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Italian Pages 560 [501] Year 2023
In fuga da Hollywood, dal nascente maccartismo e dal fisco, Orson Welles aerrò a Roma nel 1947 e cercò subito di diventare italiano: cenò con Togliai, corteggiò Lea Padovani, recitò con Totò, progeò film con Scalera e De Laurentiis. Ma l’Italia non lo volle: i produori si rimangiavano le promesse, i critici più influenti lo denigravano, anche le donne lo piantavano in asso. Dei mille film progeati riuscì a girarne solo uno (però un capolavoro), Otello, dopo la lavorazione più pazza della storia del cinema. E nel 1953, dopo aver litigato con tui, ripartì. esto libro ricostruisce i sei anni dell’esilio italiano di Welles, un periodo controverso trascorso fra entusiasmi e incomprensioni, fio di episodi dimenticati o volutamente accantonati, in cui la personalità esuberante del regista, in perenne ebollizione creativa, fu soovalutata e avversata in modo sconcertante. Sullo sfondo, l’Italia e il cinema italiano nel loro momento più alto e avventuroso, fra l’avvio della Repubblica e la conclusione del neorealismo. Testo ormai classico della bibliografia wellesiana, Orson Welles in Italia torna in un’edizione interamente rivista e aggiornata, con nuove testimonianze e scoperte, fra cui la sceneggiatura dall’Enrico IV di Pirandello e una Salomé proposta a Peppino Amato. “Mentre a Hollywood Welles con opulenza di mezzi filmava l’opulenza, in Italia era con povertà estrema di mezzi che si filmava la povertà. Come farà a frequentare il verosimile colui che si è forgiato nell’inverosimile?” dalla Prefazione di Pupi Avati
Alberto Anile è il Conservatore della Cineteca Nazionale. Giornalista, critico e storico di cinema, scrive su “Repubblica”, “Bianco e Nero” e “Cabiria”. Fra i suoi libri, Operazione Gaopardo. Come Visconti trasformò un romanzo di “destra” in un successo di “sinistra” (con Maria Gabriella Giannice, 2013), Totalmente Totò. Vita e opere di un comico assoluto (2017), Dizionario del Cinema Immaginario. I film che esistono solo dentro i film (2019), Alberto Sordi (2020). La prima edizione di Orson Welles in Italia, uscita nel 2006, è stata tradoa negli USA da Indiana University Press nel 2013.
i Fari.
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Alberto Anile Orson Welles in Italia Nuova edizione ampliata Prefazione di Pupi Avati La nave di Teseo
L’Editore dichiara la propria disponibilità ad adempiere agli obblighi di legge verso gli eventuali aventi dirio delle immagini che non è stato possibile raggiungere. © 2023 Alberto Anile © 2023 La nave di Teseo editore, Milano ISBN 978-88-346-1521-8 Prima edizione 2006 Prima edizione digitale ampliata La nave di Teseo oobre 2023 est’opera è protea dalla Legge sul dirio d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Sommario
Prefazione in forma di leera di Pupi Avati Introduzione 1. L’arrivo Orson Welles: “Hollywood non insegna più nulla” 2. Una pizza con Togliai 3. Cagliostro 4. Dolce vita Franca Faldini: “Fu solo un flirtino ragazzino” 5. Il ciadino Kane 6. Orson vuol rifarsi una Rita 7. La caduta di Macbeth Alfredo Todisco: “Una cravaa con dedica” 8. Comincia Otello (e finisce un amore) 9. Le incertezze di Scalera 10. L’ultima Desdemona Alvaro Mancori: “Ogni tanto sparava: Traditori!” 11. Ulisse a Taormina 12. Uno Sporcacione nell’Anno Santo Mary Alcaide: “Di cosa poteva parlare un genio con una segretaria ignorante?” 13. Mascherate 14. Di acqua e di roccia
Tullio Kezich: “Un cineasta contromano” 15. L’ombra di Salomè 16. Orario bizantino 17. Partenze e ritorni Gian Luigi Rondi: “Ho cambiato idea solo su arto potere” 18. Welles & Rossellini Roberto Perpignani: “Un senso di colpa enorme” Note bibliografiche Crediti fotografici
Prefazione in forma di leera di Pupi Avati
La qualità più preziosa della poesia è l’essersi costruita da sola e aver portato con sé il poeta. Robert Lee Frost
Caro Anile, solo ora, avendo concluso la leura delle bozze di questo tuo testo, mi rendo conto della responsabilità che ho assunto acceando di redigerne una sorta di prefazione. Raramente, pur avendo alle spalle leure di infiniti libri di cinema, mi sono trovato fra le mani un testo di altreanto fascino. In cui il succedersi cronologico degli eventi ci dice di un Genio la sua quotidianità, le sue miserie e tuavia la pervicacia e soprauo il fulgore. Inutile soffermarsi su quanto sia stato pubblicato su Welles, opere agiografiche e no che ho diligentemente leo. E tuavia in nessuna ho trovato quell’Orson Welles nel suo difficile ruolo di essere umano, che tu ci restituisci in tue le sue declinazioni con una dovizia di particolari, con un’acribia tale da far supporre tempi biblici occorsi nel brivido della ricerca, fra emeroteche, biblioteche, cineteche e testimonianze di quei sopravvissuti indoi dalla tua curiosità a tornare a quell’Italia ormai remota e forse rimossa con troppa freolosità. Insomma questo tuo scrio è così esaustivo da rispondere alle più fantasiose curiosità, non lasciando a chi dovrebbe come me scriverne alcun pertugio per intervenire, se non in modo pretestuoso. Non credo di esagerare quando definisco questo libro, suggeritomi dal coltissimo Mario Sesti, come uno dei grandi
libri di cinema che nel corso dei miei tanti anni di smodata passione abbia avuto la gioia di leggere. Ricorrendo a Welles come a un novello Dante Alighieri, anch’egli come il sommo poeta nel mezzo della vita ci disvela quell’Italia dell’amicheeria romana, per dirla alla Fulvio Abbate, destinata a tradursi nel suo personale Inferno. ella sera del 9 novembre del 1947, gli occhi rivolti al cielo buissimo, sui margini della pista di aerraggio riservata ai voli privati dell’aeroporto di Ciampino, con il regista Gregory Ratoff, Linda Christian e un redaore del quotidiano “Espresso”, c’eri anche tu. Pur se qualunque considerazione anagrafica mi dissuada dal crederlo possibile, la sensazione che ho provato è che tu abbia veramente assistito, da un osservatorio segreto, a molti dei momenti che descrivi. Non considerandone alcuno ininfluente. Con il percorso novembrino di quell’auto, con destinazione il fantasmagorico hotel Excelsior, avente a bordo il wonder boy americano e il regista del suo prossimo film, tu ci riporti a quell’Italia culturale che non saprà dare il meglio di sé nel rapportarsi con il genio di Hollywood. anto Welles, nell’entrare in Roma percorrendo la Salaria, nell’incerta luce dei pochi lampioni in cui i segni del recente conflio si confondevano con lo sterminato parco di villa Savoia, abbia avvertito le avvisaglie di quel dileggio che gli riserverà la nostra intellighenzia, non è dato sapere. Intellighenzia che viveva ancora la rendita di quel neorealismo che aveva portato il cinema italiano nel mondo. ello straordinario neorealismo nato dall’urgenza di non disperdere le impietose testimonianze di quell’Italia della fame, della paura, del sopruso. Neorealismo a cui proprio la carenza di mezzi diede un apporto non secondario, offrendogli una comune cifra estetica. Mentre a Hollywood Welles con opulenza di mezzi filmava l’opulenza, in Italia era con povertà estrema di mezzi che si filmava la povertà. Come farà a frequentare il verosimile colui che si è forgiato nell’inverosimile?
Caro Alberto, sono naturalmente ammirato dall’ardire che hai manifestato nel meerti sulle tracce del cineasta più inesplicabile della grande storia del cinema, di colui che le diede il suo apice, ancora oggi, dopo oltre oant’anni, ineguagliabile. Al punto tale che dopo quel film, nessun regista cinematografico possa dirsi esentato dall’avvertirne una doverosa influenza. Tuavia Welles aveva cancellato i percorsi segreti che lo avevano portato, in una straordinaria congiuntura astrale e nello stato di grazia dei suoi sherpa, alla realizzazione di quell’opera. Come chi, in un eccesso di sicurezza, si disfa del manuale di istruzioni ritenendolo ormai superfluo. Precludendo anche a se stesso il ritorno a una vea di simile levatura. Impresa a cui tese per tua la sua vicenda umana. Non ci sarebbe più stato un altro film intriso di tanta cinematografia come Citizen Kane. Un film che si può guardare all’infinito nell’illusione che si trai di un’opera di tale perfezione da essersi faa da sola. Come la vera poesia. Già nell’Orgoglio degli Amberson, sua seconda prova, quanto si avverte l’assenza dello sceneggiatore Herman Mankiewicz, quella del direore della fotografia Gregg Toland e persino quella del produore John Houseman, suo sodale nella fantasmagorica stagione del Mercury? Emblematico di un essere umano di tale ambizione è il voler cancellare ogni traccia, ogni possibile rivendicazione di chicchessia su quello che sa essere il suo capolavoro e che gli garantirà in questa Italia, appena liberata dagli angloamericani e sia finanziariamente che culturalmente colonizzata, quell’accoglienza regale che si aende. Ma Citizen Kane non è ancora stato distribuito nel nostro paese e la notorietà Welles la deve soprauo al suo turbolento matrimonio con Rita Hayworth. La magica stagione del tuo possibile è ormai alle spalle, John Houseman dichiarò “noi tui eravamo convinti che avendo raggiunto il successo così presto, lo avrebbe perduto altreanto presto”. Molte quindi le ragioni di questa sua fuga in Italia. L’avvento della buissima stagione del Maccartismo. Il
disinteresse totale di quegli stessi studios che non gli perdonano l’aver abbandonato il suo secondo film (L’orgoglio degli Amberson) nelle mani di un montatore. L’aver mutato il look della strepitosa Rita Hayworth di Gilda in quello della sussiegosa Signora di Shanghai. L’aver abbandonato senza aver affrontato il montaggio quel Macbeth realizzato in 23 giorni con un budget irrisorio. Il non sapere come affrontare una pesante situazione debitoria con il fisco americano oltre alle spese scolastiche e agli assegni di mantenimento mai onorati per due figlie avute da Virginia Nicolson sposata a 19 anni e Rita Hayworth a 28, con relativi divorzi. Un insieme di ragioni sufficiente a far sì che l’ex wonder boy abbia acceato di interpretare in Italia quel conte di Cagliostro che il regista di origine russa Gregory Ratoff gli ha offerto. Cagliostro rappresenterà il grimaldello per fuggire da quella prigione che era diventata per lui l’America. In un presente in cui la gran parte dell’agire intelleuale viene affidato al soccorso della tecnologia, immaginare quanto la mente di Welles riuscisse simultaneamente a elaborare, nei suoi molteplici ruoli di regista, aore, sceneggiatore e produore, più progei e simultaneamente gestire una miscela di turbolenze affeive, inadempienze finanziarie e violazioni contrauali, può apparire inimmaginabile. Tuavia la genialità del nostro protagonista è anche in questo, nell’ostinarsi a pretendere, anche nelle condizioni più proibitive, di fare cinema. Da questa tua puntuale cronaca si desume, parafrasando ancora una volta l’ineffabile Frost, che il cinema per Orson Welles fosse una urgenza e non una professione. Uno strumento per disvelarsi araverso il mezzo espressivo più recalcitrante che esista. ello strumento fao di tecnica ma soprauo di conoscenza dell’essere umano, con la necessità di far convergere tecnica e infiniti mondi psicologici, in un solo sguardo. Alcuni deagli sul modo di girare di Welles, sulla sua puntigliosità nelle riprese o al montaggio, sui suoi rapporti con la sceneggiatura, aggiungono a questo testo quelle
informazioni che è così difficile trovare in libri di cinema. Rispondendo a quanto si desidera sapere di un regista di tale calibro. Alvaro Mancori, suo operatore di macchina, Roberto Perpignani, iniziato al montaggio dallo stesso Welles, rispondono a questa esigenza, e lo fa il direore della fotografia Oberdan Troiani con una definizione icastica: “Lavorai con tanti registi, anche con Visconti, ma dopo Welles tui gli altri mi sembravano delle schiappe.” Joseph Coen, che conobbi nei teatri De Paolis nel remoto 1972, in Italia per girare Gli orrori del Castello di Norimberga con Mario Bava, ci diceva di Welles: “Non ha mai un pensiero convenzionale e questo lo ha tenuto in vita. Ha una costante paura dei conformismi. Immagino che sarebbe stato sufficiente un granello di conformismo per distruggere il suo genio.” Alberto Anile narrando l’Orson Welles italiano ha anche narrato la storia di tui gli autori nel loro rapporto con l’esilio perenne, con quell’altrove, con quell’emarginazione, che sono la condizione necessaria al formarsi di una propria identità. indi va ringraziato e con lui l’editore che ha intuito quanto in ogni genio si occulti un insieme di lealtà e tradimento, di coraggio e codardia.
Introduzione
Ora vi prego: quando questa storia infelice voi riferirete dite di me qual sono, nulla aenuate, nulla esponete con malizia. Orson Welles in Otello
Dopo la prima edizione di questo libro mi arrivarono due leere. Leere vere, scrie su carta, ripiegate e chiuse in una busta affrancata. Una era amabile, l’altra un po’ meno. La prima era di Mary Alcaide, una soave signora che era stata segretaria personale di Welles dall’autunno del ’49 alla fine del ’50, sorpresa di vedersi citata in un libro che raccontava un pezzo di vita del suo master. Indirizzata in piena estate alla casa editrice, la missiva era stata smarrita, quindi ritrovata e rispedita al mio indirizzo; ci vollero in tuo cinque mesi ma alla fine mi arrivò, e potei conoscere una persona squisita oltre che una testimone preziosa. La seconda leera era del regista Giulio Petroni, infuriato perché non avevo menzionato il suo Tepepa, di cui Welles era stato protagonista nel ’69. Avrei voluto rispondergli che il libro si concentrava sul periodo in cui Welles cercò di vivere stabilmente in Italia, fra il ’48 e il ’53, ma i toni del miente erano talmente risentiti da sconsigliarmi ulteriori approcci. La ripubblicazione di Orson Welles in Italia mi offre la possibilità di includere queste due testimonianze. Le conversazioni che ho avuto in seguito con Mary Alcaide e le sue leere dal set di Otello mi hanno permesso di delineare in modo definitivo la cronologia della lavorazione più pazza della storia del cinema. E ho fao un accenno anche al film di
Petroni (pure lui purtroppo, come Mary Alcaide, passato nel fraempo a miglior vita). Rispeo all’edizione del Castoro (2006) e alla traduzione americana per Indiana University Press (2013), il libro presenta diverse altre novità: un’intervista a Roberto Perpignani, un approfondimento della figura di Michel Olian, un migliore inquadramento delle vicissitudini distributive di arto potere, e il ritrovamento di due sceneggiature: Salomè, che Welles probabilmente propose a Peppino Amato, riemersa fra le carte conservate dal nipote Giuseppe Pedersoli; e soprauo quella dall’Enrico IV di Pirandello; Emiliano Campagnola, il regista e aore che l’ha ritrovata, mi ha consentito di studiare e dar conto, per la prima volta, di quello che Welles considerava uno dei suoi script migliori. L’aggiornamento è stato anche un lavoro di riscriura; alcuni capitoli sono stati sdoppiati, un paio hanno cambiato titolo, diversi sono stati smontati e rimontati, tui comunque rilavorati, in qualche caso scrii ex novo. Ho molto aggiunto ma anche molto sfrondato, e pazienza se il testo originale aveva assunto una qualche notorietà fra i venticinque studiosi di Welles (resto perplesso quando l’autore di un saggio ripubblicato scrive cose del tipo “malgrado l’avanzamento delle scoperte e alcune ingenuità di stile, ho deciso di lasciare il testo identico a come apparve vent’anni fa, considerandolo il fruo di una precisa stagione culturale”, neanche si temesse di alterare le Sacre Scriure). In diciassee anni, fra l’altro, su Welles sono arrivate novità notevoli (in primis il ritrovamento di Too Much Johnson e il montaggio Netflix di e Other Side of the Wind), e la bibliografia internazionale si è arricchita di volumi eccellenti, o dei loro rispeivi aggiornamenti, dalla colossale biografia a puntate firmata da Simon Callow al lussureggiante Orson Welles au travail di Jean-Pierre Berthomé e François omas, dal fondamentale What Ever Happened To Orson Welles? di Joseph McBride al sito Wellesnet.com gestito con eroica abnegazione da Ray Kelly: ogni serio contributo su Welles e le sue opere, anche fuori dal periodo italiano, mi ha aiutato a
capire e in qualche caso a riconsiderare. Ma torniamo al contenuto di questo volume. L’esilio italiano di Welles è cominciato e si è concluso allo stesso modo: una fuga. All’inizio Orson scappò da Hollywood a Roma, per recitare in un film di cappa e spada; qualche anno dopo abbandonò un set sulla costiera amalfitana rimeendo la prua della sua vita sulla roa d’America. Da Cagliostro di Gregory Ratoff a L’uomo, la bestia e la virtù di Steno, dal 1947 al 1953: tra queste due date c’è il periodo più avventuroso e incerto della carriera di Welles, un continuo vagabondare per l’Italia (e la Francia, l’Inghilterra, la Germania, l’Africa) dopo aver perso, con La signora di Shanghai, la possibilità di conservare un posto in prima fila nell’Olimpo hollywoodiano: una cruciale manciata di anni in cui il regista coltivò le arruffate speranze di nuovi film portandone a termine uno solo; e intanto si consolidava una mitologia superficiale e sensazionalistica che lo voleva personaggio istrionico e inaendibile. Welles approdò in Italia in una fredda sera autunnale. Lasciandosi alle spalle un’America che non lo capiva più, veniva a cercare nuovi stimoli in un paese prostrato dalla miseria del dopoguerra, con cui aveva in comune l’orgoglio di chi cerca di rialzarsi. Fu subito idillio: Orson dichiarò di essersi fao adoare dalla Cià Eterna, prese casa a Frascati, strinse accordi con case di produzione piccole e grandi, fece la corte alle italiane. Definiva l’Italia “un paese adorabile”. Ma l’Italia non lo volle. Dopo qualche mese di curiosità, la bella società di via Veneto lo registrò fra “le delusioni del dopoguerra”, i produori si rimangiarono le promesse, i critici più influenti bollarono i suoi film come “presuntuose e orripilanti pasticciate”; perfino le donne, alla prospeiva di una fede nuziale, lo piantavano in asso. Fra alti e bassi, Welles fece base a Roma per sei anni. Poi si arrese e ripartì. Riuscì infine a sposare un’italiana, Paola Mori, ma negli anni successivi preferì abitare soprauo in Francia, in Spagna, in America; tornò in Italia saltuariamente, per girare pezzi dei suoi film, per guadagnare qualche lira facendo l’aore nei
caroselli o nella Ricoa di Pasolini, o perché la moglie aveva una comoda villea a Fregene. Seguitò a mantenere con il nostro paese un rapporto speciale, però più cinico e distaccato, senza ricadere nelle illusioni che avevano nutrito la sua porzione di vita fra l’autunno del ’47 e la primavera del ’53. Di tua la carriera di Welles, questi sei anni scarsi sono stati a lungo il periodo meno indagato. La gran parte delle biografie statunitensi se la cava meendo insieme alcune notizie sui film girati e qualche aneddoto, vivacizzati da gustosi svarioni nella grafia dei nomi italiani. Ma se una certa superficialità da parte degli esegeti americani può essere comprensibile, il silenzio di casa nostra era perlomeno sospeo: nessun connazionale aveva dedicato al Welles italiano un corposo studio o un’articolata ricostruzione storica. La causa va individuata in un vecchio complesso di colpa della nostra critica, quella più schematica e sacerdotale, che all’epoca fu con Welles prima ammirata, quindi indispeita, infine sprezzante fino all’insulto. Lo scontro toccò punte di perfidia e di meschinità che la gran parte dei protagonisti si è poi ben guardata dal rievocare, confidando nel fio velo di polvere che il tempo aveva cominciato a stendervi sopra. Nella vita inquieta ed errabonda di Welles, sei anni sono in effei un record di permanenza: difficile esser sicuri che il regista, se fosse stato accolto meglio, avrebbe scelto l’Italia come residenza definitiva. Ma di certo il clima ostile che lo circondò ridusse le possibilità di un soggiorno più lungo, consegnandolo all’adorazione dei francesi e all’accoglienza degli spagnoli. L’avversione della critica italiana nei confronti di Welles può vantare giusto due o tre aenuanti: la diffusione della pubblicistica americana aizzata da William Randolph Hearst, che aveva dipinto il cineasta con i trai rozzi dell’artista sovreccitato e dell’enfant prodige burlone; la sconcertante immagine pubblica dell’uomo, se non altro agli occhi di coloro che pretendevano da un autore cinematografico
abitudini monacali e sussiego da spirito eleo; e soprauo la fiera presa di posizione – tua ideologica – con cui la nostra critica sbandierava il neorealismo, mentre Welles proponeva il recupero della migliore tradizione formale unita alla più sfrenata libertà creativa. Nulla può comunque giustificare l’aeggiamento immaturo e provinciale di molti recensori di allora, né scusare la pervicacia con cui l’ostracismo al cineasta fu decretato, argomentato e prolungato nel tempo. Con quanta reciproca delusione e animosità, si vedrà nelle prossime pagine. Pur cercando di essere utile al leore specializzato, il libro rimane indirizzato anche in questa edizione a una platea quanto più ampia possibile. L’intento è ricostruire lo scontro fra l’esule Welles e il paese che rifiutò di accoglierlo, rievocando il contesto, le cause scatenanti e i motivi profondi, geando uno sguardo curioso sul privato e recuperando tappe ed episodi anche clamorosi (la cena con Togliai, la causa per diffamazione a un celebre critico, il progeo dall’Enrico IV di Pirandello) che il tempo aveva quasi del tuo cancellato. Un’aenzione particolare è stata reclamata da Otello, l’unico film italiano del regista, un’impresa che araversa e condiziona l’intero periodo. A fine volume si forniscono alcuni cenni sui ritorni di Welles in Italia dopo il ’53, e fra un capitolo e l’altro alcune interviste riportano ricordi e tranches de vie. Di fronte alla quantità di aneddoti sconosciuti o dimenticati raccolti nella prima edizione, un recensore concluse che questo libro avesse romanzato fai veri, inventando qua e là. Non era e non è così, in queste pagine non c’è nulla fruo di fantasia. Gran parte delle notizie, delle recensioni, delle dichiarazioni di Welles sono trae da quotidiani e seimanali coevi. La consultazione della stampa dell’epoca è stata fondamentale, nel recupero delle recensioni come della cronaca spicciola; sui piai di un’ipotetica bilancia, le critiche cinematografiche e il “colore” pesano uguale, mitizzazioni, pregiudizi e complessi di superiorità affliggono l’uno e l’altro campo, suggestionandosi a vicenda.
Alle fonti e ai libri citati in nota vanno aggiunte brevi notizie e noterelle disseminate fra “Film”, “Cinema”, “Fotogrammi”, “Hollywood”, “Cine illustrato”, “La Seimana Incom”, “Oggi” e “Tempo”, di cui sarebbe stato pedante riferire tue le volte a pie’ di pagina. Le ricerche principali sono state effeuate alla Biblioteca nazionale di Roma, alla Biblioteca Luigi Chiarini del Centro sperimentale di cinematografia di Roma, alla Biblioteca comunale Sormani di Milano e all’Archivio centrale di stato di Roma. Mi hanno inoltre generosamente fornito il loro aiuto Maria Paola Scollo dell’archivio del “Messaggero”, la Biblioteca Marciana di Venezia (un ringraziamento particolare a Mirco Toso), Luciana Spina della Biblioteca Mario Gromo del Museo del Cinema di Torino, Cesare Ballardini e Anna Fiaccarini della Biblioteca della Cineteca di Bologna, la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e il suo presidente Cristina Mondadori, il personale del Centro documentazione Mondadori di Segrate e quello, oggi non più esistente, di corso Europa a Milano. Alla Cineteca nazionale di Roma ho potuto studiare una splendida copia della versione italiana dell’Otello oltre ai cosiddei Othello Doubles, una selezione fra i 2000 metri di scarti ritrovati nel 1994 e risalenti alle riprese in Marocco del gennaio-marzo 1950. Nella ricognizione sulla critica italiana a Welles sono stati utili almeno tre studi, ricchi di informazioni ancorché (dichiaratamente) incompleti: Gaetano Strazzulla, Orson Welles e la critica italiana, “Inquadrature”, n. 12, Pavia autunno 1964, pp. 19-28; Guido Fink, Rapporto confidenziale su Orson Welles e la critica italiana, “Bianco e nero”, Roma gennaio-marzo 1986, pp. 6-29; Nuccio Lodato, Sciangai, Shangai, Shanghai. Welles e la critica italiana, in Toni D’Angela (a cura di), Nelle terre di Orson Welles, Falsopiano, Alessandria 2004, pp. 215-236. Pago un debito di gratitudine a Rosabella. La storia italiana di Orson Welles (1993) di Gianfranco Giagni e Ciro Giorgini, un documentario che, visto ormai molti anni fa a Viareggio e poi trasmesso da Fuori orario, mi fece scaare il desiderio di
scrivere questo libro, e di cercare le risposte ad alcuni dei molti interrogativi che poneva. Gli amici e colleghi che mi hanno dato una mano nelle ricerche, fornito materiali o elargito consigli per la prima edizione sono stati Giovanni Austoni, Roberta Avolio, Andrea Barzini, Jean-Pierre Berthomé, Paola Cogoi, Cristina D’Osualdo, Elena Dagrada, Angelo Draicchio, Fabio Ferzei, Goffredo Fofi, Tag Gallagher, Gianfranco Giagni, Ciro Giorgini, Alessandro Giorgio, Tullio Kezich, Mauro Marchesini, Francesco Marchei, Miguel Victor Morano, Paolo Piccioli, Pier Luigi Raffaelli, Simone Riberto, Tai Sanguineti, Ciro Scognamiglio, Daniele Terzoli, François omas, Sergio Toffei, Massimiliano Troiani, Micaela Veronesi. I testimoni che avevano acceato di rievocare eventi tanto lontani sono Franca Faldini, ancora Tullio Kezich, Gina Lollobrigida, Alvaro Mancori, Patrizia Mori, Giancarlo Nicotra, Gian Luigi Rondi, Gisella Sofio, Sergio Sollima, Alfredo Todisco e Oberdan Troiani, con il quale ho avuto solo l’occasione di un colloquio telefonico prima che andasse “dall’altra parte, a fare a Orson un occhio nero così”. Per questa edizione nuovi ringraziamenti vanno a Adriano Aprà, Emiliano Campagnola, Giuseppe Casarrubea, Steve Della Casa, Stefano Masi, Domenico Monei, Luca Pallanch, Giuseppe Pedersoli, Bernard Pfletschinger, Marco Vanelli, di nuovo a Jean-Pierre Berthomé e François omas, e, per le nuove interviste, a Mary Alcaide Brasini, Gabriella Baiti, Giulia Mafai, Roberto Perpignani e Piero Vivarelli. L’intervista a Mary Alcaide e gli stralci dalle sue leere alla madre sono già apparsi all’interno del mio saggio Mary and the Moor su “Film History” (vol. 27, issue n. 2, 2015, Bloomington, Indiana University Press, pp. 161-185), poi in italiano come Mary e il Moro su “Cabiria” (n. 180, Recco, maggio-agosto 2015, pp. 4-28). Un ringraziamento speciale a Pupi Avati e Mario Sesti, alla cui passione cinematografica si deve il varo di questa nuova edizione. E a Elisabea Sgarbi, che ha voluto accoglierla a bordo della Nave di Teseo.
Il libro è sempre dedicato a Maria Gabriella, la mia signora di Shanghai, la mia Dulcinea, la mia Desdemona. luglio 2023
1. L’arrivo
I’m in no hurry to have my flight pass… It’s like struggling up a mountain aer a rare flower and then, when you have it within your arm’s reach, realizing that happiness and satisfaction lies more in the finding than the plucking… It’s a shame to land with the night so clear and so much fuel in my tanks. Orson Welles nell’ultimo filmato da lui realizzato, e Spirit of Charles Lindbergh
Sulla Francia il tempo era stato magnifico, un chiaro sole autunnale aveva assicurato buona visibilità e stabilità perfea. Il volo da Londra procedeva nei tempi stabiliti. L’abitacolo del bimotore era occupato solo da due persone, Orson Welles e un pilota inglese dal volto imperscrutabile. I due sedevano accanto, ai posti di guida; dietro, la carlinga era zeppa di valigie. Il viaggio era lungo e noioso: l’americano ingannava il tempo guardando il panorama, leggendo un libro e, quando ce n’era bisogno, prendendo per qualche momento i comandi. Il clima peggiorò appena superate le Alpi. Il bimotore venne investito da densi banchi di nebbia; quando si sporse sul Mediterraneo, le nuvole lo inghioirono completamente. Il pilota cercò di mantenere la direzione sud/sud-est ma senza punti di riferimento perse l’orientamento; cominciò a girare in tondo, sperando di uscire almeno dalla foschia. Il contao radio sparì, confermando che il piccolo Consul era fuori roa.
Nel giro di poche ore ogni ragionevole previsione di aerraggio venne annullata, e una spia rossa si accese sui comandi: la riserva di carburante si stava esaurendo. Welles chiuse il suo libro e rivolse uno sguardo perplesso al pilota, che seguitò a mantenere un’espressione indecifrabile. La luce del giorno si affievolì, diventò rossa, sparì del tuo. Nel cielo appena sopra di loro, qualche stella appariva e spariva araverso le nubi. La benzina era quasi finita, e con essa la speranza di un aerraggio confortevole. La patetica immagine di un piccolo aereo che s’inabissa in mare, tra fumi, vapori e chiazze d’olio, si disegnò nella mente dei due viaggiatori. Guardarono giù e, nel buio più fio, videro aprirsi un tappeto di luci. “Temo che quella sia Roma,” disse il pilota, quasi a scusarsi della sua deduzione.1 All’epoca in cui lasciò l’America per venire in Italia, Orson Welles aveva trentadue anni e la fama di un talento già in disarmo. La sua partenza da Hollywood sembrò precipitosa, e l’assenza di dichiarazioni ufficiali sollevò una cortina di mistero. Welles – era chiaro – stava fuggendo, ma da cosa? Dalle critiche? Dalle invidie? Da William Randolph Hearst? Dalle troppe tasse? alcuno ha perfino insinuato che Welles fosse coinvolto nel caso “Black Dahlia”, l’omicidio dell’aspirante arice Elizabeth Short, avvenuto a Los Angeles alcuni mesi prima.2 Il motivo contingente del viaggio verso Roma era un ordinario film di cappa e spada, Cagliostro, da girare negli studi della Scalera Film, ma le ragioni profonde erano altre, artistiche e politiche insieme. Welles era sempre stato un devoto rooseveltiano, sostenitore convinto della linea sociale del New Deal. Non era mai entrato ufficialmente in politica, ma aveva fao propaganda aiva e scrio discorsi per il Presidente. Con lo stesso Roosevelt aveva un rapporto talmente cordiale da airarsi le ire della first lady, arrabbiata perché le sue
chiacchiere costringevano il Presidente a fare le ore piccole. Era anche stato sul punto di presentarsi alle elezioni per il senato: Roosevelt era pronto a sostenerlo, ma pare che i comunisti della California lo considerassero troppo poco di sinistra, e che avrebbe avuto poche chance di vincere anche nel suo stato natale. Avrebbero almeno potuto provarci; dalle urne del Wisconsin uscì eleo il repubblicano Joseph McCarthy, che con la sua fobia anticomunista avrebbe ribaezzato un’intera epoca. Pur non essendo iscrio ad alcun partito, agli occhi della società Welles era chiaramente un intelleuale di sinistra. A caraerizzarlo bastava l’aività teatrale, a partire dal cosiddeo Voodoo Macbeth (’36), una trasposizione della tragedia di Shakespeare nella Haiti tribale, interpretata in buona parte da afroamericani disoccupati; l’anno dopo, il regista aveva messo in scena e Cradle Will Rock, un’opera musicale a favore del movimento operaio, e un tetro Giulio Cesare in camicia nera, araverso il quale aveva preso posizione nei confronti del nazi-fascismo ancora prima che Hitler invadesse la Polonia.3 L’angoscia per la guerra ormai vicina aveva poi giocato un ruolo importante nella riuscita della Guerra dei mondi, una giocosa rielaborazione radiofonica del romanzo di H.G. Wells, che, diramata nel ’38 dai microfoni della CBS, aveva fao credere a mezza America di essere stata invasa da pericolosi marziani. Welles aveva quindi oenuto a venticinque anni il contrao più vantaggioso della storia del cinema, realizzando in piena libertà Citizen Kane e scontrandosi con il magnate Hearst, chiaro modello del personaggio protagonista. Fu lì che cominciarono i guai. Hearst mise in campo tuo il proprio potere, i giornalisti prezzolati, le conoscenze nel mondo cinematografico e teatrale. Cercò di bloccare la distribuzione del film e ordinò ai suoi redaori di stroncare Native Son, il lavoro teatrale che Welles aveva trao dal romanzo di Richard Wright, in cui un uomo nero uccide una donna bianca. I giornali di Hearst parlarono apertamente di propaganda vicina a Mosca, e l’accusa spinse l’FBI ad aprire
un fascicolo, accertando l’appartenenza di Welles a organizzazioni, fra cui il Negro Cultural Commiee e la League of American Writers, considerate di stampo comunista. James Naremore, che ha potuto consultare quel fascicolo, vi ha trovato pagine e pagine di rapporti ufficiali, leere delatorie e articoli di Hedda Hopper, la giornalista preferita di Hearst, che meono in rapporto l’opera teatrale e giornalistica di Welles con una supposta aività politica filorussa. “Il complesso delle prove indiziarie,” dice uno di questi rapporti, “porta alla conclusione che gli interessi di Orson Welles sono interamente legati a quelli del Partito comunista.”4 Hearst non riuscì a impedire che Citizen Kane uscisse, ma oenne che venisse distribuito poco e male, negandogli il successo e inaugurando i travagli cinematografici del cineasta. Ogni successiva esperienza di Welles, ogni sua nuova pellicola sarebbe stata toccata da problemi di produzione, dissidi in sala di montaggio, contrasti con i distributori. L’affronto più grave lo subì di lì a poco: mentre, su incarico del governo, tentava di realizzare in Sudamerica It’s All True, i produori gli rimontarono il secondo film, L’orgoglio degli Amberson, massacrandolo irrimediabilmente. Nessuno a Hollywood fu più disposto a finanziargli progei sofisticati o ambiziosi: Welles acceò di collaborare come regista e aore al freoloso Terrore sul Mar Nero, tentò la carta commerciale del noir, pur atipico, girando Lo straniero, e seguitò a professare le sue idee politiche. “Continuiamo a costruire i nostri bastioni contro il bolscevismo,” scrisse poco prima della fine della guerra sul “New York Post”. “L’ouso timore del comunismo funge da cortina fumogena per nascondere la reale minaccia del rinascente fascismo.”5 Prese posizione a favore di Isaac Woodard, afroamericano selvaggiamente picchiato dai polizioi bianchi di BatesburgLeesville, nella Carolina del Sud, e J. Edgar Hoover diede ordine di schedarlo nel Security Index dell’FBI come possibile minaccia antiamericana.
Lo straordinario autore di Citizen Kane si avviò a diventare un artista marginale; provò ad aggirare le diffidenze degli studios dirigendo la diva (e consorte) Rita Hayworth in La signora di Shanghai; girò quindi il suo primo film trao da Shakespeare, un Macbeth prodoo dalla piccola Republic e ripreso in soli ventitré giorni, nell’estate di quel cruciale 1947. Roosevelt non c’era più, e il nuovo Presidente, Harry Truman, aveva ingaggiato una baaglia ideologica contro Stalin, dando praticamente inizio alla guerra fredda. Assaliti da un violento aacco di febbre antibolscevica, i repubblicani e l’ala conservatrice dei democratici misero soo pressione gli ambienti culturali, dove le simpatie per l’ideologia comunista non erano un mistero per nessuno, esercitando la “caccia al rosso” in modo speacolare. Partita a maggio, l’inchiesta aveva l’obieivo di liberare il cinema americano dai “sovversivi”, e a seembre la Commissione per le aività antiamericane aveva già incriminato quarantuno personaggi di Hollywood; l’accusato più illustre era l’inglese Charles Chaplin, messo in croce in seguito all’uscita di Monsieur Verdoux, nato “da un’idea di Orson Welles”. Poi le udienze divennero pubbliche, e a Washington un gruppo di testimoni “amichevoli” cominciò a fare i nomi di decine di comunisti o presunti tali. Poco importava se gli imputati fossero iscrii a un partito di sinistra o avessero semplicemente idee progressiste: per la commissione, il cui vero scopo era esercitare un feroce controllo sul mondo culturale, si traava in ogni caso di comunisti da espellere dall’industria. Chi entrava nel mirino della commissione rischiava di non lavorare più nel cinema, ma in gioco c’era anche una vera e propria rinuncia alle libertà costituzionali di pensiero e di parola. Perciò diversi si rifiutarono di cooperare; John Huston, William Wyler e Philip Dunne fondarono un Comitato per il Primo emendamento, organizzando strategie di difesa colleiva, facendo pubblici appelli contro i metodi e gli obieivi delle udienze. Uno di questi appelli venne firmato da Rita Hayworth; lo stesso Welles, a fine oobre, partecipò a un paio di riunioni del comitato, mentre l’aore Frank Fay lo definiva, sul “Denver Post”, “rosso come un mortareo”.
Nel fraempo la cosa più consistente che gli agenti dell’FBI avevano scoperto sul conto di Welles era una scappatella extraconiugale con una procace ballerina di strip-tease. Alla notizia della sua partecipazione ai lavori del comitato, gli uomini di Hoover cercarono di andare un po’ più a fondo e, mentre dall’altra parte dell’America Gary Cooper raccontava di aver rifiutato alcuni copioni perché “tinti di rosso”, alcuni membri californiani della Commissione per le aività antiamericane si presentarono alla porta di Welles, decisi a inchiodarlo con la fatidica domanda: era o non era comunista? Welles aprì la porta, ascoltò, e rispose con un’altra domanda: “Come definireste un comunista?” “alcuno che prende tui i tuoi soldi e li dà al governo,” dissero i burocrati. “Allora il fisco americano deve essere comunista all’87 per cento,” concluse Welles citando l’aliquota allora in vigore.6 Con l’ufficio delle imposte il regista aveva un conto aperto, anche piuosto consistente. Dopo il fiasco di Around the World in 80 Days, il gigantesco musical messo in scena nel 1946, si era ritrovato con almeno 320.000 dollari (qualcuno dice 375.000) di debito: insensibile ai rovesci della fortuna artistica, il fisco pretendeva ora il pagamento di tasse che Welles non era in grado di corrispondere, il che gli sarebbe costato di lì a poco pure un’ammenda supplementare. Welles cominciò ad accarezzare l’idea di espatriare in Europa. Fra i possibili progei c’era un Moby Dick in versione oratorio, commissionato a Londra dalla San Francisco eater Association, ma soprauo due film, un Cyrano di Bergerac da girare in Francia per la produzione di Alexander Korda, e un Cagliostro che Gregory Ratoff avrebbe direo negli studi romani della Scalera. (“Erano anni,” racconterà Welles a Peter Bogdanovich, “che Ratoff mi dava la caccia per tua la Fox dicendo: ‘Cagliostro! Pensaci! Spadaccino! Amatore! Mago!’”)7 Welles provò a meere insieme i due progei: interpretare il film di Ratoff gli avrebbe ripagato l’espatrio, e magari a Roma avrebbe potuto realizzare anche il film da Rostand,
convogliando nell’impresa i migliori elementi francesi e italiani a disposizione. Nell’agosto del ’47 volò in incognito fino a La Colle-sur-Loup, nella casa di Marcel Pagnol in Costa Azzurra, dove incontrò Alexander Korda e dichiarò ai giornalisti che il suo prossimo film sarebbe stato Cyrano.8 ella stessa estate fu visto arrivare in auto con un dirigente della Scalera fino a Cremolino, il paesino piemontese dove il grande Ubaldo Arata era in vacanza con la famiglia. “Orson Welles,” spiegò il dirigente ad Arata, “è venuto personalmente a conoscere l’operatore di Roma cià aperta, che stima moltissimo e che desidera avere come direore della fotografia del suo nuovo film, Cagliostro.” Provato da vari problemi di salute, Arata rifiutò più volte finché il dirigente, inginocchiatosi a terra, lo supplicò: “Se non ci salvi tu la Scalera chiude.” Lo sventurato disse di sì, e l’auto della Scalera ripartì sollevando un nuvolone di polvere.9 Intanto in America la “caccia alle streghe” si faceva di giorno in giorno più drammatica. Le udienze pubbliche si chiusero il 30 oobre, dopo che alcuni imputati, i cosiddei “Dieci di Hollywood”, si erano rifiutati di fare ammissioni sulle proprie convinzioni politiche finendo così incriminati per oltraggio al Congresso. Spaventate, le major cinematografiche si allinearono al clima generale di conformismo. Mentre isolavano e licenziavano i lavoratori “comunisti”, si preparavano a meere al bando temi scomodi e approcci poco tradizionali per dedicarsi alla stolida celebrazione dell’american way of life. Di lì a poco, molti cineasti presero il volo verso l’Europa: John Huston in Irlanda, Jules Dassin, John Berry e Ben Barzman in Francia, Edward Dmytryk, Joseph Losey, Cyril Endfield, Carl Foreman e Sam Wanamaker in Inghilterra. Anche Welles si preparò a trasferirsi in un continente in cui sperava di poter ricominciare alle proprie regole. La sua situazione non era critica come quella di altri registi, compromessi più seriamente con organizzazioni politiche o semplicemente perseguitati in modo più evidente dalle commissioni governative; ma proprio per questo la sua scelta
suonò come uno schiaffo al sistema cinematografico e alla politica artistica della sua patria. Charlie Chaplin, che qualche anno dopo sarebbe stato costreo dal “maccartismo” a rifugiarsi in Svizzera, fu il primo a contrapporre la figura di un Welles indipendente e ribelle allo strapotere delle grandi case americane. All’epoca della partenza del collega verso l’Italia, dichiarò senza esitazioni: “Hollywood sta morendo. In essa non si produce più del cinema, concepito soo gli auspici dell’arte, ma vi si impressionano chilometri di pellicola. Aggiungo che è divenuto ormai impossibile di penetrare nel regno della cosiddea seima arte a chiunque rifiuti di divenire conformista o a chiunque osi, conquistandosi magari la nomea di ‘avventuriero’, sfidare gli avvertimenti dei trusts cinematografici. Non intendo qui perorare la mia causa. Ma esaminiamo se volete quella di Orson Welles. Pur non condividendo del tuo i suoi concei sulla cinematografia, sta di fao che il destino di quest’uomo sta chiuso in quel ‘no’ ch’egli si è permesso di dire ai suoi illustri magnati: per cui egli può dirsi virtualmente distruo per Hollywood.”10 È così, Welles scappava. Scappava da un’America che non era più in grado di offrirgli le opportunità creative che bramava, da una Hollywood che non era più disposta a dargli credito né artistico né – tantomeno – economico, mentre Hearst, a bracceo con la paranoia antisovietica del governo, faceva il possibile per rendergli la vita difficile. Le lusinghe di Cagliostro e i problemi fiscali non avrebbero contato molto in un paese più tollerante e aperto; ma l’America di Truman e di Hoover, in cui i migliori cervelli cinematografici venivano umiliati e messi al bando a fini politici, non era disposta a dare carta bianca a un genio irriverente che aveva osato costruire il film di debuo sul magnate più ricco e potente d’America. Lo stesso Hearst scese in campo personalmente, dichiarando al “Los Angeles Examiner” che “l’industria del cinema è infestata dai comunisti”. Era il 3 novembre: forse il giorno stesso, Welles salì su un aereo e si alzò in volo, prima
che La signora di Shanghai giungesse in sala, prima ancora di iniziare il montaggio del Macbeth. Fece una prima tappa a New York, e di lì partì poi per l’Irlanda in compagnia di Barbara Laage, suo flirt dell’epoca. Da Dublino si spostò a Londra, dove salì su un bimotore Consul noleggiato insieme al pilota, destinazione Roma. In Italia, ai più il cineasta era praticamente sconosciuto. Orson Welles: chi è, aveva titolato emblematicamente un paio di mesi prima la rivista teatrale “Dramma”: Gigi Cane aveva definito Welles un “terrorista intelleuale”, giudicando il Voodoo Macbeth una “sparata in minore” e dedicando il resto del pezzo al clamoroso caso radiofonico della Guerra dei mondi.11 Presso il grande pubblico, l’unico film per cui Welles aveva guadagnato un minimo di popolarità era La porta proibita di Robert Stevenson, in cui aveva interpretato il marito di Jane Eyre. Citizen Kane non era ancora arrivato nelle nostre sale: i critici cinematografici (non tui, i più aenti o fortunati) avevano potuto assistere solo a due altri suoi film, L’orgoglio degli Amberson e Lo straniero. L’orgoglio degli Amberson era stato distribuito nel ’46 in venti copie, in un periodo non esaamente favorevole, la seconda metà di agosto.12 A Roma era uscito all’Imperiale e al Supercinema, abbinato a un documentario MGM sulla seconda esplosione nucleare a Bikini; era rimasto in cartellone da mercoledì 21 a domenica 25 agosto, ed era poi passato in seconda visione al cinema Aualità fino a mercoledì 28: in totale, una seimana. Una seimana lo aveva programmato pure il Corso di Milano, da sabato 24 a venerdì 30 agosto, sempre in abbinamento con il documentario atomico. Le recensioni erano state perlopiù positive, spesso lusinghiere. Un anonimo giornalista del “Corriere della Sera” l’aveva definita “opera pesante, ma aentamente curata […] specie nella ricostruzione degli ambienti fine Oocento, e recitata con stile e nobiltà”.13 L’altreanto sconosciuto vicecritico del “Messaggero” era rimasto affascinato dal linguaggio “essenziale e significativo”, “soffuso di malinconia e di rimpianto”, in cui la recitazione, “d’una rara misura e
delicatezza, […] ben si armonizza con l’equilibrio generale dell’oimo lavoro”.14 Il conte Fabrizio Sarazani, recensore del “Tempo”, si era lasciato abbagliare dalle scenografie (“la cornice del film è quanto di più bello si possa immaginare”), riconoscendo l’impao estetico dell’opera: “la così dea preziosità prospeiva di molte inquadrature, e il gioco obliquo di taluni preziosi fotogrammi sono sempre al servizio dei personaggi e dei loro caraeri”.15 Perfino il Centro caolico cinematografico aveva parlato di “costante ricerca di uno stile visivo”, di “regia di prim’ordine”, di “classe notevole”. Né si può dire che il film fosse dispiaciuto al pubblico pagante. In una leera inviata alla rivista “Hollywood”, un leore lo definisce “un film notevole, che esce dalla normalità e lascia perciò sbalordito lo speatore ormai abituato alla produzione standardizzata di Hollywood”.16 In quei giorni la grande sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico cominciò a impadronirsi del mestiere andandolo a vedere e rivedere per studiarne la struura.17 Nel coro sostanzialmente ammirato, aveva stonato solo la voce di Umberto Barbaro su “l’Unità”, l’organo ufficiale del Partito comunista italiano. Barbaro è stato uno dei più importanti e prestigiosi teorici italiani di cinema, giornalista, sceneggiatore e regista lui stesso. Grande sostenitore del neorealismo, da fervido marxista loò contro l’esorbitante potere dell’industria cinematografica statunitense: la sua voce era ben conosciuta e ascoltata in Italia da chiunque presumesse di sapere qualcosa sulla seima arte. Bene: recensendo L’orgoglio degli Amberson, Barbaro si era subito preoccupato di segnalare ai leori la fama clamorosa che accompagnava il regista in America: “nel mondo sempre più sconsolatamente conformistico di Hollywood [Welles] appare come una personalità, non certo eccezionale, come si vuol far credere, ma per lo meno eccentrica”. Secondo Barbaro, a giudicare dal film appena distribuito “non c’è da gridare al miracolo”; nella sua recensione, accosta L’orgoglio degli Amberson ai “calligrafici” film Lux di Soldati e Castellani, stigmatizzando un eccesso di preoccupazione estetica e la conseguente mancanza di “impegno”. “Scenografia, costume,
fotografia,” scrive Barbaro, “sono ricercatissimi è vero, ma appaiono di una belluria pacchiana priva di qualsiasi evidenza significativa e insomma più costosa che anche solamente elegante. […] La trama, che pure si prestava a considerazioni storiche e sociali interessanti […] qui è solo storia di individui ed anche senza mai un trao psicologico di qualche finezza. La morale che, stentatamente, si cava dal film è una stracca e svogliata esaltazione della borghesia capitalistica.”18 L’approccio del recensore è pesantemente ideologico, e il giudizio è infai opposto a quelli espressi da quotidiani politicamente agli antipodi, come “Il Tempo” e “Il Messaggero”. Eppure le conclusioni di Barbaro appaiono discutibili anche dal punto di vista politico: il film fotografa semmai la decadenza di una famiglia borghese, raccontando gli effei negativi dell’industrializzazione sul tessuto sociale. Le conseguenze di questa prima stroncatura italiana sarebbero state comunque notevoli: con il suo giudizio negativo, Barbaro aveva deato la linea critica che avrebbe accompagnato Welles per decenni. Esaamente un anno dopo, la Mostra di Venezia aveva portato in Italia Lo straniero, film notevole ma fra i meno felici del regista americano. Paragonata alla malinconica compostezza dell’Orgoglio, l’inquietudine umana e visiva dello Straniero aveva spiazzato un po’ tui, e parecchi recensori avevano avuto buon gioco a dichiarare ingiustificata la fama del talento eccezionale. “Noi Italiani non sappiamo gran che su questo artista esplosivo,” aveva scrio Lanocita sul “Corriere”, “che da qualche anno sgomenta l’America. […] Ogni sua manifestazione d’arte ha la violenza e il fragore di uno scoppio. Anche questa pellicola, come le altre di Welles, è una pellicola col detonatore”.19 Anche se “non mancano le cose buone”, su “Sipario” Guido Aristarco aveva rilevato nel film soprauo “una narrazione concitata faa con stacchi improvvisi, con inquadrature stravaganti, con abbondanti e non sempre giustificati primi e primissimi piani di uomini e di cose”.20 Violentissimo, Adriano Baracco, direore di “Cinema”, era arrivato a scrivere: “Non si riesce a capire se il ‘wonder boy’ sia peggior
aore o peggior regista […]. È evidente l’intenzione di stupire, ma il regista riesce a farlo soltanto per la sua notevole incapacità di usare il mezzo di espressione cinematografica.”21 Fino al suo arrivo a Roma, comunque, i film di Welles interessavano solo esigui gruppi di cinefili e di giornalisti. “Vergognosamente,” avrebbe ricordato Federico Fellini molti anni dopo, “non ho mai visto arto potere, e nemmeno Otello; ho visto un pezzeino di La signora di Shanghai, ma perché c’era la Rita Hayworth che mi piaceva tanto, e anche il fao che Gilda fosse stata sua moglie mi rese Orson Welles ancora più simpatico. Ecco, L’orgoglio degli Amberson credo sia l’unico film che ho visto e mi piacque senza riserve.”22 esta era la situazione italiana: Orson Welles era conosciuto a malapena come l’autore di un solo buon film e come il burlone radiofonico che aveva parlato di marziani. Per le masse, Orson era soprauo il marito di Rita Hayworth, un uomo robusto con il volto da bambino che si era aggiudicato la bellezza più esplosiva del momento; senza meritarsela, evidentemente, viste le voci di un imminente divorzio. Era il 9 novembre 1947, domenica. All’aeroporto di Ciampino, l’aerraggio di Welles era aeso con apprensione da un piccolo drappello: il regista Gregory Ratoff, sua moglie, il direore di produzione Charles Moses, l’arice Linda Christian, un dirigente della pubblicità di Cagliostro, un fotografo e un redaore del quotidiano “Espresso”.23 L’orario d’arrivo era previsto per le 15: due ore dopo, tuo quello che si sapeva è che l’aereo aveva incontrato problemi di maltempo. Linda Christian e Mrs Ratoff tornarono a Roma mentre in aeroporto si sussurrava che quel viaggio disgraziato fosse costato a Welles almeno 250 sterline. Il bimotore aerrò a Ciampino alle nove di sera, sei ore più tardi del previsto, con il serbatoio ormai vuoto. Welles sbucò dal velivolo con lo sguardo accigliato e gli occhi rossi. L’aspeo di un uomo stanchissimo, sveglio da ore, era bilanciato da una certa eleganza: indossava un abito blu e una cravaa dello stesso colore, un soprabito noce moscata e
scarpe nere lucide. Aveva un cappello, nero, ma lo teneva in mano, lasciando libera una chioma scarmigliata. “Senza barba e senza baffi ha un aspeo molto più giovanile,” annotò perplesso il giornalista di “Espresso”, “ma non era presente nemmeno una ragazza, per cui non sappiamo se piaccia alle donne.” Gli inservienti e i doganieri estrassero dalla carlinga oo valigie in pelle, e intanto il cronista si fece soo con le prime domande. Malgrado la stanchezza, Welles rilasciò brevi dichiarazioni entusiastiche sui nostri film del dopoguerra, e annunciò che Alida Valli stava diventando negli USA una stella di grido; riguardo ai processi politici a Hollywood, disse che lo scandalo era ormai terminato ma che non sapeva se ci sarebbero stati degli strascichi. Opinioni politiche? No comment. E l’idea di girare un film sulla vita di Mussolini? Welles deve aver sgranato gli occhi: mai avuto intenzione di girare un film sul diatore italiano. In quanto al divorzio da Rita Hayworth e ad altri futuri matrimoni, no comment e no comment. Un aimo prima di salire in macchina con Ratoff, Welles si scusò e tornò indietro. Rientrò nell’aereo, frugò in cabina e riapparve tenendo soobraccio il libro che gli aveva fao compagnia durante il viaggio, In e Steps of St. Paul di H.V. Morton. Henry Vollam Morton era un inglese di Manchester, nato in quell’altro secolo. Aveva guadagnato una certa fama annunciando per primo la scoperta della tomba di Tutankhamon, e aveva scrio diversi libri di viaggi e di storia, ristampati anche oggi. In e Steps of St. Paul, il libro che accompagnò Welles verso Roma, è una ricostruzione geografica, storica e culturale del viaggio di san Paolo araverso Israele, Grecia e Italia usando la Bibbia come guida, un colto itinerario di carta verso il caolicesimo e la nostra penisola, perfeo per un esule che voleva accostarsi a una nuova patria: “sulle orme di san Paolo”, Welles ripudiava la religione hollywoodiana per andare a predicare un nuovo
credo d’artista in Europa, e anche lui avrebbe potuto dire “civis romanus sum” prima di finire martirizzato. Dall’aeroporto di Ciampino, Welles fu portato all’Excelsior, il più famoso albergo di via Veneto. Nel questionario che, come a qualunque altro cliente, gli porsero all’arrivo, accanto alla domanda “razza?” scrisse serenamente “negra”. Il giorno dopo, incontrò a colazione il giornalista Luigi Barzini jr., già direore del “Corriere d’America”, e l’aore Tullio Carminati, che aveva trascorso gli anni trenta negli Stati Uniti. Raccontò loro la disavventura del bimotore in riserva, giurando di non aver mai temuto per l’incolumità propria e del pilota: “Sembrava assolutamente illogico che io dovessi morire inabissandomi nel Mediterraneo accanto a quello sconosciuto, in un apparecchio da noleggio, […] quando sto per tuffarmi in nuovi mondi, nuove esperienze. Voglio fare un film su Cyrano de Bergerac, con sir Alexander Korda, in primavera, a Roma. Vorrei fare dei film italiani, con gli italiani, vorrei scrivere commedie, ho un libro in testa. No. La morte viene a tui debitamente inscenata, ognuno ha la morte che merita, che si è preparato nella sua vita. ella, l’ho visto subito, non era la mia morte. Era troppo banale. Era insignificante. Era inutile.”24 Welles era troppo oimista e gonfio di idee per leggere infausti presagi nella rischiosa trasvolata verso l’Italia. Organizzò quindi immediatamente la sua nuova corte, assicurandosi i buoni uffici di tre italiani che conoscevano l’inglese e che avrebbero potuto aiutarlo a districarsi nel nuovo mondo: Barzini diventò il suo ufficio stampa, Carminati ebbe il titolo di suo rappresentante, e un altro aore, Antonio Centa, quello di segretario particolare. A parte “Espresso”, nessun quotidiano segnalò tempestivamente l’arrivo del regista. Nei nostri cinema era il momento di Tyrone Power, che trionfava in sala con due delle sue più celebri interpretazioni, Il filo del rasoio e Sangue e arena; sbarcato anche lui a Roma, se ne era ripartito proprio
alla vigilia dell’arrivo imparagonabile.
