Pasolini. Sade e la pittura 8889782773, 9788889782774

Pasolini. Sade e la pittura

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Italian Pages 248 Year 2012

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Pasolini. Sade e la pittura
 8889782773, 9788889782774

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FALSOPIANO

CINEMA

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a mia madre

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EDIZIONI

FALSOPIANO

Mathias Balbi

PASOLINI

SADE E LA PITTURA

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Ringraziamenti Voglio ringraziare Graziella Chiarcossi per le preziose indicazioni sui materiali d'archivio relativi alle sceneggiature di Salò o le 120 giornate di Sodoma conservati presso l'Archivio contemporaneo “A. Bonsanti” del “Gabinetto Letterario G. P. Vieusseux” di Firenze e presso l'“Archivio Pier Paolo Pasolini” della Cineteca di Bologna. In relazione ai due enti voglio ringraziare per la loro disponibilità nei miei confronti rispettivamente la dott.ssa Eleonora Pancani e il dott. Roberto Chiesi. Alessandra e Giuseppe Zigaina per la loro collaborazione. Il prof. Gianluca Ameri dell’Università degli Studi di Genova.

In copertina: Pier Paolo Pasolini sul set di Salò o le 120 giornate di Sodoma.

© Edizioni Falsopiano - 2012 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Roberto Dagostini Stampa: Arti Grafiche Atena - Vicenza Prima edizione - Aprile 2012

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INDICE

Prefazione di Sergio Arecco

p. 11

Introduzione

p. 17

Nota

p. 29

Scheda filmografica

p. 31

PartE PrIma - Il ProgEtto

p. 33

Capitolo Primo Pier Paolo Pasolini. Nascita e vita

p. 35

Friuli materno e Bologna paterna Parola dipinta. Poesia e pittura Alla corte di Longhi tra scuola e “fulgurazione” Una postilla. Pasolini e le riviste “Il Setaccio” (1942-1943) “Stroligut” (e Academiuta di lenga furlana, 1944-1947) “Officina” (1955-1958)

p. 35 p. 38 p. 42 p. 59 p. 59 p. 63 p. 65

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PartE sECoNDa - Il mIstEro

p. 73

Capitolo Secondo Pasolini, sade e le arti

p. 75

La “fulgurazione” e il pastiche La pittura di Pasolini. Il pastiche e l’alchimia Salò e le arti. Teatro, architettura, musica, voce, suono Teatro Architettura Musica, voce, suono

p. 75 p. 78 p. 84 p. 84 p. 88 p. 92

PartE tErza - la mImEsIs

p. 111

Capitolo Terzo Premessa metodologica

p. 113

Fuori testo. la bibliografia e la didascalia

p. 113

Balla, Boccioni, Duchamp, Léger, (Sironi) Bosch Bruegel il Vecchio Cagnaccio di San Pietro Caravaggio Casorati Daumier (e Goya) Dix (e Nuova Oggettività) Donghi

p. 117 p. 133 p. 141 p. 145 p. 149 p. 155 p. 160 p. 163 p. 169

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Feininger Giorgione Grosz Kokoschka Magritte Mantegna, Masaccio, Piero della Francesca Savinio Signorelli Vermeer

p. 173 p. 175 p. 178 p. 182 p. 183 p. 186 p. 197 p. 200 p. 205

Art-Déco e Liberty Arte bizantina

p. 208 p. 212

appendice. Due tavole fuori testo

p. 215

Conclusione. Pasolini, longhi e Bacon

p. 217

Immagini

p. 219

Bibliografia

p. 237

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PREFAZIONE di Sergio Arecco

Se poi fotogramma, per etimo, significa descrizione di luce e, dunque, anche d’ombra? Di questo ci si convince rilevando che, portate in film, le immagini del Caravaggio e della sua cerchia sembrano girate addirittura dinnanzi a noi su corpi veri, e non dipinti. (Roberto Longhi, Il Caravaggio e la sua cerchia, 1951)

L’insistenza del rapporto tra immagine pittorica e immagine filmica è sempre stata argomento ineludibile per gli studiosi dell’opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini. Pensiamo ai saggi o alle monografie di Brunetta, Marchesini, Galluzzi e dello stesso Zigaina. Perché dello stesso? Perché Giuseppe Zigaina, conterraneo, di due anni più giovane e amico intimo di Pasolini fin dall’adolescenza, ha avuto modo di cogliere, più di chiunque altro, la genesi remota della passione figurativa del compagno, fin dai primissimi disegni giovanili in quel di Casarsa, e ha avuto modo di seguirne da vicino (più da vicino di chiunque altro) gli sviluppi successivi, propiziati in ambiente universitario dalla frequentazione assidua delle lezioni di Roberto Longhi presso l’ateneo di Bologna. “A Roberto Longhi sono debitore della mia ‘fulgurazione figurativa’”. Chi non conosce questa dichiarazione (che è anche una dichiarazione d’amore filiale), con la quale Pasolini introduce la sceneggiatura di Mamma Roma (1962)? Chi non conosce il tanto citato parallelismo tra il Cristo Morto di Mantegna a Brera e la ripresa in scurto di Ettore morente nel suo letto di contenzione in Mamma Roma? Chi non conosce la tanto dibattuta quaestio dei prestiti figurativi esplicitati da Pasolini nei primi tre film (il Masaccio di Accattone e Mamma Roma, la Deposizione del Pontormo in La ricotta), quasi a titolo di omaggio al magistero longhiano? Ebbene, Mathias Balbi, il giovane e valente studioso autore del volume, si fa intenzionalmente critico della critica, al fine di ricostruire passo passo, come nessuno ha fatto finora con un simile scrupolo e rigore, la traiettoria di un’arte cine11

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matografica come quella pasoliniana, intimamente connessa sia con la storia dell’arte italiana tout court sia con la storia dell’arte italiana così com’è ridefinita dalla specifica rilettura longhiana. Per poi finalizzare il tutto alla disamina delle genealogie figurative di Salò o le 120 giornate di Sodoma o, per meglio dire, con un bisillabo che Balbi definisce giustamente “sibillino”, Salò, o tutt’al più, SalòSade: sigillo non solo oggettivamente definitivo dell’opera pasoliniana, ma anche, a prescindere dalle circostanze fatali e fattuali che lo hanno reso tale, sigillo di un percorso creativo al quale, sul finire del 1975, Pasolini stesso intende comunque assegnare un valore conclusivo. Non solo: conclusivo in illo signo, nel segno di un’estetica del pastiche ipernaturalistico maturata fin dalla gioventù – secondo la preziosa testimonianza di Zigaina – e destinata a sublimarsi figurativamente in quell’analogon irripetibile dell’ “universo orrendo”, apparentabile solo a certe pagine non meno irripetibilmente “analogiche” come quelle del cap. 55 dell’incompiuto Petrolio, rappresentato da e in Salò. Ecco pertanto dispiegarsi nel presente volume, grazie all’attenzione davvero capillare di Balbi, il tracciato completo del rapporto tra Pasolini e le arti, dall’affezione quasi morbosa per il “colore” nei disegni di gioventù alla “fulgurazione pittorica” d’epoca universitaria, dalla vertenza critica su una personalità controversa come quella del Romanino (1485 ca.-1550 ca.) alla scoperta, sempre di ascendenza longhiana, del manierismo e del barocco, nonché, per li rami, dei dispositivi della contaminazione e del crossover (o, addirittura, della iteratività warholiana). Pasolini che, assistendo alle lezioni bolognesi di Longhi, ha l’impressione di assistere, contestualmente, a una sorta di messa in scena cinematografica, assicurata dallo scorrere delle diapositive in bianco e nero, dell’arte pittorica di Masaccio e aiuti. Pasolini che propone a Longhi una tesi di laurea sul cinquecentesco pittore friulano Pomponio Amalteo, la cui maestria ha sempre ammirato fin dall’infanzia “cattolica” condivisa visceralmente con la madre Susanna, frequentando la Parrocchia Nuova di Casarsa (Deposizione) o, ancor più, Santa Croce di Casarsa (Storie della Passione e della Vera Croce) – dopodiché, di fronte alle perplessità del maestro, opterà per una laurea in letteratura italiana, con una tesi sulla poesia di Giovanni Pascoli, discussa con Carlo Calcaterra. Pasolini che, in una “Lettera” del 4/10/1962 a Vie Nuove, il settimanale del PCI su cui scrive, si appella ancora a Longhi perché smentisca, con tutta la sua autorità di maestro e di specialista di Masaccio, la derivazione “automatica” dell’immagine dell’Ettore morente di Mamma Roma dall’imago princeps del Cristo morto di Brera: “Ah, Longhi, intervenga lei, spieghi lei, come non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per par12

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lare di influenza mantegnesca!”. Pasolini che s’invaghisce, auspice Longhi, di Caravaggio e dei caravaggeschi, e intraprende un suo tragitto assolutamente personale, che dalla luce accecante dei primi film lo conduce a un elogio progressivo dell’ombra che quella luce nasconde e sottende. Pasolini che, di Longhi (questa volta in concorrenza con Gianfranco Contini), assimila, per una curiosa empatia, lo speciale impasto di tradizione filologica e traduzione metaforica, un metalinguaggio affascinante che fonde insieme lettura del fatto o artefatto pittorico e lettura dell’antefatto storico, in pagine che sono al tempo stesso creazione di un mito figurativo e ri-creazione letteraria del mito in esame. Pasolini che, ritraendo amorosamente la Maria Callas degli anni di Medea e del dopo-Medea, officia quel medesimo rito esorcistico o alchemico che officiava da giovane ritraendo le figure di Casarsa o ritraendo se stesso come – lo sottolinea ancora Zigaina – qualcosa di enigmatico, sondabile soltanto per vie iniziatiche o misteriche. Pasolini che, ogni volta che si mette in campo, mette in campo una “divina mimesis” che è tutt’uno con quell’imitatio Christi e soprattutto quell’imago Christi che si porta dentro da sempre, come disegno archetipico: un’immagine mimetica alla quale finirà per dare definitivamente corpo con l’immagine del proprio stesso corpo morto, vilipeso e oltraggiato. Pasolini che, attraverso il cosiddetto “teatro di parola” fonda, artaudianamente, un’archeologia del verbo fatto carne e sangue, urlo e suono inudibile, in ossequio a un’interpretazione quanto mai estensiva ed estrema del pastiche linguistico, da intendersi in senso non solo figurativo ma anche plastico, letterario e musicale (o a-musicale). Mathias Balbi esamina punto per punto, con un’acribia che non lascia nulla d’inesplorato, tutta questa tessitura di rimandi culturali. E, citando quanto Pasolini scrive in calce alla citata “Lettera” a Vie Nuove a proposito del figurativismo di Mamma Roma – “O che, se mai, si potrebbe parlare di un’assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio” –, quasi anticipa un’intuizione che si va proprio in questi giorni concretizzando grazie alla mostra fiorentina “Novecento sedotto”, nell’ambito della quale al fotogramma di Ettore disteso in scurto nel suo letto di morte non viene affiancato il Cristo morto di Mantegna bensì, provocatoriamente, il Compianto sul Cristo morto di Orazio Borgianni (1615, proveniente non a caso dalla “Fondazione Studi Storia dell’Arte Roberto Longhi” di Firenze). Giusto perché si è voluto tener conto, a detta della curatrice della sezione Valentina Gensini, del suggerimento di Pasolini (Masaccio “commisto” a Caravaggio) e del fatto sintomatico che, com’è scritto nel Catalogo 13

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della mostra, “il corpo livido del caravaggesco Borgianni e quello del figlio della prostituta Anna Magnani hanno in comune la ricerca di una bellezza che non ha paura di rappresentare con autenticità il dolore” (laddove il Cristo di Mantegna trasmetterebbe più un senso di dolente costernazione che di smarrita bellezza). Del resto è stato proprio Longhi a tessere, in Il Caravaggio e la sua cerchia, un elogio inaspettato di Orazio Borgianni (1578-1616 ca.): “Per molto pubblico sarà una rivelazione il Borgianni che, in Ispagna, da molto giovane, aveva conosciuto anche il Greco, e, tornato a Roma sui primi del secolo nuovo, diede, se dobbiamo credere alle parole del Baglione, qualche ombra di preoccupazione al Caravaggio stesso”. Con Borgianni, fa capire Longhi, siamo alle soglie del manierismo, se non della vanitas barocca: il tratto visionario sotteso agli intensi effetti luministici e agli squarci improvvisi di nature morte introduce a quel ludico mascherarsi e smascherarsi dei doppi spazi e dei doppi fondi che sarà cifra manieristica per vocazione o elezione; mentre il trionfo della “bellezza del dolore” prelude a quell’illusionistico estetismo della morte che sarà tratto distintivo dell’estasi del capriccio, macabro o fantasmagorico che sia. Inutile nasconderlo: sono epifanie che si riversano come un trauma su una sensibilità già di per sé predisposta come quella pasoliniana e sfoceranno, nel cinema e non solo (la letteratura e la critica pasoliniana del periodo se ne fanno carico in egual misura) nell’esibizione sempre più compiaciuta di un sacro ostentatamente e sistematicamente profanato: un’oltranza che si esalta già in Uccellacci e uccellini e Che cosa sono le nuvole?, attinge un primo vertice in Teorema e Porcile e culmina in Salò. Salò, appunto, o Salò-Sade. E a tal proposito ci piace ricordare una querelle che, all’epoca, divise i due più influenti scrittori del Novecento italiano, Alberto Moravia e Italo Calvino. Quest’ultimo accusò Pasolini di aver fatto un film sbagliato, per non aver avuto il coraggio di prendere a bersaglio se stesso e la propria intrinseca “crudeltà”, il proprio innato “sadismo” in fatto di rapporti sessuali – come se, in ogni suo film, e in Mamma Roma in primis, Pasolini non avesse parlato di se stesso nella forma più autentica e straziata, vaticinando addirittura nella morte mantegnesca o borgiannesca di Ettore la propria stessa morte. Al che Moravia, indignato, ribatté che Salò-Sade non intendeva affatto essere un film “sadico”, bensì “una riflessione cinematografica sull’opera di Sade”, un modo per mettere a nudo i meccanismi del fascismo, consistenti nel dissimulare il “disordine mortuario” sotto un “falso ordine vitale”. Facendo notare che le scene più “sadiche” erano quelle viste attraverso il binocolo dei Signori, per cui tutto finiva per apparire filtrato, calato “in un’aria di sogno, con carnefici e vittime resi muti dalla distanza, in brani separati, come in una nebbia che si squarcia ogni tanto”. Calvino, sulla scia di Michel Foucault – il quale in Sade, sergent du sexe minimizzò la grandiosità necrofila della mise en scène totalitaria della Storia rivendi14

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cando l’origine piccolo-borghese dei fatti più sinistri e disgustosi e attribuendo l’invenzione dei lager alle morbose immaginazioni congiunte di un allevatore di polli, Himmler, e di un’infermiera, sua moglie –, non capì che la chiave di lettura di Salò non poteva che essere quella del “pathos della distanza”, della trasposizione astratta del trauma del fascismo-sadismo, e dei suoi derivati anche personali, nella langue del vocabolario fantasmatico sadiano. Come non rilevare che i molteplici “brani separati” del film sono figurativamente stilizzatissimi? Che l’intero film è il prodotto di una suprema astrazione formale, di una sublimazione retorica che mette in ombra qualsiasi riflesso privato? La luce di Pasolini è, ancora una volta, la luce-ombra riflessa dalle pale d’altare di un suo intimo teatro della memoria pittorica, questa volta esibite con tanto di firma occulta, alla cui decrittazione può molto aiutarci il minuzioso inventario scandito da Balbi nell’ultima parte del volume, addirittura in ordine alfabetico: da Balla a Vermeer, passando per artisti apparentemente lontanissimi tra loro nel tempo e nel canone come Cagnaccio di San Pietro e Daumier, Donghi e Feinenger, Grosz e Magritte, Savinio e Signorelli –, tutti campioni, appunto, di un alto grado di stilizzazione della figura e del tratto. Giusto perché ogni “brano separato” trovi il suo possibile ascendente e il suo possibile codice di riferimento. Balbi, pur tornando opportunamente a evocare in fine Longhi e i Fatti di Masolino e di Masaccio, conclude il suo saggio nel nome di Francis Bacon, “concordanza” troppo suggestiva – in tema di trattamento diretto e indiretto della figura – per non essere richiamata. Quando, esaminando i provini fotografici realizzati negli anni Settanta da uno sconosciuto – forse il compagno – per il pittore irlandese e fondati perlopiù sulla costante di corpi maschili che brutalmente si sfiorano o si torcono o si avviluppano nella lotta, scopriamo un teatro di ossessioni erotiche puntualmente trasformatesi in opere d’arte. Quando visitiamo lo studio londinese del pittore, ora trapiantato pari pari a Dublino, scopriamo un accumulo, casuale e fantasmatico, di spazzatura e fotografie, ritagli e bottiglie vuote di champagne, barattoli di pittura e scatole di conserve, fogli squarciati e polvere. In altri termini, un caos perfettamente organizzato, o un delirio puntigliosamente studiato, pronto per essere trasferito sulla tela in forma antropomorfica. In proposito, Milan Kundera ha scritto in Un incontro che “ciò che [i quadri di Bacon] suscitano non è l’orrore che conosciamo, quello dovuto alle follie della Storia […]. In Bacon l’orrore è del tutto diverso: proviene dal carattere accidentale, improvvisamente svelato dal pittore, del corpo umano”. Ebbene, l’ecce homo di Pasolini, in particolare del Pasolini estremo di Salò, così intensamente scandagliato da Balbi, non ha nulla da invidiare all’ecce homo di Bacon.

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INtROduZIONE

“La morte non è nel non comunicare ma nel non poter più essere compresi” Pier Paolo Pasolini, Una disperata vitalità

Una nuova teoria di argomentazioni e dibattiti sopra l’opera pasoliniana ed in particolare sopra il film che più si è (da sempre, da subito) configurato come uno dei testi eccellenti e più metodologicamente nodosi e meno scindibili in parti semplici quali Salò o le 120 giornate di Sodoma, può condurre a qualche perplessità critica. Nel rivolgere intanto lo sguardo all’epoca intensa di Salò, al periodo coincidente con la sua uscita (1975) e a quello appena precedente - il biennio 1973-’74, incipit anche dell’idea-Salò, della sua travagliata e ardita storia produttiva, quanto cornice di una malcelata querelle che ha diviso Pasolini dall’allievo-discepolo Sergio Citti - ci si ritrova a coltivare la convinzione che se, nella storia della cultura, i detrattori hanno solitamente bisogno di occasioni e “testi” spinosi per espletare i loro compiti, mai come nella finale e tragica stagione della vita di Pier Paolo Pasolini questi hanno potuto trovare terreno facile e fecondo. E ciò a più di un livello, due come minimo, e ci riferiamo tanto ovviamente al livello del cinema pasoliniano, quanto a quello intellettuale-critico e giornalistico, a cui si potrebbe allegare la non parentetica attività poetico-letteraria del poeta. Allora, enumerando e identificando con nomi precisi, Salò, gli Scritti corsari e le Lettere luterane (gli interventi giornalistici antologizzati) e, in unione e anticipazione a Salò, il romanzo-fiume Petrolio e l’auto-revisione poetica de La meglio gioventù, con il titolo di La nuova gioventù. Il “Salò-Sade”, per richiamare la sintetica definizione critico-giornalistica con la quale il film fu rapidamente etichettato in quei mesi precedenti e successivi alla sua deflagrante comparsa, muoveva dal riflusso di un periodo molto preciso ed importante per Pasolini, quello iniziato nel 1973 con la collaborazione giornalistica al “Corriere della Sera” e “Il mondo” (e occasionalmente con “Paese Sera”), il cui punto d’arrivo è la confluenza nelle pubblicazioni degli Scritti corsari e delle Lettere luterane. I piccoli e grandi interventi del Pasolini appassionato critico e analista disperato di un’”accanita denuncia, sostenuta da una lucida e tagliente analisi, della 17

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società dei consumi prodotta dalla seconda rivoluzione industriale e dominata dal neocapitalismo tecnologico” 1 costituiscono il romanzo personale della rabbia e della disperazione pasoliniane di quegli anni, coincidenti con la degenerazione della società dell’”ordine orrendo” e dell’”inferno neocapitalista”; ma questi elementi-cardine della presenza intellettuale di Pasolini nell’Italia della metà degli anni Settanta si riformulano, trasportati nell’ambito del cinema pasoliniano e nel quadro della genesi ed elaborazione di Salò, come movente di attualizzazione e presentificazione della realtà codificata in quel cinema. Nelle Lettere luterane Pasolini dice: “Se oggi volessi rigirare Accattone, non potrei più farlo. Non troverei più un solo giovane che fosse nel suo “corpo” neanche lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentato se stessi in Accattone” 2. Da qui, un’ideale gerarchia di temi, condurrebbe ai successivi stadi critici della “mercificazione”, della “omologazione”, della “mutazione antropologica” e, soprattutto, del “genocidio delle culture particolari” (ovvero popolari). L’epistolario di Pasolini con Gianni Scalia (amico e suggeritore occulto della riunione degli ultimi suoi articoli e loro pubblicazione negli Scritti corsari) segue e cronachizza l’applicazione pasoliniana di uno schema marxiano allo studio dell’”Ordine orrendo” di cui parlava in relazione alla società di quel periodo; Scalia dirà in seguito: “Credo che l’ultima ricerca di Pasolini (la sua ‘scoperta di Marx’) sia tutta qui: capire la società del capitale nella sua ultima figura. Insomma Pasolini stava facendo a suo modo, con i suoi mezzi e la sua cultura, attraverso le sue “intuizioni”, un’analisi della società del capitale da marxista, direi, globale ed integrale, in mezzo a marxisti progressisti e storicisti: ritrova l’analisi della totalità del capitale, della sua produzione non solo di merci e di plusvalore, ma di rapporti sociali (di “umanità”, come diceva), totalmente alienati nella “mercificazione” ... Riconosceva, in mezzo a un marxismo endemico, o, meglio, introuvable, l’analisi marxiana, incentrandola in tre grandi questioni: la “mutazione antropologica” prodotta dal capitale nella sua ultima figura di “modernità”; la totalizzazione e socializzazione del modo di produzione capitalistico nel “produttivismo-consumismo”; il “genocidio delle culture” [...] nella produzione culturale capitalistica” 3.

Certo, si potrebbero segnalare le eccezioni mosse da alcuni al marxismo pasoliniano, nonché, ugualmente frequenti, le obiezioni di banalità e conformismo (quà e là oggettivamente in parte condivisibili) dei giudizi e invettive contenuti negli Scritti corsari 4; ricordando magari, tra gli altri, l’intervento di Leonardo Sciascia, sospeso a metà tra riconoscimento dei difetti conformistici 18

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della polemica pasoliniana e una sua difesa e rivalutazione, in una replica ad un corsivo di André Frossard comparso su “Le Figaro” del 4 novembre 1975 5, a sigillare lo status quo della persistenza di una élite intellettuale schierata comunque a tutela della posizione autoriale di Pasolini, in opposizione ai linciaggi successivi alla morte del regista da parte, in prima istanza, della stampa cattolica 6. L’incunearsi della trattatistica polemica di pasolini nella realtà quotidiana e politica di quel biennio (1973-’75), esercitata sulle colonne del “Corriere della Sera”, si scandiva sui temi sopra elencati; nodali per Pasolini i passaggi relativi agli incubi, anche personali ed intimi, della “mutazione antropologica” e del “genocidio”. Al secondo dei due punti fissati nell’articolo del “Corriere” del 10 giugno 1974 (“Gli italiani non sono più quelli”), Pasolini afferma: che l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione, del tipo che ho accennato qui sopra (modernizzante, falsamente tollerante, americaneggiante ecc.)” 7.

L’inferno a portata di mano, la “fossa di serpenti” in cui l’Italia si era mutata, la “borghesizzazione” e l’”omologazione” erano moventi di un ripiegamento introspettivo sofferto per Pasolini, che portava il suo “vissuto” (come amava definirlo lui) a combaciare con una realtà che aborriva. La ripulsa era il carattere prevalente nel suo rapporto con i nuovi giovani; era un nuovo ordine che per Pasolini toccava e interessava anche una rinnovata poetica (e una realtà) del corpo, elemento dalla presenza discreta ma costante in tutta la produzione letteraria di quel periodo - a partire dalle premesse seminali delle “prove” teatrali di Orgia e Porcile 8. Nell’Abiura della “Trilogia della Vita” la verifica incontrovertibile di questa nuova realtà: pubblicazione che diventa così pietra angolare di una preziosa fibrillazione polemica, per Pasolini sempre più impellente: “[...] nella prima fase della crisi culturale e antropologica cominciata verso la fine degli anni Sessanta [...] l’ultimo baluardo della realtà parevano essere gli “innocenti” corpi con l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali [...]. Ora tutto si è rovesciato: la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberalizzazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza. Secondo: anche la realtà dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: tale violenza sui corpi è diventato il dato più macro-

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scopico della nuova epoca umana. Terzo: le vite sessuali private (come la mia) hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che della degradazione corporea” 9.

Un glissement violento ma quasi impercettibile nella realtà contingente: l’ipostasi di un’idea polemica che per Pasolini non rappresentava semplicemente una tesi sospesa e volatile, ma un sempre più stratificato sistema di rituali e di potere: ma il Potere con la “P” maiuscola e la cultura con l’interrogativo assoluto, come comparivano ancora nell’articolo del “Corriere” 24-6-1974 (“Il potere senza volto”), impuntato per di più su un quesito secco e di foggia rivoluzionaria a suo modo: “Che cos’è la cultura di una nazione?” 10. Al Pasolini marxista - quantomeno nell’applicazione di quel metodo alla passionale e ideologica collezione di analisi disseminate e ricollocate negli Scritti non era infine occulta l’intima relazione tra elementi singoli ma convergenti nella cornice (anche semantica) dell’”inferno neocapitalista”: intanto la “spettralità” delle merci del rivoluzionato universo dei consumi (leggi “seconda rivoluzione industriale”), dentro a cui sta la corruzione, che è attigua alla brutalità e poi alla violenza e alla nuova (ma già prima menzionata) ecatombe modernista del corpo e dei corpi del consumo/consumismo, dalle quali si giunge alla finale coscienza della rimozione del sacro e della sacralità così cari a Pasolini poeta e cineasta e uomo, per lui “unica fonte di realtà” 11, come ricorda Conti Calabrese, che sottolinea anche metodologicamente la cogente aderenza tra gli apparati dottrinale e sacrale di questo Pasolini marxiano: “Durante la prima rivoluzione industriale i rapporti sociali, o meglio l’umanità espressa da tali rapporti si trovava (come Marx sostiene) sottoposta al valore di scambio, ma limitatamemte al solo momento della produzione. L’alienazione risultava circoscritta alla sola attività lavorativa che, cristallizzata nella formamerce, appariva come entità sovrasensibile ed estranea ai lavoratori. Convinzione di Pasolini è che durante quel periodo storico i rapporti sociali fossero ancora modificabili, proprio perché la cultura e la vita delle classi subalterne non erano ancora intaccate dalla forma-valore [...] È il periodo denominato Età del Pane, locuzione utilizzata per ricordare un’epoca in cui beni ‘necessari’ radicavano nella vita un chiaro senso di primarietà ed essenzialità: essi cioè la riconducevano sempre a essere un avvenimento prioritario e carico di meraviglia, fenomeno misterioso dove il sacro poteva ancora manifestarsi” 12.

La condensata significazione sociale e semantica di quella meraviglia espressione adattabilissima a tutta l’opera pasoliniana, tra poesia e cinema - lega 20

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la resistenza (difettosa) e la sparizione (incalzante e vincente) della sacralità nella modernità borghesizzata-imbarbarita pasoliniana al discorso dei Calderon e Petrolio da un lato (per quel che attiene a una sorta di sua disperata persistenza) e alle premesse di Salò (per quel che riguarda l’assenza e la morte di un sacro ormai annichilito dentro ad una specie di Mistero medievale, come lo definirà Pasolini13) dall’altro. Quel sacro in forma di tentativo nel Calderon (1973) 14, tentativo di appuramento della sua esistenza, qua disilluso sardonicamente al principio; il triplice sogno del ripensamento pasoliniano sul dramma di matrice seicentesca (da La vida es sueno, di P. Calderon de la Barca, 1635) costituisce lo schema su cui si innerva una lettura in cui è “il tema, soprattutto, ad essere diverso. Il Calderon di Pasolini è infatti una cupa, scabra parabola sull’impossibilità di evadere dall’universo concentrazionario della propria condizione sociale. Tre sogni successivi, tre ambienti: aristocratico, proletario, medioborghese” 15. Dove, più precisamente, l’inabissamento più palese e provato (quello anche più teatrale, per l’appunto) del più piccolo spunto o barlume sacrale? Ancora una volta tra gli estremi del Potere rituale e dei rituali del/sul corpo; Manuel e poi Rosaura ne fanno il controcanto:

“Manuel [...] Quello che conta è che la Borghesia vuole eliminare | il suo recente passato e la Chiesa | sbirra e puttana: da sola essa non era in grado di farlo. | Aveva bisogno di agnelli rivoluzionari; | li ha trovati tra i suoi figli, naturalmente. | Li ha fatti educare dai vecchi Dei dimenticati, | puzzolenti di inutile stallatico, | che li chiamassero a sé, | e li rimandassero poi nel mondo a distruggere tutto” 16.

Come un nesso che dialetticamente ispira e prefigura il discorso bipolare di Salò tra Potere e corruzione-degradazione dei corpi è il successivo intervento di Rosaura: “Anch’io sono lì. uno scheletro bianco quasi | senza più capelli, nella cuccia; ho le gambe | scoperte, sottili come quelle di un feto, solo | sono grossi i nodi degli ossi delle ginocchia; | tengo la guancia senza carne contro | la tela del capezzale dove | già mi hanno preceduto tanti che sono morti” 17.

L’infuocato assunto di Salò è l’adattamento consecutivo e la silloge, così, di un unico discorso che muove da eterogenei flussi: la critica socio-politica (Scritti 21

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corsari, Lettere luterane); la poesia (Calderon); la letteratura (Petrolio) 18. Il raccolto filosofico, socio-politico e altresì artistico di appena un biennio (certo particolare e intensamente “corsaro”, rivoluzionario per Pasolini e per la società che illustrava) 19 risiede allora eminentemente ed estremisticamente in Salò e, nondimeno, nel suo prospettarsi a rebours, nel suo relativizzarsi all’immediato precedente cinematografico della Trilogia della Vita, abiurata sintomaticamente riga per riga proprio nella congiuntura di quel biennio vicinissimo a Salò, che Pasolini nell’Abiura trasformava in interrogativo finale 20. Sicuramente, la sottolineatura di trilogie tematiche già esplorate e assodate quali Potere, corporalità e Morte: alla terza delle questioni in ballo è indirizzato il lungo e raffinato saggio di Lino Micciché comparso nel 1978 su “CinemaSessanta”, composita analisi (catalogante al suo interno anche il Mito, altra giuntura fondamentale dell’opera pasoliniana) sulla lunga presenza della Todestriebe nell’universo poetico e anche cinematografico del poeta; la sintesi eletta della considerazione di Salò come “capitolo conclusivo di una Tetralogia della Morte” non può che essere per noi stimolante: “Ecco dunque, per sinteticamente concludere, se non il senso almeno il senso prevalente del Salò-Sade pasoliniano. [...] la storica contaminazione di sesso e peccato, materia e decomposizione, Eros e Thanatos, e sfocia nell’assoluta identificazione di “libido” e “mortido” in un presente dove il sesso è “obbligo e bruttezza” e che, pur iniziato in qualche astorica Salò, è di “questi anni” e anzi ne esprime il “vissuto” 21.

Il “Salò-Sade” inattesa postilla terminale, che diventa meccanismo intruso scardinante la risaputa e chiusa autosufficienza di un progetto (“Trilogia della Vita”) per sottolineare la traiettoria dell’Abiura e diventarla esso stesso con il suo semplice aggiungervisi (e magari sovrapporvisi). E se si volesse restare al saggio di Micciché - nell’ottica di una chiusura del discorso che metta le basi per il seguito - , se ne ripescherebbe l’interrogativo metodologico (“Ma allora, così definito in tutto il suo riduttivismo il rapporto Sade-Pasolini, qual è il senso del pasoliniano Salò-Sade?”) 22 volgendolo nella direzione del finale valore di Salò in quanto oggetto estetico. Lo sfuggente statuto estetico di Salò o le 120 giornate di Sodoma è anche la sommatoria di una pubblicistica plurale e criticamente variegata, istantaneamente sviluppatasi e germogliata nel tempo (con fasi alterne, ma sempre ricorrente) sopra all’”oggetto-Salò”, coadiuvata certo dalla coincidente similitudine dell’assassinio di Pasolini con la scabrosità dell’evento filmico di quello stesso 1975 23. La finalità di questa pubblicazione parte da due elementi definiti e preesistenti: 22

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1) La fortissima e fondamentale importanza, all’interno del cinema pasoliniano, della pittura: importanza primigenia, in quanto alla pittura Pasolini dedica già gli anni dell’infanzia e della giovinezza scolastica, iniziando una piccola carriera ancillare, da pittore e disegnatore, che dall’inizio degli anni Quaranta lo accompagnerà fino alla morte; 2) La considerazione di questo aspetto dentro alla peculiarità di Salò e la presa d’atto della gracile consistenza di una pubblicistica critica concentrata sul coté più strettamente iconografico del film 24, che ha così generato nel corso degli anni lo status complessivo di una sparuta presenza critica su Salò in tale direzione. In sintesi, Salò è il crogiuolo di una variegata e stratificata teoria di suggestioni pittoriche, visive, psicanalitiche, filosofiche e altro; oltre a ciò l’esperienza filmica e visiva del film è anche il fronteggiare la sua oscurità progettuale e semiologica, all’interno della quale il ‘pittorico’ è parte inestricabile e delle cui fonti si propone quantomeno un censimento, indipendentemente da un approfondimento strettamente specialistico. Oscurità voluta e casuale a un tempo per Pasolini che, tra intenzionalità e snobismo intellettuale, anticipava e auspicava che il film non sarebbe stato capito e neanche avrebbe dovuto esserlo 25. Opera, questo Salò o le 120 giornate di Sodoma, frutto anche di un tragitto sofferto e confuso cominciato già nel 1972 nelle mani del discepolo Sergio Citti (iniziale ipotesi di regista) e proseguito con revisioni, riscritture e vuoti di finanziamento (in cui rientra anche il fallimento della casa di produzione PEA) 26. Quale il confronto, poi, dell’autore con questa ‘lettera postuma’ consegnata nelle mani dei posteri con la trepidazione connessa alla percezione della sua importanza relativa (per l’intellettuale-Pasolini e in relazione alla sua, in fondo breve e quasi minore rispetto al resto, opera cinematografica) e assoluta (il sigillo di opera “maledetta”, incatenata, non visibile e poco analizzabile, incunabolo di una maniera scellerata di trattare l’”esperienza del limite” nel testo cinematografico)? La reale qualità del sentimento di Pasolini nei confronti del suo ultimo “testo” avrebbe potuto magari condensarsi - se gli fosse stata concessa vita ancora dopo l’uscita di Salò - nella stessa frase sfuggita in privato a Flaubert parlando del suo Salambò (titolo dalla curiosa somiglianza a Salò): una “truculente facetie”. Non così inopportuno, in fondo, l’accostamento della grande fantasmagoria flaubertiana, opera vulcanica e visuale estremisticamente come, a suo modo, Salò e, inoltre, oggetto di un recupero poetico-stilistico novecentesco affine, per epoca e protagonisti, alle presenze artistiche stratificate nel film: “Questo secondo modo di leggere Salambò ha trovato un primo varco, una prima apertura grazie agli uomini della generazione simbolista e si è andato poi conso-

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lidando fino agli anni della prima guerra, quando il simbolismo da fenomeno francese è diventato europeo e ha esaltato l’illustrazione, la decorazione, il giuoco esasperato delle luci e dei suoni. Un itinerario critico che verrà ripreso più tardi, quando al simbolismo fu sostituito il surrealismo e la letteratura apparve in tutta la sua libertà, come un delirio dell’immaginazione” 27.

Salò allora sperimentale opera a-temporale, ma sotto il segno inverso di una precisissima congiuntura storica, che antologizza parti di teoria dell’arte novecentesca e non, quanto teorie psicanalitiche che vengono fuori dai cascami degli incubi posteriori alla Prima guerra mondiale? Si, e qui la sua utilità: al di là dei dubbi su di essa, sulla linea poetica del Pasolini di Poesie in forma di rosa: “Bisogna deludere. Saltare sulle braci | come martiri arrostiti e ridicoli: la via | della Verità passa anche attraverso i più orrendi | luoghi dell’estetismo, dell’isteria | del rifacimento folle erudito”.

Note G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro. Milano, Jaca Book, 1994, p. 15. È da segnalare che l’autore sottolinea di seguito anche la più volte richiamata somiglianza tra la critica pasoliniana e la “Scuola di Francoforte” che consisteva in una “radicale critica alla modernità, nell’ambito di un marxismo critico, individuando in una ragione ridotta a semplice strumento di calcolo una delle origini del processo disgregativo e disumanizzante di una società dominata dal sistema di produzione capitalistica” . 1

Cfr. Il mio ‘Accattone’ in Tv dopo il genocidio. “Corriere della Sera”, 8 ottobre 1975, ora in: P. P. Pasolini (da qui in avanti PPP), Lettere luterane. Torino, Einaudi, 1991, p. 155. 2

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G. Scalia, La mania della verità. Bologna, Cappelli, 1978, pp. 39-40.

In merito a questo, si veda la Prefazione di Alfonso Berardinelli agli Scritti corsari: “Anche gli interlocutori meno rozzi gli rimproveravano, nello stesso tempo e come sempre, l’ostinazione passionale e lo schematismo ideologico. Ciò che Pasolini diceva era insomma in larga misura risaputo. La sociologia e la teoria politica avevano già parlato”. Ma Berardinelli ribalta poi il giudizio su Pasolini rammentando l’intelligenza e “l’inventività inesauribile del suo stile saggistico” e la “astuzia socratica della sua arte retorica e dialettica, della sua ‘psicagogia’, che sa far emergere con tanta chiarezza i pregiudizi intellettuali (di ceto, di casta), e spesso l’ottusità un pò meschina e persecutoria dei suoi interlocutori. Che sembrano avere sempre torto. [...] Mentre Pasolini stava cercando di rivelare qualcosa di nuovo, loro non facevano che difendere nozioni acquisite”. PPP, Scritti corsari. Milano, Garzanti, 2007, pp. VII-VIII.

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Cfr. L. Sciascia, Dio dietro Sade. “Rinascita”, n. 49, 12 dicembre 1975, p. 31. L’articolo di Frossard si imperniava su un atteggiamento di ironico sfatamento della “sacra” reputazione di Pasolini-marxista integerrimo, coltivata e riconosciuta anche Oltralpe, guardandola soprattutto in relazione alla riduzione cinematografica delle “Centoventi giornate di Sodoma”, e chiosando sull’impossibilità di “portare il non conformismo più avanti di così senza cadere nell’insignificanza, a forza d’esagerazione” (trad. it. riportata nell’articolo di Sciascia); a ciò Sciascia replicava: “C’è del conformismo nel proclamarsi marxista, e specialmente in Italia; c’è del conformismo e non c’è alcuna originalità nel continuare ad essere cattolico in un paese cattolico, c’è del conformismo e molta banalità nel manipolare per il cinema le care vecchie manie del caro vecchio marchese de Sade: ma questi tre conformismi messi assieme, e vissuti per come Pasolini li ha vissuti, hanno prodotto un tragico, disperato anticonformismo; [...] occorrerà una ferma e seria analisi delle due conformistiche componenti da cui generava l’anticonformismo di Pasolini; e specialmente da quella marxista. E in questo senso si potrebbe anche azzardare una specie d’ipotesi di lavoro; che certe verità dette da Pasolini [...] fossero marxiste in quanto verità, per la capacità e mobilità del marxismo a far propria ogni verità [...] e non lo fossero per estrazione, per adesione, per meditazione”.

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6 Per una rassegna più esaustiva dell’articolistica successiva alla morte di Pasolini con riferimento particolare a quella di estrazione cattolica o politicamente avversa allo scrittore, si veda ad esempio la scheda di R. Escobar (Il linciaggio) in: Id., Pier Paolo Pasolini. Salò o le 120 giornate di Sodoma. “Cineforum”, XVI, n. 4, aprile 1976, pp. 183-184; in particolare su Salò si rimanda alla ricca rassegna contenuta in: Da Accattone a Salò. A cura di V. Boarini. Bologna, Compositori, 1982.

PPP, Scritti corsari, cit., p. 40 (con il tit.: 10 giugno 1974. Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia). 7

8 Nella “Autointervista” sul “Corriere della Sera” del 25 marzo 1975, Pasolini affermava però: “non sono contento né di Porcile né di Orgia: lo straniamento e il distacco non fanno per me, come del resto la crudeltà”.

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PPP, Trilogia della Vita. Bologna, Cappelli, 1975, pp. 7-8 (corsivo mio).

L’articolo muoveva altresì da una piccola querelle di Pasolini con un articolo di Maurizio Ferrara apparso in “L’Unità” del 12-6-1974: “Che cos’è la cultura di una nazione? Correntemente si crede, anche da parte di persone colte, che essa sia la cultura degli scienziati, dei politici, dei professori [...] invece non è così. E non è neanche la cultura della classe dominante [...] Non è infine neanche la cultura della classe dominata, cioè la cultura popolare degli operai e dei contadini. La cultura di una nazione è l’insieme di tutte queste culture di classe: è la media di esse. E sarebbe dunque astratta se non fosse riconoscibile - o, per dire meglio visibile - nel vissuto e nell’esistenziale [...] Oggi - quasi di colpo, in una specie di Avvento - distinzione e unificazione storica hanno ceduto il posto a una omologazione che realizza quasi miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere. A cosa è dovuta tale omologazione? Evidentemente a un nuovo Potere. 10

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Scrivo Potere con la P maiuscola solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è”. PPP, Scritti corsari, cit., p. 45 (con il tit.: 24 giugno 1974. Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo). Ritroviamo nella lunga intervista di Jean Duflot con Pasolini (§ Eloge de la barbarie. Nostalgie du sacré): “Jean Duflot.- On aurait tort de vous reprocher d’etre un profanateur avec Theoreme, dans la mesure ou cette profanation s’exerce contre le profane. Pasolini. - Je defends le sacré parce que c’est la parte de l’homme qui résiste le moins a la profanation du pouvoir, qui est la plus menacée par les institutions de l’Eglise”. J. Duflot, Entretiens avec Pier Paolo Pasolini. Paris, Belfond, 1981, p. 87. 11

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G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro, cit., p. 19 (corsivo mio).

Per una panoramica sulle dichiarazioni di Pasolini relative a Salò (che interesserebbe una bibliografia fin troppo nutrita e qui non segnalabile) si veda in particolare l’”Intervista rilasciata a Gideon Bachmann e Donata Gallo” dal titolo Conversazione con Pier Paolo Pasolini pubblicata su: “Filmcritica”, XXVI, n. 256, agosto 1975, ora in: Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, II, pp. 3023-3031, nel quale si può recuperare una precisa definizione di Pasolini in merito al già analizzato Potere maiuscolo: “È un potere che manipola i corpi in modo orribile e che non ha nulla da invidiare alla manipolazione fatta da Hitler [...] istituendo dei nuovi valori alienanti e falsi, che sono i valori del consumo; avviene quello che Marx definisce il genocidio delle culture viventi, reali, precedenti” (p. 3027); ancora sul film si possono ricordare l’”Autointervista” di Pasolini intitolata Il sesso come metafora del potere in “Corriere della Sera”, 25-3-1975 (sempre in Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, cit., pp. 2063-2067); e ancora: PPP, De Sade e l’universo dei consumi, in: Il cinema in forma di poesia. A cura di L. De Giusti. Pordenone, Cinemazero, 1979, pp. 63-66. 13

Calderon seguirà in un certo modo il destino di Salò: la sua prima messa in scena si realizza soltanto nel maggio-giugno 1978, ovvero alcuni mesi dopo la conclusione del lungo processo che incatenò la proiezione di Salò subito dopo l’anteprima parigina del 22 novembre 1975. La prima di Calderon, che andò in scena in due parti, ebbe la regia di Luca Ronconi e le scene di Gae Aulenti. Tra gli interpreti: Gabriella Zamparini, Edmonda Aldini, Anita Laurenzi e Carla Bizzarri. 14

15 Cfr. Prefazione di G. Davico Bonino a: PPP, Teatro. Calderon, Affabulazione, Pilade, Porcile, Orgia, Bestia da stile. Milano, Garzanti, 1988, p. 11.

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Ibidem, p. 133.

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Ibidem, p. 162.

18 Come anticipato all’inizio, si deve includere anche l’esperienza poetica in forma dialettale de La nuova gioventù (1974), relativamente in particolare alla Seconda forma de “La meglio

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gioventù”: come giustamente sottolinea G. Santato “Salò è l’equivalente cinematografico della Nuova gioventù [...]”; l’autore rimanda inoltre all’inclusione nel film del canto popolare Il ponte di Perati, “da cui era tratta la citazione che apriva il Volume secondo della Meglio gioventù, anche nella ristampa del 1975”. Cfr. G. Santato, Pier Paolo Pasolini. L’opera. Vicenza, Neri Pozza, 1980, p. 263. Il contatto ribadito tra poetica del corpo e poesia nel Pasolini di quel periodo è presente già nell’”Introduzione” de La nuova gioventù: “Se duciu i zòvins | comunis’c a si tajassin | i ciaviej, ghi colarès la mascara ai zòvins fassis’c. [...] ‘na frangeta | o ‘na baseta, un rissul tajàt [...] fassis’c ta l’anima e tal cuàrp” (“Se tutti i giovani comunisti si tagliassero i capelli, cadrebbe la maschera ai giovani fascisti [...] una frangia o una basetta, un ricciolo tagliato [...] fascisti nell’anima e nel corpo”). PPP, La nuova gioventù, Torino, Einaudi, 1975, p. 161 (corsivi nel testo). Si potrebbero inevitabilmente porre riferimenti anche nel passato dell’opera pasoliniana degli anni Cinquanta, localizzando le suggestioni di un’ossessione del corpo e della corporalità incredibilmente disseminata e sempre in presenza; si veda la forte, intima contiguità di corporalità e ministero della Chiesa in L’usignolo della Chiesa cattolica: “IV. Martire. Vergine, anche il Tuo occhio impallidisce col mon | do. Che cosa guardi in noi? Altro Martire. Ecco il petto, il grembo, le spalle: che cosa | guardi in noi? | Vergine. Figlio, figlio stringiti al mio cuore. Quei due spettri | sono scuri di carne. | Martire. Sto fermo nella mia tomba, nudo, rosso di ferite. | Altro Martire. Sotto il cielo vivo stanno le mie carni ferite!” E ancora: “La Chiesa ferita si è aperta le piaghe con le Sue mani, e un | lago di sangue le è caduto ai piedi. Ed essa prima di morire ha | fatto di quel lago uno specchio, e un lampo ha illuminato la Sua | immagine dentro il sangue. [...] Ah bestemmie ed eresie, unica dolce memoria di Cristo... [...] Cristiani, e voi detergete col sangue la polvere dai nomi. | Un usignolo canta, vuole morire: prendete il suo sangue...”. Cfr. PPP, L’usignolo della Chiesa cattolica. Torino, Einaudi, 1976, pp. 26, 30. 19

“[...] Sto dimenticando com’erano prima le cose. Le amate facce di ieri cominciano a ingiallire. Mi è davanti - pian piano senza più alternative - il presente. Riadatto il mio impegno ad una maggiore leggibilità (“Salò”?)”. PPP, Trilogia della Vita, cit., p. 11.

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L. Micciché, Pasolini, la Morte e la Storia. “CinemaSessanta”, XIX, n. 121, maggio-giugno 1978, pp. 8-17 (15). Il saggio in questione rielabora precedenti interventi di Micciché sull’argomento già comparsi su “CinemaSessanta” (n. 105) e in: Id., Il cinema italiano degli anni 60. Venezia, Marsilio, 1976, pp. 151-171. 21

22 Nell’appuntarsi sul “Salò-Sade” come problema estetico Micciché dice: “Il testo pasoliniano ha, infatti, una sorta di fredda e distaccata continuità descrittiva, dove si perdono quasi interamente i valori dell’iterazione sadiana, trasformata in pura ridondanza [...] Nel cinema, l’inevitabile realismo fotografico rende la “inimmaginabilità” del gesto non già un “impossibile realistico”, ambiguo se non altro perché, anche nella fiction cinematografica, vi è il dato realistico del “profilmico””. L. Micciché, Pasolini e la Morte, cit., pp. 14-15.

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Proseguendo sulla linea delle aderenze tra poesia e prefigurazione del suo destino tragico, si

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può recuperare l’epitaffio inequivocabile che Pasolini inserisce in Per una “Nota dell’editore”, in chiusura alla Divina Mimesis: ”Ma moltissimi appunti, specie quelli più brevi, [...] sono stati reperiti fuori dal corpo dattiloscritto dell’opera [...] Un blocchetto di note è stato addirittura trovato nella borsa interna dello sportello della sua macchina; e infine, dettaglio macabro ma anche - lo si consenta - commovente, un biglietto a quadretti [...] riempito da una decina di righe molto incerte - è stato trovato nella tasca della giacca del suo cadavere (egli è morto, ucciso a colpi di bastone, a Palermo, l’anno scorso)”. PPP, La Divina Mimesis. Torino, Einaudi, 1993, p. 61. Segnaliamo due estremi in senso cronologico: una breve e approfondita analisi si può ritrovare nel recente S. Murri, Pier Paolo Pasolini. Salò o le 120 giornate di Sodoma. Torino, Lindau, 2007, pp. 153-161 (§ Il quadro iconologico. Volti, figure e ambiente. A cura di F. De Paolis); uno dei primi accenni si può invece recuperare in un articolo di Mario Verdone immediatamente successivo all’uscita del film che si puntualizzava, in una breve parentesi, sulla presenza dell’Avanguardia in Salò: “Nella ‘Villa Triste’ i quadri futuristi sono una citazione temporale [...] I quadri futuristi sono efficaci? Si, e questo va a vantaggio della messinscena. Sono efficaci perché in primo luogo servono a datare il film. Sono efficaci anche perché sono falsi, e quindi il peso della loro presenza arriva attutito. Non si tratta dei veri ciclisti di Boccioni o delle vere strisce colorate di Balla. Sono imitazioni - almeno così risultano - che non disturbano, proprio perché sono false. Fossero stati veri avrebbero scomposto i piani del regista. Ed anche in questo calcolo trovo un merito di più della realizzazione”. Cfr. M. Verdone, Riesame di “Salò-Sade”. “La Fiera letteraria”, 1 agosto 1976, p. 6. 24

Si vedano alcune dichiarazioni di Pasolini in un’intervista rilasciata a Gideon Bachmann e Donata Gallo il 2 maggio 1975, durante le riprese di Salò: “Facendo un film di questo genere tu ti muovi su un terreno pericoloso, nel senso non soltanto di non essere capito ma anche di essere mal capito: non ci pensi? No, perché il mio è un mistero; è quello che si chiama mistery, il mistero medioevale: una sacra rappresentazione, e quindi è molto enigmatica. Non deve essere capita. Certo che rischio di essere capito male o non capito, ma questo è intrinseco al film stesso”. De Sade e l’universo dei consumi, in: Pier Paolo Pasolini. Il cinema in forma di poesia, cit., ora in: Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, cit., II, pp. 3019-3022 (3020). 25

In merito all’articolata genesi della sceneggiatura a più mani di Salò, si rimanda al dettagliato articolo di A. Sebastiani, Per le sceneggiature di Salò o le 120 giornate di Sodoma, contributi preliminari. “Palazzo Sanvitale”, n. 5, febbraio 2001, pp. 111-116; l’articolo muove da un’interessante comparazione dei testimoni conservati presso la Cineteca di Bologna e presso il Fondo Pier Paolo Pasolini nell’Archivio contemporaneo Bonsanti del “Gabinetto scientifico letterario G. P. Viesseux” di Firenze. 26

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Cfr. Introduzione di C. Bo a: G. Flaubert, Salambò. Milano, Rizzoli, 1989, p. III.

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Nota dell’autore

L’approfondimento del presente saggio, che, come anticipato nell’introduzione, si focalizza su una disamina dei rapporti tra inquadrature e sequenze del film e loro riferimenti pittorici, propone una scansione organizzata su di una partitura sinottica che viene mutuata da quella contenuta nel recente saggio di Serafino Murri su Salò 1, per la completezza e l’esaustività del dettaglio informativo. Per quel che riguarda la titolazione delle parti della pubblicazione è opportuno un breve chiarimento: le denominazioni “Progetto”, “Mistero” e “Mimesis” hanno provenienza interamente pasoliniana e specificamente sono derivate dall’ambito letterario e poetico dell’opera di Pasolini. I primi due titoli rimandano a Petrolio (1972-1992) e precisamente richiamano le considerazioni progettuali di Pasolini, relative al processo di elaborazione e composizione del poema: “Come spiega Pasolini nell’“Appunto 43. Lampi sul ‘Linkskommunismus’”, in una prima stesura il testo era composto da una serie di appunti, seguiti ognuno dalla dicitura “Dal Mistero”, oppure “Dal Progetto”. Alle pagine rifinite Pasolini aveva infatti dato originariamente il nome di “Misteri”, e alle pagine in abbozzo quello di “Progetti”. I testi appartenenti all’ordine del “Mistero”, cioè le pagine perfettamente compiute (al momento di quella prima stesura ancora molto frammentaria) erano pochissime; erano di conseguenza preponderanti gli appunti veri e propri, quelli cioè appartenenti all’ordine del “Progetto”. Tutta l’opera era ad ogni modo concepita come una vivente coesistenza di quel “Mistero” che doveva essere, e del suo “Progetto”” 2.

L’assegnazione di queste denominazioni alle prime due parti del saggio è volta ad una medesima caratterizzazione dei momenti della vita e dell’opera di Pasolini, quali sono richiamati all’interno dei singoli capitoli. Per quel che riguarda invece la terza parte, la “Mimesis” (ovvero l’emulazione della pittura operata da Pasolini attraverso il cinema, come viene intesa nel presente studio), anche troppo immediato è il riferimento al lavoro poetico ‘rivisitatore’ della Divina Mimesis (1975), anche questo lavoro finale di Pasolini che, al pari di Petrolio, confluisce idealmente e progettualmente nel discorso cinematografico di Salò o le 120 giornate di Sodoma, sorta di loro complemento e integrazione, nella cornice dell’ultimo periodo dell’opera pasoliniana precedente alla morte dello scrittore. 29

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Note Cfr. S. Murri, Pier Paolo Pasolini. Salò o le 120 giornate di Sodoma. Torino, Lindau, 2007, pp. 65-68. 1

2 C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura. Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 160.

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SALO’ O LE 120 GIORNAtE dI SOdOMA (1975)*

Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini. Collaborazione alla sceneggiatura: Sergio Citti, Pupi Avati. Direttore della fotografia: Tonino Delli Colli. Operatori alla macchina: Carlo Tafani, Emilio Bestetti. Aiuto operatore: Sandro Battaglia. Assistente operatore: Giancarlo Granatelli. Scenografia: Dante Ferretti. Costumista: Danilo Donati. Aiuto costumista: Vanni Castellani. Musica (consulenza): Ennio Morricone. Esecuzione al pianoforte: Arnaldo Graziosi (Edizioni musicali Eureka). Musica: J. S. Bach, Pastorale in fa maggiore BWV 590 (eseguita alla fisarmonica); F. Chopin, Preludio op. 28 n. 4, Preludio op. 28 n. 17, Valzer op. 70 n. 2, Valzer op. 34 n. 2; Carl Orff, Carmina Burana; Salvatori-Puccini, Inno a Roma; Son tanto triste, di Ansaldo-Bracchi; Tu amore, di Ansaldo-Bracchi; Tu sei la musica, di Ansaldo-Bracchi; Fiori d’arancio, di D’Anzi-Galdieri; Il maestro improvvisa, di D’Anzi-Bracchi; Dormi bambina, di Pintaldi-Bonfanti; Valzer di mezzanotte, di Amodio-Cittadino; Quel motivetto che mi piace tanto, di Casolaro-Galdieri; Settembre ti dirà, di AlaMoretti; Torna piccina mia, di Cesare Bixio-Andrea Bixio; La canzone del platano, di Barzizza-Morbelli; Stelutis alpinis, di Enrico Zardini; canto militare Sul ponte di Perati. Montaggio: Nino Baragli, Tatiana Casini Morigi. Assistente al montaggio: Ugo De Rossi. Aiuto regia: Umberto Angelucci. Assistente alla regia: Fiorella Infascelli. Segretaria di edizione: Beatrice Banfi. Interpreti e personaggi: Signori: Paolo Bonacelli (il Duca: Blangis), Giorgio Cataldi (Il Vescovo, doppiato da Giorgio Caproni), Uberto Paolo Quintavalle (Sua Eccellenza: Curval, doppiato da Aurelio Roncaglia), Aldo Valletti (il Presidente: Durcet, doppiato da Marco Bellocchio). Narratrici: Caterina Boratto (signora Castelli), Elsa de’ Giorgi (signora Maggi), Hélène Surgère (signora Vaccari, doppiata da Laura Betti), Sonia Saviange (la pianista). Vittime (maschi): Sergio Fascetti, Bruno Musso, Antonio Orlando, Claudio Cicchetti, Franco Merli, Umberto Chessari, Lamberto Book, Gaspare Di Jenno. Vittime (femmine): Giuliana Melis, Faridah Malik, Graziella Aniceto, Renata Moar, Dorit Henke, Antinisca Nemour, Benedetta Gaetani, Olga Andreis. Figlie: Tatiana Mogilansky, Susanna Radaelli, Giuliana Orlandi, Liana Acquaviva. 31

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Militi: Rinaldo Missaglia, Giuseppe Patruno, Guido Galletti, Efisio Etzi. Collaborazionisti: Claudio Troccoli, Fabrizio Menichini, Maurizio Valaguzza, Ezio Manni. Ruffiane e serve: Paola Pieracci, Carla Terlizzi, Anna Maria Dossena, Anna Recchimuzzi, Ines Pellegrini. Produzione: PEA (Roma)/Les Productions Artistes Associés (Paris). Produttore: Alberto Grimaldi. Organizzatore generale: Alberto De Stefanis. Direttore di produzione: Antonio Girasante. Ispettori di produzione: Alessandro Mattei, Renzo David, Angelo Zemella. Segretario di produzione: Vittorio Cudia. Pellicola: Kodak Eastmancolor. Formato: 35 mm., colore, 1:1.85. Macchine da presa: Arriflex. Durata: 111 min. Riprese: 3 marzo-9 maggio 1975. Teatri di posa: Cinecittà, teatro n. 15. Esterni: Lombardia: Salò; Mantova. Emilia: Gardelletta, frazione di Vado. Gli interni della villa dei “Signori” girati a Mantova (Villimpenta) e Villa Arrigoni (Ponte Merlano). La facciata della villa dei “Signori”: Bologna, Villa Aldini. * La scheda del film è ripresa, con leggere modifiche, da quella contenuta in: Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, II, pp. 3351-3352.

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Parte prima - Il Progetto

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Capitolo Primo PIER PAOLO PASOLINI. NAScItA E VItA

Friuli materno e Bologna paterna “Parma, un viale e il riso di mia madre” 1. A sancire la continuità intima-sentimentale tra radici e arte in Pasolini sono l’implacata reiterazione di un movimento all’indietro e la predominanza della localizzazione fisica e poi della identificabilità nominale del suo impulso poetico: nella multiforme costellazione dei ‘nomi’ Pasolini declina e legittima (intenzionalmente e no) grande parte della sua opera, e quella poetica in particolare. Seppure la biografia pasoliniana dei primissimi anni di vita e dell’adolescenza sia toccata da una grande mobilità geografica 2 sarà uno soltanto il nome eletto della memoria e del più intimo affetto: Casarsa, paese natale della madre Susanna. Casarsa, locus fondamentale per il Pasolini uomo e per la sua opera intellettuale, è in fondo l’origine di tutto: nel 1921 il padre Carlo Alberto vi presta servizio come ufficiale e la madre, Susanna Colussi, vi lavora come maestra elementare. Nel loro primo incontro, sotto il segno paterno del “piglio militaresco, il monocolo incastrato nell’orbita sinistra e l’aplomb degli ufficiali di carriera, sublimato nei futuri film di Erich von Stroheim” si racchiude il destino di due caratteri che collideranno per un’intera esistenza matrimoniale, ovvero la forte passione amorosa del padre e la distaccata spigolosità della madre, che determinerà il rapporto molto difficile tra i due e il cui movente principale sta nella difformità del sentire politico e religioso di Susanna. Entrambi, però, figli di illustri famiglie fiorite attraverso le generazioni: “Carlo Alberto appartiene a una delle più illustri famiglie di Ravenna, i Pasolini dall’Onda, nobili degli Stati della Chiesa, che per tradizione hanno sempre assolto importanti incarichi in Vaticano. [...] Si sposano nel dicembre del 1921. Susanna ha trentun anni, uno più del marito, ma ne dimostra molti di meno. La sua famiglia appartiene al clan numeroso dei Colussi, che sei secoli prima hanno partecipato alla fondazione di Casarsa. Il paterfamilias Domenico da anni si è allontanato dalla servitù dei campi costituendo un primo nucleo industriale con delle trebbiatrici e un laboratorio per la distillazione dell’acquavite” 3.

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Il dissidio interno al nucleo familiare, così radicalmente situato nel divario tra padre e madre, determina la formazione della gerarchia sentimentale pasoliniana, nonché (in stretta connessione a questo) l’emersione frenetica di un piccolo mondo immaginativo infantile, seme del futuro gusto poetico, che si svela precoce intorno ai sette anni, in prossimità non casuale della passione del disegno 4. E una netta condivisione delle ragioni materne che è comprensiva delle attitudini, delle idee e dei gusti del Pasolini futuro: “Nella cattiva intesa tra i genitori, egli si è schierato tutto dalla parte della madre per la quale prova un amore intensissimo senza possibili deroghe. Riflettendo anni dopo sull’avversione che invece ha sempre provato per il padre, in corrispondenza con la stesura del dramma in versi Affabulazione che tratta di un rapporto incestuoso tra padre e figlio, scoprirà nel fondo di essa ‘un’amore parziale, che riguardava unicamente il sesso’” 5.

Ancora, la Casarsa ariosa e claustrale allo stesso tempo diventa il nido borghese “tutto sensazioni, passioni, angosce, dedizioni, ingenuità” dove covano e crescono sensibilità e disagi fecondi per la sua educazione poetica e poi pittorica, entrambe ricollocate sotto la luce di un grande fervore religioso crescente 6, contrappuntato da occasionali deliri immaginativi, quale quello (evocato dallo stesso Pasolini) sulla figura del Cristo crocifisso e una sua prima identificazione-imitazione, che segnerà successivamente le pagine dell’Usignolo della Chiesa cattolica. La viscerale predominanza delle “sensazioni” - epitomi di quella realtà che avrà così grande importanza futura - è la clausola poetico-imitativa che segna tutta l’esperienza pasoliniana di questo periodo, la base di partenza di un movimento bipartito: 1) il ritorno imperterrito alla madre-terra-nascita; 2) la costruzione di una Weltanschaaung poetica appuntata su una ben definita importanza del “fatto” cromatico e luministico, oltreché sonoro. Ne è prova la maniera pasoliniana della semplice rievocazione del ricordo d’infanzia, distribuita tra recupero della sensazione e prassi poetica: “Dopo le grandi nevicate, a Casarsa c’è una primavera piovosa: ‘In certe ore di pioggia, eravamo costretti, io e le mie cugine, a restare chiusi in casa, in un violentissimo profumo di umidità. Fuori una musica di muschi e oleandri picchettava sulle gorne con gradazioni amare: una goccia cadendo irregolare su un barattolo pungeva lo scroscio confuso della cloaca mentre dardi, sui giaggioli, arpeggiavano crudelmente’” 7.

