di beni, tendenza egoistica all’appropriazione e disconoscimento dei diritti dell’altro. Ha trasformato il significato dello Stato in Stato del benessere e ha ridotto la politica a gestione dell’economia, fondata sulla mediazione degli interessi di parte. Così l’idea di Stato, come tradizione o come esperienza culturale comune al di sopra delle parti e dei partiti, è venuta meno. Tuttavia l’evoluzione politica degli ultimi decenni ha mostrato prima il successo e poi il degrado dell’economicismo. Ha mostrato l’impossibilità del potere, se è solo potere economico, di gestire la società e darle unificazione e senso. L’economicismo ha compiuto la sua parabola e rischia di uccidere l’economia. Abbiamo bisogno di rifondare l’idea di Stato: non lo Stato etico, non lo Stato totale, non lo Stato funzionale, ma neppure lo Stato identificato con il carabiniere e con l’agente delle tasse. Nessuna revisione della costituzione, nessuna riforma è possibile democraticamente senza tornare ad una concezione dello Stato come momento culturale che ci vede uniti in un’esperienza storica e sociale comune. L’idea di Stato è oggi sfida e compito per la cultura. Quale che sia la propria opinione politica, questa deve trovare compromessi e limiti nel fatto che la perdita dell’idea e della sensibilità per lo Stato distrugge la società attraverso conflitti sempre più radicali. Certamente, lo Stato deve rige312

Il futuro dello Stato

nerare le sue istituzioni su nuove realtà sociali e su nuove forme e nuove regole di associazione. Ma il suo futuro è legato alla ricostituzione dell’idea di Stato come principio supremo della comune convivenza, nella complessità delle sue dimensioni. Se lo Stato sopravvive alla turbolenza di questo momento storico, esso non potrà che essere il prodotto di una nuova generazione e soprattutto il risultato di una rinascita culturale in una dialettica fra ideale e reale. I “grandi spazi” creati dall’economia e dalla comunicazione sono solo un’arena di confronto e scontro di interessi. Culturalmente e politicamente sono vuoti. Sono solo una sfida nei confronti dello Stato, alla quale lo Stato deve saper rispondere, pena la sua definitiva eclissi. Le vie per una nuova forma democratica di Stato, ho scritto altrove, “ci portano a riaprire il discorso sull’essenza, il ruolo e la funzione dei progetti ideali di società” (Mongardini, 2007, p. 218). Sono questi che, possono restituire senso allo Stato, assicurare il suo futuro e la sua funzione unificatrice.

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324

Indice dei nomi

Almond G.A., 172, 315

Bonanni M. 61, 316 Bronner G. 96, 165, 316 Bull H., 301 Burdeau G., 22-25, 30, 64, 89-90, 93, 113, 122-125, 159, 187-188, 195, 197, 199, 202, 206, 215, 223-228, 234, 238, 242, 247, 249-250, 261, 265, 268-272, 289-290, 294-295, 316 Burke E. 194, 244 Burnham J. 51, 213, 317 Burns T. 105-107, 127, 246, 259-260, 317 Burzio F., 48, 212

Althusser L., 36, 315 Andreatta F., 315 Antonini E., 166, 289, 315 Arendt H., 31, 66, 78, 83, 103, 104, 165, 245, 315 Aristotele, 22, 42 Aron R., 69, 137, 212, 301, 315 Ash T.G. 192, 315 Atteslander P., 175, 203, 315

Badie B., 126, 127, 252, 315 Bagnasco A. 283, 316 Balzac H. de, 39, 78 Barbagli M., 283, 316 Bataille G., 57, 145, 316 Baudelaire C., 103 Baudrillard J., 144, 316 Bauman Z., 130, 316 Benjamin W., 103, 139, 316 Bentivegna S. 316 Bloch M., 119 Bobbio N., 41-42, 44, 48-50, 100, 133, 135, 153, 157, 162, 164, 212-214, 264, 316, 317, 323 Bodin J., 36, 42, 118 Bonanate L., 157, 302, 316

Campus D. 275, 317 Carr E., 301 Casanova J., 70, 317 Castells M. 70, 317 Catlin G.E.G., 200 Cavalli A. 283, 316 Cavalli L. 212 Cedroni L. 103-104, 134, 166, 317 Cesa M. 300-301, 317 Colliot-Thélène C., 171, 207 Colombo A. 302, 315, 317 Colozzi I. 66, 68, 317 Comte A., 219

