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Italian Pages 160 Year 2022
Quodlibet Studio Filosofia del linguaggio
Parole cattive La libertà di espressione tra linguaggio, diritto e filosofia A cura di Salvatore Di Piazza e Alessandro Spena
Quodlibet
Prima edizione: novembre 2022 © 2022 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 – Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di nw srl presso lo stabilimento di Legodigit srl, Lavis (tn) isbn 978-88-229-0826-1 | e-ISBN 978-88-229-1364-7 Quodlibet Studio. Filosofia del linguaggio Collana diretta da Marco Mazzeo (Università della Calabria) Comitato scientifico: Marco Carapezza (Università di Palermo), Felice Cimatti (Università della Calabria), Emmanuelle Danblon (Université libre de Bruxelles), Marina De Palo (Sapienza Università di Roma), Francesco Ferretti (Università di Roma Tre), Stefano Gensini (Sapienza Università di Roma), Elisabetta Gola (Università di Cagliari), Marco Mazzone (Università di Catania), Claudio Paolucci (Università di Bologna), Antonino Pennisi (Università di Messina), Pietro Perconti (Università di Messina), Luigi Perissinotto (Università Ca’ Foscari di Venezia), Francesca Piazza (Università di Palermo), Mauro Serra (Università di Salerno). Volume pubblicato con il contributo del Progetto Prin 2017 “Designing effective policies for Politically Correct: A rhetorical/pragmatic model of total speech situation” - Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università degli Studi di Palermo.
Indice
Salvatore Di Piazza, Alessandro Spena 7 Introduzione i. Parresia Emmanuelle Danblon, Lucie Donckier de Donceel 13 Espressione della parresia in una strategia cospirazionista.
Il caso del processo del Museo ebraico in Belgio
Marco Brigaglia 23 Ragioni mostruose. Commento a Danblon e Donckier Mauro Serra 31 Del buon uso della parresia
ii. Verità Giorgio Maniaci 41 Per una democrazia liberale interventista Marco Mazzeo 55 Trinità percentuali. Tecnoscienze, linguaggio ed economia Aldo Schiavello 61 Una ragionevole apologia di John Stuart Mill Felice Cimatti 69 Libertà di espressione e ricerca del capro espiatorio Franco Lo Piparo 77 Verità, violenza e dignità di ciascuna persona
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indice
iii. Riso Salvatore Di Piazza 87 Risus abundat? Al confine tra libertà di espressione e vio-
lenza verbale Clelia Bartoli 99 In dialogo su libertà di espressione, riso e violenza 107
Sebastiano Vecchio
Quale riso per quale parresia?
iv. Odio Alessandro Spena 115 La dimensione pubblica del discorso d’odio Francesca Piazza 129 Strategie di disarmo. Riflessioni sulla rivendicazione se-
mantica del discorso d’odio Alessandro Tesauro 137 Punire la propaganda razzista? Backstage Gigi Spina 147 Tersite al talk-show
Introduzione
Questo libro è la naturale prosecuzione di un ciclo di seminari dal titolo «Politicamente corretto e libertà di espressione» che ha visto coinvolti, alla fine del 2020, studiosi di linguaggio (filosofi del linguaggio e teorici della retorica) e studiosi di diritto (giusfilosofi e penalisti). L’idea che ha animato quegli incontri – e che si è poi riversata in questo volume – è che una indagine sul potere offensivo e violento della parola si giova in maniera significativa di un approccio effettivamente multidisciplinare, nel quale le competenze linguistiche si intrecciano con quelle giuridiche. Anzitutto – e in termini più generali – perché il diritto è (anche) linguaggio, e l’uso del linguaggio pone (anche) problemi giuridici: l’intreccio delle due prospettive, del resto, è saldo e ben radicato in un dialogo che ha avuto ampio corso già durante tutta la seconda metà del Novecento. Inoltre – e in termini più specifici – perché nel momento in cui ci si interroga sulla maniera in cui il linguaggio può esercitare forme di violenza, è opportuno – se non indispensabile – riflettere contestualmente da una prospettiva (anche) giuridica sulle possibili contromisure ad essa. Una delle contromisure più attuali e controverse con cui abbiamo quotidianamente a che fare è riconducibile a quel fenomeno variegato e frastagliato che prende il nome di «politicamente corretto», ovvero l’adozione di politiche che, in nome di una presunta «correttezza linguistica», evitino l’uso di parole cattive, espressioni offensive, denigratorie, ingiuriose, a favore di – ancora una volta presunte – parole buone, espressioni neutre. Le strategie del politicamente corretto pongono, però, una serie di problemi, teorici e pratici, di non poco conto. Per un verso, ci ob-
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introduzione
bligano a riflettere sulla natura del linguaggio e sullo specifico della violenza verbale: in che misura possono esistere parole o espressioni neutre? Qual è il confine tra violenza verbale e violenza fisica? In quali modi è possibile definire lo hate speech? Per un altro verso, il successo dell’ideologia (perché comunque anche di un’ideologia si tratta) del politicamente corretto ci costringe a problematizzare la questione della libertà di parola: fino a che punto una limitazione dello hate speech, o più in generale del discorso politicamente scorretto, è compatibile con il principio, enunciato ad esempio nell’art. 21 della Costituzione italiana, secondo il quale ciascuno ha diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero? È lecito, per uno stato che professi ossequio alle libertà della persona, giungere fino a criminalizzare l’uso del linguaggio, per il solo fatto che questo metta in discussione, anche se solo a parole, valori morali sovraindividuali, come quello della non discriminazione in ragione dell’etnia, della nazionalità, del genere? Come si vede, dunque, lo studioso del linguaggio e quello del diritto trovano un interessante luogo di intersezione teorica nello spazio compreso tra la possibilità di un esercizio della violenza verbale, da una parte, e la possibilità di una limitazione della libertà di espressione, dall’altra. I contributi qui di seguito raccolti delineano un percorso possibile attraverso questo spazio: un percorso nel quale il dialogo tra le due prospettive teoriche indicate prende la forma di un confronto su quattro nuclei tematici, che costituiscono l’oggetto di ciascuna delle quattro sezioni in cui il libro è suddiviso. Il primo (cui sono dedicati i contributi di Danblon e Donckier de Donceel, di Brigaglia e di Serra) è quello della parresia, del dir-vero, del dire le cose come stanno, senza vergogna o timore per le possibili conseguenze. Questo nucleo tematico è, tuttavia, sviluppato nella prospettiva peculiare del cospirazionista come parresiasta; prospettiva per molti versi paradossale perché in essa il dir-vero, il parlare sinceramente è messo al servizio di una costruzione paranoide del mondo e di quella che oggi è divenuto frequente chiamare postverità: un tipo di «discorso mostruoso», che si posiziona «tra due tipi di verità», che «sotto la copertura di una verità inscritta in un quadro che favorisce l’argomentazione, il logos, […] propone una verità che ha senso, una verità del tipo mythos», come racconto che ammalia; da cui la rivendicazione del cospirazionista del «suo diritto di parlare
introduzione
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secondo un doppio statuto, quello di esperto e quello di cittadino» (Danblon-Donckier de Donceel); con la peculiarità, però, che questa duplicità di statuto gli consente di evadere i limiti propri di ciascuno dei due: egli è l’esperto che può tuttavia parlare con la leggerezza, con l’infondatezza tipica del quisque de populo che fa discorsi da bar; e, d’altra parte, egli è anche il cittadino che può tuttavia accampare la pretesa di proferire cose vere, non opinioni qualsiasi. Il secondo nucleo tematico (al quale contribuiscono Maniaci, Mazzeo, Schiavello, Cimatti e Lo Piparo) costituisce un diretto sviluppo del primo: la figura del cospirazionista fa emergere il paradosso della libertà di espressione; egli pretende di parlare liberamente in nome di una verità, che, secondo quanto egli crede, altri non conoscono o temono di rivelare. Concependosi come parresiasta, il cospirazionista fonda la propria libertà di espressione sull’esigenza di dir-vero, sulla propria capacità di adempiere il compito di fare emergere il vero. Che ne è, allora, di questa libertà quando ciò che si dice non è vero o non è riconosciuto come tale dal sapere degli esperti? La libertà di espressione è anche libertà di dire cose false? Ciò pone lo spinosissimo problema del rapporto tra libertà di espressione, verità scientifica e democrazia: la libertà di espressione è, sotto molti punti di vista, consustanziale alla democrazia; ma lo è fino al punto da rendere libera anche la diffusione di assunti scientificamente falsi, la cui circolazione sia capace di inquinare significativamente lo stesso dibattito democratico? Il terzo e il quarto nucleo tematico spostano il fuoco su un altro possibile limite della libertà di espressione: non la falsità, ma la violenza verbale, l’uso del linguaggio come forma di violenza (ma si legga Lo Piparo, in chiusura della seconda sezione, per vedere quanto i due piani – del binomio vero/falso e della violenza – siano connessi). Il terzo, in particolare (con i testi di Di Piazza, Bartoli e Vecchio), affronta la violenza del riso. Un tema nel quale traspaiono, ancora una volta, paradossi. Primo paradosso: ridere è l’espressione emblematica della gioia, la quale, a sua volta, rimanda ad una dimensione emotiva pervasa di positività; gioia, paradigmaticamente, è godimento del bene. Eppure, il riso può anche dar forma alla più suprema negatività: disprezzo, Schadenfreude; ir-ridere, de-ridere sono forme di aggressione morale capaci di infliggere ferite morali devastanti. Secondo paradosso: il riso è connesso all’idea della leggerezza; ridere
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introduzione
delle cose brutte è un modo per cominciare ad alleggerirle, e così superarle. Ma è legittimo ridere di qualsiasi cosa brutta? O ci sono cose che non vanno alleggerite, né dunque superate, ma semmai rievocate costantemente in tutta la loro tragicità? Non si dà forse il caso che talora alleggerire una tragedia valga, paradossalmente, a renderla più pesante per chi l’ha sofferta, poiché la sminuisce e per questo priva la vittima dell’empatia di cui abbisogna? Infine, l’ultimo nucleo tematico (affidato a Spena, Piazza e Tesauro) declina la questione della violenza verbale nella sua dimensione non ludica, sinuosa e alleggerente, ma rancorosa ed esplicitamente aggressiva: lo hate speech. Questa è, forse, la forma più estrema e problematica di parola cattiva, quella che più mette alla prova la paziente sopportazione che la libertà di espressione per sua natura richiede. Il discorso d’odio è quanto di più brutale il linguaggio possa essere, espressione linguistica del rifiuto dell’altro come essere umano: uso del linguaggio volto a tracciare il confine comunitario Noi/ Loro in termini ontologicamente irrevocabili, come atto di espulsione dell’altro dalla vista delle cose accettabili. Come si reagisce a tanta brutalità? Reprimendo, e dunque limitando la libertà di parola (come ad es. suggerisce Gorgia nel talk-show diaculturale immaginato da Spina a chiusura del volume), ma col rischio di scivolare verso derive illiberali forse persino peggiori del male a cui si vorrebbe rimediare? Tollerando, ma col rischio di favorire per omissionem che società che si definiscono democratiche e liberali diventino ambienti ostili e repulsivi per intere categorie di soggetti? O tentando un disarmo di quella stessa brutalità, mediante strategie di riappropriazione del linguaggio d’odio, che, anziché eliminarlo, ne determinino una «diversa circolazione», orientata «a restituire ai membri del gruppo target il “controllo” sulle parole usate per colpirli» (Piazza)? Salvatore Di Piazza, Alessandro Spena
i. Parresia
Espressione della parresia in una strategia cospirazionista. Il caso del processo del Museo ebraico in Belgio Emmanuelle Danblon, Lucie Donckier de Donceel
Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri. Antonio Gramsci
1. Introduzione Questo contributo inizia con un’osservazione piuttosto inquietante. Viviamo in un’epoca in cui la proliferazione delle teorie del complotto per spiegare grande parte degli avvenimenti che segnano l’attualità è un fatto quasi quotidiano. E ciò ad un punto tale che i discorsi complottisti vengono presentati persino nei tribunali. Di fatto, questo studio si concentrerà su uno di questi discorsi1, che valuteremo in termini retorici (Danblon et al. 2021), mettendo a fuoco la nozione antica di parresia (Serra 2017). Nello specifico, l’approccio retorico, complementare all’approccio cognitivo, psicologico e storico-politico, ci permette di far luce sull’effetto persuasivo di questi discorsi e ci fornisce un primo passo verso l’elaborazione di un modello che possa affrontare l’idea di razionalità secondo un’ipotesi genealogica (Danblon 2013; trad. it. 2014). Secondo questo modello, quali che siano i diversi regimi di razionalità che si possono studiare, nella loro varietà storica o culturale, essi sono sempre situati in relazione a una norma che definisce il nostro ideale di razionalità (Danblon 2020, p. 1). Grosso modo, 1 Più specificamente, studieremo qui il caso del «processo Nemmouche» (Belgio, marzo 2019), dove la difesa è stata costruita su una linea complottista.
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emmanuelle danblon, lucie donckier de donceel
nel periodo arcaico, verità e razionalità si uniscono nella nozione di mythos (narrazione): la verità è ambigua e di tipo magico-religioso (Vernant [a cura di] 1974). È razionale e normale «credere nelle storie», cioè, riporre la nostra fiducia nei vari maestri di verità, come il poeta, il profeta e il re di giustizia. Nell’era moderna, il ragionamento (logos) prende il sopravvento sul mythos. Il criterio della razionalità diventa quello del ragionamento logico, che è sinonimo di oggettività (Detienne 1967)2. Se questo cambiamento di paradigma dà origine alle moderne istituzioni del diritto e della scienza, esso squalifica anche il nostro bisogno di verosimiglianza (il mythos): è irrazionale «credere alle storie» (Piazza e Di Piazza 2012). Infine, nell’epoca della post-modernità, la nozione di verità si adorna di relativismo: tutto è discorso e tutto è uguale (Danblon 2020). Oggi la situazione è più complessa. Siamo immersi in un’epistemologia che rivendica un’emancipazione rispetto all’assai «moderna» categoria di verità: ciò significa che l’esigenza di verità passa, in un certo senso, in secondo piano. (Ferraris 2017; Di Piazza, Piazza e Serra 2018; Lorusso 2018). E, come annunziato, una delle metamorfosi più visibili di questa epistemologia è proprio la proliferazione delle teorie del complotto3 (Danblon 2020). Tenendo in conto quest’idea di razionalità stratificata, poniamo qui la doppia ipotesi seguente. Da un lato, mythos e logos non sono mai veramente stati separati l’uno dall’altro, entrambi sono necessari e razionali (Ginzburg 2006). E, dall’altro lato, mentre i moderni e i postmoderni non hanno voluto riconoscere il bisogno razionale di mythos, esso riaffiora in un modo ibrido, «mostruoso» (Danblon 2001). In effetti, secondo Gramsci è nei periodi di sfocature «che nascono i mostri» e crediamo che il complottismo possa essere assimilato ad un paradigma che presenta una verità «mostruosa» ai nostri contemporanei. Una verità «mostruosa» perché rispondente al nostro bisogno di dare senso, al nostro bisogno di mythos, senza però assumerlo come tale, e soprattutto presentandolo come un discorso sul piano del logos. Per 2
Richiamiamo l'attenzione del lettore sul fatto che, da un lato, non esprimiamo nessun giudizio di valore su questi due regimi di razionalità e, dall'altro, segnaliamo anche che entrambi i regimi di razionalità considerano la realtà empirica dei fatti. 3 l sito internet di Conspiracywatch (a cura di Rudy Reichstadt) offre un panorama dello sviluppo quotidiano delle teorie del complotto (https://www.conspiracywatch.info/).
espressione della parresia in una strategia cospirazionista
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indagare quest’ipotesi, esploreremo la nozione di verità alla luce della proposta genealogica di Detienne (Detienne 1967), che dettaglieremo attraverso l’analisi retorica di un discorso complottista. Questo ci permetterà poi di concentrarci su una figura di particolare rilievo per il nostro studio: la figura del parresiasta. 2. Genealogia della verità: verità arcaica, verità moderna e verità «mostruosa» Il presupposto di partenza è quindi quello: il modo in cui i complottisti giocano sul piano della verità corrisponderebbe ad un recupero «mostruoso» della verità arcaica. «Mostruoso» perché non presunta come tale e perché si posiziona a cavallo tra una verità arcaica di stile magico-religioso e una verità moderna di stile dialogico. La verità arcaica, nel mondo greco, è una verità di tipo magicoreligioso, è una verità che si incarna in una parola efficace, cioè una parola che istituisce il reale. Questa verità, generalmente orale, accetta la contraddizione, la vaghezza e l’ambiguità. Incarnata in certe personalità tipiche, come il poeta, l’indovino o il re di giustizia, si basa sulla fiducia istituzionale (Dainville 2019). Questi tre «Maestri di verità», come li chiama Detienne, propongono una visione del mondo, una narrazione, che li trascende e che agisce come una verità sull’ordine del mondo (Detienne 1967, pp. 3-8). Questo tipo arcaico di verità cederà poi gradualmente il passo a una verità dialogica, che a sua volta porterà alla verità scientifica che conosciamo bene, inseparabile dalle idee di dimostrazione, verifica e prova (Detienne 1967, p. 3). La verità dialogica, nell’antica Grecia, è nata in parallelo con la nascita delle prime forme di democrazia. Prima i guerrieri come soggetti particolari (periodo miceneo) e poi i cittadini della città (riforma oplitica) si riuniscono in un’assemblea in cui si scambiano parole. Colui che viene al centro condivide una dichiarazione con gli altri: ciò che dice viene «messo insieme»4 e discusso da tutti. La verità e le decisioni ad essa relative sono portate da una persona a cui viene data temporaneamente la parola, una parola che è quindi in circolo 4
Riprendiamo qui l’espressione usata da Detienne, secondo il quale, nel modello antico della discussione nell’assemblea dei guerrieri, chi voleva prendere la parola doveva mettersi al centro dell’assemblea (Detienne 2003, p. 89).
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e in dialogo con quella degli altri membri dell’assemblea. In questo modello, ogni persona è in relazione reciproca con le altre e questo implica due cose: la nozione di pubblicità (un diritto alla trasparenza) e quella di comunità (un criterio di uguaglianza tra i cittadini). (Detienne 1967, pp. 81-103; Detienne e Rosanvallon 2003). Per capirci meglio e portare questo paradigma alla nostra epoca, crediamo che si possa paragonare la parola dei guerrieri, specialisti in un dominio particolare, alle parole degli esperti nei nostri giorni. Quindi, progressivamente, la parola dei guerrieri si è mutata nella parola degli esperti, una parola il cui criterio di verità è la falsificabilità e la discussione, e la parola dei cittadini della città è diventata la parola dei cittadini nel senso più ampio del termine, ognuno esprimendosi in istituzioni che gli sono proprie e ognuno potendo, nella sua qualità di esperto o di cittadino, pretendere che la sua parola sia ascoltata, sia discussa, sia «messa nel mezzo» (Detienne 2003)5. Tuttavia, queste aspirazioni perfettamente onorevoli sembrano essere, oggi, minate: siamo in un periodo di incertezza, un periodo in cui tutto è uguale o misto, o in cui tutti lottano per trovare il loro posto (Amossy, Koren 2020; Klein 2020). In questo senso, le teorie del complotto incarnano il volto «mostruoso» della post-verità. In effetti, se ci riferiamo alla genealogia di Detienne, sembrerebbe che i cospirazionisti si posizionino sia sul piano di una verità magico-religiosa, una verità mythos, sia sul piano di una verità argomentata, discussa, una verità logos. Da un lato, il complottista si presenta come esperto e come cittadino informato, rivendicando il suo diritto di parola e di trasparenza, si adorna dei beni della verità moderna (Danblon, Nicolas 2010). Così facendo, lui o lei fa parte di una dimensione dialogica della verità. Tuttavia, una volta che gli viene data la parola (o la prende tramite i social network (Quattrociocchi, Vicini 2018, p. 27), rifiuta il gioco della discussione e dell’argomentazione: la relazione reciproca tra i diversi membri dell’assemblea si annulla. Sembrerebbe quindi che egli presenti un discorso che è più vicino a una visione magico-religiosa della verità: pronuncia una parola che stabilisce il reale6 nel senso di Detienne, una parola efficace. 5 «Va notato che il discorso magico-religioso è intimamente legato all’ethos, mentre il discorso democratico, in teoria, ne è stato affrancato» (Detienne 2003). 6 Notiamo che il fatto che lo faccia in modo inconscio o meno è una questione di psicologia; gli effetti sul piano retorico e sul piano della persuasione sono gli stessi.
espressione della parresia in una strategia cospirazionista
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Quindi, sotto la copertura di una verità inscritta in un quadro che favorisce l’argomentazione, il logos, il complottista propone una verità che ha senso, una verità del tipo mythos. Se questa mescolanza di generi non viene assunta, questi discorsi si confondono, si mescolano e si intrecciano, ed è precisamente da questo «chiaroscuro» «che nascono i mostri». Questo posizionamento, tra due tipi di verità, è quello che possiamo osservare, ci sembra, nel seguente estratto di discorso. L’oratore, l’avvocato Courtoy, un avvocato belga, rivendica il suo diritto di parlare secondo un doppio statuto, quello di esperto e quello di cittadino. La pretesa di parlare come cittadino è accompagnata qui da una pretesa di libertà di espressione: deve poter dire ciò che pensa senza essere disturbato. Questa rivendicazione corrisponde precisamente a quella che nell’antichità era la parresia. La parresia è genericamente definita come il diritto di esprimere il proprio pensiero, di «parlare sinceramente», di «parlare con franchezza» senza paura di rappresaglie, ed è quindi un diritto del cittadino tipicamente moderno (Serra 2017). 3. Il caso del processo del Museo ebraico in Belgio Col caso del processo del Museo ebraico di Bruxelles, affrontiamo il tema dei primi attentati islamici sul territorio europeo. Più precisamente, l’attacco è avvenuto nel maggio 2014. Il principale sospettato e accusato era Mehdi Nemmouche, un giovane che appare nei filmati di sorveglianza attivi quel giorno. Durante il suo processo (gennaio 2019), il suo avvocato, Sébastien Courtoy, ha sostenuto che Mehdi Nemmouche non era in realtà il vero responsabile di questo attacco, ma un mero capro espiatorio in una vasta cospirazione che comprendeva, tra altri, il Mossad e alcune autorità belghe. Questa linea di difesa è quella che ritroviamo nell’estratto seguente: un discorso dell’avvocato della difesa davanti alle telecamere, all’uscita del tribunale. In questo breve discorso viene esposta una teoria del complotto che, crediamo, possiamo analizzare secondo la griglia presentata in precedenza: nell’ambito di un discorso centrato sulla verità (ricordiamo qui che il tribunale è l’istituzione per eccellenza responsabile per la verità in quanto conforme
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alla realtà dei fatti; Dulong s.d.), l’oratore ci propone una narrazione che istituisce una visione sul reale (mythos). Per identificare questa verità ibrida, individueremo vari criteri retorici. [esordio] Sì, ci sono ancora 3-4 ore di argomentazioni di replica. Come ho detto a un certo punto, purtroppo dobbiamo interrompere. Credo di aver discusso per quattro ore, non so, qualcosa del genere. Il tempo vola quando ci si diverte. [argomentazione] Stiamo mettendo tutti in fila: la loro storia farsesca sull’attacco islamico che sarebbe, così dicono, il risultato del fatto che volevano attaccare Bruxelles, per punire loro, il Belgio, per aver fatto parte della coalizione internazionale. Ho dimostrato che questa coalizione esisteva solo 3 mesi dopo, e che il Belgio ne faceva parte solo 6 mesi dopo. E tutte le teorie sulla non-rivoluzione dello Stato Islamico sono state fatte esplodere una dopo l’altra. [narrazione] Ve lo dico molto sinceramente, è un massacro per le parti civili, almeno per i loro avvocati […]. Lei dice che l’attacco è stato, in ogni caso probabile, commesso da un secondo uomo; ce lo può spiegare?7 […] No, lo spiegherò più tardi nell’arringa finale. Capisci, mi dispiace, sono molti più di due, lo sai. Ma lo spiegherò. Sono dappertutto, ci sono allarmi che si disattivano, le vedette pinco pallino, i ragazzi in quattroruote, Nemmouche che arriva dall’altra parte con il suo sacco a pelo, è una storia di merda. Lo sappiamo tutti! E poi, l’accusa non sta ridendo in questo momento. [perorazione] Quindi questo è tutto. Ma lo spiegheremo. Quindi state attenti, vi spiegheremo certe cose ma vogliamo anche restare vivi… ve lo dico io!
Se portiamo la nostra attenzione sull’esordio di questo discorso, e pure sulla parte di argomentazione, l’avvocato Courtoy si presenta come un esperto, un avvocato che argomenta a favore del suo cliente. La configurazione di questa prima parte del discorso si avvicina ad uno scambio argomentativo piuttosto simile ad una parola-dialogo, una concezione moderna della verità. Però, alla fine dell’argomentazione, la natura del discorso cambia, si lascia la possibilità di uno scambio argomentativo. In effetti, la frase che si riferisce al «massacro» indica una cesura nella discussione. Se si tratta di un «massacro», non c’è più bisogno di discutere: in queste condizioni, l’avvocato ha già vinto il processo. Questo primo indicatore rivela che la natura del discorso qui non è già più quella di una discussione. 7
La parte in corsivo fa riferimento alla domanda di una giornalista.
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Inoltre, ciò sembra essere ribadito quando l’oratore ci dice che le parti civili non ridono, non è più cauto, non sta più discutendo e ritiene che la causa sia già conclusa. Questa prima ipotesi sembra essere confermata nel resto del discorso. In effetti, osserviamo qui tutta una serie di marcatori retorici dell’ibrido che sono specifici dei discorsi di cospirazione (Danblon e Nicolas 2010), marcatori che ci permettono di avvicinare questa parte del discorso a una narrazione in cui la verità è presentata piuttosto in una forma magico-religiosa. Detto ciò, iniziamo ora l’esame delle tre prove retoriche (logos, ethos e pathos). 1) A livello di prova logica, l’avvocato Courtoy prima afferma che ci spiegherà tutto, per poi dire che non ci può spiegare niente. Osserviamo qui una prima contraddizione logica interna, modalità di ragionamento che si incontra spesso nei discorsi complottisti (Danblon e Nicolas 2010). Successivamente, troviamo anche certi indicatori di cospirazione in questa stessa parte: «sono molti più di due», «sono dappertutto»8 e «lo sappiamo tutti». Quest’ultimo elemento ci permette di fare il collegamento con la seguente prova retorica. 2) Sul piano della prova dell’ethos, intrinsecamente legata alla prova logica, l’avvocato Courtoy costruisce un ethos sia di esperto che di cittadino informato. L’affermazione «ho dimostrato», nella parte argomentativa si riferisce al suo status di esperto. Per contro, dichiarazioni come «ve lo dico molto sinceramente», «lo sappiamo bene tutti» e «ve lo dico» si riferiscono al suo status di cittadino. Ed è in nome di questo status che rivendica il diritto di dire ciò che pensa, che mostra una certa forma di parresia. La costruzione di un ethos di parresiasta si trova confermata anche quando guardiamo il livello di linguaggio usato dall’oratore. L’uso di parole come «metterli tutti in fila», «storia farsesca», «fare esplodere le teorie», «è un massacro» quando lui parla della forza argomentativa del suo proprio discorso, o ancora il riferi8
Ci sembra che qui si possa fare il seguente collegamento: i cospirazionisti, come i maestri della verità di Detienne, ci raccontano la storia degli dèi. Cioè, parlano dei congiurati come il poeta o l’indovino parlavano degli dèi: sono onniscienti, onnipotenti e onnipresenti. Se questa linea di ricerca fosse confermata, rafforzerebbe la nostra ipotesi che i discorsi complottisti presentano una narrazione basata su una verità di tipo magico-religioso.
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emmanuelle danblon, lucie donckier de donceel
mento alle vedette «pinco pallino», alla «quattroruote» e alla «storia di merda», esprime una certa volgarità. La volgarità sarebbe uno dei marcatori di sincerità, di autenticità e quindi di parresia. Esse, le affermazioni parresiastiche e l’uso di un vocabolario volgare, ci consentono di fare il legame con la terza prova retorica, la prova del pathos che si focalizza sulle emozioni prodotte dal discorso. 3) Infine, sul piano della prova patetica ci concentriamo prima sulle espressioni appena studiate al livello dell’ethos. Queste affermazioni, che da un lato sembrano essere una copia di una tipica affermazione profetica (Cornford 1991), partecipano, d’altra parte, di un effetto rivelatore altamente persuasivo (Levy, Pernot 1997). Questo effetto di rivelazione e di evidenza, prendendo in prestito sia la figura del parresiasta sia quella del profeta, produce un doppio risultato sul piano delle emozioni. Il discorso è allo stesso tempo rassicurante e inquietante. Rassicurante perché viene data una spiegazione a una situazione eccezionale, e preoccupante perché questa stessa spiegazione mobilita forze onnipotenti e onnipresenti9 (Danblon, Nicolas 2010). Questa parte del discorso e la costruzione delle tre prove che l’oratore utilizza gli permettono di affermare una visione del mondo di tipo piuttosto magico-religioso: la verità che presenta è ambigua, vaga e accetta la contraddizione, ma, nonostante questo, le sue parole stabiliscono una visione del mondo che ha senso (Danblon 2001). 4. Conclusione Attraverso il breve studio di questo discorso, abbiamo quindi concluso la nostra indagine sulla figura del parresiasta all’interno di un discorso complottista. Per chiudere, teniamo a sottolineare che la parresia è un diritto del cittadino moderno che è ancorato nella rivendicazione del diritto alla trasparenza e accompagnato da un effetto di rivelazione10, un effetto prodotto dalla mobilitazione di ciascuna delle prove extra-tecniche. Detto questo, in modo esemplare, questo effetto di rivelazione e di evidenza ha molto in comune con 9
Ritroviamo di nuovo qui il possibile paragone tra i congiurati e una sorta di panteismo. In tal senso, questo diritto produce un effetto simile a quello della confessione nel quadro di un caso giudiziario (Gissinger-Bosse 2012). 10
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la fiducia riposta nella parola del profeta nelle società arcaiche. La riaffermazione di queste due componenti probabilmente spiega perché, nell’espressione cospirativa di parresia, troviamo sia la pretesa moderna di trasparenza sia la fiducia arcaica nella parola del profeta. Facendo un passo avanti nella conclusione, proponiamo qui di collegare una forma di parresia a un’espressione presunta dello stato di cospirazione. In effetti, come una verità «mostruosa» postmoderna, osserveremmo oggi, andando anche oltre la figura dell’avvocato Courtoy, una manifestazione sempre più «mostruosa» della parresia. Questa «mostruosa» manifestazione di parresia potrebbe essere la figura ultracontemporanea dell’assumiste11, cioè del teorico della cospirazione che assume e, inoltre, rivendica il suo status di complottista. Questa nuova figura sarà, senza dubbio, oggetto di studi futuri, poiché questi assumistes rivendicano tale status in nome della verità, una nozione che vediamo ogni giorno essere sempre più al centro delle nostre preoccupazioni.
Bibliografia Amossy, Ruth; Koren, Roselyn (a cura di) 2020 Discours sociaux et régimes de rationalité, «AAD», 25, disponibile online: https://doi.org/10.4000/aad.4387. Cornford, Francis Macdonald 1991 From religion to philosophy: A study in the origins of western speculation, Princeton UP, Princeton. Dainville, Julie 2019 Oracles et décision: Étude philologique et rhétorique de la preuve oraculaire dans la littérature grecque classique, tesi di dottorato, presso l’Université libre de Bruxelles, dir. A. Delattre e E. Danblon. Danblon, Emmanuelle 2001 La rationalité du discours épidictique, in Marc Dominicy, Madeleine Frédérique (dir.), La mise en scène des valeurs: la rhétorique de l’éloge et du blâme, Delachaux et Niestlé, Lausanne.
11 Assumiste: espressione che qualifica una persona che assume e rivendica le sue proprie idee, anche se queste non rappresentano l’opinione comune. Espressione proposta il 30 maggio 2021 su Twitter da Sebastian Dieguez, ricercatore in psicologia e neuroscienze presso l’Università di Friburgo (Svizzera) e autore del libro Total Bullshit! Au coeur de la post-vérité (PUF, Paris 2018). Disponibile online: https://twitter.com/twieguez/status/1398956161076973571.
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emmanuelle danblon, lucie donckier de donceel
2013 (trad. it. 2014) L’uomo retorico: cultura, ragione, azione, Mimesis, Milano. 2020 Régimes de rationalité, post-vérité et conspirationnisme: A-t-on perdu le goût du vrai?, in Rith Amossy, Roselyn Koren (dir.), Discours sociaux et régimes de rationalité, «AAD» 25, disponibile online: https://doi.org/10.4000/aad.4528. Danblon, Emmanuelle; Nicolas, Loic (dir.) 2010 Les rhétoriques de la conspiration, CNRS Éditions, Paris. Danblon, Emmanuelle; Donckier de Donceel, Lucie; Sans, Benoit; SevestreGiraud Benjamin 2021 Enseigner la rhétorique à l’Ecole de Bruxelles, in Marion Mas, Catherine Nicolas, Anne Vibert (a cura di), «Recherches et Travaux», 99, UGA Éditions, Grenoble. Detienne, Marcel 1967 Les maîtres de vérité dans la Grèce archaïque, F. Maspero, Paris. Detienne, Marcel; Rosanvallon, Pierre (dir.) 2003 Qui veut prendre la parole?, Éditions du Seuil, Paris. Di Piazza, Salvatore; Piazza, Francesca; Serra, Mauro 2018 The Need for More Rhetoric in The Public Sphere. A Challenging Thesis About Post-Truth, «Versus», 2, pp. 225-242. Dulong, Renaud s.d. Qu’est-ce qu’un témoin historique?, in Alexandre Prstojevic (dir.), «Vox Poetica», disponibile online: http://www.vox-poetica.org/t/ articles/dulong.html. Ferraris, Maurizio 2017 Postverità e altri enigmi, il Mulino, Bologna. Gissinger-Bosse, Célia 2012 Vers une conversion démocratique: analyse du dispositif de parole de la cour d’assises, tesi di dottorato, Università di Strasburgo. Ginzburg, Carlo 2006 Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Feltrinelli, Milano. Klein, Étienne 2020 Le goût du vrai, TRACTS 17, Gallimard, Paris. Lorusso, Anna-Maria 2018 Postverità, Laterza, Roma-Bari. Pernot, Laurent; Levy, Carlos (dir.) 1997 Dire l’évidence. Philosophie et rhétorique antique, L’Harmattan, Paris. Piazza, Francesca; Di Piazza, Salvatore (a cura di) 2012 Verità verosimile. L’Eikos nel pensiero greco, Mimesis, Milano. Quattrociocchi, Walter; Vicini, Antonella 2018 Liberi di credere. Informazione, internet e post-verità, Codice, Torino. Serra, Mauro 2017 Retorica, argomentazione, democrazia. Per una filosofia politica del linguaggio, Aracne, Roma. Vernant, Jean-Pierre (dir.) 1974 Divination et rationalité, Éditions du Seuil, Paris.