di
Welles,
con
un
clamore
Un ostacolo obieivo fu il giorno dell’aerraggio, domenica (alcuni quotidiani non uscivano di lunedì), e l’orario serale, piuosto tardivo per inserire un pezzo di colore. Il primo quotidiano importante che diffuse la notizia dell’arrivo di Welles fu, due giorni dopo, “l’Unità”, probabilmente airata dalla fama di filocomunismo che il cineasta si portava dietro; ma la scarsa popolarità del personaggio fece incorrere in un buffo equivoco i tipografi, che nella prima edizione pubblicarono la notizia soo la foto del vincitore del concorso “Bambino Bello 1947”, mentre la pubblicità della gara di bellezza infantile veniva illustrata con il profilo del paffuto regista. “Il Messaggero” invece, che teneva bordone a De Gasperi, non mollò per l’avvenimento neanche una riga, e non mandò nessuno nemmeno alla conferenza stampa, organizzata all’Excelsior pochi giorni dopo. Osvaldo Scaccia della Scalera Film e Luigi Barzini jr. fissarono l’appuntamento per il pomeriggio del 12 novembre: l’aore e regista americano Orson Welles intendeva incontrare la stampa italiana per annunciare la sua partecipazione al film Cagliostro e parlare di altri progei. Il gruppo di giornalisti accorsi all’avvenimento comprendeva, fra gli altri, Gian Luigi Rondi, giovane critico cinematografico del “Tempo”, e Sergio Sollima, il futuro regista del Sandokan televisivo, allora collaboratore dell’“Unità”. Fra le poche donne presenti, Doriana Danton del seimanale “Hollywood”. Le foto dell’epoca ritraggono Welles con una giacca grigio ferro a tre booni, larga e un po’ troppo da sera, ravvivata da un grosso garofano bianco all’occhiello, i pantaloni neri rigati, i polsini inamidati chiusi da un paio di vistosi gemelli d’oro con la sua sigla. “Vestito forse bene per un americano,” scrisse la Danton, “ma malissimo per un italiano.” I presenti si resero però anche conto che in quei tre giorni l’aore si era impegnato ad aderire fisicamente al nuovo
personaggio da interpretare. Nel film, Cagliostro viene allevato dagli zingari e perciò Welles si era fao crescere un’ombra di baffei alla Errol Flynn e tirato all’indietro i capelli, piuosto lunghi, facendosi crollare sulla fronte un grappolo di ricci. Poche formalità. Dopo le presentazioni di rito e un breve annuncio sul film in lavorazione, i giornalisti si disposero a semicerchio intorno a Welles e a Barzini, che faceva da interprete. Cominciarono le domande. Welles rispose a tui con precisione e intelligenza, raccontò le sue speranze e i suoi progei, si sbilanciò anche sulla politica americana. Parlava a scai, roteando un paio di mani da cui i presenti si lasciarono impressionare, mani “nodose”, “da prestigiatore”, “espressive quanto le parole”, mani che “incutono un certo timore”. Sollima, sessant’anni dopo, ricorda che “in realtà i giornalisti che si trovavano lì non sapevano quasi niente di Orson Welles, tua l’intervista era su Rita Hayworth, da cui allora si stava separando. Pure Orson si scocciava, difai a un certo punto disse ‘ma perché non parliamo anche di cinema?’ Lo presi in parola. Io avevo già visto Citizen Kane, non mi era spiaciuto ma non ero neanche svenuto; ogni inquadratura è strana, bizzarra, in certi momenti anziché seguire la storia guardi il film domandandoti quale sarà la prossima novità. Gli domandai se non riteneva di essere un regista un po’ compiaciuto: una domandina maligna, faa da uno che sapeva vagamente cosa fosse il cinema. Lui mi rispose con un sorriso ambiguo”.25
Luigi Barzini jr. fa da interprete a Orson Welles alla conferenza stampa del 12 novembre 1947.
In effei non tue le domande riuscirono gradite a Welles, soprauo se si parlava di divorzio; qualcuno lo definì “impetuoso e anche un tantino permaloso”; con la Danton, che insisteva a chiedergli dei suoi rapporti con Rita Hayworth, perse decisamente le staffe. Ma per gran parte dell’incontro si mostrò disponibile e spiritoso, e fece risuonare più volte la sua inconfondibile risata. A fine incontro il gruppo di giornalisti si era trasformato in un drappello di ammiratori. “Welles è un uomo di intelligenza evidentissima e dotato di grande comunicativa,” scrisse Sollima, “la sua conversazione si mantiene sempre su un livello di cultura e di gusto non comune.” Cecchi di “Film” definì l’incontro “la prima vera, interessante, conferenza stampa avuta con un aore straniero da quando questi stanno rivarcando le nostre frontiere”. Rondi osservò: “Si ha finalmente l’impressione di avere a che fare con una persona intelligente e le domande per meerlo alla prova non gli sono certo mancate […]: a tue Orson Welles ha risposto con precisione, con umorismo, con calma, senza perdere mai il
filo, senza esitare né pensarci su un momento, ‘come se si fosse preparato prima’ ha deo un collega.” “Finita la conferenza,” aggiunge ancora Sollima, “Welles mi chiama. Adesso arriva il cazzoo, mi dico. E invece mi abbraccia: ‘meno male,’ dice, ‘ecco uno che mi ha parlato di una cosa intelligente.’ E pensando che fossi un fedelissimo dell’‘Unità’, mi chiese se potevo combinargli un appuntamento con Palmiro Togliai. Fui costreo a dirgli la verità: a quella conferenza stampa avrebbe dovuto venire Luciano Lucignani, un caro amico, che allora era il critico teatrale ufficiale del giornale; a me Welles interessava, avevo chiesto di andare al posto di Lucignani e lui aveva acconsentito. Io, che dell’‘Unità’ ero appena un collaboratore, Togliai lo conoscevo solo come uomo politico; però, dissi a Welles, potevo riferire a chi di dovere. E infai lo riferii a Lucignani, che probabilmente ne parlò al direore, all’epoca Pietro Ingrao. Cosa successe poi non so.” Ma noi sì.
Orson Welles: “Hollywood non insegna più nulla” Roma, 12 novembre 1947 La prima conferenza stampa di Orson Welles in Italia si tenne all’Hotel Excelsior, in via Veneto, alla presenza di Osvaldo Scaccia, capo ufficio stampa della Scalera Film, e del giornalista Luigi Barzini jr., in veste d’interprete. La buona partecipazione dei giornalisti assicurò all’avvenimento una discreta copertura. Ecco un’aendibile ricostruzione delle domande dei giornalisti e delle risposte di Welles, oenuta confrontando i principali articoli dell’epoca.1 Sono venuto a Roma per interpretare il conte Cagliostro, che è uno dei personaggi a me più cari, perché mi sento un poco Cagliostro. Il personaggio mi è sempre piaciuto enormemente anche perché un tempo ero anch’io un abile prestigiatore e un bravissimo ipnotizzatore. Arrivo in Italia dopo aver finito un Macbeth nel quale ho buato tue le mie migliori idee: un film di cui sono soddisfaissimo e che ho voluto tenere su toni irreali e fantastici. Ma sono qui a Roma anche per osservare, come giornalista, la vostra vita politica; ho infai intenzione di avvicinare nei prossimi giorni le maggiori personalità del vostro mondo politico, De Gasperi, Togliai, Saragat e Giannini. Infine vorrei avere dei contai con esponenti della vostra industria cinematografica, ed esaminare la possibilità di girare qualche film nel vostro paese. WELLES
Vorrebbe dirigere un film di soggeo italiano in Italia? Se d’ambiente moderno no, perché penso che non potrei mai rendere come un regista italiano il vostro clima, il vostro spirito. Finito Cagliostro, spero invece di dirigere Cyrano de Bergerac qui a Roma. E se dovessi fare un film d’ambiente italiano, come regista, lo vorrei del Rinascimento. È vero che ha intenzione di girare un film su Mussolini e di interpretare personalmente il diatore? Smentisco categoricamente!
Eppure una certa rassomiglianza, magari approssimativa, lei ce l’avrebbe… esta cosa mi offende!… Io preferisco le parti drammatiche, forti, truculente, veriste, ma non sono un prepotente o un violento, ci tengo a dirlo, sono invece un tipo molto quieto. E mi affeziono ai miei personaggi. Uno che mi manca, che non sono ancora riuscito a interpretare è il protagonista di Moby Dick, il romanzo di Melville. Ma mi vendicherò un altro anno a Londra, in primavera, quando lo ridurrò per le scene in forma di oratorio. Preferisce il teatro o il cinema? È come chiedere ad un piore se preferisce dipingere ad olio o ad acquerello: in entrambe queste arti trovo me stesso. Dipinge ancora? La piura l’ho quasi abbandonata: non ero molto bravo. I suoi aori preferiti? Comprendo la vostra domanda, ma non è generoso parlare di loro. Voi fate bene a pormela, ma io faccio bene a non rispondere.
Orson Welles durante la conferenza stampa all’Hotel Excelsior di via Veneto; a sinistra, di profilo, Luigi Barzini jr.; il giornalista in piedi è Giberto Severi.
Allora cosa pensa di Tyrone Power e di Alida Valli? Ha visto il suo primo film hollywoodiano, Il caso Paradine? Tyrone? A very nice man. E la Valli oerrà un grande successo anche di pubblico, ne sono sicuro. Non ho visto Il caso Paradine, ma ho visto alcuni rulli del Miracolo delle campane della RKO: è senza dubbio una grande arice. E Rita Hayworth? ali sono le ragioni che l’hanno portata a divorziare da lei? (risata diplomatica) È una risposta la sua? No, è una critica alla sua domanda. Allora ci dica cosa pensa di lei come arice. Rita è bravissima. Nel film che abbiamo fao insieme, La signora di Shanghai, dimostra di essere un’oima arice. Ma ha un grosso handicap: è troppo bella, e quindi i critici guardano più alla bellezza che alla sua arte. Diventerà una grande arice quando invecchiando sarà meno bella. Tra una decina d’anni. Cosa pensa dei critici? I critici sono nocivi, specialmente quando assegnano premi e quando fanno le critiche. È vero che durante la lavorazione della Signora di Shanghai lei e la Hayworth avete avuto delle grosse liti artistiche? Lo hanno scrio i giornali americani e francesi. Mai più. I giornalisti devono pure inventare qualche cosa! Cosa pensa del cinema italiano? Un cinema interessante, sono qui anche per studiarlo da vicino. Il film che mi è piaciuto più di tui è Sciuscià, un film importante, e poi Roma cià aperta e Paisà. Il cinema italiano ha un avvenire.
Eppure i suoi film sono molto diversi, hanno un’evidente tendenza a un certo formalismo… Ne sono cosciente, ma vi assicuro che comprendo benissimo l’indirizzo realistico della migliore produzione europea. ale film non italiano le è piaciuto di recente? La prima parte del Fuggiasco di Carol Reed. Com’è finita l’inchiesta sugli aori accusati di aività antiamericana, tra i quali è stato messo anche il suo nome? Io non sono un uomo politico e non sono mai stato comunista. Però fui coinvolto nel recente processo agli aori progressisti di Hollywood, perché sostenitore delle idee liberali di Roosevelt contro quelle reazionarie di certi auali esponenti americani. Al recente processo di Washington, che secondo me è contrario allo spirito e alla leera della costituzione americana, non si è osato chiamare al banco nessuno di quegli aori che avrebbero potuto far sentire in quella stessa sede la loro protesta. L’impopolarità del processo perfino tra i ceti conservatori è stata tale che tuo è subito finito in una bolla di sapone. Si sono accorti che non era proprio il caso ed hanno lasciato cadere la cosa, che altrimenti avrebbe minacciato di scuotere l’opinione pubblica, in quanto non si può vietare alla gente di pensare come vuole in un paese veramente democratico. È vero che la Hayworth è comunista? La Hayworth è progressista. A questo proposito vi racconto un fao divertente. A Parigi i comunisti l’hanno sonoramente fischiata, definendola “cortigiana del capitalismo”: non sapevano forse che lei ha sempre fao propaganda antifascista durante la guerra. Il contrario, invece, è capitato a Barbara Stanwyck. Barbara è notoriamente conservatrice, eppure è stata calorosamente applaudita dalle sinistre. Sono molto cambiati secondo lei gli americani da un punto di vista politico?
Milioni di americani hanno eleo Roosevelt, per quaro volte, e non sono ancora scomparsi. Cosa pensa di Hollywood? Hollywood non impara più nulla e non insegna più nulla. La quantità mostruosa di denaro necessaria per fare un film, qualunque film americano, la varietà immensa di pubblici ai quali dobbiamo piacere, il conservativismo di uomini d’affari responsabili della finanza di Hollywood, preoccupati di far tornare a casa i milioni spesi, fanno sì che ci si avventura difficilmente lontano dal sentiero bauto. Secondo lei i capitalisti di Hollywood rappresentano dei partiti, e araverso i loro film fanno una politica reazionaria? No, è gente che tira le fila del cinema dai suoi inizi e si trova quindi oggi ad avere in mano tua la produzione americana. Agisce quindi inconsciamente da remora – per motivi commerciali – la scelta di nuove idee che serpeggiano nel mondo. D’altra parte non è facile oenere tui i mercati con una mentalità sola. Il cinema raggiunge troppi uomini perché i suoi messaggi possano essere acceati dovunque. A meno di non trovare un messaggio veramente universale, valevole a Roma come a Mosca. Ma esiste, secondo lei? Forse sì. Le possibilità del cinematografo sono immense. Tui ci danno delle lezioni, anche gli italiani con Sciuscià e Roma cià aperta, film fai di poco, in cui la mancanza di mezzi, la povertà e anche una certa inesperienza, si son trasformate in virtù e pregi al confronto delle case ricche, il cui prodoo è lustro, rifinito, banale. Gli italiani fanno film che a Hollywood non passerebbero dall’anticamera del produore nelle mani della segretaria, film che cominciano a intreccio avanzato, che non concludono alla maniera tradizionale. Li possono fare perché non sono schiacciati dalla responsabilità dei milioni. Le piace Roma?
È una cià che fa sembrare Parigi nuova come un accampamento di soldati. Ci sono cià più grandi, più vive, più dinamiche. Ma questa ha qualcosa di più, una quarta dimensione, la dimensione della storia. Antica e formicolante di vita. Antica e allegra. Non è un melanconico museo perché tuo ciò che ha imparato vive ancora, le mitiche arti, l’antica saggezza. Roma è una cià commovente. Se ne fossi capace vorrei fare un film su di lei. [In coda alla conferenza stampa, Doriana Danton del seimanale “Hollywood” tornò alla carica con la domanda del divorzio. Di qui in poi le domande furono a tu per tu fra lei e Welles.] Come vanno le cose con Rita? Io non amo troppo rispondere a domande personali, tuavia le dirò che il divorzio è già deciso, ogni riconciliazione è impossibile. Ci sono troppi angoli nei nostri caraeri. Nei vostri? Senta, lei gode fama di avere un pessimo caraere e Rita sembra essere angelica. Gli angoli, per caso, non saranno tui suoi? Mi spiace questa caiva fama. Io forse ho un caraere forte ma non difficile, mi creda! E divorziando, a chi toccherà vostra figlia Rebecca? A Rita, ma la vedrò spesso. Lei piace alle donne? No, io non piaccio troppo alle donne, ma in compenso le ammiro molto. Peccato costino troppo! Cuori infranti, sonni interroi, palpitazioni violente, ogni volta che il caro oggeo capita davanti agli occhi. Allora le evita? lei!
Certo! Specie se sono curiose, invadenti, irrispeose come
[A questo punto Welles si alzò in piedi e congedò la giornalista con un sonoro italiano arrivederci!] “Me ne sono andata,” scrisse la Danton, “con la vaga impressione di non essere troppo simpatica a Orson Welles e neppure ai colleghi, avevo irreparabilmente abbassato il livello intelleuale della conferenza.”
2. Una pizza con Togliai
Il signor Charles Foster Kane, in ogni manifestazione della sua vita sociale e soprauo con i suoi aacchi alle tradizioni americane e alla proprietà privata, all’iniziativa individuale, ha dimostrato di essere soltanto un comunista. Walter Parks atcher (George Coulouris) in arto potere
Welles aveva definito il viaggio “il mio ritorno a Roma”. La visita precedente era avvenuta molti anni prima ma era impressa indelebilmente nella sua memoria. Allora Orson aveva nove anni. Sua madre, la pianista Beatrice Ives, era appena morta di epatite; sconvolto, il bambino aveva messo da parte il pianoforte, di cui era già considerato un piccolo virtuoso, e si era lasciato condurre dal padre, l’inventore dileante Richard Head Welles, in giro per mezzo mondo. Nel ’25 i due avevano toccato, fra l’altro, Napoli e Roma,1 e proprio allora Orson tenne per la prima volta in mano una macchina da presa. L’esordio cinematografico di Welles fu un filmino amatoriale, gran parte del quale dedicato a una delle fontane di piazza San Pietro. In quell’occasione – raccontò il regista molti anni dopo – aveva tenuto l’inquadratura tanto a lungo come “neanche Antonioni al suo meglio”, finché, proprio quando la pellicola era esaurita, era sbucato fuori il papa accompagnato da una fila di guardie svizzere e da decine di cardinali.2 Da allora, la cià dei cesari e dei papi gli era entrata nel cuore. Nel 1940 aveva pensato di ambientare a Roma un pezzeo di Citizen Kane, una scena – mai girata – dentro la exquisite room che Kane adoperava come residenza italiana.3
Orson Welles poco dopo il suo arrivo a Roma in visita con Luigi Barzini jr. ai Musei Vaticani.
See anni dopo, Cagliostro gli forniva l’occasione per tornare nella capitale d’Italia, con la prospeiva di rimanerci parecchi mesi. Andò subito a vedere i Musei Vaticani, quindi oenne una lunga udienza personale con il papa: tre quarti d’ora. A parlare di cosa? Alla biografa Barbara Leaming, Welles racconta che Pio XII gli afferrò la mano e gliela tenne strea tuo il tempo fra le sue, “secche e calde come lucertole”, solo per fargli una raffica di domande sugli ultimi peegolezzi hollywoodiani, dal matrimonio di Tyrone Power al divorzio di Irene Dunne.4 La sua curiosità onnivora lo spinse subito ben oltre l’abituale tour delle stelle hollywoodiane fra Cappella Sistina e Colosseo: il regista voleva capire la cià in cui si trovava, completare le sue conoscenze sul nostro paese, confrontarsi con la realtà in cui avrebbe abitato e creato. Cominciò a imparare la lingua leggendo i giornali, parlando con i camerieri, guardando le insegne dei negozi. “Si è tuffato nella vita romana,” riferisce Barzini sull’“Europeo”. “Sarti, camiciai, calzolai, libri, taverne sconosciute, musei fuori mano. È stato al Vaticano, a trovare monsignor Ennio Francia, il leerato amico del Bellonci, perché lo aiutasse a meer le mani su certi documenti inediti della vita di Cagliostro che gli permeeranno di affinare il personaggio. Vuol vedere tui, conoscere tui. Va da Rosati a bere un ‘Negroni’ prima di colazione come un divo del cinema italiano. E quando gli si propone qualunque cosa, dice di sì, che gli interessa, perché, dice, ‘io sono un ingordo’.”5 Ammaliato dalla bellezza della capitale d’Italia, Welles si sentì pronto a vivere nella Cià Eterna. “Hollywood è assai lontana, dimenticata,” dichiarò entusiasta. “Dimenticati i suoi faraoni senza grandezza, i suoi geni senz’anima, Roma mi adoa e io adoo Roma.”6 E decise di concretizzare questa reciproca adozione inventandosi una discendenza dagli Orsini, da cui sarebbe derivato il suo nome di baesimo; un’idea spiritosa e infantile che Welles per qualche tempo divulgò a destra e a manca con la massima serietà, airandosi comprensibili stupori e qualche lazzo dissimulato. Ma il regista non si limitò a trangugiar Negroni e millantare antenati rinascimentali: Welles voleva vivere appieno la sua nuova nazionalità, e per comprenderla meglio chiese a Barzini di combinargli un appuntamento con i principali esponenti politici
della neonata Repubblica. Il giornalista si mise d’impegno e cominciò con il più difficile, il leader del Partito comunista. Su Palmiro Togliai si concentravano in quel momento i timori e le speranze di tua la nazione. L’Italia era appena diventata una repubblica, e già forze oscure se la contendevano senza risparmiare sangue: le mitragliate di Portella della Ginestra scaricate il Primo maggio sui manifestanti, erano state subito aribuite alla banda di Salvatore Giuliano, ma è probabile che alcuni aentatori fossero cecchini dei servizi segreti. A gennaio De Gasperi era tornato dall’America di Truman sventolando un assegno da cinquanta milioni di dollari, un anticipo dell’European Recovery Program, più noto come “piano Marshall”, dal cognome del segretario di stato americano. A fine maggio, De Gasperi aveva formato un nuovo governo, insieme a liberali e indipendenti, con ministro dell’interno Mario Scelba. Fieramente ostile al piano Marshall, Togliai rimaneva orgogliosamente all’opposizione, usando all’occorrenza l’arma dello sciopero generale, e preparandosi a furia di comizi allo scontro decisivo, quello per la nomina del primo parlamento repubblicano. “Togliai,” rievocava acido Indro Montanelli, “tentava d’interessare l’uditorio descrivendogli il ‘capitalista’ come una specie di Nerone aorniato di mezzani e prostitute, e unicamente intento a esercitare lo jus primae noctis sulle povere mondine […]: i fratelli Scalera, i fratelli Perrone, i fratelli Corrieri, i fratelli Federici, i fratelli Stacchini e mille e mille altri fratelli d’Italia che, come tui sanno, lo jus primae noctis sulle mondine andate a nozze lo esercitano non in uno, ma in due.”7 I fratelli Scalera erano proprio quelli che stavano girando Cagliostro, mentre le mondine sarebbero state eternate, giusto pochi mesi dopo, dal Giuseppe De Santis di Riso amaro. Reinventato da Davide Ferrario nel suo romanzo Dissolvenza al nero,8 l’incontro fra Orson Welles e Palmiro Togliai è entrato a far parte della mitologia sul cineasta, e i contorni storici dell’episodio sono rimasti a lungo talmente incerti da aver fao dubitare della sua effeiva esistenza. In realtà, non solo Welles e Togliai si incontrarono, ma la notizia della loro cena venne all’epoca ampiamente divulgata, e quindi utilizzata per dimostrare le inclinazioni politiche del regista. Il motore dell’appuntamento fu Barzini. Ma Barzini non era comunista, tu’altro: una decina di anni dopo sarebbe stato eleo al Parlamento nelle file del Partito liberale italiano. Per organizzare
il rendez-vous Barzini fu quindi costreo a coinvolgere un collega iscrio al PCI, Emanuele Rocco, redaore parlamentare dell’“Unità”, più navigato e influente del giovane Sollima. E Togliai disse di sì. Luogo e modalità furono scelti direamente dal leader comunista: avrebbe incontrato Welles a cena, alla presenza di Rocco, Barzini e altri giornalisti, da Romualdo a piazza della Torrea, una pizzeria alla buona vicino a Montecitorio, diventata uno dei suoi ritrovi preferiti. L’intelligenza e la curiosità di Welles spiegano a sufficienza il suo desiderio di incontrare il famoso politico italiano. Né stupisce che il leader comunista abbia acceato di sedere alla stessa tavola con un aore hollywoodiano. Welles era uomo di sinistra, in fuga da un’America dove si stava perseguitando ogni più piccola infiltrazione comunista, e Togliai era un leader aento alla cultura e al suo utilizzo politico, anche in campo cinematografico. È possibile che “il Migliore” fosse poi incuriosito dalla parentela fra Orson e Sumner Welles, ex segretario di stato americano e ministro di Roosevelt, contro il quale l’onorevole aveva sostenuto pochi mesi prima una clamorosa polemica intercontinentale. La leggenda che Orson e Sumner fossero cugini fu divulgata sull’“Europeo” da Barzini all’indomani dell’arrivo del cineasta a Ciampino (e poi ripetuta negli anni in vari libri e giornali), nello stesso articolo in cui annunciava il suo desiderio di incontrare i principali leader politici italiani. Sumner Welles era stato l’artefice del passaggio di poteri a Cuba dal Presidente Machado al militare Batista. In quel momento, con Truman alla Casa Bianca, ricopriva il ruolo dell’inflessibile antisovietico: a maggio aveva sostenuto l’esistenza di un pericolo comunista in Europa, rivelando che il Partito comunista italiano riceveva finanziamenti dall’Unione Sovietica. Togliai gli aveva risposto per le rime (fin dal titolo del pezzo, Ma come sono cretini!) dalla prima pagina dell’“Unità”, e gli aveva inviato un telegramma in cui lo invitava a provare le sue illazioni o a lasciarsi altrimenti considerare “un mentitore e un calunniatore”9 – e Sumner Welles dichiarò via Reuters che non aveva nulla da aggiungere. L’ex segretario di stato americano aveva ragione, i finanziamenti moscoviti al Partito comunista italiano c’erano davvero, ma la polemica di quei mesi va inquadrata nella loa politica fra USA e Russia per oenere l’egemonia sull’Italia; essendosi opposto a che l’America partecipasse economicamente alla ricostruzione
dell’Italia, Togliai non poteva ammeere che anche l’Unione Sovietica riforniva di denaro le organizzazioni italiane amiche. Orson Welles non aveva comunque alcun legame familiare con Sumner Welles: Charles Higham ha ricostruito l’albero genealogico del regista, dimostrando che la parentela fra i due fa parte del bagaglio aneddotico-mitologico dell’immaginifico regista. La presunta “cuginanza” sarebbe quindi stata solo un colpo di teatro, forse proprio per oenere l’incontro con il leader del Partito comunista italiano. È molto probabile che, durante la fatidica cena da Romualdo, Orson sia stato costreo ad ammeere la verità al leader comunista. Ma la star americana aveva il vizio di raccontarle grosse e lo fece anche in quell’occasione: con Togliai conversò spesso in spagnolo, lingua che – gli disse – aveva imparato proprio come lui, facendo la guerra in Spagna! La cena ebbe luogo la sera dell’8 dicembre, un mese dopo l’arrivo di Welles a Roma, nel pieno della lavorazione di Cagliostro. Togliai si presentò in doppio peo blu, al bavero una piccola falce e martello d’argento; anche Welles indossava un completo blu, probabilmente lo stesso che aveva al suo arrivo a Ciampino. Alla cena parteciparono Barzini e Rocco insieme a tre colleghi che avevano tui avuto contrasti, più o meno gravi, con Togliai: Corrado Pallenberg aveva realizzato un’inchiesta sul PCI che aveva ricevuto diverse smentite; Viorio Gorresio aveva intrapreso con il leader una lunga polemica giornalistico-leeraria (perdendola, perché Togliai sapeva essere all’occorrenza più pedante di un filologo); ben più seria la posizione del corrispondente americano Emme John Hughes, autore per “Time” di un pezzo sulla minaccia comunista che gravava sull’Italia, dove si leggeva fra l’altro che “sul doppio peo blu del leader comunista italiano ci sono tracce di sangue” (Togliai aveva querelato lui, il periodico americano e tui i giornali italiani che avevano riportato stralci dell’articolo). L’incontro avrebbe dovuto essere un evento privato, e rimanere fuori dai taccuini. “Ci eravamo riuniti,” scrive Barzini, “con la promessa che nessuno avrebbe riferito sui giornali la conversazione, non perché si discutessero piani segreti o accordi innaturali, ma perché volevamo sentirci liberi.” Forse il pao di non scrivere nulla faceva parte delle condizioni poste da Togliai per acceare l’invito. Ma la notizia della cena trapelò, anche perché la
riunione avvenne soo gli occhi dei numerosi avventori, popolani venuti a farsi un quartino, pariolini accorsi per i rinomati filei di baccalà, forse qualche parlamentare uscito dalla vicina Camera. E dopo qualche seimana i periodici “Tempo” e “L’Europeo” decisero di svelare l’incontro, affidando l’incarico agli organizzatori della cena, rispeivamente Emanuele Rocco e Luigi Barzini jr.10 È grazie a loro che sappiamo qualcosa di questo straordinario incontro.
Orson Welles e Palmiro Togliai durante la leggendaria cena da Romualdo. La mano a sinistra è di Luigi Barzini jr., organizzatore dell’incontro.
La cena cominciò alle nove di sera. Welles, i riccioli scomposti da Cagliostro, sedeva di fronte a Togliai, a un’estremità della tavolata chiusa da una parete e protea dall’altro lato dai cinque giornalisti. Per avviare la serata vennero scelti argomenti definiti “d’occasione”: la difficoltà del castigliano, il conflio fra Cesare e Bruto, il paganesimo (quale tavolata di giornalisti e politici affronterebbe oggi temi del genere per rompere il ghiaccio?). Togliai e i tre giornalisti “nemici” stemperarono la tensione iniziale giocando a riprendersi vicendevolmente. “Lei ha scrio molto su di me senza conoscermi,” disse Togliai a Pallenberg, “la prossima volta venga a informarsi da noi.” Gorresio continuò pedante a correggere il vocabolario del leader comunista (“Mi dispiace farle notare, onorevole, che l’uso della parola ‘deagliato’ va censurato come francesismo”), mentre Togliai si tolse la soddisfazione di rimproverare Hughes perché versava il vino “alla traditora”, rovesciando cioè il collo della boiglia dalla parte
esterna del braccio. “In Sicilia,” gli disse, “per una cosa del genere la sfiderebbero a duello.” Welles parlava alternando inglese, spagnolo e qualche parola di italiano, con Barzini a fargli all’occorrenza da interprete. Togliai gli chiese se certi particolari del romanzo di Dumas su Cagliostro, leo in gioventù, sarebbero stati inclusi nel film, e fu deluso quando l’americano gli rivelò che la sceneggiatura era una rielaborazione parecchio libera. Lentamente, la discussione cominciò a lambire la politica. L’onorevole raccontò che qualche giorno prima, durante una sfilata di partigiani in via Nazionale, una bimba di quaro anni lo aveva salutato tua eccitata facendogli il saluto romano: la madre, “una buona compagna”, se ne era talmente vergognata da costringere il leader comunista a rassicurarla personalmente. Barzini spiegò di essere stato licenziato dal “Corriere della Sera”, in tronco e senza liquidazione, per far piacere agli operai della commissione interna che lo ritenevano un pericoloso monarchico. “Il Partito liberale,” commentò Togliai, “vuol andare così a destra che lei stesso si è trovato a sinistra. Barzini a sinistra, è tuo dire!” E Welles scoppiò in una fragorosa risata, facendo girare il collo a mezza traoria. Toccò quindi al regista strappare un sorriso all’uomo politico. Gli raccontò di quella volta che lui e Roosevelt si erano ritrovati in automobile di fronte a un bivio, né il Presidente né gli agenti che li scortavano conoscevano la direzione giusta. Orson aveva consigliato: “Andiamo a sinistra, non si sbaglia mai.” E azzeccò la strada.11 Man mano che si addentrava nella politica, la chiacchierata si faceva sempre più animata. Il cameriere della pizzeria aendeva con pazienza le ordinazioni che i commensali, ormai presi dalla conversazione, si ostinavano a non dargli. Vennero servite alcune pizze e del baccalà, ma nessuno fece molto caso a quello che mangiavano; persino il famelico Welles lasciò nel piao mezzo fileo di pesce. I discorsi toccarono la situazione italiana; Togliai ricordò che la Democrazia cristiana di De Gasperi aveva da poco preso le distanze dalle forze di sinistra, ma non se ne rammaricò. “Stare all’opposizione,” disse ai commensali, “fa bene alla solidità e alla disciplina del Partito comunista.” Chiese poi a Welles se ci fosse in
America un luogo, una cià, un quartiere, almeno una strada in cui i comunisti fossero particolarmente forti. L’americano tentennò: sulle prime rispose di no, poi citò l’Unione degli scaricatori di porto di San Francisco. L’onorevole si lamentò quindi della mancanza di dialogo statunitense con la sinistra europea. Welles riconobbe che forse questa incomprensione esisteva, ma che era vero anche il contrario. “Non dobbiamo dimenticare,” spiegò, “che le insurrezioni polacche, la repubblica cinese, e la loa irlandese contro l’Inghilterra furono tue finanziate con denaro americano, e non solo di americani di origine polacca, cinese e irlandese, ma con i soldi di tui, perché c’è una forte tendenza americana a identificarsi con le viime dell’oppressione. Tui coloro che diedero a Roosevelt le sue immense maggioranze sono ancora vivi negli Stati Uniti. Essi potrebbero formare un ponte di comprensione. Perché abbandonarli? Perché non si cerca di raggiungerli con degli argomenti plausibili, con delle dichiarazioni che possano comprendere? Non dovete darli per persi. C’è oggi un’impossibilità, da parte di questo strato dell’opinione pubblica, di meersi in contao con la sinistra europea. Voi fate poco per ovviare a questo.” Togliai gli diede ragione e Welles proseguì nelle sue considerazioni, accusando i comunisti italiani di un’eccessiva chiusura nei confronti della stampa statunitense: “In questo momento ci sono molti giornalisti americani che incontrano loro colleghi al bar e dicono: ‘Devo scrivere un pezzo sulla situazione in questo paese.’ ‘Hai visto i comunisti?’ domanda il collega. ‘Non ci sono riuscito. Dimmi tu cosa credi che pensino,’ e sulla base delle sue deduzioni scrive l’articolo. Ora, tra il pericolo che si inventino pezzi e quello che qualche dichiarazione di responsabili comunisti venga, in buona o in mala fede, parzialmente travisata, il secondo è indubbiamente il minore.” E il piano Marshall? Secondo Welles, se ben congegnato si sarebbe potuto rivelare uno strumento di progresso civile per l’Europa occidentale. Togliai ribaé che però “non deve diventare un’elemosina, che impoverisce chi la fa e chi la riceve, non deve impedire all’Italia certe industrie e non deve interrompere i traffici tra Europa occidentale ed Europa orientale, che sono antichi e vitali”. Un po’ in inglese, un po’ in spagnolo, Welles e Togliai avevano preso a conversare su argomenti complessi di politica estera, soo
gli occhi incuriositi di cinque giornalisti delle più variegate opinioni politiche. “Strano,” commentò uno di loro. “In tuo il mondo, forse, non c’è che questa tavola alla quale si parli di pace tra gente di idee diverse.” ando al gruppo si avvicinò un fotografo, tui si misero a scherzare sul fao che l’immagine potesse finire archiviata al Dipartimento di stato americano o al Cominform russo. Welles colse la palla al balzo, chiese del cognac e brindò “al giorno in cui uomini di fedi diverse possano farsi fotografare tranquillamente intorno allo stesso tavolo senza che nessuno pensi male e senza timore”. Illuso. alche giorno dopo, un’ignota informatrice (il nome, nel dossier FBI su Welles, è stato reso illeggibile) telefonò all’ufficio di Hoover negli Stati Uniti per rivelare che il regista, “uno dei maggiori comunisti di Hollywood”, era arrivato in Italia giusto prima di grandi tumulti orditi dal Partito comunista, riferendosi evidentemente allo sciopero generale che Togliai indisse proprio all’indomani della cena. In seguito, il fascicolo si arricchì di un articolo francese in cui compariva una delle foto scaate quella sera al regista e all’onorevole.12 (È peraltro singolare che gli investigatori americani non si fossero accorti da soli dell’incontro, tanto più che “L’Europeo” lo raccontò in prima pagina e “Tempo” gli dedicò addiriura la copertina.) L’incontro fra il regista americano e il leader politico italiano venne così registrato fra le prove a carico di un Welles “comunista”: da sola, quella cena pesava più di cento altri indizi su una sua presunta aività antiamericana. A poco sarebbe servito l’esiguo paravento costituito dalla presenza di giornalisti di fedi politiche diverse, né il fao che, a giudicare dalle due cronache che la descrivono, i due non avevano fao dichiarazioni particolarmente compromeenti. D’altra parte, non sapremo mai se la cena da Romualdo fu solo l’amabile chiacchierata che Rocco e Barzini ci hanno tramandato, o se si sia parlato pure di argomenti un poco più spinosi: dell’imminente sciopero generale, per esempio, o delle roventi polemiche fra Togliai e Sumner Welles. Il leader comunista mantenne fra l’altro il pieno controllo su tuo ciò che venne pubblicato: Rocco, giornalista dell’“Unità”, gli chiese sicuramente il benestare prima di consegnare il pezzo a “Tempo”. Barzini andò oltre: si fece meere “scherzosamente” per iscrio la sua approvazione (“non ho nulla contro a questo testo”, firmato P.T.) e
la riprodusse sull’“Europeo” accanto all’articolo. La stessa decisione di divulgare e documentare sulla stampa, quasi un mese dopo, la cronaca della serata potrebbe essere servita a sorarre ai nemici di Welles (e di Togliai) l’argomentazione più ovvia per condannare l’incontro, quella della segretezza. Di certo la serata fu un singolare momento di sollievo in un periodo denso di tensioni, a livello nazionale e internazionale. E il raro incontro di due personalità speciali. ando Togliai, all’una passata, uscì dalla pizzeria per tornare alla direzione del partito, confidò a Rocco: “esto Welles è l’americano più intelligente che abbia conosciuto.”
