Passeggiando per New York. Scritti sull'architettura della città 887989577X, 9788879895774

Critico architettonico del ""New Yorker"", il settimanale che ha ospitato per trent'anni le pag

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Italian Pages 270 [282] Year 2000

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Passeggiando per New York. Scritti sull'architettura della città
 887989577X, 9788879895774

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Edizione originale: Sidewalk Critic. Lewis Mumford’s Writings on New York, edited by Robert Wojtowicz © 1998 Princeton Architectural Press Gli articoli di «The New Yorker» sono pubblicati con il permesso della rivista

© 1998 The New Yorker Magazine, Inc.

La traduzione del Prologo è di Bianca Lazzaro e Elena Marchigiani; la traduzione degli articoli 1931-1935 è di Elena Marchigiani; la traduzione degli articoli 1936-1940 è di Bianca Lazzaro

© 2000 Donzelli editore, Roma Via Mentana 2b INTERNET www.donzelli.it E-MAIL [email protected] ISBN 88-7989-577-X

Lewis Mumford

PASSEGGIANDO PER NEW YORK

Scritti sull’architettura della città

Edizione italiana a cura di Elena Marchigiani

Traduzione di Bianca Lazzaro e Elena Marchigiani Presentazione di Paola Di Biagi

DONZELLI EDITORE

PASSEGGIANDO PER NEW YORK

Indice

p.

IX

Presentazione di Paola Di Biagi

XV

Introduzione di Elena Marchigiani

3

Prologo

5 Un’infanzia newyorkese. 13

Ta-Ra-Ra-Boom-De-Ay Un’adolescenza newyorkese. Tennis, equazioni e amore

27 1931-32 29

Musica congelata o statica solidificata. Riflessioni su Radio City

36 Ponti ed edifici 40 L’ospedale moderno

43 Dal Palazzo dei Papi. Il ritorno alla sobrietà del fronte 46 Architettura inconsapevole 49

a sbalzo

Architettura organica

52 Un sopravvissuto dei Brown Decades. De Mortuu. Quel che avrebbe

potuto essere 55 Medaglie e menzioni 58 Come fare un museo. Una torre post-boom. Il ristorante moderno 61

1932-33 torri. Il nuovo architetto Dalla lavanderia all’architettura La collezione Rockefeller Due teatri Gli architetti mostrano le loro mercanzie Americani primitivi. Ben Shahn e Tom Mooney. Il dipinto murale di Diego Rivera Grattacieli e case d’affitto

63 Serbatoi del gas e 67 70 73

75 77

80

V

Mumford, Passeggiando per New York 83

1933-34

Oblò sull’Avenue. Banchieri e pesci rossi Center di Mr. Rockefeller La tavola calda di New York 91 85

88 Il

95

1934-35

97 A proposito di un inceneritore. Case in arenaria rinnovate 101 A proposito di Foley Square 105 Il Design moderno e il nuovo Bryant Park 109 Meditazioni su uno zoo

sale da cocktail città di Wright. La dignità del centro degli affari

113 Bar e 116 La

121

1935-36

Serragli e moli Un parco con una veduta. Mr. Le Corbusier. Indiani e piatti da portata 131 Le nuove abitazioni 136 Case ed Esposizioni 123

127

141

1936-37

143

Parchi e aree per l’infanzia. Nuovi edifici al posto dei vecchi

148 Edifici e libri 152 L’Esposizione Universale

157 Ponti 163

e spiagge

1937-38

165 Giardini e

vetro

170 Nuove facciate

bene comune A casa, dentro e fuori 182 Il nuovo ordine 186 Pax in urbe

175 Per il 179

191

1938-39

un teatro La tradizione americana 201 Pene crescenti. Il nuovo museo 207 L’ovest è ad est 193 Bauhaus. Due ristoranti e

197

VI

______________________ Indice_______________________________ 215

1939-40

217 Le abitazioni moderne dalla A alla X 222 Milioni in mausolei

masse Il Rockefeller Center rivisitato

226 Versailles per le 231

235 Indice dei nomi e dei luoghi

Indice delle illustrazioni fuori testo (tra le pagine 100 e 101) 1 Radio City Music Hall 2 Bryant Park

3 Foley Square 4 Triborough Bridge 5 Castle Village 6 Harlem Houses 7 Cornell Medical Centre

8 Esposizione Universale 9 General Motors Futurama 10 Rockefeller Center 11

RCA

Building

VII

PASSEGGIANDO PER NEW YORK

Presentazione di Paola Di Biagi

«L’architettura si cammina», afferma Le Corbusier nel suo Entretien con gli studenti delle scuole di architettura del 1943; ed è precisamente camminando che Lewis Mumford racconta, quasi in tempo rea­ le, dalle pagine del «New Yorker» le rapide trasformazioni del volto della metropoh americana, tra il 1931 e il 1940. La città viene presto identificata da Mumford come il centro ne­ vralgico della sua vita, oltre che del suo tempo. Dall’insieme di scritti apparsi sulla rivista e qui raccolti, New York ci viene innanzitutto pro­ posta come lo scenario di quel breve ma irresistibile romanzo di for­ mazione nel quale la città viene retrospettivamente raccontata attra­ verso gli occhi di un Mumford prima bambino e poi adolescente, e che via via fa esperienza della metropoli (si tratta dei due articoli, Infanzia newyorkese. Ta-Ra-Ra-Boom-De-Ay e Adolescenza newyorkese. Ten­ nis, equazioni e amore, qui raccolti nel Prologo). Anche questo libro, dunque, come l’altro suo più organico e famoso, The City in History (1961), si apre su «una città che era simbolicamente un mondo». Negli anni della maturità, New York diventerà per Mumford lo scenario di successive e più strutturate «passeggiate» architettoniche, filtrate attraverso gli occhi dell’ormai affermato critico di architettura e di urbanistica, in un’attività densa e sistematica, che sarà svolta dalle pagine del «New Yorker», ma anche di altre riviste, come il «Journal of the American Institute of Architecture», «Landscape», o la «Socio­ logical Review». In questa attività di minuto recensore, secondo Fran^oise Choay, Mumford darà il meglio di sé, trovando una misura critica destinata ad avere una fortissima influenza negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni; una misura persino più forte del suo intero lavoro di urbanista e di scrittore. Nelle cronache degli anni trenta qui raccolte, il Mumford dei gran­ di affreschi storiografici, l’autore delle storie della civiltà industriale, ix

Mumford, Passeggiando per New York_____ .__________

della città, dell’urbanistica, dell’utopia lascia il passo all’osservatore puntuale, che parla della città per frammenti: nuclei edilizi, edifici, piazze, giardini, ponti, moli, negozi, banche, ristoranti, bar, parchi, sa­ le da cocktail, zoo, lavanderie, musei. E i commenti riguardano tutti gli elementi del progetto: forme, proporzioni, materiali, dettagli costrut­ tivi, distribuzioni interne, sistemi di illuminazione, decorazioni, arre­ di, tappezzerie, ornamenti. Per il successivo Mumford urbanista e storiografo, l’insieme di questi editoriali - con le due altre raccolte From the Ground Up: Ob­ servations on Contemporary Architecture, Housing, Highway Buil­ ding, and Civic Design del 1947 e The Highway and the City del 1963 - sembra configurarsi quasi come un importante passo verso la scrittura di un’autobiografia scientifica. Da un iniziale accento sulle forme della sua città, l’interesse si sposta verso i grandi temi sociali, ur­ bani e territoriali, mostrando un modo di osservare lo spazio che dal visibile procede verso le complesse relazioni che lo originano e confi­ gurano, e dal particolare si allarga al generale. Non solo: questa esperienza di editorialista e critico che osserva senza mediazioni la città, che commenta ciò che vede e dunque parla solo di ciò che conosce direttamente, avrà influenza poi sul suo modo di lavorare. «Il mio metodo esige esperienze e osservazioni personali, cose che i libri non possono sostituire», scriverà nella prefazione a The City in History. Proseguiva Le Corbusier nel 1943: «L’architettura [...] non è affat­ to [...] quell’illusione tutta grafica organizzata intorno ad un punto centrale astratto che pretenderebbe essere l’uomo, un uomo chimeri­ co, munito di un occhio di mosca e la cui visione sarebbe simultanea­ mente circolare. Quest’uomo non esiste [...]. Il nostro uomo è, al con­ trario, munito di due occhi posti davanti a lui, a metri 1,60 al di sopra del suolo e che guarda in avanti. [...] Munito dei suoi due occhi e guardando davanti a sé, il nostro uomo cammina, si sposta, dedito al­ le sue occupazioni, registrando così lo svolgersi dei fatti ardii tettonici che appaiono di seguito, uno dopo l’altro. Ne prova il turbamento che è frutto delle commozioni successive [...] Alla prova le architetture si classificano in morte e vive, a seconda che la regola del camminare non sia stata osservata, o al contrario, sia stata sfruttata brillantemente». Le rapide cronache di questo libro ci lasciano immaginare un Mumford che si aggira per le strade di New York, e che nel frattempo guarda, osserva e annota puntigliosamente le trasformazioni dello spa­ zio urbano; il suo sguardo è rivolto in avanti, ma anche verso l’alto e

____________________________ Presentazione____________________________

verso l’interno di ciò che è immediatamente visibile, il costruito. La «regola del camminare» sembra essere qui assai brillantemente appli­ cata dal critico e urbanista americano. È evidente da questi scritti che per Mumford l’architettura non è af­ fatto «quell’illusione tutta grafica» di cui parla «il signor Le Corbusier» (l’architetto europeo che, per quanto da lui non amato, certamente su questi temi non gli era così distante). Egli commenta moltissime archi­ tetture realizzate al suolo, e poche disegnate sulla carta. È proprio sulla strada, vale a dire sul campo, che egli esamina e commenta gli esiti dei progetti degli architetti, degli ingegneri e dei developers newyorkesi. Attraverso le sue cronache architettoniche, che si dispiegano nel tempo con stile rapido, acuto, ironico e talvolta sarcastico, o addirittu­ ra esilarante e che mettono in luce le qualità di un vero scrittore, egli descrive ed analizza con precisione tecnica i cambiamenti di una «città che sale» e si modifica «più rapidamente del dissolversi della schiuma sulla birra». Segnala e denuncia senza mezzi termini gli errori, i mi­ sfatti, le occasioni perdute dell’architettura a lui contemporanea: il sovradimensionamento, l’eccesso di ornamento, le esposizioni e gli orientamenti sbagliati, le altezze eccessive, l’assenza di decisione e chiarezza nell’applicazione dei principi dell’architettura moderna (so­ le, aria, luce, spazio,...), la mancanza di «un chiaro senso organico del­ l’ordine», le densità elevate, i falsi modernismi; ma le sue critiche giun­ gono anche ai dettagli degli arredi, dei colori, delle decorazioni. Mumford pensa al ruolo del critico principalmente come a quello del polemista, e alla sua rubrica come a una finestra su una città coin­ volta da una crescita e da un tipo di trasformazione che egli non con­ divide, e che intende seguire e denunciare col piglio aggressivo del cro­ nista. I suoi giudizi sono talvolta molto radicali; frasi come «la gran parte della città è attualmente obsoleta rispetto ai sia pur minimi stan­ dard di salute e bellezza. Perché non spazzarla via e rincominciare da capo?», oppure «sarebbe un grave colpo per l’orgoglio di un newyorkese accorgersi che nessuna delle cose importanti avvenute nell’ambito dell’architettura moderna abbia avuto luogo qui», si in­ contrano frequentemente lungo la lettura. Di conseguenza spesso assai duri sono i suoi giudizi verso architet­ ti, amministratori, operatori economici. Non vi è mai ombra di piag­ geria nei loro confronti, al contrario, è spesso implacabile: «Quando gli architetti impareranno che se uno si volesse ricordare costantemen­ te della loro presenza, gli manderebbe un invito personale perché si unissero alla festa?». XI

_______ ’_____ ___Mumford, Passeggiando per New York

Cronaca dopo cronaca, attraverso «analisi tecnicamente pertinenti» sembra emergere una sua idea di spazio abitabile, descritto e concettualizzato dall’esterno verso l’interno e poi ancora, dall’interno verso l’esterno, mostrando di aver ben compreso il principio di «continuità di interno ed esterno nel progetto moderno». Mumford esprime un’i­ dea di spazio a tutto tondo. Non solo parla di ciò che vede dai mar­ ciapiedi di New York - gli edifici e gli spazi aperti, i loro rapporti re­ ciproci, le facciate - ma guarda dentro gli organismi architettonici, fi­ no ai particolari più piccoli e apparentemente trascurabili. A partire dalla sua idea di spazio abitabile e di città come bene col­ lettivo, egli illustra gli errori e le occasione mancate, senza mai rinun­ ciare a dire come si sarebbe potuto fare. In tal modo prende forma, e si fa strada via via in questi scritti, un repertorio di regole, una sorta di ma­ nuale implicito della buona progettazione architettonica e urbanistica. L’idea di modernità che Mumford riecheggia riprende i grandi te­ mi dell’architettura del movimento moderno; il suo pensiero organicista e comunitario coabita col razionalismo di derivazione europea, che egli dimostra di conoscere molto bene. I riferimenti positivi sono a Frank Lloyd Wright (definito «il più grande architetto vivente al mon­ do»), ma anche all’olandese Jacobus Johannes Pieter Oud, o alle espe­ rienze del Werkbund o del Bauhaus. Significativamente questo libro viene offerto ora al pubblico italia­ no dallo stesso editore che già nel 1997 aveva riproposto un altro testo mumfordiano, La storia dell’utopia. La significatività è accentuata dai dieci anni trascorsi dalla morte di Lewis Mumford e dalla concomitan­ za con l’«anno olivettiano» che ricorderà, a cento anni dalla nascita, Adriano Olivetti e l’importanza che l’utopia dell’industriale di Ivrea ha avuto per la cultura tecnica e politica del nostro paese. Ed è proprio ad Adriano Olivetti che si deve la conoscenza e l’influenza di Mumford nell’Italia degli anni cinquanta: un iniziale testo in lingua italiana, Pia­ nificazione per le diverse fasi della vita, venne pubblicato nel 1949 sul primo numero del dopoguerra di «Urbanistica», la rivista dell’istituto nazionale di urbanistica, da lui diretta; The Culture of Cities, venne tra­ dotto e pubblicato nel 1953 dalle edizioni di Comunità, per volontà dello stesso Adriano. Passeggiando per New York esce inoltre a pochi mesi di distanza da una riedizione de La cultura della città, da parte del­ le edizioni di Comunità e a pochi anni dalla pubblicazione del libro Al­ le radici della città contemporanea. Il pensiero di Lewis Mumford, do­ ve si trovano raccolti i risultati dei lavori della giornata di studio a lui dedicata dalla Facoltà di architettura di Firenze. XII

___________________________ Presentazione____________________________

Questa nuova attenzione italiana a Mumford, segnala un ritorno di interesse, da una nuova distanza critica, verso un maestro dell’urbani­ stica moderna. Mumford nel nostro paese è sempre stato oggetto di giudizi ambigui: mai completamente accettato e mai radicalmente cri­ ticato. È questo forse il destino di un grande studioso e di un grande scrittore, che usa il proprio sapere per cercare di migliorare il mondo: quello che un tempo si indicava con i termini di intellettuale «militan­ te». E al di là dell’adesione a tutte le sue posizioni e a tutti i suoi giu­ dizi, è questa la lezione principale che questi brevi saggi ci offrono: il non voler mai rinunciare all’impegno, pur se espresso con leggerezza e ironia, che giustifica e legittima il mestiere di un intellettuale e in par­ ticolare quello di un urbanista. P. D. B.

Venezia, novembre 2000

xni

._______________ PASSEGGIANDO PER NEW YORK

Introduzione di Elena Marchigiani

Lewis Mumford (Flushing, New York, 1895-Amenia, New York, 1990) collaborò con la rivista «New Yorker» per un lunghissimo pe­ riodo, compreso tra il 1931 e il 1963. Passeggiando per New York rac­ coglie una selezione degli articoli scritti nel primo decennio di colla­ borazione, e cioè tra il 1931 e il 1940. La gran parte di essi furono pub­ blicati sotto le rubriche «The Sky Line» e «The Art Galleries»'. La se­ lezione spazia attraverso una serie vastissima di argomenti e personag­ gi che, nel loro insieme, ricostruiscono non solo un affresco vivido del dibattito architettonico e artistico newyorkese di quegli anni, ma che accompagnano il lettore in una piacevolissima visita della città. È stato solo dopo la morte dell’autore che il tono sarcastico e pun­ gente di questi scritti è tornato a farsi sentire. Nel 1990 Sophia Mumford (1899-1997) inviò alla University of Pennsylvania una ven­ tina di articoli prodotti dal marito per il «New Yorker» tra gli anni trenta e gli anni cinquanta, che aveva ritrovato tra le carte di Mumford, raccolti in una cartellina con un breve appunto manoscritto. Nei con­ fronti di tali contributi l’autore - non ritenendone forse il tono abba­ stanza universale - sembra avere un atteggiamento più combattuto. Dall’appunto risulta infatti che Mumford aveva considerato, nel 1953, l’eventualità di una pubblicazione di questi articoli in volume: ma, do­ po la loro raccolta e la loro «revisione critica», egli giunse alla conclu­ sione che fosse meglio lasciarli da parte, almeno fino alla pubblicazio­ ne di «uno altro paio di libri che non siano di architettura»2. Tra la fine ' La cura della rubrica «The Art Galleries» è di un anno successiva a quella di «The Sky Lines». Quando nel 1932 Mumford riceve tale incarico, il «New Yorker» gli assegna anche quello per collaborare ad altre rubriche: «Goings-On About Town», dedicata alla recensio­ ne settimanale degli eventi culturali in città, e «Talk of the Town». 1 Lewis Mumford, 29 Dicembre 1953 (nota introduttiva parte dei materiali inviati da Sophia Mumford alla University of Pennsylvania, collezione Mumford Papers). Cfr. oltre, p. 2.

XV

Mumford, Passeggiando per New York

degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta Mumford stesso aveva già curato la ripubblicazione della maggior parte degli Sky Lines del do­ poguerra. Nell’introduzione al primo dei due volumi, dedicato princi­ palmente alla trattazione di grandi progetti riguardanti «architettura contemporanea, edilizia abitativa, costruzione di autostrade e disegno urbano»3, l’autore aveva osservato: Sebbene queste recensioni si limitino a New York, i temi che esse solleva­ no sono universali; e dalla comprensione di questi temi da parte del cittadino ordinario, così come dell’architetto, del costruttore, dell’amministratore mu­ nicipale, del finanziatore dipende la salute della nostra intera civiltà.

E aveva aggiunto ancora: Nel consentire di mettere insieme questi pezzi ho fatto una rigorosa sele­ zione, passando sopra le critiche di interesse puramente locale, e consegnando di buon grado all’oblio tutti i miei contributi tra il 1932 e il 1947.

Ma la cartella raccolta nel 1953 e rinvenuta nel 1990 rilanciò l’idea di una pubblicazione degli scritti degli anni trenta. Robert Wojtowicz si assunse l’incarico di curarne la raccolta in un volume'1, ampliando la selezione degli scritti, oltre che agli Sky Lines, ad alcune Art Galleries e ai due testi autobiografici, pubblicati fuori rubrica e raccolti qui in apertura. Allo stesso tempo, Wojtowicz decise di limitare la raccolta al decennio 1930-1939, espungendo i pezzi che riguardavano il periodo successivo, che in parte erano già stati ripubblicati. La presente edi­ zione è stata condotta sul volume curato da Robert Wojtowicz, ed è ad esso largamente debitrice. Sicuramente combattuta fu la gestazione degli articoli qui presen­ tati, come dimostra la corrispondenza con la redazione del «New Yorker», solo di recente resa disponibile presso la New York Public Library5.

1 L. Mumford, From the Ground Up: Observations on Contemporary Architecture, Housing, Highway Building, and Civic Design (1947), Harcourt, Brace and Company, New York 1956. Il secondo volume è L. Mumford, The Highway and the City, Harcourt, Brace and World, New York 1963. ' Sidewalk Critic. Lewis Mumford’s Writings on New York, a cura di R. Wojtowicz, Princeton Architectural Press, New York 1998. Le citazioni dai documenti conservati pres­ so l’University of Pennsylvania e la New York Public Library sono tratte dall’introduzione a questo testo. ’ Gli scritti di Mumford sono stati depositati nella sezione Special Collections della Van Pelt Library, University of Pennsylvania {Mumford Papers)-, le carte relative al «New Yorker» sono raccolte nella sezione Manuscripts and Archives della New York Public Li­ brary {New Yorker Papers).

XVI

___________________________ Introduzione____________________________

Mumford entra a far parte della testata nell’autunno del 1931, in so­ stituzione del più conservatore George S. Chappell che aveva firmato i suoi contributi con lo pseudonimo T-Square. A quel tempo ha già raggiunto una certa notorietà scrivendo su altre riviste e dando prova non solo della propria competenza e capacità analitica, ma di uno stile accessibile e brillante. Dopo aver letto la recensione al Rockefeller Center («il più triste fallimento in fatto di immaginazione e intelligen­ za dell’architettura moderna americana») sulle pagine di «New Repu­ blic»*, Harold Ross, lo scomodo direttore del «New Yorker», invita Mumford a scrivere per il suo giornale. Dopo un mese di intenso rap­ porto epistolare, durante il quale Mumford cerca più volte di sottrarsi all’offerta, proponendo anche come sostituto la collega alla Regional Planning Association of America (e sua compagna di allora) Catheri­ ne Bauer, alla fine di maggio del 1931 egli invia il primo Sky Line di questa raccolta: Frozen Music or Solidified Static? Reflections on Radio City. Il suo invito alla redazione è di «consultare un avvocato», dal momento che «vincere una causa può essere tanto dolorosamente co­ stoso quanto perderla»7. Molte sono del resto le lamentele da parte di architetti e associazioni cittadine che malauguratamente si trovano ad essere bersaglio di questi scritti. «Il guaio con il signor Mumford è che nessuno sa cosa voglia», si lamenta con il direttore un diretto interes­ sato8. E, dopo avere recensito il George Washington Bridge e il Cor­ nell Medical Centre tra novembre e dicembre del 1931, Mumford sem­ bra quasi chiedere a Ross una definitiva conferma: «spero che la mia abitudine di trattare gli edifici con un respiro maggiore di quello di TSquare non sia in conflitto con qualche sacra politica editoriale»’. Tra il 1932 e il 1934 la crisi del mercato immobiliare conosce un drastico peggioramento, ritardando l’inizio dei grandi progetti di opere pub­ bliche. Le recensioni di Mumford di questo periodo riguardano perciò principalmente architetture minori, ristrutturazioni, esposizioni di ar­ chitettura ed arte, libri. Ma già nei primi anni successivi, con la ripresi economica e lo stabilizzarsi dello scenario politico, l’attenzione del­ l’autore può tornare a rivolgersi a interventi di più ampia scala e di1*3 1L. Mumford, Notes on Modem Architetture, in «New Republic», 66, 18 marzo 1931. 7 Lettera di Mumford a Gibbs, 11 giugno 1931, New Yorker Papers, box 160. Wocott Gibbs è l’assistente redattore del «New Yorker». 3 «Commissioner Post», citato in una lettera da Ross a Mumford, 20 dicembre 1935, Mumford Papers, folder 3580. Post faceva parte della New York City Housing Authority, il cui intervento First Houses è attaccato da Mumford in Le nuove abitazioni; cfr. oltre, pp. 131 sgg.

XVII

Mumford, Passeggiando per New York

maggiore rilevanza per la trasformazione della città. Nella sua autobio­ grafia Mumford parla degli scritti per The Sky Line come di un eserci­ zio comunque utile. Si tratta di «articoli elementari e brevi [...]. Ma es­ si hanno messo alla prova la mia competenza critica: se potevo dare un giudizio estetico discriminante sul progetto di una moderna tavola cal­ da, potevo forse trattare di Michelangelo o di Le Corbusier!»10. Ma perché, in definitiva, Mumford sembra essere così combattuto riguardo al ruolo di critico di quell’architettura contemporanea che, an­ che col suo carattere ordinario, tanto contribuisce alla costruzione del profilo della grande città? Probabilmente per un generalist, come lui stesso amava definirsi, questi panni erano un po’ troppo stretti. Allo stesso modo del suo «maestro», il biologo, sociologo e urbanista scoz­ zese Patrick Geddes", Mumford si oppone alla costruzione di barriere disciplinari imposta dalla formazione accademica, nel nome di un ap­ proccio integrato alla conoscenza. Il suo iter scolastico, frammentario e interrotto prima di conseguire la laurea, rispecchia questa concezione. Compiuti gli studi superiori alla Stuyvesant School, una scuola di indi­ rizzo tecnico-scientifico, Mumford si iscrive al New York City Colle­ ge nell’autunno del 1912 con l’intento di maturare un Ph.D in filosofia; ma nel frattempo frequenta anche un corso di biologia, grazie al quale viene a conoscenza degli scritti di Geddes. L’affievolirsi dell’interesse e le precarie condizioni di salute gli impongono di ritirarsi nel 1915. Il che gli consente di continuare ad avere un atteggiamento «ameboide»12 ed autodidatta nei confronti dello studio, che lo porterà ad avvicinarsi ad una enorme quantità di letture differenti, da Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau a Walt Whitman, da William James a Bernard ’ Lettera di Mumford a Ross, 28 novembre 1931, New Yorker Papers, box 12. '° L. Mumford, Sketches From Life: The Autobiography of Lewis Mumford, The Early Years, Dial Press, New York 1982, pp. 442-3. Oltre a questa autobiografia, Mumford ha scritto due altri Ebri di memorie: Findings and Keepings: Analects for an Autobiography, Harcourt Brace Jovanovich, New York-London 1975; My Works and Days: A Personal Ch­ ronicle, Harcourt Brace Jovanovich, New York-London 1979. L’unica biografia completa di questo autore oggi disponibile è D. L. Miller, Lewis Mumford: A Life, Weidenfeld and Ni­ cholson, New York 1989. " Mumford e Geddes si incontrano solo in due occasioni: nel 1923 quando Geddes tie­ ne un corso di lezioni alla New School for Social Research a New York; nel 1925 quando Mumford visita Geddes a Edimburgo. La restituzione di gran parte della corrispondenza quasi ventennale, dal 1917 fino alla morte di Geddes nel 1932, è in Lewis Mumford and Pa­ trick Geddes. The Correspondence, a cura di E G. Novack Jr., Routledge, London-New York 1995. DegE incontri e allontanamenti tra i due autori tratta G. Ferraro, L’uovo del cu­ culo. Geddes e Mumford, in Alle radici della città contemporanea. Il pensiero di Lewis Mumford, a cura di E Ventura, CittàStudiEdizioni, Milano 1997 (il testo riporta gb esiti del­ la giornata internazionale di studio dedicata a Lewis Mumford nel centenario della sua na­ scita, presso la Facoltà di Architettura di Firenze, 11 dicembre 1995).

XVIII

_ ________________________ _ Introduzione___________________________

Shaw, da H. G. Wells a Petr Kropotkin, da John Ruskin e William Mor­ ris a Ebenezer Howard, da Thorstein Vebler a a Werner Sombart. Per Mumford in definitiva l’architettura sembra essere solo uno degli aspet­ ti in cui si invera la cultura delle città. Cultura che, per essere compre­ sa, necessita di una costante migrazione tra differenti saperi e di una continua rilettura di quello che, riprendendo le parole del critico lette­ rario Van Wyck Brooks”, Mumford definisce usable past, un passato utile alla comprensione del presente e al progetto del futuro. È in que­ sta luce che può forse essere interpretato il senso di alcune opere pro­ dotte tra gli anni venti e trenta, dedicate a quella che potrebbe essere de­ finita una storia sociale dell’architettura, delle arti e della letteratura americane, quali Stick and Stones™, The Golden Day'f Hermann Melville'1’, The Brown Decades'7, unitamente all’insieme dei contributi pub­ blicati nello stesso periodo su numerosi giornali e riviste nazionali e in­ ternazionali riguardanti molteplici argomenti, dalla sociologia, all’ar­ chitettura e all’arte, alla pianificazione18. Ma gli scritti su cui Mumford ripone le sue crescenti ambizioni intellettuali sono quelli che configu­ rano il ciclo The Renewal of Life'9, un ciclo che ripercorre, assumendo una chiave di lettura evolutiva, il tragitto compiuto dalla civiltà occi­ dentale. In questa monumentale opera, che aspira alla fama di quella di un illustre predecessore, Oswald Spengler20, l’autore sintetizza all’in-11 11L. Mumford, Un'adolescenza newyorkese: tennis, equazioni e amore-, cfr. oltre, pp. 13 sgg. 11 Mumford entra in contatto con Van Wyck Brooks frequentando la redazione di «The Freeman»: R. E. Spiller (a cura di), The Van Wyck Brooks-Lewis Mumford Letters. The Re­ cord of a Literary Friendship, 1921-1963, Dutton, New York 1970. ” L. Mumford, Stick and Stones: A Study of American Architecture and Civilization, Boni and Liveright, New York 1924. L. Mumford, The Golden Day: A Study in American Experience and Culture, Boni and Liveright, New York 1926. 11 L. Mumford, Herman Melville, Harcourt, Brace and Company, New York 1929. ” L. Mumford, The Brown Decades: A Study of the Arts in America, 1863-1895, Har­ court, Brace and Company, New York 1931. " Dalla metà degli anni venti Mumford collabora con «Diai» e «Sociological Review» (nel 1920 è a Londra su invito di Victor Branford, insieme a Geddes l’esponente più signifi­ cativo della Le Play Society; Branford è tra i fondatori della Sociological Society, di cui la ri­ vista è l’organo di diffusione); lavora regolarmente per «Freeman», «New Republic», «Jour­ nal of American Institute of Architects» e «American Mercury». In particolare, sui rappor­ ti con la Le Play Society: G. Corsani, Lewis Mumford e la «Le Play House», in Alle radici della città contemporanea. Il pensiero di Lewis Mumford cit. ■’ Il ciclo comprende quattro testi pubblicati da Harcourt, Brace and Company, New York: Technics and Civilization, 1934; The Culture of Cities, 1938 (la traduzione del testo è stata di recente riedita: La cultura delle città, a cura di M. Rosso e P. Scrivano, Edizioni di Comunità, Milano, 1999); The Condition of Man, 1944; The Conduct of Life, 1951. 10 O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes, C. H. Beck’sche Verlagsbuchlandlung, Munchen 1923; l’opera è tradotta in America nel 1928 (trad. it. Il tramonto dell’occidente, Longanesi, Milano 1978 e Guanda, Parma 1995).

XIX

Mumford, Passeggiando per New York

terno di una concezione organica, un’ampia varietà di temi e spunti di riflessione, trattando il ruolo assunto dalla tecnica e dalle forme di ur­ banizzazione in riferimento alle fasi dello sviluppo umano nel corso della sua storia millenaria. In questi studi l’architettura rimane sullo sfondo, come tema unificante e allo stesso tempo come banco di pro­ va per indagare l’integrazione tra forma e funzione che Mumford ri­ cerca anche all’interno della città e della civiltà contemporanee. Alla luce di tutto ciò diventa forse più comprensibile la lettura problemati­ ca che Mumford fa di se stesso come critico d’arte e di architettura, ruolo che preferisce sacrificare a quello di filosofo sociale della cultu­ ra urbana, che all’inizio degli anni cinquanta ha ormai chiaramente cercato di rivestire, e che dieci anni più tardi troverà riscontro nel suc­ cesso della sua opera più famosa, The City in History2'. Di fatto, però, quando scrive sulle pagine del «New Yorker», più che i panni del professionista d’arte e d’architettura, Mumford indos­ sa quelli del sidewalk critic, del critico del marciapiede. Un ruolo che forse non contrasta così radicalmente con la definizione di generalist, né con quella dii filosofo sociale. Il punto di vista che cerca di assumere è quello di un cittadino ben informato, che associa alle doti del writer la pratica del walking. Se nei testi epici di storia della città Mumford fa confluire l’esito delle sue in­ stancabili letture bibliografiche, sulle pagine del «New Yorker» resti­ tuisce un’altra enciclopedia, quella derivante dalle sue ugualmente in­ faticabili peregrinazioni per New York. E questa seconda operazione è intesa come del tutto complementare alla prima, dal momento che nella prefazione all’edizione riveduta di The Culture of Cities, sottoli­ neando il debito verso Geddes, padre della moderna survey, l’autore può affermare: Come i miei numerosi scritti sull’architettura, il problema delle abitazioni, i «piani regolatori» comunitari, e lo sviluppo regionale, lo studio presente si basa soprattutto su indagini di prima mano, condotte in varie c diverse regio­ ni a cominciare da un dettagliato studio della mia propria città e regione - New York e il suo immediato retroterra.