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Ma se Casarsa è madre e sito di un ritorno costante e intenerito nel corso di tutta l’esistenza pasoliniana, dalle giovanili vacanze estive già inframmezzate alla trasferta romana degli anni Cinquanta fino alla vigilia della morte, la Bologna della nascita, vissuta nel seguire e assecondare la geografia della professione paterna, è d’altro canto il luogo della vera formazione pasoliniana di uomo e soprattutto d’intellettuale, scandita, questa, sulla seriosa e imperterrita lettura di classici (quali Dostoevskij, Shakespeare e i romantici Coleridge e Novalis); non solo questo, poiché Bologna è anche la cornice di amicizie importanti coltivate al laico liceo Galvani, tra le quali Luciano Serra, il coetaneo Franco Farolfi, Ermes Parini ed Elio Melli. La poesia è ancora la privilegiata espressione pasoliniana e anche qui Bologna offre l’occasione dell’incontro illuminante con Montale e Ungaretti, dopo una lettura in classe del Bateau ivre di Rimbaud che lascia un segno in Pasolini. Passioni gregarie ma non meno fondamentali vengono nutrite in questo periodo: il cinema in primis, attraverso la frequentazione del Cineclub e di seguito lo sport, con l’amatissimo calcio, la pallacanestro e le gite in bicicletta insieme agli amici Farolfi e Parini; tutto quello che farà dire a Pasolini: “Bella e dolce Bologna! / Vi ho passato sette anni, forse i più belli...”. Nondimeno, è la Casarsa materna che si riformula nel contesto del finale movimento di rifiuto del “presente orrendo” degli anni Settanta e del conseguente (ma contraddittorio) rivolgersi all’indietro della poesia pasoliniana di quegli anni, inquadrata perfettamente nella riscrittura de La nuova gioventù, come ricorda Adelio Ferrero: “[...] La critica e il rifiuto del presente si spinge spesso a investire il Passato: il Friuli contadino e cristiano e la “naturalità”, la “disperata allegria” e il vitalismo sottoproletario, svelandone la qualità mitica e consolatoria. Se all’inizio degli anni ’70, ammettendo il “desiderio folle di regresso” da cui muoveva la sua contestazione del presente, l’autore poteva ancora affermare che “non c’è progresso senza profondi recuperi nel passato, senza mortali nostalgie per le condizioni di vita anteriori: dove si era comunque realizzato l’uomo spendendovi interamente quella cosa sacra che è la vita del corpo” o ribadire la radice contadina del proprio “comunismo”, subentra ora, come è stato detto, “un risentito rifiuto dell’allegro e miserabile mito sottoproletario (che era stato il suo), che non può non nascere da una sia pur contraddittoria capacità di riesame impietoso del proprio passato e della sconfitta del proprio mondo originario”. Questo processo di “revisione” tocca il punto più alto nella sconcertante operazione [...] di ripetizione-riscrittura, nel 1974, delle poesie di La meglio gioventù (1941-1953)” 8.

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Il periodo friulano-materno è comunque l’apex sentimentale da cui scaturisce tutto quel florilegio poetico pasoliniano che si aggancia al culto della terra natale - “cette terrible nostalgie pour la terre cultivée” di cui Pasolini parla nella citata intervista con Duflot -, con la sua iconografia affine alla pittura, agli albori della coscienza politica ed in particolare, in un ambito privilegiato, alle padane radici famigliari: quelle che origineranno tanto la Suite furlana quanto I Colùs, sorta di meditazione storico-poetica sopra il casato materno.

Parola dipinta. Poesia e pittura A seguire le premesse della formazione poetico-affettiva di Pasolini, nel contesto della sua pubertà friulana, non dovrebbe sorprendere il riscoprire il nome di Casarsa nel titolo del suo esordio poetico: la pubblicazione delle Poesie a Casarsa (1942) costituisce infatti un “piccolo canzoniere”, seppur venato di alcune ingenuità, dedicato al paese materno. Da subito, Poesie a Casarsa rende testimonianza della poesia pasoliniana come concrezione della suggestione sensoriale, della combinazione e della tessitura di colore, olfatto e suono: “L’‘illuminazione’ ebbe, secondo la rievocazione offerta da Pasolini stesso, un’origine essenzialmente uditiva, sonora: fu suono. Risuonava una parola (rosada), una parola che fino allora, non essendo mai stata scritta, così come tutta la parlata friulana della destra del Tagliamento, era esistita solo come puro suono; [...] Per la prima volta dunque quella lingua orale viene scritta: la scrittura diviene concretamente creazione di lingua, prima inscrizione nell’ordine grafico di una phoné antichissima e, si sa, nulla riesce più nuovo della scoperta dell’antico”9.

La problematica legata al testo e alla lingua friulani di Pasolini occupa una posizione importante e innesca un movimentato e risentito dibattito filologico in seno all’ambiente letterario locale (Società Filologica Friulana) 10 “rigidamente conservatore, legato al gretto municipalismo della scuola zoruttiana”, violento nei confronti delle “disinvolture” pasoliniane. Ma la pregnanza dello spunto iniziale, fecondativo di questa poesia sta tuttavia sempre in un lampo visivo e immaginativo, movente che lo riallaccia più fortemente alle identità europee simboliste che al canon vernacolare friulano. In questo contesto, emerge la funzionalità espressivo-simbolica del codicedialetto 11 che, come sottolinea sempre Santato, “è l’anti-lingua che prende forma proprio attraverso questo rapporto di antitesi funzionale con la lingua. La lingua 38

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fornisce al dialetto il testo-base che rende possibile lo scarto e la negazione, il codice che rende possibile la metafora, il silenzio in cui risuona l’altra voce, l’assenza che crea lo spazio di una presenza alternativa” 12: la scoperta, per Pasolini, della lingua pura, “barbarica e cristiana”. Riassorbito lo stile all’interno della discussione tematica, lo si ritrova ricettacolo di questi temi ricorrenti da tempo: la Madre, la Morte, Casarsa e la sua simbologia ancestrale 13 e, infine, la corporalità, anzi “la dolorosa coscienza da parte del poeta di un tempo perduto, proiezione storico-esistenziale di un corpo, di un modo dell’essere irrimediabilmente perduti” 14. Dentro al ministero dell’ispirazione, il colore e la luce presiedono unitamente agli stessi temi anche nel futuro poetico casarsese-friulano de La meglio gioventù: nella Suite furlana (1944-’49) il trattamento del tema materno ritorna nell’intreccio con la morte e con la corporalità figliale, ad esempio ne Il diaul cu la mari: “I. Mari, dismòviti ma no | sigà, silensiu! Biel dismòt | to fì al à impijàt la lus | ta la ciambra cui mur nus. | Al vuarda la ciadrea nera | cui vistìs di sanc e di sèra, | i tras pituràs di cialsina | li pantianis tal ciadìn. | II. La so muàrt, un colp tal solàr, | al lu à dismòt tal so Infier: [...] Il sidìn cu’l sudòur di un muàrt ghi bagna il ninsoùl e il cuàrp. [...] Tu i no ti sas, ma lui al ten | un Mat sansa Mari tal sen. | Al va drenti in ciambra il Lari | e al sta spagutìt tal clar | : la so muàrt a è adès chistu clar | ch’alimpla la ciambra di zal” 15.

La convivenza dei temi con il dettaglio cromatico e luministico - verso una sempre più definita pittoricità del gusto stilistico - oltreché con il segno sonoro, si ripete intensificata anche ne Il dì de la me muart: “Sot di un tèj clìpid di vert | i colorài tal neri | da la me muàrt ch’a dispièrt i tèjs e il soreli” 16; e ancora, si può ritrovare una simile palpitazione nelle descrizioni fisiche della Natura ritornando alle Poesie a Casarsa, ad esempio nel brano Dilio: Tu jo dis, nìni, tai nùstris cuarps | la frès-cie rosàde | dal timp perdut” 17. Il legame con la rievocazione di questo “tempo perduto”, nell’alveo della patria contadina e materna, si rinnova ad esempio nel culto di questo passato, nella forma della riesumazione della tradizione religiosa, quanto dell’escursione filologica sulle radici familiari. Alla prima forma corrisponde la chiusura alle Poesie a Casarsa, ovvero il poemetto La Domenica uliva, “trasposizione allegorica nelle forme della sacra rappresentazione della liturgia della Domenica delle palme” e ulteriore, fremente capitolo sul tema dell’unione madre-figlio, in prospettiva definitivamente simbolica, e in ribadita e affinata unione all’intento cromatico e pittorico dello stile:

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“[...] l’immagine della madre, [...] qui addirittura presentata in uno sdoppiamento estremamente significativo, carico di allusioni e implicazioni, tra lo spirito della madre e la madre temporaneamente incarnata sotto le spoglie di un fanciullo che reca l’ulivo, [...] Tale unione viene simbolicamente sottolineata dalla duplice identificazione Figlio-Cristo e Madre-Madonna, alla vigilia della Passione del Figlio” 18.

E In relazione al contributo cromatico del brano: “Il dramma è già nella carne del figlio, che se ne sta “dut scur pai pras verdus” (con felice resa impressionistica del contrasto cromatico) [...] In rapporto all’impressionismo linguistico di Pasolini, è da rilevare l’ampia gamma di suggestioni cromatiche e musicali sviluppata in questi versi friulani [...] Coerentemente con le poetiche simboliste da cui muove, Pasolini rappresenta, o meglio evoca suggestioni, visioni attraverso una riduzione fenomenica della parola a pura sensazione” 19.

Alla seconda forma, quella della (pseudo) indagine storica cantata sul casato materno, corrisponde il poema I Colùs, di cui Pasolini rende una spiegazione nella premessa della Seconda forma della Nuova gioventù (1974) 20. Alle spalle del progetto de I Colùs si può ritrovare un interessante antefatto che si offre poi come una fatale coincidenza, anch’essa storica, con la cultura pittorica di Pasolini e anche collegamento con il futuro fervore conoscitivo che lo coglierà nel periodo universitario, sotto il magistero di Longhi; proprio durante il periodo universitario, Pasolini propone con una certa smania un argomento di tesi a Longhi che ha per soggetto il pittore friulano Pomponio Amalteo 21, artista cinquecentesco, anche allievo e collaboratore del Pordenone, “visceralmente legato alla mitologia casarsese della giovinezza del poeta”, come ricorda Francesco Galluzzi. Fra le creazioni dell’Amalteo, la Deposizione della Parrocchia Nuova di Casarsa e, soprattutto, le storie della Passione e della Vera Croce, che Pasolini poteva ammirare all’interno della glisiuta di Santa Croce di Casarsa, ovvero la cosiddetta Parrocchia Vecchia; e Santa Croce è la cornice ambientale della scoperta pasoliniana che infiamma l’ispirazione primitiva de I Colùs e la sua adolescenziale voglia filologico-storica: “Sulla parete destra di Santa Croce è ancora conservata una lapide, trasportata là dopo la distruzione della chiesa della Beata Vergine delle Grazie; vi si ricorda come quest’ultima fosse stata edificata da Zuan Colus e Maria de Montico per adempimento di un voto alla Madonna che aveva risparmiato la villa di Casarsa dalle devastazioni durante l’invasione turca del 1499. Zuan Colus era un antena-

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to dei Colussi, la famiglia della madre di Pasolini. La Deposizione dell’Amalteo era quindi una delle pitture commissionate dai Colussi, come recita la lapide, come ex-voto. Questo episodio dell’epica familiare accendeva la fantasia del ragazzo Pasolini, sul filo dell’analogia tra i Colus del 1499 minacciati dai Turchi e i Colussi del 1943 minacciati dai nazisti. Meditò infatti di edificare e affrescare, sull’esempio degli antenati, una cappella votiva dopo la guerra; e rievocò l’episodio cinquecentesco in un dramma I Turcs tal Friul, datato al maggio 1944 e rimasto inedito fino al 1976” 22.

Il poemetto dei Colùs dunque, con il suo recupero archeologico, crea idealmente un contatto tra le sospese attitudini pasoliniane di poesia e pittura; l’integrazione, quà e là velleitaria, delle due componenti, si realizza nell’aderenza a un modello e nella sua iniziale filiazione stilistica: e il modello è quello longhiano. Franco Fortini, riassumendo l’identità stilistica del Pasolini poeta, dice che “mentre rifiutava la poesia novecentesca ed ermetica, Pasolini trovava nella prosa d’arte del periodo 1910-40 (e in particolare nel raffinato montaggio linguistico di uno scrittore come Roberto Longhi) una sorta di materia lessicale da organizzare nelle terzine dei poemetti” 23. La frequentazione pasoliniana di Longhi (di cui si parlerà più avanti) e la fortissima, febbrile attrazione che esercitano sul giovane poeta il trascinante metodo scolastico longhiano e la forma smagliante della sua saggistica, vanno a conciliarsi nella più tarda assonanza del poemetto La ricchezza, contenuto ne La religione del mio tempo (1961), con il Longhi del Piero della Francesca; come sottolinea Galluzzi, all’interno della condivisa analisi su Piero - e addirittura nella parallela disamina di stesse porzioni di affreschi, quali La disfatta di Cosroe - al di là del contrappunto cromatico, ne La ricchezza “l’eredità longhiana del poemetto di Pasolini è da riconoscere soprattutto nel senso della luce, “la pura / luce che tutto vela”, vera protagonista della visita e della visione” 24. Allora, nell’apprendistato longhiano forse, per il Pasolini futuro uomo d’arti - la poesia, la pittura, ma anche il cinema - , si dipana una serie di svelamenti e conquiste di ordine sia estetico, che linguistico, che ermeneutico. E anche il severo e rigoroso lavoro semiologico più tardo, nell’unione di “pragmatico ed esistenziale”, tra Erlebnis e Codex, si può conciliare con la lezione di Longhi, azzardando un incrocio saggistico tra i due e scoprendone strane assonanze; riprendendo da Pasolini il “Codice della realtà raffigurata” in Empirismo eretico: “Per decodificare una persona o un paesaggio dipinti o scolpiti dobbiamo ricorrere a un codice [...] di fronte a una pala d’altare con personaggi, oggetti, animali,

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alberi, noi ripercorriamo fulmineamente tutta la gradazione compresente dei codici qui sopra elencati. La perdita della mobilità non è che una restrizione metrica: in realtà noi sentiamo quei personaggi come fissati nel tempo e nello spazio, ma non privi del principio di muoversi naturalmente nel tempo e nello spazio: anche gli archetipi del godimento estetico più specialistico (il bruno dorato della pelle della Madonna, il pulviscolo vespertino diffuso su tutta la scena ecc.) si trovano nell’esperienza della Realtà vissuta, nel momento pragmatico ed esistenziale” 25.

E recuperando il Piero della Francesca di Longhi dove, nell’accostamento tra Piero, Masolino e Paolo Uccello, si discute dell’ambizione di Paolo al “superamento poetico” dell’”esattezza” ambientale con l’arte della prospettiva: “Lance spezzate, balestre, mazzocchi, vasi di cristallo tagliato, furon, per così dire, i primi giocattoli che questo adulto appassionato si scelse per il suo gioco di prospettiva. Ne vennero fuori in pochi anni quelle stupende battaglie dove tutto il mondo pareva colto in una rete magica; dove la visione era inflessibile come una legge di cristallografia applicata al cosmo, e ad un tempo, fantastica come un sogno” 26.

Alla corte di Longhi tra scuola e “fulgurazione” “A Roberto Longhi sono debitore della mia ‘fulgurazione figurativa’” 27. Il 1939 inaugura una preziosa stagione di formazione per Pasolini: una brillante conclusione delle scuole superiori lo conduce al mondo universitario, con l’iscrizione alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna per l’anno accademico 1939-’40. L’approdo universitario suggella il completamento di una personalità artistica sbozzata, ma già anche fortemente caratterizzata dalla tensione verso “discipline” chiare (come si è visto nei paragrafi precedenti, poesia e pittura, o, meglio, disegno) e realizza la sua apertura verso una seconda realtà culturale, svincolata dalla grigia chiusura provinciale dell’Italia fascista. Pasolini stesso non manca di contrassegnare questo periodo con il termine “rivoluzione”, in un inedito testo dattiloscritto 28 che rende conto della disagiata condizione intellettuale ed esistenziale di quegli anni, motivata dalla stessa foga etica di risanamento e ricostruzione che segna poi il pensiero nonché i rapporti anche epistolari degli anni immediatamente successivi 29. L’incontro con quello che sarà poi per Pasolini forse il suo più determinante maestro e la scoperta dello studioso “sguainato come una spada” si situano alla confluenza, come ricorda Galluzzi 30, tra la già affascinata conoscenza pasolinia42

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na di Longhi critico d’arte e la mediazione di Gianfranco Contini, secondo ma non meno importante precettore del poeta 31: “È opportuno allora andare specillando i non pochi scritti dedicati a Longhi dal critico, alla ricerca di motivi che possono aver giustificato questa congiunzione pasoliniana. Un primo saggio Sul metodo di Roberto Longhi compare nel 1949 nel fascicolo n. 2 di “Belfagor”. È una recensione al Giudizio sul Duecento edito nel ’48 ma già scritto nel ’39; e che doveva aver presentato non poche attrattive per Pasolini, a giudicare dall’amore sempre dichiarato per l’arte romanica (considerata l’equivalente delle adorate lingue romanze) e per la pittura giottesca. Contini evidenzia nel metodo longhiano la connessione stretta tra filologia e giudizio, e la scelta di considerare le personalità artistiche come prodotti di rapporti storici piuttosto che come individualità da valutare sul metro di una ‘qualità’ astratta. Elementi che sembrano adatti a suggestionare gli interessi storicistici del giovane Pasolini” 32.

Dunque, nella sua complessità “didattica”, il magistero di Longhi sembra essere la vera stella polare del Pasolini neofita della pittura e della critica d’arte: questo perché, in sintesi, da Longhi e dal suo metodo promanano alcuni elementi che confluiscono nel corollario personale degli ideali estetici pasoliniani; in primis, l’impasto linguistico della critica d’arte longhiana, che accende il gusto pasoliniano e ne rinvigorisce l’inclinazione emulativa nel più tardo esercizio critico, nel quale si ravvisa “una somiglianza di vedute tra allievo e maestro che rasenta talvolta il calco linguistico”. E in ordine alla comparazione tra lo stile critico di Longhi e la consonanza di quello critico-poetico pasoliniano, nel quale, proseguendo sul filo dell’imitatio, “molto spesso i passaggi concettuali vengono risolti attraverso folgorazioni visive” 33, emerge intanto la necessità di una conoscenza più chiara in merito al primo; Emilio Cecchi, nel 1955, vi meditava sopra così: È però tutt’altro che facile indicare il segreto di cotesta attrazione che, sono ormai quarant’anni, emana dallo stile di qualsiasi fuggente pagina di Longhi. Chi volesse fare l’analisi chimica di tale stile, audace e sprezzante nel movimento, quanto laborioso e compatto nella materia verbale, avrebbe da citarne di autori, antichi e moderni, nostrani e forestieri”. Ma sulla “vocazione” e il “compito” della metodologia di Longhi prosegue così: “Longhi ha da introdurci in certi mondi pittorici che già esistono in sé e per sé stessi. Deve farceli realizzare più esattamente e più intensamente. [...] La materia verbale ch’egli consuma, nel processo di tali evocazioni e realizzazioni, può avere un’origine impura quanto si vuole. [...] Può esasperarsi fino al barocco, al grotte-

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sco. Giuocare su romantiche capricciosità. Tutto ciò ha scarsa importanza; perché a tale materia, nonostante la bellezza di cui essa s’accende, una volta che sia morsa dal fuoco di questo stile, in definitiva non compete che una funzione mediata, strumentale” 34.

Sempre nella cornice dell’incontro linguistico Pasolini-Longhi, Galluzzi sottolinea il recepimento, all’interno della prassi pasoliniana, dell’idea longhiana di “equivalenza verbale di un’opera”, che scaturisce dal processo linguistico del brano critico; l’attitudine di Pasolini alla “folgorazione visiva”, in fondo radicata già nella sua poesia trobadorica, replica, imitandola, la presa di posizione teorica di Longhi che imposta il discorso critico come una unione “di contatto diretto con l’opera e di evocazione di un gusto circolante intorno ad essa” 35. In sintesi, l’istanza di “rifacimento della pittura” presente in Longhi 36 apre il discorso al valore immaginativo dell’impianto critico, al suo lavoro anche creativo. Certamente, nell’appuntarsi sulla bellezza della prosa d’arte longhiana, sullo sfavillio delle sue invenzioni e intuizioni interpretative, e, infine, sulla sua fortuna, l’inevitabile conseguenza sarebbe quella dell’analisi dei modelli e degli epigoni di Longhi, come tempestivamente faceva, nel 1928, il già richiamato Emilio Cecchi 37. Ma la congiunzione della prosa di Pasolini al modello di Longhi, che sottolineava anche Fortini 38, trova l’acqua della vita sempre in quel principio immaginativo di cui si diceva, “l’immaginazione che fiorisce sul metodo”, per riprendere la definizione longhiana di Cosmé Tura che ricorda Giuseppe De Robertis, quando parla dell’altalenare stilistico di Longhi tra “imitativo” e “creativo”: “È il proprio d’un critico d’arte render l’equivalente di una pittura, d’una scultura: [...] In Longhi è tutto il contrario. In lui c’è quella grazia “trovata per ispirazione”, per usare una sua felice immagine, là dove parla di Simone dei Crocefissi; [...] il suo modo di aggredire un’opera d’arte è sempre vario, con un giuoco che muta e trasmuta, sicché piuttosto pare un inventore che un critico (ma inventa da critico, e di che forza!) [...] due cose spiccano sopra tutte, l’immagine, il parlar metaforico e l’uso dell’aggettivo (una delle basi, questa, del suo inventare). L’aggettivo, più d’ogni altra cosa in lui, getta luce sul giudizio, lo vivifica, lo modula” 39.

Se nell’apprendistato di Pasolini si situano, come già detto, non una ma diverse fascinazioni (e diverse in quanto disciplinarmente separate), dopo la “prosa d’arte” che accende la passione iniziale, viene inevitabilmente la tensione di un gusto pittorico devoto a Masaccio e a Giotto, su quella “linea plastica” che partiva dal Romanico e che costituiva un patrimonio figurativo personale in larga parte arricchito e rimpinguato dall’eredità scolastica delle lezioni longhiane, con44

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dotte alla luce di diapositive in bianco e nero 40. Forse proprio in questo semplice elemento procedurale è il seme che feconda impressionisticamente il gusto di Pasolini, ma nella direzione cinematografica, la cui giuntura intermedia starebbe proprio nella fotografia-diapositiva delle lezioni sulla fissità masaccesca; Pasolini, in una famosissima dichiarazione, esprimeva felicemente il senso più intimo di questo connubio pittorico-fotografico dentro al suo gusto figurativo: “Il mio gusto cinematografico non è di origine cinematografica, ma figurativa. Quello che io ho in testa come visione, come campo visivo, sono gli affreschi di Masaccio, di Giotto - che sono i pittori che più amo, assieme a certi manieristi (ad esempio il Pontormo). E non riesco a concepire immagini, paesaggi, composizioni di figure al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica, trecentesca, che ha l’uomo come centro di ogni prospettiva. Quindi, quando le mie immagini sono in movimento un pò come se l’obiettivo si muovesse su loro sopra un quadro, concepisco sempre il fondo come il fondo di un quadro, come uno scenario, e per questo lo aggredisco sempre frontalmente [...]. Io cerco la plasticità, soprattutto la plasticità dell’immagine, sulla strada mai dimenticata di Masaccio: il suo fiero chiaroscuro, il suo bianco e nero [...]. Amo lo sfondo, non il paesaggio. Non si può concepire una pala d’altare con le figure in movimento. Detesto il fatto che le figure si muovano” 41.

Quale e quanta parte abbia occupato il sentimentale Masaccio monocromo di Pasolini nella fondazione e coltivazione del suo gusto figurativo cinematografico è questione che riguarda un nutrito florilegio di interventi, dichiarazioni teoriche e “confessioni tecniche” successive, anche oltre l’ouverture di Accattone (1961), prima e forse più emblematica disposizione (longhiana) della sua idea masaccesca di austerità e secchezza 42. Cosa dice Pasolini riguardo alle strabilianti lezioni di Longhi nell’auletta di via Zamboni sui Fatti di Masolino e Masaccio? Ne recupera la traccia visiva, come prima cosa, suggerendo come lì soltanto si sia realizzata l’acmé della sua “fulgurazione”: “Sullo schermo venivano infatti proiettate delle diapositive. I totali e i dettagli dei lavori, coevi e eseguiti nello stesso luogo, di Masolino e Masaccio. Il cinema agiva sia pur in quanto mera proiezione di fotografie. E agiva nel senso che una “inquadratura” rappresentante un campione del mondo masoliniano - in quella continuità che è appunto tipica del cinema - si “opponeva” drammaticamente a una “inquadratura” rappresentante a sua volta un campione del mondo masaccesco” 43.

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Il portato masaccesco della lezione longhiana costituisce il prestito fondamentale della prima stagione cinematografica di Pasolini, quella di Accattone e di Mamma Roma (1962), in cui si realizza anche l’occasione della dedica a Longhi citata in esergo; una dedica che stabilisce un contatto tra lo storico e il cinema che, in realtà, non possiede caratteri di novità. È questione di vecchia data, infatti, la vicinanza a Longhi di Umberto Barbaro, teorico e critico cinematografico, accanito estimatore della critica d’arte dello studioso (come Pasolini) già dagli anni Venti, il quale “dimostra in tutto il suo sviluppo culturale di ricorrere a Longhi, di tenere i suoi scritti come libri de chevet e di servirsene come viatico per ogni importante viaggio di scoperta culturale [...] Se la lettura degli scritti di Vsevolod Pudovkin gli aprirà, a qualche anno di distanza, “una strada grande e diritta” per l’accesso al mondo del cinema, sarà ancora l’opera di Longhi (l’Officina Ferrarese e le Lezioni di storia dell’arte del 1934-35) a spingerlo alla ricerca di una tradizione figurativa del cinema italiano” 44. Entrambi, Pasolini e Barbaro, accomunati nella venerazione critica e artistica di Longhi e allineati nell’intento sperimentatore di partire da lui per tracciare una via eversiva rispetto alla traditio: Barbaro che, già nel 1927, “si serve di Longhi per portare oltraggiosamente un attacco al pensiero crociano (Un’estetica nuova per un’arte nuova) da una povera rivista in un solo foglio incapace di sopravvivere fino al secondo numero” 45; Pasolini accoccolato dapprima all’ombra del metodo del maestro, con la sua prosa d’arte istintivamente assorbita e dopo cineasta imbevuto di cultura pittorica che - autarchicamente, in netta separazione da una tradizione cinematografica - rincorre la progressiva cancellazione della pittoricità all’interno di ogni singolo film: lo sottolinea ancora Marchesini nel suo articolo, in cui parla, emblematicamente, di “fuga dalla citazione”: “Nell’arco temporale che va da Accattone (1961) a Porcile (1969) emerge più che altro il travaglio a cui è sottoposta la citazione pittorica nel momento in cui si innesta nel testo filmico. Anche la gamma delle forme (tableau vivant, plaintableau, citazione diegetizzata di quadri o riproduzioni), attraverso cui l’inserto pittorico si combina all’orditura delle immagini, più che un sintomo di disinvoltura mi sembra al contrario un segno evidente dell’estrema circospezione con cui viene maneggiato il prestito figurativo. Le varie declinazioni a cui si piega il tassello pittorico obbediscono pertanto a linee di forza di segno opposto, in cui l’amore per la tradizione storico-artistica si scontra con lo spettro dell’estetismo e dello sfoggio culturale gratuito” 46.

L’imperterrito riferimento a Longhi e alla verve del suo lavoro storiografico 46

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anti-tradizionalista 47 conduce anche alla contiguità di un nuovo gusto in Pasolini (il Manierismo, che nasce all’inizio degli anni Sessanta) con la “serie di studi pubblicati da Longhi negli anni Cinquanta” 48: interesse stilistico che aveva radici nella pubblicazione de Il Manierismo e Pellegrino Tibaldi di Giuliano Briganti (1945). Il saggio di Briganti riprendeva altresì quel dibattito in seno al classicismo figurativo, del quale il Manierismo diveniva clausola eversiva, ma sempre interno ad esso. Ancora, un’occasione eversiva: come si adatta la regola manierista a Pasolini? Nell’applicazione al suo ordine estetico, tra poesia e pittura, il Manierismo viene alla luce quasi come una genetica e intima propensione della sua arte, come ribadisce Galluzzi: “Viene immediatamente da pensare alla nascente poetica pasoliniana della tradizione, dal progetto abortito della rivista ‘Eredi’ alla scelta del friulano casarsese come lingua per la poesia, esasperazione del trobar clus ermetico e insieme strumento per attingere una cosciente stupefazione (manieristica?) verso il magma esistenziale e culturale della propria materia poetica. [...] Una poetica che intendeva la contaminazione e l’eversione come disperati atti d’amore” 49.

In realtà, a ben osservare l’opera di Pasolini, ci si potrebbe spingere ad un allargamento di essa ad una “naturale”, onnicomprensiva predisposizione manierista, criticamente captata quà e là da più parti e sotto aspetti diversi 50 e ravvisabile nell’interesse critico di alcuni suoi saggi d’arte più e meno celebri; uno fra tutti, il più volte richiamato saggio-dibattito sul Romanino, nel quale la disputa in seno a rifiuti e accoglimenti di Manierismo e Classicismo da parte del pittore, attraverso Pasolini si trasformano - al di là della più o meno malcelata espressione del gusto personale - anche in una contestualizzazione su scala sociale del fenomeno stilistico, dunque con una riduzione di foggia tutta pasoliniana da empireo artistico ad adorata “realtà” del mondo: “Perché il Romanino non voleva essere un classico o un classicista ma non voleva nemmeno essere un manierista [...] e cioè il classicismo era dentro di lui superato in quanto visione integra, totale, armoniosa del mondo, e il manierismo era da lui rifiutato in quanto questa visione integra, totale, armoniosa del mondo, il manierismo la dissolveva, la disgregava, la degenerava coscientemente. Il manierismo era miscredente: il Pontormo, il Rosso Fiorentino dipingevano la crocifissione però evidentemente nel loro fondo erano diabolici, erano miscredenti. Il Romanino, no, quindi non poteva accettare la critica manierista al classicismo, [...]”

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E prosegue, sulla chiosa all’estraneità di Romanino al suo mondo: “Insomma, mentre nei grandi pittori a lui contemporanei e perfettamente rinascimentali e cinquecenteschi si verifica quella che il Goldmann chiama la legge dell’omologia, cioè le strutture di un mondo sociale si proiettano e si riproducono nelle strutture stilistiche dei pittori, questo non avviene per il Romanino [...] Anche certi pittori minori contemporanei al Romanino, appunto gli altri bresciani, il Moretto, il Savoldo, sono profondamemte omologhi a un tipo di società italiana del Rinascimento, la riproducono nel loro stile; il Romanino invece no. Ecco perché le sue pitture sono così contraddittorie e così complesse e così irriconoscibili” 51.

Quella che Galluzzi cita a fianco dell’eversione, ovvero la contaminazione, è poi una componente importantissima dell’arte e del gusto pasoliniani (di cui si parlerà in seguito), oltreché una qualità manierista; Pasolini la rintracciava anche nell’affettuosa analisi della pittura dell’amico Giuseppe Zigaina, artista con il quale lui stesso aveva condiviso, al tempo della gioventù friulana, la pratica del pastiche 52: senza dimenticare quello che diceva Contini a proposito di Longhi in un articolo su “La Fiera letteraria” del 1955 (Longhi prosatore), quando gli attribuiva una “straordinaria abilità di pasticheur”. Nel brano su Romanino scorgiamo però il richiamo di Pasolini al Pontormo e a Rosso Fiorentino, numi manieristi che conducono alla terza esperienza cinematografica del primo Pasolini, in cui si condensa l’eredità longhiana: La ricotta (1963), episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G 53. Se Accattone e Mamma Roma erano le pale masaccesche, ne La ricotta Pasolini lavora sui manieristi nei toni e nella dimensione della predella; originato da una sceneggiatura “pittorica” di ascendenza (ovviamente) longhiana 54, il cortometraggio si articola sul piglio filologico di una duplice ricostruzione pittorica manierista: la Deposizione di Rosso Fiorentino di Volterra e quella di Pontormo conservata nella Chiesa di Santa Felicita a Firenze 55. Occasione eversiva ancora una volta (longhianamente) e doppiamente, tanto nella furia manierista del recupero di due manieristi, quanto nella scandalosa materia del recit: “È un altro esempio di mise en abime, o meglio di ‘quadro nel quadro’ (procedimento considerato tipicamente manieristico). La morte per indigestione di un borgataro “brutto come una scimmia” e perennemente affamato, Stracci, che sopravvive facendo la comparsa a Cinecittà, viene raccontata nel contesto della storia di un regista (interpretato da un mito del cinema come Orson Welles) che sta lavorando a un film sulla vita di Cristo, un raffinatissimo colossal finanziato da un

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grande produttore. Questo aspetto viene insinuato, manieristicamente, nella sceneggiatura con la trasfigurazione di personaggi e luoghi attraverso un filtro di citazioni colte” 56.

La ricostruzione è dopotutto inquadrata in un “film nel film” in cui l’esecutore-Welles -che si rivolge al suo aiuto, sistemato “tra due angeli manieristi” - è l’ingigantimento non solo di Pasolini, ma ugualmente di un’istanza cinematografica che pianifica e registra una maniera antitetica a quella pasoliniana, in ordine al film su Cristo che il regista si accingeva a realizzare, “paccottiglia in technicolor, manierista nell’accezione negativa della parola” 57. Ma il valore de La ricotta è, in ultima analisi, manierista proprio nella tradizionale e migliore accezione: nell’accezione, cioè, longhiana, della sua foga ricostruttrice, ancorché filologica alla radice, e, guardando agli esiti scandalistici di una nuova vicenda giudiziaria per Pasolini - per “vilipendio alla religione di Stato” 58, anche sotto il segno della temerarietà autoriale. Seconda vicenda giudiziaria, si diceva, a un anno soltanto infatti da quella per “offese al buon costume” e per linguaggio “offensivo del comune senso della morale” che segna il destino di Mamma Roma, il 23 settembre 1962. Ma in quel frangente il vero scoramento pasoliniano si collocava nell’irritata constatazione di un travisamento: quello sulla fugace ripresa in scurto di Ettore morente, che aveva acceso la frenetica querelle figurativa sull’ascendenza del Mantegna del Cristo morto: quale la prima, corrucciata reazione del poeta? Pasolini rispondeva con una lettera su “Vie nuove” del 4 ottobre 1962, appellandosi ancora una volta alla sua “Rivelazione”, ovvero a Longhi, maestro al quale tornava ancora una volta; la lettera è nota: Pasolini dice: “Ah, Longhi, intervenga lei, spieghi lei, come non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per parlare di influenza mantegnesca! Ma non hanno occhi questi critici? Non vedono che bianco e nero così essenziali e fortemente chiaroscurati della cella grigia dove Ettore (canottiera bianca e faccia scura) è disteso sul letto di contenzione richiamano pittori vissuti e operanti molti decenni prima del Mantegna? O che, se mai, si potrebbe parlare di un’assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio?”.

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Note Cfr. L’Italia. Capitolo II (1949), in: PPP, L’Usignolo della Chiesa cattolica, cit., p. 91. Nello stesso brano, si può rintracciare la nutrita sensibilità pittorica e cromatica (di cui si tratta nel presente capitolo) della poesia pasoliniana di quel periodo, unita alla grana autobiografica dei fatti: ”Nel ventidue, anno immerso nel secolo, | Bologna respirava un’aria di valzer. | Via Rizzoli tersa di sere profumate | echeggiava in un oro leggero e sonante | le musiche sospese intorno alle fanciulle | che sfioravano il secolo con piume viola. [...] e il pingue cattolicesimo dei Barocchi | pesava solo alle rosse volte delle Chiese. [...] il crepuscolo di un’epoca felice | che rode e stinge l’oro dell’Appennino. [...] tu, Italia, tu sei l’estate dell’Idria, | la verdecupa Estate di Via degli Amori”. 1

La lunga serie di trasferimenti della famiglia Pasolini, successivi al matrimonio, vede il succedersi, negli anni compresi tra il 1922 (anno della nascita di Pier Paolo) e il 1937-’39 (epoca della sua piena adolescenza, alle soglie degli studi universitari) dei soggiorni nelle seguenti città: Bologna, Parma, Conegliano, Belluno, ancora Conegliano, poi Casarsa, Sacile, Idria (un breve soggiorno nel 1929), ancora Sacile, Udine, ancora Conegliano e poi Belluno, Cremona, Scandiano e Reggio Emilia. Il disagio dell’adattamento ad ogni nuovo trasferimento è indubbiamente tassello importante nell’adolescenziale formazione intima e poetica di Pasolini, unita anche ai dissidi che rompevano l’unità affettiva dei genitori. 2

3 Cfr. Cronologia a cura di N. Naldini, in: Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, cit., I, pp. XLIX-CXIV (XLIX).

“È un “poeta di sette anni” e anche se i soggetti delle sue poesie sono ricavati dai più semplici aspetti della natura osservata a Casarsa, il suo è uno “stilus sublimis” con parole elette come “rosignolo” e “verzura”. Una volta composte le illustra con disegni riempiendo un intero quaderno”. Ibidem, p. LII. 4

Ibidem, p. LI. Un interessante passaggio si ritrova nell’intervista tra Duflot e Pasolini, in merito sempre al tema dell’ostilità verso il padre: “Ce que je refusais en lui, profondement, j’ai pu, par la suite, le parer de raisons ideologiques, c’est probable; mon père etait officier de carrière, et sa mentalité nationaliste, son style d’homme de droite lui avaiente permis d’accepter le fascisme, sans beaucoup de problemes de conscience. Mais ce sont là des raisons a posteriori. En realité, les relations de mes parents etaient difficiles, peut etre, par disparitè profonde.. je n’ai compris qu’assez recemment qu’il pouvait y avoir a l’origine de son attitude une difficulté d’etre avec ma mere, [...] Dernierement, en ecrivant Affabulation, une piece de theatre traitant comme Theoreme ou Oedipe, des rapports entre parents et enfants [...] j’ai réalisé que toute cette vie emotionnelle et erotique que je faisais dependre de ma haine pourrait bien s’expliquer, avant tout, par l’amour pour mon père: un amour qui doit remonter, probablement, a mes deux ou trois ans, sans que je puisse donner d’autres precisions sur cette periode”. J. Duflot, Entretiens avec Pier Paolo Pasolini, cit., p. 13. 5

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Anche la tormentata e caparbia dedizione ad un’esperienza di accesa religiosità da parte del giovanissimo Pasolini è un esito della distanza rimarcata tra madre e padre, questo volta con uno sbilanciamento relativo a favore dei precetti paterni di onestà e dirittura morale; come ricorda N. Naldini nella Cronologia citata “Susanna è cattolica, ma non praticante, ha anzi una scoperta insofferenza dell’untuosità religiosa”. Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, cit., I, p. L. 6

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Ibidem, p. LI.

A. Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini. Venezia, Marsilio, 2005, pp. 137-138. Da segnalare il confronto tra la “Prima” e la “Seconda” forma di La meglio gioventù, proposto dallo stesso Ferrero, che pone l’accento sulla virulenta mutazione delle descrizioni in Dedica, nel passaggio dalla versione del 1941 a quella del 1974: “Lo antico idoleggiamento del paese (“Fontana di aga dal me paìs, amour”, Dedica 1941) lascia il posto a un sentimento di estraneità e di gelo (“Fontana di aga di un paìs no me. / A no è aga pi vecia che ta chel paìs. / Fontana di amòur par nissùn”, Dedica 1974) . Il “viso di rosa e miele”, di “sangue e fiele”, del “fantassut” di Pioggia sui confini, diventa il “viso di merda e miele”, “di piscio e fiele”, del suo triste coetaneo di trent’anni dopo, sperduto tra i “focolari di un paese morto””. 8

Cfr. G. Santato, Il tempo friulano. Primo tempo, in: Id., Pier Paolo Pasolini, L’opera, cit., p. 35.

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Si veda alla nota 4 (p. 36) ancora in G. Santato, Il tempo friulano, cit.: “Pasolini stesso dichiara infatti che “l’idioma friulano di queste poesie non è quello genuino, ma quello dolcemente intriso di veneto che si parla nella sponda destra del Tagliamento; inoltre non poche sono le violenze che gli ho usato per costringerlo ad un metro e a una dizione poetica” (Nota a Poesie a Casarsa, cit.). Quanto dice qui Pasolini non è però esatto: il dialetto di Poesie a Casarsa presenta diversi tratti morfologici del friulano “canonico”, cioè della sinistra del Tagliamento; la desinenza in -e per i nomi sing. femm. e per la 3a pers. sing. verbale è prevalente nella sinistra del Tagliamento (nella cosiddetta Koiné, con centro Udine); nella destra e in particolare a Casarsa - è molto diffusa la desinenza in -a (che Pasolini adotterà integralmente nella seconda redazione). Alla sua apparizione, il libretto fu accolto in Friuli con alcune riserve, che Pasolini stesso ammette essere, dal punto di vista linguistico, giustificate (cfr. Il Stroligut, n. 1, p. 1 n.). Il casarsese è riadattato “nella sua intera istituzionalità” con la seconda edizione di Poesie a Casarsa, predisposta nel 1943 [...] e pubblicata poi nella Meglio gioventù, dove reca infatti la data 1941-43”. 10

Si rimanda, in merito al problema linguistico, al famoso intervento successivo di Pasolini sul volgare dantesco, pubblicato su “Paragone” a partire da una “strabiliante ricostruzione filologica” di Gianfranco Contini, che può essere interessante anche se considerato nel solco della sua tensione mimetica al dantismo, che caratterizza il lavoro poetico degli ultimi anni e che qui può vedersi come confronto teorico: “È chiaro che Dante, lui, non era utente di simili espressioni: il suo uso è quindi una citazione da un altro mondo linguistico: quello dei suoi personaggi. Il che significa, da parte di Dante, una immersione e una ‘mimesis’ totale nella psi11

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cologia e nelle abitudini sociali dei suoi personaggi. E quindi una contaminazione tra la sua lingua e la loro”. Uso questo divergente dall’immersione in prima persona di Pasolini nel dialetto friulano, quindi in un “volgare” a suo modo, che partecipa certo della biografia personale del poeta-autore. E prosegue: “Anche espressioni come ‘squadrare le fiche’ o ‘fare del cul trombetta’, o parole come ‘dindi’, non sono dell’uso personale di Dante: appartengono a una cerchia linguistica di periferia o di quartiere malfamato [...] Anche tali espressioni sono dunque mimetiche [...] È vero che c’è in Dante la coesistenza delle due differenti e opposte serie socio-lessicali: ma ognuna delle due sta sempre al suo posto, ognuna rientra dentro i limiti di una ‘ideale condizione stilistica’ per rivivere emblematicamente il particolare linguistico di un particolare personaggio (o ambiente)”. PPP, La volontà di Dante a essere poeta. “Paragone”, n.s., XVI, n. 190/10, dicembre 1965, pp. 59, 65. 12

G. Santato, Il tempo friulano, cit., pp. 36-37.

L’importanza sorgiva di questi temi dentro all’opera poetica di Pasolini (e al suo gusto pittorico) sarà anche splendidamente sottolineata in una dedica poetica di Attilio Bertolucci che recuperiamo: “... così l’apprendista di filologia romanza | ricorse alla lingua della madre | campì di smalti ladini pale d’altare e d’amore | ne ripetè a pié di pagina | in predelle a carattere minuto la dulcedo | nell’italiano della sua classe | appena ombrato di quel mite neo | angloprovenzale inventato | da Pound giovane scalante picchi | smeraldini nella Provenza di Arnault e Peire ... ” Cfr. A. Bertolucci, Due frammenti biografici e un envoy a P.P.P. In: PPP, Amado mio. Preceduto da Atti impuri. Milano, Garzanti, 1982, p. 7. 13

14

G. Santato, Il tempo friulano, cit., p. 41.

15 (“Il diavolo con la madre; I. Madre, svegliati, ma non gridare, silenzio! Ormai desto tuo figlio ha acceso la luce nella camera coi muri nudi. Guarda la sedia nera con le vesti di cera e di sangue, le travi pitturate di calce, i topi nel catino. II. la sua morte, un colpo nel granaio, lo ha destato nel suo Inferno [...] Il silenzio col sudore di un morto gli bagna il lenzuolo e il corpo. [...] Tu non lo sai, ma egli nel seno tiene un Matto senza Madre. Va dentro nella camera, il Ladro, e resta sbigottito nella luce: adesso la sua morte è questa luce che empie la camera di giallo”). Cfr. La meglio gioventù. Parte prima in: PPP, La nuova gioventù, cit., pp. 63-64.

16 (“Sotto un tiglio tiepido di verde, cadrò nel nero della mia morte che disperde i tigli e il sole”). Ibidem, p. 65.

(“Tu vedi, fanciullo, sui nostri corpi la fresca rugiada del tempo perduto”, p. 21 come citato in G. Santato, cit.). 17

18

Ibidem, pp. 42-43.

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(“Tutto scuro per i prati verdini”). Ibidem, p. 43.

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“Nella sezione I Colùs (cognome della famiglia di mia madre) i fatti che si svolgono fra il trattato di Campoformido, la resistenza di Osoppo del ’48, Sedan, Caporetto, sono “storici”, nella loro estrema umiltà: il loro metro è quello delle canzoni epico-liriche che hanno come centro di diffusione il Piemonte e che invece scarseggiano, inspiegabilmente, in Friuli”. PPP, La nuova gioventù, cit., p. 157. 20

Pasolini sottopose a Longhi altri due argomenti, alternativi alla tesi sull’Amalteo: il primo (quello che più stava a cuore al poeta) aveva per titolo Intorno alla “Gioconda ignuda” di Leonardo, studio sul quale il poeta dichiarava di avere già molto materiale a disposizione in fotografie e testi e il secondo un approfondimento “sull’odierna pittura italiana”, in merito al quale Pasolini dichiarava di possedere “già una preparazione abbastanza approfondita, quasi appassionata”. Si rimanda a tal proposito a due lettere indirizzate a Longhi rispettivamente il 12 agosto e il 2 settembre 1942, che si ritrovano nell’Appendice di documenti inediti a: Pier Paolo Pasolini, Vita attraverso le lettere. A cura di N. Naldini. Torino, Einaudi, 1994, pp. 321-323. 21

F. Galluzzi, Pasolini e la pittura. Roma, Bulzoni, 1994, pp. 41-42. Galluzzi segnala inoltre (p. 42, n 87) una riproduzione della lapide e del suo testo nell’apparato critico di A. Ciceri a: Pier Paolo Pasolini. I Turcs tal Friul. “Forum Julii”. Udine, 1976, pp. 51-52. 22

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F. Fortini, Attraverso Pasolini. Torino, Einaudi, 1993, p. 163.

Nel confronto tra il brano pasoliniano e quello longhiano, Galluzzi evidenzia proprio l’assonante fisionomia degli impianti, nell’andamento e nel tono; proponiamo una selezione del suddetto confronto: “[Pasolini] Quelle braccia di indemoniati, quelle scure | schiene, quel caos di verdi soldati | e cavalli violetti, e quella pura | luce che tutto vela | di toni di pulviscolo: ed è bufera, | è strage [...]”; “[Longhi] In quella pressura dei gesti si veggon le teste stridere, more, contro le groppe dei cavalli bianchi; [...] i gesti, brevi, angolati o in dirittura, incastrarsi insieme, e così fermi [...] la curva lunata del cavallo bianco e, di sopra, l’impresa delle bandiere”. Cfr. F. Galluzzi, Pasolini e la pittura, cit., pp. 50-51. 24

25

PPP, Empirismo eretico. Milano, Garzanti, 1981, p. 295.

26

R. Longhi, Piero della Francesca. Firenze, Sansoni, 1980, p. 11 (corsivo mio).

27

PPP, Mamma Roma. Milano, Rizzoli, 1962, p. 8.

“Per un ragazzo oppresso umiliato dalla cultura scolastica del conformismo della società fascista, questa era la rivoluzione.”. Cfr. Inedito, già in “Fondo Pier Paolo Pasolini” di Roma (Cartella Scritti Inediti, 1967-’71), ora in: A. Marchesini, Longhi e Pasolini. Tra “fulgurazione figurativa” e fuga dalla citazione. “Autografo”, IX, n. 26, giugno 1992, p. 3. 28

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Si rimanda, come esempio, ad una lettera indirizzata da Pasolini all’amico Luciano Serra nell’agosto 1943, in cui il poeta dice: “L’Italia ha bisogno di rifarsi completamente, ab imo, e per questo ha bisogno, ma estremo, di noi, che nella spaventosa ineducazione di tutta la gioventù ex-fascista, siamo una minoranza discretamente preparata. [...] E noi abbiamo una vera missione, in questa spaventosa miseria italiana, una missione non di potenza o di ricchezza, ma di educazione, di civiltà”. Cfr. PPP, Lettere agli amici (1941-1945). Parma, Guanda, 1976, pp. 33-34, Lettera XII. 29

Per una esaustiva relazione sul periodo dell’apprendistato longhiano di Pasolini si rimanda comunque a: F. Galluzzi, Pasolini e la pittura, cit., pp. 15-33. 30

31 Si veda il riferimento, segnalato sempre da Galluzzi, sui rapporti tra Contini e Longhi in: G. Contini, Testimonianza per Pier Paolo Pasolini, in: Id., Ultimi esercizi ed elzeviri. Torino, Einaudi, 1989, pp. 389-395.

32

F. Galluzzi, Pasolini e la pittura, cit., p. 16.

33

Ibidem, p. 20.

34 E. Cecchi, Le virtù d’uno stile. “La Fiera letteraria”, 23 gennaio 1955, ora nell’apparato critico a: R. Longhi, Da Cimabue a Morandi. Milano, Mondadori, 19936, pp. XXXII-XXXVII (XXXIII-XXXIV, con il tit.: Stile di Roberto Longhi).

R. Longhi, Proposte per una critica d’arte, in: Id., Critica d’arte e buongoverno. Firenze, Sansoni, 1985, p. 15. 35

36 Come sottolinea sempre Galluzzi, Longhi veniva accolto da Pasolini come maestro in quanto “celebratore della pittura della realtà che considerava la scrittura come strumento di traduzione atto a rispecchiare il ‘tradotto’ nel corpo del proprio testo, strumento privilegiato dell’operazione storiografica”. F. Galluzzi, Pasolini e la pittura, cit., p. 22.

“[...] si trattava, soprattutto, di interpretare l’opera d’arte, fondandosi essenzialmente sulle sue ragioni interne, sulle leggi della sua invenzione e del suo stile [...] L’esempio del Berenson e quello dell’Hildebrand (con la sottigliezza delle sue analisi compositive, e i geniali rilievi sulla dialettica plastica, ecc.) furon certamente fondamentali per il Longhi. Ma bisogna aggiungere che egli estese l’applicazione in nuovi campi, specie ai riguardi della funzione coloristica”; parlando invece degli apprendisti del metodo longhiano, Cecchi, con obiettivo scarto critico, diceva: “E la riprova del successo si effettua facilmente, e anche dove poté sembrare che il Longhi insistesse nei suggerimenti, moltiplicasse le associazioni, l’intrecciare trame di rapporti troppo labili o troppo folte, si vede poi che l’opera accoglie tutto questo, agevolmente, e se ne rischiara. Un’altra prova, men gradevole, esce dal confronto del dettato longhiano, così pingue e tutto cose, con le languidezze degli imitatori. Non si esclude che il Longhi scuota talvolta di tratti un pò bruschi chi legge; dove la espressione verbale è troppo 37

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toccante per un concetto od una impressione subordinati, i quali finiscono, invece, col primeggiare. Per esempio, nella pagina superba, sulla Madonna di Sinigallia: [...] cose di un fantastico da leccarsi i baffi, ma che sviano in qualche modo dal punto, e traggono per cammini che a seguirli si perderebbe di vista Piero e la sua pittura”. E. Cecchi, recensione in “La Fiera letteraria”, 1 luglio 1928, ora in: R. Longhi, Da Cimabue a Morandi, cit., pp. XXV-XXXI (XXVIII-XXIX, con il tit.: Roberto Longhi scrittore). 38

Cfr. Infra, p. 41.

39 G. De Robertis, recensione di “Officina Ferrarese”, 20 dicembre 1956, ora in: R. Longhi, Da Cimabue a Morandi, cit., pp. LIX-LXI (con il tit.: Longhi scrittore). Per una più approfondita disamina dello stile e della critica di Longhi si rimanda altresì al dettagliato saggio di P. V. Mengaldo, Note sul linguaggio critico di Roberto Longhi, in: Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini. Padova, Liviana, 1970, II, pp. 491-531.

In merito alla ‘debolezza’ masaccesca di Pasolini si rimanda a una sua puntuale considerazione, che si colloca altresì già nell’ambito dell’opera cinematografica: “Il pittore che mi ispira figurativamente più di tutti anche come colore direi (per quanto si possa intravedere del colore nel bianco e nero) è Masaccio soprattutto. [...] Anche la fotografia [in Accattone, N.d.R.] vorrei che assomigliasse un pò alle riproduzioni in bianco e nero di Masaccio”. Con Pier Paolo Pasolini. A cura di E. Magrelli. Roma, Bulzoni, 1977, p. 52. 40

41

Le pause di “Mamma Roma”, in: PPP, Mamma Roma, cit., p. 145.

Accanto alla questione del modello masaccesco di Accattone, ritroviamo anche quella, connaturata alle considerazioni di Pasolini sulla tecnica cinematografica, della sacralità; Pasolini, rimandando alla tensione verso una tecnica compendiante la fissità di Masaccio, sottolinea che “non c’è niente di più tecnicamente sacro di una lenta panoramica”. Cfr. Confessioni tecniche, in: PPP, Uccellacci e Uccellini. Milano, Garzanti, 1966, p. 44. 42

Cfr. la recensione di Pasolini a R. Longhi, Da Cimabue a Morandi, Milano, Mondadori, 1973. “Il Tempo”, 18 gennaio 1974, ora in: PPP, Descrizioni di descrizioni. Torino, Einaudi, 1979, pp. 251-252. 43

44 G. P. Brunetta, Longhi e l’Officina cinematografica. In: L’arte di scrivere sull’arte. Roma, Editori Riuniti, 1982, pp. 48-49. In curiosa somiglianza con l’esperienza pasoliniana presso Longhi, Brunetta dice ancora di Barbaro: “[...] da l’impressione del catecumeno che non si sente ancora degno di essere accolto nella cerchia del maestro, ma si accontenta di guardare con attenzione come i ragazzotti descritti da Longhi nel “Battesimo di Cristo” di Piero della Francesca” (p. 50).

45

Ibidem, p. 48.

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46

A. Marchesini, Longhi e Pasolini, cit., p. 4.

47 Longhi fu protagonista di varie e agguerrite riletture critiche, quanto creatore di una discreta teoria di definizioni iconoclaste sopra ad “intoccabili” momenti di storia dell’arte, a partire dalla “boffice” e “gialliccia” Mona Lisa leonardesca; la spinta longhiana alla revisione radicale dell’opera d’arte, compiuta a partire dalla visita, in prossimità fisica con l’opera, si svolge sempre sulla griglia di una scanzonata decostruzione di tesi precedenti e, sovente, sul loro ribaltamento. Valga per tutte la famosa analisi degli “inganni ottici” della giottesca Cappella degli Scrovegni e dei suoi “due vani gotici”, costruita su questo tono: Longhi dopo un volo d’uccello sulle tesi critiche di un secolo, dal Cavalcaselle fino al Toesca, passando per Rintelen e il Weigelt, dice: “Qui è certo il punto più progredito della critica e da esso bisognerà riprendersi ove si voglia intendere il senso rilevante dei due brani di Padova”. Cfr. R. Longhi, Giotto spazioso, “Paragone”, III, n. 31, luglio 1952, pp. 18-24 (20).

F. Galluzzi, Pasolini e la pittura, cit., p. 27. Si rimanda allo stesso per il puntuale approfondimento sulla stagione manierista di Pasolini (pp. 25-33). 48

49

Ibidem, p. 27.

50 Si potrebbe ad esempio richiamare un giudizio di Pietro Citati sulla scrittura pasoliniana, che così definiva, con un occhio alla sua ribadita eversività: “La ricchezza esuberante, persino limacciosa ed eccessiva, della vitalità, che si rivolge da ogni parte, non lascia nulla di intentato, sino al punto di distruggere sé stessa, si unisce - nei suoi libri - con un talento di artista superbamente manierista”. P. Citati, Ritratto di Pasolini, in: Id., Il tè del cappellaio matto. Milano, Mondadori, 1972, p. 224.

51 L’arte di Romanino e il nostro tempo. Brescia, Grafo, 1976. Intervento ad un dibattito tenutosi a Brescia il 7 settembre 1965 in occasione di una mostra su Romanino, ora in: W. SitiS. De Laude, Pier Paolo Pasolini. Saggi sulla letteratura e sull’arte. Milano, Mondadori, 1999, II, pp. 2786-2799 (2794-2795, con il tit.: L’arte di Romanino).

“[...] la lingua di Zigaina è del tipo che si suol definire “particolaristico”: [...] essa espone i propri “particolarismi”, di carattere per definizione conservatore, a contaminazioni e a innovazioni che ne hanno sconvolto la purezza. E infatti tutta la pittura di Zigaina vive sotto il segno della contaminazione: di un pastiche non ironico, ma anzi tremendamente serio [...] si tratta comunque, di una componente, se, nell’operazione, è implicito il pastiche, la sfarzosa, potente contaminatio di un eccezionale manierista novecentesco.”. PPP, [La pittura di Zigaina], inedito del 1955, ora in: W. Siti-S. De Laude, Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., pp. 615-617 (616). Il saggio segue una mostra romana di Zigaina: per l’occasione Pasolini aveva composto il poemetto I campi del Friuli, dedicandolo all’amico pittore. Il componimento comparve in “Officina”, n. 2, luglio 1955 (pp. 63-66) e recuperava tutte le componenti della poesia pasoliniana, tra cui il vivace e variegato cromatismo descrittivo; nei passaggi di dedica si trova: “Felice te, a cui il vento primaverile | sa di vita; se hai scelto un’unica vita | e, 52

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insieme più adulto e giovanile | del tuo amico, sordo all’infinita | stagione di cui così imbevuto vivi | sordo al Qualcosa che ti invita | a ritornare ai tristi, ai sorgivi sogni dell’esistenza” Cfr. PPP, I campi del Friuli, in: “Officina”. Cultura, letteratura e politica negli anni Cinquanta, a cura di G. C. Ferretti. Torino, Einaudi, 1975, pp. 162-165 (163). La ricotta costituisce il quarto segmento di Ro.Go.Pa.G. Ricordiamo che il sibillino titolo deriva dall’accostamento delle prime due lettere dei cognomi dei quattro registi coinvolti (Rossellini, Godard, Pasolini), con l’eccezione dell’ultimo (G=Gregoretti); i primi tre episodi sono: Illibatezza di R. Rossellini, Il nuovo mondo di J. L. Godard e Il pollo ruspante di U. Gregoretti. Il film ricevette un titolo differente dopo la sua uscita (Laviamoci il cervello) in seguito alla vicenda giudiziaria che mise sotto accusa proprio il segmento pasoliniano e per la quale si rimanda alle Note e notizie sui testi de La ricotta (1962-1963) in: Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, cit., II, pp. 3059, 3064-3065. 53

Oltre al celeberrimo passaggio pittorico-coloristico della Scena 6, nell’esprimere il passaggio dal bianco e nero della realtà all’unità discreta della ricostruzione pontormesca totalmente a colori, vediamo il vivace progetto lessicale di Pasolini, innestato su di una sonorità rumorosa e popolana: “Scena 2. Panfete - A STACCO NETTO - abbiamo davanti a noi, non più in bianco e nero, ma a colori, a colori che colpiscono in pieno petto: L’INCORONAZIONE DEL PONTORMO. Il fondo verdino, come l’acqua di uno stagno, i pannolini rosso sangue che tremolano nei lombi bovini della soldataglia bionda”. Cfr. la sceneggiatura di La ricotta in: Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, cit., I, p. 331. 54

Il progetto iniziale contemplava l’Incoronazione di spine del Pontormo presente nella Certosa del Galluzzo di Firenze, poi sostituita dalla Deposizione di Rosso Fiorentino. Cfr. La ricotta (1962-1963), cit., p. 3057. F. Galluzzi, a proposito di questa Incoronazione “non conosciuta tra le opere del pittore”, suggerisce la possibilità di “un ricordo impreciso nella lunetta col Cristo davanti a Pilato alla Certosa del Galluzzo”. Cfr. F. Galluzzi, Pasolini e la pittura, cit., pp. 58-59, n 41. 55

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Ibidem, p. 58.

Ibidem, p. 61. Si potebbe ritrovare un interessante riferimento, a sostegno delle idee pasoliniane di film religioso, nelle considerazioni di Paul Schrader sullo “stile trascendentale”, e in merito al cosiddetto “Eccesso di ricchezza”: “Con l’eccezione di alcune artificiosissime epopee tutte sesso & sabbia ispirate a De Mille, molti di questi film sperano sinceramente di suscitare sentimenti religiosi. [...] Un regista, se vuole dar voce alla dimensione sacra, deve imboccare un’altra strada, eliminando gradualmente la ricchezza e il fondamento terreno su cui si basa. Un confronto si può verificare sole se, al momento dell’evento decisivo, essa ha perso il suo potere. Se il “miracolo” può essere analizzato secondo una qualsiasi prospettiva (umanistica, psicologica o sociale), lo spettatore eviterà di affrontare il trascendente. Rinunciando per una volta al suo potenziale, il cinema può invece dare vita a uno stile che contempli lo scontro, mettendo i mezzi temporali ricchi e i mezzi temporali poveri faccia a faccia in modo che 57

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questi ultimi sembrino migliori”. P. Schrader, Il trascendente nel cinema. Roma, Donzelli, 2002, pp. 140-141. Al sequestro de La ricotta, effettuato durante la proiezione al cinema Corso di Roma del 1 marzo 1963, Pasolini rispose con un promemoria in 21 punti ora riportato in: Le regole di un’illusione. Il cinema, i film. A cura di L. Betti e M. Gulinucci. Roma, Associazione “Fondo Pier Paolo Pasolini”, 1996, pp. 61-64; e in: Osservazioni di Pasolini sulle scene incriminate. “La cosa vista”, n. 2, 1985.

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una postilla. Pasolini e le riviste Un approfondimento, in forma di appendice, sulla maturità dell’opera intellettuale di Pasolini non può non considerare l’esperienza culturale delle riviste, che coincide con il periodo che va dai primi anni Quaranta fino ai tardi Cinquanta, quando il poeta si è ormai da tempo trasferito a Roma. I tre paragrafi che seguono si limitano a un resoconto molto breve sul coinvolgimento di Pasolini nelle avventure intellettuali delle tre riviste fondamentali della sua attività poetica, letteraria e critica: “Il Setaccio”, “Stroligut” e “Officina”.

