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INDICE
PAOLO UCCELLO
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A volo d'uccello Vita e leggenda di Paolo Uccello Paolo Uccello e il suo ambiente L'opera di Paolo Uccello Gli esiti di Paolo Uccello L'influenza di Paolo Uccello Nota bibliografica APPENDICE VITA DI PAULO UCCELLO
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67 di Giorgio Vasari
IL TEMPO DIETRO IL TEMPO
Tavole
Il
di Ennio Flaiano
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Paolo Uccello fu pubblicato la prima volta da Les Éditions Rieder di Parigi nel 1929, accompagnato da sessanta tavole fuori testo in fotocalcografia, nella collana «Ma'ìtres de l'Art Ancien» diretta da T.-L. Klingsor; venne successivamente pubblicato in Écrits sur la peinture (Lachenal et Ritter, Paris 1980), raccolta di scritti di Philippe Soupault sulla pittura.
PAOLO UCCELLO
al mio amico Alexandre Alexeieff
A VOLO D'UCCELLO
Può sembrare eccessivo affermare che Paolo Uccello sia uno sconosciuto, Tuttavia si resta stupefatti allorché, ammirando le sue opere e desiderando approfondire la conoscenza di questo sommo pittore, si urta contro un muro, s'incontra il vuoto, in breve, non si trova alcuna indicazione. Qualche studio, sporadici articoli gli sono stati dedicati in Germania o in Francia. In verità lo si è completamente dimenticato. E questo sembra ancora più incomprensibile se. si considera che persino sul più secondario fra gli artisti del Rinascimento italiano sono stati scritti innumerevoli libri, biografie, studi o articoli. Una tale negligenza potrebbe forse esser spiegata con la trascuratezza dei critici, le opere di Paolo Uccello, rarissime, sono infatti disseminate ai quattro angoli del mondo: in Inghilterra, a Oxford e a Londra; a Parigi, al Louvre e al MuséeJacquemart-André; a Vienna; a New York; in Italia, a Firenze e a Urbino. Si può aggiungere, a difesa dei critici, che Uccello fu contemporaneo di Beato Angelico e operò all'ombra di questo artista così facile, così popolare, e che l'ammirazione a lui consacrata impedì di accorgersi di Paolo Uccello. Paolo Uccello, Paolo degli Uccelli: non appena si pronuncia ques!o nome pittoresco, la sua leggenda subito si anima. E il pittore « pazzo per il disegno», il pittore che tanto amava gli uccelli. Il pittore che morì tra gli stenti perché non pensava che ai suoi quadri ... 1 Talvolta le leggende aiutano chi ne è l'oggetto. Quella di Uccello gli ha solamente nociuto, infittendo l'ombra che lo circondava e deformandone la personalità. E d'altra parte questa leggenda è, con ogni probabilità, del tutto falsa. Esaminando il suo autoritratto (al 1 Marce! Schwob, Vies i·maginaires [trad. it. Vite immaginarie, Adelphi, Milano 1996].
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Musée du Louvre) 1 si rimane stupiti dal constatare che questo pittore presunto folle abbia un volto da brav'uomo, uno sguardo ingenuo, una bocca amabile e al tempo stesso volitiva. Dell'uomo non si sa nulla, se non che probabilmente nacque nel 1396 e per alçuni anni fu considerato uno dei più grandi pittori fiorentini del suo tempo. Percorrendo le sale della Galleria degli Uffizi rimasi innanzi tutto stupito da tutto quello che separa Paolo Uccello dai suoi contemporanei, il più amato e ammirato dei quali è Beato Angelico. Uno dei grandi quadri degli Uffizi - uno dei tre pannelli del capolavoro di Paolo Uccello, la Battaglia di San Romano - 2 è posto fra l'Annunciazione e la Visitazione, il cui fondo dorato brilla, per così dire, di uno splendore troppo nuovo. L'opera di Uccello è cupa, quasi nera. Tornando a osservare le tele che circondano la Battaglia di San Romano fui quasi urtato da quella che definirei la loro insulsaggine. Mi tornò alla mente quell'espressione impulsiva di Barrès che, lasciando Firenze, parlava con disprezzo di « tutti quei Giotto per inglesi». Mi soffermai a lungo dinanzi a questo immenso quadro, e quando proseguii nella mia visita il mio sguardo rimaneva offuscato dal ricordo della magnifica visione. Mi era difficile osservare le altre tele senza sorridere, pur non giudicando inferiore la loro delicata pittura, che però mi pareva artificiale. Questo ricordo poté cancellarsi solo quando fui al cospetto dello schizzo di Leonardo per l'Adorazione dei magi. E riaffiorò vividamente quando, più tardi, ebbi modo di comparare un'opera di Paolo Uccello posta fra altre della sua stessa epoca, a Londra, a Urbino e a Parigi. Non è forse al 1
[Si veda nota 1, p. 27.] [I tre pannelli della Battaglia di San Romano si trovano in tre differenti musei: Le milizie fiorentine sbaragliano le truppe senesi alla Galleria degli Uffizi di Firenze, Niccolò da Tolentino alla testa dell'esercito fiorentino alla National Gallery di Londra, Intervento nella battaglia di Micbeletto da Cotignola al Musée du Louvre di Parigi.] 2
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persistere di questa emozione ch'io devo la certezza, in qualche sorta sentimentale, del genio di Paolo Uccello? Potrei senza dubbio addurre innumerevoli ragioni per spiegare come questo chiarissimo genio sia per me così prontamente manifesto, così splendente, così immediatamente evidente, ma mi limito a citarne una, ossia la comunanza delle preoccupazioni di Paolo Uccello con quelle di alcuni pittori cubisti: l'appassionata e pressoché esclusiva ricerca dei rapporti di volumi e di valori, l'accanito studio delle dimensioni. Ma ciò che mi sembra arduo spiegare è come tanti critici, tanti pittori, tanti artisti abbiano potuto trascurare Paolo Uccello e mescolarlo alla folla dei suoi contemporanei. Lo si è considerato alla stregua di un matematico, di un pittore monocorde, proprio in virtù della sua passione per la prospettiva che, primo fra tutti, ha applicato con cost~nza, con metodo e ha messo positivamente a frutto. E questo il suo tortQ. Un'etichetta e una leggenda sufficienti ad accecare gli esteti. La nostra generazione ha profondamente meditato sulla pittura. Quest'arte ha dominato, almeno in Francia, la letteratura della fine del XIX e dell'inizio del xx secolo. La rivoluzione cubista non fu solo artistica, ma ha del pari sconvolto i letterati e colpito persino i più intangibili fra tutti gli artisti, ossia i musicisti. Senza dubbio ai giorni nostri siamo meglio attrezzati per esplorare il dominio della pittura. La fotografia ci ha enormemente aiutati a eliminare alcuni elementi che furono problematici per i nostri predecessori. Tutto questo ci permette di affermare che siamo in procinto di stabilire una nuova classe di valori. E in essa uno dei primi posti sarà attribuito a Paolo Uccello. Quando ci si accosta alla sua opera più importante, la Battaglia di San Romano, il grande trittico di cui un pannello è a Parigi/ un altro a Londra2 e il terzo a Firenze,3 si è subito colpiti dall'idea compositiva che do1
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Musée du Louvre.
National Gallery. ' Galleria degli Uffìzi.
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mina il pittore. Il soggetto, una battaglia di cavalleria e di fanteria, favorisce la confusione, il disordine, « effetto d'arte». Paolo Uccello evita la tentazione e si fa gioco di questa difficoltà: non conosco nulla di più composto di questi immensi pannelli. Le lance dei cavalieri formano grandi linee bianche che conferiscono all'insieme una struttura e ne rafforzano l'equilibrio. I cavalli ammassati negli angoli inferiori formano un compatto gruppo di volumi sferici dai quali s'ergono le lance. Sullo sfondo, una collina ricoperta di prati, le cui ondulazioni rimandano a quelle dei gruppi di cavalieri. Esaminando più da vicino e nei dettagli quei pannelli, non si può non ammirare il virtuosismo del Paolo Uccello disegnatore. Basti, come esempio, lo scorcio del corazziere morto che si distingue in primo piano nel pannello di Londra: colma di stupore, soprattutto sapendo che Paolo Uccello disegnò questa battaglia quando Beato Angelico terminava gli ingenui affreschi del convento di San Marco. Quanto a Paolo Uccello colorista, le sue capacità sono parimenti mirabili, sebbene il pittore non si lasci mai dominare da quei meravigliosi toni rossi che tanto amava. Li utilizza per l'equilibrio della propria opera. Si potrebbe a lungo descrivere la potenza dei rapporti dei rossi e degli ori, la stupefacente profondità dei neri, i rosa e i grigi... Nel portare ad esempio un'opera di tale importanza e di tale ricchezza, non si può evidentemente entrare in ogni dettaglio, occorre innanzi tutto situarla. Ma se si considera la Battaglia di San Romano - la più caratteristica fra le opere di Paolo Uccello - come punto di partenza, è importante non solo insistere sulla mirabile virtuosità di cui è la prova; ma altresì denunciarne la prodigiosa e (qualora si pensi all'epoca della sua creazione) unica comprensione della pittura che essa rappresenta. Si ammirano in Giotto o in Beato Angelico l'amore per il mestiere e i progressi che fecero compiere alla loro pittura; quel che va lodato in Paolo Uccello è la meravigliosa intelligenza e lo straordinario fervore che manifesta e che fu superato unicamente da Leonardo da Vinci. A Firenze si possono ammirare altre opere di
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Paolo Uccello, poco numerose, certo, e in cattivo stato, ma che avrebbero dovuto comunque valergli un posto più elevato di quello che gli storici fiorentini e stranieri sono disposti a tributargli. Presso Santa Maria Novella si trova il Chiostro Verde o degli Spagnoli. Sui muri di questo piccolo chiostro sono visibili tre grandi affreschi sventuratamente molto deteriorati. Uno di essi, il Diluvio, trasmette la medesima impressione delle tre battaglie, ossia che il pittore possedeva un portentoso senso della composizione e una cura estrema del disegno. Ma ciò che soprattutto costringe ad ammirare questo affresco in monocromo verde così diverso, così rimarchevolmente diverso, dai pannelli 4ella Battaglia di San Romano, è l'atmosfera generale. E ben poco «primitiva», ancor meno ingenua, e potremmo forse dire, a un primo e affrettato giudizio, che ha qualcosa· di intellettuale che di primo acchito può urtare e che ha certamente gravato sulla leggenda e sulla reputazione di Uccello. Dipende dal fatto che nell'affresco appare più evidente che in qualsiasi altra sua opera una delle più rare qualità che un pittore possa avere: la purezza. Paolo Uccello ha saputo dominare il soggetto, così vasto, così facilmente pittoresco, del diluvio; ha respinto quel che può esservi di aneddotico o di terrificante per conservare esclusivamente l'ispirazione e tutto quello che l'attrae verso quei larghi spazi in cui le linee si dirigono verso l'infinito. Forse il segreto della grandezza di Uccello è in questa purezza, in questo desiderio di conservare unicamente l'essenziale? Nel duomo di Firenze si può ammirare, sia pur malamente, un ritratto equestre del condottiero inglese Sir John Hawkwood (1437), la cui datazione certa permette di fissare l'età di Paolo Uccello al momento della sua maggior fama. Aveva quarant'anni allorché gli fu commissionato questo grande ritratto.• 1
[L'opera, trasferita su tela nel 1842, è tuttora conservata nel duomo di Firenze (cattedrale di Santa Maria del Fiore).]
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Altre due sue opere, molto importanti, devono ancora essere analizzate: una celebre, l'altra quasi sconosciuta. La prima è conservata al Palazzo ducale di Urbino, oggi museo. 1 Si tratta di una predella d'altare divisa in tre parti, in cui si narra la leggenda dell'ebreo e dell'ostia. Commissionata nel 1468 dal duca d'Urbino, Paolo la eseguì dunque negli ultimi anni della sua vita. Il pittore, che prediligeva le grandi composizioni, ha cercato soprattutto di attrarre con i dettagli e con i colori. Ovviamente non rinuncia alla prospettiva, che gli è cara, e s'impegna nel rappresentare l'ammattonato nero e bianco delle sale in cui sono ambientate alcune scene della leggenda, dettagli che assumono un'importanza forse eccessiva. I colori, sempre asserviti all'insieme, sono dominati dai rossi e dagli ori, contrapposizione cara a Uccello. Occorre notare che le dimensioni limitate di quest'opera hanno messo in difficoltà il pittore. Si ha l'impressione di una riduzione. Quel che colpisce è la perfezione del disegno. Non si può realmente giudicare Paolo Uccello da quest'opera, che rimane tuttavia la più celebre, la più considerata e la più riprodotta della sua intera produzione. Quella che fors~ è la meno nota è probabilmente la più importante. E conservata all'Oxford University Museum, e rappresenta una Caccia. 2 Tutti i temi cari a J>aolo Uccello vi sono rappresentati: i cavalli, le lance, i cani, gli alberi. Il soggetto l'ha profondamente ispirato, ma ancora una volta ha sacrificato l'aspetto aneddotico e pittoresco alla composizione. In una foresta profonda, misteriosamente profonda, dei cavalieri e dei battitori a piedi vedono sbucare dei cervi inseguiti dai cani. Al centro del dipinto, in lontananza si scorgono i cervi frementi, e da lì si sviluppano le linee degli alberi, e i cacciatori che formano da entrambe le parti del dipinto i lati di un triangolo. Ogni piano è punteggiato 1 2
[Galleria Nazionale delle Marche.] [La caccia è conservata all'Ashmolean Museum di Oxford.]
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dai cani. L'insieme trasmette un'impressione di profondità e di equilibrio che incanta. Si è soliti ammirare, e a ragione, gli affreschi di Benozzo Gozzoli c4_e ornano la cappella di Palazzo Riecardi a Firenze. E opportuno paragonare La caccia di Paolo Uccello a quegli affreschi dipinti pochi anni prima. Non si potrà negare che il più grande fra i due è il pittore della Cacda, che supera l'allievo di Beato Angelico per la sua comprensione della pittura e perché fu più un pittore che un decoratore. Non è forse il caso di lodare questo grande incompreso, che fu tenuto in considerazione soprattutto come matematico, quando non lo si considerò un farneticante, per avere in tutte le sue opere e nel corso della sua intera vita cercato con passione il vero oggetto della pittura e per avere portato a compimento, in un' epoca in cui si faceva professione di ammirare tutto, opere più severe, più profonde che piacevoli? Paolo Uccello non ha cercato di piacere, ma di dipingere. Ha saputo dare consigli ed esempi, e può darsi che la sua passione l'abbia condotto a criticare le opere dei contemporanei che, fautori della facilità, lo canzonavano per i suoi «cavallucci>~ per la sua prospettiva e per la sua idea compositiva. E nostro compito oggi, a dispetto delle leggende, rendergli giustizia e conferirgli un posto degno di lui. Perché è un grande maestro in tutte le accezioni del termine.