325

Pensare la politica Freund J., 31, 36, 63-64, 67, 86, 92, 116, 124, 207, 212, 221-222, 288, 293, 318 Friedrich C., 97, 318 Fukuyama F., 302 Furet F., 140, 318

Costabile A., 276, 317 Crouch C., 154-155, 317 Curcio C., 228-230, 317

D’Amato L., 200, 317 Dahl R., 31, 214, 317 Davies D., 300 Debord G. 285, 317 Debré M., 242, De Rosa R., 280, 317 De Seta S., 197, 315, 317 Destutt de Tracy, 131 Diamanti I., 154, 318 Donati P., 245, 318 Dormagen J., 318 Dorso G., 48, 212, Douglas M., 78, 318 Durkheim E., 60, 66-68, 70, 129, 269, 316 Dumont L. 71, 72, 146, 318 Duso G., 30, 124, 318

Gellner E. 229-231, 318 Gentile E., 68-69, 318 Geertz C., 147 Gerth H., 189-190, 318 Giacomo I, 55, 118 Giddens A., 144, 318, Ginsborg P., 254, 319 Gobetti P., 48, 212-213 Gonzales A., 319 Gorz A., 77, 319 Gramsci A., 65, 211 Greven M. Th., 63, 319 Guibernau M., 228, 231, 319 Guizot F., 39

Easton D., 52

Haas E., 300 Habermas J., 179, 232-233, 249, 291, 319 Häberle P., 251, 319 Hacker K., 283, 319 Hague R., 251, 319 Hardt M., 308-309, 319 Harrop M., 259, 297, 319 Hegel G.W.F., 22, 46-47, 93, 119, 223, 234-235, 242, 244, 319 Hettlage R. 142, 319 Hirschman A. O., 71, 77, 146, 319 Hobbes T., 37, 42, 100, 300 Hobsbawm E. J., 40, 127, 160, 162, 165, 243, 252, 291-293, 319

Eliade M., 137, 318 Elias N., 13, 140, 318 Engels F., 37, 39, 131, 208, 216, 235236, 242, Eulau H., 95, 170, 179, 318

Fantozzi P., 276, 317 Ferrero G., 47-49, 56, 95-96, 100-101, 111-113, 120, 125, 187, 210-211, 249, 318 Foucault M., 165-166, 318 Fougeyrollas P., 229, 230, 318 Fichte J. G., 229 Fisichella D. 318 326

Indice dei nomi Malthus T. R., 76 Manin B. 318 Mann M., 308 Mannheim K., 132, 320 Marchetti M.C., 66, 320 Marci T. 320 Marramao G., 69, 320 Marshall T.H., 75-76, 179, 320 Marx K., 37, 39, 46-48, 70, 131, 139, 141, 208, 209, 223, 235, 242, 250 Massari O., 195-197, 201, 238, 320 Matteucci N. 316, 317, 323 Mattina L., 27, 84, 192, 320 Mayntz R., 263 Mazzoleni G., 275, 320 Merriam C.E., 51, 320 Merton R. K., 15 Michels R., 47-48, 50, 84, 96-97, 115, 185, 188, 195, 202, 210-212, 217, 321 Millioud M., 136, 321 Mills, 189-190 Montesquieu C.- L., 37, 242, 255 Mortati C. 55, 73, 169, 195, 207, 245246, 255, 257-258, 321 Mouchard D. 318 Mouffe C., 89, 92, 152, 321 Morgenthau H., 301 Mosca G., 12, 14-15, 38, 42, 44-46, 48, 50, 67, 77, 96, 107, 111, 120, 132, 162, 190, 202, 208-213, 237, 247, 260, 321, Moscovici S., 71, 131, 322

Hume D., 67 Huntington S., 117, 302 Iannone R., 263, 319

Johnson R., 65 Kaplan M., 89, 91, 94, 174, 194, 320 Katz R., 196, 319 Keller S., 214, 217, 320 Kelsen H., 29, 30, 123, 124, 224, 248 Kissinger H., 301 Koenig-Archibugi, 300, 315 Kupchan C., 310