“Il Setaccio” (1942-1943) All’inizio c’era una rivistina minuscola, che vedeva la luce il 22 giugno 1941 per le mani radunate insieme di un gruppuscolo di amici studenti universitari: la rivistina era “Eredi” e fautori ne erano Pasolini, Francesco Leonetti, Roberto Roversi e Luciano Serra. A muovere da una partecipe febbre letteraria e poetica (che prediligeva, tra gli altri, Ungaretti, Pascoli, Luzi e Sinisgalli), oltre alla frequentazione condivisa di passioni alternative quali il teatro, “Eredi” sigillava l’unione stretta di una cerchia intellettuale marchiata dall’affinità di gusti e maniere di intendere il lavoro culturale all’interno del grigiore dello “Strapaese” fascista e poi dalla posizione centrale della presenza pasoliniana al suo interno. Luciano Serra ricorda che “l’attività trascinatrice di Pasolini era una sollecitazione infinita (Farolfi su “Nuovi Argomenti” ha detto stupendamente che era “maestro dei suoi coetanei” e che “determinava il nascere di cenacoli”), e dentro di lui operavano selezioni ben precise che gli facevano amare o rifiutare un autore” 1. Tuttavia, “Eredi” si configurò principalmente come una breve, seppur appassionata, esperienza aggregativa, più che realmente e concretamente culturale: che gettava però un seme fecondo improntando, con il suo estinguersi (per “disposizioni ministeriali sul consumo della carta”), l’intelaiatura ideale di una nuova rivista, ovvero “Il setaccio”. L’apertura de “Il setaccio”, rivista della G.I.L. bolognese (dunque organo di regime) a un esemplare concilio di giovani intellettuali, nel quadro (a sottolineare gli intenti nascosti dietro l’allusività del suo nome) di un “vaglio delle intelligenze giovanili di ragazzi che, fra i 15 e i 20 anni, già si elevavano dalla massa”, fu operata dal pittore Italo Cinti: il nucleo di “Eredi” aveva però cambiato fisionomia e, accanto a Pasolini viceconsulente e al poeta Giovanni Falzone direttore, restavano, 59

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in veste di redattori, Mario Ricci, Fabio Mauri e Luigi Vecchi; i transfughi rispondevano ai nomi di Leonetti e Roversi. Nel “Setaccio” si conciliano, ancora una volta per Pasolini, passioni vecchie e nuove: la religiosità accanto alla coscienza politica, ad esempio; Serra ricorda che nella rivista bolognese “il cristianesimo percorre le pagine col marxismo” e che su quelle stesse pagine Luigi Vecchi raccontava che il marxismo esisteva prima di Marx ed “esisterà sempre se cerchiamo di dimenticarlo” 2; e, ancora, “Il setaccio” accoglieva la coscienza poetica di Pasolini, che qui si nutriva e cresceva con l’idea della poesia come “arte pura e insegnamento morale” 3 che in Ungaretti ritrovava la sua cifra più insigne. Nella coincidenza, ad esempio, con la pubblicazione delle Poesie a Casarsa, al numero 2 della rivista, Pasolini esplorava (con il Ragionamento sul dolore civile) il concetto poetico di infinito e lo legava alla solitudine delle cose familiari. Al di là dei singoli saggi ed articoli cosa rappresentava per Pasolini, e non solo per lui, l’intrapresa avventura culturale di questa rivista? Mario Ricci risponde, nel suo recupero antologico della rivista, estraendo il primo intervento “programmatico” di Pasolini come esemplificazione di un chiarimento di molti equivoci connaturati alla cifra politica della rivista. Diceva Pasolini: “[...] noi sentiamo che la nostra ricerca ulteriore dovrà svolgersi in solitudine: amici o gruppi di amici non cesseranno mai di esistere, perché non verranno mai meno la simpatia umana e la corrispondenza degli affetti, ma noi consideriamo ormai non solo tramontata, ma remotissima, l’epoca delle riviste, delle correnti, degli ‘ismi’, insomma. [...] Noi non vogliamo avere un nome: o meglio, ciascuno di noi vuole avere il proprio nome. Come non siamo fascisti, se senza mutare il senso della parola possiamo chiamarci italiani, così non vogliamo chiamarci, genericamente, né moderni, né tradizionalisti, se modernità e tradizione non significano altro che viva aderenza alla vita vera” 4.

L’ansia e il puntiglio programmatico pasoliniano di scalfire con la critica e il lavoro culturale il “sistema”, quello dei vertici irregimentati della rivista, quanto della società-cultura fascista impaludata nel provincialismo e nella chiusura a compartimenti stagni del pensiero 5, sono le costanti che caratterizzano questa stagione e che danno il significato più intimo all’esperienza breve-lunga de “Il setaccio” 6. In realtà, in buona parte della vita della rivista, emerge una frammentarietà nell’esecuzione del lavoro critico-editoriale e nella sua disposizione all’interno della successione dei numeri che ne denuncia il generale dilettantismo, quantomeno nella misura di alcuni apporti critici, se non di altri più illustri (quelli pasoliniani in primis). 60

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“Di questa aberrante concezione (separatezza, compartimenti stagni tra le diverse manifestazioni del pensiero e dell’arte) la breve vita de “Il setaccio” è testimonianza tipica, nel senso che, a parte i tributi politici d’obbligo, vi si affrontano problemi economici soltanto per larghe astrazioni e in modo frammentario, mentre tutta l’attenzione e gran parte dei fascicoli centrano i temi artistico-letterari con assiduo e sospetto fervore, mancando tuttavia anche sotto tale profilo chiarezza di scelte ed equilibrio di contenuti”.

E, in merito alla mancata individuabilità di una cifra stabile e coerente della rivista, Ricci prosegue: “La lettura dei saggi dedicati a problemi di estetica, [...] lascia un’impressione di esercizio per certi aspetti fine a sé stesso, per altri imbarazzato a dover uscire da contraddizioni oggettivamente insanabili date le premesse [...] Appare subito [...] il carattere frammentario della ricerca che il gruppo andava operando per via di inclinazioni personali o sfruttando semplici “occasioni” offerte dalla lettura di vari autori” 7.

Unica, vera compattezza (qualitativa) de “Il setaccio” è forse davvero rintracciabile nella presenza pasoliniana e nella traccia personalissima che lasciano i suoi variegati interventi: varietà tematica che, come detto, era una caratteristica sensibile della rivista, ma spesso nella forma del disordine scientifico e metodologico. Le pagine de “Il setaccio” scorrevano sulla prosa, quanto sulle discussioni della “memoria poetica”, sulle arti figurative (compreso il cinema, la cui passione aveva già da qualche tempo occupato Pasolini con le proiezioni del G.U.F. bolognese, nonché il disegno, espresso nella pubblicazione di vari bozzetti tra le pagine o anche sulle copertine di alcuni numeri 8), sul teatro e l’amata letteratura, anche nordamericana (magari il Melville di Billy Budd): e poi, a stendersi uniformemente su tutto, una marcata componente religiosa negli interventi di tutti, non escluso Pasolini, le cui pagine in “quegli anni ’42-’43 erano contrassegnate da tale modo istintivo di accostarsi, direi evangelicamente, alla realtà per leggervi messaggi e simboli di natura religiosa” 9, come ripete Ricci. Ma, per tornare al valore del contributo pasoliniano, la sottigliezza e la raffinatezza precoci dei saggi di quel periodo erano la risorsa di un sistema ermeneutico (lodato da Gianfranco Contini) “in cui strumenti conoscitivi e interpretativi lavoravano senza apparente fatica, scontata in gran parte la lezione scolastica, della quale tuttora, nelle forme scientificamente più serie, egli dimostrava di tener conto, come di un esercizio indispensabile a quella applicazione tecnica o filologica che lo avrebbe impegnato, fin da allora, a tradurre variamente i propri convincimenti” 10. 61

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Il quadro generale de “Il setaccio” restituisce, al di là delle singole e discutibili partecipazioni, un senso ben più prezioso e fecondo, che il richiamato Nazario Sauro Onofri definiva come “piccolo spazio privato per pensare e per parlare in libertà” che, seppur replicando parzialmente un paradossale atteggiamento di borghese chiusura culturale, si rafforzava nella ramificazione dei suoi contatti con un ricco e vivo corollario di riviste, tra cui la “parente” “Architrave”, insieme a testate quali “Prospettive”, “Signum” o il genovese “Barco”; questo a corroborare lo status quo dell’incubazione di una nuova atmosfera culturale giovanile (e non solo, ovviamente), nella triste constatazione, dopo vent’anni di regime, della “caduta di qualsiasi illusione, e di conseguenza la consapevolezza di una pericolosa precarietà ideologica e pratica che, se accettata quale condizione ineluttabile, avrebbe impedito ogni iniziativa di riscatto” 11. La storia de “Il setaccio” e l’identità del suo progetto culturale si rintracciano, comunque, tra le avventurose traversie editoriali di redattori e gerarchi, fonte di dissensi e ambiguità di vario ordine, e le sue peculiarità sorprendentemente militanti, che ne garantirono la non comune durata editoriale. Rivisitata in un contesto particolarmente importante, quello delle radici e dell’evoluzione del discorso critico-ideologico nell’opera pasoliniana, l’esperienza del “Setaccio” si carica del valore di “tappa” rilevantissima all’interno di questo cammino: una prima tappa che andava a sostanziarsi nella maturazione di quelle successive, ovvero la fluida confluenza in “Stroligut”, insieme ai giovani dell’Academiuta di lenga furlana e poi l’impegnata partecipazione a “Officina” negli anni Cinquanta. Ma la vigorosa e lucida premessa del pensiero pasoliniano la ritroviamo già agli albori de “Il setaccio”, nell’articolo-ragionamento I giovani, l’attesa: “Tuttavia quasi spinti da un meccanismo che ci trascende, muoviamo verso il futuro e apriamo le nostre voci, ma chiudendo gli occhi, abbandonandoci, come presaghi della vana fatica e della fine. Che valore avrà la nostra parola? Essa è casta, ansiosa, e, forse, non scade nemmeno a facile testimonianza della nostra presenza. non sarà certo questo che ci potrà sostenere nel cammino della poesia, e nemmeno in quello, più dimesso, della cultura. Così, senza speranze sensibili, incominciamo, quasi rilasciandoci in una distaccata e chiaroveggente ironia, decisi solo nella nostra conscia sofferenza, che, d’altronde, non s’è ancora così chiarita da recarci ad una più alta e limpida assuefazione” 12.

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“Stroligut” (e Academiuta di lenga furlana, 1944-1947) Le incertezze metodologiche e il dilettantismo, l’angusta realtà culturale regolata da una dirigenza soffocante condussero l’esperienza de “Il setaccio” a un esito venato di insoddisfazione e rimpianti per tutto quello che il “progetto” poteva significare per Pasolini e i suoi fedeli e non poté essere fino in fondo, proprio per le limitazioni imposte dalla direzione fascista della G.I.L. Ad un secondo livello, l’occasione rubata de “Il setaccio”, era anche lì a testimoniare di una sostanziale estraneità dei giovani intellettuali al “piccolo spazio privato” di cui parlava Nazario Sauro Onofri, o, meglio ancora, di un irrisolto patrocinio intellettuale sulle idee e le elaborazioni che si erano venute a configurare in quello che poteva essere un ideale laboratorio culturale. In opposta direzione a questo e con uno spunto orgoglioso che ne sancisce la più pura e libera originalità, Pasolini, all’inizio del 1944, coltiva il sogno di una nuova rivista, che incorpori un doppio registro: una rivista di poesia friulana che sia al contempo luogo di esercizio intellettuale ed estetico 13 per lui e i compagni, quanto occasione di lettura per chi il dialetto friulano lo pratica come lingua di vita, ovvero i compaesani senza istruzione. L’impegno pasoliniano in una rivista di questo tipo assecondava il lavoro poetico coltivato già dagli anni dell’adolescenza e portato a maturazione due anni prima con la pubblicazione delle Poesie a Casarsa. È ancora una ristretta cerchia di giovani intellettuali a costituire il nucleo fondativo della nuova rivista: il concilio poetico intorno a Pasolini annovera ora il coetaneo Cesare Bortotto e il più anziano Riccardo Castellani, “filologo e folclorista autodidatta”. Qui più che mai, il sogno intellettuale si tramuta in puntuale e autarchica espressione di un progetto, stimolato dalle suggestioni di due autorità: la prima è il glottologo Graziadio Isaia Ascoli, “che per primo aveva rivendicato l’autonomia linguistica del ladino e delle parlate ladine” 14; la seconda era Gianfranco Contini (già ricordato come il più importante maestro pasoliniano dopo Longhi) che andava a battezzare questa nuova poetica, cuore filologico e stilistico della futura rivista, con il nome di “felibrismo friulano” 15. La nuova poetica contemplava, in sintesi, il rifiuto della letteratura vernacolare friulana. Restava, tassello non meno importante nella definizione del carattere di una rivista, il nome; e la proposta arriva da Castellani: “Stroligut” 16. La somiglianza con un’altra, già nota e importante, rivista friulana rientra però nell’intento individualistico e di rottura che la neonata “Stroligut” vuole marcare nel suo atto fondativo:

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“A Udine la Società Filologica Friulana, centro delle attività culturali provinciali, pubblica ogni anno l’almanacco “Strolic furlan”; quello casarsese diventando “Stroligut” non punta tanto su una condizione d’inferiorità bensì su una dichiarata differenziazione nei confronti della cultura ufficiale udinese. E per meglio caratterizzare le origini periferiche nel mondo friulano della rivista nascente, Bortotto propone il sottotitolo “di cà da l’aga”, cioè al di qua del Tagliamento chiamato a fungere di confine tra due ambienti culturali [...] Il fascicoletto esce nell’aprile del ’44 e si apre con uno scritto teorico di Pasolini intitolato Dialetto, lingua e stile, una sorta di parafrasi della poetica del felibrismo semplificata ad uso dei destinatari casarsesi” 17.

Se “Il setaccio” era stato la cornice di un equilibrismo tra individualità e novità del lavoro critico e imposizioni dall’alto, “Stroligut” si colloca in un periodo ancora più cupo e pericoloso, tra la fine del ’44 e gli inizi del ’45, che va a sovrapporsi, per di più, con l’evento tragico della morte del fratello di Pasolini, Guido, tra le file dei partigiani della Carnia 18. Contemporaneamente, le riunioni dei “felibristi” (come li definiva Contini) conducono alla fondazione, nel febbraio ’45, dell’Academiuta di lenga furlana 19: “Il primo “Stroligut” postbellico esce nell’agosto del ’45 [...] Lo scritto d’apertura annuncia la nascita dell’Academiuta intestata a Guido Pasolini morto nel febbraio precedente. Il fascicolo porta il numero 1 poiché con l’avvento dell’Academiuta si pensa di dover riproporre ex novo e con diversi approfondimenti i temi della nuova poetica. Seguono alcune regole d’ortografia che si suppone possano caratterizzare meglio l’originalità arcaica del friulano casarsese” 20.

La creazione dell’Academiuta è la sottolineatura del cammino innovatore seguito dallo “Stroligut” e, congiuntamente, tribuna da cui Pasolini e gli altri scuotono la tradizione friulana dell’”immoto mercato udinese”, nel solco di quel ribadito tentativo “di distruggere la facile, stucchevole poetica vernacolare, con le sue fissazioni ben note: descrittivismo, cromatismo, bozzettismo, dizionari smo”21. Con il numero dell’agosto 1945, inoltre, la rivista perde la seconda parte del titolo (“di cà da l’aga”) per conservare il solo “Stroligut” e, dopo il n. 2 dell’aprile 1946, lo muta interamente trasformandosi in “Quaderno romanzo” che, nell’uscita del giugno 1947, sfoggia però il numero 3, conservando così la sequenza in continuazione con lo “Stroligut” originale 22; novità radicale, in questi che saranno gli ultimi due numeri della rivistina dell’Academiuta friulana, l’inclusione della traduzione del testo poetico a pié di pagina. Mentre invece, sul versante “militante”, nel “Quaderno romanzo” n. 3 conti64

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nua la disputa infuocata con gli zoruttiani udinesi 23, condita da un dibattito sul “federalismo e l’autonomia regionale friulana”, chiusure eccellenti di un’esperienza culturale importantissima per Pasolini, che va così a mettersi un passo appena oltre il confine tra dilettantismo e maturità. Dentro al lavoro della rivista c’è anche la scoperta continua di nuovi talenti poetici: tra questi un medico goriziano, Franco De Gironcoli, nel quale “Pasolini spera di aver trovato il partner ideale di una medesima ricerca linguistica per consolidare quel rinnovamento poetico che gli sta tanto a cuore”; e Pasolini gli scrive: “La sua è una voce che mi rassicura, l’unica in tutto il Friuli [...] Io continuo a sperare di far nascere in Friuli una corrente poetica viva, moderna, non vernacola; lei in questo mi è il più vicino” 24. Con la chiusura di “Stroligut” - i cui fascicoli, come ricorda nostalgicamente Nico Naldini, erano smerciati in giro per il Friuli da Pasolini e i compagni e “nelle piazze dei paesi attraversati improvvisando uno strillonaggio mai prima udito” - si comincia a costruire il seguito della carriera intellettuale di Pasolini: quella che lo vede passare al ruolo di critico (della poesia e non solo), veste nella quale lo si ritroverà un decennio dopo, sulle colonne bolognesi di “Officina”.

“Officina” (1955-1958) Il numero uno del “fascicolo bimestrale di poesia”, come recitava il retro di copertina di “Officina”, vede la luce nel mese di maggio 1955 25. La rivista ha radici interamente bolognesi (la Bologna “paterna” di Pasolini, la grande città della formazione intellettuale, ma anche dei dolci ricordi adolescenziali), a partire dal direttivo, costituito, oltreché da Pasolini, dai sodali Roberto Roversi e Francesco Leonetti, fino all’amministrazione finanziaria, affidata alla libreria antiquaria Palmaverde, di proprietà di Roversi 26. L’ormai abituale e immutata fisionomia del nucleo direttivo trova le sue premesse più remote nel gruppo consolidatosi quasi vent’anni prima al Liceo Galvani e che, dopo i trasferimenti pasoliniani in Friuli prima e a Roma poi (gennaio 1950), si ricompatta nella prima metà degli anni Cinquanta riprendendo a “incontrarsi con una certa frequenza a Bologna, in casa di Roversi, approfittando anche dei viaggi di Pasolini a Milano, dal suo editore Garzanti” 27. La vera questione culturale di “Officina” non risiede però tanto nell’ideale maturazione delle premesse giovanili del gruppo di “Eredi”, quanto nella sua “ricchezza problematica” e nell’”eclettismo”, che derivano dall’apertura programmatica a voci di varia estrazione intellettuale e identità politico-ideologica: tra i più insigni ospiti di “Officina” stanno i nomi di Scalia (presentato da 65

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Roversi), Fortini e Romanò, acquisizione pasoliniana. Questa politica aperta e aggregativa, però, da fertile e promettente premessa si trasforma in un’intossicazione potenzialmente fatale: “[...] l’acuirsi di divergenze e contraddizioni (ma pure all’interno di alcuni filoni comuni) che - presenti fin dall’inizio nello stesso gruppo dei sei - ne provocheranno alla fine la crisi. Già le cooptazioni citate, come pure gli antecedenti biografico-culturali di quelli che saranno i sei redattori della nuova serie, danno un quadro di tendenze e personalità e convergenze assai diverse tra loro [...] “Officina”, in sostanza, finirà per oscillare tra quello sforzo di organizzarsi come gruppo culturale, e una costante tendenza alla rivista antologica e al sodalizio letterario tradizionale: una contraddizione, questa, ricorrente un pò in tutti i suoi membri” 28.

Anche se la presenza di Pasolini è, una volta di più, l’ago della bilancia anche dell’operazione culturale di “Officina” e ciò che condiziona maggiormente il taglio critico e i gusti della rivista, la composita presenza intellettuale citata presiede alla definizione delle peculiarità della rivista: in particolare, se il duo Leonetti-Roversi, con l’impostazione poetico-narrativa dei loro interessi culturali - nonché delle loro professioni quotidiane, il primo specialista di manoscritti antichi alla Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, il secondo titolare di una libreria antiquaria - condiziona la generale letterarietà di “Officina”, nella coppia Scalia-Fortini ne ritroviamo la marcata polarità politica di sinistra. Ma ugualmente, è da sottolineare la natura elitaria di “Officina”, “rivista di letterati sodali, finanziata da uno di loro, con una gestione tipicamente preindustriale e senza nessuna propensione a più vasti collegamenti di consumo politico-culturale o di lettura” 29, causa questa della successiva conclusione della prima serie, con il passaggio, per la seconda, all’amministrazione professionale di Bompiani 30. La militanza di “Officina” è dunque di natura più specificamente idealisticoletteraria, localizzandosi in un “antinovecentismo (antidecadentismo) di ispirazione storicistico-idealistica che, se ha certamente in Romanò il suo rappresentante emblematico, permea in diversa misura un pò tutta la rivista” e caratterizzandosi come un discorso che è più “revisione storica retrospettiva (al limite, accademica), che non come battaglia critica attuale” 31. È una questione comunque votata alla ricerca dell’alternativa culturale (“mediazione necessaria tra poesia e realtà”) quella che investe l’attività dei vari Leonetti, Scalia e Romanò: la terza via pasoliniana è, ancora una volta, quella più complessivamente problematica, se non quella di maggior densità innovativa, che ritroviamo ad esempio nel suo Neosperimentalismo: alcune prese di posizio66

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ne del Pasolini del periodo “officiniano” si riverbereranno, di lì a poco, nella pubblicazione di Passione e ideologia, nella misura della “esigenza di una critica consapevolezza dei retaggi ermetico-novecenteschi e borghesi originari” che sta dentro alla sua polemica antinovecentesca e all’”identità fascismo-novecentismo” 32. La ricchezza della storia di “Officina” e, dentro a essa, il valore del segno lasciato da Pasolini, costringe al compendio delle molte esperienze di altissima qualità culturale dei suoi vari e illustri contributori: dalle Prospettive alle Osservazioni pasoliniane, passando attraverso gli Allegati di Leonetti sulla poesia “impoetica” e il suo Decadentismo; il 1956, con la critica alla crisi successiva al “Ventesimo Congresso” di Una polemica in versi e la replica “scientifica” di Scalia nel suo Per uno studio, a cui Fortini si aggiungeva con un suo Allegato sottolineando la debolezza fondamentale di “Officina”, “riconducibile ai limiti della sua istanza gramsciana e marxista” nella convinzione che “Se una cosa era mancata nella elaborazione complessiva della rivista, era stata proprio quella ‘critica di Marx a Hegel’” 33; e, a seguire la crisi, sempre in quel 1956, La letteratura di partito di Roversi e, soprattutto, “Marxisants”, riflessione sul neocapitalismo ingombrata dalle “immagini di un capitalismo tanto più agguerrito e “duro” (e “coraggioso”) quanto più “illuminato”, e di un marxismo alla ricerca di una “rigenerazione’” 34. Proprio nel riflusso di quest’ultima e sentita crisi si colloca la riflessione privata de La religione del mio tempo: che Pasolini, in un numero di “Vie nuove” del 16 novembre 1961, indicava come espressione della “crisi degli anni Sessanta [...] La sirena neo-capitalistica da una parte, la desistenza rivoluzionaria dall’altra: e il vuoto, il terribile vuoto esistenziale che ne consegue” 35. Quel “capitalismo tanto più agguerrito e duro” che metteva in Pasolini il seme per le riflessioni, altrettanto pessimistiche, degli anni Settanta, gli ispirava ironicamente il contrattacco poetico della dedica finale ai compagni di “Officina” (contenuta sempre nella Religione del mio tempo), dopo il suo distacco 36, là dove, ammonendo ad essere “donchisciotteschi e duri”, riassumeva in versi la storia culturale della rivista: “Ma anche il tempo della vita è pensare, non vivere | e poiché il pensare è ora senza metodo e verbo [...] aggrediamo la nuova lingua | che ancora non conosciamo, che dobbiamo tentare” 37. Dal “vuoto” alla resistenza e, inevitabilmente, ancora nel lavoro intellettuale e nella religiosità della dedizione assoluta a nuove officine culturali: anche la “nuova lingua” che ancora Pasolini non conosceva, la “lingua scritta della realtà” che sarebbe arrivata di lì a poco, al primo incontro con la pratica del cinema.

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Note

L. Serra, “Eredi”, “Setaccio”, “Stroligut”, in: PPP, Lettere agli amici (1941-1945), cit., pp. X-XI. 1

2

Ibidem, p. XV.

3

Ibidem, p. XVI.

Cfr. PPP, I giovani, l’attesa. “Il setaccio”, A. III, novembre 1942, n. 1, pp. 3-4; ora in: Pasolini e “Il setaccio. 1942/1943”. A cura di M. Ricci. Bologna, Cappelli, 1977, pp. 49-50. 4

Nico Naldini indica in un famoso intervento di Pasolini la dichiarazione più esplicita di quelle che “Il setaccio” considera le sue finalità più importanti, all’interno del lavoro intellettuale promosso dalla rivista: “Ultimo discorso sugli intellettuali, apparso sul penultimo numero, è, come l’articolo sul convegno di Weimar, una difesa dell’indipendenza della cultura contro le manipolazioni propagandistiche della politica: “Noi vorremmo che finalmente questa nostra posizione di intellettuali venisse considerata alla stregua di un mestiere, e, come tale rispettata. E non parlo solo di rispettare negli intellettuali l’aspetto e l’opera più utile, cioè il loro lavoro di crezione, di poesia, ma anche la fatica più umile - e, si badi, niente affatto gratuita - di letteratura””. PPP, Un paese di temporali e di primule. A cura di N. Naldini. Parma, Guanda, 1993, p. 42. 5

6 Ricordiamo che “Il setaccio” vede la luce con il primo numero del gennaio 1941 e termina nel giugno 1943. Esistenza relativamente lunga, come sottolinea anche Ricci, se considerata in relazione alle spinte e agli addomesticamenti, in certi casi anche violenti, della direzione fascista della G.I.L., di cui la rivista era organo ufficiale.

7

Pasolini e “Il setaccio. 1942/1943”, cit., pp. 9-11.

8

Si veda a tal proposito: M. Ricci, Iconografia del “Setaccio”, in Ibidem, p. 143 e ss.

9

Ibidem, p. 28.

10

Ibidem, p. 12.

Ibidem, p. 17. Si rimanda, per un approfondimento più esaustivo, all’introduzione di M. Ricci, Testimonianza su Pasolini e “Il setaccio”, in: Pasolini e “Il setaccio. 1942/1943”, cit., pp. 7-27. 11

12

PPP, I giovani, l’attesa, cit., p. 49.

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Anche l’esperienza dello “Stroligut” è utile a rintracciare la passione figurativa che segue la storia intellettuale di Pasolini, qui in relazione al simbolino inciso che faceva capolino dai frontespizi della rivista, ovvero una riproduzione delle foglie della dolcetta (o lattughina) di cui, come ricorda Luciano Serra, Pasolini fa menzione nel poemetto I campi del Friuli (“Le foglie della dolcetta che tappezza tiepida | l’argine sugli arazzi d’oro dei vigneti”). Cfr. L. Serra, “Eredi”, “Setaccio”, “Stroligut”, cit., p. XXII. 13

Pier Paolo Pasolini. L’Academiuta friulana e le sue riviste. A cura di N. Naldini. Vicenza, Neri Pozza, 1994, p. 9. 14

15 Il felibrismo era un movimento letterario nato nel 1854 ad Avignone che, prendendo le mosse dalle idee del movimento romantico in relazione alle identità culturali locali, andava a valorizzare la lingua occitana, salvaguardando l’identità culturale provenzale.

Per un chiarimento sul significato del nome, si rimanda ad alcune considerazioni di Serra: “Nel suo libretto un pò vago, il Mannino opina che Stroligut significhi qualcosa come piccolo stregone o indovino, e invece vale Almanacchetto, Lunarietto: senza le indicazioni astronomiche e delle fiere paesane come nello “Strolic”; vorrei aggiungere e sottolineare che Pasolini volle dargli tale nome per identificare il simbolo famigliare, domestico di una comunità ben precisata nella quale si attuano i destini creativi individuali”. L. Serra, “Eredi”, “Setaccio, “Stroligut”, cit., p. XX. 16

17

Ibidem, p. 10.

La morte di Guido Pasolini, il partigiano Ermes che compare nella poesia pasoliniana di questo periodo, segna interamente il primo numero dello “Stroligut” successivo alla fine della guerra, quello dell’agosto 1945, la cui sezione di poesia inizia proprio con la composizione dei tre Corus in muart di Guido (Cori in morte di Guido). 18

Quasi contemporanea alla fondazione dell’Academiuta è la costituzione dell’Associazione per l’autonomia friulana, per mano dell’avvocato Tiziano Tessitori (29 luglio 1945) “cui Pasolini aderisce personalmente il 30 ottobre e sottoscrive il 16 dicembre per il gruppo dell’Academiuta. Il motto dell’Associazione, che intende riassumere la volontà della gente al di sopra delle divisioni dei partiti, è “Di bessoi” (da soli), e lo slogan più corrente, anche se non inedito, è “il Friuli ai friulani. [...] Anche per Pasolini, il Friuli deve riaffermare la sua individualità innanzitutto nella lingua, “intesa come il riassunto, lo specchio discretissimo dell’anima di un popolo”, poi nelle usanze e in un’economia nettamente differenziata da quella veneta”. Cfr. PPP, Un paese di temporali e di primule, cit., pp. 92-93. 19

20

Pier Paolo Pasolini. L’Academiuta friulana e le sue riviste, cit., p. 20.

21

Ibidem, p. 25.

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Si veda, per un breve ma esaustivo quadro d’insieme del cammino editoriale dello “Stroligut”, la Nota di Gianfranco Folena, cfr. in Ibidem, p. 29. 22

In una Tranquilla polemica sullo Zorutti, Pasolini parlava della “irrespirabile tradizione zoruttiana” ed elencava alcuni punti fermi della sua personale battaglia: “Ma ecco qualche ragione teorica per una eventuale polemica contro la “tradizione” friulana: bisogna diffondere la nozione dell’autonomia dell’arte come risultato storico di un processo che si origina nella filosofia kantiana e, attraverso i laghisti inglesi, Poe, Baudelaire, produce in Francia la poesia pura, da noi la nota formula crociana; bisogna poi dimostrare quanto la poesia debba alla coscienza, non in un senso morale di questa parola, ma in un senso critico; bisogna, dopo queste premesse generali, ritornare all’Ascoli, ribadire la sua teoria della lingua ladina; bisogna indicare il Friulano come lingua virtuale, in cui è possibile ascoltare le sillabe ancora vergini, cioè piene della loro equivalenza al reale”. PPP, Un paese di temporali e di primule, cit., p. 215.

23

24

Ibidem, p. 25.

25 Il titolo scelto per la nuova rivista gioca, in primo luogo, sul riecheggiamento con l’“Officina ferrarese” di Roberto Longhi, ovvio riferimento culturale pasoliniano, anche se è da sottolineare che lo stesso Pasolini aveva inizialmente avanzato anche la proposta di “Laboratorio”, nella direzione di un suggerito sperimentalismo. Come ricorda Ferretti “la rivista era così intesa sia da parte di Roversi - come insegna del “luogo in cui si batte il ferro, si lavora e ci si sporca, si discute insomma di poesia, ma non nel modo ontologico novecentesco”; sia - da parte di Scalia - come emblema di serietà morale, rigore bibliografico e filologico, artigianato preindustriale (riconducibile poi, per vie sottili, al mito preindustriale presente in modo diverso nelle poesie di Pasolini e Roversi), oltre che di frugalità e ascetismo (tipica a questo proposito la carta da pacchi o da scatola per scarpe della copertina, nella quale c’è tutto Roversi)”. “Officina”. Cultura, letteratura e politica negli anni Cinquanta. cit., p. 8.

Allo stesso Roversi è riconducibile la scelta del simbolino di “Officina” e ancora, come in “Stroligut”, il coinvolgimento nelle riviste rimpingua la lunga storia tra Pasolini e il disegno: “È significativo, per esempio, che la raffigurazione dell’istanza agonistica sia affidata - timidamente - a un disegnino posto sul retro di copertina e tratto da un antico graffito: un arciere dipinto in rosso nella cava di Valltorta presso Albocacer (Castellòn), scelto da Roversi come “simbolo dell’uomo che è all’attacco, che tende””. Ivi. 26

I viaggi di Pasolini a Milano presso Garzanti richiamano l’attenzione sul periodo eccezionale in cui sta entrando proprio in quel 1955 nel quale, oltre alla nascita di “Officina”, da alle stampe Ragazzi di vita: Ferretti sottolinea che “Anche professionalmente il 1955 segna per lui il passaggio dal precario insegnamento in una scuola media privata di Ciampino al successo letterario e alle sceneggiature cinematografiche. Pasolini pubblica già presso un editore come Garzanti, e su riviste di livello nazionale. Infatti era stato proprio in seguito alla comparsa di un capitolo di Ragazzi di vita su “Paragone” nel 1953, che - su segnalazione di Bertolucci 27

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Garzanti aveva corrisposto a Pasolini un assegno mensile come anticipo sul romanzo”. Ibidem, pp. 4-5. 28

Ibidem, p. 5.

29

Ibidem, p. 7.

Interessante e tristemente significativo il riferimento fatto da Ferretti a un consuntivo del febbraio 1957, inviato da Leonetti a Pasolini e Romanò: “vendite nulle, rese quasi totali” (Archivio Romanò). 30

31

“Officina”. Cultura, letteratura e politica negli anni Cinquanta, cit., p. 24.

Si veda come esempio un breve passaggio di Pasolini sulla “chiusura” del verso di Caproni: “non intendiamo dire chiusura come trobar clus, come sedimento ermetico (e del resto, benvenuto l’ermetismo, se oltre il proprio limite cronologico, ha aperto la strada a poesie e tecniche come questa di Caproni) ma “chiusura metrica” [...]”. PPP, Caproni, in: Id., Passione e ideologia. Milano, Garzanti, 1980, p. 424. 32

33

“Officina”. Cultura, letteratura e politica negli anni Cinquanta, cit., p. 81.

34

Ibidem, p. 102.

35

Ibidem, pp. 104-105.

36 L’attività di Pasolini nell’ambito delle riviste culturali non si esaurisce qui, ma prosegue nella condirezione (insieme ad Alberto Moravia) di “Nuovi Argomenti”, che in questa sede non includiamo, considerandola come esperienza di carattere differente dalle tre approfondite; a chiarire la natura del coinvolgimento di Pasolini nella rivista romana vengono in aiuto le dichiarazioni rivelatorie dell’amico Franco Fortini: “C’è una distanza molto grande con il gruppo, anche di potere, costituito a Roma da Moravia, la Morante, Pasolini e i loro amici. Mi sentivo molto lontano, come di chi è ormai in un’altra dimensione [...] I libri che noi leggevamo non erano quelli che leggevano lui e i suoi amici romani. A farla breve: Moravia era, per noi, quello che quindici anni più tardi si sarebbe chiamato un membro della nomenklatura. E non ero lontano dal considerarlo - naturalmente, esagero - un ‘corruttore’ di Pasolini”. F. Fortini, Attraverso Pasolini, cit., pp. 127-128.

PPP, Ai redattori di “Officina”, in: Id., La religione del mio tempo. Milano, Garzanti, 1963, p. 122.

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Parte seconda - Il Mistero

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Man Ray, Ritratto immaginario di D.A.F. de Sade, 1938, olio su tela, Houston, Menil Collection

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Capitolo secondo PASOLINI, SAdE E LE ARtI

La “fulgurazione” e il pastiche Quali sono gli effetti di un confronto artistico e dogmatico come quello tra Pasolini, Man Ray e un ipotetico Andy Warhol? Il primo effetto è quello di un incontro che reitera la naturale inclinazione pasoliniana a far fiorire sul metodo dell’artista la disamina socio-politica degli esiti di quel metodo: in Pasolini Romanino e Warhol si toccano, dunque, se ben ricordiamo il già citato e famoso dibattito sul pittore nel convegno del 1965 con Renato Guttuso. Parlando del suo imminente Salò a Man Ray, Pasolini si meravigliava e si interrogava sull’incomprensione del grande artista della natura intima del film, ovvero la collocazione di Sade nel 1945 e in un luogo dal nome sibillino come Salò 1, capitale di una repubblica fascista sconosciuta al pittore. Da qui Pasolini ripartiva con una domanda “un po’ decorativa”, con la quale, semplicemente, si chiedeva: “Andy Warhol mi avrebbe capito meglio?”. E proseguiva: “La storia per Warhol può essere divisa? Può avere un momento in cui un suo modo di essere finisce e ne comincia un altro? [...] Può scorrere una linea divisoria tra gli uomini? E in particolare nelle loro coscienze? C’è qualcosa che possa incrinare il “tutto unico” che la mente dissacratrice dell’artista - per puro gioco mette in discussione totalmente - deride o adora, venera o vanifica? Il fascismo può spezzare qualcosa in quel “tutto unico”? O, al contrario, una rivoluzione marxista può, prima, separarlo attraverso quella opposizione fatale e totale che è la lotta di classe, e poi trasformarlo fino a farlo sparire?” 2.

Attraverso l’accenno ad una sottile teoria culturale di contrapposizione Europa-Stati Uniti (“Un messaggio che dall’Europa giunga in America implica tutte queste divisioni [...] Al contrario un messaggio che dall’America giunga in Europa implica unitarietà, omogeneità, compattezza”) Pasolini giunge a produrre il secondo effetto dell’incontro fantasticato con Warhol: ribadire gioiosamente e con mascherata civetteria l’antica passione per il pastiche. L’attenzione di Pasolini per le serigrafie di Warhol volgeva il lavoro dell’artista americano in una pratica a suo modo manierista:

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“L’impressione è di essere di fronte a un affresco ravennate rappresentante figure isocefale, tutte, s’intende, frontali. Iterate al punto da perdere la propria identità e di essere riconoscibili, come i gemelli, dal colore del loro vestito. L’abside della cattedrale che Warhol costruisce e poi getta al vento disperdendola sui tanti ritagli delle figure isocefale e iterate, è in effetti bizantina” 3.

Lettura che faceva germogliare, come anticipato, una teoria anche sociale, idonea ad associare la reiterazione warholiana al “Modello” della società americana dell’epoca, la cui qualità di vita per Pasolini era “l’equivalente della sacralità autoritaria della pittura ufficiale cristiana delle origini”. Torniamo brevemente a Longhi e, con lui, al principio della passione figurativa pasoliniana, ovvero al periodo della “fulgurazione pittorica” universitaria: in Longhi, che, come ricordava Gianfranco Contini in un suo già citato articolo del 1955 4, possedeva grandi qualità di pasticheur, Pasolini ritrovava e conciliava la sua passione giovanile per il pastiche e per la contaminazione. A confermare questo entrano in gioco le sottolineature fatte da Giuseppe Zigaina, pittore e intimo amico di Pasolini nella fase pittorica giovanile e non solo, anch’egli votato alla pratica del pastiche, come ricorda a sua volta Pasolini in un altro articolo già citato 5, quando colloca l’utilizzo pasoliniano del termine “pastiche” negli esordi come critico d’arte su “La Libertà” di Udine e sul “Mattino del Popolo” di Venezia, ovvero nel biennio 1946-’47: “La vera e necessaria novità, [...] consisterebbe nella vera e propria tecnica musicale [...] Apporterei delle nuove note ‘stonate’ e per indicarle dovrei inventare dei nuovi segni. [...] farei un pastiche fantastico: la scala di Debussy, la scala dodecafonica, insieme alle norme più accademiche e formali” 6.

Sempre Zigaina espone però l’importanza dell’inclinazione contaminatrice del gusto pasoliniano all’interno di un più generale contesto che, si guardi bene, esula dal pur importante contributo della “fulgurazione” iniettata dalle lezioni universitarie longhiane. Dice il pittore: “Ciò che va precisato, a questo proposito, è che quella fulgurazione pittorica ha riguardato sempre e soltanto la sua cultura figurativa; essendo la naturalità pittorica di Pasolini una qualità nativa, quella che si dice un’autentica vocazione. La vocazione per la pittura che egli ha avuto nascendo e l’amore che è cresciuto in lui per Masaccio - ascoltando Longhi - sono si in fatale relazione, ma restano sempre due connotati ben distinti della sua opera. Ad esempio: la citazione del Pontormo ne La ricotta è dovuta semplicemente al suo amore per i manieristi.

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Mentre lo sfarfallio del sole in macchina, in Edipo Re, o è una preziosità pittorica, o è il tipico sfregio espressionista”.

E, identificando la “naturalità” dell’istinto pittorico di Pasolini, conclude: “Perché da un lato, e in quanto parte della sua natura, la naturalità pittorica di Pasolini si rivela semplicemente insopprimibile; dall’altro la sua cultura figurativa [...] è responsabile, talvolta, del suo barocchismo, proprio perché sovrapposta alla natura del poeta” 7.

A dare la quadratura alle velleità contaminatrici della pittura di Pasolini, il pittore Zigaina chiama in causa quella parte fondamentale dell’opera pasoliniana che è il cinema, stabilendo in maniera inequivocabile che, con la realizzazione di Accattone “La componente più importante della sua tecnica espressiva, la contaminazione, sembrò trovare, proprio nel montaggio cinematografico, il suo procedimento analogico e soprattutto la sua “necessarietà” stilistica; [...] Pasolini [...] ha quindi sicuramente intuito, dopo le prime esperienze, che il montaggio cinematografico poteva costituire la “necessaria” esaltazione della sua tecnica espressiva della contaminazione” 8.

Partiti da Warhol (nonché da Man Ray) vi ritorniamo, intanto, per ritrovarvi l’affinità tra le serigrafie dell’artista americano e quella composita tecnica dei disegni pasoliniani in cui Zigaina scopre il coté magico-esorcistico dell’alchimia (“di cui il “pastiche” pasoliniano adombra in qualche modo la mescolanza dei materiali”). Nell’occasione dell’analisi dei Travestiti di Warhol, ripetuti e al contempo “assorbiti nell’unicità della Persona che li prefigura, accampandosi accanto ad altre Persone archetipe nel cielo dell’Entropia americana”, Pasolini descrive l’accurato procedimento disposto su due strati di tecniche, ovvero: a) la fotografia dei soggetti; b) la colorazione dell’ingrandimento. Queste “due applicazioni applicate una sull’altra”, che rispondono tanto ad un impulso pittorico quanto alla disciplina dell’affiche e del ritaglio incollato, schiudono in definitiva un progetto manierista e di contaminazione, in cui “le forme del ritaglio incollato giocano con le forme realistiche della fotografia” e il cui esito sarà il pastiche di un richiamo “ai cartelli pubblicitari e alle affiches forma listiche, oltre che a dettagli di pittura fauve”9. Muovendo da un confronto, dunque, artistico e dogmatico di Pasolini alle 77

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soglie della morte e dell’uscita dell’opera che sigla il termine della sua avventura intellettuale cinematografica, con un artista-intellettuale che, per alcuni aspetti, costituisce l’analogia pasoliniana nella cultura americana dei Sessanta e dei Settanta, si può trovare una delle chiavi per declinare un confronto tra Europa e America (e oltre) in materia di recepimento del messaggio di Salò: l’interrogativo iniziale di Pasolini sulla possibilità che Warhol avesse potuto capire meglio di Man Ray il pastiche che era il progetto di Salò (in nome di una comune e orgogliosa appartenenza ad una prassi artistica, quella della contaminazione) riceve una risposta nella conclusione che Pasolini stesso offre: “Il messaggio di Warhol per un intellettuale europeo è una unità sclerotica dell’universo, in cui l’unica libertà è quella dell’artista, che, sostanzialmente disprezzandolo, gioca con esso” 10.

E poi, nel valore della “iterazione ossessiva, l’Ossessione” delle varianti di Warhol, una somiglianza non troppo oziosa con il funebre Mistero di Salò.

La pittura di Pasolini. Il pastiche e l’alchimia

Diceva Roberto Longhi in un suo brano critico all’inizio degli anni Quaranta: “Giù le mani dall’arte figurativa, che è cosa seria e da meritare tanto rispetto quanto è quello che noi riserbiamo alla poesia” 11. Il paragone longhiano sembrerebbe un curioso, ennesimo incrocio tra i due uomini d’arte e sicuramente è materia di un confronto che, al di là dell’ossequio di Longhi per l’arte prediletta da Pasolini, rimanda alla contingenza di un’affinità di gusti estetici tra allievo e maestro che fu il collante di un affetto tra i due durato per le loro intere vite, fino alla morte. Accostare, poi, le confessioni di Pasolini, contenute nella Religione del mio tempo, su quella che per lui costituiva la raccolta ideale alla vera pinacoteca longhiana della fiorentina villa “Il Tasso” è questione che riguarda la semplice constatazione della limpidissima somiglianza di due ideali estetici. Pasolini dice: “[...] accanto al mio Zigaina, vorrei un bel Morandi, un Mafai del ’40, un De Pisis, un piccolo Rosai, un gran Guttuso”: dichiarazione dalla quale Duccio Trombadori parte per “collocare il gusto del poeta in quel preciso crinale espressivo che vede la pittura italiana, tra il ’30 e il ’40, passare dalla levigatezza tonale, o pure neo-primitiva,

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alle accensioni fantastiche ed espressioniste di quel pronunciato “bisogno di realtà” che anticipava la tensione artistica del secondo dopoguerra; nel mito e nelle speranze di un mondo che si voleva “post-borghese” 12.

Dal canto suo, Longhi definiva, con sospettosa modestia, tra la metà dei ’40 e la fine dei ’50, “La mia piccola raccolta” o “La mia modesta raccolta” 13 una collezione che lasciava stupefatti non pochi tra amici e critici che visitavano in quegli anni il ritiro fiorentino dello storico dell’arte; e così, a esplorarla, quella galleria lascia brillare in superficie tutte le somiglianze con l’ideale e sognata quadreria pasoliniana: “Ecco gli antichi pittori di Bologna (ma anche i moderni, come l’argenteo Reni tardo), ecco Caravaggio e i solenni esemplari di caravaggeschi romani, napoletani, fiamminghi (lo stupendo Valentin non era ancora comparso), i lombardi e, qua e là, Morandi, Carrà e De Pisis”.

Senza contare, oltre alle passioni novecentesche per i tre coetanei menzionati, quelle più classiche e profonde: “C’erano poi, è noto, quadri e pittori per i quali Longhi, che li possedeva e li aveva attorno, provava un sentimento che dovremmo collocare in una zona speciale della sua sfera affettiva [...] Al centro - direi nel cuore - di quella sfera c’era Caravaggio, del cui essere nel mondo Longhi, maestro di memorabile concretezza storica, parla anche - caso, credo, unico - quasi assimilandolo a una passio” 14.

A questo secondo livello, un ulteriore parallelo Pasolini-Longhi sembra inevitabile 15, ovviamente tenendo in considerazione quella percentuale di invaghimento caravaggesco che confluisce in Pasolini nell’incontro con le folgoranti lezioni universitarie bolognesi del maestro. Ugualmente, il trio Carrà, Morandi e De Pisis 16 rappresenta l’aggancio di un giovane Pasolini, immerso nella foga dei laboratori culturali delle riviste friulane e bolognesi, con il “bisogno di realtà” di quei primi anni Quaranta, a cui Longhi faceva eco indicando i tre pittori come compagni di una condivisa volontà di agire “per i fatti del giorno” 17, nell’ambito dell’eccitante periodo dell’Avanguardia d’inizio Novecento: per Pasolini quei tre pittori rappresentano, oltre ad un modello ideologico, anche l’ispirazione originaria di un debutto personalissimo nella pittura sperimentata da vicino. A tracciare la geografia della passione di Pasolini per il disegno, operazione che ha trovato in Giuseppe Zigaina il suo più attento e meticoloso estensore 18, si 79

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ritrova la sua precocissima pratica infantile, la foga creativa che si combina già con la poesia portandolo a riempire piccoli quaderni di schizzi che diventano “versi illustrati”. Il connubio tra poesia e disegno si replica anche al principio dell’attività pittorica più matura di Pasolini, ovvero in quel 1941 che precede di un anno la pubblicazione del “Canzoniere” delle Poesie a Casarsa, esito di una poesia anch’essa coltivata negli anni dell’adolescenza e che fissa il vero punto iniziale, secondo Zigaina, di una pratica privata che sfuma in attività artistica secondaria ma non troppo, poiché intercalata, da qui al 1975, all’opera intellettuale pasoliniana nel suo complesso e al cinema in particolare. E anche a seguire la convulsa attività pittorica di questi anni, si scopre la coerenza con quel gusto dichiarato più avanti, nella matura definizione della pinacoteca ideale: il gusto del ritratto (di amici e parenti) unito a quello di “paesaggi campestri alla Carrà”, quanto di “nature morte e composizioni di spirito più simbolista”, come ricorda F. S. Gerard in un suo articolo 19 che inevitabilmente rimanda alla serie dei nudi femminili, tra cui quello bellissimo della prostituta dal pube mascherato con un fiore blu 20. Superfluo ma doveroso evidenziare l’attrazione simbolista tra il gusto pittorico e quello del versante poetico di quegli anni 21 che, a differenza del piccolo e autonomo apprendistato pittorico, mostrava caratteri di ben più salda convinzione stilistica: come ricorda sempre Gerard, l’emulazione pasoliniana di modelli più o meno definiti, quali il vago Carrà paesaggistico, tradisce alla semplice vista una “tecnica spesso ancora gracile e maldestra nell’insieme” che è anche però il manifesto di un “impulso febbrile che lo sprona a tracciare a qualunque costo l’emozione di qualcosa che nell’istante stesso già sfugge al presente [ma che] non è affatto limitato a un semplice sfogo privato” 22. L’incertezza adolescenziale di Pasolini governa anche la sua ambizione a fare della passione figurativa una carriera non gregaria rispetto a quella poetica e lo porta effettivamente al florido risultato di esporre in mostre collettive di un certo rilievo, tra le quali va sicuramente ricordata la Mostra Triveneta del ritratto a Udine del 1947, nella quale porta, sorprendentemente a fianco di due suoi maestri e modelli quali Afro e De Pisis, due autoritratti a tempera che “costituiscono incontestabilmente la testimonianza più precisa di questo periodo casarsese, tanto per l’elegante sicurezza del segno, quanto per l’uso raffinato dei colori” 23. Nell’occasione della mostra udinese del 1947 si fissa un precedente significativo per uno sguardo complessivo sulla carriera figurativa del poeta: l’esercizio predominante del ritratto e dell’autoritratto è la cifra che contrassegna tutta la pittura di Pasolini, attraversandola fino al trasferimento romano e oltre, sparpagliandosi negli schizzi di progetto per i film, “le figurine che punteggiano le 80

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illustrazioni del volume Mamma Roma, oltre ai trentaquattro foglietti a colori che seguono alla lettera la prima metà del copione del cortometraggio La terra vista dalla luna (1966)” 24. Si intrecciano, infatti, in questa fase dell’opera pasoliniana, la piccola arte del ritratto e lo studio preparatorio della scena cinematografica: che si riconciliano, però, nella costituzione di una personale galleria di ritratti dallo spessore affettivo, tra i quali compaiono Alberto Moravia, Laura Betti e Ninetto Davoli e in cui Pasolini sembra rintracciare proprio la grana interpersonale di quei rapporti di intima amicizia. Molto correttamente, Gerard indica nelle “variazioni” di alcuni soggetti privilegiati come Maria Callas, Roberto Longhi e Andrea Zanzotto 25 la ricerca pasoliniana di una “inafferrabile identità interiore”. Ma su tutti, è la figura di Maria Callas che svetta e va ad occupare una posizione ancor più peculiare. Nella serie dei ritratti della Callas 26 viene operata la sintesi tra ritratto e cinema, tra bozzetto preparatorio e quell’aspetto del disegno pasoliniano, fortemente sottolineato da Zigaina, così vicino all’operazione misterico-propiziatoria, affine per molti versi a forme di pittura primordiale. Nei ritratti eseguiti tra il 1969 e il ’70 Zigaina rileva di primo acchito “Che l’operazione nel suo insieme ha l’aspetto di un “giuoco”, anzi, più che di un giuoco, di un rito, che per una misteriosa associazione di immagini ci rimanda ai disegni propiziatori eseguiti sulla sabbia dai cacciatori Pigmei (Frobenius) [...]”.

Zigaina radicalizza ancor più il suo discorso quando si spinge all’intuizione “che sotto o al di là della intuizione formale si cela, appunto, un esorcismo. Ma l’aspetto più interessante di queste “tecniche miste” è l’aspetto, si, magico, ma di una magia - se vogliamo accettare il termine - più simile a quella dell’antico laboratorio alchemistico (di cui il “pastiche” pasoliniano adombra in qualche modo la mescolanza dei materiali). Infatti gli interventi dell’Autore sull’immagine, che sono solo apparentemente di tecnica pittorica, assumono un aspetto esoterico, che li sottrae alla nostra comune sensibilità di occidentali. La stessa divisione in scomparti [...] è anch’essa un elemento “esotico” che rimanda a certe immagini cultuali del mondo orientale” 27.

Al di là dell’annotazione sul fatto che le differenze di progetto e d’impostazione stilistica tra i disegni del 1969 e quelli del 1970 (i primi “sono ritratti di una persona viva e trionfante; quelli dell’isola di Skorpios, invece, sono il ritrat81

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to di una persona lontana, morta e mummificata”) siano il risultato condensato di un inasprimento dei rapporti tra Pasolini e la Callas - e questo sarebbe solo ulteriore conferma di quella qualità di indagine intimistica che muove l’impulso ritrattista di Pasolini - la questione fondamentale su cui insiste Zigaina è la presa d’atto della grana “archetipa” delle immagini di Pasolini, disposte spesso (e in particolare nella serie sulla Callas) su ritmi ternari e quaternari, e della loro somiglianza con le “antichissime raffigurazioni simboliche che nello yoga tantrico si chiamano khilkor o mandala” 28. Questo discorso prevede anche l’inclusione di Jung: inclusione non bizzarra o fuori luogo poiché parte significativa nella cultura personale e nelle scoperte giovanili di Pasolini e anche ingranaggio fondamentale, secondo Zigaina, all’interno del tentativo operato dal poeta di “teorizzare la mitica funzione creativa della morte”, ma, si potrebbe aggiungere, anche dentro alla tensione mimetica dell’Imago Christi che attraversa tutta la sua vita 29. Ma, tornando ancora al disegno e alla serie dei ritratti di Maria Callas, la questione che sembra balzare in testa a tutte è proprio quella, ribadita, della mescolanza chimica: la commistione di materiali anche occasionali quali petali di fiori schiacciati 30, cera di candela o gocce di vino rosso, la loro ossidazione, la reazione (“quasi una rigenerazione” la chiama Zigaina) e poi la frequente suddivisione ternaria-quaternaria, di cui si diceva prima, mettono questo procedimento pittorico (d’ispirazione manierista) nel circolo di una tecnica che tanto si rifà ad archetipi figurativi remoti, quanto riecheggia “le quattro fasi del processo di trasmutazione chimica descritta dall’antica alchimia: la melanosi (innerimento), la leucosi (imbiancamento), la xantosi (ingiallimento), e la iosi (arrossamento)” 31. Il mandala, insomma, è un’ipotesi figurativa che aleggia continuamente in questo spazio delimitato dell’opera pasoliniana: ipotesi che per Zigaina è strettamente connessa ad una strategia figurativa simbolica e “di tipo composito o contaminato”. L’aspetto psicanalitico dell’applicazione al ritratto (della Callas in particolare ma non solo) si trasferisce fluidamente nella serie dei dodici ritratti composti prevalentemente nel 1965, utilizzando alternativamente lapis e penna 32. Negli autoritratti del ’65 sono già al lavoro la disillusione e l’acredine verso il mondo che rodono il poeta nell’ultimo decenni di vita, la lirica gioiosità cromatica dei precedenti “Autoritratto col garofano in bocca” e “Autoritratto col fiore in bocca” del 1947 si secca nel minimalismo dell’”Autoritratto con la febbre” del ’65 33: qui è il tratto grezzo della matita grassa che disegna un volto pasoliniano con la barba ispida, la montatura spessa degli occhiali neri e lo sguardo vuoto, a cui sembra rispondere l’enigmatica nota manoscritta a margine della tavola con i sedici segni diagonali (l’unica non datata) ritrovata nella cartella del 1965 da Graziella Chiarcossi, cugina del poeta: “Il mondo non mi vuole più e non lo sa”. 82

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Il piccolo ritratto con una qualità caravaggesca, come evidenziava Gerard 34, è anche il diagramma pasoliniano del decennio che verrà (1966-1975): in questi suoi ultimi anni il poeta diventa meno costante nella pratica del disegno, che si fa meno assidua, appuntandosi comunque, nei suoi rari ritorni, sui ritratti ‘d’affetti’, come quelli di Roberto Longhi del 1975, a pochi mesi dalla morte di Pasolini. Ma una componente figurativa, anche in filigrana, governa la produzione letteraria e poetica finale di Pasolini: si guardi la Divina Mimesis, lavoro, anche questo, di Imitatio Christi e al contempo di discesa del poeta agli inferi, corredato da venticinque immagini fotografiche di varie persone e luoghi. E guardiamo cosa dice Pasolini, nella Prefazione, dell’allegata Iconografia ingiallita: “Iconografia ingiallita: queste pagine vogliono avere la logica, meglio che di una illustrazione, di una (peraltro assai leggibile) ‘poesia visiva’” 35.

In Petrolio, sorta di (incompleto) enorme poema visivo, la scansione è data dalla lunghissima “Visione del Merda”, suddivisa in ventisei capitoli (o quadri) e in una Visione di epilogo. E nel paragrafo primo Pasolini dice: “Infatti, nella Scena della Visione non c’è luce. La luce è dietro, e traspare attraverso il materiale di cui la scena è fatta, assumendo dunque colori diversi a seconda delle tinte di tale materiale” 36. Dal ritratto all’immagine fotografica fino a concludere con l’installazione: il 31 maggio 1975 Pasolini è parte integrante della performance artistica “Intellettuale” 37 alla Galleria Comunale di Bologna, che viene ottimamente ricordata e riletta da Fabio Mauri: “Il film (l’opera) rappresenta tutte le opere. L’autore rappresenta tutti gli autori (gli intellettuali). [...] Ma in questa stazione ciò di cui si è creduto di sbarazzarsi, viene sadicamente ributtato sull’autore. Il film (l’opera) risulta proiettata sul corpo del regista, fa da schermo il torace fasciato dalla camicia bianca”.

Ma di questa nuova (materialissima in quanto letteralmente e definitivamente fisica, anzi corporea) esperienza artistica, benedetta dal concetto di “realtà”, Mauri puntualizza, guarda caso, la sostanza interiore: “La proiezione provoca un effetto singolare: possiede la precisione tecnica di una radiografia dello spirito. Comporta anche dell’altro: l’imposizione di una “passione” che l’autore subisce, per cui sembra rispondere corporalmente di quanto ha concepito. [...] Obbligato da quell’”esercizio spirituale” a riandare alle causali profonde

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dell’opera [...] Autore ed opera formano un scultura di carne e di luce, una unità compatta. Dimostrano, con la forza di una “visione”, d’essere una cosa sola” 38.

Quanto di sorprendentemente e funereamente simbolico ristagna in questa ostensione definitiva del corpo di Pasolini, a pochi mesi da quella mortuaria dell’assassinio, sta nel compendium dei rituali del corpo di Salò o le 120 giornate di Sodoma e nella conciliazione artistica delle immagini della sua estrema “performance”.

Salò e le arti. Teatro, architettura, musica, voce, suono

Premessa Il paragrafo che segue illustra, in maniera necessariamente sintetica, la stratificata e composita presenza in Salò o le 120 giornate di Sodoma di alcune tra le discipline artistiche che hanno attraversato il Novecento, nelle forme e declinazioni che Pasolini sceglie di combinare nel tessuto del film, senza rinunciare al suo personalissimo gusto della contaminatio manierista, emblema della sua attività pittorica giovanile e non solo, di cui si è trattato brevemente nei precedenti paragrafi.

Teatro “Senza un elemento di crudeltà alla base di ogni spettacolo, non esiste teatro. Nella fase di degradazione in cui ci troviamo, solo attraverso la pelle si potrà far rientrare la metafisica negli spiriti” Antonin Artaud, Primo manifesto del teatro della crudeltà

La vexata quaestio di Salò è anche la composita tessitura dei suoi rimandi e dei suoi “moventi” linguistici e politici, oltreché estetici; e all’interno di questo organum plurale di riferimenti, il teatro occupa una posizione d’importanza e pertinenza macroscopiche, di cui qui si tenta uno sguardo d’insieme. Le connessioni del teatro con l’opera di Pasolini occupano lo spazio di una produzione distribuita tra gli anni Sessanta e Settanta: in particolare, il 1968 regi84

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stra un inizio in tal senso, con l’entrata in scena di un Pasolini teorizzatore che da alle stampe il Manifesto per un nuovo teatro e, congiuntamente, scrive Orgia, primo testo pasoliniano portato in scena, che di quel Manifesto costituisce la voluta esemplificazione tecnica, incanalandosi nelle modalità del dibattuto “Teatro di parola”. Il dibattito sul nuovo teatro concepito da Pasolini incorpora, a livello generale, un bipolarismo classico: quello che contrappone il “teatro della Chiacchiera” (“brillante definizione di Moravia”) e il “teatro del Gesto o dell’Urlo” al “teatro di Parola”, ovvero la tradizione e l’Avanguardia, l’accademia e l’underground, il borghese e l’anti-borghese. Seguiamo quello che dice Pasolini al punto 11 del Manifesto: “Sia il teatro della Chiacchiera che il teatro del Gesto o dell’Urlo sono due prodotti di una stessa civiltà borghese. Essi hanno in comune l’odio per la Parola. Il primo è un rituale dove la borghesia (ripristinando attraverso la propria cultura antiborghese la purezza di un teatro religioso) da una parte si riconosce in quanto produttrice dello stesso (per ragioni culturali), dall’altro prova il piacere della provocazione, della condanna e dello scandalo (attraverso cui, infine, non ottiene che la conferma delle proprie convinzioni)”.

E conclude: “a) il teatro di Parola è - come abbiamo visto - un teatro reso possibile, richiesto e fruito nella cerchia strettamente culturale dei gruppi avanzati di una borghesia. b) esso rappresenta, di conseguenza, l’unica strada per la rinascita del teatro in una nazione in cui la borghesia è incapace di produrre un teatro che non sia provinciale e accademico” 39.

La questione prosegue sul terreno della lingua e della parola, che in Salò vanno ad occupare uno spazio filosofico ricco di significati e dal valore importantissimo: il metro della “convenzionalità” della lingua orale e dell’italiano borghese parlati a teatro introduce anche la dinamica della parola e del gesto in Salò: “23) Quanto al teatro di contestazione (che qui chiamiamo del Gesto e dell’Urlo) il problema della lingua orale non si pone, o si pone solo come problema secondario. In tale teatro, infatti, la parola integra, in posizione ancillare, la presenza fisica. E adempie, poi, questo suo ufficio, generalmente, attraverso una semplice contraffazione dissacrante - tende cioè ad imitare il gesto, e a essere quindi programmaticale, fino a farsi, appunto, interiettiva: gemito, versaccio e urlo” 40.