Ragioni mostruose. Commento a Danblon e Donckier Marco Brigaglia
Il contributo di Emmanuelle Danblon e Lucie Donckier de Donceel è animato da un progetto di fondo ambizioso, l’elaborazione di una genalogia dei «regimi di razionalità», intesi come insiemi di standard normativi che, in un certo contesto, fissano ciò che è corretto – nel caso di regimi di razionalità epistemica, ciò che è corretto credere. L’ipotesi genealogica tracciata da Danblon e Donckier, ispirata da Detienne (1967; trad. it. 1977), è incentrata sul rapporto fra mythos e logos, narrazione e ragionamento. Nel versante del mythos c’è, anzitutto, l’imposizione di un ordine narrativo agli eventi, che trova la sua forza di verità nel fatto stesso di apparire immediatamente intelligibile: la storia che «ha senso» legittima la credenza nella sua verità. E la legittima tanto più, quanto più chi la racconta appare essere in contatto diretto e privilegiato con l’ordine delle cose. È questo, nel mythos, il principale criterio di autorità epistemica. Dal versante del logos c’è invece il confronto dialogico, la costruzione di regole esplicite di accettabilità delle inferenze, e lo sviluppo di criteri di prova empirica – regole e criteri «oggettivi», applicabili indipendentemente da, e potenzialmente confliggenti con, le intuizioni soggettive di verità. Che una storia appaia come «sensata», e sia detta da chi pretende di avere un contatto diretto con l’ordine delle cose, non basta a legittimare la credenza nella sua verità. La storia deve superare il vaglio della discussione intersoggettiva, e di regole e criteri di prova espliciti e oggettivi. Le autorità epistemiche, gli «esperti», sono qui le comunità deliberative, e/o coloro che conoscono e sanno usare le appropriate regole e i criteri di prova. Secondo Danblon e Donckier, i diversi regimi di razionalità sviluppatisi dopo l’età arcaica, dominio del mythos, possono essere analizzati nei termini di diversi meccanismi e stili di interazione fra le due
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componenti del mythos e del logos. In particolare, nel fenomeno del complottismo l’interazione fra queste componenti assumerebbe un carattere «mostruoso»: il complottista presenta la sua storia sotto le specie di una verità-logos, capace di superare un controllo razionale, ma al tempo stesso rifiuta di sottoporla a qualsiasi controllo razionale, trincerandosi nella intrinseca forza di verità che la storia ricava dal suo apparire immediatamente «sensata», intelligibile, e pronunziata da chi sa per conoscenza diretta – una verità-mythos. L’interazione è «mostruosa» perché le due componenti si ibridano e rovesciano instabilmente l’una nell’altra. Danblon e Donckier danno infine al lettore un esempio di questa ibridazione attraverso l’analisi retorica di un discorso dell’avvocato Courtoy, parte del collegio difensivo di Mehdi Nemmouche, accusato dell’attentato al Museo ebraico di Bruxelles nel 2014. In questa analisi, gioca un ruolo centrale il ruolo «parresiastico» rivendicato da Courtoy. Trovo la linea di analisi proposta da Danblon e Donckier stimolante e convincente. Piuttosto che critiche argomentate (che non ho), proporrò tre linee di riflessione suscitate in me dalla lettura del contributo. 1. La prima osservazione è molto semplice: la «mostruosa» ibridazione di mythos e logos è un carattere strutturale della comunicazione di massa, esplosa nella comunicazione digitale. «Strutturale» non nel senso di esserne un tratto inevitabile, ma nel senso di esserne una tendenza latente che si attiva facilmente e che è molto difficile da contrastare. Ciò è particolarmente evidente nel caso delle fake news, l’anello più largo entro il quale ricadono molte forme di complottismo. Mi sembra che il grado zero della verità-mythos sia costituito dalla semplice comunicazione, in una forma (interpretata come) assertiva, di un qualsiasi contenuto informativo. L’asserzione è un dispositivo pragmatico-retorico che azzera la mediazione del parlante («desoggettiva» il contenuto), e fa, per così dire, parlare direttamente le cose («oggettiva» il contenuto). Questo dispositivo di soggettivazioneoggettivazione ha di per sé forza di verità-mythos: l’asserzione di un contenuto minimamente plausibile tende ad indurre nell’uditore la formazione automatica di una credenza conforme (in modo simile
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a come opera la percezione diretta di un fatto), sulla quale interverrà poi un controllo cognitivo – più o meno gravoso, e più o meno cosciente – che inibirà o manterrà attiva la credenza intuitivamente formata1. Questo grado minimale di forza di verità-mythos si incrementerà tanto più, quanto più alto sarà il grado di plausibilità intuitiva, per l’uditore, del contenuto asserito (la storia), e quanto meglio esso risuonerà con le sue disposizioni emotive (Pennycock and Rand 2021). Ma si incrementerà anche in virtù della mera ripetizione del contenuto asserito2 – «bottom-up», come nella «voce di popolo», o «top-down», come nella propaganda. Quanto più un contesto comunicativo tende a facilitare la ricezione di informazioni quanto più ripetute e diffuse e ad ostacolare l’attivazione del controllo razionale (logos), tanto più la componente di verità-mythos verrà potenziata. Notoriamente, questo accade nella comunicazione di massa, e in modo ancora più estremo nella comunicazione digitale. Nel caso dei social media, inoltre, la ripetizione dell’informazione è alimentata «bottom-up», da meccanismi spontanei di selezione delle storie intuitivamente plausibili ed emotivamente salienti per una soglia critica di individui. In un contesto del genere, il grado zero della verità-mythos, la forza persuasiva di una stringa informativa interpretabile come asserzione, come «Forte scossa di terremoto in provincia di Palermo», si moltiplica attraverso la sua condivisione da parte di più utenti, e si monta insieme ad una sorta di grado zero di verità-logos – una euristica del tipo «se in tanti condividono questa notizia, allora sarà vera» –, che aumenta la probabilità che l’informazione superi il filtro del controllo. Ma quello che è ancora più rilevante, in questo contesto, è che, con altrettanta semplicità, è possibile mimare la struttura di logos più complessi. Si pensi ad esempio ad una stringa come «Studio recente dimostra che i vaccini anti-Covid causano il cancro». È questo l’aspetto più inquietante delle fake news: sono stringhe di informazione 1
La tendenza a formare credenze sulla sola base della esposizione ad una informazione è stata chiamata «reflexive open-mindedness» da Pennycock e Rand (2019), secondo cui questa tendenza può operare anche riguardo a contenuti «bullshit», costruiti senza alcun riguardo per l’apparenza di verità. Sto qui ipotizzando che alla base del meccanismo della reflexive open-mindedness vi sia una euristica del tipo «credi a ciò che viene asserito». 2 Questo effetto è noto come «illusory truth effect». V. sul punto, ad es., Hassan, Barber 2021.
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che, se da un lato mimano la struttura del logos (nell’esempio, di un logos scientifico), d’altro lato fanno prevalentemente leva su meccanismi di verità-mythos, fra cui soprattutto il più elementare, la mera forza dell’asserzione. Una analisi di questo tipo – se corretta – può valere come conferma della fecondità della prospettiva di Danblon e Donckier. Ma ha anche un’altra implicazione, che riguarda i limiti che l’analisi retorica ha nel contrastare il fenomeno delle fake news. Fra le più interessanti strategie di risposta alle fake news, c’è proprio l’addestramento all’analisi retorica, insegnare all’utente a riconoscerne i marcatori retorici3. È un metodo brillante, la cui importanza non va sottostimata. Ma è un metodo parziale. Può funzionare soltanto con utenti disposti a sottoporre l’informazione ad un certo grado di controllo razionale. Il problema è che il contesto comunicativo di gran parte della comunicazione digitale – sia per la velocità che per la facilità con cui possono essere ignorate o neutralizzate le voci dissenzienti – ostacola l’attivazione del controllo (Pennycock, Rand 2021). Si tratta in altri termini, come spesso viene sottolineato, di un contesto che tende strutturalmente a favorire la ricezione acritica delle informazioni, ossia di un contesto che, nei termini di Danblon e Donckier, dà libero corso a meccanismi di verità-mythos, e alla loro ibridazione «mostruosa» con strutture di verità-logos. Diventa molto difficile contrastare questi meccanismi in modi diversi dalla censura – ed è altrettanto difficile immaginare una forma di censura che non crei più problemi di quelli che riesce a risolvere (si veda il contributo di Giorgio Maniaci e la discussione da esso suscitata). 2. Danblon e Donckier, nella loro analisi retorica del discorso dell’avvocato Courtoy, ne mettono a fuoco l’aspetto «parresiastico», o più precisamente una forma di parresia che, ancora una volta, chiama in causa una verità-mythos, sotto almeno due profili. Il primo profilo è la rivendicazione del diritto a esprimere la «propria verità», cioè la storia che il parlante «sente» vera (e che anche l’uditore può sentire come tale) – nonostante la sua apparente squalifica sulla base dei criteri di verità oggettiva difesi da un supposto blocco di potere 3 V. ad es. il Bad News Game, https://www.sdmlab.psychol.cam.ac.uk/research/badnews-game.
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epistemico. Il secondo profilo è l’effetto di verità di dispositivi retorici di sincerità: il parresiasta parla con sincerità, e siccome parla con sincerità, allora dice il vero. Ciò che ne deriva è la rivendicazione del diritto a raccontare con sincerità la storia che ci appare credibile, che diventa, perciò stesso, la storia vera – come se chi parlasse godesse di un contatto diretto con le cose, che rende la sua parola sincera rivelativa di verità. Anche questo aspetto dell’analisi di Danblon e Donckier coglie delle cose importanti. La prima cosa è la trasformazione «mostruosa» della legittima rivendicazione del diritto a capire come stanno le cose nella rivendicazione, contro qualsiasi prova contraria, della verità di ciò che si capisce – della verità delle storie che ci appaiono vere. La seconda cosa riguarda invece proprio l’effetto di verità-mythos della retorica di sincerità, che ha molto in comune con il meccanismo dell’asserzione: è anche questo un modo per trasformare il proprio discorso in una espressione diretta delle cose così come stanno. 3. Vorrei adesso soffermarmi su una delle questioni centrali nella organizzazione sociale del sapere (e nella stessa tenuta della democrazia), portata alla ribalta dal ruolo che visioni complottiste e fake news hanno assunto nella costruzione del consenso. La questione è la seguente. È possibile promuovere il diritto a capire, impedendo però il suo rovesciamento «mostruoso» nella pretesa che la storia che appare credibile valga, per ciò stesso, e contro ogni controllo razionale, come ciò che è oggettivamente vero? È possibile contemperare queste due esigenze in contesti in cui l’applicazione dei criteri di controllo razionale tende a condurre a conclusioni che sono, per i più, controintuitive? È il problema della «divulgazione» – anzitutto della divulgazione scientifica, ma anche della divulgazione di informazioni e spiegazioni storico-politiche passate attraverso criteri di fact-checking e di controllo della plausibilità delle ipotesi più rigorosi della mera intuizione di verità. Mi limito ad una osservazione riguardo alla divulgazione scientifica, e alla strutturale compenetrazione di mythos e logos cui fanno riferimento Danblon e Donckier. Secondo molti, metafore e meccanismi affini giocano un ruolo fondamentale nei nostri processi cognitivi: la nostra conoscenza si amplia estendendo a nuovi domini modelli esplicativi applicati a do-
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mini già noti (v. ad es. Lakoff, Johnson 1980; Fauconnier, Turner 2002). L’estensione metaforica di modelli esplicativi non sarebbe solo una caratteristica intrinseca del mythos, ma sarebbe costitutiva anche delle forme più sofisticate di logos, anche di quella apparentemente più lontana dal mythos, la scienza moderna. Prendiamo il caso più estremo, quello di una scienza naturale «dura» (paradigmaticamente, la fisica). Semplificando molto, gli ingredienti distintivi di una spiegazione nell’ambito di una scienza dura sono, da un lato, la modellazione matematica dei fenomenitarget e delle regolarità in essi ipotizzate, e, d’altro lato, il controllo empirico del modello, tramite osservazioni ed esperimenti. Ma questi ingredienti non funzionano da soli. Ad essi si accompagna l’uso di metafore che «spiegano» il fenomeno-target estendendo ad esso concetti e modelli esplicativi appartenenti a domini già noti (v. ad es. Churchland 2013). Spesso, queste metafore hanno un ruolo euristico fondamentale: sono il meccanismo alla base della formazione della nuova ipotesi scientifica. E spesso, anche per coloro che maneggiano l’aspetto matematico della spiegazione, le metafore restano un ingrediente essenziale della sua intellegibilità, ciò che permette di concepire quelle leggi non come una mera astrazione, ma come qualcosa di reale. (Si pensi alla rappresentazione della luce in termini di «onde», o allo «stato elettrotonico» di Faraday, su cui v. Lindley 2020, cap. 8). Che la metafora sia parte integrante della spiegazione non significa, ovviamente, che sia letteralmente vera, o che non sia, per certi aspetti, fuorviante. Significa che, dato il modo in cui è fatta la nostra mente, non possiamo sperare di liberarcene, ma solo di controllarla e guidarla. Quanto appena detto ha conseguenze rilevanti riguardo alla questione della divulgazione scientifica. Il principale, forse unico, modo «non mostruoso» per rispondere alla rivendicazione del diritto di capire da parte di chi non ha strumenti per dominare gli aspetti più tecnici di una spiegazione scientifica (come modelli, dati osservativi, principi metodologici), è cavalcare la metafora nei suoi aspetti di verità-mythos, ma in modo rispettoso della verità-logos: rendere comprensibile la spiegazione scientifica rappresentandola nei termini di una storia che sfrutta analogie con domini noti, ma che è al contempo sufficientemente accurata, perché l’analogia mette a fuoco gli aspetti realmente rilevanti della spiegazione scientifica. Questo è
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quello che ha sempre fatto la buona divulgazione scientifica, ed è quello che tentano di fare oggi, in modo estremamente creativo, un numero per fortuna ampio di ottimi divulgatori attivi sul web4. In conclusione, rispettare il profondo radicamento del mythos nelle nostre menti è, probabilmente, uno dei modi più potenti per rendere accessibili, e in questo modo proteggere, le acquisizioni del logos.
Bibliografia Churchland, Paul M. 2013 Plato’s Camera. How the Physical Brain Captures a Landscape of Abstract Universals, The MIT Press, Cambridge (Mass.). Detienne, Marcel 1967 Les maîtres de vérité dans la Grèce archaïque, F. Maspero, Paris; trad. it. I maestri di verità nella Grecia antica, Laterza, Roma-Bari 1977. Fauconnier, Gilles; Turner, Mark 2002 The Way We Think. Conceptual Blending and the Mind’s Hidden Complexities, Basic Books, New York. Hassan, Aumyo; Barber, Sarah J. 2021 The Effects of Repetition Frequency on the Illusory Truth Effect, «Cognitive Research», 6, 38 (2021) (https://doi.org/10.1186/ s41235-021-00301-5). Lakoff, George; Johnson, Mark 1980 Metaphors We Live By, The University of Chicago Press, ChicagoLondon. Lindley, David 2020 The Dream Universe. How Fundamental Physics Lost Its Way, Penguin, New York-Toronto.; trad. it. Quale universo? Come la fisica fondamentale ha smarrito la strada, Einaudi, Torino 2021. Pennycock, Gordon; Rand, David G. 2019 Who Falls for Fake News? The Roles of Bullshit Receptivity, Overclaiming, Familiarity, and Analytic Thinking, «Journal of Personality», 2019, 1-16, DOI: 10.1111/jopy.12476. 2021 The Psychology of Fake News, «Trends in Cognitive Science», May 2021, vol. 25, no. 5, pp. 388-402.
4 Un esempio di divulgazione per adolescenti che io trovo simpatico ed efficace è BarbascuraX, https://www.youtube.com/channel/UCH-y44M0pvwaZx2rTq0rJoQ.
Del buon uso della parresia Mauro Serra
Il breve, ma denso, saggio di Emmanuelle Danblon e Lucie Donckier solleva numerose questioni che non è qui possibile affrontare in dettaglio come meriterebbero. Concentrerò perciò la mia attenzione su un solo aspetto, che risulta, del resto, centrale all’interno della loro argomentazione: la versione complottista del parresiasta. In particolare, ed in maniera molto schematica, cercherò di mostrare quale sia il tipo di rapporto che, a mio giudizio, la parresia istituisce con la democrazia, la verità e la retorica. Farò riferimento esclusivamente alla democrazia ateniese, per trarre poi qualche conclusione utile anche in una prospettiva più attuale. Innanzitutto qualche precisazione di ordine concettuale. Il termine parresia, la cui fortuna moderna si deve alle magistrali indagini condotte da Foucault negli ultimi due corsi tenuti al Collège de France, «[…] indica, fondamentalmente, la possibilità di produrre atti verbali caratterizzati dalla piena e completa espressione del proprio pensiero, senza remore di alcun tipo» (Spina 2005, p. 317). Una possibilità strettamente associata alla vita democratica ed alla libertà che la caratterizza. Si è così tentati, in maniera del tutto naturale, di far coincidere la parresia con la libertà di parola o di espressione, riconosciuta e tutelata anche sul piano legislativo nelle democrazie moderne. Sarebbe, tuttavia, un errore. Mentre, infatti, per i moderni la libertà di parola si configura come un diritto negativo ovvero come una libertà che va protetta dalla censura, lo stesso non si può dire per ciò che riguarda la parresia nel mondo antico (con particolare riferimento alla democrazia ateniese), poiché essa è piuttosto «a characteristic of citizens, an attribute, which was a sort of side effect of their political enfranchisement» (Carter 2004, p. 198). Detto in altri termini, la parresia non ha quella marcata componente ideologica che
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caratterizza invece la moderna libertà di espressione. Per averne una conferma basta prendere in considerazione l’altro dei termini che, insieme a parresia, sottolinea la centralità ed il rilievo della parola e del suo esercizio in un contesto democratico: isêgoria. Se è vero, infatti, che il significato dei due termini è molto simile, ciò non significa che essi siano completamente intercambiabili. Dei due, isêgoria è il termine più antico, il cui impiego precede addirittura quello di dêmokratia, ed anche quello prevalentemente usato in contesti di natura politica. Esso è fortemente connotato da un punto di vista ideologico ed insiste piuttosto sull’uguaglianza, ovvero sulla uguale possibilità di prendere la parola all’interno dell’assemblea, che non sulla libertà connessa al suo esercizio. Un passo tratto dall’Archidamo di Isocrate mette bene a fuoco la differenza tra i due termini, adottando la prospettiva di uno spartano, o almeno di ciò che secondo un ateniese uno spartano avrebbe potuto dire: È infatti vergognoso che mentre prima non avreste sopportato l’isêgoria nemmeno tra uomini liberi, ora invece tollerate apertamente la parresia anche da parte degli schiavi (Isocrate, 6.97).
Come si vede, c’è un netto contrasto tra l’uguale diritto a prendere la parola che una costituzione non democratica come quella degli spartani non era disposta a concedere nemmeno a tutti gli uomini liberi, e la parresia, che sembra piuttosto la prerogativa di dire tutto ciò che si pensa, e che può essere quindi, per quanto paradossalmente, riconosciuta anche agli schiavi. La conseguenza principale che può essere fatta derivare dalla non completa sovrapposizione dei due termini mi pare in sostanza questa. Mentre con l’uno si fa riferimento ad uno dei due pilastri ideologici su cui si regge il regime democratico, un diritto a tutti gli effetti, che ammette come controparte solo la sua assenza, laddove evidentemente non c’è democrazia, con l’altro si indica, invece, l’effetto principale che è correlato all’esercizio di un tale diritto ovvero la libertà di dire tutto ciò che si pensa. Per questo motivo il termine ammette anche la possibilità di un impiego negativo, esiste una cattiva parresia, e la sua comparsa risulta relativamente tardiva. D’altra parte, all’interno della collettività esiste una linea di frattura che rischia di mettere in discussione l’ideologia ugualitaria che è alla base del regime democratico: essa è rappresentata dall’acquisizione dell’abilità retori-
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ca, che costituisce un prerequisito per l’esercizio della leadership in ambito democratico. Ciò spiega per quale motivo molto spesso il ricorso a quest’abilità venga guardato con sospetto e possa essere adoperato come elemento di accusa e discredito, laddove al contrario molti oratori, in maniera fittizia, introducono i loro discorsi facendo preliminarmente riferimento alla propria inadeguatezza ed incapacità in tale ambito (Ober 1989, pp. 156-191). Si può allora ipotizzare che la comparsa del termine parresia ed il suo impiego in ambito politico siano da ricondurre almeno in parte a questa situazione ed alla tensione tra piano formale e piano sostanziale della democrazia che essa rispecchia. Data la natura ambivalente delle sue manifestazioni, bisogna allora domandarsi quali siano, se ci sono, i criteri per poter distinguere la buona dalla cattiva parresia. Come è noto, Foucault ha dedicato a questo tema una parte significativa del corso tenuto nel 1982-83, individuando nella figura del Pericle tucidideo l’esempio paradigmatico del buon parresiasta, la cui esemplarità risaltava ancora meglio a confronto con il comportamento tenuto dai demagoghi della generazione successiva1. Per i fini del mio discorso, risulta, tuttavia, più utile prendere in considerazione un altro luogo paradigmatico, quello costituito dal confronto dialettico tra Socrate e Callicle che occupa l’ultima parte del Gorgia platonico. Qui infatti Socrate si confronta con un interlocutore a cui vengono esplicitamente riconosciute le qualità che sono necessarie per portare avanti un confronto dialettico2 e tra di esse figura appunto, insieme alla conoscenza ed alla benevolenza, la parresia, ovvero la massima franchezza nel rendere manifesta la propria opinione (Platone, Gorgia, 487a)3. Non è necessario seguire nella sua interezza il dialogo tra Socrate e Callicle di cui mi limito a sottolineare schematicamente i seguenti aspetti. 1) Nello scambio che li vede protagonisti, entrambi si fanno sostenitori di una visione «essenzialista» della morale e dei comporta1
Ho cercato di mostrare i limiti dell’interpretazione proposta da Foucault in un altro articolo, Serra 2016, al quale mi permetto di rimandare. 2 Un confronto, è bene ricordarlo, che «[…] opposes rhetoric to dialectic, politics to philosophy, the naturally powerful to the conventionally just, and Athens to Socrates as his ultimate standards of judgement» (Rocco 1997, pp. 78-79). 3 Non è rilevante, ai fini delle mie considerazioni, stabilire se tale attribuzione da parte di Socrate sia ironica o meno.
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menti ad essa correlati e sono pronti a dare voce alle loro convinzioni incuranti della vergogna (aischynê) che potrebbe derivarne di fronte all’opinione pubblica. Entrambi, cioè, credono all’esistenza di un criterio oggettivo in base al quale stabilire la superiorità morale, anche se naturalmente questo criterio risulta assai differente. Per Callicle, infatti, si tratta di una legge di natura che prevede il predominio del più forte, laddove per Socrate si tratta di un criterio che affonda le sue radici nell’ordine divino dell’universo e nella capacità dell’individuo di riconoscerlo e di adeguare ad esso la sua condotta. Così, per Callicle gli individui più forti hanno il diritto di comandare, mentre per Socrate chi ha la capacità di comprendere ciò che è realmente giusto deve conformarsi ad esso senza alcuna remora. 2) Nonostante le migliori intenzioni mostrate dai due interlocutori, il dialogo è, tuttavia, destinato ad interrompersi ed a risultare così inconclusivo. Ad un certo punto, Callicle lascia la scena a Socrate che si produce in un lungo discorso (makrologia), del tipo di quelli che egli in genere tende ad impedire ai suoi interlocutori. La radicale differenza delle posizioni sostenute rende impossibile il loro confronto e dal punto di vista di Socrate lo scacco della conversazione è da attribuire all’assenza di moderazione che caratterizza Callicle (Bourgault 2014, pp. 21-22). Un’assenza di moderazione che, quanto meno nella prospettiva socratico-platonica, rende di fatto consustanziali democrazia e (cattiva) parresia. 3) Se si guarda allo statuto epistemologico delle posizioni espresse all’interno del dialogo, nel reciproco tentativo di convincersi della superiorità del proprio punto di vista, appare evidente, e continuamente ribadito, che tali posizioni hanno, per così dire, un doppio statuto: sono delle verità dal punto di vista di chi le sostiene, ma di fatto non si elevano al di sopra del rango dell’opinione. Da un lato, questo tratto sembra rispecchiare perfettamente le caratteristiche dell’attività parresiastica4, dall’altro si scontra con la constatazione che per Socrate l’opinione è solo il punto di partenza dell’indagine filosofico-dialettica il cui obiettivo è rappresentato, invece, dalla in4
«The truth claim did not entail any assertion of a view’s alignment with an absolute, transcendent standard. Rather, it asserted a specific relation between the speaker and his view […]. The main work the truth claim did was to assert the honesty and personal integrity of the speaker and the apparently critical import of his logos–not the certain flawlessness of the logos itself» (Monoson 1994, p. 175).
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dividuazione, per quanto faticosa, di un criterio con cui distinguere tra opinione e verità. Una convinzione questa, articolata progressivamente nel corpus platonico, ma di cui si trovano già chiare tracce nel Gorgia medesimo. 4) Per limitarci a questo dialogo, d’altra parte, la verità di cui Socrate si fa portatore non è in grado di risultare persuasiva ed è infine costretta ad appoggiarsi all’autorità del mito escatologico conclusivo5. Sebbene, infatti, Socrate abbia cura di ribadire, introducendolo, che quello che Callicle considererà un mero racconto (mythos) è invece ai suoi occhi un discorso (logos) a tutti gli effetti, il cambiamento di prospettiva rimane evidente, come lo stesso Platone implicitamente intende sottolineare. Di fronte alla impossibilità di persuadere il proprio interlocutore non resta che fare ricorso ad una «professione di fede». Per completare il quadro, aggiungo una notazione relativa non più al Gorgia, ma all’Apologia. Un dialogo nel quale il termine non compare mai e che tuttavia «can be seen as one big exercise in Socratic parrhêsia» (van Raalte 2004, p. 296). Qui, in maniera assai significativa, la difesa impostata da Socrate fa affidamento non sulle sue capacità retoriche, capacità di cui peraltro egli afferma di essere assolutamente sprovvisto, quanto piuttosto sulla sua volontà di dire il vero, per quanto rischioso o assurdo ciò possa risultare6. Certamente, egli afferma, la giuria non si sentirà offesa dalla sua mancanza di abilità verbale: dopo tutto, il loro compito consiste nello stabilire ciò che è giusto e sbagliato, così come il compito dell’oratore è quello di dire la verità. Da un lato, Socrate può così presentarsi come l’unico vero retore7, dall’altro, tuttavia, si potrà osservare che una posizione del genere non risulta poi molto differente da quella degli oratori che di fronte all’assemblea rivendicavano la veridicità del loro discorso appellandosi alla parresia ed alla loro presunta incapacità retorica. 5
«The method as such does not, after all, provide certainty about the ultimate truth. Socrates is forced to appeal to the myth that tells how in Hades the dead are judged on the condition of their souls, which reveals the degree of justice or injustice exhibited by them in their lifetime» (van Raalte 2004, p. 294). 6 «The Apology, then, is permeated by what we have called Socratic parrhêsia: freedom of speech in service of the truth and the good. This requires the courage to dispense with the rhetorical means of persuasion and to consider public opinion irrelevant […]» (van Raalte 2004, p. 301). 7 Analogamente a quanto avviene nel Gorgia, dove si presenta come l’unico vero politico.
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Come afferma Carlos Levy: «To say: “I’m going to speak the truth, all the truth, and only the truth” could elicit defiance at least as frequently as confidence, and the dismissal of rhetoric could appear the climax of rhetoric» (Levy 2009, 324 corsivo mio). Sarebbe troppo lungo mostrare in dettaglio la lezione che noi moderni potremmo ricavare da un contesto in apparenza così differente e da una prospettiva, tutto sommato anti-democratica, quale è quella platonica. Mi limito perciò a formulare, in maniera apodittica, i seguenti spunti di riflessione, rimandando ad altra occasione la loro discussione. 1) Mi pare che della parresia si possa dire qualcosa di analogo a quanto si afferma a proposito del populismo (Pazè 2017): nel bene e nel male si tratta di un’ombra che la democrazia proietta dietro di sé e con cui bisogna inevitabilmente fare i conti. 2) Usata come cartina di tornasole delle nostre pratiche discorsive, essa segnala non tanto, come pure Emmanuelle Danblon afferma in un altro suo recente articolo (2020), la perdita del gusto per la verità, quanto piuttosto una sorta di ipertrofia delle pretese di verità dei propri discorsi ed una conseguente incapacità a relativizzarli, orientandosi nel complesso gioco che mette in relazione opinione e verità. 3) Infine, l’uso del termine parresia ci mette in guardia dalla ricorrente pretesa di fare a meno della retorica, vedendo in ciò la strada maestra che ci potrà condurre alla verità. Almeno in democrazia, la via, incerta e sempre rivedibile, che porta alla verità non può che passare attraverso il ricorso, sempre più consapevole, a pratiche discorsive di natura retorica. Ciò che agli antichi era in fondo ben noto, se un autore come Democrito (D.K. B. 229) poteva affermare che «la parresia è propria della libertà, ma il pericolo consiste nella capacità di riconoscere il momento opportuno (per esercitarla)», collegando il suo esercizio ad un concetto eminentemente retorico quale kairos, il momento opportuno, e riconoscendone la natura di attività congetturale e fallibile (Di Piazza, in questo volume).
del buon uso della parresia
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ii. Verità
Per una democrazia liberale interventista Giorgio Maniaci
Dom Cobb: Qual è il parassita più resistente? Un batterio? Un virus? Una tenia intestinale? […] Un’idea. Resistente, altamente contagiosa. Una volta che un’idea si è impossessata del cervello è quasi impossibile sradicarla. (Inception, di Christopher Nolan)
1. Introduzione In questo articolo, esporrò brevemente il bilanciamento della Corte di Cassazione italiana tra il principio che tutela la libertà di espressione e di stampa, e il principio che tutela l’onore e la privacy. Com’è noto a tutti, secondo la Corte, la libertà di stampa prevale sull’onore e sulla privacy quando si realizzano tre requisiti: la verità della notizia, l’interesse pubblico, e la continenza. Dopo aver analizzato in modo sintetico i tre requisiti, mi soffermerò brevemente sul rapporto tra libertà di espressione, verità scientifica e democrazia. Sosterrò che è di fondamentale importanza che i cittadini si formino credenze corrette e fondate scientificamente, per tutelare i loro interessi ed evitare che il legislatore e altri soggetti cagionino loro dei danni. In particolare, è importante sradicare tutte le credenze false o prive di fondamento scientifico che stanno alla base di molte questioni etico-politiche, come eutanasia, aborto, proibizionismo delle droghe, e soprattutto i tre grandi pregiudizi della storia dell’umanità, cioè il maschilismo, il razzismo, l’omofobia. In tal senso, partendo dal concetto epistemologico di verità scientifica, analizzerò, è questo il cuore del mio intervento, le credenze false o prive di fondamento
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scientifico alla base di questi tre grandi pregiudizi e del proibizionismo delle droghe. Non indagherò, in generale, i fondamenti e i limiti etico-politici della libertà di espressione e della democrazia liberale, che tutela i diritti di libertà oltre al diritto di elettorato attivo e passivo, né accennerò all’immensa letteratura di riferimento: non è parte di questo lavoro. 2. Il bilanciamento operato dalla Corte La libertà di espressione nel discorso pubblico deve essere limitata da tre principi (fondamentali, non esaustivi): la verità, la continenza e l’interesse pubblico della notizia. Mentre nel discorso privato si può liberamente criticare il governo e i politici senza limiti di verità o continenza, alla radio, alla televisione, sui blog su internet, nei giornali bisogna applicare al discorso pubblico i tre principi della verità, della continenza, dell’interesse pubblico, individuati negli anni ’80 in alcune sentenze della Corte di Cassazione1 e poi divenute una giurisprudenza stabile. Continenza significa che si fa divieto di usare un linguaggio ingiurioso o coprolalie. Verità significa far riferimento a ciò che la comunità scientifica considera tale o alla verità di fatti (ad esempio che un politico sia stato condannato per corruzione) accertabili in altro modo. Dunque non è possibile in un discorso pubblico affermare che ci sono più pedofili tra gli omosessuali, che tutti gli zingari rubano. Né è possibile affermare che i bambini cresciuti e allevati da coppie omosessuali subiscono danni psicologici per il fatto stesso di essere cresciuti da coppie dello stesso sesso. Basta andare sul sito dell’American Psychiatric Association, che redige il famoso DSM, il più diffuso manuale di disturbi di personalità, per individuare gli studi e le ricerche empiriche mondiali che mostrano che tali danni non ci sono – un caso classico di sapere-potere positivo. Nel discorso pubblico istituzionalizzato, cioè il discorso dei giudici e dei giuristi, anche nelle circolari ministeriali, oltre a seguire i principi della verità, dell’interesse pubblico e della continenza, si 1
Corte di cassazione n. 5259/1984, n. 3769/1985.
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dovrebbe evitare di prendere decisioni in base ad assunzioni metafisico-trascendenti (ad esempio, «Dio è contrario all’eutanasia o all’aborto»), in genere di carattere religioso, anche dissimulate dietro altri argomenti affetti da grave indeterminatezza semantica (dignità, sacralità della vita), perché violano il principio di laicità e hanno uno statuto epistemologico molto incerto, cioè problemi di razionalità, perché non vi sono prove empiriche sufficientemente sicure o garantite, né in favore né contro tali credenze metafisicotrascendenti, che sono quindi del tutto arbitrarie, mentre ci sono prove empiriche sufficientemente certe che l’acqua bolle a cento gradi. In realtà l’uso delle credenze metafisico-trascendenti da parte di giudici e legislatori lede anche il principio di separazione e indipendenza tra Stato e Chiesa cattolica. Tali credenze sono, infatti interpretazioni altamente discrezionali, basate su criteri ermeneutici indeterminati (il co-testo, cioè tutta la Bibbia, la tradizione dei Padri della chiesa, l’influsso dello Spirito Santo), di testi cosiddetti sacri altrettanto indeterminati, soprattutto perché difficilmente interpretabili in modo letterale. Farò solo un esempio. Gesù dice che si deve scegliere: o Dio o mammona; e che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco vada in paradiso. Interpretando letteralmente (mammona è la ricchezza), dovremmo concludere che i ricchi andranno all’inferno. In realtà, i teologi interpretano i passaggi nel senso che è l’attaccamento ai beni materiali, la schiavitù del denaro che va punito, non l’essere ricchi di per sé. Dunque, per la loro indeterminatezza semantica, e per l’impossibilità di seguire la Bibbia, come dice Benedetto VII, come se fosse stata scritta parola per parola da Dio, dunque essendo difficile interpretarla letteralmente, le credenze metafisico-trascendenti si legano facilmente ad un argomento di autorità, nel senso che il capo della comunità spirituale X è il depositario delle interpretazioni autentiche dei testi sacri e della volontà di Dio. Se il legislatore seguisse le Encicliche papali per formulare le leggi da approvare, il suo potere non sarebbe più indipendente, bensì dipenderebbe dalla volontà e dall’arbitrio del capo della comunità religiosa più vasta, cioè il Papa, di modo da cedergli la sua sovranità e autonomia. Perché nel discorso pubblico bisogna seguire i principi di verità, interesse pubblico e continenza? L’interesse pubblico della notizia tutela la privacy e la reputazione delle persone.