Lacoste Y., 11, 299 Lash S., 64 Laski H.J., 160 Lasswell H. D., 51, 89, 91, 94, 118, 174 ,190, 194, 200, 213, 247, 264, 281, 320 Le Bon G., 51 Lederer E., 39, 49, 80-81, 151, 217, 238, 250, 289, 320 Le Goff J., 76, 78, 320 Legrenzi M., 133, 320 Lepenies W., 84, 85, 320 Locke J., 37 Loewenthal R., 65, 320 Löwith K. 320 Lübbe-Wolff G., 243, 320 Luigi XVI, 233 Machiavelli N., 14, 36, 42, 67-68, 103,

Natalizia G., 69, 297, 322

134, 213, 216, 300, 320 Maffesoli M., 24, 65, 70, 320 Mair P., 196, 319 Mallarmé S., 39

Negri A, 308, 309, 319 Nietzsche F., 130, 141 Noel-Baker Ph., 300

327

Pensare la politica Sani G., 273, 323 Santoro C. M., 299 Sartori G., 51, 212, 279, 280, 323 Sassen S., 127, 306, 323 Savigny von, F.K., 244 Scaglia A., 114-115, 323 Scheler M., 82 Schmitt C., 30, 40, 86, 92, 123, 207, 221222, 234, 235, 238, 243, 245, 288 301, 310, 323 Schmitter Ph., 186 Schumpeter J., 31, 51, 143, 148, 163, 113, 214 Shaw G.B., 266 Siéyès E. J., 229 Simmel G., 27-29, 39, 48, 65, 71, 77, 8081, 90-93, 97, 99, 105, 109-111, 115, 122, 211, 217-218, 237, 242, 271, 296, 323 Smith A., 67, 76 Spengler O., 65 Sola G., 28, 33, 43, 45, 48, 50-54, 97-99, 191, 196, 205, 209-212, 214, 267, 323 Sorel G., 132, 213 Sorice M. 323 Stoppino M., 212

Norris P.322 Nye J., 302

Olson M. L., 177, 184 Ortega y Gasset J., 51, 177, 310

Pacelli D. 322 Pareto V., 12, 14, 28, 45-48, 76, 92, 96, 111, 115, 132-137, 143, 159, 192, 208-216, 236-237, 260, 322 Parsi V.E. 302, 315, 322 Pasini D. 316, 322 Pasquino G., 262, 267, 316, 317 Perroux C., 256, 322 Perticone G., 40, 49-50, 81-83, 211, 212, 322 Poggi G., 105, 274, 287, 307, 322 Popitz H., 26-28, 74, 99, 101-103, 212, 269, 322 Portinaro P., 48, 212, 243, 322 Pulcini E., 322

Rancière J., 86 Raniolo F., 180, 186, 193, 322 Rehberg K.-S., 66, 243, 322 Reinhard W., 35, 40, 154, 229, 233-234, 236-241, 268, 272, 291-293, 323 Renan E., 229 Ricardo D., 76 Rodotà S. 323 Rosanvallon P., 12-13, 121, 123, 125, 138, 154-156, 160,170, 171, 173, 199, 323 Rusconi G.E, 24, 323

Taguieff P.-A., 63, 147, 323, 324 Talleyrand C. M., 70, 112, 193 Taine H., 39, 46, 50, 135, 162, 209, 212, 244, 324 Thompson J. B., 92, 324 Toennies F., 294-295, 324 Tocqueville A. de, 39, 46, 134-135, 158, 162, 166, 209, 324 Touchard J., 36, 324, Touraine A., 76, 158, 324

Saint Simon H. de, 11, 42, 46, 99, 209,

234, 236, Salvati M. 323

328

Indice dei nomi

Wallerstein I., 164, 324

Triulzi U. 324 Truman D.B., 42, 324 Tucidide, 300 Turi P., 276, 317

Waltz K., 302 Weber M., 14, 26, 28, 30, 37-39, 47, 50, 64, 75, 80, 90-91, 97-100, 109, 114-115, 122-123, 134, 158, 172, 188-189, 195-196, 204, 205, 212, 310, 324 Weil S. 324 Wieviorka M., 99, 324 Wight M., 301 Wilson W., 300 Wright Mills C., 51, 213-214, 318, 324

Urbinati N., 154, 200, 206, 227, 324 Valery P., 137, 324 Valitutti S. 320 Van Dijk J., 283, 319 Verba S., 172, 315 Vidal E., 11, 42, 46, 324 Voegelin E., 24, 119

Zimmerm A., 300

329

Pensare la politica

330