3. Cagliostro
Sicuro di sé come sempre, Cagliostro era già pronto al nuovo esperimento. Che cosa aveva da perdere, infine? dal film Cagliostro
Il commendatore Michele Scalera1 era stato uno dei produori cinematografici più potenti e riveriti del Regno d’Italia. Al grande schermo era arrivato dopo essersi arricchito, con il fratello Salvatore, costruendo strade e opere pubbliche in Italia e in Africa – i nemici asserivano che rubacchiasse e corrompesse in combua col quadrumviro Emilio De Bono. La sua casa di produzione e distribuzione, la Scalera Film, aveva aperto stabilimenti sulla circonvallazione Appia di Roma e alla Giudecca di Venezia, dove Mussolini, nel breve periodo di Salò, tentò di trasferire l’industria cinematografica italiana. Abbacinato dal modello hollywoodiano, Scalera si era specializzato nei grandi film in costume, alternati sagacemente a una buona dose di cinema di propaganda. Caduta la diatura, la fortuna e la potenza degli Scalera erano venute meno, ma il prestigio del marchio era rimasto intao. Anche nel dopoguerra oenere il titolo di Miss Scalera assicurava una carriera nel cinema. Con annessi e connessi: da un lato vio e alloggio nella capitale, dentro il bel mondo della celluloide, dall’altro le brame del commendatore in persona che, come tui i produori dell’epoca, considerava le proprie arici alla stregua di geishe. “Michele Scalera,” ha ricordato Cosea Greco a Tai Sanguineti, “era uno di quegli uomini che andavano per le spicce, largo, tarchiato, la faccia
rosea con l’occhio dilatato, un generoso doppio mento. […] Credetemi: non fu un bell’incontro.”2 Ma la memoria degli antichi fasti non bastava a mantenere la baracca: appeso a piazzale Loreto l’alleato politico di riferimento, l’impresa si era avviata verso l’indebitamento. All’inizio del ’47 Scalera mise in cantiere il solito film in costume, una biografia di Cagliostro traa dai romanzi di Dumas, stringendo un accordo con il produore indipendente statunitense Edward Small. Cagliostro diventò così una delle prime coproduzioni italoamericane. La Scalera sarebbe stata utilizzata dalla Edward Small Productions solo per i teatri di posa e per alcuni contributi logistici, ma avrebbe avuto il vantaggio di ospitare una grande produzione americana, con tuo l’indoo – economico, professionale e pubblicitario – che la cosa comportava. La Edward Small Productions si sarebbe assunta l’intero onere finanziario dell’impresa, ma girando il film in Italia avrebbe potuto valersi di condizioni economiche inimmaginabili in California, e aingere a riserve di denaro limitate per legge a un utilizzo sul solo territorio italiano. Per finanziare la lavorazione, Small intendeva infai recuperare centoventi milioni di lire, fruo del noleggio dei suoi film distribuiti in Italia dalla United Artists e bloccati presso la Banca d’America e d’Italia; le leggi dell’epoca vietavano che simili somme di denaro venissero semplicemente incassate: le case di produzione USA potevano solo reinvestirle in aività cinematografiche all’interno del nostro paese. Di fao, i produori del film erano gli americani; alla fine dell’estate la Scalera ritenne maturi i tempi per ritirarsi ufficialmente dalla produzione e lasciare l’iniziativa ai soci statunitensi. I quali chiesero subito alla presidenza del Consiglio dei ministri il nulla osta per procedere al prelievo dei centoventi milioni, annunciando la probabile spesa aggiuntiva di altri cento da parte di nuovi partner americani titolari di conti in Italia. “Le dee spese in lire,” precisarono nella richiesta, “dovranno essere impiegate nel dare e
retribuire lavoro a stabilimenti e masse italiane, nonché per spese di viaggio e soggiorno del personale addeo al film.”3 Il regista ufficiale della pellicola era Gregory Ratoff, un russo di Pietroburgo da tempo negli Stati Uniti, dove era stato aore drammatico, caraerista comico e regista commerciale (fra l’altro del primo film americano di Ingrid Bergman, Intermezzo). Negli ambienti di Hollywood si favoleggiava del suo vizio del gioco, che l’aveva portato a indebitarsi con svariati produori: la stessa regia di Cagliostro, secondo Welles, sarebbe stata un modo per ripianare quei debiti. Ma Ratoff aveva un altro buon motivo per girare film così lontano da casa: una sua pellicola del ’43, Song of Russia, era stata additata alla Commissione per le aività antiamericane come esempio di propaganda comunista “poiché mostrava bambini russi felici e sorridenti”. L’accusa era risibile, ma gli stessi natali congiuravano contro Ratoff, e il suo nome era ormai stato inserito in una delle famigerate liste nere. Date le circostanze, andare a girare a Roma per un produore indipendente era un’opportunità da non lasciarsi scappare. Per il ruolo del protagonista, Edward Small aveva sempre avuto in mente un solo nome, Orson Welles. Il produore gli aveva fao per diverso tempo la posta, illudendolo di produrgli il Cyrano de Bergerac o qualche altro suo progeo. ando anche Orson aveva sentito sul collo il fiato della Commissione per le aività antiamericane, Small gli aveva messo in mano una sceneggiatura di Charles Benne e gli aveva promesso centomila dollari, giurandogli che sarebbe stato lui stesso a dirigersi nelle proprie scene.4 Il nostro Ufficio centrale per la cinematografia non perse tempo a concedere alla Small Productions lo sblocco dei fondi. Galvanizzato dall’imminente arrivo della troupe hollywoodiana, comunicò al Soosegretario per lo speacolo Giulio Andreoi che a oobre sarebbe iniziato negli stabilimenti Scalera “il più grosso sforzo produivo compiuto dalla cinematografia americana in Europa dai tempi di Ben Hur”, un film per la cui lavorazione sarebbero stati spesi in
tuo circa 250 milioni di lire sbloccati dai crediti cinematografici accumulati in Italia. Nei giorni successivi le cifre dichiarate continuarono a salire. La Edward Small Productions annunciò festosamente che avrebbe speso altri seicentomila dollari “in salari di regista e artisti, dirii di copyright, materiale e quant’altro”, facendo aumentare l’acquolina in bocca ai dirigenti governativi e ai dirigenti della Scalera. In realtà, erano gli americani che si stavano assicurando un congruo guadagno, puntando a utilizzare ambienti scenografici che le nostre soprintendenze, onorate dall’arrivo dei cineasti statunitensi, avrebbero concesso senza troppi tentennamenti. I rappresentanti della produzione chiesero di incontrare direamente Andreoi, richiesta che l’Ufficio centrale della cinematografia inoltrò con entusiasmo degno di nota, “data l’importanza dell’iniziativa, che può segnare l’inizio di una vasta produzione americana in Italia, con evidenti importanti benefici economici per il nostro Paese”.5 Lo stesso giorno in cui fu inoltrata la richiesta, la produzione oenne ciò che nessun’altra produzione cinematografica aveva mai oenuto, e che difficilmente potrà oenere: poter girare (e pure gratis) alcune scene dentro il irinale, ex palazzo papale ed ex residenza dei Savoia, appena destinato a dimora del Presidente della neonata Repubblica Italiana. Cagliostro entrò in lavorazione l’8 oobre 1947, con esterni nella speacolare Villa d’Este di Tivoli, e dopo poche seimane si spostò dentro gli Stabilimenti Scalera per alcune scene particolarmente laboriose e qualche interno. L’annuncio dell’arrivo della troupe americana negli studi sulla circonvallazione Appia venne enfatizzato inaugurando il nuovo teatro 6: Osvaldo Scaccia, capoufficio stampa della Scalera, organizzò un ricevimento per duemila ospiti, con la partecipazione di un divo locale, Aldo Fabrizi, e di una star americana di passaggio, Tyrone Power, che a Roma aveva appena messo gli occhi sulla futura moglie Linda Christian. Welles ancora non c’era, e per tuo il primo mese di lavorazione Ratoff terrorizzò la troupe annunciandone
l’arrivo con toni apocaliici. “ando viene Orson ve ne accorgerete, Orson vi farà vedere!” gridava ai tecnici. Le chiacchiere di Ratoff e della troupe lo resero in breve mitico e temibile quanto il personaggio che doveva incarnare; al reparto costumi, dove avevano da tempo le misure dell’interprete, le sarte erano convinte di dover incontrare un gigante. Welles arrivò a Roma circa un mese dopo l’inizio delle riprese. Scortato da Scaccia e Barzini, dichiarò in conferenza stampa che non vedeva l’ora di interpretare Cagliostro. In realtà non era del tuo convinto di aver fao bene ad acceare e, come gli accadeva di solito quando doveva fare semplicemente l’aore, recalcitrava all’idea di inchinarsi alle direive e alla visione di qualcun altro. Il suo ingresso sul set non passò inosservato. Giberto Severi, piore-giornalista che in quei giorni si guadagnava il pane interpretando un piccolo ruolo e redigendo comunicati agli ordini di Barzini, udì un gran trambusto in corridoio, uscì dal camerino e lo vide: “Un omone dalla testa arruffata, dagli occhi a palla, dal naso corto e carnoso, stava venendo avanti seguito da una specie di corte. Indossava un vestito scuro (direi da cerimonia, malgrado fossero appena le dieci del maino) con un garofano rosso all’occhiello, una camicia dal colleo sgualcito e una cravaa color barbabietola.”6 Appena messo piede alla Scalera, Welles si rese conto di essere temutissimo e decise di approfiarne, cominciando un ingenuo tira e molla sul trucco. Sapeva che un naso più pronunciato, più tondo o più lungo cambia completamente la fisionomia, e Cagliostro meritava un naso forte, non certo la ciliegina infantile che si ritrovava. Per questo, come faceva in tue le sue interpretazioni, Welles pescava da un baraolo di nasi di gomma conservato nella sua scatola di cosmetici. Scatola che Orson non si era portata dietro, e che si dovee perciò fare spedire appositamente dagli Stati Uniti. Passano così le prime seimane. Finalmente il 7 dicembre i nasi arrivano.7 La produzione avvisa Welles all’Excelsior e manda uno dei suoi factotum a ritirarli all’aeroporto di
Ciampino. Il giovane prescelto è Alessandro Tasca di Cutò, un aristocratico palermitano che aveva trascorso un periodo negli Stati Uniti. Tasca individuò i nasi finti, li sdoganò fra l’ilarità dei funzionari aeroportuali e tornò consegnando il prezioso paccheo ad Arrigo Colombo, uno degli aiuto registi. Poco dopo, Tasca venne convocato da Welles, Ratoff e Warren Doane, il rappresentante di Edward Small a Roma, tui col volto segnato da una inesplicabile mestizia. “Doane,” ricorda Tasca nelle sue memorie, “mi chiese immediatamente dove fossero i nasi. Risposi che erano in un piccolo baraolo verde nella scatola dei cosmetici. Orson mi interruppe e ribaé che i cosmetici c’erano, ma i nasi no. Ero combauto fra il ridicolo dell’intera faccenda e la tragedia che sarebbe seguita alla perdita dei nasi. Orson mi fissò: ‘Perché ha l’aria così lugubre?’ ‘Signor Welles, sarei un idiota congenito se avessi un’aria felice, a questo punto.’ ‘Licenzialo,’ disse Orson a Doane, che mi fece cenno di andarmene. Tornai in ufficio. […] La porta si aprì ed entrò sghignazzando Colombo. ‘Che c’è da ridere?’ ‘Ho trovato i nasi.’ ‘Dove?’ ‘Nel WC.’ Pare che Welles li avesse estrai dal baraolo e geati nel water: alcuni però erano tornati a galla. Il mio onore fu salvato da un naso e da uno sciacquone.”8 Il tentativo di Welles di rimandare di qualche altro giorno l’inizio delle riprese cadde miseramente. Doane decise che l’aore avrebbe cominciato a recitare subito e senza naso finto, col suo bel faccione al naturale, come avrebbe fao pochissime altre volte nella sua carriera. Black Magic, come venne poi intitolato in America, racconta le gesta di Giuseppe Balsamo deo Cagliostro, zingaro palermitano, mago e imbroglione, rielaborando assai liberamente la versione faa nei suoi romanzi da Alexandre Dumas padre. Dopo aver assistito da bambino all’impiccagione dei genitori adoivi, Cagliostro giura vendea contro il perfido visconte de Montagne (Stephen Bekassy). Fugge fino a Vienna con un amico gitano (Akim Tamiro) e un’altra zingara, Zoraida (Valentina Cortese),
innamorata di lui. Conosciuto il door Mesmer, ha finalmente coscienza delle sue capacità di ipnotizzatore e taumaturgo, prima utilizzate solo come arazione sulla pubblica piazza. Ritrovato de Montagne, ordisce una complicata vendea: accea di meersi al suo servizio per sabotargli una congiura di palazzo in cui la virtuosa Lorenza (Nancy Guild) dovrebbe sostituirsi alla regina di Francia, Maria Antoniea (interpretata sempre dalla Guild). Invano innamorato di Lorenza, che ha consacrato il suo cuore a un giovane ufficiale (Frank Latimore), Cagliostro riesce ad averla solo soo ipnosi, e il suo amore infelice gli fa perdere la ragione portandolo a un delirio di onnipotenza. Arrestato e processato, riesce a vendicarsi di de Montagne ma perde l’amore, venendo infine ucciso dal rivale. Sui poteri di Cagliostro, ammirato da ragazzino nei romanzi di Dumas, Welles aveva personali convinzioni, accresciute dall’essere lui stesso un appassionato di ipnosi. Scrivendo del film sul “New York Times”, il cineasta dedicò gran parte dell’articolo a ciò che pensava delle doti ipnotiche del personaggio. “Anche soo ipnosi,” spiega Welles, “un soggeo non farà nulla per qualcuno per cui provi una forte repulsione. Allora, mi chiedevo come poteva Cagliostro, con tua la sua abilità di mesmerista, avere fao sì che la bella e virtuosa Lorenza si arrendesse a diventare sua moglie, malgrado lei lo odiasse nei suoi momenti di consapevolezza, e a impersonare Maria Antoniea, cosa che lei considerava una sorte peggiore di un’infamia? […] Dumas aveva una comprensione intuitiva dei molti livelli della personalità, e capì le contraddizioni della natura umana come solo un genio può fare. […] Il door Freud ha fao notare che più virtuosi si appare, più forti potrebbero essere gli impulsi opposti che tentano di erompere. È possibile, è stato chiesto, per un uomo amare una donna e usarla da malata? Naturalmente. In un modo o nell’altro, come un altro genio della penetrazione psicologica [Oscar Wilde] ha rimarcato, ‘ciascun uomo uccide ciò che ama’. […] Cagliostro non usava luci roteanti o brillanti orologi su catene oscillanti, né era costreo a cantare su toni bassi dieci minuti di carezzevoli assurdità ai suoi
soggei. In qualità di uno che si dilea un poco nell’ipnosi, posso testimoniare ciò che tui gli ipnotizzatori da palcoscenico sanno, e che gran parte dei medici riconosce: è più facile oenere il ‘controllo’ della volontà di una persona davanti a un pubblico che in privato, e il mago, con la sua aria di mistero, per quanto possa essere ciarlatano, ha più successo e in minor tempo di un legiimo uomo di medicina. […] Non siate troppo facili allo scherno. […] Esistono ancora esperti che pretendono sia impossibile segare una donna in due senza danneggiarla in nessun modo. A questi sceici offro una dimostrazione tue le volte che gli capita di trovarsi nelle mie vicinanze.”9 L’aore parla dei poteri di Cagliostro alla luce delle proprie esperienze. Appassionato di magia e prestidigitazione, Welles giocherà per tuo il film a confondersi col personaggio: la sua entrata in scena avviene araverso una nuvola di fumo, sul palcoscenico improvvisato in cui Giuseppe Balsamo opera come negromante e ciarlatano; in un paio di sequenze improvvisate sul set, l’aore si esibisce in alcuni dei suoi giochi di prestigio preferiti, la gallina tirata fuori dalla giacca e la moltiplicazione di monete. Nel film fa capolino anche il Welles imbonitore: i trucchi magici gli servono a vendere un intruglio che dovrebbe donare a chi lo beve “la fonte della gioventù”; se ci fosse anche uno sguardo in macchina sembrerebbe uno dei tanti caroselli che farà poi in giro per il mondo. L’evidente divertimento con cui Welles interpreta queste scene riflee il suo entusiasmo nel ritrovare dentro Cagliostro temi che gli erano e gli sarebbero rimasti cari: la coesistenza di verità e menzogna, l’ambiguo privilegio di plagiare un pubblico, la tentazione e l’incapacità di piegare il destino al proprio capriccio. Cagliostro è uno dei superuomini geniali e caivi che hanno sempre arao Welles, simile ai Macbeth e ai Kane che ha interpretato, e ai Lear e ai inlan che incarnerà, un dominatore che perde l’anima nella loa
prometeica contro le proprie debolezze (qui l’amore per una donna che non può avere completamente). Nessuna grandezza shakespeariana, certo: il personaggio di Cagliostro, picaro ipnotizzatore, istrione in palandrana ed energico spadaccino, è una versione meramente commerciale dei villain di Welles, quasi una caricatura. Per Maurice Bessy, Cagliostro è uno dei tanti “arrivisti incivili, avidi e amanti del lusso”, dallo sguardo “pesante, inquietante, carico di minacce e di folle ambizione ma a volte riscaldato dalla tenerezza della bestia che si sente braccata”,10 che costellano la carriera d’aore di Welles. Però Cagliostro è anche il film in cui affiora con maggiore prepotenza uno dei temi portanti dell’intera opera del regista, da Citizen Kane a Storia immortale: lo sliamento (e l’identificazione) dell’uomo di speacolo nel despota. Povero, cresciuto dagli zingari, reso orfano da un prepotente, Giuseppe Balsamo è una viima della Storia; ma ha un grande talento teatrale e taumaturgico, un potere che prima lo rende idolo delle folle e che poi lo schiaccia. Kane, potentissimo editore contafroole, Arkadin, finanziere dalla doppia vita, Baxter, lo scienziato che in e Fountain of Youth crea un finto elisir per riconquistare una donna, inlan, sbirro sagace ma scorreo, Don Chiscioe, condoiero imbevuto delle gesta d’altri prodi, e Mr Clay, annoiato mercante che vuol far vivere una “storia”, sono tui personaggi la cui potenza è direamente proporzionale alla capacità di suggestionare o manipolare il prossimo. Ma nessuna pellicola come Cagliostro dimostra con altreanta chiarezza il legame wellesiano tra finzione e politica; qui il regno del palcoscenico, della recita suggestiva e sbalorditiva, è il trampolino per la creazione di un nuovo tiranno, l’evocazione della meraviglia diventa la prova generale per l’organizzazione di una diatura. Nelle intenzioni del suo interprete, il romanzo di Dumas è una straordinaria occasione per confrontare due tipi di palco, la ribalta e la tribuna, per paragonare l’uomo di speacolo a quello di governo, per analizzarne fascino, lusinghe e rischi, e rintracciando in
entrambi un delirio di onnipotenza che porta solo alla rovina. Forse, oltre che fruo di intelligente curiosità, il desiderio di incontrare Togliai e altri esponenti politici italiani faceva parte della preparazione al personaggio. Welles, all’epoca, si lasciò scappare qualche bauta rivelatoria sulle sue ambizioni; a Carlo Laurenzi del periodico “Tempo” disse che intendeva interpretare un film “corrusco, pieno di fuoco e di fumo, nel quale la figura di Cagliostro facesse spicco come quella di un precursore dei demagoghi rivoluzionari, Danton e Robespierre”.11 Affascinato e insieme aerrito dal potere evocativo della finzione, Welles avrebbe voluto meere in scena la metafora di una rivoluzione, una metafora talmente trasparente da non essere poi quasi per nulla notata dalla critica (che, respinta dalla rozzezza della realizzazione, ha sempre soovalutato la pellicola). Se fosse stato anche direo oltre che interpretato da Welles, oggi Cagliostro sarebbe uno dei film cardine nella carriera del cineasta. Il problema è che il regista ufficiale della pellicola aveva idee diametralmente opposte: Ratoff era deciso a consegnare ai produori uno speacolo tuo dentro la tradizione di Hollywood, il classico cappa e spada, solo un po’ più speacolare e fastoso del solito. Welles fece di tuo per portare Ratoff sulle sue posizioni. Appena arrivato, lo costrinse a lunghe e furibonde discussioni nel separé dove pranzavano con lo stato maggiore della produzione. “Liti omeriche”, le descrivono le cronache dell’epoca, divergenze artistiche sul contesto storico e sulle caraeristiche del personaggio di Cagliostro che preoccupavano e deliziavano il resto del cast. “Dato che il irinale non è Versailles,” sosteneva Welles, “che il vostro Luigi XV non è Luigi XV (come il vostro Luigi XVI non è Luigi XVI), di Cagliostro ne farò un Rasputin.” “Ma c’è della gente che conosce Rasputin,” rispondeva Ratoff, “saranno sorpresi di trovare Rasputin a Versailles.”
“C’è anche della gente che conosce perfeamente lo stile del palazzo di Versailles,” ribaeva Welles, “saranno sbalorditi di vedere Luigi XV risiedere al irinale.” “Certamente, c’è ancora della gente che conosce perfeamente lo stile di Versailles, ma quella gente non andrà mai a vedere il mio film.” “Bene,” concludeva l’altro, “andranno a vedere il mio Rasputin.”12 Welles intendeva realizzare un vero film d’autore, mescolando professionismo americano e sapienza europea, ed era convinto che quella del rivoluzionario, scardinatore di antichi equilibri, fosse la figura più auale e appropriata per un soggeo altrimenti polveroso. “Siamo venuti in Europa per evadere dall’America,” sosteneva, aggiungendo che sarebbe stato inutile essersi spostati fino a Roma senza adeguarsi al clima europeo. “Io so le vere ragioni che ci hanno portato in Italia,” ribaeva Ratoff. “Il film, che in America sarebbe costato due miliardi di lire, in Italia costa proprio la metà.”13 E ricominciavano a litigare. Forte del suo accordo con Small, Welles era comunque risoluto a dirigersi in tue le sue scene (il che, essendo il protagonista, significava già gran parte della pellicola), e cercò in breve di impadronirsi del film. I due si fronteggiarono creando opposte fazioni, schiere di amici e aiutanti preoccupati di non dispiacere all’uno, all’altro o a tui e due. E il confronto diventò un duello. Dai ricordi di Valentina Cortese: “Orson gli fece girare per seantatré volte una scena semplicissima in cui doveva tirare i dadi e dire una sola bauta. el mao insisteva perché anche io ne facessi di tui i colori: in una scena in cui dovevo dirgli ‘I love you, my darling’ mi suggerì di dire ‘Darling, give me a bole of wine’. Io, imbarazzata, mi sentivo costrea a seguirlo e Ratoff diventava pazzo.”14 Sia il regista ufficiale sia quello “abusivo” avevano manie e capricci. Malgrado i recenti guai politici – o forse proprio per riabilitarsi – Ratoff asseriva di avere un vecchio conto in
sospeso con i bolscevichi, e si presentava sul set esibendo un berreo con visiera con cui diceva di essere fuggito nel ’17 “dall’inferno rosso” (secondo la troupe si traava invece di un cappello rubato a un autista di Montecarlo); sul set si faceva fotografare con aria impeita agitando in aria il suo bastone, e intanto litigava generosamente con i suoi assistenti. Welles invece era entrato tuo dentro il personaggio di Cagliostro, saeava in giro due occhi di brace e si faceva placare solo dal suono di due stornellatori romani armati di chitarra e mandolino.
Aori e tecnici in posa sul set di Cagliostro, con Gregory Ratoff in piedi al centro e Welles seduto in seconda fila.
Ratoff, superstizioso, andò in Vaticano a farsi benedire il copione dal papa; poi mandò a cercare un gobbo che gli fosse di buon auspicio durante le riprese. Welles, più raffinato, per la sua richiesta di portafortuna s’ispirò alla mitologia greca. Racconta Georges Annenkov, il costumista del film: “Welles […] chiese che la casa produrice gli fornisse due o tre ‘muse’ perché vegliassero sul suo lavoro: altrimenti non poteva garantire dell’infallibilità dell’ispirazione. I registi percorsero tua Roma e la produzione dovee firmare dei contrai imprevisti con tre giovani rappresentanti di quella bellezza italiana che nessun’altra bellezza femminile saprebbe
oscurare. Disciplinatamente, esse erano presenti tui i giorni nel luogo delle riprese: una romana dalle tinte raffaelliane, una veneziana dalla vaporosa capigliatura di fuoco, e una giovane siciliana i cui occhi e la cui bocca non dimenticherò facilmente. Una di esse, sprofondata in una poltrona, sferruzzava borghesemente senza posa, l’altra era immersa nella leura di romanzi gialli, la terza sonnecchiava nel suo angolo sbadigliando con discrezione e rosicchiando lentamente cioccolata. Finita la giornata, le ‘muse’ ritiravano la loro paga insieme alle comparse e, scese dal Parnaso, tornavano a casa.”15 Le riprese andarono avanti in modo confuso, non solo per i contrasti fra regista e interprete ma anche e soprauo per la caotica organizzazione. Agli occhi dei romani, la macchina produiva americana, fia di assistenti, segretari e ispeori, appariva sbalorditiva, ma c’era sempre qualcosa che gli statunitensi non sapevano risolvere e lì entravano in gioco gli italiani, che giravano come troole per Roma e provincia alla ricerca di cose, persone e mezzi. Con Cinecià ancora invasa dagli sfollati, la Scalera rimaneva una delle realtà cinematografiche più importanti d’Italia, e la speranza di qualche lira facile fece presto ribollire gli stabilimenti della circonvallazione Appia di persone accorse da ogni angolo di Roma. “Gente che sapevate alla fame mesi fa,” racconta Carlo Laurenzi, “cronisti smessi, piccoli gerarchi del GUF, apolidi sfuggiti ai campi di concentramento, ricaatori in dicioesimo, tui li ritrovate qui, presi da questa febbre d’oro e d’America.” Fra gli studi e i camerini s’incrociavano italiani di Brooklyn, ricercatissimi come interpreti, ragazze che, in possesso di qualche rudimento d’inglese, baevano freneticamente a macchina, fotografi che facevano la corte alle segretarie degli aori per strappare la possibilità di qualche scao. Nel bailamme che montava, gli individui più pioreschi non erano né italiani né americani. Ratoff si era portato dietro seanta russi, un’inverosimile corte di compatrioti, fra cui due ex generali, oo ex colonnelli, una principessa, una
baronessa, un principe, un conte e perfino un pope diventato comunista. Alcuni, come il costumista Annenkov, facevano parte del cast tecnico, ma la maggior parte si guadagnava la giornata interpretando ruoli piccoli e minimi. Il più singolare era Michał Waszyński, sedicente principe e vero regista del classico yiddish e Dybbuk, ebreo e omosessuale, che avrebbe fao da guida a Welles nel paradiso della dolce vita romana, e che qui guadagnava qualcosa come interprete dal russo all’italiano. Franca Faldini, testimone fugace di quei giorni e comparsa nel film, ricorda nelle sue memorie: “Ratoff, il regista cui gli intimi si rivolgevano con il diminutivo Grischa, si era aorniato di conterranei che, magari esuli da anni, restavano aaccati alle tradizioni e all’idioma nativi. Pingue, biondo-rossiccio e sfao, Ratoff ne cercava la chiassosa approvazione, si animava tuo se la trovava negli occhi di Akim Tamiroff, simili per colore a due acquemarine, ma al minimo brusio delle nostre maestranze avvalorava i peegolezzi dell’ambiente che lo davano per uno scagnozzo di Zanuck sbraitando in un italiano storpiato e carico di accento: ‘silentio, reliciosso silentio!’”16 Ratoff cercò di imporsi con l’autorità del suo ruolo, sempre convinto di dover ridurre il potenziale politico e metaforico dell’intreccio a un piao speacolo popolare, anche in spregio della verosimiglianza storica e del ridicolo. Pare che una prima versione della sceneggiatura prevedesse addiriura, in pieno Seecento, un inseguimento a pistole sfoderate.17 “Si è rischiato di vedere,” scrisse Emanuele Rocco, “Luigi XV baere sulla spalla al futuro Luigi XVI e dirgli ‘Figlio mio’.”18
Orson Welles e Valentina Cortese in Cagliostro.
Ogni volta l’interprete principale si ribellava, trascinando il regista in nuove discussioni. Il maestro d’armi Enzo Musumeci Greco, che aveva l’incombenza di insegnare a Orson alcuni rudimenti sull’antica arte della spada, assisteva aonito alle sfuriate. “Mio padre,” racconta il figlio Renzo, che avendo seguito le sue orme è poi diventato il più ricercato consulente di duelli nello speacolo, “mi raccontava che in tua la sua vita non ha mai visto litigare nessuno con tanta violenza come Welles e Ratoff; sembrava proprio si volessero uccidere.” Ratoff usciva da questi scontri lamentando dolori cardiaci e paventando un esaurimento. “Dal nervoso,” ricorda Valentina Cortese, “Ratoff non riusciva a dormire e ogni maina era così arrabbiato che spezzava il bastone con il quale si aiutava per camminare. Gli assistenti provvedevano subito a sostituirlo con un altro che il giorno dopo avrebbe fao la stessa fine.”19 “Grischa, hai bisogno di un po’ di riposo,” lo provocava Welles che, invece, era sempre in forma e perennemente alla ricerca di un modo per inquietare il prossimo. Entrato nei panni dell’ambiguo Cagliostro, evitava il più a lungo possibile di uscirne, coinvolgendo nel suo gioco altri aori: Nancy Guild, impegnata nel doppio ruolo della tenera Lorenza e della perfida Maria Antoniea, spenti i rifleori veniva ancora corteggiata da Welles quando era nei panni della prima, evitata con freddezza se vestiva quelli
sontuosi della seconda. Orson provava un gusto particolare a stuzzicarla: nella scena in cui Lorenza, caduta in uno stato di morte apparente, viene seppellita viva, pretese in nome di una maggiore autenticità che al posto di un manichino fosse la stessa arice a stendersi nella fossa e a ricevere addosso palate di terra.20 Ma l’antagonista privilegiato di Welles rimaneva Ratoff, avversario sempre più spossato, regista sempre più in crisi. A poco a poco, i due contendenti trovarono un precario equilibrio. Welles, forse per un retaggio dei suoi anni teatrali, odiava meersi al lavoro prima delle due di pomeriggio; Ratoff aveva quindi campo libero tua la maina per dirigere scene che non prevedevano Cagliostro o per preparare le scene pomeridiane. ando arrivava, era Welles a impadronirsi di tua l’organizzazione, e poteva girare indisturbato anche fino a noe fonda. Si arrivò al punto che Ratoff, degradato a semplice comparsa, si mescolò alla folla di generici rassegnandosi a farsi dirigere dal collega. All’annuncio delle riprese, la stampa di seore aveva lodato la formula della coproduzione intercontinentale: costringere gli americani a utilizzare i loro profii italiani sul nostro suolo avrebbe comportato una notevole ricaduta di lavoro e di proventi per tecnici e aori. Ma, aggiungeva giustamente il periodico “Cinematografia Ita”: “Una tale combinazione richiede innanzituo una buona volontà, tao e comprensione, e che nel traamento formale e sostanziale tui i componenti della troupe siano misurati con lo stesso metro.” Il che, nella babele organizzativa, linguistica e culturale del film, si rivelò piuosto difficile. Metodi di lavoro, mentalità, provenienze geografiche, classi sociali, ogni possibile differenza sembrava radunata per creare confusione e contrasti. “Il rapporto con gli stessi americani,” ha ricordato Tonino Delli Colli, allora aiuto operatore di Arata, “per me fu pessimo. Era una lite continua. Loro non consideravano Arata che pure era il più importante operatore italiano, amavano la fotografia d’effeo ma non rifinita, non artistica e trovavano continuamente da ridire. Siccome in quel periodo
Arata cominciava a star male di cuore e non poteva andare a litigare, ci andavo io.”21 Nei confronti degli italiani, gli americani nutrivano molta diffidenza, già dal punto di vista politico: il maggiore sindacato di tecnici e comparse, il più grosso e meglio organizzato, era gestito da comunisti, e gli americani odiavano i comunisti. “Doane e la moglie,” avrebbe ricordato Tasca di Cutò, “come la maggior parte degli americani, erano paranoici circa il ‘pericolo rosso’, e vedevano ovunque banditi armati pronti a ucciderli.” Anche gli italiani, soprauo gli strati più umili, avevano riserve verso quegli statunitensi che li avevano appena liberati dai tedeschi ma si erano subito rivelati dei nuovi conquistatori. Poco abituati alla pioggia di ricchezza che gli americani si dicevano pronti a versargli addosso, paventavano continuamente la fregatura. Una noe, mentre si girava la scena finale alla caedrale di Sant’Ivo alla Sapienza, si diffuse la voce che non ci fosse più denaro per gli straordinari e le comparse cominciarono a rumoreggiare. Tasca corse a meere su un tavolino pile e pile di banconote, mise a guardia quaro celerini e fece prudentemente annunciare da un altoparlante che la polizia era lì per proteggere il loro denaro da eventuali ladri. “Si levò un urlo di approvazione e le riprese continuarono fino all’alba,” ricordava Tasca con postumo sollievo. Le comparse italiane rimasero comunque sempre sul piede di guerra, anche perché Ratoff preferiva manifestamente quelle russe. Fin dalle prime seimane si crearono sul set due blocchi contrapposti, pronti a menarsi alla prima occasione. La tensione trovò uno sfogo ideale nella scena della gigantesca zuffa fra viennesi e zingari, girata dentro gli studi Scalera: Ratoff e Welles persero il controllo della situazione e alcuni figuranti finirono in ospedale per ferite e contusioni. Intanto la stampa italiana sollevava nuovi malumori, causati dal fao che diversi giornalisti erano stati tenuti lontano e che il fotografo di scena Osvaldo Civirani era stato traato da Ratoff talmente in malo modo da decidere di lasciare un
ingaggio ben pagato. “Hai fao bene, dovremmo lasciare anche noi,” gli disse l’operatore Anchise Brizzi.22 L’ingovernabilità del set causò uno sforamento di parecchie seimane mentre una lenta emorragia di denaro spariva in rivoli imprevedibili. Nella scena del duello finale, una delle controfigure di Welles fece finta di scivolare e, con l’aiuto di una lamea ficcata in gola, si fece trovare disteso a terra accanto a una pozza di sangue: l’orrendo trucco gli fruò dall’assicurazione la cifra record di quaro milioni di lire. Persino il gobbo portafortuna scelto da Ratoff pasteggiava quotidianamente a Cinzano e bignè, meendo tuo in conto al regista. Come se non bastasse, la sera del 7 dicembre il direore della fotografia, il grande Ubaldo Arata, che Welles aveva personalmente voluto per Cagliostro, venne colpito sul set da un infarto; portato in ospedale, si spense nel giro di poche ore. Arata aveva direo la fotografia della Signora di tui e di Luciano Serra pilota; per Roma cià aperta aveva fao miracoli, girando con pellicola scaduta e condizioni di luce proibitive. La sua scomparsa, a soli cinquantadue anni, sconcertò tui. Pare che la morte del collega Massimo Terzano, scomparso anche lui cinquantenne neanche tre mesi prima, lo avesse profondamente impressionato, ma si disse anche che Arata fosse aerrito dal “metodo americano” e dal “disordine dei piani direivi”, e che la sua fine “fosse stata affreata dall’intensità inumana del lavoro al quale lo costringeva il regista”. Il posto di Arata venne spartito fra Anchise Brizzi e Otello Martelli. I due principali quotidiani romani, “Il Messaggero” e “Il Tempo”, pubblicarono un necrologio firmato da Welles, Ratoff, Doane e da tui gli artisti e gli impiegati di Cagliostro, ma la delicatezza servì a poco. La scomparsa di Arata fece montare l’insofferenza verso una presunta superiorità americana (che una Roma provinciale non aveva avuto problemi a celebrare fino al giorno prima), e l’ammirazione per la professionalità statunitense lasciò il posto all’esplicito
timore di una rozza colonizzazione. Un articolo significativo è quello che Francesco Càllari dedica su “Hollywood” al Cagliostro della Edward Small e al contemporaneo Addio Mimì, che Carmine Gallone portava a termine negli stessi giorni con il denaro della Columbia. “Sembra che i cineasti stranieri,” scrive Càllari, “d’oltralpe e d’oltreoceano, si siano accorti che girare in Italia costa poco. […] Assisteremo, quindi, ben presto a una nuova calata di barbari. Le pauglie di punta sono già in loco e stanno realizzando i film di saggio. […] I signori registi e aori stranieri […] arrivano a Roma, girano per le vie e restano sbalorditi (‘ogni dieci passi un monumento’), vanno in piazza San Pietro e incretiniscono, si recano al Colosseo e si accertano, baendo le nocche delle dita contro le maonelle, se è vero o falso, vanno a girare al irinale e non credono ai loro occhi (‘qui si dovrebbe fare tuo un film!’), lavorano nei nostri teatri di posa e non possono fare a meno di riconoscere che tuo è perfeo, poi si meravigliano che i sarti confezionano i costumi con vera seta e anche antica e dell’epoca, o che gli arredatori si servono di mobili e di soprammobili e di quadri autentici nella ricostruzione di un interno (‘a Hollywood è tuo falso’), infine di fronte a una massa di due o trecento comparse si permeono di esclamare: ‘Dite la verità: non avete mai girato un film con tanta gente!’”23 Gli americani erano sbarcati a Roma con mille pregiudizi, non immaginando di trovare dei tecnici di prim’ordine. A parte i sistemi di registrazione sonora, più scadenti che a Hollywood, i dirigenti della Small Productions furono colpiti dalla qualità di costumi e scenografie. Vista la bellezza delle parrucche trovate a Roma, casse e casse arrivate da Hollywood rimasero chiuse e inutilizzate. Persino Ratoff, di fronte all’abilità e alla velocità dei nostri tecnici, riusciva a trai a meere da parte il malumore. “È un tipo piuosto difficile,” racconta un cronista di “Film”, “alle frequenti burrasche fa seguire intervalli di assoluta bonaccia. ‘A very good composition!’ esclama, allora, compiaciuto. ‘Molto bono maestranzo italiani…’”24
Una nuova lite rischiò di scoppiare il giorno in cui la lavorazione si trasferì nella location più lussuosa e importante, il palazzo del irinale, dove venne ricreata la reggia di Versailles. Fra arezzi e rifleori, i tecnici videro scaricare nel cortile svariati cubi di òrmica, con un buco e uno sportello. Tonino Delli Colli andò a cercare un interprete e fece chiedere a uno degli uomini della produzione americana di cosa si traasse. Risposta: avevano costruito quegli oggei per le necessità fisiologiche di comparse e tecnici italiani temendo che potessero imbraare le stanze del Palazzo. “Insomma,” ricordava Delli Colli, “ci consideravano manco fossimo zulù. A quel punto ci vidi rosso e dissi che se quei cosi non sparivano entro cinque minuti succedeva un casino, ce ne saremmo andati tui perché – e se lo ricordassero bene gli americani – noi avevamo il bagno e il cesso quando ancora loro giravano con le penne al culo. Così li tolsero di mezzo, però quello era il conceo che avevano di noi.”25 La notizia che una troupe cinematografica stava usando il irinale fece rapidamente il giro del mondo. Nella stanza degli ospiti fu allestita la camera da leo di Luigi XV, in altre stanze riservate ai reali stranieri e nel salone degli specchi vennero ricreate le camere di madame Du Barry e della regina Maria Antoniea. Gli appartamenti dei Savoia, al piano di sopra, non furono toccati, ma alcuni landò vennero recuperati dalle Scuderie, rimessi in efficienza e utilizzati in una scena a Trinità dei Monti, con l’accortezza di occultare con uno straccio nero lo stemma reale; fra i cavalli in scena c’era anche Transatlantico, uno degli splendidi stalloni bianchi appartenuti a Mussolini. “L’interminabile galleria vetrata,” scrive Annenkov nelle sue memorie, “fu subito trasformata in magazzino per il materiale stravagante e pioresco e sorsero subito due bar, con le scrie cubitali ‘limone spremuto’ e innumerevoli boiglie. Alcuni curiosi autorizzati visitavano la galleria, guardando, con sorriso beato, le cortigiane di Luigi XV addentare i tramezzini al prosciuo e fumare le Lucky Strike soo la sfilata delle incisioni originali del Piranesi.”26
Per il cinema non c’è nulla di sacro: perfino il trono dell’ex re d’Italia, dicono le cronache, venne usato in una scena. I bellissimi saloni reali diventarono in poco tempo un set come un altro, i pavimenti protei in modo precario da stuoie di corda, le pareti damascate addobbate di cartelli che intimavano il “no smoking”. Divieto al quale Ratoff disobbediva apertamente tenendo fra le mani un grosso sigaro. In visita sul set, Gian Luigi Rondi lo vide arrabbiarsi con un distinto signore sorpreso a fumare. “‘a fumo solo io, spenga quella dannata sigarea!’ ‘Giusto,’ commentò forte Orson Welles, ‘questa è la democrazia.’ L’orso della steppa si bloccò e di colpo tornò indietro. ‘Adesso si menano,’ ghignò un macchinista. Ma la faccia sprezzante di Welles trasudava solo ironia. L’altro alzò torvo le spalle e tornò indietro quasi di corsa, nei saloni. Una corsa troppo concitata, troppo irosa. O per i cavi lungo i pavimenti, o per le stuoie, Ratoff inciampò e, rovinando addosso a una delle porte dorate e laccate, la sfondò con fracasso. ‘Nessuna importanza – gridò – ve la rifaccio nuova!’ Orson Welles impassibile: ‘L’ho già lea sul «Punch»!’”27 La storia della porta distrua è stata raccontata più volte e in modi diversi; si disse anche che fosse stato Welles, in preda all’ira, a sfondarla deliberatamente a calci. L’idea che un gruppo di americani di Hollywood avesse espugnato uno dei luoghi simbolicamente più importanti della nostra storia e che lo stesse riducendo a un circo non piaceva ovviamente a nessuno. Il 28 dicembre venne firmata la Carta costituzionale: col nuovo anno Enrico De Nicola, primo Presidente della Repubblica, avrebbe potuto lasciare Palazzo Giustiniani e insediarsi al irinale. ella stessa noe, nella stanza degli ospiti venne girata la scena della morte di Luigi XV. L’aore inglese Robert Atkins si distese sul sontuoso leo dove avevano dormito re Guglielmo di Prussia e re Giorgio d’Inghilterra, ma ci vollero sedici ciak prima che Welles, ormai padrone incontrastato del set, si dichiarasse
soddisfao. “Il re è morto,” proclamò allora, “due minuti di silenzio.” All’uscita dal palazzo, all’alba del nuovo giorno, i giornali pubblicati in edizione straordinaria annunciavano un’incredibile coincidenza: l’ex re d’Italia Viorio Emanuele III, colui che fino a poco prima era stato il legiimo inquilino del irinale, era appena spirato in Egio. Welles, oltre a sapere fare giochei di magia e avere qualche capacità ipnotica, aveva forse davvero anche doti divinatorie. La scena della morte di Luigi XV fu una delle ultime girate al irinale. Il primo gennaio un baaglione di granatieri entrò nel Cortile Grande per prendere simbolicamente possesso del palazzo in nome del Presidente della Repubblica (una sarta della Scalera chiese a uno dei militi a quale scena dovessero partecipare).28 Ratoff fu costreo ad abbandonare l’augusto set, non solo per esigenze istituzionali, ma anche – pare – per un malaugurato moo di spirito dell’aore protagonista. “Con un amichevole colpeo sulla spalla, Orson Welles disse a un visitatore sorridente: ‘Adesso è ancora nulla, tornate tra mezz’ora, ci saranno delle ragazze!’ Scandalizzato il visitatore scomparve. Ma una decina di minuti dopo, l’intendente del palazzo intimò alla casa produrice di cessare le riprese e di lasciare il irinale: il visitatore che aveva ricevuto il colpeo sulla spalla era il primo segretario del Presidente della Repubblica.”29 Welles è stato a lungo accusato di aver girato Macbeth in pochi giorni e di essersene immediatamente dimenticato. La sua precipitosa partenza per Roma, a interpretare un filmeo commerciale in costume, è stata spesso citata come la dimostrazione che l’esperimento shakespeariano si fosse esaurito per l’autore nella fase delle prove e delle riprese. Macbeth in effei non aveva ancora un montaggio definitivo. La casa di produzione, la piccola Republic di Herbert Yates, aveva programmato l’uscita del film per dicembre e aveva già dovuto posporla. Deciso a tagliare dieci minuti da una prima versione, il 25 novembre Yates gli spedì a Roma pellicola e montatore, Lou Lindsay, confidando nella stessa velocità con cui il regista aveva portato a termine le
riprese. Pare che Lindsay, una volta messo piede a Roma, venisse cooptato da Orson nella realizzazione del Cagliostro, ma l’aneddoto fa probabilmente parte della leggenda che vuole Welles disamorato della sua ultima creatura. Al contrario, la passione del regista non si era affievolita, mentre girava Cagliostro continuava a pensare al Macbeth. Come accenna lui stesso nell’intervista a Bogdanovich (e come conferma anche qualche cronaca dell’epoca), durante i suoi primi mesi italiani Welles si sedee alla moviola e continuò a montare il Macbeth, limando e perfezionando; sminuzzate in leere e telegrammi, le sue indicazioni arrivavano quindi a Richard Wilson dall’altro lato del globo. Nel fraempo, dopo il rifiuto di Bernard Herrmann, il compito di comporre le musiche passò a Jacques Ibert, allora direore dell’Académie de France a Roma, che registrò tuo il commento nella capitale italiana.30 Il montaggio di Macbeth andò avanti fino a marzo. Mentre Welles lavorava, Oberdan Troiani, aiuto operatore nel film di Ratoff, lo osservava, e grazie al fao che conoscevano entrambi lo spagnolo, i due instaurarono un oimo rapporto. A Troiani, durante la lavorazione del film di Ratoff, Orson chiese fra l’altro di realizzare una piccola aggiunta al Macbeth avvalendosi di un modellino. “Mi fece girare un’inquadratura del Macbeth,” ha ricordato Troiani, “a me che ero solo un secondo assistente. Si traava di un accampamento in miniatura, di noe. Per realizzarla dovee farmi vedere un pezzo del film, e io notai un primo piano di Macbeth, girato con un grandangolo in una piazza immensa in mezzo alla quale c’era una donna, i cui piedi però erano fuori dall’inquadratura. Io ero abituato a inquadrature di equilibrio molto più tradizionale e gli chiesi perché, con quel campo sterminato, avesse tagliato i piedi: pazientemente mi spiegò che la figura intera avrebbe dato importanza al personaggio, mentre lui voleva minimizzarla.”31 Macbeth non era l’unico film che Welles continuava a rimuginare negli studi della Scalera. Il set di Cagliostro fu soprauo la culla della pellicola che avrebbe titillato e
tormentato Welles per tuo il periodo italiano, una delle sue opere più sofferte, fra le pochissime che sarebbe riuscito a padroneggiare completamente, dalle riprese al montaggio. L’idea non venne al cineasta americano ma al commendator Scalera in persona, un giorno che se lo vide davanti negli abiti di scena, con il volto scurito, i capelli scompigliati, un cerchio d’oro al lobo di un orecchio. “Mi guardò e disse: ‘Dobbiamo fare l’Otello’. Io,” ricordava Welles, “non ebbi niente da ridire. Il ruolo di Otello era sempre stato il massimo della mia ambizione come aore. […] Ma perché Scalera mi proponeva di interpretare Otello? Ebbene, la ragione era che adorava l’opera e aveva già prodoo molte opere filmate che gli avevano fruato parecchi quarini. E quando mi vide truccato per il ruolo del conte Cagliostro, con un trucco da gitano, completo di capelli ondulati e di grande anello d’oro all’orecchio, gli feci venire in mente Verdi e non Shakespeare. E disse con una naturalezza disarmante: ‘Otello, facciamo Otello!’”32 Michele Scalera covava quel progeo almeno dal ’42, e nelle sue intenzioni Welles avrebbe dovuto lavorarvi solo come aore. Ma Orson cominciò a fantasticarci sopra, discostandosi subito da ciò che il commendatore desiderava: il produore romano gli prospeava un film-opera e Welles pensava invece a Shakespeare; Scalera gli proponeva una seconda pellicola come interprete e il regista americano progeava già di dirigersela da solo. Welles cercò subito la complicità di Edward Small, che sarebbe stato felice di entrare nell’affare a pao che lo girasse con la stessa velocità di Macbeth, a colori, e con un Otello di razza bianca (Joseph Breen dell’Hays Office avvertì che non avrebbe mai consentito a un film con un protagonista di colore). Tentò quindi di organizzare un allestimento della tragedia in primavera, al festival di Edimburgo, in modo che la messa in scena, com’era successo per Macbeth, fungesse anche da prova per le riprese del film, da realizzare immediatamente dopo.33
In realtà sarebbero passati diversi anni prima che Welles riuscisse a realizzarlo, dopo ostacoli di tui i tipi di cui la complicata lavorazione di Cagliostro fu solo la prima pioresca avvisaglia. C’era infine un altro film a cui Welles pensava in quei giorni, un documentario che cominciò effeivamente a girare durante le riprese di Cagliostro. Il titolo di lavorazione era un semplice Il circo. Si traava, secondo la testimonianza di Alessandro Tasca di Cutò, di una nuova proposta di Alexander Korda, evidentemente dilatoria rispeo al Cyrano. Welles era un fervente cultore del meraviglioso e dello straordinario, e il circo era uno dei generi di speacolo che sentiva più congeniali: lui stesso aveva organizzato nel ’43 e Mercury Wonder Show, con la partecipazione di Joseph Coen, Rita Hayworth e Marlene Dietrich. Le uniche riprese furono fae al Circo Zoppé, un circo equestre a gestione familiare con una sola pista che si era accampato a piazza Tuscolo, a breve distanza dagli stabilimenti Scalera, durante le ultime seimane di lavorazione di Cagliostro. Welles era rimasto affascinato da un numero eccezionale: uno degli Zoppé eseguiva un triplo salto mortale all’indietro spostandosi tra due cavalli al galoppo; chiese quindi a Tasca di aiutarlo a trovare l’occorrente per girare e a Troiani di fargli da operatore. Le riprese occuparono diverse serate, utilizzando quelle libere dalla lavorazione di Cagliostro, senza sonoro perché Tasca non era riuscito a trovare tecnici del suono disponibili.
Fra un night club e una ripresa di Cagliostro, il cineasta Welles incontra alcuni colleghi italiani: da sinistra, Carla Del Poggio, Suso Cecchi d’Amico, Antonio Centa, Carlo Ponti, Mario Soldati e Alessandro Blasei.
Durante l’ultimo speacolo che il circo diede a Roma, una trapezista ruppe una corda e piombò sulla pista, cadendo senza rete a testa in giù da decine di metri. Per fortuna l’acrobata, agile e allenata, riuscì a cadere “bene”, facendo una capriola prima di toccar terra: l’unica conseguenza fu una spalla slogata. La troupe di Welles era lì, Troiani aveva ripreso tuo. Felice che l’incidente si fosse risolto in modo così miracoloso, Orson ordinò a Tasca di cercare un mazzo di fiori per la trapezista e chiuse la serata alle Groe del Piccione, un “laido nightclub” dietro le poste centrali di San Silvestro al quale Welles invitò sia la troupe che gli artisti.34 Il giorno dopo venne filmata ancora qualche scena: lo smontaggio del tendone da piazza Tuscolo, la partenza della carovana e l’arrivo in una nuova piazza a Tivoli. Tua la pellicola girata fino a quel momento venne sviluppata e stampata, e fu quindi pronta per essere visionata. È Troiani a raccontare cosa accadde dopo: “ando vidi il materiale alla Tecnostampa, trovai là Rossellini e la sua corte, che dovevano vedere anche loro del materiale girato. Siccome toccava a me, mi chiese se potevano restare in sala lo stesso, in aesa del loro turno. Il materiale gli piacque molto. Ma dopo quella proiezione le pizze sparirono, e non se n’è saputo più niente!”35
Fu la fine del Circo: il progeo del documentario si dissolse insieme a tuo il girato. Il negativo sparì nel nulla, innescando uno dei tanti gialli professionali di cui è costellata la storia della celluloide. I giornali riferirono dell’incidente al Circo Zoppé dandone in qualche modo la colpa a Welles. Forse in seguito all’improvvisa scomparsa di Arata, qualcuno aveva cominciato a definire l’americano uno “ieatore”, e la caduta della trapezista sembrò confermare quella sinistra fama. Welles si difese sostenendo di avere, al contrario, portato fortuna alla ragazza, rimasta infai miracolosamente illesa. Il regista, in effei, portò fortuna all’intero circo, raccomandandolo al suo amico John Ringling North; poco dopo gli Zoppé furono invitati a giostrare in America insieme al Ringling Brothers e al Barnum & Bally Circus e a partecipare al film di Cecil B. De Mille Il più grande speacolo del mondo. I loro discendenti continuano a esibirsi negli Stati Uniti, dove il Zoppé Family Circus è oggi praticamente un’istituzione. Ma a fine gennaio ’48 un altro incidente funestò la lavorazione di Cagliostro. Durante la scena di un duello, Stephen Bekassy, interprete del malvagio de Montagne, non resse ai furiosi colpi di Welles e scivolò, trascinando nella caduta un pesante candeliere che lo colpì alla testa. L’aore finì in ospedale con una sospea commozione cerebrale e la scena venne cassata: nel film montato, de Montagne non fa nessun duello e muore suicida fuori campo.36 L’11 febbraio, ancora una sventura. Sergej Ėjzenštejn, il regista di Sciopero e della Corazzata Potëmkin, era morto improvvisamente a Mosca, durante la noe. Welles accolse la notizia con sgomento. I due registi non si erano mai incontrati ma avevano intraenuto un lungo scambio epistolare originato nel ’45 da una semi stroncatura di Ivan il terribile scria da Welles sul “New York Post”37 (Orson avrebbe poi sempre protestato che Ivan il terribile fosse l’unico film di Ėjzenštejn visto in tua la sua vita; se è vero, le immagini di quella pellicola devono aver avuto su di lui un
effeo notevole visto che Ėjzenštejn è sempre stato considerato come uno dei suoi riferimenti imprescindibili). ando sul set di Cagliostro gli annunciarono la scomparsa di Ėjzenštejn, Welles ne rimase impressionato. A Troiani, che lo vide impallidire, disse che l’aveva sempre stimato moltissimo. E, per tuo quel giorno, si rifiutò di lavorare. La lavorazione di Cagliostro si concluse dopo cinque mesi di riprese. Luigi Barzini jr. divulgò un costo complessivo di un milione e mezzo di dollari, circa un miliardo di lire dell’epoca. Non era il milione preventivato ma neanche i due che, secondo Ratoff, si sarebbero certamente spesi in America. Intervistato da Barzini jr., Ratoff non spreca una parola su Welles ma si profonde in elogi agli artigiani italiani: “In nessun altro paese al mondo avrei potuto girare il Cagliostro che ho girato a Roma. Avrei speso certamente di più. Ma anche avessi speso dieci volte di più non avrei mai potuto oenere i risultati che ho oenuto. Cagliostro è, grazie al lavoro degli italiani, il più splendido film che la cinematografia americana abbia mai creato.”38 anto eccessiva e avventata fosse questa definizione, lo avrebbero dimostrato i recensori dopo un anno abbondante, quando il film fu finalmente pronto per la distribuzione. Ratoff non era riuscito a imporsi su Welles in fase di riprese ma oenne lo stesso risultato grazie a un lungo lavoro di taglia e cuci in moviola; lo stile del film si era così assestato su un modesto tono commerciale, in cui sfolgoravano soprauo costumi e scenografie: gli interni al irinale, ma anche gli esterni alla Villa d’Este (nelle scene ambientate a Strasburgo), il gigantesco teatro di posa della Scalera (il tribunale che giudica Cagliostro), e qualche scorcio occasionale (le segrete di Castel Sant’Angelo, nella scena in cui il protagonista viene incarcerato la prima volta). a e là, la mano inconfondibile di Welles ravviva di tanto in tanto un plot contorto, indeciso fra azione e sentimento: un sinuoso piano sequenza di Cagliostro e del suo amico gitano (Tamiro) che entrano per la prima volta a Versailles,
una fulminea inquadratura di Cagliostro che tira un pugno nella soggeiva di una ignota viima, diverse inquadrature dal basso (fra cui, inquietante, la falsa soggeiva di Lorenza dalla fossa in cui viene seppellita), il vezzo di mostrare, come in Citizen Kane, anche il soffio (nel breve prologo ambientato in casa Dumas), alcuni primi piani di Cagliostro molto espressivi. Ma sono gocce di stile in un mare di speacolo mediocre e prevedibile. Welles comunque non si addolorò troppo per l’infelice risultato artistico, ricordandone sportivamente il lato ludico: “Cagliostro è stata un’esperienza fenomenale,” dirà a Bogdanovich, “la più buffa e divertente di tua la mia carriera.”39
4. Dolce vita
Le donne sono la misura della debolezza di un uomo. Cesare Borgia (Orson Welles) in Il principe delle volpi
Cagliostro fu per gli italiani un’esperienza inedita, anche dal punto di vista giornalistico. Abituata a entrare senza troppe cerimonie sui set di Cinecià e della Scalera, gran parte dei cronisti rimase bloccata dai rigidi protocolli americani, che mal tolleravano la presenza di intrusi. Ratoff ne guadagnò una pessima fama, e Welles si fece la nomea di divo inavvicinabile. Perfino uno spirito avvertito come Ennio Flaiano si lasciò impressionare. alche seimana dopo la fine delle riprese, approfiò di una recensione de I migliori anni della nostra vita di William Wyler per infilzare insieme la rozzezza degli americani e la presunta scontrosità di Welles: “In un paese dove la maionese si vende in scatola, essere raffinati è un segno di allarmante cinismo. Il signor Orson Welles, le cui imprese noi europei apprezziamo come lo sfogo di un temperamento vivace e fantastico, passa in America per un uomo ‘troppo’ intelligente. ando Orson Welles lavorava qui a Roma in un certo film, nello studio dove si girava il film un cartello avvisava gli altri aori americani di non rivolgere la parola al nominato Orson Welles. Credo che questa misura fosse stata suggerita dalla necessità di non scatenare la vivacità dell’aore, le cui risposte possono costituire sempre una sorpresa per un ciadino dell’Unione che non conosce il segreto della maionese.”1 Di certo, a Welles il caraere non mancava. I suoi modi potevano sembrare assurdi o esasperanti; gli piaceva stupire, e a volte si divertiva a fare il burbero. Ma l’uomo non era un orso, tu’altro, come testimoniano le sue frequenti apparizioni per le strade e i locali nourni di Roma.