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In secondo luogo, per quanto riguarda la verità scientifica, la democrazia è un valore più importante della libertà di espressione: la libertà di espressione serve per tutelare la democrazia, e non il contrario. Bisogna salvaguardare il valore più importante, la possibilità che i cittadini si formino preferenze e credenze in modo corretto e responsabile, e che possano formarsi credenze corrette scientificamente. Nel caso in cui una ampia maggioranza di scienziati creda che X sia vero, bisogna tenere conto di tale credenza, mentre se gli scienziati sono in maggioranza in disaccordo dobbiamo rassegnarci. Chiunque adduca un argomento contrario, in un discorso pubblico, a quanto ritenuto corretto dalla (ampia maggioranza della) comunità scientifica deve prima partire da quanto sostenuto dalla comunità scientifica e poi spiegare perché non condivide quanto sostenuto dalla comunità scientifica, entrando nel dettaglio dei dati sperimentali e del contenuto della teoria. Del resto, non si può fare diversamente: se un economista afferma che l’anno prossimo l’inflazione aumenterà del 4%, per addure un argomento contrario bisogna addurre un argomento economico, scientifico; non si può dire non mi importa ciò che dice perché l’economia ha uno statuto epistemologico incerto, né si può rispondere con un argomento religioso, morale, o di filosofia del linguaggio. Ad un argomento empirico e scientifico bisogna rispondere con un argomento empirico e scientifico, entrare nel merito della teoria dell’avversario e individuarne eventuali fallacie deduttive e induttive, proporre altre ricerche empiriche, o altre teorie economiche suffragate dalla comunità scientifica. Sono consapevole che la verità scientifica è debole, provvisoria, viene continuamente verificata e a volte falsificata da nuove ricerche empiriche, il che equivale a dire che ceteris paribus, come dice Cartwright, non è universale: spesso le leggi della fisica classica funzionano benissimo negli esperimenti di laboratorio, ma uno scienziato, continua Cartwright, difficilmente riuscirà a calcolare dove atterrerà una banconota da mille dollari mossa dal vento in una piazza –troppe variabili. L’osservazione dei dati empirici è theoryladen, poiché non esiste, come dice Putnam, una realtà nuda, pura, non concettualizzata da descrivere in modo del tutto indipendente da schemi concettuali e categorie interpretative. L’osservazione dei dati empirici è theory-laden, come dice Sellars, perché la loro attendibilità dipende da una rete concettuale, una te-
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oria delle percezioni e osservazioni corrette, che ci dice quali osservazioni empiriche sono attendibili e quali no, una qualche forma di ragionamento induttivo, basato su numerose inferenze induttive, un concetto di spazio e tempo. Si tratta di una theory-ladeness minimale, in quanto il metodo scientifico dopo due millenni di osservazioni prevede una teoria delle osservazioni corrette abbastanza stabile, certa, verificata, che individua fattori soggettivi (sogno, allucinazioni, intossicazione da alcol e altre sostanze psicotrope, stanchezza) e fattori oggettivi (pioggia, nebbia, acqua, vento, giusto per citare i più banali) considerati distorsivi degli esperimenti. Inoltre, come dicono Quine e Lakatos, solo una massa semantica critica, cioè una teoria che presuppone una rete di ipotesi ausiliarie, può essere confrontata con la realtà empirica, e, di fronte ad un dato empirico confliggente con la teoria (l’acqua a tremila metri di altezza sopra il livello del mare bolle a 90°), lo scienziato può lasciar cadere la teoria scientifica (l’acqua bolle a cento gradi) oppure una delle ipotesi ausiliarie (la pressione atmosferica non influenza l’ebollizione dell’acqua). Nel medio o lungo periodo lo scienziato può e deve mettere alla prova la validità delle ipotesi ausiliarie. Quanto sostenuto da Quine implica che il metodo scientifico che ha carattere induttivo non è formalizzabile come un algoritmo: non si può calcolare quanti e quali esperimenti uno scienziato deve effettuare per verificare una teoria, o tentare di falsificarla. Sono, dunque, consapevole dei limiti della scienza, ma non sono uno scettico o relativista, anche perché l’unico scettico vero, parafrasando Putnam, è uno scettico morto, in quanto pensa che qualunque teoria o schema concettuale sulla realtà empirica vada bene (l’uno vale l’altro) e, dunque, mette in dubbio anche la forza di gravità e la teoria secondo la quale gli uomini non possono volare senza ausili meccanici, di modo che, coerentemente, si getterà dal decimo piano di un palazzo, scoprendo, dice Putnam, che non ogni teoria o schema concettuale va bene2. E, tuttavia, per quanto debole provvisoria, ceteris paribus, la verità scientifica è, in primo luogo, l’unica che abbiamo; in secondo luogo, i metodi e i protocolli di ricerca (soprattutto nelle scienze naturali e nelle università pubbliche non finanziate dalle multinazionali), di verifica e falsificazione delle teorie scientifiche non sono mai stati così corretti, fondati empi2
Cfr. Sellars 1963; Quine 1990; Putnam 1981; Lakatos 1978; Cartwright 1999.
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ricamente, attendibili, tecnologicamente avanzati (si pensi ai microscopi e ai telescopi, alla meccanica quantistica e all’osservazione di particelle piccolissime come gli elettroni), indipendenti, per quanto sia possibile, dal potere religioso, economico, giuridico e politico, rispetto ad altre epoche storiche – sebbene i grossi finanziamenti pubblici dipendano sempre da autorità burocratiche e politiche, come i PRIN del resto. Pensiamo alla scienza ai tempi di Galileo, che fu processato, minacciato di tortura, condannato alla reclusione, sine die, per sospetta eresia, pena presto commutata in arresti domiciliari fino alla morte e costretto ad abiurare, per le sue teorie scientifiche, cioè che il sistema tolemaico era sbagliato e la teoria eliocentrica copernicana era corretta, teoria quest’ultima considerata contraria alle Sacre Scritture; una scienza, dunque, soffocata dalla tradizione dogmatica aristotelico-tomista, soffocata dal potere della Chiesa – per non parlare della sorte di Giordano Bruno, bruciato sul rogo come eretico nel 1600 anche per la sua teoria sull’infinità dell’universo. Oppure pensiamo alla scienza ai tempi del nazismo e del fascismo. L’importanza che i cittadini si formino credenze scientificamente corrette sulla realtà dipende da due ragioni fondamentali: una morale e una empirica. 3. Libertà di espressione, democrazia e danni a terzi La ragione morale è che la democrazia, la possibilità dei cittadini di formarsi una opinione libera e scientificamente corretta, è più importante della libertà di espressione. Se i cittadini votano e si comportano sulla base di credenze false non potranno realizzare i propri interessi: per ragioni di mera razionalità strumentale, potrebbero individuare mezzi inidonei a realizzare i propri desideri, il che cagionerà loro, come minimo, danni economici ed esistenziali, cioè significative interferenze nella sfera corporea e percettiva, che cagionano danni psicologici. Il parlamento e il governo agiranno contro i loro interessi. La ragione empirica è che Mill, in On Liberty, aveva torto. Non è vero che le falsità, le menzogne, consentono di illuminare nel modo migliore la verità e che nel confronto tra verità e bugia la verità trionfa sempre.
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Al contrario, la falsità è pericolosissima, come dimostra la nascita dei sistemi totalitari, e la menzogna, se detta con convinzione in un discorso pubblico, può attecchire in profondità, diventare resistente e altamente contagiosa; oppure mettere in dubbio la verità. Entrambe le conseguenze sono pericolose, e se le menzogne sono collegate ad un discorso di odio (gli ebrei sono responsabili della crisi economica) possono produrre danni molto rilevanti: danni fisici, economici o esistenziali. Per questo bisogna estirpare la menzogna dai discorsi pubblici. Chiaramente, non si possono imporre censure: vale sempre il principio della libertà di stampa e tv. Ma, se non si può imporre il silenzio a chi dice cose false, in tv o sulla stampa, si può imporre la presenza di un arbitro che affermi che la tesi X è priva di fondamento scientifico (secondo un’ampia maggioranza della comunità scientifica) e giustificazione razionale, come la tesi di Salvini secondo cui i bambini hanno diritto ad un papà e una mamma (salvo giustificazioni omofobe, incostituzionali). In assenza di un danno a terzi, ai bambini cresciuti da una coppia omosessuale, quale sarebbe la ratio del diritto ad un papà e una mamma? Solo motivazioni omofobe o l’argomento della tradizione. Ma l’argomento della tradizione non è razionalmente utilizzabile in democrazie aperte, liberali. La premessa dell’argomento è che si deve fare quello che abbiamo sempre fatto. Cosa assurda in democrazia. Negli ultimi 50 anni le leggi e i regolamenti sono cambiati centinaia di volte e lo stesso Salvini vuole cambiare la legge sull’immigrazione, la disciplina delle imposte sul reddito, la disciplina della prostituzione. Tutti i partiti propongono programmi di modifica delle leggi. L’argomento della tradizione in democrazia è razionalmente inutilizzabile. Come facciamo a identificare l’arbitro? Si tratta semplicemente di una persona autorevole, scientificamente autorevole. Ad esempio, il prof. Comanducci di Genova, filosofo del diritto (ora in pensione), è autorevole. Ne abbiamo degli indizi obiettivi: è un professore ordinario, faceva parte di un dipartimento importante, ha un curriculum eccellente con pubblicazioni in inglese e spagnolo, è conosciuto all’estero, in Francia, Spagna, Sudamerica. Chiaramente, ci sono tanti esperti autorevoli con questi requisiti, e dunque c’è un margine di discrezionalità. In tutte le trasmissioni televisive, radio, blog su internet, sulla stampa, nei licei, nelle università, bisogna invitare esperti autorevoli che eliminino le credenze false o prive di fondamento
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scientifico in relazione ad una pluralità di questioni etico-politiche, come eutanasia, suicidio assistito3, proibizionismo delle droghe, ma soprattutto il maschilismo, il razzismo e l’omofobia. 4. Le credenze false alla base del maschilismo, del razzismo e dell’omofobia Bisogna estirpare le numerose credenze false che stanno alla base di tali pregiudizi – e sono tante. Le discriminazioni razziali o sessiste sono normalmente basate su credenze false. Nella specie umana, dal punto di vista scientifico, antropologico, qualunque discorso basato sulla superiorità, di origine biologica, intellettuale e morale, di una «razza» sulle altre, come pensavano Gobineau e i nazisti, è infondato o falso. Leggete Cavalli Sforza 1996. Primo, non esiste una razza umana pura, eterna, superiore, destinata a dominare le altre, come pensava Gobineau, quale quella europea o ariana, perché l’Homo sapiens proviene tutto dallo stesso ceppo, partito dall’Africa e migrato negli altri continenti circa tra 70.000 e 80.000 anni fa. Secondo, non vi sono differenze forti tra le «razze», come negli animali non umani, cioè non vi sono separazioni significative, superiori circa al 10-25%, dal punto di vista genetico, tra individui appartenenti ad aree geografiche differenti (Europa, Asia o Africa). Terzo, per creare una «razza pura» bisognerebbe incrociare individui consanguinei, creando una «razza» più debole, cioè più vulnerabile alle malattie e più infeconda. Quarto, gli studi sui gemelli, separati alla nascita e dati in adozione, mostrano che i neri o gli asiatici, come i bianchi europei, se educati in una famiglia culturalmente ricca di stimoli, possono raggiungere elevati livelli di intelligenza. L’intelligenza dipende in modo significativo (1/3), dice Cavalli Sforza, dall’ambiente educativo, un terzo dal DNA4. Allo stesso modo le discriminazioni basate sul sesso sono tradizionalmente e normalmente basate su credenze false, sulla presunta 3
Sull’argomento più diffuso contro l’eutanasia, il piano inclinato e la sua fallacia, cfr. Dworkin 1993; trad. it. 1994, pp. 262 sgg.; Singer 2001, p. 215; Sunstein 1996-1997, pp. 1141 sgg.; Amato 2015, pp. 134 sgg.; D’Agostino 2011, p. 225; Maniaci 2020, cap. II. 4 http://www.treccani.it/enciclopedia/razza/; Cavalli Sforza 1996, pp. 32, 33, 52, 65, 67, 103, 136.
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superiorità intellettuale degli uomini sulle donne, che avrebbero il diritto di comandarle, come diceva San Paolo, e soprattutto di trattarle come un oggetto di proprio possesso, per cui la donna autonoma e indipendente è un pericolo e non può permettersi di abbandonare il maschio, credenza anch’essa falsa. Altra credenza falsa del maschilismo è imprigionare la donna nella dicotomia santa/sgualdrina. Se una donna non ricade nell’archetipo positivo (santa, suora, vergine, moglie fedele, paziente e ubbidiente, come la Penelope dell’Odissea), allora ricade nell’archetipo negativo (donna prostituta, peccatrice, bugiarda, femme fatale che porta gli uomini alla rovina, maliarda come Circe nell’Odissea)5. Per quanto riguarda l’omofobia, gli esperti autorevoli dovrebbero spiegare le cause principali dell’omofobia, che si trasforma in disgusto, disprezzo morale, in posizioni politiche discriminatorie contro il matrimonio e l’adozione. Una causa fondamentale, come già detto, sono le credenze prive di fondamento scientifico, ad esempio che gli omosessuali molestino i bambini, che le coppie dello stesso sesso non possano educare e crescere in modo equilibrato un bambino. La seconda causa (si veda il film American Beauty) è l’omosessualità latente: l’omofobo è a volte una persona che odia la sua stessa identità, che rimuove la sua omosessualità, e che trasferisce, «proietta» (sebbene non nel senso tecnico psicanalitico) questo odio sugli omosessuali. Un classico, negazione, rimozione e una parziale formazione reattiva, che si ha quando il contenuto cosciente, l’odio verso gli omosessuali, è in conflitto con i contenuti psichici rimossi, cioè l’amore per gli altri uomini. La terza causa è la paranoia, a livello non psicotico, che è rara, ma a livello nevrotico. Essa colpisce le persone che hanno continuamente paura di essere tradite, ingannate, truffate, fregate, in una parola volgare «inchiappettate». Il terrore della sodomia passiva, come sottomissione paradigmatica, viene «proiettato» (sempre in un senso non tecnico psicanalitico) all’esterno, e gli omosessuali diventano spesso oggetto di disprezzo o disgusto6. Il paranoico omofobo più pericoloso è quello inconsapevole della nevrosi, mentre chi ne è consapevole è innocuo e può avere anche amicizie omosessuali, perché quello inconsapevole la trasforma, a 5
Cfr. Giomi, Magaraggia 2017, MacKinnon 1987; Maniaci 2019; Beauvoir 1949, trad. it. 1999; Poggi 2015. 6 Cfr. McWilliams 2011, trad. it. 2012.
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differenza dell’altro, in disprezzo e disgusto, in giudizi etico-politici discriminatori. Il razzismo, l’omofobia e il maschilismo cagionano danni fisici, psicofisici, economici, esistenziali, come omicidi, violenze, aggressioni, insulti. I femminicidi, cioè l'uccisione di donne ad opera del partner o di un ex partner per ragioni maschiliste, sono circa un centinaio l’anno. Chiaramente, ci sono altre credenze false, i famosi stereotipi, per cui ci sarebbero più pedofili tra gli omosessuali, mentre ce ne sono di più tra i preti, ma la Chiesa cattolica non ci dice quanti sono. Altri stereotipi: i migranti clandestini sono criminali, i minori zingari rubano più dei minori di famiglie povere italiane, gli ebrei sono avidi o hanno il controllo internazionale delle banche e della finanza, i migranti estranei (rispetto alla donna) commettono la maggior parte delle violenze sessuali nei confronti delle donne. In realtà, la maggior parte delle violenze sessuali, il 70% circa, è compiuto da partner ed ex partner e solo il 4-6% da estranei, ad esempio nei giardini o per strada. Vi è, tuttavia, una causa comune ai tre pregiudizi, che gli esperti autorevoli dovrebbero approfondire, individuata da Cavalli Sforza all’inizio di Geni, popoli, lingue, cioè che le classi superiori scaricano, tramite aggressività, la loro frustrazione lavorativa, matrimoniale, attraverso quello che in psicanalisi si chiama spostamento, sulle classi considerate socialmente, politicamente e economicamente inferiori, come gli omosessuali, i migranti, le donne. In secondo luogo, bisogna curare le paure reali delle persone spesso a basso reddito, ad esempio che i migranti sottraggano risorse di welfare (come cure ospedaliere e case popolari, queste ultime cronicamente insufficienti) o la concorrenza sleale dei migranti che accettano in nero retribuzioni inferiori, curare le paure attraverso la repressione dell’illegalità (compreso lo sfruttamento dei migranti nelle piantagioni di pomodori) e la tutela dei diritti sociali di tutti7. Per non parlare del proibizionismo delle droghe. La retorica proibizionista usa due credenze false: la prima è che tutti i consumatori di cocaina e eroina o ecstasy sono gravemente compulsivi, dipendenti psicologicamente e fisicamente dalla droga. In realtà il 75-80% dei consumatori di cocaina ed eroina, tutte le statistiche sono chiare, sono consumatori saltuari od occasionali, ne fanno un uso ricreativo. 7
Cfr. Bartoli 2012, pp. 71 sgg.
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«Per esempio 1/3 dei soggetti che fuma diventa un fumatore cronico, il 23% dei soggetti che sperimentano eroina diventa dipendente da eroina e il 17% di coloro che sperimentano cocaina diventano dipendenti da cocaina»8. Alcuni autori in passato hanno sostenuto che la legalizzazione della vendita e del consumo aumenterebbe il consumo del 1000 o 2000%9. I dati empirici hanno dimostrato che tale teoria, oltre ad essere affetta da fallacie deduttive e induttive, è falsa. In Olanda si consuma meno marijuana che in molti paesi proibizionisti (8.7% nel 2015 contro il 9-9,5-10-11% di altri paesi europei e il 13% degli Stati Uniti: World Drug Report 2018). Anche in Colorado, dove la marijuana è stata legalizzata nel 2014 non c’è stato nessun aumento significativo, così come in California, nel 2018, o in Uruguay. Vediamo il bilancio della legalizzazione della vendita e consumo in Colorado, nell’articolo di Sana del 2019 sul «Fatto Quotidiano». In sintesi, l’autore afferma che, come previsto dagli antiproibizionisti, il gettito fiscale è aumentato enormemente, un miliardo di dollari in cinque anni, il prezzo si è ridotto del 35%, la qualità della droga è migliorata, il mercato illegale si è fortemente ridimensionato, il consumo dei giovani sopra i ventuno anni non è aumentato, anzi è diminuito in dieci anni del 20% circa. C’è stato però un aumento, un raddoppio, in 5 anni, dei conducenti coinvolti in un incidente stradale mortale e positivi al THC. E uno studio del 2017 ha verificato che rispetto al periodo pre-legalizzazione sono quintuplicate le visite al pronto soccorso per malattie mentali (allucinazioni e disorientamento) e fisiche (nausee, vomito) collegate al consumo di marijuana, in particolare alimentare (Wang e altri 2017). Il raddoppio dei conducenti positivi alla marijuana non implica necessariamente un raddoppio del consumo di marijuana o degli incidenti stradali, perché nella maggior parte dei casi i conducenti avevano assunto alcol o altre droghe, dunque sarebbero morti lo stesso. Probabilmente c’è stato un aumento non significativo (10%-15%), come previsto da Miron, del consumo di marijuana tra gli adulti, di 40-50 anni 8
Bricolo, Aldegheri, Serpelloni 2006. Nello stesso senso sia il Cocaine Project (WHO 1995, p. 28), sia la Relazione annuale sull’evoluzione del fenomeno della droga in UE (EMCDDA 2009). 9 Cfr. Donini 2010; MacCoun, Reuter 2004, pp. 333 sgg.; Husak 1992, pp. 150 sgg.; Id. 2002, pp. 151 sgg.
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di età, e i più giovani, 16-21, e soggetti prima dediti al consumo di alcol e altre sostanze psicoattive hanno aggiunto la marijuana, come è accaduto negli incidenti mortali. In altri termini, persone che prima non consumavano marijuana e dopo la legalizzazione l’hanno aggiunta ad altre droghe, risultando positivi al THC, erano già abituate a guidare sotto l’effetto di stupefacenti. L’aumento delle visite al pronto soccorso non denota un aumento significativo, forse neppure un aumento del consumo, per una ragione semplice. A differenza del mercato nero e non legalizzato, nel mercato legalizzato si è molto diffuso tra gli adulti il consumo di dolci, bevande, caramelle preparati con marijuana, che nel mercato illegale non esistevano o non erano diffusi, ed è quindi il consumo alimentare a spiegare i ricoveri in ospedale per malanni collegati al consumo alimentare. In altri termini, è possibile che coloro che consumavano già marijuana fumandola, con la legalizzazione siano passati a dolci e bevande, forse aumentando un po’ le dosi, poiché tali prodotti sono particolarmente buoni ma rendono probabilmente più difficile calcolare quanta marijuana si stia assumendo con un dolce rispetto ad una sigaretta, salvo che l’etichetta lo riporti (ammesso tuttavia che la si legga). In ogni caso, si potrebbe utilizzare l’enorme gettito fiscale per aumentare i controlli della polizia su strade e autostrade, fuori dalle discoteche, per bloccare conducenti che hanno assunto droghe e per effettuare campagne di sensibilizzazione nelle scuole sui rischi del consumo di marijuana, in modo da evitare gli indenti stradali attraverso i controlli, e gli incidenti sul lavoro adibendo i pochi consumatori compulsivi, una piccola minoranza, a svolgere lavori non pericolosi per gli altri.
Bibliografia Amato, Salvatore 2015 Eutanasie, Giappichelli, Torino. Bartoli, Clelia 2012 Razzisti per legge, Laterza, Roma-Bari. Beauvoir, Simone de 1949 Le deuxième sexe, Gallimard, Paris; trad. it. Il secondo sesso, il Mulino, Bologna 1999.
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Bricolo, Francesco; Aldegheri, Franco; Serpelloni, Giovanni 2006 Meccanismi di azione della cocaina e implicazioni per i trattamenti farmacologici, in Giovanni Serpelloni, Teodora Macchia, Gilberto Gerra (a cura di), Cocaina. Manuale di aggiornamento tecnico scientifico, disponibile online: http://cocaina.dronetplus.eu/manuale.html. Cartwright, Nancy 1999 The Dappled World, Cambridge UP, Cambridge (Mass.). Cavalli Sforza, Luigi Luca 1996 Geni, popoli e lingue, Adelphi, Milano. D’Agostino, Francesco 2011 Testamento biologico, in Id., Bioetica e biopolitica, Giappichelli, Torino. Donini, Massimo 2010 «Danno» e «offesa» nella c.d. tutela penale dei sentimenti, in Alberto Cadoppi (a cura di), Laicità, valori e diritto penale, Giuffrè, Milano. Dworkin, Ronald 1993 Life’s Dominion, Harper Collins, London; trad. it. Il dominio della vita, Edizioni di Comunità, Milano 1994. European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction (EMCDDA) 2009 Relazione annuale sull’evoluzione del fenomeno della droga in UE, disponibile online: https://www.emcdda.europa.eu/attachements. cfm/att_93236_IT_EMCDDA_AR2009_IT.pdf. Giomi, Elisa; Magaraggia, Sveva 2017 Relazioni brutali, il Mulino, Bologna. Husak, Douglas 2002 Legalize This!, Verso, London. 1992 Drugs and Rights, Cambridge UP, Cambridge (Mass.). Lakatos, Imre 1978 The Methodology of Scientific Research Programmes, vol. I, Cambridge UP, Cambridge (Mass.). MacCoun, Robert J.; Reuter, Peter 2004 Drug War Heresies, Cambridge UP, Cambridge (Mass.). MacKinnon, Catherine 1987 Feminism Unmodified, Harvard UP, Cambridge (Mass.). Maniaci, Giorgio 2020 Contra el paternalismo jurídico, Marcial Pons, Madrid. 2019 L’origine della violenza maschile nel femminismo e la pornografia nel pensiero di MacKinnon, «D&Q», 19, pp. 135-151. McWilliams, Nancy 2011 Psychoanalytic Diagnosis, Guilford Press, New York; trad. it. La diagnosi psicoanalitica, Astrolabio, Roma 2012. Poggi, Francesca 2015 Diversi per diritto, «D&Q», 15, pp. 9-35. Putnam, Hilary 1981 Reason, Truth and History, Cambridge UP, Cambridge (Mass.).
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Trinità percentuali. Tecnoscienze, linguaggio ed economia Marco Mazzeo
Una premessa doverosa. L’intervento di Giorgio Maniaci è del tutto condivisibile circa gli obiettivi etico-politici: combattere «il maschilismo, il razzismo, l’omofobia», asserire l’urgenza di una prospettiva non proibizionista a proposito delle sostanze stupefacenti. Si tratta, in quest’ultimo caso, di una discussione rimasta al palo da almeno una trentina d’anni, tanto da far figurare la ragionevole proposta di sperimentazione curata a suo tempo da Luigi Manconi (1991) per i tipi di Feltrinelli non un attrezzo superato dalla storia, bensì un tassello fantascientifico per il futuro del bel Paese. Vorrei proporre qualche perplessità, invece, circa le strategie argomentative offerte al lettore. In estrema sintesi, Maniaci propone lo scienziato come arbitro imparziale circa alcune delle più controverse questioni politiche contemporanee. Contro fake news e stereotipi, sarebbe opportuno «imporre la presenza di un arbitro che affermi che la tesi X è priva di fondamento scientifico (secondo un’ampia maggioranza della comunità scientifica) e giustificazione razionale». A tal proposito, anche la filosofia non avrebbe molto da dire: «se un economista afferma che l’anno prossimo l’inflazione aumenterà del 4%, […] non si può rispondere con un argomento religioso, morale, o di filosofia del linguaggio». In queste brevi note, dal sapore forzatamente assertivo, suggerirò nei confronti delle due tesi alcuni rilievi critici. La prima tesi parte da un presupposto apparentemente morigerato: fare appello alla scienza contro le superstizioni che caratterizzano il tempo presente. La questione è complicata dal fatto che l’appello è rivolto verso la scienza, al singolare. Per avere «scienza» dovremmo poter affermare che matematica, fisica, biologia, chimica, medicina, economia ecc. condividano un preciso armamentario concettuale e pratico. Stricto
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sensu, sappiamo che non è così: la biologia non è riducibile a una descrizione chimica, la chimica non è riducibile a una descrizione fisica, la fisica non è riducibile a formule matematiche. Anche in quest’ultimo caso, apparentemente a portata di mano, il fisico Sean Carroll (2016, p. 128) ha recentemente ribadito una radicale «differenza di metodo»: «la dimostrazione matematica è perfetta; si tratta solo di seguire le regole della logica. […] Il ragionamento in favore del credere nella relatività generale è di carattere completamente diverso. È abduzione». Potremmo difendere l’uso del singolare intendendolo in senso lato, in riferimento al comune impiego del metodo sperimentale. Anche in questo caso incontreremmo difficoltà. La matematica è senza dubbio una scienza, ma le sue modalità di prova, ricorda ad esempio Ludwig Wittgenstein, sono ben diverse da un «esperimento» (OFM I, § 103). D’altro canto, sarebbe difficile sostenere che un esperimento circa le preferenze di scelta economica di un gruppo di consumatori abbia molto da condividere con uno condotto nel CERN di Ginevra circa l’accelerazione delle particelle. L’uso del singolare presuppone, inoltre, un’altra caratteristica: la scienza non dovrebbe essere solo omogenea al proprio interno, ma anche neutra nei confronti di quel che la circonda. Anche qui le cose si fanno maledettamente complicate. Pare non esista epoca storica che abbia intrecciato in modo più profondo le scienze, le modalità di descrizione sperimentale della realtà, con le tecniche, vale a dire le modalità di trasformazione del mondo a opera dell’Homo sapiens. Tanto che, oggi, si preferisce parlare di «tecnoscienze» (De Carolis 2004). Mai quanto nel XX e XXI secolo le scienze non si sono limitate a osservare i fenomeni (ammesso lo abbiano mai fatto), giacché intervengono nella loro costruzione: emergenza climatica, industria farmaceutica e brevetti genetici sono solo alcune delle forme più eclatanti di un processo capillare. Queste due osservazioni potrebbero suggerire di rivedere l’analogia arbitrale proposta da Maniaci. L’arbitro è, per definizione, un soggetto unico o comunque una squadra caratterizzata da una struttura gerarchica: un giudice, al massimo una giuria. Sul campo da calcio, si perdoni la trivialità dell’esempio, l’arbitro gestisce le segnalazioni dei guardalinee; in caso di dubbio si ricorre agli ausili della tecnologia informatica e ai loro parametri millimetrici circa fuorigio-
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co, goal fantasma e calci di rigore. Purtroppo, o forse per fortuna, è proprio questo che non caratterizza le scienze. La scienza è omogenea, le scienze non lo sono. La recente crisi pandemica ha reso questa differenza una sofferente cronaca quotidiana. La disomogeneità della medicina produce, oggi, punti di vista diversi. Attenzione: mi riferisco a punti di vista concretamente diversi (è noto che i filosofi, da Talete in poi, abbiano la tendenza a guardare in cielo e dunque a cadere nella prima buca capiti sotto i loro piedi). Il virologo si occupa dell’agente infettivo e della sua struttura; l’immunologo del rapporto tra questo e le difese presenti nell’organismo; l’epidemiologo delle modalità di diffusione; lo studioso d’igiene dei mezzi più appropriati per evitare il contagio. La collaborazione armonica di queste figure è un comprensibile wishful thinking, non però un fatto empirico. Una simile convergenza non è dunque parte della soluzione, ma del problema. Il disaccordo tra i diversi scienziati non emerge a causa della cattiva fede del medico oppure dalla scarsa competenza del ricercatore. Si tratta di una questione di fondo. La maggior parte delle scienze mediche contemporanee è portata a occuparsi dell’individuo, cioè del singolo organismo. E dunque, secondo il nobile giuramento di Ippocrate, a preservare la salute individuale. Alcune altre, la minoranza, si occupano invece del carattere politico-collettivo delle malattie (tipicamente infettive, ma non solo: si pensi alla medicina di guerra o a certa psichiatria). Questa disomogeneità produce una discrepanza. Interrogato da un giovane maschio in buona salute, il medico dell’individuo potrà (anzi dovrà) insistere sui possibili effetti collaterali, per quanto statisticamente minimi, del vaccino contro il virus Covid-19, giacché pericoli da infezione e da farmaco sembrano occupare piatti della stessa bilancia. L’epidemiologo, invece, potrà (anzi dovrà) raccomandare la vaccinazione, giacché non vede la salute in termini atomici (la salute di quel corpo davanti al mio camice) ma molecolari (la salute dell’insieme dei corpi che entrano in reciproco contatto). Chi ha ragione? Arriviamo, così, al secondo punto. Stabilire chi ha ragione equivale, di volta in volta, a una scelta politica circa un dilemma, ahimè, filosofico. In questo caso: che tipo di animale è l’Homo sapiens? Un animale sociale, costituito da individui che nascono completi della propria identità e che solo poi si associano in gruppi? Oppure un animale politico, che nasce in gruppo e il cui compito storico è costruire
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(o meno) una traccia biografica propria? Se si predilige il sociale, sacrosanta è la medicina dell’individuo. Se si opta per il politico, ovvia è la medicina dell’infettivologo. Si badi: il piano morale, ammesso sia necessario, interviene solo dopo aver fornito risposta politica al dilemma filosofico. La medicina dell’individuo cura l’individuo con onore e lealtà; altrettanto fa la medicina che considera la specie nella sua portata relazionale. Sono tutti e due soggetti morali, solo che agiscono su basi filosofico-politiche alternative o, se ci consentiamo il lusso di evitare eufemismi, in conflitto. Meglio non fraintendersi. Maniaci ha perfettamente ragione quando afferma che, di fronte alla previsione di un aumento dell’inflazione, un argomento filosofico non avrà una diretta cogenza nel rispondere circa l’affidabilità o meno del vaticinio. La specificazione fa giustizia, tra l’altro, del ruolo pubblico che oggi il filosofo assume nella «società dello spettacolo» (espressione che Guy Debord propone non per definire lo strapotere dei media televisivi ma del capitalismo globale): saccente tuttologo, narciso intrusivo, catastrofista iettatore. Il passaggio sembra sopravvalutare, di contro, il carattere di un’economia che oggi è tutto tranne che razionale e neutra. Si pensi, per fare cenno a un esempio concreto, al numero che condiziona come un feroce guinzaglio o un salvifico scudo (la si veda come si vuole) la vita di ciascuno. È cosa nota che le finanze dei Paesi della Comunità Europea sono tenuti a non superare il rapporto del 3 per cento tra deficit di bilancio e prodotto interno lordo annuo. Una domanda ingenua: perché proprio il tre per cento e non, ad esempio, il due o il quattro? Vi sarà una ragione sostanziale fornita da una scienza economica che ha imposto un parametro decisivo per la sopravvivenza materiale di milioni (se non miliardi) di persone. Risponde Guy Abeille (2012), ideatore del parametro che sarà alla base del Trattato di Maastricht del 1992: Era una sera del maggio 1981. […] Il direttore del bilancio dell’epoca […] ci ha detto: Mitterrand vuole che gli forniamo rapidamente una facile regola economica che possa esser usata contro i ministri che sfilano nel suo ufficio per chiedere denaro. […] Stavamo andando verso i 100 miliardi di franchi di deficit, più del 2% del deficit rispetto al PIL. L’1%? Abbiamo eliminato questa possibilità, impossibile da realizzare. Il 2%? Ci avrebbe messo troppo sotto pressione. Il 3%? Si trattava di un bel numero, aveva attraversato tutte le epoche storiche, faceva pensare alla Trinità.
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Arbitraria è la parola «cane» (il cui suono non richiama né la forma dell’animale, né i versi che questo emette); convenzionale una regola fondamentale dell’economia contemporanea. La differenza non sta nella maggiore naturalità dell’una rispetto all’altra, ma solo nelle modalità di organizzazione di un ordine comunque contingente: involontario il primo (nessuno ha deciso che nella lingua italiana i cani dovessero chiamarsi così), volontario il secondo (capi di Stato hanno sottoscritto la norma del tre per cento). Se è vero, dunque, che non si può confutare una singola previsione economica con argomenti di filosofia del linguaggio, è altrettanto vero che, oggi più che mai, l’economia politica è sempre più un’economia linguistica (Marazzi 2002). Di recente, uno studioso non marginale come Arjun Appadurai (2016) ha descritto con puntiglio la natura verbale della finanza, proprio quella branca dello scibile umano che ha a che fare con tassi di inflazione, quotazioni azionarie e valori monetari. Cos’è un prodotto derivato se non una scommessa circa una scommessa di rendimento futuro (ivi, pp. 7 e sgg.)? Cos’è la fiducia, fondamento del mercato finanziario, se non il risultato psicologico di previsioni e annunci che capi di governo, operatori economici e imprenditori affidano alle agenzie di stampa (ivi, pp. 57 e sgg.)? I cardini delle crisi finanziarie del XXI secolo si giocano nella sfera di quel che John Austin (1962) chiama «atto performativo». Dobbiamo disfarci, quindi, delle tecnoscienze? Niente affatto. Proprio per evitarne il disfacimento, anzi, occorre posizionarle nel luogo che compete loro. Mezzi per la conoscenza del mondo, strumenti per rendere effettive soluzioni politiche circa dilemmi filosofici.
Bibliografia Abeille, Guy 2012 3% de déficit: «Le chiffre est né sur un coin de table», «Le Parisien», 28 settembre. Appadurai, Ajun 2016 Banking on Words. The Failure of Language in the Age of Derivative Finance, University of Chicago Press, Chicago; trad. it. Scommettere sulle parole. Il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata, Raffaello Cortina, Milano 2016.
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Austin, John 1962 How to Do Things with Words, Oxford UP, Oxford-New York; trad. it. Come fare cose con le parole, Marietti 1820, Genova 1987. Carroll, Sean 2016 The Big Picture: On the Origins of Life, Meaning, and the Universe Itself, Penguin Random House, New York; trad. it. Sulle origini della vita, del significato, dell’universo. Il quadro d’insieme, Einaudi, Torino 2021. Debord, Guy 1967-1992 La Société du Spectacle, Gallimard, Paris 1992 ; trad. it. La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004. De Carolis, Massimo 2004 La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Bollati Boringhieri, Torino. Manconi, Luigi (a cura di) 1991 Legalizzare la droga. Una ragionevole proposta di sperimentazione, Feltrinelli, Milano. Marazzi, Christian 2002 Capitale e linguaggio. Ciclo e crisi nella New Economy, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ). Wittgenstein, Ludwig OFM Bemerkungen über die Grundlagen der Mathematik, Basil Blackwell, Oxford 1978; trad. it. Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, Einaudi, Torino 1988.