Per Mumford, in definitiva, come già per Geddes, le pratiche dello scrivere e del camminare sono strumenti fondamentali per la progetta­ zione della città e del territorio, da un lato, e per la costruzione di una a' L. Mumford, The City in History. Its Origins, Its Transformations, and Its Prospects, Harcourt, Brace and Company, New York 1961 (trad. it. La atta nella storia, Tascabili Bom­ piani, Milano 1985, 3 voli.).

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teoria empirica volta ad interpretare le trasformazioni in atto, dall’al­ tro22. Mentre scrive gli Sky Lines non solo è impegnato nella costru­ zione del suo edificio teorico, ma è concretamente presente sulla sce­ na architettonica e urbanistica. Proprio l’interesse per New York e la regione circostante può essere interpretato come uno dei motivi che hanno spinto nel 1923 Mumford a sostenere la fondazione della Re­ gional Planning Association of America, un’istituzione dedicata allo studio e all’elaborazione di proposte di pianificazione25. Mentre l’at­ tenzione per forme innovative di edilizia abitativa si traduce nella sua partecipazione, in qualità di consulente, all’organizzazione di mostre ed esposizioni24. 21 Geddes, maestro nell’«arte di guardare », usa di frequente parole che rimandano alla me­ tafora della città come libro da leggere (reading, deciphering} e come labirinto all’interno del quale si è guidati dallo sguardo (outlook) c si procede camminando (walking) (G. Ferraro, Rie­ ducazione alla speranza. Patrick Geddes Planner in India, 1914-1924, Jaca Book, Milano 1998). «E dovete camminare come il cammello, l’unico animale, come si dice, che rumina men­ tre cammina. Un viaggiatore una volta chiese alla domestica di Wordsworth di mostrargli lo studio del suo padrone, e lei rispose: “Questa è la sua biblioteca, ma il suo studio è là fuori, fuo­ ri dalla porta”» (H. D. Thoreau, Camminare, SE, Milano 1989, p. 17; ed. or. Walking, 1851). 13 La RPPA è un gruppo eterogeneo, che nasce dalla collaborazione di Mumford con al­ cuni architetti c urbanisti esponenti del community planning, tra i quali Frederick Lee Ackerman, Clarence Stein e Henry Wright; con il progressista e portatore di idee regionaliste Benton MacKaye; con il direttore del «Journal of the American Institute of Architects» Charles Harris Whitaker; con il finanziatore immobiliare Alexander Bing, e con altri im­ portanti e influenti esponenti della scena professionale, non solo newyorkese. Ad essi si ag­ giunge nel 1931, a due anni dallo scioglimento dcll’Associazione, Catherine Bauer. Il pro­ gramma del gruppo era incentrato sull’idea di una «città regionale», che aveva le proprie ra­ dici nella proposta di sviluppo regionale per città giardino di Ebenezer Howard (E. Howard, Garden Cities of To-morrow, Swan, Sonnenschein and Company, London 1902; trad. it. La citta giardino del futuro', preceduto da: L. Mumford, «L’idea della città giardino e la proget­ tazione moderna», Caldcrini, Bologna 1972), ma che era ugualmente attenta alle contempo­ ranee ricerche in atto in Germania sul tema delle Siedlungen. Un’idea estremamente ambi­ ziosa, che si tradurrà però in poche e limitate realizzazioni: «una piccola enclave urbana e un garden suburb», Sunnyside Gardens, Queens e Radburn, New Jersey (P. Hall, Sesso, nevro­ si e impotenza politica: la triste storia della Regional Planning Association, in Alle radici del­ la città contemporanea. Il pensiero di Lewis Mumford cit. ). “ Nel 1932, è consulente per la sezione dedicata all’abitazione dcll’Esposizione Intemazio­ nale di architettura Moderna del Museum of Modern Art (da lui recensita in Architettura orga­ nica; cfr. oltre, pp. 49 sgg.); è membro del comitato per l'Esposizione Universale di New York del 1939, dal quale rassegnerà le dimissioni per disaccordi sull’organizzazione della sezione sul­ l’abitazione, ma con il quale continuerà a collaborate scrivendo il testo di accompagnamento a The City, il documentario sugli interventi residenziali prodotti dall’American Institute of Plan­ ners, proiettato nel corso della mostra (da lui recensita in L'Esposizione universale e in L’ovest è l’est; cfr. oltre, pp. 152 sgg. c 199 sgg.). Di fatto, però, l’unica esperienza diretta di Mumford nel campo della progettazione architettonica risale al 1918, quando partecipa ad un concorso per ca­ se modello, bandito dal «Journal of die American Institute of Architects». Del progetto per la comunità di «Garment Gardens» rimangono solo alcuni schizzi per case bifamiliari di due pia­ ni (si vedano gli schizzi non pubblicati di un concorso per residenze, 1918, Mumford Papers, folder 6969), e lo stesso Mumford, dimostrandosi capace di applicare uno sguardo critico anche a se stesso, lo definirà «audace ma inevitabilmente amatoriale» (Mumford, Sketches From Life: The Autobiography of Lewis Mumford, The Early Years cit., p. 333).

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Mumford, Passeggiando per New York

Gli scritti per «The Sky Line» si possono così rileggere come una sorta di corso di aggiornamento continuo sul tema di fondo dell’opera di Mumford: New York. Un corso di aggiornamento che ha le sue ori­ gini nell’infanzia dell’autore. In questo, il percorso autobiografico e quello scientifico si fondono in un learning by practice (quasi un impa­ rare «camminando» deweyano); e il grande romanzo di New York che Mumford costruisce acquista il sapore di un romanzo di formazione. Le lunghe passeggiate in compagnia del nonno adottivo Charles Graessel, capocamerierc in uno dei ristoranti più alla moda della città, sono i momenti di maggior apprendimento nella sua infanzia. Upper West Side e Central Park, i negozi dei rilegatori di Greenwich Village, i calzolai su Canal Street e i fabbricanti di sigari sulla East Side sono una realtà colorita e vivace25*,ben diversa dal grigiore delle case in are­ naria e dei vecchi appartamenti in stile vittoriano in cui le non rosee condizioni finanziarie della madre obbligano Mumford a vivere2. E il piacere di camminare e di raccontare rimangono una pratica quotidia­ na, anche negli anni successivi. I sopralluoghi di New York e dintorni, Boston, Philadelphia e Pittsburgh lo vedono, attorno agli anni venti, armato di matita e taccuino, intento ad esplorare la città sotto tutti i possibili punti di vista, dalle architetture alla topografia, dalla sociolo­ gia alla storia. Come riporterà più tardi nella sua autobiografia, le lun­ ghe e doviziose annotazioni riguardanti gli esiti nefasti della specula­ zione edilizia e le cattive condizioni abitative degli slum si sarebbero dovute tradurre in una «sociological Tale of Four Cities»27, un raccon­ to che Mumford di fatto ha continuato a scrivere nel corso di tutta la sua lunga vita. La lezione più importante che l’autore sembra avere imparato da queste passeggiate è proprio la propensione ad osservare i luoghi co­ 25 Ibid., p. 18. L. Mumford, Un’infanzia newyorkese. Ta-Ra-Ra-Boom-De-Ay, cfr. oltre, pp. 3 sgg. 27 L’autore propone il progetto del libro a Appleton’s, una casa editrice specializzata in libri sulle città americane (Mumford, Sketches From Life: The Autobiography of Lewis Mumford, The Early Years cit., p. 176; introduzione a un saggio non pubblicato, 1917, Mumford Papers, folder 8033). Già nel 1916 Mumford inizia a riorganizzare le proprie an­ notazioni in un saggio dal titolo «A Regional Policy for Manhattan» e ancora nel 1920 deli­ nea un altro libro su New York, il cui titolo provvisorio è Counter-Tendencies: An Outline of Regional Policy. Esso avrebbe dovuto comprendere alcuni capitoli: «The Regional Ap­ proach», «The Manhattan Region», «The Imperiai City», «The Incipient Citizen», «Indu­ stry and Decentralization e «The Regional Prospect», nei quali è già possibile individuare le principali tematiche che l’autore tratterà nelle opere successive (L. Mumford, «Counter-Ten­ dencies: An Outline of Regional Policy», appunti non pubblicati, Mumford Papers, senza collocazione).

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me insieme complesso di spazi, persone e sensazioni, che si traduce in una prosa fresca e brillante. Del resto la passione per la scrittura ac­ compagna Mumford fin dall’adolescenza. Tra le cose che egli ricorda con maggior piacere del periodo trascorso alla Stuyvesant School so­ no le lezioni di letteratura punteggiate dai «frammenti di vita vera» dell’insegnante dai «capelli rossicci», le letture di Bernard Shaw e la preparazione di un testo teatrale2". L’interesse per il teatro si trasforma nella breve esperienza di sceneggiatore cinematografico durante il se­ condo decennio del Novecento. Nel corso di essa Mumford affina progressivamente la capacità di osservare e descrivere gli spazi esterni della città e gli interni delle abitazioni come uno specchio delle classi sociali che li abitano, delle loro speranze e frustrazioni: Il segreto dell’uso [delle facciate] è rivelato dal nome stesso dato agli edifi­ ci che questo stile ha creato: non erano alloggi in arenaria, ma preminente­ mente Fronti in arenaria. Vivere dietro ad uno di quei muri di un tetro color cioccolato, e abitare in una strada che offriva la vista di muri ugualmente tor­ bidi e tetri era l’aspirazione di ogni famiglia rispettabile2’.

Ma, al termine della scuola superiore, le ambizioni di Mumford sembrano essere principalmente rivolte alla carriera giornalistica: era già chiaro che non sarebbe mai diventato né un ingegnere, e nemmeno un commediografo. La gavetta come fattorino aJl’«Evening Tele­ graph» è solo il primo passo di un cammino piuttosto veloce, che lo porterà a scrivere su molte riviste e ad annoverare, tra il 1919 e il 1922, una vastissima produzione di critiche architettoniche, recensioni a li­ bri e cronache politiche. Perciò quando è contattato da Harold Ross per collaborare al «New Yorker», una delle riviste che forse meglio re­ stituiscono il clima culturale della città, Mumford gode già di una di­ screta fama. Quello che gli viene richiesto è di essere «spietato» e di farsi «coinvolgere emozionalmente»: Per quanto riguarda me, e non Mumford, talvolta mi rendo conto che l’ar­ chitettura è uno dei pochi oggetti da cui non riesco a staccarmi emozional­ mente. La ragione è semplice: non sono obbligato ad assistere ad una produ­ zione teatrale se non lo voglio, o ad una proiezione cinematografica, o a guar­ dare un dipinto, o, alla peggio posso comunque andarmene. Ma un edificio è là, e io sono costretto a guardarlo, e realizzare la sua triste esistenza spesso mi

” L. Mumford, Un’adolescenza newyorkese: tennis, equazioni e amore1 , cfr. oltre, pp. 13 sgg. " L. Mumford, «The Brownstone Front», testo teatrale non pubblicato, ca. 1917 1919, Mumford Papers, folders 7825-7826. Il riferimento è tratto da R. Wojtowicz, Lewis Mumford and American Modernism. Eutopian Theories for Architecture and Urban plan­ ning, Cambridge University Press, Cambridge 1996.

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Mumford, Passeggiando per New York

fa indignare e mi rende molto amareggiato [...] Quando abbiamo iniziato con il «New Yorker», era una delle mie ambizioni fare qualcosa, per l’amor del cie­ lo!, visto che nessun’altra pubblicazione sembrava fare niente”.

E le descrizioni di New York che Mumford compie nei suoi Sky li­ nes certamente sono emozionate ed emozionanti. Più che semplici de­ scrizioni, esse potrebbero essere definite biografie urbane: ricostruzio­ ni di storie di luoghi e di scene di vita della città. Lo sguardo dell’au­ tore non è mai freddo o distaccato rispetto a ciò che osserva e analiz­ za. Gli eventi, gli interventi architettonici, i personaggi che popolano le pagine delle sue recensioni rivivono davanti agli occhi del lettore, trasmettendo di volta in volta la soddisfazione o l’amarezza dell’auto­ re nel guardare le trasformazioni che nel corso di trent’anni investono la sua New York. L’abile prosa unisce alle informazioni di carattere tecnico annotazioni personali che restituiscono le occasioni, l’ambien­ te e le vicende su cui di fatto si fonda la costruzione della città. Una città che, mentre si procede nella lettura, progressivamente si anima di spazi rappresentati così come sono visti e vissuti quotidianamente. Le singole architetture non sono opere a sé stanti, da analizzare come og­ getti di buona o cattiva fattura. Esse sono, dal più piccolo intervento sulla facciata del negozio di calzolaio al Rockefeller Center, opere pub­ bliche-. esse contribuiscono allo stesso tempo alla costruzione dello spazio comune e a quella delle immagini mentali che la gente ha di es­ so. Nei suoi scritti Mumford ci ricorda costantemente che la città non è un’entità assoluta, data una volta per tutte ed essenzialmente legata alla sua configurazione fisica, ma è l’esito delle storie di vita di chi la pratica e la abita, del loro incessante costruire e ricostruire perimetrazioni e attribuzioni di senso ai luoghi. Il tono dei racconti è coinvol­ gente e caldo, e sollecita i lettori a partecipare con lo stesso interesse ed entusiasmo alle passeggiate. I giudizi, drastici e sempre pronti a indi­ care quello che non va, forse più che come critiche implacabili vanno perciò letti come continue provocazioni e inviti a verificare in prima persona. Nel far questo la prosa sollecita tutti i sensi, dalla vista all’u­ dito all’olfatto, spesso colorandosi di aggettivi insoliti ma altamente evocativi, che prendono forma attraverso metafore ed espressioni col­ loquiali. Così, bastano poche frasi per evocare l’ambiente e le sensa­ zioni provocate dall’ingresso in una sala da cocktail: Il progettista, Winold Reiss, fortunatamente non ha pensato che fosse ne­ cessario dipingere la parete con piccoli ammiccanti cantori svestiti per farti ca-

” Lettera di Ross a Embury, 20 marzo 1936, Mumford Papers, folder 3581.

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pire che né ridere né bere sono proibiti per principio. Né ha pensato che fos­ se necessario rendere la stanza così eccitante da farti ubriacare all’odore del primo Martini51.

Nell’edizione originale questi articoli non avevano immagini (e si­ curamente Mumford avrebbe solo avuto l’imbarazzo della scelta, data la sua amicizia con Alfred Stieglitz!)52. Ma che senso poteva avere le­ gare le parole a riproduzioni fotografiche di una città che era là fuori, aperta e disponibile ad essere continuamente ripercorsa e interrogata? Del resto anche per noi, che non godiamo direttamente della stessa possibilità, queste biografie urbane conservano ancora oggi tutta la lo­ ro forza provocatoria e stimolante. Nelle pagine di «The Sky Line» Mumford è comunque chiamato ad essere un critico di architettura e, anche se più saltuariamente, di ar­ te. Ed è proprio il suo atteggiamento di generalist, unito a quello di di­ fensore della causa sociale nei confronti dell’inadeguatezza dei più re­ centi interventi abitativi, che gli conferiranno il ruolo di opinion maker del dibattito architettonico ed urbanistico di quel tempo. Sempre però opinion maker e non opinion leader, promotore di opinioni e non co­ struttore di punti di vista assoluti”. Quello a cui Mumford mira non è la descrizione - anche se in negativo, attraverso la denuncia dei misfatti commessi - di un’«utopia» urbana cristallizzata e immobile nel tempo: «la vita è meglio dell’utopia»*1. La sua è piuttosto una ricerca costante e aperta di un percorso verso l’«eutopia», un luogo buono a cui ten­ dere non solo attraverso le trasformazioni fisiche, ma soprattutto per 51 L. Mumford, Bar e sale da cocktail-, cfr. oltre, pp. 113 sgg. " Alfred Stieglitz (1864-1946) è uno dei protagonisti più vivaci della scena fotografica e artistica newyorkese dei primi decenni del XX secolo (L. Mumford, The Metropolitan Milieu, in America and Alfred Stieglitz: A Collettive Portrait., a cura di W. Frank, L. Mumford, D. Norman, P. Rosenfeld, H. Ruggs, Doubleday, Doran and Company, New York, 1934, pp. 33-58). All’attività di fotografo, che lo vede attivamente impegnato all’in­ terno di numerosi circoli e associazioni, pubblicazioni ed eventi culturali (tra gli altri, i cir­ coli Camera Club e Photo Secession, e la rivista «Camera Notes»), egli unisce il ruolo di promotore delle esperienze europee di pittura e fotografia d’avanguardia. La galleria «291» fondata da Stieglitz nel 1905 è, fino al 1917, non solo un luogo espositivo, ma una delle se­ di più attente alle problematiche della cultura visiva in ambito nazionale e internazionale e alla rivendicazione di un ruolo attivo e fortemente interpretativo della realtà urbana e so­ ciale da parte della fotografia stessa (I. Zanier, Storia e tecnica della fotografìa, Laterza, Roma-Bari 1993). 51 Ruoli che ha di volta in volta rivestito anche in ambito internazionale. In particola­ re riguardo agli influssi di Mumford sul panorama disciplinare italiano del secondo dopo­ guerra: C. Mazzoleni, Lewis Mumford nella cultura urbanistica e architettonica italiana, in «Cru», 9-10, 1998 (la seconda parte del saggio è in corso di pubblicazione sempre su «Cru»), ” Mumford pronuncia questa frase in occasione del conferimento della Medaglia Na­ zionale per la Letteratura nel 1972 (in Miller, Lewis Mumford: A Life cit., p. Xiv).

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mezzo di un profondo rinnovamento nei modi di costruire e abitare gli spazi della città”. Un rinnovamento che non deve passare né attra­ verso la facile adesione agli stilemi del dibattito architettonico moder­ nista né tantomeno sostenere la sterile ripresa dei linguaggi architetto­ nici del passato. Al tempo stesso survivor e pioneer, egli propone come concetto guida quello di un’architettura organica e Frank Lloyd Wright come grande esempio da contrapporre a quello europeo di Le Corbusier (di Wright recensisce sia il progetto per Broadacre City, esposto al Rockefeller Center nel 1935, sia la casa sulla cascata e la casa Willey)“. Ancora una volta, però, concetto guida e non principio assoluto, esempio e non modello. La critica di Mumford non è certo una critica agli stili correnti in nome di nuovi stili. L’architettura organica di cui parla è quella che tende ad una relazione più stretta tra forma e funzio­ ne, intendendo la prima come spazio tridimensionale, visivo tattile ol­ fattivo, e la seconda come modo d’uso, pratica concreta. È quindi dal­ l’osservazione diretta di come la gente si muove all’interno delle archi­ tetture che si possono ricavare le indicazioni più utili per il progetto. Ne deriva che gli edifici e i complessi di volta in volta recensiti non appartengono solo alla categoria comunemente definita «delle grandi opere». Anche se l’intervento su cui Mumford torna ripetutamente, nelle sue differenti fasi di costruzione e alternando giudizi contrastan­ ti, è il Rockefeller Center (con le cui recensioni si apre e si chiude que­ sta raccolta), nei suoi articoli, a fianco delle grandi attrezzature (serba­ toi e inceneritori; ma anche ospedali e ricoveri), delle infrastrutture (ponti, autostrade, moli, aeroporti) e dei luoghi ed occasioni della vita ricreativa e culturale urbana (zoo e grandi parchi; teatri, cinema e mu­ sei; mostre ed esposizioni come quella Universale del 1939) trovano posto anche interventi di edilizia più minuta, quali residenze private, grandi magazzini, lavanderie e uffici postali, tavole calde, bar e risto­ ranti. Un’attenzione particolare e crescente nel corso degli anni è inol­ tre assegnata ai progetti, privati e pubblici, per i quartieri residenziali, che Mumford propone come materiale complesso di costruzione del­ la città, contrapponendoli agli edifici alti e isolati dal loro intorno: dal­ l’interessante esempio di community planning nei Phipps Apatments di Clarence Stein, agli interventi della New York City Housing

” L. Mumford, The Story of Utopias, Boni and Liveright, 1922 (trad. it. Storia dell’uto­ pia, Calderini, Bologna 1969 e Donzelli, Roma 1997). * L. Mumford, La città di Wright. La dignità del centro degli affari-, cfr. oltre, pp. 116 sgg.; L. Mumford, A casa, dentro e fuori-, cfr. oltre, pp. 179 sgg.

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Authority (i migliori: Hillside Homes, Cord Meyer, e i peggiori: First Houses) e della Public Works Administration ad Harlem e William­ sburg, che nella stagione tra il 1939 e il 1940 diventano il tema domi‘nante (le pesanti critiche a Red Hook Houses e Queensbridge sono comunque temperate dal riconoscimento della loro superiorità rispet­ to ai contemporanei progetti realizzati da imprenditori «commercia­ li»). In questi insediamenti: «si trovano, insomma, le strutture neces­ sarie per una vita dignitosa di cui ogni quartiere moderno avrebbe bi­ sogno: sole, acqua, sicurezza, spazi per giocare, spazi per incontrarsi, e spazi per vivere», caratteristiche ben diverse da quelle dei «progetti della Città del Futuro» che «prevedevano una città alta centinaia di piani, con il proletariato che viveva con luce e aria artificiali, al di sot­ to di svariati viali e terrazze utili a soddisfare le esigenze di coloro che costituivano, letteralmente, le classi alte»’7. Il tono di Mumford, nel corso di dieci anni di osservazione attenta e di interpretazione delle trasformazioni in atto nella città, sembra di­ ventare via via più allarmato. La New York della sua infanzia è cam­ biata: ai viali lungo i quali passeggiare si sono sostituite le highways per il transito veloce e i ponti che ostruiscono la vista sulla baia; alle case in arenaria, per quanto tetre e spesso malsane, hanno fatto seguito i grandi caseggiati di stile modernista, che ancor più rischiano di allon­ tanare i loro abitanti dal contatto diretto con gli spazi aperti, con il si­ to e con il profilo generale di quella che per Mumford, comunque, ri­ mane la città: Non conosco un paesaggio nei pressi di una grande città che tolga più completamente il respiro. Edimburgo da Castle Hill o da Arthur's Seat, l’Havelsee dalle altezze che sovrastano Berlino, e la Thames Valley da Richmond sono belli; ma questa unica veduta da Washington Heights ghiaccia il cuore, strappa via lo stomaco, e congela la spina dorsale - è così, se i paesaggi hanno mai avuto effetto su di voi”.

Roma, 16 novembre 2000

E. M.

Questa introduzione è dedicata a Linda e Rachele.

” L. Mumford, Il nuovo ordine; cfr. oltre, pp. 182 sgg. ” L. Mumford, Un parco con una veduta; cfr. oltre, pp. 127 sgg.

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Passeggiando per New York

Cap, della Duell, Sloane & Pearce, mi ha proposto di raccogliere gli Sky Lines in un libro. Li ho messi insieme frettolosamente nella primavera del 1953, per vedere se reggevano a una revisione critica. Il mio giudizio è stato: sì e no, e così ho deciso di no, anche se nel frattempo, dopo che Cap ne aveva parlato con Giroux, l’editore Harcourt si era detto disposto a pubblicarli. Da allora, ne ho qualche altro buono da aggiungere; ma esito a farlo, almeno fin quando non avrò pubblicato un altro paio di libri che non siano di architettura. 29 dicembre 1953

L. M.

Prologo

I due brevi racconti autobiografici qui riportati sono gli unici della presen­ te raccolta che non rispettano la sequenza temporale. Un’infanzia newyorke­ se: Ta-Ra-Ra-Boom-De-Ay è stato pubblicato nel 1934 e Un’adolescenza newyorkese: Tennis, equazione e amore è apparso tre anni dopo. Essi riper­ corrono la vita di Mumford dai 5 ai 18 anni (1900-13), nel periodo in cui era ancora studente al City College. La sorprendente ricchezza di dettagli con cui quegli anni sono descritti rivela come fin da ragazzo egli fosse straordinaria­ mente attento e dotato della capacità di indagare ciò che lo circondava con gli occhi di un critico in erba.

PASSEGGIANDO PER NEW YORK

Un’infanzia newyorkese. Ta-Ra-Ra-Boom-De-Ay 22 dicembre 1934

Karl Marx definiva la mia classe d’origine piccola borghesia. Col che egli non la considerava tanto una classe - come del resto nean­ ch’io -, ma quella era Zangolatura da cui vedevo New York. E ciò mi consentiva una visuale ben più ampia di quanto voi o Marx potreste pensare. Da un lato c’era lo zio di Filadelfia, che all’inizio degli anni novanta aveva mollato un’attività appena avviata, racimolando una considerevole fortuna. Dall’altro c’era uno zio artigiano che, con una certa riluttanza, aveva aderito al sindacato. Nel mezzo c’era il mio mondo più intimo, che nella mia immaginazione, e talvolta nei miei sogni, sfiorava i margini dell’alta società così come la vivevano i letto­ ri di Town Topics. Indirettamente, avevo una certa pratica dei retro­ scena di quella vita, dal momento che mio nonno, colui che per primo mi ha fatto conoscere la città, era capocameriere da Delmonico duran­ te gli anni novanta. Il primo suono giunto alle mie orecchie è stato quello di New York che cantava Ta-ra-ra-boom-de-ay, la canzone su cui si è spento il gran­ de XIX secolo. Le mie orecchie di bambino udivano anche le parole tedesche Patsche, Patsche Kitchen, Backer hat gerufen, e la mia tata ir­ landese mi cantava di Casey, che ballava con una bionda-rossiccia mentre la banda suonava. Lei mi teneva in braccio davanti alla vecchia armeria del Ventiduesimo Reggimento nella 68a Strada di Broadway, mentre io urlavo di angoscia o di invidia alla vista dei soldati col vesti­ to blu e i berretti a strisce rosse, che marciavano verso la guerra ispa­ no-americana, pronti a combattere contro tutto eccetto la dissenteria e le intossicazioni che li attendevano. La prima immagine non propria­ mente privata che ricordo è quella di un poster con una graziosa si­ gnora in abiti leggeri, che reggeva una lampadina, sotto cui c’era la scritta misteriosa Wire to May to Wire. L’altro mio ricordo non priva 5

Mumford, Passeggiando per New York

to è l’immagine degli emoni che si sventolavano con le foglie di palma e poltrivano sulle sedie di vimini davanti alla vecchia Astor House in una notte d’estate. Gli anni della mia infanzia li trascorremmo nel West Side. All’epoca, il quartiere tra Riverside Drive e Central Park West mostrava tutti i se­ gni di una trasformazione che ne avrebbe fatto la zona elegante della città. È lì che erano stati eretti i grandi caseggiati dall’aria minacciosa­ mente urbana come il Dakota e il San Remo, e la 72' Strada - ora così sudicia e trasandata - era a quei tempi davvero molto elegante. Riversi­ de Drive era costeggiato da ampie dimore Richardsoniane, dal carattere quasi extra urbano, mentre l’improvvisa consapevolezza dell’elemento olandese nella storia di Manhattan - forse favorita dall’ascesa dei Roo­ sevelt - induceva a trastullarsi con il Rinascimento olandese nella deco­ razione delle nuove case sulla West End Avenue. Broadway, prima che si iniziasse a costruire la metropolitana, era un viale imponente, con fi­ lari di olmi grandi e piccoli, che ogni bravo abitante del West-Side di umili origini chiamava il «Bullavard». All’epoca c’era così poco traffico che i ciclisti potevano scegliere tra la stessa Broadway e la pista per le bi­ ciclette in ghiaia fine - da non confondere con la pista per i cavalli - che tuttora corre tra i marciapiedi e la carreggiata su Riverside, malgrado molti ne abbiano dimenticato l’uso originario. Il mondo frivolo e degenerato della moda e dello sport incombeva sulla mia infanzia con una sorta di aura stantia; io mi vantavo di una zia che accavallava le gambe, fumava sigarette russe con aria circospet­ ta, e qualche volta si lasciava andare, dopo uno o due cocktail, fino al punto di mostrare le calze di ben tre dita sopra la caviglia. Questo mondo era, per me, segretamente dominato dalle maschere e dalle fac­ ce ipocrite che mio nonno, il capocameriere, portava a casa dopo una festa da Delmonico, insieme al pàté de foie gras, al tacchino disossato e ai tartufi; quelle maschere erano in qualche modo un tutt’uno con le signore e i signori che si dimenavano nudi e che io osservavo, all’età di quattro anni, sulle pareti del bar del fratello di John L. Sullivan. Là ave­ vo stretto la mano al grande John L. in persona. Ma ero più interessa­ to alle signore e ai signori ritratti nello stile di Bouguerau, di quanto non lo fossi a Sullivan; forse sospettavo una qualche relazione tra loro e i taciturni agenti di cambio dall’aria livida di Wall Street, o gli alli­ bratori con le facce floride e temprate che mi facevano saltare sulle gi­ nocchia ad Asbury Park o a Saratoga. Questa mia New York aveva luoghi all’aperto dove si tenevano le corse, luoghi chiamati Sheepshead, Gravesend, Brighton Beach, Bel6

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mont Park, e in estate arrivava fino a Saratoga Springs, ancora sma­ gliante agli inizi del Novecento come lo era subito dopo la guerra ci­ vile. Accanto alle facciate di arenaria del centro c’erano i grandi alber­ ghi di legno vecchio stile - il Brighton Beach, lo United States, il Ken­ sington, il vecchio Fort William Henry a Lake George - con le funi raccolte accanto alle finestre delle camere, pronte a servire come vie di fuga per gentildonne cui era stato insegnato di non usare mai le mani e di non mostrare le gambe. E con rinnovato risentimento, ricordo an­ cora i tavoli da shuffleboard' delle sale da gioco, che i più grandi si osti­ navano con prepotenza a monopolizzare. Abbiamo abitato in varie case d’arenaria e in vecchi appartamenti, adattandoci a questi ultimi solo quando le sostanze della famiglia di­ minuirono, perché come spiegava sempre mia madre, vivere in un ap­ partamento non significava vivere, ma solo sopravvivere. In quel pe­ riodo - le ristrettezze del dopoguerra hanno poi interrotto questa pra­ tica -, buona parte dei newyorkesi preferiva traslocare in case nuove di zecca con ancora dentro gli imbianchini e i tappezzieri, a meno che non ne avessero già una di proprietà. E se si ripensa solo alla gran quantità di soprammobili e di tessuti che riempivano il salotto, per non parlare delle stampe con la cornice dorata - Moonlight in Venice, The Stolen Kiss1, e ovviamente il dipinto di Sir Luke Fieldes con il dottore baffuto al capezzale del bambino morente - non c’è da stupirsi che la gente preferisse traslocare. Traslocare era l’unico modo rapido e siste­ matico per dominare il caos. Le case in arenaria erano tutte piuttosto tetre. Erano troppo stret­ te e lunghe, e ad ogni piano c’era una camera - ribattezzata stanza del­ la musica, spogliatoio o ripostiglio - che era sempre buia e senza aria. C’erano caminetti che non si prevedeva di mettere in funzione, e un impianto di riscaldamento che avrebbe dovuto funzionare ma che non funzionava; inoltre, c’erano citofoni per comunicare da un piano al­ l’altro che non erano discreti e neppure comodi. Di certo l’unico toc­ co umano e confortevole era dato dall’alto portico dove ci si poteva se­ dere a prendere il fresco nelle soffocanti notti d’estate; ricordo ancora, quasi con una sorta di tenerezza, quando passavo in carrozzella ac-

' Gioco americano, spesso praticato sulle navi da crociera, che consiste nello spingere, con apposite stecche, dischi di legno su una superficie liscia cercando di farle fermare su aree relative al punteggio più alto. 1 Titolo di due stampe di carattere dozzinale, molto diffuse a quel tempo nelle abitazio­ ni della classe medio-bassa.