Appena una seimana dopo l’incontro con Togliai, i giornali segnalano la presenza di Welles e Ratoff al Wip Club, a un party di beneficenza del madrinato della Croce Rossa organizzato in occasione di un concorso per “la voce femminile più simpatica”. È il primo annuncio di un Welles più frivolo e gaudente di quello apparso ai giornalisti dell’Excelsior e ai cine-cronisti in agguato alla Scalera, più vicino alla classica star hollywoodiana che all’impegnato regista controcorrente. Passati i primi due mesi di riprese, l’interprete di Cagliostro infiì la sua presenza in ristoranti e night club, contribuendo a movimentare una via Veneto non ai livelli felliniani ma già frizzante. A fargli da anfitrione fra le bellezze e gli svaghi di Roma c’era Michał Waszyński, il regista e finto aristocratico conosciuto sul set di Cagliostro: una segreta affinità li aveva uniti e i due in quel periodo sembravano inseparabili. “I due potevano passare serate intere a raccontarsi storie,” ha ricordato Giorgio Dickmann, compagno di Waszyński. “Passarono una noe intera a evocare San Pietroburgo, che ciascuno dei due pretendeva di conoscere bene. Parlo di una conoscenza precisa: numero di abitanti, economia e scriori locali. Poi alla fine della serata, si sono messi a ridere. el villaggio non era mai esistito. Una cosa è sicura. A Roma, Orson non faceva il minimo passo senza domandare consigli a Mike.”2 “L’Écran français” informa i suoi leori dell’eccentrico abbigliamento marinaresco indossato da Welles ai ricevimenti all’ambasciata americana, e dei formidabili party a sorpresa organizzati nell’appartamento al primo piano dell’Excelsior (a uno di questi, pare abbiano partecipato anche Rossellini e la Magnani, che avevano camere nel lussuoso albergo); e di un’Alfa Romeo da cinque milioni con cui il regista scorrazzava su e giù per via Veneto. “Mr Welles… È il diavolo!” fremeva il concierge ricevendo l’ennesima multa.3
Orson Welles con Antonio Centa al tavolino di un bar poco dopo il suo arrivo a Roma.
La vita nourna dell’aore avrebbe contato qualcosa nell’approccio “critico” della nostra stampa: mentre i film di Welles rimanevano in buona parte invisibili, il loro autore si mostrava fin troppo abbordabile, a fare l’alba nelle traorie di campagna o nei grill bar di via Veneto. Il coraggioso Orson Welles, il cineasta che aveva osato abbandonare Hollywood alla ricerca di nuovi stimoli, l’autore di film allora inediti e chiacchierati come Citizen Kane, La signora di Shanghai e Macbeth, cenava a Tor Fiorenza, bivaccava alle Groe del Piccione, andava alla Taberna Ulpia per chiedere ad Alfredo Del Pelo di suonargli Chiove, entrava e usciva dall’ABC e dal Jicky Club, più preoccupato di tenere il passo di danza con qualche avvenente ragazza che di raggiungere nuove vee artistiche. Archiviato Cagliostro, i reporter si concentrarono sulle conseguenze del divorzio, ormai definito e definitivo: quanto ci avrebbe messo Welles a trovare una sostituta alla Hayworth, nel suo cuore e nel suo leo? E presero a setacciare i night club del centro a caccia delle leggiadre rappresentanti del gentil sesso che prendevano il posto di Rita per qualche seimana o per una sera. L’americano, fra l’altro, non curava di nascondersi, e porgendo il braccio all’accompagnatrice del momento entrava con noncuranza nei locali più alla moda, dove stazionavano abitualmente i cronisti. Ce n’erano almeno due quella noe di gennaio quando, intorno all’una, Welles entrò all’ABC “un po’ trasandato nell’abito, speinato e trasognato com’è suo costume”. Accanto a lui sveava una bellissima donna con i capelli corti e i guanti neri, un corpo prepotente costreo in un abito lungo e accollato, il seno esaltato
da una collana di perle. Il cronista di “Fotogrammi” annusò lo scoop e si fece soo: “‘Ma quella è Jennifer Jones!’ esclamammo fra noi. In quella Welles si voltò dalla nostra parte: ne approfiammo per salutarlo e dopo i convenevoli d’uso gli bisbigliammo all’orecchio: ‘Si potrebbe conoscere Jennifer Jones?’ Orson sgranò gli occhi fingendosi stupefao: ‘Jennifer Jones? Dov’è?’ Ma subito capì che avevamo capito. Lo rassicurammo: ‘Non è per un’intervista.’ Orson, allora, si illuminò: ‘Promesso?’ Promeemmo e la presentazione fu faa. […] Orson le propose allora di ballare e subito si geò con lei nel bel mezzo della folla. Per un poco vedemmo le due teste dei celebri aori ondeggiare disordinatamente su quelle degli altri ballerini; poi Jennifer si fece largo fra le coppie e, distanziando Orson (cui riusciva più difficile, data la mole imponente, di fendere la folla), raggiunse l’uscita.”4 Welles e la Jones avevano da poco lavorato nel western Duello al sole, lei come protagonista e lui come voce narrante. Jennifer era in quel momento in roa con il fidanzato David O. Selznick, il potente produore di Via col vento e dello stesso Duello al sole; aveva deciso di partire sola solea per l’Italia, e a Roma aveva ritrovato Welles. La stampa fece due più due ed entrò in fibrillazione. Per evitare altri incontri sgraditi, Orson e Jennifer limitarono le loro uscite a luoghi più fuori mano come Tor Fiorenza, un ristorante allestito in una ex stazione di posta sulla Salaria. I giornalisti li seguirono fin lì, e i due lasciarono fare. I reporter registrarono innocue cenee a due a base di riso pilaf, fileo tournedos, patatine e Brolio rosso, e raccontarono di passeggiate romantiche fuori dal locale, mentre la luna splendeva trionfante sulla campagna romana. Nessuno sorprese i due aori in aeggiamenti inequivocabili ma la fantasia galoppava comunque: dopo la Hayworth, Welles si era certamente innamorato di un’altra formosa diva conterranea, e chissà che non avrebbe condoo all’altare pure lei. Mancava un’ammissione, una dichiarazione rivelatoria, un virgoleato esplicito da parte dei protagonisti, perciò l’intrepida Doriana Danton di “Hollywood” penetrò nell’albergo in cui era scesa la Jones per domandarle di Welles. Riuscì a salire fino alla sua camera, a farsi aprire, a parlarle. E la Jones smentì tuo: disse che a Hollywood aveva visto Welles solo un paio di volte, e che trovarlo a Roma era stata una piacevole sorpresa; l’unico scoop fu la presenza
di Henriea, la gaa fulva e meticcia di Welles, che Orson aveva lasciato la sera prima a Jennifer per farle compagnia.5 Probabilmente fra i due non ci fu nulla, neanche un breve corpo a corpo fra le lenzuola: la Jones tornò presto da Selznick, diventando poi la sua legiima consorte. Ma le chiacchiere su Welles non si esaurirono alla partenza dell’arice. Eliminata la Jones, la nostra stampa fece la conta delle altre dive americane sposabili: “Oggi” riporta voci di un possibile matrimonio di Welles con Lana Turner, e “Fotogrammi” ricorda che prima di partire per l’Italia, Orson aveva trascorso un’intera serata a rimirare Gene Tierney. Ricomincia il gioco degli avvistamenti: Welles viene notato all’ippodromo delle Capannelle accompagnato dal fedele Barzini e da una “misteriosa signorina bruna che sembra sia una divea del varietà pescata e scriurata da Orson a Firenze”. Poco dopo “Film” svela il nome: si traa di Stella Nicolich, giovane diva della rivista. I giornali parlano subito di una proposta di matrimonio, che lei avrebbe però “rifiutato energicamente, dicendo che non ci teneva a sostituire Rita Hayworth”. Il night in cui l’americano si fa vedere più spesso è la Boite, a ballare la samba con ragazze sempre diverse, alle quali i cronisti si precipitano a chiedere il nome. Welles viene notato in compagnia di Gabriella Baiti, alcuni anni più tardi direrice dell’haute couture dello stilista Valentino,6 e di una futura diva, Gina Lollobrigida, che allora muoveva i primi passi nel mondo del cinema. Cosea Greco, insignita del titolo di Miss Scalera, passò con Orson almeno una noe di fuoco. Fra le presenze femminili più assidue del periodo c’è pure una sedicenne, slanciata e bellissima, un giunco flessuoso per il quale un giornale creò l’epiteto di “ritaiwortacea”: Franca Faldini. Welles, che aveva il doppio dei suoi anni, se la portò dietro nei suoi locali preferiti, alla Taberna Ulpia, a Tor Fiorenza, alla Boite, e negli studi della Scalera dove, indossati alcuni cenci contadineschi, la ragazza esordì come comparsa accanto a Ratoff. Franca andò a trovare Welles nei vari luoghi che l’americano aveva eleo a sua dimora, prima all’Excelsior, poi a Villa Manzoni, sulla Cassia, “dove ogni ripiano spariva soo cumuli di appunti”, e dove soo una speciale urgenza interiore Orson rappresentava solo per lei intere scene da Otello, interpretandone tui i personaggi e continuando a pregustare l’idea di un film.7
La vita, l’amore, il sesso si mescolavano a Shakespeare, al cinema, all’arte, una passione si travasava nell’altra. “L’erotismo,” disse Welles in quei giorni a René Clair, “non può più essere una semplice dependance della leeratura. È la lezione di questa Italia in cui desidero vivere…” Mentre cronometrano le uscite pubbliche e i successi amorosi dell’americano, i cronisti lasciano filtrare dalle loro colonne un’irritazione crescente. Nel giro di pochi mesi il personaggio Welles traslocò dalle pagine culturali dei quotidiani al gossip dei rotocalchi; la stampa cominciò a traarlo come un pioresco fenomeno da baraccone, sempre più orripilata dalla sua presenza monumentale, dalla sua risata fragorosa, dal suo concionare su mille argomenti. Orson era giovane, aveva fama di genio, spendeva il suo talento interpretando un film miliardario e si accompagnava alle donne più belle sulla piazza romana: il mondo dei locali nourni lo contemplava ancora con una certa ammirazione, e i reporter si divertirono per contrappasso a dileggiarlo, quasi a fargli scontare i suoi lussi. Non potendo ancora vedere Cagliostro o il famoso Citizen Kane, l’artista rimaneva indecifrabile, e la gran parte dei giornalisti poteva solo osservare l’uomo, con un misto di eccitazione e di invidia, penalizzati dalla mancata conoscenza di una lingua, l’inglese, che masticavano in pochi. Addolciti dai cocktail e ritmati dalle sambe, i night club di via Veneto furono le stazioni iniziali della via crucis italiana di Welles, le prime tappe di una radicale incomprensione: i cronisti, i “coloristi”, cominciarono un lento ma inesorabile gioco di demolizione, ritraendo l’esuberanza di Welles con le tinte violacee del sarcasmo, e trascinando nel gioco anche i critici cinematografici. L’arrivo di Lo straniero, sbertucciato a Venezia e approdato a fine anno in sala, fornì già un’oima occasione per ridimensionare il grand’uomo. Mario Gromo, recensendo Lo straniero sulla “Stampa” (“un drammaccio”), sintetizza così gli screzi con Hollywood: “Welles è indubbiamente un uomo d’ingegno, non poteva approvare i sistemi di produzione degli studi americani, non l’ha taciuto; e quelli l’hanno salutato, vai pure dove ti pare.” Per Gromo, Welles è comunque innanzituo l’annunciatore della famosa calata dei marziani, l’autore di trovate “a catapulta”, “un uomo che forse potrà mostrare un suo talento” ma che intanto
rimane “un meteorico enfant terrible del cinema americano”.8 Luciano Lucignani, sulla caolica “Rivista del cinematografo”, definisce e Stranger un “asmatico polpeone di presunzione e di caivo gusto”, parla del caso-Welles come di un deplorevole “equivoco” e conclude incautamente: “Il nome di Orson Welles nella storia del cinema americano resterà soprauo, se non soltanto, come quello del marito di Gilda, la bomba atomica di Hollywood.”9 “Nel sacco delle delusioni postbelliche,” scrive infine Felice, critico di “Film”, “meiamoci pur dentro anche Orson Welles, a meno che il suo Citizen Kane, non ancora comparso, non sia un capo d’opera tale che basti, da se solo, a sistemarlo legiimamente nella gloria. Da quello che ho visto, mi pare che si trai di un bluff.”10 “Blu” è una delle due parole utilizzate più spesso da critici e giornalisti italiani nei confronti di Welles. Bluffare significa utilizzare al meglio l’arte dell’inganno, e buona parte dell’opera di Welles, dalla Guerra dei mondi a F come falso, potrebbe essere definita come il trionfo dell’arte d’ingannare: soo cumuli di pregiudizi, i critici italiani videro in fondo qualcosa di giusto. L’altra parola costantemente utilizzata in Italia per umiliare lo stile del regista – e usata anche più spesso di “blu” – è “barocco”: nella recensione di Felice su “Film” si imputano tra l’altro a e Stranger “baroccherie alla Sternberg”. Da un punto di vista contingente, per gli italiani d’inizio ’48 il bluffatore barocco Welles non era che un ingombrante ospite venuto da un altro continente, la cui fama esplosiva veniva confermata dalle gesta sul set di Cagliostro e sulle piste da ballo. Da un punto di vista più profondo, in quel momento Welles appariva come la perfea incarnazione dell’americano ingordo e smargiasso, il “conquistatore” mascherato da “liberatore”. Il fao che venisse da Hollywood non era sufficiente ad arargli la benevolenza delle masse, avide invece di notizie sulla Hayworth o sugli amori di Linda Christian e Tyrone Power: agli occhi del pubblico, Welles era uno strano misto di aore e regista, arduo da comprendere e difficile da maneggiare, un intelleuale che si comportava come un playboy, un mezzo divo che anziché di piscine parlava di Shakespeare. In Italia la figura del regista-star esisteva già: pur senza giungere agli eccessi mondani di Welles, Viorio De Sica, già popolare come aore, e Roberto Rossellini, che frequentava apertamente la sua
amante Anna Magnani, facevano sensazione sia come cineasti sia come personaggi pubblici; ma oltre a essere italiani, De Sica e Rossellini avevano fao del proprio cinema la bandiera di una riscossa politica e morale nella direzione di un realismo intransigente, con una neezza di stile e un’obieività di sguardo che spazzava via, insieme alle commediole ungheresi e ai kolossal di propaganda, tue le ipocrisie e le ambiguità del recentissimo passato fascista. Che c’entrava l’americano Welles con loro? anto poteva davvero importare, agli italiani ansiosi di futuro, del trascorso elegiaco di Booth Tarkington, dei tagli di luce espressionistici, delle favoleggiate riprese dei soffii, e – peggio – del nazista tormentato di e Stranger quando la “correa” rappresentazione di un SS in quel momento in Italia era quella dell’aguzzino di Roma cià aperta? Ammesso e non concesso che un pioresco illusionista venisse a dare lezioni d’arte ai discendenti di Michelangelo e Leonardo, non c’era posto in Italia per un cineasta tenebroso ed effeato che sparigliava le carte del nascente neorealismo. “Neorealismo” è la parola chiave per comprendere quello che accadde a Welles durante i primi anni del suo soggiorno italiano. Il neorealismo è il movente nascosto che avvelenò la penna di molti recensori, la ragione per cui l’aeggiamento critico italiano, in apparenza analogo a quello di certe recensioni americane, si sviluppò in modo diametralmente opposto a quello della vicina Francia. Mentre Bazin scriveva che “on ne peut plus écrire de la meme façon au cinéma après Les Amberson”,11 Lucignani giurava a proposito dello stesso film che dietro “l’uso della macchina, spesso ingiustificato, l’illuminazione”, si noti bene, “anch’essa mai realistica”, e altre trovate “per essere a tui i costi originale”, ci sarebbe stata solo “una spaventosa, disorientante mancanza di qualsiasi significato, di qualunque idea”; e dava addosso a “La Revue du cinéma”, colpevole di riconoscere l’importanza della “rivoluzione cinematografica” di Orson Welles.12 L’opinione francese sul valore di Welles non fu univoca e serena come a volte si rischia di schematizzare: lo stesso Bazin dovee intervenire per rintuzzare le accuse di Pierre Laroche apparse su “L’Écran français” due numeri prima. Ma il livello del dibaito francese seppe innalzarsi al di sopra della cortina fumogena che lo stile infiammato dei film di Welles produceva di primo acchito su qualsiasi recensore. Mentre in Francia il réalisme poétique di Marcel Carné e Julien Duvivier camminava con le proprie gambe già prima
della guerra, in Italia il neorealismo era un neonato da proteggere e cullare, e l’estetica wellesiana, protesa verso l’artificio e consapevole del linguaggio dei classici del passato, apparve come una tronfia minaccia. Difendere o meere a rischio il neorealismo implicava tra l’altro una precisa scelta di campo politico, tra chi sperava in una radicale inversione di prospeive rispeo al regime fascista e chi confidava in un periodo di transizione che restituisse al più presto l’Italia ai privilegi di classe. Welles era partito dagli Stati Uniti all’inizio della caccia alle streghe per ritrovarsi in un altro paese travagliato da tensioni e cambiamenti epocali, dal varo della Costituzione alle imprese del bandito Salvatore Giuliano e all’aentato a Palmiro Togliai. L’approccio critico rimase subito imbrigliato da remore estetiche e politiche, e la presenza fisica di Welles, col suo caraere roboante e la sua invincibile mancanza di diplomazia, fece il resto. Dopo anni di menzogne e di vere invasioni, l’Italia anelava realtà e realismo, non certo un aore paludato da Cagliostro che aveva raccontato lo sbarco dei marziani. E i rotocalchi popolari bramavano di vendere polvere di stelle, non discussioni intelleuali con Togliai sulla pace universale. Cultura alta e cultura bassa si ritrovarono così miracolosamente d’accordo. Mentre i critici facevano a pezzi Lo straniero, i cronisti si divertivano a osservare il regista, a pedinarlo, a farne la caricatura. Su “Oggi”, l’americano viene dipinto come un gigantesco ballerino, inelegante e un po’ animalesco: “Welles è alto come un granatiere, grosso di corpo, i capelli speinati. Ha una espressione allucinata, candida e semplice allo stesso tempo: gli occhi di un bambino che fa dell’ipnotismo. […] Ride forte, scoprendo i denti e le gengive. Indossa spesso un giaccone che può servire sia in casa come pigiama, che in strada come giacca sportiva, da passeggio. Danza freneticamente, slacciandosi il colleo della camicia e allentandosi il nodo della cravaa.”13 Doriana Danton di “Hollywood”, che contro Welles aveva ormai ingaggiato una guerra personale, approfia di ogni occasione per ridicolizzarlo insieme a tui i suoi seguaci: “All’Excelsior, a un cocktail party […] Orson Welles, secondo il solito, ‘conferenzava’ aorniato da un mucchio di gente che lo ascoltava rapita, comprendendo un quarto circa del suo serratissimo inglese, ed esclamando ogni tanto con aria convinta: ‘Ma è un genio, è proprio
un genio’, forse perché, così poco avvenente è riuscito a sposare la bella Rita!”14 Paola Ojei di “Film” gli dedica alcune colonne di presunto galateo, con una punta di gelosia forse ispirata dalla fortuna muliebre che sembra accompagnare ovunque la star americana: “Una cosa chiediamo alla sua anima d’artista: un po’ di discrezione. A lungo andare quel suo rotear d’occhi, quella sua risata tonante […] stanca. […] Si sente scriurato per incontrare, accogliere e festeggiare, nonché spupazzare, tue le dive hollywoodiane di passaggio da Roma […]. Ai cocktails dati in suo onore bacia le signore che gli fanno circolo. Talvolta trova qualche uomo italiano che per meergli un po’ di giudizio e fargli esclamare spropositi palesi a tui, gli fa qualche scherzeo. L’altra sera, in un bar molto alla moda, un giovanoo italiano, d’accordo con una signora giocherellona, ha combinato il miscuglio dei fondi di bicchiere dei cocktails di venti persone e l’ha offerto a Orson Welles come un beveraggio prelibatissimo. E Orsone (sì, Orsone, perché dice di essere d’origine italiana, anzi discendente degli Orsini) […] beato, ha trangugiato quel finissimo e scientifico miscuglio con urla di ammirata stupefazione. La ricea, gli hanno deo, era un segreto degno di Cagliostro…”15 Il pezzo della Ojei s’intitola Ma ti calmi, sì o no? Un po’ di discrezione, Orson! Caso volle che, pochi giorni dopo, Orson si calmasse per davvero. La primavera romana del ’48 lo trovò più sereno, stranamente tranquillo, quasi rassegnato nel constatare che l’ammirazione reverenziale con cui era stato accolto alla prima conferenza stampa avesse lasciato il posto a una banale curiosità scandalistica. Continuò a farsi vedere in giro, ma indossò un aspeo meno impositivo e roboante. Puntuale, la stampa registrò anche questa repentina metamorfosi. “Orson Welles,” annuncia un cronista di “Film”, “si è ‘calmato’ […] e il suo contegno nella capitale sta diventando irreprensibile. alche suo scarto d’umore, m’aveva già deo Antonio Centa, era dovuto più che altro alle indiscrezioni, alle vessazioni degli ammiratori. […] Adesso il divo comincia ad avere meno fanatici intorno (in Italia, egli avrebbe deo, è volubile anche la gloria: ma forse non pensava a sé; pensava a qualche altro diatore) e così egli incominciava, a sua volta, a diventare riguardoso e ragionevole. L’ho sentito l’altra sera, alla petite table d’un ricevimento privato, dire cose assennatissime circa le gonne
lunghe, il piano quinquennale, gli occhi dei negri e il terzo ao del Macbeth […]; ha riconosciuto che le primavere romane sono belle anche quando sono infedeli.”16 Era una Pasqua decisamente fredda per Roma, ma Orson, romantico, la trovava “bella”! Il fao è che, dopo tante piccole e veloci avventure, l’americano aveva trovato la donna capace di stregarlo. Lea Padovani non aveva ancora compiuto venticinque anni (ventoo secondo altre fonti). Nata a Montalto di Castro, in provincia di Viterbo, aveva nelle vene sangue veneto e toscano. Mora, piccolina, paffuta, due grandi occhi scuri: non era una gran bellezza ma era dotata di un temperamento vivace e sensuale (un giornale la definisce “tenera, materna, puerile, gelosa, furiosa, soave a seconda della luna”) che la rendeva subito interessante. Gli uomini le cadevano ai piedi a grappoli. Le sue prime tappe professionali sono costellate di dissidi amorosi, fin dall’epoca in cui frequentava l’Accademia d’arte drammatica: si disse che la giovane allieva fosse stata costrea a lasciare dopo i primi anni perché il presidente Silvio d’Amico in persona si era preso una coa per lei. Malgrado la formazione accademica, la Padovani aveva optato per il mondo leggero della rivista, facendo subito una nuova viima, Macario. Il quale arrivò a picchiarla quando si accorse che lei propendeva invece per Massimo Serato, già grande amore della Magnani. L’arice continuò col teatro serio, interpretando fra l’altro una memorabile edizione dei Parenti terribili di Jean Cocteau per la regia di Visconti, e intanto girò Il sole sorge ancora e una manciata di altri film. All’epoca Lea Padovani aveva quindi già un certo nome nel mondo dello speacolo ma Welles non sapeva nulla di lei. Il regista la incontrò al ristorante della Scalera, alla fine del marzo 1948. Lea mangiava allegramente con una ex compagna d’accademia, Edda Albertini, e altri colleghi. In un’intervista avrebbe poi ricordato come l’incontro fosse stato combinato quasi per gioco da alcuni amici, sicuri che Welles non sarebbe rimasto insensibile alla sua bellezza. Forse per non smentirli, la giovane arice ci mise un pizzico di fascino in più: si presentarono, e scoccò il colpo di fulmine. Abbagliato, Welles fece qualche ricerca e venne a sapere che la ragazza recitava tue le sere al Teatro delle arti, nella commedia di Noël Coward L’allegra verità. Andò il giorno stesso ad applaudirla.
Alla fine entrò nel suo camerino e si congratulò per l’interpretazione; poi l’aspeò all’uscita degli artisti e continuò a guardarla incantato mentre l’arice si allontanava da sola soo la pioggia. Orson tornò ad applaudirla a diverse repliche. Al sipario, prendeva regolarmente la direzione del suo camerino, da cui uscivano insieme per raggiungere un tavolo d’angolo al ristorante Boccaccio. Malgrado lui non avesse ancora imparato bene l’italiano e lei non conoscesse una parola d’inglese, i due rimanevano fino alle tre passate tentando di discorrere di teatro e di cinema. “Welles,” annota un giornalista di “Oggi”, “entrava ogni sera al ristorante, esclamando: ‘Che fame, che fame’, e ordinava abbondanti piai di spaghei, insalata e formaggio. Niente carne. Sia Welles che la Padovani si trovavano sempre d’accordo sul Chianti rosso. La prima sera Welles era particolarmente euforico. Uscendo dalla Taverna strinse affeuosamente la mano a Gino, il capocameriere. Ogni sera lasciò buone mance. Mai i due furono sorpresi in aeggiamenti languidi o comunque scomposti. Si squadravano e si osservavano aentamente, e ognuno cercava di frugare nell’animo dell’altro, araverso i discorsi, le opinioni, i giudizi, i gesti e le espressioni. Welles indossava di preferenza un doppiopeo blu a righine, oppure una giacca a scacconi su pantaloni grigi; Lea, in tailleur nero, era quasi sempre truccata.”17 “Ero molto amico di Lea Padovani,” ricorda a distanza di molti anni Sergio Sollima. “Era un’arice straordinaria, una piccola Bee Davis italiana, ma un po’ troppo svitata. Aveva qualcosa anche della Magnani, lo stesso tipo di grinta. E più bella: in una rivista aveva fao uno spogliarello da infarto per l’epoca. Una sera andai a trovarla al Teatro delle arti, a salutarla come un buon amico, e trovai Orson seduto in poltrona. Di lei e Welles non sapevo nulla. Entrai in camerino e le dissi ‘guarda che c’è Welles in platea’, pensando che le facesse piacere. Ci feci una magra figura, perché dopo cinque minuti entrò anche Orson. Mi riconobbe: ero stato alla sua prima conferenza stampa, all’Excelsior, si ricordava persino come mi chiamavo. Mentre Lea tornava in scena, noi due facemmo una bella conversazione. Lui non parlava bene l’italiano, io sapevo solo un po’ di inglese, però conoscevamo tui e due il francese: parlammo uno strano miscuglio internazionale, ricorrendo a gesti ed espressioni da showman, lui sublime e io apprendista. Mi domandò cosa facessi. Gli dissi che volevo fare il regista e che stavo scrivendo un soggeo su Salvatore Giuliano. Ne fu solleticato: ‘Be’,
certo, è un personaggio affascinante,’ mi disse, ‘sarebbe interessante andare a fare un salto giù a Montelepre.’ Già ci si vedeva dentro, con i doppi e tripli caraeri che aveva Giuliano. Sarebbe stato bellissimo, ma come tante altre cose poi si è persa: non avemmo più occasione di incontrarci. La Padovani invece continuò a vederla. Welles ne era proprio preso, mentre Lea era ancora bloccata nella sua storia con Massimo Serato.”18 Che Welles ne fosse innamorato fu subito chiaro, sia agli amici che ai giornalisti, ma fu altreanto chiaro che Lea non voleva saperne. La Padovani acceava la fervida corte dell’americano ma più lui era languido più lei gli si ribellava. “esti americani,” si sfogava Lea con gli amici, “che credono di poter comprar tuo con l’UNRRA, la farina, i tessili, i dollari e la fama d’oltreoceano…” Orson non demordeva, anzi, se la Padovani accennava a chiudere la porta del camerino, lui infiiva gli assedi. Il frivolo magazine “Cine illustrato” segnala Welles, con Ratoff e Barzini, fra i giurati di un concorso per giovani arici sponsorizzato da MGM e Warner Bros., ma Orson non si lasciava più sviare da giovani tentazioni, e confidò a un’amica di aver preso una grande decisione: “Non ho mai conosciuto una donna più adorabile di lei. Io la registro.” Cioè, nell’anglo-italiano parlato da Welles in quel periodo, I’m going to register her, la sposo. Lea Padovani andò a chiedere un parere a Guglielmo Cortese, l’organizzatore della sua compagnia teatrale. E Cortese diede alla giovane arice “un affeuoso consiglio da uomo pratico della vita”: nel linguaggio romantico dei rotocalchi, le suggerì di acceare la corte. Welles era pur sempre un cineasta americano, ricco e famoso, e Lea, che era capricciosa ma ambiziosa, avrebbe potuto giovarsene moltissimo per la sua carriera, magari spiccando il salto verso la notorietà internazionale. Orson, sulle spine, era in trepida aesa di un sì. Lea, per tua risposta, gli disse che avrebbe preso un aereo per la Sicilia, dove Serato stava girando Il principe ribelle di Pino Mercanti: sarebbe stato il suo fidanzato in carica a decidere se mantenere il titolo o farlo precedere da un ex. Lasciamo ancora la parola a un rotocalco dell’epoca: “‘Non ho dirio di decidere. Prendo l’aeroplano, vado da Massimo che è in Sicilia. Sarà lui che sceglierà il mio destino.’ La vigilia della sua partenza, Orson Welles pranzava in casa del suo regista americano [Rato]. C’era molta gente e tui poterono constatare quanto fosse nervoso. Finalmente si confessò. Disse che
aveva comperato un anello, un anello meraviglioso per la sua dannata Lea, ma aveva paura che lei non lo acceasse, che glielo buasse sulla faccia, e per questo non aveva ancora osato darglielo. […] Il giorno dopo Orson Welles fu all’aeroporto maledicendo l’apparecchio d’argento che portava la sua bella verso la fatale decisione. Gli occhi di Lea erano pieni di lagrime. ando Orson le fece scivolare qualcosa sul dito, non disse niente. L’aeroplano se la portò via. Orson Welles ritornò in cià pazzo di gioia e agli amici, anche a quelli che non sapevano niente, gridò estasiato: ‘L’ha preso.’”19 Il gioiello, informa un altro giornale, sarebbe stato un anello con brillante da un milione e mezzo di lire (dell’epoca!), e pare che in Sicilia la Padovani lo sfoggiasse orgogliosa in pubblico; il confronto con Serato, d’altra parte, non dovee essere drammatico, perché dopo un anno di convivenza e di continue infedeltà da parte di lui, non esisteva in realtà più nessun fidanzamento. Lea lasciò che Orson cuocesse ben bene: dalla Sicilia, risalì fino a Firenze per votare alle prime elezioni politiche della repubblica. La partenza per la Sicilia era avvenuta il 12 aprile, le elezioni ebbero luogo il 18: per almeno una seimana Welles rimase a struggersi nell’incertezza, “fumando e arrabbiandosi sempre più col povero Barzini”.20 In quei giorni, Orson assisté a un’anteprima privata di Il miracolo, il mediometraggio di Roberto Rossellini in cui Anna Magnani interpreta una povera contadina convinta di essere la Madonna e ingravidata da un pastore (Federico Fellini), da lei scambiato per san Giuseppe. Il giorno dopo Welles incontrò il regista e l’arice al night club Le Pleiadi, e si congratulò calorosamente per il soggeo, la regia e la tolleranza accordata dal Vaticano. Secondo Michel Sander, il giornalista francese che riferisce l’episodio, Welles avrebbe proposto a Rossellini una specie di bis a quaro mani, una Vita di Gesù con un soggeo di Rossellini (“rifiutato fino a quel momento da tui i produori”), direo da Welles e interpretato da lui stesso e dalla Magnani, rispeivamente nei panni di Cristo e Maria!21 La mancanza di riscontri a questa notizia fa temere un eccesso di fantasia giornalistica, eppure l’articolo, a cui non mancano imprecisioni ed esagerazioni, contiene notizie e deagli veritieri. Come che sia, né questa né altre collaborazioni con Rossellini si realizzarono mai: all’epoca il regista italiano era preso da tu’altri progei (un contrao appena
stipulato con Eduardo De Filippo, un film con Jennifer Jones prodoo da Selznick, una commedia per la Magnani, perfino il futuro Francesco, giullare di Dio), e già si addensava all’orizzonte la clamorosa love story con la Bergman che lo avrebbe portato alla realizzazione di Stromboli e alla separazione da Anna. Rossellini era un cineasta geniale, ma non era certo l’uomo più affidabile del mondo; e Welles, che al suo arrivo a Roma aveva citato Roma cià aperta e Paisà fra le sue pellicole italiane preferite, avrebbe presto cominciato a criticare Rossellini e il suo cinema, con un’acredine che lascia indovinare una cocente delusione o un concreto litigio. In Italia la primavera del ’48 segnò una svolta cruciale. Dopo un periodo di durissima contrapposizione ideologica, il 18 aprile le prime elezioni democratiche videro la vioria della Democrazia cristiana con il 48,5% dei voti contro il 31 del Fronte popolare (comunisti e socialisti). Togliai accusò l’America e la Chiesa di pesanti ingerenze ma acceò il responso delle urne.
Rapporto dell’agente Henry L. Manfredi del 17 marzo 1948, su un incontro fra Lucky Luciano e Orson Welles (archivio Giuseppe Casarrubea).
Welles era intanto preso da una ridda di progei che continuavano a ingarbugliarsi. Gli scambi di leere, nastri e cablogrammi con l’America a proposito di Macbeth erano aumentati insieme alle diffidenze dei dirigenti della Republic Pictures; all’inizio di marzo, dopo oltre tre mesi di ritocchi in moviola, Lou Lindsay era ripartito per l’America con una copia montata. Come aveva fao per il Macbeth, Welles meditava di filmare Otello subito dopo averlo portato sulla scena, ma il ritiro dal progeo di Edward Small, che dopo essersi deo interessato a coprodurre il film si scopriva ora intimidito dal clima politico italiano, mise in forse l’intera operazione. In compenso, gli arrivò la più inverosimile delle proposte: il gangster Lucky Luciano venne a suggerirgli un film sulla “vera storia della sua vita”. “Pensava che avrei dovuto farlo,” racconterà. “Io avrei dovuto scriverlo e dirigerlo e pure interpretarlo. Avrei potuto elevarlo a una posizione storicamente decente.”22 Dopo la sparizione dei negativi del Circo, anche Cyrano de Bergerac sembrava essersi arenato. All’inizio di febbraio, Welles aveva fao una capatina a Londra per rinegoziare con Korda il progeo: i due convennero di spostare l’inizio delle riprese dalla primavera all’estate, con Alexandre Trauner alle scenografie e Henri Alekan alla fotografia; il film sarebbe quindi stato distribuito dalla Fox. Al ritorno, Orson fece tappa in Costa Azzurra, dove rivide Marcel Pagnol e rilasciò ai giornalisti nuove desolate dichiarazioni contro l’establishment: “Ho pagato caro la mia libertà. Io non ho voluto piegarmi davanti ai banchieri né sostenere un’ideologia politica. Ma per fare dei film ci vogliono dei soldi e può darsi che, piuosto di cedere a legami di caraere finanziario, io abbandoni il cinema.”23 Orson contava almeno nell’amore di Lea. Dopo il viaggio in Sicilia e in Toscana, l’arice avrebbe finalmente sciolto ogni riserva acconsentendo – si augurava lui – a concedergli la mano. Tornata finalmente a Roma, la Padovani dichiarò che non si sentiva ancora di prendere una decisione. In quanto al famoso anello, il fao che Lea lo indossasse non significava proprio nulla. Una sera, di fronte a un gruppo di amici, Orson sputò la più deludente delle verità: la Padovani, sì, gli aveva deo che quando avesse deciso di sposarlo avrebbe indossato l’anello, ma il giorno in cui lui glielo aveva visto
al dito, lei gli aveva risposto imbarazzata di averlo indossato solo per evitare che il fratello glielo rubasse.24 Esasperato, il regista aprì una copia di “Bis”, neonata rivista cinematografica milanese, e si ritrovò protagonista di un lungo articolo che lo dipingeva come un beone incallito: “Si alza alle nove del maino già ubriaco per il whiskey abbondantemente bevuto sino all’alba nei locali nourni; e tra un sorso e l’altro balla la samba e il jierbug freneticamente, strappandosi la cravaa e la camicia: camicia di seta, a righe, di color pallido o azzurrognolo. Beve anche appena alzato, mentre si rade con sapone comune e senza pennello, o fa la prima abbondantissima colazione. Beve sempre. Non si sa se per dimenticare le due ex mogli […] o per le accuse che si muovono continuamente contro di lui e i suoi film.”25 L’incidente accadde in un periodo in cui Welles era particolarmente irritabile; non fosse stato per la tensione a cui Lea lo stava sooponendo, Orson avrebbe forse lasciato cadere la cosa, ma stavolta decise di reagire. Chiamò un avvocato e procedee a querelare il giornalista, tale Roberto De Paolis, nonché il direore della rivista e l’autore delle fotografie. All’inizio di maggio salì su un aereo e, a sorpresa, tornò negli Stati Uniti.
Franca Faldini: “Fu solo un flirtino ragazzino” Roma, 11 novembre 2005 Franca Faldini (1931-2016) è nota per essere stata la compagna di Antonio de Curtis, con il quale condivise saltuariamente il set come arice. Ma la vita prima e dopo Totò riserva parecchie sorprese a chi non la conosce. “La bella di via Veneto” la soprannominavano quando, adolescente, usciva dall’abitazione nella vicina via Lazio per salire e scendere sulla strada di Doney e Rosati. La sua grazia stregò Welles all’epoca del Cagliostro; poco dopo, Franca strinse amicizia con Errol Flynn, e nel 1950 era già a Hollywood, scriurata dalla Paramount come exotic type. Dopo un film con Dean Martin e Jerry Lewis, tornò a Roma, conobbe Antonio de Curtis e gli rimase accanto con amore e pazienza per quindici anni. Alla morte del comico ha fao la giornalista, la tradurice e scrio alcuni fondamentali testi sul cinema (come L’avventurosa storia del cinema italiano, sterminata raccolta di interviste raccolte e ordinate con Goffredo Fofi). Ha acceato di tornare al cinema dopo molti anni nell’ultima pellicola di Alberto Sordi, Incontri proibiti. Franca Faldini ha rivelato la sua breve conoscenza con Orson Welles nel libro Roma Hollywood Roma. Il regista di Citizen Kane l’aveva notata all’ABC mentre lei, allora sedicenne, ballava con un coetaneo. “Orson Welles non ti leva lo sguardo di dosso,” le aveva deo il suo accompagnatore. ando la ragazza uscì dal locale, il regista la seguì a bordo di un’auto, da cui Antonio Centa scese a prendere nota della via e del numero civico in cui era entrata. Il maino dopo, le arrivò un fascio di fiori con un biglieo siglato a penna O.W.; e l’omaggio si ripeté ogni giorno per una seimana, finché i due non si ritrovarono a un pranzo di gala all’Excelsior. “È raro imbaersi in persone intuitive e delicate quanto Orson Welles,” scrive l’arice. “La sua fu la corte lieve e garbata di chi, avendo già imparato a spese proprie quanto sia breve la stagione dei sogni a occhi aperti, si aiene all’etica di non disincantare innanzi tempo quelli altrui. E infai mi si propose sempre come una presenza
romantica. Finché ne ebbe la disposizione d’animo e la pazienza…”1 Franca Faldini non avrebbe voluto aggiungere di più, consapevole di una maturità che allora non poteva avere e fin troppo scrupolosa che la sua breve relazione potesse venire scambiata per pomposa vanteria. Son passati talmente tanti anni, è una cosa durata solo un momento… Meiamola così: fu solo un flirtino ragazzino. FALDINI
Mi pare di capire che all’inizio il personaggio non la impressionasse poi tanto. Per me allora, come per buona parte degli italiani, Orson Welles era solo il marito della Hayworth. Il primo commento che feci su di lui fu proprio questo, “il marito di Rita Hayworth”. Come aore o regista non ero in grado di capirlo o di interessarmene. All’epoca avevo sedici anni e c’era anche un ragazzo che mi piaceva, e con cui uscivo. Cosa le piaceva di Welles? Fisicamente lo ricordo alto, magro, aveva occhi spiritati e un ciuffo di riccioli scuri che gli cadevano sulla fronte. Non era bello ma ti poteva affascinare. Soprauo a sentirlo parlare o recitare pezzi di commedie e di tragedie, con quella voce straordinaria. E ridere: aveva una risata tua sua, particolare, che non so descrivere. Come parlavate? Welles non conosceva ancora l’italiano. Parlavamo inglese. Io lo parlavo benissimo, avevo preso il diploma al British Institute. ando, più tardi, andai in America, lo parlavo ormai ultra bene. La conoscenza della lingua mi ha aiutato: morto Antonio, per alcuni anni ho tradoo dall’inglese una quarantina di opere di fiction, è stato quello il mio lavoro finché non ho scrio di cose mie. Ha mai parlato con Welles della Hayworth? Lui ne aveva grandissima stima, diceva che era una bravissima persona, ma che non avrebbe dovuto fare il
cinema. Welles non provava alcun piacere ad avere come compagna una del cinema, un’arice. Diceva sempre che Rita era una persona con cui era rimasto in oimi termini ma che secondo lui era talmente priva di malizia, di “driate” nel bazzicare quel mondo, che non avrebbe mai dovuto fare il cinema. Lo diceva con rispeo, senza alludere a una incapacità di recitazione, proprio sul piano umano. Come finì dentro Cagliostro? Ho ancora la foto. Ci siamo io, Ratoff e non so chi altro vestiti da contadini, tui a fare le comparse. La scena era ambientata in un fienile; scendevamo da una scalea, io avevo uno scialle in testa, Ratoff calzava delle specie di ciocie con le fasce aorno alle gambe. Non ricordo per quale motivo fummo utilizzati, credo di non aver neanche mai visto il film. Fu la mia primissima volta su un set cinematografico, non avevo altre esperienze, era il periodo che Welles mi faceva questa corte carina ed io ero andata alla Scalera a guardare girare delle scene. Fu Welles a proporglielo? Pensava già che un giorno anche lei avrebbe potuto interpretare dei film? Ah no, Welles non era il tipo da illuderti sul cinema. Io poi non ambivo assolutamente a fare l’arice. La prima volta che ho provato una certa tentazione davanti alla macchina da presa fu con De Sica. Lui e Zavaini mi fermarono una maina, mentre andavo in un ufficio postale in via Lombardia: li avevo colpiti, mi volevano per il ruolo della statua in Miracolo a Milano. In quel momento De Sica era il massimo e pensai che in fin dei conti… Vabbè, faccio il provino. Indossai una tunichea, De Sica mi diceva “muoviti lentamente!” ma io ero proprio un torso di broccolo, e la parte andò ad Alba Arnova. ella fu la prima volta che mi venne in qualche modo voglia di fare del cinema. Non ricordo come finii in quella scena di Cagliostro, ma credo che nacque a livello di mascherata, una cosa tra amici, come si faceva spesso allora, quando sul set non c’erano problemi particolari, né sindacali né altro.
Leggo dal suo libro: “Ratoff […] al minimo brusio delle nostre maestranze, avvalorava i peegolezzi dell’ambiente che lo davano per uno scagnozzo di Zanuck sbraitando in un italiano storpiato e carico di accento.”2 Perché “scagnozzo di Zanuck”? Zanuck era il mogul della 20th Century Fox, ed era molto di destra. Il sospeo è che Ratoff fosse stato messo lì a fare il cane da guardia del padrone, a sorvegliare, anche perché le maestranze italiane erano tue di sinistra. In realtà pare che Ratoff fosse anche stato coinvolto nelle liste nere del maccartismo. Non saprei dire di più… Io lo ricordo come un personaggio non molto gradevole, anche fisicamente, perché era biondastro, flaccido, con appresso questa sua amica o compagna russa, non ricordo come si chiamava, sempre contornato da questi russi… Dove alloggiava Welles in quel periodo? Appena arrivò andò ad abitare nelle Scuderie di Villa Madama, che allora era di Dorothy di Frasso. Welles scese lì i primissimi tempi, poi per un lungo periodo rimase all’Excelsior. indi, ma già in epoca Padovani, prese in affio quello splendore che era Villa Manzoni. Sta all’inizio della Cassia, vicino a dove c’era il Belvedere delle Rose, venendo da corso Francia, dopo poco, sulla sinistra. Una villa splendida, oggi completamente abbandonata: cade a pezzi, ma proprio leeralmente, il teo è crollato, le finestre sono distrue. Non so quale sia la storia della villa, credo appartenesse ai conti Manzoni. Allora, a cavallo fra i quaranta e i cinquanta, era ancora tua arredata, ricordo che ci andai a prendere un tè. Non esiste più neanche la locanda di Tor Fiorenza, dove andai qualche volta con Welles. Era un posto così gradevole, stava dalle parti di piazza Priscilla, era un vecchio casale bellissimo, con pochi tavoli, il fuoco sempre acceso, una cosa raffinata ma anche vera, autentica. Chi frequentava Welles? Uno che si vedeva spesso con lui era il principe Tasca. C’era poi un segretario, non ricordo come si chiama. E anche
un regista russo, Wascinschi, qualcosa del genere… Waszyński. Esao, Welles si vedeva spesso con lui. E poi alcuni aori italiani come Antonio Centa, un aore anche bravo, quello di Un colpo di pistola di Castellani. Credo che a Welles facesse un po’ da ruffiano… Ho visto pure Barzini, alcune volte. Le cronache dell’epoca parlano di alcune stelle e stelline che Welles frequentò prima di lei: Stella Nicolich, Gabriella Baiti, anche Gina Lollobrigida. Non ne so niente. E Lea Padovani? Ho assistito al loro primo incontro, al ristorante della Scalera, e posso dire che Orson ne fu leeralmente folgorato. Welles entrò, e gli fu presentata Lea Padovani. La quale si alzò dal tavolo e, anziché stringergli la mano come avrebbe fao chiunque, gli accostò la sua a palmo aperto, facendo combaciare le cinque dita. E lì ci fu un silenzio… Intuimmo tui che sarebbe nato qualcosa. A rivederla nei suoi film Lea Padovani mostra un bel temperamento, ma pare che dal vivo sprigionasse anche una grande sensualità. Lea era una donna prima di tuo molto intelligente, e abbastanza colta; da sempre frequentava il mondo del teatro e aveva anche approfondito alcuni scriori. Non era un gran bellezza, era piccolina, con questi grandi occhi tondi, ma aveva un corpo perfeo e una carica strana, che piaceva molto agli uomini. Piccola ma faa bene, era proprio una piccola perfezione. Aveva un corpo delizioso che allora avevano visto in molti: Lea era una delle donnine di Macario, aveva appena fao furore in Febbre azzurra. ando compariva, non è che togliesse il respiro o facesse cadere col naso per terra, però evidentemente sprigionava fascino. E aveva un bel caraere, era una gran dria… Che impressione dava Welles? ella del genio in esilio, cacciato da Hollywood, o quella del divo di passaggio nel nostro
paese? A me dava l’idea di uno che in Italia si trovasse bene, che non avesse nostalgie di sorta, e che non si sentisse neanche in qualche modo viima. Per quello di cui potevo accorgermi io allora: a quell’età ci sono sfumature che uno non è in grado di cogliere. Però non faceva discorsi baaglieri contro Hollywood o di nostalgie o di viimismo, io almeno non ne ho sentiti. Nel giro di poco tempo l’immagine di Welles cambiò, da divo americano festeggiato a uno qualsiasi. Capitava spesso che le star americane venissero prese soogamba? A tue quante. elli che si sono traenuti in Italia sono finiti tui così. È una cosa che fa parte del caraere degli italiani. Di norma scendevano all’Excelsior, quello era l’albergo delle grandi star, e i primi tempi vedevi proprio le folle che aspeavano l’uscita del divo. Poi passava un mese, il divo lo vedevano da Doney, da Rosati, al 54, al Jicky Club: non era più una novità. Alla fine, quando si ritrovavano di nuovo davanti Tyrone Power, dicevano: “Ah, è il solito Tirone…” Pronunciato proprio così, “tirone”. Però la stampa continuava comunque a parlare di Welles. alche tempo dopo, i giornali pubblicarono con un certo risalto perfino la notizia che l’aore era stato morso da un cane. Me lo ricordo bene, dovee fare qualcosa come quaranta iniezioni di antirabbica. Ad Orson gli animali piacevano moltissimo, era una cosa che avevano in comune tanti nell’ambiente artistico. La Magnani usciva anche dai ristoranti per dar da mangiare ai gai, si faceva meere qualcosa da parte e glielo portava, era quasi un rito. Anche Welles amava moltissimo i cani, se ne incontrava uno che gli faceva simpatia gli faceva una carezza; quando fu morso deve essere successo qualcosa di simile. esto successe nel ’51, quando lei era appena tornata da Hollywood. Aveva ripreso a frequentarlo?
No, la nostra relazione era durata lo spazio di un maino. Ci siamo incontrati casualmente, non c’era bisogno di andarsi a cercare: Roma allora viveva praticamente tua aorno a via Veneto e ai suoi locali, io uscivo quasi tue le sere, di conseguenza era facilissimo ritrovarsi. Andavi in un club e incontravi subito qualcuno, chiacchieravi per dieci minuti e trovavi qualcun altro; uscivi con il tuo gruppo, ne incontravi altri e i gruppi si univano. Erano come dei saloi, tuo molto piacevole, alla fine dove andavi trovavi persone che conoscevi, uscivi con tre e ne vedevi trenta. Anche il lavoro del giornalista era molto facilitato per questa ragione. Era un’epoca bellissima, anche perché in questi locali c’era un ambiente omogeneo, potevi pure trovarci il pazzo ma non il maleducato o peggio come oggi. Nel 1953 ritrovò Welles sul set dell’Uomo, la bestia e la virtù, quando lei viveva già con Totò. Fu l’ultima volta che vide Orson? Sì, è stata l’ultima volta. ando ci siamo rivisti non abbiamo neanche approfondito la rimpatriata, ci siamo salutati come se ci fossimo visti tre giorni prima, senza rispolverare nessun ricordo. Fra Welles e Totò c’era una reciproca stima, ma L’uomo, la bestia e la virtù fu anche un film disgraziatissimo: Totò non lo voleva fare, e Steno non era uno che potesse dirigere Pirandello… Era un film voluto da Ponti non si sa perché, e raffazzonato, con Totò che doveva lavorarci per forza solo per onorare un contrao, Welles che aveva bisogno di quarini ed era quindi disposto a fare qualsiasi marchea, e Viviane Romance che era ormai un rudere alla fine della carriera, con questo marito sempre appresso, scocciante… All’epoca vide Macbeth o Otello? Ho visto Otello ma anni dopo, non nel momento in cui uscì. Mi piacevano i bei film, le sciocchezzuole non le sopportavo, ma non è che allora fossi in grado di dare giudizi. E oggi quali film di Welles le piacciono?