VITA E LEGGENDA DI PAOLO UCCELLO
Il personaggio di Paolo Uccello è circonfuso da una leggenda che fu più forte della realtà. La sua vita, in effetti, ci è pressoché sconosciuta. La stessa data della sua nascita non è certa. Si è affermato con qualche ragione che vide la luce nel r396. Baldinucci tuttavia afferma sia nato nel r389. Apprese, giovanissimo, la lavorazione dei metalli e praticò l'oreficeria. Si chiamava Paolo di Dono e più tardi fu soprannominato Paolo Uccello, nomignolo che egli adottò e con il quale firmò molte sue opere. L'origine di questo soprannome rimane oscura. Si è supposto che il pittore avesse una profonda predilezione per gli uccelli e che non mancasse di inserirli in tutte le sue opere, ma in alcune di quelle a noi note essi non appaiono. Altri hanno affermato che sui muri della sua abitazione fiorentina egli avesse dipinto degli uccelli. Nel 1403, Paolo è citato come garzone di bottega 1 tra gli aiuti che Ghiberti impiegò per l'esecuzione delle porte bronzee del battistero di San Giovanni. Considerando la data di nascita più attestata, il r396, Paolo di Dono a quell'epoca aveva sei anni e questo sembrerebbe testimoniare la sua sconcertante precocità. Vasari, che attribuisce una scarsa importanza a Paolo Uccello, cita i suoi primi affreschi: un sant'Antonio abate, un san Cosma, un san Damiano, che eseguì all' ospedale di Lelmo.2 Inoltre due figure presso il monastero d' Annalena e gli affreschi con le Storie di san Francesco a Santa Trinita.3 1
[In italiano nel testo.] [Lo Spedale di San Matteo, fondato per volere di Guglielmo di Balduccio di Vinci di Graziano.] 3 [Tutti questi affreschi - ad eccezione di un serafino molto danneggiato a Santa Trinita - sono andati perduti.] 2
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Sembra che ai suoi esordi Paolo Uccello sia stato grandemente apprezzato e che il successo abbia coronato i suoi sforzi. Il 5 agosto 1425, fece testamento. 1 Nel 1434 comprò una casa a Firenze. E il successo dovette continuare ad arridergli poiché sappiamo che nel 1442 possedeva ancora quella casa e aveva acquistato altri due appezzamenti. Sappiamo inoltre che gli furono commissionate due opere importanti: il ritratto del condottiero inglese Sir John Hawkwood, che i fiorentini avevano assoldato e soprannominato Giovanni Acuto, e alcuni disegni per le vetrate del duomo. Vasari cita ancora un'Annunciazione che si trovava in una cappella di Santa Maria Maggiore, vicino a una porta laterale che conduceva a San Giovanni. Riguardo a quest'opera Vasari afferma che è «stata la prima, che si mostrasse con bella maniera agli artefici, e con grazia e proporzione mostrando il modo di fare sfuggire le linee, e fare che in un piano lo spazio che è poco e piccolo acquisti tanto che paia assai lontano e largo». Cita inoltre in un chiostro di San Miniato una Vita dei Santi Padri, aggiungendo che in queste composizioni «non osservò molto l'unione di fare d'un solo colore come si deono le storie, perché fece i campi azzurri, le città di color rosso, e gli edifici variati secondo che gli parve ». 2 Sembra che a questa epoca i contemporanei di Paolo Uccello fossero sconcertati dalla sua audacia, Vasari non è dunque che un riflesso di quello stato d'animo. Si comincia a non comprenderlo e a trascurarlo. La moda è già passata? Inizia già a scandalizzare i suoi colleghi. S'allontana da Firenze. Parte per Padova in compagnia di Donatello. Qui dipinge per Casa Vitaliani quelle 1 Il testo è stato conservato da Giovanni Gaye, che lo cita nel Carteggio [inedito d'artisti dei secoli XIY, xv, XVI, 2 voll., G. Molini, Firenze 1839-
1810). [Giorgio Vasari, Le vite de' più eccellenti architett~ pittor~ et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, edizione per i tipi della Giunti, Firenze 1568; si veda qui in appendice. Di questi affreschi oggi rimangono solo alcune parti e in pessimo stato di conservazione. La critica attribuisce a Paolo Uccello solo quelli del lato settentrionale del ·chiostro.]
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gigantesèhe :figure di verde terra 1 che non sono giunte sino a noi, ma che, sempre secondo Vasari, sembrano aver incantato. i contemporanei del pittore. Dipinse inoltre a Gualfonda per la famiglia Bartolini le quattro grandi battaglie note come Battaglia di San Romano. 2 Infine, nel 1468, partì alla volta di Urbino, chiamato dal duca, dove esegui diversi lavori, in particolare il Miracolo dell'ostia profanata. Ma, dopo questa data, sembra che il pittore non ebbe più alcun successo. Nel 1469, già vecchio, lo sappiamo sposato, padre di famiglia e assai a mal partito. La sua situazione appare fortemente compromessa. È allora che la leggenda si anima. Si narra che vivesse del tutto appartato, che non frequentasse più gli amici, a eccezione del matematico Manetti, con cui discute e studia geometria. Non c'è più nessuno di cui si :fidi, poiché lo si prende in giro a causa della sua povertà e del suo carattere ostinato. Un giorno, narra la leggenda, Paolo Uccello iniziò un'opera importante/ e sin quando non fu terminata si rifiutò di mostrarla a chiunque, persino all'amico Donatello. Per evitare sguardi indiscreti la circondò con delle tavole. Una volta terminata l'opera, convocò Donatello per mostrargliela: « Eh Paulo, » esclamò, sembra, l'amico « ora che sarebbe tempo di çoprire e tu scuopri ». 4 . E comunque certo che durante i lunghi anni della sua vecchiaia Paolo Uccello non lavorò più su commissione, ma si chiuse in se stesso e fece ricerche. Vi si abbandonò con passione trascurando, sempre secondo la leggenda, persino di mangiare e di dormire.
[In italiano nel testo.] [Soupault, erroneamente, ritiene che le tavole «nell'orto che era de' Bartolini, è in un terrazzo, di sua mano 4 storie in legname piene di guerre, cioè cavalli et uomini armati, con portature di que' tempi bellissime» citate da Vasari siano da identificarsi con la Battaglia di San Romano. Si tratterebbe invece di altre opere non giunte sino a noi.] ; Secondo Vasari era sua intenzione rappresentare l'Incredulità cli san Tommaso sopra la porta dedicata al santo, sul Mercato Vecchio. 4 [Vasari, op. dt.] l
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La sua morte passò completamente inosservata. Se ne ignora la data esatta. Si suppone avvenuta nel 1479. 1 Avrebbe dunque avuto ottantatré anni. Fu sepolto in Santa Maria Novella. Dopo la morte il suo nome cadde nel più profondo oblio. Non ci si prese alcuna cura delle sue opere, che furono per la maggior parte distrutte o abbandonate. Non ne fu compilato alcun repertorio, e la sua influenza a poco a poco svanì.
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Nessuno conviene su questa data. Vasari afferma che egli morì nel 1432, all'etl di ottantatré anni, ma è poco credibile. Secondo Balclinucci la morte 10E)ravvenne nel 1472. [Paolo Uccello morì il 10 dicembre 1475 e fu sepolto nella tomba paterna di Santo Spirito.]
PAOLO UCCELLO E IL SUO AMBIENTE
Quando si studia un pittore del Rinascimento italiano, è importante conoscere il più minuziosamente possibile l'ambiente in cui si è sviluppato e l'epoca in cui è vissuto. Come uno studioso di estetica ha fatto notare, durante il Rinascimento, per quanto paradossale possa sembrare, Pisa era meno distante dalla Persia che da Roma o da Verona. Inoltre, qualora si riconosca che l'influenza di un artista si sia esercitata nell'Italia intera, è possibile compararne i flussi e i riflussi a quelli di un'in-, fluenza universalmente riconosciuta del nostro tempo. D'altra parte, durante il Rinascimento, come in tutte le epoche di scoperte, l'ambiente esercitava sull'uomo una notevole pressione, Se era avverso, non bisognava pensare di lottarvi contro, bisognava fuggirlo; se, al contrario, era propizio, permetteva di elevarsi al disopra di se stessi, L'atmosfera che si respirava a Firenze agli inizi del xv secolo, all'epoca in cui vi visse Paolo Uccello, fu indiscutibilmente favorevole al pittore: Giotto aveva mostrato ai suoi contemporanei com~ la pittura fosse un' arte viva, Beato Angelico li affascinava e li incantava, Masaccio li stupiva. Questi pittori suscitarono una corrente di audacia, di novità, di esperienze positive, che permettevano a uno spirito audace di rischiare ancor di più, E questa corrente trascinava i fiorentini non solamente per opera dei pittori e nell'ambito della pittura, ma in tutte le altre arti e nelle scienze, potremmo dire in tutti gli ambiti spirituali. Come ha puntualmente notato Bernard Berenson, Firenze era un luogo d'elezione: «Ricordiamo» scrive « la straordinaria spinta sotto la quale si erano aperti gli orizzonti del Medioevo; ricordiamo i nuovi cieli, la nuova terra che, apparsi improvvisamente, rivelarono agli uomini un mondo in cui gli spiriti vigorosi s'erano subito sentiti liberi. Nuovi desideri, nuove
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ambizioni avevano provocato un mutamento di valori. Su tutto prevaleva una febbre di dominio e di creazione che induceva gli uomini ad appassionarsi a quel che poteva rivelar loro il mondo che volevano conquistare e la estensione della propria potenza. I nuovi tempi aprirono all'attività degli artisti i campi più vasti... ». 1 Paolo Uccello viveva in un'epoca straordinaria, in un luogo straordinario, e si sarebbe dovuto abbandonare, come fece Donatello, alla potenza della corrente e alla facilità di tutto quel che lo circondava. Le epoche felici sono particolarmente favorevoli ali' eccesso anche per i pittori, per gli scrittori, per i musicisti. Quando, da una parte, lo stupore e la sorpresa divengono lo scopo dei più e, dall'altra, il tedio e la freddezza che ne conseguono devono essere eliminati a ogni costo, è naturale che non si esiti a impiegare i mezzi più facili, ossia i più superficiali, per realizzare questo disegno. Ognuno doveva apparire più potente, sempre più potente. Possiamo affermare che Paolo Uccello si sottrasse completamente a quest'obbligo e che non volle inconsapevolmente stupire né stupirsi? Non lo credo. Vi è un'ebbrezza della scoperta. Influenzato dall'ambiente e in maniera del tutto naturale Uccello mirò talvolta a realizzare imprese disperate, ma, ciò nonostante, non si può dire che cercò l'eccesso. Ebbe l'audacia di spostare la questione, ossia di dominare la tecnica perfezionandola invece di limitarsi a valorizzarla e di renderla in qualche sorta lo scopo della pittura. I rari critici che hanno acconsentito (hanno avuto l'audacia, si potrebbe dire) a interessarsi a Paolo Uccello concordano nel riconoscergli di aver messo a disposizione dei propri contemporanei una serie di scoperte tecniche di prim'ordine. Si può dire, ad esempio, che Masaccio e Uccello furono, in un certo senso, gli inventori della prospettiva.2 1 Bernard Berenson, The Fiorentine Painters o/ the Renaissance, G. Putnarn's Sons, New Yor~ e London 1896. 2 Vasari si spinge sino ad attribuirne la scoperta al solo Uccello, affermando che Masaccio si limitò ad applicarla.
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Si è spesso evidenziato, e con ragione; che i fiorentini erano più interessati agli aspetti scientifici delle produzioni che a quelli puramente artistici. Per alcuni pittori la propria arte era un pretesto per esperienze talora matematiche e fisiche, talora metafisiche. Sorprende persino il constatare che l' e~tetica era una delle loro più remote preoccupazioni. E ugualmente esatto constatare che, pur godendo di un'indiscussa libertà, la maggior parte, se non la totalità, dei pittori lavorava su committenza, ossia che non solo il soggetto e le dimensioni, ma anche le tecniche e i colori erano imposti. Mentre erano impegnati a risolvere un problema, di qualsiasi natura fosse, si esigeva da loro un'opera di circostanza. Nell'eseguire le commesse erano liberi, e certo molti di loro non mancarono di farlo, di studiare una soluzione al problema che più li angustiava. Queste due considerazioni potrebbero spiegare perché la maggior parte delle opere_ dei tempi di Uccello giunte sino a noi abbia un aspetto sperimentale, che si tratti, ad esempio, del Catecumeno di Masaccio' o della Cef!_a di Andrea del Castagno.2 E altresì importante notare, riferendosi all'ambiente e all'epoca di Uccello, che fu pressoché l'unico fra gli artisti del suo tempo a non produrre pittura religiosa. Di lui non si conoscono le classiche Madonne o le Annunciazioni, né tantomeno le Cene che predecessori, con!emporanei e successori si prodigarono a dipingere.' E possibile che lo si sia considerato come assolutamente diverso da tutti coloro che lo circondavano e che già al suo tempo gli sia stata attribuita una posizione a parte. Sarei propenso a credere, dopo aver esaminato il più possibile da vicino la sua opera, che Uccello fu molto apprezzato per la sua maestria, che si sia onorata la sua ' [Il battesimo dei neofiti, Santa Maria del Carmine] Cappella Brancacci, Firenze. 2 Refettorio di Sant'Apollonia, Firenze. 3 Vasari cita qualche titolo che potrebbe inficiare questa considerazione, perlomeno se ci si attiene alla lettera. Ma sembra incontestabile che Paolo Uccello preferl sempre i soggetti non religiosi.
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incomparabile scienza, ma che in definitiva non seppe mai piacere, probabilmente perché lui stesso non lo volle. In San Giorgio e il drago, 1 la sua opera che maggiormente asseconda il gusto comune, si può osservare questa incapacità di ornare un soggetto e di renderlo piacevole. Occorre dunque distinguere due correnti quando si studia l'influenza che l'ambiente esercitò su Paolo Uccello: una favorevole, che gli permise di perfezionare la tecnica, evidente soprattutto agli inizi della sua carriera; l'altra ostile, che in nulla poté aiutarlo a manifestare la sua idea di pittura, e lo fece dimenticare e misconoscere quando divenne vecchio e sicuro di sé. E non ci si può stupire della tradizionale forza dei giudizi se ancor oggi la maggior parte dei critici s'inchina dinanzi alla scienza di Uccello dimenticando tutto il resto. Ciò che sorprende maggiormente è che _non si sia mai misurata la potenza di Uccello che, malgrado Leonardo da Vinci, malgrado Michelangelo, sbalordisce e affascina coloro che accettano di studiare la sua opera in sé e non solo come una delle tappe della pittura. Non si volle mai separare l'opera di Uccello dal contesto in cui visse, poiché lo si doveva considerare unicamente un precursore e studiare solo in relazione a coloro che si ritenevano i maestri e al tempo stesso il compimento della pittura fiorentina. Questa servitù, che s'impose a Uccello, è un'ingiustizia che, per quanto banale e comune possa sembrare, è alla base di una serie di malintesi. Trascurare lo studio dell'influenza che l'ambiente ebbe su Paolo Uccello o, al contrario, considerare il pittore semplicemente come uno degli elementi di questo ambiente, significherebbe misconoscerlo o mal comprenderlo. Non conosciamo, occorre ripeterlo ancora una volta e rammaricarsene, i particolari della vita di Uccello; ignoriamo chi gli fu maestro e chi amico, chi gli fu discepolo. Secondo Vasari due personalità esercitarono 1
MuséeJacquemart-André, Parigi.
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una forte influenza su di lui: Ghiberti e il matematico Manetti. Inoltre, un quadro di Paolo Uccello in cui si ritrae insieme a Giotto, Donatello, Brunelleschi e Antonio Manetti 1 ci fornisce alcune indicazioni sui pittori che egli conobbe più da vicino. Non fu dunque un isolato, ma portò avanti le proprie ricerche a fianco dei principali pittori del suo tempo, e poté subire ed esercitare influenze. Non fu completamente estraneo al suo ambiente, come si potrebbe, a rigore, affermare di Leonardo da Vinci o di Michelangelo. E lo si deve considerare non solo come un precursore, come colui che spianò una via, ma soprattutto come un pittore la cui opera è in se stessa un compimento. I suoi contemporanei non seppero comprendere appieno il suo vero ruolo, e coloro che in seguito lo studiarono, accecati dall'ammirazione per i grandi successori, impressionati dalla tradizione, non hanno voluto attribuirgli il posto che gli spetta al di là del tempo e delle scuole. Si tratta dunque di non considerare il contesto predominante sull'uomo. Paolo Uccello esiste a dispetto del tempo.
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[Riferimento ali'opera Cinque busti maschili, che attualmente la critica attribuisce a un non meglio precisato maestro italiano del xv secolo, conservata al Musée du Louvre di Parigi.]
L'OPERA DI PAOLO UCCELLO
È giunta sino a noi solo una parte molto esigua dell'opera di Paolo Uccello, dispersa ai quattro angoli del mondo. Sappiamo che ha dipinto molto ma, non essendo considerato un artista di rilievo, dall'inizio del XIX secolo sino a tutto il successivo non ci si è curati di ricercare le sue opere. Probabilmente Paolo Uccello dipinse mobili e piccole tele, oltre che ampi affreschi. Inoltre sembra che le chiese, luoghi di conservazione per eccellenza, abbiano di rado ospitato sue opere. Ragioni, queste, bastanti a spiegare come sia potuto giungere sino a noi un così esiguo numero di dipinti e affreschi. I RITRATTI
In un grande pannello, conservato al Musée du Louvre, Paolo Uccello si ritrae assieme ai suoi maestri e ai suoi amici: Giotto, Donatello, Antonio Manetti e Brunelleschi.1 · Sono ritratti familiari. Uccello, come fece in quasi tutti i ritratti a noi noti, si interessa esclusivamente ai volti. Presenta le teste, isolate le une dalle altre. Sembra aver soprattutto mirato a svelare lo sguardo di coloro che ritrasse. Quel che più sorprende è l'atmosfera che circonda ogni ritratto, sempre diversa e profondamente intensa. Si può persino dire che il pittore abbia sacrificato la verità cronologica e il colore locale a questa intensità (non dovette essere un compito troppo gravoso se si pensa ai costumi dell'epoca). A Paolo Uccello sono stati legittimamente attribuiti due ritratti di donna: uno è alla NationalGallery di Lon1
[Si veda nota
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p. 27.]