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canto ad allegre comitive che se ne stavano sedute a bere birra e a man­ giare gelati sotto a quei portici, e che ogni tanto attaccavano a cantare. Ma più spesso ricordo quelle case sotto la luce grigia del crepuscolo di novembre, con il vento che non appena si apriva la porta faceva tre­ molare la fiamma blu del gas dell’ingresso, e le associazioni che affio­ rano sono Sherlock Holmes, Pimlico, l’odore del sugo dell’arrosto, e i bustini di Madam Binner. Forse un qualche nesso c’è. Andare all’ippodromo, così come andare al cimitero (cosa quest’ultima che all’epoca comportava un’escursione mensile o al massi­ mo bimensile), era sempre uno spasso, tanto per il viaggio in sé che per la destinazione. Oltre Prosper Park, le case lasciavano il posto ai prati aperti e ai campi, e i tram scoperti di Brooklyn, con i loro scalini, pas­ savano sibilando in mezzo alla placida campagna, mentre il vento por­ tava il profumo delizioso dell’erba tagliata o della salsedine. I pranzi sulla veranda del Brighton Beach Hotel, con i granchi fritti dal guscio tenero, stuzzicavano ancor di più l’appetito al pensiero elettrizzante del pomeriggio, del fantino preferito, Redfern e il piccolo Crimmins, e dei cavalli preferiti - il grosso e nero Waterboy, che vinceva sulle lun­ ghe distanze, e Sysonby, un cavallo piccolo e basso del Kentucky che aveva infilato una vittoria dopo l’altra per poi concludere la carriera da scheletro nel museo di storia naturale. Le gite a Woodlawn non erano tanto eccitanti quanto quelle alle corse, ma erano comunque molto piacevoli. Anche oltre MacCombs Dam Bridge, lungo la Jerome Avenue, era tutta campagna, e via via che ci si avvicinava al cimitero, marmisti e fiorai si alternavano alle locan­ de tedesche e alle birrerie all’aperto. Tutta la famiglia prendeva parte a queste gite, insieme a un gruppetto di zie, zii e cugini. Ne sarebbero seguiti commenti su come il giardiniere aveva curato le aiuole della tomba, su che genere di iscrizione avrebbe avuto mio nonno, e su co­ me - santo cielo! - il cimitero si andava riempiendo. Dopo di che, pri­ ma di rincasare, ci sarebbero stati birra e panini per tutti - per i picco­ li forse sarsaparilla? o ginger ale* - in una locanda lungo la strada. A quattro anni ebbi a Woodlawn la mia prima lezione sull’efficacia del­ l’arte astratta, poiché niente di ciò che avevo visto prima in vita mia aveva suscitato in me tanto terrore quanto le urne ornate di drappeggi che in cima ai loro piedistalli indicavano talvolta le tombe. Ce n’era una vicina al lotto della nostra famiglia, e io imparai a non guardare mai in quella direzione. ' Gazzosa aromatizzata. 4 Bibita allo zenzero.

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Mio nonno, il capocameriere, era un gentiluomo della vecchia scuola, rigoroso nei modi e disinvolto nella morale. Neppure nella se­ rata più calda dell’estate si sarebbe mai seduto a cenare insieme a noi senza prima indossare la giacca, né sarebbe venuto a tavola se tutti gli altri uomini non fossero stati vestiti allo stesso modo. Ma gli piaceva­ no le storielle spinte, come capivo dagli sguardi imbarazzati che spes­ so si posavano su di me, e dalle numerose volte che noi bambini veni­ vamo premurosamenti spinti fuori dalla stanza. Data l’epoca, lui do­ veva essere proprio un cane sciolto - che è esattamente quel che sem­ bra in una piccola foto 2x3 fatta negli anni settanta, con le basette ne­ re e le sopracciglia folte e insolenti. Aveva l’abitudine di prepararsi un bel cocktail Manhattan alle dieci e mezza del mattino, ma da vecchio se non altro era sobrio e moderato. Non era un uomo di disciplina; in realtà, era fuggito dalla Germania, dove suo padre aveva un mulino nella Foresta Nera, per sfuggire all’addestramento militare, e come molti della generazione a cavallo tra il 1848 e il 1878, era un bell’uomo tutto d’un pezzo, senza la minima traccia di servilismo. Una volta, quando faceva il maggiordomo in un club molto facoltoso, il diretto­ re era andato da lui a spiegargli che poiché erano tempi duri avrebbe dovuto tagliare i salari di tutti i dipendenti, eccetto il suo. Senza scom­ porsi, lui aveva risposto chiedendo che venisse tagliato per primo il suo - che era il più alto - e che ne venisse trattenuta la parte più con­ sistente, in quanto egli poteva tranquillamente permetterselo. La cosa aveva suscitato una tale vergogna nel direttore da indurlo a lasciar per­ dere tutta la faccenda. Mio nonno è andato volontariamente in pensione a sessant’anni, con un reddito che non solo bastava alle sue necessità personali, ma gli consentiva anche di compiere piccoli gesti di generosità, così ogni qualvolta faceva visita ai suoi vecchi amici portava sempre sigari, cara­ melle o dolci. Da gentiluomo agiato qual era, al pomeriggio indossava una giacca a coda di rondine, con la pesante catena dell’orologio d’o­ ro appesa tra le tasche del panciotto. Quando passeggiavamo nelle zo­ ne più malfamate della città, lui copriva la catena e non diceva mai l’o­ ra agli sconosciuti che gliela chiedevano, dal momento che per la pic­ cola delinquenza dell’epoca una catena o un orologio d’oro rappre­ sentavano ancora un buon bottino. Talvolta incontrava qualche cameriere o qualche cuoco della sua cerchia che come lui andava a zonzo per Central Park, e anch’essi era­ no vestiti di tutto punto e tirati a lucido. Ricordo in particolare l’alle­ gro Phillipini - che allora faceva lo chef da Delmonico - mentre chiac9

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chierava con mio nonno in un francese davvero spedito e aveva indos­ so un doppio petto e un cappello grigi che si intonavano al pizzetto grigio. La maggior parte dei suoi amici apparteneva comunque alla schiera dei tedeschi cosmopoliti di New York che in gioventù aveva­ no letto Fenimore Cooper e George Sand, amavano la libertà e non si facevano illusioni sulla grandezza della Germania. Anche se mio non­ no si degnava qualche volta di portarmi al Sàngerbund Festival di Brooklyn dopo Natale, insieme al mio cugino di Brooklyn, non pren­ deva la cosa sul serio e faceva battute sui regali e le caramelle che ci ve­ nivano distribuite. La Marsellaise gli piaceva di più di Die Wacht am Rhein, diceva «Bonjour» anziché «Guten Tag», e preferiva il cibo fran­ cese a quello tedesco, anche se aveva un debole per la zuppa di fave, lo Hansenpfeffer, e le frittelle di patate con la salsa di mele. Le passeggiate a Central Park con mio nonno hanno fatto da sfon­ do alla mia infanzia. Allora Central Park non era l’arido deserto che è diventato negli anni venti; gli alti olmi del Mail erano ancora quelli piantati sotto la direzione di Olmsted, e i percorsi nel parco erano quelli stabiliti dalle autorità. In alcuni bei pomeriggi di primavera cam­ minavamo vicino alla strada e guardavamo la processione di victorias, trainate da coppie di grassi sauri castrati, con le code nere mozzate. Il nonno aveva servito pranzi e cene a casa di molte di queste persone e, almeno di vista, ne conosceva un bel po’. Il suo atteggiamento nei con­ fronti dei ricchi era una sorta di cinismo tollerante e cortese. Mio non­ no non si aspettava molto da questa gente e perciò non restava mai for­ temente deluso, mentre mio zio di Brooklyn, che faceva il maggiordono all’Harmonie Club, non era mai riuscito a perdonare il banchiere che amichevolmente gli aveva rifilato delle cattive obbligazioni dell’Interborough, quando lo zio Frederick era andato da lui per farsi da­ re dei consigli su come investire i suoi risparmi. Attorno al 1905 le automobili stavano diventando così comuni che urlare «prendi un cavallo!» non sembrava più tanto divertente. Difat­ ti, solo qualche tempo dopo, uno dei miei zii, che produceva artigia­ nalmente caramelle a buon mercato con delle figurine dentro la confe­ zione, aveva deciso su mio suggerimento di inserire una serie di im­ magini di automobili, dopo quelle dei pugili e dei giocatori di baseball. Il gioco di riconoscere le automobili iniziò attorno al 1908. Benché provassi un certo piacere nel guardare i compagni che mangiavano le caramelle prodotte da mio zio, quelle caramelle non davano tanta sod­ disfazione quanto le cialde variopinte col sapore di colla dell’involu­ cro, o quanto le stringhe di liquirizia nera che la maggior parte dei 10

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bambini newyorkesi era solita mangiare - per non parlare poi della carta di quei bombon colorati che ti si scioglievano in bocca. Non ho mai assaggiato un all-day sucker" perché un qualche malefico proprie­ tario di emporio di caramelle aveva messo in giro la voce che se lo si levava dalla bocca ci si avvelenava; e benché i bambini che spesso do­ vevano sputarlo nel bel mezzo della lezione di ortografia fossero an­ cora vivi, io avevo preso la cosa sul serio. C’era un venditore ambu­ lante di cialde che più o meno una volta al mese veniva nei pressi del­ la nostra scuola con un carretto alto e bianco. Erano cialde pallide, oblunghe e senza sapore, al costo - credo - di due cents l’una; ma era­ no appena fatte, calde e cosparse di zucchero a velo, sicché il carretto veniva preso d’assalto. Tra gli altri generi commestibili che allietavano la vita c’erano i pacchetti assaggio dei nuovi com flakes per la prima colazione. Ma nessuno di questi era comparabile alle splendenti cara­ melle dure che erano esposte dietro ai banconi di ottone luccicante da Brummell, vicino ad Altman, sulla Sixth Avenue. Dall’altra parte della strada, da Siegel-Cooper, c’era la grande fontana con la statua della li­ bertà dorata, dove ci si poteva sedere ai tavoli e mangiare gelati; ma il grande magazzino ora scomparso, come O’Neill, Adam, Ehrich, era «popolare» e la mia inconfessata passione per la fontana non veniva mai assecondata da mia madre. Coney Island è diventata un po’ più elegante agli inizi del nove­ cento, ma a quei tempi anche Manhattan aveva le sue Coney Island. Ce n’era una a Fort George, dove adesso si ergono i bastioni dei caseggia­ ti; lì c’era una ruota gigante, una sgangherata ferrovia panoramica, e un mare di bancarelle di latta; e ce n’era un’altra, chiamata Little Coney Island, tra la Broadway e l’Amsterdam Avenue, dalla 110* alla 1111 Strada. Lì c’era anche una piccola e grigia Missione in legno, per redi­ mere i peccatori di passaggio che si nascondevano tra i peepshowsk e i tirassegni, e che forse avevano davvero bisogno di essere redenti. Ma non è per il suo carattere umile che ricordo questa parte di New York, ma piuttosto per i tragitti sulla minuscola ferrovia a scartamento ri­ dotto che correva sotto il muro della HO1 Strada a Central Park.

Come ogni altro ragazzo di West Side che conoscevo, dai dieci an­ ni in poi, di sabato e durante le vacanze frequentavo i teatri di vaude' «Lecca lecca per un giorno intero». ‘ 11 termine potrebbe essere tradotto letteralmente come «scatole magiche»; si tratta in­ fatti di scatole illuminate al loro interno e contenenti piccole immagini cne vengono osser­ vate attraverso un foro dotato di lente che le fa apparire più grandi.

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ville, prima il vecchio Colonial Theatre sulla Broadway alla 62’ Strada, e poi su al Riviera sulla 96* Strada e al Nemo sulla 110’ Strada. Erano i tempi d’oro del vaudeville, e il Colonial faceva parte della nostra edu­ cazione di base. Ho visto Vesta Victoria, la sgargiante Vesta Tilley, An­ na Lloyd, Pat Rooney e Marion Bent, e alcuni dei migliori interpreti dei monologhi di un tempo. Ho visto anche Eva Tanguay, quando si arruffava i capelli rossi e dichiarava di essere pazza. (Vent’anni dopo, in una piccola locanda da quattro soldi di Pittsfield, ho visto la stessa Èva urlare ad un pubblico che non aveva conosciuto il brivido del suo antico trasporto, «Dicono che sono pazza, ma non m’importa». Era davvero tremendo, perché il pubblico non capiva, e neppure gliene im­ portava). Nei freddi pomeriggi di dicembre, dopo uno spettacolo di vaude­ ville, risalivamo Broadway canticchiando There was I, waiting at the church, o scimmiottando con disinvoltura l’allegro portamento del mago del momento, sentendoci tanto alla moda, tanto cinici e tanto pieni di sogni giovanili di avventura nei quali potevamo interpretare qualunque ruolo, da quello dell’equilibrista su un alto trapezio, a quel­ lo del Mago dell’elettricità che avrebbe soppiantato Edison. Quella sensazione è forse il vincolo e il sigillo di una segreta fratellanza che le­ ga i ragazzi del West Side della mia cerchia e della mia generazione. Molte cose che lasciano perplessi i nostri amici, sconcertano le nostre mogli o irritano le nostre fidanzate potrebbero forse trovare una spie­ gazione nella nostra iniziazione avvenuta nei teatri di vaudeville. An­ che adesso, in borsa, nelle riunioni di vertice, nell’esplorazione del Sud Africa, o nel letto coniugale, andiamo alla ricerca di quell’eccitazione del sabato pomeriggio. La New York della mia infanzia lentamente sparì tra il 1905 e il 1912. La legge Hughes contro le scommesse bloccò le corse dei caval­ li; il negozio di giocattoli Schwartz andò via dalla 23’ Strada; la Singer Tower e la Woolworth Tower diedero il via alla gara verso il cielo che si concluse con l’Empire State Building. Nel frattempo Woodlawn si affollò come le nuove metropolitane; c’era quasi bisogno di una map­ pa per ritrovare la propria tomba di famiglia. Nel 1912, il Kaiser rifiutò l’offerta di pace di Lord Haldane, il Titanic si schiantò contro un ice­ berg, e io fumai la mia prima sigaretta. Era quella la fine della mia in­ fanzia newyorkese.

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PASSEGGIANDO PER NEW YORK

Un’adolescenza newyorkese. Tennis, equazioni e amore 4 dicembre 1937

Sul finire del primo decennio del secolo, gli orizzonti di New York per me si ampliarono sensibilmente. Le mie attività principali non era­ no più legate al quartiere. Fino a quel momento, ognuno poteva esse­ re identificato in base all’isolato in cui viveva. I ragazzi della 94a Stra­ da Ovest erano per modi, rango e abilità nel giocare a one-old-cat mol­ to diversi dai ragazzi della 911 Strada Ovest, che erano delle femmi­ nucce; ma tutti quanti correvamo a rannicchiarci negli scantinati o a dileguarci dietro ai portoni dei nostri caseggiati quando entrava in sce­ na la banda della 98* Strada, rozza, sudicia e spietata. Occasionalmen­ te le amicizie potevano travalicare i confini degli isolati, ma solo di ra­ do andavano oltre una paio. Era come vivere in una città murata. L’adolescenza e le scuole superiori andarono di pari passo, benché ho idea che la mia voce non si sia abbassata, né le mie gambe allunga­ te, prima che fosse trascorso almeno un anno dacché avevo lasciato la scuola media. Alla cerimonia per il diploma cantammo una canzone sulla nostra eterna lealtà alla vecchia 166, ma in cuor nostro sapevamo che in quella parte del West Side ogni scuola era praticamente identica all’altra, mentre le scuole superiori tra cui avremmo dovuto scegliere avevano dei nomi, e non dei numeri, e tutte quante avevano un carat­ tere ufficiale. Townsend Harris era quasi al livello di un college, ma nonostante i suoi campi da gioco sulla Convent Avenue, era pessima per gli sport. L’Istituto commerciale, sulla 65a Strada vicino a Broadway, aveva un’eccellente squadra di baseball e sfornava ragazzi che sarebbe­ ro diventati contabili, ragionieri o segretari. La De Witt Clinton, sulla 591 Strada vicino alla Tenth Avenue,, era esclusivamente umanistica, mentre la Stuyvesant, che aveva una buona squadra di pallacanestro e una sede nuova, preparava chi avrebbe poi frequentato ingegneria. Al momento in cui toccò sceghere a me, io costruivo maldestri mo­ dellini di aeroplani sul tipo del Wright piane (modellini che mai avreb13

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bero volteggiato per aria e che avrebbero faticato anche a restare tutti interi sul mio comodino). Con l’aiuto di un vecchio costruttore di strumenti che mi aveva presentato il dottor Phillips, il nostro medico di famiglia, avevo iniziato a montare piccoli e gracili apparecchi senza fili con i quali mi proponevo di comunicare con qualche altro ragazzo ingegnoso dell’isolato accanto, sempre che uno di noi due avesse avu­ to la pazienza di imparare il codice Morse. E così scelsi la Stuyvesant. Credo che la notizia della buona squadra di pallacanestro abbia can­ cellato in me ogni dubbio residuo. Emerson diceva che la cosa essenziale della formazione in un col­ lege era avere una camera tutta per sé, col caminetto, in una città sco­ nosciuta. Andare alle superiori sulla 15* Strada Est, tra Stuyvesant Square e la First Avenue, mi dava sostanzialmente lo stesso tipo di emozione. A quei tempi, la parte alta di West Side aveva una popola­ zione abbastanza omogenea; c’era il tipico miscuglio newyorkese di origini tedesche e irlandesi, mescolato al più vecchio ceppo americano. I nostri padri e le nostre madri, per lo meno, erano nati in genere ne­ gli Stati Uniti, e in una classe di quaranta ragazzi solo otto o dieci po­ tevano anche essere identificati come ebrei, mentre la più recente im­ migrazione russo-polacca era così poco rappresentata che tuttora rie­ sco a ricordare il nome di Malatzky, il figlio brillante dagli occhi pic­ coli e vivaci di un vetraio sulla Columbus Avenue. Con l’eccezione di Broadway, che era stata costruita in modo mol­ to discontinuo finché l’apertura della metropolitana nel 1904 non ne ha definito il nuovo assetto, questa parte del West Side aveva preso for­ ma tra la fine degli anni ottanta e gli anni novanta. Le classi più pove­ re vivevano sulla Amsterdam e sulla Columbus Avenue: cocchieri, commessi, meccanici e semplici impiegati. I ricchi vivevano nei grandi appartamenti su Central Park West o nelle massicce magioni col rive­ stimento in pietra lungo Riverside Drive; nel mezzo, nelle traverse, e più sontuosamente sulla West End Avenue, c’era il tessuto connettivo della borghesia, in schiere di arenaria il cui squallore era talvolta in­ gentilito da qualcuna di quelle case gialline, in mattoni e pietra calca­ rea, disegnate da Stanford White e dai suoi imitatori. Crescendo in un quartiere come quello, un ragazzo assumeva come primario modello di vita gli agi borghesi, e a parte qualche occasionale inflessione irlan­ dese, tutti parlavano puro Manhattanese. All’improvviso ero stato catapultato in un angolo sperduto della città, circondato da un gruppo di ragazzi con facce estranee, accenti pesanti e quasi indecifrabili, modi sboccati e sbrigativi: ragazzi che 14

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mangiavano cibi strani i cui odori infestavano il loro alito e che sem­ bravano aggrapparsi ai loro vestiti; ragazzi la cui vitalità aggressiva mi faceva sentire come un gracile cardellino in uno stormo di avidi passe­ ri. Dovevo badare a me stesso in mezzo a gente che aveva imparato l’arte di sopravvivere in un ambiente di gran lunga più difficile di quel­ lo da cui io provenivo, e all’ora di pranzo mi ritrovavo inevitabilmen­ te quasi in fondo alla coda che sfilava davanti al bancone della caffet­ teria, sempre incapace di prendere una decisione abbastanza in fretta da ottenere ciò che volevo prima di essere spintonato troppo lontano. I miei compagni di scuola appartenevano per lo più alla seconda ge­ nerazione della grande immigrazione di ebrei, russi e polacchi soprag­ giunta nell’East Side dopo l’assassinio dello Zar Alessandro II. Aveva­ no nomi come Moscowitz, Lefkowitz e Pinsky, e nelle case loro asse­ gnate non solo avevano imparato a marcare la maggior parte di noi nel­ la pallacanestro o negli sport di atletica, ma avevano anche acquisito una strenua padronanza delle materie scolastiche. Per la verità, quasi tutti eccellevano anche nell’uso delle mani, dal momento che non ave­ vano avuto genitori e bambinaie sempre pronti a privarli di ogni occa­ sione di lavoro manuale. Tutto sommato, erano bravi ragazzi, ma per uno che aveva condotto un’esistenza più scialba, essi erano stati, nel corso del primo anno, una presenza un po’ troppo ingombrante. I miei nuovi compagni di scuola mi fecero conoscere tutto a un tratto il lato spinoso della vita. Anche la mia famiglia aveva conosciu­ to l’angustia della dignitosa povertà, ma lì c’era una povertà in grande scala, massiccia, estesa, che funestava enormi quartieri, che alterava il senso della vita; una povertà che, invece di nascondersi timidamente dietro false facciate, si diffondeva nella città, creandosi le sue stesse for­ me, chiedendo, discutendo, asserendo, rivendicando ciò che le appar­ teneva, ora indaffarata in progetti per far soldi, ora intenta a bisbiglia­ re la strana parola «Socialismo» come fosse la chiave che avrebbe aper­ to tutte le porte. A quei tempi le mie idee politiche erano estremamente conservatrici; i diritti di proprietà mi sembravano un assioma; e ricordo quanto rimasi colpito nello scoprire che uno dei miei amici, di nome Stamer - il cui padre, un tedesco vecchio stampo classe 1848, fabbricava sigari a Greenpoint - era un socialista. Stamer scuoteva il mio compiacimento borghese con le sue sprezzanti descrizioni di quello che fino ad allora mi era sembrato un mondo stabile e sensato, e piano piano tutte le mie convinzioni cominciarono a vacillare, non tanto per la forza della sua argomentazione quanto piuttosto per l’evi­ dente debolezza delle mie risposte. Anche un paio di insegnanti, per15

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sone pacate e oneste, erano socialisti e talvolta in classe esponevano le loro vedute. Avrei potuto vivere e morire nella mia parte di West Side senza capire che né i Democratici né il Partito Repubblicano avevano mai riconosciuto la Lotta di classe. Anche la 14’ Strada aveva un che di formativo per un ragazzo pro­ vinciale del West Side. Tammany Hall dominava ancora col suo tetro edificio vicino alla Third Avenue, e inglobava il vecchio teatro di Tony Pastor, mentre quasi di fronte c’era il bar di Tom Sharkey con un’am­ pia vetrina, e il Dewey Theatre dipinto di bianco, dove orrendi poster di bellezze obese intente nella danza del ventre che precedeva lo spo­ gliarello si dispiegavano davanti ai nostri sguardi. Don ’t do that dance I tell you Sadie, that ain ’t no business for a lady era una delle canzoni in voga in quel periodo, e tutti noi sapevamo, se non altro indiretta­ mente, che la 141 Strada andava ben al di là della «Sadie» di Broadway. Il mio tragitto abituale verso la scuola attraversava Irving Place e pro­ seguiva lungo la 151 Strada, poiché al secondo anno avevo scoperto che una splendida ragazza, con austere guance bianche e capelli neri, mi superava quasi ogni mattina per andare alla Quacker School sull’an­ golo di Stuyvesant Square. Riesco ancora a vedere la sua graziosa fi­ gura, in un vestito di lana blu, con un cappello nero dalla piuma ele­ gante, la sua andatura composta e mai frettolosa, e il suo sorriso timi­ do e vagamente arcaico, che era impenetrabile ma al contempo non in­ differente, e mi domando oggi se mai nei suoi sogni segreti io abbia avuto la parte che lei ha avuto nei miei. All’uscita di scuola, lungo la stessa strada, vicino alla Third Avenue, si incontravano pallide prostitute non più giovani con i rossetti pesan­ ti, che erano già di ronda. Sapevamo chi fossero quelle signore, vaga­ mente; alcuni ragazzi che vivevano sulla Forsythe e sulla Chrystie Street le avevano persino viste da vicino negli androni dei loro caseg­ giati; e nutrivamo un certo risentimento nei loro confronti, poiché erano le principali responsabili del fatto che non ci fosse permesso di uscire per strada a pranzo e che fossimo costretti a restare rinchiusi dentro la scuola. Tuttavia, l’anno successivo al mio diploma, nella scuola cominciò ad agitarsi un nuovo fermento sociale. Durante l’ora del pranzo un gruppo di ragazzi scacciò dal portone l’insegnante che stava di guardia, ed evase in cerca della libertà; la cosa provocò imme­ diatamente uno sciopero di tutta la scuola, e quando la faccenda fu si­ stemata, i ragazzi si erano ormai conquistati il diritto di pranzare fuo­ ri dalla scuola. A beneficiare di questa disposizione, furono certo più gli scoiattoli di Stuyvesant Square che le bellezze ritratte sui muri. Con i soldi del tram spesso preferivo comprare dei dolciumi e così me ne tornavo a casa a piedi, di solito insieme a un paio di altri ragaz­ 16

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zi. Il tragitto tagliava diagonalmente la città, talvolta risalendo Broadway, talvolta costeggiando i prati aperti della New York Central e poi proseguendo verso Central Park. Osservavo la Public Library e il Grand Central Terminal in costruzione, e ricordo tratti della Fifth Avenue, sotto la 59a Strada, ancora fiancheggiati dalle residenze in are­ naria e dalle magioni sfarzose davanti alle quali le carrozze sostavano e le diligenze - come mia madre chiamava ancora gli autobus - passa­ vano dritte. Eppure il ricordo visivo di queste camminate è confuso, poiché per la maggior parte del tempo eravamo impegnati in conver­ sazioni su Dio, l’immortalità e la Fede della Cristianità, soprattutto quando si aggregava al gruppo un ragazzo olivastro di confessione evangelica, che si chiamava George Lush. L’ariosità di allora del quar­ tiere del centro, i suoi edifici bassi e i grandi spazi non edificati su Park Avenue sono ovviamente tuttora vividi in me, anche perché erano an­ cora visibili fin quando non è stato costruito lo Shelton nel 1924, men­ tre spero ardentemente che qualche stenografo celeste abbia trascritto per me una di quelle dispute teologiche. Sia io che Lush eravamo an­ cora dei ragazzi timorati. Ma corn’è possibile che passassimo tutte quelle ore a confrontare le pratiche dei Battisti con quelle degli Episcopalisti? Non stavamo forse lottando contro la Critica testuale? Non ricordo. Alla scuola media, la maggior parte degli insegnanti erano uomini attempati, invecchiati svolgendo la loro professione con dignità ma senza alcuna ispirazione - uomini che ricordavano le rivolte contro il reclutamento, o la città bardata a lutto che aveva celebrato il funerale di Lincoln. Alle superiori c’erano molti insegnanti giovani che porta­ vano in classe quell’atmosfera contemporanea di Cornell, di Chicago e del Wisconsin, e di altre università più vicine; persone che si appas­ sionavano alle loro materie e che magari interrompevano gli esperi­ menti di fisica per accennare ad eccitanti scoperte scientifiche che non sarebbero comparse sui libri di testo prima di un decennio: la prima teoria della relatività di Einstein, o la teoria elettronica della materia, che facevano sembrare sciocca la vecchia teoria dell’indivisibilità del­ l’atomo, a meno che non servisse come pura convenzione nella scrit­ tura delle equazioni chimiche. Anche il preside, un omone dolce con una barba grigia alla Van Dyck, era un patito della scienza; ogni anno si teneva per sé un’ora di fisica e ci sorrideva raggiante quando con­ cludeva con successo un esperimento. Alcune delle materie tecniche meno impegnative, come il disegno meccanico, sembravano attirare gli abitudinari, ma in compenso c’erano insegnanti di modellistica o di 17

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tornitura dei metalli che avevano lavorato nella fabbrica di serrature Yale & Towne o in quella di locomotive Baldwin, e che non si erano attaccati all’insegnamento per una pura inettitudine alle occupazioni più materiali o per il gusto di un riposo precoce. Quanto all’insegnan­ te di forgiatura, si trattava di un fabbro tedesco della vecchia scuola, e le sue rose in ferro con le foglie ricciolute facevano la nostra invidia. Che una scuola così fortemente orientata verso le scienze e le arti meccaniche avesse anche una buona sezione di inglese, era una gran­ dissima fortuna per un giovane la cui attitudine per la matematica era svanita più o meno al tempo della sua prima lettera d’amore. Anche gli insegnanti di inglese erano sempre in trincea, perché la Commissione ministeriale aveva scelto per la nostra formazione molta letteratura piuttosto trita, e il fatto che alla scuola media, per una qualche svista, ci fossimo già imbattuti nel Giulio Cesare o ne La signora del lago, non era di nessun aiuto. Ma il mio insegnante del primo anno, un giova­ notto meditabondo e svagato, con una faccia lentigginosa e un’enorme massa di capelli color carota, aveva incoraggiato un gruppo di noi a scrivere un testo teatrale, e fu dalle sue labbra che sentii uscire per la prima volta il nome di Bernard Shaw. A ripensarci ora, era questo che davvero contava in tutte quelle ore di scuola. Non la lezione in sé, ma quel che ne valicava i confini - un cenno, una pacca sulla spalla, la con­ fessione di una segreta ambizione, un frammento di vita vera così co­ me qualcuno l’aveva realmente vissuto. Io odiavo le equazioni di secondo grado e non mi piaceva partico­ larmente la geometria, ma alle superiori non avvertivo quel macigno di noia che resta il marchio prevalente della mia precedente formazione. Era un bel pezzone di vita che bisognava ingoiare, e forse esagerava­ mo nello studio in una fase in cui i nostri corpi richiedevano una ra­ zione di ozio e di relax maggiore di quella che ci concedevamo. Ma in questo nuovo ambiente non mancavano gli stimoli intellettuali. Dopo la visita alle fonderie sull’East River, gli allenamenti di tennis a Staten Island - dove per andare a giocare un’ora ce ne volevano due di viag­ gio -, le partite di baseball nel Bronx e le contrattazioni sul prezzo con stampatori di terz’ordine su John Street, avevamo imparato a muover­ ci in città e sapevamo tante cose riguardo a ciò che la vita aveva da of­ frire a noi e ai nostri simili. Quando lasciai le superiori, comunque, le mie ambizioni erano cambiate. Volevo fare il giornalista per poi diventare uno scrittore. Shep Friedman era allora il direttore della cronaca locale del «Morning Telegraph», e poiché era un amico di famiglia, per un paio d’anni con­ 18

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tinuai garbatamente a tormentarlo per avere un lavoro. Di solito pas­ savo da lui intorno alle sei del pomeriggio, prima che fosse troppo im­ pegnato a lavorare o a bere, e benché fosse del tutto chiaro che io ero un adolescente imberbe e concitato, lui aveva sempre la decenza di tra­ scinarmi almeno al bar dell’angolo a bere amichevolmente una birra. Dopo di che mi dava una letterina di presentazione per l’ultimo arri­ vato della cronaca locale dell’«Evening Journal». Poiché ero idiota ol­ tre che onesto, non guardai mai quelle letterine. Ora ho il sospetto che dicessero: «Vi prego, date qualcosa da fare a questo ragazzino oppure annegatelo». In capo a sei mesi giunsi a un compromesso con le mie ambizioni e andai all’«Evening Telegram» a per fare il garzone per il turno di notte. Le mie sensazioni somigliavano un po’ a quelle di un gentiluomo decaduto, che conoscevo un tempo, e che si era ridotto a fare il lavapiatti in un grande albergo. Ma - come spiegava orgogliosa­ mente agli amici - lui non era un lavapiatti qualsiasi; lavava solo i piat­ ti degli ospiti che chiedevano il servizio in camera. Era inteso che io sa­ rei passato a fare il cronista praticante non appena qualcuno fosse sta­ to promosso o licenziato. Il lavoro mi obbligava ad alzarmi alle tre del mattino, a prepararmi da solo la colazione e a prendere la linea «L» sulla Sixth Avenue in di­ rezione Herald Square. Il retro del nostro appartamento affacciava sul­ la Columbus Avenue; sporgendomi dalla finestra della cucina per ve­ dere se il treno in transito aveva le luci verdi o bianche, potevo valuta­ re quanto tempo mi restava per finire la cioccolata calda. Ci si sentiva un po’ superiori ad andare in giro per la città a quell’ora, prima che il lattaio iniziasse i suoi giri. Il bagliore bianco freddo delle lampadine elettriche rafforzava la sensazione di distacco, e una luce improvvisa nella camera da letto di un caseggiato completamente buio poteva ag­ giungere persino un tocco di mistero, facendo pensare a qualcuno che era in pena, a qualcuno che litigava, a qualcuno che stava morendo o nascendo. Ma spesso non mi accorgevo della città addormentata per­ ché, in preda a un’euforia piena di sufficienza, leggevo alcune pagine di Platone o di William James. Leggere L’universo pluralista alle tre e mezzo del mattino quasi cancellava l’umiliazione di spazzare il pavi­ mento e di sistemare la carta velina nell’aria viziata dell’ufficio della cronaca locale mezz’ora più tardi. Se mi capitava di prendere il treno dieci minuti prima, potevo trovare gli ultimi cronisti che finivano la lo­ ro partita a poker in un angolo del nostro comune ufficio. Il «Telegram», già nel 1913, era un giornale piuttosto scadente, ma James Gordon Bennett era ancora vivo, e qualche flebile, insignifican19