A me piace molto Citizen Kane, geniale per l’epoca, anche come metafora del potere della stampa, di questi magnati. Ricordo che mi era piaciuto L’orgoglio degli Amberson. E per l’appunto Otello: lui come Moro era formidabile, era anche fisicamente in parte. Cosa ricorda oggi con maggiore affeo di Welles? La delicatezza con cui sapeva traare una ragazza giovanissima. Non è facile per un uomo fao, io credo, traare una ragazza senza annoiarla e senza neanche risultare ridicolo, senza cercare di comportarsi alla pari come un ragazzino. Una delicatezza che vedo anche in una delle frasi che mi scrisse. A volte mi arrabbiavo perché non mi aveva telefonato puntuale o cose del genere: arrabbiature tipiche da ragazzina, anche se le ragazzine di oggi sono molto diverse. E allora lui mi mandava dei biglieini, che ho sempre conservato. Una volta mi scrisse: “Come vorrei che tu fossi cinque minuti più vecchia per capire cosa significhi essere stremato dal lavoro.” Ecco, non ha scrio “cinque anni”, ha scrio “cinque minuti”…
5. Il ciadino Kane
– Dov’è il mio articolo, signor Bernstein? Ormai devo decidermi a finirlo. – Il signor Kane lo sta terminando per lei […], nel tono con cui lei lo aveva cominciato. Sarà una vera stroncatura, com’era nelle sue intenzioni. Leland (Joseph Coen) e Bernstein (Evere Sloane) in arto potere
Nel ’48, per la maggioranza dei critici italiani, Citizen Kane era un mito ancora da verificare: molti ne parlavano, stuzzicati dalla fama di opera rivoluzionaria, ma quasi nessuno l’aveva visto. Dopo l’uscita in America nel ’41, da noi aveva fao capolino in proiezioni private per l’alta dirigenza fascista, dopodiché aveva seguito la sorte di tanti film stranieri, bloccati dalle streoie autarchiche del regime e dallo scoppio della guerra. Il pubblico italiano aveva accumulato un forte arretrato col cinema statunitense; pellicole aese da anni, da Via col vento all’Ombra del dubbio, erano state distribuite solo dopo la cessazione delle ostilità, spesso doppiate freolosamente con la collaborazione di qualche italoamericano. Dopo la guerra, il film era subito arrivato in Francia. “L’uscita di Citizen Kane nel luglio 1946 fu un avvenimento straordinario per i cinefili della nostra generazione,” ha scrio François Truffaut.1 ella stessa estate da noi era uscito L’orgoglio degli Amberson; Citizen Kane invece rimase congelato, i dirigenti della RKO sembravano non avere frea
di proiearlo nelle nostre sale. Il diktat di Hearst aveva probabilmente un peso anche in Europa ma a scoraggiare i distributori dovevano essere soprauo le novità narrative e formali. alche voce s’era già levata a indicare stravaganze e bizzarrie di un film “che nonostante la lunga preparazione appare a volte scarsamente meditato e che rivela in particolare un grave squilibrio tra forma e contenuto.”2 Eppure la curiosità di vederlo c’era, eccome. Di Citizen Kane aveva parlato il “Politecnico” di Elio Viorini nel marzo 1946, ancora prima dell’uscita francese: un articolo riporta voci sul blocco imposto dalle autorità alleate a La via del tabacco e Furore di John Ford e appunto a Citizen Kane, film ai quali si aribuiva “un caraere tendenzioso, falsario e diffamatorio”. La fobia antibolscevica degli americani era già arrivata e “Il Politecnico”, di chiara ispirazione comunista, era pronto a registrarla. “La storia del film,” scrive Stefano Terra nel suo articolo, “si sviluppa soprauo intorno alla solitudine di Kane. La terribile solitudine di certi tiranni, di qualche cavaliere d’industria, insomma dei più grandi rappresentanti dello sfruamento moderno degli uomini.”3 Fu probabilmente la presenza del regista in Italia, con l’alone pioresco che si portava appresso, a smuovere i distributori. Il 25 febbraio 1948 l’ufficio italiano della RKO inoltrò domanda alla presidenza del Consiglio dei ministri perché autorizzasse la programmazione e il doppiaggio del film Citizen Kane; la copia presentata misurava 3126 metri, era contrassegnata con il titolo originale e un improponibile sootitolo italiano (il Ciadino Kane, che ai tanti che non conoscevano l’inglese suggeriva una commedia sul migliore amico dell’uomo). Il nulla osta arrivò subito, il 6 marzo, accompagnato da un lusinghiero giudizio della commissione di revisione,4 ma la RKO rimandò il doppiaggio e lasciò il film in magazzino per un paio di mesi. Fosse uscito in Italia nel 1946, Citizen Kane avrebbe forse trovato come in Francia occhi e orecchie aenti. Ma due anni dopo, in piena epoca neorealista, il clima era completamente cambiato. Luciano Lucignani giura ai leori della “Rivista del
cinematografo” che “non c’è veramente nulla di rivoluzionario e di sociale, in Citizen Kane,” tranne “il fao che il regista fa il comodo suo con la macchina da presa, con il soggeo e con gli aori”.5 Anche Roberto De Paolis, dentro lo stesso articolo di “Bis” in cui dava dell’ubriaco al regista, anticipò la stroncatura: “Una cosa pare comunque certa: che neppure lo stesso Ciadino Kane (opera singolare nell’insieme) sia tuo oro. Welles, anche se ha dato a Chaplin l’idea per Monsieur Verdoux, non è l’autore de La febbre dell’oro. La forza di Orson è da ricercare su un altro piano: di intelligenza, semmai, e non poetico: in un modo concitato di narrare che sbalordisce, ma non convince: una concitazione oenuta con inquadrature stravaganti e spregiudicate. Sbalordire ad ogni costo è il fine di Welles.”6 Come si è deo, Welles procedee a querelare De Paolis, non per il giudizio sul film ma per i rilievi sul suo presunto alcolismo. Citizen Kane venne finalmente presentato il 12 maggio 1948 al cinema Excelsior di Milano, in serata di gala, come chicca inaugurale per un festival del cinema internazionale organizzato dalla locale Cineteca italiana. L’assenza di Welles, partito per l’America, smorzò la portata dell’avvenimento, e l’intellighèntsia locale si tenne alla larga. “Si può dire senza esitazione che Citizen Kane era il film più aeso in certi ambienti intelleuali italiani,” scrisse sull’“Unità” Ugo Casiraghi. “Ma tuo sommato, alla proiezione di ieri […], gli assenti erano proprio gli uomini di cultura.” La RKO non aveva ancora provveduto al doppiaggio: i primi speatori italiani videro Citizen Kane in originale con sootitoli – e neanche ben tradoi se Panicucci dell’“Avanti!” scrisse di aver ascoltato dialoghi “spesso misteriosi”. Citizen Kane riuscì comunque a sorprendere tui, compresi i prevenuti. Casiraghi, per esempio: dopo aver in qualche modo giustificato le defezioni degli uomini di cultura con la vis provocatoria dell’autore, il critico dell’“Unità” parla di “un’opera fuori dal comune, originale nella tecnica e barocca nell’invenzione”. Però impiega buona parte del pezzo a riraccontare lo scherzo dei marziani; nulla sulle nuove
tecniche di ripresa, nulla sull’ardita architeura del racconto, nulla sull’interpretazione funambolica di un venticinquenne che incarna un uomo dai venti ai seant’anni. Casiraghi soolinea tu’al più alcune scelte formali, ma – con uno strabismo che sarà frequente nell’approccio della nostra critica a Welles – esprime un giudizio sul solo contenuto: “Interrogato se il suo film abbia avuto un’influenza sociale e, per così dire, rivoluzionaria sul pubblico americano, Orson Welles rispose: ‘Nessuna influenza sociale. Ebbe soltanto un’influenza tecnica. Fu rivoluzionario nella forma.’ Nessun giudizio sul Ciadino Kane ci parrà mai esao come questa confessione del suo autore. […] La polemica del suo film è caduta e cade nel vuoto, perché lo stesso Orson Welles, in sostanza, non è molto diverso dal suo personaggio. E sebbene Hearst abbia odiato Welles con tua la forza di cui poteva essere capace, tuavia, nella realtà, i trusts non furono minimamente scalfiti dall’aacco del film, e forse molti americani, vedendolo, avranno anche pensato: ‘Povero Hearst, guarda un po’ com’è stato infelice.’”7 Arturo Lanocita del “Corriere della Sera” paragona il debuo di Welles al “grido strepitoso del galleo che tenta il volo”, e rintraccia un indubbio valore sul solo versante formale. “Welles,” scrive, “ha fuso e scombussolato la tecnica e gli stili del cinema; in una burrascosa sintesi di barocchismo, di surrealismo e di espressionismo egli – audacemente, con furore e accanimento – ha imposto alla pellicola un’originalità che non sempre le giova, ma le dà sempre colore e vibrazioni. […] È un film, questo, che non cerca consensi, ecco perché non li trova; cerca soltanto la stupefazione. La oiene: Kane si ricorda.”8 Alfredo Panicucci dell’“Avanti!” riconosce nella struura del film influenze di Faulkner e Dos Passos, e nello stile atmosfere di Dreyer, Lang, Pabst e Clair. In controtendenza rispeo ai colleghi, ammira del film anche le inusuali qualità satiriche “di una audacia non comune”, messe in campo “per dimostrare che il capitalismo inaridisce tuo” e “non lascia nulla, se non il denaro e un desiderio smisurato di dominio”.
Il suo è un giudizio positivo, ora frenato ora entusiastico: “Citizen Kane non si può dire un capolavoro. È un avvenimento, l’originalità ad ogni costo, una biografia rumorosa, il successo di uno stile (per fare un paradosso) senza stile, l’acrobazia fotografica con macchine da presa a triplo obbieivo, l’orgia dei soffii e delle persone inquadrate dal basso. Ma riesce nonostante tuo ad essere un grande film.”9 Fa invece pollice verso un altro critico di sinistra, Guido Aristarco, che sul seimanale “Bis” prova a confrontare Welles con un autore assoluto come Chaplin: “Ma Welles non è Chaplin: la sua forza è da ricercare su un altro piano: di intelligenza, semmai, e non certo poetico: in un modo concitato di narrare con un montaggio talvolta rapido, con ‘stacchi’ improvvisi e arbitrari, con inquadrature stravaganti e spregiudicate, con numerosi e non sempre giustificati movimenti di macchina e primissimi o primi piani di uomini e di cose. In altre parole, sbalordire ad ogni costo è il suo fine.”10 Parole che suonano familiari, vero? Più o meno quelle che abbiamo già leo nell’articolo di insulti a Welles pubblicato poche seimane prima sullo stesso periodico. Perché il fantomatico Roberto De Paolis querelato da Welles non è che uno pseudonimo di Guido Aristarco. Critico di strea osservanza marxista, influenzato dal pensiero di Antonio Gramsci e dalle teorie di György Lukács, Guido Aristarco era cultore fervente dei neorealismi e nemico di ogni formalismo. Fondato nel 1952 “Cinema nuovo” (che avrebbe direo fino alla morte), sarebbe diventato uno dei critici più importanti e influenti del mondo cinematografico, non solo italiano; amico personale ed esegeta principe di Luchino Visconti, nel ’53 sarebbe stato arrestato con il collega Renzo Renzi per aver proposto un film sull’occupazione italiana in Grecia. Nel 1948 Aristarco non era ancora famoso ma era già pesantemente dogmatico, fin nel modo di concepire la recensione: nella ricerca ossessiva di una malintesa coerenza,
non rinunciava a riprendere frasi, espressioni o interi paragrafi dai propri articoli. Un solo Welles non basta, l’articolo di “Bis” che provocò la querela del regista, è un pastone di rilievi critici e notizie biografiche, in cui peegolezzi sul presunto etilismo della star vennero inclusi per giustificare le foto a corredo (che illustrano l’inizio della giornata di Welles: lo si vede calzare le scarpe, sbarbarsi e fare colazione). Parte della responsabilità potrebbe essere del fotografo, pure lui querelato da Welles: ogni fotografia venduta ai giornali includeva di solito un testo esplicativo da usare come didascalia o all’interno del pezzo portante, un testo che poi il giornalista poteva includere nell’articolo, più o meno modificandolo. Ma, al di là di una mancata verifica delle fonti, le ipotetiche abitudini alcoliche del cineasta risultano inserite da Aristarco in modo consapevole e consequenziale all’interno di un discorso in cui il “plagiario” Welles, “ecleico ed esuberante” fin dalla beffa radiofonica della Guerra dei mondi, si sarebbe dimostrato “aore nello schermo [l’interprete di Cagliostro] come nella vita [la star ubriaca fin dal maino]”, per concludere che in entrambi i campi il suo è un “fine da prestigiatore”. In altre parole, il già conclamato barocchismo di Citizen Kane sarebbe conseguenza di un caraere esibizionistico – rivelato, forse perfino originato, dal delirio etilico. L’episodio De Paolis/Aristarco è la perfea sintesi del comune sentire che unì stimati critici cinematografici e frivoli giornalisti di gossip, talmente vicini da confondersi in un’unica entità: un’Italia criticamente superficiale e intelleualmente immatura, che, nella riconquistata libertà del dopoguerra, si dibaeva fra l’ansia di un nuovo rigore artistico e la tentazione di ridurre l’ultimo illustre ospite del nostro paese al pioresco protagonista di rotocalchi usa e gea. Aristarco non ha mai parlato o rievocato l’incidente, e la reale identità del misterioso De Paolis non sarebbe mai venuta fuori se il critico non avesse avuto il vezzo di ricopiarsi. Solo ragioni alimentari (e una bella dose di
leggerezza) possono spiegare perché abbia acceato di redigere un pezzo del genere. Al di là delle maldicenze sull’alcolismo di Welles, il dato più sconcertante emerge dal confronto tra ciò che De Paolis/Aristarco ipotizzava su Citizen Kane in aprile, probabilmente senza aver visto il film, e quello che l’Aristarco ufficiale affermava a maggio, probabilmente a film visto: il giudizio gratuito dato nel primo articolo viene nel secondo riprodoo quasi alla leera. Solo in chiusura, Aristarco ha un rigurgito di onestà e procede a un parziale salvataggio: “Comunque il film è soo diversi aspei singolare e coraggioso: e per la vastità degli assunti (il rinvenimento di un intimo segreto umano chiuso in una sola parola: ‘Rosebud’) e per alcuni effei sonori e sequenze, come quella del bancheo: ricca di ritmo e di materiale plastico.”11 D’altra parte, le righe della recensione che parlano di “stacchi improvvisi” e “primissimi piani” erano state recuperate da un’altra sua stroncatura wellesiana, ancora precedente, quella ai danni dello Straniero.12 esta pervicacia a confermarsi, questa indisponibilità a cambiare idea, fu il grave difeo di Aristarco e di altri critici, che su Welles e i suoi film si accanirono ripetendo con sterile veemenza l’accusa di formalismo per quasi vent’anni. Un paio di seimane dopo la proiezione milanese, s’inserì nella discussione Alberto Mondadori, uno dei figli dell’editore Arnoldo, che un paio d’anni prima era andato a cercare Citizen Kane in una salea di Parigi, rimanendone folgorato. Rivolgendosi ai colleghi, Mondadori espresse tua la sua ammirazione e il suo entusiasmo per il film di Welles, osando rintracciarvi le stimmate dell’opera d’arte: “Coraggio, signori, abbiamo finalmente un capolavoro, non ritiratevi davanti alle sue durezze, non fatevi ingannare dalla sua originalità, non limitatevi alle luci e alle ombre, al taglio delle inquadrature, al miracolo di un montaggio esemplare; pensate di leggere un libello di Swi accoppiato al meglio di Andersen, di Faulkner, di Dos Passos (e questo non per fare della leeratura dalla quale Orson Welles è, la Dio mercé, lontano, ma per
esemplificare in termini più noti di quanto non siano soliti quelli cinematografici, l’enorme valore di Citizen Kane).”13 Nell’innamoramento di Mondadori per l’esordio wellesiano qualcuno ha voluto rintracciare motivazioni più psicologiche che estetiche,14 ma la lunga, circostanziata difesa di Citizen Kane imbastita dalle colonne del seimanale “Tempo” non è acritica esaltazione. Mondadori rintuzza le accuse di iperformalismo e, pur evocando influenze da Pabst, Lang, von Sternberg, Dreyer e Stroheim, afferma che “Welles ha una sua Weltanschauung nella quale il barocco non è né uno stile, né gusto di sbalordire, né gigioneria, bensì una categoria del suo spirito, la molla della sua visione.” Le esortazioni di Mondadori rimasero in larga parte inascoltate, probabilmente anche a causa del tono vagamente polemico con cui stuzzicava i colleghi. Casiraghi e Aristarco, cresciuti nel culto del cinema che parlava di masse alle masse, non potevano lasciarsi influenzare dal figlio di un potente editore che magnificava sul seimanale da lui stesso fondato la storia di un capitalista americano. Di lì in poi il giovane Mondadori si trovò così a indossare i panni dello strenuo difensore di Welles, tanto più eroico in quanto isolato dall’ostracismo dei colleghi. Almeno altri due critici provarono comunque a ragionare con una certa aenzione. Su “Sipario” Giulio Cesare Castello analizza il film lodando soprauo la “singolare e spregiudicata capacità” di ricostruire una figura e una vita araverso “una narrazione volutamente episodica, fraa e sconvolta cronologicamente”. “Pur tra sbalzi di tono, di stile e di qualità,” conclude Castello, “si riconosce il bizzarro ma innegabile talento di Welles […], una prepotente personalità di narratore per immagini.”15 Glauco Viazzi è l’autore della prima ampia riflessione italiana sul film. Al di là dell’ampio spazio tributato alla pellicola, il suo saggio su “Bianco e nero” è in realtà una cauta e misurata stroncatura, condoa in modo altalenante: man mano che il critico procede nell’analisi di forme e contenuti, individua gli apparenti limiti del film,
giustificandoli con scarsa coerenza subito dopo: gli “effei [stilistici] nella maggior parte dei casi rimangono ‘effei’ allo stato grezzo [ma] non sono mai fine a se stessi;” “la concezione di Welles è piuosto semplicistica […]. Siamo sempre al mito dell’individualismo [e però] egli smaschera il mito, non si limita più a esprimerlo;” Viazzi punta il dito contro “il caraere rigonfio, tumultuoso, tecnicistico, contraddiorio dello stile di Welles”, ma ammee che in alcuni momenti l’analisi dei personaggi “si fonde nel respiro ampio e coerente di una stilistica unitaria”. È poi sbalorditiva, nella sua esibita acriticità, la chiusa del pezzo, in cui il giudizio complessivo su Citizen Kane viene sancito da una semplice sensazione: “Fosse per la forma soltanto, Citizen Kane sarebbe un capolavoro, e dei maggiori, se non proprio il maggiore. Eppure si sente subito, istintivamente, e non solo sulla scorta di un apparato critico, che capolavoro non è. E non lo è per questa ragione, anche: perché è un film che appartiene alla sua data di nascita, 1941. Mentre il Potëmkin, La madre, Il pellegrino, Greed, L’Atalante, appartengono al nostro secolo.”16 Torna la parola “capolavoro”. “Non si può dire un capolavoro,” sentenziava Panicucci. “Coraggio,” spronava al contrario Mondadori, “ne abbiamo finalmente uno.” “Non lo è,” insisteva l’istintivo Viazzi. L’iniziale dibaito critico italiano su Citizen Kane verte sul dilemma se confermare o meno la fama di un film fuori dall’ordinario, se allinearsi al giudizio proveniente da oltreoceano, se aggiornarlo ai see anni trascorsi, oppure negarlo del tuo. Il cinema statunitense, clandestinamente coccolato in epoca autarchica, in pieno neorealismo non godeva dello stesso favore; e di fronte alla scelta drastica “capolavoro sì o no”, i più rimasero convinti che il giudizio di eccellenza dato a Citizen Kane fosse un’esagerazione tua americana. Una seimana dopo l’anteprima milanese, la RKO mee in cartellone il film in una sala romana: il quotidiano “Il Tempo” lo presenta come “la più discussa, la più interessante e la più originale pellicola prodoa a Hollywood”.
L’edizione è sempre quella in lingua inglese, probabilmente con sootitoli, forse proprio la stessa copia presentata al festival milanese. Il cinema è il irinea, che in quel periodo proieava pellicole americane ed europee in lingua originale. i il critico Jean George Auriol trova il film di Welles lunedì 24 maggio, incalzato da pellicole più commerciali come l’esotico Atlantide con Maria Montez, e perciò destinato a una tenitura ridicola. “Due giorni,” annota sconsolato Auriol. “All’uscita dell’ultima proiezione protesto con uno dei dirigenti della irinea. ‘Evidentemente avete molta frea di meer fuori la zuppa inglese – per di più neppure pornografica – d’Atlantis…’ Si proiea Kane un giorno di più: un giorno di grazia per un film condannato dagli irati baaglioni dei fanatici di un cinema per sordi e ciechi.”17 “Per aderire alle numerose richieste,” strombazza un flano pubblicitario sul “Tempo” del 26 maggio, “ancora oggi si replica l’originalissimo film di Orson Welles.” Così, se Citizen Kane ebbe a Roma una tenitura di tre giorni anziché di due lo dobbiamo alle proteste di un francese. Il pubblico, comunque, non rispose neanche alla terza giornata di programmazione: “La maggior parte della gente che si precipiterebbe a un film di Wyler o di Capra si astiene. Si direbbe che ha paura,” scrisse Auriol che era andato a vedere il film per la seima volta. Lo stesso Welles avrebbe poi ricordato che durante quei tre giorni la platea romana urlava e fischiava perché trovava scadente l’inizio della pellicola, quella del cinegiornale News on the March, invecchiata e rovinata proprio per darle autenticità. I tre giorni di programmazione erano fra l’altro i peggiori della seimana: lunedì, martedì e mercoledì. Già penalizzato dall’essere presentato in originale, il film venne pure snobbato dai critici dei quotidiani capitolini. La presentazione milanese e la breve uscita romana, con le diverse reazioni alla prima e la totale mancanza di riscontro alla seconda, doveero scoraggiare i distributori, rallentando ancora la preparazione dell’edizione italiana. La richiesta del nuovo nulla osta da parte della RKO arriva dopo altri tre mesi.
Le carte ufficiali della censura raccontano di una versione intitolata arto potere, revisionata il 9 seembre e lunga 3288 metri, equivalenti alle due ore della versione integrale; il doppiaggio è stato realizzato, ed è anche stata decisa la quantità di copie da distribuire (venti). arto potere viene finalmente inserito all’interno della stagione cinematografica 1948-49, ma l’effeiva distribuzione delle pellicole in sala continua a essere rimandata. Nel novembre ’48, il periodico “Film” annuncia la prossima distribuzione riportando una dichiarazione dello stesso Welles: “Volevo esperimentare anche il cinema, dopo il teatro che adoro; intendevo, tuavia, col mio linguaggio di esprimere un preciso intendimento di ribellione a certe ipocrisie della società. Infai io credo unicamente nel bene di un’umanità formata di individui aventi illimitata libertà di pensiero e di azione, pur nel più assoluto rispeo l’uno per l’altro. Naturalmente io svolgo con passione tuo il mio lavoro: altrimenti non lo faccio; tuavia particolari ragioni mi legano a Citizen Kane. In questo mio primo film ho impegnato tuo me stesso, ed una grande soddisfazione mi è stata data anche da Joseph Coen […]. Ma sono rimasto soddisfao anche degli altri interpreti del film […]. Naturalmente Citizen Kane fece chiasso, poiché certe verità non fa piacere sentirsele dire!” “Buoni ultimi,” conclude lo speranzoso redaore di “Film”, “arriveremo anche noi a giudicarlo questo arto potere che ovunque ha riportato il più colossale successo. E credo che, pure in Italia, non potrà accadere diversamente.”18 Una previsione ingenua: il film continuò a ristagnare. Il capolavoro di Orson Welles arrivò nelle sale italiane solo nel 1949, e distribuito in modo disordinato, oggi qui e domani lì. In Piemonte arrivò a gennaio, come aestato da una recensione di Paolo Gobei sull’edizione torinese dell’“Unità”. A Trieste il mese successivo, dopo che Callisto Cosulich e Tullio Kezich si erano recati a protestare con il rappresentante triestino della RKO (ricevendone una risposta
sprezzante: “Film di quel genere, meno si vedono, meglio è: rischiano di rovinare il gusto del pubblico”).19 Nella sua recensione, Gobei è sulla stessa linea ideologica del collega Casiraghi, anzi, pure più in là: “Più che il banditore d’una vera rivolta contro la morale conformista americana e la decadente società di Hollywood, Orson Welles ci pare oggi anche lui un rappresentante di quella stessa morale e di quella stessa società, contro cui solo superficialmente si ribella.”20 Sul “Giornale di Trieste”, Cosulich riecheggia Aristarco (“[Welles] non si è minimamente preoccupato di piacere; semmai di sbalordire, profondendo a piene mani le risorse della sua fantasia e della sua genialità”) ma, con un aeggiamento ben più riceivo, definisce la pellicola “il debuo eccezionale di una nuova personalità, pari per importanza al debuo di Luchino Visconti con Ossessione e a quello di Laurence Olivier con Henry V”. E nella chiusa, rintuzza le perplessità avanzate da Viazzi: “I difei del film divengono efficacemente positivi per la formazione appunto di una personalità; se poi questi difei, che si compendiano in un mal nascosto narcisismo, in eccessivi compiacimenti formali, barocchi per l’appunto, e, ancora, nell’assenza di una sostanziosa dialeica sociale, si sono tramutati in altreanti errori, la colpa è di Welles e della sua scarsa successiva maturazione, non certo del suo primo film, che se anche non apparterrà al nostro secolo, sarà pur sempre il vessillifero del suo anno d’uscita: il 1941.”21 Il film rimase nella sala di Trieste pochi giorni, quelli centrali della seimana, lasciando il weekend a pellicole di maggior richiamo. I triestini furono comunque fortunati: a Milano, arto potere arrivò in sala per tre giorni a partire dal 13 luglio, in piena estate. “La scelta di una stagione così poco propizia,” spiega un anonimo recensore di “Cinema”, “sembra che sia stata determinata da una scarsa fiducia, anche da parte dei direori di sale cinematografiche.” Oltretuo, la pellicola arrivata a Milano non era più quella che pochi critici avevano visto alla serata di gala nove mesi prima, come testimoniano i reclami di due giornali milanesi
giustamente scandalizzati. “arto potere è arrivato a Milano privo di molte scene,” si legge nella rubrica delle leere di “Cinema”. “Ricordi il giornalista in visita a Evere Sloane diventato vecchio, e il racconto di questi? Ricordi l’intervista a Joseph Coen ricoverato in una clinica di Manhaan? I noleggiatori – sono loro, evidentemente – hanno soppresso queste scene, togliendo al film l’impalcatura di inchiesta giornalistica.”22 “L’indagine del caraere è scomparsa,” si lamenta Panicucci, “il mosaico ricomposto in un racconto che ha perso mordente e fantasia, fao piao, sommesso, monotono da chi ha voluto sostituire la sua alla scriura dell’autore […]. arto potere è un condensato di Citizen Kane. Vi sono pressappoco i fai principali ma riassunti da uno scribacchino mediocre.”23 Guido Aristarco ha parlato più volte di una edizione italiana “ampiamente mutilata”. I ricordi delle generazioni successive tendono a peggiorare il quadro: secondo Fofi (che scriveva nel 1963), i distributori sarebbero “arrivati al punto di rimeere certi flashback in ordine cronologico!”24 mentre Guido Fink, dopo altri vent’anni, accenna a un’edizione “massacrata, tagliata e rimontata”.25 Le alterazioni a cui la pellicola pare essere stata sooposta in questa prima versione doppiata giustificano però solo in parte il responso dei nuovi recensori, ora insofferenti ora indifferenti. La recensione del “Corriere della Sera”, senza firma, pare scria da qualcuno che non ha neanche visto il film: cita un’inesistente prima alla Mostra di Venezia, si riallaccia ai giudizi sbalorditi dopo il festival di Milano e, dopo aver parlato di “un gusto e una tecnica che non indulgono a compromessi”, si concentra sul “filo soile di sentimento [che] lega tuo il ciclo del film”.26 Il periodico “Cinema” sforna una stroncatura supponente e superficiale. L’anonimo “vice” (secondo Guido Fink potrebbe traarsi del direore Adriano Baracco) aribuisce i meriti maggiori al direore della fotografia Gregg Toland, definisce il film “straordinariamente disumano” e si compiace di racchiudere una già vieta accusa di formalismo fra due lunghe citazioni in francese da Balzac e Gautier. “L’effeo
complessivo […],” conclude il recensore, “è di una stravaganza a lungo andare monotona, di una mania di ostentazione inopportuna, di una sorprendente confusione, di una bizzarria fatua. […] Soprauo impensierisce la sua mancanza di buon gusto nella insistenza delle esagerazioni inutili. E Orson Welles ha il gusto del barocchismo, l’idea fissa degli eccessi, e vede per iperboli per creder grande anche se stesso.”27 La stroncatura è talmente radicale da costringere perfino Aristarco (caporedaore della rivista) ad aggiungere una didascalia in cui definisce il film “discutibilissimo” ma “comunque un’opera singolare e anticonformista”. Aristarco in persona torna sull’argomento dalle colonne di “Sipario”, riecheggiando in parte il giudizio fornito un anno prima su “Bis”: giudica il film “indubbiamente singolare” come il suo autore, denuncia un “virtuosismo acrobatico che ainge a questo e quel regista, a questo e a quel classico dello schermo”, insiste a sostenere che Welles segue “il principio di sbalordire ad ogni costo, e di rivoluzionare tecnica e montaggio cinematografici”, ma “comunque”, riassume infine conciliante, “esiste un ‘fenomeno’ Welles: e arto potere ha già un posto nella storia del cinema”.28 Volpone, lo pseudonimo con cui Pietro Bianchi firmava sul “Bertoldo”, è in aperta controtendenza: “arto potere è stato presentato a Milano per soli tre giorni, in piena canicola. Eppure si traa di una pellicola geniale, di un racconto potente e suggestivo. Perché non si ama il vero cinema, in Italia? Forse è per colpa dei distributori che darebbero via l’anima per avere sul mercato non una, ma cento Rite, non uno ma duecento Bob Taylor? arto potere è il racconto, e la spiegazione di una vita […]. Si traa di un film stupendo, tra i più belli di quest’anno.”29 Era passato un anno abbondante dalle prime stroncature, e qualcosa era successo nel fraempo. Fra polemiche pretestuose e banalità arzigogolate (perfino Flaiano definì Citizen Kane “barocco, truculento, di alta e inutile
precisione”)30 si facevano spazio alcune aperture di credito, anche da parte dell’arcigno Aristarco. Una cosa colpisce comunque a rileggere complessivamente i giudizi di quegli anni: la lontananza siderale dalla venerazione che circonda oggi la pellicola. L’esordio di Orson Welles, l’opera da molti considerata come il film migliore di tui i tempi, fu in Italia largamente soovalutato. Innanzituo nel suo arruffato e tardivo percorso in sala, continuamente rimandato, e nella proposta di un’edizione pesantemente rimaneggiata (quella del ’49; ma persino la riedizione degli anni sessanta uscirà decurtata di una decina di minuti). E poi per il riscontro critico: la tiepidezza di tante recensioni tradisce il sollievo che Citizen Kane non fosse il clamoroso esordio che ci si aspeava. Alcuni di questi testi, tra l’altro, dopo la loro prima pubblicazione erano rimasti inabissati negli archivi, ed è stata una discreta impresa trovarli; il periclitante percorso del film in Italia (e forse anche l’imbarazzo di alcuni recensori) ha contribuito a tenerli a lungo nascosti. Oltre che ingeneroso, l’approccio critico al film fu spesso anche poco limpido: parecchi articoli sono afflii da problemi di aribuzione, firmati con pseudonimi, siglati da iniziali, pubblicati senza firma, didascalizzati da mani diverse, a testimonianza di un imbarazzo critico senza precedenti. E non si parla di critici ignoti o passeggeri; fra gli stroncatori o i soovalutatori italiani di Citizen Kane ci sono nomi decisivi nella storia della critica cinematografica italiana. A cominciare da quelli di area marxista come Ugo Casiraghi, per trent’anni critico dell’edizione milanese dell’“Unità”, intelleuale e proletario, imprigionato in guerra dai nazisti, comunista appassionato e militante; oppure il suo amico Glauco Viazzi, insieme al quale mosse i primi passi nella critica cinematografica fondando con lui anche una casa editrice; e naturalmente Aristarco, che nel giro di pochi anni sarebbe diventato un autentico guru stimato anche a destra. Ci sono pure figure non integrabili a sinistra, come il già navigato Arturo Lanocita, antifascista e monarchico, scappato in Svizzera per sfuggire alle camicie
nere, critico al “Corriere della Sera” per quasi quarant’anni, fautore di un cinema che, in contrasto con il gusto dell’epoca, si potesse definire “fabbrica di sogni”, come il titolo di un suo libro del 1950. Guido Fink, fra i pochissimi ad avere ricordato certe pagine imbarazzanti, ha giustamente rimarcato la responsabilità del pregiudizio estetico crociano, fieramente avverso a tuo ciò che poteva ricadere nella categoria del “barocco”, e i luoghi comuni legati alla contrapposizione fra la raffinata Europa e un’America “barbara” e “primitiva”.31 Un peso concreto lo ebbero il ritardo dell’arrivo del film, la svogliata distribuzione della RKO e le manipolazioni sulla copia doppiata: i primi recensori di Citizen Kane scrissero in un clima di svalutazione dell’opera, uscita in America ormai da oo anni e in Francia da tre, a lungo chiacchierata senza che quasi nessuno l’avesse vista. L’esaltazione nazionalistica per il nuovo realismo di De Sica e Rossellini trascinava infine con sé la riprovazione per un linguaggio sofisticato che sembrava spingere all’indietro le lancee dell’orologio cinematografico, assegnando a Welles l’epiteto peggiore che in quel momento si potesse dare a un regista, quello di essere un artista reazionario.
6. Orson vuol rifarsi una Rita
I cinesi dicono: “È molto difficile che l’amore duri a lungo. Perciò colui che amerà troppo pavidamente non riuscirà ad essere amato, alla fine.” Elsa Bannister (Rita Hayworth) in La signora di Shanghai
“Hollywood”, periodico cinematografico informatissimo e discretamente peegolo, riportava nel ’47 un tenero aneddoto sulla lavorazione della Signora di Shanghai. Durante la preparazione di una scena, il truccatore del film aveva suggerito a Welles di applicare un po’ di sudore sul volto della Hayworth. “Non usare mai la parola sudore,” aveva urlato il regista al colmo dell’indignazione. “Soltanto i cavalli sudano. Le persone traspirano. Rita brilla.”1 Sul set del film, fra Rita e Orson si era riaccesa una scintilla: le riprese di La signora di Shanghai furono un tentativo di riconciliazione, l’estrema possibilità di salvare un matrimonio alla deriva. Nelle scene ambientate sullo yacht, Welles permeeva che la sua arice si esponesse al sole dei Tropici solo dopo averle portato personalmente olii e creme di protezione; e prima di farle eseguire il tuffo nella baia di Acapulco, diede ordine di ripulire lo scoglio su cui doveva arrampicarsi per liberarlo dalle conchiglie e da qualsiasi altra cosa avrebbe potuto graffiarla. Il regista era comunque più preoccupato del film che della sua protagonista. Un sabato, Rita riuscì a staccarlo dal set per un breve viaggio nel suo amato Messico. Welles si portò dietro una macchina da scrivere e passò gran parte della “vacanza” a riscrivere il finale: la Hayworth arrivò alla conclusione che quell’uomo
geniale e iperaivo tenesse più al cinema che alla famiglia. E così, conclusa la lavorazione, l’idillio si era spento insieme ai rifleori. La separazione ebbe un’eco mediatica in tuo il mondo. “Rita è stanca di Orson Welles”, titolarono nell’oobre ’47 i nostri quotidiani. Motivo dei dissidi: “lo spirito vagabondo”, “l’incapacità di assicurarle una casa”, “l’estrema crudeltà” del consorte. “Proprio mentre aendevo la nascita di Rebecca, nel 1944, Orson mi ha trascurato in tal modo,” dichiarò la Hayworth, “da farmi venire un terribile esaurimento nervoso. Egli non ha alcun aaccamento per la casa; per lui non esiste neppure, anzi. Egli stesso del resto mi ha dichiarato che non avrebbe dovuto mai sposarsi, perché il matrimonio gli toglie quella libertà di vita di cui ha bisogno. Appena è nata Rebecca mostrò un certo interessamento e senz’altro mi dichiarò che desiderava diciassee figli. Io obieai che tre o quaro sarebbero stati sufficienti. Mi ricordo che allora si inquietò terribilmente.”2 Perlomeno, così la raccontarono i giornali italiani. ando, sooposto a notevoli tagli e rimaneggiamenti, La signora di Shanghai uscì nelle sale statunitensi, gli ammiratori della Hayworth non perdonarono a Welles di averle mozzato la chioma fulva e di avergliela schiarita di un biondo platino. Al boeghino il film andò incontro a un sonoro insuccesso: per i detraori del regista fu la conferma che il suo talento si era appannato o, peggio, che non ne aveva mai avuto. La stessa Hayworth, due anni dopo aver toccato con Gilda l’apice della fama, si avviò lentamente sul viale del tramonto. L’arice propose il divorzio e Welles acceò senza protestare. Nello stesso momento in cui lui girava in tondo sul Tirreno in aesa di avvistare Roma, Rita si trovava al Tribunale di Los Angeles, per concludere legalmente la sfortunata avventura matrimoniale. La separazione fu consensuale, le carte erano in regola, ma il divorzio sarebbe divenuto “operativo” solo dopo un anno. Nel fraempo l’arice continuò a rilasciare interviste sull’ex marito; in risposta, certo, alle insistenze dei giornalisti, ma
con uno slancio tale da far sospeare più rimpianto che sollievo. Il suo proposito di farla finita con Orson venne ribadito talmente tante volte da risultare non del tuo credibile, come se Rita cercasse di convincere soprauo se stessa. Ecco una sua dichiarazione riportata dal “Messaggero”: “Non avrei dovuto mai sposare. Egli ha sempre tante cose da fare, che sono più importanti di me. Vuol essere un artista, un direore, un politico, vuole immischiarsi negli affari sociali. Troppe cose, troppe cose; e il matrimonio, per lui, è l’ultima. Come vi può essere felicità fra due esseri che non possono mai vedersi? Dopo tuo, sono ancora giovane e mi piace, di tanto in tanto, divertirmi, frequentare degli amici che abbiano gli stessi gusti, le stesse tendenze, della gente che riveli una reciproca simpatia. […] Con la gente di genio non si può vivere, non ci si può muovere […]. È finito tuo. E non ho nessun pentimento al riguardo e nessuna resipiscenza. Sono contenta di averlo sposato perché ho avuto una bambina, la mia piccola Rebecca, che, per me, è tuo. […] Da mio marito ho imparato molte cose, ma ne ho abbastanza di uomini che stanno fuori di casa tuo il loro tempo.”3 Cronisti contemporanei e storici postumi insinuano che Rita coltivasse ancora qualche speranza di riconquistare il marito. In effei nella primavera del ’48, giunta in America la notizia di una love story fra Welles e la Padovani, rimbalzarono in Italia le parole che la Hayworth avrebbe pronunciato stupita: “Cos’è mai successo ad Orson? Credevo che pigliasse in considerazione soltanto le donne di una certa altezza e di un certo fisico.” Fu a quel punto che Welles, avvilito dai silenzi di Lea e irritato dall’articolo di “Bis”, salì su un aereo e ripartì alla chetichella per l’America, lasciando percossi e aoniti i suoi collaboratori più strei (l’indomani Antonio Centa, già segretario particolare di Orson, fu notato da un cronista “in preda alla più incolmabile delle solitudini”). Forse Welles, scornato dal suo impao con l’Italia, aveva deciso di tornare nel suo paese, magari per una tardiva riconciliazione con l’ex moglie? Secondo “Cine illustrato”,
Orson e Rita si sarebbero rivisti, rimanendo per una seimana di seguito a Cranberry Corners, nell’Idaho. Ma la ragione di quel repentino ritorno in patria, quella principale almeno, è un’altra: la rifinitura del montaggio di Macbeth, che, dopo vari andirivieni di pellicole e nastri fra Roma e Los Angeles, sembrava giunto alla fase conclusiva. All’epoca solo una rivista italiana, “Fotogrammi”, diede notizia del viaggio di Welles in America, e fra gli storici sono pochi quelli che ne accennano. D’altra parte al regista non conveniva mostrarsi in giro sul suolo patrio: i debiti col fisco non erano stati saldati, e la mareggiata anticomunista scatenata dalla Commissione per le aività antiamericane si era chetata solo in superficie (i Dieci di Hollywood erano appena stati accusati di oltraggio al Congresso, e le major continuavano a stilare liste di possibili sovversivi); la Republic, infine, ansiosa di distribuire il film in sala, aveva tuo l’interesse a incatenare Welles dentro i propri stabilimenti, maina e sera, finché non avesse completato il suo lavoro. Un gruppo di giornalisti riuscì comunque a incontrarlo negli studi della casa di produzione: Welles dichiarò che sarebbe tornato in Italia entro giugno, per girare il Cyrano de Bergerac; annunciò che sarebbe stato lui a interpretare il nasuto protagonista e che per il ruolo di Rossana, rifiutato da Martha Sco, sperava di oenere Michèle Morgan. Una cronista provò a stuzzicarlo sulla Padovani, chiedendogli se l’avrebbe sposata o meno. “Mia cara,” le rispose Welles, “mi trovo di fronte ad un grave problema: lei non capisce l’inglese ed io non capisco l’italiano. Sicché non so se alle mie profferte ella abbia risposto ‘sì’ o ‘no’.”4 Da questo lato dell’oceano, la perfida Danton di “Hollywood” poneva intanto la stessa domanda a Lea, oenendo risposte ancora più vaghe: “‘È molto simpatico,’ dice, ‘è un uomo notevole.’ ‘Sì, forse farò un film direo da lui.’ Ma alla famosa domanda ‘Lo sposi?’ scuote il capo. ‘Perché parlare di certe cose? Sono assolutamente private. Se lo sposo, lo vedrete, se non lo sposo, perché parlarne?’ […] E
quando a Lea hanno chiesto: ‘Chissà se ti considera più bella o meno bella di Rita?’ ha risposto con un angelico sorriso: ‘Spero che mi consideri con un criterio diverso: sono un’arice, io!’” Mancavano solo le dichiarazioni del terzo vertice del triangolo. Ma Rita Hayworth non aveva voglia di prestarsi al teatrino. “Sicuramente mi risposerò,” si limitò a dire ai reporter, “ma non ho la più pallida idea di che tipo d’uomo sarà.”5 E alla fine di maggio, concluse le riprese di Gli amori di Carmen, s’imbarcò per una lunga vacanza in Europa. Completato il montaggio di Macbeth, Welles sarebbe anche potuto ripartire insieme a lei se una delle figlie non l’avesse contagiato con la varicella. Costreo a casa per qualche seimana, Orson prese infine un aereo da New York, ma prima di tornare a Roma fece tappa a Londra per riparlare con Korda del Cyrano: il copione definitivo (co-autore Ben Hecht) era pronto, le scenografie di Trauner già in fase di costruzione, si aspeava solo il fischio di partenza. E a questo punto l’ineffabile produore si rimangiò tuo. “Mio caro Orson,” gli disse, “non ti sembra che quel tale del nasone sia un bel noioso? Mi si presenta l’occasione di fare 150.000 dollari – in contanti, mio caro Orson – così lo vendo alla Columbia. So che non ti arrabbierai…”6 Il caro Orson, che ai cambiamenti d’idee di Korda aveva ormai fao il callo, non si arrabbiò, ma gli propose un altro progeo. Ripiombato a Roma all’inizio di giugno, Welles dichiarò alla stampa di aver accantonato il Cyrano per un film ispirato all’Enrico IV di Luigi Pirandello; si fece proieare l’omonima pellicola di Giorgio Pastina, una libera rielaborazione del dramma girata nel 1943, e fuggì quindi a Capri a scrivere una sceneggiatura7 dal titolo L’imperatore, protagonista un americano che vive su un’isolea del mediterraneo credendosi re. Lo spunto concreto venne a Orson probabilmente da Michał Waszyński, personaggio speacolarmente elegante e millantatore, con cui era ormai diventato amico, e le cui
vertiginose menzogne sulle proprie origini (nato in un poverissimo villaggio fra Polonia e Ucraina, si spacciava per principe) piantarono nella testa di Welles semi che avrebbero germogliato rigogliosamente.8 Contestualizzato in quel preciso momento della vita del cineasta, il progeo di Enrico IV sembra però anche il logico sfogo di una serie di tensioni, una concreta presa di coscienza delle sue delusioni italiane. Il protagonista è un espatriato come Welles, isolato in tui i sensi, che nella sua nuova casa non trova l’equilibrio sperato, anzi: vive credendosi più importante di quello che è, mentre per gli altri è solo un pazzo o un megalomane. Non è una caricatura, lucida e crudele, del rapporto schizofrenico fra Orson e il paese che lo stava ospitando? Il progeo venne comunque accantonato in breve tempo. Il motivo scatenante sarebbe stato il confronto con il film di Pastina, non per la maestria del regista ma per la bravura del protagonista, un travolgente Osvaldo Valenti (in una delle sue ultime interpretazioni; compromesso con i repubblichini di Salò, l’aore era poi stato fucilato dai partigiani insieme alla collega e compagna Luisa Ferida). Il regista Piero Vivarelli ricorda che la circostanza, nella Roma cinematografica del ’48, era piuosto nota: “Era una cosa che si sapeva, che dicevano tui, era uscita anche sui giornali. Forse me lo disse anche lui quando, qualche anno più tardi, lo conobbi. Dopo avere visto il film di Pastina disse: ‘No, non sarò mai bravo come Osvaldo Valenti.’ Fu molto onesto. Come me, considerava Valenti uno dei più grandi aori di tui i tempi.”9 Nel fraempo la Hayworth stazionava a Parigi, senza divertirsi affao: frequentò un paio di feste ma la salute non resse. Due collassi la portarono in ospedale. Dimessa dopo tre seimane di trasfusioni e riposo, si spostò in Costa Azzurra, al prestigioso Eden Roc di Cap d’Antibes. Dalla sua convalescenza dorata, Rita chiese al centralino di meerla in comunicazione con Roma, dove Orson, appena riemerso da Capri, era annunciato fra gli ospiti d’onore di un ricevimento romano all’Hotel de Russie. Un paio di giorni prima della
festa, la sera del 21 luglio, Orson corse in aeroporto e saltò sul primo velivolo direo in Costa Azzurra. La nuova partenza tornò a far crescere la febbre ai cronisti, tanto più che Welles scese nello stesso albergo della Hayworth. Orson e Rita si sono riconciliati? titolò in prima pagina il quotidiano “Espresso”. “Ciò che ha geato vivo scalpore nel gran mondo di Antibes,” gorgheggia l’anonimo cronista, “è che questa noe non si sono visti né Rita né Orson. Che siano stati rapiti è poco probabile, a meno che il rapitore non si chiami amore.” Anche stavolta, il motivo per cui Welles si trovava sulla Costa Azzurra era soprauo professionale: la presenza di Darryl F. Zanuck, il vicepresidente della 20th Century Fox, al quale chiedere qualche ruolo cinematografico per pagarsi uno dei suoi progei. Certo, la presenza di Rita condizionò notevolmente il suo soggiorno. La maina del 23 luglio i due furono avvistati in un ristorante sulla spiaggia di Juan Les Pins, e vennero subito inseguiti dai giornalisti. “Andatevene immediatamente o vi rompo la faccia,” ruggì Welles a un cronista dell’“Espoir” di Nizza che si era avvicinato un po’ troppo.10 Andò meglio a Jean Malin, corrispondente francese per l’italiano “Cine illustrato”, forse l’unico che in quei giorni sia riuscito a oenere da Orson qualche parola ragionevole: “Dopo l’arrivo di Welles, Rita è stata soltanto con lui, spesso i due hanno pranzato insieme e le signore hanno trovato molto discutibile e di poco gusto tuo ciò che riguarda l’enfant prodige d’America. Mentre si è abbastanza indulgenti con Rita, nessuno perdona a Welles il disordine della sua tavola, dei suoi abiti, dei suoi capelli speinati, i suoi improvvisi scoppi di risa ed il suo modo di traare le signore. […] Orson Welles è meno disposto a farsi fotografare ed intervistare; si è riuscito comunque a strappargli una notizia assai chiara circa le sue intenzioni riguardo a Rita: ‘Sono troppo affezionato a «Gilda» per farle il bruo scherzo di sposarla ancora.’”11 Il giorno dopo, Orson e Rita vennero notati a cena al La Garoupe, al Chez Francis e di lì di nuovo a Cannes, a ballare al La Jungle. La sera stessa Welles partì per far ritorno a
Roma “facendo così cadere tue le speranze,” riporta il “Corriere della Sera”, “dei cronisti che già pregustavano teneri pezzi sentimentali sulla riconciliazione con la sua ex consorte. […] Rita è rimasta a Cannes, mentre il segretario della diva annunciava ai giornalisti che Orson Welles e la sua ex metà sono ora ‘soltanto buoni amici’. Con voce resa tremula dall’indignazione il segretario ha smentito le voci secondo le quali Orson e Rita sarebbero oggi partiti assieme.”12 Un altro giornale scrisse che dopo la partenza dell’ex marito, la Hayworth avesse subito richiesto a Nizza un visto per l’Italia. Altri giurano che l’arice sia rimasta chiusa nella sua camera per due giorni. ando riemerse, dovee comunque affrontare la corte di pretendenti da favola: il milionario venezuelano Alberto Dondero, Audie Murphy (l’ufficiale più decorato d’America), lo scià persiano Reza Pahlavi, il principe Igor Troubetzkoy. L’ultimo osò chiederle: “Che cosa può avervi costrea a vivere con un tipo come Orson Welles?” e si beccò uno speacolare schiaffo in pubblico. L’incontro decisivo fu con Aly Khan, il figlio dell’Aga Khan, l’uomo più ricco del mondo. alche giorno dopo, mentre i giornali di tuo il globo speegolavano sul flirt con Aly, la Hayworth mandò un telegramma a Roma. E Orson accorse per la seconda volta: non trovando nessun aereo passeggeri, si accontentò di salire su un cargo viaggiando in piedi, in mezzo ai pacchi. ello che successe più tardi fra lui e la Hayworth, lo raccontò molti anni dopo a Henry Jaglom: “Lei venne ad aprire la porta in négligé, con i capelli sciolti, fantastica. C’erano fiori dappertuo. Le finestre davano sulla terrazza davanti al Mediterraneo. E il profumo: quel profumo. Irresistibile. Mi guardò con gli occhi pieni di lacrime e disse: ‘Avevi ragione tu; siamo fai l’uno per l’altra; ho sbagliato.’ Ma ormai ero pazzo di un cesseo di italiana che mi tirava scemo, e dovevo tornare da lei a tui i costi. […] Lei si mise a piangere e con un filo di voce mi disse: ‘Va bene. Allora rimani con me solo stanoe, tienimi strea mentre dormo.’