Una ragionevole apologia di John Stuart Mill Aldo Schiavello
1. Giorgio Maniaci vs. John Stuart Mill La libertà di espressione è tra i valori più cari al costituzionalismo liberale moderno e contemporaneo. Limitare la libertà di ciascuno di dire ciò che vuole è, da questa prospettiva, sempre guardato con sospetto. Per usare le parole di John Stuart Mill (1859; trad. it. 1991, pp. 20-21), l’avvocato più appassionato, radicale e convincente di questo valore, «[…] impedire l’espressione di un’opinione è un crimine particolare, perché significa derubare la razza umana, i posteri altrettanto che i vivi, coloro che dall’opinione dissentono ancor più di chi la condivide: se l’opinione è giusta, sono privati dell’opportunità di passare dall’errore alla verità; se è sbagliata, perdono un beneficio quasi altrettanto grande, la percezione più chiara e viva della verità, fatta risaltare dal contrasto con l’errore». Gli argomenti che Mill avanza a sostegno di una libertà di espressione pressoché illimitata sono cinque. Innanzitutto, ogni opinione può essere vera. Negare ciò significa presumere di essere infallibili. Poi, le opinioni non sono quasi mai completamente vere o completamente false; è dunque dal confronto tra esse che può emergere – grazie ad una sorta di «mano invisibile» – l’intera verità o, comunque, una verità meno parziale rispetto a quella espressa dalle diverse opinioni confliggenti. In terzo luogo, anche se una opinione è assolutamente corretta, impedire che essa venga continuamente sfidata da opinioni concorrenti porta con sé il rischio che la piena verità di quella opinione venga accettata al modo di un pregiudizio, di un dogma, di cui in breve tempo non si riesce più a scorgere il «fondamento razionale». In quarto luogo, l’assunzione acritica della verità conduce necessariamente al suo affievolimento
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e, di conseguenza, ne riduce l’efficacia benefica. In ultimo, anche la tesi secondo cui sarebbero legittime solo le opinioni espresse in modo educato e non offensivo è da Mill rifiutata sulla base di due osservazioni. La prima è che è molto discutibile distinguere le opinioni offensive da quelle che non lo sono; la seconda, più importante, è che vietare le invettive, i sarcasmi, gli attacchi personali è sovente uno strumento nelle mani dei sostenitori dell’opinione dominante per sbarazzarsi delle opinioni minoritarie. Giorgio Maniaci nel suo saggio si scaglia apertamente contro questa prospettiva: «[…] Mill, in On Liberty, aveva torto. Non è vero che le falsità, le menzogne, consentono di illuminare nel modo migliore la verità e che nel confronto tra verità e bugia la verità trionfa sempre». L’idea di Maniaci è che la menzogna sia pericolosissima e vada dunque estirpata dai discorsi pubblici. Questo perché la libertà di espressione non è un valore in sé ma è uno strumento a sostegno della democrazia e della possibilità dei cittadini di formarsi un’opinione libera e scientificamente corretta. Le credenze falsificate dalla scienza non hanno diritto di cittadinanza nel discorso pubblico. Su questo punto è bene essere chiari. L’idea di Maniaci è che «[nel] caso in cui una ampia maggioranza di scienziati creda che X sia vero, bisogna tenere conto di tale credenza, mentre se gli scienziati sono in maggioranza in disaccordo dobbiamo rassegnarci». Come si fa a «estirpare la menzogna» dal discorso pubblico e, al contempo, rimanere liberali? La ricetta di Maniaci consiste nell’evitare qualsiasi censura – che sarebbe illiberale – e ricorrere a un arbitro che sia autorizzato a dare patenti di fondamento scientifico e giustificazione razionale alle tesi che vengono agitate nel discorso pubblico. Molte sono le perplessità collegate a una prospettiva di questo genere. Qui mi limito a segnalare le principali in un ordine decrescente di importanza. La morale che, spero, sarà possibile trarre a conclusione di queste poche pagine è molto semplice: «teniamoci stretto il buon vecchio John Stuart Mill». Per finire un caveat. Maniaci è un collega e, soprattutto, un amico con cui discuto di questi e di altri temi ormai da decenni. Spesso siamo d’accordo, talvolta no. In questo caso le divergenze tra noi sono alquanto nette. Ciò non significa che la prospettiva sviluppata da Maniaci sulla libertà di espressione non meriti di essere presa sul se-
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rio o non presenti alcuni punti di forza. Per ragioni di spazio, qui mi sono concentrato su quelli che, a mio avviso, sono gli aspetti meno convincenti del suo argomento. L’estrema brevità di questo scritto, unita alla decisione di evidenziare esclusivamente le flaiblesses della prospettiva difesa da Maniaci, può erroneamente dare l’impressione al lettore che l’intento sia liquidatorio. Nulla di più falso. L’idea è quella di continuare una discussione che non si è mai interrotta. Già immagino alcune repliche di Giorgio che, anche se non potranno essere ospitate in questo volume, potremo discutere in un prossimo seminario o, perché no, davanti a un boccale di birra. 2. La verità scientifica Maniaci, novello Pangloss, sostiene che «la verità scientifica, per quanto debole, provvisoria, ceteris paribus, è l’unica che abbiamo». Egli inoltre è convinto che viviamo in un âge d’or della scienza (soprattutto per quanto riguarda le scienze naturali), sia perché «i metodi e i protocolli di ricerca non sono mai stati così corretti», sia perché gli scienziati (soprattutto quelli che lavorano nelle università pubbliche non finanziate da multinazionali) non sono mai stati così indipendenti «dal potere religioso, economico, giuridico e politico». Rispetto a questa immagine delle «magnifiche sorti e progressive» della scienza contemporanea mi limito ad abbozzare sei obiezioni. «La verità scientifica è l’unica che abbiamo». Chi lo ha detto? Persone ragionevoli ritengono, ad esempio, che esistano «verità morali»; come la mettiamo con questa convinzione? Peraltro, nel discorso pubblico si dibattono questioni morali (come dobbiamo comportarci?) piuttosto che questioni scientifiche (come è fatto il mondo?). Ovviamente, le due questioni sono spesso collegate fra loro, ma molto meno rispetto a quanto ritiene Maniaci. Insomma, l’affermazione che l’unica verità è quella scientifica mi sembra impegnativa e, in ogni caso, è assunta da Maniaci in modo dogmatico e fideistico. Anche l’idea che «i metodi e i protocolli scientifici non siano mai stati così corretti» o è una idea banale (ogni conoscenza scientifica presuppone che sia stata falsificata quella precedente) o è oscura. Aggiungo che proprio la filosofia della scienza contemporanea ha messo in luce come le verità scientifiche siano intrinsecamente controverse e
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come anche il discorso scientifico abbia una struttura argomentativa e persuasiva non dissimile da quella del discorso morale o giuridico. Maniaci accenna a una differenza tra le scienze naturali e le scienze sociali. Su tale distinzione sarebbe necessario un discorso approfondito che qui è precluso. A costo di banalizzare mi limito dunque a rilevare che le conclusioni cui pervengono le scienze sociali (sociologia, economia, diritto…) sono di gran lunga più opinabili rispetto a quelle delle scienze naturali. Meglio: il nucleo di credenze consolidate nell’ambito delle scienze sociali è molto più circoscritto e fluido rispetto a quello delle scienze naturali. Deve fare riflettere che quasi tutti gli esempi che fa Maniaci nel suo saggio riguardano le scienze sociali. Ciò non stupisce; nel discorso pubblico si discute di come bisogna comportarsi in determinati frangenti e sovente si difendono le proprie posizioni a partire da analisi statistiche, economiche, psicologiche, psichiatriche o sociologiche. L’idea che in questi ambiti si possano distribuire patenti di verità scientifica mi sembra alquanto azzardata. La tesi che la scienza contemporanea sia indipendente dal potere è altamente controversa (non dico palesemente falsa soltanto per non contraddirmi). Il fatto che gli scienziati «eretici» non vengano più bruciati sui roghi ci dice senz’altro qualcosa sulle differenze tra i costumi del 1600 e quelli odierni, ma poco o nulla sulla maggiore indipendenza dal potere della scienza contemporanea. Se un’ampia maggioranza degli scienziati sostiene che X è vero, dobbiamo ritenere che chi difende una posizione nel dibattito pubblico a partire dalla negazione di X debba essere sanzionato dall’arbitro (su cui dirò qualcosa in seguito). Maniaci fa questo esempio: «[non] è possibile affermare che i bambini cresciuti e allevati da coppie omosessuali subiscono danni psicologici per il fatto stesso di essere cresciuti da coppie dello stesso sesso. Basta andare sul sito dell’American Psychiatric Association, che redige il famoso DSM, il più diffuso manuale di disturbi di personalità, per individuare gli studi e le ricerche empiriche mondiali che mostrano che tali danni non ci sono, un caso classico di sapere-potere positivo». Ora, il «famoso» DSM sino al 1974 includeva l’omosessualità tra i disturbi sociopatici di personalità. A voler seguire la proposta di Maniaci, sino ad allora tutti coloro che nel dibattito pubblico avessero sostenuto, ad esempio, l’estensione del matrimonio a coppie dello stesso sesso, avrebbe-
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ro dovuto essere redarguiti dal famoso arbitro. L’idea di cristallizzare le verità scientifiche a colpi di maggioranza è non solo bizzarra ma anche pericolosa, come del resto sapeva bene John Stuart Mill. L’insieme delle norme morali e giuridiche che ci piacciono dipendono assai meno di quanto vorrebbe Maniaci dalle nostre credenze e molto di più dalle nostre preferenze e dai nostri desideri. Lascio perdere in questa sede qualsiasi discorso sulla legge di Hume. Prendiamo l’esempio, utilizzato da Maniaci, delle discriminazioni razziali. Egli sostiene che tali discriminazioni, di norma, si fondano su credenze false. La prima è che esistano diverse «razze» umane. Questa idea è stata falsificata da Luigi Luca Cavalli Sforza. Tuttavia, è davvero questa credenza il fondamento primario del razzismo? Io non ne sono affatto certo. Esorto Maniaci a leggere Julius Evola e, in particolare, i suoi due libri, pubblicati rispettivamente nel 1937 e nel 1941, Il mito del sangue e Sintesi di dottrina della razza al fine di farsi una idea di come il razzismo sia molto di più e di altro rispetto all’idea che, in natura, esistano razze diverse. Sapere che biologicamente non esistono razze umane diverse non ci fa fare grandi passi avanti nell’eradicazione del razzismo dalle nostre società. 3. Democrazia e tradizione L’argomento della tradizione viene spesso utilizzato per opporsi a determinate riforme. Perché bisogna vietare il matrimonio tra persone dello stesso sesso? Perché per secoli l’istituto del matrimonio è stato riservato a persone di sesso diverso. È un argomento tra gli altri e, in definitiva, non è che espressione di una certa preferenza personale. Alcune persone sono destabilizzate dai cambiamenti e desiderano che le cose vadano come sono sempre andate. Maniaci muove contro questo argomento una critica che non coglie nel segno. Egli afferma che «[l’]argomento della tradizione in democrazia è razionalmente inutilizzabile». A sostegno di questa tesi Maniaci rileva che le leggi e i regolamenti cambiano spesso e che tutti i partiti propongono programmi di modifica delle leggi. Ebbene? Questo rende irrazionale in democrazia il desiderio di un individuo che certe cose non cambino? Inoltre, è perfettamente legittimo auspicare che in certi ambiti le cose cambino mentre in altri non mutino.
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Un partito poi può legittimamente essere favorevole a una riforma fiscale e contrario al divorzio o al matrimonio tra presone dello stesso sesso perché è affezionato al bel mondo antico. I conservatori non ci piacciono ma questa non è una buona ragione per ghettizzarli. 4. L’arbitro Chi difende opinioni fondate su credenze false non va censurato, ma la falsità delle credenze va rilevata da un arbitro. Sorge spontanea la classica questione: chi sceglie l’arbitro? Secondo Maniaci questa questione è facilmente risolvibile. L’arbitro è una persona scientificamente autorevole. Egli fa l’esempio di un filosofo del diritto, professore ordinario, conosciuto in tutto il mondo e con un curriculum eccellente. Il fatto che la persona identificata da Maniaci con nome e cognome sia anche un progressista sono certo che non abbia influito sulla sua scelta. È lecito tuttavia chiedere a Maniaci se accetterebbe un arbitro con eguale blasone ma conservatore e cattolico. Devo poi ammettere che mi ha un po’ stupito che Maniaci abbia scelto come caso esemplare di arbitro un filosofo del diritto e non un fisico delle particelle. La funzione dell’arbitro non è in definitiva quella di validare le nostre credenze scientifiche? A parte queste perplessità, il problema di fondo è che le teorie etiche e politiche normative non possono prescindere dal dato di realtà. Per dirla con John Rawls (1999, p. 486, traduzione mia), «[…] una concezione politica deve essere praticabile, deve cioè rientrare nell’arte del possibile». È realistico immaginare che nella società della comunicazione contemporanea, in cui le notizie e le informazioni si rincorrono senza sosta attraverso media diversi, un arbitro possa fare la differenza? I terrapiattisti si rassegneranno ad abbandonare la loro credenza perché un fisico premio Nobel affermerà autorevolmente che la terra è rotonda? Esistono peraltro già persone e gruppi autorevoli che si dedicano al fact-checking. È una attività meritoria, ma certo non decisiva per depurare il dibattito pubblico da falsità e bufale. Una concezione politica si giudica anche per la sua realizzabilità, e la democrazia liberale interventista di Maniaci sembra prescindere dalle caratteristiche della nostra società.
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In conclusione, Mill ci suggerisce di non temere le idee altrui e di non affezionarci troppo alle proprie. Anche in un mondo infestato da una cacofonia di voci e, al tempo stesso, dal conformismo del politically correct, la lezione di On Liberty non va abbandonata con troppa leggerezza.
Bibliografia Mill, John Stuart 1859 On Liberty, Penguin, London; trad. it. Saggio sulla libertà, il Saggiatore, Milano 1991. Rawls, John 1999 The Domain of the Political and Overlapping Consensus (ed. or. 1984), in Samuel Freeman (ed.), John Rawls Collected Papers, Harvard UP, Cambridge (Mass.), pp. 473-496.
Libertà di espressione e ricerca del capro espiatorio Felice Cimatti
In questa breve nota discutiamo un caso di attualità, alcuni dei commenti ad un intervento di due filosofi che esprimono la loro preoccupazione per il modo in cui, in Italia, si sta gestendo l’emergenza Covid-19, in particolare rispetto alla questione del cosiddetto green pass1. La maggioranza dei commenti critici (quelli positivi sono stati pochissimi), se non la loro totalità, non è entrata nel merito dell’appello, ma si è scatenata – l’espressione non è esagerata – contro gli stessi autori, contro la loro legittimità ad esprimersi su questioni di tipo «scientifico», sul «pericolo» che dichiarazioni del genere possono rappresentare per un’opinione pubblica troppo sensibile alle tesi dei cosiddetti no vax, e più in generale contro il mondo accademico (in particolare quello umanistico), colpevole, come si sa, di essere chiuso nella propria torre d’avorio. Il 29 luglio del 2021 Massimo Cacciari e Giorgio Agamben scrivono, in un appello congiunto2 relativo all’introduzione dell’obbligatorietà del green pass, che «la discriminazione di una categoria di persone, che diventano automaticamente cittadini di serie B, è di per sé un fatto gravissimo, le cui conseguenze possono essere drammatiche per la vita democratica. Lo si sta affrontando, con il cosidetto green pass, con inconsapevole leggerezza». Il testo è molto chiaro, non solleva particolari dubbi interpretativi: non è in questione l’utilità, e tantomeno la necessità di vaccinarsi contro 1 Certificato, che ogni cittadino deve sempre avere con sé e mostrarlo all’occorrenza, che attesta di: aver fatto la vaccinazione anti Covid-19, di essere risultato negativo al test molecolare o antigenico rapido nelle ultime 48 ore oppure di essere guarito dal Covid-19 negli ultimi sei mesi. 2 Il testo completo si può leggere qui: https://www.iisf.it/index.php/progetti/diariodella-crisi/massimo-cacciari-giorgio-agamben-a-proposito-del-decreto-sul-green-pass.html
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l’eventualità nefasta di ammalarsi di Covid-19: «nessuno invita a non vaccinarsi! Una cosa è sostenere l’utilità, comunque, del vaccino, altra, completamente diversa, tacere del fatto che ci troviamo tuttora in una fase di “sperimentazione di massa” e che su molti, fondamentali aspetti del problema il dibattito scientifico è del tutto aperto». Il punto in questione è che questo attestato – che in Gran Bretagna, nazione con una storia democratica e politica senza dubbio più lunga e onorevole di un paese che pochi decenni fa era ancora una dittatura fascista, non è ritenuto necessario per contrastare l’epidemia3 – rischia di trasformarsi, e senza un vero dibattito nazionale, in una pericolosa forma di discriminazione nei confronti di chi non voglia vaccinarsi. La questione che pongono Cacciari e Agamben è squisitamente politica: un atto giustificato da considerazioni medico-scientifiche – peraltro mai chiarite fino in fondo, e che cambiano nel tempo (qualcuno ricorda il surreale dibattito sull’utilità delle mascherine?) – che si trasforma in un atto politico che stabilisce un precedente molto grave, e tutto questo senza un vero dibattito nazionale sulle ragioni di questa decisione: «tutti sono minacciati da pratiche discriminatorie. […] Il bisogno di discriminare è antico come la società, e certamente era già presente anche nella nostra, ma il renderlo oggi legge è qualcosa che la coscienza democratica non può accettare e contro cui deve subito reagire». Un caso esemplare di libera e argomentata espressione delle proprie opinioni. Che tuttavia è stato accolto da una pressoché unanime riprovazione. In questa nota presentiamo solo alcune delle reazioni a questo pubblico appello, che come abbiamo appena visto non contiene alcuna posizione eversiva, e tantomeno antiscientifica. Un appello che intendeva solo mettere in guardia contro il rischio di una deriva antidemocratica: che cosa succede se un domani, per qualche altra «emergenza» (che come sappiamo è una categoria politico-amministrativa prima che scientifica [Agamben 2003]), il governo del momento – magari guidato da un esponente politico «amico» di nazioni come l’Ungheria della cosiddetta «democrazia illiberale» – decide che serve un «attestato» medicosanitario per poter partecipare pienamente alla vita civile e politica? 3
Qui le parole del ministro dalla sanità inglese, Sajid Javid, che dice che il green pass non serve, dal momento che i dati sull’epidemia confermano che è sotto controllo: https:// www.bbc.com/news/uk-58535258.
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È un rischio forse remoto, ma il precedente del green pass dovrebbe inquietare gli animi di tutti i democratici, e almeno andrebbe preso in considerazione. In un articolo sulla «Stampa» del 9 settembre, il logico e divulgatore Piergiorgio Odifreddi scrive, ad esempio, che «questi professori diventano oggettivi fiancheggiatori di quelle masse becere alle quali interessano soltanto le conclusioni, e non i ragionamenti […] che dovrebbero servire a giustificarli». Chi ha dei dubbi sul vaccino e sulla sua obbligatorietà è immediatanente rigettato fra le «masse becere»; dubitare è pericoloso. D’altronde, continua Odifreddi, «questo è forse il cambiamento meno evidente, ma più sostanziale, che la pandemia ha portato nel mondo. Fino al 2019 erano le opinioni a farla da padrone: nei media, nella società e in politica. Dagli inizi del 2020 i fatti sanitari hanno fatto irruzione nella nostra vita quotidiana, e ora che il pericolo sta rientrando, gli umanisti incominciano a innervosirsi. Basta guardare l’appello dei professori, per accorgersi cosa siano quasi tutti i firmatari: filosofi, letterati, linguisti, filologi, storici, giuristi, psicologi, sociologi, assistenti sociali, musicisti, designer, eccetera». A parte il disprezzo per i saperi umanistici, c’è da notare anche il fatto (sic) che «fatto» è una parola esattamente quanto «interpretazione», ma questa, direbbe forse Odifreddi, è una sottigliezza da filosofi. Più serio è che Odifreddi non si renda conto che quello che non è affato evidente, nel 2021 ma anche prima, è che cosa siano i «fatti sanitari»: vogliamo ricordare l’enorme quantità di fatti contrastanti e fra loro contraddittori che sono stati presentati dagli scienziati, e non dai no vax, come fatti indiscutibili proprio sui vaccini e la loro efficacia, per poi essere smentiti e smentirsi da soli poco tempo dopo? Quando i «fatti sanitari» cambiano ogni giorno, sarà legittimo chiedersi che sta succedendo? Su «Micromega» il sindacalista Giorgio Cremaschi (solo i filosofi non possono parlare dell’epidemia, in quanto non sono scienziati; tutti gli altri possono parlare di tutto) scrive invece che Agamben e Cacciari «sono perfetti liberali e liberisti reazionari, che si scontrano con altri liberali, che invece oggi sono semplicemente più pragmatici. È una guerra civile all’interno del mondo liberale, con i fanatici dell’individualismo che oramai parlano come QAnon e che si contrappongono a quelli che dicono: qualche regola dobbiamo metterla,
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altrimenti finiamo in una strage che mortificherebbe l’economia»4. Probire l’accesso all’Università, cioè al luogo del sapere libero e per definizione accessibile a tutti, a qualcuno perché privo del green pass non è qualcosa di preoccupante? Perché in altre nazioni del mondo, con dati epidemici molto simili a quelli italiani (come appunto la Gran Bretagna), non viene usato uno strumento del genere? E chi stabilisce come distinguere fra i liberali «reazionari» e quelli «pragmatici»? «La pandemia esiste e uccide e non si combatte con le chiacchiere filosofiche, ma con i vaccini, la sanità pubblica e le regole, mettendo la salute al primo posto e prima degli affari in ogni caso». Tralasciando le «chiacchiere filosofiche» (la filosofia non è mai piaciuta, a destra come a sinistra), il punto sollevato da Cacciari e Agamben è proprio questo, chi ha stabilito di mettere «la salute al primo posto»? Ancora, scrive Roberto Frega (ricercatore presso il CNRS di Parigi)5 che «la limitazione della libertà personale in vista del bene altrui è il principio fondativo e costitutivo del liberalismo, e non del totalitarismo come capziosamente fanno intendere i due filosofi» (è evidente che la qualifica di «filosofo», in questa vicenda, equivale ad un insulto). Cacciari e Agamben non parlano in astratto di libertà personale, ma della divisione dei cittadini, mediante un atto politicoamministrativo che quindi sfugge al controllo democratico, in due categorie di individui, una che può muoversi senza limitazioni (purché sia sempre sotto controllo), l’altra no. Una simile «limitazione della libertà personale» può essere discussa pubblicamente? Si sono ascoltate le ragioni di chi non vuole essere tracciato e vincolato dal green pass? Si è chiesto a chi non vuole vaccinarsi a che cosa è disposto a rinunciare in nome del diritto del vaccinato o della persona dalla salute fragile di non ammalarsi? Chi ha stabilito, e come, qual è il «bene altrui» e che, per rimanere al punto, questo bene non comprende il diritto di chi è regolarmente iscritto all’università di poterne frequentare le lezioni? E infine (ma gli esempi sono tantissimi, non serve ripeterli), «impone di sottolineare», scrive il filosofo morale Maurizio Mori6, «che la filosofia è ben altra cosa dai pensieri vaghi e abborracciati proposti 4
https://www.micromega.net/cacciari-e-agamben-perfetti-liberali-e-liberisti-reazionari/. https://www.huffingtonpost.it/entry/se-cacciari-pensa-come-agamben_nit_6101020ee4b0048f3617cc52. 6 https://www.consultadibioetica.org/su-cacciari-e-agamben-di-maurizio-mori/. 5
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da Cacciari e Agamben, la cui fama è dovuta a testi fumosi e incomprensibili (almeno io non riesco a capirli) accompagnati da ottimo marketing». L’accusa di non capire quello che scrive chi non ci piace è davvero curiosa (forse ci ci potrebbe sforzare di più, verrebbe da dire), e tuttavia ricorre molto spesso; chi la pensa diversamente in realtà non pensa affatto, non usa nemmeno una lingua comprensibile. Della preoccupazione politico-democratica di Cacciari e Agamben non si parla, proprio non la si vede: in effetti, «invece di condannare il Green Pass come fonte di presunta “discriminazione”, è opportuno ricordare che il Green Pass è forse il segno del nostro ingresso in una nuova fase storica: quella in cui la società si affida sempre più alla scienza e all’efficienza sanitaria» (Foucault ne parlava già mezzo secolo fa, in effetti): è questo il punto, in questa «nuova fase storica» le decisioni vengono spesso prese da istituzioni poco o per nulla democratiche, in base a principi – come questa sinistra «efficienza sanitaria» – non sempre trasparenti e imposti come se i cittadini fossero incapaci di capire e di scegliere per sé. Lo sa benissimo lo stesso Mori, che le «innovazioni tecnologiche ci stanno facendo entrare in condizioni storiche del tutto nuove e per questo l’esercizio della libertà assume modalità altrettanto nuove e va ripensato»: era proprio quello che chiedevano Cacciari e Agamben. Per provare a dare conto di questa serie di reazioni in cui non viene mai discusso il punto in questione forse allora non serve la retorica né la teoria dell’argomentazione, tanto meno il diritto, men che meno la scienza: serve la nozione antropologica di «capro espiatorio» così come la presenta René Girard ne La violenza e il sacro: Qualsiasi comunità in preda alla violenza o oppressa da qualche disastro al quale è incapace di porre rimedio si getta volentieri in una caccia cieca al «capro espiatorio». Istintivamente, si cerca un rimedio immediato e violento alla violenza insopportabile. Gli uomini vogliono convincersi che i loro mali dipendono da un unico responsabile di cui sarà facile sbarazzarsi (Girard 1972; trad. it., 1980, p. 85).
Non si può nascondere che il ricorso alla nozione di «capro espiatorio» rappresenta una sorta di rinuncia all’ottimistica idea che il «politicamente corretto» – inteso nel modo più ampio possibile – possa garantire da un lato la «libertà di espressione» e dall’altro evitare di farne un uso discriminatorio. In effetti, quello che il caso delle
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reazioni all’appello di Cacciari e Agamben mostra con evidenza è che questa libertà viene «garantita» finché non si discute di questioni davvero essenziali, cioè finché, paradossalmente, la discussione è soltanto una faccenda di parole e discorsi. Quando la posta in gioco è decisiva, cioè quando parlare significa agire in un modo anziché in un altro, spesso del tutto diverso da quello stabilito dalle autorità, allora la stessa libertà di espressione viene messa in questione. Nel suo recente Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio, Claudia Bianchi scrive che chiunque partecipi del campo linguistico ha due responsabilità: in primo luogo «abbiamo una pesante responsabilità negativa: possiamo (intenzionalmente o meno) legittimare interpretazioni indebolite e ingiuste, autorizzare la riduzione al silenzio di certi individui, avallare discorsi d’odio» (Bianchi 2021, p. 8). Le voci critiche di Agamben e Cacciari, come abbiamo appena visto, non fanno nulla per evitare questo rischio, anzi, lo accettano molto volentieri. E si tratta di persone che in linea di principio dovrebbero essere particolarmente sensibili al tema della «libertà di espressione». In effetti la seconda responsabilità, per Claudia Bianchi, è ancora più importante: Accanto a questa responsabilità negativa, abbiamo anche una formidabile responsabilità positiva: possiamo ostacolare la distorsione degli atti linguistici degli altri, contrastare i meccanismi alla base della riduzione al silenzio, della subordinazione e, più in generale, del linguaggio d’odio. La riflessione teorica stessa può rivelarsi una forma di resistenza concettuale, che ci impegna in qualità di filosofe e filosofi. La filosofia ci permette di plasmare nuove, potenti nozioni, e di metterle a disposizione non solo degli individui ma anche del mondo giuridico, medico, educativo (ibid.).
Sono stati però proprio i filosofi, cioè colore che per professione dovrebbero saper argomentare, quelli che con maggiore accanimento si sono scagliati contro Agamben e Cacciari; ossia chi più di ogni altro avrebbe dovuto difendere la possibilità di esprimere dubbi sostanziali sulla situazione presente. In effetti, quello che viene messo in questione è il diritto stesso di Cacciari e Agamben di esprimersi sulle politiche vaccinali, non quello che dicono. Scrive in modo esemplare il giornalista Francesco Cundari a proposito della lettera di cui stiamo ragionando: «personalmente trovo anche sbagliatissimo l’argomento con cui la Stampa ha presentato l’articolo, dichiarando di
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non condividerne le tesi, ma di pubblicarlo ugualmente “per aprire un dibattito”. Nobile intento finché si tratta di opinioni politiche, comprese ovviamente tutte le critiche che si possono fare al green pass e alle relative decisioni del governo, ma decisamente meno condivisibile quando l’articolo in questione contribuisce a diffondere dubbi e timori infondati, cioè fondati su dati o interpretazioni di dati palesemente erronee, riguardo delicatissimi problemi di salute pubblica, con concrete e dolorosissime conseguenze, facilmente prevedibili, per tutti noi»7. Il problema non è più quel che si dice, ma la legittimità stessa di poterlo dire, e per negarla si attribuiscono a chi dissente delle tesi che non sostiene (ricordiamo l’esplicito «nessuno invita a non vaccinarsi!» della lettera di Cacciari e Agamben8). Di fronte all’emergenza occorre tacere, punto e basta, ossia accettare senza discutere tutto quello che il governo dell’emergenza ha deciso che sia necessario accettare. Il punto decisivo è che ciò di cui non bisogna parlare è soprattutto quanto l’emergenza sia, appunto, un’emergenza. La filosofia, in fondo, non serve ad altro che a mettere in questione l’assolutezza, ossia la sua presunta indiscutibilità, di ogni emergenza. Perché la filosofia sa che l’emergenza non esiste in natura, che c’è sempre una decisione che istituisce uno stato di emergenza, si tratti di un evento naturale o di uno storico. Una decisione che è tanto più potente e pericolosa quanto meno è chiaro chi, e perché, l’abbia assunta. Il caso di Agamben e Cacciari mostra il punto cieco del politicamente corretto, il suo fondamento nascosto; si ammette la «libera» discussione solo a patto che non si metta in questione la paura che è al fondo di tutti i nostri discorsi. Di fronte alla paura scatta il riflesso primitivo della ricerca del capro espiatorio. Si parli di tutto, ma non della paura che precede il linguaggio; chi ci prova lo stesso deve essere immediatamente messo al bando. Ma non parlare della paura, e delle sue conseguenze per la libertà di pensiero e di azione, vuol dire 7
https://www.linkiesta.it/2021/07/vaccini-morti-green-pass-cacciari/. Riportiamo, per mostrare quanto sia scorretto attribuire, in particolare ad Agamben, una posizione critica sul vaccino da un punto di vista medico-scientifico, quanto scrive lo stesso Agamben: «per questo è importante innanzitutto chiarire che il problema per me non è il vaccino, così come nei miei precedenti interventi in questione non era la pandemia, ma l’uso politico che ne viene fatto, cioè il modo in cui fin dall’inizio essi sono stati governati» («La Stampa», 30 luglio 2021). 8
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rinunciare, in fondo, a ragionare dell’unica cosa di cui è davvero il caso di parlare. Scrive ancora Claudia Bianchi, riprendendo (quasi) esplicitamente l’undicesima tesi di Marx su Feuerbach: «filosofe e filosofi sono ormai pienamente consapevoli del potere della loro disciplina, in grado di contribuire all’oppressione e allo sfruttamento di gruppi e individui, o invece alla loro liberazione ed emancipazione – sono consapevoli della loro capacità non solo di interpretare il mondo, ma anche di cambiarlo» (Bianchi 2021, p. 8). Bianchi è ottimista, e sembra ritenere che la filosofia e il linguaggio rientrino nel campo della razionalità e del dialogo, almeno in linea di principio. C’è però una pulsione oscura e brutale al di qua della filosofia, e quindi dell’argomentazione e dell’emancipazione, una pulsione che entra in azione quando qualcuna o qualcuno, una filosofa o un filosofo, cerca di portarla alla luce. Perché in fondo vogliamo avere paura, perché la paura arresta il pensiero. E il pensiero disturba. Forse, prima ancora del «politicamente corretto» e delle eventuali strategie giuridico-discorsive per combattere l’hate speech, c’è bisogno di prendere coscienza che c’è un odio primordiale che precede il linguaggio e l’argomentazione. Un odio originario, l’odio per chi prova a mettere in questione l’indiscutibilità della paura. L’odio per chi prova a pensare.
Bibliografia Agamben,Giorgio 2003 Lo stato di emergenza, Bollati Boringhieri, Torino. Bianchi, Claudia 2021 Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio, Laterza, Roma-Bari. Girard, René 1972 La violence et le sacré, Grasset, Paris; trad. it. La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980.
Verità, violenza e dignità di ciascuna persona Franco Lo Piparo
1. Tutti gli esseri viventi esercitano violenza per proteggere o ampliare il proprio spazio vitale. Lo fanno gli animali complessi come il leone, il cane, il coccodrillo ecc., e lo fa anche un vivente dalla struttura semplice come un virus. Cosa rende specifica e unica la violenza degli umani? L’uomo può esercitare violenza solo giustificandola. Anche la più aberrante violenza l’animale umano può praticarla solo raccontando a sé stesso e agli altri le ragioni che la spiegano e ne forniscono un senso. Vale per i delitti d’onore o per gelosia, per i delitti di mafia, per tutte le violenze politiche e religiose, eccetera. Come casi esemplari opposti possono essere assunti le torture e le uccisioni perpetrate dal Tribunale della Santa Inquisizione e la persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti. In entrambi i casi la violenza è guidata da un fine «nobile» fatto di ragionamenti e di cultura: l’eretico è un peccatore che va punito perché «Dio lo esige», l’ebreo è un deicida che contamina la razza umana. La violenza umana è sempre culturalizzata. Non a caso, tutte le guerre, anche le più aggressive, sono vissute e presentate come difensive. Il corollario è che la violenza umana ha sempre a che fare col linguaggio. Non perché con le parole ci si offende o perché una parola, detta in determinate circostanze e in un determinato modo, a volte è anche più violenta e offensiva di una azione violenta, o perché, per usare la bella immagine di Francesca Piazza, la parola può essere letale quanto la spada. Sto sostenendo una tesi ancora più radicale: la violenza degli umani è sempre linguistica anche quando chi la esercita non proferisce alcuna parola.
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Sulla costitutiva linguisticità della violenza umana vorrei soffermare la vostra attenzione. Le argomentazioni verbali, non necessariamente dette esplicitamente, che accompagnano sempre (e sottolineo l’avverbio «sempre») le violenze umane e le conferiscono senso sono rette da un operatore concettuale unicamente umano: la Verità. È vera la regola che mi impone l’uccisione della donna o dell’uomo che mi ha tradito, è vero che eretici e ebrei e controrivoluzionari inquinano la purezza etica dell’umanità, è vero che X mi vuole aggredire ed è giusto che io mi difenda, è vero che non bisogna mantenere il popolo o l’individuo X nell’errore e nel peccato e questo giustifica le mie azioni coercitive, eccetera. La violenza umana è governata dalla coppia, unicamente umana, vero/falso. In molte pagine del Vecchio Testamento (ma anche dell’Apocalisse) la Verità ha le sembianze di Dio e la violenza viene esercitata in nome del Dio-Verità («Dio lo vuole»). È importante tenere ben presente l’intreccio non superficiale di linguaggio, verità e violenza. Lo dico in maniera apparentemente estrema: la verità sembra avere una naturale vocazione bellica. La società totalitaria descritta nel romanzo 1984 è governata dal Ministero della verità che organizza periodicamente le settimane dedicate all’odio contro chi vive nella falsità. La verità, nella rappresentazione che ne fa Orwell, si alimenta di odio contro chi sta nel falso. La verità è quindi anche una pratica e per questo è impossibile recidere da essa il côté politico. 1.1. Una breve parentesi storico-filosofica. La coppia vero/falso sussiste solo in un universo in cui si parla o, detto in modo più tecnico, verità e falsità hanno una natura proposizionale. È d’obbligo per me la citazione del Libro Gamma della Metaphysica di Aristotele. Leggiamola. Il falso consiste nel dire (légein) che non è ciò che è o che è ciò che non è; il vero consiste nel dire (légein) che è ciò che è o che non è ciò che non è. Pertanto, colui che dice che è o non è o dirà il vero o dirà il falso. (1011b, 26-27).
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Ho messo in corsivo le occorrenze del verbo dire (légein in greco) perché qui è il cuore della definizione. Spesso questo è invece un aspetto che viene trascurato. Qualcosa è vero o falso in quanto viene detto. Nella terminologia moderna si può precisare così: verità e falsità hanno natura proposizionale. Al di fuori del circuito proposizionale non c’è il vero/falso ma la realtà. La confusione di verità e realtà è ricorrente nel dibattito filosofico ed è alla radice di molti equivoci. La coppia linguistica vero/falso domina la vita, individuale e collettiva, degli umani ed è onnipresente nelle pratiche discorsive umane. Basti pensare che noi ci lasciamo persuadere solo da discorsi che ci appaiono veri. Anche in questo caso Aristotele ci è da guida: Noi persuadiamo {cerchiamo il consenso} mediante i discorsi quando mostriamo ciò che è vero o ciò che appare vero a partire da ciò che è persuasivo rispetto a ciascun argomento (Retorica, 1356a 19-20).