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te scintilla della sua carica vendicativa riusciva ancora a far trasalire un direttore o un cronista. (Bennett era lo stesso demonio insolente che aveva offerto a Stanley il suo vecchio lavoro all’«Herald» dopo che aveva scoperto Livingstone ed era diventato famoso). A quel tempo, il nome Roosevelt era tabù; era possibile alludere a lui solo come al «pre­ sidente ombra». Tra gli altri esempi dei capricci di Bennett, c’era una ghiacciaia in un angolo della redazione che veniva riempita ogni gior­ no a dovere, forse perché il Vecchio in persona poteva capitare all’im­ provviso e chiedere del ghiaccio per il suo champagne. Anche il cap­ potto di alpaca di Bennett stava appeso ad un gancio nel suo ufficio privato, in attesa. Io ditribuivo frettolosamente la birra, i tramezzini e il caffè mentre il capocronista della notte passava i pezzi dell’edizione del mattino ai redattori. Già a quell’ora c’erano un po’ di sbandati nel bar sull’angolo nord-orientale della 35’ Strada. Persino i redattori, che a quel tempo prendevano più o meno trentacinque dollari alla setti­ mana - il capocronista della notte ne prendeva appena cinquanta -, erano soliti darmi la mancia, anche se leggevo William James e tal­ volta anch’io componevo un paio di pezzi se uno di loro arrivava in ritardo. Se nel quartiere avveniva una qualunque bazzecola, io veni­ vo spedito a farne la cronaca, ma l’esplosione di una fognatura e l’in­ cendio di un materasso erano più o meno il massimo che mi potesse capitare, e il mio orgoglio ne soffriva mentre la noia cresceva, sicché dopo un paio di mesi piantai il lavoro. Era stato un vaccino indolore e a buon mercato. Non ho mai più cercato la Vita nelle redazioni dei giornali, e da quel momento in poi li ho letti con un disprezzo e uno scetticismo frutto dell’esperienza diretta. Quando una nave da cari­ co senza telegrafo era affondata nei pressi di Halifax, non avevo for­ se visto una grande storia da prima pagina venir fuori in tre quarti d’ora dalla pipa puzzolente di un redattore, senza altro aiuto che quello della sua immaginazione? Per tutto questo tempo, e per alcuni anni dopo, andai a studiare la sera al City College, dalle sette alle dieci. In ogni caso fu un’esperien­ za straordinaria, che solo New York poteva offrire. Ma la stessaNew York potè offrirla una volta sola, poiché il college che io conoscevo, con circa cinquecento studenti e una vita intima e raccolta, scomparve nel breve giro di cinque, sei anni sotto la sola pressione della conge­ stione. Si trattava di uno di quegli importanti esperimenti che il City College aveva avviato prima di seguire la strada di altre istituzioni me­ tropolitane cedendo il passo al gigantismo. Stephen Duggan era il pre­ 20

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side e Frederick B. Robinson (uomo dalla memoria portentosa) era al­ lora il suo collaboratore, un uomo intelligente e affabile, che non ave­ va ancora svelato la sua straordinaria abilità di tenere furbescamente nel sacco un’intera istituzione. Gli studenti erano per la maggior parte uomini maturi, e mi aveva­ no reso insofferente verso il genere stesso dello studente. Uno di loro era un affermato avvocato, dalla dialettica parlata scozzese; un altro era un console Sudamericano; e c’erano poi medici, agenti di cambio, con­ tabili, ingegneri, come pure gente non ancora affermata come me. Non avendo alcun obbligo di regolarità, cominciai il mio percorso univer­ sitario a ritroso, saltando la maggior parte delle materie del primo an­ no e buttandomi a capofitto nei corsi più avanzati di politica, filosofia e inglese. In tutti i nuovi programmi per la revisione dei piani di stu­ dio che ho visto, neppure il dottor Hutchins sembra avere contestato questo espediente, ma forse esso non potrebbe funzionare con gli altri peggio che con me. C’è qualcosa di ameboide nel comune studente universitario, ma noi che frequentavamo i corsi serali avevamo una nostra forma, una spina dorsale e un chiaro punto di vista. Le nostre discussioni erano battaglie, e anche se spesso vivevamo per poi cambiare bandiera, non c’era niente di provvisorio o di incerto nelle nostre prese di posizione; non soffrivamo di quella malattia accademica vagamente definibile «larghezza di vedute». I nostri professori erano uomini di carattere: uomini come Morris Cohen, che rifletteva e insegnava per la passione verso aspetti del pensiero tanto puri quanto quelli di un Socrate o di uno Spinoza. C’era Alfred Comton, un gentiluomo beffardo e smilzo con un tocco di Robert Louis Stevenson. C’era John Pickett Turner, un bell’uomo con una enorme testa scura, un neo sulla guancia e delle spalle di dimensioni platoniche; parlava con lentezza meridionale e vi­ vacizzava i suoi corsi di psicologia con casi palesemente presi dalla sua vita e dalla sua esperienza matrimoniale. Imparziale e tollerante, non batté ciglio quando un piccolo rumeno spigoloso, Jallver, dichiarò du­ rante la lezione di etica che il su.mm.um bonum sarebbe stato morire al­ l’apice di un orgasmo tra le braccia di una splendida donna. C’era poi J. Salwyn Schapiro, uno dei brillanti allievi di J. H. Robinson, che riempiva l’aria di epigrammi e paradossi, uno dei quali colpisce più og­ gi nel 1937, che non allora nel 1913: «La Costituzione potrebbe essere abolita, ma non emendata». E poi c’era Earle Palmer, un uomo picco­ lo con una faccia pallida e tesa, spalle ricurve, e occhi scuri che ardeva­ no dietro agli occhiali. Ci faceva scorrere l’antologia di Pancoast, in21

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terpretando e recitando poesie con commenti di un’ironia pungente che scaturiva dalla passione e non dall’amarezza - una figura fragile ma senza età, metà folletto e metà demonio, con un tocco improvviso di cupezza tipico di chi non aveva minimamente domato il terrore, la rabbia e il dolore. I miei amici ad Harvard mi subissavano di racconti sul loro famoso Copey, ma nessuno mi ha mai fatto minimamente rim­ piangere di non aver incontrato l’istrionico professore di Harvard. Un pizzico della spietata sincerità di Palmer valeva almeno quanto la metà di una buona formazione universitaria. Quando l’università si era trasferita dalla 23* Strada, il consiglio di amministrazione del City College aveva scelto una sede grandio­ sa per i suoi nuovi uffici, e l’architettura aveva un potente effetto quando si risaliva la collina oltre l’Hebrew Orphan Asylum al cala­ re del crepuscolo in ottobre, e si vedevano gli edifici, con le loro masse scure di pietra e i conci e le cornici di terracotta bianca, sor­ gere come una formazione di cristalli dalle rocce informi della cima. Giù in basso, si estendeva la piana di Harlem, un vapore di luce che faceva da sfondo allo sfavillare di una grande insegna di birra. Nel riverbero del tramonto, o nel buio della notte, questi edifici poteva­ no risvegliare ricordi nostalgici con la stessa facilità di quelli di Brasenose o Magdalen. Spesso accompagnavamo a casa uno dei nostri professori, lungo Covent Avenue o Broadway, e qualche volta un gruppetto di noi, infervorato dalle discussioni iniziate in classe, scendeva a passo spedito lungo Riverside Drive, gareggiando in sconci giochi di parole, dibattendo su libero arbitrio e determini­ smo, o intonando di colpo una canzone. C’era l’intimità che solo un piccolo college può offrire, con in più la varietà e l’intensità di sti­ moli tipici di una grande città.

L’altra parte della mia adolescenza, specialmente nei primi anni, ruotava per lo più attorno ai vecchi campi da tennis di Central Park, sul lato sud della traversa della 96’ Strada. I campi erano allora coper­ ti d’erba, e quello più amato, ormai quasi spoglio per le continue par­ tite, era detto il «campaccio». Un anziano custode, con una barba gri­ gia inzaccherata di succo di tabacco, aveva il compito di tracciare le li­ nee dei campi e di riporre le reti. Probabilmente era uno di quei pen­ sionati della Guerra Civile che avevano ancora la precedenza nelle li­ ste di collocamento pubbliche, e noi lo chiamavamo «Capitano», ma lui aveva un pessimo carattere e conduceva la sua guerra incivile con la maggior parte della gente che andava là a giocare. Era spesso ubriaco, 22

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e le linee bianche che segnava col suo spruzzatore non denotavano al­ cuna determinazione nel disegnare un tracciato stretto e dritto; ma questo personaggio intrattabile conferiva al luogo un sapore particola­ re che è in netto contrasto con la cortesia asettica e incolore di oggi. Nessuno poteva iniziare a giocare finché il Capitano non issava la ban­ diera sul pennone. A quei tempi c’era una curiosa combriccola che bazzicava quei campi: qualche cronista dell’«American» e del «Press»; un agente tea­ trale che chiamavamo Ted; un gobbetto senza una chiara occupazione, detto Ferdie «il sudicio»; alcuni fannulloni semi-professionisti che gio­ cavano per scommessa; e un gruppetto sparuto di ragazze che di soli­ to si attaccavano agli uomini più grandi - vecchi che avranno avuto a dir poco trent’anni - o a qualche nostro coetaneo che prendeva il ten­ nis molto sul serio. Giorno dopo giorno, durante l’estate umida e afo­ sa, gironzolavamo sulla collina dietro al campaccio, e poi giocavamo, poi gironzolavamo, e poi giocavamo ancora, finché riuscivamo a mala pena a strascicare i piedi sul campo. Era un mondo autosufficiente e completo; anche quando pioveva, andavamo ai campi con le nostre racchette, ci lasciavamo andare sulle panchine sotto gli alberi vicino al­ la cisterna, e facevamo congetture sul tempo. Quando c’erano solo maschi, il livello della conversazione scadeva sottoterra, e io ritornavo a casa con parole nuove che non potevo trovare nei dieci volumi del Century Dictionary, e che talvolta contenevano lascive allusioni ad aspetti della vita il cui significato mi è rimasto del tutto oscuro finché non ho studiato psicopatologia. Tutto considerato, forse è stato un be­ ne aver giocato tanto a tennis. Non so se riesco a ricreare a pieno l’atmosfera che si respirava al­ l’epoca in quei campi di Central Park. Forse somigliava di più a quel­ la che si respira su una spiaggia pulita e assolata, dove l’oceano scarica di tanto in tanto scorze marce di cocomero, arance ammuffite, e vec­ chie scatole di cartone. Non c’era niente di particolare nella mia vita di allora che mi inducesse alla spontanea ricerca della meschinità, dello squallore o della disonestà, ma continui accenni a tutto ciò facevano capolino nel mondo intorno a me. All’età di quindici anni, avevo or­ mai acquisito una corazza di cinismo che avrebbe fatto onore al sud­ detto cronista, e il mio allenatore di tennis delle superiori, un eccellen­ te insegnante di inglese di nome Quimby, mi aveva detto una volta con comprensibile orrore: «Parli come un sessantenne deluso». Eppure malgrado la mia precoce consapevolezza, la prima esperienza d’amore l’ho avuta a quindici anni - con Sybil, una ragazza conosciuta sui cam23

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pi da tennis -, come se tutta la mia vita fosse fino ad allora trascorsa tra gli ingenui dell’Arcadia. L’altro giorno ho assistito ad un festival cano­ ro organizzato dalle ragazze di uno dei nostri college comunali, un’af­ fascinante moltitudine di giovani sfacciate, i cui passi di danza avreb­ bero fatto onore a Broadway. Nello spettacolo molto seducente che hanno messo in scena, nelle canzoni che hanno composto, ho notato la stessa combinazione di verginità e cinismo, di castità e spudora­ tezza: quella curiosa patina di cinismo che ricopre la giovinezza in una grande città. Quelle ragazze erano indubbiamente giovani e fre­ sche, ma erano già un po’ svilite, lievemente sporcate. La mia ragazza era una di quelle bellezze impietose che non si sentono mai a loro agio se non sottopongono a tortura cinque o sei uomini contemporaneamente. Con uno partecipava alle gare di tan­ go sulle orme di Irene Castle, con un altro andava a nuoto, con un al­ tro ancora andava alle partite di football. Di fatto, eravamo tutti spe­ cializzati e sottomessi, e di solito era ad uno dei più grandi che riser­ vava le complicanze sentimentali. Se io avevo cominciato prima ed ero rimasto sulla scena più a lungo di tutti gli altri ammiratori giova­ ni, era perché funzionavo come una sorta di indicatore di livello dei flussi e dei riflussi della marea. Di tanto in tanto lei si aggrappava a me per trovare sostegno. La mia specializzazione era giocare a tennis sui campi di Morningside Park - a qualche isolato da casa sua - alle sei del mattino, prima che lei iniziasse la sua giornata da modella. E’ stata forse l’unica occasione della mia vita - a parte quella della leva in marina -, in cui sono stato palesemente avvantaggiato dalla capa­ cità di fare levatacce senza sforzo. Non potevo pretendere che in quella relazione vi fosse niente di particolarmente tipico di New York. Il momento in cui essa più si avvicinò ad assumere le tinte della città fu in una calda sera d’estate, in una strada che brulicava di bambini inondata dalle note di un or­ ganetto che strimpellava la Cavalleria Rusticana, quando le dissi che volevo sposarla. Lei fu molto compassata. Mi spedì a prendere del gelato, che i venditori ammucchiavano allora in esili contenitori di carta, e poi mi portò sul tetto del suo palazzo, un piano più in alto di quello a cui arrivava l’ascensore, per mettere in chiaro le cose mentre a turno ci tuffavamo nella scatola del gelato. L’intenso cielo estivo era rischiarato a est dalle luci di Harlem, e su quell’alto tetto si aveva una sensazione di distacco dal resto del mondo, che in Na­ tura non è dato mai provare a un’altezza inferiore ai mille e cinque­ cento metri. Ma nessuno è mai riuscito a fare sul serio l’amore con 24

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le mani appiccicose di gelato. Forse Sybil lo sapeva quando si la­ mentava del caldo. La lasciai bruscamente quando mi disse che sa­ remmo sempre stati buoni amici - amiconi, in verità -, e scesi in strada sul marciapiede umido, dove cominciavano a cadere grosse gocce di pioggia, con addosso una sensazione di drammatica solen­ nità. Le stesse note di prima - forse uscite dallo stesso organetto risuonavano metalliche in lontananza. Ed io stavo già buttando giù a mente il primo atto di un dramma che si sarebbe intitolato L’amo­ re a Morningside Heights.

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Mumford inaugurò «The Sky Line» mentre a New York City e in tutti gli Stati Uniti si facevano sentire gli effetti peggiori della depressione. Con l’ecce­ zione del Rockefeller Center e di alcuni cantieri pubblici, praticamente non era stata avviata in quegli anni nessuna nuova costruzione; progetti già in prece­ denza iniziati, quali l’Empire State Building, venivano completati ma per es­ sere poi ceduti in subaffitto. Il sindaco James Walker era alla guida di una città con le liste dei sussidi rigonfie e con un tasso di disoccupazione che si avvicina­ va a un quarto della popolazione. Il suo primo pezzo per la rivista analizza nel giugno del 1931 iprogetti per il Rockefeller Center. Nell’autunno di quell’an­ no escono le prime Sky Lines, critiche del George Washington Bridge e del New York Hospital. Una recensione dell’Esposizione Intemazionale di Archi­ tettura Moderna al Museum of Modern Art e diversi pezzi antologici sono pubblicati nella primavera del 1932.

PASSEGGIANDO PER NEW YORK

Musica congelata o statica solidificata. Riflessioni su Radio City 20 giugno 1931

Quando i progetti per Radio City vennero annunciati per la pri­ ma volta vi fu una sana reazione: non piacquero a nessuno. Metà del­ le ragioni per le quali non erano piaciuti erano, forse, altrettanto po­ co difendibili quanto i progetti e gli edifici stessi; ma il punto è che tutti avevano la sensazione che una grande opportunità fosse andata perduta. Non c’era nulla di sorprendente riguardo a Radio City, ec­ cetto che sembrava esattamente come le altre costruzioni fatte in fretta e furia, disposte a caso, che componevano il resto della città. A parte il fatto che i tre maggiori edifici per uffici dell’area erano rag­ gruppati attorno ad una piccola piazza, c’era ben poca traccia della presenza di una concezione unitaria di fondo. Park Avenue, prima del 1925, era più omogenea. Cosa c’era che non andava? Procediamo dall’inizio. Gli architetti sono partiti da tre blocchi quasi vuoti, che si estendono dalla 48" alla 51" Strada. Sul lato della Sixth Avenue toccano il margine poco curato del quartiere del teatro; nella Fifth Avenue fronteggiano Saks e St. Pa­ trick. Il nome Radio City deriva dal fatto che, nella fase iniziale del progetto, qualcuno aveva avuto l’idea di dedicare questa area alle tra­ smissioni radiofoniche, e con la prospettiva della televisione ormai non molto lontana, aveva pensato di localizzare sullo stesso sito i teatri di vaudeville e la Metropolitan Opera House. Nei progetti originali tre edifici erano destinati agli uffici ammini­ strativi di varie industrie del divertimento; due aree erano destinate ai teatri; una era assegnata in linea di massima all’Opera House; un edi­ ficio - nel modello originario una struttura ovale sulla Fifth Avenue, tra la 49’ e la 50’ - doveva ospitare una banca, negozi e spazi espositi­ vi; due edifici alti quarantacinque piani, rispettivamente sulla 48“ e 51’ 29

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Strada, e un grande edificio sulla Fifth Avenue tra la 50J e la 5P dove­ vano essere destinati ad uffici; più tardi era stato reso noto che uno dei grattacieli poteva essere adibito a parcheggio coperto. Così si lasciava nel mezzo dell’isolato a nord un’ampia area senza destinazione. È tutto chiaro? Ho dimenticato di dire che la superficie è approssi­ mativamente equivalente a dieci volte quella del Graybar Building o a tredici volte quella del Chrysler Building. Questo è un altro modo per dire che l’area di Radio City è più vasta del Madison Square Park, e che si tratta della prima volta che una simile distesa è stata liberata nel mez­ zo della città per creare un progetto di ampliamento unitario. Gli ar­ chitetti che hanno in mano il lavoro sono: Reinhard & Hofmeister, Corbett, Harrison & MacMurray e Hood & Fouilhoux. Nel primo impeto pubblicitario si aveva l’impressione che John D. Rockefeller Jr., che aveva preso in affitto questa enorme area dal­ la Columbia University, si accingesse a fare per la città un’operazio­ ne generosa. Quando i pomodori e i fischi che avevano accolto il progetto erano diventati ben visibili e udibili, una seconda ondata di pubblicità era stata preparata per mostrare che Rockefeller non in­ tendeva fare nulla del genere. Rockefeller era un uomo pratico; i suoi architetti erano uomini pratici; dal primo all’ultimo, l’idea comples­ siva era nelle mani di uomini pratici. Verso la grande università ave­ vano tutti un obbligo che trascendeva qualsiasi interesse pubblico minore che volessero promuovere; vale a dire che durante il periodo d’affitto non dovevano fare nulla che potesse ostacolare un cospicuo aumento del valore fondiario. «L’importanza di queste considerazio­ ni sulla produzione di rendita», ha ammirevolmente osservato L. A. Reinhard, «non deve essere eccessivamente sottolineata». Esse giusti­ ficano però il magistrale cumulo di congestione che gli architetti han­ no prodotto. In altre parole, Radio City non doveva essere diversa per caratte­ re da qualsiasi altra parte della città. Se ciò fosse stato reso esplicito fin dall’inizio, le pubbliche aspettative avrebbero potuto essere smorzate, e il pubblico disappunto avrebbe potuto non essere così acuto. Uso il condizionale con la dovuta cautela. C’era qualcosa in quei tre blocchi liberi, senza allineamenti, senza seri ingombri, che accendeva l’immaginazione. Data la possibilità di trattare quei bloc­ chi come un’unità, la gente con ostinazione, ingiustamente e irragio­ nevolmente, pensava di potersi aspettare da Rockefeller, o da chiun­ que fosse stato alla fine il responsabile della realizzazione, un pizzi­ co - o due - di spirito pubblico. Creare l’opportunità di una buona 30

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progettazione, mostrare che l’intelligenza e l’interesse pubblico non sono alla fine un grande handicap finanziario, farlo anche senza spre­ mere dai valori fondiari fino all’ultimo milione: aspettarsi tutto que­ sto era forse troppo? Certo che lo era. C’erano un’infinità di ostaco­ li che si frapponevano a un qualsiasi risultato ragionevole. Conside­ riamone solo alcuni. Prima di tutto c’era Rockefeller stesso. Lui è un uomo ricco, e ci deve essere uno speciale coro d’angeli a fare in modo che gli uomini ricchi non acquistino alcuna illusione di onnipotenza quando sono in procinto di mettere assieme grandi aree urbane edificabili. La princi­ pale spina nel fianco di Rockefeller era la chiesa sull’angolo tra la Fifth Avenue e la 48“ Strada. Era senza dubbio un gran bene per la sua ani­ ma che la chiesa di St. Nicolas fosse salda quanto la roccia di S. Pietro; ma per i migliori architetti del mondo sarebbe stato un intralcio avere l’angolo più importante del loro progetto tolto di scena. Di fatto, tut­ to il fronte sul viale dalla 48’ alla 49’ Strada sarebbe rimasto in altre ma­ ni; un colpo questo che non è stato smorzato dalla costruzione recen­ te di un’eccellente riproduzione in stile - modernique, 1925 - sull’an­ golo della 49’ Strada. Era insomma un cattivo inizio. Il nostro grande mecenate ha evidentemente un altro sfortunato di­ fetto, che forse condivide con la maggior parte dei suoi concittadini: gli piace il tipo sbagliato di architettura. Nei primi annunci riguardanti Radio City veniva sottolineato che Rockefeller, dopo un inverno tra­ scorso in Egitto, aveva suggerito uno stile egizio per i grattacieli a te­ laio in acciaio che gli uomini pratici avevano scelto per l’area. Ci si po­ trebbe meravigliare che qualcuno non abbia subito proposto le pira­ midi, scoprendo che il loro arretramento risponde esattamente alle re­ strizioni imposte dal piano di zonizzazione. Nessuno ha pensato ad una piramide, o ha cercato di farla diventare una ziggurat babilonese per adattarla alle moderne condizioni urbane; ma ciò non ha di fatto giovato alla situazione. È il caso di ricordare che Rockefeller desidera generosamente rimpiazzare Barnard Cloisters, il museo più perfetto della città, con un edificio gotico «genuino»: è ragionevole temere che si tratti di qualcosa di simile a Riverside Church. Ahimè! Il suo buon gusto in architettura non può certo essere confrontato con quello di suo padre nella scelta dei presidi dell’università o dei direttori di ricer­ ca in campo medico! A Radio City gli agenti immobiliari, i commercianti, i dirigenti radiofonici e il corredo di esperti vari, seguendo i loro canoni mio­ 31

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pi e un po’ superstiziosi, hanno imposto il numero, il tipo e l’altez­ za degli edifici che potessero dare un profitto immediato: agli archi­ tetti e a Rockefeller non è rimasto niente eccetto le decorazioni. Sot­ to la pressione dell’opinione pubblica, gli architetti sono andati in ritiro dopo la presentazione del primo schema di massima, allo sco­ po, si presume, di ristudiare le decorazioni. Spero che Rockefeller alla fine sia d’accordo, e sono sicuro che lo sarà. Che il risultato si definisca Egizio, Classico o Moderno non conterà molto. La que­ stione non ha essenzialmente nulla a che fare con l’architettura, dal momento che l’architettura si occupa dell’ordine e della disposizio­ ne del tutto - e ciò nella fattispecie è stato definito molto tempo pri­ ma, quando si è deciso che il progetto dovesse essere puramente pratico. Ma gli uomini pratici sono pratici? Questa è un’altra questione. Gli uomini pratici probabilmente non sono più pratici di quanto gli architetti moderni siano moderni. Questa era una grande occasione per Harvey Wiley Corbett: avrebbe potuto dare corpo al suo credo quasi religioso secondo cui il grattacielo del futuro potrà ospitare sotto il suo alto tetto una varietà di funzioni; questa era anche un’oc­ casione per Raymond Hood che avrebbe finalmente potuto posizio­ nare un edificio alto nel mezzo di una piazza aperta, come aveva spesso sostenuto; ma nessuno di questi sogni si è realizzato. Al loro posto ci sono tre super grattacieli e un fazzoletto di spazio aperto chiamato «piazza». La creazione di questo ingorgo è stata, come gli architetti hanno ripetutamente sottolineato, intenzionale. Quando aggiungono, come Reinhard, che anche se «il traffico è per New York un problema irrisolto, nel progetto-di questo complesso gli è stata comunque data una grande attenzione», si può trovare in simi­ li affermazioni solo una vena d’ironia. Avendo accatastato su questo sito più edifici di quanti potevano essere disposti su una dozzina di strade di ampiezza normale - New York era stata disegnata, nel 1811, per edifici alti dai quattro ai sei piani - la congestione del traffico di attraversamento urbano è stata secondo loro alleggerita allargando due delle strade... di cinque metri!

Agli uomini pratici, la cui astuzia consiste nel raccogliere e assem­ blare piccoli lotti di terreno e nel riempirli di torri più alte di quella di Ilio, non può essere affidato un grande appezzamento di suolo. Stan­ do alle valutazioni di esperti nel campo commerciale e architettonico che sono stato in grado di raccogliere, in città non c’è un edificio per 32

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uffici che, quando si spinge al di sopra del quarantesimo piano, sia qualcosa di più di una stravaganza o di un gioiello non negoziabile; sebbene le perdite possano essere ammortizzate in termini di pubbli­ cità, o, grazie al largo margine di sicurezza di cui godono questi inve­ stimenti, possano essere nascoste dal successo generale dell’edifìcio, ciononostante i piani più alti sono comunque una stravaganza. Di tut­ te le possibili forme di edifici per uffici, la torre è quella che spreca più spazio per gli ascensori in proporzione alla superficie coperta. Ma è meglio non parlare dei benefìci del trasporto verticale; stando all’at­ tuale regolamento edilizio esso è limitato alla vertiginosa velocità di meno di nove miglia all’ora, e quando si tiene conto di fermate e atte­ se il confronto è alquanto sfavorevole anche rispetto alle forme più lente di trasporto orizzontale. Gli architetti che hanno suggerito il tra­ sporto verticale come rimedio alla congestione delle strade - che a sua volta è causata proprio da questo sovraffollamento del terreno - stan­ no solo facendo uno scherzetto. In altre parole, l’alto grattacielo è il trastullo dell’uomo d’affari, il suo giocattolo, il suo gingillo; nella sua voglia di grandezza, lo chia­ ma alternativamente un tempio o una cattedrale e osserva il roman­ tico disordine di altezze della città moderna con la stessa beatitudine che l’industriale vittoriano provava per le ciminiere delle fabbriche che eruttavano fuliggine e gas fetidi. Il grattacielo lo fa sentire fio­ rente anche quando è la causa delle sue perdite di denaro. Nell’inte­ resse della congestione, l’uomo d’affari è disposto a rendere le strade intransitabili, a perdere migliaia di dollari al giorno in spostamenti a vuoto e in ritardi, a sprecare milioni nella costruzione di più metro­ politane per promuovere più congestione, e in generale a far fronte ad ogni tipo di seccatura, fintanto che può nutrire così il suo iperbo­ lico sogno romantico. L’edificio più alto a Radio City deve essere sessantotto piani e avere più superficie coperta dell’Empire State Building. Quando il traffico di attraversamento bloccherà in modo permanente il transi­ to attraverso i viali principali del centro città, come già succede as­ sai di frequente, anche se in modo temporaneo; o quando alle cin­ que si formeranno code alle stazioni d’ingresso alla metropolitana; o quando inizieremo a stimare i costi dell’inflazione - che già ora sembrano una sinistra minaccia -, l’uomo pratico finalmente rimet­ terà i piedi per terra. Attualmente è ancora nel Mondo delle nuvole. Ed è seguendo i canoni del Mondo delle nuvole che Radio City è stata disegnata. 33

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Nel criticare il progetto di sviluppo di Radio City non sto pren­ dendo le parti di coloro che avrebbero voluto trasformarla in una Pla­ ce de l’Opéra. Avrebbe anche potuto essere divertente; ma sarebbe sta­ to forse ancora più importante che qualcuno con poco margine finan­ ziario si cimentasse con l’idea di una disposizione veramente pratica per negozi, uffici, ristoranti, teatri, una volta eliminato il bisogno di prestare attenzione alle strane e limitate dimensioni dei lotti e agli in­ teressi proprietari in conflitto. Edifici proporzionati allo spazio dispo­ nibile per il traffico, edifici con uscite che non diventassero congestio­ nate, edifici orientati correttamente in grado di assicurare luce e aria fresca alle persone che oggi lavorano in interni ammuffiti e di fornire un ampio spazio sul tetto per la pausa di mezzogiorno: tutto ciò a co­ sa avrebbe assomigliato? Alla luce di queste esigenze, la soluzione sarebbe potuta essere una bassa cortina continua di costruzioni di dieci piani disposte attorno al perimetro dell’intera area, in grado di tagliar fuori il frastuono incon­ gruo degli edifici che già si trovano lungo la 48’ Strada ma che tra bre­ ve saranno ovunque. All’interno ci sarebbe stata un’ampia e quieta di­ stesa: qui si sarebbero disposti gli auditori, i teatri, i grandi magazzini, i negozi e, si spera, giardini pensili e ristoranti facilmente accessibili. Che sollievo dopo l’eccitazione dell’altezza: che sollievo non correre il rischio di guastarsi il pranzo con la vista degli ultimi pinnacoli dorati o delle più recenti ghirlande gotiche! Non sto proponendo questo come soluzione. Vi sono almeno un’altra mezza dozzina di soluzioni razionali; come, ad esempio, edi­ fici in linea per uffici correttamente orientati nord-sud, con strade pri­ vate tra di essi che permettano l’ingresso ai teatri e ai negozi e che se­ parino le file di edifici commerciali: si tratterebbe di un altro tipo di or­ dine. L’unica cosa che vorrei fare è indicare la differenza tra i proble­ mi di carattere architettonico e civico che Radio City avrebbe potuto affrontare e i criteri finanziari che effettivamente hanno imposto l’at­ tuale disegno. Il grande principio secondo cui la forma deve seguire la funzione è valido solo se l’architetto partecipa alla lettura critica e al­ l’individuazione delle funzioni che gli servono. Se siamo tutti un po’ irritati riguardo a Radio City non è certa­ mente perché la sua concezione architettonica è moderna, ma piutto­ sto perché è molto antiquata. Non possiamo unirci agli architetti nell’accettare le condizioni che Rockefeller e i suoi consiglieri hanno im­ posto. La vera questione è che ci aspettavamo qualcosa di meglio. Non 34

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potremmo esprimere maggior rispetto verso Rockefeller che prote­ stando contro la sua curiosa immagine di privato cittadino, rifiutando di accettare un progetto che non porta da nessuna parte se non di nuo­ vo al caos dal quale vorremmo uscire. Se Radio City, come è ora pre­ vista, è ciò che di meglio si poteva fare, non c’è la più pallida ragione per tentare di riorganizzare una grande area. Il caos non ha bisogno di essere progettato.