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Proprio in Orgia, emanazione scenica del Manifesto, Pasolini fissava il precedente più diretto di Salò, la cui genesi, come ricorda Stefano Casi, è dal poeta proprio localizzata “nel teatro piuttosto che in altre esperienze: dunque è il teatro la cornice rivelatrice dell’opera”: che si conforma poi alle pratiche teatrali di due numi tutelari quali Artaud e Brecht. Ma, riguardo alla parola e al gesto, sempre Casi introduce un’importante connessione tra Salò e Barthes: “Il dissidio fra corpo e linguaggio verbale era stato posto come questione da Pasolini proprio in Orgia e nelle tragedie borghesi, riprendendo le riflessioni di Barthes secondo cui la differenza fra vittime e carnefici nell’universo sadiano non starebbe nell’opposizione attivo vs passivo o godimento vs sofferenza durante le pratiche sessuali, ma nella detenzione o meno dell’uso della parola” 41.

Il ritorno ad Artaud è comunque inevitabile quando poi si prosegue nell’osservazione dell’anarchia del gesto e della parola in Salò e nella loro produzione di significato. L’incipit del Primo manifesto del Teatro della crudeltà è fin troppo eloquente nello stabilire le priorità di Artaud in merito alla questione: “[...] il problema del teatro deve destare l’attenzione di tutti, essendo sottinteso che il teatro, per la sua componente fisica e perché esige l’espressione nello spazio, la sola effettivamente reale, permette ai mezzi magici dell’arte e della parola di agire organicamente e nella loro totalità, come rinnovati esorcismi. [...] è anzitutto importante spezzare la soggezione del teatro al testo, e ritrovare la nozione di una sorta di linguaggio unico a mezza strada fra gesto e pensiero” 42.

La strategia di Salò è questa: la programmatica anarchia della gestualità e dell’azione come l’anarchia pura, quella del potere, dichiarata da Blangis/Bonacelli, guarda caso, in ordine al “codice” della gestualità oscena 43 unita all’“evocazione sadiana/barthesiana della parola” sfocia in una teatralità nella quale sono prevalentemente la repentina imprevedibilità dell’azione gestuale e la verbosità straniante a creare le condizioni del dominio dei carnefici sulle vittime 44. Dunque, la teatralità di Salò è artaudiana nella misura in cui punta a cancellare quelli che Artaud stesso bollava come “i misfatti del teatro psicologico derivato da Racine”, risanandoli con “l’azione immediata e violenta che dovrebbe essere propria del teatro”: un momento sintomatico si potrebbe rintracciare nel matrimonio tra Sergio e Renata, con Blangis/Bonacelli che guasta il rituale buttandosi a baciare e palpare i ragazzi e le ragazze disposti nudi ai lati degli sposi 86

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per un tempo lunghissimo, prima che il Vescovo, riprendendo la parola, ricostituisca il flusso normale del rito. Altrettanto significativo nella sua fulminea e inaspettata esecuzione è il duetto surreale delle narratrici interpretate da Helène Surgère 45 e Sonia Saviange, attraverso la quale, come dice ancora Casi, la “vertigine metalinguistica” di Salò arriva a “vampirizzare” anche il cinema: la pantomima - di cui si tratterà diffusamente più avanti - è il calco di quella giocata dalle stesse attrici un anno prima in Femmes femmes (1974) di Paul Vecchiali, film che costituisce un’esperienza illuminante per Pasolini, che ne scrive subito dopo l’uscita e la visione. Di Femmes femmes, del quale puntualizzava il proposito “di restaurare una classicità in cui la ricerca “metalinguistica” venga almeno in gran parte riassorbita”, Pasolini diceva: “due attrici teatrali il cui mito è però [...] cinematografico. Esse recitano Racine o magari un vaudeville paesano, ma vorrebbero essere due stelle di Hollywood. Si instaura così un menage a trois fra “realtà”, “cinema” e “teatro”. Le due attrici sono attrici fallite che scendono la china della degradazione sociale. [...] Non resta loro che il vuoto della realtà” 46.

Anche la risata in cui scoppia la pantomima nel suo finale è un segno importante nell’economia di Salò: è una risata isterica preceduta dalle false-vere lacrime della pianista/Sonia Saviange, ulteriore scambio, dunque, teatro-realtà e apertura alla possibilità della doppia finzione (doppia verità) dentro alla rappresentazione di un film che continuamente esce da sé stesso e dal suo spazio scenico per invadere quello della platea e dell’osservatore, e perlopiù con la corporalità. Il riso, la risata, il lazzo comico 47, dal canto loro, sono altrettanto significanti: si vedano le barzellette idiote e infantili di Durcet/Valletti che provocano risate altrettanto vuote e idiote, quelle isteriche dei quattro Signori di fronte alla sottomissione delle vittime (ad esempio nella scena della forzata lezione di masturbazione impartita sempre dalla Vaccari di Helène Surgère) fino alla furiosa imposizione della risata da parte di Blangis/Bonacelli, che innesca proprio la pantomima derivata da Femmes femmes. La risata e lo sghignazzo di Salò, il suo umorismo dunque (ancorché pervertito 48), sono ancora di marca artaudiana, ovvero innestati sul programma della crudeltà. Diceva Artaud: “Il teatro contemporaneo è in decadenza perché ha perduto da una parte il senso del serio, dall’altra quella del comico. Perché ha rotto con la gravità, con l’efficacia immediata e mortale - in una parola col Pericolo. Perché d’altra parte ha per-

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duto il senso autentico dell’umorismo e del potere di dissociazione fisica e anarchica del riso” 49.

Il riso stesso come “codice”, allora, perché partecipe dispositivo del sadismo e del masochismo, i quali, come diceva Teresa Villani, “dispongono di un linguaggio, di un codice che può essere asettico o suadente: in definitiva, il linguaggio del cinismo disincantato” 50. La naturale e onnipresente teatralità di Salò è qualcosa che affonda nel suo discorso politico, filosofico e nella sua iconografia: tanto la conformazione dell’anfiteatro delle Orge, con la sua frontalità, “sorta di palcoscenico teatrale all’italiana” dice Casi, quanto i travestimenti femminili dei quattro Signori concorrono a questa teatralità dei corpi, del dominio e della Parola. Il programma della teatralità/crudeltà di Salò, dentro al quale anche la personalità dell’individuo “Come la maschera è una cosa, un feticcio o una merce feticistica” 51, partecipa per di più, non dimentichiamolo, alla constatazione dello sconquasso sociale e culturale della Storia, inserita nella cornice fascista/sadiana di Pasolini. Constatazione di una desolante “banalità del male” o di una sua idiozia che si potrebbe ricollocare magari su di una linea Foucault-Agamben, entrambi impegnati in una discussione sul sadismo: il primo, interrogato in merito alla tendenza di un cinema che associava nazifascismo e sadismo, rispondeva così: “È un totale errore. Il nazismo non è stato inventato da grandi folli erotici del XX secolo, ma dai più sinistri, noiosi, schifosi piccolo-borghesi che si possano immaginare” 52.

A ciò sembrava dare conferma e chiusura l’attualizzazione di Agamben, che parlava della fine dell’ideologia sacrificale (applicabile alle vittime inermi di Salò): “Ciò che abbiamo oggi davanti agli occhi è, infatti, una vita esposta come tale a una violenza senza precedenti, ma proprio nelle forme più profane e banali” 53.

Architettura Allegata alla pratica teatrale, e ad essa complementare, in Salò si rintraccia anche l’attenzione architettonica. La scatola scenica a “palcoscenico teatrale all’italiana” della Sala delle Orge che segnalava Stefano Casi è la particella di uno studio più grande e, anch’esso, 88

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simbolicamente costruito. In questo caso, la simbologia sovrana è quella del dominio, che incorpora la reclusione, la disposizione geometrica degli spazi, la suddivisione, la recinzione e, infine, il controllo. A questo punto, rintracciare le connessioni tra forme di controllo e forme dell’architettura porrebbe di fronte ad una serie di spunti fin troppo vasta; il materiale ‘apocalittico’ di Salò o le 120 giornate di Sodoma offre però occasioni per la verifica di queste connessioni, attraverso il confronto con la critica. E, intanto, proprio nell’ambito delle Immagini apocalittiche che Northrop Frye includeva nella sua Teoria dei Miti, potremmo rintracciare l’appartenenza a questa categoria delle “immagini geometriche e architettoniche”, che proprio con la capacità ordinatrice dell’uomo si conciliano 54. In Salò, il discorso architettonico si può isolare essenzialmente nella bipolarità della facciata della Villa e, per l’appunto, dello spazio della Sala delle Orge: nel passaggio, insomma, da un dominio in nuce, linguisticamente (cioè verbalmente quanto architettonicamente) disposto sull’enunciazione delle Regole, fino alla disposizione tattica della loro esecuzione. Il regime di suddivisione degli spazi della villa/castello di Salò conserva alcune somiglianze con le descrizioni della pagina sadiana, accanto a molte differenze ed esclusioni di luoghi presenti nel testo di partenza - le segrete e i sotterranei evocati soltanto nel racconto della Castelli/Boratto; come nelle 120 journées de Sodome però “L’orgia si svolge nel salotto più bello, preparato dalle vecchie sin dal mattino [...] insomma la sala di lussuria è un salotto mondano” 55. Allo stesso tempo abbiamo l’introduzione di una variante aggiornata alla Storia, ovvero gli stanzoni di reclusione delle vittime, ovviamente riunite per sesso, marchiate dalla netta difformità dall’eleganza delle camere e appartamenti dei Signori. Le camerate delle vittime, grandi parallelepipedi disadorni ed essenziali, sono percorribili centralmente dai Signori e dalle meretrici, che trovano i letti disposti ai lati e possono ispezionare ed esaminare metodicamente e serialmente ogni ragazzo/a e il corrispondente giaciglio: inoltre, la clausura di questi ultimi può essere in ogni momento interrotta anche nottetempo dall’ingresso delle ronde di controllo dei padroni (si veda l’intrusione del Vescovo/Cataldi nell’amplesso notturno delle due ragazze che alimentano la catena di delazioni). Tutto questo rimanderebbe al modello preciso del Panopticon di Bentham, progetto architettonico sul carcere ideale teorizzato nel 1791, di cui Foucault è stato esegeta; ritroviamo significative considerazioni in una conversazione tra il filosofo e Michelle Perrot: Michelle Perrot: Detto di passata, mi sembra che la nozione di sessualità sia 89

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molto importante. Lei lo ha notato a proposito della sorveglianza tra i militari, e qua, ancora, abbiamo questo problema con la famiglia operaia; senza dubbio è fondamentale. Michel Foucault: Assolutamente. In tema di sorveglianza e in particolare di sorveglianza scolastica, risulta che i controlli della sessualità si iscrivono nell’architettura. Nel caso della Scuola militare, la lotta contro l’omosessualità e la masturbazione è raccontata dai muri. Anche in merito al dominio e al potere sui corpi, Foucault è rivelatore, oltreché tremendamente pasoliniano: “MF: Ora, le mutazioni economiche del XVIII secolo hanno reso necessario fare circolare gli effetti del potere, attraverso dei canali sempre più stretti, fino agli stessi individui, fino ai loro corpi, ai loro gesti, a ciascuna delle loro azioni quotidiane [...] Si dirama l’idea tecnica dell’esercizio di un potere ‘onnivedente’ che è l’ossessione di Bentham” 56.

È anche necessaria, però, una precisazione topografica: la lavorazione in esterni di Salò si svolse principalmente tra Mantova e l’Emilia: nello specifico, gli interni della villa sono girati a Villimpenta e a Villa Arrigoni di Ponte Merlano, mentre la facciata è quella della bolognese Villa Aldini, sulla quale vale la pena di fissare l’attenzione. La facciata della villa si identifica per noi nel balcone da cui Signori e meretrici scandiscono le regole delle 120 giornate alle future vittime schierate nel prato sottostante. Insediamento signorile perfettamente tipico nella morfologia delle ville del bolognese, area di straordinaria continuità e coerenza delle forme architettoniche e del loro inserimento nel paesaggio, “in cui non si verificano i guasti del reinfeudamento signorile successivo alla Controriforma”, con la costruzione di ville sontuose “destinate quasi esclusivamente agli ozi di classi possidenti parassitarie” 57. Nondimeno, la scelta di Pasolini e Ferretti può essere felicemente contestualizzata nelle origini concettuali della costruzione di Villa Aldini, promossa dal ministro napoleonico Antonio Aldini che la volle come “materializzazione della presenza imperiale”, dunque come presenza architettonica intimamente affiliata al potere. Nella dimensione finzionale di Salò, non dimentichiamolo, la villa è il covo adattato alla misura di un potere che è una borghesia provinciale e vuota, emblematicamente fascista nei suoi caratteri (anticulturali) di fondo; la sua concezione 90

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urbanistica è lo Strapaese, fatto “arci-italiano”, di cui Curzio Malaparte diceva che “non si trova in Europa, ma in Italia, nell’antica giovanissima Italia delle tradizioni e delle trasformazioni” 58, indicandone la morfologia essenziale per cui “La dimensione strapaesana rimane il dato più evidente comune a tutte le città nuove, dove la ruralità viene realizzata per trasposizione, ruralizzando cioè un’immagine cittadina profondamente radicata nella storia italiana, quella della gloriosa città stato comunale, rozzamente imitata dall’ideologia fascista” 59.

Rendere borghese (cittadina) un’immagine architettonica legata alla ruralità 60 sembra l’opposta vocazione (anarchica) dei quattro Signori di Salò, che ridefiniscono la villa, esternamente quanto internamente, secondo i loro canoni: se il giardino neoclassico è il luogo della raccolta del mucchio delle vittime (spazio quindi spossessato della sua canonica natura idilliaca e della sua ordinata funzione anche mondana), all’interno (Villimpenta e Villa Arrigoni) il luogo del raccoglimento religioso, ad esempio, è occultato in uno spazio più simile ad un tabernacolo paganeggiante 61. Si veda, a questo punto, la particolarità progettuale-scenografica di Salò, film diverso dai precedenti di Pasolini, anche in questa fase di elaborazione squisitamente tecnica, a partire dalle note di scenografia di Dante Ferretti: “[...] è stata proprio la prima volta che io sono andato a ruota libera. Prima abbiamo fatto i sopralluoghi insieme, abbiamo trovato quel palazzetto, che non è altro che la casa di un contadino, erano delle stalle, però ci piaceva la disposizione di quell’ambiente [...] Doveva essere tutto molto preciso; lampadari, appliques, specchi, tappeti, quadri, mobili [...] È un film di scenografia, forse il più bello che io ho fatto” 62.

Dunque, dalla conferma delle parole di Ferretti, Salò appare come un’opera di sintesi artistica conclusiva dentro allo stile pasoliniano: uno stile qui più che altrove “tanto rigoroso, controllato, geometrico da ‘divorare sé stesso’” e nel quale Gianni Borgna sottolineava che “i “modi della sostantivazione” sono stati rivoluzionati: prevalgono nettamente, infatti, come non era mai successo prima di allora nel cinema di Pasolini, i monèmi-inquadrature sui cinèmi-oggetti” 63. La proliferazione degli oggetti (ma anche la loro scarsità) di cui parla Ferretti concorre in ogni momento al progetto di una precisazione architettonica che definisce il carattere e il tenore di ogni ambiente: siano la pacchiana sfarzosità della pseudo-aristocratica Sala delle Orge, quanto le squallide e disadorne camerate delle vittime o la rettangolare sala da pranzo in cui si svolge il rito coprofago, 91

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fino ad arrivare alla camera di osservazione delle torture finali del “Girone del Sangue”, altro spazio déco-borghese in cui fa la sua comparsa, in posizione centrale, una sedia-trono alla Mackintosh 64; da questa si svolge l’ulteriore dominio dello sguardo dei Signori, che a turno osservano le torture sottostanti 65. Nell’“arredo” del cortile 66 il penchant al Potere simbolico del trono nella camera borghese si ritrova ironicamente nella sedia elettrica 67, marchingegno di tortura e morte che diventa anche il segno di una circolarità interno-esterno, carnefice-vittima; e anche il già citato Frye, in fondo, vedeva negli strumenti di tortura una declinazione, seppur perversa, dell’immagine architettonica, nel suo lavoro sulle Immagini demoniache (in cui accosta la figura della dantesca città di Dite al fuoco di “città in fiamme come Sodoma” 68). Quello dantesco non è, inoltre, un riferimento puramente campato in aria per Salò: la costruzione quaternaria di Pasolini è anche una struttura verticale che dipana un’architettura scenografica en abime e a più livelli che, come il film stesso, “ripete il “verticalismo teologico” dell’Inferno di Dante, chiude il film in una tensione unitaria e tende a costruire una serie di piani contigui” 69. Non meno che il Teatro, in Salò l’architettura è parte di uno sguardo critico sugli abomini dell’uomo e della Società, dantescamente: e in ogni caso non dimentichiamo il monito che veniva da Enzo Siciliano, in un suo articolo sul film: “Il campo di concentramento che la villa rappresenta è anzitutto ‘cultura’” 70.

Musica, voce, suono

a) Musica Come accade per l’architettura, la musica in Salò vive in un pluralità di registri e di coloriture differenti: a voler rendere essenziale il suo valore nel film, si possono stabilire alcune dicotomie e così nominarle: colto-popolare, alto-basso, sublime-ridicolo. Queste dicotomie vengono perpetuate da un utilizzo mirato dei brani e dalla loro giustapposizione o, anche, dal loro contrasto. Prendiamo l’incipit di Salò, che è scandito sull’accoppiamento tra la stesura delle Regole delle 120 giornate da parte dei quattro Signori sulle rive del Garda e un’esecuzione di Son tanto triste (che ritornerà nell’epilogo, a sigillare il film con una circolarità inesorabile), motivo popolare dei prolifici Ansaldo e Bracchi, che ridimensiona sardonicamente il progetto infernale con la connotazione tutta piccolo-borghese, volgare e provinciale del motivetto. 92

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Salò viene disseminato di tutta una cultura musical-popolare di marca nazionale: per dovere d’inventario si potrebbero elencare, tra gli altri brani, Tu amore e Tu sei la musica dei già citati Ansaldo e Bracchi, Fiori d’arancio di D’AnziGaldieri, Dormi bambina di Pintaldi-Bonfanti e Valzer di mezzanotte di AmodioCittadino. In ordine alle teorie adorniane sulla musica per film, Bertini organizzava le idee di Pasolini sull’applicazione musicale all’immagine cinematografica, che in alcune confessioni tecniche il poeta suddivideva in “orizzontale” e “verticale”: “Nella prima, alle immagini che si succedono sullo schermo, secondo una linearità logica e conseguente, si aggiungono con la musica nuovi valori ritmici, che si sommano e potenziano i valori ritmici del montaggio delle scene mute. L’applicazione “verticale” invece [...] pur seguendo il filo conduttore delle immagini ha come scopo di evidenziare non tanto il ritmo ma il senso stesso delle immagini”.

E la “fonte musicale” - come la chiamava Pasolini in un approfondimento linguistico-semiologico del 1972 - è sempre modulata sul carattere dell’ambiguità, che vale come misura anche della coloritura musicale di Salò, in particolare nella sua partitura “alta” e colta: “Usando un certo tipo di musica (in particolare Bach e Vivaldi ma anche Mozart e la Missa Luba congolese) Pasolini cambia segno alle immagini e le carica di ambiguità. Sacralizza l’immagine profana non soltanto con un determinato linguaggio tecnico (uso degli obiettivi, tipo di inquadratura, movimenti di macchina) ma anche con un accorto contrappunto sonoro” 71.

Il “sacralizzare l’immagine profana” è in fondo equivalente, in Salò, all’operazione di desacralizzazione - o si dica anche di umiliazione, di annichilimento, di ridicolizzazione - di uno o più modelli ‘alti’: tutto ricondotto, però, all’intenzione di scioccare e spiazzare con un “impatto traumatico”, unico mezzo attraverso il quale, come diceva lo stesso Adorno parlando pasolinianamente, “il cinema riesce a rendere estranea ed a fare riconoscere la vita empirica, vale a dire ciò che in sostanza si svolge dietro la superficie della rappresentazione realistica, la cui raffigurazione esso pretende di dare sulla base dei suoi presupposti tecnici” 72. Osservando invece gli esempi ‘bassi’, di musica popolare e disimpegnata, distribuiti in Salò, si può recuperarne un utilizzo ora macchiettistico ora linguisticamente ludico: il primo rappresentato dalla tesa sequenza in cui Durcet/Valletti si mette a canticchiare a modo suo una strofa di Torna piccina mia (di Cesare e Andrea Bixio) agganciandosi al “Vieni, vieni piccina” che Blangis/Bonacelli 93

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rivolge alla ragazza Renata, che costringerà a mangiare le sue feci; il secondo esempio è quello in cui sempre Blangis, nel bel mezzo della discussione pseudoculturale sull’attribuzione di una frase citata da Curval/Quintavalle 73, alla menzione di “Dada” 74 fatta da quest’ultimo, si lancia in una svogliata riproposizione di Quel motivetto che mi piace tanto di Casolaro-Galdieri (“Canto quel motivetto che mi piace tanto - e che fa dadà, dadà, dà-dà -dà!”), andando ad invertire di segno il significato culturale del termine e scambiandolo con la bassezza volgare della canzonetta: “Dall’‘adattamento’ ad una realtà inaccettabile - il presente come teatro di un’irreversibile utopia negativa - nasce il feroce, disperato umorismo di Salò [...] un umorismo che esprime la profonda dissociazione dalla materia del racconto [...]” 75.

Il procedimento è analogo nell’utilizzo della musica culta; al di là dei Preludi (Op. 28 nn. 4 e 17) e dei Valzer (Op. 70 n. 2 e Op. 34 n. 2) di Chopin (addirittura abbinati ad un primo piano del culo scoperto a mò di Callipigia della narratrice De Giorgi), troviamo una ricollocazione di Bach tutta pasoliniana, in quanto rispondente a quei canoni dichiarati dal poeta nella sua personale definizione di pastiche compositivo, anche musicale (là si parlava però di Debussy 76): la Pastorale in fa maggiore BWV 590 viene eseguita alla fisarmonica dalla pianista, la quale opera un altro abbassamento del tono e della caratura musicale del brano e, ancora, un’inversione di segno, sempre sotto la luce del pastiche pasoliniano. La musica in Salò, allora, si definisce anche in un’ambivalenza che è partecipe dell’ambiguità di cui si diceva prima: ovvero la traccia musicale è al contempo linguaggio che sottolinea e accompagna il Rito (di cui Salò per intero è macroscopica rappresentazione) e che apre all’irritualità, alla variazione e insieme a queste arriva, ancora una volta, all’anarchia di quel Potere che attua simbolicamente la sua bella manipolazione anche culturale ed estetica. Guardiamo anche a questo: il fantasma musicale di Bach 77, citato obliquamente dall’assolo della pianista, richiama anche l’attinenza tra la genesi della Passione come genere musicale medievale (e bachiano) e la strutturazione di Salò come “sacra rappresentazione” (o Mistero, o mistery, come lo definì Pasolini) a sua volta, innescando un discorso che riguarda anche l’importanza di voce e suono in essa, di cui si parlerà più avanti. Ovvero, le Passioni, al contempo musicali e dialogate, “venivano effettuate salmodiando, secondo le regole del canto gregoriano. E, come riferisce Schweitzer, già nel 1200 Durandus raccomandava che non tutta la passione venisse letta con lo stesso tono, ma le parole di Cristo venissero rese con

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un tono più dolce, quelle dell’evangelista con voce normale e quelle degli “empissimi Giudei” (cioè della folla) clamore et cum asperitate, cioè gridando e con asprezza” 78.

L’altro forte simbolo musicale, l’ultimo in ordine diegetico, ma forse il più importante e denso di riferimenti, è quello dei Carmina Burana di Carl Orff 79, derivati dal grande corpus medievale di composizione anonima suddiviso in tre parti (poesie morali e satiriche; poesie d’amore; canti goliardici), da cui Pasolini isola, per Salò, la seconda, ovvero gli inni Primo vere (Primavera). L’architettura musicale di Orff rimanda naturalmente ai motivi dell’opera medievale e riconnette Salò ad un ricco apparato di affinità tematiche; il significato della sfrenatezza dei costumi dei goliardi e del loro forte sentire comunitario ritrova nella musica suonata sullo sfondo delle torture finali la pièce de resistance per definire la sostanza mortuaria e oltretombale dei quattro Signori, anch’essi a loro modo dediti ad una “filosofia della vita fondata sul piacere e sulla fisicità e quindi su un sentimento di precarietà e tensione”; come dice Maria Clelia Cardona “i goliardi si sentono accomunati dall’appartenenza a una setta o a una confraternita che riconosce nel Beato Libertino l’autore della regula di cui si dichiarano osservanti, in Bacco e Venere i suoi numi tutelari [...] ricorre se non nella pratica almeno nei sogni e nei versi dei goliardi la gozzoviglia pantagruelica, che evoca il mitico paese di Cuccagna, luogo di carnali e sboccate delizie contrapposto ai raffinati giardini edenici vagheggiati da tanta più costumata letteratura coeva” 80.

O, ancora, ritroviamo la parodia del Rito (si vedano i falsi e/o promiscui matrimoni), anche attraverso lo sghignazzo e l’umorismo idiota, di cui abbiamo già parlato in merito a Salò: “A questa carnalità, spesso grottesca e iperbolica, si accompagna il gusto della dissacrazione, della parodia del serio e del sacro: mescolati ai fedeli durante le funzioni religiose, i goliardi cantano una loro messa rovesciata, empia e irridente, sostituendo alle formule liturgiche frasi blasfeme e termini osceni con esse assonanti”.

E, infine, il motivo infernale e mortifero: “Ma in molti casi la parodia sconfina in un libertinaggio fatto di insofferenza, di rivolta, di inconciliata sensualità, che getta un alone noir e maudit su questi poeti [...] l’insofferenza e la sensualità si alimentano di umori vivi e la perversione assu-

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me il fascino di una condizione negativa assoluta e intrattabile, demoniaca e corporale, annidata in una segreta camera di tortura della mente [...] Cantati su una tessitura musicale di origine religiosa, affine a quella della Sequentia o dell’innografia liturgica, i testi goliardici assumono un’ambivalenza estranea alla lirica classica, come se il riso nella sua essenza demoniaca volesse misurarsi direttamente in un vertiginoso corpo a corpo con i toni cupi e solenni della morte e del sacro” 81.

È macroscopico, dunque, il contributo simbolico della scelta pasoliniana di includere i Carmina Burana nell’epilogo altrettanto solenne di Salò. E il confronto tra i tre testi (quello medievale dei CB, quello musicato da Orff e Salò) mostra più di un’analogia tra essi 82: può essere esaustivo, per noi, estrapolarne un carattere tematicamente cardinale come quello della corporalità, ricavato dal Canto 24, che, inoltre, sta dentro all’epilogo del cortile delle torture: “ La legge della carne e della morte è totalmente effimera, passa e fugge come un’ombra che non possiede corpo. Quanto amiamo e possediamo in questo mondo lo perderemo molto presto, poiché siamo come foglie che cadono dagli alberi” 83.

b) Voce, suono Le strutture del fenomeno sonoro e vocale, in Salò come in tutto il cinema pasoliniano, sono una postilla e un complemento al discorso musicale appena esaurito, che comporterebbe un approfondimento ancora più vasto, non affrontabile in questa sede. È necessario, dunque, compendiare, tentando uno sguardo d’insieme. La voce, innanzitutto: clamore et cum asperitate si diceva prima, secondo il dettato delle Passioni medievali, cantate e dialogate. La feroce vocalità di Salò rinsalda la vecchia questione stabilita da Pasolini in merito alla ”inscindibilità dell’esperienza audiovisiva”: una questione, per l’appunto, radicata nel cinema pasoliniano, da mettere agevolmente in relazione con il suono e la voce di Sade. In Pasolini, intanto, “L’elemento vocale è un’entità fantasmatica che arriva senza mediazioni da uno stadio diverso dell’evoluzione (o involuzione) umana” 84.

Questo mette in moto anche una dicotomia fondamentale come quella tra langue (struttura) e parole (sovrastruttura), che è questione anche sadiana. 96

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Con l’aiuto di Barthes (Compiacenza della frase) si potrebbe stabilire un certo parallelismo tra i due problemi: “Sade sa anche lui che la perfezione di una prosa perversa è indissociabile dal modello drastico che serve a enunciarla. La simmetria retorica, il compendio elegante [...] in una parola tutta l’arte del discorso raffigura diagrammaticamente l’arte stessa della voluttà [...] la condizione del piacere, che non può esistere senza questa totale compiacenza della frase, senza questa intelligenza, mentale e complice a un tempo della sintassi” 85.

Riferimento, questo, utile a marcare, però, la sostanziale lontananza tra il lessico e la costruzione verbale del progetto sadiano e la verbalità essenziale e violenta di Salò, che introduce anche il problema centrale del dato fisico in essa, a cui si connette poi il doppiaggio: “col sostegno dell’autorità e della strumentazione che l’ambito linguistico comporta, Pasolini cerca di far passare l’idea che l’espressione orale non avviene mai in un contesto unicamente verbale, non è mai fatta solamente di parole, ma implica sempre e comunque la violenta e traumatica (sotto il profilo della significazione) intromissione di un dato fisico (a partire dalla voce: polmoni e corde vocali) la cui conseguenza da non sottovalutare è ‘la modificazione di uno stato complessivo, esistenziale, che impegna tutto il corpo’” 86.

È corporale, dunque, anche la parola in Salò e lo è nell’intera gamma dei suoi utilizzi: tanto nell’evocazione delle perversioni e delle situazioni libertine nei racconti del “Girone delle Manie”, passando attraverso le grida, i comandi e gli improperi dei quattro potenti 87, fino ad arrivare al “Girone del Sangue” ed al grido dirompente della ragazza immersa nel mastello delle feci, (“Dio, Dio, perché ci hai abbandonato?” 88), che é il lamento “del carnefice e della vittima, lanciato in tutta la sua assurdità liturgica, vissuto, goduto, pronunciato nella sua assurdità, consentito dall’intesa che lega carnefice e vittima, che li rende uno” 89. Il motivo del grido può allora fungere da introduzione alla seconda e conclusiva parte del discorso voce/suono in Salò, ma applicandone la dilatazione, ancora una volta, all’intero cinema pasoliniano. Se il grido cinematografico della donna, secondo Michel Chion (citato ancora da Manzoli), è “un’articolazione di linguaggio di fronte alla morte [...] rimanda a uno spazio illimitato, inghiotte ogni cosa dentro di sé, è centripeto e fascinatorio” 90, nuovamente Barthes può aiutare a definire un punto di contatto con Sade: “Il grido è la marca della vittima: è perché sceglie di gridare che questa si costi-

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tuisce in vittima; se, sotto la stessa vessazione, arrivasse a goderne, cesserebbe di essere vittima, si trasformerebbe in libertino: gridare/eiaculare, questo paradigma è il punto di partenza della scelta, cioè del senso sadiano” 91.

E, come il corpo, per Barthes 92 “il grido è un feticcio”. Il grido, peraltro, si configura anche nel suo opposto, ovvero il silenzio, elemento costituente una gerarchia di simboli non meno importante nel cinema di Pasolini: se il sonoro in Salò spesso allinea il tempo sospeso delle 120 giornate alla realtà del mondo - il cupo rumore fuoricampo dei bombardieri militari che sorvolano la villa, i discorsi radiofonici hitleriani, il rumore del temporale - l’utilizzo del silenzio diventa una liturgia del sacro, un esercizio di sacralità attraverso i mezzi tecnici della lingua cinematografica. Tutto questo attiene in particolare alle sequenze del massacro finale, scrutato al cannocchiale e immerso nel quasi totale silenzio, mentre, per quel che riguarda lo spazio dell’Orgia, il silenzio, dominante in Sade, in Salò viene rotto spesso da digressioni (risatine, bisbigli, il sovrapporsi dei ‘pareri’ dei Signori o il loro appartarsi con una vittima) che ne corrompono il rito con un’idiozia pacchiana e, ancora, piccolo-borghese. In Sade, invece: “Questo silenzio è quello della macchina lussuriosa, [...] simile al sovrano ritegno delle grandi ascesi (quale lo Zen), la creazione di uno spazio sonoro purificato attesta il controllo dei corpi, la padronanza delle figure, l’ordine della scena; è insomma un valore eroico, aristocratico, una virtù [...] è per non somigliare agli shows dell’erotismo piccolo-borghese che l’orgia sadiana è silenziosa” 93.

E l’interruzione del silenzio in Salò - riferendoci sempre alla sua parte più significante in tal senso, ovvero l’epilogo delle torture - equivarrebbe addirittura alla degenerazione della sua fisionomia di sacra rappresentazione misterica (come la voleva Pasolini) in quanto, come ricorda Manzoli, “la sua rottura può essere motivo di infrazione della norma divina o religiosa, come l’infrangere un mistero inattingibile, ma la sua forza sovrumana può diventare facilmente una maledizione” 94.

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Note La conversazione è inserita nella presentazione pasoliniana di una mostra di Andy Warhol al Palazzo dei Diamanti di Ferrara dell’ottobre 1975; dice Pasolini: “Parlando con Man Ray del mio film, Le 120 giornate di Sodoma, c’è stato un punto in cui il mio interlocutore non ha capito. Man Ray è lucido, intelligente, presente. Il suo manierismo è fresco come quarant’anni fa. Non c’è nessuna ragione al mondo per cui egli non possa capire qualcosa. Ma più che mancanza di comprensione c’era in lui un buio, un vuoto. Di che si trattava? [...] addirittura prendeva Salò per “salaud” [canaglia, carogna, N.d.T.], con mia completa soddisfazione, del resto”. Cfr. PPP, Ladies and gentleman, ora in: Pier Paolo Pasolini. Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., pp. 2710-2714 (2710). 1

2

Ibidem, pp. 2710-2711.

3

Ibidem, p. 2711.

4

G. Contini, Longhi prosatore. “La Fiera letteraria”, 23 gennaio 1955, cfr. Infra, p. 48.

Pasolini, in una recensione ad una mostra romana di Zigaina, notava in lui la “sfarzosa, potente contaminatio di un eccezionale manierista novecentesco”. Cfr. Infra, p. 56 n. 52. 5

6

PPP, Amado mio, cit., p. 105.

7 G. Zigaina, Pasolini e la morte. Mito alchimia e semantica del “nulla lucente”. Venezia, Marsilio, 1987, pp. 45-46.

8

Ibidem, pp. 43-44.

9

PPP, Ladies and gentleman, cit., pp. 2712-2713.

10

Ibidem, p. 2714.

11 R. Longhi, Arte figurativa, carne da cannone. “La Critica d’Arte”, XXIV, aprile-giugno 1940, pp. IX-XI, ora in: Id., Critica d’arte e buongoverno, cit., p. 184.

D. Trombadori, Pier Paolo Pasolini. Figuratività e figurazione. Roma, Carte segrete, 1992, p. 137. 12

Le due definizioni di Longhi sulla sua pinacoteca si ritrovano rispettivamente in: R. Longhi, Ultimi studi sul Caravaggio e la sua cerchia, in: “Proporzioni”, I, 1943, p. 42; e in: “Paragone”, IX, n. 107, novembre 1958, p. 74.

13

La collezione di Roberto Longhi. Dal Duecento a Caravaggio a Morandi. A cura di M. Gregori, G. Romano. Savigliano, L’Artistica, 2007, p. 24. 14

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Per una prima disamina della passione figurativa caravaggesca di Pasolini (di cui si tratterà in seguito) si rimanda a: F. Galluzzi, Pasolini e la pittura, cit., pp. 80-83 (§ Novelletta del Pasolini caravaggesco) e in particolare alla precisazione che l’autore fa sulla fitta scuola critica del caravaggismo inteso come “una chiave privilegiata per decifrare l’immaginario poetico pasoliniano: da Cesare Garboli - per cui “è difficile scindere tutta l’esperienza eversiva del Pasolini ‘romano’ degli anni Cinquanta dall’immagine del Caravaggio che è stata a più riprese offerta da Longhi” - attraverso buona parte della critica, fino alla biografia romanzata di Dominique Fernandez, storia di un Pier Paolo P. tutto percorso da un febbrile invasamento caravaggesco” (p. 80 e n 123). Si vedano anche le considerazioni contenute nella commemorazione di Longhi a pochi giorni dalla sua scomparsa, cfr. C. Garboli, Ricordo di Longhi. “Paragone”, n.s., n. 18, aprile-giugno 1970, pp. 35-40. 15

Sul rapporto con i coetanei Carrà, Morandi e De Pisis, con i quali Longhi intrattenne un lungo rapporto di amicizia e di condivisione di ideali, si veda: M. C. Bandera, Longhi e gli amici pittori, in: La collezione di Roberto Longhi, cit., pp. 39-53. 16

Longhi si esprimeva così nel suo Il Caravaggio. Milano, Martello, 1952, ora in: Id., Studi caravaggeschi. Firenze, Sansoni, 1999, I, p. 161. 17

18 Giuseppe Zigaina, a poca distanza dalla morte di Pasolini, curò la raccolta dell’intero corpus figurativo del poeta, riuscendo, con la collaborazione degli eredi, a recuperare anche schizzi e disegni dimenticati o creduti dispersi: questo lavoro di riunione dell’iconografia privata di Pasolini sfociò, nel 1978, in una grande mostra commemorativa a Palazzo Braschi di Roma, che produsse anche il nutrito catalogo da lui curato, con una prefazione di Giulio Carlo Argan e un intervento di Mario De Micheli. Cfr. Pier Paolo Pasolini. I disegni 1941/1975. A cura di G. Zigaina. Milano, Scheiwiller, 1978.

19

F. S. Gerard, Ricordi figurativi di Pier Paolo Pasolini. “Prospettiva”, n. 32, gen. 1983, p. 36.

20

Cfr. Pier Paolo Pasolini. I disegni 1941/1975, cit., catalogo, n. 81.

21

Cfr. Infra, pp. 38, 39.

22

F. S. Gerard, Ricordi figurativi, cit., p. 36.

23

Ivi.

24

Ivi.

Nel catalogo curato da Zigaina per la mostra romana del 1978, la sottolineatura del desiderio pasoliniano di un tentativo di analisi e scoperta della qualità spirituale dei soggetti ritratti (oltreché di un’analisi interiore), trova conferma nelle parole sia di Argan che di De Micheli; Dice Argan: “Né è poi da trascurare la frequenza, nella serie dei disegni, degli autoritratti, tutti 25

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assai penetranti (a differenza dei ritratti, si veda quello di Roberto Longhi). Rivelano la tendenza di Pasolini a oggettivarsi e problematizzarsi come tipo umano: un processo che esige il medium, misterioso ed ovvio nel medesimo tempo, dello specchio”. Proseguendo sulla stessa idea, De Micheli afferma: ”[...] il gruppo degli autoritratti del ’65, e quello dei ritratti di Andrea Zanzotto, di Citti, di Roberto Longhi, ch’egli eseguì nei suoi due ultimi anni di vita. Mentre quelli di Longhi appaiono di un gusto giocoso, benevolmente caricaturali e arguti, i ritratti di Zanzotto sono di una penetrante acutezza, ripetute con l’intento di cogliere non solo la somiglianza, ma anche il senso e il sentimento poetico del personaggio”. Pier Paolo Pasolini. I disegni 1941/1975, cit., Introduzione. 26 Zigaina ricorda che “I ritratti della celebre cantante, che sono undici in tutto, sono stato eseguiti in due momenti cronologicamente e psicologicamente diversi. Il primo gruppo di sei è stato fatto nel 1969 durante le riprese di Medea, in parte nell’isola del Safon nella laguna di Grado e in parte a Cervignano del Friuli. Questi primi sei ritratti rappresentano la cantante di profilo e di mezzo profilo e l’immagine occupa l’intero foglio di carta. Il secondo gruppo di cinque risale, invece, a un breve periodo di vacanza trascorso da Pasolini e Callas nel 1970, nell’isola di Skorpios, in Grecia”. G. Zigaina, Pasolini e la morte, cit., p. 48.

27

Ibidem, pp. 49-50.

28

Ibidem, p. 51.

Una ricognizione nella filosofia junghiana mostra interessanti affinità tra il lavoro alchemico, rintracciabile nel nostro caso proprio nella mescolanza materica dei disegni del poeta, e la mimesis con il divino. Troviamo in Jung: “Senza saperlo, l’alchimista porta avanti nei suoi pensieri l’imitatio Christi e giunge alla conclusione, già esposta, che l’assimilazione completa al Redentore dia anche a colui che l’ha assimilato nel più profondo della sua anima la capacità di compiere l’opera di redenzione. Questa conclusione però è tratta inconsciamente, e l’alchimista non si sente dunque mai indotto a supporre che sia Cristo a effettuare l’opera in lui [...] Non vi è corrispondenza tra l’artifex e Cristo: è nella sua pietra meravigliosa che l’alchimista riconosce la corrispondenza col Redentore”. C. G. Jung, Psicologia e alchimia. Torino, Bollati Boringhieri, 2006, pp. 342-343. 29

Per un’esemplificazione di questa tecnica in Pasolini applicata anche al cinema è inevitabile il rimando alla costruzione della famosa Scena 6 della sceneggiatura de La ricotta (1963), in cui Pasolini descrive minutamente proprio il lavoro tutto alchemico della costruzione dei colori a partire dalla viva materia di fiori schiacciati e altro, seguendo commistioni che producono colori unici, quali le tonalità adorate dal poeta del “giallino di spighe o di un rosa di quei fiori che non so come si chiamino, credo rose selvatiche, cresciute rozzamente tra i cespugliacci della primavera”. Cfr. sceneggiatura de La ricotta, in: Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, cit., I, pp. 343-346. 30

31

G. Zigaina, Pasolini e la morte, cit., p. 53. Si veda comunque in Ibidem, pp. 52-55 (§ I

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ritratti di Maria Callas), per una più approfondita analisi della tecnica pittorica di Pasolini; e in: G. Zigaina, Pier Paolo Pasolini et la sacralité de la technique. Basilea, Balance Rief, 1984; e: G. Zigaina-A. Bonito Oliva, Disegni e pitture di Pier Paolo Pasolini. Basilea, Balance Rief, 1986. In un passaggio del poemetto Picasso, Pasolini sembra indicare l’affiorare dell’interiorità, fissata nell’Espressione, proprio attraverso l’operazione tutta materiale della pennellata: “L’espressione che sul pelo affiora | del quadro, come da intimità viscerali, | infetta di bruciante disamore | e ne squassa la squama di tonali | dolcezze, che, se resiste, e anzi, | irrigidisce, è per materiali, inebrianti cagli. Ma tra i balzi | graffianti del pennello, la zona | di quasi prativa luce, gli sfarzi | dei disaccordi, ecco l’Espressione: | che s’incolla alla cornea e al cuore, | irrichiesta, pura, cieca passione”. PPP, Picasso, in: Id., Le ceneri di Gramsci. Milano, Garzanti, 1957, pp. 27-35.

32

33

Cfr. Pier Paolo Pasolini. I disegni 1941/1975, cit., catalogo, n. 178.

Dice Gerard: “Obiettivazione alquanto morbosa che non può non far pensare, se non nel progetto, al ‘Bacchino malato’ della Galleria Borghese, il famoso autoritratto del Caravaggio, dipinto appunto quando, colpito da febbre terzana, come per primo l’affermò Longhi, il pittore si trovava all’Ospedale della Consolazione, poco dopo il suo arrivo a Roma, nel 1590”. F. S. Gerard, Ricordi figurativi, cit., p. 38. 34

35

PPP, La Divina Mimesis, cit., p. [XI].

PPP, Petrolio. Torino, Einaudi, 1993, p. 323, Appunto 71. Il Merda (Visione: paragrafo primo). 36

37 Stefano Casi inquadra la “performance” tutta corporale di Pasolini in una tendenza diffusa nell’avanguardia teatrale di quegli anni, citandone altri esempi: “A partire da Mishima fotografato nelle vesti di San Sebastiano nel ’63, e da Rudolf Schwarzkogler ripreso nella simulazione dei suoi cruenti foto-teatrini autolesionisti nel ’65/66, si sta sviluppando in questi anni una ricerca in cui l’artista pone sé stesso al centro di un trivio fra il proprio corpo, il suo mascheramento teatrale e la riproduzione fotografica dell’evento come testimonianza di un’azione performativa e, nel contempo, santino narcisistico-sacrificale. Gli autoritratti mutanti di Urs Luthi attorno al ’71 e i coevi tableaux vivants fotografici di Luigi Ontani esposto nudo nella reincarnazione dei vari San Sebastiano o Bacchino stralciati dalla storia della pittura segnano un tracciato su cui si innesta il Pasolini nudo degli scatti di Pedriali [le foto fatte a Pasolini a Chia nell’ottobre 1975, N.d.R.]”. S. Casi, I teatri di Pasolini. Milano, Ubulibri, 2005, p. 280.

38

Cfr. in D. Trombadori, Pier Paolo Pasolini. Figuratività e figurazione, cit., p. 69.

39

PPP, Manifesto per un nuovo teatro. Torino, Edizioni del Teatro Stabile di Torino, 1968,

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pp. 49, 51. Il Manifesto venne pubblicato per la prima volta in “Nuovi Argomenti”, gennaio 1968, numero nel quale si segnala anche: G. De Santi, Il teatro di parola, pp. 79-90. 40

Ibidem, p. 53.

S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., p. 269. Casi indica anche alcuni esempi coevi a Salò e interni al teatro d’avanguardia di quegli anni che sono andati “scoprendo ed esplicitamente citando Sade (Le 120 giornate di Sodoma di Giuliano Vasilicò, novembre 1972; S.A.D.E. di Carmelo Bene, ottobre 1974)”, ma anche un’azione scenica di Fabio Mauri, vecchio amico di Pasolini: “Che cos’è il fascismo, che ricostruisce un raduno giovanile nazifascista del ’39” e che mostra molti punti di contatto con il film pasoliniano. 41

A. Artaud, Il teatro e il suo doppio. Torino, Einaudi, 1968, p. 204. Nuovamente, però, fa la sua comparsa Barthes che riecheggia i precetti artaudiani stabilendo che nelle 120 journées de Sodome “Ciò che è innalzato sul trono è la Parola, organo prestigioso della mimesis”, ma “Fra la Mimesis e la Praxis (i cui luoghi saranno le ottomane e i gabinetti dell’ammezzato), si estende così uno spazio intemedio, che è quello della virtualità: il discorso attraversa questo spazio, e in questa traversata si trasforma gradatamente in pratiche”. R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola. Torino, Einaudi, 2001, p. 134. 42

“Blangis - Osservare, come stiamo qui facendo con passione non minore dell’apatia, Guido e la Vaccari che masturbano quei due corpi che ci appartengono mi spinge ad un certo ordine di interessanti riflessioni [...] Noi fascisti siamo i soli veri anarchici, naturalmente una volta che ci siamo impadroniti dello Stato. Infatti la sola vera anarchia è quella del potere. Tuttavia guardi lì, la gesticolazione oscena è come un linguaggio dei sordomuti, col suo codice che nessuno di noi, malgrado il suo illimitato arbitrio, può trasgredire.” Cfr. sceneggiatura di Salò o le 120 giornate di Sodoma, in: Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, cit., II, pp. 20412042. Il dialogo è la ripresa delle parole di Klossowski dal testo citato nella bibliografia all’inizio del film, cfr. P. Klossowski, Sade mon prochain. Milano, Garzanti, 1975, pp. 27-29 (edizione posseduta da Pasolini). 43

Nella prima delle Lettere sulla crudeltà, datata 13 settembre 1932, Artaud definiva con precisione il suo personale statuto della crudeltà, che diventa contestuale all’esercizio anarchico del dominio nel Salò-Sade: “Questa crudeltà non è fatta né di sadismo, né di sangue, almeno non in modo esclusivo. [...] Si può benissimo immaginare una crudeltà pura senza strazio carnale. Del resto, che cos’è la crudeltà in termini filosofici? Dal punto di vista dello spirito, crudeltà significa rigore, applicazione a decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta [...] C’è infatti nell’esercizio della crudeltà una sorta di determinismo superiore cui persino il carnefice-seviziatore è soggetto e che, all’occorrenza, deve essere determinato a sopportare”. Cfr. A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, cit., pp. 216-217. 44

45 Nella versione italiana Hélène Surgère viene doppiata, non casualmente, da Laura Betti, con la quale Pasolini condivideva un lungo rapporto di amicizia e collaborazione professiona-

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le. Si veda proprio la ‘dedica’ teatrale composta per l’attrice anni prima, Italie magique, che costituisce un esempio della scoperta pasoliniana di Brecht e nella quale il periodo della narrazione è strettamente connesso al 1944-’45 di Salò: “l’avvento del fascismo e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale ... (Luce) | (Entra Laura in doppiopetto nero) Io sono l’Influenza Ideologica Borghese | Trasformo l’innocenza del popolo in stupidità | e gliela faccio pagare a sue spese”. Cfr. PPP, Italie magique, in: Potentissima signora. Canzoni e dialoghi scritti per Laura Betti. Milano, Longanesi, 1965, p. 191. PPP, Femmes femmes, Postumo 1974, ora in: Pier Paolo Pasolini. Scritti sulla letteratura e sull’arte, cit., II, pp. 2266-2267 (corsivi nel testo). 46

47 La dinamica dell’umorismo in Salò trova alcune corrispondenze anche in Freud, che la giustifica inoltre nella fruizione di più soggetti: “Il motto tendenzioso richiede generalmente la presenza di tre persone: oltre a quella che dice il motto ce n’è una seconda, che viene fatta oggetto dell’aggressione ostile o sessuale, e una terza, nella quale si attua il proposito del motto, quello di produrre piacere”. S. Freud, Il motto di spirito e le sue relazioni con l’inconscio. Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 89 e ss.

48 Sulla questione della “sinistra comicità” voluta da Pasolini a livello di progetto e poi di elaborazione in fase di montaggio si rimanda ad un’intervista di Gian Luigi Rondi al regista: “[...] un umorismo che talvolta esplode in dettagli di improvvisa e sinistra comicità; per cui tutto improvvisamente vacilla [...] a causa appunto del satanismo grandguignolesco della propria autocoscienza [...] è lì che avviene il dosaggio tra serietà e impossibilità della serietà, fra un truce sanguinolento Thanatos e un Baubon cheap (Baubon o Bauba era una divinità greca, non ben definita del resto, del riso liberatore: o meglio osceno e liberatore)”. Cfr. intervista di G. L. Rondi su “Il Tempo”, 24 agosto 1975, ora in: Note e notizie sui testi a: Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, cit., II, pp. 3155-3159 (3158). Si veda anche una ‘definizione’ di Pasolini nel poema Petrolio: “Voglio aggiungere che il ‘riso’ cui qui si accenna [...] trova la sua spiegazione in una lunga tradizione appunto misterica [...] D’altronde è noto come il ‘riso’ abbia una funzione risolutrice di crisi cosmiche, se causato da esibizione di ‘membro’ o ‘vulva’”. PPP, Petrolio, cit., pp. 386-387 (Appunto 74a. Glossa). Sulla divinità di Baubon si ritrova inoltre che “Altre tradizioni [...] la identificano con la stessa Ecate; in tale veste essa personifica gli spettri del mondo infernale e gli incubi della notte”. Cfr. A. Ferrari, Dizionario di mitologia greca e latina. Torino, Utet, 2002, p. 110.

49

A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, cit., p. 159.

T. Villani, Una scrittura di carne e sangue. In: Antonin Artaud. Il sistema della crudeltà. Gli affetti, le intensità, il linguaggio dei corpi. Milano, Mimesis, 1997, p. 68. 50

51

N. O. Brown, Corpo d’amore. Milano, Il Saggiatore di A. Mondadori, 1969, p. 115.

52

M. Foucault, Sade, sergent du sexe. Intervista a G. Dupont in: “Cinematographe”, n. 16,

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décembre 1975-janvier 1976, pp. 3-5; ora in: Id., Dits et ecrits I, 1954-1975. A cura di D. Defert e F. Ewald. Paris, Gallimard, 2001, p. 1688 (trad. it. di G. Trento). 53

G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita. Torino, Einaudi, 1995, p. 126.

N. Frye precisa inoltre: “A livello archetipo propriamente detto, dove la poesia è un prodotto della civiltà umana, la natura è capace di contenere l’uomo. A livello anagogico l’uomo è capace di contenere la natura, e le sue città e i suoi giardini non sono più delle piccole intaccature sulla superficie della terra, ma le forme dell’universo umano”. N. Frye, Anatomia della critica. Torino, Einaudi, 2000, p. 189. 54

55

R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola, cit., pp. 128-129.

J. Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione. Venezia, Marsilio, 2002, pp. 11-14. Il saggio rimanda inoltre ad alcune considerazioni di Bentham sull’utilità della tortura, cfr. W. L. Twining-P. E. Twining, Bentham on torture. “Northern Ireland Legal Quarterly”, Vol. 24, n. 3, 1973. Vengono qui analizzati testi inediti scritti da Bentham verso il 1777. 56

57

G. Cuppini-A. M. Matteucci, Ville del bolognese. Bologna, Zanichelli, 1969, p. 3.

58

C. Malaparte, Strapaese e stracittà. “Il selvaggio”, 10 novembre 1927.

L. Nuti-R. Martinelli, Le città di Strapaese. La politica di fondazione nel ventennio. Milano, F. Angeli, 1981, p. 157.

59

60 Nella scheda 3.4 (La villa borghese ottocentesca e la perdita di significato della grande villa aristocratica) Cuppini e Matteucci precisano inoltre: “Nell’800 la città rientra in una modesta dimensione provinciale, la nobiltà esautorata perde importanza politica, la borghesia che la sostituisce non tenta di gareggiare con le grandi antiche residenze nobiliari, ma si costruisce comode e elementari case di campagna con la loggia passante [...] e le tempere (fatte alla buona) alle pareti”. Cfr. G. Cuppini-A. M. Matteucci, Ville del bolognese, cit., p. 75.

Su Villa Aldini si ricorda anche che “per la presenza del luogo tradizionalmente di culto, si formò una Pia Unione che, con sussidio del Comune, acquistò la villa e fece adattare la parte centrale a chiesa, che non fu però mai adibita al culto per l’aspetto smaccatamente “pagano” dell’edificio”. Ibidem, p. 74. 61

A. Bertini, Teoria e tecnica del film in Pasolini. Roma, Bulzoni, 1979, pp. 192-193. Si ritrovano puntuali e interessanti riferimenti al lavoro scenografico e ai luoghi in cui si è dipanata la lavorazione del film nel biasimevole diario di Uberto Paolo Quintavalle (che nel film interpreta Curval), uscito subito dopo la morte di Pasolini, e particolarmente interessante la seguente considerazione: “Fece arredare le camere in stile “anni trenta”, ma in maniera tale che sembravano far parte di un’abitazione piccolo-borghese di provincia piuttosto che di un 62

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ricco castellano”. Cfr. U. P. Quintavalle, Giornate di Sodoma. Ritratto di Pasolini e del suo ultimo film. Milano, SugarCo, 1976, pp. 56-57. Per ulteriori riferimenti si rimanda anche a: M. Mancini-G. Perrella, Pier Paolo Pasolini. Corpi e luoghi. Roma, Theorema, 1991. Cfr. G. Borgna, Pasolini e il cinema (o della corporeità). In: Perchè Pasolini. Ideologia e stile di un intellettuale militante. Firenze, Salani, 1982, p. 128. Ricordiamo quello che diceva Pasolini riguardo alle fasi dei Modi della sostantivazione in Empirismo eretico e, limitatamente alla prima, in cui il processo di selezione ed equilibratura dei cinèmi in proporzione ai monèmi equivale anche a quel nuovo stile di Salò, in cui la “sostantivazione” è come integrata nel discorso degli “oggetti” scenografici: “1) Limitazione delle unità di seconda articolazione, ossia dei cinèmi. Cioè che chi parla cinematograficamente deve fare sempre una scelta degli illimitati oggetti, forme e atti della realtà, in funzione di quello che vuole dire. Insomma deve anzitutto cercare di fare della lista dei cinèmi una lista chiusa. Ciò non sarà mai possibile, e si raggiungerà dunque solo una chiusura relativa, o una tendenza alla chiusura. Da ciò, regolarmente, deriva una “lista aperta” delle unità di prima articolazione, o monèmi cinematografici (inquadrature): queste potranno dunque essere infinite”. PPP, Empirismo eretico. Milano, Garzanti, 1972, p. 213. 63

64 L’esemplare di Salò presenta somiglianze, ad esempio, con la Armchair with tapering back (1900), disegnata da Mackintosh per la Front Hall di Windyhill (rovere con schienale curvo, cm. 133,5x73x54,5), cfr. F. Alison, Le sedie di Charles Rennie Mackintosh. Milano, Electa, 1976, catalogo, n. 10, p. 44. Alison sottolinea che “L’austerità monastica e medioevale di questo pezzo è emblematico del sentimento di Mackintosh verso il vernacolo e l’archetipo lontano”. Sulla peculiarità del lavoro di Mackintosh nell’architettura d’interni si veda: G. C. Argan, L’Arte Moderna 1770/1970. Firenze, Sansoni, 1970, p. 235 e ss.

65 La “presa di distanza” della visione al binocolo sembra rimandare a quello che dice Foucault sulla graduale “scomparsa dei supplizi” applicati al corpo in epoca moderna, che diventa simbolico per Salò e la sua idea di nuovo e più subdolo potere sui corpi esercitato dal nuovo fascismo: “Il corpo, secondo questo tipo di penalità, è irretito in un sistema di costrizioni e di privazioni, di obblighi e di divieti. La sofferenza fisica, il dolore del corpo, non sono più elementi costitutivi della pena. [...] Se è ancora necessario, per la giustizia, manipolare e colpire il corpo dei giustiziandi, lo farà da lontano, con decenza, secondo regole austere, [...] Per effetto di questo ritegno, tutto un esercito di tecnici ha dato il cambio al boia, anatomista immediato della sofferenza”. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione. Torino, Einaudi, 1993, p. 13 (corsivo mio).

Per le sequenze finali la produzione passa alle riprese in studio, andando a ricostruire il cortile nello Studio 15 di Cinecittà.

66

La sedia elettrica, che si intravede fra altri elementi del cortile, è parte di alcune delle sequenze finali girate e in seguito non incluse nel montaggio della versione finale di Salò. Si possono rintracciare alcune fotografie delle sequenze in cui alcune vittime vengono garrotate 67

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e legate alla sedia nel libro fotografico di Fabian Cevallos, Salò. Mistero, crudeltà e follia. Roma, L’Erma di Bretschneider, 2005. Ricordiamo che la versione ufficiale del film è mutila di 21 minuti (589 metri di pellicola) rispetto a quella originale, che venne scorciata anche dal furto di alcune bobine presso i magazzini della casa di produzione PEA. “[...] le immagini di lavoro compiuto per scopi perversi: macchine di tortura, armi per la guerra, armature, e immagini di strumenti meccanici senza vita che, in quanto non umanizzano la natura, sono e innaturali e inumani. Al posto del tempio o dell’edificio dell’apocalisse, abbiamo la prigione o la cella o la fornace chiusa ermeticamente, caldissima e senza luce, come la città di Dite in Dante”. N. Frye, Anatomia della critica, cit., p. 197. 68

69 E. Bruno, Salò. Due ipotesi. La “rappresentazione”. “Filmcritica”, XXVI, n. 257, settembre 1975, p. 268.

70

E. Siciliano, Salò, l’ultimo processo. “Il Mondo”, 27 novembre 1975, p. 53.

71

A. Bertini, Teoria e tecnica del film in Pasolini, cit., p. 65.

72

T. Adorno, La musica per film. Roma, Newton Compton, 1975, p. 47.

Il dibattito “elitario” dei quattro Signori nella camera, per la prima volta nella totale assenza delle vittime (se si eccettua l’iniziale stesura delle Regole), crea una somiglianza anche con il Sade de La filosofia nel boudoir, alla lettura dell’opuscolo repubblicano da parte di Dolmancè, che fa allontanare il giovane e plebeo giardiniere, puro oggetto di lussuria, affinchè non ascolti i discorsi intellettuali degli aristocratici; si può rintracciare in Barthes (Il linguaggio di Agostino): “1) La morale è rovesciata: [...] Sade fa uscire l’oggetto di lussuria perché non senta il discorso serio del libertino [...] 2) il discorso che fonda una morale repubblicana è paradossalmente un atto di secessione linguistica [...]; la scena libidinosa è una mescolanza sfrenata di corpi ma non dei linguaggi: l’erotismo panico si ferma alla divisione dei socioletti”. R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola, cit., pp. 146-147. 73

La citazione di “Dada” collega inoltre Salò ancora al teatro pasoliniano e precisamente alla tragedia Porcile, nella quale “in una prima versione del testo teatrale, Julian incontrava un personaggio simbolico che si presentava come ‘Zaum, fratello di Dadà’”. Cfr. Pier Paolo Pasolini. Teatro. A cura di W. Siti e S. De Laude. Milano, Mondadori, 2001, p. 650.

74

R. Chiesi, Visioni di misteri, massacri ed ultimi rituali. In: Al trionfo dell’esserci. Teoria e prassi nell’ultimo cinema di Pier Paolo Pasolini. A cura di N. Novello. Firenze, Manent, 1999, p. 191. Si veda anche la discussione, contenuta nello stesso brano, sullo humour e il “sarcasmo senza liberazione” di Salò. 75

76

Cfr. Infra, p. 76.

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Per un’analisi della presenza della musica di Bach nel cinema pasoliniano si rimanda anche a: A. Cadoni, “Cinema e musica ‘classica’: il caso di Bach nei film di Pasolini”, relazione al “IX Seminario di Musica e Filosofia”, Maratea, 26-31 luglio 2004, http://users.unimi.it/∼gpiana/dm9/cadoni/cadoni.html 77

78

G. Long, Johann Sebastian Bach. Il musicista teologo. Torino, Claudiana, 1997 2, p. 115.

Il valore dell’accostamento dei Carmina Burana utilizzati da Pasolini in quanto “musica tipicamente fascista” alla musica popolare di Salò era sottolineato da Ugo Casiraghi in un suo articolo in cui diceva che “i Carmina Burana furono strumentalizzati dal nazismo. I ballabili sono strumentalizzati dal consumismo”. U. Casiraghi, “Salò”: sulla violenza lo sguardo della ragione. “L’Unità”, 23 novembre 1975, p. 3. 79

Carmina Burana. Con i Carmina Burana musicati da Carl Orff. A cura di M. C. Cardona. Parma, Guanda, 1995, pp. 11-12 (in part. § I seguaci del Beato Libertino). 80

Ibidem, pp, 12-13, 19. Per il testo dei Carmina Burana, si rimanda anche a: P. Rossi, Carmina Burana. Testo latino a fronte. Milano, Bompiani, 1995; e: Carmina Burana e altri canti della goliardia medievale. Trascelti e commentati da E. Massa. Roma, Edizioni Giolitine, 1979. 81

Si potrebbero richiamare alcuni passaggi interessanti per la loro aderenza ai caratteri della storia di Salò; si veda ad esempio un accenno alla pulsione esibizionistica dei Signori nel Canto 8, rit. 2 del Primo vere: “Seht mich an, | jungen man! | lat mich iu gevallen! | Minnet, tugentliche man, | minnecliche frouwen! | minne tuot iu hoch gemuot | unde lat iuch in hohen eren schouwen | Seht mich an, | jungen man! | lat mich iu gevallen!” (“Su, guardatemi, | ragazzi!| Piacervi voglio! | Amate, valentuomini | e voi, donne d’amore! | L’amore vi fa lieti | e vi da molto onore. | Su, guardatemi, | ragazzi!| Piacervi voglio!); mentre il testo dei Carmina richiama anche l’impulso sadomasochistico, laddove, all’inizio del Canto 22, si dice: “In trutina mentis dubia | fluctuant contraria | lascivus amor et pudicitia. | Sed eligo quod video, | collum iugo prebeo; | ad iugum tamen suave transeo”. (“Sull’incerta bilancia della mente | oscillano in contrasto lascivia e pudicizia. | Ma scelgo ciò che vedo, | protendo il collo al giogo; | ad un giogo però soave cedo.”). Per finire con una sorta d’imitazione della lingua sadiana nell’allusione al rapporto sessuale e all’orgasmo, nel Canto 23, ritt. 4-5 ancora dei Carmina: “Oh - Oh, | totus floreo, | iam amore virginali | totus ardo, | novus, novus amor | est, quo pereo. | Veni, domicella, | cum gaudio, | veni, veni, pulchra, | iam pereo.” (“Oh - Oh | tutto fiorisco | e di vergine amore | tutto brucio. | È nuovo, è nuovo l’amore | di cui muoio. | Vieni, donzella, | fammi felice, | vieni, vieni, bella, | già mi sento morire)”. 82

83

P. Rossi, Carmina Burana, cit., p. 23.

84 G. Manzoli, Voce e silenzio nel cinema di Pier Paolo Pasolini. Bologna, Pendragon, 2002, p. 72.

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85

R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola, cit., p. 147.