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dra, e l'altro al Metropolitan Museum di New York. 1 Le due opere si somigliano e si completano. Sono due busti di donna. Si può ragionevolmente supporre che il fondo del ritratto di Londra si~ stato ridipinto a posteriori, probabilmente molto tempo dopo la morte dell'artista. Lo scenario che verosimilmente ornava lo sfondo è stato coperto da una tinta cupa che falsa la prospettiva dell'intera composizione. Il profilo della donna risalta violentemente. Questo busto di donna è dipinto di profilo nel modo più preciso. Paolo Uccello ha palesemente inteso evitare le deformazioni e i «trucchi» che avrebbero potuto evidenziare la propria abilità. Ha considerato il modello non alla stregua di un oggetto, ma come una donna di cui non si dovesse cogliere l'aspetto esteriore, bensì l'essenza. E per raggiungere un tale scopo tutto il suo sforzo tende alla semplicità, potremmo dire all'assoluta semplicità. Rifiuta, in effetti, tutto ciò che potrebbe confondere o distrarre. L'espressione del viso è calma, distesa, lo sguardo dritto dinanzi a sé, la bocca tratteggiata con una linea. Sulla fronte nessuna ruga. Tutto concorre a un'espressione di assoluta serenità. Paolo Uccello, ritrattista, si sforza di non giocare col tempo. Non intende cogliere un'espressione particolare e fugace, ma desidera al contrario scoprire nel suo modello una testimonianza del carattere umano. Questa donna serafica che guarda dinanzi a sé con indifferenza non viene rappresentata nell'istante, ma nel suo essere. Paolo Uccello manifesta una volontà che i pittori raramente posseggono. Il ritratto, per la maggior parte di loro, è una trappola in cui facilmente cadono, sacrificando la semplicità ali' apparenza, al contingente, al pittoresco. Considerando che molti tra loro si sforzano di dar vita ai ritratti, ci si stupisce che non abbiano mai pensato alla contraddizione insita nelle proprie intenzioni. l [La critica più recente rifiuta l'attribuzione del ritratto di Londra a Paolo Uccello; incerta è anche la paternità di-quello di New York, che diversi critici attribuiscono a Filippo Lippi.]
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Non è forse a Paolo Uccello che occorre dar ragione quando rifiuta di considerare il ritratto qualcosa di diverso dalla rappresentazione di un uomo o di una donna al di là del tempo.e dell'espressione? Bisogna lodarlo per aver considerato il modello non alla stregua di uno dei temi accessori, ma come l'oggetto stesso dell'opera. Il ritratto di Londra, sebbene molto rovinato, fornisce indicazioni precise sulle intenzioni di Uccello, intenzioni del resto confermate da quello della collezione Marquand del Metropolitan Museum di New York, in condizioni decisamente migliori. Vi ritroviamo lo stesso profilo femminile, ma lo sfondo e lo scenario non so:QO stati alterati. In primo piano, il busto di una donna. E in piedi all'angolo di una stanza, dinanzi a una finestra. Un uomo, che si trova al di fuori dell'abitazione, si affaccia alla finestra, le mani incrociate poggiano sul davanzale. Sopra vi è una veste che r-eca lo stemma dei Solari. Dietro il volto della donna si scorgono, da un'altra :finestra, una città e un paesaggio :fiorentini. Questa rapida descrizione potrebbe lasciar supporre che si tratti di un'opera in cui il pittoresco si associa al movimento. 'Ma considerandola nella sua interezza, ci si accorge ben presto che Paolo Uccello non ha dipinto che due teste, una maschile, l'altra femminile. Si potrebbe, a rigore, considerarla un'opera aneddotica, e tuttavia è lontanissima dall'esserlo. Il pittore si è concentrato unicamente sui volti ai quali ha dato rilievo. Sembrano toccarsi l'un l'altro. La donna somiglia stranamente a quella della National Gallery di Londra. Il profilo è altrettanto rigoroso e la semplificazione del busto spinta all'estremo. La testa dell'uomo è meno semplificata, la posizione più eccentriça, ma anche qui l'intenzione del pittore appare chiara. E semplicemente un ritratto quello che Paolo Uccello ha voluto eseguire, e con questo intendo dire che si è unicamente interessato a rappresentare le caratteristiche generali dell'uomo. Anche il paesaggio ha la stessa semplicità, la stessa immutabilità dei visi. Nulla è lasciato al pittoresco. Da qualsiasi distanza li si guardi, nei due ritratti è manifesta l'intenzione di Paolo Uccello. Aspirando al
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massimo grado di semplicità ha voluto rifiutare tutto quello che non fosse pertinente al suo modello, tutto quello che avrebbe rischiato di deformarlo o di situarlo in un ambito ristretto; non possiamo che approvare questo ardito disegno. Se è vero che questi ritratti non fanno pensare, che non hanno nulla che attiri direttamente e immediatamente l'attenzione, è altrettanto vero che ci donano una profonda conoscenza del viso umano al di là di considerazioni psicologiche o letterarie, una conoscenza plastica e, nell'accezione più precisa del termine, pittorica. Un altro ritratto ci permette di comprender meglio gli intenti di Paolo Uccello. E quello che si trova a Firenze, nel duomo, e raffigura il condottiero inglese Sir John Hawkwood, generale di stanza nella città. Questo ritratto equestre, una delle rare opere di Uccello di cui conosciamo la data precisa, il 1437, fu dunque eseguito dal pittore nella sua piena maturità. Prima di giudicare l'opera, occorre fare qualche precisazione. In primo luogo va detto che i committenti dettarono condizioni di una precisione estrema, in quanto doveva essere esposta in una chiesa, al disopra di una porta e in pessime condizioni di illuminazione. Occorre aggiungere che l'affresco fu trasferito su tela in epoca recente e che risulta arduo osservarlo perché posto a un'altezza elevata che impedisce di guar• darlo a lungo. Ciò detto, è importante- riconoscere che poche opere di Uccello comunicano così vivamente l'impressione che il pittore si sia sforzato di non oltrepas,sare i limiti impostigli. E sufficiente un fuggevole sguardo per accorgersi del respiro ufficiale, oseremmo dire municipale, dell'opera. La potenza di Uccello non è tuttavia meno esplosiva; Il cavaliere e il suo cavallo possiedono una forza e un portamento stupefacenti. Questa impressione è così forte che sembra di essere in presenza di una statua invece che di un affresco. In effetti, pare 'che Paolo Uccello si sia sforzato di dipingere una scultura, per quanto paradossale possa apparire; non solo- ha posto il ca-
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vallo su di un piedistallo, ma ha voluto creare l'effetto di un rilievo tramite l'utilizzo del minor numero possibile di tinte. Con condizioni così precise, si potrebbe supporre che il pittore si limiti a eseguire la commessa, rispettando gli ordini ricevuti. Si comprenderebbe anche se mostrasse disinteresse per un simile lavoro. E invece è proprio in questo ritratto che Paolo Uccello dimostra, forse meglio che in qualsiasi altra opera, la potenza e la grandezza del suo ingegno. Gli aspetti meramente esteriori sono, per costruzione, sacrificati, ma la pittura si rivela per ciò che realmente è. I valori, i rapporti, i contrasti, la costruzione stessa che si possono scoprire in tutta l'opera di Paolo Uccello sono in qualche modo riassunti in questo ritratto equestre. Non si tratta più di movimento, di pittoresco, di verità, ma puramente e semplicemente di pittura. Così messo a nudo, gli si possono accordare una grandezza e una purezza comparabili solo a quelle dei matematici, ai quali è pari. Paolo Uccello, nel rispetto di questo rigore, ci permette di avvicinarci alla soluzione proposta. Ci autorizza a comprendere che non si confina nel mestiere, ma che lo utilizza meglio di chiunque altro, forse per opporre al fascino e alle lusinghe una durezza e una forza interiore. Il Monumento equestre di Giovanni Acuto, per quanto spoglio possa sembrare, ci permette di credere che per Paolo Uccello la pittura doveva innanzi tutto possedere una potenza invisibile, osando esprimersi in questi termini, e che non doveva essere esteriore. Senza dubbio a molti critici questa affermazione apparirà paradossale. Vi è tuttavia riassunto tutto quello che i pittori di ogni epoca e di ogni paese hanno saputo insegnarci. Primo fra tutti, Paolo Uccello comprese questa necessità.
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TESTIMONIANZE
Al Musée Jacquemart-André è conservata una delle opere meno personali di Paolo Uccello. Si tratta di un piccolo quadro intitolato San Giorgio e il drago, una cui replica è custodita a Vienna nell'antica collezione Lanckoronski. 1 Non è azzardato ascriverla fra le opere eseguite dal pittore agli inizi della sua carriera. Vi si ritrovano i temi prediletti: l'importanza conferita alla prospettiva, il richiamo del rosso uccelliano, la rigida postura del cavallo, la lahcia. La donna che assiste allo scontro richiama fortemente i ritratti di Londra e di New York. Vi si può già intuire la particolare idea che Uccello aveva della pittura attraverso l'opposizione degli elementi e il loro utilizzo. La grotta è un volume, non la fedele rappresentazione di una grotta. Questa massa bruna si oppone al movimento del cavaliere. Se si potesse analizzare con la stessa attenzione ogni dettaglio di questo piccolo quadro, si ritroverebbe lo stile di Uccello. Al contrario, l'insieme può portare fuori strada, poiché si ha l'impressione che a quest'opera il pittore non abbia ancora tentato di conferire quell'unità che più tardi si sforzerà d'imporre a ogni suo dipinto. Dal mero punto di vista dello studio dell'opera San Giorgio e il drago permette di assistere agli inizi dello sviluppo della personalità del pittore. È, alla sorgentè, il fiume che va annunciandosi. Nel comparare quest'opera a quelle dipinte dai contemporanei di Uccello si resta immediatamente colpiti dalla diversa concezione dello scopo da raggiungere. Uccello non mira all'effetto; si limita a sintetizzare. Mira a un'estrema semplificazione, a una negazione del1'esteriorizzazione e, lungi dal voler lusingare e dal fare appello direttamente o indirettamente ai sensi, evita tutto quello che potremmo definire fascinazione. Questa 1
[La seconda versione di San Giorgio e il drago, che viene descritta più sotto, è attualmente conservata alla National Gallery di Londra e datata anteriormente a quella di Parigi.]
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volontà di utilizzare solo degli elementi lasciandoli, per così dire, isolati, conferisce al quadro un carattere teorico che non può non stupire. Sembrerebbe di leggervi delle cifre o, più esattamente, delle indicazioni. Quel che dona a San Giorgio e il drago il suo autentico valore è che nel contesto dell'intera opera di Paolo Uccello può servire da punto di raffronto. Non supererà mai più la secchezza qui raggiunta, in quanto nelle opere successive cercherà di armonizzare i diversi elementi, di equilibrarli invece che enfatizzarli. Saprà trovare la potenza che manca totalmente a questo piccolo quadro. Si direbbe che dopo averlo dipinto l'abbia considerato come testimonianza di una tendenza estrema. Paolo Uccello è ritornato sul medesimo tema, cosa che farà anche in seguito con altre opere. A Vienna si conserva una seconda versione del San Giorgio e il drago. Qui le intenzioni del pittore appaiono più manifeste. Ha già preso coscienza della sua forza e della sua potenza. In questo quadro appaiono gli stessi personaggi di quello al Musée Jacquemart-André, ma lo scenario è mutato .. L'azione non si svolge in un giardino luminoso, bensì ai margini di una foresta, al crepuscolo. Ma la grotta c'è ancora, teatrale e più voluminosa, ancor più preponderante. Non manca alcun elemento. Ma è chiaro che dopo il compimento della prima versione il pittore ha ricostruito il soggetto su delle nuove basi. Il suo bisogno di costruire e di equilibrare si è fatto più imperioso. Con un'audacia sorprendente e un notevole spirito autocritico, si corregge impietosamente. Sembra dire: « Ecco quel che già prima avrei dovuto fare». Comparando queste due tappe del pensiero di Uc- "' celio, si coglie il cammino del suo spirito, l'affermarsi di una convinzione. Innanzi tutto a colpire è la cura con cui Paolo Uccello ha ricostruito il suo quadro. Da questo punto di vista, nulla ha voluto conservare del primo. Ha diviso lo spazio in tre triangoli rettangoli, di cui il primo, a sinistra, è formato dalla grotta; il secondo, la cui altezza costituisce il centro del quadro, dal fondo; e il terzo dal cavaliere, che è quasi tutt'uno con la foresta e le nubi alle sue spalle. Infine, guardando
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questa seconda versione del San Giorgio, si prende coscienza, per la prima volta, della volontà del pittore di equilibrare tutti gli elementi della sua opera e di stabilire dei rapporti tra i particolari e l'insieme. Nessun'altra delle sue opere ci può far meglio comprendere una delle principali qualità di Paolo Uccello: il coraggio rispetto a se stesso. Altri quadri ci rivelano la sua potenza e il suo genio, ma nessuno come questo ci permette di ammirare la severità con cui misura il suo sforzo, severità che è uno degli effetti del suo genio. Giudicando i quadri di Uccello non va mai trascurata la durezza con cui li dipingeva e che non gli permetteva alcuno scarto, alcuna leggerezza. Non la si può che comparare alla coscienza di certi sapienti quando fanno nuove esperienze. Indubbiamente è a causa di questa attitudine se ancor oggi si rimproverano a Uccello la sua estrema minuzia e la sua volontà di non lasciar giocare alcun ruolo diretto al suo genio naturale. Possiamo ora meglio comprendere lo spirito di Uccello, spirito che, come poc'anzi detto, è più prossimo a quello di un sapiente che a quello che si è soliti attribuire a un artista. Ma non si deve indugiar troppo su questo paragone. Uccello è un pittore, non un uomo di scienza, pur se i suoi metodi e ! suoi :fini sono precisi quanto quelli di uno scienziato. E alla ricerca di una soluzione e non si cura dell'effetto. La seconda versione di San Giorgio e il drago è da questo punto di vista di primaria importanza. Gli altri quadri di Uccello potranno solo confermare quel che quest'opera già permette d'affermare. GLI AFFRESCHI
Gli affreschi di Paolo Uccello al Chiostro Verde di Firenze 1 si sono miseramente conservati. Non li si può realmente studiare, e nemmeno considerare con certez1
In Santa Maria Novella.
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za opera del pittore. Dato il loro attuale stato, sono tutt'al più schizzi, vaghissime indicazioni sulle reali intenzioni di Uccello. Solo qualc~e frammento sopravvive, e in uno stato pietosissimo. E inoltre assai probabile che in passato si sia voluto ridar loro freschezza sottoponendoli a restauro, il che non fece che accelerarne la rovina. Le grandi linee che queste vestigia offrono alla nostra vista ci rendono innanzi tutto edotti del fatto che Uccello temeva la rapidità di esecuzione che la pittura ad affresco comportava. Ancor meno che in qualsiasi altra sua opera il pittore volle abbandonarsi all'ispirazione del momento, che poteva rapirlo quando aveva il pennello fra le mani. Non insistette mai così tanto sulla tecnica né sull'idea che si era fatto dell'opera ancor prima di eseguirla. Il più noto dei tre affreschi del Chiostro Verde, e il più discusso, è quello del Diluvio. Si rimprovera duramente al pittore d'aver raffigurato un'impresa faticosa piuttosto che suggerire una catastrofe senza precedenti. Si potrebbe agevolmente replicare che storicamente è molto probabile che quanti assistettero al diluvio non avessero compreso l'immensità del disastro e che avessero pensato prima di tutto a seguire i consigli del loro Dio. Inoltre, esaminando senza preconcetti l' affresco e partendo dal punto di vista dell'autore che, temendo i pericoli dell'improvvisazione, volle focalizzarsi su una tecnica rigida, si palesano l'infinito verso cui tese e la potenza della sua opera. Infatti in questi affreschi, pur così difficili da giudicare, si possono ammirare quella forza concettuale e quella durezza compositiva che danno a tutte le opere del pittore un inestimabile valore. Questa volontà di considerare l'opera in sé e di non renderla spettacolare è evidente tanto nell' affresco del Diluvio che in quello del Paradiso. Uccello non cerca né di distrarci né di farci meditare, è concentrato sull'atto pittorico, lascia alla pittura stessa il compito di toccarci. Non si possono ribadire di continuo le intenzioni dell'artista, ma si deve, in ciascuna delle sue opere, denunciarle. Con tanta cura ha teso a
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perseguire il suo scopo, a marcare l'oggetto della pittura, che riconoscere il suo sforzo e la sua rius.cita significa solo rendergli giustizia. Bisogna solo dolersi che lo stato degli affreschi del Chiostro Verde non permetta un fondato giudizio su Paolo Uccello pittore di affreschi, ossia alle prese con un mestiere diverso, più pericoloso, più rapido, in una parola più lirico. Quel poco che possiamo ancora vedere ci fa supporre che, consapevole dei pericoli dovuti alla rapidità d'esecuzione, si sia sforzato innanzi tutto di comporre e di equilibrare con assoluta semplicità tutti gli elementi, con il rischio di cadere nell'eccesso contrario e incorrere nella secchezza, che è resa più evidente dalle caratteristiche dell'affresco e dalla maniera di coloro che l'utilizzano. ·
LE GRANDI OPERE
Fra tutte le opere conosciute di Paolo Uccello, la più importante, da ogni punto di vista, è la Battaglia di San Romano, di cui una tavola si trova agli Uffizi, un'altra alla National Gallery, e, infine, l'ultima al Louvre. È realmente increscioso non poter vedere l'opera nel suo insieme e non· conoscere le circostanze che portarono alla sua esecuzione. Ci si deve tuttavia.rallegrare che un caso meraviglioso abbia fatto in modo che nessuno di questi tre immensi pannelli sia andato perduto o distrutto. 1 La battaglia di San Romano fu combattuta da cavalieri e arcieri in una pianura circondata da colline. Il pannello conservato al Louvre è il meno chiaro, il peggio conservato, ma anche il meno restaurato dei tre. In primo piano, dei cavalieri in armatura: alcuni si scagliano ·contro il nemico puntando le loro lance, un altro fa impennare il suo cavallo e innalza la spada. Il cavaliere non ha l'elmo e sembra essere colui che comanda. Si 1
Secondo Vasari i pannelli erano quattro. [Si veda nota
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tratta probabilmente di un ritratto! Dietro di lui le riserve: altri cavalieri corazzati con le lance in resta. In secondo piano, i fanti armati di larghi scudi si preparano a combattere attorniati da trombettieri che soffiano nei loro strumenti. Sullo sfondo, una nutrita ti:uppa brandisce gli stendardi e le lance. Il movimento, uniformemente accelerato, suggerito dal pittore parte dall'immobilità dei gruppi s~lla destra del pannello per investire quelli sulla sinistra che balzano in avanti, movimento sottolineato dalla posizione delle lance e delle zampe dei cavalli, verticali a destra del pannello, orizzontali a sinistra. L'insieme è costruito secondo un triangolo isoscele. I colori sono raggruppati in gamme con una dominante di rosso (che si potrebbe definire rosso «uccelliano »), con punti d'oro a sottolineare la costruzione triangolare. Inoltre il pittore ha fatto risaltare con una nettezza quasi brutale gli stendardi, disposti in modo da accentuare la costruzione, i pennacchi bicolori sulla sommità degli elmi che indicano i movimenti, e gli scudi variopinti che concorrono al medesimo effetto. Questa prima costruzione triangolare orizzontale è contrapposta a una verticale ugualmente triangolare, il cui vertice è posto nella parte superiore del pannello, al centro, e i cui angoli coincidono con gli spigoli inferiori. Infine, Paolo Uccello ha delineato un'altra costruzione che potremmo descrivere, da sinistra, mediante un cerchio, una tangente e alcune parallele. Ogni dettaglio del gr~nde pannello è minuziosamente costruito, e a un attento es·ame rivela le precise intenzioni del pittore. Nulla è stato lasciato al caso.