Ciò che è vero o viene percepito come vero persuade. Non siamo disposti a dare il nostro consenso a discorsi che pensiamo siano falsi. Questo complica il nostro problema. 2. La questione della verità è ancora più ingarbugliata. Vi racconto un aneddoto filosofico di Amartya Sen da me modificato e che ho già raccontato altrove (Lo Piparo 2014). All’aneddoto ho dato il titolo Un flauto e tre bambini. Tre bambini aspirano al possesso esclusivo e personale dell’unico flauto esistente nel loro ambiente. Decidono di risolvere la controversia pacificamente mediante il ricorso all’argomentazione linguistico-razionale. Ai bambini ho attribuito nomi simbolici: Mozart, Marx, Smith. Il bambino che si chiama Mozart sostiene che il flauto spetta a lui perché è l’unico dei tre a saperlo suonare. I bambini Marx e Smith, concordano: è vero che Mozart è l’unico dei tre a saper suonare il flauto. Marx a sua volta sostiene che il flauto spetta a lui perché è il più povero dei tre, non ha giocattoli a casa e il flauto sarebbe il suo unico giocattolo. Mozart e Smith concordano: è vero che Marx è il più povero dei tre.
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Secondo Smith invece il flauto spetta a lui perché è stato lui ad averlo progettato e costruito. Mozart e Marx concordano: è vero che è stato Smith a costruire il flauto. Tra Mozart, Marx e Smith non esiste alcuna divergenza nella descrizione dei dati oggettivi che compongono la situazione in cui si trovano a operare. Tutti e tre concordano che solo Mozart sa suonare il flauto, che solo Marx non possiede giocattoli, che solo Smith ha progettato e costruito il flauto. Nessuno dice all’altro: «è falso quello che tu dici». E però ciascuno trae conclusioni operative differenti dalla medesima rappresentazione vera dei fatti. La verità empirica dei fatti (nessun bambino dice all’altro: «è falso quello che tu dici») non consente di decidere a chi spetta la proprietà del flauto. L’asserzione «Il flauto è mio» non dipende dai fatti detti (tutti e tre riconoscono che è vero che Mozart è l’unico a sapere suonare il flauto, Marx è il più povero, Smith ha costruito il flauto), bensì da ciò che non viene esplicitamente detto e che è al fondamento del tipo di fatto empirico che ciascun bambino assume come pertinente: il talento va premiato e gli strumenti appartengono a chi li sa usare (Mozart); la distribuzione equa della ricchezza è un valore primario (Marx); al produttore spetta la proprietà degli oggetti che costruisce (Smith). I tre bambini sono esempi di animali umani iper-razionali e dialoganti che raramente si incontrano nella realtà. Nella realtà accade che il bambino più forte e più prepotente si impossessa del flauto e, una volta acquisito il flauto, giustifica la violenza a cui ha fatto ricorso. Mozart dirà: «ho fatto ricorso alla violenza per ottenere ciò che è giusto che io abbia essendo io, dei tre, il solo che sa suonare il flauto». Marx giustificherà la violenza col suo stato di povertà, Smith in nome del principio secondo cui è giusto che ciascuno goda dei frutti del proprio lavoro e del proprio ingegno. 2.1. L’esempio del flauto e dei tre bambini è molto istruttivo. Trovare proposizioni empiriche vere a conferma di teorie politiche è relativamente facile. «Fa parte della logica delle nostre ricerche scientifiche, che di fatto certe cose non vengano messe in dubbio» – ha annotato
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Wittgenstein nel diario filosofico scritto poco prima di morire (DC, § 342). Questo vale a maggior ragione per le culture non scientifiche: «Le domande che poniamo e il nostro dubbio riposano su questo: che certe proposizioni sono esenti da dubbio, come se fossero i perni sui quali si muovono quelle altre» (DC, § 341). Le proposizioni che funzionano da perni o fondamento attorno a cui ruota la nostra ricerca vengono chiamate Scheinsätze «proposizioni apparenti» nel Tractatus, credenze nelle Ricerche e soprattutto in Della Certezza. Credenza è una proposizione, non necessariamente esplicitamente detta, a cui si presta fede-fiducia. Poche citazioni: Io credo (Ich glaube) a quello che gli uomini mi trasmettono in una certa maniera. Così credo a dati di fatto geografici, chimici, storici. Così imparo le scienze. Naturalmente l’imparare riposa sul credere. Chi ha imparato che il Monte Bianco è alto 4000 metri, chi l’ha letto sulla carta geografica dice di saperlo. (DC, § 170). «Il bambino impara perché crede (glaubt) agli adulti. Il dubbio viene dopo la credenza. Ho imparato un numero enorme di cose, e le ho accettate in forza dell’autorità di alcuni uomini, e poi ho trovato che alcune cose erano confermate, e che altre erano confutate dalla mia esperienza personale. In generale quello che trovo (per esempio) nei manuali di geografia, lo ritengo vero. Perché? Dico: Tutti questi fatti sono stati confermati centinaia di volte. Ma come faccio a saperlo? Quali prove ho? Ho un’immagine del mondo. È vera o è falsa? Prima di tutto, è il substrato di tutto il mio cercare e di tutto il mio asserire. Le proposizioni che la descrivono non sono tutte egualmente sottoposte a controllo. […]. Quando mai controlliamo qualcosa, facendolo presupponiamo già qualcosa che non si controlla. (DC, §§ 160-162).
Wittgenstein trae conseguenze di ordine generale: Se il vero è ciò che è fondato, allora il fondamento non è né vero né falso (DC § 205). A fondamento della credenza fondata sta la credenza infondata (DC, § 253). Io non imparo espressamente le proposizioni che per me sono stabilite una volta per tutte. Posso trovarle in seguito come l’asse intorno a cui ruota un corpo. Questo asse non è fisso nel senso che è tenuto fisso, ma il movimento che si svolge intorno ad esso lo determina come non-mosso. (DC, § 152).
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[…] certe proposizioni sembrano stare a fondamento di ogni chiedere e di ogni pensare (DC, § 415). Come se una volta o l’altra la fondazione non giungesse a un termine. Ma il termine non è la presupposizione infondata, sibbene il modo d’agire infondato. (DC, § 110; corsivo mio). Quando ho esaurito le giustificazioni arrivo allo strato di roccia, e la mia vanga si piega. Allora sono disposto a dire: «Ecco, agisco proprio così» (RF, I, § 217).
Tornando ai tre bambini, il loro dissenso non verte sulle verità fattuali, su cui concordano, ma sulle proposizioni non dette (Scheinsätze) o, nel lessico post-Tractatus, sul «fondamento infondato né vero né falso» che pertinentizza in modo specifico le rispettive verità fattuali. 3. Quando le credenze-fedi (Scheinsätze) o fondamenti-infondati entrano in conflitto cosa succede? O la guerra o la persuasione-conversione dell’avversario, che, a pensarci bene, altro non è che una guerra dolce fatta con parole. Riporto un’altra annotazione scritta da Wittgenstein cinque giorni prima dlla morte: Dove si incontrano effettivamente due principi che non si possono riconciliare l’uno con l’altro, là ciascuno dichiara che l’altro è folle ed eretico. Ho detto che «combatterei» l’altro – ma allora non gli darei forse ragioni? Certamente, ma fin dove arrivano? Al termine delle ragioni c’è la persuasione. (Pensa a quello che accade quando i missionari convertono gli indigeni). (DC, §§ 611-612).
Wittgenstein ci lascia qui. Coi tre bambini indecisi se procedere a una guerra combattuta con le armi o a una guerra dolce, chiamata persuasione, combattuta con discorsi. Che fare? Se tutte le culture (religiose e non religiose) hanno un fondamento di verità infondate, che correttamente Wittgenstein (ma anche Gramsci) chiamava fedi, quale insegnamento pratico trarre che non sia il relativismo? La mia risposta è: cominciare con l’obbligarci allo
verità, violenza e dignità di ciascuna persona
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sforzo di dire le proposizioni non dette (Scheinsätze) che formano il fondamento-infondato del nostro modo di stare nel mondo. 3.1. Il mio fondamento-infondato o, se preferite, la mia fede-credenza? Un aggiornamento in chiave popperiana e evangelica della religione della libertà che Benedetto Croce propose nel 1932 nella Storia d’Europa e che allora (adesso non lo sarebbe più) fu messo all’Indice dalla Chiesa cattolica. Uno dei pilastri è formulato in due articoli della Dichiarazione dei diritti dell’uomo (1948): Articolo 1: Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. Articolo 5: Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumani o degradanti.
Il contenuto di questi due brevi articoli è il risultato finale di due millenni di maturazione laica di diverse pagine dei Vangeli. Non a caso sono riproposti quasi alla lettera nell’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco1: [I pilastri della fede cristiana sono:] l’inalienabile dignità di ogni persona umana al di là dell’origine, del colore o della religione, e la legge suprema dell’amore fraterno» (39). Ogni essere umano ha diritto a vivere con dignità e a svilupparsi integralmente, e nessun Paese può negare tale diritto fondamentale (107). Ognuno è pienamente persona quando appartiene a un popolo, e al tempo stesso non c’è vero popolo senza rispetto per il volto di ogni persona. Popolo e persona sono termini correlativi (182). 1
Cito dalle Edizioni Paoline; il numero tra parentesi si riferisce al paragrafo.
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C’è un diritto umano fondamentale che non va dimenticato nel cammino della fraternità e della pace: è la libertà religiosa per i credenti di tutte le religioni (279). […] l’amore di Dio è lo stesso per ogni persona, di qualunque religione sia. E se è ateo, è lo stesso amore. Quando arriverà l’ultimo giorno e ci sarà sulla terra la luce sufficiente per potere vedere le cose come sono, avremo parecchie sorprese! (281).
Una domanda che mi sono posto altre volte: come comportarsi nel caso in cui la religione della fratellanza, dell’amore, della libertà fosse messa in pericolo da chi ti combatte con violenza? Che fare? È consentito ricorrere alla violenza difensiva? La mia risposta è: Sì. E torniamo al punto da dove siamo partiti: la verità, anche la verità mite che riconosce la legittimità di altre verità, ha una ineliminabile vocazione bellica.
Bibliografia Francesco (Jorge Mario Bergoglio) 2020 Fratelli tutti. Lettera enciclica sulla fratellanza e l’amicizia, Edizioni Paoline, Roma. Lo Piparo, Franco 2014 Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere, Donzelli, Roma. Wittgenstein, Ludwig 1953 Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford; trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967. 1969 Über Gewißheit, Basil Blackwell, Oxford; trad. it. Della Certezza, Einaudi, Torino 1978.
iii. Riso
Risus abundat? Al confine tra libertà di espressione e violenza verbale Salvatore Di Piazza
1. Introduzione La questione che sta al centro di questo breve saggio riguarda gli effetti che il riso produce sulla relazione tra diritto alla libertà di espressione, da un lato, e potenziale esercizio di violenza verbale, dall’altro. In sintesi, la domanda che ci poniamo è se la presenza del riso aumenti lo spettro della libertà di espressione riducendo quello della violenza verbale, oppure, al contrario, se proprio l’elemento del riso non determini, invece, una moltiplicazione di violenza in alcune situazioni discorsive. Questo intreccio – intricato e non lineare – tra riso, violenza verbale e libertà di parola mette in gioco due aspetti che sono tra di loro strettamente correlati: uno relativo, per così dire, alle questioni connesse col riso, che si potrebbe sintetizzare con la domanda: «si può ridere di tutto?»; un altro relativo, invece, alle parole da usare quando c’è di mezzo il riso e riassumibile nella domanda: «si può dire di tutto in un discorso connesso al riso?». Collegare la questione della libertà di espressione e della violenza verbale al tema del riso ci dovrebbe aiutare a verificare se ci sono delle specificità che non emergono in situazioni non esplicitamente riconducibili al riso e, quindi, a capire qualcosa di più sulla natura tanto del riso quanto della violenza verbale. 2. La complessità del pubblico Una prima precisazione riguarda, in generale, la questione del riso. Di proposito abbiamo fin qui parlato molto vagamente di «di-
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scorso connesso con il riso», «questioni connesse col riso» ecc., perché effettivamente la tematica del ridere è piuttosto refrattaria ad essere incasellata in gabbie concettuali rigide, trattandosi piuttosto di «un fenomeno così complesso che nessuna teoria è, o almeno è stata fino ad oggi, in grado di spiegarlo completamente» (Eco 2017, p. 61). E questo, sia nel senso che ci sono diverse pratiche linguistiche connesse al riso non sempre facilmente distinguibili (la satira, l’umorismo, l’ironia, il sarcasmo ecc.), sia nel senso che non è sempre chiara la natura del ridere (che vuol dire ridere? quanti tipi di riso ci sono? che differenza c’è tra il ridere e il sorridere? ecc.), sia, ancora, nel senso che non è chiaro il ruolo che il riso occupa in queste pratiche discorsive (si tratta dell’effetto perlocutorio che queste pratiche vogliono ottenere? oppure è un effetto collaterale, per così dire, che si accompagna all’espressione di un’opinione? ecc.)1. Vista l’impossibilità di affrontare tali questioni nel dettaglio, ci riferiremo qui, dunque, a pratiche linguistiche che si realizzano – detto molto genericamente e parafrasando Aristotele sul logos – con il concorso del riso, meta gélotos. Fatta questa premessa, è bene ricordare quella che è, probabilmente, una banalità, ma dalle conseguenze tutt’altro che banali, ovvero che in tutte le pratiche linguistiche che hanno a che fare con il riso è centrale, in vari sensi, la dimensione pubblica. Non soltanto perché una qualsiasi pratica che punti a produrre il riso si realizza pienamente se c’è un pubblico che riconosca tale natura comica2, ma anzitutto perché, come dice Freud a proposito del Witz, esso richiede un proprio pubblico (Freud 1905; trad. it. 1972, p. 1353). Non c’è, infatti, solo l’autore dell’intervento comico, non c’è solo (e non è detto che ci sia sempre) colui del quale si vuol ridere, ma soprattutto c’è anche un terzo, che può scegliere se ridere o meno: il pubblico. Ora, il problema è che, oggi, identificare e definire quale sia questo pubblico è estremamente difficile. Una pratica comica che nasce all’interno di una comunità, e che a quella comunità si rivolge, può trovare improvvisamente – e, talora, inaspettatamente – un pubblico del tutto 1
Per una disamina dettagliata della complessità del riso, oltre al classico Bergson 1900, rimandiamo a Ceccarelli 1988, Le Breton 2018 e Minois 2000. 2 Tutte le volte che utilizzeremo l’aggettivo «comico» ci riferiremo genericamente ad una qualsiasi delle pratiche che puntano a suscitare il riso. 3 Questo tema, proprio a partire da Freud, viene ripreso da Virno 2005 e Lo Piparo 2019.
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distante da quello per cui nasce, con credenze di sfondo non sempre condivise. Chiaramente, quanto più diverso è il pubblico reale rispetto a quello ipotizzato, tanto più è facile che alcune forme comiche risultino inappropriate. È vero, infatti, l’inverso – come ancora Freud osservava –, ovvero che «ridere degli stessi motti di spirito è prova di una vasta concordanza psichica» (ibid.), l’assenza della quale, invece, può risultare estremamente problematica. Non è un caso che nell’art. 21 della nostra Costituzione la libertà di espressione abbia un esplicito limite costituito dal «buon costume»4, espressione, questa, che rimanda esplicitamente a ciò che caratterizza una comunità piuttosto che un’altra. Si capisce bene, quindi, come emerga inevitabilmente un problema strutturale, in una società che è al tempo stesso globalizzata (dove un messaggio che nasce, appunto, per una comunità si trova in maniera virale proiettato in altre comunità, magari culturalmente molto differenti) e multietnica (dove convivono «minoranze» e «maggioranze» culturalmente molto diverse tra di loro): dunque, tanti «buoni costumi» – per riprendere l’espressione dell’art. 21 –, per comunità che però non sono più distanti ma che, virtualmente o concretamente, si trovano a convivere. Uno spazio pubblico condiviso, insomma, che non può essere facilmente monopolizzato da un singolo «buon costume». 3. Il riso che dissacra Il tipo di riso che è interessante mettere in relazione con potenziale violenza verbale e libertà di espressione non è, ovviamente, il riso innocuo e bonario, ma è il riso che ha «una notevole carica desacralizzante» (Bettini et al. 2020, p. 21), nel senso letterale del termine, cioè il riso che dissacra, che rompe la sacralità che avvolge alcune questioni di cui, appunto, non si può ridere nello spazio pubblico (la religione, la Shoah, la morte, la malattia ecc.), ma anche la sacralità che caratterizza alcune parole, che proprio per il loro potenziale violento, offensivo, denigratorio diventano impronunciabili, ancora una volta, nello spazio pubblico. Ma qualsiasi tema può essere accompa4 «Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume» (art. 21 della Costituzione).
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gnato dal riso (Shoah, morte, disabilità ecc.)? E ancora, si possono più agevolmente utilizzare parole percepite come denigratorie, in virtù del fatto che ci si trova in una situazione di comicità? Per rispondere a queste domande vediamo anzitutto quali possono essere alcuni vantaggi della dissacrazione e della rottura del tabù. Anzitutto, dissacrare con il riso ci consente di svuotare un simbolo della sua forza simbolica e di osservare, quindi, da una posizione nuova – privilegiata perché non idolatrica –, questioni altrimenti considerate indiscutibili. Inoltre, spezzare il tabù attraverso la comicità, ha il vantaggio di limare, anche se lentamente e faticosamente, proprio l’elemento più pericoloso e paradossale di qualsiasi tabù, ovvero il fatto che esso – che nasce per limitare un qualcosa di potenzialmente offensivo –, quanto più rimane tabuizzato ed inattingibile, tanto più amplifica il suo potenziale di violenza, come tutto ciò che è proibito. Questo processo di dissacrazione ha un canale privilegiato quando proviene dall’interno del cosiddetto gruppo target. Pensiamo, per esempio, tra le tante declinazioni possibili della questione, al noto humor nero della comunità ebraica, che ride, dissacrandola, della Shoah, ovvero di una tragedia di cui è stata vittima: quel ridere, proprio perché proviene dal gruppo target, sembra produrre una sublimazione della violenza, quella violenza che si sprigionerebbe, appunto, per il fatto di ridere di una tragedia. In questo caso specifico si tratta di un modo per fare i conti con il passato, per mantenere vivo il ricordo di un evento catastrofico, provando a guarire le nevrosi di un intero popolo. Un riso, insomma, in cui l’effetto potenzialmente violento viene sostituito da un effetto di rafforzamento identitario. Ma questo effetto di sublimazione è possibile perché – e questo caso ce lo ricorda in maniera esemplare – non c’è un discorso (non soltanto satirico o umoristico, ma un qualsiasi discorso in generale) che sia indipendente dal parlante e dall’ascoltatore, laddove invece, per dirla con Aristotele, il logos si compone, sì, di ciò che si dice, ma anche di colui che parla e di colui al quale si parla (Lo Piparo 2014). È proprio in virtù di questo aspetto, per esempio, che l’ebreo può ridere, con l’ebreo, del lager5.
5 Non è un caso, del resto, che in molti casi il gruppo target si consideri come l’unico legittimato a ridere della propria sventura (sia essa una malattia, un evento luttuoso, un elemento di discriminazione ecc.). L’estensione del riso dal gruppo target all’esterno aggiunge un elemento di problematicità.
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4. Le «buone» intenzioni La relazione riso/violenza in questo caso è semplificata, in fondo, dal fatto che chi ride di ciò di cui non si potrebbe ridere è, appunto, il gruppo target, le cui «buone» intenzioni difficilmente potrebbero essere messe in discussione. Ma proprio questo è uno dei punti cruciali della questione: il ruolo giocato dalle intenzioni – per quanto appartenenti ad una sfera privata e quindi non sempre facilmente incorporabili in una teoria – è determinante. Nel caso dell’ebreo che ride della Shoah o di un disabile che ride della disabilità, ci sentiamo rassicurati da «buone» intenzioni facilmente identificabili e, come detto, la violenza di quella dissacrazione viene in un certo senso sublimata. Se, però, è qualcun altro che non appartiene al gruppo target a mettere in atto la situazione comica o se, più in generale, sono difficilmente identificabili le «buone» intenzioni6, allora l’effetto violento sta sempre più in agguato: si potrebbe leggere una volontà di derisione, e la rottura del tabù sprigionerebbe, in questo caso, il suo potenziale violento. A dirla tutta, questo potenziale violento, pur se in parte sublimato – come abbiamo detto –, perfino nei casi di «buone» intenzioni, in qualche misura, fa capolino: è l’effetto straniante che, in ogni caso, viene prodotto dalla dissacrante rottura del tabù. Questo aspetto del permanere del residuo di violenza anche nei casi di «buone» intenzioni diventa più chiaro se guardiamo per un attimo la questione da un punto di vista più strettamente linguistico, di espressioni denigratorie utilizzate all’interno di una cornice comica7. Il fatto che delle parole denigratorie – e, per questo, percepite come tabù nella sfera pubblica (per esempio gli slurs) – vengano utilizzate all’interno di una situazione comica, facilita il riconoscimento 6 Ovviamente, l’appartenenza o meno al gruppo target non è l’unico elemento che facilita il riconoscimento delle intenzioni. La storia personale di chi mette in gioco l’azione comica, la fama che lo precede (la doxa, ancora con Aristotele), la situazione particolare in cui la comicità viene messa in atto insieme ad innumerevoli altri fattori possono orientare la percezione del pubblico nel riconoscimento delle intenzioni. 7 Va precisato che c’è una certa asimmetria tra il ridere di questioni tabù (in quanto sacre o tragiche) e il ridere usando parole tabù (in quanto offensive o denigratorie). Nel primo caso, l’inserire all’interno della cornice comica la questione tragica o sacra è ciò che potrebbe risultare violento, mentre nel secondo caso l’uso di parole denigratorie o offensive all’interno della cornice comica potrebbe depotenziare la violenza.
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delle «buone» intenzioni e fa sì che, per questo motivo, la loro violenza venga depotenziata del tutto? Sembrerebbe che ciò non avvenga, almeno non completamente. Così come le questioni tabù hanno una storia che ha determinato il loro essere tabù, anche le parole hanno una storia che è almeno in parte indipendente dalle intenzioni con cui le usiamo. Pensiamo, ad esempio, alla parola «frocio», che risulta denigratoria in quanto è una parola che ha una storia di violenza e denigrazione, proprio perché è stata prevalentemente utilizzata in contesti e con intenti offensivi. Questa storia, quindi, si ripresenterà istantaneamente con la parola, come una sorta di ombra che costantemente l’accompagni, anche quando la situazione comica spingerebbe verso il riconoscimento di una intenzione d’uso non offensiva. Immaginiamo, per esempio, uno spot comico che voglia sensibilizzare sul tema della discriminazione sessuale e che utilizzi provocatoriamente, appunto, la parola «frocio». La situazione che si creerebbe sarebbe, più o meno, la seguente: l’udire la parola offensiva produrrebbe un istantaneo effetto violento o, comunque, disturbante nell’ascoltatore, effetto che, però, proprio la situazione comica, associata alle buone intenzioni esplicite, riuscirebbe in un certo senso a schermare e mettere tra parentesi. Si tratterebbe di una violenza a salve, potremmo dire, per usare una metafora balistica. L’introdurre, quindi, all’interno di una cornice comica delle parole solitamente percepite come denigratorie e politicamente scorrette, in alcuni casi consentirebbe di riscrivere, in una certa misura, la storia di quelle parole: sdoganare le parole che hanno una storia offensiva, utilizzandole all’interno di contesti in cui c’è il concorso del riso, significa produrre quell’effetto di rottura della sacralità che avvolge quelle parole, che le rende tabù, provando così ad anestetizzarne la violenza. Significa, in fondo, provare a riscrivere la storia di quelle parole, utilizzandola in contesti nuovi, non più violenti ma comici, appunto. Operazione, questa della riscrittura della storia di una parola, certamente più rischiosa e complessa rispetto al mantenimento del tabù, ma alla lunga potenzialmente più proficua del tabù stesso8.
8 Su questi temi si veda, tra gli altri, Butler 1997 e, recentemente, Piazza 2019, a cui rimandiamo per una bibliografia più aggiornata.
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5. La libertà di espressione: un diritto tra i diritti C’è un’altra fattispecie comica che è particolarmente interessante e che riguarda, detto sinteticamente, la satira à la «Charlie Hebdo», ovvero la presa in giro irriverente, caustica e politicamente scorretta. La specificità di queste situazioni è legata al fatto che si tratta di casi in cui la situazione comica assume, spesso, la forma di una vera e propria derisione. In alcuni casi vengono inserite nella cornice comica delle situazioni tragiche (un terremoto e le sue vittime, lo sterminio di persone ecc.), e sono i casi in cui non è facile dire se quel ridere sia anche un deridere o sia, piuttosto, una modalità – estrema e dissacrante – attraverso cui mettere a tema una questione terribilmente seria. È in parte una situazione simile a quelle descritte in precedenza, ma con la differenza (1) che il registro è estremamente dissacrante, al punto da produrre una differenza non solo quantitativa ma anche qualitativa con altre situazioni comiche anch’esse dissacranti, e (2) che il riconoscimento delle «buone» intenzioni non si dà immediatamente o, in ogni caso, pur riconosciute le «buone» intenzioni, si percepisce comunque una violenta estremizzazione della forma espressiva utilizzata. In altri casi la presa in giro riguarda non qualcosa di tragico, ma qualcosa di sacro (le confessioni religiose, su tutte) e di estremamente importante nella scala di valori di coloro che ritengono sacro quel qualcosa. In questi casi il ridere si configura più facilmente come un deridere, essendo più trasparente la volontà, appunto, di privare – anche brutalmente e radicalmente – della sacralità alcuni ambiti. In entrambi questi casi la domanda è, ancora una volta, se la cornice comica possa fungere da salvacondotto, per così dire, per l’espressione di un extreme speech, di un discorso radicale e violento, nei contenuti e, soprattutto, nella forma; e ancora, se rimangano identici i vincoli, in termini di libertà di espressione, per un’affermazione satirica ed una non satirica. Va anzitutto osservato che la prima si distingue dalla seconda per il fatto che non deve necessariamente sottostare al criterio della verità, dal momento che, anzi, la satira si esercita spesso proprio nella forma della paradossalità, dell’esasperazione caricaturale della realtà. La cornice comica consente così di andare oltre l’opposizione
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vero/falso, di metterla tra parentesi, dal momento che non è l’effetto di verità che è dominante, quanto piuttosto l’effetto comico9. Ma in fondo questo ci dice poco e rimane la questione se la natura satirica contribuisca a depotenziare ed attutire la violenza oppure se possa avere addirittura l’effetto opposto di amplificarla. Del resto è accaduto diverse volte proprio con «Charlie Hebdo», è capitato anche nel caso di una vignetta che ritraeva la ministra Kyenge con le fattezze di una scimmia, che il diritto di satira sia stato limitato – con delle sanzioni giuridiche – perché non difforme da pratiche di hate speech, certificando, così, che la componente satirica non determinava un depotenziamento dell’offesa. Anzi, in alcuni casi proprio il nesso con il riso potenzia l’effetto violento, in virtù della natura intrinsecamente pubblica del riso: il ridere, in pubblico e quindi in comune, di qualcuno o di qualcosa assume una sorta di effetto bullizzante, di dileggio pubblico, dal momento che proprio l’aspetto pubblico, la presenza del terzo, moltiplica l’effetto violento sulla reputazione di chi è oggetto di satira. Ora, posta la necessità della libertà di espressione, posta anche la differenza incontestabile tra violenza verbale e violenza fisica (per cui l’attacco fisico alla redazione di «Charlie Hebdo» è chiaramente l’atto di violenza esecrabile per eccellenza), laddove, però, attraverso la satira, si esercita una forma di hate speech, come gestire questo tipo di violenza verbale? Se è sacrosanto condannare la violenza fisica di chi pretende di esercitare una – sproporzionata ed esecrabile – difesa, è comunque sempre legittimo concedere a Charlie – lo usiamo in maniera esemplare – di mettere in atto forme di violenza verbale, ove si configurassero come tali, proprio a causa della difficoltà di tracciare un confine tra satira e discorso d’odio?10 La distinzione – crediamo – non va fatta tanto tra satira da una parte (dove tutto sarebbe ammissibile) e discorso d’odio dall’altro (dove le censure e le condanne potrebbero essere esercitate), ma tra una satira che non lede altri diritti fondamentali e una satira che invece questo limite lo oltrepassa. La satira, a seconda della forma che assume e a seconda di chi è il destinatario, può esercitare una violenza potentissima. 9 Tra l’altro, proprio il fatto che non è l’espressione della verità ad essere in gioco in queste situazioni, fa sì che sia intrinsecamente più complicato identificare gli abusi (pensiamo, per esempio, ad alcune forme di diffamazione). 10 Sulla difficoltà di tracciare questo confine si veda Godioli 2020.
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Il rischio che si corre, altrimenti, è quello di attribuire al diritto alla libertà d’espressione uno stato di eccezione rispetto ad altri diritti, quando invece andrebbe considerato come un diritto da ponderare e bilanciare con gli altri, proprio perché, come abbiamo visto, è intrinseca nella possibilità espressiva dell’uomo anche la possibilità di esercitare forme di violenza che possono colpire altri diritti11. Se prendiamo sul serio e fino in fondo l’idea che le parole siano potenzialmente delle armi, non possiamo mettere la libertà di parola sopra tutto; si tratterà piuttosto di gestire un conflitto tra diritti che vengono lesi. Insomma, crediamo che si debba evitare di sacralizzare la libertà di espressione, ergendola a diritto qualitativamente superiore ad altri diritti, e che quindi si debba evitare – per usare un gioco di parole – di sacralizzare la dissacrazione, con il rischio di non poter dire «Je ne suis pas Charlie». Certamente un ruolo, all’interno di queste dinamiche, lo svolge anche la relazione di potere tra chi la satira la esercita e chi è oggetto della satira, così come – ancora una volta – le intenzioni di chi fa satira. Su quest’ultimo punto abbiamo già detto quanto sia complessa la questione, ma aggiungerei che, per esempio, nel caso delle vignette la ricostruzione delle intenzioni è resa ancora più complessa, visto il forte carico di implicito della vignetta stessa che, per la sua natura contratta e allusiva, si apre a diversi livelli di interpretazione, di cui il satirista non necessariamente si considera responsabile. Per quanto riguarda il nesso con il potere, va certamente distinta una satira della minoranza, per così dire, che si configura come un esercizio estremo di parresia in cui il riso rappresenta una sorta di salvacondotto e che punta ad eludere il controllo di chi detiene il potere e a criticarlo, da una satira della maggioranza che invece infierisce su chi è in una condizione di debolezza. Ma ovviamente si tratta di una distinzione ancora una volta complessa da mettere in pratica, visto che non è sempre facile distinguere tra chi detiene il potere e chi no: Charlie che attacca il fondamentalismo islamico probabilmente ritiene di attaccare una forma di potere, laddove il fondamentalismo islamico percepisce gli attacchi di Charlie come l’ennesimo caso di sottomissione che è costretto a subire in occidente. In ogni caso, ap11
Ovviamente questa posizione non risolve a priori il problema concreto di distinguere la satira di cattivo o anche pessimo gusto, da quella che lede, per esempio, i principi di pari dignità e di non discriminazione «per motivi di diversità etnica o razziale».
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pare chiaro che «il comico si può realmente considerare un fatto di potere, di potenza; o di contropotere» (Vecchio 2008, p. 2). 6. Una conclusione aristotelica Per concludere, non crediamo si possa mettere in atto una strategia di censura preventiva in nome di un politicamente corretto che ci dica, in astratto, quali parole non si possono dire e di quali questioni non possiamo ridere. Questa strategia si situerebbe a monte dell’«incitamento all’odio» cercando di prevenirlo, mentre le sanzioni successive si situano a valle dell’«incitamento all’odio», tentando di riparare agli eventuali danni da esso causati e, soprattutto, procedendo caso per caso. La censura preventiva viene percepita – ancor più della sanzione da valutare caso per caso – come una forma di limitazione della libertà di espressione che produce inevitabili forme di contro-posizionamento ideologico. Laddove non siano accertate violazioni di altri diritti, non vediamo alternative a forme di censura sociale che consisterebbero nella possibilità di esercitare il pieno diritto di dire «Je ne suis pas Charlie» lasciando però al tempo stesso a Charlie il diritto di disegnare vignette anche di pessimo gusto, pur con la possibilità di eventuali sanzioni nei casi di accertata lesione di altri diritti. In fondo, uno dei vantaggi della violenza verbale, rispetto a quella fisica, è che ha un margine di riparabilità decisamente maggiore. Forse ha ragione Aristotele quando parla del comico, nel capitolo 14 del IV libro dell’Etica Nicomachea (1127b 34 e sgg.). Come spesso fa, Aristotele distingue una medietà dai due eccessi da evitare; in questo caso, da un lato l’eccesso dei «buffoni volgari» (bomolóchoi kai phortikoí), i quali «si preoccupano più di cercare (stochazesthai) di far ridere che del decoro nel discorso, o di non offendere (lypèin) chi è oggetto dello scherzo»; dall’altro l’eccesso dei «rustici e duri» (ágrikoi kai skleroí) i quali «non sono capaci di dire essi stessi qualche motto di spirito, e si irritano con chi lo fa». Da entrambi si differenzia chi scherza in modo appropriato (emmelós), che è chiamato arguto (eutrápelos), il quale è caratterizzato dal tatto (epidexiótes) e che preferisce al turpiloquio (aischrología) l’allusione (hypónoia); il che «fa una differenza non piccola rispetto al decoro». E del resto anche per Aristotele
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la battuta di spirito si può configurare come un oltraggio (loidórema), «e i legislatori proibiscono certi oltraggi», tant’è che aggiunge: «forse si sarebbero dovuti proibire anche certi scherzi». E proprio per questo motivo «la persona raffinata e libera (charíeis kaì eleuthérios) è tale, dato che è come legge a sé stesso (nómos ón eautó)». Ora, trattandosi di una medietà tra due eccessi, sappiamo quanto questa sia difficile da cogliere per lo stesso Aristotele. E quindi è come se, nell’esercitare pratiche linguistiche connesse al riso, dovessimo essere consapevoli di questa difficoltà e dei rischi connessi. Un rischio, in fondo, non dissimile da quello che il parresiasta prende in carico, soprattutto se pensiamo alla parresia come una tecnica congetturale e fallibile, così come ne parla Filodemo di Gadara nel Peri parrhesias e per molti versi simile a come appare in un frammento di Democrito (B 226 D.-K. apud Stobée, Églogues, III, 13, 47), dove si legge che «la parresia è la caratteristica propria della libertà, ma comporta un’impresa rischiosa, il riconoscimento di ciò che è opportuno» (tou kairou diagnosis). Una variante, quindi, del gioco parresiastico foucaultiano: non necessariamente dire il vero, ma il dire tutto nella forma in cui si vuole, con i rischi che questo comporta a seconda della capacità di tolleranza tanto di chi è oggetto del riso quanto del terzo, il pubblico. Anche in questo caso quindi, ci sembra che il rischio che il comico/ parresiasta si prende sia quello di navigare senza regole rigide da seguire ma essendo, per riprendere Aristotele, legge a sé stesso.
Bibliografia Aristotele 1999 Etica Nicomachea, a cura di Carlo Natali, Laterza, Roma-Bari. Bergson, Henry 1900 Le rire. Essai sur la signification du comique, Félix Alcan, Paris. Bettini, Maurizio; Raveri, Massimo; Remotti, Francesco 2020 Ridere degli dèi, ridere con gli dèi, il Mulino, Bologna. Butler, Judith 1997 Excitable Speech: A Politics of the Performative, Routledge, London-New York. Ceccarelli, Fabio 1988 Sorriso e riso. Saggio di antropologia biosociale, Einaudi, Torino.