86

G. Manzoli, Voce e silenzio nel cinema di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 74.

Ricordiamo che i quattro Signori, con l’eccezione di Paolo Bonacelli (Il Duca/Blangis), unico attore professionista del gruppo, sono stati doppiati con le voci di illustri amici di Pasolini, scelti per le loro particolarità timbriche ed espressive: Giorgio Cataldi (il Vescovo) è doppiato dallo scrittore Giorgio Caproni; Uberto Paolo Quintavalle (Sua Eccellenza/Curval) doppiato da Aurelio Roncaglia (ma alcune fonti indicano Giancarlo Vigorelli); infine, Aldo Valletti (Il Presidente/Durcet) è doppiato dal regista Marco Bellocchio. Si rimanda all’interessante testimonianza di Caproni sulla sua esperienza di doppiaggio del film in: PPP, Lettere 1955-1975. Con una cronologia della vita e delle opere a cura di N. Naldini. Torino, Einaudi, 1988, p. CLXI. Per alcune considerazioni di Pasolini sull’utilizzo del doppiaggio nel cinema si rimanda ad un’intervista del 1970, cfr. Sul doppiaggio, in: Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, cit., II, pp. 2785-2789. 87

Il grido replica le parole del Cristo sulla croce in Matteo, 27, 46 (che rimandano a loro volta all’incipit di Salmi, 21). 88

89

R. Tomasino, Il vuoto della traccia. “Filmcritica”, XXVI, n. 275, settembre 1975, p. 271.

90

M. Chion, La voce nel cinema. Parma, Pratiche, 1991, p. 97 (corsivo mio).

91

R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola, cit., p. 130.

92 Per un interessante confronto tra Pasolini e Barthes, al di là del discorso su Salò e Sade, si veda: H. Joubert-Laurencin, Pasolini-Barthes. Engagement et suspension de sens. “Studi pasoliniani”, 1/2007, pp. 55-67.

93

R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola, cit., p. 153.

94

G. Manzoli, Voce e silenzio nel cinema di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 135.

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Parte terza - La Mimesi

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Capitolo terzo PREMESSA MEtOdOLOGIcA

La terza parte della pubblicazione, come anticipato, analizza la gamma dei riferimenti pittorici e iconografici presenti nel film. L’elenco dei riferimenti pittorici è articolato in una serie di voci disposte secondo un ordine alfabetico per autori e correnti. Le sequenze o inquadrature abbinate ai riferimenti iconografici vengono richiamate da una nomenclatura convenzionale che rimanda direttamente alla partitura sinottica per la quale si rimanda alla Nota 1 e così strutturata: la prima area (‘Seq.’) identifica il contesto, ovvero la sequenza intesa come unità di una stessa sezione del film; la seconda area riporta il numero progressivo che identifica la sequenza all’interno della narrazione (es: Seq.2: “Rastrellamenti”; Seq.4: “Selezione maschi (1)”); in alcuni casi, una terza e ultima area specifica il numero dell’inquadratura all’interno di una stessa sequenza (es.: Seq.4.5: Selezione maschi. Arrivo dei signori di fronte al gruppo delle vittime-maschi da selezionare). All’interno di ogni voce l’approfondimento critico è seguito da una bibliografia essenziale.

Fuori testo. La bibliografia e la didascalia Interne e contemporaneamente esterne al suo testo, in Salò si affacciano due ‘intrusioni’ tipografiche che Pasolini inserisce con programmata malizia: entrambe nel classico carattere “Bodoni”, antico compagno del poeta a partire dall’epoca delle riviste culturali fino ad arrivare ai titoli di testa di Accattone e oltre. La prima, forse la più inusuale e la più rara che si possa ritrovare in un contesto cinematografico, è la “Bibliografia essenziale” del film: ad un primo sguardo, una manifestazione di civetteria intellettualistica pasoliniana che, banalmente, sembrerebbe voler educare e sostanziare la visione con una serie di riferimenti colti ed esplicativi; ad uno sguardo più attento, la definizione di una parte significativa della progettualità di Salò, ovvero il carattere della sua extratestualità. L’apparato testuale compare all’inizio del film-testo (non alla fine, si badi) e con la seguente elencazione: Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola, Editions du Seuil Maurice Blanchot, Lautreamont et Sade, Editions de Minuit (ed. it. Dedalo libri) 113

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Simone de Beauvoir, Faut-il bruler Sade?; Editions Gallimard Pierre Klossowski, Sade mon prochain-Le philosophe scelerat, Ed. du Seuil (in Italia Sugarco Edizioni) Philippe Sollers, L’ecriture et l’experience des limites, Editions du Seuil Alcuni brani dei testi di Roland Barthes e Pierre Klossowski sono citati nel film. Il cartello della bibliografia ragionata precede i fatti e, soprattutto, i discorsi del film ed è il puntello di tutta la sua costruzione: Salò o le 120 giornate di Sodoma è un’opera che esce da sé stessa, lascia la traccia appena accennata del precisissimo riferimento storico (la Repubblica di Salò della fin du régime fascista) per costituirsi come un’astrazione proprio sulla morte della Storia, anche attraverso la lettura attualizzata dell’”universo orrendo” del neo-capitalismo e del nuovo fascismo che deriva dalla critica giornalistica degli Scritti corsari. Oltre a ciò, è ancora più importante osservare che la gelidità del ‘Mistero’ di Salò, nella sua apparenza però così cristallina (perché sono il nitore e la precisione così incrollabili e iterativi che lo rendono un’astrazione che distanzia), sembra essere scardinata solo dall’effrazione analitica della critica testuale, la novecentesca applicazione degli illustri esegeti ascritti in bibliografia sul settecentesco autore del testo di partenza (Sade); ma accade poi che quegli stessi critici sono fatti merce e proprietà personale dai quattro potenti sadiani, che sono figure allegoriche della mercificazione totalitaristica, e che si appropriano di quel sistema culturale con la citazione delle parole dei loro esegeti, in una reductio ad absurdum storico-temporale che sigilla il cortocircuito del ‘testo-fuori-da-sé’. Anche la cultura è merce, e le elucubrazioni dei quattro Signori qui si rifanno alla “grande cultura della decadenza, da Schopenauer a Nietzsche”, anche se “non a lui quanto piuttosto al nietzscheanesimo [...] Pasolini nel suo film si ricollega come a quel “movimento intellettuale” della borghesia decadente a cui gli ideologi del nazismo si sono rifatti, teoricamente essi quanto praticamente l’apparato statale, quello economico, quello di partito e in genere la macchina sociale tedesca” mentre nei discorsi dei Potenti “Ad indicare che tutto ciò appartiene alla classe borghese nella sua totalità, [...] le stesse parole vengono attribuite dai “signori” anche a Baudelaire, Paolo e Dada: i quattro non sanno decidersi ad attribuire ad esse l’esatta paternità: in realtà esse appartengono a tutto un mondo, a tutta una storia e a tutta una cultura” 2.

Le didascalie, o cartelli nella fattispecie, completano la premessa della Bibliografia corroborandone il valore: con la loro presenza interiettiva vogliono 114

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dare ad un tempo un’indicazione didascalica, come accade con il cartello introduttivo, ed una poetica: la prima 1944-’45. Nell’Italia settentrionale durante l’occupazione nazifascista è una precisazione che inserisce una fintamente cronachistica connotazione temporale 3. Il ‘cartello’ pasoliniano qui non ha nessuna funzionalità epico-brechtiana, non è propriamente straniante, ma è semmai uno strumento prezioso per iniettare in Salò un altro antico oggetto d’amore che Pasolini proprio in quel periodo utilizza nella sua poesia con la composizione e pubblicazione della Divina Mimesis: il verbo dantesco, insomma, che si riflette nel verticalismo teologico e, soprattutto, nella ripetizione rituale di una costruzione quaternaria 4. In conclusione, l’Antinferno sigilla la pasoliniana fascinazione dantesca caratterizzando l’impianto generale di Salò, mentre la scansione del Girone delle Manie, del Girone della Merda e del Girone del Sangue ci rimanda direttamente a Dante quanto, trasversalmente, come segnala Erminia Passannanti, al valore di “macrosequenze [...] tematicamente concatenate a rispecchiare le tre diverse fasi storiche della caduta del regime fascista” 5.

Note 1

Infra, pp. 29-30.

2

R. Escobar, Pier Paolo Pasolini. Salò o le 120 giornate di Sodoma, cit., pp. 198-199.

Più circostanziato e maggiormente allusivo è il cartello che indica “Marzabotto” e che rimanda al massacro di 1836 persone condotto da Karl Reder nel paesino omonimo proprio nello stesso periodo del 1944 (29 settembre-5 ottobre) e con il quale si crea un ponte ideale con gli eccidi contenuti in Salò. 3

4 Per un prospetto della suddivisione quaternaria utilizzata da Pasolini quanto da Sade si veda in R. Escobar, Pier Paolo Pasolini., cit., pp. 184-185.

E. Passannanti, Il corpo & il potere. Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini. Novi Ligure, Joker, 2008, p. 50. 5

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Balla, Boccioni, duchamp, Léger La presenza dell’Avanguardia in Salò potrebbe intendersi come un dato sinottico: è una misura, o uno schema di riferimento globale della simbologia incarnata dal Potere di “fine impero” di questa declinazione delle 120 journées de Sodome, ma viene distribuita tassonomicamente nel film come bozzetto, cammeo o comunque come ‘pezzetto’ decorativo dentro all’immagine, esterno e non interno alla dinamica compositiva dell’inquadratura. I quadri della “Metafisica” e futuristi o cubisti 1 presenti principalmente nelle camere déco dei Signori sono innanzitutto una imitatio, sono copie chiaramente identificabili e, come diceva Mario Verdone in un articolo già citato, “sono efficaci anche perché sono falsi, e quindi il peso della loro presenza arriva attutito” 2, ma al contempo rappresentano e sottolineano la persistenza di un’unità simbolica utile a rimarcare la commistione nel film di arte classica (allegorica portatrice ortodossa di rigore ed equilibrio etici) e cosiddetta “arte degenerata” 3 (il “modernismo” novecentesco che rimanda invece alla folle tabula rasa-selezione-rieducazione morale-estetica delle giovani vittime 4). L’Avanguardia serve così a Pasolini per definire ulteriormente il coté anche culturale del progetto sadiano-fascista dei quattro Potenti, ovvero la sua riformulazione anti-culturale dell’arte; semmai, l’esposizione abnorme della pittura e dei murales-affreschi “modernisti” nella camera di Blangis/Bonacelli ricolloca il principio artistico dell’opera, del singolo pezzo da collezione nel circolo di un’esibizione virulenta di Potere anche economico e di una riscrittura del suo significato culturale: “La scenografia evidenzia l’interesse del Duca libertino per la sintesi astrattiva del discorso cubista, che accresce l’enfasi sulle nuove mitologie dell’Occidente industrializzato. [...] la presenza di opere d’arte novecentiste indica la proletarizzazione dell’arte da parte delle élite intellettuali, ed è, al contempo, denuncia degli stretti rapporti che l’arte contemporanea mantiene con l’industria culturale” 5.

L’accostamento di Pasolini sembra stare dietro alle questioni che si poneva Ardengo Soffici in merito a quali fossero i rapporti tra la politica (e il fascismo) e l’arte e in un certo modo ne esemplifica una conferma. Nei suoi Ricordi di vita artistica e letteraria Soffici osservava intanto che “i partiti politici trascurano in generale d’includere nel loro programma le idee e i propositi ch’essi hanno circa le funzioni delle arti nell’assetto sociale che preconizzano e che cercano di attuare in un dato paese”; ma soprattutto risaliva alla questione di una incompatibilità tra natura politica e forme d’arte sostenute e 117

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incoraggiate, quando rilevava che, ad esempio i partiti borghesi-conservatori, che per coerenza di principi avrebbero dovuto rivolgersi verso “le forme e i tipi che per comodità di discorso definiremo con la parola di classici”, muovevano sorprendentemente in direzione opposta: “Ma c’è bisogno di dire che questo non avviene invece affatto? Basta pensare e ricordare un poco, per rendersi conto che l’arte da essi partiti prediletta e protetta, o almeno adottata ogni volta che se ne sia presentata l’occasione, per fini pratici o di propaganda, è di tutt’altro carattere e di tutt’altro genere. Spesso è quella informata a principi in pretta contraddizione col classicismo e che del classicismo sono una precisa e violenta negazione. Si vedano i manifesti, le decorazioni, le illustrazioni, i monumenti, gli addobbi dove si rispecchiano i gusti e le preferenze della gente politica borghese o dell’ordine. Similmente si leggano le critiche dei loro giornali e delle loro riviste, o libri, e si osservino le opere plastiche dei loro partigiani!” 6.

Pasolini quindi ricalca lo stato delle cose che le parole di Soffici evocavano con la scelta eversiva e spiazzante dei quattro borghesi di arredare mercantilmente le pareti delle loro camere con dipinti d’Avanguardia che neanche comprendono, ripetendo nel gesto il senso delle loro disquisizioni pseudo-colte e del loro gioco della citazione “ironico-colta”, come la definiva Adelio Ferrero 7, ma esercitando in fine quello che sempre Soffici etichettava come “il borghesucolismo più pidocchioso”. L’arte fascistizzata in Salò segue, in fondo, la progettualità del disegno sadico dei quattro Potenti libertini: il pervertimento dell’Arte a sua volta, nella sua riduzione ulteriore a feticcio mercificato e vuoto di valore culturale (inoltre adombrato da una rappresentazione in forma di copia, quindi di falso artistico che rimetterebbe in gioco una considerazione ed un’idea di circolazione mercantile dell’opera ancor più pervertito e immorale), è equivalente, per intenzioni, a quello di una forma ortodossa di Società e, ovviamente, a quello della Sessualità e delle sue più codificate e normali ‘procedure’ o addirittura della riconoscibilità del suo segno e delle più sane, e altrettanto codificate, dinamiche interpersonali all’interno di quella Società. Un intento, quello dei quattro Signori sadiani, a sua volta eccentrico e rivoluzionario, sostenuto da un’idea di sovvertimento dell’ordine non supportata poi dall’azione e dal risultato di una sospirata e irrealizzata “soluzione finale”, ma svolto sul succedersi episodico dei ridicoli e laidi siparietti di una messinscena volgare e piccolo-borghese (seguendo un autarchico e alternativo canone di bellezza), non sulla rigorosa costruzione di un progetto criminale a misura hitleria118

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na, anche se in piccola scala. Un’insipienza politica e di classe che sembra cercare nervo in quelle Avanguardie figurative che nascono dal seme di ‘Manifesti’ e programmi aggressivi e assoluti; dice Tempesti: “È vero che in certe epoche, in politica sostanzialmente statiche, avanguardie o neoavanguardie intellettuali e artistiche, si concretano come equivalenti formali, come, in pratica, surrogati di una rivoluzione - borghese o proletaria in questo caso non fa differenza - giudicata e vissuta come impossibile; ma le avanguardie che precedettero la prima guerra mondiale e che non a caso si dicono storiche, un indubbio risultato di rinnovamento intellettuale della borghesia lo ottennero, come ottennero alla fine l’entrata in guerra, che non giovava ai socialisti e che i socialisti non volevano” 8.

Le copie “moderniste” di Salò risalgono in definitiva ad una serie di modelli precisi ed esemplari, sventolati dalla finzione pasoliniana come richiami ad un momento artistico utilizzato a scopo simbolico e ad autori e opere emblematici. In questo modo, anche la congerie di quadri di varie misure e dei muralesaffreschi è un mezzo per veicolare l’idea di un possesso dell’opera d’arte economico più che intellettuale, dove la varietà è più che altro una massa, una generalità indistinta di bozzetti in cui l’opera stessa scompare e viene annichilita e umiliata nel suo valore di unicità, quindi in quella che dovrebbe essere, in un’ottica non pervertita come questa (ovvero non mercantile-industriale), la sua preziosa significazione artistica. Dentro a questa sprezzante selezione d’arte si può dunque procedere per rintracciarne gli autori originali e i loro più o meno riconosciuti “capi d’opera”. Partendo magari da Giacomo Balla: che nel giugno 1913, nell’occasione della pubblicazione di Fotodinamismo futurista, corredato anche di alcune fotodinamiche tra cui una delle sue già varie creazioni in questo ambito, “Si dichiara seguace di Marinetti, [...] e dichiara inoltre, rivendicando una discendenza legittima contro l’opposizione dei pittori futuristi, che la fotodinamica gli era stata ispirata dal Manifesto tecnico” 9. La questione della “sensazione dinamica” presente nelle enunciazioni di quello e altri Manifesti si conciliano comunque con il problema del dinamismo, che diventa basilare nella pittura di Balla e, ancor prima, nella sua produzione fotodinamica influenzata da Anton Giulio Bragaglia. Nel ‘simil-futurismo’ di Salò si potrebbe cogliere intanto la somiglianza con opere come Velocità astratta e Velocità d’automobile+luce (1913) (Seq.18.1 e 119

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ss.): a queste si potrebbe aggiungere il Volo di rondini, sempre del periodo 1912’13, che è un motivo inserito in questo biennio in cui Balla comincia a muovere verso il superamento della fotografia per giungere alla “unione di figura e ambiente in una stessa formulazione dinamica dello spazio”10. Questo è anche il periodo delle Linee andamentali+successioni dinamiche (1914) con cui il pittore prosegue la personale rivoluzione della sua concezione di dinamismo che chiama in causa anche il “percorso temporale dei corpi in movimento”, residuo questo del periodo fotodinamico; e proprio al centro di questo periodo sta la maggiore portata avanguardista della sua pittura (ironicamente quella che avrebbe potuto essere meglio apprezzata nel disegno eversivo dei quattro Potenti di Salò se fosse stata da loro capita) e nella quale “lo spazio prospettico tradizionale, in cui interviene la modificazione temporale del moto come quarta dimensione, scoppia letteralmente e Balla ne raccoglie i frammenti per formularne una nuova immagine” 11. Seguono, nell’elenco delle somiglianze possibili, i più tardi Espansione di primavera e Linee forza di paesaggio (1918) (sempre in Seq.18), che mantengono ancora agganci con la ricerca dinamica del periodo delle Linee andamentali come anche delle Compenetrazioni iridescenti (denominazione però assegnata retroattivamente dalla critica dopo il 1950). Bisogna però fare un passo indietro per scoprire anche curiose coincidenze tra Salò e la pittura di Balla; al 1912 per la precisione, quando il pittore si reca a Dusseldorf per occuparsi della decorazione degli interni di casa Loewenstein, da cui scaturisce un piccolo Paesaggio di Dusseldorf, ma soprattutto uno studio sulla luce dal titolo Finestra di Dusseldorf (1912), che espone un binocolo appoggiato sul davanzale di una finestra aperta e che crea un ponte sorprendente con una sequenza basilare del film: il quadro sembra infatti un riassunto per immagini e oggetti dell’epilogo delle torture guardate dalla camera dai Signori (Seq.28), che si aiutano proprio con un binocolo identico a quello illustrato da Balla, davanti ad una finestra invasa da una identica luce pallida e giallognola. A questo proposito è da rilevare che è proprio di questi anni la disillusione verso il Futurismo con il conseguente diradarsi dell’attività pittorica di Balla in favore dell’interesse per i progetti decorativi d’interni, comprendenti l’elaborazione e la costruzione di “lampade futuriste” e soprammobili, fino alla carta da parati e ai vestiti 12. È l’unione di un’attività artistica onnicomprensiva con i principi della Ricostruzione futurista dell’Universo (1915) elaborata a quattro mani con Fortunato Depero 13 e con l’invenzione dei “complessi plastici”, che vengono “riprodotti su “Roma Futurista” del febbraio 1920 per accompagnare un articolo intitolato Il dinamismo plastico per la decorazione della casa futurista: l’ideolo120

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gia decaduta diventa soprammobile” 14. Si legge nel Manifesto della Ricostruzione futurista dell’Universo: Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente La riuscita formale di Balla in questo faceva dire a Gino Galli che il pittore “in Italia, per primo, ha pensato alla industrializzazione del futurismo all’arte nostra applicata, agli oggetti d’uso comune” 15. A questo primato di Balla nell’ambito anche decorativo futurista si potrebbero allora ascrivere due questioni inserite nel nostro discorso: nella “industrializzazione del futurismo” e nella ideologia decaduta a soprammobile potremmo ravvisare una circolarità tra il pervertimento dell’arte in senso mercantile e anticulturale operato dai quattro Potenti e la loro scelta di selezionare opere d’Avanguardia come decorazione della loro personale Ricostruzione perversa della realtà. E in secondo luogo, è lecito ipotizzare somiglianze intuibili tra i murales “modernisti” (e légeriani) delle camere borghesi e i bozzetti perduti per la decorazione del cabaret romano del Bal Tic Tac del 1921, rimasto però in una descrizione di C. Caillot su “Les Tablettes” riportata da Marinetti nello stesso anno: “gli stessi muri sembrano danzare: grandi linee architettoniche si compenetrano nelle tonalità franche dei blu chiari e profondi... un enorme seme di fiori verde deforma un seme di quadri...” 16.

In ultima analisi, anche i quattro fascisti sadiani di Salò e il loro infernale e misterico progetto di rifondazione della realtà, della Società e della sue “forme” potrebbero legittimamente rifarsi a Balla (stravolgendolo in una direzione pervertita, ovviamente) e al suo Manifesto della Ricostruzione futurista dell’Universo; dove si dice: Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’Universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto.

Definire poi la presenza pittorica di umberto Boccioni in Salò significa affrontare un discorso sostanzialmente allegato a quello su Balla e dunque basato sull’ulteriore collegamento delle somiglianze tra copie e plausibili originali. Così si possono recuperare i dipinti “dinamisti” di influenza prettamente futurista, quali Costruzione spiralica (1913-’14), Elasticità (1912) o Carica di lancie121

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ri (1915) (ancora in Seq.18); ma si può muovere anche all’indietro, intorno al 1908-’09, anni in cui, ad esempio, Boccioni lavora ancora su paesaggi come le Periferie, che rivelano anche qualche affinità con le panoramiche iniziali dei rastrellamenti campestri delle giovani vittime in Salò (Seq.2.1 e ss.), per non dire di alcuni somigliantissimi dipinti giovanili pasoliniani di campagna friulana e che fuoriescono gradualmente da una crescente tensione già futurista a “dipingere il nuovo, il frutto del nostro tempo industriale”, come Boccioni stesso confessa nel suo diario padovano nel 1907, poiché “Il distacco dalla visione naturalistica del paesaggio avviene, anche se seguendo in parte ancora l’insegnamento di Balla, coscientemente negli anni 1907-1908 che vedono anche un cambiamento di temi nelle opere. Si passerà dalle quiete campagne padovane e lombarde alle prime visioni dei caseggiati popolari e fabbriche della periferia milanese” 17.

Sulle tracce di Balla, dunque, praticando un’”abbastanza tranquilla pittura divisionista” 18 ma pensando già alla “modernolatria” e comunque distanziandosi criticamente dal verismo e dal naturalismo del maestro (ai quali preferisce il Liberty) e dalla sua fotodinamica, sottolineando la “connotazione negativa che ha sempre in Boccioni l’aggettivo fotografico: esso si identificherà con statico, veristico, analitico e scientifico” 19. C’è sempre la predominanza del discorso rifondativo, già presente in Balla, nella pittura di Boccioni in questi anni di maturazione futurista, ma la chiave per comprendere la differenza peculiare dai meri “capricci dell’ispirazione” dei “complessi plastici” di Balla sta nella teoria tutta boccioniana del “dinamismo universale” con cui il pittore tenta, come dice in una preghiera-poesia del 1908, di “non perdere mai la comprensione universale”; e anche il distaccato naturalismo del paesaggio è in questo diverso dall’analiticità di quello di Balla, che veniva poco fa criticato. Questo concetto artistico era anche il riflesso di un importante e generale paradigma intimo per Boccioni, che si lega molto precisamente alla personale formazione politica: “Infine una paziente analisi della “modernolatria”, cioè l’esaltazione di tutti gli aspetti della vita moderna, ha permesso di mettere in luce un lato della poetica boccioniana finora trascurato: il tentativo di instaurare un rapporto “didattico” col pubblico. Questa esigenza comunicativa, celata sotto proclami violenti e antidemocratici, deriva a Boccioni ancora in buona parte dai propositi umanitari dell’ambiente socialista (ambiente frequentato da Boccioni fino al 1911) fusi con il

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motivo simbolista dell’opera d’arte come “ponte” fra l’”Ideale” e il “Reale; [...] Proprio sulla base di una sensazione visiva enormemente potenziata e depurata dal “velo” della “cultura” Boccioni colloca ‘lo spettatore al centro del quadro’” 20.

È importante e curioso constatare la misura in cui proprio la coscienza politica influisca sul sistema di valori pittorici di Boccioni e quanto comunque l’intento puramente futurista (come per Balla, dunque) urlato con “proclami violenti e antidemocratici” costruisca una pittura a programma avanguardista recuperando un simulacro da pittura eminentemente classica (“lo spettatore al centro del quadro” e la Prospettiva rinascimentale) per farne ancora arrogantemente “capriccio dell’ispirazione” (ancora i fascisti-sadiani di Salò) e meccanismo della nuova pittura 21. Anche in Boccioni, come in Balla, esiste però un momento più nettamente figurativo, sempre totalmente dentro al lavoro puramente futurista, che si riallaccia a Salò. Questo succede con due opere del biennio 1910-’11: parzialmente con Idolo moderno (1911) e in maniera molto più marcata con La risata (1910-’11) 22, dove la postura della testa all’indietro e il trucco vistoso della donna illustrata rimandano vistosamente alla narratrice-megera Castelli/Boratto in più di una sequenza del film (in particolare Seq.27.10-11 e .19; ma anche in Seq.8.1 e Seq.21.6). La Boratto già reale diva del cinema fascista dei “telefoni bianchi”, ma in una veste che è estendibile anche alle altre due maitresse (con l’eccezione della ‘virtuosa’ pianista di Sonia Saviange) che “esibiscono cerei maquillages, indossano abiti di vistosa eleganza tra un datato gusto medioborghese, filtrato attraverso agghindati stilemi cinematografici e rivistaioli, e il “decoro” del bordello signorile; scendono scale da avanspettacolo [...]” 23.

Se la maschera di Idolo moderno, a livello d’ispirazione, si pone sul “binomio Seurat-Lautrec” insieme a una “componente espressionistica munchiana”, La risata è opera più prettamente “interessante nello sviluppo della tematica futurista di Boccioni” 24. Con questi ‘studi pittorici’ sulle maitresse (ripetuti e marcati nel film) che Pasolini evocava anche in poesia - le “megere con gran chiome merdose” degli ammonimenti ai giovani contro i fascisti contenuti nel Tetro entusiasmo della Seconda forma de “La meglio gioventù” 25 - la presenza di Boccioni in Salò potrebbe esaurirsi per consentire di passare alla presenza delle avanguardie francesi 26. Marcel duchamp potrebbe entrare nel discorso figurativo di Salò per due 123

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ragioni: in primo luogo, nell’insieme disomogeneo di opere (anzi, simil-opere) delle avanguardie appese alle pareti delle camere borghesi il suo Nus descendant un escalier (1912), di nascita surrealista, andrebbe tranquillamente e legittimamente ad inframmezzarsi, in considerazione anche della convinzione critica di Calvesi secondo il quale, nonostante i “punti di dialettico contatto con il Futurismo”, il dipinto di Duchamp “prese spunto (pur con intenzioni assolutamente personali) dai manifesti futuristi e forse dalla somigliante fotodinamica di A. G. Bragaglia Figura che scende le scale del 1911” non escludendo però anche la “eventuale discendenza dalle note duchampiane di alcune affermazioni di Corra-Settimelli e di Balla-Depero” 27. In secondo luogo, c’è il lunghissimo rapporto della pittura e scultura di Duchamp (si legga Grande verre o La mariée mise a nus par ses célibataires, meme) con l’alchimia 28, elemento questo che crea un legame con Pasolini e con la sua personale esperienza pittorico-compositiva. Un piccolissimo aggancio del Duchamp più illustrativo e naturalistico de Il cespuglio (1910-’11), con la raffigurazione di due figure femminili nude (una in piedi, l’altra in ginocchio) rientrerebbe invece nelle sequenze d’insieme delle vittime femminili di Salò, in alcuni atteggiamenti di reciproca protezione (Seq.17.5 e .7 ad esempio). La chiusura migliore su Duchamp ci sembra però la sottolineatura sul valore dell’opera d’arte che il suo lavoro artistico compie, a sigillo di un dibattito partito da Bréton 29 e che chiamava in causa Freud e perfino Sade (in merito all’”investimento libidico dell’oggetto”): la battaglia di Bréton che, definendo il discrimine tra il prodotto e l’opera, incita a combattere contro “l’invasione del mondo sensibile delle cose di cui, più per abitudine che per necessità, l’uomo si serve” trovava infatti in Duchamp con i suoi ready-made dadaisti, come nell’avanguardia russa, la difesa dell’”autonomia dell’oggetto” e il ripudio del “carattere ‘feticista’ dell’opera d’arte” 30. Una definizione ulteriore di quest’ultimo punto passa attraverso la pittura di un autore fortemente collegato anche al cinema come Fernand Léger 31: isolare le solite somiglianze-riferimenti delle copie di Salò equivale qui anche a focalizzare caratteri fondamentali dell’opera del pittore utili al film e al suo utilizzo della pittura “modernista”. Se la citazione di Léger al livello del quadro potrebbe idealmente localizzarsi nei Nus dans la foret (1909), Contraste de formes (1913) e La partie des cartes (1917) 32 (Seq.18.1 e ss.; Seq.28.1 e ss.), è al livello dei murales della camera di Blangis/Bonacelli che la presenza macroscopica e prepotente del pittore introduce ad una serie di considerazioni che richiamano in causa lo sfruttamento per124

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vertito di questa arte da parte dei quattro Potenti fascisti. Tra i due momenti pittorici citati si formalizza infatti “lo slancio che negli anni ’11-12 gli consente di passare dalla luce che irradia dai volumi dei Nudi nella foresta alla organizzazione ritmica di piani e colori discordi, che presiede ad opere quali Le nozze, I fumatori, La donna in blu” 33. I murales imitano in maniera aderente più di un’opera légeriana appartenente a questo secondo periodo: in maniera predominante Le grand déjeuner (1921) (Seq.13.1 e ss.; Seq.24.1 e ss.), ma la ripetizione delle linee e delle posture delle figure rimanda anche a La lecture (1924) (Seq.18.1 e ss.) e in parte al più tardo Composition aux deux perroquets (1937) 34, tutti quanti indicatori importanti della qualità anche politica di questa porzione della carriera pittorica di Léger. Nell’occasione della Partie des cartes si fissa già un aspetto socio-politico che si distribuisce poi anche nella pittura successiva e che rende significante la scelta di situare Léger nelle decorazioni delle camere dei libertini di Salò: la “struttura meccanomorfa” del quadro del ’17 apre al rapporto contrastato tra il pittore e la cosiddetta civiltà del progresso e del macchinismo portata sull’altare della cultura dal pur apprezzato Futurismo marinettiano, in una direzione umanistico-socialista che, nel valorizzare la portata del lavoro e delle sue possibilità di rinnovamento sociale, non si dimentica del “disagio dei singoli”: [...] È interessante osservare come in quel particolare momento [...] Léger diffidasse di un simile trionfalismo. [...] pare incontestabile il fatto che la “insinuazione del robot” assuma implicitamente, nella instaurazione di quel tale rapporto di spiazzamento tra chi lavora e le cose che produce (e governa), i tratti dell’ironia. Tale caratteristica si fa, del resto, ancora più evidente nelle composizioni di interni borghesi, che il pittore organizza con eccezionale impegno negli stessi anni venti” 35.

Nell’ambito di queste composizioni, strettamente imparentate con quelle di Salò, svetta come riferimento maggiore, secondo Morosini, proprio quel Le grand déjeuner del ’21 che presenta le più marcate somiglianze con l’affresco del film: “Alludo ai “ginecei” con figure levigate ed esatte come altrettanti oggetti usciti dal tornio, dalla fresa, dal laminatoio. Penso, in particolare, a quel capolavoro che è La grande colazione, del ’21, dove le figlie dell’industria sono radunate, all’ora del té, attorno ad un tavolo smaltato, con suppellettili in blu, grigio, giallo; dove tutto ciò che circonda i personaggi (dal tappeto a losanghe in verde e avorio, alla parete di fondo con sagome di mobili in giallo-bruno, bianco e nero, eccetera) compone uno spettacolo di astrazione decorativa tale da far pensare al lucente, sterilizzato stand di arredamento allestito in una immaginaria mostra del design” 36.

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La puntualizzazione di Morosini è utile a riallacciare questa feconda presenza pittorica ad una serie di riferimenti in Salò. A partire dalla ‘borghesità’ del contesto della raffigurazione, con i tre corpi femminili nudi e pigramente adagiati in un ambiente artisticamente connotato a “bere del té” che sembrano una sorprendente ricollocazione pittorica e riecheggiamento proprio delle parole di Blangis/Bonacelli dopo il matrimonio delle figlie dei quattro Signori (le “figlie dell’industria” quanto del Potere): “A l’ombre des jeunes filles en fleur, qui ne vont pas croire au malheur: elles écoutent la radio elles boivent du thé. Au degré zero de la liberté. Elles ne savent pas que la bourgeoisie n’a jamais hésité meme a tuer ses fils” 37.

E in secondo luogo, l’evocazione che Morosini fa della cultura in cui l’opera d’arte moderna è immersa parlando dello “sterilizzato stand di arredamento” e della “immaginaria mostra del design” mette in connessione le dichiarazioni dello stesso Léger sull’argomento 38 con la considerazione finale dell’‘oggetto d’arte’ assunta dai Potenti di Salò nella decorazione del loro atelier privato e borghese. Nella commistione dell’anatomico con il meccanico e di alcune forme con altre risiede il principio di Léger, per cui il pittore “in questo modo ci dice con molta determinazione che l’esigenza di controllo della natura da parte dell’uomo, ai fini della sopravvivenza, ha generato nella tradizione occidentale una forma di cultura declinata nei termini di un sapere vicino al “potere”, nonché il dominio sulle cose, assunte evidentemente come oggetti di manipolazione e di consumo” 39.

E a questo livello, a chiudere il cerchio del discorso resterebbe anche l’interrogativo di tono equivalente sul valore di scambio artistico dello stesso ‘oggettoSalò’, su cui la critica si è più volte appuntata 40: “Salò non è un valore, né d’uso né di scambio, se ha avuto una committenza l’ha scordata, se ha avuto un valore l’ha ucciso (letteralmente) prima di potersi dare come valore, non ha mai cercato un pubblico, ha chiuso ed esibito nel cristallo livido il lavoro di produzione, di fiction, lo standard. Per questo Salò non è una merce, è la sconfitta del capitale avvenuta una volta per tutte, senza appello” 41.

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Note Guardando alla presenza composita dell’Avanguardia in Salò è utile recuperare una considerazione di Longhi su De Chirico del 1919, ribadita poi da Maltese negli anni Sessanta (qui riportata da Fernando Tempesti), secondo la quale “la “metafisica” dechirichiana sostanzialmente è una parodia del pluralismo culturale - arte negra e geometria, ma soprattutto arte negra - delle ricerche cubiste. (Mentre nei confronti del futurismo il suo rapporto [...] è insieme più complesso e più radicale, in fondo più “compromesso”, com’è il silenzio rispetto all’ironia)”. F. Tempesti, Arte dell’Italia fascista. Milano, Feltrinelli, 1976, p. 13. Si vedano anche le opinioni longhiane sull’Avanguardia in: R. Longhi, I pittori futuristi. “La Voce”, 10 aprile 1913, ora in: Id., Da Cimabue a Morandi, cit., pp. 1051-1062. Il saggio di Longhi in questo numero monografico sul Futurismo era corredato da quattro riproduzioni di Boccioni, Carrà, Soffici e Severini. 1

2

M. Verdone, Riesame di “Salò-Sade”, cfr. Infra, p. 28 n. 24.

La definizione nasce all’interno della dittatura nazista e nell’ambito delle “persecuzioni di Hitler, quando alla Haus der Kunst nel ’37, fece esporre al pubblico opere d’arte contemporanea che vennero additate al pubblico come arte degenerata, e infine bruciate o esportate [...] Se il potere si è accanito contro le forme dell’arte contemporanea vuol dire che esse contenevano, almeno fino al 1945, significati e valori pericolosi per il potere stesso: esse testimoniando per la libertà della fantasia e del pensiero estetico, testimoniavano per la libertà dell’uomo”. M. V. Orlandini, Arte e anarchia, in: Critica in atto. 6-30 marzo 1972. Roma, Incontri internazionali d’arte, 1973, p. 64. 3

Per una sintesi sulla questione del “processo di formazione” delle vittime di Salò da parte del Potere dei quattro libertini, si rimanda all’interessante contributo di R. Chiesi, I sommersi e i salvati nell’Inferno di Salò. Stazioni e rituali di un crudele itinerario pedagogico. “Poetiche”, Vol. 8, n. 1 (2006), pp. 23-36. 4

5

E. Passannanti, Il corpo & il potere, cit., p. 71.

6 A. Soffici, Ricordi di vita artistica e letteraria. In: Id., Opere, VI, Firenze, Vallecchi, 1965, p. 353 e ss. (citato in F. Tempesti, Arte dell’Italia fascista, cit., pp. 38-39).

“[...] la critica di Pasolini serpeggia attraverso l’accostamento e l’integrazione sarcastica dei materiali e dei segni culturali e sottoculturali, [...] In quanto ai signori, che conoscono e citano Baudelaire e Proust, Nietzsche e Huysmans (ma si veda l’ironica disputa sulle “fonti” e lo slittamento [...] dalla citazione ironico-colta - “c’est du dada!” - all’abietto umorismo della canzoncina che viene intonata a mò di derisione e commento), la fonte delle loro eccitazioni è sempre nella pornografia (piuttosto che negli “abissi”) del sesso e della morte”. A. Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 147. 7

8

F. Tempesti, Arte dell’Italia fascista, cit., p. 47.

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9

G. De Marchis, Giacomo Balla. L’aura futurista. Torino, Einaudi, 1977, p. 23.

10

Ibidem, p. 28.

11

Ibidem, p. 30 (corsivo mio).

Ricordiamo che nel 1914 Balla tracciava le linee di una rifondazione complessiva della vita in senso futurista anche con il Manifesto del vestito antineutrale. 12

13 Anche la pittura di Fortunato Depero è per inciso rintracciabile in Salò nell’imitazione del suo Motociclista (1923), chiaramente visibile nell’insieme di quadri che fa da sfondo al ballo finale dei due ragazzi collaborazionisti (Seq.30.29).

14

G. De Marchis, Giacomo Balla, cit., p. 65.

15

Citato in: F. Benzi, Giacomo Balla. Genio futurista. Milano, Electa, 2007, p. 156.

16

Citato in: G. De Marchis, Giacomo Balla, cit., p. 65.

17

F. Camporesi, Boccioni. Bologna, Accademia Clementina, 1982, p. 17.

18

M. Calvesi-E. Coen, Boccioni. Milano, Electa, 1983, p. 44.

19

Ibidem, p. 20.

20

Ibidem, p. 13.

21 A titolo esemplificativo si potrebbero recuperare le dichiarazioni di Boccioni in merito al Trascendentalismo fisico e stati d’animo plastici (1914): “L’opera d’arte impressionista è stata un frammento che aspirava invano a un centro. [...] Bisogna invece dimenticare quello che fino ad ora si è chiesto al meccanismo esteriore del quadro e della statua. Bisogna considerare l’opera d’arte di pittura e di scultura come costruzione di una nuova realtà interna che gli elementi della realtà esterna concorrono a costruire per una legge di analogia plastica quasi completamente sconosciuta prima di noi [...] Michelangelo è l’ultimo colosso del paganesimo cristiano ed è stramorto; non lo ricordiamo più. Il suo sublime ci fa pietà, la sua terribilità ci mette di buon umore; è finito, e non ci fa più paura!”. Umberto Boccioni. Pittura e scultura futuriste. Milano, Abscondita, 2006, pp. 140-142.

Il dipinto in questione, durante l’Esposizione Libera di Milano del maggio 1911, venne “sfregiato con una lametta da alcuni visitatori”, cfr. M. Calvesi-E. Coen, Boccioni, cit., p. 51, n 10. 22

23

A. Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 147.

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24

M. Calvesi-E. Coen, Boccioni, cit., p. 46.

25

PPP, Agli studenti greci, in un fiato, in: Id., La nuova gioventù, cit., p. 232.

26 Alla presenza italiana potrebbe aggiungersi il riferimento minore di Mario Sironi, localizzato eventualmente nella descrizione di una giovane donna nuda dall’espressione triste di Solitudine (1926), che richiama alcuni primi piani di giovani vittime femminili (Seq.8.6 ad es.) o ancora nel Neoclassico dello stesso anno. Si rimanda in ogni caso alla bibliografia essenziale sul pittore in fine al presente capitolo.

27 M. Calvesi, Duchamp invisibile. La costruzione del simbolo. Roma, Officina, 1975, p. 219 e n 16. Si vedano i riferimenti critici suggeriti da Calvesi nella nota citata sulla questione dei rapporti di Duchamp con il Futurismo.

28 Su questo aspetto dell’opera di Duchamp, nonché sui legami dell’artista con la Massoneria, si veda in Ibidem, pp. 292-304.

Ricordiamo che il movimento del Surrealismo fu il principale fautore della rivalutazione novecentesca di Sade, sulla scorta di Apollinaire che lo definì “la mente più libera che sia mai esistita”, considerandolo un vero modello della lotta anti-borghese. Per un approfondimento in merito si rimanda a: V. Erofeev, Il marchese de Sade, il sadismo e il XX secolo. “Rassegna sovietica”, XXVI, marzo-aprile 1975, pp. 73-97 (in part. pp. 92-97). 29

Cfr. R. Lebel, Deviazioni e deriva dell’oggetto. In: Marcel Duchamp. Critica, biografia, mito. A cura di S. Chiodi. Milano, Electa, 2009, pp. 88-89. Si veda anche l’interessante parallelo proposto dall’autore tra Sade e il “sarcasmo macabro” di Duchamp. 30

Oltre alla regia di Ballet mecanique (1924), le connessioni di Léger con il cinema spaziano dalla collaborazione con Marcel L’Herbier per il suo L’inhumaine (1923) all’attività di critico e alla frequentazione del Club des amis du Septième Art fondato da Ricciotto Canudo. Per un approfondimento in merito si veda: A. Costa, Cinema e avanguardie storiche. In: Storia del cinema mondiale. I. L’Europa. I. Miti, luoghi, divi. A cura di G. P. Brunetta. Torino, Einaudi, 1999, pp. 325-357; e: Léger a l’arte cinematografica. “Art e dossier”, n. 124, giugno 1997, pp. 11-12. 31

In quegli anni Léger, insieme a Robert Delaunay, sottolineava la sua sostanziale distanza dai principi cubisti e la vicinanza al Futurismo italiano: “A Paris, Léger rencontre Severini et Marinetti. Sans adhérer clairement a la ligne futuriste, il se montre plus attiré par la répresentation du mouvement que par le cubisme analytique de Braque et de Picasso. Son interet pour le monde mecanique et l’objet manufacturé n’est pas sans rappeler les théories de Marinetti, en rupture avec les conventions sociales et l’ordre etabli”. Cfr. L’ABCdaire de Léger. Paris, Flammarion, 1997, voce “Futurisme”. 32

D. Morosini, Il fabbro della pittura. Conversazioni e ricordi su Léger. Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 22. 33

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La Composizione con pappagalli vale anche come occasione importante per la connotazione politica dell’opera di Léger: “È ovvio che il titolo di Composizione con pappagalli è inadeguato. Léger, che ne è ben consapevole - penso - deve averlo adottato per puro e semplice fastidio della retorica, trattandosi di una dedica alle conquiste operaie del Fronte Popolare; di un’allegoria, insomma. Dove piloni, funi, sbarre, sono ovviamente gli emblemi del lavoro e dove i nudi in positura di danza e gli uccelli esotici (da zoo parigino, magari) sono le proiezioni fantastiche di una delle maggiori conquiste della sinistra: quella delle quaranta ore di lavoro”. Ibidem, p. 45. 34

35

Ibidem, p. 31.

36 Ibidem, p. 32. Interessante postilla a questo discorso è il riferimento di Morosini all’ipotesi sollevata da Léger in una conversazione con gli studenti di medicina dell’Università di Lione sull’”applicazione terapeutica del colore [...] sulle pareti dei reparti”, seguendo le tracce di Le Corbusier che “parla dell’uso del colore su pareti esterne ed interne, ma nel ristretto ambito dell’architettura d’élite, mentre Léger pensa all’urbanistica. Scrive: ‘È nelle abitazioni medie, raggruppate in grandi complessi, dove l’operaio deve vivere, che il bisogno di policromia si fa sentire di più. Nulla di serio è stato fatto sinora. L’uomo di una famiglia povera non può trovare lo spazio liberatore in un’opera d’arte sul muro (interno ed esterno)’”. Ibidem, p. 47.

37

Cfr. Sceneggiatura di Salò o le 120 giornate di Sodoma, cit., p. 2033.

Il saggio di Morosini riporta un’appendice di documenti contenenti dichiarazioni di Léger; in uno scritto del 1923 (Note sulla vita plastica attuale) si legge: “Noi siamo in concorrenza, oggi, con il ‘bell’oggetto’. Talora esso è plastico - bello di per sé - e quindi inutilizzabile (da ammirare, incrociando le braccia). Attualmente c’è anche anche una sorprendente arte della esibizione. [...] Se, volendo arrivare alle estreme conseguenze, la maggioranza degli oggetti fabbricati e dei ‘negozi-spettacolo’ fossero belli e plastici, noi non avremmo più alcuna ragion d’essere”. D. Morosini, Il fabbro della pittura, cit., pp. 91-92. 38

Fernand Leger. L’oggetto e il suo contesto. A cura di M. Vescovo, B. Hedel-Samson. Milano, Electa, 1996, p. 32. 39

La questione della “irrecuperabilità” di Salò è un problema affrontato da una parte della critica che si è soffermata sul film. Si veda anche il riferimento autorevole di Roland Barthes, che affermava: “il film di Pasolini trova il suo valore come riconoscimento oscuro, mal padroneggiato in ciascuno di noi, ma sicuramente imbarazzante: [...] Ed è per questo che io mi domando se, al termine di una lunga catena di errori, il Salò di Pasolini non sia in fin dei conti un oggetto propriamente sadiano: assolutamente irrecuperabile”. Cfr. R. Barthes, SadePasolini. In: Id., Sul cinema. Genova, Il Melangolo, 1994, p. 160. 40

41

R. Tomasino, Il vuoto della traccia, cit., p. 270.

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Bibliografie essenziali

Balla Crispolti, Enrico, Giacomo Balla: due aspetti della ricostruzione futurista dell’universo: mobili e arazzi. Pescara, Coen e Pieroni, 1975. De Marchis, Giorgio, Giacomo Balla. L’aura futurista. Torino, Einaudi, 1977. Giacomo Balla. A cura di Rossana Bossaglia. Milano, Mazzotta, 1994. Ricostruzione futurista dell’Universo: Giacomo Balla, Fortunato Depero: opere 1912-1933. A cura di Sergio Poggianella. Rovereto, Nicolodi, 2006. Benzi, Fabio, Giacomo Balla. Genio futurista. Milano, Electa, 2007. Boccioni L’ opera completa di Boccioni. Presentazione di Aldo Palazzeschi; apparati critici e filologici di Gianfranco Bruno. Milano, Rizzoli, 1966. Camporesi, Franco, L’ architettura e il dinamismo: studio sulla poetica di Umberto Boccioni. Presentazione di Luciano Anceschi. Bologna, Accademia Clementina, 1982. Calvesi, Maurizio, Coen, Ester, Boccioni. Milano, Electa, 1983. Verzotti, Giorgio, Boccioni: catalogo completo dei dipinti. Firenze, Cantini, c1989. Nigro Covre, Jolanda, Note su Balla e Boccioni: temi e problemi: lezioni di storia dell’arte contemporanea. Padova, CLEUP, 2004. Boccioni. Pittura e scultura futurista. Milano, Abscondita, 2006. Duchamp Calvesi, Maurizio, Duchamp invisibile: la costruzione del simbolo. Roma, Officina Edizioni, 1975. Mink, Janis, Marcel Duchamp, 1887-1968 : arte contro l’arte. Koln [etc.], Taschen, c2000. Paz, Octavio, Apparenza nuda. L’opera di Marcel Duchamp. Milano, Abscondita, 2000. Marcel Duchamp: critica biografia mito. A cura di Stefano Chiodi. Milano, Electa, 2009.

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Léger Delevoy, Robert L., Leger: studio biografico-critico. Traduzione dal francese di Margherita Abbruzzese. Geneve, Skira ; Milano, Fabbri, 1968. Morosini, Duilio, Il fabbro della pittura: conversazioni e ricordi su Leger. Roma, Editori Riuniti, 1983. Fernand Leger. L’oggetto e il suo contesto. A cura di Marisa Vescovo, Brigitte Hedel-Samson. Milano, Electa, 1996. Lemaire, Gerard Georges, Leger. Firenze, Giunti, c1997. L’ABCdaire de Leger. Paris, Flammarion, 1997. Sironi Mario Sironi: disegni politici 1916-1940: dal 31 ottobre al 13 novembre. A cura di Mario De Micheli. Torino, Galleria d’arte moderna Viotti, 1964. Bossaglia, Rossana, Sironi e il Novecento. Firenze, Giunti, 1991. Mario Sironi: Il linguaggio allegorico. A cura di Claudia Gian Ferrari, con la collaborazione di Andrea Sironi. Milano, Electa, 2006. Sironi metafisico: L’atelier della meraviglia. A cura di Simona Tosini Pizzetti; con la collaborazione di Stefano Roffi. Cinisello Balsamo, Silvana, [2007].

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Bosch L’inclusione di Hieronymus Bosch in Salò configura, come dice anche Federica De Paolis nel suo breve ma esaustivo intervento sui riferimenti iconografici del film, una “azzardata ipotesi circa un’esplicita intenzione di Pasolini di rifarsi al Fiammingo” 1, ma allo stesso tempo rappresenta l’occasione di un confronto di analogie che sarebbe sbagliato non cogliere. Il riferimento iconografico giustamente privilegiato della De Paolis è il famoso Giardino o Trittico delle Delizie (1503) - interessante poiché per l’appunto “è un trittico (così come sono tre i Signori che alla fine si avvicendano nella visione binoculare)” 2 - e la fonte critica da cui nasce la scoperta delle analogie con Salò è il saggio-analisi sull’opera di Ernst Gombrich. La validità di questa interpretazione iconografica passa attraverso l’intuizione di considerare il trittico come raffigurazione allegorica della bestialità primigenia e pre-linguistica dell’uomo che viene alimentata dalla citazione biblica di Genesi 6,11-13 3: “L’interpretazione di Gombrich sostiene che il quadro centrale raffiguri l’umanità prima del Diluvio, in un tempo in cui il mondo non era governato da legge alcuna: proprio a causa di questa situazione Dio fu costretto a ‘porre rimedio’ per mezzo del Diluvio. [...] La visione pre-diluvio di Bosch narra di un luogo dove uomini e animali non erano ancora discinti e si nutrivano di frutti giganti. Nel quadro non si legge la malvagità di quel mondo, quanto il totale abbandono alle azioni compiute [...] equivale a dire nel tempo in cui regnava la bestialità” 4.

Ancor più significativo è l’aspetto legato alla teorizzata primordialità pre-linguistica dell’umanità illustrata nel dipinto e il suo ritrovarsi in Pasolini quanto in Sade: “La visione della bestialità nel momento che precede il linguaggio non è diversa per Bosch e Pasolini. [...] l’elemento chiave si identifica nello stato di libertà, nell’assenza e nell’invisibilità del peccato. Nel caso di Pasolini è muta (come se non avesse aggettivi), proprio come quella sadiana. La versione scritta di Sade osserva un linguaggio che secondo Bataille è solo rappresentativo della violenza, poiché la violenza si esercita per mezzo di un impulso, non chiacchiera, non si esprime attraverso il verbo: agisce” 5.

Il riferimento affascinato di Gombrich al racconto biblico degli avvenimenti precedenti il Diluvio come snodo dell’analisi e della comprensione del Giardino 133

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delle delizie è un punto di partenza utile però a collegare il trittico ad una serie ulteriore di corollari che costituiscono il “mosaico” dei riferimenti di Salò, sempre in relazione alla particolare e importantissima serie delle torture finali (Seq.28-30). “Una storia con figure nude, Sicut erat in diebus Noe”: Gombrich riporta questa definizione dall’inventario dei dipinti acquistati dall’arciduca Ernesto di Bruxelles nel 1595 e desume da questa citazione del Vangelo secondo Matteo (Matteo, XXIV, 36-39) l’idea di quella originaria “mancanza del senso del peccato” già sottolineata dalla De Paolis: “Gli uomini si abbandonavano a piaceri quali ‘mangiare, bere, sposarsi e dare le figlie in moglie’ senza il minimo pensiero del giudizio che attendeva i peccatori in quell’Inferno dove gli strumenti stessi del piacere sono trasformati in strumenti di tortura” 6.

Da qui si può partire per osservare il Giardino come un’unità simbolicamente ramificata da riposizionare agevolmente nelle scelte pasoliniane dell’epilogo delle torture e anche in Sade. La bestialità e la violenza linguisticamente mute, come si diceva, introducono un’omologia tra Bosch e Pasolini, ma tendono una linea che arriva anche fino a Sade e al suo “linguaggio solo rappresentativo della violenza” 7 che in maniera essenziale “agisce”; lo ribadisce anche un confronto con l’analisi del linguaggio sadiano che fa Klossowski, quando dice: “Descrivere l’aberrazione è enunciare positivamente l’assenza di elementi facenti si che una cosa, una condizione, un essere non siamo vivibili. Eppure quella logica Sade accetta e conserva senza discutere: la sviluppa anzi, la sistema, fino ad oltraggiarla. E l’oltraggia conservandola soltanto per farne una dimensione dell’aberrazione, non perché l’aberrazione vi è descritta, ma perché l’atto aberrante vi è riprodotto” 8.

Dopotutto, la “sfera di cristallo” (come la definisce Gombrich) della terra che sostiene la costruzione del Giardino è una ripetizione della “sfera” o “cubo” di cristallo con cui la critica ha dato una definizione della costruzione pasoliniana di Salò 9, che proprio nel finale binoculare delle torture trova questa cifra stilistica e la rende iperbolica nella suddivisione in spicchi raffiguranti varie situazioni delittuose; ma l’assortimento fantastico della fauna bizzarra di Bosch, frammista a una natura di frutti giganteschi e allegorici 10 in quella che sempre dall’iconologo viene descritta, si guardi bene, come una “strana fantasia anale”, trova un 134

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suo valore in una costante e dettagliata tensione all’inversione dei canoni e degli equilibri fisiognomici della figura umana e al ribaltamento delle sue funzioni ordinarie, codificandone così un altro canone estetico: e questo elemento non si può non ricondurre in buona parte anche a Sade. Gombrich, riprendendo anche le prime descrizioni del trittico fatte da Antonio de Beatis, dice: “Quasi in primo piano, spicca inoltre un gruppo di persone con un’ostrica da cui sporgono due paia di gambe, un motivo che si può ben descrivere come ‘tali che escono da una cozza marina’ [...] un demonio seduto su un alto sgabello che divora i dannati e li espelle in un pozzo. Degli uccelli fuoriescono dall’ano del corpo di cui il diavolo sta addentando la testa” 11.

Al di là della forza grottesca dei “mostri comici” - come erano definite nel Cinquecento le creature di Bosch, “grillorum inventor” - le varie figure nude di uomini e donne subiscono “con molta naturalità” un pervertimento della loro norma corporale. Gianni Nicoletti, riferendosi al secolo di Sade, dice che per “l’estetismo per cui la bellezza capitanava perfino la morale cristiana [...] il microcosmo uomo era in piedi; e i poeti, i romanzieri, pittori e scultori, lo volevano così, descrivendolo a cominciare dal volto. Soltanto Sade (come si è detto) fece tutto a rovescio, e quel medesimo uomo atterrò e coricò nella postura. Non ne considera gli occhi ma sfinteriche funzioni, non le gote ma le natiche, non il naso, qualche maschera, presentandolo a fallico becco di civetta, a uncino, appuntato o rigonfio, lo aveva preceduto - ma il membro [...] Fonda per altro un ramo particolarissimo della fisiognomica, ritraendo cosce e chiappe, membri, vagine, ani, e se poi passa a disegnare beltà meno recondite, non trascura di spiegarne l’utilizzazione del tutto impropria, contro natura” 12.

A conferma di tutto potrebbe rientrare qui anche Freud, a partire dalle questioni inserite in Totem e tabù su fantasia artistica e nevrosi, quando sottolineava che “sono desideri insoddisfatti le forze motrici della fantasia, e ogni singola fantasia è un appagamento di desiderio, una correzione della realtà che ci lascia insoddisfatti” 13. Connesso al progetto sadiano e a Pasolini (con il trasferimento all’‘opera’ criminale reiterata e potenzialmente infinita dei quattro Potenti sadiani) come a Bosch (il cui Giardino è una catena di rituali corporei che ‘scaturiscono’ l’uno dall’altro), il principio di perversione si incarica di rifondare la bizzarria, la fisiognomica eccentrica e, in definitiva, gli orrori per trasformarli in una nuova realtà, 135

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che qui si identifica con l’universo sadico-anale: “Ha luogo anche una permutazione delle zone erogene e delle loro funzioni, con l’effetto di renderle intercambiabili. ‘Mischiare’ si potrebbe considerare la parola d’ordine dell’intero mondo fantastico di Sade. [...] il piacere connesso alla trasgressione è sostenuto dalla fantasia che [...] sia possibile distruggere la realtà creandone una nuova: quella dell’universo anale, nella quale tutte le differenze risultano abolite” 14.

Questo potere di distruzione e rigenerazione viene contestualizzato anche nella riduzione di tutto a escremento (Salò); in un dialogo della Nouvelle Justine si legge che “Il potere di distruggere non è accordato all’uomo; tutt’al più, egli può variare le forme, non può annientarle. Ora, ogni forma è uguale al cospetto della natura; niente va perduto nel crogiolo immenso dove avvengono le sue mutazioni: tutte le porzioni di materia che vi cadono, incessantemente ne sgorgano sotto altre parvenze [...] Che importa alla sua mano creatrice se una massa di carne, che oggi forma un individuo bipede, si riproduce domani con le parvenze di mille insetti diversi”15.

Ancora più interessante è il commento della Chasseguet-Smirgel a questo passo, dal quale spicca una comparazione particolare: “Penso che il tema ricorrente della metamorfosi delle forme [...] significhi che tutte le cose devono ritornare allo stato di caos, quel caos originario che può essere identificato con gli escrementi. Il ragionamento materialistico di Sade quando parla dell’uguaglianza tra un uomo e un’ostrica, dell’eguaglianza di tutti gli esseri umani, dell’eguaglianza tra bene e male, dell’eguaglianza tra vita e morte, e il suo negare il dualismo anima-corpo - idee insite nei suoi argomenti “filosofici” - non rivelano altro che un’intenzione di fondo: quello di ridurre l’universo a feci, o piuttosto di annientare l’universo delle differenze (l’universo genitale) e sostituirlo con l’universo anale nel quale tutte le particelle sono uguali e intercambiabili” 16.

Il principio immaginativo e fantastico da forma alla fioritura simbolica, in Bosch quanto in Sade, che non sorprendentemente affermava che “qualsiasi piacere risiede soprattutto nell’immaginazione” 17. L’estrema varietà figurativa del Giardino delle delizie di Bosch e addirittura la costipazione del suo spazio tripartito per mano di una miriade di piccoli riquadri e ‘situazioni’ costituiscono un’occasione comparativa non solo con il para136

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digmatico epilogo delle torture in Salò, ma anche con un paio di altri momenti ricollegabili ad altrettanti tasselli del trittico. In primo luogo la parte mediana dello scomparto centrale raffigura una larga superficie simile ad un acquitrino o stagno limaccioso in cui sono immerse quasi fino alla cinta varie figure femminili nude, unite così in un momento “atavico e primordiale, legato al mondo del liquido amniotico, quasi un rimpianto mnesico uterino, la ricerca di un ritorno ad un’esistenza precedente o primigenia” 18; non tanto nelle posture delle figure quanto nella peculiarità della situazione il riferimento può andare alla scena delle ragazze immerse nude nel mastello di feci durante le narrazioni finali del “Girone del Sangue” (Seq.27), che ribadisce per di più quella regressione ‘primordiale’ della realtà volta al “ridurre l’universo a feci”. La caratterizzazione delle posture, in alcuni casi, suggerisce somiglianze con certe sbozzature pasoliniane da pittura medioevale, quali la sequenza del “concorso di deretani” (Seq.22) 19, che si può recuperare sempre nello scomparto centrale (quadrante inferiore destro) nel “personaggio che, nudo tra nudi, ma inginocchiato in una posizione per molti “sconveniente”, tra esibizionismo e masochismo, è “ornato” di fiori infilati non propriamente in un consueto vaso, e proprio “in illo loco” sembra venir percosso con alcuni fiori come a stabilire, attraverso l’elemento vegetale accomunante, una sorta di identità di genere” 20. Aggiungere che il personaggio in questione è un autoritratto di Bosch innesca un’interpretazione (esposta dallo stesso Centini) e un rispecchiamento (in Salò e in Pasolini) interessanti: “Se tutto questo è una scelta del razionale, possiamo parlare di una “confessione velata” di omosessualità. Se invece è una induzione dell’inconscio possiamo parlare, come freudianamente fu per Leonardo, di una inconsapevole propensione all’omosessualità o di una sua sublimazione quale meccanismo di difesa. In un caso o nell’altro, un oscuro e residuale senso di colpa induce la già citata autoraffigurazione nell’Inferno” 21.