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PASSEGGIANDO PER NEW YORK

Ponti ed edifici 21 novembre 1931

Il George Washington Bridge segna il punto più alto raggiunto dall’architettura contemporanea. Questa affermazione è in qualche modo un paradosso dal momento che un ponte è pura ingegneria, e un simile trattamento architettonico probabilmente finirebbe solo col privarlo della sua attuale bellezza. Fortunatamente la tradizione di anonimato, che si è estinta in architettura, si lega ancora strettamente all’ingegneria e alle arti affini. Quante persone sanno che que­ sto ponte è stato disegnato e costruito da Othmar Ammann per l’au­ torità portuale di New York? Il nuovo ponte è stato aperto un secolo dopo che John A. Roe­ bling, il fondatore dell’organizzazione che l’ha eretto, era arrivato in America. Il Niagara Bridge, il Brooklyn Bridge e il PhiladelphiaCamdem Bridge sono alcuni dei punti di riferimento che danno un senso al progresso costante che ha avuto luogo nella tecnica di co­ struzione dei ponti. Il George Washington Bridge è ora il migliore sulle acque di New York, e questo non è un complimento da poco; in quanto il più vecchio di tutti, lo High Bridge, finché gli ingegneri dell’esercito non lo hanno sacrificato per facilitare la navigazione, era il più bel monumento in pietra creato prima della Guerra Civile, e il vecchio Brooklyn Bridge di John Roebling è forse l’esempio più sod­ disfacente di arte americana del XIX secolo. Dai primi disegni si poteva a mala pena indovinare quanto il nuo­ vo ponte sarebbe stato ben fatto. Originariamente, proprio il fattore che conferisce alle torri un tale interesse, unificando gli elementi orizzontali e quelli verticali - vale a dire la struttura d’acciaio stes­ sa - doveva essere nascosto dietro ad un rivestimento in pietra di­ segnato da Cass Gilbert. Fortunatamente per il successo estetico del 36

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ponte, la muratura in pietra sarebbe costata più di due milioni di dol­ lari e questa parte del programma è stata sospesa. Speriamo che la mancanza di fondi duri abbastanza da abolire dalla mente di tutti l’i­ dea che l’acciaio debba essere rivestito. Il punto critico nel progetto di un ponte sospeso è dato dal rap­ porto tra cavi e piloni. Mentre Roebling risolse con chiarezza questo problema nell’originario ponte ferroviario sospeso sul Niagara, de­ molito negli anni ottanta, nessuno dei ponti successivi ha ripreso ta­ le soluzione. Anche il Brooklyn Bridge entrò in crisi su questo pun­ to: la pesante cornice lapidea guastava la linearità dei cavi e non se­ gnalava il loro passaggio continuo attraverso tutta la struttura verti­ cale. Per quello che si poteva vedere, l’estremità di ogni cavo avreb­ be potuto essere incassata separatamente nel pilone. Nel Manhattan Bridge, i grandi globi in cima ai piloni erano irrilevanti e inutili; nel Williamsburg Bridge, l’effetto gabbia rovinava il fluire dei cavi.

La soluzione data da Ammann al problema è eccellente. I cavi so­ no portati in piena vista sopra alla torre su un’intelaiatura: una volta tanto si può osservare un ponte sospeso in uno stato di sospensione sia estetica sia meccanica. E la questione è tutta qui - quella questio­ ne che i nostri costruttori di ponti hanno, con ogni buona e onore­ vole intenzione, così costantemente evitato. Le torri squadrate sono lì semplicemente per portare il peso; in pietra queste torri sembre­ rebbero più massicce, ma non potrebbero assolutamente apparire più resistenti e stabili. In nessun altro punto del disegno si ha la benché minima sensazione di pesantezza: i cavi che cadono come un drap­ peggio a forma di curva catenaria - la curva fatta da una catena so­ spesa tra due punti fissi - sembrano doppiamente sottili a confronto con le larghe travi in acciaio delle torri. La campata stessa forma un’altra linea leggera, quasi tangente al­ l’arco dei cavi. Si contrapponga a questo il goffo Peekskill Bridge: anche se più piccola, la struttura dà un’impressione di peso, carico e sforzo di gran lunga maggiore. Nel nuovo ponte ci si accorge del pe­ so portato dai cavi tanto poco quanto poco ci si rende conto della ve­ locità di un’automobile potente che corra su una liscia strada in ce­ mento: proprio l’assenza di sforzo è una qualità che determina l’ef­ fetto estetico. È qui che sta quella soluzione di impulsi conflittuali in un ordine armonioso che Ogden e Richards, in The Foundation of Aesthetics, hanno cercato di dimostrare essere la vera anima e il vero corpo di ogni risultato estetico. Questa noncuranza, questa sensa37

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zione di facilità fluente, sono dovute soprattutto al fatto che la linea dei cavi è ininterrotta. Risultato: il profilo visto dal fiume è perfetto. Dal momento che l’accesso al ponte è ancora incompiuto, non c’è bisogno di dire nulla circa l’inadeguatezza del suo stato attuale: sul la­ to di Manhattan il passaggio brusco dalla rampa alla torre crea ora un secco angolo retto che richiede l’inserimento di un contrafforte di transizione. Le torri stesse stanno a cavalcioni del ponte in modo tale da portare i cavi su entrambi i lati dell’arco interno; l’effetto frontale non è perciò così felice come nel differente disegno del Brooklyn Brid­ ge. Ma nel complesso la struttura è una delizia per l’occhio: un pezzo di ingegneria armoniosa e ricca di inventiva, niente di simile può an­ cora essere trovato in uno qualsiasi dei nostri grattacieli. Lo Starrett Lehigh Building è un’altra vittoria per l’ingegneria. È uno stabilimento complesso che si estende dalla Eleventh alla Thir­ teenth Avenue lungo la 26’ e la 27" Strada; gli architetti sono Cory & Cory. Qui è stato utilizzato un fronte a sbalzo, non come cliché del modernismo, ma come mezzo per ottenere la massima quantità di lu­ ce e di pavimento continuo, per il lavoro che richiede illuminazione di­ retta. Il risultato estetico è davvero molto felice. Il contrasto tra le ban­ de lunghe e continue di mattoni rossi e le finestre incorniciate di ver­ de, con i riflessi o le profondità dello zaffiro, riprende un uso del co­ lore tanto forte quanto lo si può vedere in giro per la città. Il lato nord della struttura è letteralmente emozionante: qui i requisiti richiesti dal regolamento edilizio hanno creato un arretramento della finestratura superiore altrimenti continua, e l’ingresso curvo è stato risolto con grande abilità. Di fronte allo Starrett Lehigh Building si può ammirare un vecchio magazzino degli anni ottanta, con solide mura in mattone, maldestra­ mente punteggiato di finestre; il contrasto tra le due strutture sottoli­ nea non solamente la differenza delle funzioni, ma la sostanziale diffe­ renza tra la vecchia architettura, con la sua enfasi sul muro, e la nuova architettura, con la sua attenzione per le aperture. L’edificio più recen­ te ha però un punto debole: in quella che sembrerebbe una sezione per gli uffici amministrativi, sul lato sud, il ritmo dell’edificio si rompe: le finestre sono strette e alte, e l’effetto verticale è accentuato da leggeri inserti ornamentali sulle pareti superiori. Anche tenendo conto della differenza di funzione tra la sezione dello stabilimento e quella degli uffici, non c’era alcuna ragione per rompere l’accento orizzontale - e 38

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ancora meno per guastare la nobile severità della facciata. Se l’atten­ zione per questo ornamento fosse stata rivolta alla sistemazione in un disegno efficace dell’insieme disordinato delle cisterne per l’acqua sul­ la cima della fabbrica, lo sforzo sarebbe stato speso meglio. Ma l’idea che l’ornamento sia architettura e che le linee verticali siano le più adatte agli edifici per uffici è dura a morire.

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PASSEGGIANDO PER NEW YORK

L’ospedale moderno 12 dicembre 1931

La vista delle torri di Manhattan dal Queensboro Bridge ora com­ pete con quella dal Brooklyn Bridge. In verità, con la costruzione di gigantesche strutture vicino al fronte acqueo più basso, le masse non emergono più in maniera così eloquente come quando Front Street era regolare e bassa, e la Woolworth Tower era l’ultima e la più alta vetta della distesa che iniziava a Battery. Ma la verità è che l’«occasionale pit­ toresco» è una cattiva formula per lo sviluppo urbano: perché ciò che è casuale passa in fretta e non può essere recuperato - eccetto che per caso. Attualmente, l’insieme più bello, di una bellezza non preventiva­ mente pensata, si estende attorno alla 401 Strada; tuttavia l’elemento più impressionante del panorama dal ponte è anche quello che meno dipende dal puro caso. Mi riferisco al gruppo di strutture monumen­ tali che formano il nuovo Cornell Medicai Centre. Visto dall’alto di Welfare Island, o raggiunto lungo la Avenue A, questo centro medico è ugualmente d’effetto; qualsiasi cosa uno pensi dell’architettura, l’impressione immediata è indiscutibilmente stimolan­ te. Lisce pareti bianche; alte campate vetrate sporgenti dalla massa cen­ trale; aperture verticali ininterrotte, che solo in apparenza, ma non di fatto, formano un solido muro di vetro:, giungere a questi edifici dalle sudicie strade attorno al ponte, sovrastate dalle officine di produzione di gas, è come lasciare una sporca carrozza di terza classe per trovarsi al­ l’improvviso davanti alle distese innevate e alla sommità di un ghiac­ ciaio. L’edificio centrale sembra ancor più alto di quello che è a causa della linearità degli edifici più bassi, rigorosamente disposti in primo piano lungo il fiume e sulla Avenue A. Si ha qui l’opportunità di osser­ vare ancora quanto, per raggiungere un effetto architettonico imponen­ te, siano importanti l’uniformità dell’altezza degli edifici e la ripetizio­ ne di un modulo ben proporzionato. Molti dei nostri architetti di New 40

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York sono così abituati a lavorare entro fronti ristretti; così tanta della loro abilità consiste nello spremere da un sito inadeguato fino all’ultimo metro quadro di spazio affittabile; sono così avvezzi a considerare gli edifici come una forma di pubblicità competitiva, che non hanno alcu­ na nozione di come trattarli come un insieme unitario. È proprio del tutto accidentale che gli architetti del Cornell Medical Centre facciano parte di uno studio di Boston: Coolidge, Shipley & Abbott? Tutto il gruppo di edifici è talmente vicino alla bellezza, che ci si sente offesi dalle imperfezioni che si scoprono a una osservazione rav­ vicinata. Perché mai, ad esempio, gli architetti hanno chiuso i pannelli verticali delle finestre con archi acuti? Ciò colpisce quanto un tocco di inglese in puro stile Wardour Street nel mezzo di un brano lineare di prosa moderna. I tentativi di ornamento espressivo, sotto forma di un motivo murario a raggiera turbano la calma delle pareti; mai una do­ ratura è stata sprecata così malamente per decorare un giglio. Questi tocchi danno ancora più fastidio per il fatto che l’ornamento di base è stato trattato così bene: le facciate bianche, per esempio, non sono can­ dide, sono di un bianco vivo composto da quattro differenti tonalità di mattone. Fini bande in pietra segnano abilmente le linee di gronda. Anche se in pochi si fermeranno ad esaminare l’infinita ricercatezza del motivo dei mattoni, esso deve avere dato una grande soddisfazio­ ne sia agli architetti che ai muratori; non c’è niente di meglio in città. Ma il principale errore nel disegno delle superfici è la conclusione della massa centrale. Seguendo il sensato precedente di Raymond Hood nel Daily News Building, gli architetti non hanno fatto alcun tentativo per «dare un tocco finale»: il muro termina senza visibili se­ gni di punteggiatura. Ma la parte superiore è interrotta da una serie di finestre ogivali alte e strette, con profondi telai. Ciò dà l’effetto di una costruzione in pietra e l’edificio ha un aspetto curiosamente sbilancia­ to verso l’alto, mentre la bellezza della parte inferiore è dovuta al fat­ to che gli architetti hanno cercato con cura di dare l’impressione di una grande leggerezza e ariosità. L’effetto di leggerezza poteva essere au­ mentato in cima attraverso un uso più esteso del vetro; c anche se, per ragioni interne, questo non fosse stato auspicabile, si sarebbe dovuto tentare con ogni mezzo di ridurre la solidità visibile del muro. E tutto questo solo per quanto riguarda le prime impressioni. Quan­ do il centro verrà aperto nell’autunno del 1932, meriterà un’altra ispe­ zione dall’interno verso l’esterno. Nel frattempo una cosa è certa: se l’in­ terno è buono quanto l’esterno, un attacco di appendicite al Cornell Me­ dicai Centre sarà più sopportabile di un attacco di noia a Radio City. 41

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Dopo aver osservato ripetutamente la grande massa di pietra calca­ rea al n. 1 di Wall Street, con la sua aria di dispendiosa solidità, vorrei congratularmi con Voorhees, Gmelin & Walker per un tipo di edificio del tutto differente: il loro piccolo Institute for the Crippled and Di­ sabled (Istituto per i mutilati e i disabili) all’angolo tra la 21’ Strada e la First Avenue. Questa costruzione ben fatta, pura, semplice e elegante, con i suoi generosi spazi finestrati e il suo fine controllo della qualità dei materiali c degli elementi, è la più gradevole confutazione che io conosca dell’abilità artificiosa e dell’ornamento costoso introdotti nell’Irving Trust Company Building. Il n. 1 di Wall Street è un’opera di sfrenata immaginazione: non è pratico, sachhch, economico o funzio­ nale, e posso immaginare che i progettisti si siano divertiti molto per tutta la libertà che hanno avuto - anche se dal mio punto di vista si è trattato solo di avere più corda con cui impiccarsi. Creando una fac­ ciata a solchi in pietra concava, gli architetti sono riusciti a fare un edi­ ficio a telaio in acciaio con un muro di rivestimento che sembra una solida massa di pietra; ma perche? Per quanto l’esterno sia castigato, si tratta di pura pretenziosità, e di quelle meno convincenti. L’Irving Tru­ st Company Building è soltanto una versione più raffinata e sottile del­ l’idea che la moderna vita domestica possa essere felicemente inscato­ lata in una vecchia dimora in stile Tudor' - e se noi pensiamo questo, immaginatevi a che punto siamo. Nella costruzione del piccolo Istituto, probabilmente gli architetti sono stati in tutto condizionati e assillati dall’esiguità dei fondi e dagli specifici requisiti medici del progetto; ma il risultato è genuino e li­ neare, ottenuto interamente in armonia con i bisogni e le credenze es­ senziali della vita moderna, un felice contributo a quel nuovo «verna­ colo della macchina» che ha già iniziato ad emergere. Il fatto è che un edificio non deve mai essere affidato all’immaginazione sfrenata; ciò che Goethe disse un tempo della letteratura può essere ugualmente ap­ plicato all’architettura: è nelle restrizioni che il maestro rivela al mas­ simo grado se stesso. Ricordo di essermi una volta congratulato con un architetto per una piccola chiesa che sempre mi piace guardare quan­ do viaggio sulla Harlem Division della New York Central. «Si», mi ha risposto, «quella è riuscita molto bene; una volta tanto non siamo sta­ ti svantaggiati dall’avere troppi soldi da spendere».

' Nel testo originale Ye Oide Titdor Manor House.

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PASSEGGIANDO PER NEW YORK

Dal Palazzo dei Papi. Il ritorno alla sobrietà del fronte a sbalzo 2 gennaio 1932

L’altro giorno un inclito critico mi ha informato che i pannelli del­ le finestre del Cornell Medical Centre, del quale ho elogiato la mura­ tura e la bianca monumentalità, sono stati deliberatamente modellati sull’esempio del Palazzo dei Papi. Questo spiega pienamente la sensa­ zione di insoddisfazione intellettuale che accompagna il fascino senso­ riale immediato di queste strutture, in particolare da una certa distan­ za: l’architettura è più di una serie di illusioni ottiche all’aria aperta e, se un edificio non merita alcuna riflessione, le sue fondamenta sono precarie. Quanto del Cornell Medical Centre sopporterà una critica razionale minuziosa? Me lo chiedo. Perché questi edifici corrono pre­ valentemente non in direzione nord-sud, ma est-ovest, lasciando così ad ogni ora del giorno una buona parte degli interni senza luce diret­ ta? Perché le campate in vetro, che hanno l’aspetto di essere così gene­ rosamente aperte, hanno così poco spazio finestrato effettivo? Avrei potuto tenere per me queste domande finché non avessi esaminato l’interno e non avessi avuto l’opportunità di confrontare le funzioni interne con il disegno esterno; ma il sospetto che il Palazzo dei Papi abbia avuto a che fare con le facciate tanto quanto i reali requisiti di un ospedale guasta un po’ l’appetito. Forse questo è solo un fratello, gran­ de e ben dissimulato, della nuova biblioteca di Yale - un pensiero ag­ ghiacciante. Ho cambiato idea, in ogni caso, circa il godersi una malat­ tia qui. Uno potrebbe chiedere dove sta un bagno e trovarsi invece in una fonte battesimale. Durante l’anno passato, la città ha visto una fioritura di fronti a sbalzo, alcuni buoni e altri cattivi, alcuni veri e altri finti. A beneficio di coloro che sono completamente profani, dovrei forse spiegare la mi­ steriosa parola «sbalzo». Di solito i solai sono sostenuti da pilastri sul­ le pareti esterne; ma è possibile reggerli per mezzo di quella che di fat43

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to è una mensola - potendo stare, in questo caso, l’elemento verticale in un qualsiasi punto arretrato dalla finestra dai due ai dodici piedi. Questo consente di avere una finestratura orizzontale ininterrotta, e la massima quantità di luce nello spazio compreso tra la finestra e i pri­ mi pilastri. A volte, questo procedimento costruttivo è antieconomico e insensato, talora non è adatto alla vera funzione della stanza, ma in altri casi è utile ed elegante. Quando è utilizzato da un incompetente per dare a un edificio un aspetto «moderno», il fronte a sbalzo deve, naturalmente, essere eliminato come una decorazione disdicevole. Uno degli esempi più abili e ben fatti di buona costruzione a sbal­ zo è il piccolo edificio commerciale che Thompson & Churchill han­ no disegnato per l’angolo nord-occidentale tra la 57a Strada e Lexing­ ton Avenue; esso è ora ultimato. Qui tutta la parete esterna è appesa dal sesto piano, un ingegnoso metodo costruttivo che è stato elabora­ to dall’ingegnere consulente, Charles Mayer. Le finestre si alternano orizzontalmente a bande di piastrelle color crema, il cui bordo supe­ riore verde è ripetuto lungo la fascia di coronamento. Tutti i materiali sono presi dal repertorio di tipi correnti; l’individualità dell’edificio è dovuta all’abilità del progettista, Henry Churchill, nell’assemblare e nel collegare in maniera appropriata le parti standardizzate. Gli ele­ menti di questo piccolo fabbricato sono stati meditati a fondo e, nel complesso, sono stati espressi con grande efficacia. Obiezioni a tale forma di costruzione provengono da coloro che ri­ mangono attaccati ad una teoria verticale del progetto, derivata dagli edifici in muratura, nei quali la parete esterna portava effettivamente una buona parte del carico, diventando più robusta e spessa via via che si avvicinava al terreno. Ma l’idea che l’occhio umano richieda una prova di questo sostegno è assurda. Bisogna essere patologicamente empatie! per avere l’impressione che una struttura a sbalzo sembri do­ ver crollare. Dopo tutto, un albero è un sistema a sbalzo, e l’occhio non esige che i rami più esterni siano sorretti da pali.

A dire il vero, abbiamo rinunciato a tal punto al desiderio di strut­ ture visibili di sostegno che gli architetti del nuovo edificio sull’altro lato della strada, la società di Ely Jacques Kahn, hanno addirittura na­ scosto i pilastri del piano terra dietro a specchi, dando loro il massimo d’invisibilità. Anche questo edificio merita più di un’occhiata di pas­ saggio: le finestre, progettate in larghi pannelli che comprendono due piani, danno l’effetto di un’unità singola attraverso l’uso di timpani di vetro nero; ne consegue che il progetto sembra più aperto di quello che 44

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è realmente. Quale che sia l’interesse decorativo che la facciata possie­ de, esso è dovuto alle schermature color ruggine e al gioco delle linee verticali dei telai in acciaio delle finestre contro le linee orizzontali dei mattoni. Per vedere quanto il 1931 si sia allontanato dal romanticismo da libro illustrato, si dovrebbe confrontare questo edificio con il bloc­ co d’appartamenti sull’angolo sud-occidentale tra la 57' Strada e la Se­ venth Avenue; i motivi dell’esterno sono strettamente equivalenti, ma l’effetto è completamente differente. Quanto meno, il ricamo medie­ vale in ferro è scomparso.

Questa stessa società ha progettato anche un altro edificio, il Com­ merce Building al 155 della 44* Strada Est, in un modo che merita di essere elogiato, non tanto forse per ciò che è stato fatto, quanto piut­ tosto per tutte le cose che sono state felicemente lasciate da fare o che sono state eliminate. La forma del Commerce Building è mediocre: le sue rientranze sembrano puramente determinate dai regolamenti edili­ zi. Anche le finestre sono mediocri: sono una semplice unità ripetuta in un muro di mattoni. È solo un edificio per uffici, in grado di essere sud­ diviso nel massimo numero di scomparti. Non è molto? Per planime­ tria o per capacità espressiva ammetto che non è molto, ma per spirito il Commerce Building mi sembra innalzarsi miglia al di sopra dei suoi rivali. Prima di tutto, è un edificio per uffici, non una cattedrale, un sim­ bolo pubblicitario, un monumento alla prosperità, un inutile luogo di atterraggio per dirigibili irreali, o un sintomo patologico dei desideri re­ pressi di qualcuno. L’atrio non ricorda quello della navata della Win­ chester Cathedral o il foyer del Roxy: le pareti di pietra levigata e il bas­ so soffitto di vetro lo connotano semplicemente come un luogo in cui si può entrare e uscire dagli ascensori. Non è assolutamente giusto chia­ mare mediocre un edificio in cui gli elementi che sono stati lasciati alla discrezione dell’architetto sono stati portati a termine in una maniera così gradevole. (Consideriamo l’ingresso imponente di tre piani, che in realtà non taglia via più di tre o quattro piedi di profondità utilizzabi­ le.) Ma di fatto, definire «mediocre» un edificio per affari dovrebbe si­ gnificare che gli si riconosce un alto merito: ciò che ci occorre è meno frastuono, meno fuochi d’artificio individuali, e più tranquilla onestà, decoro e civiltà; più risparmi intelligenti e meno spese futili e altiso­ nanti. Il grattacielo con la sua forma ha incoraggiato ogni sorta di ro­ mantica stravaganza; ma il giorno della resa dei conti è adesso, qui, e un ritorno alla sobrietà come quello che il Commerce Building manifesta nei suoi aspetti decorativi è un gradito segnale. 45

PASSEGGIANDO PER NEW YORK

Architettura inconsapevole 13 febbraio 1932

Più di una generazione fa, Samuel Butler fece parlare la gente di «umorismo inconsapevole». Forse gli edifici più interessanti a New York possono attualmente andare sotto il nome di «architettura in­ consapevole». Ci sono parecchi esempi recenti. Quando le impalcatu­ re erano ancora montate attorno al pilone d’ormeggio della torre dell’Empire State, dal punto di vista della progettazione esse erano di gran lunga migliori della struttura definitiva. Un esempio ancora più inte­ ressante di opera inconsapevole fu quando il campanile della Collegia­ te Church di St. Nicholas, tra la Fifth Avenue e la 48’ Strada, in re­ stauro fu avvolto in una ragnatela metallica. In questo momento, la nostra architettura inconsapevole è diventa­ ta Surrealista: indecente e stravagante, come i sogni che un paziente di­ ligente prepara per lo psicanalista. Gli incisori di stampe da tempo si sono accorti della spaventosa ciminiera addossata al sito del Queensboro Bridge nel centro della città; ma appena oltre il ponte, in un’am­ pia distesa sul lungofiume, c’è una vecchia torre merlata, l’ultima so­ pravvissuta della fabbrica di birra che un tempo si estendeva su questa scena. Con un cavallo bianco rampante davanti sarebbe sublime. C’è forse bisogno di ricordare, in aggiunta, la vecchia casa in pietra che si annida tra i gargantueschi serbatoi di gas?

L’architettura surrealista più recente è il Roosevelt Memorial, a Central Park West sulla 79’ Strada: alcune pesanti colonne in pietra cal­ carea erette per metà e alcune aperture classiche semidistrutte inserite tra il granito rosa delle nuove ali del Museo di Storia Naturale. Que­ sto monumento classico, così penosamente, così grottescamente fuori luogo, estraneo in modo così provocatorio all’immagine del Museo stesso, non potrà mai apparire migliore di adesso. Oggi lo si può ac46

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ccttare come una visione velata e spettrale, ma quando sarà finito esso sarà solo arrogante cattivo gusto. Il Memorial fa digrignare i denti ancor di più perché il Museo è uno dei pezzi meglio riusciti di architettura vittoriana di cui la na­ zione possa vantarsi. Progettata nel 1867 da Calvert Vaux, alla ma­ niera che si potrebbe forse ancora definire Romanesque, è una strut­ tura tanto solida e chiara quanto nessuna di quelle che il paese ha prodotto a quel tempo, eccetto l’opera di H.H. Richardson; tutto sommato essa è migliore della maggior parte dei suoi primi lavori. Non solo il Museo è architettonicamente di gran lunga superiore a quello di Storia Naturale di South Kensington, a Londra, costruito da Alfred Waterhouse all’incirca nello stesso periodo, nello stesso ti­ po di quartiere noiosamente elegante abitato dalla classe media, ma è buono di suo; e gli architetti che hanno progettato gli ampliamenti hanno fatto bene, io credo, a rispettare il disegno originale e persino la scelta della pietra. Nulla di meno di un incontestabile talento avrebbe potuto giustificare un orientamento completamente nuovo. Ancora più odiosa è, quindi, questa nuova protuberanza estranea, il Roosevelt Memorial. In un anno sarà completato, e a quel punto non sarà neppure più divertente. Alcuni edifici sfidano la critica per il loro miscuglio quasi mira­ coloso di elementi buoni e cattivi, tanto difficili da separare quanto mille granelli di sabbia chiara e scura. Trovo che questo sia vero per il nuovo Waldorf-Astoria (architetti Schultze & Weaver), un edificio al quale ho cercato di rassegnarmi per mesi. In quasi tutto ciò che ha a che fare con il gusto, il Waldorf appare o debole o volgare. Le sa­ liere in alluminio sulla sommità; il corrimano centrale che aiuta a ri­ salire le scale, traballante e dal vuoto suono metallico; la parte infe­ riore della monotona facciata in pietra calcarea che diventa Una pare­ te in mattone ugualmente monotona: tutte queste cose non suscita­ no niente di meglio di un educato sorriso sarcastico. D’altro canto, l’ampio ingresso per i veicoli al livello della strada appare molto ele­ gante; e anche le formelle ornamentali verdi non guastano l’effetto generale del progetto. Provo analoga ammirazione per il modo in cui, nel piano principale, è suddiviso lo spazio, che è sia un corridoio continuo che una successione di stanze, ciascuna delle quali varia in dimensioni, forma e altezza a seconda della funzione a cui adempie. La pianta e la distribuzione di questo piano, che coinvolge sia quel­ lo che sta sopra sia quello che sta sotto, mi sembrano abilmente ri47

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solte. Ma gli effetti ornamentali sono mediocri e inutili; perfino la sensazione del lusso non è molto convincente. Modernismo, reviva­ lismo, ecletticismo, e pura sgradevole stravaganza hanno avuto la lo­ ro parte nella creazione del Waldorf. Nulla è netto e chiaro; forse è questa la mancanza principale.

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PASSEGGIANDO PER NEW YORK

Architettura organica 27 febbraio 1932

Non si dovrebbe perdere l’Esposizione di Architettura Moderna al Museum of Modern Art. In questo momento, le migliori costruzioni a New York sono nei plastici e nelle fotografie che Philip Johnson ha disposto con tanta chiarezza e intelligenza su quelle pareti. Un legame vagamente ufficiale con l’Esposizione mi trattiene dal di­ re, se non in termini molto castigati, quanto buona io giudichi la mo­ stra; una relazione leggermente più stretta con la sezione sull’Abitazio­ ne sigilla in proposito le mie labbra ancora più saldamente. Ma almeno posso dire che niente di simile è apparso prima in America. Se gli edifi­ ci fossero scadenti, le fotografie sarebbero sicuramente interessanti; se le fotografie fossero noiose, la loro disposizione sarebbe comunque ammirevole. Di fatto, tutto è straordinariamente buono: l’esposizione e ciò che è esposto si fanno onore a vicenda con analoghe virtù. Sono presenti i leader dell’architettura moderna: Frank Lloyd Wri­ ght, Le Corbusier, Gropius, Oud, van der Rohe; e vi è testimoniato il lavoro dei suoi più importanti community planners'-. Otto Haesler, Ernst May, Henry Wright, Clarence S. Stein. La selezione è rigorosa, ma il risultato è equo. L’architettura moderna può tranquillamente permettersi di resistere o cadere grazie a questi esempi. Questa esposizione, io spero, scandalizzerà coloro che hanno pre­ so sul serio l’idea che i grattacieli - prodotti dalle norme di New York sugli arretramenti e dal gioco d’azzardo senza scrupoli dei nostri ban­ chieri - fossero il principale vanto dell’architettura moderna. Lontano dal dominare l’esposizione, il grattacielo a mala pena ha un angolo per

1 II termine può essere letteralmente tradótto come «pianificatori comunitari».

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sé. Anzi qui il plastico di una serie di caseggiati popolari di Howe & Lescaze è molto più convincente, come pura architettura, del loro grattacielo a Philadelphia. Gli oggetti più belli della mostra sono le case di campagna proget­ tate a grande scala: il plastico di Frank Lloyd Wright per una casa sul­ le montagne del Colorado; le fotografìe della sua casa a Tulsa per R.L. Jones; la casa Tugendhat di Mies van der Rohe a Brno, in Cecoslovac­ chia; e il plastico di studio di J.J.P. Oud per una casa di campagna nel North Carolina. In queste abitazioni si osservano quelle virtù che si sono insinuate nell’architettura dalla porta di servizio, nei progetti di fabbriche, silos per cereali, ponti, dighe elettriche, stazioni della me­ tropolitana. I nostri architetti convenzionalisti, nei loro progetti per abitazioni ed edifici universitari, hanno cercato assiduamente di na­ scondere tali virtù; ma in queste nuove case di campagna esse sono in­ tellettualmente comprese, umanamente incarnate, architettonicamente espresse. Perché si dovrebbero cercare metodi arcaici per sfuggire da forme che, in maniera così evidente, si prestano all’uso e al piacere?

Per inciso, la mostra è un grande trionfo per Frank Lloyd Wright. Se il movimento moderno ha avuto inizio da qualche parte, esso è ini­ ziato a Chicago negli armi ottanta; se qualcuno l’ha portato avanti con coerenza durante gli ultimi quarant’anni, al di là dei risultati raggiunti da Richardson e Sullivan, Wright è quell’uomo. Qui il suo lavoro sta faccia a faccia con gli edifici di europei e americani che consapevol­ mente o inconsapevolmente hanno sentito la sua influenza, assorben­ dola o reagendo contro di essa. Nessuna delle usuali etichette si può applicare all’opera di Wright. Gli piace descriversi come un romantico e un individualista; ma la sua casa per Jones è severa, regolare, classica. Si potrebbe concepire un’in­ tera città in quegli stessi termini. A confronto, la casa Savoye di Le Cor­ busier è puro espressionismo romantico, un miscuglio eterogeneo di immaginazione e meccanicità. Il lavoro di Wright non è tanto lontano dalla migliore architettura europea come lui immagina (o come forse credono in Europa). I suoi nuovi edifici hanno perso l’esuberanza or­ namentale dei Midway Gardens e dellTmperial Hotel: sono più in linea con le sue precedenti case. Nel frattempo, gli europei si sono avvicina­ ti a Wright: passando dal dogma alla costruzione, hanno perso un po’ della loro fede nel cemento armato come credo assoluto; hanno acqui­ sito parte dell’amore di Wright per i materiali naturali, il suo interesse per il sito e per il paesàggio, la sua sensibilità per l’ambiente. 50

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Anche se lo spazio e l’attenzione riservati alla casa di campagna so­ no forse un po’ sproporzionati, questa selezione serve a enfatizzare due cose importanti sull’architettura moderna. Innanzitutto, che non è confinata a un tipo particolare di edificio. Essa cerca, con Louis Sul­ livan, una regola così generale da non ammettere eccezioni. E ancora, sebbene il progetto moderno sia fondato sul principio estetico dell’e­ conomia e, ad esempio, si sia specificamente adattato a tradurre in ter­ mini estetici i requisiti minimi dell’abitazione, esso non si limita a que­ sto minimo comun denominatore. La stessa estetica opera con pari ef­ ficacia nel creare un ambiente di comfort, di liberalità e addirittura di lusso senza restrizioni. (Si confrontino gli appartamenti di van der Rohe a Stoccarda con la sua casa Lange a Krefeld.) Parlando delle forme di architettura che nella civiltà moderna inte­ grano sia gli elementi pratici sia quelli ideali, preferisco il termine di Wright «organico» agli aggettivi più correnti, «moderno» o «interna­ zionale»; e questa architettura organica non comporta solamente l’uti­ lizzo di nuovi materiali e tecniche cola concezione di nuove forme sul­ la base del loro uso effettivo, ma concerne la questione della messa in relazione di aria, luce solare, spazio, giardini, vedute, relazioni sociali, attività economiche, in modo tale da formare un insieme concreto. Un pezzo di slum di uno speculatore a Queens o un grattacielo a Manhattan potrebbero avere dieci volte i gingilli meccanici e i vantag­ gi delle belle e ancora insuperate case Hook of Holland di Oud; ma quest’ultimo lavoro è organico e reale, mentre gli edifici americani, con tutta la loro ostentazione di modernità, sono caotici e incompleti. In breve l’architettura moderna, nel suo significato organico, è un modo di sentire, vedere, agire, vivere. Per mezzo dell’architettura moderna, alcuni desideri e metodi comuni si sono chiariti e hanno assunto una forma concreta ovunque nella civiltà occidentale. Un fatto che è evi­ dente in questa esposizione. Esso è tanto importante quanto uno qua­ lunque degli edifici. Niente di simile a questa unità fondamentale è esi­ stito dal Medioevo.