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Eco, Umberto 2017 Intellectual Autobiography, in Sara Beardsworth, Randall Auxie (eds), The Philosophy of Umberto Eco, Library of the Living Philosophers, Open Court, Chicago, pp. 1-65. Filodemo 1998 On Frank Criticism, ed. by David Konstan et al., Scholars Press, Atlanta. Freud, Sigmund 1905 Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten, Franz Deuticke, Leipzig und Wien; trad. it. Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, in S. Freud, Opere, vol. 5, Bollati Boringhieri, Torino 1972, pp. 1-211. Godioli, Alberto 2020 Cartoon Controversies at the European Court of Human Rights: Towards Forensic Humor Studies, «Open Library of Humanities», 6(1): 22, pp. 1-35. Le Breton, David 2018 Rire. Une anthropologie du rieur, Éditions Métailié, Paris. Lo Piparo, Franco 2014 Sur la «grammaire publique» du sujet parlant, in Sylvie Archaimbault et al. (dir.), Penser l’histoire des savoirs linguistiques. Hommage à Sylvain Auroux, ENS Éditions, Lyon, pp. 155-161. 2019 Cosa la battuta di spirito mostra del linguaggio, in Stefano Gensini e Alessandro Prato (a cura di), I segni fra teoria e storia per Giovanni Manetti, ETS, Pisa, pp. 239-247. Minois, Georges 2000 Histoire du rire et de la dérision, Fayard, Paris. Piazza, Francesca 2019 La parola e la spada. Violenza e linguaggio attraverso l’Iliade, il Mulino, Bologna. Vecchio, Sebastiano 2008 Il potere della comicità (e la comicità del potere), prefazione a Giovanni Nanfa, Grammatica del comico, Avia, Palermo, pp. 1-6. Virno, Paolo 2005 Motto di spirito e azione innovativa. Per una logica del cambiamento, Bollati Boringhieri, Torino.
In dialogo su libertà di espressione, riso e violenza Clelia Bartoli
1. Quale libertà di espressione? Prima di redigere la mia replica allo scritto di Salvatore Di Piazza voglio ringraziarlo per avermi invitata ad una discussione su temi per me nuovi, ma rivelatisi avvincenti. Un grande merito del saggio Risus abundat è quello di gettare luce su un campo d’indagine, facendone intuire vastità e impervietà, sollevando domande dal forte potenziale euristico, per le quali l’autore tratteggia risposte precarie, in realtà tracce per ulteriori perlustrazioni. Il cuore tematico dell’articolo riguarda le dinamiche che si generano all’interno di un triangolo i cui vertici sono costituiti da tre concetti: il riso, la libertà di espressione e la violenza. E affinché l’argomentazione non fluttui in una aerea e nebulosa genericità, l’autore presenta un caso che si presta a pennello per vagliare il cozzare dei tre concetti in gioco: «La satira à la “Charlie Hebdo”, ovvero la presa in giro irriverente, caustica e politicamente scorretta». Assumendo il ruolo di discussant, al quale sono chiamata, ometto le diverse lodi che potrei tessere e mi cimento nell’imbastire una critica. L’articolo in oggetto debutta con un paio di domande: «si può ridere di tutto?» e «si può dire di tutto in un discorso connesso al riso?». In altri termini, l’autore domanda entro quali confini si può muovere la libertà di espressione che utilizzi il registro comico affinché non sia lesiva della libertà e della dignità altrui. Una tale impostazione, come proverò a dimostrare, parte da una concezione liberale della libertà di espressione. Certo non posso dire che si tratti di un assunto bizzarro e sconsiderato, dato che il liberalismo, dalla Rivoluzione francese in poi, è la concezione che ispira la
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maggior parte della produzione normativa di buona parte del Pianeta. Sarebbe ovviamene troppo impegnativo disquisire sulla storia del liberalismo e dei suoi critici. Mi limiterò ad applicare al caso in questione un’idea di libertà di espressione diversa da quella liberale e a sondare se ne derivino conseguenze promettenti. 2. La libertà della monade La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 all’art. 4 afferma: «La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri; così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti». Una tale concezione della libertà è divenuta senso comune e corrisponde a quanto fin da piccoli ci siamo sentiti ripetere: «la libertà finisce dove inizia quella dell’altro». A mettere in discussione questa visione, apparentemente ovvia e di buon senso, intervenne Marx nello scritto Sulla questione ebraica, facendo notare come una tale rappresentazione della libertà ricalchi la forma di un appezzamento di terra di proprietà privata: dove finisce l’uno inizia l’altro. «Il diritto dell’uomo alla libertà [liberale] si fonda non sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sulla separatezza dell’uomo dall’uomo. Esso è il diritto a tale separatezza, il diritto dell’individuo limitato, limitato a sé» (Marx 1844; trad. it. 2007, p. 241). Questa libertà a forma di podere si declina nei termini di sovranità e autonomia. Sovranità in quanto capacità d’agire all’interno di uno spazio di pertinenza esclusiva e recintato, entro i cui confini l’individuo, sciolto da vincoli o legami, può esprimersi come meglio crede senza dar conto. Autonomia come pretesa di bastare a sé stessi, negando vulnerabilità e bisogno di cure. Si tratta di una libertà, dice Marx, «malgrado gli altri» e non «con gli altri». Ma prima ancora di avanzare un giudizio morale, occorre chiedersi se le condizioni di esercizio di una tale libertà siano disponibili. È davvero praticabile la sovranità, ovvero esprimersi ed agire senza invadere la sfera di libertà altrui e senza che gli altri invadano la propria? Si vive immersi in una rete fittissima di relazioni e ogni atto inevitabilmente urta, impatta, si fonde e confonde con gli atti,
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le emozioni, i pensieri e i desideri altrui, producendo una catena di reazioni ineluttabile e imprevedibile. In secondo luogo, come evidenzia la filosofa femminista Joel Anderson, uno sguardo più realistico all’autonomia rivelerebbe che essa non si contrappone all’interdipendenza, ma ne costituisca il frutto: «Le abilità di autonomia vengono apprese con e dagli altri. Le istituzioni sociali e le relazioni interpersonali rappresentano il contesto e il supporto per acquisire tali competenze» (Anderson 2014, p. 138). Non a caso il bambino che si sente amato e protetto, sarà quello che avrà più slancio e coraggio ad avventurarsi alla scoperta del mondo (Bowlby 1979). Insomma, per la concezione liberale: «la libertà deve finire dove inizia quella dell’altro». Mentre, in accordo ad un’idea di libertà nell’interdipendenza: «La libertà finisce (nel senso che si esaurisce) se non si allea a quella degli altri». 3. La libertà di espressione come diritto al dialogo In questo paragrafo cercherò di mostrare come il diritto alla libertà di espressione si declini diversamente se inteso nel senso di libertàpodere o di libertà nell’interdipendenza. La normativa sulla par condicio che disciplina l’accesso dei soggetti politici ai mezzi di informazione radio-televisiva è certamente improntata su un’idea di libertà-podere. Il tempo della parola in periodo elettorale viene segmentato in intervalli e cronometrato, il conduttore svolge il ruolo del guardialinee, vigilando che il limite non sia oltrepassato. La libertà di espressione protetta dalla par condicio è il diritto ad un quantum di tempo parcellizzato per enunciare opinioni preconfezionate senza necessità di scambio alcuno. Gli oratori entrano ed escono dalla comunicazione con il medesimo pensiero. Si tratta in definitiva di un diritto a fare monologhi. Diversamente, la libertà di espressione nell’interdipendenza si traduce in un diritto al dialogo. In proposito Gadamer scrive: «Il dialogo autentico non riesce mai come noi volevamo che fosse. Anzi, in generale è più giusto dire che in un dialogo si è “presi”, se non addirittura che il dialogo ci “cattura” e avviluppa. Il modo come una parola segue all’altra, il modo in cui il dialogo prende le
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sue direzioni, il modo in cui procede e giunge a conclusione, tutto questo ha certo una direzione, ma in essa gli interlocutori non tanto guidano, quanto piuttosto sono guidati. Ciò che “risulta” da un dialogo non si può sapere prima. L’intesa o il fallimento è un evento che si compie in noi. Solo allora possiamo dire che c’è stato un buon dialogo, oppure che esso era nato sotto una cattiva stella». (Gadamer 2000, p. 441). Nel dialogo riuscito i confini saltano, gli orizzonti degli interlocutori si intersecano, i pensieri si mescolano. L’argomento di uno, anche e soprattutto nella sfida, nutre e fa germinare quelli degli altri. E, a discussione conclusa, non è più possibile stabilire a chi spetti la proprietà delle idee generate. Ovviamente la libertà di espressione nella relazione è rischiosa: essa non è sterile, nel doppio senso che può essere feconda, ma anche inquinata. 4. La libertà di espressione ilare nell’interdipendenza Il riso è una delle espressioni umane che eminentemente necessita di interazione. Ma c’è di più, il riso chiama in causa una comunità: la presuppone, la produce o la fortifica. Tengo a precisare che Salvatore Di Piazza è ben consapevole che la monade manchi di humor. Ad esempio, scrive: «in tutte le pratiche linguistiche che hanno a che fare con il riso, è centrale, in vari sensi, la dimensione pubblica». O cita il padre della psicanalisi quando sostiene che «ridere degli stessi motti di spirito è prova di una vasta concordanza psichica» (Freud 1972). E condivido, pure, con il collega che la natura cooperativa della comicità non sia garanzia di innocuità. Il dire scherzando, malgrado in alcuni casi depotenzi la carica aggressiva di un certo contenuto linguistico, non cancella affatto il rischio di violenza. La mia ipotesi si discosta, in parte, rispetto all’approccio di Di Piazza in quanto ritengo che, per decretare quale espressione volta a produrre ilarità abbia un effetto gravemente violento e quale no, non sia utile chiedersi quali contenuti siano o meno accettabili, convenienti o politicamente corretti, bensì analizzare quali siano le relazioni in gioco (pregresse o prodotte) nell’interazione ilare.
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A questo proposito è di notevole interesse l’ipotesi di filogenesi del riso elaborata da Konrad Lorenz nel suo saggio dedicato all’aggressività. La smorfia che assume il volto umano ridendo è molto simile a quella dell’animale che mostra i denti per impaurire o per attaccare. L’origine del riso potrebbe quindi essere una cerimonia di pacificazione che permette il controllo dell’aggressività. L’etologo scrive: «il riso è probabilmente evoluto attraverso una ritualizzazione di un movimento di minaccia ri-diretto» (Lorenz 2015, p. 356). Come se ridendo ci si comunicasse: «ho denti per azzannarti, ma non intendo farlo». In effetti, una funzione catartica dell’umorismo deriva dal fatto di essere una non-sanzione. L’ironia, la caricatura, la presa in giro bonaria mette in piazza mancanze, debolezze, errori e contraddizioni, ma senza che ciò si trasformi in punizione. Il sottotesto sarebbe: «vedo le tue fragilità, potrei aggredirti, ma non lo faccio, non le punisco, ne rido, appunto». Il potenziale di violenza del riso può allora derivare dalla capacità di definire appartenenze, in termini sia di inclusione sia di esclusione, o dalle relazioni di potere che il riso chiama in ballo e produce. Ancora Lorenz: «il riso produce simultaneamente un forte sentimento di fratellanza tra i partecipanti e aggressività collettiva verso estranei. […] Il riso forma un legame e contemporaneamente una linea di demarcazione. Se non si può ridere con gli altri ci si sente esclusi, anche se il riso non è in nessun modo diretto contro di noi o genericamente contro qualcosa. Se il riso invece è diretto davvero verso un estraneo come una derisione spregiativa, la componente di motivazione aggressiva e, al tempo stesso, l’analogia con certe forme di giubilo trionfale si acuisce fortemente. In questo caso, il riso può divenire un’arma molto crudele che produce gravi danni se colpisce un essere umano indifeso» (Lorenz 2015, pp. 356-357). Il dardo dell’irrisione può quindi essere scagliato con effetti decisamente differenti a seconda della linea di demarcazione che traccia e della direzione che prende. Eccone degli esempi. Un gruppo di dipendenti di un’azienda architetta una burla ai danni dell’austero Saverio. Questi ci cade in pieno e la fragorosa risata dell’intero ufficio svela al malcapitato di essere stato gabbato. I buontemponi non si sono beffati di Saverio per escluderlo, ma per ristabilire una parità indigesta al borioso e superbo collega. Le cose cambierebbero se lo stesso trattamento fosse riservato ad un bam-
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bino esposto ripetutamente al tormentoso dileggio di una banda di bulli. La didascalia del primo scherzo è: «Sei come noi, non sentirti altro e di più». Nel secondo caso il messaggio cambia: «Ridendo di te, noi ci costituiamo come gruppo forte, da cui tu sei estromesso in quanto debole e isolato». Riferendoci, invece, ai possibili sensi di marcia dello scherno, la figura emblematica dell’irrisione che dal basso punta in alto è certamente quella del giullare medievale. In Mistero buffo, Dario Fo (1969) racconta del contadino che, sbeffeggiando re e preti, toglie loro il piedistallo, spoglia il potere della sua retorica, attacca il dogma e denuda l’autorità sacra e profana di quell’aura necessaria a mantenere il prestigio e ad esercitare il comando. Così, Peppino Impastato, come un giullare contemporaneo, fa infuriare i mafiosi, proprio perché il suo pubblico sberleffo minaccia il dominio simbolico degli uomini di Cosa Nostra, fondamentale all’esercizio del potere al pari della potenza di fuoco. Ma non è solo Davide che si burla di Golia. Uno dei rituali che rimarca l’appartenenza ad una élite è il ridere insieme dei subalterni. Pertanto chi dispone di uno status elevato o aspira ad ottenerlo sente il bisogno di dichiararsi estraneo ai gruppi umani reputati inferiori deridendoli. Ciò avviene, ad esempio, enfatizzando la distanza estetica, canzonando stili e maniere bollati come kitsch o facendosi grasse risate raccontandosi gli strafalcioni linguistici di persone poco familiari con la lingua ufficiale in quanto dialettofoni, colonizzati o immigrati. Di contro, l’incapacità delle classi elevate a parlare il dialetto o le lingue dei gruppi con scarsa quotazione sociale, non solo non viene vissuta come una mancanza della quale imbarazzarsi, ma addirittura diviene ragione di vanto perché una tale incompetenza segna la distanza dalla «plebaglia» (Bourdieu 1979). 5. Il caso di «Charlie Hebdo» La tesi che ho provato a difendere in questo scritto è che per giudicare un’espressione ilare, secondo il principio della libertà nell’interdipendenza, occorra guardare alla trama di relazioni in cui gli attori sono avvinti, alla forza dei soggetti nel loro urtarsi e sorreggersi vicendevolmente, alla geometria del potere in cui si realizza ogni scam-
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bio e che scaturisce da quello scambio. Proporre questa tipologia di vaglio non significa sostenere che sia di agevole applicazione. Se si prende il caso delle vignette di «Charlie Hebdo» irriverenti verso il profeta e la religione islamica, non è facile stabilire se il dardo dell’irrisione viaggi su linea orizzontale, dal basso verso l’alto o viceversa. Si può considerare il giornale satirico un giullare odierno che insolentisce tutte le autorità dogmatiche, senza esclusione per i musulmani oscurantisti. Oppure si può sostenere che la redazione del periodico sia costituita da esponenti della borghesia parigina, colti, abbienti e influenti, che, forti del loro status, con veemenza prendono in giro la popolazione marginale francese di fede islamica perché originaria delle ex-colonie. E ancora ci si chiede se «Charlie» brandisca l’arma della satira, capace di infliggere null’altro che ferite morali, contro chi invece non disdegna l’uso di proiettili ed esplosivi mortali. Oppure se lo sberleffo, pur dichiarando di voler colpire terroristi e fondamentalisti, in realtà caramboli su tutti i musulmani, rinforzando l’islamofobia che umilia e rende complicata la vita di molti. Ed ancora, l’effetto delle vignette a tema Islam di «Charlie» è quello di far vacillare una delle tante voci del patriarcato retrogrado che si ergono a guida delle coscienze o rinforza la tronfia convinzione che non c’è civiltà superiore a quella della République? Il saggio di Salvatore Di Piazza propone il pubblico quale figura risolutiva, arbitro e legge a sé stesso. Il pubblico dovrebbe essere in grado, prima ancora della legge, di sanzionare con la riprovazione quella comicità che sconfina nella violenza. Concordo sul fatto che non si debba omettere il pubblico dal vaglio proposto. Tuttavia il pubblico non è né neutro, né omogeneo, bensì implicato nelle relazioni di forza e diversificato. Rispetto al caso in oggetto, sono pubblico i sovranisti che difendono il primato dell’Europa bianca e cristiana, ben contenti di trovare una sponda antimusulmana in una delle voci influenti della sinistra. E lo sono coloro che biasimano le vignette blasfeme basandosi su una visione culturalista, che propone un rispetto paternalistico e distante delle cosiddette «culture altre», senza un dialogo autentico, all’occorrenza fatto di critiche sferzanti. I musulmani non sono per loro un interlocutore, ma una sorta di specie in pericolo da proteggere. Ancora pubblico sono musulmani di ampie vedute che accettano lo scherno inflitto dal giornale ritenendo che pos-
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sa sfidare posture identitarie troppo rigide di propri confratelli. E così il novero del pubblico potrebbe continuare. In definitiva, il modello di analisi che ho provato a tracciare, basato sul tenere in conto le relazioni pregresse e prodotte dall’interazione ilare tra derisori, derisi e pubblico, più che semplificare la risoluzione dei casi in oggetto, li articola e complica ulteriormente.
Bibliografia Anderson, Joel 2014 Autonomy and Vulnerability Entwined, in C. Mackenzie, W. Rogers, S. Dodds (eds.), Vulnerability. New Essays in Ethics and Feminist Philosophy, Oxford University Press, Oxford-New York. Bourdieu, Pierre 1979 La distinction, Les édition de minuit, Paris; trad. it. La distinzione. Critica sociale del gusto, il Mulino, Bologna 1983. Bowlby, John 1979 The Making and Breaking of Affectional Bonds, Tavistock Publications, London; trad. it. Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina Editore, Milano 1982. Fo, Dario 1969 Mistero Buffo, Einaudi, Torino. Freud, Sigmund 1905 Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten, Franz Deuticke, Leipzig-Wien; trad. it. Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, in S. Freud, Opere, vol. 5, Bollati Boringhieri, Torino 1972, pp. 1-211. Gadamer, Hans-Georg 1960 Wahrheit und Methode: Grundzüge Einer Philosophischen Hermeneutik, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen; trad. it. Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000. Lorenz, Konrad 1963 Das sogenannte Böse: Zur Naturgeschichte der Aggression, Borotha-Schoeler, Wien; trad. it. L’aggressività. Il cosiddetto male, il Saggiatore, Milano 2015. Marx, Karl 1844 Zur Judenfrage, «Deutsch-Französische Jahrbücher», Bureau der Jahrbücher, Paris; trad. it. La questione ebraica, Bompiani, Milano 2007.
Quale riso per quale parresia? Sebastiano Vecchio
Individuare nella parresia il confine tra libertà d’espressione e violenza verbale è una buona mossa; tanto più utile se si intende il confine non come una linea bensì come un’area di ampiezza indefinita e variabile. Senonché, negli studi che discutono di parresia non sempre è chiaro (e perciò adotto il corsivo) se ciò di cui si tratta è il fenomeno – ossia la libertà di parola, comunque denominata, nelle sue modalità socio-politiche storicamente mutevoli – oppure il vocabolo nelle varie accezioni semantiche assunte lungo l’arco della grecità. A volte l’impressione è che, prendendo spunto da certe occorrenze del lessema in testi antichi, si passi a discorrere di libertà di parola nei contesti storico-sociologici più vari e distanti continuando ad usare lo stesso lessema, e infine si torna alla Grecia adoperando sempre il lessema parresia, ma per cose che i Greci non designavano in quel modo. Ciò accade soprattutto a seguito delle trattazioni del tema da parte di Michel Foucault, e in parte sulla loro scia. Infatti, ad esempio, in una conferenza sulla parresia tenuta a Grenoble nel 1982 il filosofo dava ampio spazio a Seneca, pur avendo segnalato che nelle sue pagine, oltre a mancare, naturalmente, il termine greco, mancano pure i suoi traducenti latini; segnalava altresì come un «inconveniente» l’assenza del termine anche negli scritti di Galeno, che nondimeno commentava abbastanza a lungo ritenendo «innegabile che si tratti esattamente della descrizione della parresia, ma vista da un’altra prospettiva» (Foucault 2014, 36). Ebbene, nel ciclo di lezioni di Berkeley del 19831, come pure nell’ultimo corso al Collège de France del 19842, dedicati entrambi sempre 1 Foucault 1996. Nell’edizione italiana del 2019 è stata aggiunta in appendice la conferenza di cui sopra. 2 Foucault 2011. Sul rapporto tra parresia e retorica nell’ultimo Foucault rinvio a Serra 2015.
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alla parresia, Seneca e Galeno sono ripresi, ma non c’è più traccia della duplice segnalazione. L’intelligenza e la penetrazione, nonché lo scrupolo, con cui Foucault leggeva i testi ponendo ad essi domande inedite suggeriscono prudenza a chi si rifà alla sua lezione, per evitare eccessi di disinvoltura teorico-filologica. Un apporto in tal senso – ossia circa la dinamica, evocata sopra, tra gli sviluppi del fenomeno da una parte e le vicende semantiche del vocabolo dall’altra – proviene in particolare da due versanti: uno è costituito dai saggi di Arnaldo Momigliano sulla libertà di parola nel mondo greco-latino3, l’altro è la monografia in cui Giuseppe Scarpat (1964) ricostruisce la storia del termine. Mentre non menziona il primo, Foucault apprezzava del secondo l’accuratezza con cui dà conto degli usi politici e religiosi del termine, ma ne criticava la lacunosità riguardo all’ambito della direzione di coscienza4, che era quello di suo interesse specifico. Combinando i due contributi, si coglie come la piegatura foucaultiana della parresia in quanto pratica della cura di sé, perfettamente legittima in quel programma di ricerca, rischi di far perdere di vista altri aspetti non meno importanti dell’area di confine richiamata qui all’inizio. Così, mentre ciò che i Greci chiamavano parresia era in relazione a pari titolo sia con l’esigenza di verità sia con le relazioni sociali, se non con il potere, di fatto nelle discussioni attuali l’aspetto del «dire la verità» ha occupato l’intero campo, col risultato che quella che era la dimensione pubblica dell’esercizio di un diritto viene intesa nella forma di opposizione a un qualche potere. Questa attitudine provoca nel dibattito corrente due distorsioni: da un lato, porta a identificare il dire la verità col sostenere di star dicendo la verità (poiché tale la ritiene chi parla); dall’altro, di conseguenza, finisce per far diventare potere ciò a cui il presunto parresiasta dichiara di opporsi, tipicamente i cosiddetti «poteri forti». Insomma, con riferimento a un caso recente noto a tutti, in quei termini l’alternativa è se i giornalisti che durante una conferenza stampa intervennero su Donald Trump interrompendolo coartavano la sua parresia, oppure esercitavano la loro propria parresia: l’uno infatti era convinto di «dire la verità» contro il potere della 3 4
Va visto in particolare Momigliano 1971. Il giudizio era stato espresso nel corso dell’anno precedente su Foucault 2009.
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stampa, gli altri di «dire la verità» contro il potere presidenziale. Sul piano teorico, un ordine di problemi simile, ma sotto l’aspetto della violenza verbale, pone l’altro caso altrettanto noto di quel tale esponente politico che ha orgogliosamente («parresiasticamente»?) rivendicato: «Io dirò frocio e negro finché campo e nessuno me lo può impedire». Un’altra differenza riscontrabile fra le tre trattazioni foucaultiane citate poco fa è il ruolo in esse assegnato al Peri parrhesias di Filodemo. Nella conferenza di Grenoble è indicato come punto di partenza della concezione epicurea, la cui esposizione si basa però su altri autori; nelle lezioni di Berkeley l’opera è analizzata, e del suo contenuto vengono sottolineati sia il legame della parresia col kairos sia l’accostamento della sua pratica alla medicina e alla navigazione; nel corso di Parigi sul coraggio della verità figura invece unicamente il rinvio bibliografico: un silenzio difficile da spiegare, tanto più perché nella serie di frammenti la parresia appare nella duplice valenza del «dire tutto» e del «dire il vero», propria della pratica comunitaria portata da Foucault all’attenzione degli uditori. Anche in funzione di questa difficoltà è interessante guardare alla parresia, in un senso non più strettamente foucaultiano, come area di confine, e guardarvi appunto dal versante del riso, di cui è stata opportunamente ricordata la costitutiva dimensione pubblica. È la dimensione pubblica entro cui si colloca l’intenzione di chi vuole far ridere, a rendere pertinente l’osservazione secondo cui, anche se a volte il riso d’esclusione precede l’ingresso dell’escluso nella comunità e fa da antidoto all’aggressività e all’odio, altre volte esso genera inquietudine «e assume facilmente tratti aggressivi, dispregiativi e odiosi, sicché solo un capello ora lo distingue dalla violenza» (Sini 2003, p. 53). Ben oltre l’alterità incorporata al linguaggio (giacché anche chi ascolta fa parte del logos), in più il riso ha natura intrinsecamente pubblica e dunque politica, tanto che – ci è stato ricordato – Aristotele riteneva che la comicità dovesse sottostare a una normazione anche legislativa contro offese e oltraggi; tuttavia, aggiungeva, l’uomo libero «è legge a sé stesso» (Eth. Nic. 1128a). A questa glossa che all’interno della sfera pubblica chiama in causa l’autonomia personale a me pare faccia eco un’altra annotazione aristotelica riguardante il ridicolo, solitamente trascurata perché non sta nei capitoli 10 e 11 del terzo libro della Retorica dedicati alla comicità, la quale «non dice ciò che dice»
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(Rhet. 1412a)5. L’annotazione è alla fine del diciottesimo e penultimo capitolo (l’ultimo riguarda l’epilogo) e di fatto chiude l’opera, dando l’impressione che sia quasi fuori posto; ma non lo è in questa sede. Aristotele osserva che, delle diverse specie di ridicolo (geloion), «alcune sono adatte all’uomo libero, altre no»; il motivo è che «per l’uomo libero l’ironia (eironeia) è più degna della buffoneria (bomolochia): la prima infatti crea il ridicolo in funzione di sé stesso, invece il buffone (bomolochos) lo crea per altri» (Rhet. 1419b). Quello che, a una prima lettura isolata, in questo passo sembra l’invito a una sorta di torre d’avorio individuale dove godere in solitudine della propria arguzia, letto insieme all’analogo richiamo tutto politico dell’Etica Nicomachea appare piuttosto come un monito a tener conto della responsabilità personale nella sfera pubblica: un «sé stesso» già di per sé intrinsecamente sociale e quindi politico, anche in ciò che fa ridere. In questo stesso spirito, se collocandosi sul polo del diritto di parola è essenziale, come è stato sostenuto, concepire la libertà d’espressione in quanto diritto da contemperare fra altri diritti, collocandosi sul polo della violenza verbale (cioè di chi se ne ritiene fatto oggetto), ossia del diritto di quegli altri diritti, torna opportuna la raccomandazione del frammento 5 del Peri parrhesias, che – confidando di interpretarla correttamente – riporto qui come conclusione, senza virgolette e senza corsivo: Chi si oppone alla parresia deve avere rispetto per la parresia.
Bibliografia Filodemo 1998 On Frank Criticism, a cura di D. Konstan et al., Scholars Press, Atlanta. Foucault, Michel 1996 Discorso e verità nella Grecia antica, ed. it. a cura di A. Galeotti, Donzelli, Roma. 2009 Il governo di sé e degli altri, ed. it. a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano. 2011 Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, ed. it. a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano. 5
La locuzione fa da chiave del bel saggio di Giovanni Manetti (2013).
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2014 La parrhesia, «Materiali foucaultiani», 5-6, pp. 21-52, p. 36. Manetti, Giovanni 2013 La teoria del comico in Aristotele, in Id., In principio era il segno. Momenti di storia della semiotica nell’antichità classica, Bompiani, Milano, pp. 167-183. Momigliano, Arnaldo 1971 La libertà di parola nel mondo antico, «Rivista Storica Italiana», 83, pp. 499-524, ora in A. Momigliano, Sesto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, tomo II, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1980, pp. 403-436. Scarpat, Giuseppe 1964 Parrhesía. Storia del termine e delle sue traduzioni in latino, Paideia, Brescia; nuova ed., col titolo Parrhesia greca, parrhesia cristiana, ivi 2001. Serra, Mauro 2015 Verità della retorica o retorica della verità? Volontà di sapere e parresia in Foucault, «RIFL/SFL», pp. 248-261. Sini, Carlo 2003 Il comico e la vita, Jaca Book, Milano.
iv. Odio
La dimensione pubblica del discorso d’odio Alessandro Spena
1. Schizofrenia politico-criminale? In fatto di rilevanza penale degli usi offensivi del linguaggio, la politica criminale italiana1 vive una stagione in apparenza contraddittoria. In linea generale, essa si muove in direzione di un sostanziale alleggerimento: alla l. 85/2006 risale una riforma parzialmente depenalizzante dei cosiddetti reati di opinione (Spena 2007); una decina d’anni dopo, il d.lgs. 7/2016 ha depenalizzato il reato di ingiuria; più di recente, è infine intervenuta la Corte costituzionale a sollecitare, prima (ord. 132/2020), e a sancire, poi (sent. 150/2021), che, in relazione al reato di diffamazione a mezzo stampa, il ricorso alla pena detentiva sia limitato ai soli casi «di eccezionale gravità». A fronte di ciò, però, si assiste, ormai da qualche anno, anche ad un intensificarsi del dibattito penalistico sul cosiddetto hate speech, che trova il proprio corrispondente politico-mediatico più evidente nel faticoso balletto che si è celebrato intorno al ddl S. 2005 del 4.11.2020 (noto come ddl Zan). Vien fatto di chiedersi se questi indirizzi contrastanti siano un segno di schizofrenia politico-criminale, o non ci sia qualcosa a giustificarli. In queste pagine, intendo fornire argomenti in favore della seconda opzione: non nel senso che addurrò ragioni per una più ampia criminalizzazione dello hate speech; ma semmai nel senso, più modesto, che cercherò di mostrare in cosa lo hate speech sia diverso da una comune ingiuria, e che dunque propugnare una più ampia criminalizzazione del primo, in un contesto nel quale si è depenaliz1 E, per vero, anche europea; ma non ho qui spazio a sufficienza per estendere il mio ragionamento in questa direzione.
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zata la seconda, non è, di per sé, un segno di schizofrenia politicocriminale. 2. (Dis)identificazione Parto da due esempi che considero paradigmatici di hate speech: 1) Tizio incrocia Caio e Sempronio che si baciano in strada e urla loro: «Voi froci siete tutti dei pervertiti! Andate da un’altra parte a fare queste schifezze!»; 2) Caio, un ragazzo nero, entra in un bar e ordina una birra; Tizio, il gestore del locale, gli risponde: «In questo bar non serviamo i negri». La mia idea è che a caratterizzare 1) e 2) come casi paradigmatici di hate speech sia una peculiare dimensione pubblica, che non si ritrova, invece, in altre ingiurie; una dimensione che concerne, in particolare, il contenuto dell’ingiuria, non il suo essere proferita in pubblico; e che dunque è presente anche se l’ingiuria avviene in privato, lontano da terzi spettatori, e anche se i motivi che spingono all’ingiuria sono di carattere strettamente privato (antipatia, invidia ecc.). Uno hate speaker, infatti, adduce, o presuppone, sempre ragioni pubbliche per disprezzare il proprio bersaglio: l’eventuale suo risentimento personale viene veicolato sotto la copertura di ragioni dotate di valenza pubblica, collettiva. Per intendere cosa ci sia di pubblico in 1) e 2), bisogna considerare che essi sottendono e ribadiscono processi di identificazione e disidentificazione, in forza dei quali le persone costruiscono la propria identità sociale concependosi come appartenenti a certi gruppi e non appartenenti ad altri (v., oltre agli autori citati di seguito, de Swaan 2014; trad. it. 2015, p. 39 e cap. III): da un punto di vista interno, l’appartenenza a un gruppo richiede che ci si identifichi con alcuni soggetti (ingroup, o gruppo-noi) e ci si disidentifichi da altri (outgroup, o gruppo-loro); si tratta di un «process of self-categorization in terms of an externally designated group label», che serve a soddisfare un bisogno di coerenza, «by rendering self- and other-perception predictable and orderly in terms of prescriptive behavioural expectations», o un bisogno di autostima positiva, «by allowing
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one to construct a social identity which is evaluatively positive, and maintainable as such by intrinsically competitive intergroup discrimination» (Hogg, Turner 1985, p. 52). Ciò mette in moto dinamiche valutative ed emozionali del tutto peculiari, sia a livello intragruppo (es., attivazione di bias favorevoli rispetto ai membri del gruppo-noi, riduzione della conflittualità, maggiore coesione, condivisione di codici comunicativi e normativi, conformismo) che a livello intergruppo (es., attivazione di bias sfavorevoli rispetto ai membri del gruppoloro, trattamento differenziale, maggiore conflittualità). Questi processi passano per l’elaborazione di categorie cognitive nelle quali incasellare sé stessi e gli altri. Si tratta di un continuum (Tajfel, Turner 1979, p. 34; Tajfel 1982, p. 13) che si articola su livelli diversi di astrazione e categorizzazione di sé e degli altri (Turner 1985); quanto più ci si allontana da un livello più strettamente (inter)personale (nel quale si tende a categorizzare sé e gli altri su base individuale) e ci si avvicina a un livello (inter)gruppale (nel quale si categorizza invece su base collettiva), tanto più le interazioni vengono «largely determined by group memberships of the participants and very little – if at all – by their personal relations and individual characteristics» (Tajfel 1979, p. 401). Soprattutto allorché entrino in gioco sfere di identificazione più ampie di quelle primarie (come parentela e immediata prossimità), la categorizzazione intergruppo si connota per una tendenziale uniformità, ossia «the decrease in variability in the characteristics and behavior of the members of the outgroup as they are perceived by the members of the ingroup» (Tajfel 1982, p. 13). Identificazione e disidentificazione avvengono allora rispetto a figure collettive fortemente spersonalizzate2, costruite intorno al possesso di tratti considerati capaci di definire il quid proprii di coloro che li posseggono. I membri del gruppo-loro vengono in tal modo ridotti a «undifferentiated items in a unified social category» (Tajfel 1981, p. 243): The phenomena of depersonalization, dehumanization, and social stereotyping which tend to increase in scope as and when intergroup relations deteriorate are no more than special instances of this wider principle of the increased undifferentiation of the outgroup (Tajfel 1982, p. 13). 2 Il processo – si badi – si basa su di una stereotipizzazione, o spersonalizzazione, tanto dell’altro quanto di sé stessi: v. ad es. Turner 1985, pp. 77 sgg.