Così la tenni strea. E nient’altro. Mi si addormentava il braccio. Controllavo l’orologio con l’angolo dell’occhio per vedere se sarei riuscito a tornare a Roma con il volo del maino. Ripartii l’indomani.”13 Pochi giorni dopo, Rita Hayworth si avviò con Aly Khan alla volta di Madrid e di un nuovo matrimonio, che si sarebbe rivelato peggiore del precedente. Con lei, come con la prima moglie Virginia Nicolson, Welles riuscì a mantenere oimi rapporti: l’avrebbe ancora incontrata, facendo nascere sulla stampa nuove illazioni, e giustificandosi ogni volta con il fao di essere in buoni rapporti anche con Aly. Rita avrebbe poi continuato a parlare dei suoi anni con Orson, meravigliando amici e compagni di lavoro per l’intensità che traspariva dai suoi ricordi. “Era tormentato, possessivo, insicuro,” disse parecchio tempo dopo, “un genio, pazzo come un cavallo, e un uomo meraviglioso, assolutamente staccato dalla realtà.”14 E Welles, che delle sue donne parlava in genere molto poco, avrebbe ricordato l’ex moglie sempre con grande affeo e tenerezza. “Mi considero fortunato a essere stato l’uomo con il quale Rita ha vissuto più a lungo,” disse nell’ultima intervista della sua vita. “È la donna più cara e più dolce che sia mai esistita.”15 Di nuovo nell’Urbe, Orson si rituò fra le braccia di Lea Padovani. La quale, forse pungolata dalla concorrenza con la Hayworth, sembrava ora più disponibile. Il periodico romano “Fotogrammi” prende nota della ritrovata armonia: “Orson Welles è ritornato a Roma tra l’indifferenza generale. Alcune sere fa lo abbiamo visto nel giardino dell’Hotel irinale di Roma bere numerosi cocktails e wiskies. Orson provvide immediatamente ad espellere le tossine soo forma di sudore ballando languidamente sambe e slow con Lea Padovani. Cadono, così, tui i si dice provocati dall’incontro dell’inventore dell’incursione marziana con la sua ex moglie, Rita Hayworth, e cioè le notizie di una loro riappacificazione. A Montecatini, intanto, dove Orson e Lea si sono recati per trascorrere alcuni giorni in santa calma e per accertarsi dell’efficacia delle acque si assicura che la data del
loro matrimonio è già stata fissata. Non c’è da stupirsene: Orson vuol rifarsi una Rita.”16 Da Hollywood, Louella Parsons, giornalista al soldo di Hearst, smentiva i peegolezzi sulla Costa Azzurra, continuando, già che c’era, a ridimensionare il personaggio Welles. Uno dei suoi commenti fu riportato anche in Italia: “Vi posso assicurare che tue le storie pubblicate sui giornali, riguardanti il volo di Orson Welles a Capo Antibes per riconciliarsi con Rita Hayworth, non sono vere. Il formidabile Orson, amico del leader comunista italiano Togliai, è così innamorato dell’arice Lea Padovani da non vederci più. È assai geloso della sua amica e mi domando come fa ad esserlo, dato che avendo visto l’arice di passaggio, a me sembra che la Padovani non possegga né bellezza, né charme. Rita ammee che Orson l’affascina ancora, ma non credo che desideri ritentare un altro matrimonio con lui.”17 Orson e Lea tornarono a fare coppia fissa, presentandosi in società come fossero alla vigilia delle nozze. Dopo quasi un anno passato a bivaccare all’Excelsior o nei palazzi di qualche munifico amico, Welles decise di abbandonare la sua disordinata vita da scapolo per andare a vivere soo lo stesso teo insieme alla sua fiamma italiana. La scelta cadde su Casal Pilozzo, un robusto edificio seicentesco sulla strada per Monteporzio Catone. Più che una villa, un casale, con i soffii istoriati e i pavimenti di coo, a mezza costa del colle di Frascati, circondato da vigneti e alberi da fruo, e con una stupenda vista sulla valle. Ne era proprietaria la famiglia di Giuseppe Boai, l’ex ministro fascista amnistiato l’anno prima. Welles traò l’affare con il figlio, ed entrarci non fu troppo difficile perché la villa era stata invasa dagli sfollati. “Vedrai che i comunisti te la requisiranno,” gli diceva, e oenne di affiarla per centomila lire al mese.18 Orson e Lea vi si trasferirono subito, portandosi dietro un maggiordomo, una cuoca e la nuova segretaria del regista, la viennese Rita Ribolla. Sullo stesso giornale in cui si speegola della coppia Welles-Padovani a Montecatini, compare un ultimo annuncio
di Cyrano e il primo di Otello. I due progei si toccano e si allontanano, in una staffea artistica: ritiratosi Korda, Welles si rassegnò a congelare il film da Rostand (e il ventilato L’imperatore da Pirandello) per gearsi in una nuova impresa shakespeariana. Desdemona ce l’aveva già: la Padovani era perfea, bastava tingerle i capelli di biondo, e farle studiare un poco d’inglese. Anche l’occasione per iniziare era a portata di mano: il suo Macbeth sarebbe stato proieato in prima mondiale all’imminente Mostra del Cinema, e il suo soggiorno al Lido gli avrebbe permesso di esplorare la laguna e preparare le prime scene. anto alla troupe, sarebbe ricorso agli operatori e ai tecnici conosciuti sul set di Cagliostro: Anchise Brizzi, Oberdan Troiani, Tonino Delli Colli… Mancava solo la pellicola: Orson scrisse a Roger Hill, il suo antico maestro e mentore alla Todd School, chiedendo di mandargli qualche rotolo di celluloide dall’America. Nessuno a Hollywood avrebbe osato iniziare un film in quelle condizioni, senza aver completato una sceneggiatura, contraualizzato gli altri aori, organizzato scenografie e costumi. Ma Welles era andato via dall’America anche per essere più libero di creare, per sperimentare senza rendere conto agli executives, acceando la stessa sfida che i registi italiani, costrei ad abbandonare gli studi di Cinecià, avevano dovuto affrontare nel momento più doloroso della loro storia. Nacque così, in quell’estate del ’48, il film Otello e, insieme, un nuovo Welles. Abbandonato l’utero proteivo del teatro di posa, il regista avrebbe fronteggiato le intemperie degli spazi aperti; diventato produore di se stesso, avrebbe avuto l’ultima parola non solo sull’integrità artistica della sua opera ma anche sulla scelta dei collaboratori e sui piani di lavorazione, sfruando al meglio le occasioni e i condizionamenti del caso. In questo, se mai ve ne fu una, consiste l’integrazione italiana di Welles: nell’aver acceato gli stimoli creativi dell’improvvisazione, nell’essersi appropriato dello spirito e
dell’esperienza mediterranea, nell’aver scommesso di poter girare anche lui, un americano del Wisconsin, “all’italiana”, meendo in discussione tuo il suo precedente modo di fare cinema.
7. La caduta di Macbeth
La vita è solo un’ombra che cammina, un povero comico che s’agita e sbuffa per un’ora sulla scena del mondo e sparisce senza che se ne senta più parlare, è un racconto fao da un idiota, pieno di rumore e di furia, e che significa niente. Macbeth (Orson Welles) in Macbeth
La IX Mostra del Cinema di Venezia cominciò il 19 agosto. La prima mondiale di Macbeth era prevista per il penultimo giorno del festival ma Welles stava già lì, a offrirsi vistoso ai fotografi e ai curiosi, il volto nascosto dagli occhiali da sole e da un grosso sigaro, a volte in costume da bagno fin davanti al Palazzo del cinema, incurante degli sguardi dei benpensanti. Per la serata d’inaugurazione decise saggiamente di aenersi all’etichea presentandosi in abito da sera; accanto a lui, Lea Padovani sfoggiava pantaloni alla George Sand. Irreprensibile nell’abbigliamento, pare che Welles lo sia stato un po’ meno nel comportamento. Secondo una cronaca di “Oggi”, il regista “entrò sbuffando e imprecando per la mancanza di sigaree, rise più volte fragorosamente”, “manifestò la sua disapprovazione” per il film inaugurale, Scarpee rosse di Powell e Pressburger, e abbandonò anzitempo la Sala Grande (tue malignità, protestò Alfredo Todisco su “Ultimissime” di Trieste: “nessun personaggio del cinema americano gode in Italia tanto caiva stampa quanto Orson Welles”).1
Orson Welles e Lea Padovani sulla spiaggia dell’Excelsior, al Lido di Venezia (dal cinegiornale Cinefestival 1948 di Gigi Martello, conservato dalla Cineteca Nazionale).
Nei giorni successivi i fotografi puntarono i flash sulla coppia Welles-Padovani, lei piccolina con un paio di occhiali dalle lenti affumicate e lui gigantesco in un completo tuo bianco, con una giacca a doppio peo più larga del necessario; un cinegiornale li mostra sulla spiaggia dell’Excelsior, lei mentre legge con impegno un giornale sportivo e lui che la guarda intenerito, le sopracciglia inarcate, il faccione da bambino conquistato. André Bazin, inviato da “Le Parisien libéré”, scrive che l’arice che si accompagna a Welles “ha l’aria di una sua sorellina”, e la descrive come “una giovane donna piccola e snella, alla quale la sua gentilezza dona una bellezza discreta; segue ovunque Orson che sembra sempre sul punto di darle la mano, cosa che fa quando è annoiato.”2 L’uomo era evidentemente innamorato ma i cronisti italiani preferivano ironizzare sulla Padovani che, pur non conoscendo l’inglese, discorreva con il regista affeando “una serietà ispirata e intelleuale”. Intorno alla coppia si venne creando a poco a poco un gruppeo di cui entrò a far parte Jean Cocteau. Welles lo aveva conosciuto in occasione del Voodoo Macbeth allestito nel 1936 ad Harlem; ora i due si ritrovavano con piacere, manifestando in modo rumoroso il reciproco entusiasmo e forgiando un gramelot anglofrancese col quale si intendevano benissimo. “L’incontro,” scrisse perentorio il
giornale francese “Combat”, “è stato l’avvenimento della Mostra.”3 Welles e Cocteau presenziarono fianco a fianco alle proiezioni dei rispeivi film (Cocteau ne aveva due, L’aquila a due teste e I parenti terribili), si offrirono cocktail al bar dell’Excelsior, e gareggiarono ad abbracciare la Magnani, al festival per presentare L’amore di Rossellini, la cui prima parte, Una voce umana, era traa da un ao unico dell’artista francese. Oltre a Cocteau e alla Padovani, del clan Welles facevano parte il fedele Barzini, che continuava a fungergli da segretario e interprete, Alberto Mondadori, ammiratore appassionato e passionale della sua opera, Alfredo Todisco, giovane cronista triestino, fra i pochissimi a conoscere la lingua inglese, e la mitica columnist Elsa Maxwell, l’unica in grado di contrastare i veleni di Louella Parsons e Hedda Hopper, e che perciò Orson traava con devota deferenza. Epperò, nel piccolo mondo dei festival, gruppi e gruppuscoli sono sempre oggeo d’invidie o di sospei, e lo stesso accadde in quell’infuocata Mostra del ’48: circondato da amici storici o d’occasione, Welles diede l’impressione di voler escludere altri, suscitando una soile avversione. “Né io né Welles,” ricordava Cocteau, “amiamo parlare del nostro lavoro. Lo speacolo della vita ci imbarazza. Potremmo rimanere a lungo immobili e guardare l’hotel agitarsi intorno a noi. esta immobilità demoralizzava parecchio gli indaffarati uomini d’affari e i nervosi esperti del cinematografo. […] Fummo subito guardati con occhio torvo. La nostra calma veniva interpretata come spionaggio. Il nostro silenzio spaventava e si caricava di esplosivo. Se si arrivava a ridere, era atroce. Ho visto uomini seri passare in tua frea davanti a noi nel timore di qualche sgambeo. Ci si accusava di un crimine di leso festival: di fare gruppo a parte.”4 Un gruppo che appena poteva pronunciava serenamente la propria opinione, meglio se in disaccordo con la maggioranza. Uniti dall’amore per la sperimentazione e dalla tentazione di ibridare cinema, teatro e piura, la coppia di registi si divertì a far fronte comune contro i puristi che, chiusi a ragionare di celluloide ventiquar’ore su ventiquaro nell’inospitale isolea del Lido, sentenziavano “questo è cinema”, “questo non è cinema”, e sproloquiavano sulle differenze fra un “buon film” e un “film autentico”. “Intervistati insieme dalla radio,” avrebbe poi raccontato Cocteau, “Welles ed io rispondevamo che saremmo stati lieti di
sapere cosa fosse un film cinéma, non chiedevamo che di imparare la ricea per meerla in pratica.”5 Un’ostilità leggera ma palpabile cominciò a circondare il regista americano, un sentimento che Welles fece l’errore di soovalutare, e che non fu provocato solo dall’esuberanza della star e dalla polemica complicità con Cocteau. alche mese prima, aveva avuto luogo il primo confronto eleorale fra Democrazia cristiana e comunisti, e dopo la vioria di De Gasperi lo scontro si stava trasferendo all’interno del cinema. Mentre il governo meeva le mani su quella che era stata, mussolinianamente, “l’arma più potente del mondo”, la sinistra cercava di gestirne l’anima, opponendo a una censura sempre più soffocante la passione per i temi civili, e il nascente neorealismo agli accordi commerciali con i distributori americani. Avviliti da una legge del cinema che favoriva i film statunitensi a scapito dei prodoi locali, i lavoratori del seore maturarono in breve una forte avversione contro i prodoi stranieri, che a centinaia arrivavano nelle nostre sale mentre Cinecià rimaneva in preda agli sfollati. Tuo ciò avrebbe portato, sei mesi dopo, a una storica adunata a piazza del Popolo, in cui ventimila lavoratori del cinema furono arringati da De Sica, Blasei, Visconti e Anna Magnani.
Serata di gala alla Mostra del Cinema del 1948: da sinistra sono riconoscibili John Kitzmiller, Alberto Lauada, Carlo Ponti, Francesco Pasinei, Vinicio Marinucci, Orson Welles e Lea Padovani (da “Hollywood”, 18 seembre 1948).
Alla Mostra veneziana del ’48 un generico sentimento antiamericano aveva già cominciato a fermentare, e Welles venne individuato come la perfea viima sacrificale: dipinto come personaggio stravagante e smargiasso, la star americana era reduce da un’operazione ambigua come Cagliostro, prova generale per una
ipotetica colonizzazione del cinema italiano. Il risultato fu paradossale: “Nella guerra tra Roma e Hollywood,” sintetizzò acutamente un cronista dell’“Europeo”, “pareva che Welles rappresentasse quell’Hollywood che lui stella del cinema americano ha sempre combauto.”6 Il clima di opposizione fra cultura europea e cultura americana trovò un riscontro pretestuoso nel fao che la Mostra avesse in concorso due film trai da Shakespeare: il Macbeth statunitense di Welles, ispido e tenebroso, e l’Amleto britannico di Laurence Olivier, più tradizionale e potabile, e che infai avrebbe poi vinto. Nel pregiudizio italiano di allora era già tanto che un americano si accostasse a Shakespeare, non poteva certo presumere di far meglio rispeo a un conterraneo del Bardo. La compostezza e l’eleganza del film di Olivier diventarono l’ovvia pietra di paragone con cui l’altra pellicola shakespeariana avrebbe dovuto gareggiare: traandosi di uno stimatissimo aore inglese e di un chiacchierato artista americano, il verdeo era già scrio. A complicare il groviglio di diffidenze che avviluppavano Welles c’erano le sue radici artistiche, teatrali prima che radiofoniche, e il suo orgoglioso protagonismo che, faa eccezione per L’orgoglio degli Amberson, lo aveva sempre portato a interpretare i film che dirigeva. Orripilata dal cinemino filodrammatico sviluppato dal fascismo e galvanizzata dal nascente neorealismo, la critica italiana osservava con sospeo la spregiudicata esibizione aoriale di un regista. Erano tempi di grandi furori artistici e ideologici, e chi adorava l’immediatezza di Rossellini, faa di spontaneità e di aori presi dalla strada, reagiva male di fronte alla sontuosità di Welles, costruita pazientemente in studio dopo seimane di prove con aori professionisti. In quei giorni veneziani, il confronto vero non fu fra Macbeth e Amleto ma fra Macbeth e il neorealismo, rappresentato in quella Mostra da alcuni suoi frui più o meno ortodossi, L’amore di Rossellini, La terra trema di Visconti, Senza pietà di Lauada, pellicole che Welles ebbe occasione di vedere e che non mancò di criticare. In un clima già vagamente ostile, la posizione del regista americano nei confronti di quei film fu probabilmente determinante. Welles uscì dalla proiezione di La terra trema quando il film era ancora a metà,7 e a Bazin e Tacchella, che lo intervistarono per “L’Écran français”, spiegò che la pellicola di Visconti era noiosa e
mal costruita. “La prima regola del cinema,” argomentò, “è far rimanere la gente nelle loro poltrone… La macchina da presa non deve vedere tuo, ma cercare e costruire prima di spiegare;”8 parlò di “partito preso estetico” e criticò apertamente la scelta di aori non professionisti, meendo a paragone il nonno siciliano del film di Visconti con lo straordinario Raimu di La moglie del fornaio di Pagnol. (“L’argomentazione di Welles era ridicola,” scrisse livido Renzo Renzi leggendo l’intervista. “In realtà l’impiego degli aori improvvisati è una delle più grandi forze del nuovo cinema italiano.”)9 Welles fu altreanto veemente con L’amore di Rossellini. Non disse nulla sulla seconda parte del film, quel Miracolo visto in anteprima ad aprile e per il quale si era caldamente congratulato con l’autore, ma si scagliò energicamente contro la prima, Una voce umana, traa dall’ao unico dell’amico Cocteau: “È una pretesa insensata fare un film quasi completamente di primissimi piani; dato che i piani cambiano senza una vera ragione, uccidono le immagini del film a partire dal secondo minuto.”10 Criticare Visconti e Rossellini non era la politica migliore per farsi apprezzare a un festival italiano, tanto più che Welles era angosciato dal timore che il suo film non venisse compreso. Fosse per reazione a questa paura, per amor di provocazione, per eccesso di onestà o folle desiderio autopunitivo, Welles arrivò, con Jean Desternes della “Revue du cinéma”, ad accostare il neorealismo ai cinegiornali: “Le Aualità, ecco il maggior nemico del cinema come arte. È materia priva d’interesse. Niente di più facile che far recitare un passante qualsiasi in un film. Più complicato farlo uscire dall’anonimato. È con gli aori che si deve fare dell’arte. […] Rossellini e Lauada hanno molto talento, ma il cinema oggi è in un’impasse. Non c’è stato nulla di nuovo in dieci anni, a parte Sciuscià. […] È il solo film dove si sia saputo fare dell’arte partendo dalla realtà, tui gli altri sono molto vecchi, vecchi come il mondo. Già sorpassati. I film italiani del dopoguerra avevano la loro ragion d’essere sul momento: del giornalismo filmato. La situazione del dopoguerra in Italia è già passata. Non lo vogliono capire. […] Il realismo non ha valore che per un fine morale o politico. anto a parlare di neorealismo a proposito dei miei film, è una bauta di spirito. Io sono più vicino a Carné che a Rossellini.”11 est’ultima dichiarazione solleverebbe diversi interrogativi sul suo tipo di cinema, e sul rapporto tra i suoi film e il realismo
(perlomeno il “realismo” wellesiano nella concezione di Bazin). Tanto più che la posizione di Welles andava oltre categorie stilistiche o estetiche: investiva soprauo la morale. Alfredo Todisco, che ebbe modo di chiacchierare più volte con il regista, raccolse le sue opinioni con grande acutezza: “A che serve ritrarre le bruure del mondo, se non si sa con quale spirito, con quale finalità esse vengono affrontate? Se ad esse non si suggerisce una soluzione? L’appunto che egli fa a certi film neorealistici italiani, si riferisce proprio alla assenza di un pronunciamento rispeo alla scabrosa materia traata, che può sospearsi ritraa a semplice fine emotivo.”12 Welles si mostrava più interessato al nostro teatro, soprauo a De Filippo. “Eduardo, naturalmente, aggiunge,” scrive Giulio Cesare Castello. “È l’uomo più importante, oggi, in Europa, egli afferma. E non soltanto come aore. Welles ha molta simpatia per Napoli milionaria e considera l’arte interpretativa di Eduardo come un fao non soltanto di istinto e di tradizione, ma sopra tuo come un fao di meditata e studiosissima elaborazione.”13 Divisa sul valore da aribuire a L’amore e La terra trema, la nostra critica non era nelle giuste condizioni di spirito per acceare lezioni da un regista americano. Anzi: le incaute dichiarazioni di Welles furono il detonatore che mancava per far esplodere la bomba. Per accendere la miccia, occorreva aspeare di vedere Macbeth.
Welles incontra Anna Magnani durante la Mostra del Cinema del 1948.
Il film si apre con il maleficio di tre streghe intente a forgiare un bamboloo, sul quale, come in un rito voodoo, le megere pongono una corona e una maledizione. Macbeth (Welles), guerriero viorioso, arriva subito dopo a cavallo, e viene a sapere dalle tre streghe di essere destinato al trono di Scozia. La strada verso il potere gli si apre grazie alla morte del ane di Cawdor, giustiziato per tradimento: Macbeth ne prende il titolo ma per giungere al trono ha bisogno di togliere di mezzo il buon re Duncano (Erskine Sandford). È Lady Macbeth (Jeanee Nolan) a consigliarlo e a sorreggerlo nell’orrendo delio, e Macbeth è subito costreo ad aggiungere sangue a sangue: uccide le guardie per geare su di loro la colpa della morte di Duncano, fa eliminare Banquo (Edgar Barrier), la moglie e il figlio di MacDuff. Stanco, ubriaco, insonne, invoca i demoni che lo hanno posto sul trono, mentre la moglie, in preda ai rimorsi e al delirio, si gea dalla torre del castello. Nascosto dietro le fronde del bosco di Birnam, MacDuff (Dan O’Herlihy) giunge infine con il suo esercito soo il castello e affronta il tiranno. Macbeth è decapitato, le forze cristiane hanno trionfato su quelle demoniache. Ma le tre streghe tornano in un’ultima inquadratura, annunciando che “l’incantesimo è compiuto”. Interamente girato in studio, con alcuni lunghi piani sequenza, Macbeth è costruito in buona parte sui dialoghi originali di Shakespeare. Poche ma importanti le innovazioni: il rito voodoo dell’apertura (mutuato dalla versione teatrale “negra” del 1936), l’aggiunta del personaggio di un sacerdote che intravede il male in Macbeth e che morirà per sua mano, e il ritorno delle tre streghe in chiusura: se è possibile leggere una vioria religiosa del bene contro il male, contrapponendo le croci celtiche dell’esercito di MacDuff ai bastoni biforcuti delle streghe, basta quell’ultima apparizione ad eliminare ogni illusione di redenzione e di libero arbitrio. L’apparato scenografico del film è tanto monotono quanto impressionante: rocce, acquitrini, fumi, fiaccole, dirupi, alberi scheletrici. Dello stesso tenore sono i costumi, ideati dallo stesso Welles: gli scozzesi del film sono un misto fra cavernicoli, vichinghi e pirati, in un inquietante mélange selvatico. I dialoghi, quasi tui registrati prima delle riprese e poi recitati in playback sul set, sono gravati da un evidente accento scozzese, che con le sue asperità contribuisce a rendere spaventosa la storia del re assassino. Ma immagini e suoni sono sempre funzionali all’idea dell’autore:
obbediscono tui a una percezione distorta, come se a raccontare la terribile storia agli speatori fosse la mente alterata di Macbeth, condannato dalle streghe a non dormire, ossessionato dai fantasmi, sorpreso da strane visioni o abbrutito dall’alcol. Il risultato è, oltre che di forte coerenza, di grande potenza espressiva. James Naremore ha osservato che Macbeth “è l’esempio più puro di espressionismo nel cinema americano.”14 E infai, se il film riecheggia una cupezza teutonica degna del primo Lang, e alcune scene richiamano le immagini e il montaggio di Ėjzenštejn, tua la pellicola trae forza da soluzioni antinaturalistiche che riportano alle radici stesse dell’espressionismo cinematografico. Le rocce, le nubi, gli alberi rinsecchiti sono nel film perché abitano il personaggio sconvolto e angosciato di Macbeth; sono contemporaneamente dentro e fuori di lui, anzi, sono fuori proprio perché gli stanno dentro. L’interesse di Welles per questa tragedia riguardava comunque anche l’aualità e implicava, come già avvenuto a teatro con Julius Caesar, la condanna dei totalitarismi e dei fascismi. “Credo che l’elemento più interessante di Macbeth,” avrebbe poi dichiarato a un giornale francese, “sia la descrizione della decadenza del re criminale, o più esaamente del suo crollo. Sta al pubblico operare una trasposizione su un piano auale: e allora tui gli enigmi, le oscurità si spiegheranno subito.”15 Il film di Welles fu proieato la prima volta intorno a metà festival, in un’anteprima ristrea. Todisco, che era fra i fortunati, descrisse una Padovani impegnata a fumare nervosamente, mentre Orson era irritato per alcune deficienze tecniche della proiezione. Con un pubblico costituito soprauo da amici dell’autore, il responso fu neamente favorevole e gli speatori si congratularono vivamente. “Non ho mai sentito la tragedia con tanta violenza,” gli disse all’uscita l’ex arice Diana Manners, moglie dell’ambasciatore Duff Cooper. E Cocteau, “che durante tua la proiezione si era dimenato sulla sedia come in preda alla tarantola”, corse ad abbracciare il regista16 e gli bisbigliò all’orecchio: “Mio caro, dopo aver visto il Macbeth ho deciso di non fare più del cinematografo” (promessa, per la verità, poi rimangiata). Welles contava di aggiudicarsi un premio importante: vincere a Venezia, la massima assise cinematografica d’Italia, sarebbe stato un segnale decisivo nella sua nuova carriera di regista lontano da
Hollywood. La prima proiezione lo confortò nell’illusione, e cominciò a rilassarsi. Nel ricordo di Alberto Mondadori, che il giorno dopo pranzava insieme a lui e alla Padovani, Orson era di oimo umore, soddisfao della prima accoglienza del film, e già tuo preso dalla prossima impresa, quell’Otello che gli era ormai entrato dentro, e che lo portava a elargire ai convitati piccoli saggi di recitazione. Riportiamo di seguito il roboante incipit dell’articolo di Mondadori: “‘Ella mi amò per i pericoli che io avevo corso, e io l’amai perché ella ne ebbe pietà.’ Il vento soffiava a folate vaste, caldo di sud, come se davvero Orson Welles lo avesse, instancabile, suscitato, da quell’evocatore di streghe e di tregende che nelle desolate lande di una Scozia sanguigna e maledea il suo Macbeth aveva la sera prima concretizzato in immagini durature quasi fossero scolpite nel marmo di Bernini, in magiche cavalcate si sbizzarriva il vento sollevando aspri turbini di sabbia, calda e pungente, contro il fragile sbarramento di tovaglioli predisposto alla benemeglio a protezione del risoo con gli scampi. Egli recitava, a memoria citando passi dell’Otello con fervore, amorosamente quasi, le mani ampie e soili veloci trascorrendo e impazienti dal volto possente alla fragilità del volto femminile che gli stava accanto, di già dentro urgendogli il personaggio e il racconto, magnifici e barbarici, teneri, sonori, limpidi del Moro di Venezia. ‘Gioia dell’anima mia, se le tempeste sono sempre seguite da simile calma…’ e il vento all’incontrario rinforzava e Welles rideva del suo fanciullesco riso, strizzando gli occhi, convulsamente preso da una felicità incomprimibile, ai nostri volti mascherati soo gli occhi da bianchi fazzolei che simili ci facevano agli immaginari tuareg dell’Atlantide di Pabst ‘… che i venti soffino pure fino a svegliare la morte; e la mia barca intrepida salga montagne d’acqua alte come l’Olimpo; e di nuovo precipiti giù quanto l’inferno dista dal cielo.’”17
Orson Welles in Macbeth.
Welles aveva in realtà ben poco da star tranquillo. Macbeth doveva ancora passare dalle forche caudine della giuria, presieduta da Luigi Chiarini e costituita in buona parte da critici italiani, alcuni dei quali si erano già espressi negativamente sul cinema di Welles, da Mario Gromo della “Stampa” ad Arturo Lanocita del “Corriere della Sera”, passando per Guido Aristarco (querelato solo pochi mesi prima) e Felix A. Morlion, potente domenicano amico di Rossellini nonché collaboratore dei servizi segreti americani.18 La notizia della buona accoglienza del film alla proiezione privata indispose qualcuno. Accanto agli elogi di amici e personalità, si diffusero stroncature orali che andarono ad anticipare il giudizio di chi non l’aveva ancora visto. Orson sentì crescere aria di burrasca. I segnali sociali c’erano tui: bigliei d’invito che non arrivavano al suo indirizzo, gente che evitava di rispondere al suo saluto… Il regista corse ai ripari: organizzò una conferenza stampa all’Excelsior, per spiegare e illustrare il significato della sua ultima opera. “Non so se questo è il migliore o il peggiore dei miei film,” s’infervorava Welles, “ma, secondo me, i problemi che pone Macbeth sono i più importanti che io abbia mai affrontato. […] Confesso di essere un formalista, ma la tecnica non mi soffoca mai. M’interessa soltanto esprimere delle idee. Il formalismo è un segno di decadenza.”19 “Welles,” scrive Giulio Cesare Castello, “considera Macbeth la propria opera più importante, è convinto di aver seguito, nel trasferire Shakespeare sullo schermo, una via autonoma e non paragonabile con quella di Olivier, ma affao differente. D’altro canto, egli definisce Macbeth un ‘filmeo’, perché ebbe a portarlo a compimento in venti giorni.”20 “La cosa più interessante che sia stata dea […],” concede Panicucci, “è che il Macbeth è stato realizzato […] in teatro di posa, dopo una preparazione di sei mesi ed uno studio accurato di ogni movimento di macchina e che il suo costo è stato […] la metà circa del costo di un film normale in America […]. Le altre domande erano a vuoto, banali, fae più per meere in mostra l’interlocutore che per conoscere l’opinione dell’interloquito.”21 Critici e giornalisti approfiarono dell’occasione per stuzzicarlo e provocarlo. Welles cadde nella trappola, e il boa e risposta diventò ancora più teso. “I suoi giudizi sono recisi, tranchants,” riporta Castello, “certe sue condanne polemiche non ammeono
repliche. Egli le pronunzia d’impeto, con un gesto della mano che soolinea la frase, e magari con una risata beffarda. Così, ad esempio, per lui, gli speacoli del Piccolo Teatro di Milano sono pretenziosi e snobistici. […] ‘Se una cosa non piace è perché è brua,’ così la pensa Welles. […] Anche sul realismo americano Welles ha opinioni assai personali. […] Indica in Elia Kazan l’uomo nuovo e più importante. […] Curiosa piuosto è la moderata stima che Welles ha di Dmytryk: riconosce i pregi di Odio implacabile, ma un nostro accenno ad Anime ferite, che era pur notevole cosa, provoca un suo commento brusco e sprezzante.”22 “A domande insidiose,” aggiunge Todisco, “rivolte con evidente spirito malevolo, fece riscontro il rumoroso disinteresse di quanti non si trovavano raccolti intorno al giovane regista americano, continuamente indaffarati piuosto ai tavoli ricolmi di prelibati rinfreschi.”23 Malgrado il nervosismo e le provocazioni, pare che Welles riuscisse a cavarsela con arguzia. “Nessuno poté esimersi dal riconoscergli disinvoltura e fascino personale,” scrive Todisco. Ma un breve incontro con la stampa italiana non bastava a capovolgere la situazione: solo il riconoscimento delle qualità del film avrebbe potuto affermare i meriti del suo autore. La maina del 3 seembre, una piccola sala soerranea del Palazzo del cinema ospitò la proiezione di Macbeth per la stampa e la giuria. Andò male fin dall’inizio: pare che, a causa di proiezioni concomitanti, lo speacolo cominciasse a sala quasi deserta. La platea andò ripopolandosi solo verso la fine dello speacolo, mentre gli speatori si lasciavano andare a “un distrao chiacchierio, spesso frammisto ad osservazioni di scherno”. Conclusa la proiezione, Todisco incontrò Orson “visibilmente abbauto” e “amareggiato”. “Con accento accorato,” racconta il giornalista, “ci confessò di non capire la ragione della fraura esistente tra lui e la società italiana.”24 Corse voce che la giuria avesse già deciso di dare il premio maggiore all’Amleto di Olivier e che meditasse di umiliare Welles aribuendo al Macbeth un riconoscimento per le musiche, uno dei pochi contributi artistici in cui il regista non era direamente coinvolto. Welles commise l’errore di organizzare una seconda conferenza stampa. Impacciato da una lingua che non governava, si affidò di nuovo ai buoni uffici di Barzini, che gli fece da imbarazzato
interprete: respinse le ventilate accuse di formalismo e i supposti debiti verso Lang ed Ėjzenštejn, proclamò l’importanza di un film prodoo in aperta opposizione al sistema hollywoodiano, dichiarò di non volersi meere contro una produzione importante come l’Amleto. Ma la difesa disperata e non richiesta di un film di cui si proclamava orgoglioso gli tirò addosso ancora più ostilità, e il secondo incontro con i giornalisti si trasformò in una farsa astiosa. Lasciamo ancora la parola alle cronache dei presenti. “Welles,” racconta il cronista dell’“Europeo”, “sudato, incredulo, cercò di spiegare che il film era costato meno della metà d’un normale film americano, e che l’aveva fao provando per sei mesi prima di entrare in un teatro di posa. Disse anche che era inutile confrontare il suo Macbeth con l’Amleto di Olivier, film di prestigio nazionale, costato quaro milioni di dollari.”25 Le parole di Welles suonarono come un’involontaria giustificazione: “Tui i miei film sono stati degli esperimenti, lo stesso Macbeth, sebbene ciò sia più di un esperimento: sapevo dove andavo, e ho voluto tentare qualche cosa.”26 “L’autore,” chiosa Comini sul “Giornale di Trieste”, “ha spiegato […] che i fondali avevano un valore dichiaratamente astrao e così egli li aveva immaginati appunto perché l’aenzione degli speatori non ne venisse distraa e tua rimanesse convergente sulla recitazione.”27 “Intendevo istituire un metodo nuovo,” insisteva il cineasta, “lasciare la premessa narrativa ai soli personaggi e fare dell’astraismo simbolico per quanto concerneva il rimanente.”28 “Welles,” traduce Panicucci, “ha trasferito [Macbeth] su un piano astrao collocandolo in una cornice scenografica che ricorda molto da vicino quella de I Nibelunghi di Lang e del Nevskij di Ėjzenštejn. Semplici coincidenze poiché il regista ha confessato di ignorare queste opere.”29 Welles fu chiaro in merito: “Ragioni politiche a parte, penso che l’arte germanica sia sempre stata un’arte decadente – e che non possa essere altrimenti. Non amerò mai Goethe. È impossibile… E se nei miei film qualcuno trova un po’ di Fritz Lang, tanto peggio per me. D’altronde non ho visto che due film di Lang, M e Fury;”30 “[Ėjzenštejn e io] siamo entrambi figli dello stesso padre, siamo i due eredi di Griffith. Ma abbiamo preso dei sentieri differenti e non siamo più parenti fra noi, salvo per il fao che giriamo le spalle al realismo.”31 “Welles,” scrive Casiraghi, “contava molto sul Macbeth. La sua lunga presenza al Festival, il suo intervento a speacoli, ricevimenti
e conferenze stampa, volevano servire come introduzione al film. Egli ci dichiarava […] che un’accoglienza sfavorevole a quest’opera […] lo avrebbe deluso perché avrebbe significato implicitamente una preferenza del pubblico e della critica per il conformismo americano, contro il quale egli invece s’era proposto di loare.”32 “In un pessimo inglese,” scrive Cavallaro sull’“Avvenire d’Italia”, “tradoo compiacentemente da Barzini […] ci ha deo che il film, opera di una piccola casa cinematografica, segnerà, con un eventuale insuccesso, la fine del ‘teatro del popolo’. Non vogliamo essere noi la causa di tanto male, ma pensiamo che la causa del popolo è difesa da chi oggeivamente cerca di liberare la verità dagli esibizionismi e dai luoghi comuni.”33 Alberto Mondadori trasse le conclusioni: “L’ufficialità dei critici e la giuria hanno un partito preso contro Orson Welles. Ne abbiamo avuto le prove nelle due conferenze stampa che questi indee, e soprauo nelle domande che gli poneva con sufficienza Luigi Chiarini […]. Dunque pare che questo incredibile paese possa fare a meno dell’apporto geniale e unico di un regista come Orson Welles, l’uomo di Citizen Kane, il regista che tanta stima ha di questo Festival da portarci a Venezia il suo Macbeth in prima visione mondiale, il regista più intelligente, più nuovo, più straordinario degli ultimi anni.”34
Orson Welles a una delle due conferenze stampa convocate in difesa del suo Macbeth.
Elsa Maxwell e l’ambasciatore statunitense suggerirono al regista di ritirare il film dal festival. Welles optò per un compromesso: lasciò che la pellicola venisse proieata ma la sfilò dal concorso. “A che pro rischiarlo?” dichiarò a “Variety”. “Tanto non sarà mai dato in Italia, perché è impossibile doppiare il testo di Shakespeare. Meglio serbare il film per un pubblico che capisce. E poi non mi vogliono bene in Italia; il mio amore per quel paese non è ricambiato. Lo so già cosa diranno: diranno che non ho avuto il coraggio di far concorrenza con l’Amleto di Rank…”35 ella stessa sera, la sedicesima e penultima della IX Mostra del Cinema, Macbeth ebbe finalmente la sua prima proiezione ufficiale. Le due conferenze stampa avevano ingigantito polemiche e pissi pissi, e nella Sala Grande del Palazzo del cinema la platea rumoreggiava in aesa di un film che sembrava già passato in giudicato. A rendere Welles ancora più contrariato, fu la decisione di proiearlo subito dopo Fuga in Italia di Mario Soldati, che Orson considerava una pellicola commerciale; e non c’è dubbio che il confronto fra un film italiano narrativamente veloce e avvincente e una trasposizione shakespeariana in inglese, sperimentale e impegnativa, facesse prevedere un esito di pubblico a tuo svantaggio del secondo. Poco prima che le luci calassero, un addeo della produzione salì sul palco e annunciò che il regista del film, Mr Orson Welles, aveva deciso di ritirare Macbeth dalla competizione. Non ci fu la “tempesta in piena regola di fischi e ululati” che avrebbe poi ricordato il regista, ma certo la comunicazione del ritiro del film fu imbarazzata e imbarazzante, e insolentì ancora di più la platea. Ma quando la pellicola di Welles venne finalmente proieata, il pubblico reagì meglio del previsto. Alberto Mondadori, su “Tempo”: “Il film iniziò in una atmosfera ostile, qua e là punteggiata di fischi, di insofferenza espressa a gran colpi di tosse, e via discorrendo. Disgraziatamente per coloro che già pregustavano il fiasco, Macbeth è tale opera di autentico cinema da soggiogare dopo pochi minuti anche il pubblico più sprovveduto, da afferrarlo alla gola con una catena di sequenze possenti, di inquadrature tali da far balzare in primo piano il personaggio e il suo dramma; afferrarlo alla gola e non lasciarlo più, se non alla parola fine, a questo pubblico strappando quaro applausi a scena aperta, fragorosi e spontanei.”36
“Il pubblico,” conferma Borselli su “Oggi”, “per la verità, con quaro applausi sinceri durante la proiezione, e una lunga ovazione finale, dimostrava di aver apprezzato l’opera di Welles. Mario Soldati […] volle stringere la mano a Orson, esprimendo il suo giudizio con un significativo ‘very well’. Alberto Lauada si avvicinò a Welles, gli baé una mano sulla spalla e gli disse: ‘È la seconda volta che la vedo sullo schermo e con molto piacere.’ I giudici invece, inaciditi per la favorevole accoglienza del pubblico al Macbeth, all’uscita parlarono sprezzantemente di ‘film da Terme di Caracalla’, di ‘scene da Presepio e da Groe di Postumia.’”37 Il giorno dopo, i critici italiani massacrarono Macbeth praticamente all’unanimità. A cominciare da Gian Luigi Rondi, il giovane critico cinematografico che aveva tanto ammirato Welles alla sua prima conferenza stampa romana: “Tui sanno quanto alta, terribile e profonda sia la medievale tragedia del Macbeth, il cristianissimo dramma della tentazione, della colpa, del rimorso e del castigo. Welles, invece, […] non vi ha visto che il dramma delle streghe e vi si è geato a capofio, toccando per il suo protagonista una sola nota psicologica: un allucinante terrore di negro impazzito […] in una singolare cornice di cavernicoli […] ispirandosi forse alle groe di Postumia. […] Gesti, aeggiamenti, composizioni corali, tuo denunciava a gran voce il teatro, ma, ahimè, il più grandguignolesco e deteriore teatro che si possa immaginare. […] Una ricerca eccessiva dei grossi effei, un frenetico montaggio di primi piani nuocciono alla solennità dell’atmosfera tragica […] Dal fondo del loro sepolcro marmoreo, in Westminster Abbey, le sacre ossa di Shakespeare fremono all’affronto.”38 Emblematico, per la veemenza e la totale assenza di analisi, il verdeo di Leonardo Mitri, inviato del quotidiano romano “Espresso”: “Ne abbiamo abbastanza del wonder boy. Nelle sue mani la tragedia del rimorso, una delle più grandi tragedie scespiriane, è diventata la commedia dell’allucinato terrore di Bozambo o di Bouboule, primo re negro. Che cosa non ha fao mai il sig. Welles in questo Macbeth che i critici stranieri erano venuti a consigliarci, a imbonirci, a gabbarci come il più grande, il massimo, il superlativo lavoro della Mostra? È invece l’opera più sbagliata che si sia vista su questa tela. È la presunzione del regista Welles che pone in mostra le doti di gigionismo dell’aore Welles.”39 Più equilibrato Lanocita del “Corriere della Sera”, giurato del festival, che definisce “oima” la musica, e la fotografia “spesso di
bella e plastica imponenza”, ma cade infine nelle stesse conclusioni dei colleghi, accusando l’aore-autore di un roboante egocentrismo: “Si sente, anche qui, che questo ingegnoso artista ha del cinema una concezione che presuppone la grandiosità, cerca lo sbalordimento e si serve dell’irruenza. […] La recitazione è soltanto Orson Welles […]; e questo ostinato compiacersi di sé è il torto più grave da rimproverare all’autore di una così singolare opera.”40 Distraa e superficiale la recensione di Panicucci sull’“Avanti!”: “Welles […] ha risolto tuo il film con un continuo omaggio a se stesso, fotografandosi in grossissimi primi piani e lasciando piccolissimi sul fondo dell’inquadratura tui gli altri personaggi. […] Un film mediocre al quale riconosciamo molta ambizione e molta buona volontà.”41 Guido Aristarco, che faceva anche parte dei giurati, tentò su “Sipario” un’analisi più approfondita ma aribuì al film un grave formalismo ed evidenti “copiature”, ripetendo lo slogan dello “sbalordire a ogni costo” che aveva ormai deciso di appioppare, sempre e comunque, al cineasta: “Il fine del regista-aore, sbalordire ad ogni costo, discopre irrimediabilmente una natura da prestigiatore che invano tenta di nascondere, in Macbeth, copiature ora da Lang ora da Ėjzenštejn: si vedano l’atmosfera (Nibelunghi) e la baaglia finale (Aleksandr Nevskij): pertanto cadono le intenzioni di dare una interpretazione di Macbeth diversa dalla tradizione e il tentativo di una scenografia che vuole rifuggire dal reale per effei astrai.”42 Fra i più impegnati nella stroncatura, spicca Ugo Casiraghi sull’“Unità”: “Ecco finalmente Macbeth, il film che non fa dormire. Chiunque, oberato da due seimane di Festival, tentava di assopirsi nell’oscurità compiacente della sala, veniva imperiosamente risvegliato dagli urlacci delle streghe o dalle grida improvvise di Orson Welles, secondo una tecnica di spaventar la gente, già conosciuta da Citizen Kane. […] Macbeth è quasi per nulla Shakespeare, ma è moltissimo Orson Welles. Il quale ci ha elencato i suoi difei principali: la magniloquenza, l’egocentrismo, il bluff. […] Welles poteva fare il Macbeth (e dopo questo, forse quell’Otello più ‘domestico’ che ha in mente di fare) solo perché queste due tragedie gli offrono la possibilità di ripetere all’infinito se stesso, cioè la propria storia personale di enfant prodige, divenuto tiranno dopo aver perso ogni controllo.”43
La posizione dell’“Unità” è interessante anche perché il critico si spinge proprio nella direzione in cui il Welles commensale di Togliai avrebbe potuto trovare solidarietà; e, piccandosi di superarlo a sinistra, rintuzza la sua ribellione nei confronti di Hollywood (“non si combae il conformismo americano contrapponendogli un altro conformismo barocco. Non si combae Hollywood con la retorica, sia pure ardita o pazzesca…”) opponendogli un appello neorealistico al “messaggio” (“… bensì presentando nuovi contenuti, nuovi fai e nuove situazioni drammatiche”). Casiraghi non era un critico superficiale ma la fede comunista, che lo faceva andare in visibilio per il cinema sovietico, lo portava invariabilmente a bocciare un antirealista americano come Welles; dopo arto potere, pure davanti a Macbeth il critico dimostrò di aver equivocato forma e sostanza del suo cinema. Incomprensioni e sberleffi vennero d’altra parte anche da uno scriore intelligente come Ennio Flaiano, non condizionato da militanze ideologiche. Recensendo qualche mese dopo Cagliostro, ne approfiò per inglobarvi una stroncatura rutilante (e, non c’è che dire, gustosa) di Macbeth, probabilmente visto a Venezia: “Orson Welles dimostra una particolare predilezione per le grosse parti: ha interpretato Macbeth, facendone un capolavoro di umorismo involontario, si appresta a interpretare Otello e non possiamo escludere che arriverà a Enrico VIII, a asimodo, al door Mabuse. Poiché i suoi personaggi appartengono a quella categoria che mangia il pollo con le mani non per maleducazione, ma per eccesso di caraere, per prepotenza di immaginazione e volontà. Proprio il genere di personaggi che riescono ad annoiarci, tanto da ritenere che le loro intemperanze non provengono da un dibaito aperto col Destino, ma da un eccessivo sviluppo (curabile) della tiroide. Acconciato nei panni di Macbeth, non gli interessa che cosa dice e quale dramma stia vivendo, gli preme meravigliare il pubblico: come quei cantanti che non fanno differenza tra Mozart e Leoncavallo, anzi preferiscono il secondo per far crollare il lampadario con gli acuti.”44 Le voci che si levarono a proteggere Macbeth furono isolate, e fuori dal circolo dei recensori di professione; come Todisco, critico cinematografico per caso, e perciò fuori dalle consorterie. Ma il giornalista più appassionato e combaivo fu Alberto Mondadori, che dopo Citizen Kane difese a più riprese anche Macbeth, tramutando la propria stima per il regista in una calda amicizia per l’uomo. “Fra Hamlet e Macbeth […],” scrive Mondadori, “non c’è
paragone possibile: il primo è un nobile tentativo di trasposizione dominato dalla personalità teatrale, fortissima e profonda, di Laurence Olivier, il secondo […] è un esperimento geniale di come si possa usare il più puro linguaggio cinematografico affrontando Shakespeare […] al punto che Shakespeare conquista, nel cinema di Welles, una nuova magica dimensione, astraa e miracolosa, potentemente coerente dalla prima all’ultima inquadratura. […] esto Macbeth […] è senza dubbio il miglior film di Orson Welles dopo Citizen Kane. […] Non abbiamo sino ad oggi leo o sentito critica al Macbeth la quale venisse suffragata dalla prova che il ragionare barocco di Welles aveva mancato il bersaglio, né ci è capitato di leggere o di sentire qualcuno che avesse notato lo sforzo espressivo dell’assassinio del re di Scozia realizzato in 300 metri di pellicola senza stacco, o la stupenda realizzazione del duello risolto con un montaggio che nella storia del cinema ha ben pochi esempi, o la mirabile colonna sonora la quale di continuo è in contrappunto con l’immagine, o la musica di Ibert composta, con Welles, alla moviola, fotogramma su fotogramma.”45 Mondadori aveva ragione. Stupisce che nessun altro all’epoca rilevi i lunghi piani sequenza, in qualche caso coincidenti con un intero rullo di pellicola (come la ripresa che mostra tuo quello che succede prima, durante e dopo l’assassinio di Duncano, una soluzione tecnica già sperimentata nell’originaria versione dell’Orgoglio degli Amberson e che proprio nel ’48 Hitchcock stava adoando per l’intero Nodo alla gola). Né qualcuno sembra essersi accorto dell’aspro inglese della pellicola, che Welles aveva voluto con un pronunciato accento scozzese per approssimarsi alla vicenda raccontata da Shakespeare e, più ancora, per avvicinarsi al mondo di violenze ed emozioni primordiali raccontato nella tragedia. È come se i nostri critici avessero visto un altro film; d’altra parte Casiraghi confessa nella sua recensione di aver cercato di dormire, senza prestare aenzione a quello che passava sullo schermo. Forse la pellicola, prodoa dalla piccola Republic americana e ancora sprovvista di distribuzione italiana, passò al Lido senza sootitoli; il che, vista la scarsa familiarità dei nostri critici con l’idioma del Bardo, spiegherebbe almeno qualcosa. Ma anche a limitarsi al solo apparato formale (che infai occupa la gran parte dei rilievi critici) non si può fare a meno di notare la pochezza e l’uniformità delle osservazioni. Parecchi critici citarono, quasi a essersi passati la voce, sempre e soltanto I Nibelunghi di
Lang e l’Aleksandr Nevskij di Ėjzenštejn, modelli già tirati in ballo durante una delle conferenze stampa di Welles e che il regista aveva dichiarato di non avere visto. Pochi, e anche questo è sintomatico, gli accostarono l’Amleto di Olivier: un raffronto fra i due Shakespeare sarebbe stato interessante. Welles, da parte sua, aveva cercato con ogni mezzo di evitare scontri con Amleto, e per questo aveva enfatizzato la povertà del suo Macbeth. Forse esagerò, di sicuro venne mal compreso. Il budget effeivo, citato persino nelle notiziole di cronaca dei nostri rotocalchi,46 si aggira intorno agli 800.000 dollari, una produzione non certo da kolossal ma neanche tanto economica; la ragione della sua straordinarietà è che un film in costume trao da una tragedia shakespeariana si sia potuto realizzare in ventitré giorni con un budget al di soo dell’ordinario. L’accento posto da Welles sul dato finanziario mise però fuori strada critici e biografi, che si sarebbero poi sbizzarriti a indicare cifre esageratamente basse (si va dai 65.000 dollari di Bazin ai 75.000 di Noble fino ai 200.000 di McBride), un budget risicato che all’epoca della proiezione veneziana fornì ai recensori italiani una giustificazione in più per considerare il film come un esperimento ridicolo e arrangiato. Se c’è comunque un elemento che la stragrande maggioranza dei critici italiani rilevò è l’esuberanza del personaggio Welles. Il vero obieivo della loro irritazione non era il regista di Macbeth ma lo strafoente wonder boy che si aggirava per il Lido a torso nudo e sigaro in bocca, la star miliardaria appena volata ad Antibes per rivedere la Hayworth e poi tornata a bracceo con la Padovani, l’enfant prodige che si presentava ai ricevimenti con la boiglia personale di whisky e un selezionato gruppo di amici intelleuali. Un artista “egocentrico” al quale non si perdonò l’appartenenza anagrafica a una confederazione di stati che stava aggredendo il malconcio cinema postbellico d’Italia, e al quale si volle far pagare l’indipendenza dal cine-pensiero dominante: la polemica contro Macbeth fu anche e soprauo una difesa del neorealismo, inteso come genere (e cultura e ideologia), a cui Welles opponeva orgogliosamente un proprio barbarico astraismo. Come previsto, all’indomani della proiezione di Macbeth la Mostra del Cinema celebrò il trionfo di Amleto: la giuria consegnò al film di Olivier il riconoscimento maggiore del festival, il Gran premio internazionale di Venezia, premiando anche l’Ofelia
interpretata da Jean Simmons e la fotografia di Desmond Dickinson.