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Un sopravvissuto dei Brown Decades1. De Mortuis. Quel che avrebbe potuto essere 19 marzo 1932

I nuovi esercizi in stile modernista lungo Central Park West fanno sì che l’occhio indugi con un piacere particolare sul Dakota Apart­ ments, uno dei pochi edifici sopravvissuti nello stile più «spazioso» dei Brown Decades. Nel corso di circa cinquantanni, il Dakota ha resisti­ to veramente molto bene: un edificio solido, ampio e rispettabile. De­ vo dire che i suoi alti soffitti richiedono un pesante tributo in lavori domestici e personale di servizio - le tende sono lunghe e le modana­ ture sono alte quasi il doppio di quelle dei normali appartamenti di og­ gi - ma i nostri mal riusciti edifici residenziali «moderni», che stanno ora spuntando lungo il parco, tra cinquantanni appariranno almeno per metà così reali e convincenti? Risponderò a questa domanda. Assolutamente no! Il «moderni­ smo» di questi edifici è soltanto una sottile verniciatura superficiale: fi­ nestre d’angolo allineate che illuminano stanze strette e lunghe; ter­ razze disposte in maniera discontinua e irregolare nelle parti superiori del fabbricato; massicce chiusure in mattoni per le cisterne dell’acqua. Anche le facciate relativamente semplici non conferiscono autenticità a queste strutture. L’aspetto più promettente della maggior parte dei nuovi edifici residenziali è l’ampiezza crescente delle finestre. Il timo­ re della luce del sole e dell’aria, che pittorescamente pensiamo essere una prerogativa dei francesi, sta iniziando a scomparire tra i benestan­ ti che si sono così spesso accontentati di buie case back-to-back e di appartamenti che differivano solo per prezzo, spazio e pulizia interna dai nostri peggiori slums. Ma questi appartamenti sono lontani dall’es­ sere esempi solidi e pratici di architettura moderna, e non danno alcun ' The Brown Decades; A Study of the Arts in America, 186S-1895 (Harcourt, Brace and Company, New York), è il titolo dell’opera scritta da Lewis Mumford nel 1931.

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indizio di ciò che un architetto potrebbe fare se fosse capace di lavo­ rare su un terreno con un prezzo ragionevole e su lotti grandi abba­ stanza da permettere una progettazione efficace. In tutti gli aspetti es­ senziali, il Dakota è tanto prossimo all’architettura organica quanto il suo vicino più alla moda: vale a dire, entrambi sono distanti circa cin­ quantanni da ciò che conta realmente. Se dovessi dire qualcosa riguardo alla mostra annuale dell’Architectural League di New York ora in corso, non potrebbe che essere qualcosa di buono: de mortuis nil nisi bonum. Vuote stanze battute da correnti d’aria e portafogli vuoti suscitano la comprensione; ma ci si sentirebbe più caldamente coinvolti dalla condizione grama degli architetti se la mostra dell’Architectural League non presentasse an­ che lo spettacolo di teste vuote. In analoghi anni di magra, gli archi­ tetti europei hanno fatto chiarezza sui loro problemi sociali e hanno elaborato con immaginazione e logica le basi di una nuova architet­ tura. Riflessioni sperimentali sono attualmente in corso all’interno di alcune riviste di architettura; ma ce n’era a mala pena un soffio nella mostra della League. L’esposizione ben allestita di Joseph Urban nel circolo dell’Architectural League era molto più interessante: il suo progetto per il Palazzo dei Soviet a Mosca era sicuramente più d’effetto di quello che misteriosamente è arrivato al primo posto, e il suo studio per un albergo sulla spiaggia, con il massimo di privacy per ogni stanza, era eccellente. Per quanto riguarda i progetti di abitazioni preparati, per sua gentile richiesta, da disegnatori disoccupati, la qualità era straor­ dinariamente alta se si considera che il concorso era stato improvvi­ sato in tutta fretta. Urban e i disegnatori hanno dato un buon esem­ pio ai loro colleghi.

I ristoranti «Childs» sono stati nuovamente sottoposti a restauro; ma tutte le migliorie mi hanno solo fatto desiderare che qualcuno fos­ se stato un po’ più consapevole di ciò che gli originari ristoranti «Childs» avrebbero potuto diventare. Quegli interni spaziosi, duri, piastrellati di bianco erano l’inizio di una vera forma macchinista; mi compiaccio nel ricordare di averlo sottolineato più di dieci anni fa, pri­ ma che Le Corbusier avesse pubblicato una parola sull’argomento. Qui c’erano elementi saldamente primitivi, suscettibili di sviluppo. Sfortunatamente, queste basi sono state abbandonate nello sforzo di ottenere una raffinatezza a basso prezzo attraverso l’applicazione 53

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dell’ornamento storico, il ricorso a un arcaismo all’ingrosso o a inter­ pretazioni moderniste, ancora più spaventose - se possibile - dell’ar­ cheologia Oide English. Il nuovo ristorante nell’RCA Building è un esempio degli ultimi fallimenti, anche se non è assolutamente il peg­ giore. Le scale che conducono alla balconata sono sostenute su un la­ to da cabine telefoniche dal disegno plastico, appropriate quanto ele­ fanti di carta pesta. In alto c’è una pittura murale che dà il proprio con­ tributo in decibel di rumore dipinto agli interni. Il soffitto verde al pia­ no inferiore incombe ancora più basso a causa del suo colore e del si­ stema indiretto di illuminazione. C’è stata un’agonia di sforzi per ren­ dere il piccolo ristorante vistoso, singolare e moderno; ma a parte le in­ cantevoli porte magiche della cucina, l’effetto complessivo è precisamente questo: un’agonia di sforzi. Il ristorante «Childs» tra la 57* Strada e la Fifth Avenue è un’altra storia. L’interno era sempre spazioso - e lo spazio in sé, a New York, non è solamente un lusso, ma è un piacere - tuttavia un po’ malinco­ nico. È stato trasformato da Steffens & Gustafson in un luogo abba­ stanza elegante e attraente, la cui forza è stata sminuita dall’infelice ac­ cettazione dei convenzionali simboli di eleganza letterari: fasci dorati, vasi blu, lampadari di cristallo, ninnoli in stile Napoleone. Ma la strut­ tura della stanza è buona: spazio enfatizzato da pareti avorio pallido, un tappeto color rosso violaceo che scorre nel mezzo del ristorante e sulle scale dalle eleganti ringhiere nere. È tutto, o quasi tutto; e sareb­ be più che abbastanza, senza i ninnoli. Ma quando l’elemento decorativo è così sommesso, ogni parte del­ la stanza deve contare, soprattutto gli occupanti. Quando il ristorante è stato riaperto, l’uniforme delle cameriere era bianca c nera; ora è sta­ ta cambiata in un insulso color cuoio e blu, e una parte essenziale del­ la decorazione si è persa, un po’ dell’eleganza è andata. Semplicemen­ te, tutto il ristorante poteva e doveva essere realizzato in termini schiettamente contemporanei. Escludendo le allusioni letterarie, qui c’erano tutti gli ingredienti della catena dei Childs originali: spaziosità, chiarezza, purezza. Sono pronto a puntare su queste qualità per vince­ re contro chilometri di Waldorf-Astoria e di Alice Foote MacDougall.

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Medaglie e menzioni 16 aprile 1932

Recentemente, la sezione newyorkese dell’American Institute of Architects ha assegnato i premi annuali per i migliori edifici residen­ ziali di New York. La Medaglia d’Onore è andata all’edificio di Vincent Astor al 120 di East End Avenue, progettato da Charles A. Platt. Ho sentito spes­ so critici inglesi conservatori domandarsi come un uomo dal gusto im­ peccabile come Platt si potesse cimentare nel progetto di un grande ca­ seggiato. Qui c’è una risposta: un telaio in acciaio, trattato secondo una formula classica, monumentale e marmorea; puro, contenuto, privo di ornamento ad eccezione delle delicate protezioni in ferro su alcune delle finestre scorrevoli rettangolari, e ancora ad eccezione delle cin­ que cornici orizzontali che interrompono in maniera arbitraria il rag­ gruppamento verticale delle finestre. Il gusto è eccellente; la concezio­ ne architettonica carente. Perché questo edificio merita una medaglia? La giuria l’ha scelto «per la superiorità della planimetria e l’armonia tra il disegno dell’e­ sterno e la distribuzione interna». Mentre queste sono ragioni plausi­ bili, sono un po’ perplesso circa la loro applicazione. Il grande pregio dell’armonia tra interno ed esterno sta nel fatto che le finestre non compaiono casualmente in scomodi angoli della stanza. Questo espe­ diente avrebbe un impatto un po’ più massiccio se non fosse che l’ar­ chitetto dell’edificio residenziale contiguo sulla East End Avenue, non legato ad alcuna formula classica, ha adottato lo stratagemma molto più efficace di estendere la finestra per tutta la larghezza della stanza, aprendo al massimo la vista sul fiume. I pregi del 120 di East End Avenue forse sono veri, ma sono nega­ tivi; i suoi difetti sono positivi. Come la maggior parte degli edifici re­ sidenziali per la classe più agiata costruiti a New York nel corso del­ 55

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l’ultimo decennio, esso è stato concepito senza il minimo riguardo per gli standard razionali di luce, aria, esposizione, veduta. L’edificio oc­ cupa un buon 68 per cento del lotto; è circondato da altri alti caseg­ giati, presenti e futuri. Nessuno può incolpare l’architetto per il sito angusto e per la negligenza della città nel dotarsi di luce solare e spazi aperti. (Secondo il Multiple Dwellings Act un caseggiato in angolo po­ trebbe coprire il 90 per cento del lotto fino al primo arretramento; quindi rispetto ai requisiti di legge, la planimetria in questione è un esempio di sottodimensionamento.) Ma non riesco a capire come un progetto, che non rispetta standard che vengono ora accettati come minimi per le fasce di reddito più basso, meriti un qualsiasi tipo di premio o encomio. Il comitato degli architetti era effettivamente un po’ a disagio per questo sovraffollamento del terreno; ma come giustificazione era ri­ corso al fatto che il Carl Schurz Park, vicinissimo, poteva fornire la lu­ ce e l’aria necessarie. Luce e aria per cosa? Per un lato dell’edificio. Ov­ viamente, la sana dottrina che ogni casa debba provvedere, come par­ te dei costi e delle attrezzature iniziali, agli spazi aperti necessari per il piacere e il decoro ha ancora una bella strada da fare, soprattutto nelle abitazioni per la classe più agiata. In materia di alloggi, si deve sicura­ mente invertire la popolare canzone: What’s good enough for Rocky is good enough for me. GB standard di Vincent Astor non andrebbero bene nemmeno per gli operai della Amalgamated Clothing. Fortunatamente, la MedagBa d’Onore per la progettazione a gran­ de scala è andata ai Phipps Garden Apartments a Long Island City, progettati da Clarence S. Stein. Questo gruppo di alloggi dimostra co­ sa si può fare sulla strada di una progettazione con ampi spazi, quan­ do l’unità di intervento non è costituita da pochi lotti edificabili all’in­ terno del regolamento dei tracciati stradali, ma da due interi isolati messi insieme. Queste unità di appartamenti consistono in edifici profondi due stanze attorno al perimetro di una distesa di terreno in­ divisa, di quattrocentosessanta per duecentosessanta piedi; al centro e ad ognuna delle estremità ci sono edifici alti sei piani con ascensori che sporgono verso la corte interna; il resto è alto quattro piani. Solo il 43 per cento del lotto è utilizzato. L’enorme corte interna è organizzata a parco con alberi e cespugli che hanno una gran quantità di luce solare per crescere; qui Marjorie S. Cautley ha fatto un lavoro eccellente. I Phipps Garden Apartments sono, ad oggi, il migliore esempio di progettazione urbana a grande scala per ogni fascia di reddito. Archi­ 56

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tettonicamente, l’edificio è pieno di spunti interessanti; le scale antin­ cendio sono particolarmente buone e i balconi aperti su alcune delle unità farebbero desiderare un loro uso esteso a tutto il complesso. Sfortunatamente, mentre i mattoni arancioni e le finiture verdi sono eccellenti per colore, il disegno non ha in sé sufficienti virtù per porta­ re a compimento il progetto d’insieme. Il rilievo ornamentale in mat­ toni attorno alla facciata più alta e gli archi in mattoni, ciechi e aperti, rovinano il punto più efficace dell’intero progetto: le belle scale antin­ cendio. L’architetto ha usato il motivo orizzontale delle scale solo per una parte della balaustra nell’unità centrale; ma l’edificio ci avrebbe guadagnato enormemente se alla muratura fosse stato assegnato un ruolo completamente secondario, e se l’enfasi fosse stata posta su una più interessante finestra unitaria, piuttosto che sull’antiquata doppia finestra sospesa. Architettonicamente, i Phipps Garden Apartments non solo non sono all’altezza delle possibilità del buon progetto d’insieme, ma non lo sono neppure rispetto all’altra opera di Stein a Sunnyside Gardens. Dal momento che gli elementi primari sono stati trattati con tale com­ petenza e chiarezza, ci si rammarica ancor di più della debolezza delle facciate. Se Stein avesse portato a termine il disegno esterno con il ri­ gore, la logica e l’immaginazione che applica nel progetto dei musei d’arte, questi appartamenti sarebbero stati, in ogni distretto, l’evento eccezionale dell’anno.

C’è poco da dire circa le Menzioni onorevoli. Andrew Thomas ne ha ricevuta una per un edificio residenziale di città poco convincente, con una piccola corte in conglomerato di stile romanico; avrebbe piut­ tosto meritato un riconoscimento per i caseggiati progettati a Tarry­ town, nei quali ha ritrovato gran parte dell’originale semplicità delle sue prime case modello, accresciuta da uno spazio aperto più genero­ so. Al comitato degli architetti è piaciuta River House per la sua silhouette, e l’edificio residenziale in mattoni bianchi tra la First Ave­ nue e la 57“ Strada per i suoi balconi pseudo-moderni e sproporziona­ ti nella parte superiore. Le scelte potevano essere peggiori, ma le ra­ gioni migliori. Per quanto mi riguarda, metterei da parte a tempo in­ determinato le medaglie d’oro e le fonderei tutte insieme in onore del primo edificio che fosse realizzato organicamente e con immaginazio­ ne dal piano terra e dal giardino su fino al tetto.

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Come fare un museo. Una torre post-boom. Il ristorante moderno 25 giugno 1932

Il rifacimento delle vecchie case sulla 8“ Strada per il Whitney Museum solleva ancora tutti i bei problemi connessi alle aggiunte e ai restauri. L’architetto dovrà conservare il guscio originale, dovrà semplicemente usare il vecchio edificio come un’impalcatura e ridi­ segnare completamente la facciata, o dovrà allontanarsi dal disegno cercando però di conservarne lo spirito? Queste case non erano ab­ bastanza belle per indurre Noel e Miller, gli architetti che le hanno ristrutturate, a una qualche archeologica fedeltà agli originali. Per questo, si deve essere loro grati. Ma hanno mantenuto le tradizio­ nali aperture finestrate, dipinto l’esterno di un bell’arancio pallido e rivestito i piani inferiori con pannelli incorniciati in alluminio. Senza questi pannelli, l’effetto sarebbe stato abbastanza rispettabi­ le; e in una città dove le tradizioni scompaiono più rapidamente della schiuma sulla birra, e dove si ha così poco rispetto per la co­ mune facciata su strada, non ho obiezioni a un così garbato osse­ quio alla tradizione. L’interno è un’altra questione; e se fosse stato maneggiato in ma­ niera più decisa, anche l’esterno sarebbe stato diverso. Bruce Butt­ field, il progettista, ha trattato le sale e la maggior parte delle gallerie secondo una sorta di interpretazione fastidiosa e modernista dello stile vecchia America: la pomposa carta da parati e le apparecchiatu­ re per l’illuminazione all’ingresso sono un po’ irritanti. L’unica stan­ za in sé riuscita piuttosto bene è la galleria delle sculture, con il suo interno in mattonelle biancastre e blu. Qui il pavimento e i piedistal­ li grigio-lavanda si combinano, in un giorno di sole, con i rossi ri­ flessi che entrano attraverso l’alto lucernario creando un’intera tavo­ lozza di scintillanti colori: un contrasto impressionista con la scultu­ ra stessa. In realtà, l’effetto è così affascinante da sminuire quello del­ la maggior parte delle statue, e forse si dovrebbe dire - a sua giustifi58

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cazione - che il progettista può anche non aver tenuto conto degli ef­ fetti iridescenti prodotti dalle pareti esterne. Tuttavia, il Whitney Museum avrebbe dovuto essere migliore; Al­ fred Stieglitz aveva mostrato il modo. Sfruttando il piano di un edi­ ficio per uffici, accettando la sua luce generosa, dotandolo di uno sfondo chiaro e neutro, aveva creato in An American Place una gal­ leria in cui i dipinti potevano essere visti nel loro reale valore e veri colori. Per raggiungere qualcosa di simile, gli architetti avrebbero dovuto, senza dubbio, ricostruire completamente l’intera facciata; ciò sarebbe stato ingeneroso nei confronti dei vecchi edifici, ma sa­ rebbe stato più gentile verso i dipinti. Dal momento che il Whitney Museum ha perso questa opportunità, ci si deve consolare come si può con il fatto che le sue piccole e licenziose libertà sono almeno una spanna al di sopra dell’ottuso alfabetismo georgiano del nuovo Museum of the City di New York. Psicologicamente parlando, l’estetica dei grattacieli ha di gran lunga oltrepassato il punto di non ritorno; non c’è niente da dire su un nuovo grattacielo se non che è un altro grattacielo. Dieci anni fa, la Sixty Wall Tower avrebbe suscitato una considerevole quantità di commenti; ci avrebbero pensato i suoi sessantasette piani e il suo pennone alto 125 piedi. Ma cosa si può aggiungere ora eccetto che, arrivati alla fine del boom, i suoi piani superiori manterranno luce del sole e vista un po’ più a lungo di quanto sarebbe stato possibile in passato; e dal momento che è così, l’incapacità degli architetti di utilizzare al massimo questa opportunità - seguendo l’esempio di Hood nel McGraw-Hill Building o di Howe e Lescaze nella loro banca di Philadelphia - non è forse ancora più deplorevole? Ci sono scale mobili per sei livelli, ascensori a due piani e uno speciale sistema di aerazione; ma, per quanto posso vedere, questi congegni meccanici non si combinano in nessun punto con il progetto stesso. Esteticamente parlando, il fronte metallico a sbalzo del piccolo edificio di Sh­ reve, Lamb & Harmon sulla Madison Avenue, tra la 41’ e la 42’ Stra­ da, è molto più importante: esso punta almeno indirettamente verso il futuro, mentre la nuova torre è poco più che un dito ammonitore e tri­ ste, che sta lì a ricordarci il passato.

Il ristorante «Foltis-Fischer» tra la Third Avenue e la 42’ Strada è interessante per due ragioni: è a un tiro dall’essere un buon edificio; e 59

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il suo ideatore è Hector Hamilton, che ha di recente vinto il primo pre­ mio per il suo progetto per il Palazzo dei Soviet a Mosca. Il riconosci­ mento del Soviet basta a giustificare i commenti scortesi di Diego Ri­ vera sugli accademici Struldbrugs, che a quanto pare hanno ora un in­ spiegabile ascendente sull’arte ufficiale russa: il Palazzo è stato proget­ tato secondo la formula americana più piatta e borghese, inclusa l’ac­ centuazione della verticalità. Confrontando nei limiti del possibile i due progetti, il ristorante «Foltis-Fischer» è davvero un po’ meglio: al­ le sue ampie vetrate e alla facciata lineare in cemento manca giusto il pregio di essere state portate a termine. Ma l’interno presenta più di un errore stupidamente modernista, comprese le luci incassate nel soffit­ to come giganteschi aquiloni a forma di diamante. L’equazione matematica responsabile di questo errore è: l’Età della Macchina sta al jazz come i triangoli stanno al modernismo. Questa equazione ha solo un grave difetto: non significa nulla. Ciò nonostan­ te l’opera di Hamilton si avvicina, più di qualsiasi altra che mi possa venire in mente, a un ristorante contemporaneo, coerente e funziona­ le, dedicato principalmente al cibo. Il nuovo ristorante di Gertner, progettato da L. M. Lebhar, tra la Broadway e la 47' Strada, attualmente vince il primo premio per la fac­ ciata puramente pubblicitaria. Prima di questa, la migliore vetrina era probabilmente quella di Schulte, l’ottico, sulla Fifth Avenue; ma per la sua assoluta ostentazione, quella di Gertner, con i pannelli di vetro gialli, rossi e blu, è un tantino più d’effetto; ed essa spicca in mezzo al­ la mediocrità e trasandatezza di Broadway, probabilmente la strada più sciatta del mondo, compresa Tottenham Court Road.

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Fu questa la fase peggiore della Depressione, con la città che vacillava sul­ l’orlo della bancarotta. Il sindaco Walker era stato costretto a dimettersi, sosti­ tuito temporaneamente da Joseph McKee e, per il resto del suo mandato, da John O’Brien. Hooverville, un vasto accampamento di baracche improvvisa­ te per i senzatetto che era sorto a Central Park, costituiva l’emblema della disperazione che attanagliava la città. Curiosamente, nella sua prima stagione completa come curatore delle rubriche «The Sky Line» e «The Art Galleries», Mumford mantiene un tono leggero; la ragione è che egli è convinto che la stasi del mercato immobiliare possa condurre a una riflessione post-boom. Con la nomina del precedente Governatore dello Stato di New York, Franklin D. Roosevelt, a Presidente degli Stati Uniti e la promulgazione, durante i «Cento giorni», della riforma legislativa, l’umore della nazione e della città comincia a risollevarsi. Il com­ pletamento dei teatri del Rockefeller Center fornisce a Mumford un po’ di nuovo materiale di discussione all’inizio della nuova annata; l’occultamento della pittura murale di Diego Rivera, Man at the Crossroads, nell’atrio di ingresso dell’RCA Building costituisce, in primavera, un’altra opportunità per un ’amara riflessione.

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Serbatoi del gas e torri. Il nuovo architetto 22 ottobre 1932

Si torna dall’Europa al profilo di New York con una nuova acu­ tezza di visione. Quello che rimane nella memoria dell’intero assorti­ mento di edifici moderni che spaziano da Fleet Street a Londra, al sob­ borgo più periferico di Vienna non è tanto un nuovo tipo di immagi­ ne, quanto piuttosto un nuovo modo di fare le cose: il valore della luce; l’orientamento verso il sole; l’eliminazione del lavoro pesante; la necessità di alberi e giardini direttamente fino alle porte della fabbrica, della scuola e persino, a Rotterdam, del nuovo edificio per uffici. In breve, ciò che è positivo nella nuova architettura europea non è solo un cambiamento di gusto ma un nuovo senso del vivere: una sensa­ zione di spazio, chiarezza e ordine. Con tutto questo in mente, il viaggiatore si sporge dalla ringhiera e saluta il lungo litorale di Long Island in un pomeriggio di sole, con il primo grattacielo di un albergo emergente nel punto che un signore del Bronx identifica urlando come 42' Strada, ma che è forse Long Beach. Si ha immediatamente la sensazione di come un grattacielo potrebbe essere usato correttamente: per accentuare le qualità di puli­ zia e solitudine di un luogo; l’esatto contrario della sua attuale funzio­ ne: incrementare e raccogliere i frutti economici della congestione. (È nel primo modo che F. L. Wright, in America, e Wijdeveld, l’architet­ to olandese, hanno proposto di utilizzare l’edificio alto.)

Qualche miglio a sinistra dell’hotel sulla spiaggia, si profila un ser­ batoio del gas; è bello, anch’esso. Non c’è niente di sbagliato nel ser­ batoio del gas americano, eccetto la sua mancanza di misura e il fatto che è spesso circondato da case sudicie nelle quali si suppone che la gente viva. Preso a sé, isolato dalla compagnia umana, il serbatoio del gas non è nocivo; esteticamente, è un oggetto tranquillo, e con una cin­ tura di pioppi attorno, a una distanza di duecento piedi, il serbatoio 63

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sarebbe uno splendido monumento. Un giorno, forse, quando la civiltà americana potrà permettersi qualche lusso, giocheremo un po’ con queste possibilità. Anche le piccole case decorate a stucco davanti a Brooklyn potrebbero non essere prive di fascino; il colore è sor­ prendentemente buono, anche se i disegni sono infantili. Alla fine, il viaggiatore prende consapevolezza della stessa Manhattan che appare in lontananza, una massa luccicante blu-argentea, grande quanto una montagna e allegra, come una squadra di Zeppelin in sequenza; e anche se la vede ora per la centesima volta, si sente come un bambino che assiste all’ascesa di un razzo: lo vorrebbe salutare con un applau­ so. Quanto ad architettura, New York dovrebbe essere nei fatti ciò che con grande sicurezza appare a distanza: l’incarnazione più smagliante della forma moderna. Sfortunatamente non lo è. Camminando per le strade della città una volta ancora, tra questa massa di edifici nuovi e quasi nuovi, si ha una sensazione immediata di vergogna per tutta l’e­ nergia male utilizzata e la magnificenza sprecata.

Uno degli esiti positivi della depressione è che gli architetti di New York avranno almeno un po’ di tempo per ripensare a ciò che hanno fatto; essi potrebbero addirittura avere l’opportunità di visitare e ispe­ zionare - con qualsivoglia delle sensazioni confuse di trionfo e nausea che l’occasione richiedesse - gli edifici che sono stati progettati nei loro uffici durante gli ultimi dieci anni. Non per niente, alcuni anni fa correva la voce che un giorno il signor X, socio più anziano di un famoso studio di architettura, tornando in città su un traghetto con una comitiva di clienti, avesse denunciato con veemenza il tradimento della sacra causa dell’architettura da parte di un nuovo grattacielo all’orizzonte particolarmente brutto, solo per scoprire che l’edificio era stato realizzato dal suo ufficio all’incirca un anno prima. Un altro degli esiti positivi della depressione è che per i prossimi dieci anni gli architetti di New York non saranno chiamati in causa da alcun investitore o banchiere assennato per ripetere il genere di cose che hanno fatto finora. Quando gli architetti si saranno abituati a uno stile di vita semplice, essi potranno addirittura cimentarsi anche con un qualche tentativo di pensiero elevato. Guardando a ciò che è stato realizzato nel campo dell’architettura in Olanda e Germania, Svizzera e Scandinavia, si renderanno conto che, con tutte le loro illusioni di essere di successo e alla moda, hanno fondamentalmente arrancato in coda alla processione. Perché il nuovo compito dell’ar­ chitettura newyorkése - e a questo fine New York è l’America - è la 64

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residenza; e qui solo una manciata di architetti, coraggiosamente capitanati da Robert D. Kohn, hanno la benché minima idea di quale sia il bersaglio da colpire.

Un interessante indizio di cosa ci attende poteva essere trovato nella recente mostra speciale dell’Hillside Group Housing presso l’Architectural League. I disegni e i plastici mi hanno spinto allo stes­ so tipo di acclamazione che suscita il profilo in lontananza di Manhattan; ma a differenza della nostra massa pittoresca di grattacie­ li, essi hanno resistito a un’analisi più approfondita. L’ideazione e il lavoro sono stati svolti da un gruppo di giovani architetti, impegnati per tutta l’estate in un improvvisato atelier nella campagna sotto la guida di Henry Wright, l’urbanista di Radburn. Il fatto che la mostra si chiudesse con una caricatura di se stessa intitolata Hillside Housing for the South Seas' non era il minore dei suoi pregi - dal momento che una delle fatali assenze nella propaganda dell’architettura moderna è stata il senso dell’umorismo. Proprio a partire dal problema che questo gruppo ha individuato, si pregusta la qualità del loro risultato. L’intento era progettare «un riparo adeguato in un ambiente attraente», ed essi hanno assunto come fulcro del loro schema non un’abitazione astratta, ma un gruppo di abitazioni su una collina nella zona climatica nord-orientale. La resi­ denza in collina - anche se le colline costituiscono un terreno margi­ nale attorno alle nostre grandi città - normalmente sarebbe il tipo più costoso; ma sfruttando ogni nuova possibilità in pianta, disposizione, riscaldamento e dotazione di servizi, i progettisti hanno mostrato come tutti gli svantaggi di un sito collinare possano essere trasformati in splendide opportunità. Questo lavoro ha sia rigore immaginativo sia accuratezza scientifica: vista, spazi aperti, isolamento, economicità e piacevolezza nell’aspetto sono tutti stabiliti in chiave di principio prima di essere elaborati in dettaglio. Come risultato, l’architettura stessa raggiunge la sua varietà c uni­ tarietà affrontando il problema in uno dei quattro modi possibili che sono stati elaborati per adattarsi alla pendenza e all’esposizione; essa è moderna non perché ha ripreso citazioni di architetti europei o ameri­ cani scontate e superficiali, ma perché ha lavorato risalendo dalle con­ dizioni di base alla forma esteriore. Questo gruppo per la progettazio­ ne di abitazioni utilizza il sito in maniera economica, realizza eccellenti 1 «Abitazioni in collina per i mari del sud».

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planimetrie interne, ottiene il massimo effetto di vista, luce solare e ventilazione, e da tutti questi elementi crea un insieme ordinato. Lo spazio del tetto praticabile, così come è stato risolto in questi proget­ ti, mi sembra migliore di uno dei più raffinati esempi in Europa: quel­ lo realizzato a Neubùhl, vicino a Zurigo, su un’estensione ugualmen­ te collinare. Davvero, si ha la sensazione che non appena l’architettu­ ra americana si sarà avviata sul sentiero che Wright e i suoi collabora­ tori hanno tracciato, essa andrà più lontano del movimento contem­ poraneo in Europa, che già mostra i segni di essersi un po’ impantana­ to nella pratica di trasformare espedienti in dogmi e accidenti in prin­ cipi. (La prima casa su pilotis di Le Corbusier era un tentativo reale di affrontare il problema peculiare di un sito ristretto; quando ha copia­ to se stesso nell’abitazione a Poissy, egli lo ha trasformato in un espe­ diente stilistico senza capo né coda.)

Ciò che importa riguardo all’Hillside Group Housing è che non è il solo; è un esempio di un fondamentale riorientamento di pensiero a cui l’architettura americana è attualmente sottoposta a opera degli architetti più giovani che stanno ora uscendo dall’università, in col­ laborazione con i capostipiti tolleranti e vivaci dei gruppi più anzia­ ni. Con un po’ di fortuna, esso cambierà il profilo di New York nel corso della prossima generazione; dal momento che, quali che siano gli altri pregi che i grattacieli del passato potrebbero vantare, sicura­ mente nessuno di essi potrà mai più pretendere di aver rappresenta­ to un’architettura sicura o salda.