1 Vuole la leggenda che questi quattro pannelli siano stati dipinti a Gualfonda [Valfonda], nella residenza della famiglia Bartolini, e consacrati alla gloria di Luca di Canale, di Paolo Orsino, di Ottobuono di Parma e di Carlo Malatesta da Rimini. [Tutte queste informazioni, derivate da un'errata interpretazione di Vasari, sono da riferirsi a un'altra serie di opere - si veda nota 2, p. 21 -; in effetti quella raffigurata nelle tre tavole della Battaglia di San Romano (che ne descrivono i momenti salienti) è la famosa battaglia vinta dai fiorentini, guidati da Niccolò Mauruzi da Tolentino, contro i senesi capeggiati da Bernardino della Ciarda.]
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Si potrebbe, dopo una simile descrizione, temere che un'opera in tal modo costruita possa risultare fredda e monotona. Che si osservi l'insieme o che si studino i dettagli, non si può non ammirare la potenza e il movimento. Il quadro può competere con qualsiasi altra «battaglia», con qualsiasi altra scena dipinta in cui la folla giochi il ruolo principale. Ma qualora lo si parago- · ni ad altre scene simili, non si può non essere colpiti dall'impressione strana, nuova, se così si può dire, che si sprigiona dall'esame dell'opera di Uccello. Impressione che bisognerebbe poter precisare. Ma sfugge a ogni definizione. È caratteristica dell'opera di Uccello il non poter essere descritta né definita con parole. Si direbbe semplicemente, e legittimamente, che forse nessun pittore conobbe meglio di Uccello l' essenza della pittura, al di là di ogni altra considerazione. Un lirismo puramente pittorico, una potenza e un' emozione ugualmente e unicamente pittoriche. Gli altri due pannelli della Battaglia di San Romano potrebbero essere oggetto delle medesime considerazioni, confermando le troppo stringate indicazioni che si sono potute fare su quello del Louvre. Prima di abbandonare l'esame dell'opera più importante e più caratteristica di Uccello, occorre aggiungere che in nessun'altra è riuscito a dominare in modò così manifesto e, in qualche sorta, ad addomesticare più nettamente gli elementi della propria arte. · Paolo Uccello li ha realmente sottomessi e ha spinto la sua scrupolosità fino a sacrificare, sempre e deliberatamente, la verità alla pittura. I critici che hanno osato avventurarsi nell'analisi di questa battaglia si sono meravigliati dell'atteggiamento di Uccello. I due principali rimproveri che gli hanno rivolto sono in definitiva meschini e rivelano il loro errato approccio. Paolo Uccello, hanno asserito, ha dipinto, ad esempio, cavalli di legno e dai colori artificiali. In verità Uccello si avvalse di modelli in legno per dipingere i suoi cavalli e si servì di colori che non scelse in base alla realtà, ma in base alla concezione d'insieme del pannello. Questi cavalli dovevano costituire delle masse raggruppate secondo
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alcune regole preliminarmente stabilite dal pittore, e il loro colore doveva esser determinato da queste stesse regole, non dalla realtà. Paolo Uccello potrebbe in effetti esser tacciato di irrealismo se non si temesse di commettere un errore sulle parole e se non si fosse più esatti nel dichiarare che questo pittore non riteneva la pittura una fedele rappresentazione della realtà naturale, ma un'arte le cui regole sono poste al di fuori di essa. ' I virtuosi che vennero dopo di lui e che si sforzarono soprattutto di rappresentare il più fedelmente possibile la natura non compresero che Uccello, tecnico straordinario, vivendo in una nuova epoca, in cui poteva scegliere, non aveva esitato ad allontanarsi dalla rappresentazione servile per incamminarsi su una strada più ardua, che gli avrebbe però consentito di considerare la pittura non più come un mezzo, ma come un fine. I tre grandi pannelli di Uccello che a Londra, a Firenze e a Parigi sono esposti accanto a opere di contemporanei danno l'impressione e persino la certezza, per quanto superficialmente li si raffronti, che Uccello volle palesemente differenziarsi da tutti coloro che cercavano di piacere dipingendo toccanti Madonne, di quelle che fanno esclamare ai turisti: «Com'è ben dipinta, com'è vera». Ma nell'arte pittorica è insito µn pericolo: quel che si definisce «verità» non è che apparenza e illustone, fors' anche, potremmo dire, abuso di confidenza. E in virtù delle più svariate tecniche che i pittori rendono« vero», che donano la sensazione della vita. Coloro che ritengono la pittura il puro esercizio di questi trucchi non sono degni d'esser chiamati pittori. La pittura è un'arte più vasta e più generosa, anche più indefinibile. Alcuni dipinti che, occorre riconoscerlo, sono piuttosto l'opera dell'ingegno che il risultato di una lenta e salda riflessione, possono esserne portati ad esempio. Quello che conferisce ai pannelli di Uccello un valore assolutamente eccezionale è che, essendo frutto di riflessione, sono garanzia del fatto che l'arte pittorica è realmente in gioco. Che non si tratta di un
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trucco. Infatti, non a caso Uccello dipinse questi tre pannelli così somiglianti fra loro, con l'intenzione di cogliere in tre diversi aspetti lo stesso soggetto, attribuendogli costruzioni e movimenti diversi, per fondar~ la propria opera sulla certezza più assoluta possibile. E in qualche modo una « prova del nove». A un attento studio della sua opera si comprende che Uccello svelò ogni trappola insita nella pittura. Nessun'altra arte può esser così pericolosa. Si pensi solo alla facilità, alla perizia del mestiere, all'effetto, alle illusioni ottiche... Conoscendo tali pericoli, Uccello volle evitarli, ma volle anche affrontare quelli che, pur senza conoscerli, prevedeva. Non aveva quel gusto per il difficile che, anche in questo caso a torto, gli si rimprovera, ma un innegabile gusto per il rischio. Non riteneva sufficiente il mestiere né che il pittore dovesse esclusivamente mirare al progresso tecnico. Riteneva che fossero necessarie scoperte e che l'arte pittorica si estendesse all'infinito. Amava pensare che il superamento dei limiti fosse uno stimolo per un ulteriore avanzamento, e piuttosto che rimanere immobile e ritenersi soddisfatto di un virtuosismo qualsiasi, preferiva avventurarsi in nuove direzioni. Queste peculiarità di carattere, così di sovente e così apertamente espresse ed evidenziate, possono far comprendere come Paolo Uccello non solo abbia potuto disprezzare i giudizi dei suoi contemporanei, ma anche come non sia riuscito a esercitare alcuna influenza. Ben rari sono coloro che seguono chi consiglia un cammino arduo, soprattutto se altri indicano vie più agevoli. I pittori che avrebbero potuto essere i discepoli di Paolo Uccello furono influenzati da altri. Per non fare che un esempio, Benozzo Gozzoli preferì imitare Beato Angelico che seguire gli insegnamenti di Paolo Uccello, di cui ha peraltro subìto una sia pur lieve e breve influenza. Agli artisti di quell'epoca era necessario compiacere una certa categoria di personaggi che permetteva loro di vivere. Occorrevano dunque fascino e talento ed era superfluo accanirsi nella ricerca del senso della pittura, problema che interessava esclusivamente un esiguo nu-
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mero di artisti. Paolo Uccello viveva ancora in un'epoca in cui per tutti gli artisti era più importante non tanto approfondire i risultati delle prime scoperte di Giotto, quanto dare l'illusione di farlo. Quando si affermò definitivamente un tale atteggiamento mentale, si dovette naturalmente ritenere che Paolo Uccello stesse percorrendo rma direzione sbagliata. E questa corrente trascinò i successori di Uccello, e i successori dei successori. Nonostante il genio di Leonardo da Vinci, la partita fu persa per lungo tempo. Leonardo era un amante appassionato dell'arte, ma gli mancò la costanza necessaria per reagire in modo definitivo. E d'altra parte non è un caso che Leonardo, come Uccello, sia nel novero di quei pittori della cui opera si è meno compreso l' autentico senso. Lo si colma, anche Leonardo, di ammirazione e se ne loda il virtuosismo. La Battaglia di San Romano che Uccello dipinse con tanto accanimento ci lascia dunque supporre che dovette ritenerla un'affermazione delle proprie tendenze. Non si conosce la data esatta in cui l'eseguì, ma si ritiene che fosse già vecchio quando la terminò. I suoi temi favoriti vi appaiono già definiti e nella più celebre fra le sue opere, anche se la meno rappresentativa, il Miracolo del!' ostia profanata, che risale agli ultimi anni della sua vita, li ritroviamo pressoché identici. Questa Battaglia può dunque esser considerata come una sorta di approdo, come un capolavoro nell'autentico senso della parola. Non si può prescinderne nel giudicare e nell'ammirare l'arte di Uccello. Ma si può affermare che a causa di essa la direzione indicata dal pittore fu rapidamente abbandonata. Si colse solo il suo sfoggio di tecnica e si sorrise di certe sue confessate ostinazioni. Mai più si ritroverà nella pittura italiana la volontà di costruzione, la mirabile forza che possiamo leggere in questi tre grandi pannelli. Talvolta ci si soffermò ancora su certi dettagli testimonianti la maestria del1' artista, ma si trascurò completamente di osservare l'insieme e l'intenzione che rivelavano il genio del pittore.
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È rar.o dover dire di un artista così grande come Paolo Uccello che la sua influenza risultò pressoché nulla. Fu unicamente indiretta, e si esercitò in ambito tecnico. L'autore di quei magnifici pannelli che, malgrado secoli di indifferenza, riacquistano oggi il loro effettivo valore, non ha insegnato ai suoi contemporanei e ai suoi discendenti che a perfezionare la prospettiva. Del suo pensiero, della sua maniera si è attinto unicamente quel che concerneva i problemi squisitamente geometrici e ci si è soprattutto forzati di spiegare la sua indi~cutibile forza mediante la perfezione dei mezzi tecnici. E in effetti probabile che Uccello abbia molto insistito sulla necessità di poter disporre di una maestria impeccabile e di dare prove evidenti di questa perfezione, ma è comunque stupefacente che i contemporanei e coloro che fanno professione di studiare la pittura abbiano trascurato sino ai nostri giorni la profonda influenza che egli poteva e doveva esercitare. Solitamente sono l'oscurità e l'ermetismo a vanificare l'influenza e i propositi di un artista. In Uccello si assiste al fenomeno contrario. Per una sua intima necessità il pittore della Battaglia di San Romano conferì a tutte le sue opere una semplicità e una purezza eccezionali; la manifesta chiarezza dei suoi intendimenti fu tale da nuocer loro. Uccello fu consapevolmente avverso al mistero e alla vaghezza. Ciò nonostante non fu compreso. Ci si burlò di lui perché sembrava dar troppo peso ai problemi dell'atto pittorico, e non ci si curò di seguirlo. Dipinse in un deserto. Quelli che furono, così si dice, i suoi amici più fedeli confessarono la propria delusione e lo abbandonarono alle sue meditazioni, giungendo ben presto a considerarlo folle. La chiarezza di Uccello era decisamente accecante. Si deve allora dedurre che la concezione da lui proposta ai pittori fosse troppo elevata, troppo ardua da raggiungere e che la presunta follia di cui lo si accusava non fosse per questi accusatori che una mania di grandezza? Senza dubbio quando gli si domandava a cosa mirasse, quando si esigevano delle spiegazioni, Uccello rifiutava di rispondere perché era incapace di esprime-
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re il suo pensiero, il suo autentico sentire. La sua intera e lunga esistenza non gli fu sufficiente a raggiungere lo scopo che a stento poteva intravedere, e che nessuno ancora è riuscito a definire. Si racconta che, ormai vecchio, trascorresse intere giornate a tracciare linee, a classificare cerchi e rette, a moltiplicare• gli schizzi. Questi tentativi non sono forse la prova che Paolo Uccello, sempre insoddisfatto, non cercava di risolvere, ma di gettare le basi del problema, non di realizzare, ma di concepire? Poco gli importava che al di là della espressione puramente plastica un dominio gli appartenesse. Desiderava unicamente riconoscere questo dominio, non possederlo. In tutte le opere di Paolo Uccello sono presenti, in effetti, invenzioni che sembrano gratuite, in quanto non si rivolgono direttamente ai nostri sensi. Alcuni movimenti, alcuni preziosismi sono chiaramente punti di riferimento a uso esclusivo del pittore stesso. Non si deve mai dimenticare, studiando un'opera di Uccello, che egli rispondeva alle proprie critiche piuttosto che a quelle che si potevano e che non si mancava di rivolgergli. La pittura fra tutte le arti è quella che si considera la più servile, quella che deve accettare più di ogni altra il comune sentire e fare i conti con esso. Le stesse critiche che si fanno a un pittore non potranno mai esser rivolte a un poeta, e ancor meno a un musicista. In effetti, coloro che vorrebbero considerare un pittore prima di tutto come un artigiano rischiano di commettere un errore considerando Paolo Uccello uno dei tecnici più straordinari fra gli italiani (e tuttavia è generalmente considerato un grande solo in virtù & questo). Paolo Uccello, accettando il suo mestiere, non vuole servirsene che per se stesso, pronto, quando loritiene utile, a oltrepassarne i limiti. Fu chiaroveggente, con una crudeltà rivolta contro se stesso. Dipinse senza farsi illusioni, ma considerando ogni risultato come una tappa. Il Miracolo del!' ostia profanata può essere un esempio di questa chiaroveggenza e di questa crudeltà. Ognuna delle sue parti costituisce un passo in avanti e sembra annullare la precedente ..