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Le apostrofi «frocio» e «negro» si inscrivono in questa logica; indicano categorie sociali di identificazione-disidentificazione (o di (dis) identificazione), dotate – appunto perché esprimono rapporti intergruppo deteriorati – di un elevato grado di uniformità, che si manifesta nella loro natura sineddotica (riducono il tutto alla parte, al tratto comune, allo stigma – orientamento sessuale, colore della pelle – e vi attribuiscono valore totalizzante), essenzializzante (pretendono di dire la vera essenza del soggetto: la persona viene ridotta al suo stigma) e generalizzante (non considerano il soggetto come persona individua, ma come istanza di una categoria, l’appartenenza alla quale esaurisce il giudizio morale su di lui) (de Swaan 2014; trad. it. 2015, pp. 55-56; Spena 2016b, p. 603). Usando queste categorie come ingiurie (e non, ad es., come forme di riappropriazione linguistica: Brontsema 2004; Croom 2013, pp. 190 sgg.; Popa-Wyatt 2020, pp. 159 sgg.; Bianchi 2021, pp. 164 sgg.; cfr. inoltre il saggio di Piazza in questo libro)3, si riconduce il bersaglio ad un gruppo dal quale si prendono le distanze e ci si colloca, specularmente, all’interno di un gruppo contrapposto: nell’atto stesso col quale il parlante identifica il bersaglio come «frocio» o «negro», egli se ne disidentifica, per identificarsi col gruppo contrapposto degli «eterosessuali» o dei «bianchi». Potrebbe sembrare che anche un epiteto come «cretino» funzioni in maniera analoga: in fin dei conti, se do del «cretino» a qualcuno, lo sto ascrivendo ad una categoria costruita sulla base di un tratto peculiare (la scarsa intelligenza), alla quale probabilmente sarei disposto ad ascrivere anche altri soggetti, mentre propenderò per ascrivere me, e altre persone che giudico a me simili, ad una categoria contrapposta. Categorie di questo genere, tuttavia, non indicano veri e propri «gruppi sociali»4, sebbene possano essere usate per creare o 3
È forse il caso di precisare (ringrazio Francesca Piazza per avermi indotto a farlo) che un discorso d’odio non si risolve nel mero utilizzo di certe parole, ma nel farlo in un contesto appropriato, che ne costituisce lo sfondo di senso e contribuisce a renderlo efficace (sul punto, ad es. Spena 2016a, pp. 852-854; Domaneschi 2020, pp. 120 sgg.). D’altronde, il ricorso a slurs, come «frocio» o «negro», oltre che insufficiente, è anche innecessario all’integrazione di un discorso d’odio: 1) e 2) lo sarebbero pure nel caso in cui il parlante usasse, in loro vece, termini considerati socialmente più accettabili come «omosessuale» e «nero». Se nel testo focalizzerò molta della mia attenzione su slurs, è solo a titolo esemplificativo, dato il valore tipicamente hateful che ad essi viene in genere associato. 4 «We can conceptualize a “group” […] as a collection of individuals who perceive themselves to be members of the same social category, share some emotional involvement
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accentuare polarizzazioni di gruppo (Domaneschi 2020, pp. 91-93)5: non esiste il gruppo sociale dei «cretini», così come non esiste quello dei «non cretini»; usare tali termini per apostrofare sé o altri non mette in moto processi di identificazione mediata dal senso dell’appartenenza a un gruppo6, né dunque le corrispondenti dinamiche relazionali intragruppo e intergruppo7. Quando, invece, si usano ingiurie come «frocio» o «negro», si assume l’esistenza di gruppi sociali contrapposti: «omosessuali» ed «eterosessuali», «neri» e «bianchi». In questo senso, peculiare dello hate speech è il fatto che, «a differenza degli insulti generici («cretino», «lestofante») che colpiscono un individuo», esso ha «la caratteristica di colpire insieme un individuo e un gruppo sociale» (Bianchi 2021, p. 94; ma si tratta di un assunto ampiamente consolidato: es., Brown 2017a, pp. 443 sgg.; Id. 2017b, pp. 583 sgg.; Domaneschi 2020, pp. 111-112). Lo hate speech è insomma una forma di intergroup behavior, che si materializza ogni volta che «individuals belonging to one group interact, collectively or individually, with another group or its members in terms of their group identification» (Sheriff 1966, p. 12): il bersaglio è preso di mira come esponente del gruppo sociale al quale lo si ascrive (il gruppo-loro, che, in quanto bersaglio di secondo grado dell’ingiuria, è un gruppo-target); e anche l’ingiuriante parla da esponente di un gruppo sociale, al quale, a sua volta, ascrive sé stesso.
in this common definition of themselves, and achieve some degree of social consensus about the evaluation of their group and of their membership of it» (Tajfel, Turner 1979, p. 40). 5 «A category […] can function to dispose its members to group-formation and relationships, but its total membership does not thereby constitute a group» (Goffman 1963, p. 24) 6 «In order to achieve the state of “[group] identification”, two components are necessary, and one is frequently associated with them. The two necessary components are: the cognitive one, in the sense of awareness of membership; and an evaluative one, in the sense that this awareness is related to some value connotations. The third component consists of an emotional investment in the awareness and evaluation» (Tajfel 1982, p. 2). 7 Che le cose stiano in questi termini non è una necessità concettuale; è un puro accidente storico: nella nostra società, non si sono date le condizioni storico-sociali perché si producesse un senso di identificazione collettiva come «cretini» o «non cretini»; mentre invece si è, in vario modo e in tempi diversi, prodotto un senso di identificazione collettiva come «bianchi», «eterosessuali», «cattolici» ecc.
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3. Chiacchiera d’odio: ripetizione, diffusione, autorità L’esistenza di questi due gruppi non è meramente assunta dal parlante: si tratta di comunità bensì immaginate (mediate, cioè, dal senso di appartenenza di certi soggetti e dal modo in cui costoro si raffigurano il gruppo stesso: Anderson 1991; trad. it. 2018), ma tutt’altro che immaginarie. Proferendo discorsi d’odio, l’ingiuriante non sta dando forma a un mondo che lui, per la prima volta, ha pensato; né egli lo presenta in questi termini. Il gruppo-noi esiste nel comune sentire di più soggetti che effettivamente vi si identificano, è una comunità che lo hate speaker coimmagina insieme ad un numero indeterminato di altri soggetti che, come lui, vi si ascrivono; i processi di (dis)identificazione, che egli chiama in causa, esistono realmente come processi attraverso i quali più soggetti definiscono la propria identità collettiva. Esiste anche il gruppo-loro: innanzitutto, come oggetto della retorica (dis)identificante (e dunque come comunità immaginata dai membri) del gruppo-noi; più esattamente, esiste una cultura, che fa da sfondo al discorso d’odio, che categorizza certe persone in base al possesso di certi tratti, e che usa questa categorizzazione in un processo – che non è solo individuale, ma anche collettivo – di (dis) identificazione sociale. Gli epiteti che usa lo hate speaker fanno parte di un linguaggio diffuso, nel quale trovano espressione non (sol)tanto sue idiosincrasie personali, quanto idiosincrasie sociali, stereotipi, pregiudizi, che godono di consenso nel contesto sociale che fa da sfondo alla sua interazione col bersaglio. Attraverso lo hate speaker fluisce un discorso che lo trascende: egli lo alimenta – come il granello alimenta il mucchietto di sabbia – ma non lo inventa. La sua è una forma della chiacchiera heideggeriana (Heidegger 1927; trad. it. 1976, § 35), diffusione e ripetizione di un contenuto dal fondamento incerto («una citazione di se stesso»: Butler 1997; trad. it. 2010, p. 114; v. anche Piazza 2019, p. 39), che però, per il fatto d’essere ripetuto, «si diffonde in cerchie sempre più larghe» e da ciò «trae autorità» (Heidegger 1927; trad. it. 1976, p. 213), l’autorità del «si dice»: «Le cose stanno così perché si dice» (ibid.). Da qui viene la particolare offensività del discorso d’odio, che lo rende più adatto rispetto ad una comune ingiuria a produrre effetti illocutori e perlocutori di oppressione e subordinazione (es., Matsu-
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da 1989, p. 2335; Waldron 2012; Maitra 2012; Langton 2018; trad. it. 2020; Popa-Wyatt, Wyatt 2018, pp. 2880 sgg.; Bianchi 2021, pp. 115 sgg.): forte del pluralis maiestatis del «si dice», esso fa dello hate speaker una sorta di medium attraverso la cui bocca prende voce un’ostilità diffusa, che suo tramite viene ulteriormente ripetuta e diffusa e che, come un ritornello (Deleuze, Guattari 1980; trad. it. 1997), contribuisce a definire lo spazio sociale secondo un certo ordine e (dis)equilibrio di potere. 4. Tabuizzazione dell’insulto Ma il gruppo-target esiste anche al di là dell’immaginario del gruppo-noi, come comunità immaginata da parte di soggetti che vi si identificano, secondo un meccanismo uguale e contrario a quello che è all’opera nel caso del gruppo-noi: da questo punto di vista, in realtà, il gruppo-target è esso stesso un gruppo-noi che si contrappone al gruppo-noi dell’ingiuriante. Questo non significa che il gruppotarget abbia le caratteristiche spregiative e marginalizzanti che gli attribuiscono l’ingiuriante e il suo gruppo-noi; significa, semmai, che lo hate speech manifesta ostilità verso soggetti che non soltanto sono identificati dall’esterno come gruppo, ma si identificano essi stessi come tali. Questo è un punto fondamentale per comprendere l’emersione dello hate speech come categoria-problema, come mai, cioè, certi insulti assurgano a problema sociale specifico in un dato contesto spazio-temporale e non in altri: come mai certi insulti, a un certo punto, cessino di costituire insulti qualsiasi, se non termini tutto sommato accettabili, per assurgere al rango di veri e propri tabu impronunciabili. Decisivo, a questo riguardo, è appunto il consolidarsi del gruppo-target come gruppo-noi, il formarsi, insomma, di una sua «coscienza di classe (o meglio, di gruppo)» (immaginazione e senso di appartenenza comuni), che si riappropri di quegli stessi tratti in base ai quali il gruppo-noi se ne (dis)identifica (orientamento sessuale, colore della pelle, paese di provenienza, religione ecc.) per farne oggetto di rivendicazione. La tabuizzazione di certi insulti come hate speech non discende mai (solo) dal moto compassionevole di una società spontaneamente sensibile al tema della discriminazione; essa
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richiede semmai un processo a carattere anti-paternalistico, che possiamo genericamente chiamare di coming out, col quale il gruppotarget accetti lo hate speech in senso denotativo, rifiutandolo però in senso connotativo: si riappropri, cioè, di quella identità sociale che una certa chiacchiera gli rinfaccia come devianza, per rivendicarla come alcunché di normale e meritevole di riconoscimento sociale a pari titolo delle altre considerate non devianti. 5. Odio e potere La determinazione – sempre contingente, storicamente e culturalmente relativa – dei contenuti dello hate speech è dunque, in ultima analisi, una questione di potere. Per un verso, lo hate speech presuppone la vigenza di un modello sociale che preveda un’asimmetria di potere a sfavore di certi gruppi sociali e a favore di altri: è hate speech quello che prenda a bersaglio minoranze socialmente marginalizzate, storicamente bistrattate e discriminate; lo hate speaker, specularmente, parla da una posizione di potere, che egli detiene non già personalmente, ma in quanto esponente di un gruppo sociale, e che ha come idea costitutiva la subordinazione o marginalizzazione sociale del gruppo-loro. Per altro verso, però, è necessario che quest’asimmetria di potere non sia del tutto soverchiante, che cioè la minoranza discriminata abbia nondimeno potere – quantomeno comunicativo – a sufficienza per porre il tema della discriminazione subìta come un problema sociale di particolare gravità, attraverso un contro-discorso che faccia breccia sino al punto da rendere tabu certe parole e certi argomenti. Lo hate speech è, insomma, un’istanza in nuce di un conflitto intergruppo: esso presuppone l’esistenza di gruppi – non solo nel senso che chi lo pronuncia si immagina il mondo diviso in gruppi, alcuni buoni e altri cattivi; ma, unitamente a questo, nel senso che anche chi è discriminato si concepisce come appartenente a un gruppo e rivendica per questa appartenenza piena cittadinanza nello spazio sociale.
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6. Lo hate speech come esorcismo Quale istanza di un conflitto intergruppo, lo hate speech difende l’interesse del gruppo-noi alla differenziazione (correlato oggettuale della (dis)identificazione), poiché è da questa che dipendono l’esistenza dello stesso gruppo-noi e la vigenza di un modello sociale basato sull’asimmetria di potere tra gruppo-noi e gruppo-loro. Proferendolo, si imputa dunque al bersaglio una colpa pubblica, che egli ha nei confronti del gruppo-noi e che consiste non già nel fatto in sé della differenza (nel mero possesso del tratto caratteristico del gruppo-loro), che ne costituisce semmai un presupposto, ma nella pretesa d’essere riconosciuto alla stregua di un soggetto sociale come gli altri, nell’aspirazione – manifestata verbalmente o per fatti concludenti – ad abitare il medesimo spazio sociale del gruppo-noi, ad essere trattato come uno di noi, a «mescolarsi subdolamente» con noi (Jesi 2007, p. 37)8. Ogni forma di hate speech, naturalmente, ha suoi contenuti specifici, che la distinguono dalle altre. E questa specificità si definisce attraverso il richiamo ad un universo storico-culturale apposito e, volta per volta, diverso: la colpa di essere «frocio» è diversa dalla colpa di essere «negro» (e questa, a sua volta, dalla colpa di essere «ebreo», «terrone», «musulmano» ecc.), poiché ciascuna di queste accuse rimesta in un proprio universo culturale storicamente contingente. Tutte, però, hanno un sostrato comune, che è quello di imputare, al proprio bersaglio, il male dell’indifferenziazione (Girard 1982; trad. it. 2008): essere «frocio» o essere «negro» tra noi, nello spazio sociale del gruppo-noi, sono, in ultima analisi, crimini fondamentali indifferenziatori, in quanto si «rivolgono contro i fondamenti stessi dell’ordine culturale, le differenze familiari e gerarchiche senza le quali non vi sarebbe ordine sociale» (Girard 1982; trad. it. 2008, 33, pp. 42 sgg.). Perché incorra in questa colpa, non occorre che il bersaglio faccia alcunché di eclatante, come intestarsi battaglie di emancipazio8 Indicativo, ad es., il modo in cui Furio Jesi ricostruisce «il razzismo cattolico antisemita del XIX secolo» alla stregua «di un razzismo che mira a distinguere, tra gli uomini apparentemente “civili”, e non tra gli altri, quelli che mascherano ipocritamente sotto sembianze di civiltà la loro vera natura “selvaggia”, il loro “animo crudo, feroce e sanguinario”. Non è dunque un razzismo identico a quello dei colonizzatori dinanzi ai “selvaggi”, ma un razzismo in parte analogo a quello che dura, per esempio, negli Stati uniti contro i negri: che colpisce non i “selvaggi” allo stato puro, ma i “selvaggi” mascherati, quelli che con astuzia e ipocrisia sono riusciti a fingere d’essere “civili”» (Jesi 2007, p. 34).
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ne: è sufficiente che egli circoli indisturbato nello spazio d’azione, fisico e sociale, che l’ingiuriante riserva al gruppo-noi, svolgendovi attività analoghe a quelle che membri del gruppo-noi vi svolgono, valicando dunque – o in termini propriamente topografici (ghetto, slum ecc.) o nel comportamento e nell’atteggiamento – i confini di esclusione, marginalizzazione e remissività che, nell’ideologia del gruppo-noi, gli sarebbero propri, perché la differenziazione, e l’ordine asimmetrico che su di essa riposa, risultino messi in discussione, e con ciò messa in pericolo l’esistenza stessa del gruppo-noi per come se lo figurano l’ingiuriante e coloro che ne condividono l’immaginario sociale. Preso in questa costruzione dai tratti chiaramente paranoici9, lo hate speaker si arroga dunque l’adempimento di funzioni sociali (sebbene non lo faccia per puro altruismo, ma in quanto ne dipendono i contorni della sua stessa identità). Innanzitutto, lo smascheramento10 e l’intercettazione del bersaglio come estraneo, portatore ontologico del pericolo d’indifferenziazione: chiamando l’omosessuale «frocio» lo si addita nella sua essenziale diversità; gli si comunica che lo si è riconosciuto come diverso e, se l’epiteto è proferito in presenza di altri, lo si rende riconoscibile come tale anche da parte di costoro; lo si intercetta, dunque, mentre egli cerca di varcare, o quando ha già varcato, il confine dello spazio sociale del gruppo-noi. A questa si aggiunge una funzione rituale-confermativa: l’ingiuria serve a evocare la differenziazione e a celebrare la (dis)identificazione, e perciò a ribadire e rivitalizzare la vigenza del connesso modello sociale di potere asimmetrico: chi proferisce quelle ingiurie non vuole arbitrariamente tracciare per la prima volta un confine, ma vuole rimarcarne uno già stabilito, per natura o tradizione, in un punto in cui esso sembra sbiadire o rischia di essere più difficilmente riconoscibile. In questo modo, la presenza avversa e distruttiva dell’estraneo viene esorcizzata: il bersaglio viene simbolicamente respinto o espulso fuo9
«It is symptomatic of the paranoid to defend the self rigorously and with considerable energy from the power and fear of infection by “external” forces that endanger life» (Glass 2006, p. 730); ivi, passim, si veda pure un’ampia discussione, applicata al caso specifico della teoria politica hobbesiana, dell’idea, di cui lo hate speech può essere considerata una manifestazione, della «paranoia as a weapon of political mobilization» (p. 732). Sul tema, v. anche Hofstadter 1964; trad. it. 2021; Forti, Revelli 2007. 10 Sull’insulto quale atto di smascheramento, v. Domaneschi 2020, p. 90.
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ri dallo spazio sociale del gruppo-noi, nel ruolo suo proprio di soggetto marginalizzato, subordinato; il confine è così ristabilito, l’integrità del gruppo-noi – e con essa l’identità sociale dello hate speaker – salva dal pericolo della disgregazione.
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Strategie di disarmo. Riflessioni sulla rivendicazione semantica del discorso d’odio Francesca Piazza
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rendere ragione del diverso trattamento giuridico del discorso d’odio rispetto all’ingiuria. Anche indipendentemente dalle possibili conseguenze sul piano legislativo, credo che l’insistenza sulla dimensione pubblica sia una buona strada non solo per comprendere meglio il discorso d’odio, ma anche per la riflessione su possibili mezzi di difesa dalla violenza verbale alternativi a quelli giuridici. Dinanzi alla parola brandita come un’arma esistono infatti, a ben guardare, diverse possibili strategie di disarmo2. Una è quella che potremmo chiamare «proibizionista» che considera gli slurs come vere e proprie parole proibite, tabù impronunciabili in qualunque contesto enunciativo (Anderson e Lepore 2013). Non posso qui soffermarmi a chiarire le ragioni per cui ritengo che questa strategia sia in realtà un rimedio peggiore del male. Mi limito a dire che essa, sempre ammesso che sia di fatto realizzabile, non solo non risolve il problema (eliminata una parola offensiva può sempre nascerne un’altra) ma rischia di amplificare il potere violento di queste parole che si vorrebbero espungere dal vocabolario (Butler 1997). Trovo, invece, che siano più promettenti le strategie che puntano non all’eliminazione delle parole ma ad una loro diversa circolazione. In particolare, se è vero che il discorso d’odio ha tra i tra i suoi effetti quello di ridurre al silenzio i suoi bersagli, non solo (e non tanto) come individui ma come membri di un gruppo, una buona strategia di disarmo – non la più facile né la più sicura – è quella che prova a restituire ai membri del gruppo target il «controllo» sulle parole usate per colpirli (Popa-Wyatt 2020). Tale strategia si rivela tanto più efficace quanto più assume una dimensione pubblica. Penso in particolare alla rivendicazione semantica, cui pure Spena fa riferimento nel suo saggio e che si intreccia anche con l’uso dissacrante del riso di cui parla Di Piazza in questo stesso volume. Con l’espressione rivendicazione (o riappropriazione) semantica si intende il processo grazie al quale un termine dispregiativo, tipicamente per iniziativa di membri del gruppo target, vede indebolirsi la sua originaria carica aggressiva fino a poter acquisire anche connotazioni positive in grado di esprimere orgoglio e/o rafforzare il 2 Riprendendo Tirrel 2018, Bianchi distingue due diverse categorie di strategie per difendersi dallo hate speech: quelle che svolgono il ruolo di antidoto, cercando di rimediare ad un danno già fatto, e quelle che invece hanno natura preventiva e sono dunque paragonabili ai vaccini (Bianchi 2021, p. 139).
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senso di appartenenza al gruppo. Si tratta in effetti di un fenomeno complesso, al punto che forse sarebbe meglio parlare di una costellazione di fenomeni, tra loro imparentati ma non identici. Non posso qui rendere conto del vivace dibattito attualmente in corso su questo tema; mi limiterò ad alcune riflessioni, con lo scopo di mettere a fuoco le potenzialità (ma anche qualche rischio) della rivendicazione semantica. Potenzialità e rischi che sono entrambi connessi proprio con la dimensione pubblica del discorso d’odio. Dal punto di vista specificamente linguistico, uno degli aspetti più interessanti della rivendicazione semantica consiste nel fatto che tale fenomeno fa emergere con chiarezza come i significati delle parole (non solo quelle violente) non siano mai del tutto separabili dal contesto enunciativo, intendendo con questo non solo la concreta situazione in cui quel discorso è effettivamente pronunciato ma anche la storia precedente di quelle parole, il ruolo dei partecipanti, il loro status e i loro reciproci rapporti di forza. I due esempi di slurs rivendicati più citati in letteratura sono «queer» e «nigger». A seguito di un processo di riappropriazione esplicita messo in atto da un gruppo di attivisti alla fine degli anni ’80, la parola «queer» («strano», «deviato»), da termine offensivo rivolto agli omosessuali maschi è diventato oggi un termine «politicamente corretto», il cui uso è consentito anche ai parlanti non appartenenti al gruppo target (Brontsema 2004, pp. 2-5). Ben diverso è invece il caso degli usi non offensivi di «nigger» (soprattutto nella sua variante fonologica «nigga»), diffusi esclusivamente tra i membri delle comunità afro-americane per lo più per esprimere sentimenti di amicizia, solidarietà e cameratismo (Rahman 2012 e 2015). Secondo una distinzione recentemente proposta da Jeshion (2020, pp. 106-107), quello di «queer» sarebbe un caso tipico di pride-reclamation, un tipo di rivendicazione che punta a manifestare sentimenti di orgoglio identitario e tende ad estendersi anche al di fuori del gruppo target. In questi casi, lo slur rivendicato può effettivamente perdere progressivamente il suo significato offensivo, anche se il processo può essere lungo e accidentato. Gli usi riappropriati di «nigger» sarebbero invece casi esemplari di insular-reclamation, un tipo di rivendicazione semantica che mira non tanto a «sdoganare» lo slur consentendone un generalizzato uso non offensivo, quanto ad «isolare» la violenza esercitata da quella parola, riservandone l’uso esclusi-
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vamente ai membri target e rafforzando così il senso di appartenenza e la solidarietà tra le vittime. Va sottolineato che, diversamente da «queer», nonostante la diffusione degli usi riappropriati, «nigger» è, e resta, uno slur, anzi lo slur impronunciabile per eccellenza, sostituito anche in contesti palesemente non offensivi, come le citazioni o i discorsi riportati, dall’eufemismo «N-Word». Non è questa l’occasione per discutere la validità della distinzione proposta da Jeshion, che utilizzo qui con il solo scopo di mettere in luce la varietà di fenomeni che possono essere ricondotti sotto la categoria-ombrello di rivendicazione semantica. A questi due casi prototipici possono aggiungersi anche altre possibili strategie (più o meno sistematiche e deliberate) per esempio gli usi ironici (Bianchi 2021, pp. 170-171), per lo più auto-riferiti, che, perfino quando restano entro i confini delle conversazioni private, contribuiscono ad una diversa circolazione delle parole d’odio. Al di là delle differenze, un aspetto importante che accomuna le molteplici strategie di rivendicazione semantica è il peculiare ruolo svolto dalle comunità dei parlanti/ascoltatori3, attuali e potenziali, nel determinare usi e abusi di uno slur. In particolare, tutte le strategie di rivendicazione semantica portano con sé, o addirittura si basano su, la distinzione tra in-group e out-group. Anche nei casi di pride-reclamation in cui la parola rivendicata esce dai confini degli usi interni al gruppo, tanto l’iniziativa quanto il giudizio sul successo della rivendicazione resta di fatto quasi esclusivamente prerogativa del gruppo target, o di alcuni suoi membri particolarmente autorevoli che possono tuttavia «concedere» l’uso non offensivo dello slur anche ai membri esterni al gruppo. L’obiettivo principale della rivendicazione, infatti, non è tanto quello di modificare il significato della parola d’odio (e talvolta nemmeno cancellarne il potenziale violento) quanto piuttosto riuscire a prenderne il controllo. Rivendicare uno slur significa appropriarsene sottraendolo così all’arsenale del nemi3
Utilizzo l’espressione «parlanti/ascoltatori» per mettere in evidenza che nella determinazione del valore offensivo di una parola conta molto non soltanto quello che fa o dice chi pronuncia lo hate speech ma anche la reazione dell’ascoltatore diretto o indiretto (Lo Piparo 2014 e Piazza 2019, pp. 36-38). Nei termini della teoria degli atti linguistici, si tratta di mettere al centro la dimensione perlocutoria. Sul ruolo della speech community e delle community of practice nei processi di rivendicazione semantica si veda anche Anderson 2018.
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co. Se l’operazione riesce – e non è scontato –, ha pertanto il vantaggio non solo di depotenziare la carica distruttiva della parola rivendicata, ma anche di modificare, almeno parzialmente, lo squilibrio di potere, rafforzando l’agency del gruppo subordinato (Johnston St. Clare 2018; Popa-Wyatt 2020). Va anche detto, tuttavia, che i processi di rivendicazione semantica, anche quelli più riusciti, non sono privi di insidie. Innanzitutto, la descrizione fatta fin qui rischia di far passare un’idea semplicistica dei gruppi sociali come entità omogenee e nettamente distinte, senza tenere conto non solo delle appartenenze «multiple» ma, e direi soprattutto, della molteplicità di posizioni e sensibilità anche all’interno di uno stesso gruppo. Non è un caso che le rivendicazioni semantiche non godano sempre del sostegno di tutti i membri del gruppo target e che, non di rado, suscitino opposizioni e resistenze anche molto dure (Anderson 2018). Gli oppositori più radicali sono quelli che ritengono che il significato offensivo di una parola non sia mai distaccabile (Brontsema 2004, pp. 5-7) e negano pertanto ogni potere ai parlanti, non vedendo altra via di uscita oltre quella che ho prima chiamato proibizionista. Ma ci sono anche altre possibili obiezioni che, senza arrivare a posizioni così estreme, mettono in guardia da possibili rischi della rivendicazione della parola d’odio. L’obiezione più frequente è quella secondo cui la rivendicazione accetterebbe implicitamente – e quindi contribuirebbe a perpetrare – la discriminazione che cerca di combattere, limitandosi a cambiarne solo il segno, senza nemmeno provare a scalfire l’opposizione tra gruppo-noi e gruppo-loro. Un altro possibile limite è rappresentato dal fatto che, per potere anche solo dare avvio ad un processo di rivendicazione, occorre che il gruppo target, o almeno alcuni suoi membri, si trovino già in condizioni di minore squilibrio di potere. Questo significa che, nei fatti, questa strategia difensiva non è effettivamente sempre a disposizione dei parlanti e c’è comunque il rischio che essa cada nel vuoto o, peggio ancora, che venga distorta producendo effetti opposti a quelli desiderati (Herbert 2015). Non nego che tali rischi esistano, eppure credo che valga la pena correrli. Per dirla con Herbert: Reclamation is intrinsically hazardous. Yet it can also be worthwhile: even when reclamation projects fail as reclamation, they still may accomplish good. They may increase group cohesion, bring awareness to the cause, or provide impetus for other sorts of resistance. At its best, reclamation makes real dif-
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ferences in the lived situation of all those who have been targeted by the slur. And when successful, reclamation of derogatory terms is the subversion of powerful mechanisms of oppression. While it will always be precarious, it may on occasion be well worth the risks (Herbert 2015, p. 137).
Il fatto è che le pratiche umane, e a maggior ragione quelle verbali, sono sempre precarie e a rischio di fallimento. Il potere che possiamo esercitare sulle parole non è mai un potere assoluto e i fattori che determinano successi e insuccessi di processi come la rivendicazione semantica sono molteplici e imprevedibili (Piazza 2019, pp. 38-40). Tuttavia, rinunciare a priori a mettere in atto strategie difensive linguistiche, prima ancora che giuridiche, significa di fatto rassegnarsi all’idea che le parole siano non solo armi ma vere e proprie prigioni.
Bibliografia Anderson, Luvell 2018 Calling, Addressing, and Appropriation, in David Sosa (ed.), Bad Words. Philosophical Perpsectives on Slurs, Oxford UP, Oxford, pp. 6-28. Anderson, Luvell; Lepore, Ernie 2013 Slurring words, «Nous», 47, pp. 25-48. Bianchi, Claudia 2021 Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio, Laterza, Roma-Bari. Brontsema, Robin 2004 A Queer Revolution: Reconceptualizing the Debate Over Linguistic Reclamation, «Colorado Research in Linguistics», 17, pp. 1-17. Butler, Judith 1997 Excitable Speech: A Politics of the Performative, Routledge, London-New York. Herbert, Cassie 2015 Precarious projects: the performative structure of reclamation, «Language Sciences», 52, pp. 131-138. Jeshion, Robin 2020 Pride and Prejudiced: On the Reclamation of Slurs, «Grazer Philosophische Studien», 97, Special Issue on Non-Derogatory Uses of Slurs, ed. by Bianca Cepollaro and Dan Zeman, pp. 106-137. Johnston St. Clare, Kameron 2018 Linguistic Disarmament: On How Hate Speech Functions, the Way Hate Words Can Be Reclaimed, and Why We Must Pursue
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Their Reclamation, «Linguistic and Philosophical Investigations», 17, pp. 79-109. Kukla, Quill Rebecca 2014 Performative Force, Convention, and Discursive Injustice, «Ethics», 129, pp. 70-97. Lo Piparo, Franco 2014 Sur la «grammaire publique» du sujet parlant, in Sylvie Archaimbault et al. (dir.), Penser l’histoire des savoirs linguistiques. Hommage à Sylvain Auroux, ENS Éditions, Lyon, pp. 155-161. Piazza, Francesca 2019 La parola e la spada. Violenza e linguaggio attraverso l’Iliade, il Mulino, Bologna. Popa-Wyatt, Mihaela 2020 Reclamation: Taking Back Control of Words, «Grazer Philosophische Studien», 97, Special Issue on Non-Derogatory Uses of Slurs, ed. by Bianca Cepollaro and Dan Zeman, pp. 159-176. Rahman, Jacquelyn 2012 The N Word: Its History and Use in the African American Community, «Journal of English Linguistic», 40 (2), pp. 137-171. 2015 Missing the target: group target that launch and deflect slurs, «Language Science», 52, pp. 70-81. Tirrell, Lynne 2018 Toxic Speech: Inoculation and Antidotes, «The Southern Journal of Philosophy», 56 (S1), pp. 116-144.
Punire la propaganda razzista? Alessandro Tesauro
Le riflessioni che Alessando Spena dedica al tema degli insulti razzisti o omo(lesbo-bi-trans)fobici «faccia a faccia» – che, a seguito della intervenuta depenalizzazione del reato di ingiuria, secondo la giurisprudenza non dovrebbero costituire più reato ma un semplice illecito civile produttivo di un mero obbligo di risarcire il danno alla vittima – sollecitano alcune considerazioni a margine sulla spinosa questione di come giustificare invece la perdurante punibilità di quelle condotte comunicative riconducibili alla diversa figura della propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico (art. 604 bis c.p.): una fattispecie, questa, da più parti sospettata di porsi in contrasto con la garanzia costituzionale del diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero (art. 21 Cost.). Si tratta di capire se, ed eventualmente a quali condizioni, sia costituzionalmente legittimo il ricorso alla repressione penale nei confronti dell’esternazione pubblica di convincimenti razzisti. Una piccola premessa innanzitutto, per i penalisti piuttosto scontata: per legittimare l’uso della coercizione penale occorre potere rintracciare sempre, dietro le spalle dell’incriminazione di una certa classe di comportamenti, una sua giustificazione laica e razionale. Questa giustificazione viene generalmente ravvisata nell’obiettivo di prevenire e reprimere fatti realmente dannosi per la società, ragion per cui il ricorso allo strumento penale non può trovare le proprie basi di legittimazione nell’avvertita esigenza di reprimere la semplice immoralità dei comportamenti incriminati (Fiandaca 2010). Nel rispondere alla domanda cruciale sul perché punire sono state perciò elaborate due fondamentali strategie di legittimazione atte a giustificare il ricorso al diritto penale, con tutto il suo carico di pesanti conseguenze sanzionatorie, in primis a carico della libertà perso-
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nale: una di matrice europeo-continentale, che consiste nel richiedere come presupposto irrinunciabile la lesione o la messa in pericolo di un interesse (reputato come) socialmente rilevante (il c.d. «bene giuridico»); e l’altra di matrice anglosassone, che ricollega l’intervento del diritto penale soltanto alla necessità di prevenire danni ad altri individui, mai all’intento pedagogico di perseguire ideali perfezionistici o di moralizzazione collettiva dei cittadini adulti (nel nostro caso, per es., l’obiettivo di promuovere tramite il ricorso alla sanzione penale la diffusione di una cultura del rispetto e dell’inclusione, se non addirittura quello di propiziare mutamenti antropologici su larga scala) (Feinberg 1990). Scopo di queste brevi note è quello di passare brevemente in rassegna quegli approcci di teoria della criminalizzazione di derivazione anglosassone basati sul noto principio del «danno ad altri» (harm to others) per verificare se la legittimazione etico-politica e costituzionale dell’incriminazione della propaganda razzista possa da essi ricevere rinforzo. Vediamo qual è allora la strada tentata dai sostenitori della «teoria critica della razza» (critical race theory, CRT), una nota corrente di pensiero maturata nell’ambito della cultura giuridica nordamericana da sempre sensibile al tema di come trattare i proverbiali «nazisti dell’Illinois» (Delgado 1993). La domanda fondamentale alla quale gli esponenti della CRT tentano di dare risposta è la seguente: quali tipi di danni è in grado di produrre il discorso razzista? Con specifico riferimento alla propaganda razzista, la risposta che la teoria critica della razza, anche con il sostegno di indagini di psicologia sociale, fornisce alla domanda sul perché il diritto penale dovrebbe punirla è grosso modo questa: la repressione penale di tale tipo di discorso razzista si accredita come politicamente opportuna e costituzionalmente legittima perché reprime condotte potenzialmente in grado di produrre un eterogeneo campionario di conseguenze dannose proiettate su scala sia «individuale» che «sociale» e presentate come un solido argomento a favore della limitazione della libertà di manifestazione del pensiero in questo specifico ambito (Pino 2008). Si è ipotizzato che, sul versante dei danni di tipo individuale, la propaganda di idee fondate su una «pedagogia del disprezzo» o su una «antropologia della disuguaglianza» produrrebbe negli apparte-
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nenti al gruppo vilificato danni di tipo psichico (i c.d. personal distress, come ansia, vissuti depressivi, perdita di autostima, panico), o anche danni alla vita di relazione (come una limitazione della propria sfera di autonomia personale per il timore di subire aggressioni o umiliazioni). Sul versante dei possibili danni di tipo sociale (o sistemico), la propaganda ostile, soprattutto se considerata in chiave «incrementale», come contributo alla creazione drop by drop, goccia dopo goccia, di un universo linguistico-immaginario di tipo razzista, agirebbe come un veleno a lento rilascio capace di produrre un clima socio-culturale diffuso (un social climate) presuntivamente propizio a generare tre ordini di effetti. a) Innanzitutto si sostiene che la diffusione di idee razziste potrebbe funzionare come una forma di istigazione oggettiva (e indiretta) al compimento di atti di violenza e discriminazione razziale, secondo uno schema grosso modo analogo al nesso che legherebbe pornografia, degradazione della donna e violenza sessuale. b) In secondo luogo, un’alta concentrazione nell’ambiente sociale di messaggi ostili alla parità razziale avrebbe l’effetto «legittimante» di riconfermare, con atti linguistici, condizioni materiali di esclusione sociale, squilibrio economico e subordinazione gerarchica delle minoranze svantaggiate nei confronti dei gruppi sociali dominanti. c) Infine, la propaganda di idee sarebbe ipoteticamente in grado di produrre un fenomeno psico-sociale correntemente etichettato come silencing effect (Pintore 2021): le esternazioni di pensiero razzista potrebbero produrre, ancora una volta soprattutto se considerate «in aggregato», in dimensione cumulativa o seriale, un «effetto-bavaglio» in grado di ostacolare o inibire agli appartenenti al gruppo esposto l’esercizio del diritto ad essere ammessi, come partner paritari e affidabili, agli scambi comunicativi che si svolgono nella scena pubblica: e questo sul duplice terreno delle opportunità sociali (lavorative, educative, ricreative) e delle rivendicazioni politiche o sindacali (essere ammessi a un esclusivo club nautico, riuscire a trovare lavoro presso uno studio di avvocati di grido, portare avanti con successo rivendicazioni salariali a favore del ceto bracciantile di colore, e così via). A voler riassumere le cose con uno slogan, la costante reiterazione di messaggi umilianti o mortificanti genererebbe «violenza epistemica». E cioè, l’interiorizzazione di un’auto-rappresentazione di sé
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basata su classificazioni identitarie debilitanti per la propria persona prodotte dagli appartenenti ai gruppi sociali dominanti. Di duplice ordine – mi pare – le riserve critiche opponibili nei confronti di tale ricostruzione della fenomenologia dannosa incorporata nel racist speech. Contro una simile impostazione si può intanto replicare che l’esternazione di pensieri basati su un’antropologia dell’inferiorità, lungi dall’innescare necessariamente nei membri del gruppo preso di mira effetti di inibizione comunicativa o di auto-emarginazione sociale, potrebbe anche produrre risultati opposti: ossia, essere «rispedita al mittente». Il che potrebbe avvenire – come si esprime la letteratura specialistica in argomento – attraverso una riformulazione (o «controappropriazione») del discorso ostile, in grado di determinare un «capovolgimento performativo» del messaggio degradante, un «sovvertimento» dei suoi effetti. Nel preciso senso che il fallimento del discorso offensivo, più che da un intervento «paternalistico» attuato dallo Stato tramite la legge penale, potrebbe essere più efficacemente legato alla possibilità intrinseca che il soggetto «resista alla vittimizzazione» e si appropri consapevolmente (e orgogliosamente) di un’identità diversa dallo stereotipo razziale associato alla colpa, al vizio e allo stigma con iniziative attive di racial consciousness. Tanto più che, nelle moderne democrazie occidentali di stampo solidaristico-inclusivo, i messaggi denigratori della propaganda razzista non sono un coro unanime, un basso continuo, ma convivono con contro-messaggi all’insegna di uguaglianza e pari dignità. Sicché se ne potrebbe concludere che il danno fattuale ipotizzato dalla teoria sarebbe «contingente alla singola vittima», alle sue credenze, al suo livello di sensibilità individuale, alla struttura della sua personalità. Una prospettazione, questa, che risente visibilmente dell’«ottimismo liberale» nordamericano, per cui non ci sarebbe granché da temere a lasciare sbocciare sul libero mercato delle idee tutti i fiori, compresi quelli carnivori e velenosi. Ma il punto veramente cruciale è un altro. E cioè che la diagnosi di «violenza epistemica» – e le voci di danno ad essa correlate – si annuncia a ben guardare come infalsificabile. Nel senso che non si può realisticamente disporre di basi conoscitive oggettive e neutrali per stabilire se e quando essa si verifichi.