Welles intervistato a Venezia da Lello Bersani.
Elsa Maxwell reagì al verdeo definendo la giuria “parziale” e “ignorante” e accusando gli italiani, liberati da troppo poco tempo dalla “prigione mentale” del fascismo, di essere incapaci di giudicare “pellicole internazionali prodoe da una libera democrazia”. La giornalista si spinse oltre: denunciò il fao che alcune pellicole americane fossero state artatamente congelate per mesi alla dogana, calcolò che la partecipazione americana al festival copriva il 60% delle spese ed esortò i produori statunitensi a ritirarsi da Venezia per creare in Europa un festival americano tuo per loro. Tradoe e riportate per stralci, le opinioni della Maxwell innescarono più tardi una nuova polemica sui giornali italiani. Mario Gromo, uno dei giurati, rispose per le rime sulla “Stampa”: “La stessa Maxwell, nell’agosto scorso, ebbe a proclamare Orson Welles come uno dei più grandi registi esistenti, e il suo Macbeth un capolavoro. Per noi, invece, il Welles è un discontinuo, pretenzioso, effeistico regista; e il suo Macbeth è forse il film più povero da lui direo: povero di estro, di fantasia, d’intelligenza. La libera America ci concederà, speriamo, di avere al riguardo una libera opinione. Shakespeare per Shakespeare, regia per regia, interpretazione per interpretazione, che colpa possiamo mai avere se l’Amleto di Olivier ci ha spesso entusiasmati mentre il Macbeth di Welles ci ha spesso fao sorridere?”47
Un altro giurato, Giorgio Prosperi, ammannì dalle colonne di “Cinema” una improvvida Risposta ad Elsa Maxwell e ad Orson Welles: il Macbeth viene definito un film “mediocre e pretenzioso”, “che ripete esperienze intelleualistiche vecchie ormai di trent’anni”, mentre della Maxwell viene tra l’altro menzionata, poco cavallerescamente, la mancata avvenenza fisica. La polemica va freudianamente a parare su una (non richiesta) difesa del neorealismo: “Elsa Maxwell è molto amica di Orson Welles, lo considera una sua scoperta, lo protegge e lo esalta. Di fronte alle sue scarse nozioni di estetica, il talento illusionistico di Welles, i suoi aeggiamenti ribellistici, il suo intelleualismo di seconda mano rappresentano quanto di più raffinato ella possa concepire in fao di arte dello speacolo. […] È proprio da questa stanchezza delle mode intelleualistiche che è nato nel cinema il neorealismo italiano, […] magnificato all’estero, specialmente in America, come una rivoluzione nell’arte […]. È da stupirsi se non riusciamo a vibrare d’emozione per l’astraismo scenografico del nostro amatissimo Welles? Tue queste cose Elsa Maxwell non le sa e non fa meraviglia; ma Orson Welles […] avrebbe il dovere di saperle e di misurare […] certe sue affermazioni, le quali oggi fanno sorridere anche certe scimmie nostrane, pronte fino a ieri a rifare il verso a questo piccolo Cagliostro del cinema.”48 Ecco cos’era diventato Welles dopo neanche un anno di soggiorno italiano: un “piccolo Cagliostro del cinema”. La tempesta veneziana del ’48 sancisce la fine dell’idillio fra Welles e l’Italia; polemicamente lontano da Hollywood, anziché una nuova patria il regista americano aveva trovato un altro paese in cui sentirsi incompreso. Due mesi dopo i fai veneziani, Gian Francesco Luzi, ricordando su “La Critica Cinematografica” quanto si fosse parlato bene nel ’46 dell’Orgoglio degli Amberson, la definisce “una Orson-wellite acuta, allora. Poi l’irsuto Welles venne in Italia, i cineasti ed i cinegazzeieri ebbero modo di trovarsi una o più volte a pochi metri e centimetri dalla sua concreta figura… ed in men di un anno successe quel po’ po’ di mutamento della critica ufficiale ed ufficiosa nei suoi confronti. […] el che è successo ad Orson Welles in Italia si spiega assai bene tenendo conto dell’indole di tanti, troppi di noi. ell’abitudine ad arricchire con la fantasia, ad abbellire, ingigantire eccessivamente tuo quanto è ancora ben lontano da noi e, per contrapposto, quella improvvisa carenza che
ci coglie […] di fronte a tuo quanto viene a situarsi a noi vicino, tuo quanto ci tocca direamente”.49 Insomma, un paese (e una critica) provinciale, capace di invaghirsi solo di stelle lontane ma di non saperne vedere la luce quando gli passano vicine. Macbeth ebbe la sua “prima” americana in oobre. Pur condizionate da pregiudizi d’altro tipo, le recensioni furono analoghe a quelle ricevute in Italia: qualche elogio per la non convenzionalità dell’operazione e molte critiche per la povertà dei costumi e la generale mancanza di dignità shakespeariana. Il calvario di Macbeth non si esaurì con la crocifissione veneziana, né con la fredda accoglienza del film in madrepatria. Dopo una contrastata proiezione parigina alla Maison de la Chimie, la Republic ritirò il film dalle sale statunitensi, chiedendo a Welles una serie di cambiamenti che avrebbero dovuto rendere il film più digeribile, dal ridoppiaggio dei dialoghi (cancellandone l’inflessione scozzese) al taglio di alcuni momenti considerati noiosi o ridicoli. Welles acconsentì obtorto collo alle modifiche, apportandole personalmente l’anno successivo fra l’Italia e l’Inghilterra. Nella versione veneziana la pellicola durava 107’ e comprendeva anche una suite musicale in testa; quando Welles, barcamenandosi fra le sue marchee d’aore e l’avventurosa realizzazione di Otello, riuscì a portare a termine tagli e ridoppiaggio, il film misurava 84’, aveva un’introduzione in voice over e un montaggio diverso, con il magistrale piano sequenza dell’assassinio di Duncano spezzato e ridoo, e l’eliminazione dell’apparizione finale delle streghe.50 Fu in questa edizione che uscì poi nelle nostre sale, con i dialoghi tradoi da Gian Gaspare Napolitano e Welles doppiato da Gino Cervi. A quel punto, siamo ormai al 1951, le polemiche sul caso veneziano si erano affievolite e il responso dei nostri critici (che vedendolo in italiano potevano finalmente anche capire le parole di Shakespeare) fu più sfumato e conciliante. Ma ci sarebbero voluti ancora molti anni prima che certi giudizi potessero essere aggiornati da un’analisi accurata e spassionata. Welles, anche lì, era arrivato troppo avanti nei tempi, proponendo una visione di Shakespeare aderente allo spirito e alla leera della tragedia, e al tempo stesso decisamente originale. el paesaggio barbarico, quegli acquitrini grigi, quelle nebbie avvolgenti non erano il tocco fosco di un talento incline allo speacolare, ma la
visualizzazione di un mondo primordiale in cui contano innanzituo passioni e violenze, e insieme un’allucinazione della coscienza, riflessa in specchi deformanti e sguardi da ubriaco, e infine l’ammissione raggelante che il mondo è governato da spiriti malvagi, che scelte individuali e rivoluzioni di massa non sono fruo di libero arbitrio ma vengono suscitate dalla perversa volontà di un destino crudele e ingannevole. Una nuova riflessione sul fascino e la dannazione del potere, in cui Macbeth si aggiunge alla galleria di despoti malati e maledei cominciata con il Kane di arto potere e proseguita con il nazista Kindler dello Straniero, l’avvocato Bannister della Signora di Shanghai e, perché no, il Giuseppe Balsamo del Cagliostro. Sesta trasposizione wellesiana della tragedia, dopo varie rappresentazioni teatrali, radiofoniche e fonografiche, il Macbeth cinematografico portò esteticamente a compimento quanto il regista aveva esplorato ed elaborato in precedenza. Radicalizzò il rapporto fra regia cinematografica e studio di posa, prima del grande salto en plein air del successivo Otello. Giocò ad accumulare strati di senso e di simboli combinando testo, movimenti di macchina, luci e scenografie (altro che il “teatro fotografato” di cui parlerà Moravia!). Un film in cui quelle scenografie astrae, quelle rupi e quelle nuvole non erano il fruo di un gusto eccessivo e violento, né un centone di citazioni da Lang e Ėjzenštejn, ma un proprio personale espressionismo. Se proprio un modello stilistico si deve rintracciare, si dovrebbe semmai citare Edward Gordon Craig, il regista-scenografo-teorico inglese che nella prima metà del secolo aveva immaginato un teatro fao di visioni, piure di luce e pregnanza simbolica, le cui teorizzazioni sulla messa in scena di Macbeth trovano un perfeo riscontro nel film di Welles. Come spiega quello che è forse il saggio più particolareggiato e illuminante pubblicato sui rapporti fra Welles e Shakespeare, L’incantesimo è compiuto di Gherardo Casale,51 uno studio tuo italiano, risarcimento postumo a un linciaggio critico di strabiliante conformismo e superficialità.
Alfredo Todisco: “Una cravaa con dedica” Milano, 8 marzo 2004 Classe 1920, nato a Melfi, in Basilicata, triestino d’adozione, Alfredo Todisco ha lavorato come giornalista al “Mondo”, all’“Europeo”, ai quotidiani “La Stampa”, “Corriere della Sera”, “Il Resto del Carlino”. Cultore di una lingua raffinata, con interessi specifici per la psicanalisi e l’ecologia, Todisco ha scrio romanzi e reportage di viaggi, che gli hanno dato una solida fama. È scomparso a Milano nel 2010. La sua carriera giornalistica era cominciata nel 1948, come “inviato speciale” alla Mostra di Venezia per il quotidiano “Ultimissime” di Trieste. Al Lido, fra una proiezione e l’altra, procurò di mescolarsi il più possibile con aori e cineasti; e, masticando più che bene l’inglese, ebbe modo di conoscere e colloquiare con Orson Welles. “Un viso grande, cinquecentesco,” lo descrive in uno dei suoi articoli, “due occhi caldi e direi, a volte incrinati da appena visibili fili di ironia, a volte accesi da una quasi fanciullesca simpatia umana. Dalle sue prime parole, dai suoi primi gesti, mi si è subito levata dentro l’impressione di un uomo possente e semplice, inquadrato nel vivo dei problemi, con la raffinatezza di un intelleuale europeo e la vergine concretezza dell’uomo pratico americano.”1 Todisco fu tra i primissimi speatori di Macbeth, di cui diventò un immediato sostenitore. “Raramente,” scrisse nello stesso articolo, “accenti più tragici sono stati incisivamente evocati da una rappresentazione cinematografica possente, stagliata nel bronzo e nella folgore.” Mi trovavo al Festival per conto di un giornale di Trieste. Il direore, che per me aveva una certa simpatia, mi aveva deo “perché non vai a Venezia a scrivere del Festival?” Io non ero ancora giornalista, pubblicavo qualcosa qua e là sui giornali di Trieste, ma mi mandarono a seguire la Mostra del Cinema. Welles presentava Macbeth e io fui uno dei giornalisti che ne scrisse molto bene, dicendo che era un film bellissimo, come in realtà era ed è ancora oggi. Poi TODISCO
mostrai l’articolo a Welles, lui se lo fece tradurre – sapeva solo qualche parola d’italiano –, e da quel momento mi prese in considerazione secondo lui come l’unico giornalista italiano che capisse qualcosa. Ricorda cosa la colpì di Macbeth? Intanto la recitazione di lui è straordinaria. Recitava anche quando andavamo a fare qualche giro in gondola, brani interi di Shakespeare a memoria. Per esempio il monologo famoso “Tomorrow, and tomorrow and tomorrow”, e tua la filastrocca che viene dopo, li diceva con molto pathos. Era già appassionato di Welles prima di conoscerlo? Ah sì. Avevo visto La signora di Shanghai, con quella scena famosa di loro due che vanno a fare un giro all’acquario e mentre parlano passa uno squalo: una cosa bellissima. Si è fao un’idea dei motivi per cui Macbeth venne osteggiato e stroncato? Non saprei. Secondo lui, e anche secondo me, Macbeth non fu accolto come meritava, e in quell’accoglienza tiepida, se non fredda, Welles vide dell’ostilità.
Alfredo Todisco con Orson Welles e Lea Padovani durante la Mostra del Cinema del 1948.
Di certo, nel giro di poco tempo il giudizio della critica nei suoi confronti era cambiato molto. All’epoca del suo arrivo a Roma era un genio da festeggiare, solo un anno dopo “un blu”. Perché secondo lei gli italiani cambiarono idea? Lei ricorderà certamente Un marziano a Roma di Flaiano… esta è l’Italia. In quel momento Welles aveva una certa animosità nei confronti della stampa italiana, secondo lui non gli dava il credito che meritava. Ed era vero, non era una sua impressione soggeiva. Come ricorda Welles? ello che ricordo è il suo stato quasi di estasi, davanti a Venezia e davanti a Lea Padovani, era proprio innamorato coo. Faceva qualche giro in gondola e guardava ogni monumento con uno sguardo estatico, parlava di Venezia come di un miracolo… Si capiva che era un uomo di grande sensibilità per ogni forma di bellezza. Se Venezia fa su chiunque un grande effeo, su di lui faceva un grande effeo più una quantità X. Ricordo che certe volte guardavamo dalla piazza la basilica di San Marco, che non è proprio il monumento più bello di Venezia, e lui diceva “mi sembra una mongolfiera che sta per alzarsi nel cielo”. Poi passavamo davanti alla Salute, una chiesa che – anche quella – non è che mi piaccia da mai, ma proprio quel barocco, quelle volute così grandi, a lui facevano effeo. Probabilmente aveva più ragione lui di me, io trovo che a Venezia ci siano tante cose più belle di quella chiesa, però a lui… Dal giorno in cui gli feci leggere la mia recensione diventammo amici, nel senso che tue le sere mi invitava a cena col suo gruppo di persone. Si andava a mangiare in giro per Venezia, oppure ci si trovava con i suoi amici al bar dell’Excelsior. Chi le ha fao conoscere? Tui i personaggi importanti che stavano con lui, come Elsa Maxwell, e presentandomi come una persona di rara intelligenza… Anche la Maxwell – diciamo così – subornata
da lui, mi traava come se fossi un personaggio importante. Mi diceva “I’ll make you famous”, ed era capace di farlo con le sue colonnine… Una volta ero con Welles nel bar dell’Excelsior, entra Jean Cocteau e i due, come fanno gli uomini di speacolo, si abbracciano… Prendiamo un drink tui insieme. Da ragazzo usavo scrivere frasi di libri che mi piacevano, che poi a furia di riguardare mi restavano anche nella memoria; così, dopo un po’ che eravamo lì, recito a Cocteau un brano in francese dal suo Opium. “On ne pais pas fumé l’opium e partager aux avantages de ceux qui ne fume pas”, non si può fumare l’oppio e partecipare dei vantaggi di quelli che non lo fumano – per dire insomma che si deve pagare un prezzo, lui aveva dei trascorsi di fumatore d’oppio… E poi un’altra frase che diceva: “Alcuni hanno il sentimento di quello che hanno, io ho invece il sentimento di quello che non ho, mi mancano i soldi, e mi manca l’amore…” E mentre gli recito i suoi versi, Cocteau mi guarda come parlassi urdu; sarà che il mio francese non è di grande pronuncia… Allora Orson gli fa: “Guarda che ti sta citando,” e lui rinviene. Di fronte a questo rito strano di uno che si mee a recitare cose in francese, forse Cocteau si era quasi dimenticato che erano cose sue. Chi altri conobbe? Ricordo Luigi Barzini junior, che era amico di Welles. Si erano conosciuti negli Stati Uniti, parlava perfeamente l’americano, aveva studiato in America. Com’era Welles umanamente? Per cominciare aveva maniere da gran signore, ecco: un signore del Rinascimento. Diceva per esempio “a me la Venezia che piace è soprauo la Venezia dell’inverno”, quando i colori si aenuano, quando non c’è la calca, ed è più deserta. È un trao anche questo di gusto un po’ raffinato. E poi aveva la malaia che si potrebbe chiamare “aorite”: ce l’hanno tui gli aori e ce l’aveva anche lui, quella di essere narciso, tuo doveva ruotare aorno a lui. Era vanitoso?
No… Era un uomo che viveva in parte su questo pianeta dove noi meiamo i piedi, e in parte nella sua immaginazione, nella sua fantasia. Sempre fantasie di tipo estetico-cinematografico. L’immagine di San Marco come una mongolfiera che sta per librarsi non è una fantasia da uomo d’affari. Aveva una mente fantasiosa, sensibile alla parola poetica. esti giri per Venezia avvennero durante il festival e anche dopo, una volta proieato Macbeth non aveva impegni, era libero. Ricordo che una volta, nella laguna davanti a piazza San Marco c’era una nave romana, una trireme, non so che film dovessero girare, e di fronte c’era un incrociatore americano, allora fu facile dire: ecco i due imperi… Il nostro incontro durò una seimana, e poi ce ne fu un altro di dieci giorni, perché a un certo punto cominciò a girare Otello, e allora mi invitò ad andare a vedere le riprese… Le principali riprese veneziane di Otello iniziarono l’anno dopo. Posso anche sbagliarmi, ma mi pare che io andai a vederle sempre nel ’48, qualche seimana dopo la Mostra del Cinema in cui fu presentato Macbeth. Ricorda quali scene furono girate? Una che ricordo era quella di Roderigo, interpretato dall’aore Carlini, che va a salutare il senatore Brabanzio. Soo la Ca’ d’Oro c’è questo giovane che parla con Brabanzio, litigano, e Brabanzio dice a Roderigo: “Tu sei un cretino.” “E voi siete un senatore!”2 Ecco, ho visto girare questo scambio di baute. Come lavorava Welles sul set? Non era certamente il regista che urla, piuosto il regista che agisce con la moral suasion, come si direbbe oggi. E la Padovani? Lea Padovani era una donna molto amabile devo dire, non aveva l’aria della star. Cosa che avrebbe potuto avere in quell’occasione – girava la parte di Desdemona… –,
inalberare una certa altezzosità da grande diva che un po’ disprezza il mondo… Le è capitato di parlare con Welles della Hayworth? Mai, forse per non dispiacergli, forse per non dare ombra a Lea Padovani, non so… Ma mentre lui era molto innamorato, la Padovani non lo era perché aveva un amico, uno che si chiamava Papi… Avevano, come dire, fao un accordo, nel senso che Lea Padovani faceva il film e Papi, che era il suo fidanzato più o meno segreto, faceva il direore di produzione. Lei stava in apparenza con Welles. Ed anche in realtà, perché sono entrato qualche volta nella loro stanza – mi pare fosse all’Hotel Grii, a Venezia – e ricordo che sulla grande specchiera che c’era in questa stanza, con la matita rossa per le labbra Orson aveva scrio “Your eyes are too big”, i tuoi occhi sono troppo grandi. “Troppo”, naturalmente, in senso elogiativo. Io conoscevo sia Lea che questo Papi, un tipo ineffabile, un po’ sfuggente, carino da vedersi, romano. Sapevo tuo perché c’erano degli amici, soprauo di lui, che dicevano che stava con Lea. La Padovani ammirava molto Welles, naturalmente non poteva non avere considerazione per lui, però non ne era innamorata. Diceva: “È un uomo troppo grande per me,” intendeva anche proprio come statura fisica. Era invece innamorata di questo Papi che cinicamente acceava la situazione, anche perché forse a sua volta non era davvero innamorato di lei. Si creavano questi giri strani, io sono innamorato di una che è innamorata di un altro che è innamorato di un’altra… E Welles non sapeva nulla di tuo questo? Credo di no, nessuno glielo ha mai deo, forse non avrebbe gradito molto l’idea di avere una donna che aveva un altro uomo, per quanto come artista dovesse essere abituato a tue le possibilità dell’essere… Credo che il motivo per il quale il film si interruppe (oltre a motivi di natura economica, perché doveva finanziarselo da solo) fu anche questo dissapore con lei: la sua distanza affeiva da lui lo ha inquietato, e poi da lì si fa presto a litigare…
Welles e la Padovani litigarono già a Venezia? esto non lo so, anche perché andai qualche giorno a vedere le prime riprese del film ma non rimasi a lungo, tornai a Trieste dove allora abitavo. Per una sensibilità come quella di Welles, Venezia deve essere stata una speciale fonte d’ispirazione. Secondo lei quando gli venne in mente di girare l’Otello? Penso che Otello l’avesse in mente già prima di vedere Venezia, ha seguito il filo scespiriano e poi a Venezia certamente questa idea che aveva come una nebulosa si sarà condensata. Inoltre nel preconscio o nell’inconscio Welles era forse geloso di questo Papi, è possibile che non avesse alcun sospeo, ma son cose insondabili… Non voglio dire che ha voluto fare Otello perché geloso di Lea che aveva il suo ganzo, ma probabilmente, nel linguaggio oscuro dell’inconscio, questo può anche essere in qualche modo sostenibile. E lei sull’Otello non scrisse nulla? No, andai solo come speatore, come amico. Sono ricordi a cui sono molto affezionato, ma, come dire… poca roba. Passavo un paio d’ore in gondola con lui e la Padovani, ogni tanto lui diceva com’è bella questa Salute… Mi portava come amico, non come giornalista. Si vabbè, può aver pensato che è sempre utile avere un buon rapporto con un giornalista che parla bene di lui, può darsi che ci sia entrato anche questo. Sentirsi suo amico mi faceva comunque molto piacere. Mi regalò una cravaa, che ho sciaguratamente perso, a penna sul retro ci aveva scrio “With much much affection from Orson W.” Voglio dire, è indubbiamente un segno di simpatia, uno che ti regala una cravaa con dedica… Ha poi visto l’Otello finito? Sì e mi è piaciuto. Secondo me Welles aveva capito questa cosa geniale di Shakespeare. All’epoca non c’era la questione del razzismo, ma credo che Shakespeare avesse percepito che avere la pelle nera di fronte a una donna bianca e bellissima poteva dare un senso d’inferiorità, una motivazione in più.
esta follia di Otello che ammazza Desdemona si innesta in un complesso di inferiorità inconscio. In fondo Otello è un vincente, è il comandante della floa… Welles tuo questo lo aveva capito bene. E lei si occupò ancora di cinema? No, nei primi anni cinquanta mi trasferii e di lì cominciai il mio viaggio nel giornalismo vero e proprio, non in quello d’occasione. Vede cos’è il destino? Avevo conosciuto Barzini a Venezia tramite Orson Welles, poi quando negli anni cinquanta mi trasferii da Trieste a Roma per cercare fortuna, una delle persone che andai a salutare fu proprio Barzini. Il quale mi disse “guarda, è appena uscito un seimanale molto importante, che si chiama ‘Il Mondo’, direo da Mario Pannunzio,” e si prese la briga di portarmi da Pannunzio perché aveva una certa stima di me. Fu nel ’51, credo: mi presentò dicendogli “questo ragazzo è bravo, ti potrà servire” e Pannunzio mi disse di scrivere un pezzo su Trieste. Lo pubblicò subito, in prima pagina, cosa che mi fece una grande impressione: “Il Mondo” era un giornale molto autorevole, ci scrivevano Croce ed Einaudi. Ho cominciato a collaborare, poi da lì fui assunto a Milano all’“Europeo”, poi alla “Stampa” di Torino, per cui ho fao il corrispondente da Mosca, e poi al “Corriere della Sera” dove sono stato circa vent’anni. Incontrò di nuovo Welles? Non lo rividi più. La vita è così, generalmente ti rimangono addosso i rompicoglioni. Le persone con cui magari avresti voglia di stare svaporano nello sfondo…
8. Comincia Otello (e finisce un amore)
Oh, guardatevi signor mio dalla gelosia, è il mostro dagli occhi verdi che rigea il cibo che lo nutre. Jago (Micheál Mac Liammóir) in Otello
Shakespeare andava decisamente di moda nel 1948. Oltre a Macbeth e Amleto, in quella edizione la Mostra di Venezia presentò Doppia vita, rileura metateatrale di Otello. Il film, non fra i più famosi di George Cukor ma dotato di una certa suggestione, racconta di un aore sul viale del tramonto ossessionato dal ruolo di Otello e dalla gelosia per la propria Desdemona. “Per interpretare la gelosia bisogna essere gelosi,” dice nella pellicola Ronald Colman, e Welles, nei confronti della sospirata Padovani, aveva i suoi buoni motivi per esserlo. Voltata definitivamente la pagina Hayworth, aveva ripreso a corteggiare una donna che, malgrado le promesse, continuava a negarglisi. Welles s’incaponì. La profferta di matrimonio non fu una voce faa circolare ad arte ma un’intenzione reale, che si faceva più seria ogni giorno che Lea lasciava passare senza dargli una risposta definitiva. E negandogli la propria virtù, che invece elargiva a un altro. Il rivale si chiamava Giorgio Papi, e faceva parte anche lui del grande circo cinematografico. Non era aore né regista, lavorava in produzione; col tempo si sarebbe messo in proprio, producendo fra l’altro un caposaldo del western come Per un pugno di dollari. Aveva conosciuto Welles sul set di Cagliostro, dove era stato direore di produzione, e con la stessa qualifica Orson gli aveva chiesto di lavorare al suo Otello. Pare fosse un bell’uomo. “Guance rosee e aria perplessa, tuo sommato amichevole, di improvvisato giocatore di borsa,” lo descriverà Micheál Mac Liammóir nel suo diario delle riprese. Lea Padovani se n’era innamorata, perdutamente ma senza speranze: Papi era sposato con prole, e per accasarsi con lei avrebbe dovuto prendere una decisione drastica.
Il giro romano del cinema era al corrente del triangolo; l’unico all’oscuro era Welles che, intrappolato nel tunnel dell’amore e umiliato dai dinieghi della sua bella, aveva eleo proprio Papi a confidente delle sue pene sentimentali. A Venezia, durante la Mostra del Cinema, il sogno di Otello prese lentamente forma. Le romantiche passeggiate di Welles per le calli, le sue placide gite in gondola con la Padovani e Todisco altro non erano che sopralluoghi a caccia di location. Le contestazioni della critica festivaliera non riuscirono a distrarlo da un progeo che sentiva sempre più importante e necessario. Chiunque fosse stato costreo, fra fischi e contestazioni, a ritirare dal concorso un film come Macbeth, avrebbe evitato di imbarcarsi in un secondo cine-Shakespeare, ma Orson non era tipo da lasciarsi avvilire. Altri motivi avrebbero potuto dissuaderlo. Welles non aveva una conoscenza profonda di Otello che, al contrario di Macbeth, non aveva mai direo né interpretato. Il problema più grosso era di ordine economico: la pellicola speditagli da Roger Hill gli sarebbe bastata solo per qualche provino, al massimo per le primissime scene. Un finanziatore, teoricamente, c’era ma le sue idee non collimavano con quelle di Welles. Il commendatore Scalera gli aveva chiesto esclusivamente di interpretare il Moro e di curare i dialoghi della versione inglese, assumendo un regista e un cast d’aori italiani. Il motivo per cui intendeva limitare l’apporto di Welles era economico-burocratico: la Direzione generale della cinematografia assegnava finanziamenti, ristorni e agevolazioni solo a film di “nazionalità italiana”, e per oenere questa denominazione le pellicole dovevano essere in gran parte interpretate e realizzate da aori e tecnici italiani. Scalera sperava di ripetere l’esperimento italoamericano di Cagliostro, sfruando l’aura di star di Welles ma gestendo stavolta in proprio la produzione: un progeo a cui Orson non si sarebbe mai assoggeato, sia perché era deciso anche a fare la regia, sia perché non avrebbe saputo e potuto trovare interpreti italiani in grado di recitare adeguatamente l’inglese di Shakespeare. I nodi erano venuti al peine già in fase di stesura del copione. “La collaborazione di Orson Welles alla sceneggiatura,” riassume un promemoria amministrativo della Scalera Film, “mise […] ben presto in evidenza la necessità di mantenersi più che mai nel quadro del teatro classico inglese di cui in quel momento si
affermavano clamorosamente l’Amleto e l’Enrico V. Orson Welles dinanzi al pericolo d’una menomazione della realizzazione ed interpretazione shakespeariana, soprauo nei confronti dei suddei due films di lingua inglese, dichiarò di essere piuosto disposto a rinunciare all’idea di produrre in Italia l’Otello che avvalersi di interpreti che non fossero la direa espressione del teatro di Shakespeare. La Scalera Film che ormai si trovava impegnata nell’iniziativa, non potee opporsi alle richieste artistiche di Orson Welles, né ritenne opportuno rinunciare alla realizzazione in Italia di un grande film che avrebbe impiegato notevoli mezzi finanziari, utilizzato e fao conoscere i nostri impianti ed assicurato lavoro a maestranze italiane.”1
Orson Welles interpreta Cesare Borgia in Il principe delle volpi.
Scalera e Welles non erano però i soli a pensare a un film sul Moro di Venezia. Le cronache dell’epoca riferiscono di un altro Otello in cantiere, prodoo da Sandro Ghenzi per la regia di Renato Castellani; esisteva pure un soggeo di Luchino Visconti e Paolo Pietrangeli “ispirato alla novella di Gian Baista Giraldi Cinzio e al dramma di William Shakespeare”.2 Soprauo, come avrebbe poi confidato a Gian Gaspare Napolitano, durante quella stessa estate Welles aveva avuto sentore di un progeo analogo in Inghilterra. Orson decise quindi di partire subito, “una precauzione necessaria per stabilire una specie di dirio di precedenza a filmare l’opera di Shakespeare”.3 E se i produori italiani gli negavano il loro appoggio, forse Darryl Zanuck era ancora disposto a passargli qualche dollaro, magari in cambio di una prestazione d’aore. Non è un caso che lungo l’estate del ’48 Orson Welles abbia incontrato più volte il capo della 20th Century Fox: a Cap d’Antibes, dov’era andato a trovare Rita, a un cocktail party dato in agosto alla Casina Valadier in onore proprio di Zanuck,4 e all’inaugurazione della Mostra di Venezia, alla quale il produore intervenne con la figlia. E infai Welles oenne un ruolo nel Principe delle volpi, un melodramma rinascimentale in procinto di essere girato nella nostra penisola. Il cachet, centomila dollari, sarebbe stato subito investito nella preparazione di Otello. Prince of Foxes fu la prima pellicola della 20th Century Fox realizzata in Italia. Trao da un romanzo di Samuel Shellabarger e direo da Henry King, il film racconta gli intrighi di Andrea Orsini (Tyrone Power), cavaliere al soldo di Cesare Borgia, disposto a rinnegare il nome della madre (Katina Paxinou) e l’amore di Angela Borgia (Marina Berti) pur di sedurre la bella Camilla (Wanda Hendrix) e ucciderne il marito, l’anziano duca di Cià del Monte (Felix Aylmer), impedimento ai progei di annessione del Borgia. Ma la bellezza e la dignità di Camilla hanno il potere di cambiarlo: Orsini s’innamora della donna e si redime. Passato dalla parte di Cià del Monte, organizza la resistenza contro Borgia e raccoglie l’ultimo respiro dell’eroico duca. Imprigionato e torturato, viene salvato dall’amico Mario Belli (Evere Sloane), libera l’amata Camilla e ricaccia il tiranno invasore. Welles fu scriurato per ultimo, naturalmente nel ruolo di Cesare Borgia: ancora un personaggio di malvagità gigantesca, un villain speacolare che incute un ammirato terrore. “Uomo del
Rinascimento” nel portamento e nella generosità, Welles si misura sul set con un leggendario personaggio storico che del Rinascimento è la parte oscura, il simbolo nero di un periodo di sviluppo e di fermento, un genio malefico che l’aore Welles volle ritrarre con divertimento sornione. Pellicola superiore ai melodrammi in costume di moda all’epoca, Il principe delle volpi fu girato cercando di far coincidere realtà geografica e finzione storica. Se Cagliostro aveva potuto usufruire di Villa d’Este e del irinale, Il principe delle volpi moltiplicò i set tra San Marino, Firenze, Venezia, Siena, Ferrara, Viterbo, Ravenna e Roma, in interni ed esterni di stupefacente bellezza che King avrebbe voluto immortalare a colori, ma che Zanuck impose di ritrarre in un più economico bianco e nero. La troupe girò le prime scene a San Marino, a fine agosto, mentre a Venezia il festival presentava gli ultimi film in concorso. La piccola repubblica indipendente venne invasa da grandi cartelli che delimitavano i luoghi delle riprese come “Los Angeles City Limits”, facendo credere agli abitanti che gli americani avessero iniziato una nuova occupazione. King cominciò dalla sequenza più complessa, lo speacolare assedio di Cià del Monte, con cannoni e catapulte, una baaglia a cui parteciparono mille sanmarinesi reclutati come comparse.5 Welles lavorò al film con spirito completamente diverso dal Cagliostro. A taluni è sembrato di notare una sua qualche influenza nella regia di King ma, anche se è probabile che nelle sue scene abbia fornito un paio di suggerimenti al regista titolare, di certo si tenne lontano dalle ingerenze che avevano fao penare Ratoff. Nel Principe delle volpi Welles interpreta fra l’altro solo poche scene: quasi tuo il film riposa sul volto virile e poco espressivo del divo Tyrone Power (arrabbiato con Zanuck di non aver oenuto come partner la fidanzata Linda Christian). La lavorazione lasciò quindi Orson libero, fra una posa e l’altra, di studiare Shakespeare, provare scene dell’Otello e fare imparare l’inglese alla sua Desdemona. L’annuncio che Lea Padovani sarebbe stata l’interprete femminile dell’Otello di Welles venne dato dalla rivista “Fotogrammi”, in chiusura di un articolo dedicato alla coppia cinematografica del momento. “Mille sono i progei da realizzare,” spiega la giornalista Ravagnan, “dirigere, scrivere e interpretare altri film dei quali quaro verranno prodoi in Italia; svolgere
conferenze all’estero; terminare la Bibbia che sta annotando all’uso dei commentatori storici; seguire la politica, scrivere articoli per i giornali. Strano uomo questo Welles, dagli occhi vivi e cangianti, dai neri capelli ricciuti, dall’umore variabile, semplice e generoso che dispensa il suo denaro a chi soffre con una generosità pari alla rapidità con il quale lo guadagna. Ha potuto la bella Rita, comprendere il temperamento estroso di quest’uomo? Lea, sì. esta fragile donna, piena di palpitante sensibilità, semplice, schieamente sincera ed intelligente, ha saputo, inoltre, modificare tue le stranezze che si aribuivano un tempo alla vita personale dell’aore. […] Mentre questi interpreta per la Fox il ruolo di Cesare Borgia nel film Il principe delle volpi, Lea studia Shakespeare in originale e si fa tingere i capelli di un bel biondo dorato.”6 La scelta della Padovani per il ruolo di Desdemona rispondeva a un intimo desiderio del regista, e risultò certamente gradita, per la questione della “nazionalità italiana”, al produore Scalera. Il problema è che dopo sei mesi di frequentazioni con Orson, l’incerto inglese dell’arice continuava a mantenere un evidente accento mediterraneo. A preoccupare Welles non era tanto la grammatica, né la comprensione dell’inglese seicentesco di Shakespeare, ma il tipo e la qualità della cadenza. Occorreva un insegnante madrelingua, abituato ad avere a che fare con gli aori di cinema… Ed ecco l’occasione: sul set del Principe delle volpi a fare da maestra di dizione c’era Harriet White, un’arice inglese che aveva interpretato uno degli episodi di Paisà. Charlie Moses, un direore di produzione che in quel periodo lavorava anche per Welles, avvicinò la donna e le fissò un appuntamento a Casal Pilozzo. Harriet White si recò fino alla villa dove, circondato dalle vigne e dal terrorizzato rispeo che incuteva alla servitù, Welles le apparve come un re. Il regista le spiegò che desiderava che Desdemona parlasse con le sue stesse inflessioni: la donna acceò trentacinquemila lire a seimana e cominciò a insegnare l’inglese alla Padovani, diventandone subito amica e confidente. L’assedio di Orson a Lea intanto proseguiva; a quanto raccontò poi Welles, i due non erano ancora arrivati al dunque e l’inflessibilità di lei cresceva in proporzione alle smanie di lui. Non contenta, la Padovani si era portata a Casal Pilozzo anche il padre, la madre, la sorella, il cognato e varie altre persone. Secondo Alessandro Tasca, Welles pagava per tui, e veniva da tui traato con sufficienza, ma per amore di Lea continuava a ingoiare.
“Sapevo che un giorno mi sarebbe capitata una situazione del genere,” gli confidò, “ma non avrei mai immaginato che potesse accadermi da giovane.”7 Forse fu colpa di questa parossistica situazione sentimentale se una noe crollò ubriaco nel lussuoso bagno di Casal Pilozzo, rimanendo incastrato fra water e bidet; per tirarlo fuori, Harriet e il maggiordomo furono costrei a chiamare i pompieri. La Padovani, invece, continuava a soffrire dietro Papi. La relazione con Welles era ormai soprauo una ripicca nei confronti di un uomo sposato, che non intendeva abbandonare per lei moglie e figli, e fra i due amanti erano spesso scenate. Ma Lea litigava continuamente anche con Orson. “Non sei che un Machiavelli,” gli gridò una volta. “No, neanche… perché almeno Machiavelli andandosene lasciò qualcosa al mondo.”8 “ando non capivo cosa mi stava urlando era solo meraviglioso teatro italiano,” avrebbe ricordato il regista a Barbara Leaming. “Ma col passare dei mesi, lei imparò l’inglese, io l’italiano, e scoprimmo che ci detestavamo.”9 La Padovani aveva un bel caraere, ed era perfeamente in grado di tenere testa a un uomo temperamentoso come Welles. Malgrado la corte di Orson e la relazione con Papi, si lasciava corteggiare dagli ammiratori che la venivano a cercare e che, di tanto in tanto, la convincevano a lasciare per qualche giorno Casal Pilozzo. Harriet White fu testimone e complice di diverse evasioni ma ne ricorda soprauo una, in compagnia di un tale Maurizio, ex pilota automobilistico, che si trascinò le due donne a Pesaro per partecipare a una corsa. Il trio ripartì quindi per Cortina d’Ampezzo ma prima Harriet telegraò al marito, lo scenografo Gastone Medin, per avvertirlo che sarebbe stata via per qualche giorno. Arrivata a Cortina fece appena in tempo a meersi esausta soo la doccia che la porta della sua camera venne spalancata con violenza e una voce familiare ruggì: “DOV’È?” “Vedevo la faccia di Orson,” ricorda la White, “muoversi dentro e fuori il vapore, il suo collo irto come quello di una beccaccia, con i suoi occhi da cinese lassù, impazziti dalla rabbia. Era riuscito a rintracciarci all’hotel a causa del telegramma che avevo mandato a Gastone. ‘È laggiù, la porta dopo,’ gli dissi sprofondando nella schiuma. Così uscì dalla nebbia, andò alla porta successiva, e trascinò Lea fuori dalla sua stanza. Lo sentii gridare nella hall ‘Andiamo, fai i bagagli, stiamo partendo!’ Poi ficcò di nuovo la testa
nel mio bagno e disse: ‘Vestiti, stiamo partendo!’ Venni fuori, mi asciugai con chilometri e chilometri di asciugamani, mi vestii e uscii con loro giù per la grande scalinata, ciascuna di noi su un braccio di Orson.”10 A questi viaggi turbolenti va aggiunta anche una disavventura aerea. La sera del 20 seembre, Welles, la Padovani e il baritono Michael Tor salirono a bordo di un aerotaxi direo a Torino per una serata di beneficenza; pare che il velivolo, con la radio e la bussola guaste, sia stato costreo a un aerraggio di fortuna su un campo di meliga, a Chieri. I tre passeggeri arrivarono a Torino a tarda sera, con le scarpe infangate.
Irving Penn, Group at Caè Greco in Rome.
“Ci è andata bene e questo conta,” disse Welles a un reporter accorso a intervistarlo. “Un suo giudizio sulla cinematografia italiana?” “Secondo me il miglior film è Fuga in Francia di Soldati”, rispose Orson, citando furbescamente un regista indigeno. “Il suo fidanzamento con la signorina Padovani è da considerarsi ufficiale?”, fu l’ultima domanda. “Penso di sì,” fu l’ultima risposta, accompagnata da una risata di dissimulazione.11 Due giorni dopo, Welles e la Padovani andavano a sedersi nell’Antico Caè Greco, in via Condoi, per prendere parte alla famosa foto di Irving Penn. La Padovani, sguardo vagamente spavaldo, è l’unica donna in un gruppo irripetibile di artisti. Da sinistra: lo scriore Aldo Palazzeschi, il compositore Goffredo Petrassi, lo scultore Mirko, lo scriore Carlo Levi, lo scultore Pericle Fazzini (in piedi), i piori Afro e Renzo Vespignani, il poeta Sandro Penna (in piedi), il poeta Libero De Libero, Lea Padovani, Orson Welles, il piore Mario Mafai, gli scriori Ennio Flaiano e Vitaliano Brancati, e al centro il piore Orfeo Tamburi. Pare che Lea sia stata inserita in extremis dal fotografo, desideroso di una presenza muliebre a ingentilire un cotale consesso,12 ma la foto sorprende soprauo per la presenza di Welles, un volto timido e straniero nella folla degli intelleuali italiani più importanti del momento. L’immagine tramanda in modo autorevole l’adozione di Welles da parte di Roma ma registra in realtà l’illusione di un’integrazione che non c’era e non ci sarebbe mai stata. “Ero arrivato allora allora al Caè Greco,” scrive il 22 seembre sul suo diario Libero De Libero, “dove un fotografo di ‘Vogue’ aveva radunato scriori, piori, musicisti amici per farne un gruppo da pubblicare. Ma nessuno di noi sapeva che doveva figurare in mezzo a noi Orson Welles, e così abbiamo fao da squisito contorno a quella bistecca d’asino che è il signor Welles, genio a forza di dirlo e ripeterlo a se stesso.”13 Welles cercava una fidanzata italiana, amicizie nel fertile ambiente artistico romano, nuove esperienze cinematografiche nella cià di De Sica e Rossellini, e aveva invece trovato una donna che lo avrebbe abbandonato, un gruppo di intelleuali indifferenti se non ostili, produori con i quali avrebbe intraenuto rapporti ambigui e confliuali. La foto di Penn è un curioso falso culturale, che fa solo fantasticare su come avrebbe potuto essere la storia italiana di Welles se le cose fossero andate diversamente.
In quel periodo, Korda si fece improvvisamente vivo con Welles per discutere di una grossa proposta. Cyrano? Il circo? L’imperatore? Nessuno di questi, il produore inglese aveva pensato a Orson per un ruolo nel nuovo film di Carol Reed, una parte abbastanza ridoa – tre scene in tuo – ma tanto importante da dedicarle il titolo. Il terzo uomo è l’unico film che Graham Greene trasse da un’idea originale, pubblicandolo come romanzo solo in un secondo tempo. Lo spunto, un uomo che dopo aver seppellito un amico ha la ventura di vederlo vivo e vegeto per strada, aveva subito intrigato Korda, ansioso di produrre una nuova pellicola con Reed e Greene dopo l’acclamato Idolo infranto. Il protagonista è Holly Martins (Joseph Coen), scriore americano di romanzei d’avventura in cerca dell’amico Harry Lime (Welles), che tui si ostinano a raccontargli morto in un incidente. Ci troviamo nella Vienna semidistrua del dopoguerra, divisa in quaro dalle forze alleate, una cià infida in cui la corruzione si esprime in quaro lingue diverse. Holly assiste ai funerali, vede interrare la bara ma non si rassegna e continua a raccogliere informazioni: alla morte di Harry avrebbero assistito due tipi poco raccomandabili, e pare che sul posto ci fosse un misterioso terzo uomo. I suoi sospei diventano realtà quando, una noe, Harry gli appare in strada, col suo gao accucciato ai piedi: Lime sta cercando di far perdere le proprie tracce perché accusato di commercio illegale, e letale, di penicillina. Holly deve rassegnarsi: il suo vecchio amico è diventato un cinico profiatore. Anna Schmidt (Alida Valli), la ragazza cecoslovacca di Lime, continua nonostante tuo ad amarlo, ma Holly, che è a sua volta innamorato di lei, consegna Lime ai gendarmi, lo insegue per i condoi fognari di Vienna e alla fine preme personalmente il grilleo. Scria fra Vienna, Ravello, Londra e Santa Monica, la sceneggiatura prevedeva un finale in parte lieto ma fu poi Reed a insistere con Greene per una conclusione amara, azzeccando uno dei finali più belli di tua la storia del cinema. Seppellito nuovamente l’amico, Holly s’illude che Anna gli caschi fra le braccia. Inutilmente: al cimitero la donna lo supera senza degnarlo di uno sguardo. Welles soovalutò l’offerta. La produzione venne a corteggiarlo fino a Roma, ma lui rimase chiuso in albergo, deciso a non vedere
nessuno. Korda lo stanò facendo leva sulla sua passione per la magia. Fece cercare il miglior prestigiatore della cià; se fosse uscito dalla sua camera, gli disse, quell’uomo gli avrebbe insegnato alcuni dei suoi migliori trucchi. Welles abboccò, discusse della pellicola e acceò di interpretarla;14 era già impegnato su altri due fronti, ma anche bisognoso di denaro per la sua seconda impresa shakespeariana. Al momento di firmare il contrao, Welles si divertì a farsi inseguire per terra e per mare: una piccola vendea personale nei confronti di Korda, che tanti film gli aveva promesso e poi fao sfumare. La caccia durò diversi giorni, in Francia e in Italia, forse anche qualche seimana: Welles si dimostrò imprendibile ed elusivo quanto Harry Lime. Korda era tentato di acceare il parere del coproduore David O. Selznick, che nel ruolo di Lime proponeva Noël Coward, quando suo fratello Vincent e suo nipote Michael incrociarono il fuggiasco al largo di Capri. Lo ritrovarono a Cagnes-sur-Mer, in Costa Azzurra, intento a divorare un pollo arrosto guarnito di carciofini provenzali: lo sequestrarono e lo portarono a Londra, dove finalmente Orson appose la sua firma. Dopo una simile sarabanda Welles avrebbe potuto tranquillamente alzare il cachet. Ma da uomo generoso (e finanziariamente poco accorto) qual era, si accontentò dei centomila dollari pauiti, rifiutando una proposta alternativa che prevedeva anche una percentuale sugli incassi. Una scelta che, visto il successo del film, avrebbe rimpianto per tua la vita.15 ando la produzione, intorno a metà oobre, richiese la sua presenza sul set in Austria, Welles ricominciò a tergiversare. Streo fra Otello e Il principe delle volpi, si pentì di aver firmato e telegraò di non essere in grado di presentarsi a Vienna per la data stabilita. Sembra che il suo ritardo abbia fao sliare di una seimana le riprese che lo riguardavano, e che Reed abbia ingannato l’aesa studiando la scena in cui Harry Lime si vede per la prima volta nel film, il gaino che si strofina sulle sue scarpe, una finestra che si illumina, il fascio di luce che rivela improvvisamente il suo volto: sarebbe diventata la più bella entrata in scena mai vista sul grande schermo. Dei film interpretati da Welles, Il terzo uomo è di gran lunga il più wellesiano. Il taglio obliquo delle inquadrature, la presenza di Joseph Coen, la luciferina magnificenza del personaggio protagonista, abieo ma affascinante, fanno parte del mondo di
Welles almeno quanto di quello di Reed o di Greene. Orson ha ammesso di aver scrio i dialoghi del suo personaggio, e di aver fornito l’idea delle dita che nel finale sporgono dalla grata delle fognature, dichiarando tuo il resto farina del sacco di Reed. In quanto allo stile elegantemente espressionistico, al piglio nervoso del montaggio, alla stratificazione dei dialoghi, la spiegazione migliore è che Welles abbia influenzato Reed indireamente, portando il collega a emularlo sul suo stesso terreno. Anche volendo, non avrebbe comunque avuto il tempo per discutere del tono del film, perché era ansioso di tornare in Italia a riprendere in mano il timone dell’Otello, e a ricominciare a bussare alla camera di Lea. Tentò anche di rinviare la scena dell’inseguimento nelle fogne, sostenendo che sarebbe stato meglio realizzarla in studio, ma soltanto alcune inquadrature vennero rimandate a una seconda fase. Angosciato dalla lontananza da Lea, Orson le scriveva da Vienna lunghi telegrammi che finivano con formule assai poco telegrafiche, del tipo “allora arrivederci cara”, o “dormi bene e profondamente”. Tuo preso dalla Padovani, non si accorse neanche di Alida Valli, diva in fiore che qualche tempo dopo, al solo pensiero, gli avrebbe rimescolato il sangue. Malgrado le ferite d’amore, i postumi di un’influenza e la puzza nauseabonda delle fogne viennesi, Welles recitò comunque in stato di grazia, senza nasi finti o barbe elaborate, e il risultato fu, per ironica soigliezza ed efficacia, uno dei migliori della sua carriera d’aore. Le riprese di Otello iniziarono nell’autunno 1948, più o meno contemporaneamente a quelle del Terzo uomo, nel bel mezzo della lavorazione del Principe delle volpi. Nel suo L’onesto Iago, Micheál Mac Liammóir accenna di aver sentito parlare di alcune scene di Otello girate a seembre16 ma un rendiconto conservato presso l’Archivio centrale di stato indica la data in cui Welles cominciò ufficialmente l’impresa: 18 oobre. Accanto a Welles e alla Padovani nei ruoli principali, in questa fase il ruolo di Roderigo era andato a Paolo Carlini, aore di formazione teatrale, Harriet White era diventata Emilia su suggerimento della Padovani, e il caraerista Giuseppe Varni, già sul set di Cagliostro, vestiva i panni di Brabanzio; nel cast era previsto pure Antonio Centa, probabilmente nel ruolo di Montano, ma lo stesso Welles ritirò l’offerta proprio il 18 oobre telegrafandogli da Firenze di non avere fondi sufficienti per i minimi salariali italiani;17 Jago era infine Evere Sloane (il door Bernstein di arto potere e l’avvocato Bannister della Signora di Shanghai), che nel Principe
delle volpi stava interpretando l’analogo ruolo di un fraterno doppiogiochista. A dare una mano come aiuto e direore della seconda unità c’era il regista di Dybbuk, l’amico Michał Waszyński, che aveva appena concluso la sua carriera dirigendo a quaro mani con Viorio Coafavi i mediocri e dimenticati La grande strada, Lo sconosciuto di San Marino e Fiamme sul mare. Il direore della fotografia era Alberto Fusi, mentre Giorgio Papi ricopriva il doppio ruolo di direore di produzione e di segreto amante dell’arice protagonista. In totale, fra cast artistico e tecnico, la troupe era costituita da una quarantina di persone. Meiamoci poi le comparse, la pellicola, i costumi, le spese per l’albergo… Non sarebbe stato possibile girare Otello con i soli duecentomila dollari ricavati dal Principe delle volpi e dal Terzo uomo e con la pellicola spedita da Roger Hill. Probabilmente Welles intendeva intanto baere i primi ciak in modo da tagliare la strada a eventuali concorrenti, contando di completare in seguito l’opera con l’apporto di Scalera. Welles si trasferì dunque di nuovo in laguna, prendendo per sé e per Lea due camere separate all’Albergo Europa. Negli stessi giorni si aendeva a Venezia anche il cast del Principe delle volpi; Evere Sloane doveva girare per il film di King la scena dell’agguato nourno a Tyrone Power, ed è quindi possibile che le prime riprese di Otello abbiano avuto a protagonista proprio lui nei panni di Jago. La stampa passò l’arrivo di Welles e le prime riprese di Otello soo silenzio. Il 30 oobre il “Gazzeino” annota la presenza di Welles al Grii, ma solo perché insieme a lui c’erano Ernest Hemingway, in vacanza in quei giorni a Venezia, e l’amico Coen, in procinto di tornare a Vienna per Il terzo uomo. Sempre il “Gazzeino” pubblica pochi giorni dopo una foto di Welles intento a girare una scena di Otello sulla marmorea Scala dei Giganti. L’aenzione dei giornalisti e della popolazione si accese quando la troupe andò a girare in piazzea San Marco. Soo i rifleori c’erano Lea Padovani, bionda e riccamente vestita, e Harriet White: turisti e curiosi si radunarono per assistere allo speacolo. “Desdemona,” riporta il “Gazzeino-Sera”, “accompagnata dalla fedele Emilia, s’è recata in gondola a Palazzo Ducale per tentare di aver udienza dal Consiglio dei Dieci. Due vallei erano ad aendere l’imbarcazione da cui scendeva la bella sposa di Otello, il Moro di Cipro, generale fedele della Serenissima Repubblica di Venezia. Un numeroso stuolo di popolani, avuto sentore dell’arrivo,
chiedeva autografi. Ma poiché all’epoca del faaccio l’uso in parola era considerato iconoclastico, il secondo regista Wascinski diede ordine di tener lontano gli intrusi. Per quaro volte l’operatore Alberto Fusi prese soo l’obieivo la signorina Lea Padovani, Desdemona nuovissima, e la signorina Harriet White, simpatica Emilia: e la quarta volta fu la buona. ‘Per-fet-ta’ scandì il suaccennato Wascinski, con generale soddisfazione. E i primi panini cominciarono a girare nel gruppeo dei cineasti che per tua la mainata avevano aeso alla preparazione del breve ‘esterno’.”18 Poco dopo, sul lato orientale della Basilica di San Marco, venne girata un’altra piccola scena, protagonisti stavolta Desdemona e Otello. Guidata da Waszyński, la coppia doveva semplicemente incedere lenta fra due colonne bizantine. Allo stop, il protagonista chiese: “Xe finio tuto?” “Accipicchia,” commentò una donna fra i curiosi, “ha imparato anche il veneziano quel formidabile Orson!” Ma sul foglieo di carta che gli porse per l’autografo, l’aore si firmò Alfredo Lombardini: era un filodrammatico locale, assoldato per interpretare Otello in campo lungo.19 Welles, quel giorno, si trovava probabilmente a Vienna a girare Il terzo uomo. O forse a Firenze, sul set del Principe delle volpi, a tirare qualche scherzo birbone a Henry King. “Mi nascondevo,” raccontò poi, “e aspeavo finché non si meeva a urlare: ‘Dov’è? Lo so che quel figlio di puana è a Venezia che gira quel fouto Shakespeare!’ Allora uscivo dai cespugli, truccato e in costume, e dicevo: ‘Hai bisogno di me, Henry?’”20
Lea Padovani con il costume di Desdemona nell’autunno 1948.