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Paolo Uccello possiede un raro dono per un pittore, ossia di trovare ciò che risponde alle sue preoccupazioni immediate. Non bara mai, né con se stesso né con la propria arte. Con un rigore che gli sarà rimproverato, segue una linea retta senza mai abbandonarla. Mentre tanti altri si servono del loro mestiere per creare illusioni, Paolo Uccello utilizza il proprio per dissipare le illusioni da cui la pittura con tanta pena, in nome del suo stesso postulato, si libera. La franchezza del suo attacco e dei suoi sviluppi possono per un istante far pensare a una sorta di secchezza, mariflettendoci non gli si potrà imputare null'altro che una purezza prossima alla semplicità del suo spirito. Tra il pittore e la propria opera quali demoni, quali nembi vengono a interporsi, creando un mondo fatto di brume e di veli che confondono colui che crea. Uccello ha cacciato una volta per tutte queste potenze nemiche accostandosi il più possibile al quadro. Nessun intermediario, nessun sortilegio. È in questa spoliazione, da alcuni considerata la sua povertà, che vedo la grandezza di Uccello, fatta di franchezza, di purezza e di forza. Questo carattere lo avvicina a quei suoi contemporanei che, stanchi di tutte le raffinatezze e delle complicazioni estreme, cercarono nella povertà assoluta il segreto della vita. Una delle opere meno note e più sorprendenti di Paolo UccelJo è esposta-malamente esposta, va dettoa Oxford. E intitolata Una caccia. Pur essendo meno pomposa rispetto ai tre grandi pannelli della Battaglia di San Romano, ne è, per la concezione e la mirabile realizzazione, molto vicina. 1 Si può supporre, non senza qualche ragione, che risalga all'incirca alla stessa epoca della Battaglia di San Romano, ma che fu composta per uno scopo e una destinazione differenti. Le proporzioni di questo quadro sono quelle care a Uccello: è 1 [Attualmente la critica considera La caccia (conservata all'Ashmolean Museum di Oxford) l'ultima opera di Paolo Uccello, datandola 1465-1470 circa.]
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molto più sviluppato in larghezza che in altezza. Scopo principale del pittore è stato quello di fondere le sue concezioni prospettiche con quelle compositive. Il dipinto rappresenta una foresta con alberi spaziati i cui tronchi chiari formano come dei tratti paralleli. Al centro del quadro, in fondo alla foresta, un cervo braccato da cani. Il cervo costituisce il punto centrale e il vertice di un triangolo. I cani, che, per effetto prospettico, rimpiccioliscono avvicinandosi al centro del quadro, costituiscono i lati del triangolo. In primo piano, alle estremità dei lati, i cacciatori armati di lance, e infine i cavalieri. L'intera costruzione è di un'estrema chiarezza, e conferisce all'insieme un perfetto equilibrio. Si ritrovano in questo quadro la medesima potenza e il medesimo pensiero. Non occorre ripetere esaminando quest'opera i rilievi fatti a proposito dei tre pannelli della Battaglia di San Romano, in quanto questa Caccia sembra essere solo una conferma più chiara e più accessibile delle conclusioni sopra esposte. Le opere di Uccello, qualora le si compari tra loro, non si smentiscono mai e rendono manifesta la linea tracciata dal pittore, così come gli sforzi compiuti per raggiungere lo scopo perseguito. Abbiamo già ripetutamente notato che le sue opere sono come gli anelli di una catena e che ogni quadro è, da un certo punto di vista, una sorta di prova a cui volle sottoporsi. C'è infatti nell'intera sua opera, di cui purtroppo non possediamo che frammenti, un'unità d'intenti e di esecuzione che costituisce uno dei più mirabili esempi di certezza accordata dal genio. Nel museo di Urbino, una delle più solitarie città italiane, circondata da un mirabile paesaggio, è custodita un'opera di Uccello, di piccqle dimensioni, primitivamente destinata a un altare. E senza dubbio una delle sue opere più celebri. Si tratta dell'illustrazione di una leggenda medioevale: la profanazione dell'ostia da parte di un ebreo. Uccello ha scelto di rappresentare le scene più caratte-
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ristiche della leggenda, e lo ha fatto nel più semplice dei modi. Da questo punto di partenza così arbitrario Uccello ha saputo ritrovare il suo compito, che consisteva non solo nell'illustrare, ma nel dipingere. Nonostante i limiti imposti - le dimensioni ridotte e la fedeltà alla storia - ha conferito a ciascuna delle parti in cui l'opera è suddivisa un'importanza autonoma. Occorrerebbe, per completezza, studiare ogni scena si11_golarmente e, in qualche modo, compararla alle altre. E, in effetti, l'unica opera che Paolo Uccello abbia compiuto suo malgrado, intendo dire che non ha dominato il soggetto, ma che l'ha deliberatamente accettato. Posta così la questione, e non potendo in tali ristretti limiti esprimere la sua potenza - forse anche perché sentiva d'esser prossimo alla morte-, volle in un certo modo riassumere tutte le ricerche compiute. Si potrebbe forse affermare che questa sequenza di piccoli quadri è una serie di saggi. Non si può non ammirare il coraggio di questo anziano pittore che ripercorre e discute i problemi di cui per tutta la vita ha cercato la soluzione. In età avanzata s'allontana dalla sua opera per misurarne l'importanza o l'inconsistenza, non temendo di distruggere quanto ha costruito con tanti sforzi. Abbiamo a più riprese rimarcato il coraggio di Uccello, ma ora vorremmo designarlo soprattutto come· il coraggio d'esser solo. Il Miracolo dell'ostia profanata ci testimonia questo suo coraggio di fronte a se stesso. Aveva settantun anni quando intraprese quest'opera che possiamo considerare alla stregua di un esame di coscienza. Pur non possedendo che una parte dell'intera opera, ci sembra di poterla giudicare nella sua interezza e di poterla considerare di primissimo livello. Senza dubbio i vasti e mirabili sviluppi della Battaglia di San Romano e della Caccia sono necessari per apprezzarne la potenza; ma è altrettanto vero che il Miracolo del!' ostia profanata è la più completa testimonianza che sia giunta sino a noi. Molte opere di Uccello sono andate perdute, e proprio grazie al Miracolo del!' ostia
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profanata possiamo sperare di intuirne il senso e l'importanza. Le prime scene di questo lungo pannello sono, in effetti, esempi di quel che Paolo Uccello dovette dipingere in alcuni .castelli. Sono scene di vita quotidiana. La prima si svolge in una bottega. Si vede un uomo nell'atto di acquistare un'ostia. La stanza è piastrellata e il pittore non trascura di evidenziare la tanto menzionata prospettiva. I personaggi sono abbigliati semplicemente e i loro modi sono di una stupefacente naturalezza. Ogni dettaglio, sottolineato dal colore netto, quasi duro, è dipinto con una cura che sorprende a un primo sguardo, ma che permette di comprendere il senso della scena. In effetti, i personaggi si stagliano dall'i~sieme. Per le altre scene si possono fare le medesime considerazioni: tutti i personaggi sono privi della magniloquenza che un simile soggetto giustificherebbe. Riprendendo a uno a uno tutti i temi prediletti, Uccello li spoglia ulteriormente degli artifici che le grandi dimensioni delle sue opere antecedenti avevano reso necessari. Si sforza di rendere una semplicità che tenda all'assoluto. Lo stesso desiderio che abbiamo segnalato nelle opere precedenti lo si ritrova qui, ma ancor più imperioso: il desiderio dell'essenziale. Questa volontà è {orse il tratto più mirabile della personalità di Uccello. E questa volontà che gli impedisce di rischiare e di sbagliare, che lo obbliga a evitare i tranelli, a riconoscere i limiti e a non oltrepassarli, bensì a farli indietreggiare; è questa volontà, infine, che lo spinge a settantun anni a dipingere la più spoglia, la più nuda fra le opere realizzate durante la sua lunga vita. In queste scene, dove i dettagli assumono un'importanza nuova, ritroviamo vittoriosa la forza che gli fece rifiutare gli incanti e le illusioni, i trucchi e gli artifici del mestiere. Tutti gli elementi implicano semplicità e franchezza. Il disegno, il colore, le proporzioni concorrono a questo meraviglioso risultato: una pittura priva d' artifici. Questa potrebbe essere là definizione del Miracolo dell'ostia profanata. La successione di scene, che comparate le une alle altre appaiono perfettamente semplici, potremmo quasi dire metodicamente sempli-
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ci, poggia sul principio caro a Uccello, che vuole che il pittore sia posto di fronte al proprio soggetto senza la frapposizione di alcun intermediario. Se si volesse a ogni costo trarre una lezione dall'opera di Uccello è senza dubbio questo il principio che primo fra tutti s'imporrebbe. Ha voluto, osando esprimersi a questo modo, affrontare la sua opera corpo a corpo. Tutti i suoi progetti sono meditati prima d'esser realizzati. Non improvvisa né deforma la pennellata, ritenendo che la pittura abbia più da perdere dall'influenza sovrana « della mania» che da guadagnare. Il suo lirismo è interiore: dal momento in cui impugna un pennello il pittore, secondo lui, non deve più esitare. Le linee che traccia, i colori che posa sono già definiti. E infatti nel Miracolo dell'ostia profanata si è agevolmente in grado di distinguere i diversi punti di riferimento. In una parola, il lirismo di Paolo Uccello, estremamente sensibile, è un lirismo di concezione. L' esecuzione non è direttamente lirica. È soprattutto per questo che le sue opere sono così perfettamente equili~rate malgrado l'impressione di intensità che irradiano. E soprattutto a causa di questo evidente equilibrio che si è a lungo considerato Paolo Uccello un pittore freddo e arido. Quando ci si è degnati di occuparsi di lui alcune scene del Miracolo dell'ostia profanata sono state pesantemente criticate, soprattutto quella dove si assiste al supplizio della famiglia dell'ebreo sul rogo. Le fiamme che avvolgono il gruppo hanno l'aspetto di nastri, nessuna deformazione le anima, i carnefici sembrano sacerdoti più che torturatori. Anche altri esempi potrebbero confermare l'apparente freddezza. Ma esaminando da vicino queste diverse scene l'emozione si fa più viva in quanto si concentra maggiormente. Gli attori del dramma dipinto da Uccello non gesticolano, non declamano. Oppongono la forza all'eccitazione. Quando i soldati arrestano l'ebreo e la sua famiglia si nota subito, dalle loro posture, che non si tratta di mercenari, ma di strumenti della legge e del destino. Allo stesso modo le vittime non oppongono resistenza ai loro carnefici e si re-
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cano al supplizio piene di disperazione e di amarezza, ma senza strapparsi inutilmente i capelli, senza scomporsi in grida. Queste immagini e queste analisi, che potrebbero far sorridere, non sono che deduzioni approssimative, ma permettono, più che quelle dotte, di accostarsi alle intenzioni e alle soluzioni del pittore. Il Miracolo dell'ostia profanata è, oseremmo dire, un'opera familiare in cui il pittore ha saputo farci amare innanzi tutto la semplicità, non quella semplicità al limite dell'ingenuità çli Beato Angelico, ma quella che più somiglia alla tenerezza. Il pittore, ancora una volta, non cerca né di piacere né di « mirare all'effetto»; a tutto questo preferisce la sua verità. In quest'opera è presente una sorta di combinazione di realismo e di dolcezza che permette di avvicinarsi al reale carattere di Paolo Uccello. Da questi diversi punti di vista occorre guardare per comprendere l'importanza del Miracolo dell'ostia profanata; è una delle ultime opere dipinte da Uccello e può dunque esser considerata come l'esito del suo pensiero, della sua arte e della sua stessa vita. Per tutte queste ragioni ci tocca in modo particolare e suscita più le nostre emozioni che la nostra ammirazione.
GLI ESITI DI PAOLO UCCELLO
Leggenda a parte, sembra che la vita di Paolo Uccello sia stata fra le più semplici. Nessuna passione al di fuor} di quella per la pittura seppe infiammare il pittore. E naturale che si sia consacrato interamente e appassionatamente a essa, e che essa sia rimasta per lui l'oggetto unico delle sue preoccupazioni e dei suoi desideri, dato che ebbe probabilmente coscienza d'esser l'unico fra i contemporanei a fissarne i limiti, a concepirne l'oggetto e il destino. Questa certezza assoluta, che avrebbe dovuto esser evidente a tutti i contemporanei, gli ha impedito di proclamare la sua chiaroveggenza, d'imporre il proprio punto di vista o di svelare una teoria. Altri, più abili, più pittoreschi, si anteponevano a lui; e qualcuno dopo di lui seppe modificare, utilizzare e snaturare le sue intenzioni e la sua stessa certezza. Ancor oggi si sente ripetere ossessivamente che il povero Uccello non s'interessò che alla prospettiva. Occorsero secoli per modificare un simile giudizio, rettificare tutti gli errori e-compiere nuove ricerche pittoriche per ritrovare la via indicata dal pittore fiorentino. Paolo Uccello fu parzialmente e involontariamente responsabile di questo disconoscimento. L'epoca in cui visse e le condizioni in cui dipinse spiegano come si sia potuti cadere a tal punto in errore: A Firenze, agli inizi del XVI secolo, nell'incanto del Rinascimento, si ammirava innanzi tutto il virtuosismo. A suo modo Paolo Uccello fu un virtuoso e soprattutto venne considerato tale perché il tratto saliente della sua arte quando la si comparava a quella di predecessori e contemporanei era la perfezione tecnica. Si tenga presente che visse all'epoca di Beato Angelico, la cui ingenuità e il cui «primitivismo» sono potuti piacere agli esteti del XIX secolo, ma che indicano, soprattutto se comparati alla ma-
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niera di Uccello, quanto quest'ultimo avesse perfezionato l'arte del disegno e della pittura; perfezionamento che non poté non meravigliare i fiorentini. Si ammirava dunque il virtuoso, ma si trascurava di render giustizia al pittore, e quelli che lo seguirono ne impararono i procedimenti tecnici e li utilizzarono senza comprendere l'incomparabile lezione che in altro senso donava loro. Paolo Uccello, appassionato di pittura, ha meditato a lungo sulla propria arte: ha perfezionato, se non inventato, la prospettiva di cui Masaccio dettava, contemporaneamente a lui, le regole; ma soprattutto non concepì la pittura unicamente come una rappresentazione del reale, bensì come un'arte fine a se stessa, un atto creativo che doveva mutuare dalla natura solo i suoi elementi. Ogni opera di questo mirabile pittore ci mostra gli sforzi compiuti per sottomettere colore, linee e movimenti a questa concezione, poiché ogni sua opt;!ra è composta, mai copiata o interpretata. Paolo Uccello non si lascia dominare dagli elementi, ma li assoggetta alla composizione delle sue opere. E sufficiente, per convincersene, anche un rapido sguardo a un qualsiasi suo quadro. La sua idea compositiva non è potuta sfuggire ai rari critici che, sia pur superficialmente, si sono occupati di lui. Fra tutti, Bernard Berenson ne fa oggetto di biasimo: « Nelle sue composizioni» afferma « tracciò quante più linee possibili per avviare l'occhio nel senso della profondità spaziale. Cavalli riversi,» prosegue lo studioso riferendosi al pannello della Battaglia di San Romano conservato agli Uffizi « guerrieri morti o morenti, lance rotte, campi arati e arche di Noè» - allusione agli affreschi di Santa Maria Novella - « gli servono con appena un'ombra di dissimulazione a comporre i suoi impianti di linee matematicamente convergenti. Tutto compreso da questa idea fissa, dimenticò tutto il resto ... ». 1 1
Les Peintres /lorentins, traduzione della contessa De Rohan-Chabot,
J. Schiffrin Éditeur, Paris 1926. Mio il corsivo. [Bernard Berenson, The Fiorentine Painters of the Renaissance, cit.]
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Questa critica è, a mio avviso, uno dei più alti elogi che si possano rivolgere a un pittore e mostra con quale strana parzialità si è soliti giudicare l'arte di Uccello. Sarebbe indubbiamente un'imprudenza precisare oggetto e :fini della sua pittura, ma in virtù del suo carattere intransigente possiamo giudicare coloro che lo circondavano e situarlo a parte, preferirei dire al disopra di loro. Con il suo rifiuto di seguire la via tracciata da Giotto, e percorsa da Beato Angelico e Masaccio, Paolo Uccello è la prova che agli albori del Rinascimento un pittore poteva ancora discutere e meditare. La via indicata da Giotto e adottata da Beato Angelico era indiscutibilmente la meno irta da seguire. La fama del precursore e il successo dei suoi due emuli avrebbero potuto tentare l'autore della Battaglia di San Romano, ma un problema gli si imponeva e non gli fu sufficiente l'intera vita per trovarne la soluzione. In seguito all'incomparabile rivoluzione compiuta da Giotto che, guidato dall'istinto, s'oppose deliberatamente al1'arte bizantina, tutto o quasi tutto divenne terreno di scoperta. Due erano le possibilità che si aprivano: una, per il tramite di Beato Angelico, l'incarnò Leonardo da Vinci; l'altra, Paolo Uccello. Quella che propongo è un'esemplificazione arbitraria, poiché si verificarono incroci, intrecci, nodi e culmini. Se, riguardo la pittura, si può parlare di teridenze, è lecito affermare che, talora parallele, talora confuse, le correnti si contaminavano, ma riuscendo a distinguerle appariva evidente che le loro conseguenze e i loro corollari erano opposti. In breve, lo studio dell' ope- . radi Paolo Uccello ci permette di dedurre che per lui e per il suo tempo si ponevano due problemi decisivi. Si potrebbe riassumere il primo nella seguente formula: deve la pittura essere subordinata alla natura? Il secondo consisterebbe nel supporre che la pittura non sia che una manifestazione della contemplazione mistica. Ciò detto, chiedendo una risposta all'opera di Paolo Uccello ci si dovrebbe porre da entrambi i punti di vis.ta. Da una parte rapportandola ai predecessori e ai successori a lui più prossimi, dall'altra liberandosi del-
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le nozioni di tempo e di luogo e analizzandola in se stessa. Paolo Uccello, da una parte, non fu, malgrado la nuova tradizione, un realista. Gli si è assai rimproverata l'autonomia, e l'analisi di Berenson in precedenza citata riassume perfettamente la critica o l'elogio, secondo i punti di vista, che gli si può rivolgere. D'altra parte, è indiscutibile che non abbia mai posto 1~ pittura al servizio del misticismo, né della religione. E singolare, pensando all'epoca in cui visse, che non abbia mai scelto, salvo rarissime eccezioni, un soggetto tratto dalla storia di Cristo, e quando accettò di dipingere affreschi con storie tratte dalle Sacre scritture, lo fece solo perché costretto. Occorre rimarcare che un simile atteggiamento dovette sembrare strano, e precisa la posizione eccezionale di Uccello rispetto alla tradizione; conferma inoltre la sua concezione della pittura ponendolo nettamente al di fuori della schiera dei successori di Giotto. Credo sia corretto affermare che l'esame attento del1'opera di Uccello permette di rispondere alle due questioni in precedenza poste e di ribadire inoltre che egli fu tra i primi a porre il problema della pittura. Occorre aggiungere che Uccello era consapevole che rivolgendosi unicamente ai sensi la pittura si sviliva. Non teme dunque di sconvolgere i nostri sensi, e lo fa anche solo attraverso un dettaglio. Ogni sua opera in qualche modo delude le aspettative. Non può riassumersi perché è ricca di dettagli, e d'altra parte è impossibile, a rischio di tradirla, descriverla minuziosamente, perché il suo valore è nell'insieme. La connessione di ogni minimo dettaglio alla concezione d'insieme non è certo una prerogativa di Paolo Uccello, ma nella sua opera è così sistematica, così evidente, che la si può interpretare come un'intenzione estremamente precisa. Il carattere intellettuale della pittura di Uccello ha allontanato ammiratori e discepoli, e ha permesso ai critici d'ogni tempo di considerarlo alla stregua di un matematico, di un ingegnere e persino di un folle con la mania delle linee.