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La dannosità sociale astratta del discorso razzista, infatti, si fonda su un’affermazione di tipo lato sensu causale, e come tale essa dovrebbe essere dimostrata, e non semplicemente asserita: nel tentare di rispondere all’interrogativo cruciale su «come fare cose cattive con le parole», non sembra però che un argomento causale di questo tipo sia stato mai adeguatamente fornito: per cui è difficile sfuggire alla sensazione che l’intera prospettazione resti appesa su sé stessa come il Barone di Münchhausen. Insomma – per riproporre una suggestione di Dworkin –, come l’omosessualità di Oliver Twist, la generale idoneità causale ex ante della propaganda a provocare danni fattuali non si può dire che sia vera né che sia falsa. Ma allora, se è davvero così che stanno le cose, non potremmo in realtà trovarci di fronte ad una mera «epistemologia del sospetto», tutta protesa verso la prevenzione di rischi meramente ipotetici che, allo stato delle conoscenze empirico-criminologiche disponibili, non si possono radicalmente escludere né asseverare? Non è legittimo avanzare il sospetto che la norma che punisce la propaganda di idee razziste costituisca espressione di una logica di tipo lato sensu «precauzionale», secondo quello che è stato suggestivamente definito il «Paradigma Cassandra»? Sicché, a volerla mettere in modo brutale, ci si potrebbe chiedere: se la prognosi legislativa di pericolosità delle condotte incriminate non è empiricamente validabile in modi tendenzialmente certi, univoci e controllabili, non si potrebbe considerare la norma come irragionevole o arbitraria per la ravvisata mancanza di un’idonea piattaforma di generalizzazioni causali affidabili su cui appoggiarla? La storia, in realtà, è un po’ più complicata di così. Il punto è che, in realtà, i concetti di danno e, a fortiori, di pericolo sono caratterizzati da uno strettissimo, e pressoché indissolubile, intreccio tra dimensione empirico-fattuale e dimensione assiologico-valutativa: soprattutto quando, come nel caso della propaganda razzista, residuano consistenti margini di controvertibilità epistemica sulla reale rischiosità oggettiva dei fenomeni da incriminare, giudizi di fatto e giudizi di valore non sono concettualizzabili come componenti fra loro nettamente distinte, ma l’uno «impregna» l’altro in una spirale ermeneutica di continue interazioni reciproche.
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Come ha giustamente osservato Joel Feinberg, il concetto di danno è «un concetto molto complesso, con dimensioni normative nascoste» (Feinberg 1990, p. 214), dipendente da considerazioni morali sostanziali (di giustizia, di ragionevolezza, di opportunità politicocriminale) molto spesso attinenti a questioni di bilanciamento tra i diversi interessi in competizione tra loro (nel nostro caso dignità – individuale e di gruppo – e libertà di pensiero). Ne consegue che, di fronte a un non univoco e opinabile bilancio complessivo delle ricerche sociali condotte in materia, la convalida empirica del rischio ricollegabile alla propaganda razzista resta aperta a opposte conclusioni, a seconda delle diverse premesse politicoculturali di partenza. Non può perciò sorprendere che, nell’argomentare di giudici e giuristi, il riferimento ai dati conoscitivi forniti dalle scienze sociali in materia si possa prestare anche in questo campo ad un uso opportunisticamente strumentale, «pro o contro» l’incriminazione, che inevitabilmente risente degli atteggiamenti etico-normativi dell’interprete sul modo di concepire e fare interagire tra loro i beni in conflitto (e cioè dignità umana e libertà di espressione). Tanto più quando, come nel nostro caso, gli apprezzamenti valutativo-discrezionali sul diverso peso specifico che si è disposti ad assegnare ai diversi interessi in gioco si innestano non su considerazioni fattuali a carattere tecnicoscientifico in senso stretto ma su considerazioni di tipo genericamente storico-sociologico (Fiandaca 2011). Ne deriva che il dubbio «scientifico» sulla (potenziale) dannosità sociale di tale tipologia di discorso razzista potrebbe ben essere valorizzato da giudici comuni e costituzionali nell’opposta direzione della contestazione o del salvataggio della fattispecie: e ciò in ragione, soprattutto, del diverso peso comparativo che si è disposti ad attribuire a dignità umana e libertà di parola in base ai diversi atteggiamenti etico-normativi e alle diverse preferenze politico-culturali dell’interprete sul modo di concepire e fare interagire tra loro tali beni costituzionali.
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Bibliografia Delgado, Richard 1982 Words that Wound: A Tort Action for Racial Insults, Epithets, and Name-Calling, «Harvard Civil Rights-Civil Liberties Law Review», 17, pp. 133-181. Feinberg, Joel 1990 The Moral Limits of the Criminal Law, Oxford UP, Oxford-New York. Fiandaca, Giovanni 2010 Punire la semplice immoralità? Un vecchio interrogativo che tende a riproporsi, in Alberto Cadoppi (a cura di), Laicità, valori e diritto penale. The Moral Limits of the Criminal Law. In ricordo di Joel Feinberg, Giuffrè, Milano. 2011 Sui «giudizi di fatto» nel sindacato di costituzionalità in materia penale, tra limiti ai poteri e limiti ai saperi, in Bertolino, Marta; Eusebi, Luciano; Forti, Gabrio, Studi in onore di Mario Romano, vol. I, Jovene, Napoli. Pino, Giorgio 2008 Discorso razzista e libertà di manifestazione del pensiero, «Politica del diritto», XXXIX, 2, pp. 287-305.
Pintore, Anna 2021 Tra parole d’odio e odio per le parole. Metamorfosi della censura, Mucchi, Modena.
Backstage
Tersite al talk-show Gigi Spina
Doverosa premessa Invitato dai curatori del volume a contribuire con un intervento, ho dovuto constatare che ormai non posso fare a meno, nelle mie scritture di filologo classico in pensione, di ricorrere alla diacultura, un termine che ho adottato – non credo di averlo coniato per primo, anche se le ricerche in rete riservano gustose sorprese – per recenti invenzioni letterarie: Il segreto del Tuffatore. Vita e morte nell’antica Paestum (Napoli 2020) e L’isola degli dèi. Procida capitale della diacultura (Napoli 2021); invenzioni, ma non lontane dal mio modo di studiare, insegnare e riflettere sui testi delle culture greca e romana. Per far capire di cosa parlo, tento una definizione ragionata. La diacultura può essere intesa come una forma comunicativa della complessità moderna, un modo di far interagire il passato e il presente, il qui e l’altrove, l’uguale e il diverso, senza più distinzioni di contesto, di quadri mentali, senza compatibilità cronologiche. La diacultura è la risposta disinvolta e democratica all’analogia. L’analogia mette a confronto e avvicina le somiglianze, mettendo sullo sfondo i contesti e le dissimiglianze; la diacultura sovrappone con disinvoltura (e senza vergogna, aggiungerei) le somiglianze in un corto circuito che confonde gli strati, mescola i linguaggi e le scene, ma ha l’onestà di invertire il flusso fra moderno e antico. Democratica, perché in tal modo anche a un pensatore antico può essere offerta l’occasione di usare l’analogia col moderno, col postero, presentandola come confronto e arricchimento. La diacultura porta alle estreme conseguenze l’idea che gli antichi possano insegnarci qualcosa. Gli antichi, in un dialogo di questo tipo, possono anche imparare da noi e regolarsi di conseguenza, insegnando a loro volta in modo moderno; a questo livello, il Besserwissen, il saperne più degli altri, in genere criticato
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in quanto «colonizzatore», è condiviso e usato nei due sensi. Rimanendo umani, e quindi non estranei a nulla che non sia umano, a qualsiasi secolo appartenga. Per rispondere all’amichevole e affettuoso invito, avrei potuto, certo, rielaborare miei interventi sull’argomento, incrociandoli con successive riflessioni, scrivendo sostanzialmente nella stessa forma e non progredendo di molto nella sequenza ipotesi-ricerca-risultato. Una scrittura diaculturale mi permette invece, se non di avanzare nuove ipotesi per nuovi e magari inattesi risultati, di cambiare lo scenario comunicativo: dallo spazio del saggio alla scena narrativa, alla enargheia/evidentia – far vedere con le parole –, per riflettere sul tema raccontandolo attraverso personaggi antichi e moderni, mescolati in un linguaggio contemporaneo, se non altro perché tradotto. L’evento Tersite1, influencer etolo, autore di un recente pamphlet sulla guerra di Troia, Storia di una puttana e di un cornuto, viene invi1 Presento i personaggi con la relativa bibliografia essenziale: Tersite appare nel II libro dell’Iliade, in una famosa e abbastanza insolita scena. Sul personaggio si veda Spina 2001; il titolo del suo presunto pamphlet riecheggia un verso del Troilus and Cressida (1602) di W. Shakespeare, nel quale Thersites definisce la guerra di Troia: All the argument is a whore and a cuckhold (II. iii.71); sono tornato sul personaggio nel 2021 con due interventi on line, uno per Velia Teatro, il secondo per Laborality, ciclo di seminari a cura di Manuela Giordano, Università di Siena; il primo intervento, Il soldato Tersite dall’assemblea alla scena, fra antico e moderno, è scaricabile al n. 294 della sezione Ricezione nel mio blog, www.luigigigispina.altervista.org, con annesso power point; Elena, presente sia nell’Iliade che nell’Odissea, nonché in significative tragedie euripidee, è al centro di numerose monografie, fra cui ricordo in particolare Brillante-Bettini 2002. Ho dedicato a Elena un sincero omaggio, Spina 1998, scaricabile al n. 73 della sezione Antropologica del blog su indicato; quanto al titolo della presunta autobiografia, è evidente come mescoli il valore moderno del termine idolo e il suo significato etimologico: in greco antico, eidolon vale come immagine, simulacro; Gorgia da Leontini (V sec. a.C.) è autore, fra l’altro, dell’Encomio di Elena, di cui si attende una traduzione commentata di Mauro Serra, che ha lavorato a lungo e pubblicato sul testo e sull’autore (si veda Serra 2017); Stesicoro d’Imera (VII-VI sec.), poeta lirico corale, scrisse versi di una Palinodia in cui negava che Elena fosse andata a Troia, ma pare lo facesse solo per riacquistare la vista dopo che Castore e Polluce, fratelli divini di Elena, lo avevano accecato; Robert Wise (Winchester, 1914 - Los Angeles, 2005), importante regista statunitense (va ricordato, di questi tempi, l’oscar per West Side Story, 1962), diresse nel 1956 Helen of Troy, film e non serie televisiva. Quanto a Omero, non ha bisogno di presentazione, come si dice quando s’introduce un professore famoso, ospite per una conferenza.
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tato a partecipare a un talk-show incentrato sulla vita della regina spartana Elena, che ha appena scritto un’autobiografia, Sono stata un idolo. Tersite, chiamato a rispondere delle espressioni colorite e offensive del suo libretto, nonché della sua spiccata tendenza a insultare l’interlocutore, deve confrontarsi con altri intellettuali, del calibro di: Gorgia, editor dell’autobiografia; Stesicoro, filosofo/poeta che ha avanzato una intrigante ipotesi sulle disavventure di Elena; Robert Wise, autore della serie televisiva Helen of Troy. A condurre il dibattito è un anziano cronista, ormai cieco, Omero. Il dibattito omero Buonasera e benvenuti – tutte e tutti, anche al duale – all’attesa puntata del nostro talk-show, che si preannunzia particolarmente frizzante. Avrete riconosciuto senz’altro, per le sue caratteristiche fisiche, che purtroppo non sono mai riuscito a vedere – me le hanno solo descritte –, un influencer che conta su migliaia di follower, soprattutto dopo la pubblicazione del suo ultimo corrosivo volumetto: lo scriteriato Tersite, come ama definirsi. Storia di una puttana e di un cornuto è una cronaca politicamente molto scorretta, per la quale pare fiocchino già denunzie e querele. A combattere con lui saranno Gorgia, in difesa di Elena e dell’autobiografia da lui curata; Stesicoro, che probabilmente svelerà qui un episodio inedito e inquietante cui ha fatto solo cenno sui social; e infine Robert Wise, noto biografo per immagini. Dunque, Tersite, chi sarebbe la puttana e perché? Spieghiamolo ai nostri spettatori. Vi ricordo che ciascuno ha un numero limitato di battute a disposizione, spazi inclusi (così mi dicono di dire). tersite Puttana: non c’è da offendersi se si fa quel mestiere con convinzione. Ma forse la «signora» Elena preferisce che la definisca faccia di cane, fa più fine. Lo ha detto lei stessa, di sé, e più volte; ma, certo, parlava ai nuovi parenti, faceva la contrita. Se lo diceva da sola2. Attenzione al contesto, però, non siamo fra animalisti devoti: le cagne 2
Sull’epiteto kynopis, da rileggere le osservazioni di Franco 2003, 195-202.
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erano infedeli, seguivano chi le seduceva, mangiavano i cadaveri e sporcavano dovunque. Allora, Elena scelga coerentemente: se vuole, la chiamo faccia di cane, così finirà per querelare sé stessa; altrimenti vado avanti con puttana. Non ho mai temuto la censura delle mie parole; ho affrontato potenti ben più potenti e mi sono immolato sotto le percosse di un vigliacco che passava per essere un eroe. Lui non l’ha censurato mai nessuno; poteva uccidere, con armi vere, anche donne indifese. Addirittura viene oggi osannato come un assetato di virtù e di sapere. Robe da pazzi. Le mie parole non hanno mai fatto male a nessuno. Chiamavo Achee gli Achei. Volete fare un decreto per impedirlo? Continuerò a chiamarLE così… gorgia Eccolo, che bisogno c’è di continuare? Omero, per favore lo faccia smettere. Una signora per bene, vittima di una congiura divina e dell’arroganza maschile, è costretta a scrivere un’autobiografia per difendersi, a non poter apparire più in video per timore di stalking, a vivere sotto scorta: perché di pazzi pronti a portare alle estreme conseguenze le parole di uno scriteriato ce n’è molti, purtroppo. Se non fosse tragica, la difesa di questo energumeno farebbe ridere. Le sue parole non hanno mai fatto male a nessuno? E come mai tutti le conoscono e le ripetono? Per caso se l’è dette in bagno, davanti a uno specchio? No, le ha dette in piena assemblea, davanti a testimoni, mica in un faccia a faccia privato. Le parole cominciano a far male quando le orecchie sono più di quattro, o più di quattro gli occhi che le leggono, perché si trasformano in calunnie. Da offese e/o minacce che sarebbero risolvibili in un confronto, sempre che rimangano parole fra quattro orecchie o quattro occhi, diventano rumor(e)s, fama, suscitano immagini più eloquenti delle parole, diventano armi incontrollabili, colpi esplosi in successione, a raffica. Immaginate Tersite a tu per tu solo con Elena, entrambi seduti come qui, ma non in video o davanti a un pubblico. Loro due soli – ha fatto bene, Omero, a evocare il duale. Seduti e legati, senza la possibilità di muoversi, di usare il corpo, ma solo la bocca. Tersite: Puttana!; Elena: Sgorbio!; Tersite: Fetentona; Elena: Mezza cartuccia, cacca di cane, e via dicendo. Dopo una mezz’ora di questo fiorito dialogo qualcuno li slegherebbe, ne constaterebbe la perfetta incolumità e poi ognuno se ne andrebbe per la sua strada, ripromettendosi di non incrociarsi mai
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più; «è il pubblico che fa il totale!» direbbe un principe bizantino3. Allora niente bizatinismi e nessuna indulgenza. Quando si offende dinanzi a un pubblico, a voce o per iscritto, la parola va censurata, delimitata per legge, non c’è libertà che tenga. Potrei al massimo prevedere una deroga. Ma solo per chi esplicitamente dichiara di parlare per paignion4, per gioco, per scherzo, come con una scacciacani (pardon, non volevo certo alludere!), un’arma spuntata. Ma attenzione, lo scherzo vero fa ridere se è leggero come una piuma che solletica, come quella di Forrest Gump. Altrimenti diventa un’altra cosa, un pesante macigno come quello di Sisifo. Che sicuramente fa male. stesicoro Omero, mi permetta di intervenire, le sto facendo cenno da tempo … già, lei non vede, ma forse fa finta di non vedere, perché intanto sente, e come se sente! Eppure il mio scoop farebbe salire lo share a livelli impensabili. Allora, posso? Ecco. Sono stato minacciato, mentre venivo in trasmissione, da due loschi figuri, qualcosa fra due bravi e le «tigri» di Ammore e malavita5. Mi hanno ficcato le dita negli occhi, a rischio di accecarmi, minacciandomi di morte se avessi parlato. E allora io non parlo, siete contenti? Nessuno mi protegge, io non ho la scorta, voi vi divertite con le parole, con la censura, disquisite nei talk-show, stabilite limiti e confini, fino a che punto è arma e fino a che punto no; una signora come Elena, per carità brava persona, è diventata una specie di capro espiatorio dei mali del mondo, e più ne parlate e più i mali aumentano e lei magari ci guadagna; e io ci sono andato di mezzo; IO sono stato minacciato di morte, non voi. Voi teorizzate e io rischio la vita. Vi saluto e vi ringrazio, ma io alla vita ci tengo. robert wise Immaginavo che sarebbe finita così, vedo che Tersite se la ride, mentre Gorgia mi pare tentato di farsi prestare lo scettro da Ulisse. 3
«È la somma che fa il totale» è espressione cara al principe Antonio De Curtis, in arte Totò. 4 Paignion, gioco di bambini, è la parola che appare nelle conclusioni dell’Encomio di Elena di Gorgia: una sorta di gioco intellettuale che manovra parole come pedine di una scacchiera argomentativa. 5 Film dei Manetti Bros. (2017): le «tigri» sono i due guardaspalle di un boss della camorra napoletana.
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Dico subito che non sono stato mai minacciato da nessuno, eppure le immagini di Elena che ho diffuso non possono certo definirsi inoffensive. Non c’è nulla da fare; alle parole seguono necessariamente i fatti, le parole sono una specie di anteprima, di ouverture; si anticipano i temi, che poi verranno sviluppati nelle sequenze successive. E non dico certo che le immagini siano più pure e benefiche delle parole. Anche le immagini si diffondono e fanno male. Il problema è altrove, e non voglio fare del benaltrismo. Il problema è nella violenza della cultura, nel tentativo, cioè, di sovrapporre al corpo, inteso come insieme di corporeità e immaterialità, che ha i suoi tempi e modi di espressione – anche le sue autolimitazioni, perché no? –, un’impalcatura esterna, un involucro culturale che punta sulla discussione, sulla persuasione, sulla condivisione e, in caso d’impotenza di tali metodi, sulla censura, sulla costrizione. Bisognerebbe cancellarla, la cultura, quella cultura, perché ci fa illudere di poter definire e sanzionare. Chiacchiere e argomentazione. Vedete cosa hanno fatto di Elena, di quell’idolo, immagine sfuocata, fantasma ubiquo. Non sapete più neanche come definirla, e continuate ad accapigliarvi. Dimenticatela; dimenticate Tersite, dimenticate Gorgia, dimenticate le minacce a Stesicoro. E quanto a lei, Omero, mi permetta di darle un consiglio. Riveda il suo modo di fare cronaca, di invitare personaggi dal dubbio passato a dialogare. È gente che ha fatto più male che bene, e non sarà un talk-show a renderli migliori. Abbiamo bisogno di correttezza, oggi, non permettiamo più che qualcuno venga a colonizzarci di nuovo6. omero E su queste parole ferme, e direi anche minacciose, non mi resta che mettere fine alla puntata di stasera, dando appuntamento alla prossima settimana, o a settimana prossima, come tendono a dire i barbari. Ritroveremo i nostri ospiti in carne e ossa, perché il talk6 Decolonizing the Classics, come in precedenza Cancel Culture. Mi riferisco a movimenti e prese di posizione di alcune università statunitensi che tendono a criticare a fondo il permanere di un’egemonia educativa della cultura occidentale, incluse le radici greche e romane, in quanto sarebbero basate su esperienze e pratiche oggi non più ammesse, anzi decisamente condannabili. Tali posizioni di rifiuto e rimozione vanno criticate, a mio parere, all’altezza dei problemi che pongono, e non liquidate come espressioni di una cultura semibarbarica, come spesso sento dire sottovoce da esponenti dell’antichistica nostrana. La bibliografia è già abbastanza corposa.
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show deve continuare e quella di stasera era solo una simulazione, realizzata con ologrammi e sequenze verbali ricavate con un dialogatore automatico da banche dati a disposizione dei nostri tecnici. Buonasera, al plurale multigenere.
Bibliografia Brillante, Carlo; Bettini, Maurizio 2002 Il mito di Elena. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi, Torino. Franco, Cristiana 2003 Senza ritegno. Il cane e la donna nell’immaginario della Grecia antica, il Mulino, Bologna. Serra, Mauro 2017 Retorica, argomentazione, democrazia. Per una filosofia politica del linguaggio, Aracne, Roma. Spina, Luigi 1998 Inseguendo Elena (dalle mura alla scena, attraverso i generi letterari), «Aufidus», 36, pp. 13-31. 2001 L’oratore scriteriato. Per una storia letteraria e politica di Tersite, Loffredo, Napoli.
Quodlibet Studio
almanacco di filosofia e politica
Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi (a cura di), Almanacco di Filosofia e Politica i. Crisi dell’immanenza. Potere, conflitto, istituzione Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi, Elia Zaru (a cura di), Almanacco di Filosofia e Politica ii. Istituzione. Filosofia, politica, storia Andrea Di Gesu, Paolo Missiroli (a cura di), Res publica. La forma del conflitto
analisi filosofiche
Massimo Dell’Utri (a cura di), Olismo Rosaria Egidi, Massimo Dell’Utri e Mario De Caro (a cura di), Normatività, fatti, valori Massimo Dell’Utri, L’inganno assurdo. Linguaggio e conoscenza tra realismo e fallibilismo Giacomo Romano, Essere per. Il concetto di «funzione» tra scienze, filosofia e senso comune Sandro Nannini, Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente Giancarlo Zanet, Le radici del naturalismo. W.V. Quine tra eredità empirista e pragmatismo Rosa M. Calcaterra (a cura di), Pragmatismo e filosofia analitica. Differenze e interazioni Georg Henrik von Wright, Mente, azione, libertà. Saggi 1983-2003 Elio Franzini, Marcello La Matina (a cura di), Nelson Goodman, la filosofia e i linguaggi Erica Cosentino, Il tempo della mente. Linguaggio, evoluzione e identità personale Francesca Ervas, Uguale ma diverso. Il mito dell’equivalenza nella traduzione Jlenia Quartarone, Causazione e intenzionalità. Modelli di spiegazione causale nella filosofia dell’azione contemporanea Arianna Bernardi, Intenzionalità e semantica logica in Edmund Husserl e Anton Marty Maria Primo, Alle radici della parola. L’origine del linguaggio tra evoluzione e scienze cognitive Antonio Rainone, Quale realismo, quale verità. Saggio su W. V. Quine Giovanni Tuzet, La pratica dei valori. Nodi fra conoscenza e azione Imre Toth, La filosofia della matematica di Frege. Una restaurazione filosofica, una controrivoluzione scientifica Robert Audi, Epistemologia. Un’introduzione alla teoria della conoscenza Pier Luigi Lecis, Giuseppe Lorini, Vinicio Busacchi, Pietro Salis, Olimpia G. Loddo (a cura di), Verità Immagine Normatività. Truth, Image, and Normativity Joachim Schulte,Wittgenstein. Un’introduzione Frank Plumpton Ramsey, Sulla verità e Scritti pragmatisti Marco Mazzeo, Logica e tumulti. Wittgenstein filosofo della storia Brian McGuinness, Wittgenstein tra Vienna e Cambridge. Origini e rapporti con la cultura e i pensatori del suo tempo
antropologia e filosofia
Roberto Brigati, Valentina Gamberi (a cura di), Metamorfosi. La svolta ontologica in antropologia Hans Joas, Come nascono i valori
discipline filosofiche
Riccardo Martinelli, Misurare l’anima. Filosofia e psicofisica da Kant a Carnap Luca Guidetti, La realtà e la coscienza. Studio sulla «Metafisica della conoscenza» di Nicolai Hartmann Michele Carenini e Maurizio Matteuzzi (a cura di), Percezione linguaggio coscienza. Saggi di filosofia della mente Stefano Besoli e Luca Guidetti (a cura di), Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei Circoli di Monaco e Gottinga Roberto Brigati, Le ragioni e le cause. Wittgenstein e la filosofia della psicoanalisi Girolamo De Michele, Felicità e storia Annalisa Coliva and Elisabetta Sacchi, Singular Thoughts. Perceptual Demonstrative Thoughts and I-Thoughts Vittorio De Palma, Il soggetto e l’esperienza. La critica di Husserl a Kant e il problema fenomenologico del trascendentale Carmelo Colangelo, Il richiamo delle apparenze. Saggio su Jean Starobinski Giovanni Matteucci (a cura di), Studi sul De antiquissima Italorum sapientia di Vico Massimo De Carolis e Arturo Martone (a cura di), Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein Stefano Besoli, Massimo Ferrari e Luca Guidetti (a cura di), Neokantismo e fenomenologia. Logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza Stefano Besoli, Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia della conoscenza Barnaba Maj, Idea del tragico e coscienza storica nelle «fratture» del Moderno Tamara Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin Paolo Di Lucia, Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive Michele Gardini e Giovanni Matteucci (a cura di), Gadamer: bilanci e prospettive Luca Guidetti, L’ontologia del pensiero. Il «nuovo neokantismo» di Richard Hönigswald e Wolfgang Cramer Michele Gardini, Filosofia dell’enunciazione. Studio su Martin Heidegger Giulio Raio, L’io, il tu e l’Es. Saggio sulla Metafisica delle forme simboliche di Ernst Cassirer Marco Mazzeo, Storia naturale della sinestesia. Dal caso Molyneux a Jakobson Lorenzo Passerini Glazel, La forza normativa del tipo. Pragmatica dell’atto giuridico e teoria della catogorizzazione Felice Ciro Papparo, Per più farvi amici. Di alcuni motivi in Georges Bataille Marina Manotta, La fondazione dell’oggettività. Studio su Alexius Meinong Silvia Rodeschini, Costituzione e popolo. Lo Stato moderno nella filosofia della storia di Hegel (1818-1831) Bruno Moroncini, Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz Stefano Besoli (a cura di), Ludwig Binswanger. Esperienza della soggettività e trascendenza dell’altro Luca Guidetti, La materia vivente. Un confronto con Hans Jonas Barnaba Maj, Il volto e l’allegoria della storia. L’angolo d’inclinazione del creaturale Mariannina Failla, Microscopia. Gadamer: la musica nel commento al Filebo
Luca Guidetti, La costruzione della materia. Paul Lorenzen e la «Scuola di Erlangen» Mariateresa Costa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia Daniele Cozzoli, Il metodo di Descartes Francesco Bianchini, Concetti analogici. L’approccio subcognitivo allo studio della mente Marco Mazzeo, Contraddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza Vincenzo Costa, I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica Aldo Trucchio (a cura di), Anatomia del corpo, anatomia dell’anima. Mecca-nismo, senso e linguaggio Roberto Frega, Le voci della ragione. Teorie della razionalità nella filosofia americana contemporanea Carmen Metta, Forma e figura. Una riflessione sul problema della rappresentazione tra Ernst Cassirer e Paul Klee Felice Masi, Emil Lask. Il pathos della forma Stefano Besoli, Claudio La Rocca, Riccardo Martinelli (a cura di), L’universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere Adriano Ardovino, Interpretazioni fenomenologiche di Eraclito Mariannina Failla, Dell’esistenza. Glosse allo scritto kantiano del 1762 Caterina Zanfi, Bergson e la filosofia tedesca 1907-1932 Marco Tedeschini, Adolf Reinach. La fenomenologia, il realismo Mariapaola Fimiani, L’etica oltre l’evento Luigi Azzariti Fumaroli, Passaggio al vuoto. Saggio su Walter Benjamin Roberto Redaelli, Emil Lask. Il soggetto e la forma Eugenio Mazzarella, L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo Furio Semerari (a cura di), Che cosa vale. Dell’istanza etica Stefano Besoli, Roberto Redaelli (a cura di), Emil Lask. Un secolo dopo Aldo Masullo, L’Arcisenso. Dialettica della solitudine Sebastiano Galanti Grollo, La passività del sentire. Alterità e sensibilità nel pensiero di Levinas Stefano Besoli, Letizia Caronia (a cura di), Il senso della realtà. L’orizzonte della fenomenologia nello studio del mondo sociale Matteo Santarelli, La vita interessata. Una proposta teorica a partire da John Dewey Manlio Iofrida, Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia Stefano Besoli, Forma categoriale e struttura del giudizio. Sull’incompiutezza sistematica del pensiero di Emil Lask Otto Apelt, La dottrina delle categorie di Aristotele Furio Semerari (a cura di), L’esclusione. Analisi di una pratica diffusa Luigi Azzariti-Fumaroli, Fenomenologia dell’ombra. Tre saggi Venanzio Raspa, Origine e significato delle categorie di Aristotele. Il dibattito nell’Ottocento Guido Baggio, Michela Bella, Giovanni Maddalena, Matteo Santarelli (a cura di), Esperienza, contingenza, valori. Saggi in onore di Rosa M. Calcaterra Sebastiano Galanti Grollo, L’alterità della carne. Il tema del corpo nel pensiero di Paul Ricoeur Luigi A. Manfreda, L’intimo e l’estraneo. Struttura e composizione del sé Roberto Redaelli, Per una logica dell’umano. Antropologia filosofica e Wertlehre in Windelband, Rickert e Lask Luca Guidetti, Gli elementi dell’esperienza. Studio su Ernst Mach Daniela Calabrò (a cura di), La passione del pensiero. Studi in onore di Enrica Lisciani-Petrini
estetica e critica
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filosofia del linguaggio
Salvatore Di Piazza, Alessandro Spena (a cura di), Parole cattive. La libertà di espressione tra linguaggio, diritto e filosofia
filosofia e politica
Massimiliano Tomba, La «vera politica». Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia Alberto Burgio (a cura di), Dialettica. Tradizioni, problemi, sviluppi Patrizia Caporossi, Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile Adalgiso Amendola, Laura Bazzicalupo, Federico Chicchi, Antonio Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione Paolo B. Vernaglione, Dopo l’umanesimo. Sfera pubblica e natura umana nel ventunesimo secolo Dario Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida Mauro Farnesi Camellone, La politica e l’immagine. Saggio su Ernst Bloch Le vie della distruzione. A partire da «Il carattere distruttivo» di Walter Benjamin, a cura del Seminario di studi benjaminiani Ferdinando G. Menga, L’appuntamento mancato. Il giovane Heidegger e i sentieri interrotti della democrazia Paolo Vignola, La lingua animale. Deleuze attraverso la letteratura Laboratorio Verlan (a cura di), Dire, fare, pensare il presente Mario Barenghi, Matteo Bonazzi (a cura di), L’immaginario leghista. L’irruzione delle pulsioni nella politica contemporanea Mauro Farnesi Camellone, Indocili soggetti. La politica teologica di Thomas Hobbes Giovanni Licata (a cura di), L’averroismo in età moderna (1400-1700) Dario Gentili, Mauro Ponzi, Elettra Stimilli (a cura di), Il culto del capitale. Walter Benjamin: capitalismo e religione Giovanni Licata (a cura di), L’averroismo in età moderna (1400-1700) Laura Bazzicalupo, Salvo Vaccaro (a cura di), Vita, politica, contingenza Leo Strauss, Una nuova interpretazione della filosofia politica di Platone Marco Mazzeo, Il bambino e l’operaio. Wittgenstein filosofo dell’uso Marina Montanelli, Massimo Palma (a cura di), Tecniche di esposizione. Walter Benjamin e la riproduzione dell’opera d’arte Mauro Ponzi (a cura di), Marx e la crisi Rudy M. Leonelli, Illuminismo e critica. Foucault interprete di Kant Giulio Azzolini, Capitale, egemonia, sistema. Studio su Giovanni Arrighi Giovanni Ruocco, Razze in teoria. La scienza politica di Gaetano Mosca nel discorso pubblico dell’Ottocento Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi (a cura di), Almanacco di Filosofia e Politica 1. Crisi dell’immanenza. Potere, conflitto, istituzione Stefano Catucci, Potere e visibilità. Studi su Michel Foucault Rita Fulco, Tommaso Greco (a cura di), L’Europa di Simone Weil. Filosofia e nuove istituzioni Walter Benjamin, Hans Kelsen, Karl Löwith, Leo Strauss, Jacob Taubes, Critica della teologia politica. Voci ebraiche su Carl Schmitt Chiara Collamati, Mauro Farnesi Camellone e Emiliano Zanelli (a cura di), Filosofia e politica in Ernst Bloch. Lo spirito dell’utopia un secolo dopo Dario Gentili, Il tempo della storia. Le tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin Gabriele Guerra e Tamara Tagliacozzo (a cura di), Felicità e tramonto. Sul Frammento teologico-politico di Walter Benjamin
Paola Di Cori, Michel de Certeau. Per il lettore comune Rita Fulco, Soggettività e potere. Ontologia della vulnerabilità in Simone Weil Francesco Marchesi, Geometria del conflitto. Saggio sulla non-corrispondenza Pierpaolo Cesaroni, La vita dei concetti. Hegel, Bachelard, Canguilhem Michele Basso, La città, alba dell’Occidente. Saggio su Max Weber
filosofia e psicoanalisi
Silvia Vizzardelli e Felice Cimatti (a cura di), Filosofia della psicoanalisi. Un’introduzione in ventuno passi Felice Cimatti e Alberto Luchetti (a cura di), Corpo, linguaggio e psicoanalisi Silvia Vizzardelli, Io mi lascio cadere. Estetica e psicoanalisi
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John R. Taylor, La categorizzazione linguistica. I prototipi nella teoria del linguaggio Franco Lorenzi, Alejandro Marcaccio (a cura di), Testualità e metafora Filippo Grendene, Fabio Magro, Giacomo Morbiato (a cura di), Fortini ’17. Atti del convegno di studi di Padova (11-12 dicembre 2017)