Restano suggestioni illustrative ancora di stampo medioevale nell’epilogo delle torture quali la bruciatura di seni e genitali tramite ferri e uncini arroventati 22 o la garrotatura e non ultimo il ballo improvviso di tre dei quattro Potenti nel cortile che assomiglia alla ridicola versione di una “Danza macabra”, che nelle sue modalità di composizione frontale e brevità di esecuzione replica i caratteri costitutivi della rappresentazione: “But the simplicity of the scene is complicated by its meaning, for what is seen symbolizes a moment of passage when the soul departs from the body, leaving the

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mundane world for the realm of the sacred and eternal [...] Yet contrary to the solemnity of the occasion, Death is dancing and one feels mocking” 23.

Un ultimo valido riferimento della presenza di Bosch in questa parte finale cadrebbe in un penchant più musicale e sonoro che puramente visuale. Ovvero, il significato complessivo del Giardino ha più volte richiamato (a torto o a ragione) il riferimento a quegli Homines intelligentiae, o “adamiti” o “adepti del Libero Spirito” ai quali lo stesso Bosch si presumeva legato 24, “setta misteriosa, dedita forse a rituali a sfondo sessuale, le cui vicende hanno lasciato spazio a molteplici versioni e illazioni” ma anche accusati di torbidi riti orgiastici, in diretta connessione, dunque, a quei seguaci del “Beato Libertino” che popolavano la mitologia letteraria e musicale dei Carmina Burana orffiani utilizzati nello stesso epilogo di Salò. E il penchant sonoro è paradossalmente quello del silenzio scelto da Pasolini che, a sua volta, raffigura i volti orribili dei Signori sadiani sopra le “creature rassegnate il cui urlo pare soffocato dalle grida non umane dei torturatori” per “mascherare la più cruda realtà, quella realtà che la necessità quotidiana ci costringe a coprire, per dare agli occhi del mondo un’immagine conforme allo status sociale in cui si vive e si ‘recita’” 25. Note F. De Paolis, Il quadro iconologico. Volti, figure e ambiente. In: S. Murri, Pier Paolo Pasolini. Salò o le 120 giornate di Sodoma, cit., pp. 153-161 (158).

1

2

Ibidem, p. 158.

“La fine di ogni carne è giunta davanti a me, perché la terra per cagion loro, è piena di violenza; ed ecco, io li sterminerò insieme alla terra”. 3

4

F. De Paolis, Il quadro iconologico, cit., p. 159.

5

Ibidem, p. 160.

E. Gombrich, L’eredità di Apelle. Studi sull’arte del Rinascimento. Torino, Einaudi, 1986, p. 119. 6

Una lettura alternativa, utile comunque ad un collegamento tra la pittura di Bosch e la violenza di Salò, si ritrova anche in Lacan, quando parla delle “imago del corpo in frammenti” che “rappresentano i vettori elettivi delle intenzioni aggressive, che provvedono di un’efficacia si può dire magica. Sono le immagini di castrazione, evirazione, mutilazione, smembra-

7

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mento [...] Basta sfogliare un album che riproduca l’insieme e i particolari dell’opera di Hieronymus Bosch per riconoscere in esso l’atlante di tutte queste immagini aggressive che tormentano gli uomini. Il prevalere in esse, scoperto dall’analisi, delle immagini di una primitiva autoscopia degli organi orali e derivati dalla cloaca, ha generato le forme dei demoni”. J. Lacan, Scritti. I-II. Torino, Einaudi, 2002, pp. 98-99. 8

P. Klossowski, Sade prossimo mio. Milano, Sugar, 1970, pp. 50-51 (corsivi nel testo).

9

Cfr. R. Tomasino, Il vuoto della traccia, cit.

10 Gombrich indica il motivo predominante della fragola come “raffigurazione della vanità dei piaceri terreni”. Si potrebbe richiamare Norman O. Brown a confermare questa idea sul Giardino delle delizie, quando dice che “Il mangiare è la forma della caduta [...] Il mangiare è la forma del sesso. La copula è copula orale”. Cfr. N. O. Brown, Corpo d’amore, cit., p. 196.

11

E. Gombrich, L’eredità di Apelle, cit., p. 110.

12 G. Nicoletti, Momenti critici. I. Soggetto e oggetto della critica. Sade, Rousseau, Baudelaire, Lautréamont, Rimbaud, Ghelderode. Padova, Liviana, 1984, pp. 54-55.

13

Cfr. S. Freud, Il poeta e la fantasia, in: Id., Opere, V. Torino, Boringhieri, 1972, p. 378.

14

J. Chasseguet-Smirgel, Creatività e perversione. Milano, Cortina, 1997, p. 5.

D. A .F. de Sade, La nouvelle Justine. Milano, Guanda, 1978, I, p. 152 (citato in J. Chasseguet-Smirgel, cit., p. 6). 15

16

J. Chasseguet-Smirgel, Creatività e perversione, cit., p. 6 (corsivo mio).

“L’Erlebnis sadomasochistica [...] non ha nulla da spartire con la perversione sessuale [...] descritta nel celebre manuale ottocentesco di Krafft-Ebing Psychopatia sexualis [...] ma evoca un valore [...] se il processo di figurazione simbolica dovesse risolversi nello squallore dei trattati di medicina positivistica l’opera stessa di De Sade non sarebbe se non un tetro e maniacale florilegio di atti di perversione: laddove essa è stata sentita - da ultimo da Roland Barthes come uno dei luoghi alti, delle cime impervie della ragione occidentale.” G. Caputo, Il sole nero. Fra Pasolini e De Sade (Note per una metafisica del sadomasochismo). “Cinema & Cinema”, maggio-agosto 1985, pp. 43-47 (43). 17

18

M. Centini, Bosch. Una vita tra i simboli. Firenze, Polistampa, 2003, p. 12.

Il cosiddetto “concorso dei deretani” della Sequenza 19 è un momento molto significativo nel film, che reitera il senso del dominio sui corpi; in particolare, la frase del Vescovo/Cataldi, ripresa da Sade (“Imbecille, come potevi pensare che ti avremmo ucciso? Non lo sai che noi

19

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vorremmo ucciderti mille volte, fino ai limiti dell’eternità, se l’eternità potesse avere dei limiti?”), rimanda direttamente a Foucault e alle sue teorizzazioni sulla prigione e la punizione: “la morte-supplizio è l’arte di trattenere la vita nella sofferenza, suddividendola in “mille morti” e ottenendo, prima che l’esistenza cessi, “the most exquisites agonies””. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 37. 20

Ibidem, p. 15.

21

Ivi.

Le pratiche di tortura riprodotte in Salò trovano in alcuni casi un riferimento nella cronaca storica di quelle perpetrate dalla banda fascista di Pietro Koch, in merito, ad esempio, proprio alla bruciatura di parti del corpo quali i genitali, anche se in quel contesto “Mancava il sadismo come elemento distintivo e scatenante. [...] L’istanza poliziesca precedeva le altre, e le sevizie furono uno strumento in vista di fini politici, non un fine in se stesso”. Cfr. M. Griner, La banda Koch. Il reparto speciale di polizia. 1943-1944. Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 10-11 (in part. § “Sevizie particolarmente efferate”, pp. 207-242).

22

23 M. Collins, The Dance of Death in Book Illustration: Catalog to an Exhibition of the Collection in the Ellis Library of the University of Missouri-Columbia: April 1-30, 1978. Columbia, University of Missouri, 1978, p. 14. Per una panoramica sulla produzione di “Danze macabre” in epoca novecentesca si veda in Ibidem, pp. 49-51. Sempre in riferimento alle epoche più vicine al nostro tempo si ritrova anche che “la celebrazione della Morte avviene bensì talora sulla falsariga di una danza, ma assume spesso tonalità diverse e si sposa altresì con l’esaltarsi dell’erompere della violenza e del suo potere distruttore”. Cfr. Immagini della danza macabra nella cultura occidentale dal Medioevo al Novecento. Milano-Como, Nodo Libri, 1997, p. 18.

Per un approfondimento in merito si rimanda ad un’interessante saggistica fiorita recentemente ed in particolare a: L. Harris, The secret heresy of Hieronymus Bosch. Edinburgh, Floris, 1995. 24

25

M. Centini, Bosch, cit., pp. 75-76.

Bibliografia essenziale Limentani Virdis, Caterina, Le delizie dell’inferno. Dipinti di Hyeronimus Bosch. Venezia, Il Cardo, 1992. Larsen, Erik, Hyeronimus Bosch: catalogo completo. Firenze, Octavo, 1998. Belting, Hans, Bosch: garden of earthly delights. Munich, Prestel, 2002. Centini, Massimo, Bosch: una vita tra i simboli. Firenze, Polistampa, 2003. 140

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Bruegel il Vecchio Soffermarsi sull’opera pittorica e grafica di Pieter Bruegel il Vecchio per declinarne tentativi di confronto iconografico con Salò è un’operazione sostanzialmente di breve durata, in considerazione della filiazione di tematiche, approcci e stile di questo autore dall’opera dell’altro illustre fiammingo appena esaminato, ovvero Hieronymus Bosch. Considerazione che trovava conferma nell’interesse di Hieronymus Cock, già editore principale dell’opera di Bosch, per il giovane Bruegel che “dimostrò di saper ricreare il “linguaggio” satirico-morale di Bosch riallacciandolo a un fondo di pensiero, dopo una parentesi di imitatori abbastanza privi di spessore culturale che ne avevano per lo più fatto scivolare le intenzioni nei rivoletti innocui del curioso e del bizzarro fine a se stesso” 1. Utile alle connessioni con Salò potrebbe essere proprio isolare ed illuminare quel “fondo di pensiero” anche storico e sociale inserito nel Rinascimento fiammingo che la modernità di Bruegel rispecchia. Come già in Bosch, la deformazione grottesca è il medium di un’autonoma visione sulla realtà, sulla società e sulla religione, sparpagliata magari nel fantastico-perturbante delle piccole mostruosità (“grilli” e streghe) e nella messa in scena di “danze macabre”, ma in Bruegel si recupera più precisamente una sostanza più umana, “la coscienza dell’uomo divenuto protagonista della storia nel nuovo spirito critico sorto dal Rinascimento fiammingo e dagli ideali protestanti”, in linea con una tradizione pittorica ben precisa: “La sua autonomia di coscienza e di pensiero nei confronti della Chiesa e dell’autorità che gli permise sempre di opporsi ai sofismi degli intelletti teologici, incapaci di innovazioni e di nuove ricerche, gli fecero accettare il senso eroico dell’umanità di Masaccio, i pittorici ideali di Andrea del Castagno, di Pier della Francesca e di Leonardo da Vinci, inserendoli nell’assoluta fiducia di una verità ordinata e di un aspetto del mondo in cui visione, rappresentazione e scoperta [...] influenzano e determinano le forme della sua pittura [...]” 2.

In sintesi, però, quello che interessa maggiormente nel discorso degli apparentamenti iconografici tra Bruegel e Salò 3 è la continuazione di un progetto pittorico che rifonda la realtà in direzione grottesca per farne uno strumento critico: i caratteri basilari di questa operazione sono quelli già fatti propri da Bosch, con un’accentuazione significativa di alcuni elementi, in particolare con un’intensificazione sensibile dell’attenzione verso le fasce più basse della catena sociale come i vagabondi, i mendicanti e i pazzi. 141

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A questo proposito, la presenza della follia in Bruegel è una chiave di volta per comprendere la sua volontà di passare al setaccio la società del suo tempo e allo stesso tempo un fertile motivo di contatto con le immagini di Salò. La follia, “anticipo della morte”, è infatti un elemento ricorrente in Bruegel: “il pazzo al contrario denuncia apertamente la sua verità e mediante il suo linguaggio, in apparenza privo di senso, manifesta una critica sociale e morale molto pungente che attacca la Chiesa e lo Stato in un periodo denso di pericoli e in un’epoca ove la cultura paganeggiante e rurale costituiva una minaccia pericolosissima qualificata da Jean Delumeau come satanica, inseritasi nei secoli all’interno di una mentalità timorosa e terrorizzata di fronte al limite assoluto della morte, considerata o in tutta la sua macabra spettacolarità o suggestione [...]” 4.

Proprio nelle fattezze di un immaginario rurale fatto di una ritualità paganeggiante e mortuaria si inserisce parte della produzione pittorica e grafica di Bruegel. Come e più che in Bosch, forse, le immagini della “esuberanza tragica della vita”, per usare una definizione di Nietzsche, coincidono con una ritualità ben precisa, che è quella della festa e che diventa a sua volta l’occasione per l’apparizione della “macabra spettacolarità” della morte; e a tal proposito DidiHuberman richiamava una distinzione fondamentale per l’arte e anche per il funebre significato del rito e della cerimonia in Salò, che proprio nell’epilogo delle torture si definisce in maniera conclusiva: “Là dove Nietzsche oppone le “arti dell’immagine” (apollinee) alle “arti della festa” (dionisiache), Warburg risponde - rifacendosi a Burckhardt - che le arti dell’immagine sono antropologicamente inseparabili dalle arti della festa: gli “intermezzi”, gli ingressi trionfali, le rappresentazioni devote o pagane del Rinascimento, tutte queste manifestazioni dell’”azione” (Handlung) umana hanno costituito, per Warburg, il quadro stesso da cui le forme pittoriche traevano senso [...] Nietzsche scrive peraltro che “la tragedia greca, nella sua forma più antica, aveva per oggetto solo i dolori di Dioniso”. E i dolori sono: battaglie, animalità, squartamenti, maschere, metamorfosi...” 5.

Localizzare tutto ciò in opere precise significa menzionare ad esempio Il paese di cuccagna (1567) e la somiglianza dei corpi distesi a terra stravolti dall’esagerazione della crapula e dei piaceri con il momento della discussione pseudo-intellettuale e dell’”esprit de delicatesse” pronunciato dal Vescovo/Cataldi 6, con i quattro seduti per terra storditi dall’orgia precedente (Seq.13.1); o rintrac142

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ciando anche l’inversione di segno tra la quantità di cibo del Banchetto nuziale (1568) bruegeliano e il contrappasso della somministrazione sadiana delle feci del “banchetto nuziale” di Salò (matrimonio tra Curval/Quintavalle e Sergio: Seq.20b). Ma per restare al dionisiaco di cui si diceva il riferimento obbligato è Il Trionfo della Morte (1562-’63), che trova il suo collegamento privilegiato ancora nell’insieme delle sequenze finali (Seq.29-30): emblematico l’accatastamento dei corpi nella parte centrale-laterale destra (che si ritrova anche in alcune fotografie di sequenze tagliate dal montaggio definitivo7) e accanto il dettaglio di uno scheletro che taglia la gola ad una vittima sdraiata a terra e che richiama la postura di alcune delle torture inflitte dai Signori e dai collaborazionisti alle vittime legate a terra (scotennamento, enucleazione di un occhio). Si inserisce qui idealmente anche la violenza della sottomissione sessuale (non esplicitata nel dipinto) inframmezzata alle mutilazioni finali e alla visione a turno dello spettacolo, coadiuvata dall’allegorico medium musicale orffiano: e questo crea una circolarità con quanto si diceva prima poiché “Ancora l’ultimo Nietzsche definirà l’apollineo e il dionisiaco come stati in cui l’arte si manifesta nell’uomo come istinto naturale: l’uno come costrizione alla visione, l’altro come costrizione all’orgiasmo” 8.

La conclusione del discorso dedicato alle attinenze tra Bruegel e l’iconografia di Salò è simile a quella proposta per Bosch, con un riferimento, ovvero, alla società dell’autore; ritornando per un attimo all’elemento della follia e quindi anche ai luoghi di reclusione e internamento, i quali esercitano ed esercitavano all’epoca un elemento di attrazione per l’autore, da riformulare e riversare sul pubblico e sulla società, come Pasolini fa con Salò: “In questi autori che immortalano sulle loro tele folli e libertini stessi, malati e criminali, creando un mondo fantastico, sensibilizzano la popolazione sulla funzione sociale e culturale dei luoghi di segregazione e di purificazione [...] conservano in profondità delle immagini che si identificano e si mescolano con la potenza immaginativa delle loro surreali fantasie che esige, accanto a raffigurazioni normali, anche la presenza dell’insensatezza, la strana contraddizione degli appetiti umani, la complicità del desiderio e del delitto [...] come della sovranità e della schiavitù, dell’insulto e dell’umiliazione, con un sadismo ed una dialettica visti, a volte, senza ‘la mediazione del cuore’ per mezzo di un dialogo ‘insensato dell’amore e della morte’” 9.

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Note 1

Vizi virtù e follia nell’opera grafica di Bruegel il Vecchio: catalogo generale ragionato. A cura di G. Vallese. Milano, Mazzotta, 1979, p. 8. L. Torti, La tematica dei dipinti e delle opere di Pieter Bruegel il Vecchio intesa come espressione di vita, di umanità e di arte. Pavia, EMI, 1989, p. 7. Per un approfondimento su Bruegel e la società del suo tempo cfr. in Ibidem, pp. 109-128.

2

Nell’ambito della presenza pittorica di Bruegel nel cinema di Pasolini si rimanda anche a: Fra Giotto e Bruegel. Citazioni pittoriche nel Decameron. In: A. Marchesini, Citazioni pittoriche nel cinema di Pasolini. Da Accattone al Decameron. Firenze, La Nuova Italia, 1994, pp. 151-163. 3

4

L. Torti, La tematica dei dipinti e delle opere di Pieter Bruegel, cit., p. 74.

5 G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte. Torino, Bollati Boringhieri, 2006, pp. 139-140, 143.

Ricordiamo che la discussione di Cataldi sull’“esprit de delicatesse” è la ripresa testuale di una lettera di Sade indirizzata alla moglie (datata 23-24 novembre 1783) per la quale si rimanda a: D.A.F. de Sade, Opere. A cura di P. Caruso. Milano, Mondadori, 19882, p. 782. 6

7

Cfr. in F. Cevallos, Salò. Mistero, crudeltà e follia, cit.

Cfr. Introduzione di V. Vivarelli a: F. Nietzsche, La nascita della tragedia. Torino, Einaudi, 2009, p. XLV.

8

9

L. Torti, La tematica dei dipinti e delle opere di Pieter Bruegel, cit., p. 92.

Bibliografia essenziale Denis, Valentin, Tutta la pittura di Pieter Bruegel. Milano, Rizzoli, 1952. L’ opera completa di Bruegel. Presentazione di Giovanni Arpino; apparati critici e filologici di Piero Bianconi. Milano, Rizzoli, 1971. Vizi virtù e follia nell’opera grafica di Bruegel il Vecchio: catalogo generale ragionato. A cura di Gloria Vallese. Milano, Mazzotta, 1979. Torti, Luigia, La tematica dei dipinti e delle opere di Pieter Bruegel il Vecchio intesa come espressione di vita, di umanità e di arte. Pavia, EMI, 1989. Bussagli, Marco, Bruegel. Firenze, Giunti, [1998]. Bianco, David, Bruegel. Firenze-Milano, Giunti, 2007.

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cagnaccio di San Pietro

“Vive nella storia chi è nuovo nel suo tempo, ma essere nuovo non significa storpiarsi; e l’ignoranza non è che la più vecchia megera e la volontà e il desiderio sono di tutti. [...] Ma la volontà e il desiderio non sono ‘cedole’ accettate presso le ‘banche’ e nessun credito possono avere in ‘Borsa’” 1. Citando queste affermazioni di Cagnaccio di San Pietro (pseudonimo di Natalino Bentivoglio Scarpa 2), riunito da Franz Roh nel 1925 insieme agli illustri nomi di Dix, Donghi, De Chirico e Oppi sotto l’etichetta di “realisti magici”, si riassumono alcune delle componenti che formano la personalità e l’identità artistica del pittore e che contribuiscono a dare il giusto inquadramento storico alla sua figura. Le giovanili e inconcludenti esperienze all’interno del Divisionismo e soprattutto del Futurismo non lasciano un segno nel pittore e stanno dietro a quel sintomatico rifiuto allo “storpiarsi”, ovvero allo snaturarsi del personale gusto pittorico dentro all’elogio modernista boccioniano della macchina e della modernità, evitato per deviare semmai verso la maniera “biomorfa” di Mirò, poichè “il Cagnaccio ‘da giovane’, da futurista in erba non ha occhi per il meccanomorfismo e le sue tentazioni; pratica invece certe forme geometriche, appartenenti però a una geometria sentimentale, biomorfa” 3.

Questa convinta e puntigliosa volontà artistica è una sorta di messa in atto delle battaglie portate avanti in quel periodo da De Chirico quanto da Bontempelli, che bollano come aberranti tanto il naturalismo ottocentesco e l’impressionismo quanto, per l’appunto, il Futurismo e il Cubismo, lanciandosi nella difesa del cosiddetto “richiamo all’ordine” della pittura promosso insieme al gruppo di “Valori Plastici” 4, nella consapevolezza della finis avanguardiae. Ritrovare un sostegno alla sua personale traiettoria artistica nella battaglia per il ritorno alla classicità di una figura come quella del De Chirico della Metafisica significa riallacciare Cagnaccio con le sue, magari indirette, origini pittoriche: “[...] una linea figurativa che semmai si annodava, per tante ragioni di affinità estetiche, a quelle matrici del realismo europeo fiorite negli anni venti, le quali contavano precedenti quanto mai illustri non solo in una certa tradizione del passato, magari di origini non esclusivamente nordiche, ma soprattutto in quella “nuova tradizione” sorta dai lieviti segreti ma fecondi della Pittura Metafisica. [...] Si andavano in tal senso affermando, dunque, delle differenze se non financo

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opposte alternative di pensiero attorno a una concezione della modernità che si poneva in una posizione apparentemente contrastante rispetto a quella, più clamorosamente rivoluzionaria, sostenuta dalle varie tendenze dell’avanguardia” 5.

Così riassunta l’esperienza artistica, resta la questione più urgente, ovvero quella della peculiarità della pittura di Cagnaccio di San Pietro: la nettezza e la precisione particolarissime del tratto del pittore veneto incanalato nel “Realismo magico” si potrebbero definire nel “naturalismo spettrale” di Savinio quanto nello “stupore lucido” di Bontempelli, quando parlano dei maestri del Quattrocento. Di quella tradizione la chiarezza compositiva e tonale di Cagnaccio è una riformulazione che arriva a definirsi come una “pittura dello sguardo” che nelle modalità del suo “processo di osservazione minuta e capillare” ha portato anche ad un accostamento con Lacan e con i suoi studi interpretativi. Lo sguardo che abita questa pittura è però calibrato sulla misura dell’eccedenza, che “tende a oltrepassare il velo sia pure apparente di una pura oggettività e che lo porta perciò a dover incontrare il punto vuoto dove il vedere non è più nemmeno luogo di rappresentazione, ma soltanto abisso della visione” 6. È proprio questa oltranza della mimesis del reale (corpi, oggetti, ambienti) che, secondo le migliori intenzioni di Cagnaccio di San Pietro, costituisce l’effetto “magico”, “l’aura spiazzante, straniante” che staziona in una realtà quotidiana e non museale (alla Sironi, per intendersi) rigorosamente ricondotta ad una semplice “questione di vernice giusta, di aspersione di cose e persone in un liquido atto a preservarle, a esaltarle nella loro “inseità”, senza concedere nulla al “per gli altri”, ai diritti dell’ottica e del punto di vista” 7. Per Salò si pongono simili questioni intorno all’oggettività dell’immagine e alla lucidità rigorosa del suo impianto, insieme al suo stesso, ontologico eccesso di rappresentazione e contemporanea, fredda e ‘magica’, astrazione atmosferica; ma si pone anche l’ipotesi che per Pasolini come per Cagnaccio di San Pietro l’ostentazione reiterata della rappresentazione (compositivamente impeccabile, eccetera) sia anche una coincidente smania verso l’irrappresentabile che magari si può istituzionalizzare solo nella cornice della Parola (sadiana). In Salò come in Cagnaccio si parcellizzano: “i particolari più minuziosi delle scene, dei “ritratti”, delle “nature morte”, delle “allegorie”, in una sfida per lui portata però a trascendere ogni limite del rappresentabile, per cui l’evidenza del reale viene a produrre un superamento della dialettica tra vero e apparenza, tanto che egli poi sforza la centratura visiva tramite una sua messa troppo a fuoco, con il proposito forse di riflettere l’invisibile, quanto cioè resta nascosto della nostra stessa vista” 8.

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In questa direzione, al confronto iconografico tra il Salò pasoliniano e il “Realismo magico” (o puro e semplice realismo) di Cagnaccio si potrebbe certo ascrivere ancora il più volte citato (perché emblematico in senso definitivo) epilogo delle torture boschano-bruegeliano, perché linguisticamente solidale con il discorso appena affrontato e perché il “voyeur” Cagnaccio (come lo definisce Toni Toniato) potrebbe ritrovarsi in quelle “immagini di vitrea trasparenza, immagini di figure e cose, sottoposte, da lui, a essere oggetto, apparentemente passivo, di una perlustrazione insaziabile dell’occhio” 9. Preferiamo invece rintracciare in Salò i famosi nudi del pittore, distribuiti tra pietas e radicalità dell’atteggiamento verso sessualità ed eros: a cominciare dalla contorsione dei corpi femminili di Dopo l’orgia (1928), che segue gli intenti di Cagnaccio al non concedere i diritti del punto di vista canonico e replica l’atterramento irrituale e sottomissorio dei corpi delle vittime femminili nel corso dei racconti della Vaccari nella “Sala delle Orge” (Seq.14). Per passare agli anni Trenta - in maniera non meramente cronologica, ma anche tematica: da nudi “oggettivi” a nudi “allegorici” - di La rosa del mare (1935), con un nudo seduto e dimesso, vicinissimo persino nel dettaglio della pettinatura a certi piani medi di vittime femminili e, soprattutto, di La sorgente (1935), dipinto carico di retaggi simbolisti nel suo “abbinamento donna-acqua” che “perde la concretezza fisica e tende a stilizzarsi, recuperando modelli di Hodler e di Vallotton” 10, ma nel quale soprattutto la curvatura della schiena della ragazzina inginocchiata a bere l’acqua dalla coppa delle mani rimanda direttamente alla sua versione pervertita, in Salò, nella sequenza della ragazza Renata costretta in identica postura a raccogliere dal pavimento le feci di Blangis/Bonacelli per cibarsene (Seq.17.7 e .9). Infine, nella postura rivolta all’indietro (a guardare un ideale obiettivo) de La ragazza e lo specchio (1932) una somiglianza evidente con un identico girarsi verso la macchina da presa della pianista Sonia Saviange (ancora in Seq.17). Sono immagini in definitiva confrontabili per quella levigatezza tonale che sembra accomunare Pasolini e Cagnaccio in un similare “desiderio di possesso” su quelle forme e corpi “che non potrà non sfiorare un senso di totale nullificazione [...] adolescenti dai volti incantati, attoniti, sperduti in un vuoto inaccessibile” 11. La “Nuova Oggettività” europea e italiana condivisa da Cagnaccio di San Pietro é qualcosa che fa parte (lo si vedrà) anche dei retaggi di Salò: Pasolini si affianca al pittore e alla sua rappresentazione ultra-realistica (o iperrealistica) sotto l’illuminazione di Lacan che dice che “in qualsiasi quadro è proprio quando si cerca lo sguardo in ciascuno dei suoi punti che lo si vede scomparire”.

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Note

1

Cfr. appendice di scritti del pittore in: Cagnaccio di San Pietro. Milano, Electa, 1991, p. 158.

2

Per una biografia del pittore si veda in Ibidem, pp. 162-163.

3

R. Barilli, Cagnaccio di San Pietro e il Realismo magico. In: Ibidem, p. 15.

4 Per un approfondimento sulla rivista si rimanda a: M. Fagiolo Dell’Arco, Classicismo pittorico: Metafisica, Valori Plastici, Realismo Magico e “900”. Milano, Costa & Nolan, c2006; e: Valori plastici. A cura di P. Fossati, P. Rosazza Ferraris, L. Velani. Milano, Skira, 1998.

Cagnaccio di San Pietro. La magia dello sguardo. A cura di C. Gian Ferrari. Milano, Electa, 1997, p. 25.

5

6

Ibidem, p. 27.

7

Cagnaccio di San Pietro, cit., p. 16.

8

Cagnaccio di San Pietro. La magia dello sguardo, cit., p. 28.

9

Ibidem, p. 29 (corsivo mio).

10

Cagnaccio di San Pietro, cit., p. 32.

11

Cagnaccio di San Pietro. La magia dello sguardo, cit., p. 31.

Bibliografia essenziale Cagnaccio di San Pietro. Milano, Electa, c1991. Cagnaccio di San Pietro: la magia dello sguardo. A cura di Claudia Gian Ferrari. Milano, Electa, 1997.

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caravaggio La traccia caravaggesca in Salò è isolabile in alcuni temi fondamentali che si armonizzano con gli intenti di messa in scena e composizione pasoliniane e viene illustrata brevemente in pochi esempi che si è deciso di includere come modelli di quei temi. Prima ancora, però, non si può non riallacciare questa ipotesi iconografica al ricordo della passio nutrita da Longhi per il lombardo e al ”febbrile invasamento caravaggesco” pasoliniano di cui parlava Galluzzi a proposito della biografia romanzata di Dominique Fernandez 1, ma sottintendendo con questo anche l’impronta delle lezioni universitarie del maestro sul gusto del poeta. Agli inizi della carriera caravaggesca rintracciamo, insieme alla vicinanza ad una “concezione illuministica della prospettiva risalente all’antichità e adottata dal Mantegna”, come dice Mina Gregori, la spinta “a indagare i fenomeni della natura, a studiare dal vivo i moti dell’animo e le azioni nella loro istantaneità, a cogliere le diversità e le abnormità fisionomiche con un interesse che non è da confondere con la capziosità manieristica, e a confrontarle mediante il ‘contrapposto’” 2. È questa dello studio fisionomico e psicologico sui “moti dell’animo e le azioni” una prerogativa caravaggesca che sembra preludere all’impronta globale dei suoi lavori più tardi e poi una sensibilità speculativa perfettamente omologabile alle attenzioni e alle impellenze pasoliniane, cinematografiche nonché pittoriche (si rivada con la memoria ai ritratti della Callas e di altri soggetti, su cui Zigaina faceva proliferare analisi di tipo psicanalitico-introspettivo). Cesare Garboli diceva invece che “è difficile scindere tutta l’esperienza eversiva del Pasolini ‘romano’ degli anni Cinquanta dall’immagine del Caravaggio che è stata a più riprese offerta da Longhi”: è una verità sostanziale e riassuntiva che, a partire dal riferimento autobiografico a cui ammicca questa considerazione, porterebbe ad osservare e a scandagliare anche la produzione letteraria e poetica fino all’inizio dei Sessanta per ripescarvi tracce e scampoli iconografici in molti passaggi di Ragazzi di vita o di Una vita violenta, quanto nei versi di Poesie in forma di rosa, da cui il Caravaggio, mito nonché canone pittorico, emerge concretamente e letteralmente proprio nell’ambito di una descrizione fisica e corporale dei popolani: “chi è contento di una giovane | faccia crudele, chi di un’altrettanto | crudele faccia di vecchio coatto; | [...] chi con piglio spagnolesco | - un Caravaggio - si gonfia del lavoro, | e chi, lazzarone - un Gemito - | dell’ozio” 3.

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Si veda la fisicità e la corporalità dei caratteri condivisi tra Pasolini e Caravaggio, allora, scoprendo prima di tutto (ma sottolineando questioni già assai note, è evidente) che quei caratteri sono siglati da un’identica appartenenza di classe e accomunati, a discendere dalle biografie dei due autori (dal loro “vissuto”, per parlare con Pasolini), dalla loro adolescenziale e “angelica” età. Ritroviamo nell’immancabile Caravaggio di Longhi un’indicazione importante - nella misura di un riferimento a Pasolini - quando si parla dell’Angelismo del 1590: “A riandare a questi primi soggetti, per quanto evasivi, ed anche per prevenire e confutare storture di interpretazione, c’è pur da chiedersi perché il Caravaggio quasi non vi ritragga che figure di adolescenti. Teniamoci al semplice. ‘Bisognoso’ com’era, né certo in grado di pagarsi i modelli vari che avrebbe desiderato non sorprende ch’egli si valesse dei suoi gratuiti amichetti coetanei, figli di scalpellini lombardi o di affittacamere romani, garzoni d’osteria, ragazzi di strada. E, data ‘quella certa età’, non c’è neppure da strologare sull’apparenza naturalmente un po’ ambigua del ‘Bacco’ e del ‘Suonatore di liuto’, talora, infatti, detto ‘Suonatrice’” 4.

Longhi che sottolinea che il lombardo dipinge per scelta cosciente i peggiori nella scala sociale, “cioé, diciam pure, la povera gente che fa soggetto di strada, ma non di ‘historia’”, ribadendo però nel contempo con forza la convinzione teorica che nell’arte caravaggesca non vi sia “nulla di più lontano dalla tesi del realismo ad oltranza”, vedendo bensì nell’artista essenzialmente il creatore “di una nuova plasticità ottenuta in materia pittorica e con l’ausilio della luce” 5. A cercare l’omologia a questo tema in Pasolini - tralasciando quello che sarebbe il lungo confronto metodologico sull’uso e il valore del realismo per Pasolini in opposizione all’assenza del medesimo nel pittore, stando alle parole di Longhi - si finisce ancora nel territorio della poesia e, non casualmente, un passo emblematico si ritrova nelle vicinanze (temporali ma anche tematiche) di Salò. In Petrolio, i “Modelli delle Bolge” introducono a una “fisionomica” delle classi popolari e del carattere del proletario vicina a quella che si evocava all’inizio insieme alla Gregori, utile ad arrivare anche alla più ultimativa definizione pasoliniana dell’adolescente sottoproletario: “Secondo: i Numi delle cinque Bolge, non hanno nome né definizione. E ciò per le stesse ragioni per cui sono provvisori e moribondi. La Storia li ha prodotti, li ha collocati come Modelli nelle strade del ‘Popolo’, ma se li è, come dire, trovati tra i piedi. Sono l’Imprevisto e quindi, per ora, l’Irrelato. [...] Dalla scena della Realtà

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(la Via xxx xxx di pochi anni prima) che, al solito, balugina e xxx sotto la scena della Visione, fiottano degli odori, e precisamente gli odori dei corpi dei giovani e dei ragazzi che popolano marciapiedi e baretti (al solito, gli anziani sono fuori dal gioco). Sono odori di sudore e di polvere, cioè di povertà e di innocenza” 6.

Queste premesse (ridotte all’essenziale, certo) costituirebbero lo scheletro sul quale costruire il sistema di confronti e paralleli iconografici tra Caravaggio e il Pasolini di Salò: in realtà, questo è attuabile solo in presenza di un paio di discriminanti. Applicata a Salò, intanto, la pura questione del realismo irrealizzato di Caravaggio su cui insisteva Longhi potrebbe ritrovare eventualmente alcune corrispondenze nella stilizzazione e nella “plasticità” sulle quali fa perno il film, ma è forse più utile spostare l’attenzione su altro. Più essenziale e condiviso, per iniziare, è lo studio gestuale: prendiamo spunto ancora dalla Gregori che parla della Giuditta e Oloferne come del “primo esempio nel corpus caravaggesco di pittura di storia per l’azione violenta rappresentata nella sua istantaneità, nei gesti e nelle reazioni psicofisiche osservati sul modello vivo” 7: una definizione fin troppo ritagliata sulla violenza gestuale di Salò, che invita a localizzarla, per tornare al proposito iniziale, in modelli precisi. Analogamente alla Giuditta, il Sacrificio di Isacco del 1598 richiama, nella torsione del corpo del fanciullo con il collo torto all’indietro e nell’espressione d’orrore che gli spalanca la bocca, ad esempio i ragazzi torturati/sacrificati dell’epilogo (Seq.30), analogamente bloccati dalle braccia di Signori e collaborazionisti che cavano occhi e amputano lingue. O, ancora, ci si presenta alla memoria l’assonante composizione delle figure e della postura del Battista nella Decollazione del 1607-’08. Ma lo spazio delle discriminanti di cui si diceva viene riempito fondamentalmente dalle differenze esistenti tra Caravaggio e il Salò nel tonalismo e nel trattamento della luce: la lucida e piatta definizione dei corpi di Pasolini - poiché finalizzata ad una stilizzazione e ad un’astrazione che si scoprono bidimensionali anche luministicamente - si oppone di principio a quella escogitazione caravaggesca del “ringargliardire gli scuri” attribuitagli dagli “antichi biografi”, che ritroviamo nella revisione critica che ne fa Longhi: “Anche il Caravaggio avvertiva il pericolo di ricadere nell’apologetica del corpo umano, [...] Ma ciò che gli andava balenando era ormai non tanto il ‘rilievo dei corpi’ quanto la forma delle tenebre che li interrompono. Lì era il grumo drammatico della realtà più complessa ch’egli ora intravedeva dopo le calme specchiature dell’adolescenza. E la storia dei fatti sacri, di cui ora s’impadroniva, [...] s’in-

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veste del lampo abrupto della luce rivelante fra gli strappi inconoscibili dell’ombra. Uomini e santi, torturatori e martiri si sarebbero ora impigliati in quel tragico scherzo” 8.

Certo, anche Salò gioca inevitabilmente, qua e là, con l’ombra e la sfumatura, e in tal senso si deve guardare alle immagini notturne delle ispezioni nelle camerate con le ragazze scoperte a letto insieme (Seq.25) o a molte vittime maschili, di cui modello abbastanza prossimo potrebbe essere la “naturalezza” archetipica del giovane Giovanni Battista (1604-’06), nella sua postura abbandonata e la veste rossa che ne scopre la nudità. Luce, gesto e plasticità convergono in un discorso che per noi diventa riferimento curioso e funzionale, coadiuvato dall’Introduzione di Giovanni Previtali al Caravaggio longhiano. Questo riferimento riconnette Caravaggio a un discorso già citato e approfondito, che è al cuore proprio dell’amore figurativo di Pasolini, sbocciato dalle famose lezioni universitarie di Longhi: Previtali usa l’intermediazione di Balazs 9 per arrivare alla questione del cinema dentro alla critica longhiana, come componente di una vivace passione personale e come sorprendente strumento metodologico di “riscoperta” della pittura caravaggesca in età più matura: “Che cos’è, infatti, che, dopo ‘la forma impagliata nel cristallo profondo dello spazio prospettico’ di Paolo Uccello, dopo le ‘masse di colore, di forma, piani di luce’ che in Piero della Francesca ‘coincidono in una libertà superiore di geometria non euclidea’, ma anche dopo il cavallo che ‘scarta e si slontana cilindrando la tela’ della ‘Conversione di San Paolo’ del Caravaggio stesso, induce Longhi ad apprezzare nuovamente ‘i gesti pronti, emergenti, che sforano il quadro in profondità’ del Savoldo, la mimica, l’espressione fisica dei sentimenti attraverso i tratti del volto del Traversi (ma, l’abbiamo visto, anche del Caravaggio) se non l’esperienza, che dovette essere sconvolgente, del film muto? Quella esperienza che, come ebbe occasione di scrivere lo stesso Balazs nel 1924, costrinse ‘tutta l’umanità’ ‘a reimparare la lingua dimenticata della mimica e dei gesti’?” 10.

Considerazioni che, è da sottolineare, si inscrivono nel dibattito longhiano sulla questione del “naturalismo” caravaggesco, ovvero nelle conclusioni che poi interesseranno i suoi famosi Quesiti caravaggeschi, a seguire le premesse per cui nella pittura “tutta costruita in carne e sangue com’è quella del Caravaggio, la composizione e il gesto di pathos plastico sono stati ricondotti a motivi di natura” 11. Il cinema (la sua scoperta) è così la cesura tra un prima e un dopo del far critica, nell’ipotesi dell’acuta lettura di Previtali, cha va dall’indicazione dell’in152

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centivo ad una migliore osservazione dei “dettagli” attraverso “l’esperienza, nuovissima, dei ‘primi piani’”, come eccellente modello in cui si evidenzia “la dialettica del dualismo tra natura e visione”, per arrivare alla conciliazione della “ineluttabile naturalezza” del luminismo caravaggesco (con cui Longhi conclude i suoi Quesiti 12) con “l’esperienza della ‘inesorabile naturalezza’ e ‘inevitabile varietà’ del cinema” 13. Superando però letture più concettose è il Caravaggio debitore di “qualcosa alla ‘magia naturale’ del Della Porta, ed alla sua ‘camera ottica’” quello a cui dobbiamo guardare: quello su cui Longhi ci interroga chiedendo dove più netta intenzione “naturalistica” è rintracciabile se non nel Caravaggio “inventore dei più meditati fotogrammi; [...] se poi fotogramma, etimologicamente, vuol dire descrizione di luce e, s’intende, anche d’ombra? Di questo ci si convince meglio che mai rilevando che, portate in film, le immagini del Caravaggio, a confronto di quelle di altri pittori, sembrano girate addirittura dinnanzi a noi su corpi veri, e non dipinti” 14.

La passio caravaggesca di Longhi, vivificata alla luce del cinema e delle sue potenzialità linguistiche, è dunque il movente dell’applicazione tutta personale e modernissima degli altrettanto “meditati fotogrammi” delle diapositive nelle lezioni universitarie su Masaccio, che seducono Pasolini una volta per sempre facendogli dire che in quell’aula “il cinema agiva sia pur in quanto mera proiezione di fotografie”?

Note 1 Cfr. D. Fernandez, Nella mano dell’angelo. Milano, Bompiani, 1983. Il romanzo di Fernandez si sofferma particolarmente sulla questione ‘pasoliniana’ del rapporto sadomasochistico tra il pittore e l’aiutante (nonché sullo scambio dei ruoli di dominatore e sottomesso) in relazione al “Caravaggino”, ovvero il giovane e archetipico modello che posa per il Davide con la testa di Golia (1605-’06, Roma, Museo Nazionale di Villa Borghese), con in mano la testa spiccata del Golia, che altri non è che un autoritratto di Caravaggio stesso. Fernandez si inserisce a suo modo in un dibattito controverso su questo momento particolare della pittura caravaggesca, tra Frommel e Röttgen; si vedano in merito: C. Frommel, Caravaggios Frühwerk und der Kardinal Francesco Maria del Monte. “Storia dell’arte”, n. 9/10, 1971, pp. 5-29 e appendice, p. 51; e: H. Röttgen, Il Caravaggio. Ricerche e interpretazioni. Roma, Bulzoni, 1974, p. 203; D. Posener, Caravaggio’s early homo-erotic works. “Art Quarterly”, XXXIV, 1971, pp. 301-324, ora in: Homosexuality and homosexuals in the arts. A cura di W. R. Dynes-S. Donaldson. New York & London, Garland publishing, 1992, pp. 111-134.

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2

M. Gregori, Caravaggio. Milano, Electa, 1995, p. 9.

PPP, Poesie mondane. In: Pier Paolo Pasolini. Tutte le poesie. A cura e con uno scritto di W. Siti. Milano, Mondadori, 2003, II, p. 1098. 3

4

R. Longhi, Caravaggio. A cura di G. Previtali. Roma, Editori Riuniti, 19942, p. 17.

Cfr. R. Longhi, Due opere di Caravaggio. “L’Arte”, XVI, 1913, pp. 161-164, ora in: Id., Scritti giovanili 1912-1922. Firenze, Sansoni, 1961, I, p. 25. 5

6

PPP, Petrolio, cit., p. 365, Appunto 712. Il Merda (Visione: paragrafo ventesimo).

7

M. Gregori, Caravaggio, cit., pp. 12-13.

8

R. Longhi, Caravaggio, cit., p. 30 (corsivo mio).

Cfr. B. Balazs, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova. Torino, Einaudi, 1955, p. 25 e ss.

9

10

Cfr. Introduzione di G. Previtali a: R. Longhi, Caravaggio, cit., p. XXVII.

11 R. Longhi, Precisioni nelle Gallerie italiane. I. R. Galleria Borghese. “Vita artistica”, 1927, pp. 28-31, ora in: Id., Saggi e ricerche 1925-1928. Firenze, Sansoni, 1967, pp. 300-306 (302).

Cfr. R. Longhi, Me pinxit e Quesiti caravaggeschi 1928-1934. Firenze, Sansoni, 1968, pp. 137-138.

12

13 Introduzione, cit., p. XXVIII. Si vedano anche le seguenti considerazioni di Longhi riportate dall’autore: “[...] sbalzi tra ‘primi piani’ e ‘campo lungo’, che solo il Caravaggio seppe escogitare a quei tempi con uno spicco di verità che più tardi, per esprimersi, bisognò di macchine speciali”. R. Longhi, Il Caravaggio, Milano, Martello, 1952, p. 70 (citato in Ibidem, p. XXXV, n 69).

14 R. Longhi, Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi, catalogo, Milano, Palazzo Reale, aprile-giugno 1951. Firenze, Sansoni, 1951, pp. XXX-XXXI.

Bibliografia essenziale Calvesi, Maurizio, La realtà del Caravaggio. Torino, Einaudi, 1990. Longhi, Roberto, Caravaggio. A cura di Giovanni Previtali. Roma, Editori Riuniti, 19942. Gregori, Mina, Caravaggio. Milano, Electa, 1995.

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casorati Le opinioni espresse da Piero Gobetti sulla pittura di Felice Casorati sono illuminanti per capirne anche i riferimenti e le posizioni da cui muove e per risalire all’elenco ideale delle paternità artistiche. Gobetti1 sottolineava prima di ogni altra cosa la distanza del pittore “dalle infeconde ebbrezze del Futurismo”2 (come dal Cubismo e dall’Impressionismo, in stretta somiglianza, questo, con la biografia artistica di Cagnaccio di San Pietro, di cui si è appena parlato) e vedendo nel periodo simbolista un poco importante passatempo “di klimtiana musicalità”; ma, come dice Giorgina Bertolino (che riporta le suddette dichiarazioni di Gobetti), “Si parla di valenze metafisiche, ma non si accenna a possibili influenze da parte degli artisti della Metafisica; e per quello che riguarda il recupero della dimensione classica, a partire dal 1921, piuttosto che verificare la sintonia della ricerca casoratiana con il clima di ritorno all’ordine avviato da Valori Plastici, si preferisce enfatizzare (anche troppo) “l’istinto della pittura e della tradizione” e lo studio assiduo fin dall’inizio dei grandi maestri come Tiziano (vengono citati anche Brueghel il Vecchio, Marentino, Carpaccio, Bronzino, Piero della Francesca)”3.

Per la nostra sintesi sono in realtà importanti solo alcuni aspetti di questa pittura ed un elemento cardine per il confronto con le immagini di Salò è l’utilizzo del nudo, fondamentale in Casorati: il richiamo compositivo classico e “neoquattrocentista” (di cui Silvana Cenni, 1922, è l’esempio più lampante) si può intendere come l’ideale che sostiene tecnicamente un discorso orientato in direzioni più variegate: un canone di marca rinascimentale che si riassume nel motto casoratiano di “Numerus, mensura, pondus” (come compariva su di una cartella di litografie del 1945), ma dal quale si parte per costruire un discorso pittorico con radici anche novecentesche, che definiscono meglio il valore dei nudi che si andranno ad analizzare. Esiste poi, a volerla rintracciare, anche un’aderenza tra i gusti e i modelli pittorici di Casorati e quelli pasoliniani; lo confermano alcune dichiarazioni del pittore quando dice: “Quando ho cominciato a dipingere in quella mia maniera che fu poi trovata metafisica, in realtà non conoscevo De Chirico, dell’arte moderna conoscevo poco o niente. Conoscevo gli antichi, si, e amavo quelli. Del resto, dalla mia pittura si possono capire le mie preferenze: Piero della Francesca, Masaccio, Paolo Uccello li venero e li adoro come divinità” 4.

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Una precisazione importante riguarda la compenetrazione del nudo con l’ambiente in cui è inscritto, elemento che si modifica contemporanemente in una struttura compositiva di contrasto e, dunque, di sottolineatura del volume del corpo umano. Non solo: questa compenetrazione spaziale, in Casorati, è funzionale alla sottolineatura di un aspetto che denuncia affinità significative con Salò: quello della solitudine, che diventa un valore interpretativo e una misura per delimitare le qualità plastiche di questa pittura e della sua “peculiare tensione esistenziale”, che veniva ben colta da Giacomo Debenedetti nel 1933, quando diceva che “Casorati è un plastico, sto per dire, alla seconda potenza; cioè dipinge una plastica apparente, che della plastica vera e diretta non è più se non la rievocazione idealizzata” 5: si rimarca, ovvero, la concezione del soggetto da studio: “Ecco il punto che centra perfettamente l’interpretazione che Casorati fa del nudo, rappresentato certamente in una dimensione che proviene dalla visione del reale, ma che, attraverso una lenta e metodica analisi delle forme e delle strutture, ne risulta sublimato, quasi astratto dalla contingente corporalità, svuotato di passioni ed emozioni, trasfigurato e caricato di significati e di simbologie che attraversano il lento cammino della costruzione dell’atmosfera del dipinto” 6.

Il nudo in Casorati ha una qualità essenzialmente femminile e questo ci porta più vicino ai confronti ipotizzabili con l’iconografia del corpo nudo di Salò: anche se il Bambino nello studio (1936) ha tratti somatici quasi identici a quelli delle due vittime maschi ispezionate nelle selezioni iniziali (Seq.4.5-10), è al “neoclassicismo” degli anni Venti (1921-1925) con la sua femminilità dominante che bisogna ritornare per collezionare più nutriti riferimenti. A partire senz’altro dal gruppo di ragazze nude di Concerto (1924), uno fra i titoli ‘musicali’ di Casorati - che ci ricorda l’altra sua attività, quella di musicista, rivelatrice anche sui valori matematico-rigorosi della sua pittura -, frutto di un ‘neoclassicismo’ sui generis che ricerca una luminosità alla Vermeer” (Seq.9.4 e ss.), ma soprattutto a Meriggio (1922-’23), composizione di nudi femminili distesi e addormentati per terra in “sospensione metafisica” che rimandano a più di una postura e anche a certa luce dei corpi di Salò (Seq.14) e che sono inoltre utili a richiamare l’ispirazione di Casorati a Ingres, artista di costante riferimento. E a voler elencare i riferimenti più eloquenti della pittura casoratiana si potrebbe citare un’opera - sempre utile al nostro confronto con il film - come la Fanciulla dormiente o Fanciulla addormentata (1921, dipinto distrutto nell’incendio del Glaspalast di Monaco nel 1931 e riprodotto nel 1932), “operazione pittorica culturalmente piuttosto provocatoria, con il suo esplicito richiamo al 156

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“Compianto sul Cristo morto” del Mantegna” e versione capovolta, inoltre, della vittima suicidata (Eva) dentro al tabernacolo. Evidente in ogni momento è l’armonizzazione (o comunque tentata integrazione) della “solitudine plastica” dei soggetti nello spazio, che costituisce un altro ponte formale con Salò e la fisionomia raggelata del suo spazio: “Ciò che colpisce Casorati è il fascino silenzioso ed enigmatico dello spazio degli interni metafisici, dove la dimensione fenomenica del tempo viene annullata o quantomeno sospesa in una staticità incantata, imprigionata nella tensione inquieta delle fughe prospettiche dei pavimenti e delle pareti; è l’esplicita messa in scena teatrale degli oggetti e dei personaggi ridotti a vuoti simulacri umani. Questa nuova concezione dello spazio, bloccata e irrigidita, [...] consente finalmente a Casorati di fissare definitivamente le coordinate del suo specifico spazio figurativo, in una dimensione dove la percezione della realtà risulta per così dire decantata ed essenzializzata” 7.

Un’opera come Ragazze dormienti o Mozart (1927), raffigurazione di due ragazze dormienti una di fronte all’altra che si riscopre vicinissima a quella delle due vittime scoperte a letto insieme dall’incursione notturna del Vescovo/Cataldi (Seq.25), richiamando ancora modelli precedenti come il Courbet del Sommeil (1866) 8 mette anche il sigillo sulla fine del cosiddetto periodo “neoclassico” di Casorati, rivolto ora verso una rivoluzione anticlassicista che passa attraverso una “deformazione del nudo”: come esempio stilistico si potrebbe citare Aprile o La toeletta di primavera (1930), che nell’atteggiamento tenero e protettivo della ragazza che ne pettina un’altra nuda in posizione abbandonata richiama da vicino alcuni momenti di intimità disperata delle ragazze vittime - e ancor più marcata la somiglianza con Bambine abbracciate o L’abbraccio (1943), molto simile alle due ragazze abbracciate in seguito alle urla di Blangis/Bonacelli prima del matrimonio multiplo (Seq.24b): qui, nonostante il “chiaro tonalismo atmosferico [...] non c’è nulla di naturalistico, anche perché le figure sono delineate con una stilizzazione tipicamente casoratiana, che si caratterizza per un raffinato effetto di deformazione, in particolare delle mani” 9. Nell’Appunto 67 (Il fascino del fascismo) di Petrolio Pasolini dice: “Ci sono delle cose - anche le più astratte e spirituali - che si vivono solo attraverso il corpo” 10. Il lavoro pittorico sui corpi di Casorati, a sua volta “astratto” ma a suo modo spirituale, potrebbe essere nient’altro che il privilegiato modello figurativo della lunga teoria di adolescenti pasoliniani.

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Post-scriptum A Casorati si può aggiungere un altro esponente di spicco della pittura del periodo, che con lui condivide stesse radici e prese di distanza pittoriche, quali il distacco e addirittura l’estraneità al Futurismo e la vicinanza con la cerchia di “Valori Plastici” e il contatto con De Chirico: Onofrio Martinelli. Oltre ad un paesaggio che ricorda da vicino la Villa dei Signori di Salò (Villa borghese, 1939) un riferimento obbligato, nell’ambito del lavoro sui nudi del pittore, va al Riposo degli Argonauti (1934-’35), che ricorda l’impianto di alcuni quadri d’insieme di nudi delle vittime maschi, ad esempio nelle sequenze delle camerate (Seq.19b); per una descrizione recuperiamo un giudizio di Fabrizio D’Amico, nell’occasione di una mostra antologica allestita al Castello Svevo di Bari nel 1987: “Nella luce lenta e dorata della grande, cubica stanza, un gruppo di giovani riposa, si sveste, si guarda. Non corrono parole, ma solo incastri di pose, incroci di sguardi, in quel silenzio attonito e fermo dove la vita di tutti i giorni (sono forse, quei giovani, solo stanchi canottieri di ritorno da una gita sul Tevere) diventa un rito arcano, un evento misterioso e sospeso” 11.

Note 1 Casorati strinse un rapporto di forte amicizia con Gobetti che a Torino era “animatore di un ambiente di giovani aperto a interessi sociali e culturali in opposizione all’ideologia ufficiale dominante”, fondatore della rivista “Energie nuove” e molto interessato alle arti figurative; in particolare, Casorati fu parte del progetto culturale gobettiano, volto alla formazione di una classe di intellettuali impegnati in una rifondazione politica della società del tempo e firmatario inoltre di un ordine del giorno comparso in un numero dell’aprile 1922 della rivista “La rivoluzione liberale”.

2 In una lettera del 7 aprile 1911 Casorati esprimeva con chiarezza la sua personale visione di pittore anti-futurista (e anti-impressionista): “No, perché fuggire veloci in un’automobile gialla, perché violare il cielo con aeroplani mostruosi, perché imitare il fulmine, la saetta, il lampo? [...] Quale sincerità si cerca nell’arte? La sincerità esterna o la sincerità intima, interiore? Come potrò io comunicare agli altri la sensazione d’arte provata con il “copiare” le cose così proprio come stanno, senza mettervi dentro, senza indorarle con le raffinate emozioni da me sentite?”.

3 Catalogo delle opere di Felice Casorati. I dipinti (1904-1963). A cura di G. Bertolino. Torino, Allemandi, 1999, p. 13; seguono alcune precisazioni sulle somiglianze tra gli autori

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citati e alcune opere casoratiane; con Bruegel il Vecchio, ad esempio, si rintraccia un contatto con Le Vecchie del 1909, vedendovi “una vaga analogia nella posizione delle figure con “La parabola dei ciechi””, cfr. in Ibidem, p. 103, n 5. 4

Ibidem, p. 48.

5

Citato da Casorati in una conferenza tenuta all’Università di Pisa nel 1943.

6

Felice Casorati: il nudo. A cura di C. Gian Ferrari. Milano, Mazzotta, 1999, p. 11.

7

Catalogo delle opere di Felice Casorati, cit., p. 50.

Si potrebbe anche recuperare il Picasso di La vie (1903), costruito sui toni del blu e sulla caratterizzazione fisica di due nudi abbracciati (uno maschile e uno femminile) che replicano posture viste però in Salò quasi esclusivamente con protagoniste femminili. 8

9

Felice Casorati: il nudo, cit., p. 17.

10

PPP, Petrolio, cit., p. 262 (corsivo nel testo).

F. D’Amico, Atletici Argonauti. “La Repubblica”, 21 marzo 1987, ora in: Onofrio Martinelli. Gli anni Trenta. A cura di S. De Rosa; apparati critici di I. La Selva. Firenze, Pagliai Polistampa, 2000, p. 109. 11

Bibliografia essenziale Poli, Francesco, La natura morta nella pittura di Felice Casorati. Milano, Electa, 1997. Catalogo generale delle opere di Felice Casorati. I dipinti (1904-1963). A cura di Giorgina Bertolino. Torino, Allemandi, 1999. Gian Ferrari, Claudia, Felice Casorati. Il nudo. Milano, Mazzotta, 1999.

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daumier (e Goya) Alla robusta deformazione fisiognomica ed espressiva dei volti del Potere in Salò (sostanzialmente limitata ai soli quattro Signori) sempre Federica De Paolis ascrive giustamente un “espressionismo primitivo” ricollegabile all’opera litografica di Honoré Daumier. La ricognizione sull’aspetto forse riduttivo della brillante carriera figurativa di Daumier, ovvero quello del semplice caricaturista politico-satirico nella Francia delle tre rivoluzioni (1830, 1848 e 1870), ci permette di cogliere maggiori somiglianze con l’osservazione distorta del Potente di Salò; allo stesso tempo, è ingiusto non allargare il discorso su Daumier all’interesse più variamente umano incluso nelle sue “Attualità”, cornice di quella che la maggioranza dei critici ha definito la sua personalissima Comédie humaine, “autentico reportage sui costumi e sulla vita dell’epoca, che abbraccia temi di diversa natura: dalla politica estera [...] a fatti della strada [...] In realtà si è quasi sempre parlato di Honoré Daumier come del “caricaturista”, mentre egli è innanzitutto disegnatore, pittore, scultore di immenso talento” 1. Motivi per i quali il disegnatore venne inoltre sempre affiancato per importanza ai coevi Delacroix, Courbet e Gavarni. La fervente passione politica di fede rivoluzionaria e democratica esercitata sulle colonne de “La Caricature” e del “Charivari” produce 3958 litografie (qualche fonte afferma qualcosa in più), dispiegate su di un enorme piacere dell’osservazione fisiognomica dei difetti umani che diventano poi la cronaca dei languori e delle storpiature morali del suo obiettivo polemico preferito, ovvero, guarda caso, la borghesia. Il lavoro caricaturistico di Daumier è un lavoro politico e di costume in cui si avverte sempre tangibile un livore sincero, che a volte la critica ha stigmatizzato come limite della grandezza realizzativa dell’incisore: “Ma come non cogliere, nell’immagine delle piccole manie borghesi [...] appunto certi segnali di amarezza, di scontento, di frustrazione, da parte di un artista fortemente politicizzato e costretto al silenzio politico? Possiamo leggere in questi volti volutamente sgradevoli, in questi segni scarni e apparentemente tirati via, una ferocia repressa, un’inquietudine mai placata, un’allerta costante” 2.

Di questo autore, del quale il critico d’arte Georges Besson diceva che “il se sent solidaire des malheureux”, potremmo recuperare il grottesco - a livello più che altro, s’intende, di archetipo e di un principio critico-deformante del potere borghese trasfigurato in maschera idiota - del paradigmatico Ventre legislativo (1834), ma anche lo humour “tanto prossimo al nonsense” (Salò) che traspare 160

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nelle rappresentazioni di Tre avvocati in conversazione e del Giudice, figure istituzionali (quindi di Potere, ma colte nel contrario della loro iconografia consueta, impettita e altezzosa) che Daumier stesso ebbe modo di conoscere - e quindi di studiare fisiognomicamente - da vicino: “La sua attività di ‘galoppino’ lo aveva portato spesso a contatto con il mondo degli avvocati, nei meandri del Palazzo di Giustizia: vi scopre miserie, violenze morali, menzogne, cinismo, ipocrisia” 3.

In Salò le maschere dei Signori sadiani deformate dall’eccesso di ira e voluttà vengono caratterizzate però dal colore: Daumier, allora, pittore in debito principalmente con il disegno e la litografia, può ritrovarsi in una discendenza che è contestuale anche al confronto con il film: ovvero “Il colore implicito di Daumier nei disegni in bianco e nero veniva anche dall’aver apprezzato e studiato i maestri olandesi e fiamminghi, Rembrandt e Rubens, nonché lo spagnolo Goya. [...] La sua tendenza alla deformazione grottesca, non solo dei personaggi che intendeva deridere e distruggere, ma anche di quelli che rappresentava con indifferenza nella normale descrizione della vita e di un ambiente, fa spesso pensare al Goya dei ‘disegni neri’ e dei famosi dipinti della Quinta del Sordo” 4.

La grana dello sguardo critico sull’orrore della società, del potere e della guerra che non viene mai meno nella pittura goyesca, ed anzi ne è una delle istanze più solide e peculiari, confluisce anche nello stigma in fondo più conciliante della pittura di Daumier, che con parole vicinissime a Rimbaud (ed anche a Pasolini) amava ripetere che “il faut etre de son temps”.

Note 1 Honoré Daumier e i giornali satirici. 130 litografie scelte e presentate da P. Watts. Roma, Multigrafica, 1980.

2

Ibidem, Introduzione.

L’ opera pittorica completa di Daumier. Presentazione di L. Barzini. Apparati critici e filologici di G. Mandel. Milano, Rizzoli, 1971, p. 8.

3

4

Ibidem, pp. 7-8.

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Bibliografie essenziali Daumier L’opera pittorica completa di Daumier. Presentazione di Luigi Barzini; apparati critici e filologici di Gabriele Mandel. Milano, Rizzoli, 1971. Honoré Daumier e i giornali satirici. 130 litografie scelte e presentate da Paola Watts. Roma, Multigrafica, 1980. Honoré Daumier: il pittore della vita moderna. Milano, Mazzotta, 1996. Il trionfo dell’idiozia: Goya, Daumier, Grosz: pregiudizi, follie e banalità dell’esistenza europea. Milano, Mazzotta, stampa 1998. Goya Gassier, Pierre, The drawings of Goya: the complete albums. London, Thames and Hudson, 1973. L’ opera completa di Goya. Introdotta e coordinata da Rita De Angelis. Milano, Rizzoli, 1974. Calvo Serraller, Francisco, Goya. Traduit de l’espagnol par Christiane de Montclos. Paris, Gallimard/Electa, 1997. Goya e il mondo moderno. A cura di Valeriano Bozal, Concha Lomba. Milano, Skira, 2010.

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dix (e Nuova Oggettività) All’inizio del 1931 George Grosz interveniva con queste parole in favore della tradizione pittorica tedesca: “Certo, al giorno d’oggi non si può vivere come gli antichi fiamminghi. Ma, sui fogli e sulle tele di quest’epoca materialista e senza fede, dovremo mostrare agli uomini il loro segreto volto demoniaco” 1.