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È dunque facilmente comprensibile che il suo genio sia stato pressoché ignorato, e che lo si sia completamente misconosciuto. Bisogna immaginare l'ebbrezza che dovette impadronirsi dei pittori tinascilllentali nello scoprire nuovi mezzi e tecniche inedite. E un luogo comune ritenere che un artista sia apprezzato soprattutto per i più trascurabili particolari della sua opera e che le reali qualità del suo genio non siano comprese. I pittori fiorentini del XVI secolo e i loro estimatori si consacrarono al perfezionamento della tecnica, facilmente apprezzabile, piuttosto che alla severa meditazione che Uccello esigeva. Mi sembra naturale che nella riscoperta dei pittori :fiorentini rinascimentali li si sia affrontati retrospettivamente, ossia preferendo i primitivi, la cui purezza era liberatoria rispetto alla dissolutezza pittorica dei secoli xvm e XIX. La semplicità fu considerata una prova del genio, come testimonia la fama di Beato Angelico, e l'immensa interrogazione formulata da Uccello fu misconosciuta. Tocca a noi rivedere i valori e considerare con ammirazione l'opera di questo pittore, ma sarebbe vano limitarsi ad ammirarlo: dobbiamo cercare di capirne la magistrale lezione e studiarne l'opera dimenticata o falsamente interpretata. 1 Notiamo di sfuggita che la sua stessa leggenda lo ha contornato di un'aura nociva. In primo luogo il suo soprannome, Paolo degli Uccelli, senz'altro pittoresco e grazioso, a cui è stata data una spiegazione assai semplice, direi semplicistica. Si pretende derivi dal fatto che dipingesse volentieri gli uccelli, sebbene in alcune delle opere giunte sino a noi non ve ne sia traccia. Insistiamo nell'affermare che Uccello fu vittima di un malinteso. Si deve avere la forza di affrontare la sua opera come fosse stata appena scoperta, liberandola da quel che l'ha preceduta e seguita. 1 Non vedo, ad esempio, nulla al di là della straordinaria interpretazione di Bernard Berenson che, bisogna ammetterlo, al cospetto dell'opera di Paolo Uccello esita, argomenta e non sa decidere se vada lodata o biasimata.
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Appare mirabile per tutti gli sviluppi che si possono a essa ricondurre. Le opere di Paolo Uccello sono poco numerose e disseminate ai quattro angoli del mondo, diverse sono in un pessimo stato di conservazione, pressoché inintelligibili; sovente ci si è limitati a dare un sommario giudizio su di. lui basandolo esclusivamente sulle opere conservate a Firenze.' Per giudicare un pittore la cui vita appassionata (se ne vede il riflesso nei dipinti) conserva una così rimarchevole unità è necessario raggruppare e confrontare la sua intera opera: è dall'insieme che se ne potranno distinguere le caratteristiche. Quel che immediatamente colpisce è l'incomparabile potenza sprigionata dalla scelta dei soggetti, '-- dal modo di trattarli, dalla composizione e dal respiro ineguagliabili. Poi si resta ammirati dalla complessità dell'opera - si tratti di ritratti o di grandi composizioni -, stupiti dalla varietà d'espressione dei movimenti, dall' atmo!lfera stessa. Sorprende inoltre la scienza di Uccello. E sufficiente esaminare alcuni scorci della Battaglia di San Romano o della Caccia di Oxford per stupirsi della sua tecnica e per ammettere che talvolta ci si è clamorosamente sbagliati nel giudicare solo in base ai dettagli, che hanno portato a liquidare il pittore semplicemente come un virtuoso. Queste le «qualità» riconoscibili a un primo sguardo. Senza dubbio notevoli, tuttavia presenti in qualsiasi pittore di talento. A renderle più preziose in Paolo Uccello è il fatto che siano state messe al servizio del suo genio pittorico. Si percepisce che tutte queste opere costituiscono vera pittura, si può persino osare affermare che in esse vi sia tutta la pittura. Occorre sempre rifarsi alle proprie esperienze personali, e se un uomo del xx secolo può così intensamente esser folgorato scoprendo un quadro di Uccello tra le Madonne degli Uffizi, si può dedurre che il pittore fiorentino abbia in qualche modo raggiunto il suo scopo. Non si è forse 1 Al Louvre sono conservate due importanti opere di Uccello, e sono così malamente illuminate che per poterle ben osservare si deve contare su una splendida giornata di sole.
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completamente in errore nel considerare la pittura asservita al tempo? Forse la scultura greca ha bisogno di tutte queste precauzioni? La pittura e la scultura, e le arti in generale - a esclusione forse della poesia, schiava della lingua-, devono poter esistere, al di fuori della propria epoca, della propria cerchia e della propria atmosfera. Proprio in virtù di questo suo essere al di fuori del proprio tempo la pittura di Paolo Uccello può resistere allo sguardo dei nostri giorni, penetrante e feroce. Considerandola così, lascia non solo un'impressione di potenza e di grandezza, ina permette altresì di seguirne gli sviluppi. Costringe colui che la studia a non appagarsi degli empirismi e dei brancolamenti che furono la prerogativa di secoli e secoli di pittura occidentale. Studiarla permette inoltre di assumerla a criterio e obbliga a dare il giusto peso ai successori più o meno lontani di Paolo Uccello. Non si può impunemente ammirare questo pittore: ci si sente ben presto costretti ad adottare la sua concezione. La pittura si libera agevolmente dal suo oggetto. Si direbbe che una forza centrifuga tenda a ridurre in polvere i suoi più caratteristici elementi. Non è singolare l'atteggiamento di quei critici che lodano i- coloristi o i disegnatori, i realisti o i virtuosi? Si direbbe che la purezza sia disprezzata o, almeno, trascurata. Si deplora quel pittore che rifiuta di conferire valore assoluto a un singolo elemento preferendo il sacri:fìcio di una riuscita particolare alla certezza dell'opera nel suo insieme. L'opera di Uccello è contraria a questa forza centrifuga, ma deve essere esaminata con la dovuta attenzione per coglierne l'autentico senso. Si può dire, in effetti, che per ragioni facilmente intuibili Uccello ha conferito il suo autentico senso alla propria pittura, in qualche modo malgrado essa: intendo dire che non ha avuto paura di aggirare la difficoltà e di presentarla nel suo senso opposto, sforzandosi unicamente di contrapporre a questo senso una corrente più forte e più reale, più netta e più profonda. Fu questo, come tutti i progetti di Uccello, un tentativo ardito, ma che, grazie al suo ge-
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nio, rende più sensibile e più manifesto il suo vero intendimento. Non cercò né di stupire né di innovare. Riteneva manchevoli i mezzi di cui disponeva e perseverò nel tentativo di perfezionarli. Ma, parallelamente, propose ai pittori un nuovo ideale. Non si limitò alla ricerca di colori più autentici o di procedimenti di disegno più rapidi e più pratici, desiderò anche che la pittura fosse considerata in sé e per sé. Ne giustificò dunque l'esistenza al di fuori del realismo. Non è possibile affermare semplicemente che Uccello, dotato di una maestria mirabile, si sia limitato a comporre le sue opere più minuziosamente di quanto fosse mai stato fatto. È necessario riconoscere che al di là della composizione era alla ricerca di un equilibrio ) pittorico o, se si preferisce, di un'armonia di tutti gli elementi principali. Ogni sua opera è posta sotto questo segno e ha dato il suo contributo alla creazione dello stile uccelliano, che è una prova della severa concezione pittorica che l'artista si propose. A parte ogni definizione e ogni spiegazione, l'importanza dello stile di un artista è considerevole essendo una delle manifestazioni più clamorose del senso della sua opera, e al tempo stesso della sua personalità. Questo è il punto di vista da cui partire nell'analisi dello stile di Uccello, dominato non soltanto dalla semplicità, ma anche dalla purezza. Gli elementi che lo compongono sono, in effetti, di una nettezza e di un'evidenza assolute. Si pensi alla differenza che corre tra un arabesco e una linea retta. Tutto ciò che lo stile di Paolo Uccellò determina basterebbe a farci comprendere che il pittore non intende ingannarsi. In lui c'è una tale chiaroveggenza da permettergli di averne coscienza, ossia di imporlo scientemente a tutte le sue opere: e può forse esser questa una spiegazione del suo soprannome, che significherebbe la possibilità di ritrovare in esse sempre gli stessi « uccelli», ossia i medesimi intenti. 1 Lungi da me l'idea di affermare che Paolo Uccello creò uno stile per poi im1 [Gioco di parole intraducibile: in francese gergale oiseau (uccello) significa «tipo».]
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porlo come marchio di fabbrica. Il pittore è cosciente dello stile che impone, ma lo domina, non si mette al suo servizio. · Ogni volta che si considera una manifestazione del temperamento e del carattere di Paolo Uccello, si rimane stupiti di doverla spiegare tanto sembra semplice. Ma si è avvezzi a vedere le minime questioni, soprattutto quelle riguardanti la pittura, attraverso un manierismo o un misconoscimento a cui intere generazioni di pittori ci hanno abituati. A lungo la pittura si è alimentata di con-· tinui malintesi, e lo stesso è accaduto alla scultura; ma per una singolare aberrazione si valuta quest'ultima con una più giusta misura rispetto alla pittura, alla quale si accorda particolare indulgenza. L'arte di Paolo Uccello è diretta e di una franchezza sconcertante, per noi, perché rifiuta di mascherarsi. Si tratti di ingenuità o, al contrario, di abilità, Uccello è interamente ciò che vuole essere, ciò che ha scientemente deciso di essere. L'arte è per lui più esplorazione che gioco. Quel che cerca è il fine, ma rifiuta di servirsi di mezzi che non siano puri e che non siano in correlazione con quel ch'egli considera l'oggetto della pittura. Sovente si è notato che l'evoluzione tecnica di un'arte è assai più lenta rispetto a quella dell'ispirazione creativa, ma nel caso di Uccello è ammirabile che entrambe siano allo stesso livello. L'ispirazione non lo indusse a enfatizzare alcune parti lasciandone altre piatte e spente, o abborracciate. Ogni dettaglio nelle sue opere potrebbe essere isolato senza avere a soffrire, per così dire, della frammentazione. Esaminando la fotografia di un partz'colare,1 la riproduzione di un dettaglio, si assiste a un fenomeno singolare: il frammento isolato dall'insieme conserva lo stesso ritmo, lo stesso stile, la stessa potenza. È un tutto. Questa prova, a cui si possono sottoporre tutte le opere di Uccello, è indice dello spirito che lo animò. Ma non vorrei che si cadesse nell'errore di supporre 1
[In italiano nel testo.]
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un'intenzione deliberata da parte del pittore. Non si tratta di un metodo, ma di uno stato d'animo. Un pittore lavora per frammenti figurandosi l'insieme, non accosta tra loro parti, personaggi o linee, ma li connette gli uni agli altri. Se la concezione d'insieme domina sui dettagli, come in Masaccio, indiscutibilmente la potenza è superiore rispetto a quando al dettaglio si conferisce una maggior valenza rispetto all'intero affresco, come in Beato Angelico. Uccello non spezza mai l'equilibrio, a riprova del fatto che concepì la pittura non come una manifestazione di potenza o di passione, ma come fìne a se stessa.
L'INFLUENZA DI PAOLO UCCELLO
Sarebbe vano pretendere che possa venir riconosciuto in futuro l'autentico valore di Paolo Uccello, poiché la critica l'ha tradizionalmente relegato in un'oscurità, dignitosa, certo, ma nondimeno profonda. Sono consapevole che l'impresa da me tentata pecchi di presunzione, e che un libro, pur se entusiasta e sincero, nulla possa contro l'opinione accreditata. Ciò nonostante mi è parso necessario far rivivere, anche se per breve tempo, l'alta figura di Paolo Uccello affinché possa per alcuni, certo poco numerosi, non solo essere un esempio, ma tema di meditazione. Il destino di questo pittore la cui principale peculiarità fu la purezza prova una volta ancora come il successo e, occorre precisarlo, anche la gloria siano costruiti su un malinteso e fors' anche su una sequenza di malintesi. Sarebbe arduo trovare nella storia molte figure così nobili, così alte, così pure. Le «glorie» più riconosciute dell'autore della Battaglia di San Romano sono innumerevoli. Nel terminare questo mio scritto mi sembra doveroso formulare delle scuse per aver proiettato, sia pur in modo imperfetto, un poco di luce sulla vita e sull'opera di questo pittore che amava l'oscurità, per avere in qualche modo violato il ritiro postumo di quest'uomo semplice e dolce, modesto e sapiente. La gloria e la vanagloria non gli si addicono. Con la sua vita ha dimostrato di non aspirare alla fama, e nessuno si è meno di lui curato della posterità. Ed è, la sua, una lezione di cui far tesoro. Se mi soffermo per un istante sul riserbo, sulla solitudine volontaria che ha cercato con tutto il suo cuore, non posso non pensare a questo poema di Baudelaire: Scontento di tutti e scontento di me stesso: pur vorrei riscattarmi e inorgoglirmi un poco nel silenzio e nella solitudi-
SOUPAULT
ne della notte. Anime di chi ho cantato, fortificatemi, sostenetemi, allontanate da me la menzogna e i vapori della corruzione del mondo, e voi, Signore mio Dio!, accordatemi la grazia di produrre qualche bel verso che provi a me stesso che non sono l'ultimo degli uomini, che non sono inferiore a 1 quelli che disprezzo!
Non intendo ovviamente affermare che questo poema si possa applicare alla lettera a Paolo Uccello; si tratta semplicemente dell'atteggiamento di uno spiritò solitario che contempla una verità interiore. A mio avviso per due personalità così diverse come l'autore de Les Fleurs du Mal e il pittore fiorentino la vita diviene . un,·simbolo che le respinge brutalmente verso la loro opera. Si deve riconoscere che quanto pensarono e credettero fu una sorta di rifugio, tema d'orgoglio (non di vanità), causa d'esaltazione meno interiore. Si suppone che il pittore abbia trascurato progressivamente i risultati immediati per concentrarsi sempre più sulla ricerca dell'autentico fine del dipingere. Riteniamo che in un'epoca così esaltata, in cui gli uomini erano tanto impulsivi e superficiali, in un secolo paragonabile a una esplosione, l'eccezione rappresentata da Paolo Uccello abbia un valore indiscutibile. Mi sembra che ci si trovi per la prima volta nella storia dell'arte al cospetto di un individuo isolato che pensa di non potere, di non dovere curarsi delle conseguenze immediate o future della sua opera. L'uomo rifiuta di cedere il passo all'artista. Colui che crea non è solo lo zimbello dell'opinione pubblica o dei suoi protettori. Cerca di rimanere « tal che in lui stesso infine l'eternità lo muta». 2 Ai nostri occhi Paolo Uccello per la sua attitudine, per la sua «umanità», eguaglia la grandezza della sua opera. In verità, la sua opera è realmente grande proprio in virtù del fatto che lui stesso fu più chiaramente, ' [Charles Baudelaire, Le Spleen de Paris (trad. it. di Vivian Lamarque in Lo Spleen di Parigi, SE, Milano 1988).) 2 [Stéphane Mallanné, Le tombeau d'Edgar Poe (trad. it. di Cosimo Ortesta in Sonetti, SE, Milano 2002).]