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Dalla lavanderia all’architettura 26 novembre 1932

L’architettura spunta oggi nei luoghi più inaspettati. Chi avrebbe immaginato che due degli ultimi edifici che disorientano e divertono l’occhio sarebbero state lavanderie? Una di esse è la Knickerbrocker Laundry. I pendolari di Long Island che andando in città si siedono dalla parte destra la possono vedere mentre attraversano Sunnyside. È un edificio bianco, con due ali nella facciata che si spingono con un leggero angolo all’interno di una torre massiccia e tozza con un grande orologio; la muratura bian­ ca della massa centrale è ripetuta alle estremità, in due fabbricati cul­ minanti in una serie di ondate di pietra - una plasticità da palazzo di neve. La tripla serie di finestre orizzontali sul fronte è ben trattata: la parete stessa è a sbalzo ed è mirabile l’effetto di tanta luce e aria. Ma l’edificio (progettato da Irving M. Fenichel) soffre nel suo insieme di un vizio che è così caratteristico dell’architettura americana che devo inventare un nome particolare per definirlo: il vizio della monumentalità fuor di luogo. La verità è che questa facciata monumentale offre troppo e trop­ po poco. La balaustrata ricurva che conduce all’ingresso, e le masse stesse coperte di pietra, distolgono l’occhio dalle genuine possibi­ lità dell’edificio di configurarsi come un tutto; mentre sui lati l’im­ provviso cambiamento dalla pietra al mattone non è degno di una struttura che ha tre dimensioni. Anche se i dettagli dell’edificio sono stati portati a termine con grande, cura, fino al disegno del marciapiede in strisce contrastanti di cemento grigio, l’unità e la chiarezza della struttura sono state sacrificate al fronte monumen­ tale. Quest’ultimo è in effetti una compensazione per eccesso dei rozzi edifici industriali del passato, che trascuravano compietamente l’effetto visivo (solo che non si migliora l’aspetto di una lavanderia trattandola come se fosse un municipio). 67

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La Cashman Laundry, nel Bronx tra Gerard Avenue e la 140 Strada, progettata da R. G. & Walter Cory, ha analoghe virtù e analo­ ghi difetti. In ambedue gli edifici le finestre sono state trattate con decisione; in entrambi il naturale ritmo è interrotto nel mezzo da un grosso pezzo di muratura. Ma i signori Cory avevano già fatto questo errore nello Starrett Lehigh Building sulla West Side, di cui ho parlato lo scorso inverno, perciò sono meno incline a perdonarli per averlo ripetuto in questo edificio. Il continuo progresso nella progettazione di metropolitane è uno degli aspetti rassicuranti dell’architettura moderna; certamente, la nuova linea della Eighth Avenue è un passo in avanti rispetto a qua­ lunque altra finora realizzata. Le stazioni forse non sono tanto attraen­ ti quanto quelle che il povero professor Alfred Grenander ha proget­ tato per la Berliner Nord-Sùd-Bahn, dal momento che Grenander usava risorse del colore che gli attuali progettisti, forse saggiamente, hanno lasciato inesplorate; ma le pareti piastrellate di bianco e i nume­ ri neri e marcati, ripetuti in maniera ravvicinata lungo l’intera lun­ ghezza delle stazioni, creano un interno che mostrerà i segni del tempo, del deterioramento e dell’obsolescenza meno di qualsiasi altra stazione possa venire in mente. Persino le vetture sono un po’ in anticipo rispetto all’eccellente disegno del B.-M. T.; e l’assenza temporanea di pubblicità, sia nelle piattaforme della stazione che nelle vetture, dà una sensazione di quiete e riposo che non avevo più provato sui mezzi pubblici da quando il Grand Central Terminal fu inaugurato, e utilizzato solo da gente intenta a salire e scendere dai treni - o che aveva semplicemen­ te scoperto l’Oyster Bar. Pensandoci bene, le nostre metropolitane sono sempre state di gran lunga migliori del profilo delle nostre città. Ciò è vero non solo per New York, ma anche per Parigi, Londra, Berlino, Boston, Philadelphia; e temo che in questo ci sia qualche sinistra morale: o costruiamo edifici senza finestre o andiamo in giro senza occhi. Lo Inland Freight Terminal n. 1 è una delusione notevole dopo gli eccellenti risultati dell’Autorità del Porto nel George Washington Bridge. Un professore di mia conoscenza, che vive nel­ l’ala di un orribile museo, è spesso interrogato dalla gente che visi­ ta il suo appartamento per la prima volta su che tipo di quadri ci siano nell’edificio, ed egli sempre risponde: «Quadri molto gran­ 68

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La collezione Rockefeller («The Art Galleries»)

7 gennaio 1933

Probabilmente le gallerie d’arte più visitate durante le prossime set­ timane saranno i due nuovi teatri nel Rockefeller Center. Si tratterà della prima prova pubblica su larga scala dell’arte moderna - o piutto­ sto dell’arte moderna sopravvissuta al virtuoso sguardo furente di Rothafel. Fortunatamente per il pubblico sensibile - ci sono state per­ sone che si sono sentite male in pubblico quando, vent’anni fa, la mostra all’Armory ha presentato Matisse e Marcel Duchamp a questo paese - fortunatamente, il moderno è stato diluito con l’anemico-accademico e con il classico-banale. Ma il vero miracolo è che le pitture murali non siano peggiori. Il programma steso per gli artisti esposti al Rockefeller Center dall’exprofessore di filosofia dell’università del Nebraska, Hartley Burr Alexander, era - parlandone il più gentilmente possibile - un pezzo incredibile di stupidaggini ipocrite. A vanto dei pittori americani, una manciata di loro è riuscita a sottrarsi all’influenza di Alexander e a quel­ la di Rothafael, e a fare un lavoro encomiabile. Per gli scultori è stata più dura. La bella Goose Girl di Robert Laurent si poteva ancora vede­ re quando ho visitato il Music Hall; ma le altre statue erano già state messe, stando ai pettegolezzi, nell’ospedale del teatro, e per quanto ne so potrebbero esservi morte; in ogni caso, nessuno sembrava sapere cosa ne fosse stato. Per quanto riguarda la Goose Girl, la cui forma in alluminio stava particolarmente bene nella luce riflessa degli specchi dorati, essa è stata denigrata - credo - per ragioni che saranno chiare solo ai più colti lettori del Broadway Brevities. Il destino della Goose Girl è forse una nuova giustificazione per l’arte astratta; la forma astrat­ ta di Noguchi, a quanto pare, non ha risvegliato pensieri sconci nella mente di nessuno. Consideriamo in primo luogo i dipinti esposti nel vasto Interna­ tional Music Hall. Il grande errore qui è che la pittura murale di 70

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maggior spicco, quella sopra la scalinata principale, chiamata The Fountain of Youth, di Ezra Winter, è un pezzo grandioso di vuota pittura. La sua maggiore virtù è che, come una carta da parati, essa in qualche modo si fonde con la luce dorata degli specchi; e fortunata­ mente l’occhio è catturato dal motivo astratto degli strumenti musi­ cali nel tappeto di Ruth Reeves. Se la parete fosse stata ricoperta di tappeti e il pavimento dipinto, il risultato sarebbe stato altrettanto buono; forse migliore, dal momento che uno si sarebbe risparmiato lo shock di generare correnti ad alta tensione da scaricare poi sulle ringhiere d’ottone delle scale. Il salone principale al livello sottostante ospita le pitture murali di Louis Bouché sul tema del teatro. Donald Deskey, il progettista, si è visibilmente sforzato di rendere questo salone scuro, quieto e rilassan­ te; ma l’effetto delle ingegnose apparecchiature per l’illuminazione è quello di gettare le riservate pitture di Bouché in un’oscurità ancora più grande, e io non sono stato in grado di formularne una giusta valu­ tazione come dipinti. La pittura murale astratta di Stuart Davis, Men Without Women, nella sala da fumo degli uomini, comunque, è sia una sorpresa che un piacere. Essa mostra la destinazione adeguata dei dise­ gni astratti che Davis sta dipingendo: ciò che evidenzierebbe la loro debolezza come quadri da cavalletto diventa un vero elemento di forza sulla parete. La scoperta delle potenzialità di Davis come pittore di dipinti murali è uno degli eventi di spicco dell’intero esperimento. History of Cosmetics di Witold Gordon nel salotto delle signore è, se vogliamo, carino; ma, come la sua mappa ornamentale nel salotto dei signori sul mezzanino, esso deve essere classificato come il contra­ rio di una decorazione. Preferisco la parete nuda; e il salotto delle signore sul mezzanino disegnato da Deskey, privo di qualsiasi decora­ zione murale ad eccezione delle sedie e degli specchi necessari, è riu­ scito - per semplice gaiezza, sfarzo e sfumature di colori - molto meglio. I fiori enormi di Yashuo Kuniyoshi nella toilette delle signore sono tutt’altra cosa: non solamente sono incantevoli, ma ricreano lo spazio. Anche se la sua tavolozza non è sobria come al solito e perciò, in un certo senso, non è del tutto quella che gli sarebbe propria, le sue pareti, che si incurvano a incontrare il soffitto, non cercano di indie­ treggiare: il tema è «signore-che si stanno incipriando-! loro-visi-tra-i fiori-lussureggianti-e attraenti-e-forse-simbolici-di Kuniyoshi». Questo non è solamente un dipinto migliore di quello di Gordon: è, dal mio punto di vista, una teoria più salda di moderna pittura mura­ le. Una scuola enfatizza il muro, l’altra il dipinto. 71

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Lion Among the Ruins di Henry Billing, astratto e lievemente surréaliste y è un buon dipinto solido; esso ha bisogno di ogni briciola della sua solidità per resistere contro lo sfondo marrone e bianco un po’ troppo concreto. Qui l’interpretazione cubista del Wild West di Buk Ulreich crolla: la stanza è più concreta del dipinto, che necessita di un colore più marcato per evitare di essere inghiottito dalla cornice marrone scuro.

Le pitture murali nell’RKO Roxy Theatre sono molto meno impor­ tanti. Forse il migliore è un dipinto fotografico di aeroplani di Edward Steichen: la parte che rappresenta una flotta di aerei bianchi nel cielo è particolarmente buona, e si apprezza doppiamente un’asserzione così chiara e diretta perché prima di raggiungerla si deve passare davanti ad un dipinto sdolcinato e tremendo di Arthur Crisp. L’interpretazione di Hugo Gellert del proletariato mondiale che esce da un tombino e ascende al Paradiso Sovietico è eccellente come concezione letteraria, ma manca di spazio per la sua esecuzione ed è poco più di un abboz­ zo del dipinto che avrebbe potuto essere. Penso che su di esso si dovrebbe richiamare l’attenzione di Rothafael. Mostrare i potenziali protettori del suo teatro ascendere da un tombino alla rossa stella del Soviet eleva il gusto del pubblico? Gli unici equivalenti del dipinto di Gellert che, lì per lì, posso farmi venire in mente sono gli idoli atzechi che gli operai indiani erano soliti nascondere sotto gli altari delle chie­ se cristiane in Messico. Due grandi insegnamenti, io penso, possono essere ricavati da que­ sti dipinti - o è viceversa? Il primo è che una buona parete pulita è meglio di una pittura murale di terz’ordine: la dicitura «pittura mura­ le» non è comunque una garanzia di efficacia estetica o addirittura di interesse. Il secondo è che pittori non accademici come Davis e Kuniyoshi hanno una concezione molto più equilibrata del posto della pittura murale nell’architettura moderna rispetto agli antiquati profes­ sionisti dell’arte. Chiaramente, questi nuovi dipinti non rappresentano né l’esaltazione dell’arte americana, né la sua completa depravazione. Essi stanno a metà strada tra le speranze di Nelson Rockefeller e le paure di Thomas Craven. Nell’insieme, avrebbero potuto essere peg­ giori. Nel mezzo di un Gelido Inverno è incoraggiante trovare anche pochi segnali della primavera.

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Due teatri 14 gennaio 1933

Sono state dette e scritte così tante sciocchezze su quel cumulo malinconico noto come Rockefeller Center che ci si avvicina ai suoi nuovi teatri con la sensazione che gli auditori siano con ogni probabi­ lità composti di giardini pensili rivestiti di pietra calcarea indiana, in uno stile egizio ritoccato, circondati su entrambi i lati da gallerie più piccole alte quarantasei piani, con un microfono e uno schermo televi­ sivo attaccati a ciascun posto a sedere. Ma i fatti sono meglio delle paro­ le. Sia l’International Music Hall sia l’RKO Roxy stanno così al di sopra della tradizione Hollywood-Grauman-Paramount-Albee che non è assolutamente giusto porli sullo stesso piano. Sarei certamente un critico piuttosto irriconoscente se parlassi meno di questi teatri, dal momento che, dieci anni fa, avevo commen­ tato sulle pagine del «Freeman» che un giorno un architetto sarebbe stato abbastanza coraggioso da progettare l’insegna luminosa e la pen­ silina metallica come i principali motivi decorativi della facciata di un teatro; e in entrambi i teatri gli architetti hanno fatto questo. I caratte­ ri delle insegne mi sembrano inadeguati nelle loro proporzioni, e l’em­ blema dell’RKO è sicuramente brutto; ma almeno Reinhard & Hofmeister, gli architetti, non hanno prima disegnato un tempio greco per poi svegliarsi e accorgersi con loro grande sorpresa che era neces­ sario introdurre nel prospetto una pensilina e un’insegna luminosa. Inoltre, quando era stato aperto il Paramount Theatre, avevo sottoli­ neato con insistenza che nei teatri le luci colorate dovevano essere uti­ lizzate al posto dell’ornamento architettonico; ed ecco! in entrambi i nuovi teatri luci colorate sono all’opera.

Il Music Hall è il pezzo di architettura più beilo e sgargiante. Fin dal momento in cui si entra nell’atrio, con le sue gallerie rivestite di luci, si 73

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ha la sensazione che l’atmosfera del luogo sarà allegra; e nel comples­ so lo è, sebbene ad avere la fortuna di essere il posto più allegro sia la toilette delle signore di Donald Deskey, vertiginosamente ricoperta di specchi, dalla quale è però esclusa la metà del genere umano. C’è un tocco del nuovo Waldorf nei raffinati ori e marroni che pervadono il teatro; e questo mi sembra spiacevole. È stato forse l’effetto inconscio dello Zeitgeist? L’intero Music Hall sembra essere stato «costruito attorno» alla pittura murale dorata di Winter, mentre colori più lumi­ nosi e puri non solo sarebbero stati più festosi, ma avrebbero reso il dipinto dorato improponibile. Nell’altro teatro, progettato da Eugene Schoen, l’effetto è ancora più triste. D’altra parte, Schoen ha usato un blu deciso per una delle sue pareti, e questo ha funzionato tanto bene che ci si sarebbe augurati che tale nota fosse stata suonata più spesso. Tutti gli elementi, buoni e mediocri, del Music Hall sono superati dalla perfezione dell’auditorio stesso. Il soffitto scende verso l’apertu­ ra semicircolare del palcoscenico come una porzione di guscio d’uovo fatta a telescopio; e i pannelli attraverso i quali sono proiettate le luci seguono questo movimento giù, fino alla scena. Ogni linea spinge l’occhio verso il palco. L’effetto è sorprendente. A Rothafael è stato attri­ buito il merito di questa forma di teatro; ma la verità è che era già stata utilizzata in precedenza in quello che finora è stato il migliore audito­ rio del paese, l’Hill Auditorium ad Ann Arbor, progettato da. Ernest Wilby per Albert Kahn. Sebbene parlare di intimità in un teatro di que­ ste dimensioni sia un controsenso, la visione dai posti a sedere più lon­ tani è perfetta e gli architetti, creando un’illusione di vicinanza al pal­ coscenico, hanno neutralizzato l’innato impulso dello spettatore a sui­ cidarsi inciampando su un gradino della galleria più alta.

L’auditorio dell’RKO Roxy è concepito in modo del tutto diffe­ rente. Per prima cosa, esso accoglie una lampada monumentale sospesa a una piastra ugualmente ampia decorata con figure giganti: un elemento che distrae alquanto. Inoltre, l’apertura del proscenio interrompe la curva uniforme delle pareti, e, dal momento che non c’era bisogno che il palcoscenico toccasse il soffitto, abbassarne la sommità prolungando una parte della parete avrebbe creato un effet­ to più unitario. In sintesi, entrambi i teatri sono per lo meno a metà strada verso un’architettura moderna solida e coerente; e l’auditorio del Music Hall è più che a metà strada, c’è quasi arrivato. Evidentemente, nel Rockefeller Center, il peggio deve ancora venire.

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Gli architetti mostrano le loro mercanzie 4 marzo 1933

Ai tempi in cui gli edifici erano spinti su, in alto nei cieli, appena cinque minuti dopo che uno schizzo a carboncino era stato disegnato da Hugh Ferris, la mostra annuale dell’Architectural League di New York somigliava alla città che stava fuori: era una giungla. C’era trop­ po da vedere e troppe poche ragioni per vederla. Ma se questi anni vuoti non hanno ancora insegnato all’architetto come far fronte ai compiti del futuro, gli hanno mostrato a tutti gli effetti come far buon viso alle superstiti presunzioni del passato. L’esposizione allestita al Fine Arts Building da Joseph Urban e associati è un esempio così superbo di abilità nel vendere la propria merce che ci si dimentica rapi­ damente di come pochi degli edifici o delle opere d’arte abbiano un qualche significato. La scelta dei materiali, lo schema della presenta­ zione (vale a dire, l’abbassamento del soffitto e l’abile utilizzo dello spazio tra il pavimento e l’abituale allineamento di disegni e fotogra­ fie), l’enfasi e la concentrazione dell’intera mostra sono da ammirare. Come al solito, la maggior parte dell’esposizione è dedicata all’ar­ chitettura e alle arti. Qui, a parte il Cornell Medicai Center, le cose migliori sono i progetti di paesaggio di Gilmore Clarke per i Westchester County Parks e il progetto di Charles Downing Lay per il Marine Park a Brooklyn. Nel Medicai Center stesso, di Coolidge, Shepley, Bulfinch & Abbott, le unità delle stanze singole, le cucine, le sale operatorie e la biblioteca sono di gran lunga superiori alle parti dell’edificio nelle quali sono state messe in pratica le seduzioni dell’ar­ chitettura tradizionale. Il Wechester County Office Building, di Morris & O’Connor, benché rovinato nell’ottica del gusto moderno dalle sue allusioni classiche, indica tuttavia un nuovo ordine negli edi­ fici per uffici: è poco profondo, limitato in altezza, e non ha arretra­ 75

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menti; lo raccomando di buon grado a quei pianificatori regionali della Russell Sage Foundation che fino al 1931 non riuscivano neanche a immaginare un fabbricato per uffici poco profondo senza arretramen­ ti. Gli edifici di Delano & Aldrich per la Yale Divinity School a New Heaven, anche se fanno palesemente riferimento all’università di Jefferson a Charlottesville, illustrano le possibilità che hanno le picco­ le unità nel progetto di scuole. Tra le fotografie, il pezzo più interessante di architettura eclettica è forse la Church of Our Lady di Mount Carmel, a Brooklyn, di French, Hume e Lefante; mentre il progetto moderno più prometten­ te è la proposta di sviluppo per una base della United States Naval Air a Pensacola, in Florida, di James Timpson.

La seconda sezione, dedicata alle arti del teatro, per questa volta deve essere tralasciata. La terza è una mostra dell’abitazione moderna in America e in Europa, allestita per mezzo di fotografie ben montate e di tabelle organizzate per unità ripetute. Questa esposizione, conce­ pita su linee differenti e per finalità diverse da quelle della sezione prin­ cipale, è stata soprattutto opera di Clarence S. Stein e Catherine Bauer; e se posso, come membro del comitato, darne una qualche opinione in pubblico, è tanto ben fatta quanto educativa. Qui ci sono indicazioni sull’architettura del futuro più realistiche che in qualunque delle case di campagna o degli antiquati grattacieli nella galleria principale. Inoltre, la residenza europea dà forse un’indicazione dell’architettu­ ra moderna nel suo insieme - compresi campi gioco e giardini migliore di quella data dai grandi magazzini isolati, dalle case di cam­ pagna, o dagli altri pezzi esposti. L’eccellente lavoro di Philip Johnson nell’International Exhibition dell’anno passato, e nella sua recente e mirabile documentazione dell’architettura dei Brown Decades a Chicago, nel Museum of Modern Art, ha stabilito un nuovo standard espositivo. Esso aumenta il lavoro dell’organizzato­ re della mostra, ma alleggerisce quello dello spettatore. Fintanto che gli architetti continuano a non avere l’opportunità di costruire più case, potrebbero fare di peggio che mandare i loro colleghi disoccu­ pati ad allestire belle esposizioni.

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Americani primitivi. Ben Shahn e Tom Mooney. Il dipinto murale di Diego Rivera («The Art Galleries»)

29 maggio 1933

Una delle cose sane dell’arte moderna è che nell’atto di nascon­ dere temporaneamente alcuni dei tratti noiosi del passato ha svelato territori dimenticati. La risurrezione di E1 Greco e la riscoperta degli idoli del Congo sono storie note, ma le opere degli artisti messicani Rivera, Orozco e Chariot hanno portato alla luce un altro «passato utilizzabile» - quello fiorito nell’Emisfero Occidentale. L’esposi­ zione sulle origini americane dell’arte moderna ha la fortuna di esse­ re una delle più impressionanti ed eccitanti che il Museum of Modern Art abbia allestito. E esposta una figura azteca di una dea del mais che ricorda quelle dell’Egitto; nonché un disco Totonac di pietra con una testa che sem­ bra provenire da un vaso greco primitivo; e ancora un’architrave in bassorilievo che avrebbe fatto onore agli Assiri. E ci sono culture che attraversano l’intera gamma dalla naive té alla raffinatezza, dalla pura gioia di vivere delle ceramiche e dei tessuti peruviani alla mistica bru­ talità degli Aztechi. In breve, qui c’è un’arte davvero grandissima ma, ad eccezione dei tessuti peruviani al Metropolitan, è inutile cercarla tra le pareti dei nostri musei d’arte, dal momento che i maggiori esempla­ ri provengono tutti dai musei di antropologia e di storia naturale; e ci sarebbero anche potuti rimanere, avvolti in un silenzio polveroso, se non fosse stato per l’interesse raffinato e appassionato dei Post­ impressionisti. Segniamo un’altra vittoria per il movimento moderno, e piazziamola in apertura dell’orazione funebre per la sua morte!

Il Modern Museum ha messo in evidenza l’obiettivo dell’esposi­ zione mostrando dipinti moderni di vari artisti che hanno subito l’in­ fluenza di queste primitive forme americane. Nel caso dei Messicani, l’influsso è del tutto naturale, ma se non vogliamo annegare in un’on77

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data di adattamenti Maya e Aztechi, l’assimilazione di queste cultu­ re straniere dovrà essere tanto sottile e profonda quanto è nei dipin­ ti di Weber e Weston, che colorano l’immaginazione plastica, anziché fornire simboli preconfezionati. In un certo senso, si spera che l’in­ fluenza di questa arte antica, in particolare di quella degli Aztechi più o meno parvenu, rimanga superficiale. Mentre forse è possibile isti­ tuire un parallelo tra i loro riti religiosi e le più squisite forme di car­ neficina dei moderni gangster, il fatto triste è che gli Aztechi eccelle­ vano nell’arte quanto lasciavano a desiderare nei comportamenti: forse una delle cose più serene nella mostra è il dio scolpito Xipe Totec, vestito della pelle scuoiata e gocciolante della sua vittima umana cerimoniale. Tutto considerato, negli Stati Uniti questa è una rara opportunità di vedere, fianco a fianco, così tanti aspetti diffe­ renti della nostra arte, della cultura, del sentimento, del pensiero e della sensibilità di un tempo. È importante rendersi conto di quanto possiamo pretendere dai peruviani oltre al chinino, i fagioli di Lima e la lana dei lama. Non ho visto i dipinti di Ben Shahn sul caso Sacco e Vanzetti. Dagli elogi che ho sentito, dovrei immaginare che siano superiori alla serie sul caso Mooney che egli sta esponendo alla Downtown Gallery anche se un critico così eminente come Diego Rivera sostiene il con­ trario. Certamente, la nuova opera è sincera ed empatica: con un’ap­ parenza di arcaica naìveté, Shahn semplifica lo sfondo, rimuove gli impedimenti del realismo, e presenta l’essenza drammatica del sogget­ to. Ma dov’è il dramma di Tom Mooney - il dramma di un uomo sbat­ tuto in carcere con false testimonianze e lì rimasto per una combina­ zione di vigliaccheria e spirito di vendetta? C’era una promessa di que­ sto dramma ne\YApotheosis; ma per la maggior parte i ritratti degli avvocati difensori, di Bourke Cockran, di Mooney e della sua guardia hanno girato attorno al tema anziché trattarlo. E per quanto riguarda le tre immagini del gentiluomo impomatato che un tempo era stato sindaco di New York - o era Coney Island? - essi occupano uno spa­ zio di gran lunga troppo grande nella mostra, e lasciano un po’ in dub­ bio su quali fossero le intenzioni dell’artista. Nell’occuparsi del sinda­ co di Monte Carlo - o era New York? - Shahn è stato fin troppo gen­ tile, e ha sprecato tre buoni colpi per mirare - o omaggiare - qualcuno che a mala pena meritava di essere un bersaglio. In breve, si accoglie l’intento sociale di Shahn e il suo metodo; ma i quadri in sé non rie­ scono a essere così chiari, inequivocabili e ossessionanti come i fatti 78

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che vi stanno dietro. In nome dell’arte, si ha il diritto di richiedere una propaganda più efficace.

L’atrio principale dell’RCA Building nel Rockefeller Center è ora dedicato, come direbbe l’autore di Eimi, a non-dipinti murali senza arte. L’opera di Rivera, l’ultima volta che l’ho esaminata, era timida­ mente nascosta, ad eccezione dei due pannelli stretti che girano sul­ l’angolo, da uno schermo di legno e carta e da un plotone d’assalto pri­ vato in allegre divise. I dipinti murali di José Maria Sert non hanno dovuto essere nascosti, dal momento che occupano pareti che permet­ tono solo occhiate oblique alle pitture stesse e dal momento che l’ope­ ra in sé è tanto innocua quanto le illustrazioni in bianco e nero che nei primi anni novanta erano solite abbellire le pagine dello «Scribner». Sert è un illustratore con un’attitudine per semplici contrasti ritmi­ ci nel movimento e nella forma; i dipinti dovrebbero rappresentare l’e­ mancipazione del genere umano dalle brute condizioni della schiavitù e della materialità, ma uno ha bisogno di informazioni scritte per sco­ prire di cosa trattano, perché le forme in sé sono prive di significato, tanto prive di significato, se non addirittura tanto artificiose, quanto il solito tema del Prix de Rome. {Mankind Conquering War rappresen­ ta principalmente alcuni monelli che si divertono sul fusto di un can­ none.) Quando Turner scoprì che uno dei suoi tramonti era in disac­ cordo con un contiguo paesaggio di Constable, egli attenuò tempora­ neamente i suoi colori; ma se Rivera avesse avuto una qualche ragione per praticare una simile galanteria nei confronti di Sert, egli avrebbe dovuto cancellare il suo intero affresco: uno è un dipinto vigoroso ed espressivo e l’altro è un mucchio di carta da parati. I custodi del Rockefeller Center hanno saggiamente scelto di nascondere il dipinto e di mettere in mostra la carta da parati. Uno dice «saggiamente» per­ ché l’unitarietà dell’edificio era minacciata dal dipinto di Rivera un’opera ricca di immaginazione che avrebbe riscattato la sua colossa­ le e risoluta insensatezza. Ricordando come gli artigiani indigeni che hanno aiutato a costruire le grandi chiese del Messico fossero soliti sotterrare uno dei loro idoli favoriti sotto gli altari dei conquistatori spagnoli, ci si domanda se Rivera non avesse dovuto porre come con­ dizione per la sua pittura che l’opera dovesse essere nascosta dietro a una guaina di marmo fine, a riposare lì in un ironico splendore fino al giorno della resa dei conti.

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Grattacieli e case d’affitto 3 giugno 1933

Il periodo dei grattacieli sta rapidamente giungendo al termine, e il grattacielo, come lo abbiamo conosciuto durante gli ultimi cin­ quantanni, ha ora raggiunto l’apice del suo sviluppo. Con un giro di ruota, siamo tornati al punto da cui eravamo partiti; nessuna persona sensata direbbe che i nostri attuali edifici sono sostanzialmente miglio­ ri del vecchio Monadnock Building a Chicago, ma come risultato del costruire colossi classici, pinnacoli gotici e merlature bizantine fino a riempire completamente i loro album, gli architetti sono ora tornati ancora una volta alla forma essenziale, ripulita e chiarificata. Si veda l’Insurance Company of North America Building, al 99 di John Street, progettato da Shreve, Lamb & Harmon. Senza alcun intento denigratorio, si potrebbe dire che questo edifi­ cio combini gli aspetti migliori dell’Empire State Building e del News Building. È un progetto molto più deciso del primo, dal momento che non c’è alcun pilone d’ormeggio in stile art moderne né alcun rosone senza senso a concludere le verticali, incorniciate in acciaio rivestito di cromo, ma le finestre sono disposte in maniera alternata ai pilastri, come nel News Building; i timpani neri non hanno ornamento eccet­ to linee verticali, che danno piccoli lampi di luce nelle file superiori. I dodici piani sottostanti sono ventilati meccanicamente. Ci sono cin­ que arretramenti minori nei ventotto piani, e gli angoli di quelli più bassi sono smussati. La bella chiarezza della struttura si perde nel trattamento carico di fronzoli dell’ingresso, dove un chiassoso turbinio di marmo bianco e nero, anche se brutto in sé, ha il piccolo merito di annullare compietamente i dipinti murali. Ma l’edificio nel complesso è sia semplice sia ele­ gante: non è rimasto niente da fare nel progetto degli edifici per affari se non ripetere questo fondamentale modello (niente, cioè, finché non si riveda completamente il programma che sta alla base del progetto). 80

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La mossa successiva è riconoscere il grattacielo come un vicolo cieco e un lusso insostenibile, e cominciare tutto daccapo su una nuova linea. Questo significa progettare lunghi, bassi edifici - al di sotto dei dieci piani - in linee multiple; eliminare i pozzi degli ascensori veloci, parzialmente inutilizzati e perciò esosi; fornire luce e ventilazione naturale a ogni lavoratore e tanta luce solare diretta quanto è tollerabi­ le; trasformare i tetti in spazi ricreativi per l’ora del mezzogiorno e prevedere movimento pedonale e negozi al livello stradale sui lati interni degli edifici. Strutture di questo tipo manterrebbero i vantag­ gi della circolazione verticale senza sprecare spazio in corridoi e inu­ tili file di ascensori, e creerebbero un tema di progetto compietamente nuovo per l’architetto la cui ingegnosità ora si esaurisce nel riempire un lotto dalla forma arbitraria e nel tenersi all’interno di un ugualmente arbitrario «involucro di zonizzazione». Mi aspetto di vedere presto qualcuno che prenda in mano un intero isolato urbano e che provi un progetto di questo tipo; ciò che blocca la strada del­ l’esperimento è il fatto che il pratico agente immobiliare crede con una fede santa e incrollabile che l’utile di un fabbricato cresca pro­ porzionalmente alla quantità di spazio non utilizzabile e non affitta­ bile al suo interno, e che un edificio progettato malamente se fosse alto solo sei piani lo coprirà di guadagno e gloria se lui moltiplica l’errore originario per dieci. Se mai qualcosa potesse provare che Manhattan ha tradizioni tanto venerabili e solide quanto le leggi non scritte di un Pali Mail Club, i risultati dei concorsi per case d’affitto modello lo proverebbero. La prima casa modello negli anni cinquanta dell’ottocento aveva al suo interno così tante stanze non ventilate e buie che in pochi anni era diventata uno slum puzzolente, abitato solo da ladri e prostitute. Il nobile concorso del 1879 aveva aggiudicato il premio al progetto di un appartamento dumbbell1, nel quale ogni camera da letto era anche un corridoio, e nel quale le stanze sul cavedio erano tutte fortificate con­ tro le brezze e la luce del sole - a compensazione di ciò uno poteva sempre, in una serata estiva, vedere la signora del piano di sotto fare il bagno. Il concorso per case d’affitto che ha preceduto la cosiddetta legge modello del 1901 ha incoraggiato i semi-slum standardizzati che oggi dominano nel Bronx: esempi di un ordine e una decenza falsi, del­ 1 Può essere tradotto come «a manubrio»: si tratta di appartamenti costituiti da un asse centrale più sottile e da nuclei più profondi alle due estremità.