Con Otto Dix le tematiche portanti della Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit), che affossando i principi antropocentrici dell’Espressionismo e sostituendoli con quelli di realtà, verismo e naturalismo dichiarava la sua totale “sfiducia nei confronti dell’io”, ridotto a simulacro fra tanti di una realtà oggettuale e impersonale, si arricchiscono di un surplus di modernità. L’uomo dixiano (e quello della Nuova Oggettività) ha la concretezza dell’uomo di tutti i giorni e “Ben più che la maschera facciale e l’espressione psicologica sono gli oggetti che descrivono il personaggio”, dal vestito alla postura. Ancor più che per Grosz (di cui si parlerà più avanti) si può stabilire un legame privilegiato tra la funzione definitiva della rappresentazione sadistica nella pittura di Dix e quella dell’immagine in Salò, arrivando fino al dettaglio corporeo o feticistico esplicitato sia dall’una che dall’altra. La pittura di Dix è in fondo da considerare come una vera scrittura dell’impulso sadico socialmente collocato e definito da una rappresentazione che rilegge i celebrati anni Venti come “un periodo fosco, crudele, esangue, disperato e morbosamente proteso verso la morte”. Il volto (e i volti) della società berlinese di cui Dix era uno dei ritrattisti per antonomasia replicavano un mondo del quale quella società fungeva da modello esemplificativo nelle forme e nella caratura della perversione e dell’evento criminoso o traumatico: “Mai prima di Otto Dix il nauseante, lo sgradevole, il socialmente odioso, il turpe, il sessualmente pervertito, in una parola il mortifero della prassi politica e culturale, erano stati rappresentati in pittura in modo tanto credibile e con tale conciliante evidenza. Dietro non c’è alcuna oggettività superiore, ma una figurazione radicalmente soggettiva che d’altra parte presuppone la negatività come vera forma del mondo” 2.

La densa condivisione di tematiche tra il Salò di Pasolini e la pittura di Dix nei termini del “mortifero” sguardo sulla società e la politica si ricollega, in Salò, 163

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anche alla letteratura dell’epoca e ad uno scrittore che compare nel film in maniera un pò fantasmatica, ovvero Gottfried Benn 3, scrittore per niente amato da Pasolini (che lo definì un “sedicente mistificatore schizofrenico nazista”), curatore però nel 1973 della prefazione all’edizione italiana delle Poesie statiche dell’autore tedesco. La parabola letteraria di Benn si pone alle spalle, e in un certo modo nelle premesse, proprio della Nuova Oggettività, partendo da un discorso che ha al suo centro un lavoro critico votato all’osservazione del “processo di decomposizione morale e ideologica della piccola-borghesia tedesca” sotto il segno del nichilismo e di immagini all’insegna (in particolare nel suo periodo più espressionista, si veda la raccolta Morgue del 1912) di una carica lugubre che si lega a quella pittorica dixiana. Sono dunque intrecciati in Benn i motivi della Nuova Oggettività e dell’Espressionismo, intriso di un “gusto sarcastico-masochista” il cui “conflitto individuo-società” preannuncia il declino delle sicurezze borghesi e la “disgregazione dei valori [che] si accelera paurosamente per concludersi, intorno al 1924, in quel nuovo movimento letterario detto della Neue Sachlichkeit, quando le convulsioni di una impossibile rivoluzione si placheranno nel grigio squallore della vita quotidiana” 4. Come risuona la presenza-assenza di Benn in Salò? Troviamo intanto la simbologia dionisiaca del primo periodo espressionista di cui si diceva (e quello a Dioniso, lo abbiamo già visto, è un riferimento simbolico pluri-connotato per Salò), “espressione di una rivolta contro il mondo della ratio”: proprio questa rivolta è una tensione nichilista all’irrazionalismo che viene operato dalla lingua e che è parzialmente inserita nel discorso irrazionalistico che fonda l’ideologia nazi-fascista: “Se il fascismo corrisponde, quanto alla sua genesi, ad uno stato di saturazione e contaminazione caotica dell’irrazionalismo, giunto alla sua estrema perversità attraverso una bagno mortale nell’azione e nel sangue, non deve essere trascurato l’aspetto, più propriamente borghese, del vuoto ideologico, che fa egualmente da sfondo, proprio attraverso la sua sprezzante abulia, all’irrompere della bestialità” 5.

Attraverso il metodo linguistico della sua poesia, Benn arriva in sintesi ad esiti vicini a Dix quanto ai significati di Salò: ritroviamo, insomma, il “nascosto sadismo del piccolo-borghese” e “il sadismo tout court” e, partendo ad esempio dalla già citata raccolta poetica Morgue, nelle sue “concrezioni viscerali, sadomasochiste” scopriamo tanto il carattere dixiano dell’oggettualità dell’Io e della degenerazione dei suoi rapporti con la società e con il mondo (che in Benn è 164

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l’Ich-Zerfall, ovvero l’”Io-disfacimento” nichilista), annegato nella “ipertrofia ottica del dato materiale”, quanto la simbologia misterica e mortuaria di Salò e la sua turpe violenza sul corpo mutilato: “l’anelito a ridiscendere negli strati originari della creazione, nella regione chthonia dell’essere, nei misteri delle immagini originarie, nei miti ancestrali, per ritrovare una unità perduta e comporre il volto assoluto del mondo” 6.

E ritorniamo a Dix: il leitmotiv sadico della sua pittura si ritrova perfettamente inglobato, a suo agio, nella tecnica dell’acquerello, che il pittore definisce “fissazione spontanea di un’idea improvvisa o di una rappresentazione di fantasia” 7, correlativa della violenza sadica di Salò, declinata a sua volta nel feticismo, nel masochismo e nella coprofagia rispondenti alla volontà di rapida esecuzione delle fantasie dei quattro Signori. Intendendo il lavoro comparativo tra Dix e il Pasolini di Salò soprattutto nei termini di un’attinenza di motivi e della loro messa in relazione dentro ad un discorso a sua volta di comparazione tra contesti socio-politici assonanti (gli oscuri e violenti anni Venti tedeschi post-bellici e weimariani con la lugubre fin de régime fascista), resta l’effettiva messa in luce di somiglianze iconograficamente localizzate fino al particolare, somatico quanto feticistico. La scelta di Dix a seguire la strada della composizione ad acquerello è rivolta alla resa migliore possibile della verosimiglianza della violenza e del sangue sui corpi che illustra (anche vero sangue in alcune pitture); paradossalmente, in Salò la violenza si ritrova disseminata in una esecuzione cromaticamente più gelida rispetto a Dix - perlomeno fino all’esplosione finale delle torture - ma quello che predomina a livello concettuale e mimetico è il dettaglio di un codice linguistico sadomasochista ben preciso: due dei lavori che hanno assegnato a Dix la pessima fama di artista degenerato negli anni Venti espongono questa precisazione ‘linguistica’ e sono il dittico Il sogno della sadica I-II e Dedicato ai sadici (entrambi del 1922). Oltre alle fruste, paragonabili a quelle utilizzate in Salò nella punizione del giovane durante la “comunione dei cani” (Seq.15), ritroviamo che la sadica ritratta nel secondo dei dipinti citati - in una postura che imita da vicino, è da sottolineare, gli stilemi più banali della fotografia pornografica - sfoggia sopra la quasi nudità una fondina di pistola in pelle, in maniera identica a quelle ugualmente indossate dal Vescovo/Cataldi dopo l’amplesso con il giovane fouteur collaborazionista (Seq.25) e poi dai quattro Signori durante le torture finali nel cortile. È interessante e preciso il riferimento rivolto a Sartre 8 da Suse Pfaffle nel suo saggio: 165

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“Si materializzano qui dei contrassegni che Sartre giudicava i requisiti dell’osceno. Muovendo dall’idea che ogni parte del corpo è destinata a una certa funzione il cui esercizio ne manifesta la grazia, nel sadismo, cambiando la funzionalità delle sue parti, si toglie al corpo la destinazione sua propria. Il sadico “mira a far assumere all’altro atteggiamenti e posizioni tali che il suo corpo si rende visibile sotto l’aspetto dell’osceno”. [...] La violenza esercitata sui corpi femminili li trasforma in strumenti per asservire la volontà dell’altro attraverso la carne” 9.

Come abbiamo già visto negli autori precedentemente analizzati, la prassi dell’inversione della norma corporale coincide con una spinta di rifondazione della realtà, a partire dalla contingenza di un’eversione dei suoi codici e dei suoi canoni (si tenga anche a mente la critica inversa, dalla realtà sociale a discendere sul corpo, del Pasolini degli Scritti corsari). “Quel che stimola Dix nel sadismo è il rapporto con la violenza come forma particolare dell’aspirazione degli uomini al potere. Il suo intento è di rendere consapevoli dell’esistenza di questa categoria marginale si, ma pur sempre parte della realtà. È probabilmente un suo contributo visuale alla tesi, che egli avrebbe sicuramente approvato, secondo cui l’aggressività che trovi sfogo nella sessualità è un modo per impedire che la brutalità si scateni nella società e nei rapporti tra le persone” 10.

E c’è sempre un aggancio con la quotidianità in Dix: molto spesso il tema del crimine e in particolare dell’assassinio sessuale è quello più inserito nella sua ispirazione artistica, che prende vita in più di un’occasione “da illustrazioni su delitti sessuali provenienti da archivi di polizia”; e in questo si può recuperare la somiglianza del Delitto sessuale (1927) con l’inquadratura del corpo di Ezio crivellato di pallottole dai quattro Potenti dopo la scoperta del suo amplesso con la serva di colore (Seq.25b). Sarebbe comunque errato non rintracciare altre vicinanze espressive d’insieme in composizioni meno connotate in direzione sadica, come gli interni scintillanti-squallidi del trittico Metropoli (1927-’28), che nel pannello centrale espone un ballo tra un uomo in frac e una maitresse che richiama quello del Vescovo/Cataldi con la narratrice Maggi (Seq.21.6); o i paradigmatici Der Salon I e Bordello berlinese che potrebbero essere il modello di varie sequenze di ‘relax’ borghese delle tre maitresse (Seq.6.10-12, 15.1, 16.5, 21.15 e .17 etc.), ma anche il Ritratto della ballerina Anita Berbeul (1925) richiama nella postura e nell’allure ad esempio la narratrice Vaccari/Hélène Surgère. Ma dopotutto la questione più urgente ed eccitante di Dix sta nell’impatto incendiario dei suoi corpi deteriorati e seviziati criminosamente con una società 166

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affiliata tanto al crimine quanto al vuoto morale e ugualmente nei valori che porta con sé la sua “sfida all’osservatore”. “Era una cosa che lo divertiva, infrangere da “Mal-Schwein” i tabù, senza riguardi e inibizioni. Un atteggiamento che colpiva fortemente l’osservatore. [...] Intendeva indagare l’uomo e i rischi che correva nella società borghese, dischiudere problematiche rimosse, e per questo mascherava l’ambito sessuale. Uno shock, in chi guardava le sue immagini, lo dava per scontato, e, soprattutto, per lui il borghese non era degno di particolari riguardi. [...] Dix viene a disturbare la quiete ingannevole dei piccolo-borghesi ancorati alla loro pruderie. [...] Ciò rende difficile ancora oggi all’osservatore accettare le sue immagini? Dix sonda la sua epoca da una posizione ben determinata, cioè dai punti di crisi dello sviluppo spirituale e sociale, ma non dà alcuna indicazione costruttiva. [...] Egli apponeva la sua sonda su cose che non “si” rappresentavano. Ciò rende insicuro l’osservatore, il quale, inorridito, riconosce le sue proprie debolezze. Colpito, offeso, si arresta e si sente sfidato a prendere posizione” 11.

Il valore è, insomma, di tipo pasoliniano: quello, nella fattispecie, che può sostanziare Salò nelle sue funzioni di opera socialmente disturbante e “indesiderata”, ma per questo generatrice di un nuovo dibattito sull’infrazione salutare dei tabù.

Note G. Grosz, Unter anderem ein Wort fur deutsche Tradition. “Das Kunstblatt”, XV, marzo 1931, pp. 79-83, ora in: La Nuova Oggettività tedesca. A cura di E. Pontiggia. Milano, Abscondita, 2002, p. 48 (con il tit.: Una parola a favore della tradizione tedesca). 1

J.-K. Schmidt, Otto Dix, pittore di una società spietata. In: Otto Dix. Milano, Mazzotta, 1997, p. 15.

2

La presenza di Benn in Salò è legata al mistero di una brevissima sequenza rintracciabile solamente nelle copie dell’edizione inglese del film, della quale parla Roberto Chiesi: “intorno al 42° minuto [Seq.12, N.d.R.], subito dopo la sequenza dello sposalizio “coatto” di due vittime, un ragazzo e una ragazza, quando il Duca (Paolo Bonacelli) caccia via gli astanti per procedere, con i suoi complici, allo stupro dei due poveri sposini, ecco che in quel punto preciso c’è una sequenza mancante nella versione italiana del film che conosciamo, così come in quella francese (il film è una coproduzione italo-francese). In questa breve sequenza, che dura meno di un minuto, il Duca, prima di chiudere la porta, recita con tono sarcastico e compiaciuto alcuni versi di una poesia in tedesco e fa menzione anche del nome dell’autore: Gottfried Benn. Il nome di Benn risuona sinistramente sul dettaglio degli abiti nuziali che giacciono a 3

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terra, dopo che la “sposina” è stata costretta a toglierseli”. R. Chiesi, Salò e altri inferni. Da Jancsó a Fassbinder: matrici e filiazioni del capolavoro ‘maledetto’ di Pasolini. http://www.pasolini.net/centroBO_INIZproiezione-salo.htm F. Masini, Astrazione e violenza. Gottfried Benn e l’espressionismo. Palermo, Vittorietti, 1978, p. 29. 4

5

Ibidem, p. 30.

6 F. Masini, Gottfried Benn e il mito del nichilismo. Padova, Marsilio, 1968, p. 160. Si potrebbe segnalare anche un’altra presenza non chiaramente decifrabile in Salò, ovvero la frase tedesca pronunciata dalla Castelli/Boratto nell’ultimo racconto che precede le torture finali (Seq.27.19), alla quale non è stato possibile assegnare una paternità (benniana o meno) e che potrebbe suggerire una sorta di ripensamento finale in chiave di speranza: “Werwolf, es ist nicht genug denselben Menschen immer wieder zu toten. Es ist dagegen zu empfehlen, soviel Wesen wie moglich umzubringen” (“Lupo mannaro, non è forse abbastanza ammazzare sempre lo stesso uomo. È sconsigliabile, uccidere qualsiasi essere”).

7 Nel 1923 Otto Dix venne processato dalla Procura di Stato dell’Assia con l’accusa di “rappresentazioni oscene” contenute nel dipinto Der Salon II (1921), precedente che gli creò la fama di artista pornografo e incendiario e il soprannome di “Mal-Schwein”, ovvero il “porco che dipinge”.

8

Cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla. Milano, Il Saggiatore, 1984.

9

S. Pfaffle, Otto Dix, il “porco che dipinge”. In: Otto Dix, cit., p. 34.

10

Ivi.

11

Ibidem, pp. 36-37.

Bibliografia essenziale Otto Dix. Milano, Mazzotta, 1997. La nuova oggettività tedesca. A cura di Elena Pontiggia. Milano, Abscondita, 2002.

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donghi Dentro alla concitata massa di autori in fuga dalle avanguardie in nome del “ritorno all’ordine” o “al mestiere” propugnato da de Chirico e da “Valori Plastici” di cui si è parlato precedentemente, si scorge anche, confuso tra nomi più altisonanti, il romano Antonio Donghi, che condivide con autori come il già analizzato Casorati, ma anche con un collettivo più eterogeneo che va da Oppi a Kisling e da Funi a Severini, un’appartenenza magari un pò forzata al movimento dei “realisti magici”, che è già stato parte del discorso su Salò. Donghi si inserisce più o meno di diritto e certo in maniera consequenziale nella discussione comparativa con Salò per le aderenze della sua problematica pittorica con quella di Casorati ed anche con Cagnaccio di San Pietro. È sotto forma di una filiazione di problematiche che si può dunque affrontare il discorso sulla pittura di Donghi e partendo magari dalla vocazione primaria all’esercizio parossistico del realismo dell’immagine, alla ipertrofia del dettaglio, alla “evidenza quasi fotografica” che viene composta da superfici di colore piatte a guisa di smalti lucidi e perfetti: questo è anche Cagnaccio di San Pietro e, come si è già visto, è una maniera che apre una discussione su quanto questo realismo che diventa un iperrealismo si possa dichiarare tale; il critico Marziano Bernardi coniava in un articolo de “La Stampa” del 5 febbraio 1935 la definizione perfetta su Donghi in tal senso: “Donghi: l’iperrealismo nella illusione della realtà”. E proseguiva: “ci dà dei quadri che paiono miniature ingrandite per il liscio della vernice e che stacca tinta da tinta senza la minima preoccupazione tonale, [...] è più ‘inumano’ dei deformatori più arbitrari, è, suo malgrado, un umorista alla Campanile per l’imperturbabilità dell’assurdo scodellato come plausibile, è insomma il prototipo, direbbe Bontempelli, del ‘realismo magico’, cioè del non-realismo, è, infine, uno dei più curiosi fenomeni della pittura nostra contemporanea per questa sua divertente finzione di verità che consiste nel darci appunto una illusione di verità con figure che mai sono state ‘vere’”.

La fama di “miniaturista” si univa anche, come si vede dall’articolo di Bernardi, alla sprezzante, inesatta considerazione della pittura di Donghi come lavoro autorialmente disimpegnato, che si reggeva su di una vuota giocosità da balocco ben costruito il cui destino si concludeva complessivamente in un tono semi-comico da non prendere troppo sul serio; un altro articolo, quello dell’autorevole Emilio Cecchi sul numero dell’aprile 1935 di “Circoli”, rende bene l’idea di questa considerazione critica più o meno uniforme: 169

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“Si sorride dei quadri d’Antonio Donghi: quei paesini con gli alberi di ciuffi d’asparagio, acque di vetro e cieli di carta; quelle figure come marionette finissime e fresche di vernice, più caricaturali appunto perché non sono caricaturali. [...] I quadri del Donghi interessano come giocattoli. [...] La sua pittura, quelli stessi che l’amano, è probabile non la prendano sul serio. E sul serio non può prendersi, perché non dice niente”.

Cerchiamo però di volgere l’argomentazione sul “vuoto” delle figure e dei luoghi della pittura di Donghi al discorso cinematografico di Salò: oltre a seguire gli approfondimenti affrontati per Casorati e Cagnaccio, una puntualizzazione interessante arriva intanto da Maurizio Fagiolo Dell’Arco, che rintracciava il “valore filmico” di questa pittura votata alla staticità: “Quello del fotogramma bloccato è uno dei più invitanti luoghi comuni che suscita la pittura di Antonio Donghi. E molta letteratura si è fatta su un suo quadro visto come ritratto dagherrotipico o come gruppo in un interno incantato dal flash. E invece, un rapporto più segreto tra questi occhi sbarrati, queste pose sforzate, questi sguardi sghembi, si può trovare con l’immagine compressa e sublimata del film muto” 1.

Similmente, Salò si può intendere in più di un senso come un film muto: muto letteralmente, si vedano alcuni momenti di attesa, quale quello della preparazione del “concorso dei deretani”, con i Signori e le maitresse sulle scale in trepida attesa, oltre al solito epilogo delle torture; muto, però, anche in un senso trasversale, che proviene dalla gelidità e dalla fissità proprio del suo impianto figurativo e compositivo, dunque pittorico. La frontalità di molte sequenze ossequiose della prospettiva classica, a partire dalla ripetuta geometria rappresentativa della Sala delle Orge, ma anche la ‘lucidità’ di momenti sospesi nell’orrore come la costrizione alla coprofagia di Renata e comunque la sintesi astrattiva generale, veicolata anche dalla dissociata e straniante dinamica della gestualità e della logica comportamentale, sono un richiamo al costituirsi di Salò come opera eccedente le esigenze del film sonoro: dunque conciliandosi con quello che sembra emulare la pittura di Donghi che, come prosegue Fagiolo Dell’Arco, si rivolge “con maggiore interesse al cinema tedesco [...] e a Marlene Dietrich come simbolo di carne [...] Prova (e provetta) assoluta d’uno sguardo analitico e capillare. Come il bianconero di Von Sternberg, come il simulacro di Marlene, come la magia didascalica di Caligari, la volontà pittorica di Antonio Donghi è (almeno dal 1923 al 1932) glacialmente sensuale, candidamente perversa, dinamicamente bloccata” 2.

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La matrice espressionista, poi, sta anche al cuore di Salò: le maitresse (ma qui vecchie e sfatte, ma anche le figlie dei quattro Potenti all’inizio) vengono raffigurate come derivazione di un modello che può essere quello della Dietrich, quanto quello delle maitresse berlinesi dell’Angelo azzurro di Von Sternberg, ma virate nei volgari e borghesi maquillages dell’orgia fascista nei toni di una rappresentazione alla Dix. L’ebete umanità borghese congelata nella precisione degli interni di Donghi, ridicola nei suoi abiti leccati quanto nei travestimenti e nei costumi da sartoria teatrale, crea un ponte sospeso con il senso - se non con la palese imitazione pittorica - del ridicolo categorico dei quattro Potenti borghesi di Salò, con i loro rigidi completi gessati e anche con il loro pervertito travestimento femminile finale: ma è curioso ritrovare nella postura dei quattro Signori seduti sul pavimento della camera di Blangis durante la discussione sull’”esprit de delicatesse” (Seq.13.4 e .7) una riproposizione quasi letterale del Giocoliere (1926). Contemporaneamente i bozzetti composti della Signorina (1927) e del più tardo Ritratto di donna (1944) richiamano le fogge umili delle vittime femminili durante la selezione e all’arrivo alla villa (Seq.6.1 e ss.; Seq.7b.1), mentre il modello de La Sposa (1926) viene replicato da vicino nell’abito matrimoniale di Renata durante il “1° matrimonio blasfemo” con Sergio (Seq.12), il quale lo indosserà a sua volta nello “Sposalizio” con sua Eccellenza/Quintavalle (Seq.20.10 e Seq.20b.1). Salò “paese d’incantesimi, l’incantesimo dell’imbalsamazione” per usare una formula di Virgilio Guzzi sulla pittura donghiana (“Nuova Antologia”, 16 febbraio 1935), che proseguiva dicendo che “il comico sfiora il grottesco. S’esce da questa sala come da un luogo chiuso, col bisogno d’una boccata d’aria buona”. È una definizione che si attaglia perfettamente anche alla visione di Salò e ricorda magari anche i malori provocati dalla “costipazione” dell’immagine in Nostra Signora dei Turchi di Carmelo Bene: vi si ritrovava in maniera quasi identica anche un poeta amante della pittura come Leonardo Sinisgalli, tra i pochi sostenitori coraggiosi della pittura di Donghi, che nella sua monografia del 1942 ne indicava il “nucleo poetico” nella “espressione di una strana amarezza [...] un regno che sta prossimo al sogno, alla stasi, alla morte. [...] Una pittura siffatta reclama contorni precisi, perché nulla più del vago ha bisogno delle rime, di una regola. Vive per virtù di una certa mancanza d’aria, come i frutti o i cadaveri che altrimenti cadrebbero in cenere” 3.

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Note M. Fagiolo Dell’Arco-V. Rivosecchi, Antonio Donghi. Vita e opere. Torino, Allemandi, 1990, p. 12.

1

2

Ibidem, pp. 12-13.

3

Citato in: M. Fagiolo Dell’Arco-V. Rivosecchi, Antonio Donghi, cit., p. 177.

Bibliografia essenziale Donghi: sessanta dipinti dal 1922 al 1961. Roma, De Luca, 1985. Fagiolo Dell’Arco, Maurizio, Antonio Donghi. Vita e opere. Torino, Allemandi, 1990. Antonio Donghi, 1897-1963. A cura di Maria Teresa Benedetti, Valerio Rivosecchi. Milano, Skira, 2007.

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Feininger La dimensione caricaturale è in Salò un elemento compresente al riferimento a modelli iconografici più ‘alti’ e lo si è già visto nell’esempio di Honoré Daumier, con il quale si potrebbe considerare esaurito ogni approfondimento sulle possibili radici figurative della deformazione espressiva dei volti dei Potenti secondo Pasolini. Per ossequio ad una maggiore esaustività si può includere una menzione al cosmopolita Lyonel Feininger (newyorchese di nascita trasferitosi in Germania negli anni novanta dell’Ottocento): che, curiosamente, si lega anche ai discorsi cubista e futurista dopo la fase di esordio giovanile nella caricatura, ma mostrandosi legato in particolare ad una linea cezanniana e “al discorso di rottura con il “finito”, all’oggetto quale forma che si schiude al mondo esteriore. Le illustrazioni e le caricature degli anni precedenti, basate sui violenti contrasti nelle proporzioni fra i vari elementi, le contrazioni prospettiche [...] hanno favorito il suo allontanamento da una tradizionale analisi troppo meticolosa della realtà e spinto a indagare inedite possibilità nella forma e nello spazio” 1. Da questo periodo si potrebbero isolare Umpferstedt I-II (1914) e Zirchow VVII (1916), come modelli plausibilmente inseribili nel contesto delle copie avanguardiste delle camere dei Signori di Salò, trovando nel secondo un vicino emulo del quadro che fa da sfondo al profilo di Blangis/Bonacelli impegnato nell’osservazione delle torture finali (Seq.28.3). Il carattere più determinante è però il grande valore del colore che predomina in Feininger, anche in questo periodo d’avanguardia presto abbandonato, in cui il pittore “non opta per una sostanziale riduzione della gamma cromatica”: nella sua gigantesca produzione caricaturale (circa duemila disegni a litografia, punta secca e acquaforte tra il 1890 e il 1915), distribuita tra le vignette dell’“Humoristische Blatter” e del “Lustige Blatter”, si trova anche una registrazione di quello che Feininger richiede al colore: “Feininger utilizzava volentieri contrasti di arancione, verde, blu e viola, nero intenso e tonalità luminose del rosso. Più egli si avvicinava alla piattezza estrema del colore, più rinunciava a significativi nessi spaziali. Le figure umane venivano poste sulla superficie come manichini, spesso deformi e sproporzionati, poiché Feininger li collocava di preferenza al centro della composizione ed essi la riempivano rendendo ambigua la lettura” 2.

Questi toni si possono trasportare anche in certi barocchismi dell’espressività e della gestualità delle figure umane di Salò: a partire dai toni acidi del cromati173

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smo fino alla rassomiglianza nei bozzetti di Figura di donna (1909) e Varietà (1915) con le mosse dei balletti della Vaccari/Hélène Surgère e della pianista/Sonia Saviange (Seq.24b). In una lettera del 19 gennaio 1924 a Otto Eysler, editore del “Lustige Blatter”, Feininger comunque sottolineava: “Io sono molto lontano dal ritenere insignificanti gli importantissimi anni di formazione che ho trascorso lavorando come ‘disegnatore di vignette’- al contrario! essi sono stati la mia unica disciplina!”.

Note 1

Lyonel Feininger. La variante tematica e tecnica nello sviluppo del processo creativo. Caricature, disegni, silografie, dipinti. A cura di M. Kahn Rossi-M. Franciolli. Lugano, Fidia Edizioni d’arte, 1991, p. 5. Ibidem, p. 10. Di seguito viene proposto un brano di una lettera del direttivo del “Lustige Blatter” del 20 agosto 1907, in cui venie rimproverata a Feininger la scelta di un taglio troppo esasperato nelle sue vignette: “[...] secondo parere comune, si è dimostrato che Lei [...] ha assunto un certo tocco grottesco ed esageratamente pungente, che non viene recepito dai lettori tedeschi”. 2

Bibliografia essenziale Lyonel Feininger. Prefazione di Gillo Dorfles. Milano, All’insegna del pesce d’oro di V. Scheiwiller, 1958. Lyonel Feininger: caricature : 17 marzo-16 aprile 1990. Trento, Galleria civica di arte contemporanea, 1990. Lyonel Feininger. La variante tematica e tecnica nello sviluppo del processo creativo. Caricature, disegni, silografie, dipinti. A cura di M. Kahn Rossi-M. Franciolli. Lugano, Fidia Edizioni d’arte, 1991.

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Giorgione L’impronta giorgioniana in Salò viene identificata da Federica De Paolis in un dettaglio squisitamente posturale, ovvero nella posizione, nella Sala delle Orge, delle ragazze “sedute (nude) con le gambe raccolte, di profilo, nella posizione della donna (natura, terra, madre) [...] nella misterica Tempesta” 1, opera databile al 1508 (Seq.22). Il riferimento è molto stimolante e inquadra nel momento specifico del film il soggetto pittorico che forse più di ogni altro si è connotato e destrutturato nella ridda fittissima delle sue interpretazioni. Questa gestualità corporea innesca un approfondimento che non si ferma alla pura tecnica ma stabilisce una serie di rimandi reciproci tra arte e religione in Giorgione. Enrico Guidoni parte dal riconoscimento della standardizzazione di un codice preciso della gestualità “diffuso nella cerchia degli artisti” e a questo linguaggio dei gesti dedica un breve vademecum in cinque punti; e al secondo si legge: Pollici incrociati; gambe accavallate o incrociate. Gesti di difficile interpretazione, probabilmente connessi con la volontà di annullare un giuramento (vietato, come è noto, in molte correnti eretiche) o di opporsi, comunque, ad un influsso maligno mediante il tracciamento di una croce” 2.

La definizione porta con sé due elementi destinati ad essere assunti a conferma di una correlazione non troppo peregrina tra la presenza pittorica giorgionesca e l’allusiva chiosa pasoliniana sulla religione in Salò: la prima delle due questioni è la componente personale dell’adesione all’eresia riformistica, che sembra segnare anche cospicuamente l’arte del pittore. Infatti: “Il motivo di fondo che spiega non solo l’originalità tematica dell’opera di Giorgione, ma anche la sua costante preoccupazione di velarla e, nello stesso tempo, di renderla comprensibile ad un ristretto gruppo di persone, va ricercato nel campo tanto vasto quanto complesso dell’eresia” 3.

La progettuale preoccupazione di Pasolini a comporre con Salò un testo di articolata “velatura” che finisca direttamente tra le forche caudine di un complicato e stratificato lavoro ermeneutico e a farne, come dichiarato dall’autore già in fase di esecuzione, un oggetto “misterico”, rappresenta l’occasione per riannodare il film ad una plausibile rassomiglianza artistica-concettuale con la Tempesta. 175

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Si scorge inoltre, nella variegata colorazione interpretativa dell’opera, la “realtà” del matrimonio guardata come “completamente negativa”, che si unisce consequenzialmente al bando della concezione cristiana di famiglia che “per le convinzioni religiose eretiche non viene mai rappresentata nella sua forma tradizionale nelle opere del pittore” 4, motivo di aderenza anche iconografica all’insterilimento dello stesso concetto in Salò, che giunge inoltre alla soppressione maligna - ancora, a livello iconografico - di qualsiasi traccia di maternità, oltreché del divino liturgicamente contemplabile (questione di cui si tratterà in seguito). Il secondo elemento coincide con una suggestione che trova ulteriore rispecchiamento nella gestualità di Salò, anche in quella minima e più arduamente decrittabile, ovvero quell’opposizione dell’anima-corpo-gesto all’”influsso maligno mediante il tracciamento di una croce”: e ci si ritrova a recuperare, alla fine della Seq.16 (durante la narrazione della Vaccari/Surgère sul “Ministro Missiroli”), l’invocazione a Dio di uno dei ragazzi, proprio tracciato con un dito sul tappeto, al contrario e a rovescio rispetto al nostro punto di vista, in forma dunque interpretativamente ostica e a sua volta “velata”, momento di “sospensione sbigottita del ritmo stesso dell’esistenza”, come la definiva Adelio Ferrero. A complemento della Tempesta è interessante passare dalla gestualità posturale all’espressione pura, andando magari ad appuntarci sul Concerto (o Sansone deriso, 1510 ca, opera però di incerta attribuzione) e a ritrovare nel suo cantore centrale, “dal volto deformato e sgradevole (ma obbediente, ancora, a certi prototipi di volti caricati dei disegni leonardeschi)” 5 una sensazionale somiglianza nell’inclinazione e torsione del capo, nonché con il taglio dello sguardo con l’espressione incuriosita di Blangis/Bonacelli al pianto di Renata, che prelude al rito coprofago imposto alla ragazza poco dopo (Seq.17.35). Longhi, nel 1946, definiva il cantore e le altre figure del Concerto un insieme di “quasi Caravaggio, quasi Velazquez, quasi Manet”: definizione che si potrebbe definire “eretica”, forse però mai quanto l’opera del suo discepolo prediletto.

Note 1

F. De Paolis, Il quadro iconologico, cit., p. 156.

2

E. Guidoni, Giorgione. Opere e significati. Roma, Editalia, 1999, p. 11.

Ibidem, p. 35. Si veda anche il parallelo indicato dall’autore tra la componente eretica di Giorgione e quella di Hieronymus Bosch, di cui si è già trattato nel presente studio, in relazione all’appartenenza del fiammingo all’ordine degli “adepti del Libero Spirito”. Oltre ai riferimenti bibliografici forniti in Ibidem, p. 35, n 1, si trova anche: “Un recente studio su Bosch 3

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ha messo in evidenza il substrato cataro, analizzato in una estesa serie di dettagli, della sua pittura, [...] è importante che l’autrice, [...] consideri la possibilità di un suo viaggio in Italia e a Venezia, proponendo di identificarne l’effigie, mascherata dalla barba, nel personaggio centrale dei Tre filosofi di Giorgione. [...] Un legame, questo, che trova riscontri anche nelle rappresentazioni infernali e delle forze del male, pur così diverse nei due artisti, ed in particolare nei volti nascosti. Ma, come la chiave catara non può spiegare Bosch, essa tanto meno può spiegare Giorgione, per la sua palese inattualità rispetto ai più moderni interessi artistici rinascimentali” (p. 37). 4

Ibidem, p. 249.

5

M. Lucco, Giorgione. Milano, Electa, 1996, p. 29.

Bibliografia essenziale Lucco, Mauro, Giorgione. Milano, Electa, 1996. E. Guidoni, Giorgione. Opere e significati. Roma, Editalia, 1999.

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Grosz Quello che contraddistingue l’adolescenza e poi la maturazione personale e artistica di George Grosz è una sostanziale e marcata misantropia, ben esternata da un deliberato auto-isolamento, un disprezzo per l’umanità che osservava quotidianamente e che era poi anche il rigurgito dei ricordi infantili di una esistenza familiare ai limiti della povertà: attraverso questa sensucht così forte e anche così politicamente significativa “Nei disegni elaborò uno stile tagliente, che ‘gli permise di comunicare le [sue] osservazioni, dettate da un odio assoluto degli uomini’. Questo stile si basava sullo studio dei graffiti dei gabinetti pubblici e dei disegni infantili: gli uni e gli altri inequivocabili espressioni emotive. I suoi disegni diventarono, come disse lui stesso, ‘un precipitato dei miei sentimenti di odio’” 1.

Questa carica eversiva del linguaggio pittorico in Grosz trova un solido fondamento teorico nell’Espressionismo, movimento dal quale il pittore viene influenzato in maniera evidente. Al pari di Dix la componente sessuale trova qui un’esposizione ribadita e simbolica, che si sviluppa proprio sulle linee della tensione espressionista al rovesciamento polemico dei modelli sociali - Peter Gay definiva l’Espressionismo “rivolta dei figli contro i padri” - attraverso “l’emotività e l’irrazionalismo”; gli espressionisti infatti “Utilizzarono nella loro arte elementi erotici e sessuali, sia come tecnica d’urto sia per un’esigenza di norme nuove. Delusi dall’ordinamento sociale vigente, aspiravano a un ordine completamente nuovo e a una nuova umanità” 2.

All’atto di un confronto con Salò, però, il sesso in Grosz, descritto in termini grotteschi, abnormi e laidi e in contesti ripetitivi quali squallide strade cittadine e locali notturni, non è un elemento importante come lo era in Otto Dix e comunque non annette alla suarappresentazione connotazioni ‘realistiche’ così significative da portare ad operare confronti con le “pratiche” esposte nel film. La parte più significativa del disegno in Grosz è dunque l’aspetto politico, che si lega anche strettamente alla sua adesione al Partito Comunista tedesco (insieme all’amico Bertolt Brecht), e alla partecipazione febbrile, in prima persona, al dibattito anti-militarista degli anni di guerra 3. La personalissima visione sull’umanità (tedesca in particolare) di Grosz si distribuiva nella sua pittura e in particolare nei disegni pubblicati su riviste come 178

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il “Neue Jugend”, attraverso i quali mirava a “convincere tutti che questo mondo è pieno di odio, malato e bugiardo”: si arriva allora all’inevitabile identificazione dell’obiettivo polemico grosziano, che, ancora una volta, è il borghese o, in alternativa, l’alto quadro militare. Su queste figure (fortemente odiate e viste come fonte di tutti gli abomini della società del tempo 4) la tecnica si accanisce in direzione grottesca e deformante superfluo dirlo - e snocciola tutti i vizi e le perversioni - quelle private quanto quelle pubbliche e ‘sociali’ - di una casta di potere considerata violenta e idiota. Esiste poi in Grosz anche la coscienza - anch’essa di stampo militante - del valore e della funzione dell’arte e dell’artista all’interno di un sistema mercificato a dirigenza, guarda caso, borghese 5; per precisare i contorni di questa coscienza è utile forse ricordare anche l’intensa partecipazione di Grosz al dadaismo, nonché attivo collaboratore ai primi numeri di “Der Dada”, rivista creata da Raoul Haussmann, per il pittore “perfetta espressione rivoluzionaria del suo dubbio e del suo scetticismo” 6. In occasione dello scontro del 15 marzo 1920 nella Postplatz di Dresda tra operai dimostranti e reparti della Reichswehr, durante il quale la Betsabea di Rubens viene danneggiata, Oskar Kokoschka esorta pubblicamente i responsabili a mettere le loro dispute dopo la salvaguardia dell’arte tedesca: Grosz e altri rispondono con un articolo infuocato 7 al futuro pittore, che è l’esemplificazione migliore della sua concezione dell’arte: “L’appello di Kokoschka provocò una dura reazione da parte di Grosz e di John Heartfield. In Der Kunstlump fecero fuoco e fiamme contro Kokoschka e l’atteggiamento nei confronti dell’arte che egli rappresentava. In particolare, li aveva fatti infuriare quel definire le opere d’arte heilingsten Guter [sacro retaggio o beni sacri] del popolo tedesco. Questa, per loro, era l’essenza di tutta la frode della borghesia, che manipolava l’arte e la cultura allo scopo di sbalordire le masse e tenerle sottomesse. Gli heilingsten Guter della nazione tedesca non erano, dissero, né l’arte né la cultura ma il popolo produttivo” 8.

Per chiudere il cerchio si deve ritornare magari ai borghesi di Salò e alla loro ottusa visione mercantile di “collezionismo” artistico, amalgamata al discorso infuocato di Grosz: e nell’ottica di una sovrapposizione della deformazione caricaturale e grottesca dei volti borghesi di Grosz a quella dei quattro Potenti di Salò il primato concettuale va forse ai signori grosziani delle tavole del Die Rauber (1922) in cui il pittore “mostra come il borghese tedesco si ingrassasse succhiando energie perfino alle persone più vicine a lui, ai suoi familiari”. Ma questa applicazione privilegia lo studio espressivo dell’interpretazione 179

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sovreccitata del Vescovo/Cataldi, tutta giocata su overtones grotteschi e localizzabile in una nutrita serie di sequenze: la sua stessa figura intera ingessata nell’abito borghese richiama magari il modello di The lovesick man (1916), che segna la postura frontale nel “matrimonio blasfemo” di Sergio e Renata (Seq.12.3), quanto le espressioni arcigne della “comunione dei cani” (Seq.15.11), della “modifica dei regolamenti” (alla Seq.18.3) e, soprattutto, dell’urlo “Spara!” che conclude la selezione del “concorso dei deretani” (Seq.22) 9. Infine, Eclissi di sole (1926) è l’ideale archetipo dei quadri d’insieme nei quali il Potere si raduna intorno ad un tavolo per stilare o modificare regolamenti, si veda nell’iniziale “Sigla del patto” (Seq.1.3) o nel “Matrimonio delle figlie” (Seq.3.14) mentre Grey day (1921) illustra un personaggio dagli occhi storti il cui strabismo potrebbe essere quello del volto idiota di Durcet/Valletti (si veda ad esempio in Seq.19b.8). L’“universo orrendo” di Salò con le sue immagini da fine-Storia (o dopo-storia) ci rimanda alla parabola di Grosz, che passa dall’esortazione giovanile ai tedeschi a recuperare la pittura potente di Bosch e di Bruegel al nichilismo finale in cui ricorda che “Il mio amico Marcel Duchamp è arrivato a questa conclusione; non dipinge più. Forse non ci può essere altra rappresentazione della disperazione finale”.

Note B. I. Lewis, George Grosz. Arte e politica nella Repubblica di Weimar. Milano, Edizioni di Comunità, 1977, p. 36. 1

2

Ibidem, p. 34.

Per uno sguardo d’insieme sull’attivismo politico di Grosz si veda in Ibidem, p. 87 e ss. (§ Satira spartachista). 3

Grosz era però anche profondamente convinto che le responsabilità della guerra dovevano essere oggetto di una ridistribuzione che comprendesse anche il popolo: “Pur odiando la guerra e non dubitando che la Germania l’avrebbe perduta, Grosz era anche certo che non sarebbe mai finita a meno che non si potesse indurre il popolo a intraprendere un’azione decisa per mettervi fine. Non ammetteva che la responsabilità fosse da attribuire solo alle classi dominanti e sosteneva invece che l’isterismo bellico del 1914 era il frutto della stupidità delle masse, che volevano la guerra non meno di quelle classi”. Ibidem, p. 58. Si potrebbe vedere in 4

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questo una sorta di parallelo con quell’idea di corresponsabilità delle vittime di Salò, in quanto supinamente passive di fronte al dominio delle decisioni del Potere. Nell’agosto del 1920 Grosz si esprimeva così in merito alla posizione dell’artista: “L’arte di oggi dipende dalla classe borghese e morirà con essa; il pittore, forse involontariamente, è una fabbrica di banconote e una macchina che produce azioni, di cui il ricco sfruttatore e finto esteta si serve per investire in modo più o meno lucrativo il suo danaro, per posare di fronte a se stesso e alla società a mecenate della cultura, di una cultura che in effetti è degna di lui”. G. Grosz, Invece di una biografia. Cfr. in “Der Gegner”, 2, n. 3, 1920-’21, ora in: Arte e rivoluzione. A cura di P. Dragone, A. Negri, M. Rosci. Milano, C.U.E.M., 1973. 5

In un articolo Haussmann rispondeva al quesito “Che cosa è Dada?” in questi termini: “Un’arte? Una filosofia? Una politica? Un’assicurazione contro gli incendi? Oppure una religione di stato? È veramente energia, dada? Oppure non è Niente, vale a dire Tutto?”. Cfr. R. Haussmann, Der deutsche Spiesser argert sich, Reklame fur much, Was ist Dada?. “Der Dada”, n. 2, 1919, pp. 2, 6-8, 7 (citato in: B. I. Lewis, George Grosz, cit., pp. 81-82). 6

Cfr. G. Grosz-J. Heartfield, Der Kunstlump, riportato integralmente in “Die Aktion”, 12 giugno 1920, pp. 327-332. 7

8

B. I. Lewis, George Grosz, cit., p. 124.

Un bel riferimento relativo alla fisiognomica nella pittura si ritrova nella discussione di E. Gombrich sulle Teste grottesche nella pittura di Leonardo, dal cui Trattato della pittura viene recuperato un passaggio significativo: “Ver’è, che li segni de’ volti mostrano in parte la natura degli huomini, di lor vitii e complessioni; [...] et quelli, ch’anno le parti del viso di gran rilievo e profondità, sono huomini bestiali et iracondi, con pocha raggione; et quelli ch’anno le linee interposte infra le ciglia forte evidenti, sono iracondi”. Citato in E. Gombrich, L’eredità di Apelle, cit., p. 84. 9

Bibliografia essenziale Grosz, George, Il nuovo volto della classe dirigente. Milano, Biblioteca universale Rizzoli, 1975. Lewis, Beth Irwin, George Grosz. Arte e politica nella Repubblica di Weimar. Milano, Edizioni di Comunità, 1977. Il trionfo dell’idiozia: Goya, Daumier, Grosz : pregiudizi, follie e banalita dell’esistenza europea. Milano, Mazzotta, 1998.

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Kokoschka Oskar Kokoschka viene menzionato alla voce “Grosz”, nel precedente capitolo: la sua presenza lì si contestualizza in una disputa piuttosto violenta che contrappone la sua visione aristocratica dell’arte, da anteporre alle legittime rivendicazioni del “popolo produttivo”, contro le rivendicazioni pugnaci di Grosz e compagni che consideravano quest’ultimo il vero heilingsten Guter (ovvero bene sacro della nazione); l’opposizione militante di Grosz ai disastri della cultura e della politica tedesca, in realtà, è una battaglia personale anche per Kokoschka, le cui opere nel 1937 subiscono la persecuzione riservata alla cosiddetta “arte degenerata” e vengono rimosse dalle collezioni dei musei. Il ruolo, inoltre, di artista austriaco secessionista (insieme ad illustri compagni come Schiele e Kubin), testimone d’inizio novecento della “Vienna prossima alle scansioni della catastrofe”, lo rende protagonista significativo dell’arte di un periodo importante nell’economia di questo discorso. All’atto di una comparazione le tracce di Kokoschka in Salò si radicalizzano nella vicinanza perlopiù cromatica dei suoi ritratti (si veda la trentina prodotta tra il 1907 e il 1914) ai colori acidi di certi primi piani pasoliniani: ritroviamo ad esempio nel Ritratto di Ludwig Ritter von Janikowsky (1909) un’espressione che potrebbe richiamare il Blangis/Bonacelli irato e urlante di alcune sequenze, si veda l’imposizione alla coprofagia gridata a Renata (Seq.17.10) o nel “matrimonio multiplo” (Seq.24b). Anche i corpi lividi de La visitazione e La crocefissione (entrambi del 1911) contengono una pietas che li ricollega ai corpi umiliati e svuotati di sacralità delle vittime accasciate e sedute di Salò: il ‘vuoto’ religioso che questi corpi esprimono ha a che fare però con la scomparsa del sacro che avvolge tutta l’opera finale di Pasolini, a cominciare da Petrolio; mentre di Kokoschka il critico Carmine Benincasa diceva che “esprime la totalità del sacro che si rivela nel frammento della realtà, nel segno che brulica del colore, nell’Erlebnis dell’atto pittorico che si dà non come memoria ma come sensazione immediata” 1.

Note 1

Oskar Kokoschka. 1886-1980. A cura di C. Benincasa. Venezia, Marsilio, 1981, p. XVII.

Bibliografia essenziale Oskar Kokoschka: 1886-1980. A cura di Carmine Benincasa. Venezia, Marsilio, 1981. Di Stefano, Eva, Kokoschka. Firenze, Giunti, 1997. 182

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Magritte “Kandinskij ha dunque congedato con un gesto sovrano la vecchia equivalenza tra somiglianza e affermazione; ha affrancato la pittura dall’una e dall’altra. Magritte, da parte sua, procede per dissociazione: rompere i legami tra di esse, stabilire la loro ineguaglianza, fare agire l’una senza l’altra, conservare quella che deriva dalla pittura ed escludere quella che è la più vicina al discorso; [...] Pittura del ‘Medesimo’ liberata dal ‘come se’” 1.

Michel Foucault stabilisce questi punti fermi sulla pittura di Magritte, attivando una riflessione di carattere quasi strutturale per quel che riguarda Salò, in particolare per il suo problema centrale della riproduzione in immagini equivalenti della Parola sadiana e del suo agire, questione sulla quale il collega Roland Barthes da subito aveva posto criticamente la pietra tombale di una disperata irrealizzabilità 2. Questo discorso si applicava in gran parte però a quella pratica magrittiana che lega “i segni verbali e gli elementi plastici”, di cui I due misteri (1966, comunemente conosciuto come il dipinto del motto “Ceci n’est pas une pipe”) rappresenta la formula generale. Al vaglio del presente studio ci si può invece appuntare semplicemente su due suggestioni magrittiane ricavabili da Salò: la prima emerge nella scena del camerino della Vaccari/Surgère, che si trucca e prepara per la prima narrazione del Girone delle Manie (Seq.8.3). La Vaccari apre un armadio, sulla cui anta a specchio rimbalza il restante spazio della stanza raddoppiato così in un unico quadro: addirittura lo specchio ne riflette un secondo poggiato sopra un comò e si accosta ad un terzo alle spalle della Vaccari, che è poi il mobile-toilette al quale la donna si è appena truccata; inoltre, in questo movimento di apertura la Vaccari viene progressivamente occultata alla vista dell’osservatore e infine annullata dallo specchio che ne cancella surrealmente la presenza dalla scena, con l’eccezione della mano che regge l’anta: i paragoni che attiva questa inquadratura potrebbero muoversi tra La condizione umana e I legami pericolosi o, ancora, Il telescopio: secondo Foucault qui risiedono modi “della similitudine per liberarsi dalla vecchia complicità con l’asserzione rappresentativa” poiché “Su tutti questi piani slittano delle similitudini che nessun referente riesce a fissare: traslazioni senza punto di partenza né supporto” 3. Similitudini coadiuvate dallo spazio della rappresentazione, in Salò, che spesso veicolano un significato che, in quanto mutuato da Sade, non consente anche la sua figurabilità. 183

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La seconda suggestione viene da The menanced assassin, che istituisce una somiglianza più pianamente illustrativa con la sequenza della scoperta dell’amplesso di Ezio con la serva di colore (Seq.25b.5): identico contesto (di matrice dixiana, ‘poliziesca’, da delitto sessuale), con un corpo femminile nudo e insanguinato disteso su un letto (come quello della serva assassinata di lì a poco) spiato da tre uomini in abito scuro dietro una finestra a griglia decorata (qui tre dei quattro Potenti dietro una stufa o simile prospiciente la stanza). La risorsa ‘magrittiana’ di Salò, ovvero quello che può farne un oggetto anche magrittiano fra altre, infinite ipotesi sta in quello che sempre Foucault definisce “il privilegio della similitudine sulla somiglianza”: sottolineando che “quest’ultima fa riconoscere ciò che è ben visibile; la similitudine fa vedere ciò che gli oggetti riconoscibili, i profili familiari nascondono, impediscono di vedere, rendono invisibile” 4. È un assioma che vale anche per il tentativo di ridurre Sade in immagini che non possono che ricorrere ripetutamente all’inaggirabile primato della similitudine.

Note 1

M. Foucault, Questo non è una pipa. Milano, SE, 1988, p. 63.

Barthes poneva la questione impostandola proprio nei termini di un confronto con la pittura: “Sade non è affatto figurabile. [...] nessuna immagine è possibile nell’universo sadiano, il quale, per una decisione imperiosa dello scrittore-Sade, è affidato tutt’intero al potere della scrittura. Se ciò è possibile, è senza dubbio perché esiste un accordo privilegiato tra la scrittura e il fantasma: entrambi sono bucati; il fantasma non è il sogno, non segue mai i collegamenti di una storia, per bizzarri che siano; e la scrittura non è la pittura, non segue la pienezza dell’oggetto: il fantasma può solo scriversi non descriversi”. R. Barthes, Sade-Pasolini, cit., p. 159. 2

3

M. Foucault, Questo non è una pipa, cit., pp. 76, 79.

4

Ibidem, p. 68.

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Bibliografia essenziale Foucault, Michel, Questo non è una pipa. Milano, SE, 1988. Cortenova, Giorgio, Magritte. Firenze, Giunti, 1991. Magritte: la storia centrale. A cura di Steingrim Laursen. Milano, Skira; Fondation Réné Magritte, c2001. Magritte. Presentazione di Michel Foucault. Milano, Rizzoli/Skira; Corriere della Sera, 2004. Dona, Massimo, Il mistero dell’esistere: arte, verita e insignificanza nella riflessione teorica di Rene Magritte. Milano, Mimesis, c2006.

185

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Mantegna, Masaccio, Piero della Francesca Al Longhi estensore di quel Giudizio sul Duecento che costituì, attraverso un commento continiano1, la prima, incisiva suggestione figurativa e culturale sul Pasolini allievo (e pittore in erba amante di Manzù e De Pisis), spettava il compito, in un suo famosissimo articolo pubblicato su “Paragone”, di sottolineare le virtù prospettiche del Giotto della Cappella degli Scrovegni, personaggio intermedio nel percorso di “quella ‘linea plastica’ che dal Romanico attraverso Giotto portava a Masaccio, filiazione delle scelte storiografiche longhiane”2 che costituisce anche la stella polare dei gusti figurativi pasoliniani. La quaestio era quella dei due “vani gotici” o “inganni” dipinti “a mezza altezza sui due lati dell’apertura dell’abside” nella parete dell’arco trionfale, già oggetto di una corposa tradizione interpretativa. Longhi parla della “quadratura” e la mette alla base dell’”effetto di veridica illusione”: “Giotto insomma, col metodo che si dirà più tardi della “quadratura” ha aggiunto, sui lati dell’abside, due cappellette segrete la cui base, data l’altezza delle volte, può ben essere sul piano stesso del pavimento della cappella maggiore; e alle quali può dunque immaginarsi di accedere dal presbiterio stesso. [...] Giotto aveva dunque piena coscienza della prospettiva. Ne consegue parimenti la certezza che se Giotto non ha esteso lo stesso metodo anche alle figurazioni narrative, ciò è stato per precisa volontà, per meditata affermazione di un limite diverso” 3.

Il riconoscimento delle velleità sperimentali giottesche nell’ambito di una tentata prospettiva che sarebbe stata la teorizzazione regina del secolo successivo mette anche l’accento sull’utilizzo della presenza della figura umana nella composizione e permette di creare un ponte con i successivi maestri del Quattrocento e con il lavoro ‘emulativo’ di Pasolini in Salò. Longhi diceva ancora: “Si dirà che questa esperienza prospettica Giotto non la tentò che nell’architettura sola, senza figure. Per questo anzi abbiam parlato di “quadratura”. E non si nega sia rilevante accorgersi che il fatto si ripete nel riaprirsi del problema prospettico del Quattrocento, da Brunelleschi a Paolo Uccello” 4.

La passione giottesca di Pasolini non è chiaramente sufficiente a impedire al poeta di spingersi, per Salò, oltre la bidimensionalità del maestro trecentesco in materia di composizione delle figure per concentrarsi sulla “ghirlanda” prospettica (come la definiva l’Alberti 5). 186

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Ecco il senso della premessa su Giotto, la cui “bidimensionalità corporea”, come ricorda la De Paolis, viene superata dal posizionamento pasoliniano della macchina da presa che “proprio come Piero e Masaccio [...] si confina al centro della scena, in quel punto esatto dove nasce la prospettiva e dove gli incerti e grandi maestri del ’400 hanno preso le mosse” 6. Allo stesso tempo, anche il corpo diventa architettura e solido volumetricamente inserito nel quadro prospettico, che ritrova nella frontalità eloquente e paradigmatica della Sala delle Orge la sua esemplificazione stilistica più piena (si veda la sua iterazione ossessiva nelle Seq.8.4, 16.1, 17.5, 18.1, 21.1, 23.1 e 27.1). Abbandoniamo per un momento questo discorso che riguarderà il confronto a seguire e chiamerà in causa in maniera equivalente i nomi di Mantegna, Masaccio e Piero della Francesca: per ripescare Giotto e una presenza pittorica fuggevole ma di fondamentale risonanza simbolica, ovvero la Madonna della Maestà di Ognissanti (1310 ca), visibile nell’altare in cui si scopre il corpo senza vita della ragazza suicida (Seq.10.1 e ss). La Madonna giottesca 7 è l’oggetto di un’operazione articolata in una segnalazione che nel suo mostrarsi quasi subliminale esemplifica proprio una cancellazione prepotente, ovvero la soppressione della maternità e del suo intimo (e sacrale) significato protettivo; se all’inizio si diceva del valore riequilibratore della presenza dell’arte antica lo si intende-va proprio come termine contrastante la perdita di valori estetici-formali (dunque anche etici) suggerita dall’utilizzo capitalistico dell’arte “modernista”. L’opera giottesca si pone dunque come dato ‘resistenziale’ a sua volta anche se la sequenza viene strutturata in ossequio alla parola del Potere e al suo progetto di perversione dei valori: al corpo disteso longitudinalmente sul pavimento e alla Madonna in Maestà si sovrappone la narratrice Vaccari/Surgère (“antiMadonna” come la definisce la Passannanti in quanto prostituta ma, a ben guardare, anche figura di un eversivo ammiccamento ad una maternità surrogata di lì a poco, con la sua riproduzione della Pietà mentre abbraccia l’esausta Renata) che prosegue la narrazione camminando da destra a sinistra del quadro e viceversa; di questo momento particolare sempre la Passannanti dice: “All’interno di questo spazio altamente simbolico, il quadro introduce un ordine statico che sovrasta il flusso narrativo dinamico dei racconti immorali” 8.

Questo è vero se si riconosce però l’efficacia contemporanea del dissolvimento repentino di questa staticità anche prospettica con la sovrapposizione del citato movimento della narratrice, disegnato dallo spostamento a seguire della macchina da presa che rompe tutte le direttrici ‘classiche’ e rinascimentali di 187

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questa composizione 9. È questo un altro rituale, un’altra liturgia che si sovrappone a quella ecclesiastico-religiosa con la sottolineatura del Potere: è come se esistessero frizioni competitive ed emulative a livello ritualistico tra il Potere fascista e l’apparato cerimoniale della Chiesa e della sua storia. Il potere sempre “rituale e codificatore” per Pasolini che diceva anche che “ciò che ritualizza e ciò che codifica è sempre il nulla, il puro arbitrio, cioè la sua propria anarchia” 10; non è neanche da sottovalutare, in tal senso, la partecipazione all’orgia di potere libertina del personaggio del Monsignore che si fa rappresentante istituzionale della storia di potere di quella Chiesa. Sempre Pasolini teneva a sottolineare inoltre l’adozione del “modello di Dio” di Klossowski per i sadiani di Salò: “Altra cosa importante che ho preso da Klossowski e che poi riprendo in Blanchot, è il modello di Dio: cioè, tutti questi super-uomini nicciani ante-litteram, in realtà, nell’adoperare i corpi delle vittime come cose, altro non sono che degli dèi in Terra, cioè il loro modello è sempre Dio; nel momento in cui lo negano con la passione, lo rendono reale e lo accettano come modello” 11.

La cornice scenica della sequenza esaminata costringe però a fare ritorno a Mantegna: all’inversione dell’universo dei valori che è anche uccisione della sacralità (del corpo della ragazza, del suo mistero religioso e confessionale) partecipa anche il capovolgimento (letterale) di un canone, quello del Cristo morto, già vivace protagonista pittorico della carriera cinematografica di Pasolini (Mamma Roma). Il corpo esanime disteso in scurto qui si offre infatti in posizione contraria rispetto al modello mantegnesco 12, con la testa rivolta al nostro sguardo, fissata inoltre in un allegato fermo-immagine di tre quarti dall’alto che ribadisce il martirio simbolico della sacralità focalizzando il dettaglio della ferita di squarcio della gola. Questo dettaglio fortemente realistico è a sua volta coerente con la visione pasoliniana del “realismo mitico” che occupava anche le pagine teoriche di Empirismo eretico 13. Il richiamo a questo realismo è anche un collegamento alla nozione di “intrinseca sacralità” della tecnica, così fondamentale nel cinema di Pasolini e che investe proprio la questione dell’imitazione della pittura classica e masaccesca che occupa la lavorazione di Accattone e alcune Confessioni tecniche 14 e fa dire a Pasolini: “io utilizzo la cinepresa per creare una sorta di mosaico razionale”. Dunque, come ricordava Santato in un suo articolo: 188

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“Da un punto di vista iconografico la sacralità dell’immagine è intrinsecamente legata alla sua ripresa immobile e frontale, ovvero al suo radicale propriamente iconico. Da ciò la predilezione di Pasolini per i primi piani frontali, le inquadrature per blocchi visivi giustapposti, alla maniera di Dreyer” 15.

Proprio in questi presupposti tecnici di razionalità e frontalità risiede anche la scelta di definizione mantegnesca di altri quadri della rappresentazione: a cominciare dall’impostazione dell’enunciazione dei regolamenti pronunciati dai Signori dalla balconata della villa (Seq.7b.23 e .25), imitazione delle “sfere alte” classiche “dove Pasolini colloca la gerarchia dei Carnefici, istituzionalizzati come le sacre famiglie e le sacre sfere” 16 e che si ritrova ad esempio nel riferimento della Camera degli sposi di Mantova o Camera picta (1465-1474), in cui anche le figure sono composte secondo uno stilema di foggia architettonica e racchiuse in sé stesse. Questa è anche la proposta di una regula della “seriale dogmaticità” ecclesiastica di cui fa menzione sempre la De Paolis e che collima con gli intenti pasoliniani di restituire stilisticamente la perpetuazione ossessiva del rito e della cerimonia, oggettivata proprio nella simbolicamente ridondante raffigurazione frontale e spaziale dell’enunciazione delle regole dal loggiato (i signori e cerimonieri dell’orgia in alto e i ‘sudditi’ al di sotto): e in quanto seriale è una rappresentazione che si rintraccia ripetutamente in Salò, si veda ad esempio la scena dell’attesa al “concorso dei deretani” con i Signori sulle scale (Seq.22.1). Si potrebbe eventualmente rilevare un elemento di discrimine nelle figure pasoliniane, localizzato in un rigore posturale ancora maggiore che cancella quasi totalmente la gestualità e il movimento degli arti, qui incollati parallelamente al torso e mai tentati dalla gesticolazione della pittura classica tre-quattrocentesca che stava al centro delle interessantissime analisi di Chastel 17: a confermare però la questione della ritualità religiosa a livello del gesto si potrebbe richiamare la “selezione finale” (Seq.26.4 e ss) con Blangis/Bonacelli in piedi di fronte alle vittime a definire le ultime regole con il libretto nero delle punizioni tenuto aperto all’altezza del petto alla guisa di un breviario. L’attenzione del nostro confronto iconografico con la Camera picta si puntualizza sulla porzione della parete nord, al livello cioè della cosiddetta Corte ducale, terreno di una precisa progettualità simbolica della figurazione: “Sull’attenta analisi del testo figurato e sui modi della composizione spaziale, intesa anch’essa come valenza simbolica da interpretare, insieme ai riferimenti a possibili fonti letterarie, si basa l’indagine condotta da Daniel Arasse. Questi coglie l’articolazione di un programma politico ben definito e unitario secondo il

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quale le pareti con la “Corte” e l’”Incontro” sono i luoghi figurati che definiscono la prima lo spazio del potere nell’atto della sua decisione e la seconda parete lo spazio dove si esercita territorialmente questo potere. Il buon governo é dunque il risultato che dà il senso alla descrizione, assieme all’elaborazione teorica dei principi che costituiscono e legittimano la sovranità del principe” 18.