PAOLO UCCELLO
più risolutamente grande. Credo d'altra parte che la nostra concezione del genio ci costringa a pensare che l'uomo non possa esser distinto dalla sua opera e che la sua influenza vada al di là dei limiti dell'arte. In questo breve scritto non è possibile allargare il tema della discussione e abbozzare una nuova interpretazione, ma tuttavia mi sembra utile sottolineare lo statod'animo di Uccello confrontandolo alla profondità della sua opera. Un grande pittore, pur se scevro di ogni volontà d'azione, eserciterà necessariamente un'influenza. Troppo spesso siamo tentati, nello studiare l'opera di un artista, di isolarlo artificialmente, di privarlo della propria influenza. L'inspiegabile irriconoscenza dei posteri riguardo a Paolo Uccello non mi sembra dunque riprovevole. Prova solo che se un artista, in tutti gli ambiti dello spirito - musica, poesia, scienza e naturalmente pittura-, rifiuta d'esser schiavo della pubblica opinione rischia di cozzare contro l'indifferenza o l'ingratitudine. Accade talvolta che uno studioso, o un critico, operi un'azione salvifica sottraendo all'o~lio una fra le più alte personalità del genere umano. E inconcepibile che alcune di esse rimangano per sempre sepolte e che la loro opera risulti definitivamente perduta. Si crede che la posterità sia un giudice infa!libile. Personalmente la ritengo piuttosto noncurante. E possibile che la giustizia possa cambiare nel corso del tempo, così come muta da luogo a luogo. L'unica conclusione che possiamo trarre da considerazioni di tal genere è che l'arte non deve mai confidare sul giudizio umano. La sua realtà, la sua potenza, alberga altrove. Nessuna forza si perde. Poco importa il modo in cui si manifesta, né come venga valutata e apprezzata. Paolo Uccello probabilmente non ha mai pensato che a dipingere. La profondità e la potenza della sua opera persistono a dispetto di tutti i giudizi, malgrado il silenzio.
NOTA BIBLIOGRAFICA1
Giorgio Vasari, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, edizione per i tipi della Giunti, Firenze 1568.
Giovanni Battista Cavalcaselle e Joseph Archer Crowe, A New History o/ Painting in Italy,John Murray, London 1864 [tr:ad. it. Storia della pittura italiana dal secolo II al secolo XVI, Sala Bolognese, Forni 1981-1982]. Bernard Berenson, The Florentine Painters of the Renaissance, G. Putnam's Sons, New York e London 1896 [trad. it. J pittori italiani del Rinascimento, Rizzoli, Milano 1997]. Carl Loeser, Paolo Uccello, in «Repertorium fiir Kunstwissenschaft», XXI, 1898.
Herbert P. Horn e, The Battle piece by Paolo Uccello in the National Gallery, in «The Monthly Review», 1901. Georg Gronau, Zu Paolo Uccello, in «Repertorium fiir Kunstwissenschaft», 1902.
Carlo Gamba, Paolo Uccello, in «Rivista d'arte», gennaio-febbraio 1909. Eugenio G. Campani, Uccello's Story o/ Noah in the Chiostro Verde, in « The Burlington Magazine», XVII, 1910.
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[Compilata da Philippe Soupault.]
APPENDICE
Il testo che segue è tratto da Le vite de' più eccellenti architetti, pittori; et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, nell'edizione per i tipi della Giunti, Firenze 1568.
VITA DI PAULO UCCELLO PITTOR FIORENTINO DI GIORGIO VASARI
Paulo Uccello sarebbe stato il più leggiadro e capriccioso ingegno che avesse avuto, da Giotto in qua, l'arte della pittura se egli si fosse affaticato tanto nelle figure et animali, quanto egli si affaticò e perse tempo nelle cose di prospettiva; le quali ancor che sieno ingegnose e belle, chi le segue troppo fuor di misura, getta il tempo dietro il tempo, affatica la natura, e l'ingegno empie di difficultà, e bene spesso di fertile e facile lo fa tornar sterile e difficile, e se ne cava (da chi più attende a lei che alle figure) la maniera secca e piena di proffili; il che genera il voler troppo minutamente tritar le cose; oltre che bene spesso si diventa solitario, strano, malinconico e povero, come Paulo Uccello, il quale, dotato dalla natura d'uno ingegno sofistico e sottile, non ebbe altro diletto che d'investigare alcune cose di prospettiva difficili et impossibili, le quali, ancor che capricciose fossero e belle, l'impedirono nondimeno tanto nelle figure, che poi, invecchiando, sempre le fece peggio. E non è dubbio che chi con gli studii troppo terribili violenta la natura, se ben da un canto egli assottiglia l'ingegno, tutto quel che fa non par mai fatto con quella facilità e grazia, che naturalmente fanno coloro che temperatamente, con una considerata intelligenza piena di giudizio, mettono i colpi a' luoghi loro, fuggendo certe sottilità, che più presto recano a dosso all'opere un non so che di stento, di secco, di difficile e di cattiva maniera, che muove a compassione chi le guarda, più tosto che a maraviglia; atteso che l'ingegno vuol essere affaticato quando l'intelletto ha voglia di operare, e che 'l furore è acceso, perché allora si vede uscirne parti eccellenti e divini, e concetti maravigliosi. Paulo dunque andò, senza intermettere mai tempo alcuno, dietro sempre alle cose dell'arte più difficili; tanto che ridusse a perfezzione il modo di tirare le prospettive dalle piante de' casamenti e da' profili degli edifìzii condotti in sino alle cime delle cornici e de' tetti, per via dell'intersecare le linee, facendo che le scortassino e diminuissino al centro, per aver prima fermato o alto o basso, dove voleva, la veduta dell'occhio; e tanto insomma si adoperò in queste diffìcultà, che introdusse via modo e regola di mettere le figure in su' piani dove elle posano i piedi e di mano in mano dove elle scortassino e diminuendo a proporzione sfuggissino, il che prima si andava facendo a caso. Trovò similmente il modo di girare le crociere e gli archi delle volte; lo scortare de' palchi con gli sfondati delle travi, le colonne tonde per far in un canto vivo del muro d'una casa, che nel canto si ripieghino e tirate in prospettiva rompino il canto e lo faccia per il piano. Per le quali considerazioni si ridusse a starsi solo e quasi salvatico, senza molte pratiche, le set-
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VASARI
timane e i mesi in casa senza lasciarsi vedere. Et avvenga che queste fussino cose difficili e belle, s'egli avesse speso quel tempo nello studio delle figure, ancor che le facesse con assai buon disegno, l'arebbe condotte del tutto perfettissime; ma consumando il tempo in questi ghiribizzi, si trovò mentre che visse più povero che famoso. Onde Donatello scultore suo amicissimo li disse molte volte, mostrandogli Paulo mazzochi a punte e quadri tirati in prospettiva per diverse vedute, e palle a 72 facce a punte di diamanti e in ogni faccia brucioli avvolti su per e' bastoni, e altre bizzarrie in che spendeva e consumava il tempo: « Eh, Paulo, questa tua prospettiva ti fa lasciare il certo per l'incerto; queste son cose che non servono se non a questi che fanno le tarsie; perciò che empiono i fregi di brucioli, di chiocciole tonde e quadre e d'altre cose simili». Le pitture prime di Paulo furono in fresco, in una nicchia bislunga tirata in prospettiva nello spedale di Lelmo, cioè un Santo Antonio abbate e S. Cosimo e Damiano che lo mettono in mezzo. In Annalena (monastero di donne) fece dua figure, et in S. Trinita, sopra alla porta sinistra dentro alla chiesa, in fresco, storie di S. Francesco, cioè il ricevere delle stìmate, il riparare alla chiesa reggendola con le spalle e lo abboccarsi con S. Domenico.' Lavorò ancora in S. Maria Maggiore, in una capella allato alla porta del fianco che va a S. Giovanni dove è la tavola e predella di Masaccio, una Nunziata in fresco, nella qual fece un casamento degno di considerazione, e cosa nuova e difficile in que' tempi, per essere stata la prima, che si mostrasse con bella maniera agli artefici, e con grazia e proporzione mostrando il modo di fare sfuggire le linee, e fare che in un piano lo spazio che è poco e piccolo acquisti tanto che paia assai lontano e largo e coloro che con giudizio sanno a questo con grazia aggiugnere l'ombre a' suoi luoghi e i lumi con colori, fanno senza dubbio che l'occhio s'ingànna, ché pare che la pittura sia viva e di rilievo. E non gli bastando questo, volle anco mostrare maggiore difficultà in alcune colonne che scortano per via di prospettiva, le quali ripiegandosi rompono il canto vivo della volta dove sono i quattro Evangelisti, la qual cosa fu tenuta bella e difficile; 2 e invero Paulo in quella professione fu ingegnoso e valente. Lavorò anco in S. Miniato fuor di Fiorenza, in un chiostro, di verde terra e in parte colorito, la vita de' Santi padri nelle quali non osservò molto l'unione di fare d'un solo colore come si deono le storie, perché fece i campi azzurri, le città di color rosso, e gli edifici variati secondo che gli parve, et in questo mancò, perché le cose che si fingono di pietra non possono e non deon essere tinte d'altro colore. 3 Dicesi che mentre Paulo lavorava questa opra, un abbate che era allora in quel 1
[Si veda nota 3, p. 19.] [Della «Nunziata» (Annunciazione) e dei « quattro Evangelisti» non sono rimaste tracce.] 3 [Si veda nota 2, p. 20.] 2
VITA DI PAULO UCCELLO
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luogo gli faceva mangiar quasi non altro che formaggio; per che, essendogli venuto annoia, deliberò Paulo, come timido ch'egli era, di non vi andare più a lavorare, onde, facendolo cercar l' abbate, quando sentiva domandarsi da' frati, non voleva mai esser in casa, e se per avventura alcune coppie di quell'ordine scontrava per Fiorenza, si dava a correre quanto più poteva, da essi fuggendo. Per il che due di loro più curiosi e di lui più giovani, lo raggiunsero un giorno e gli domandarono per qual cagione egli non tornasse a finir I' opra cominciata e perché, veggendo frati, si fuggisse; rispose Paulo: « Voi mi avete rovinato in modo che non solo fuggo da voi, ma non posso anco praticare né passare dove siano legnaiuoli, e di tutto è stato causa la poca discrezione dell'abbate vostro; il quale, fra torte e minestre fatte sempre con cacio, mi ha messo in corpo tanto formaggio, che io ho paura, essendo già tutto cacio, di non esser messo in opra per mastrice; e se più oltre continuassi, non sarei più forse Paulo, ma cacio». I frati, partiti da lui con risa grandissime, dissero ogni cosa all'abate, il quale, fattolo tornare al lavoro, gli ordinò altra vita che di formaggio. Dopo dipinse nel Carmine, nella cappella di San Girolamo de' Pugliesi, il dossale di San Cosimo e Damiano. In casa de' Medici dipinse in tela a tempera alcune storie di animali, de' quali sempre si dilettò, e per fargli bene vi mise grandissimo studio; e, che è più, tenne sempre per casa dipinti uccelli, gatti, cani e d'ogni sorte di animali strani che potette aver in disegno, non potendo tenere de' vivi per esser povero; e perché si dilettò più degli uccelli che d'altro, fu cognominato Paulo Uccelli. Et in detta casa, fra l'altre storie d'animali, fece alcuni leoni che combattevano fra loro, con movenze e fierezze tanto terribili, che parevono vivi. Ma cosa rara· era, fra l'altre, una storia dove un serpente, combattendo con un leone, mostrava con movimento gagliardo la sua fierezza et il veleno che gli schizzava per bocca e per gli occhi, mentre una contadinella ch'è presente guarda un bue, fatto in iscorto bellissimo del quale n'è il disegno proprio di mano di Paulo nel nostro libro de' disegni, e similmente della villanella tutta piena di paura e in atto di correre, fuggendo dinanzi a quegli animali. Sonovi similmente e.erti pastori molto naturali et un paese che fu tenuto cosa molto bella nel suo tempo. E nell'altre tele fece alcune mostre d'uomini d'arme a cavallo, di que' tempi, con assai ritratti di naturale. Gli fu fatto poi allogagione nel chiostro di Santa Maria Novella d'alcune storie, leprime delle quali sono quando s'entra di chiesa nel chiostro: la creazion degli animali, con vario et infinito numero d'acquatici, terrestri e volatili. E perché era capricciosissimo e come si è detto si dilettava grandemente di far bene gl'animali, mostrò in certi lioni, che si voglion mordere, quanto sia di superbo in quelli, et in alcuni cervi e daini la velocità et il timore; oltre che sono gli uccelli et i pesci con le penne e squamme vivissimi. Fecevi la creazion dell'uomo e della femina, et il peccar loro, con bella maniera, affaticata e ben condot-
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gl'uomini è ritratto Paulo Orsino, Ottobuono da Parma, Luca da Canale e Carlo Malatesti signor di Rimini, tutti capitani generali di que' tempi. 1 Et i detti quadri furono a' nostri tempi, perché erano guasti et avevon patito, fatti racconciare da Giuliano Bugiardini, che più tosto ha loro nociuto che giovato. Fu condotto Paulo da Donato a Padova, quando vi lavorò, e vi dipinse nell'entrata della· casa de' Vitali di verde terra alcuni giganti che, secondo ho trovato in una lettera latina che scrive Girolamo Campagnola a Messer Leonico Torneo filosofo, sono tanto belli che Andrea Mantegna ne faceva grandissimo conto. 2 Lavorò Paulo in fresco la volta de' Peruzzi a triangoli in prospettiva, et in su' cantoni dipinse nelle quadrature i quattro Elementi e a ciascuno fece un animale a proposito: alla terra una talpa, all'acqua un pesce, al fuoco la salamandra et all'aria il camaleonte che ne vive e piglia ogni colore. E perché non ne aveva mai veduti, fece un camello che apre la bocca et inghiottisce aria empiendosene il ventre; simplicità certo grandissima, alludendo per lo nome del camello a un animale che è simile a un ramarro, secco e piccolo, col fare una bestiaccia disadatta e grande. Grandi furono veramente le fatiche di Paulo nella pittura, avendo disegnato tanto che lasciò a' suoi parenti, secondo che da loro medesimi ho ritratto, le casse piene di disegni. Ma se bene il disegnar è assai, meglio è nondimeno mettere in opera, poiché hanno maggior vita l'opere che le carte disegnate. E se bene nel nostro libro de' disegni sono assai cose di figure, di prospettive, d'uccelli e d'animali, belli a maraviglia, di tutti è migliore un mazzocchio tirato con linee sole, tanto bello che altro che la pacienza di Paulo non l'averebbe condotto. Amò Paulo, se bene era persona sfratta, la virtù degli artefici suoi, e perché ne rimanesse a' posteri memoria, ritrasse di sua mano in una tavola lunga cinque uomini segnalati, e la teneva in casa per memoria loro: l'uno era Giotto pittore, per il lume e principio dell'arte, Filippo di ser Brunelleschi il secondo, per l'architettura, Donatello per la scultura, e se stesso per la prospettiva et animali, e per la matematica Giovanni Manetti suo amico, col quale conferiva assai e ragionava delle cose di Euclide.3 llicesi che essendogli dato a fare sopra la porta di S. Tommaso in Mercato Vecchio, lo stesso Santo che a Cristo cerca la piaga, che egli mise in quell'opera tutto lo studio che seppe, dicendo che volevà mostrar in quella quanto valeva e sapeva.4 E così fece fare una serrata di tavole, acciò nessuno potesse vedere l'opera sua se non quando fosse finita. Per che, scontrandolo un giorno Donato tutto solo, gli disse: « E che opera sia questa tua, che così serrata la tieni?»; al qual respondendo Paulo disse: «Tu vedrai e basta». Non lo 1
[Si veda nota 2, p. 21.) [Questi dipinti, confermati da diverse fonti, sono da secoli scomparsi.] } [Si veda nota'r, p. 27.) 4 [Opera oggi perduta.] 2
VITA DI PAULO UCCELLO
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volle astrigner Donato a dir più oltre, pensando, come era solito, vedere quando fosse tempo qualche miracolo. Trovandosi poi una mattina Donato per comperar frutte in Mercato Vecchio, vide Paulo che scopriva l'opera sua; per che, salutandolo cortesemente, fu dimandato da esso Paulo, che curiosamente desiderava udirne il giudizio suo, quello che gli paresse di qudla pittura. Donato, guardato che ebbe l'opera ben bene, disse: «Eh Paulo, ora che sarebbe tempo di coprire e tu scuopri». Allora, contristandosi Paulo grandemente, si sentì avere di quella sua ultima fatica molto più biasimo che non aspettava di averne lode, e non avendo ardire, come avvilito, d'uscir più fuora, si rinchiuse in casa, attendendo alla prospettiva, che sempre lo tenne povero et intenebrato insino alla morte. E così, divenuto vecchissimo e poca contentezza avendo nella sua vecchiaia, morì l'anno ottantatreesimo della sua vita, nel 1432, e fu sepolto in Santa Maria Novella.' Lasciò di sé una figliuola che sapeva disegnare,2 e la moglie, la qual soleva dire che tutta la notte Paulo stava nello scrittoio per trovar i termini della prospettiva, e che quando ella lo chiamava a dormire, egli le diceva: «Oh che dolce cosa è questa prospettiva!». Et invero, s'ella fu dolce a lui, ella non fu anco se non cara et utile, per opera sua, a coloro che in quella si sono dopo di lui esercitati. IL FINE DELLA VITA DI PAULO UCCELLO PITTORE
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[Si veda.nota 1, p. 22.] [Antonia, nata nel 1456.]