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l’umana desolazione e decadenza. Adesso ha nuovamente luogo il concorso del Phelps-Stokes Fund. Se i partecipanti si attengono ai ter­ mini del concorso, essi o devono produrre un altro progetto di slum o aumentare gli affitti al di sopra dei generosi dieci dollari al mese che i giudici hanno stabilito. Ma cosa ci si può aspettare da un Fondo che ammonisce gli architetti che «non sarebbe saggio insistere su condi­ zioni più ideali di quelle che si convengono solitamente [s/c] nelle abi­ tazioni dei ricchi»? Siamo caduti così in basso? In assoluto, la nuova facciata di negozio migliore che ho visto è quella di Courmettes & Schneider vicino alla 57* Strada su Lexington Avenue. Quando la critica architettonica diventerà realmente sottile ed esperta, essa sarà forse in grado di spiegare perché i negozi di ottici e fotografi solitamente sono tanto migliori di quelli di qualunque altra attività commerciale. È forse dovuto al fatto che essi stessi lavorano con il vetro e il metallo e che sono disposti a incontrare a metà strada l’architetto che sa come usare questi materiali? Questo fronte è la sem­ plicità in sé: vetro nero, metallo grigio, lettere metalliche staccate dal loro sfondo per essere illuminate indirettamente sul contorno. Non c’è alcun tentativo, come nelle eccellenti vetrine espositive dei negozi Schulte, di sorprendere con la pubblicità; ma tutte le volte che sul bus passo davanti a questo negozio, mi accorgo di voltare automaticamen­ te la testa per dargli un’altra occhiata. L’architetto è Eugene Schoen.

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Questa stagione assistette allo sconvolgimento politico di New York City: la vecchia macchina del Tammany Hall era andata in frantumi ed era stato eletto sindaco Fiorello La Guardia, che agli inizi del 1934 aveva fatto appro­ vare una versione municipale dei «Cento Giorni». Una delle cariche più importanti del gabinetto era rivestita da Robert Moses che, in veste di com­ missario per i parchi, aveva dato il via alla ricostruzione della rete infrastrut­ turale cittadina. Uno dei momenti culminanti di «The Sky Line» è il commento del dicem­ bre 1933 sul Rockefeller Center, all’epoca quasi completato.

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Oblò sull’Avenue. Banchieri e pesci rossi 4 novembre 1933

I soffocanti ingorghi sulla Fifth Avenue hanno reso ancora una volta il passaggio tanto lento quasi quanto nei giorni migEori del 1928, perciò diamo un’occhiata alle nuove vetrine mentre aspettiamo. Ci sono stati un bel po’ di cambiamenti in questi ultimi sei mesi. La maggiore inversione di tendenza nelle facciate dei negozi, come così tante altre cose eccellenti nell’architettura moderna, ha avuto ori­ gine sulla Third Avenue. Mi riferisco alla vetrina piccola, grande abba­ stanza per esporre solo due o tre articoli al massimo, talvolta creata oscurando l’ampia superficie di vetro in modo tale da dare al nego­ zio l’aspetto del fianco di una nave nera, con un oblò aperto. Questa innovazione ha avuto luogo per la prima volta, almeno quindici anni fa, nei negozi di scarpe McAn, se la memoria non m’inganna. Oggi, la vetrina McAn è tornata ancora a essere una semplice superficie tra­ sparente, ma la vecchia facciata del negozio era una di quelle più d’ef­ fetto in città, salvo che per i bordi metallici smerlati e la ridicola scrit­ ta del nome. Ebbene, questa moda eccedente si è ora impadronita della Fifth Avenue. La teoria è che invece di venire storditi da un’enorme quan­ tità di calze o da un campo di battaglia di scarpe, ne vedete con una rapida occhiata una o due; la vostra attenzione è concentrata, il vostro apprezzamento accresciuto. La teoria probabilmente è valida, almeno per piccoli articoli; ma le vetrine annerite non sono, a mio parere, un gran successo; il cambiamento sembra in maniera troppo evidente un ripiego e, per una fila di oggetti in mostra come sulla Saks-Fifth Avenue, l’effetto è un po’ troppo scontato. Forse l’applicazione più intelligente di questo stile è il negozio Pinet vicino alla 57* Strada. Qui la vetrina rimane interamente trasparente, ma una cornice in legno e metallo circonda la teca espositiva stessa, e una griglia metallica unifi85

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ca l’intera apertura senza bloccare tutta la luce. La cornice compietamente metallica di Marcus & Company, i gioiellieri, alla 53* Strada, è in sé un po’ meno interessante, ma questo è compensato dall’emozio­ nante esibizione delle stesse pietre preziose. L’aspetto rilevante di que­ ste piccole vetrine è che sono in realtà il modello di una scena, e pos­ sono legittimamente approfittare di effetti di colore e di illuminazione che sarebbero piuttosto terribili se la scala fosse più grande. A propo­ sito delle grandi vetrine, comunque, quelle che Kiesler e Archipenko hanno fatto per Saks nel corso degli anni mi sembrano ancora quelle più emozionanti; sfortunatamente, forse, la Fifth Avenue è venuta a conoscenza della reazione Neo-Romantica e il Cubismo non è più «moderno» (per la Fifth Avenue). L’esempio più elegante di questa reazione Romantica è la vetrina che Lee Simonson ha fatto per il negozio Dorothy Gray. Una bianca Venere guarda in uno specchio sorretto da un bianco Cupido, e se uno dei due dovesse scivolare, lui o lei cadrebbe giù dai fianchi lucidi di una bianca grotta che occupa la maggior parte della vetrina al livello stra­ dale. Il lavoro di Simonson era molto difficile; non solo era importan­ te simboleggiare la bellezza, ma era necessario adattare la decorazione alla cornice preesistente, e unificare la vetrina superiore e quella infe­ riore senza cercare di cancellare la linea divisoria del pavimento. Questa bianca raccolta di statue con uno sfondo blu certamente attrae l’occhio, ma detesterei vedere imitato tale precedente. La prossima persona che lo tentasse probabilmente otterrebbe l’effetto delle statue viventi del circo; e, così come avviene, uno scruterebbe la Venere un po’ severamente per vedere se può scorgere la calzamaglia bianca. Tra la 64* Strada e Madison Avenue, una casa Coloniale piuttosto grande, alta due piani, con un tetto a doppia falda e abbaini ha alzato la testa. La facciata è in uno stile georgiano impeccabile e piuttosto superato; si differenzia dalla maggior parte delle residenze nei dintor­ ni perché la porta è aperta tra le nove e le tre, e perché ci si accorge che il proprio ospite ha appostato all’atrio di ingresso un ufficiale con una rivoltella nella fondina, com’era consuetudine nei buoni vecchi tempi dei calzoni alla zuava e dei tricorni. Ma chi è il proprio ospite? È la banca della Manhattan Company. L’intera faccenda lascia alquanto perplessi. Questo tenero sforzo di fare assomigliare una banca a una dimora privata - le addizionatrici sono riposte lontano dalla vista in un angolo del secondo piano - ricorda i giorni in cui le signore non sape­ vano la differenza tra un libretto degli assegni e un libretto di deposi86

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to e in cui si faceva il possibile per evitare che le care creature si agitas­ sero assegnando loro una stanza speciale. (A quei tempi, c’erano ingressi per le signore anche nei bar, ma questo serviva ad evitare che i signori si agitassero.) Qui c’è un intero edificio progettato, apparentemente, per glorifi­ care le Figlie della Rivoluzione Americana. C’è persino un bell’attico attrezzato con file e file di sedie con lo schienale a listelli orizzontali e in stile Windsor - non è mai stata seduta per due ore di assemblea su una sedia con lo schienale a listelli orizzontali, signora? - nel quale si potrebbero tenere le assemblee di quartiere se qualcuno potesse pen­ sare a una ragione per tenerle. Dal momento che io non credo nella resurrezione del XVIII secolo, o nel tentativo di rendere Park Avenue consapevole di essere una comunità, o nel revival dell’autarchia, o addirittura nell’influsso purificatorio del buon gusto sulla salvezza di obbligazioni e ipoteche, non posso pensare a niente da lodare nell’edi­ ficio eccetto le scale sul retro, che sono per l’appunto scale, e il tappe­ to blu, che è di un bel blu. Sì, un’altra cosa ancora è buona. La banca ha adottato il tipo inglese di bancone aperto per i suoi addetti allo sportello, al posto della cabina chiusa americana che protegge in modo ammirevole gli impiegati contro tutto fuorché il gas lacrimogeno e i fucili a canne mozze. E mai venuto in mente a nessun architetto che la migliore protezione per il denaro fuori dalle casseforti sia un fronte completamente in vetro, che renda impossibile per chiunque inscena­ re una rapina senza che il mondo intero lo sappia? Colonne e pesanti fronti in pietra appaiono sicuri, ma il vetro è sicuro. Visto che i ban­ chieri sono abbastanza strambi da immaginare una casa completamen­ te attrezzata in stile georgiano come loro dimora, non potrebbero in un momento di ispirazione figurarsi i vantaggi di un buon vaso per i pesci rossi?

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Il Center di Mr. Rockefeller 23 dicembre 1933

Il Rockefeller Center è ora giunto comodamente a metà strada nella sua costruzione. I topolini hanno faticato, e hanno partorito la loro montagna. Come la maggior parte delle cose che sono state con­ cepite durante gli ultimi giorni del boom, l’edificio centrale è molto grande. E quando uno ha detto ciò, ha detto quasi tutto. Ci basterà questo o indugeremo sui buchi e le piccole impronte dei denti scalfite che i topi hanno lasciato nel loro formaggio? Il momento migliore per vedere il Center è di notte. Sotto la luce artificiale, in una leggera foschia, il gruppo di edifici che adesso lo compongono assomiglia a una delle visioni di Hugh Ferriss della Città del Futuro. Di notte si riesce a dimenticare che ogni tocco di orna­ mento è brutto, di una bruttezza quasi giovanile; che l’unico dipinto interno che il Center può additare con orgoglio è cerimoniosamente nascosto da una parete improvvisata; che l’ampia facciata dell’edificio principale, che corre da est a ovest, ed è alto settanta piani, toglie per­ manentemente la luce del sole a una gran parte dei fabbricati a nord; che gli edifici costituiranno un caos progettato che oggettivamente non si distinguerà dal caos non progettato attorno ad essi. Qui, la notte, c’è quello che Ferriss intendeva: qualcosa di grande, eccitante, romantico. Una montagna o un cumulo di cenere della stes­ sa dimensione sarebbero serviti allo scopo quasi altrettanto bene se le luci fossero state abilmente disposte; per quanto riguarda il progetto architettonico, lungi dall’essere rivelato dall’illuminazione, è piuttosto pietosamente nascosto o mascherato dai forti contrasti di luce e oscu­ rità. Di nuovo la vita ha imitato l’arte; perché questi disegni di Ferriss, con la loro enfasi sulla massa, combinando mole e potenza con il con­ torno leggero e romantico che si può ottenere solo nel disegno a car­ boncino, erano le vette che i Big Boys fermamente cercavano di rag­ giungere. Per ottenere al meglio l’effetto, lo si deve vedere da un punto 88

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vicino agli edifici bassi sulla Fifth Avenue; perché da solo, a distanza, l’edificio principale è una carcassa sgraziata e non sarà mai niente di meglio prima di essere nascosto. Arriva l’alba e il mal di testa. Guardandolo a mente lucida nella luce del giorno, cosa si trova? In primo luogo la lastra gigantesca di un edi­ ficio, che sventola una bandiera rossa, con una serie di gradonature irregolari su ciascun lato che distruggono l’unità della facciata senza renderla in alcun modo più interessante. Guardando il suo spigolo sot­ tile tra gli edifici inglesi e francesi, la sottigliezza diventa un po’ ridi­ cola in proporzione all’altezza; di fronte, sembra la più scarna delle torri. Nel Daily News Building, l’irregolarità della gradonatura è stata utilizzata con successo come un aiuto al progetto, e nell’Empire State Building, la dignità del fusto ininterrotto gli conferisce - fino a che non è raggiunto il terribile pilone d’ormeggio - lo stesso effetto grandioso che ha il Washington Monument; ma qui si ha monotonia senza potenza e irregolarità senza alcuna forza dinamica. Per finalità pratiche, la lunga, stretta pianta del piano terra dell’RCA Building è superiore alla solita forma a torre; ma sfortunatamente que­ sta superiorità è persa a causa dell’eccessiva quantità di spazio che deve essere sprecata nei trasporti veloci. A un terzo dell’attuale altezza, l’RCA Building probabilmente sarebbe un’unità razionale. Infatti, una serie di simili unità, adeguatamente connesse, avrebbe colpito l’occhio molto più di qualunque altro edificio per uffici esistente. Ma il proget­ to di un centro del genere avrebbe richiesto intelligenza e ingegno per gli affari di un livello che non era molto comune nel Dizzy Decade'.

I caratteri ornamentali non sono meno penosi dei suoi sforzi più funzionali. L’accesso dalla Fifth Avenue avviene attraverso una serie di fontane che conducono verso il basso tra i due edifici più piccoli, e si apre su una piazza incavata, con una vasca imponente, al di sopra della quale s’innalza la cornice dell’entrata principale. Chi avrebbe potuto mettere sotto settanta piani un’entrata che non sembrasse un po’ assurda, per quanto colossali fossero le sue dimensioni? Per dirla tutta, la cosa più sensata da fare sarebbe stata lasciare fuori la scultura e usare l’attuale discreto pannello di vetro. Sfortunatamente, questa onesta soluzione avrebbe interferito con il desiderio curiosamente mal conce­ pito di «incoraggiare l’arte», che ha soltanto accresciuto la confusione e l’affanno. Non riesco a trovare una parola di nemmeno timido elo-

1 Letteralmente «Decennio Vertiginoso».

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gio per nessuna delle decorazioni scultoree o grafiche ora visibili su uno qualsiasi degli edifici. Dalle piccole figure dorate sull’entrata del British Empire Building alle sculture di Lachaise sul lato della Sixth Avenue, che, in realtà, uno può vedere solo dall’estremità sud della sta­ zione «L», le arti sorelle dell’architettura hanno davvero dimostrato di essere signore piuttosto fiacche; l’opera degli artisti più illustri, come Lachaise, per qualche funesta maledizione della fata madrina, vale così poco quanto quella dell’ultimo degli artisti minori. Forse l’esempio più pulito di questo pasticcio è l’imponente vasca: le piccole figure, sbagliate per scala, insensate per concezione, pacchiane per la loro visi­ bilità dorata, rovinano la massa liscia e veramente bella del granito stesso. Se si avesse avuto il coraggio di abbandonare al proprio desti­ no «arte» e «decorazione», la forza di questi edifici non sarebbe stata così modesta. Ma gli architetti sono stati teneri quando avrebbero dovuto essere duri, e sono stati bruschi quando avrebbero dovuto essere gentiluomi­ ni. Hanno scelto di usare un calcare dalla superficie friabile ancora con le impronte della sega, che assorbirà la fuliggine e si macchierà in maniera irregolare; i loro giardini pensili danno, dalla strada, l’effetto di baffi capovolti; e l’ornamento che conclude le loro verticali è puro nervosismo. D’altra parte, i loro piccoli edifici raffinati, così tradizio­ nalisti e del tutto privi di uno stile proprio, hanno una rozza fila di lampioni sulla cima che è ancora meno integrata nel disegno degli impianti di aerazione in cima ai teatri. L’interno è a miglia di distanza dall’incontestabile livello di bellezza raggiunto da Howe & Lescaze nel loro edificio della cassa di risparmio di Philadelphia; e forse l’uni­ co tocco divertente è nell’uso di tende Veneziane blu, che tolgono un po’ del grigiore della facciata. Architettonicamente, in breve, il Rockefeller Center è molto rumo­ re per nulla. Manca della distinzione, della forza, della sicurezza di sé della buona architettura proprio perché manca di una qualsiasi fonda­ tezza di intenti e onestà di intenzioni. Da un Iato, i progettisti si sono mangiati una colossale fortuna con una serie di ipotesi sbagliate, pugnalate alla cieca, e grandiose insensatezze; dall’altro, si sono destreggiati e hanno puntato su una mediocrità decorosa. E l’effetto complessivo del Center è mediocrità - vista attraverso una lente d’in­ grandimento.

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La tavola calda di New York 19 maggio 1934

Come ho probabilmente detto in precedenza, il grande cambia­ mento che si è impadronito della città durante l’anno passato è che, nelle più alte sfere del cielo, nulla è cambiato. È a livello di terra che sono avvenuti i cambiamenti maggiori. Sulla Madison Avenue tra la 59“ e la 60' Strada, ad esempio, un edificio di due piani ne ha ora rimpiaz­ zato uno di sette. Si tratta di una costruzione progettata orizzontal­ mente, con angoli arrotondati, la struttura dei solai a sbalzo per forni­ re spazio finestrato libero, e finestre che sono state pensate dall’archi­ tetto per dare sia luce che aerazione. La maggior parte delle sue virtù sono state serenamente sterminate dagli occupanti del piano superio­ re. Utilizzando quattro o cinque varietà di tende, essi hanno fatto del loro meglio per far sembrare l’edificio un salotto Vittoriano che ha fatto un lifting alla facciata. Utilizzando ogni tipo e dimensione di scritte per annunciare la loro presenza, hanno derubato l’esterno di ogni fonte legittima di decorazione. Tutto ciò che è rimasto dell’inten­ zione originaria dell’architetto sono le lamine smaltate di blu e i telai delle finestre e i bordi di metallo che danno all’edificio il suo partico­ lare carattere. Il colore va bene: all’incirca il tono e l’intensità di un’ombra su una superficie bianca in piena luce solare. Sfortunatamente, le lamine di rivestimento stesse sembrano essere qui, come nel Midtown Bus Terminal sulla 44’ Strada, appena ad est di Broadway, un po’ troppo sottili: la superficie ondulata dà una sensazione di incertezza e di man­ canza di rigidità meccanica. Confrontiamo questo edificio con uno simile tra la Lexington e la 61’ Strada: paradossalmente, la pietra di tra­ vertino su quest’ultima facciata sembra più in sintonia con lo spirito della costruzione. La qual cosa vale anche per i mattoni neri invetriati che sono usati nel fianco dell’edificio sulla 59’ Strada. Questo potreb­ be sembrare un problemino da poco, ma dal momento che l’architet­ 91

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tura moderna non può celare i suoi errori dietro a foglie di pietra o ai Cinque Ordini, è proprio riguardo a queste piccole questioni che la scelta deve essere perfetta. Per quanto riguarda gli interni dell’edificio, quelli di maggior spicco ad oggi sono la tavola calda e il teatro per gli spettacoli cinematografici. Quest’ultimo è mediocre. La tavola calda, se uno riesce a superare la scritta indigesta dello slogan pubblicitario (e se uno riesce anche a dimenticare lo slogan), è ben fatta, eccetto l’in­ troduzione da parte dell’architetto di un colossale pannello di fiori. Questi fiori non sono decorazione: sono solo immondizia disidratata.

Un eminente critico di architettura tedesco, W. C. Behrendt, l’altro giorno ha commentato che gli unici luoghi a New York in cui sembra essere diffuso un disegno architettonico vivace sono i ristoranti e le tavole calde più economici. Ha ragione. Il progetto è talvolta così decoroso che può addirittura avere la meglio su nomi come quello del Trufood Restaurant, sulla 44a Strada, appena a est di Broadway. Su un terreno puramente estetico, raccomando quella piccola opera per le seguenti ragioni. Il mattone di vetro è utilizzato molto intelligente­ mente come cornice per la vetrata trasparente. Il colore del mattone è portato sulle pareti interne in un tono più leggero di verde, e questo è un gradito sollievo dopo i cartelloni in colori squillanti del moderni­ smo da negozio di panini. Sia il legno non verniciato dei lavori di fale­ gnameria sia le apparecchiature per l’illuminazione indiretta sono ammirevoli, e, infine, l’antica sedia in legno curvato è stata ridisegnata e migliorata. Se solo i tavoli avessero ripreso la stessa combinazione di colori, con superfici di vetro verde, l’effetto sarebbe stato sorprenden­ te. Così com’è, il tutto è un modesto trionfo, dal quale luoghi molto più costosi potrebbero imparare una lezione. (Spero che pure il cibo sia un modesto trionfo.) L’architetto è V. St. George. Mentre ci occupiamo di esempi minori di avvenenza, diamo un’oc­ chiata al grande magazzino della Pennsylvania Drug Company sul­ l’angolo tra la 511 Strada e la Sixth Avenue. È un luogo grande, lumi­ noso e allegro. La grandezza è enfatizzata dall’ampiezza delle finestre, la luminosità dalle lampade tonde, ora fortunatamente di moda, e l’al­ legria da un uso abbastanza intelligente del colore. Probabilmente, ad oggi, gli si dovrebbe dare la palma come miglior negozio dell’anno, se non fosse per il fatto che gli allestimenti delle vetrine della Drug Company nascondono molto attentamente l’interno e tagliano fuori metà della luce. Evidentemente, l’idea che esposizioni eterogenee di 92

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medicinali, lozioni, ferri da stiro e giocattoli siano attraenti per l’oc­ chio umano è dura a morire tra i proprietari di drugstores. Poiché il pregiudizio è tanto saldo potrei perfino scendere a patti con esso, fino al punto di dare ad un grande negozio come questo una piccola vetri­ na, sistemata non più in alto del livello dell’occhio, nella quale le occa­ sioni del giorno fossero messe in mostra. Se al negoziante piacesse quel genere di cosa, egli potrebbe cambiare l’esposizione ogni ora. In ogni caso, in un negozio ben organizzato, ciò che è spettacolare, ciò che adesca la gente, è quello che c’è all’interno: gli scaffali, i banconi, le merci, le persone. È un vero spreco di cristallo nascondere questa spet­ tacolarità con la noiosa banalità degli allestimenti.

Chiunque desideri avere un’opinione su quale potrebbe essere lo sviluppo razionale di New York dovrebbe guardare alla serie di piani fatti da un abile gruppo di architetti e community planners, recente­ mente in mostra alla New School of Social Research. (Essi probabil­ mente arriveranno tra breve in altre parti della città.) I signori Aronovici, Churchill, Lescaze, Mayer e Wright hanno preso un’area abbandonata sul lungofiume dell’Astoria ed hanno mostrato come poteva essere progettata per viverci. L’ABC di tale pianificazione con­ siste nell’eliminare strade costose disegnate per un traffico inesistente, nel convertirle in parchi e campi gioco, e nel riordinare gli schemi degli isolati e la disposizione delle abitazioni in modo tale da assicurare la luce del sole e trarre vantaggio dalla vista dei parchi e del fiume. Una volta che si sono imparati gli ABC, essi sembrano così ovvi che quel­ lo che stupisce è che abbiamo costruito tutt’altro. Ma questo è quasi l’unico gruppo di piani che ho visto nel corso dell’ultimo anno - e solo il cielo sa, ce ne sono stati quintali - ad appli­ care sistematicamente ad un’area ristretta i principi di sviluppo della città moderna. Molti dei piani per lo sgombero degli slum e per il dise­ gno urbano che sono stati presentati appaiono come se i loro autori avessero acquisito la maggior parte della loro conoscenza dall’Esposizione di Chicago del 1893 e l’avessero messa insieme alle poderose lezioni sulla congestione tratte dagli apparentemente più rispettabili slum berlinesi degli anni novanta. E la beffa è che i nuovi piani per l’Astoria non corrispondono ad un aumento nei costi; essi sono semplicemente un avanzamento nell’intelligenza e nell’arte.

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Già nel 1934, il denaro di Washington aveva iniziato a rinvigorire l’eco­ nomia newyorkese, principalmente attraverso la creazione di grandi opere pubbliche in tutta la città. L’elenco dei lavori che Mumford commenta nel corso di quella stagione è impressionante: un inceneritore nei quartieri residenziali, due palazzi di giu­ stizia nel quartiere degli affari, la ristrutturazione di Bryant Park nel centro e un giardino zoologico a Central Park. Nella primavera del 1933 al Rockefel­ ler Center si scopre una concezione nuova della città moderna, attraverso l’e­ sposizione del plastico di Broadacre City di Frank Lloyd Wright, che Mumford giudica favorevolmente.

PASSEGGIANDO PER NEW YORK

A proposito di un inceneritore. Case in arenaria rinnovate 15 settembre 1934

Quando il sindaco di New York ha inaugurato un po’ di tempo fa il nuovo inceneritore tra la 215“ Strada e la Ninth Avenue, ha detto chiaramente che non gli piaceva. Considerandolo semplicemente un pezzo di ingegneria sanitaria, probabilmente la sua opinione era giu­ stificata, ma quando ha continuato dicendo che sembrava goffo e brut­ to, e che gli ricordava Sing Sing, ci si è chiesti cosa volesse veramente. Lo voleva agghindato per sembrare l’edificio del Municipio, o dimes­ so per apparire più come un inceneritore? Spero si trattasse del secon­ do, perché l’intera reputazione del sindaco come critico di architettu­ ra si fonda su questa decisione. L’inceneritore è molto fuori luogo-, davvero, probabilmente è la peggiore collocazione che si potesse immaginare per un edificio di questo tipo. È situato su un bassopiano vicino al fiume Harlem, e i suoi camini alitano il loro fumo in faccia alla University Heights, aiu­ tati dai venti dominanti da nord e da ovest. Su una base quadrata di due piani sta accovacciato un terzo piano arretrato con una differente di­ sposizione delle finestre; le proporzioni non sono male. Tre enormi ca­ mini di mattone giallo pallido - chiamati in maniera imprecisa e ingiu­ stamente «grigiastri» nelle cronache dei giornali - si alzano dalla fac­ ciata dell’edificio, che è fatta dello stesso tipo di mattone, con decora­ zioni in pietra calcarea. Gli architetti hanno dotato i camini di una «ba­ se» portando la parete della struttura a due piani attorno ad essi: una maschera di mattone con tre nicchie e due aperture ad arco. Queste formano un’entrata trionfale al nulla assoluto, dal momento che i va­ goni delle immondizie girano attorno alla fiancata.

Gli elementi di questo genere di edificio sono semplici; e, come ho spesso commentato, simili elementi spaventano gli architetti cresciuti sui precetti tradizionali, poiché non si rendono conto che gli elementi 97

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semplici possono anche essere stimolanti. Il guaio più grosso di que­ sto inceneritore è che gli architetti, contrariamente all’impressione del sindaco, hanno fatto di tutto per evitare che apparisse come Sing Sing. Ma l’unico mezzo che essi conoscevano per farlo era ^orna­ mento». Perciò hanno introdotto deprimenti fasce di pietra calcarea pasticciata e pilastri ugualmente deprimenti, per enfatizzare elemen­ ti che avrebbero dovuto essere mantenuti puliti affinché la massa re­ stasse unitaria. Vista l’impossibilità di occultare completamente i ca­ mini, gli architetti hanno nascosto con compiacimento la base di queste tre nobili colonne. Ammettendo che questo tipo di inceneritore sia una cosa fastidio­ sa, cosa poteva essere fatto per redimerlo alla vista? La risposta è sem­ plice: concentrarsi sui camini. UtiEzzare la rotondità dei camini stessi per contrapporla alla massa cubica dell’edificio; mettere in mostra la base di queste grandi ciminiere seguendo le loro curve, allontanando­ si da essa, forse, solo per invertire le curve nella congiunzione con l’e­ dificio. La scuola romantica degli architetti moderni di Amsterdam, cresciuti tra i mulini a vento in mattoni dell’olanda, ha mostrato co­ me utdizzare pareti ricurve in mattone proprio in questo tipo di gioco cubo-cilindro. In realtà, malgrado quanto gli architetti hanno fatto per fare apparire la costruzione un luogo anonimo, i camini giaUo chiaro, contro il cielo blu, fanno una bella impressione; e non sono affatto peggiori a causa di un grande olmo che, proprio là davanti, dà la mi­ sura delle loro colossali proporzioni. Quell’albero dovrebbe essere mantenuto ad ogni costo. Prevedo che questo olmo e i camini appari­ ranno presto in più di una litografia, e che anche a Suo Onore piacerà l’effetto quando lo vedrà in un quadro.

Forse l’esempio recente più interessante di ristrutturazione è la ca­ sa che William Lescaze ha progettato per sé e signora sulla 48' Strada Est, tra la Second e la Third Avenue. Questo è in tutti i sensi un isola­ to straordinario. All’incirca quindici anni fa, era il migEor esempio di ristrutturazione a grande scala che la città potesse mostrare, dal mo­ mento che qualcuno ha avuto la febee idea di restaurare i gruppi di ca­ se in arenaria tra la 481 e la 49’ Strada in una specie di garbato stile Bloomsbury-georgiano, e di trasformare i sudici cortili sul retro in un bel giardino comune. Questo ha convertito un’area deturpata in un posto attraente prima che i genitori di Sutton Place si fossero mai in­ contrati. Adesso Lescaze ha dato il via alla ristrutturazione di un’unità singola, larga solo diciassette piedi, ed ha mostrato cosa può essere fat98

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to all’interno di questi limiti drastici. Necessariamente le virtù di que­ sto tipo di progetto devono essere quelle del dettaglio, piuttosto che della planimetria, e in modo particolare visto che Lascaze ha incorpo­ rato nel piano interrato il suo studio di architettura, togliendo così gli alloggi di servizio vecchio stile. L’esterno è in stucco bianco. L’alta veranda davanti alle camere dei domestici è protetta contro la pioggia da una persiana piatta; sulla sua fiancata chiusa il numero, 211, può essere visto da una buona distanza, per la gioia dei tassisti e degli altri automobilisti nelle notti di pioggia. (A proposito, numeri chiari e insegne visibili sono uno dei veri contri­ buti dell’architettura moderna. Howe e Lescaze hanno stabilito un ec­ cellente precedente con la loro banca di Philadelphia.) Una finestra a nastro, che chiude la camera da letto della servitù e la cucina, corre lun­ go la facciata; c’è un’apertura di servizio a battenti in acciaio per ritira­ re i pacchi, e uno spioncino per controllare i visitatori - il che mostra a che punto è arrivata la vita a New York nel quarto decennio del XX secolo. All’interno, invece di lasciare che la balaustra giri su se stessa, come è sempre stata la prassi quando è stato utilizzato il legno, l’ar­ chitetto ha economizzato sullo spazio usando una lastra piena, ammi­ revole in egual misura per aspetto e facilità di pulizia. Le finestre dei due piani superiori sono in realtà pareti di mattoni forati di vetro. Le principali innovazioni nel progetto sono l’utilizzo di questi mattoni di vetro e l’impiego razionale dell’aria condizionata. L’aria condizionata non è una cura per tutti i mali dell’umanità, ma è uno strumento molto utile per rendere possibile il rinnovo delle antiquate case in arenaria di New York. La maledizione di simili abitazioni era lo spreco di spazio interno buio; grazie all’aria condizionata, Lescaze è stato in grado di trasformare questo spazio in stanze da bagno di un bianco abbagliante al secondo piano, o zona notte. Nella camera da letto che dà sul fronte, invece di usare l’aria condizionata, ha inserito nelle pareti di vetro due finestre a battenti. Questi mattoni di vetro sembrano funzionare in maniera ammirevole. Essi spezzano le imma­ gini all’esterno, compresi i riflessi del sole, e danno un’intimità com­ pleta pur fornendo una quantità massima di luce. Le finestre a nastro sul retro, nei piani superiori, seguono la curva verso l’esterno dell’e­ stremità ovest delle stanze, con ciò non solo aumentando il loro spa­ zio apparente, ma aprendo una vista migliore sui giardini a est, uno scostamento ingegnoso che probabilmente vale i costi aggiuntivi. Si sommi a tutto questo una camera da pranzo che si apre su un terrazzo 99

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che copre la maggior parte di ciò che un tempo era il cortile posterio­ re - un terrazzo con una vasca per le ninfee, e addirittura con una gio­ vane betulla - mentre in cima c’è una biblioteca e sala per i ricevimen­ ti che occupa l’intero piano. Tutto considerato, Lescaze ha fatto un’u­ tilissima esperienza di pionierismo individuale. Non sarei stupito se il suo ingegnoso trattamento del lotto e del sito avviassero un’ondata di rinnovamento delle vecchie case in arenaria. Prima che l’ondata irrompa, ho un suggerimento da dare a coloro che possono permettersi di prenderlo seriamente. E cioè di compra­ re due case in arenaria strette e di metterle insieme, eliminando una delle scale e un atrio, e utilizzando lo spazio così guadagnato per creare stanze di forma e dimensioni ampie. Aggiudicandosi spazio in larghezza, occorre che le case siano profonde solo due stanze. Que­ sto eviterebbe la necessità di aria condizionata, e addirittura darebbe ai bagni aria e luce dirette. Il risultato sarebbe di gran lunga migliore di quelle case costose a lato della Fifth e Park Avenue, costruite sul­ l’intero lotto, e chiamate di lusso solo da coloro che non hanno riè analizzato le loro piante né provato a viverci. Quando si pensa alle loro stanze sul retro, senza aria, non toccate dalla luce del sole, i cui tendaggi sono sempre tirati per evitare che gli occupanti fissino la pa­ rete vuota dieci piedi più in là, ci si stupisce che non vi si commetta­ no più delitti. O forse questa è la ragione per cui così tanti delitti là vengono commessi.

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1. Radio City Music Hail