C’è una consapevolezza stilistica generale nella resa di questo progetto, impiantata su di “una solida impalcatura lineare, discendente da Donatello, Filippo Lippi e Andrea del Castagno, in grado comunque di modulare una posizione nello spazio come dimostra la determinazione cromatico-luminosa [...] È l’esperienza della pittura fiamminga che Mantegna rivela, e non solo dal punto di vista tecnico, assieme all’assimilazione del luminismo di Piero della Francesca” 19. Dal gusto luministico di Mantegna, però, Pasolini si distanzia parzialmente scegliendo una luce perlopiù netta e di taglio (nonostante il tono dantesco del film manca la luce che sognava nei versi di Trasumanar e organizzar 20) in luogo del tono chiaroscurale che si ritrova, ad esempio, nel Ritratto del cardinale Ludovico Trevisan (1461 ca) che ritorna però perfetto come archetipo espressivo per la gravità severissima del volto, nella “poderosa volumetria della massa compatta del busto del personaggio [...] resa attraverso il calcolato e dettagliato studio dei chiaroscuri che sottolineano la struttura fortemente scultorea” 21 correlativa al lavoro mimico di Blangis/Bonacelli e del Vescovo/Cataldi in più di una sequenza. Con Masaccio, rappresentante per Pasolini l’altra metà di un binomio sentimentale che si completava con Longhi e con quella famosa “linea plastica” appresa come modello figurativo, si continua intanto sul tema della centralità prospettica come modello che concilia l’”oggettività razionalistica” con l’esaltazione umanistica della figura che va ad entrare in quell’”ordine invisibile delle relazioni matematiche”: “[...] attraverso la novità della prospettiva si compiono due operazioni: si fonda l’arte sulla scienza, si elevano i protagonisti popolari di arti ‘meccaniche’ alla dignità delle arti liberali, con il vantaggio di una doppia integrazione culturale e sociale. L’ideale quattrocentesco di una cultura unitaria, da contrapporre e sostituire a quella totale teologica, si realizza contemporaneamente all’ideale conoscitivo del mondo attraverso la logica concreta della pittura-scienza, contrapposta alla logica aristotelica degli universali astratti. È l’ideale teorizzato dai Coluccio Salutati, Marsilio Ficino, Nicolò Cusano: e significa non solo l’affermazione del realismo umanistico, ma la interpretazione aperta del platonismo [...] [è] nel rompere le regole materiali della gerarchia rispettando quelle formali della geometria

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euclidea, che Masaccio pratica la pittura rivoluzionaria del Quattrocento in

maniera rivoluzionaria” 22. La pittura masaccesca vive dunque in questa confluenza e nella sua conciliazione tecnica-umanistica si ritrova la “sacralità della tecnica” pasoliniana che, partendo dalla figura umana, cerca di recuperarne il sacro attraverso un’illuminazione simbolica; lo diceva Pasolini stesso: “Io la chiamo sacralità; e la posso in modo schematico ed elementare schematizzare così: la mia incapacità di vedere nella natura la naturalezza. Ad altri le cose, la realtà, appaiono normali, naturali. A me tutto sembra investito da una specie di luce importante, particolare, che è appunto meglio definire “sacrale”. E questo determina il mio stile, la mia tecnica” 23. Allora è in ordine a queste direttrici (umanità e sacralità) che si potrebbe discutere del Masaccio di Salò e fissarne i riferimenti archetipi in primo luogo nei Pannelli della predella del Polittico di Pisa (1426), relativamente ai Martirii di San Pietro e San Giovanni Battista 24, in cui la resa plastica e cromatica nel climax delle torture dei santi in un cortile turrito rimanda all’epilogo ‘medievale’ del cortile del film (Seq.30), alla brutalità delle sue ‘pratiche’, che si ripetono nel modello della decapitazione del Battista e nello scambio verticale/orizzontale tra la crocifissione di Pietro capovolto e inchiodato con le vittime legate al selciato di Salò. Sono però gli affreschi della Cappella Brancacci (1424-’25) ad offrire la possibilità per un confronto ancor più significativo, in particolare sulla linea dell’umanità delle figure: nel registro mediano al pilastro di sinistra troviamo la celebre Cacciata dei progenitori dal Paradiso terrestre, costituente una tradizionale occasione di discrimine stilistico tra Masaccio e il tardo gotico dell’Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre di Masolino: “In effetti nel pur bellissimo affresco di quest’ultimo la psicologia risulta indefinibile e astratta, così come il ‘disegno’ delle tenere, longilinee figure è di una sintetica genericità anatomica, ancora gotica; in Masaccio subentra invece una violenta carica drammatica, resa fortemente concreta nell’immagine, ben più precisata” 25.

Nel sostegno di molta critica troviamo il motivo che ricollega la drammaticità vivida della gestualità e dell’espressione di quest’opera ad una sorta di plusvalore di modernità intrinseco anche alle figure delle giovani vittime di Salò. La disperazione violentemente realistica del volto di Eva 26 è applicabile come 191

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modello insuperabile dello sgomento spirituale delle figure di Salò, ma nell’atto di questo confronto vengono riversate nel modello iconografico mutuato dal film tutte le virtù di rispecchiamento critico della realtà “orrenda” del mondo attuale che stavano anche al cuore degli intenti pasoliniani. È interessante recuperare una recente analisi della Cacciata che enuclea anche un curioso risvolto “antiborghese”: “E saranno appunto i nudi della Cacciata (1424-25) a rammentarci perennemente la fragile condizione umana, in quella drammatica e brutale esplosione di dolore e di vergogna che dal Quattrocento percorre, rabbrividendo, tutta la nostra storia. Mai tanta terribilità pittorica si è identificata con le vicende umane per riemergere vera, lacerante e crudele - ma anche più stolta - nei massacri guerreschi e nelle violenze del nostro tempo (dai campi di sterminio alla bomba di Hiroshima ed oltre), sopportando un castigo terreno di smisurato dolore, perfino più assoluto e disperante della tragica potenza dell’irrevocabile destino biblico.”

Come le vittime di Salò anche Adamo ed Eva tracciano un preciso segno con i corpi e i comportamenti e dunque: “Quel corpo possente di Adamo che si inarca e si ripiega nella sua disperante ingiuria, incurante della sua nudità virile (e non è certo casuale quella gamba destra arretrata nel riprodurre il passo e che oggi riscopre in modo insolente il membro maschile), raggruma una potenza espressiva di una realtà senza precedenti, apodittica, aspra, ribelle: antiborghese, appunto” 27.

La forma simbolica e matematica della prospettiva viene infine ripetuta nel richiamo di Piero della Francesca, di cui si potrebbe riprendere l’impianto della Leggenda della Vera Croce (1452-’66) nella misura magari della Morte di Adamo e dei suoi nudi o nel Supplizio dell’ebreo che richiama la liturgia delle torture già vista nel Masaccio dei Martirii di San Pietro e San Giovanni Battista; un parallelo che però sarebbe censurato dalle parole di Longhi - con cui si è aperto il capitolo - che sottolineava, nei suoi Fatti di Masolino e Masaccio: “In confronto alla condensazione drammatica del mondo di Masaccio dove un manipolo serrato di uomini colmi di energia sembra intavolare le battute essenziali di una vita attiva sopra un palcoscenico chiuso fra lume e ombra, il mondo di Piero si svolge lucido come un drappo colorato che si avvolga di una fatalità più calma, indifferente: l’ora del mattino, il meriggio, la luna piena” 28.

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Al Masaccio monocromo delle lezioni longhiane va forse la preferenza del Pasolini di Salò, come anche il riferimento della sua opera alla lezione del maestro non è mai abbastanza saturo di suggestione.

Note 1 Articolo originariamente pubblicato in “Belfagor”, n. 2, 1949, ora in: G. Contini, Altri esercizi. Torino, Einaudi, 1972, pp. 101-110.

2

F. Galluzzi, Pasolini e la pittura, cit., p. 19.

3

R. Longhi, Giotto spazioso, cit., pp. 20-21.

4

Ibidem, p. 21.

5 Nel Libro II del suo Trattato della pittura l’Alberti diceva: “Più linee, quasi come nella tela più fili accostati, fanno superficie [...] Sarà una la circulare; saranno più come una flessa e una retta, o insieme più dritte linee. Sarà circulare quella quale inchiude uno circolo. Sarà circolo forma di superficie quale una intera linea quasi come una ghirlanda l’avvolge”.

6

F. De Paolis, Il quadro iconologico, cit., p. 154.

7 La scelta giottesca di Pasolini è anche perfettamente inserita nel progetto a misura dantesca di Salò: ricordiamo infatti il riferimento che Dante fa all’opera del pittore nel Canto undicesimo del Purgatorio: “Credette Cimabue ne la pittura | tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, | si che la fama di colui è scura.” (Purgatorio, XI, vv. 94-96).

8

E. Passannanti, Il corpo & il potere, cit., p. 62.

L’atto del guastare la purezza razionale del canone prospettico sarà ripetuto da Blangis/Bonacelli nel “1° matrimonio blasfemo” (Seq.12, ancora, durante un rito) quando si butterà a baciare e palpare i giovinetti in un trionfo anarcoide che sottrae perfino allo spettatore la vista delle sue gesta (e fa intuire anche un margine elevato d’improvvisazione nell’elaborazione di questa sequenza).

9

PPP, Il potere e la morte. In: Pier Paolo Pasolini. Per il cinema, cit., II, pp. 3013-3018 (3014) (Intervista per la Televisione della Svizzera Italiana del 29 aprile 1975). 10

N. Naldini, Pasolini. Una vita. Torino, Einaudi, 1989, p. 384. Sempre la Passannanti suggerisce un’altra lettura sulla presenza della Madonna giottesca: “l’apparizione della Vergine sul sontuoso drappo dorato, circondata dalla gerarchia dei santi e da due angeli inginocchiati,

11

193

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potrebbe suggerire la partecipazione della religione cattolica al compito di plasmare la storia della società e della cultura italiana, a partire dal modo di concepire i rapporti tra individui, fino ai rapporti di potere e produzione”. E. Passannanti, Il corpo & il potere, cit., p. 63. Sulle problematiche tecniche e sulle critiche connesse all’efficacia della resa prospettica del capolavoro mantegnesco si rimanda a: F. Frangi, Cristo morto di Andrea Mantegna. Milano, TEA, 1996, pp. 39-53 (§ Il problema dello “scurto”). Troviamo anche un’altra citazione dello scurto, più blasfema ed “eretica”, nella sequenza in cui Blangis/Bonacelli si apparta con una ragazza nel bagno e si sdraia a terra per farsi orinare in faccia, posizione sottolineata proprio da una ripresa molto angolata del volto del Signore che risulta quasi deformata dalla prospettiva (Seq.21.10 e ss). 12

Si veda ad esempio il Codice della realtà rappresentata in cui si dice: “Allo stadio più recente della Realtà come rappresentazione si trova il teatro o la finzione scenica: il cui codice non potrebbe esistere senza tutti i codici precedenti, in cui si trovano i suoi principi (nell’atto in cui lo spettatore si identifica con l’attore decifra l’antagonista attraverso l’Ur-codice, il codice della Realtà vissuta [...]”. PPP, Empirismo eretico, cit., p. 294. 13

14 È il caso di ricordare la famosa affermazione di Pasolini secondo il quale “non c’è niente di più tecnicamente sacro che una lenta panoramica”. PPP, Confessioni tecniche, cit., p. 44.

G. Santato, Pittura e poesia nel cinema di Pier Paolo Pasolini. In: A. Franceschetti, Letteratura italiana e arti figurative : Atti del 12. Convegno dell’Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana : Toronto-Hamilton-Montreal, 6-10 maggio 1985. Firenze, L. S. Olschki, 1988, III, pp. 1281-1293 (1285).

15

16

F. De Paolis, Il quadro iconologico, cit., p. 155.

Si rimanda per un approfondimento a: A. Chastel, Il gesto nell’arte. Roma-Bari, Laterza, 2008 (in part. § L’arte del gesto nel Rinascimento, pp. 3-45). 17

La Camera degli Sposi di Andrea Mantegna. A cura di M. Cordaro. Milano, Electa, 2006, p. 24 (corsivo mio). 18

19

Ibidem, p. 29.

“So anche che in Dante la luce | è tutta controluce e di taglio. | Se qualche momento di luce “piatta” c’è, | essa è però radente, con “le ombre lunghe” | (la macchina da presa | portata in spalla di buon mattino, | anzi, all’aurora, | per essere sul posto alle otto, | col freschetto, e in corpo la lietezza)”. PPP, Proposito di scrivere una poesia intitolata “I primi sei canti del Purgatorio”. In: Id., Trasumanar e organizzar. Milano, Garzanti, 1971, p. 60.

20

21

Cfr. A. De Nicolò Salmazo, Mantegna. Milano, Electa, 1997, pp. 14-15.

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22

L’opera completa di Masaccio. A cura di L. Berti. Milano, Rizzoli, 1968, pp. 7-8.

Cfr. Incontro con Pier Paolo Pasolini. “Note Schedario”, n. 4, 28 aprile 1969 (citato in: A. Marchesini, Longhi e Pasolini, cit., p. 10).

23

Una corposa tradizione critica inaugurata a inizio Novecento ha evidenziato perplessità sulla certa attribuzione dell’opera a Masaccio, avanzando l’ipotesi di una somiglianza con lo stile di Andrea di Giusto, aiutante del pittore. 24

25

L’opera completa di Masaccio, cit., catalogo, n. 17, p. 93.

26 In Poesie in forma di rosa Pasolini esprimeva così la sua idea di volto masaccesco: “che sfondi, faccia pure | di questi corpi in moto statue | di legno, figure masaccesche | deteriorate, con guancie bianche | bianche, e occhiaie nere opache | - occhiaie dei tempi delle primule, | delle ciliegie, delle prime invasioni | barbariche negli “ardenti solicelli italici”...”. In: PPP, Poesie mondane, cit., p. 1095.

27 M. Fidolini, Masaccio. L’occhio ribelle e la coscienza critica. Firenze, Netcons, 2001, pp. 29, 34.

R. Longhi, Piero in Arezzo, in: Id., Fatti di Masolino e Masaccio e altri studi sul Quattrocento. Firenze, Sansoni, 1975, p. 185.

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Bibliografie essenziali

Giotto Flores d’Arcais, Francesca, Giotto, Milano, F. Motta, 2001. Pisani, Giuliano, I volti segreti di Giotto. Le rivelazioni della Cappella degli Scrovegni. Milano, 2008. Romano, Serena, La O di Giotto, Milano, Mondadori/Electa, 2008. Giotto e il Trecento. A cura di Sandro Tomei. Roma, 2009. Mantegna Frangi, Francesco, Cristo morto di Andrea Mantegna. Milano, TEA, 1996. De Nicolò-Salmazo, Alberta, Mantegna. Milano, Electa, 1997. Cordaro, Michele, La Camera degli Sposi di Mantegna. Milano, Electa, 2006.

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Masaccio Berti, Luciano, L’opera completa di Masaccio. Milano, Rizzoli, 1968. Berti, Luciano, Masaccio. Catalogo completo dei dipinti. Firenze, Cantini, 1989. Carniani, Mario, La Cappella Brancacci a Santa Maria del Carmine. In: Cappelle del Rinascimento a Firenze. Firenze, Giusti, 1998. Fidolini, Marco, Masaccio. L’occhio ribelle e la coscienza critica. Firenze, Netcons, 2001. Spike, John T., Masaccio. Milano, Rizzoli libri illustrati, 2002. Piero della Francesca Bianconi, Piero, Tutta la pittura di Piero della Francesca. Milano, Rizzoli, 1957. Bertelli, Carlo, Piero della Francesca. La forza divina della pittura. Cinisello Balsamo, Silvana, 1991. Longhi, Roberto, Piero della Francesca. Firenze, Sansoni, 1980. Ingeborg, Walter, Piero della Francesca. La Madonna del Parto. Modena, Panini, 1996.

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Savinio La citazione di Alberto Savinio implica intanto la sua messa in relazione con una serie di riferimenti magari scontati ma ugualmente preziosi nell’ambito di questo studio: il primo si lega alla vicinanza di Savinio ad ambienti e periodi artistici particolari quali la Metafisica e il Dadaismo; un altro riguarda le frequentemente analizzate componenti freudiane interne alla sua opera. Queste ultime hanno già interessato l’analisi di Salò e in Savinio si specificano nell’apparentamento del suo linguaggio letterario (a partire da Les chants de la mi-mort) all’opera artistica e pittorica sotto la luce della manipolazione dell’inconscio, attraverso il gioco del “perturbante” freudiano (Unheimliche). L’inconscio “strutturato esso stesso come un linguaggio” permette di ricollocare facilmente Savinio nel circolo del discorso sulla Metafisica e sul Dadaismo di cui si diceva; si veda quello che diceva Calvesi in merito: “Che cosa dunque hanno in comune Metafisica e Dada? Un punto fondamentale: il recupero dell’oggetto così come è, al di là dei processi scompositivi della visione cubista e futurista, o anche delle deformazioni espressionistiche. Una condizione di questo recupero è lo “spaesamento” dell’oggetto, cioè la sua collocazione al di fuori della rete usuale dei rapporti di causa-effetto [...]” 1.

Questo effetto di spaesamento dell’oggetto (o della situazione) è chiamato in causa fortemente tanto da Savinio, quanto - è un dato ormai più che acquisito da Pasolini per Salò; in questo modo “Per spezzare la repressione che l’ego attua sull’inconscio attraverso la rigorosa e univoca definizione delle parole, l’arte è chiamata a disorientare il fruitore, a sconcertarlo, a gettarlo nel paradosso attraverso la provocazione, mostrando ciò che egli non vorrebbe vedere: in una parola, attraverso un’estetica del mostruoso [...] Lo spaesamento, così caro alle pratiche dadaiste e surrealiste, è per Savinio funzione costitutiva dell’opera d’arte, che deve minare le sicurezze dello spettatore, generare angoscia, provocare insomma un impatto dalle sorprendenti analogie con lo Stoss di Heidegger e lo shock di Benjamin” 2.

La risultante di queste connessioni è che Savinio appare così agevolmente integrato nel significato dello shock pasoliniano di Salò da meritare una inclusione più che legittima. In realtà, il vero interesse che suscita una ricomprensione di Savinio nel nostro discorso è di proporzioni più modeste e tocca una parte meno rinomata, 197

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ma assolutamente non gregaria, della sua opera, che è poi l’attività di regista teatrale e scenografo, caratterizzante a fasi alterne tutta la sua carriera e serpeggiante in sottotraccia anche nella pittura, già dagli anni Venti: “In realtà, presente da sempre nei suoi quadri, il teatro attendeva da tempo che Savinio gli prestasse la sua opera di scenografo. Si trattò, anche qui, di un incontro quanto mai naturale e necessario, le cui premesse erano già iscritte nella sua pittura, alla quale l’artista sembrava aver demandato il compito di surrogare un rapporto che come autore drammatico gli era per il momento negato” 3.

Il riferimento particolare va così ad un Bozzetto scena unica del 1950 4 impostato su di una frontalità prospettica centrale che replica in maniera sorprendente la c.d. Sala Superiore della villa di Salò, teatro ad esempio del “1° esperimento” (Seq.11.2) con i quattro Signori inquadrati su di uno stesso impianto frontale ad osservare le pratiche di masturbazione sui corpi di Sergio e Renata; stesso luogo e stessa inquadratura (in ossequio alla iterazione ossessiva del film) si ritroveranno anche nel successivo “1° matrimonio blasfemo” tra i due ragazzi (Seq.12).

Note 1 Cfr. in M. Calvesi, La metafisica schiarita. Da De Chirico a Carrà, da Morandi a Savinio. Milano, Feltrinelli, 1982, p. 210.

M. E. Gutierrez, Alberto Savinio: lo psichismo delle forme. Fiesole, Cadmo, 1999, pp. 103-104. 2

3

A. Tinterri, Savinio e lo spettacolo. Bologna, Il Mulino, 1993, p. 206.

4 “Tempera su carta, 24x32,5 cm. firmato e datato in basso a destra “Savinio 50””, cfr. P. Vivarelli, Alberto Savinio. Catalogo generale. Milano, Electa, 1996, catalogo, “Scenografie”, n. 6, p. 392. Si presume che il bozzetto sia compreso nella serie di scene ideate per La Vita dell’Uomo, andato in scena per la prima volta il 14 giugno 1951: “Quanto ad Alberto Savinio le scene da lui ideate per il suo stesso balletto La Vita dell’Uomo si limitano a delle quinte fisse e neutre e ad una serie di siparietti di fondo che accompagnano e illustrano il succedersi delle esperienze del protagonista: e lo fanno con una castità e un’evidenza esemplari”. E. Piceni, Dieci anni tra quadri e scene. Milano, Bramante, 1961, p. 50, citato in: A. Tinterri, Savinio e lo spettacolo, cit., p. 217, n 48.

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Bibliografia essenziale Alberto Savinio: dipinti 1927-1952. A cura di Pia Vivarelli. Milano, Electa, c1991. Tinterri, Alessandro, Savinio e lo spettacolo. Bologna, Il Mulino, 1993. Vivarelli, Pia, Alberto Savinio: catalogo generale. Milano, Electa, 1996. Gutierrez, Maria Elena, Alberto Savinio: lo psichismo delle forme. Fiesole, Cadmo, 1999. I fratelli De Chirico: Giorgio e Alberto Savinio: Cherasco, Palazzo Salmatoris dal 9 ottobre al 19 dicembre 2004. Mostra a cura di Carla Bertone; testi in catalogo di Carla Bertone. Cherasco, Città di Cherasco, 2004.

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Signorelli Nella forma di una postilla sulla pittura quattro-cinquecentesca, l’opera di Luca Signorelli deve essere necessariamente esaminata come un riferimento complessivamente applicabile a Salò, da intendersi però come archetipo e da distinguere in alcuni motivi fondamentali. La misura pittorica generale di questo riferimento deve ritrovarsi quasi inevitabilmente nella famosa Cappella di San Brizio del Duomo di Orvieto (14991504), “ampia struttura gotica” strutturata in “due volte a crociera formate da otto vele” nella maniera di un poema pittorico a tema religioso e allegorico, del quale è opportuno isolare la porzione dei lunettoni inferiori riportanti sette scene più significative per un confronto con Salò: le Storie (o Fatti) dell’Anticristo, gli Eletti, l’Avvento del Paradiso, L’Inferno, I Dannati, la Resurrezione della carne e il Finimondo. L’unità di tutte queste scene risale al tema religioso di cui si diceva e consente di focalizzare ulteriormente il discorso sulle Storie dell’Anticristo e sui Dannati. Partiamo dalle Storie dell’Anticristo: la sostanza di queste allegorie è un vago riferimento alla cronaca di fine Quattrocento, “considerate ora come un’eco degli avvenimenti che condussero al rogo, il 23 maggio 1498, il “profeta” Girolamo Savonarola, ora come forma della propaganda anti-turca e anti-giudaica nel contesto politico-religioso a ridosso del Giubileo del 1500” 1. Al contempo si possono rintracciare radici anche diverse, con la precisazione che ne fa Corrado Gizzi: “[...] soggetto del tutto nuovo nell’arte italiana, s’ispira ai Vangeli apocrifi, alle Revelationes della svedese Santa Brigida, ma soprattutto alla Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine. André Chastel, basandosi sull’Apologia di Marsilio Ficino, in cui il Savonarola è presentato come l’incarnazione dell’Anticristo, sostiene con una valida argomentazione che la scena riflette i drammatici avvenimenti di Firenze che sfociarono nell’impiccagione e nel rogo del domenicano” 2.

La pianificazione, in Salò, di uno spazio che si vota alla segnalazione dei valori (negativi/positivi) e alla distinzione dei ruoli - sempre secondo una lezione classica che trae vigore dall’apprendistato di Signorelli sotto Piero - si ritrova nella costruzione del polittico signorelliano ed è una chiave che continua a valere anche quando si passa a parlare dell’interessante “teatralità” dell’opera, ulteriore punto di contatto con il film:

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“La precisa suddivisione degli argomenti, che in Jacopo da Varagine rispondeva unicamente alle esigenze della retorica scolastica, nel ciclo orvietano diventa il primo degli espedienti attraverso i quali si cerca di costruire un discorso che, almeno inizialmente, deve procedere per via di continue contrapposizioni. Infatti, la distribuzione delle storie in due distinte campate [...] permette di stabilire il contrasto mondo-storia/cielo-eternità. È la più generale delle varie antitesi (giusti/reprobi, paradiso/inferno, fallacia della predicazione dell’Anticristo/verità di fede della resurrezione della carne), la qualificazione morale delle quali è sottolineata anche dal loro essere posizionate “a destra” o “a sinistra” 3.

E poi il teatro, come si accennava poco fa: una curiosa analogia investe la “qualità” della scena di Salò ed è quella che mette in relazione lo splendore dell’insieme frammisto alla povertà kitsch del dettaglio astratto dal tutto e meglio osservato (nell’analisi che ne fa Antonio Paolucci): e l’effettiva, irresistibile sensazione di non-finito e di approssimazione sciatta (che traspare da visioni ripetute) proveniente dai saloni della villa, delle camere delle maitresse e della Sala delle Orge, del loro fasto mescolato a finiture da cui traspare la rozzezza di un ambiente piccolo-borghese, se non contadino, consequenziale alla volontà di Pasolini, certo, ma che richiama a conferma anche le parole dello scenografo Ferretti quando precisa: “quel palazzetto, che non è altro che la casa di un contadino, erano delle stalle” 4. Dice infatti Paolucci: “Se li guardiamo bene ci accorgeremo che gli affreschi di San Brizio sono “scenografici” nel senso tecnico artigianale del termine. Mi spiegherò meglio. Caratteristica dei dipinti di scena è di essere corsivi, approssimativi, “tirati via” come si dice in gergo, nella stesura pittorica. [...] Ci sono figure di splendida finitezza, [...] Ce ne sono altre caratterizzate da incredibile sciatteria. [...] Penso che le cadute di qualità [...] dipendano dalla logica “scenografica” che governa l’impresa [...] si ha l’impressione di entrare dentro un allestimento teatrale di grande qualità che scopre, una volta visto dal di dentro, i trucchi del mestiere, i materiali poveri di cui è costruito” 5.

Quel che è più significativo nel ciclo di Signorelli sono però gli elementi del colore, della dinamica gestuale e plastica che, in un lavoro concertato con grande perizia ‘ingegneristica’, restituiscono, particolarmente nei Dannati, il senso di una violenza fisica descritta nella contorsione e nello schiacciamento dei corpi che stabilisce un legame più che saldo con quella di Salò. Il colore vi partecipa in maniera prepotente, conforme alla tenuta della resa plastica dell’insieme; in Signorelli l’aspetto cromatico costituisce effettivamente 201

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una porzione funzionale e anche eversivamente innovativa della composizione, in cui i corpi, ad esempio, dei diavoli “Sono dipinti di verde schietto, di un grigio che è pallore di morte e, per contrasto, di rosso vino, di rosso rame, di giallo, d’arancione, con reciproci riflessi e cangiantismi nei quali si sfrena una policromia mai vista prima, che la grafica assidua sottolinea coi segni paralleli di terra rossa o bruna, creando il vario scorrere e graduarsi dell’ombre e accrescendo la plasticità ai volti e ai corpi” 6.

Federica De Paolis segnala l’utilizzo di un cromatismo simile nel “1° matrimonio blasfemo” (Seq.12), durante il quale Pasolini “mettendo in mano ai ragazzi gli stessi fiori viola e verdi: ricalca e ridipinge con il verde della fotografia il corpo delle vittime, anch’esse dannate, utilizzando un’iconografia di forza eversiva” 7; si potrebbe trovare, nelle vittime, lo stesso gelido pallore di morte che contraddistingue molti quadri della Sala delle Orge, in contrasto con i colori bruni dei Signori o con quelli scintillanti delle maitresse, ulteriori articolazioni di valori che già lo spazio si incarica di sottolineare. Arriviamo però a delineare un legame ancora più profondo con Salò, che è poi la sostanza dantesca presente nel ciclo di Orvieto. Il modello dantesco per Signorelli va oltre l’implicito riferimento dell’Inferno presente nel ciclo e riguarda la volontà di una vera e propria “traduzione figurativa” del poema, a cui si aggiunge il proposito di fare del polittico un soggetto dantescamente innestato sul presente, un “brano di storia attuale; come un’occasione unica per rappresentare le attese, le ansie, i terrori degli uomini del suo tempo”. In fondo, basterebbe la comparsa di due ritratti di Dante nel ciclo per instillare il dubbio, come fa Pietro Scarpellini nel suo saggio, che Signorelli volesse “insistere nell’idea che Dante è qui giudice del moderno Anticristo” 8, ovvero il Savonarola, dalla cui vicenda politica, come si diceva all’inizio, il capolavoro orvietano trae ispirazione 9: il Dante dunque “philosopho poetico”, come veniva chiamato proprio dal Ficino dell’Apologia. Ma la somigliante capacità nel parlare del presente viene dopo l’estrema versatilità di Signorelli che “gareggiando con la fantasia dantesca” arriva a replicarla con una pittura che riesce a resuscitarne i modi poetici. Questi modi sono trasferibili anche nell’analisi della scena di Salò che da Dante non fa derivare soltanto la sua ripartizione quaternaria, ma ne emula anche l’ideale, l’archetipo gestuale e plastico, con la torsione “infernale” dei corpi delle vittime (si veda sempre in Seq.28-30, ma anche nel gruppo della “comunione dei cani” in Seq.15) che è tanto signorelliana mentre imita i Dannati di Orvieto, quanto dantesca nell’ideale della “bestialità matta che erompe saettando in ogni 202

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senso, e che accomuna nel coacervo furioso le vittime e i carnefici”. Da questo ideale plastico arriviamo anche ad un punto saliente dell’opera di Signorelli, che ci avvicina ancora a Salò e che riguarda il suo rinnovamento della “iconografia demoniaca”: “È noto che il Signorelli creò una nuova immagine del diavolo, non più mostro favoloso del Medioevo, non più l’ibrido repellente dei pittori nordici del Quattrocento; il diavolo è per lui semplicemente un uomo perverso. Le corna caprine, le ali di pipistrello, le ispide sopracciglie, gli servono soltanto per indicarne la natura infernale, bastandogli poi, per caratterizzarlo psicologicamente, il nudo umano. [...] ciò non toglie che l’idea del diavolo-uomo gli sia venuta proprio dalla lettura di Dante” 10.

Nell’estrema modernità di Signorelli si rinnova così l’incrocio tra Dante e il Pasolini di Salò: ed anche, sui toni di questa modernità, si prefigura l’essenza diabolica della perversione umana, che Sade in ambito settecentesco si preoccuperà di organizzare letterariamente e che Krafft-Ebing si incaricherà di notomizzare alle soglie del Novecento.

Note E. Paoli, Il programma teologico-spirituale del Giudizio Universale di Orvieto, in: La Cappella nova o di San Brizio. A cura di G. Testa. Milano, Rizzoli, 1996, p. 66.

1

2

Signorelli e Dante. A cura di C. Gizzi. Milano, Electa, 1991, p. 29.

3

E. Paoli, Il programma teologico-spirituale, cit., p. 69.

4

Cfr. Infra, p. 91.

5 A. Paolucci, La rappresentazione teatrale di Luca Signorelli, in: La Cappella nova o di San Brizio, cit., pp. 136, 139.

F. Bellonzi, Il linguaggio di Luca Signorelli, in: Signorelli e Dante, cit., p. 43. Nello stesso passaggio Bellonzi richiama un altro modello spesso evocato dalla critica, da cui Signorelli sembrerebbe influenzato, ovvero l’incisione fiamminga e tedesca, che però secondo l’autore rimanda “principalmente alle figure signorellesche umane e demoniache, impegnate nell’esercizio di una crudeltà terrificante e compiaciuta”.

6

7

F. De Paolis, Il quadro iconologico, cit., p. 156.

203

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P. Scarpellini, L’ispirazione dantesca negli affreschi del Signorelli a Orvieto, in: Signorelli e Dante, cit., p. 93; in merito alla tematica dantesca della Cappella di San Brizio, sempre all’interno della stessa pubblicazione si rimanda anche a: F. Ulivi, Fra Dante e Michelangelo: la sintesi di Luca Signorelli (pp. 105-109). 8

Si veda come approfondimento al problema dei riferimenti storici alle origini della rappresentazione di Orvieto: A. Chastel, L’Apocalypse en 1500. La fresque de l’Antéchrist a la chapelle Saint Brice d’Orvieto. “Humanisme et Renaissance”, XI, 1952, pp. 124-140. 9

P. Scarpellini, L’ispirazione dantesca negli affreschi del Signorelli a Orvieto, cit., p. 95. Molto interessante, nell’ambito del confronto con Salò, è anche l’analisi di Luther Link sul ciclo orvietano, inserito nel suo studio sul demoniaco nell’arte che recuperiamo: “Mentre i primi dipinti di lascivi nudi femminili all’Inferno potrebbero avere avuto un fascino erotico latente, le posture delle donne di Signorelli sarebbero adatte all’odierno mercato di illustrazioni di feticci sadomasochistici. Diavoli solo in apparenza, i suoi uomini di mezza età slanciati e vigorosi fanno soffrire belle donne legate e indifese, in genere passive e disponibili [...] Se si volesse dare una concisa descrizione dell’opera, si potrebbe parlare di esibizionismo anatomico macerato insieme a omoerotismo e sadismo sessuale”. L. Link, Il diavolo nell’arte. Una maschera senza volto. Milano, Bruno Mondadori, 2001, p. 181.

10

Bibliografia essenziale Signorelli e Dante. A cura di Corrado Gizzi. Milano, Electa, 1991. Della Casa, Ettore, “Il senso della Morte e l’Amore della Vita” nel periodo orvietano di Luca Signorelli (1499-1504). Orvieto, Marsili, 1994. La Cappella nova o di San Brizio. A cura di Giusi Testa. Milano, Rizzoli, 1996.

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Vermeer Una piccola ma doverosa inclusione riguarda anche il fiammingo Jan Vermeer, a seguire una suggestiva segnalazione sempre presente nell’analisi di Federica De Paolis. Vengono isolate due opere molto significative e a loro modo riassuntive del lavoro pittorico vermeeriano: la prima è la Ragazza che legge una lettera davanti a una finestra (1654 ca) che si può mettere giustamente in relazione alla sequenza situata nel camerino della Maggi/De Giorgi (Seq.17.3), precedente la prima narrazione della maitresse, che guarda fuori dalla finestra, inondata dalla luce naturale esterna che ne definisce così la silhouette in maniera nitida e precisa, ritagliandola perfettamente nei principi luministici del fiammingo, avversatore degli artifici del chiaroscuro e anzi difensore di una luce per l’appunto naturale, così “dura” e “cruda” (come la definisce Erik Larsen in proporzione alla Veduta di Delft) da risultare talvolta fastidiosa ed esagerata, ma anche imitatrice completa della “immacolatezza del plein air”. Complementare alla luce, il cromatismo in Vermeer è assimilabile al tonalismo complessivamente tenue di Salò: “Jan Vermeer si distingue perché predilige gli azzurri e i gialli, colori complementari, che fa risaltare accostandoli al rosso e al nero. Probabilmente la preferenza per questa combinazione cromatica deriva dai suoi contemporanei della scuola di Utrecht, o anche da legami con l’Asia, [...]” 1.

Il secondo collegamento tra Vermeer e Salò si stabilisce invece nel celebre Astronomo (1668 ca), da vedersi replicato nella sequenza che da inizio alla visione delle torture (Seq.28), con Blangis/Bonacelli seduto sul trono di fronte alla finestra sovrastante il cortile, a sua volta inondato di luce come la Maggi/De Giorgi della sequenza precedentemente analizzata. Accostamento che configura anche un curioso binomio nell’ironico divaricarsi delle analisi interpretative delle due “opere”. Si dice infatti dell’Astronomo: “Quest’ultimo dipinto presenta, sulla parete posteriore, un quadro che rappresenta la scena di Mosé salvato dalle acque; ciò è stato interpretato come un richiamo al consiglio della provvidenza divina, alla quale l’astronomo si rivolgerebbe per avere una guida spirituale”2.

Di tono diametralmente opposto sarebbe qualsiasi interpretazione del contesto in cui è posto il Potente sadiano di Salò, mentre è lecito delineare un paralle205

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lo compositivo con lo sfondo della parete posteriore di questa sequenza, che espone un’ulteriore opera d’ispirazione avanguardista, ovvero una copia, a sigillo dell’implacata volontà dei quattro Signori a eleggere una pittura “degenerata” come loro viatico perverso 3. Invece, una pertinentissima coincidenza tra Vermeer e Pasolini sta nelle componenti di immobilità, silenzio, concentrazione spirituale e addirittura “disumanizzazione” che la critica rintraccia da sempre nella pittura del fiammingo: “nessuno dei soggetti dell’artista rappresenta un’affermazione individuale, bensì, nel modo più esplicito, una generalizzazione, del tutto spogliata da rappresentazioni dell’umore o del sentimento. [...] Il distacco, la monumentalità di questi soggetti , sono del tutto estranei alla norma dell’epoca, [...] l’impostazione psicologica dell’artista nel modo di presentare le figure rappresenta un rovesciamento totale dell’atteggiamento consueto occidentale, ossia di affermazione di sé. Le figure di Vermeer spiccano per la loro spersonalizzazione, che si può riassumere come monumentalità, immobilità e assenza di espressioni” 4.

C’è un’incontestabile equivalenza di temperatura emotiva e spirituale tra le figure di Pasolini - vittime ma, si badi bene, anche carnefici - e quelle di Vermeer, distanziate in maniera incalcolabile soltanto dalla sostanza morale delle loro azioni. Ma quanto a gelido distacco “spirituale” e a ”monumentalità” sono come minimo postille all’interminabile discorso quattrocentesco pasoliniano in cui, come diceva ancora la De Paolis, “i corpi sono “trattati” come colonne, templi, absidi”.

Note 1

E. Larsen, Vermeer. Catalogo ragionato. Firenze, Octavo, 1996, p. 7.

2

Ibidem, catalogo, n. 21, p. 107.

È interessante segnalare come la fioritura delle scienze e della meccanica nell’Olanda cinquecentesca avesse portato alla confluenza della pittura con tecniche d’avanguardia nella resa della veduta prospettica, coadiuvata da lenti e specchi particolari (utilizzati tra gli altri anche da Albrecht Durer), nonché dal telescopio, oggetto moderno che fa la sua comparsa anche nel citato epilogo di Salò in cui è inserito il riferimento dell’Astronomo; la somiglianza vermeeriana della scena potrebbe così ricollocarsi in un’intenzione pasoliniana forse più maliziosa di quel che si potrebbe pensare, incanalata in un riferimento iconografico che diventa citazione anche scientifica. Lo stesso Pasolini viene spesso ritratto e fotografato sul set del cortile a 3

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riprendere la scena dietro griglie a distanza ravvicinata che restituiscono l’illusione della recinzione del cortile come osservata da una distanza “da cannocchiale”: una citazione pittorica che diventerebbe così un accostamento artistico (magari “eretico”) Pasolini-Vermeer. Cfr. in Ibidem, pp. 15-16. 4

E. Larsen, Vermeer. Catalogo ragionato, cit., pp. 17-18.

Bibliografia essenziale E. Larsen, Vermeer. Catalogo ragionato. Firenze, Octavo, 1996.

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Art-déco e Liberty La traccia lasciata dalle correnti Liberty e Art-déco in Salò si può definire importante se considerata però come un dato che attraversa tanto la caratterizzazione decorativa degli interni quanto il resto. I riferimenti Liberty e Art-déco in Salò formano in ogni caso una questione principalmente decorativa: che chiama in causa, ad esempio, nomi celebri dell’architettura d’interni quali Marcello Piacentini, si veda il modello ideale del Tavolo/mobile (1927-’28) nei camerini delle narratrici (ad es., Seq.17.1 e ss.), quanto nella sala riunioni alla modifica del Regolamento (Seq.18.1 e ss.). Ma in merito al déco “povero” di Salò se ne deve rintracciare, inevitabilmente, la sintesi artistica, vicina per principio imitativo alle copie avanguardiste che tappezzano gli stessi spazi del film e che identificano eminentemente gli appartamenti dei Potenti o delle narratrici. ‘Povero’ dunque in questo senso, perché, dentro alla intrinseca ricostruzione cinematografica, si denuncia conseguentemente come materiale (artistico anch’esso) più vicino ad un’ambizione di sfarzosità piccolo-borghese che alla grandeur reale del déco parigino, ad esempio, che detta le linee del gusto e dello stile di quell’epoca a partire della Exposition des arts décoratifs varata a Parigi nel 1925. Non dimentichiamo che il déco e il Liberty influenzano, già dagli anni Venti, anche il cinema, quello hollywoodiano della “sophisticated comedy”, ad esempio, che potrebbe essere accostato alla versione italiana (più kitsch e povera anch’essa) dei “telefoni bianchi”, a cui le maitresse di Salò rimandano come modello figurativo. In analogia al discorso sull’avanguardia figurativa, inoltre, anche qui si può rivolgere la questione artistica ai problemi che sollevava Léger nei suoi scritti degli anni Venti - e si rimanda a quello che Duilio Morosini diceva dello “sterilizzato stand di arredamento” e della “immaginaria mostra del design” 1 - trovando nei risvolti dei progetti architettonici d’interni déco la prefigurazione concreta di logiche industriali che sempre Léger individuava nella preoccupante “arte della esibizione” degli oggetti fabbricati 2, sfaccettatura del volgare investimento economico-commerciale dell’opera d’arte che fa la felicità dai quattro Potenti borghesi di Salò: “[...] riconsiderare l’Art Déco in una nuova prospettiva, e tuttavia senza ancora cogliere appieno, sembra di poter affermare, le plurime, complesse valenze dell’Exposition del 1925. Qui infatti, se è facile riconoscere esiti di gusto e produttivi ancora ampiamente influenzati dalle tematiche proprie del

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Gesamtkunstwerk, sono però largamente rintracciabili anche soluzioni, proposte e objets che si collocano nell’ambito di logiche industriali e di mercato - e basti pensare alle significative presenze di strutture commerciali come le Galeries Lafayette o i grandi magazzini Au Printemps - di orientamento affatto diverso. La difficoltà di una corretta ricognizione storica [...] nel rileggere nella appropriata chiave epocale le reincarnazioni della dicotomia bello/utile [...]” 3.

La rincorsa all’individuazione dei modelli artistici degli interni composti da sedie e poltroncine stilizzate e avvolgenti va dal Deutscher Werkbund al Bauhaus fino ai lavori di E. Bagge (Bibliothèque des Arts decoratifs, Parigi) e di Paul Feyer (i paraventi in ferro battuto), ma un riferimento maiuscolo va all’opera decorativa di Jacques-Emile Ruhlmann 4: esempi di un riecheggiamento (meno fastoso, si badi) di questo autore si ritrovano nelle poltrone e scrivania dell’ufficio del “matrimonio delle figlie” (Seq.3) e nella stanza della narratrice Vaccari/Surgère (Seq.8). Una vera sintesi si può forse trovare nella camera da letto del Vescovo/Cataldi, esaminabile dalla sequenza dell’amplesso sessuale con il collaborazionista-chierichetto (Seq.25.1 e ss.) che espone un letto simile al Sun bed di Ruhlmann: molti bozzetti d’interni dello stesso autore risultano molto interessanti in quanto stabiliscono più di una connessione con questo ambiente. A seguire quello che si anticipava all’inizio del capitolo, si possono segnalare anche due contributi déco di ambito figurativo e scultoreo: nell’Incroyable di Mario Cavaglieri (1914) un richiamo forte alla Maggi/De Giorgi che guarda fuori dalla finestra (Seq.17.3), mentre di Napoleone Martinuzzi si può recuperare la Josephine Baker del 1928 (vetro pulegoso verde, opera dispersa), “imitata” nelle movenze della Vaccari/Surgère nel ballo inscenato insieme alla pianista Saviange (Seq.24). Il Liberty in Salò infine si esprime ancora nella presenza decorativa-simbolica del giglio nella sequenza del “1° matrimonio blasfemo” (Seq.12), con il seguito dei ‘valletti’ e delle ‘damigelle’ completamente nudi, recanti ciascuno in mano il fiore che assolve la sua funzione di presenza allegorica ricca e forte che, come osserva Erminia Passannanti in un’interessante interpretazione “individua la bellezza nella perfezione verginale, mettendo in rilievo per analogia l’ingenuità e semplicità comportamentale dei prigionieri. Il giglio in questi spazi allude inoltre alla Camera del Giglio nel Palazzo del Vittoriale, la biblioteca privata dove Gabriele D’Annunzio era solito intrattenersi a leggere e a meditare. [...] Per i prigionieri, l’essere cresimati dal Duca sancisce l’avvenuta privazione d’ogni possibilità di salvezza - perdita che incombe in modo particolare nelle scene

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dove il giglio conferma la deflorazione violenta dei ragazzi. Nell’aspetto semantico del giglio si coglie, infine, il nesso tragico tra la chiarezza del messaggio dell’artista ai giovani e la corruzione dell’oligarchia fascista, che li oltraggia e molesta, come nel presente continua a fare la società capitalistica ai danni dei giovani inconsapevoli” 5.

Note 1

Cfr. Infra, p. 126 e p. 130, n 38.

2 All’interno di questo discorso si colloca anche il preciso lavoro scenografico condotto da Pasolini e da Ferretti; in particolare è interessante ricondurre l’aspetto tecnico minimale degli oggetti d’arredamento alle idee di Pasolini in merito alla connessione tra scomparsa dell’arcaico mondo artigianale e attualità dell’”ordine orrendo” consumistico-borghese: “In questi giorni sto girando una scena in cui delle signorine borghesi prendono il té. [...] Il mio scenografo Dante Ferretti [...] aveva procurato per la scena un servizio molto prezioso. Erano tazzine color giallo uovo chiaro, con delle macchie a rilievo bianche. Legate all’universo della Bauhaus e dei bunker, esse erano angosciose. Non potevo guardarle senza provare una fitta al cuore, seguita da un profondo malessere. Tuttavia quelle tazzine avevano in sé una misteriosa qualità [...] La loro misteriosa qualità era quella dell’artigianato. Fino al Cinquanta, fino ai primi anni Sessanta è stato così. [...] Il salto tra il mondo consumistico e il mondo paleoindustriale è ancora più profondo e totale che il salto tra il mondo paleoindustriale e il mondo preindustriale. Quest’ultimo, infatti, è stato superato definitivamente - abolito, distrutto - soltanto oggi. Fino a oggi è stato esso a fornire i modelli umani e i valori alla borghesia paleoindustriale: anche se essa li mistificava, li falsificava e li rendeva talvolta orrendi (com’è successo col fascismo e in genere con tutti i poteri clerico-fascisti). [...] quei modelli umani e quei valori antichi non son serviti più al potere: e perché? Perché è cambiato quantitativamente il modo di produzione delle cose”. PPP, Siamo due estranei: lo dicono le tazze da té, in: Id., Lettere luterane, cit., pp. 43-44 (24 aprile 1975).

G. D’Amato, Fortuna e immagini dell’art deco: Parigi 1925. Roma-Bari, Laterza, 1991, p. XI. 3

Ruhlmann, nel 1929, cura anche la decorazione dell’ufficio di M. Haardt negli stabilimenti Citroen, stanza “dominata dall’audace dipinto meccanicista di Choukaieff”, cfr. P. Bayer, Interni art deco: i classici dell’arredamento e del design degli anni Venti e Trenta. Milano, Rizzoli, c1991, p. 70.

4

5

E. Passannanti, Il corpo & il potere, cit., pp. 57-58.

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Bibliografia essenziale Bayer, Patricia, Interni art deco: i classici dell’arredamento e del design degli anni Venti e Trenta. Milano, Rizzoli, c1991. D’Amato, Gabriella, Fortuna e immagini dell’art deco: Parigi 1925. Roma-Bari, Laterza, 1991. Ruhlmann, une génie de l’Art-deco. Boulogne, Musée des années 30, 2001. Benzi, Fabio, Liberty e Deco: mezzo secolo di stile italiano (1890-1940). Milano, F. Motta, 2007. Duncan, Alastair, Déco: mobili, decorazioni d’interni, design, pittura, grafica, scultura, arti applicate, gioielli. Milano, Electa, 2009.

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Arte bizantina Un’idea della composizione scenica delle figure (singoli o gruppi) rivolta alla ieraticità e alla solennità può comprendere, come ipotesi di riferimento iconografico plausibile, anche l’arte figurativa bizantina. A tal proposito, a rafforzare la validità di questo inserimento, è importante la sottolineatura che faceva Otto Demus riguardo all’importanza fondamentale dell’influsso bizantino nella linea evolutiva della pittura occidentale moderna (vedendola nella direttrice che porta “da Masaccio a Cezanne”), ricordando ad esempio che “l’influenza umanizzante della pittura bizantina nell’arte del Duecento italiano si manifesta in maniera forse più impressionante nel cambiamento a cui furono sottoposti i vari tipi di volti nell’ultimo terzo del secolo”. La questione espressiva è sicuramente fondamentale all’atto del confronto con Salò, ma è forse utile anteporle quella della composizione d’insieme delle masse e delle figure, a cui è unita la problematica del colore. Vediamo come Demus ne riassume i tratti caratteristici: “Nell’arte bizantina le forme sono diventate divisibili e questa divisibilità è forse una delle loro principali caratteristiche e, dal punto di vista dell’Occidente medievale, uno dei suoi attributi più utili. Questa caratteristica emerse prima nella tecnica e nel modellato, quando la gradazione continua o la tecnica ellenistica a macchie di colore fu soppiantata da un sistema a tre o quattro tonalità [...] un principio simile dominava la rappresentazione della figura umana, che veniva divisa nei suoi elementi, come se fosse ripartita e rimessa insieme come figurine, con le giunture articolate chiaramente e i movimenti resi in qualche modo meccanici ed enfatizzati. Il medesimo spirito di divisione e articolazione regolava la composizione bizantina: la disposizione è semplice, paratattica e quasi geometrica” 1.

Queste regole generali si riverberano in molta della frontalità di certe composizioni di Salò, relative principalmente a momenti in cui viene espletata la funzione cerimoniale del rito. Allora, in questo ambito, si possono enumerare le sequenze della “1a narrazione Vaccari”, del “1o matrimonio blasfemo” e della “selezione finale”: qui la frontalità regge la costruzione figurativa e sigilla anche il principio del Potere che regola lo scambio (rituale) della sacralità con l’umiliazione e la turpitudine. Un modello da utilizzare come paradigma si potrebbe rintracciare nel mosaico dell’Imperatore Giustiniano e i suoi dignitari in San Vitale (Ravenna) 2, valido a raffrontare sia le posture sia l’espressione dei volti alle scene di Salò: i caratteri dell’arte bizantina che sempre Demus recuperava, indicandoli anche come 212

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punti deboli e allo stesso tempo modelli per l’artista occidentale, ovvero “la sua aridità retorica, la sua mancanza di empatia e senso dell’umorismo” funzionano perfettamente nel sistema-Salò; tanto l’articolazione “geometrica” e “paratattica” della composizione e la meccanicità rigida dei gesti - che si citavano prima quanto la severa e apatica caratterizzazione espressiva si ritrovano nei corpi e nei volti dei quatto Potenti. In parte nella prima narrazione (Seq.8.12 e .14) e in maniera marcata nella cerimonia del “matrimonio blasfemo” (Seq.12, ma anche nel matrimonio multiplo, Seq.24b.1 e .5-6) e nella selezione finale (Seq.26.8), in cui si definisce anche un connubio cromatico svolto sui toni bruni degli abiti dei Signori affine all’opera che si è utilizzata come riferimento. Mentre la discussione sui Potenti di Salò chiama in causa il concetto ieratico di Potere, confermato nella loro rappresentazione, il passaggio all’esame dell’iconografia dei prigionieri permette di interrogarsi in maniera più pienamente tematica proprio sul concetto della sacralità, sullo ίερός (sacro) che sta non solo al cuore etimologico della solennità strumentalizzata dal Potere come puntello alla credibilità della sua auto-rappresentazione, ma è soprattutto il più scottante problema dell’opera pasoliniana finale, incluso Salò, suo punto estremo, e che si ritrova dunque nella “funzionalità sacrale dell’arte bizantina” 3. La scomparsa del sacro (ίερός) per Pasolini passa attraverso l’abnormità dell’αἰσχρός (turpe) e di un’umiliazione totale dei corpi. Si ritorna allora alla “comunione dei cani” (Seq.15.2 e ss.) con il gruppo compatto dei corpi ammucchiati costretti a strisciare in ginocchio che può ricordare la nutrita iconografia dei Quaranta martiri di Sebaste 4. E un ultimo accenno deve essere indirizzato alla definizione espressiva anche qui - che imita la precisione bizantina: se il gruppo delle vittime inginocchiate della sequenza appena citata ricorda anche, nella postura delle teste volte verso l’alto (verso i Signori), il Giacomo Monaco delle Omelie, Discesa agli inferi (miniatura su pergamena) 5, la precisazione sentimentale di certi sguardi trova in un esempio più tardo (seconda metà del XII secolo) la sua cifra, ovvero in un Compianto sul Cristo morto degli affreschi della chiesa di San Panteleimon a Nerezi (1164) 6: questo ‘sentimentalismo’ potrebbe costituirsi come l’ultimo barlume di sacralità delle figure martirizzate di Salò. È questo un passaggio inoltre molto importante nella confluenza dei temi bizantini in quella pittura occidentale che interessa anche noi e che Otto Demus riassume così: “Per la crescita dello stile in Occidente la caratteristica più importante non era quella dei movimenti esasperati ma la nuova profondità di sensazioni espressa

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negli atteggiamenti e nei volti delle figure. Nell’ambito dell’espressione era maggiore la profondità lirica e l’intensità del sentimento della chiassosa e tumultuosa manifestazione di emozioni forti che contribuì a formare il nuovo ideale dell’uomo gotico. Qui si trovano le radici del dolce stil novo che umanizzò l’arte occidentale” 7.

Note O. Demus, L’arte bizantina e l’Occidente. A cura e presentazione di F. Crivello. Torino, Einaudi, 2008, pp. 13, 15. 1

2

Cfr. in Ibidem, fig. n. 143, p. 147.

Cfr. C. Charalampidis, I messaggi dell’iconografia bizantina nell’Europa cristiana contemporanea. http://www.ortodoxia.it/Iconografia%20Bizantina.htm 3

Dice Conti Calabrese: “L’eloquenza di questo film, [...] animante una brutalità e una crudeltà angosciosa e priva di senso, è la definitiva rinuncia dell’uomo alla ricerca del sacro nell’assoluta dimenticanza della sua perdita. Chiuso alla dimensione del sacro l’uomo viene catturato in una spirale infernale in cui è trascinato da un’attività strumentale [...] E appare scatenato in un’orgia sacrificale che, ignorando ogni confine rituale, non è più compiuta al fine di mantenere la relazione sacrale tra sé e il sacro, ma arriva invece al parossismo dell’olocausto”. G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro, cit., pp. 24-25. 4

5

O. Demus, L’arte bizantina e l’Occidente, cit., fig. n. 10, p. 13.

6

Ibidem, fig. n. 194, p. 190.

7

Ibidem, pp. 191-192.

Bibliografia essenziale Demus, Otto, L’arte bizantina e l’Occidente. A cura e presentazione di Fabrizio Crivello; traduzione di Maria Virdis. Torino, Einaudi, 2008.

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Appendice. due tavole fuori testo

Oggetto di un’analisi separata, si ritrovano in Salò due presenze figurative enigmatiche e non classificabili all’interno delle ‘categorie’ precedenti (Autori, Correnti). Sono rintracciabili entrambe all’interno della Seq.25b, corrispondente alla scoperta dell’amplesso del collaborazionista Ezio con la serva di colore, successivo alla catena di delazioni. La prima suggestione, la meglio decifrabile, investe il gesto di Ezio con il pugno alzato 1 (seq.25b.1), motivo di sbigottimento per i quattro Signori fascisti che non tardano ad ucciderlo: il corpo nudo di Ezio in piedi contro la parete della stanza si staglia come un volume compatto che trova in particolare nel braccio levato una tonalità profonda che lo fa sembrare quasi tridimensionale e in rilievo rispetto al resto del “quadro”: è, sinteticamente, definito in uno spessore da icona, tanto più perfetta quanto illusoria e falsa. Non è peregrino il contatto con gli stilemi del Realismo Socialista pittorico degli anni Trenta-Quaranta, per quel che riguarda l’ostentazione (ideologica) della perfezione compositiva e, tematicamente, anche per quel “culto del falso” di cui diceva Nietzsche e che utilizza “connotazioni simulatorie dell’apollineo” 2. In fondo, la falsità e l’illusorietà di questa icona estemporanea lascia non casualmente stupefatti i quattro sadiani (fascisti, ricordiamolo) poiché si denuncia quasi un fantasma ideologico e teorico, reliquia segnica di un’idea (ideale) irrealizzabile e consequenzialmente cancellata con la sua uccisione. Immediatamente successiva arriva anche l’uccisione della serva di colore per mano di Blangis/Bonacelli che le spara alla testa (Seq.25b.5) coprendo con la sua massa il momento dell’esecuzione, ironico e tardivo gesto di pietà che occulta la rappresentazione del tragico come nel teatro antico. L’immagine risultante è lontana dalla crudezza che ci si aspetterebbe e anzi voltata in una dolcezza armoniosa che trova il suo andamento espressivo-lineare nella morbida curva del braccio rilasciato a terra e nella postura allungata e distesa del corpo longilineo. È una gestualità che attrae per la sua allusività concettuale, da mettere in collegamento con due ipotesi azzardate: la prima si ritrova nella scultura ottocentesca e al livello di un archetipo ben inseribile simbolicamente nel quadro della situazione, ovvero La fiducia in Dio (1835) di Lorenzo Bartolini (conservata al Museo Poldi Pezzoli di Milano), raffigurante una similare morbidezza nell’abbandono delle braccia lungo il corpo (ma in posizione seduta) che richiama principalmente un’idea di sacralità che in ogni caso risiede nelle intenzioni pasoliniane. 215

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In secondo luogo, non è aggirabile il richiamo all’esotismo intrinseco alla figura, che potrebbe invitare a guardare alla pittura di Gauguin e alla ‘maniera’ dei nudi delle sue fanciulle tahitiane, richiamando anche i suoi interessi sulla religione naturale e la spiritualità. Questo richiamo applicato a Pasolini potrebbe invece tramutarsi nel tema del Mito intrecciato alla speranza che faceva capolino da un versetto conclusivo de La religione del mio tempo (“Africa! Unica mia | alternativa ...”) 3: “[...] la riproposta, attraverso il mito, di una radicale “diversità”, di un’opposizione irrazionale e inesausta al mondo borghese e tecnologico, con la sua razionalità alienante e distruttiva. [...] paesaggio simbolico di un “terzo mondo” indeterminato nello spazio e nel tempo ma riconoscibile, di volta in volta, nelle sue apparenze e reincarnazioni” 4.

Note Erminia Passannanti segnala che il gesto di Ezio “allude alla brigata di partigiani “Stella Rossa”, costituitasi nel novembre del 1943 nella città di Vado per combattere contro l’esercito nazista occupante”. Cfr. E. Passannanti, Il corpo & il potere, cit., p. 86. 1

2 Il Realismo Socialista “aveva a che fare con la trasformazione dell’illusione da un concetto puramente visuale ad “una volontà estetica di falsificazione” che è radicata nell’ossessione dei fondatori del Realismo Socialista per la creazione dei miti e quindi, indirettamente, con l’idea nietzschiana secondo la quale “l’Arte non è un veicolo di verità, ma di illusione che deve collegare il ‘desiderio d’arte’ al desiderio di mentire, dirigersi dalla verità’ alla negazione della ‘verità’”. Cfr. M. Tupitsyn, Arte sovietica contemporanea. Dal Realismo socialista ad oggi. Milano, Politi, 1990, p. 15.

3

PPP, Frammento alla morte, in: Id., La religione del mio tempo, cit., p. 169.

4

A. Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 110.

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conclusione. Pasolini, Longhi e Bacon

“Le immagini di mattatoi e di carne macellata mi hanno sempre molto colpito. Mi sembrano direttamente legate alla Crocifissione [...] Che altro siamo se non potenziali carcasse?” Francis Bacon 1

Le ipotesi comparative che hanno interessato il presente saggio non possono non fronteggiare anche la questione iconografica della morte di Pasolini. Ovvero la triste tragicità del fatto che l’esibizione funebre del suo corpo sia divenuta a sua volta, nelle forme della diffusione e della ripetizione, un’icona: ed allo stesso modo si può proseguire sul confronto, che in questo caso si ritrova consequenzialmente in un autore moderno e contemporaneo del poeta. In Francis Bacon, di cui potremmo rintracciare tardivamente un modello per Salò nelle deformazioni urlanti di alcuni suoi Portraits (in particolare lo Study after Velazquez’s portrait of Pope Innocent X, 1953), ritroviamo un’analogia toccante tra una sua Lying figure del 1959 raffigurante un corpo disteso in posizione contorta e rivolta a terra, vestito solo di una canotta bianca e le prime immagini del ritrovamento del corpo di Pasolini la mattina del 2 novembre 1975. La conclusione più curiosa e coerente potrebbe essere invece quella che riallaccia sentimentalmente il Pasolini pasionario della pittura con il maestro di una vita, Roberto Longhi: semplicemente stralciando dai Fatti di Masolino e Masaccio un giudizio del critico su Masaccio (l’altro amore pasoliniano connesso a Longhi) e sostituendo il nome del pittore quattrocentesco con quello del poeta che ne emulava la “sacralità della tecnica”: “Tale, in breve, il messaggio incompiuto dell’arte di Masaccio. Quello suo modo di rilievo vitale, quasi una rivelazione del segreto dell’esistenza terrena in una fisica nobilitata dall’azione, dovè certo riempire i contemporanei di una meraviglia pari a quella che gli spiriti del Purgatorio dantesco provano nell’accorgersi che Dante é “vivo” perché “getta ombra”. Ed anche a noi, oggi, ad ogni nuovo incontro con l’arte di Masaccio, vien fatto di usare il tratto dantesco: “Colui non par corpo fittizio”. Da questa radice di certezza esistenziale che non s’insabbia in

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angoscia ma sbocca in azione perenne, procede il mondo rilevato di Masaccio, il suo dramma portato da uomini decisi a risolverlo: e rimane come una delle più alte testimonianze dello spirito umano nell’arte d’Italia” 2.

Note F. Bacon, La brutalità delle cose. Conversazioni con David Sylvester. Traduzione dall’inglese di Nadia Fusini. Roma, Fondo Pier Paolo Pasolini, 1991, pp. 24, 38. 1

2

R. Longhi, Fatti di Masolino e Masaccio, cit., p. 70.

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Immagini

fig. 1: Regolamenti

fig. 2: Narrazione Vaccari

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fig. 3: Vittima sacrificale

fig. 4: Vittima sacrificale

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fig. 5: Matrimonio blasfemo

fig. 6: Matrimonio multiplo

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fig. 7: Matrimonio blasfemo

fig. 8: La riunione

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fig. 9: La comunione dei cani

fig. 10: Narrazione Maggi

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fig. 11: Narrazione Maggi

fig. 12: Narrazione Maggi

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fig. 13: Narrazione Maggi

fig. 14: Ispezione

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fig. 15: Rito del travestimento

fig. 16: L’amplesso

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fig. 17: Ezio e la serva

fig. 18: Racconto Castelli

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fig. 19: Osservazione Duca

fig. 20: La balconata

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Andrea Mantegna, Camera degli sposi (1465-1474)

L'imperatore Giustiniano e i suoi dignitari (547 a. C.)

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Antonio Donghi, La sposa (1926)

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Antonio Donghi, Il giocoliere (1936)

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Cagnaccio di San Pietro, La sorgente (1935)

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Giorgione, Concerto (o Sansone deriso) (1510 ca.)

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Jan Vermeer, Ragazza che legge una lettera davanti a una finestra (1654)

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Lorenzo Bartolini, La fiducia in Dio (1835)

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Lorenzo Bartolini, La fiducia in Dio (1835)

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