IL TEMPO DIETRO IL TEMPO DI ENNIO FLAIANO
Il testo che qui si ripropone fu scritto da Ennio Flaiano come presentazione al catalogo I:opera completa di Paolo Uccello, a cura di Lucia Tongiorgi Tornasi (Rizzoli, Milano 1971}; si ringrazia l'editore Rizzoli per la gentile autorizzazione a pubblicarlo.
Aspettavamo la fine dell'arte, è venuta la fine della moda. Come farfalle notturne, i genii impazienti volteggiano attorno al lume, qualcuno finisce nella cera della candela. Alla mostra di questo genio trovai che l'unica opera esposta era una coppia di cavalli da tiro presi a nolo. Nel silenzio mondano due camerieri giravano coi loro vassoi tra gli invitati impassibili. Uno dei cavalli lordò il pavimento. L'artista prese allora a dipingerlo di celeste. « Ah, no,» pensai « non si può copiare così sfacciatamente Paolo Uccello». Ma nessuno sorrideva. La regola del gioco impone l'elegante accetta-· zione di ogni idea; e non è più un mistero che oggi il cretino è pieno di idee. Qualche tempo dopo ero a Firenze, mi rivenne in mente Paolo Uccello. Ma, chiuso il Chiostro Verde per restauri, e gli Uffizi per il riposo settimanale, girovagai sotto un vento allegro, mi persi per strade dove vecchi artigiani sembravano ulivi piantati nelle loro botteghe. Al crepuscolo, la luce era quella senza tempo degli antichi maestri. Da Alinari comprai fotografie di opere di Paolo Uccello, le distesi sul letto della mia camera d'albergo. La solitudine non mi è mai nemica. Nell'angolo superiore della finestra vedevo un comignolo possente e uno spicchio di luna toscana, netta e parsimoniosa. I libri d'arte e il cinema ci hanno insegnato a vedere i particolari, a estrarli dal totale: quel!' angolo di finestra era « un particolare della tavola, precedente». Di quale autore? Rimasi così seduto a lungo, senza pensare. Di colpo, come accade verso la fine di certi sogni, appena prima del risveglio, in cui s'illumina il significato del nostro destino e tutto diventa chiaro, la pittura mi parve potersi definire una vita nella quale riflettiamo la nostra. Prospero, noi siamo fatti della stoffa dei buoni quadri, non di quella dei sogni! Un attimo dopo questo pensiero s'era dissolto, me ne restava soltanto l'abbaglio: inservibile, vuoto di senso. Guardai l'autoritratto di Paolo Uccello. Era sul cuscino, coi suoi folti scopettoni bianchi, la bocca indurita dalla rassegnazione; ma di vecchio non facile, «capricciosissimo». Ne seguì questo dialogo:
FLAIANO
IO Maestro, di voi si hanno notizie sostanzialmente tristi. Il prospetto cronologico di ogni ar.tista è sempre triste, per bene che vada, ma il vostro è desolante. Anche molte attribuzioni sono discusse. Il Vasari, che scrisse di voi settantacinque anni dopo la vostra scomparsa, vi ritiene un maestro di buona volontà, perdutosi dietro le cose della prospettiva. Le quali, anche se ingegnose, estrapolano dalla grande arte. « Chi le segue troppo fuor di misura» dice esattamente il biografo « getta il tempo dietro il tempo, affatica la natura, e l'ingegno empie di difficultà, e bene spesso di fertile e facile lo fa tornar sterile e difficile». Così vorrebbe spiegare il vostro destino « solitario, strano, malinconico e povero». Investigando la prospettiva trascuraste le figure e alla fine, invecchiando, « sempre le faceste peggio». PAOLO Discutiamone. Il fine dell'arte della pittura non era per me fare figure meravigliose; poiché il meraviglioso a lungo andare porta alla perfezione e la perfezione alla maniera. Un secolo dopo la mia scomparsa non c'era in tutta Italia pittore che non sapesse fare eccellenti e· inutili figure, alla maniera di qualcuno, o alla propria. La malattia professionale dell'artista è di ripetersi, quella del pittore deve essere invece di affinarsi, di restare senza linee e senza colori: come il baco da seta che resta senza filo. Io ho seguito la mia arte per isolare un certo dato del vero, non mi sono posto il compito di rendere utile il mio lavoro o di iniziare una scuola, ma ho lavorato attorno alla natura, ne ho voluto estrarre una mia essenza particolare. La natura vista come gioco? L'uso del colore come metafora? La metafora, dice Aristotele, è chiamare le cose col nome di altre cose. Questo spiega la mia tendenza alla solitudine. Il Vasari ha scritto che fu la prospettiva a ridurmi a star solo e quasi selvatico, « senza molte pratiche», ossia praticando poco gli amici, le settimane e i mesi in casa, senza lasciarmi vedere. E che cosa deve fare un pittore, se non questo? Si è parlato molto della mia povertà, facendomene un rimprovero, ma la stessa povertà è l'elogio che si fa a san Francesco d'Assisi. E non amavamo tutti e due la natura, sino a vederla comè non è affatto, sino a inventarla daccapo? Io che mi chiamo Paolo di Dono fui chiamato Paolo Uccello perché dipingevo uccelli, san Francesco agli uccelli tenne persino discorsi. Dov'è dunque il mio sbaglio? Voi mi direte che san Francesco seguiva un suo ideale di perfezione morale e che questo ideale doveva dimostrarlo per eccesso, ammansendo un lupo invece di ucciderlo, lodando l'acqùa che è dappertutto, o il fuoco, come se non l'avessimo. Io se-
IL TEMPO DIETRO IL TEMPO
guivo un'altra morale, quella dell'arte, che consiste nel non frodare col proprio talento, ma anzi nel rivolgerlo alla comprensione delle cose naturali, tutte misteriosissime appunto perché ci appaiono evidenti. E allora si scopre che i colori non sono quelli che vorrebbero farsi credere: che i colori bisogna smascherarli. E le linee sono soltanto un seguito di punti, che somigliano più al pensiero che alla cosa, e dunque le linee bisogna costringerle, farle rigare dritto. Il Vasari ... Oltre al Vasari ho avuto uno strano biografo, un francese, il quale ha scritto, tra alcune vite immaginarie, anche la mia. IO Marcel Schwob, un poeta. Vi conobbi proprio nel modo che vi piace, attraverso lui, in una dimensione immaginaria. PAOLO Costui in sostanza mi pone sul capo un'aureola di santo sempliciotto ma testardo, un asceta insaziabile. Fa di me un Beato Angelico della prospettiva, che dipinge stando in ginocchio e trascura le cose del mondo, quello stesso mondo che intende rappresentare, finché la morte lo coglie come un fiore secco, senza che se ne accorga, tutto preso dalla follia di fare e rifare le stesse cose impossibili, sordo ai lamenti della moglie e della figliola che chiedono pane. IO Il Vasari racconta che vostra moglie soleva dire che tutta la notte voi, Maestro, stavate-allo scrittoio per trovare itermini della prospettiva, e che quando ella vi chiamava a dormire, voi rispondevate: « Oh che dolce cosa è questa prospettiva!». Sicché passaste alla storia come un maestro di questa scienza e, probabilmente, senza le tre tavole della Battaglia di San Romano, nessuno vi stimerebbe oggi grande pittore. PAOLO Voi sapete come sono le mogli, anzi le vedove, che cosa non dicono del loro defunto, per apparire biografe esclusive. Non ricordo di aver detto mai che 1a prospettiva fosse una dolce cosa, ma semmai una teoria, la quale anche questa il pittore deve smascherare. Voi avete citato la Battaglia. In queste tavole ho sbagliato di proposito tutte le prospettive, quelle dei vari cavalli e degli armati. Nella prima tavola, la londinese, l'errore di collocazione del guerriero morto è evidente. Con questo errore io insinuo nel riguardante il sospetto . che la morte riduce gli uomini, anche i guerrieri più possenti, a poveri fantocci, non solo fuori del tempo, ma dello spazio. Vista dall'alto, una battaglia può sembrare una festa campestre, vista dal combattente è soltanto confusione, paura e dolore. La verità è nel mezzo, ogni battaglia è un happening, con la logica ferrea che la fa mostruosa poiché si trasforma, nello stesso attimo in cui si realizza, in un continuo mobile. Restano di una battaglia alcuni/lashes, non necessariamente crono-
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logici e prospettivi. Resta lo stupore dei cavalli bianchi e neri, e anche di quelli rosa e celeste, lo stesso stupore arrogante dei cavalli delle giostre. Resta l'immobilità dei cavalieri, i loro gesti fissati negli attimi che precedono la morte. Quello che accadrà non mi interessa, detesto la carneficina, anzi dirò che non mi spaventa. Mi turba di più la minaccia, la cosa che dovrà succedere. Il negro che nella Cappella degli Scrovegni tiene alta una verghetta per flagellare il Cristo, e non colpisce, annunzia l'inizio della tragedia e mi sconvolge più di tutti i personaggi realistici e manieristici dei secoli seguenti, che compiono il massacro sotto i nostri occhi. La tragedia è immobilità, arte di truccarsi. I cavalli e i cavalieri di San Romano, e quelle lance che ricordano altre lanzas, sono parati per la festa della loro tragedia, impassibili. Solo un cavallo rosa perde la testa e scalcia goffamente, come un somaro: e sta nella composizione come appunto un raglio di somaro prima che spari il cannone. La conoscenza della prospettiva mi è servita per dominarla, e rendere assurdi, fuori posto, come in un sogno o in un turbine, i particolari: i mazzocchi, gli abbigliamenti, i piumaggi, i turbanti; ma ogni oggetto ha un suo proprio punto di fuga, il che dà all'insieme un che di strabico, lo strabismo di Venere, o/ course, quello che rende impenetrabile il volto della dea. Ma per chiuderla con questa faccenda della prospettiva, vi dirò che io me ne sono servito nel solo modo accettabile: riducendola a un miraggio. E ora parliamo d'altro. Che ne -pensate di Piet Mondrian, l'olandese? 10 Con tutto il rispetto, Maestro, lo considero un grande pittore. Anzi, si direbbe che m'avete letto nel pensiero, stavo appunto pensando a Mondrian, al mondo euclideo che ha esplorato, dedicandogli una vita. Per arrivare, come certi antichi esploratori dell'Artico, all'essenza di due linee immaginarie che si incontrano in uno spazio inesistente. PAOLO Era un uomo di fede e voleva dimostrare l'esistenza di Dio attraverso la ragione. Ma non si dimostra l' esistenza di Dio rifiutando la natura. Mi hanno raccontato di lui che, ormai avanti negli anni, una giovane donna se ne innamorò e gli regalò un fiore. Egli osservò imbarazzato quel fiore e glielo restituì: non sapeva che farne; o meglio, veniva a turbare le sue teorie. Io ho amato tanto i fiori e gli animali che, non potendo tenerne in casa, li dipingevo, migliorandoli un po', atteso che anche i fiori vanno smascherati. E dipinsi animali sconosciuti, come il cammello, che ho fatto simile a un gran rospo con la gobba, per sentito dire. Io mi sarei trovato a mio agio nell'Arca del padre Noè. O nei giardini
IL TEMPO DIETRO IL TEMPO
dell'Eden. Oh, che dolce cosa la pittura! Quando i suoi pennelli erano finiti, inutilizzabili, Giorgio Morandi, il bolognese, non li buttava tra i rifiuti: li sotterrava nel suo orto, per mettere al riparo dalla corruzione anche i più· umili arnesi del suo lavoro; ché avevano partecipato al suo lavoro e dovevano mantenerne il segreto. Una volta, per controllare la sua ispirazione, uno sciocco gli chiese se era mai stato ali' estero. Rispose: «Sì, ma non ci ho mai dormito». Dissero del Doganiere Rousseau, il francese, che non era un semplice, un ingenuo, un impreparato mosso soltanto da un'innocua presunzione; ma che aveva ben studiato di nascosto i suoi mae- . stri al Louvre. Quindi anche me. Così di Paolo Uccello potranno dire: non era un melanconico geometra, ma aveva ben guardato le tele del Doganiere, di Morandi e di Mondrian; il che può essermi accaduto, poiché tra i pittori di una stessa specie, solitari, apparentemente fuori della società, in una parola portati alla perdizione (e dei quali il mondo si accorge un bel giorno che hanno lavorato, mentre gli altri pensavano), corrono le identiche informazioni: sono uniti da una medesima sublime certezza. Se dovessi esemplare la natura di queste informazioni insisterei su questo: che l'arte, come del resto la santità, è un modo di tenere i piedi saldamente poggiati sulle nuvole. La mia naiveté mi ha procurato anche la fugace menzione di precursore dell'odierno surrealismo. In verità l'arte è soltanto trascendenza del reale, non come gioco abile o disposizione assurda di oggetti, ma come soluzione del mistero. L'arte non è un nodo che si può tagliare, si deve sciogliere. E questo porta che ogni vero artista, ognuno nella sua misura, quando dipinge fa del surrealismo, propone un ordine che non esiste in natura. Ritorniamo alla Battaglia: io non voglio raggiungere nessuna commozione con mezzi drammatici, ma piuttosto suggerirne la possibilità con la presenza indissolubile di quei personaggi, che stanno si direbbe alla rinfusa, in realtà col rigore di una collocazione matematica, dove ogni elemento ha il suo significato e la sua eco. Parimenti: non chiedete alle bottiglie di Morandi di dirvi che cosa contenevano e perché stanno insieme; esse ora sono vuote e nemmeno recipienti, sono equazioni a un ballo mascherato, sempre pronte a imbarcarsi per Citera o per la Luna, dove il silenzio è incorruttibile. 10 Comincio a capire perché avete incluso il matematico Antonio Manetti nella tavola dove voi vi siete dipinto tra i fondatori dell'arte fiorentina, assieme a Giotto, Donatello e Brunelleschi.
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PAOLO Se mi chiedete perché volli includere Antonio Manetti tra quei sommi (io mi c'intrufolai con qualche vanità, come pittore· di animali e di prospettive), vi dirò che io la penso come Cantor, il quale scrisse quanto sia meraviglioso che il matematic_o possa nella sua immaginazione trascendere ogni limite. Da Manetti ho appreso che ogni vera opera di pittura contiene nella sua filigrana, come vi dicevo, una o più equazioni, risolte. E Morandi diceva: « Con la matematica, con la geometria, si spiega quasi tutto. Quasi tutto». Diceva anche (e questo vi riguarda): « La pittura non si spiega sempre con la letteratura». Giusto: c'è un punto in cui le spiegazioni sono varie, oppure in cui la pittura non si spiega che con altra pittura, come fa lo spagnolo, Picasso; il quale io dico che è un muto che tiene lezioni sulla pittura di molte epoche, facendone un commento e un riepilogo, prima della fine. (Direi che un certo tarlo della prospettiva rode anche questo pittore, una prospettiva, al contrario, incessante, in cui lo stesso oggetto viene rifiutato dal punto di fuga e quindi riproposto infinite volte. Egli non può smettere di dipingere e di disegnare, deve difendersi da questi oggetti che gli vengono lanciati dall'orizzonte come da una macchina guasta. E si difende fissandoli. lo invece disegnavo per trattenerli, ingabbiarli, infine per identificarli.) 10 Ma Donatello non approvava la vostra dedizione a questo studio di bottega. PAOLO Già. Mi rimproverava che la prospettiva mi facesse lasciare il certo per l'incerto, aggiungendo che serve a quelli che fanno le tarsie,