Per Welles fu un autunno di aività fervida ed entusiasmante, di viaggi, progei e speranze. Dentro la sua mente caleidoscopica Otello, Il principe delle volpi e Il terzo uomo si scambiarono idee e ispirazioni, e spunti di un film finirono in un altro. La Venezia tenebrosa in cui l’Andrea Orsini del Principe delle volpi rischia di finire accoltellato è la stessa in cui Welles ambienta le prime scene di Otello; la morte promessa a Orsini, esposto in una gabbia fino a fargli seccare le ossa, è il medesimo supplizio a cui Welles avrebbe condannato il suo Jago; il gaino che va a strusciarsi sui piedi di Harry Lime sarebbe tornato in una specie di prologo dell’Otello zeppo di felini; e il ruolo di Cesare Borgia nel Principe delle volpi gli fornì lo spunto per la più celebre bauta del Terzo uomo: “In Italia per trent’anni, soo i Borgia, ci furono guerre, terrore, omicidi, carneficine ma vennero fuori Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera non ci fu che amore fraterno, ma in cinquecento anni di quieto vivere e di pace, che cosa ne è venuto fuori? L’orologio a cucù.” In assenza di Welles, Waszyński girava per Otello campi lunghi di Harriet White, intenta a passeggiare soo archi o a svoltare per stree calli; quando Orson tornava si passava a scene più complesse, come l’incontro fra Roderigo e Brabanzio a cui assistee Todisco, e alcune scene alla Ca’ d’Oro e a Palazzo Ducale con un centinaio di comparse vestite da popolani, armigeri e notabili. Un cronista del “Gazzeino-Sera” riferisce che Welles aveva intenzione di traenersi a Venezia fino alla fine di novembre. Sarebbe poi tornato a Roma, per girare alcuni interni in studio (presumibilmente alla Scalera) e a Castel Sant’Angelo; avrebbe infine fao una puntata in Sicilia, nei dintorni di Palermo, dove avrebbe ambientato le scene di Cipro. Se tuo fosse andato secondo i piani, Otello sarebbe stato ultimato entro l’anno; un paio di mesi di montaggio e avrebbe già potuto esser pronto per le sale. Intanto Lea Padovani continuava ad acceare con degnazione la corte di Welles e a incontrare segretamente Papi. Una situazione ormai groesca, che la troupe non si faceva scrupoli di svelare perfino a ospiti occasionali come Todisco. Lea insisteva a respingerlo e Welles certe noi svegliava per telefono Waszyński chiedendogli disperato “Ma perché, Mike, perché?” E Michał, come tui gli altri, si guardava bene dallo scoprire gli altarini. A novembre inoltrato l’orco Orson era ormai un agnellino. “Una sera all’Harry’s Bar di Venezia,” raccontava Todisco sull’“Europeo”,
“dopo una passeggiata in gondola sul Canal Grande, Welles ordinò due whisky, guardò Lea Padovani a lungo senza parlare. Poi abbassò gli occhi e disse: ‘È la prima volta che amo veramente. Finora ho considerato le donne solo per il piacere, come un bicchier di vino quando si ha sete, o un piao di carne quando si ha fame.’”21 La maina, l’arice trovava sullo specchio della toilee i messaggi che il suo adoratore le scriveva col rosseo. “I tuoi occhi sono troppo grandi, meravigliosi”, oppure fotografie di futuri regali, come una lussuosa Buick soo cui aveva scrio a matita “esta macchina arriverà tra giorni in Italia, appartiene a Lea Padovani.” Lea rifiutò la Buick ma acceò che la corte proseguisse. “Andammo avanti per un po’,” ricordava la Padovani. “Lui diceva che voleva sposarmi a ogni costo, che fino a quel momento aveva considerato le donne alla stregua di oggei, di passatempi. Anche Rita, l’‘atomica’, e tue le altre. Mi diceva che aveva preso quelle donne così come si consuma un buon pranzo e si gusta un gradevole bicchiere di vino, ma che, con me, era diverso. Io, al contrario, ero oltremodo imbarazzata dalla sua corte spietata.”22 “Un genio come lui non conosceva mezze misure e infai viveva l’amore in maniera delirante. Mi seguiva dovunque e, pur di vedermi un istante, passava le ore in macchina soo casa mia. […] Era capace di gesti unici, indimenticabili. Un giorno, al famoso Caè Cipriani di Venezia, davanti a tui, si inginocchiò ai miei piedi e, pronunciando sommessamente il mio nome, mi baciò l’orlo della gonna. Rimasi senza fiato per l’emozione.”23 E finalmente Orson riuscì a varcare il Rubicone. Lea passò con l’americano la prima e – afferma lui – unica noe d’amore. Welles si precipitò a raccontare la cosa a Papi, al quale aveva sempre confidato con abissale ingenuità le sue pene d’amore. Neanche allora il rivale svelò il suo gioco: si congratulò calorosamente. ello che successe dopo non è molto chiaro. Nella biografia di Charles Higham, l’unico libro americano su Welles che si sia avvalso di una testimonianza della Padovani, si racconta che Papi le avesse chiesto di chiudere subito la relazione con Orson. Lea avrebbe obbedito, annunciando a Orson che non ci sarebbe stato nessun bis: la loro storia si era conclusa. La reazione infuriata del regista e il caraere della Padovani avrebbero provocato una lite, conclusa quando Lea, malgrado la piccola statura, riuscì a calargli sulla testa un pesante fermaporta. Orson crollò in terra e l’arice, terrorizzata, fece le valigie e ripartì per Roma.
La versione che a lungo si è sussurrata a Roma è un po’ diversa: Welles avrebbe semplicemente colto sul fao la Padovani e Papi, con conseguenze che possiamo solo immaginare. “Nei nove mesi che sono stato con lei,” avrebbe poi deo all’amico Maurice Bessy, “ho pagato per tuo ciò che avevo fao alle donne in vent’anni, ma in due giorni le ho fao pagare tuo quello che mi aveva fao in nove mesi.”24 Intorno alla metà di novembre, la troupe levò le tende da Venezia, senza che nessuno avesse la minima idea di quando e come le riprese sarebbero ricominciate. Secondo le cronache, dopo un mese circa di lavoro, di Otello erano stati girati tremila metri di pellicola, equivalenti a un’ora e cinquanta minuti di riprese grezze. Le baruffe con la Padovani fecero certamente entrare in crisi il progeo ma all’origine dello stop dovevano esserci anche problemi finanziari. D’altra parte, malgrado tuo quello che era successo, Lea non aveva lasciato Orson, e lui era ancora deciso a sposarla. Welles si mise a caccia di denaro fresco: secondo indiscrezioni giornalistiche, Charles Philber, un ex industriale parigino arricchitosi con cuoio e pellami, gli promise sessantatré milioni di lire per ultimare Otello e intanto gliene avrebbe dati diciannove per rivedere la sceneggiatura di Portrait d’un assassin, adaarne i dialoghi per la versione inglese e apparirvi in un ruolo secondario.25 Firmato il contrao il 2 dicembre, per qualche tempo Welles e i suoi furono costrei ad approntare una doppia base: un appartamento all’Excelsior di Roma, dove Giorgio Papi e Rocco Facchini tenevano le fila dell’organizzazione di Otello, e una stanza al Lancaster di Parigi, dove Orson e l’amico Charles Lederer (che aveva sposato Virginia Nicolson, la prima moglie di Welles) dovevano riscrivere Portrait d’un assassin. Ma i problemi si moltiplicarono. A metà dicembre, mentre si trovava in un lussuoso negozio d’abbigliamento in via Veneto, l’ineffabile Papi venne alleggerito di una borsa in cui erano contenuti tui i contrai relativi a Otello, e circa quaro milioni di lire fra assegni e contanti. La stessa sera del furto, Welles venne informato da Los Angeles che la sentenza di divorzio dalla Hayworth era diventata operativa e che avrebbe presto dovuto cominciare a corrispondere gli alimenti per il mantenimento della piccola Rebecca. Vista la situazione, Evere Sloane pensò bene di rimeere il ruolo di Jago a disposizione di colleghi più coraggiosi.
A questo punto per Welles dovee essere un sollievo volare agli Studi Shepperton di Londra per completare il Terzo uomo. Orson salì sull’aereo per l’Inghilterra insieme a Lea; malgrado tuo, non si era ancora rassegnato a dirle addio. Dal punto di vista cinematografico poi, la Padovani era una Desdemona perfea, più che mai ora che Orson poteva nutrire il suo Moro di una gelosia autentica. Prima di partire, interpretò un’ultima scena nel Principe delle volpi, che Henry King concluse di lì a poco, nella pineta di Castelfusano, con un furioso scontro di cavalleria in cui rimasero ferite diverse comparse. A Casal Pilozzo, Welles lasciò di guardia Ernest Borneman, uno sceneggiatore canadese impiegato alla sezione cinematografica dell’UNESCO, che a Parigi lo aveva avvicinato parlandogli di un film su Ulisse. E questa è un’altra delle tante disavventure di questo periodo. Orson lo aveva invitato nella villa di Frascati, chiedendogli di cominciare a scrivere la sceneggiatura e promeendogli mille dollari al mese: Borneman aveva colto la palla al balzo, e si era trasferito a Casal Pilozzo. Passò il Natale stordito dalla bellezza e della confusione che si disputavano ogni centimetro, assediato da quaderni d’inglese della Padovani sparsi ovunque, e circondato da specchi istoriati di frasi e cuori tracciati col rosseo. Borneman lavorò alacremente al copione su Ulisse; galvanizzato dall’occasione, si licenziò dall’UNESCO, fece arrivare da Oawa tua la famiglia e cominciò con grandi speranze la sua nuova vita alla corte di Welles. Secondo il biografo Peter Noble, il soggiorno di Borneman a Casal Pilozzo sarebbe durato alcuni mesi, durante i quali Orson non gli avrebbe fao arrivare un solo dollaro. Lo sceneggiatore portò a termine il suo lavoro con i creditori alla porta: pare che anche l’affio della villa non venisse pagato, e che si arrivò al taglio di luce, acqua e telefono. Poco prima di abbandonare Casal Pilozzo, Borneman raggiunse Welles con un telegramma, nel quale gli chiedeva come avrebbe fao a sopravvivere. Risposta: “Caro Ernest, vivete con semplicità. Amichevolmente, Orson.” Borneman ripartì, rifleendo probabilmente sulle parallele astuzie di Orson e di Odisseo. Diverso tempo dopo, a Londra, dove sopravviveva scrivendo per la radio, Borneman ricevee la visita di una segretaria di Welles, che gli recava le scuse di Orson e una valigea in cui era stipata una parte dei soldi promessi; il resto arrivò a spizzichi e bocconi, nel giro di cinque anni. I due rimasero amici e Borneman collaborò ancora con Orson per alcuni lavori
radiofonici. La sua sceneggiatura su Ulisse non venne mai realizzata.26 Welles continuava intanto a ruminare sul suo film shakespeariano, elevando a metodo l’italianissima arte d’arrangiarsi. “I film sono come le feste,” spiegò in quei giorni all’amico Barzini. “Ci sono case dove ci si diverte con quaro soldi, pane e salame, Frascati, e un grammofono. Ci sono case cordiali dove si fa l’alba chiacchierando. E ci sono case dove i domestici in livrea, i gioielli delle signore, i saloni affrescati, il buffet carico di aragoste, caviale e champagne, non ti impediscono di annoiarti. […] Hollywood è spesso una grande festa noiosa, in cui, per quanto si raddoppi ogni tanto il numero dei lacchè, dei saloni, delle orchestre, e delle aragoste, non si riesce a intraenere il pubblico. […] Con pochi soldi, in Italia, si possono fare cose diverse, divertenti, sperimentali, che nessuno ti permeerebbe di fare in America.”27 Fra gennaio e febbraio, andò a esplorare Castel Sant’Angelo, che meditava di trasformare nella fortezza cipriota del Moro. In sostituzione di Evere Sloane nel ruolo di Jago fece un pensiero su James Mason, e chiese a Carol Reed, che con Mason aveva girato Il fuggiasco, di meerli in contao. Reed gli consigliò invece l’irlandese Micheál Mac Liammóir. Mason e Mac Liammóir hanno una certa somiglianza: fisico poco slanciato, volto rotondo, espressione introversa, entrambi – si pensi al Mason di Lolita – sapevano trasmeere qualcosa di infido, di viscido, di corroo. Soprauo, Welles conosceva bene Mac Liammóir, con il quale aveva recitato giovanissimo a Dublino. I due si erano visti l’ultima volta nel ’34, al Todd Summer Festival di Woodstock; li aveva uniti e divisi una reciproca ammirazione, talvolta sconfinata in una competizione vagamente astiosa. A fine gennaio, Welles telegraò all’antico collega, invitandolo a fare un provino. Reduce da un esaurimento nervoso, Mac Liammóir si protestò stanco, invecchiato, ingrassato, inadao al ruolo di Jago e a quello del “caivo” in generale. Arrivarono allora le affeuose telefonate di Orson, i consigli dei medici e le premure del compagno Hilton Edwards (che sarebbe parimenti entrato nel cast del film); più confuso che persuaso, Mac Liammóir lasciò Dublino e raggiunse la Francia. A Parigi, Orson gli fece provare alcune scene, discusse dei costumi (che avrebbero rispecchiato quelli ritrai da Carpaccio, pieni di sbuffi, trine e laccei), gli suggerì la chiave con cui avrebbe dovuto interpretare il personaggio (una segreta
impotenza sessuale) e gli annunciò che il set sarebbe stato allestito a Roma, Venezia e Nizza: la lavorazione, che sarebbe terminata “al più tardi in agosto”, si annunciava come una vacanza nei luoghi più incantevoli d’Europa. Di qui in poi gran parte delle vicissitudini di Otello furono registrate dalla penna sapida ed elegante di Mac Liammóir nel suo L’onesto Iago, un diario di lavorazione che è soprauo un gustoso stralcio di autobiografia, poi pubblicato nel ’52 con una prefazione di Orson. Per i biografi di Welles, il libro è stato a lungo uno dei pochi punti di riferimento del “periodo italiano”, ma è anche pieno di maliziose lacune. Della definitiva eclissi di Lea Padovani, per esempio, si dice ben poco. Mac Liammóir la incontra a febbraio al Lancaster di Parigi, trascorre con lei e Orson un paio di giorni, e la sua natura omosessuale non gli impedisce di trovarla “decisamente affascinante”. L’arice ha i capelli tinti di un biondo veneziano e studia ancora la lingua di Shakespeare. “Riuscirà a imparare l’inglese abbastanza bene in tempo per il nostro film?” chiede dubbioso Mac Liammóir. “In caso contrario la si potrà doppiare,” prende tempo Orson. In realtà le idee del regista sul doppiaggio erano esaamente opposte. “Non c’era neanche da pensarci,” ammise qualche tempo dopo. “In Italia il pubblico è abituato a sentir doppiati i suoi aori più cari, fae poche eccezioni. Nel mercato di lingua inglese tale espediente è inconcepibile.”28 Nel libro di Mac Liammóir, la definitiva uscita di Lea Padovani dal film è solo allusa. “Direi che il ruolo di Desdemona non le piace per niente,” annota elliicamente Mac Liammóir il 15 febbraio. Il giorno dopo Lea non faceva più parte del cast e l’aore irlandese era già tornato a Dublino, dubitando che le riprese sarebbero mai iniziate. Cos’era successo? Il tassello mancante viene dalle memorie di Rita Ribolla, la segretaria viennese di Welles, appena arrivata a Parigi: alle 4 del maino s’era trovata in stanza Orson, con la notizia che il fidanzamento con Lea era finito. “Ha fao una scenata tremenda. Davvero drammatica,” le raccontò abbacchiatissimo. “Ha deo che preferirebbe vivere in una camera ammobiliata a mangiare spaghei per il resto della sua vita piuosto che diventare la signora Welles.”29
Il maino dopo, Rita andò al Ritz a prelevare la Padovani e meerla sul primo volo per Roma; prima di partire, l’arice si fece aprire la stanza di Orson, dove recuperò i propri gioielli. alche seimana dopo, avvalendosi dell’inglese imparato grazie a Welles, la Padovani cominciò a girare Cristo fra i muratori, il miglior film della sua carriera, per la regia di Edward Dmytryk (uno dei Dieci di Hollywood, costreo a espatriare in Inghilterra). A una cronista di “Film”, che la incontrò mentre si recava a Londra per le riprese, rilasciò un’ultima dichiarazione sull’ex fidanzato: “Dovevamo sposarci, ma non è il primo matrimonio che va a monte. Orson è veramente un uomo geniale, ma io non potevo tenermi legata a lui e sia pure soltanto per il lavoro. Di comune accordo abbiamo ripreso la nostra libertà e siamo rimasti buoni amici; non dimenticherò che, accanto a lui, ho imparato molto di cinematografo ed anche ho potuto fare una buona pratica d’inglese, ma…”30 Ma, insomma, Lea non l’amava, o non l’amava abbastanza. “Sei l’unica che è stata capace di mandare al diavolo Welles,” le disse un giorno Humphrey Bogart. Eppure la Padovani di quella scelta non fu mai fiera, e arrivò a rimproverarsi di averla presa. “Il mio errore è stato non sposare Orson Welles e andarmene via insieme a lui,” si sfogò anni dopo con Oriana Fallaci, “Orson è geniale, mi stimava e mi amava. Ma ero innamorata di un altro e per quest’altro sono sempre rimasta in Italia a fare le particine nei film con Totò e a curarmi l’esaurimento nervoso.”31 Welles, al contrario, si sarebbe rammaricato fino ai suoi ultimi giorni del tempo perso dietro alla Padovani: nei suoi colloqui con Barbara Leaming la chiamò “faccia di cucchiaio”, disse che si era faa odiare da tui, che come teatro delle sue scenate non aveva risparmiato nessuna regione d’Italia, e protestò che non ne fosse proprio valsa la pena, che nemmeno quell’unica noe a Venezia era stata una meraviglia. Ma continuò a dare a se stesso la responsabilità dell’errore, aribuendo le sue ridicolaggini di innamorato proprio ai rifiuti che aveva ricevuto, incaponito a varcare la soglia della sua camera da leo solo perché abituato a oenere facilmente qualsiasi femmina.
9. Le incertezze di Scalera
La scacchiera è pronta. Tocca sempre a me fare la prima mossa. Bayan (Orson Welles) in La Rosa Nera
Sfilatosi Lea dal cuore, Orson ricominciò a guardarsi in giro. A Roma conobbe una ragazza formosa, dotata di magnetici occhi verdi, una manciata di partecipazioni cinematografiche e lo scero sfiorato a Miss Italia 1946 (arrivata seconda, aveva oenuto a furor di popolo il primo posto ex aequo). “Orson Welles… Come mi guardava…” scrive Silvana Pampanini nelle sue memorie. “Me lo hanno fao incontrare di proposito dopo il suo grande flirt con la Padovani. Guido Celani diceva: ‘Silvana, questo farà fare carriera anche a te’. Mi hanno invitato a cena a Tor Fiorenza e poi hanno fao di tuo per lasciarci soli andandosene ad uno ad uno con una scusa. Una volta in macchina – guidava l’autista – ha cominciato a fare il cretino. Mi ha airata a sé con violenza. Voleva baciarmi. E in una tale maniera… ‘Tu devi essere mia, questa sera,’ mi ha urlato… Gli ho dato un ceffone che non finiva più. Lui ha incassato. E che altro poteva fare? Mi ha riaccompagnato a casa, ma non è neppure sceso dalla macchina per salutarmi…”1 A Parigi, Orson fu visto insieme a Suzanne Bernard, un’arice di teatro che spifferò subito a “France Dimanche” di essere la sua nuova fidanzata. “Ma per nessuna cosa al mondo vorrei sposarlo,” dichiarò, “e capisco perché Rita lo abbia lasciato. Vivere con un genio è troppo complicato.” alche seimana più tardi, l’“Evening Standard” informò i suoi leori che Orson aveva chiesto la mano di Eunice Bailey, una modella inglese incontrata a Cannes. Intanto i rotocalchi italiani continuavano a prendere di mira Welles con pezzi e pezzei spesso senza firma o siglati con pseudonimi. “L’opinione mia è che Welles sia un grosso bluff ad autocarica,” spiega il cosiddeo Zorro a un leore di “Hollywood” che chiedeva un parere sul regista, “e che egli sia infinitamente
meno pazzo e grand’uomo di ciò che tenta di far credere.”2 “La sua stella nel nostro paese è ormai definitivamente tramontata,” segnala una nota anonima di “Oggi”, “da quando le sue stravaganze hanno passato il limite che lo faceva giudicare un ‘genio’, e lo hanno caraerizzato un comune ‘pallone gonfiato’.”3 Ancora “Hollywood” traduce in italiano un lungo articolo di Hedda Hopper, giornalista di Hearst, dedicato a “quelli che credono al proprio mito”: a Welles dà del “megalomane” e del “marziano arrampicato sulle nuvole”, racconta in modo distorto il fallimento di It’s All True e insinua un’invidia feroce nei confronti di Olivier, davanti al quale Welles dovrebbe astenersi a riprendere in mano Shakespeare e invece, “lungi dall’arrendersi, si prepara ad affrontare Otello quest’estate e Dio sa che cosa ne tirerà fuori.”4 Chiacchiere da bar, che intanto contribuivano a formare il giudizio italiano sull’uomo e sul cineasta. Un mese dopo la catastrofe veneziana di Macbeth era intanto arrivato da noi La signora di Shanghai, e malgrado un doppiaggio infedele e spesso fantasioso, il film era riuscito a ridurre il solco fra estimatori e avversari del regista. Alberto Mondadori, pur rimarcando alcuni limiti del film, è ovviamente fra i primi: “Il finale de La signora di Shangai – un film mediocre nei confronti di quanto già visto ad opera di Welles – è un autentico pezzo di cinematografo, e si innesta perfeamente nel crescendo di sensazioni strane, paurose, allucinanti che hanno inizio con l’altra splendida sequenza dell’acquario […]. Grava, tuavia, sul film, il peso di un racconto non sentito, freddo, psicologicamente traballante e soprauo, ahinoi, Rita Hayworth […]. ello che è certo è la riconferma, nonostante i tanti difei, di come Orson Welles sia decisamente un innovatore del linguaggio cinematografico, e il primo dopo anni di conformismo che ha osato ‘rompere’ per giungere a nuovi risultati e a nuove sicure profonde possibilità di espressione.”5 Sull’altro versante, Guido Aristarco ricopia diligente la definizione di Welles come di un regista deciso a “sbalordire a ogni costo”, e pur lodando il “coraggio anticonformista” della rinuncia al lieto fine (d’altra parte di prammatica nel genere noir), compone su “Cinema” una meditata stroncatura che sembra faa su misura per ribaere a Mondadori. Aristarco rintraccia volenterosamente il tentativo di “denuncia di una classe borghese chiusa nell’illusione di trovare nobiltà e gioia nel denaro” ma la trova debole, mentre le scene più elogiate da Mondadori, quella degli squali dell’acquario e
il girovagare di Welles nel teatro cinese, gli sembrano “surrealismo da Salvador Dalí applicato alle scenografie del Caligari”, e lo straordinario finale nella stanza degli specchi “un gioco edonistico”. E se Mondadori elogiava Welles per “essere riuscito spesso a impedire alla sua ex moglie di muoversi e di aeggiare il viso”, Aristarco cita fra i pochi meriti del regista quello di “aver mutato una cover girl come Rita Hayworth in una arice a volte espressiva”.6 Dispei fra colleghi, tanto più che i due esercitavano il dirio di critica cinematografica nella stessa, ristrea, piazza milanese. Ad Aristarco fa eco un mese dopo un giovane giornalista che si chiama Dino Risi e che, guardando al cinema di Welles con l’occhio della creatività e non per soppesare canoni e ideologie, osa dire l’opposto: “Il tanto discusso e bistraato Orson Welles, che fiuta il cinema come un cane fiuta l’albero, è un uomo utilissimo al cinema e al rinnovamento dei suoi mezzi espressivi: nei film di Orson Welles circolano le sequenze come le trote in un allevamento. Si veda La signora di Shangai, che è un film tuo di pezze, ma pieno di trovate e di suggerimenti: il film di un cineasta poco pigro.”7 Complessivamente, diversi interventi critici su La signora di Shangai si schierano a favore del regista americano: il tono pacificato e gli elogi espliciti di alcune recensioni sembrano volerlo compensare delle incomprensioni e degli insulti subiti per Macbeth. “Welles s’è fao più umile,” dichiara Callisto Cosulich, “[…] si è costruito un semplice soggeo giallo. Forse per queste ragioni La signora di Sciangai ci sembra il suo film più riuscito […] e […] ci riconcilia con Welles dopo le delusioni veneziane.”8 Pietro Bianchi approfia dell’uscita del film per lanciarsi sul “Bertoldo” in difesa del cineasta, con un’onestà e un entusiasmo pari solo a quelli di Mondadori: “Il nostro è davvero un curioso paese. […] Prendete il caso di Orson Welles. È un artista di primissimo ordine, un regista geniale, un innovatore dell’arte cinematografica. Abbiamo la fortuna di averlo in Italia: ma molta gente della celluloide gli fa il viso all’arme. L’uomo, non si dice di no, avrà i suoi difei: eccentrico, gigione, provvisto di un orgoglio luciferesco. Ma, signori, è anche l’autore del Ciadino Kane (un capolavoro), dell’Orgoglio degli Amberson, del Macbeth, della Signora di Sciangai. Davanti all’ingegno gli italiani si son sempre levati il cappello. Cos’è questa mutria d’oggi? […] Ecco la Signora di Sciangai: pellicola arida, fosca, maledea. Ma quanto ingegno,
quante trovate! E quanto pepe sulla coda dei conformistici producers di Hollywood! È un angelo ribelle, Orson, e un grande artista. Bisogna volergli bene, bisogna lasciarlo in pace. Che si goda, rasserenato, il sole d’Italia.”9 Un segnale importante venne da Giulio Cesare Castello, con Bianchi fra i pochi ad avere apprezzato Citizen Kane, autore del primo serio lavoro di analisi sul cinema di Welles, un sasso nello stagno critico italiano. Il saggio, pubblicato nel gennaio 1949 su “Bianco e nero”, s’intitola e Magnificent Orson Welles, definizione già di per sé fuori norma considerato il clima di linciaggio da cui l’americano era stato circondato a Venezia: fu il primo risarcimento per un autore, “barbaro”, “mistificatore” e “dileante” quanto si voglia, ma “come freneticamente dominato dalla foga di dare agli altri qualche cosa, di espandere questa sua caotica ricchezza interiore”. Nel suo pionieristico saggio, Castello esprime la sua posizione senza peli sulla lingua: “Mi sembra che Orson Welles non abbia ancora incontrato, da parte degli studiosi, quel pacato equilibrio di analisi a cui egli ha pur dirio;” nella pubblicistica italiana il critico vede “una tendenza al rifiuto quasi in blocco di un uomo degno, comunque lo si voglia considerare, di essere discusso con maggiore serenità”. Le cause di questo rifiuto sono secondo Castello una reazione alle esagerazioni della critica straniera (segnatamente francese), viziata da entusiasmi “impressionistici”, e il modo “irregolare” con cui l’Italia è venuta a conoscenza del personaggio. Castello rimprovera garbatamente i colleghi di aver posto un’enfasi eccessiva su certe tecniche sperimentali, e in Citizen Kane annee giustamente più importanza alla struura del racconto che all’inclusione dei soffii nell’inquadratura: la “sintassi fraa, sconvolta cronologicamente” di Citizen Kane è riconosciuta come un procedimento non gratuito o inutilmente sbalorditivo ma funzionale alla libertà che lo speatore deve mantenere nel giudicare un personaggio contraddiorio come il protagonista. Anche gli altri film di Welles vengono richiamati e riconsiderati: avverso a ogni tentazione melodrammatica, Welles propone storie e figure con “obieivismo”, fino a rischiare, nell’Orgoglio degli Amberson, una “discutibile e pericolosa” fissità della macchina da presa in alcune lunghe scene di dialoghi. E se e Stranger cede nel finale a un “deteriore barocchismo”, buona parte del racconto tende a un’ammirevole “stringatezza incisiva”. Castello è meno entusiasta delle ultime opere (La signora di Shanghai “è un film gratuito”,
Macbeth “un’opera affao sterile e di involuzione”) ma la conclusione è senza tentennamenti: anche se il talento di Welles si fosse già esaurito, “il suo nome resterà, in qualche modo: perché il suo io non si è affidato unicamente alle proprie presunzioni e ai propri esibizionismi, ma anche ad una volontà di parlare araverso le immagini con un linguaggio che uscisse dall’anonima cifra, di cui lo schermo americano è per nove decimi prigioniero.”10 Il vento della critica italiana stava girando a favore di Welles? Forse. Ma all’orizzonte si addensava un nuovo nuvolone: dopo una prima disastrosa uscita americana in autunno, la Republic aveva deciso di rimontare e ridoppiare Macbeth, e reclamava che l’autore tornasse per qualche seimana all’ovile, a sovraintendere alle modifiche. Al di là delle questioni artistiche, volare in America per il ridoppiaggio del film non era in quel momento proprio possibile. “Io sono in piene prove per Otello,” Welles scrisse scoraggiato a un executive della Republic. “Aori, tecnici e spazi sono tui impegnati. Non c’è possibilità al mondo che io possa assentarmi da questo lavoro.”11 Esiste una leera in cui Welles dice più chiaramente che cosa pensasse della richiesta della Republic, ed è una missiva a Mondadori: all’amico italiano che gli aveva chiesto una copia del Macbeth, Welles rispose da Parigi in un italiano malfermo ma brillante: Caro Alberto, Era un vero piacere di ricevere la Sua leera, ma sfortunatamente non esiste una copia di Macbeth in Europa. ella mandata a Venezia fu rimandata in Inghilterra dove i dragoni dei Republic Pictures la salvaguardano contra chi sa cosa nel più profondo nascondiglio delle Isole britanniche. Peggio ancora, ora stanno considerando a Hollywood un progeo per rimontare il film secondo il loro squisito gusto – nella speranza, assumo, che il giudizio dei Dogi di Venezia possa essere cambiato araverso un rimeschiare della celluloide. Non posso, né voglio pensare quale potrà essere il risultato. Forse non ha sentito che il film è stato mostrato per una serata a Bruxelles e per un’altra a Parigi. Nella prima cià era un sorprendente e sentito successo, a Parigi ha causato quasi una rivoluzione nel pubblico. Insulti ed implicazioni hanno riempito l’aria e pugni volavano. Metà degli “highbrows” diceva che era la peggiore cosa che abbiano mai visto e l’altra metà diceva che era la migliore. Notizia di tuo questo era forse troppo per i miei principali lì a Hollywood e perciò hanno ritirato il film. Che cosa faranno con Macbeth dopo avere finito di rovinarlo non posso dire. Nel fraempo sto lavorando duramente su Othello che completerò parte in Italia, parte in Francia.
Intendo passare la maggiore parte di marzo, e forse anche aprile, a Roma. Se Lei si troverà da quelle parti mi farà molto piacere rivederla. Lei è un vero amico e voglio che Lei sappia che io questo lo so e che io sono il Suo. Fraanto l’invio i miei più cordiali ed affeuosi saluti, Suo Orson12
“Completerò Othello parte in Italia, parte in Francia,” scriveva Welles a Mondadori. La disponibilità di un coproduore francese (Charles Philber?) aveva infai suggerito allo scenografo Alexandre Trauner di realizzare le scene cipriote di Otello negli studi Victorine di Nizza, dov’erano già previsti gli interni di Portrait d’un assassin. Trauner propose di ricostruire in studio pure Venezia, in modo da evitare che le “vecchie pietre veneziane, famose e allo stesso tempo familiari”,13 avessero un effeo di disomogeneità rispeo alle scenografie cipriote, costruite con pareti di cartapesta e quinte dipinte. Se le cose non fossero andate come poi andarono, Welles sarebbe forse tornato alla vecchia idea del Macbeth, realizzando pure Otello interamente in studio. La macchina s’era rimessa in moto. Dieci giorni dopo il ritorno in Irlanda, Mac Liammóir ricevee il suo contrao e volò nuovamente a Parigi. Chiuso nell’Hotel Lancaster, Welles provinava schiere di improbabili Desdemone, sperando di trovarne almeno una di bellezza delicata, sufficientemente brava nel mestiere, con una buona conoscenza dell’inglese e possibilmente anche di Shakespeare. Finché Maurice Bessy, caporedaore di “Cinémonde” e futuro biografo di Welles, gli presentò Cécile Aubry, che furoreggiava nei cinema parigini in Manon di Henry-Georges Clouzot: il gran sorriso, l’aria infantile e ingenua, il corpo piccolo e delicato, da sedicenne, ne facevano una candidata ideale al martirio maritale. Welles decise di scriurarla, ma trascorsi due giorni la ragazza annunciò di aver firmato per un altro film e piantò tui in asso. Una seimana dopo, il regista Anatole Litvak incontrò Welles al Ritz e lo invitò ad assistere alla proiezione di alcuni rulli del suo La fossa dei serpenti; in un ruolo secondario c’era un’arice che avrebbe forse potuto fare al caso suo, Betsy Blair, la moglie di Gene Kelly. “Un’adorabile faccea un po’ smunta coronata da capelli castano chiaro,” la descrive perplesso Mac Liammóir. Orson in realtà la conosceva fin dal ’42, quando l’arice aveva fao propaganda aiva a favore degli strati sociali più umili, ritrovandosi ora pure lei fra i proscrii dal nascente maccartismo.
Welles deò il numero al centralino e dall’altra parte del mondo, a Beverly Hills, squillò il telefono di casa Kelly. “Cara Betsy, vorresti venire a Roma per interpretare Desdemona nel mio nuovo film?” L’arice prese un aereo per Roma, si tinse i capelli di biondo, incontrò Welles e Trauner: e il problema-Desdemona sembrò finalmente risolto. Messo soo contrao l’inglese Robert Coote per il ruolo di Roderigo, a marzo inoltrato rimanevano ancora da scriurare una Bianca, un Cassio, un Lodovico, una nuova Emilia e un nuovo Brabanzio. Intanto la riserva di denaro andava assoigliandosi. Per tuo il tempo che rimase a Parigi a far prove e provini, Welles visse da gran signore e mangiò nei migliori locali. La munificenza faceva parte del suo caraere speacolarmente amichevole, e coccolare nel lusso i suoi aori era anche un’esca per la loro vanità, un furbo calcolo imprenditoriale. Non era però quello il momento giusto per spendere e spandere. Il coproduore francese si era appena dileguato, rimeendo il film nell’incertezza più assoluta, e Trauner dovee lasciare gli studi di Nizza, ritrovandosi fra le mani una serie di bozzei splendidi (pare che perfino Picasso li abbia lodati) ma inutili. Il 29 marzo, a un passo dalla bancaroa, il regista lasciò Parigi alla volta di Londra, per acceare un ruolo secondario in La Rosa Nera, proprio il film che Cécile Aubry aveva preferito a Otello, una pellicola in costume interpretata ancora da Tyrone Power. E il cast di Otello? Intanto che Orson andava a procacciar fondi, Micheál e gli altri avrebbero potuto aspearlo in Italia, nella villa di Frascati, a provare costumi e parrucche. La Rosa Nera è ambientato in gran parte in Oriente, nel XIII secolo, protagonisti due inglesi, Walter (Tyrone Power) e Tristam (Jack Hawkins), fuggiti dall’Inghilterra per aver guidato una rivolta contro re Eduardo. Ad Antiochia, Walter incontra Bayan (Welles), un condoiero cinese che reca in sposa al Kublah Khan un gruppo di nobili donne fra cui la bellissima Maryam dea La Rosa Nera (Aubry). I due inglesi decidono di unirsi a lui nel viaggio, che strada facendo si trasforma in una sanguinosa guerra di conquista. Walter s’innamora naturalmente della Rosa Nera, fugge con lei, la perde, la ritrova e la perde di nuovo: dopo varie vicissitudini sarà proprio Bayan, in segno di amicizia, a spedirgliela in Inghilterra. Direo da Henry Hathaway, La Rosa Nera venne prodoo dalla 20th Century Fox soprauo allo scopo di impiegare cinque
milioni di dollari congelati in Inghilterra. Hathaway girò in uno sfolgorante Technicolor, filmando parecchio in esterni e con abbondanza di comparse ma lesinando terribilmente sulle baaglie. Irascibile e intraabile, sul set fece di tuo per annullare l’influenza di Welles, evitando anche di sedersi a mangiare con lui. E Orson dovee assoggearsi – ancora più che nel Principe delle volpi – a lasciarsi dirigere da un collega, rinunciando per una volta a scriversi le baute e a dirigersi nelle proprie scene. Nel film si sente: lo stile di regia è semplice, un po’ piao, le stesse sequenze in cui compare Welles, a parte la sua straordinaria naturalezza nel condurre e spezzare i dialoghi, non recano la minima traccia del suo estro. Lo stesso Bayan “dai cento occhi” si avvicina solo apparentemente ai ruoli maestosi che Welles ha sempre amato, e che qui gli fa rischiare la macchiea: le sopracciglia alzate, gli occhi a fessura, l’elmo in testa e il montone sulle spalle compongono il tipico ritrao del guerriero asiatico, enigmatico e violento. Lo spietato condoiero di Antiochia è uno stolido guerriero che crede esclusivamente a ciò che può toccare, smanioso d’impadronirsi della polvere da sparo cinese per correre ad abbaere la potenza di Roma, e soltanto la meccanica di un copione col fiato corto gli permee di manifestare una qualche stima per i due eruditi europei. Gran parte del film venne girata nel Marocco francese. Welles ci passò due mesi buoni, lavorando contemporaneamente all’Ulysses (Borneman lo raggiunse in Africa almeno una volta) e pensando a un Around the World in 80 Days di cui pare abbia girato alcune scene, oggi considerate perdute.14 Forse teneva anche so’occhio il viso paffuto di Cécile Aubry, sperando di riaverla nel ruolo di Desdemona; ma se mai ebbe questa speranza dovee subito rinunciarvi. La Aubry conobbe sul set un principe marocchino e se lo sposò; e dopo La Rosa Nera non avrebbe girato più nulla. Intanto una nuova idea si stava facendo strada nel progeo shakespeariano di Welles: perché affannarsi a cercare in Italia o in Costa Azzurra la Cipro di Otello quando il Marocco forniva luoghi incontaminati e storicamente anche più plausibili? L’intuizione divenne certezza quando a Mogador (l’odierna Essaouira) trovò una fortezza portoghese del XV secolo, completa di torri, bastioni, campane, segrete, merlature e perfino cannoni di bronzo, puntati verso un oceano Atlantico che nel film sarebbe potuto diventare il
Mediterraneo di Cipro. Altre scene si sarebbero potute allestire più in là, a Safi e Mazagan (oggi El Jadida). Welles convocò Mac Liammóir per metà maggio. L’aore apprese così che non si sarebbe girato né a Nizza né a Parigi e neanche a Roma o Venezia: il set di Otello sarebbe stato allestito interamente in Marocco. Da Dublino l’aore prese un aereo per Casablanca, dove fu però informato che Orson era ancora impegnato nel film di Hathaway. Fu quindi costreo a tornare di nuovo a Roma, dove aspeavano, sempre più imbufaliti, Robert Coote, novello Roderigo, e Michael Laurence, appena scriurato come Cassio. Intanto i produori di Portrait d’un assassin fecero causa a Welles per roura di contrao (non si sarebbe presentato sul set e non avrebbe portato a termine il suo lavoro), chiedendo un indennizzo milionario e il rimborso di tui gli anticipi; Welles rispose che non gli avevano corrisposto l’ultima rata e che la causa era in realtà una messinscena per non pagargliela più. Facciamo un rapido riassunto degli interpreti soo contrao fino a questo momento: Orson Welles, Betsy Blair, Micheál Mac Liammóir, Robert Coote, Michael Laurence. A poco a poco, il cast di Otello era diventato interamente anglofono. Scalera aveva rinunciato alla “nazionalità italiana”? O Welles era riuscito a convincerlo di finanziargli il film che voleva lui? No, il produore italiano stava solo tentando di conciliare due opposte ambizioni. L’idea era di girare Otello in doppia versione, italiana e inglese, con un doppio regista e un doppio cast, mantenendo inalterati solo Otello, Desdemona e Jago. Il sistema era semplice, e già utilizzato in epoca fascista per i film italo-tedeschi. L’intero cast, o buona parte, girava le sue scene con un regista e nella propria lingua; aori di nazionalità diversa (a volte anche gli stessi, soprauo se protagonisti) ripetevano la scena con un altro regista e un’altra lingua. Rossellini e Ingrid Bergman, proprio in quei giorni, si apprestavano a realizzare Stromboli in modo analogo, usando le stesse scenografie, gli stessi tecnici e gli stessi interpreti ma due volte, una in lingua italiana e una in lingua inglese. Nel caso di Otello, Scalera avrebbe probabilmente cercato di forzare il meccanismo, mantenendo buona parte del girato di Welles (soprauo quello in Marocco) e facendo rigirare in Italia solo alcune scene in cui avrebbe sostituito gli interpreti stranieri con aori italiani (scegliendo strategicamente di raddoppiare il lavoro
solo con i ruoli meno impegnativi); un regista italiano, vero o fiizio, si sarebbe preoccupato di realizzare i “doppioni”, e soprauo di aribuire all’edizione italiana del film il nome di un direore nostrano. Tuo questo, naturalmente, per poter entrare in possesso dell’agognato certificato di “nazionalità italiana” e così aingere ai finanziamenti statali. Il 22 maggio la Scalera Film presentò alla Direzione generale per la cinematografia la richiesta di un nulla osta per l’inizio delle riprese di un Otello in versione italiana e inglese. Il piano di lavorazione prevedeva quaro seimane a Mogador (esterni palazzo di Cipro), una a Safi (esterni palazzo governatore), una a Mazagan (esterni palazzo Desdemona), cinque agli stabilimenti Scalera (interni casa Desdemona, Brabanzio, Rodrigo, esterno torre di Cipro) e un’ultima ancora a Venezia (esterni Palazzo Ducale), con un preventivo complessivo di 271.678.000 lire.15 Alla richiesta venne allegata una lista del personale artistico italiano, dove, accanto a Otello/Welles, a Jago/Mac Liammóir e Desdemona/Blair si leggono i nomi di Antonio Centa per il ruolo di Montano, di Luca Cortese per quello del doge, di Viorio De Sica come Lodovico e di Gina Lollobrigida come Bianca. Due giorni dopo, il commendator Scalera confermò alla Direzione generale dello speacolo l’ormai prossimo inizio delle riprese, stabilito per il 15 giugno, e aggiunse il nome del regista italiano, Oreste Biancoli, assiduo collaboratore di De Sica in rivista e in cinema (Ladri di biciclee). Interpellata su questa sua ventilata partecipazione all’Otello, Gina Lollobrigida ha affermato di non ricordarne assolutamente nulla. La scoperta del suo nome nel film di Welles comunque non stupisce, visto che i due si erano conosciuti all’inizio del ’48 e avevano probabilmente avuto una breve relazione; né quella di Centa, segretario personale di Welles nei suoi primi mesi romani; in quanto a De Sica, nulla di strano che Orson avesse piacere di lavorare con l’autore di Sciuscià. Alla Lollobrigida avrebbe poi dedicato un intero documentario al quale partecipò anche De Sica. esta lista di interpreti suggerisce piuosto due cose: che la “versione italiana” sarebbe stata basata sull’interpolazione di poche scene (i ruoli di Montano, del doge, di Bianca e di Lodovico sono fra i più brevi del film); e che la manovra di Scalera doveva essere stata concordata con Welles, visto che gli interpreti italiani sembrano scelti con il suo benestare.
Nel chiedere il nulla osta per l’inizio di lavorazione del film su suolo italiano, Scalera allegò una copia della sceneggiatura, obbedendo alla prassi – non obbligatoria ma consigliatissima – di oenere un’approvazione preventiva dalla censura per meersi al riparo da problemi successivi (e non irritare gli stessi burocrati che avrebbero deciso l’assegnazione dei contributi governativi). La copia della sceneggiatura non è più conservata all’interno della pratica ma qualcosa è possibile desumere dal breve riassunto che l’ufficio di revisione preventiva trascrive il 3 giugno: l’inizio è già quello che si vedrà effeivamente nel film, un prologo ambientato a Cipro con “la rimozione delle spoglie di Otello e Desdemona” e “l’imprigionamento, in una gabbia di ferro, del colpevole Iago”. Il giudizio della censura preventiva è positivo con qualche riserva, dovuta anche alla forma non definitiva dello script. “Nel copione,” scrive il dirigente Annibale Scicluna, “risultano assai scarse le indicazioni cinematografiche, mancando i deagli di macchina. […] Sembra, tuavia, che debba prevalere l’originaria impostazione teatrale […]. Si è dato, soprauo, ampio rilievo all’aspeo coreografico e macchinoso della vicenda, a detrimento di un più marcato approfondimento degli immortali elementi umani che informano la tragedia originaria. D’altro canto, si ha l’impressione che il traamento subirà ulteriori adaamenti prima di entrare nella fase di lavorazione.”16 Ma ci sono anche rilievi su alcune baute “proprie del linguaggio shakespeariano, che è dubbio possano essere accolte”: JAGO:
“Voi avrete la figlia coperta da un cavallo di Barberia ed i vostri nipoti nitriranno a voi!” JAGO:
“Se tu puoi farlo cornuto, dai a te stesso un piacere, a me un divertimento…” (alludendo alle donne): “Voi vi alzate per giocare e andate a leo per lavorare.” JAGO
(parlando di Otello): “Egli non s’è dato sollazzo la noe con lei, ed ella è un diporto degno di Giove…” JAGO
JAGO:
“Giaciuto con lei, su lei; come volete!”
OTELLO:
“O Iago che pena! Far becco me!”
Scicluna, che per anni fu inflessibile dirigente della revisione cinematografica, conclude così il suo breve rapporto: “Si ritiene, pertanto, consigliabile suggerire l’eliminazione delle suddee
baute che, in definitiva, non giovano nemmeno al tono del lavoro.” Un’annotazione a mano accanto alle frasi incriminate testimonia del fao che questi rilievi, forse per non macchiarsi di ridicolo, furono formulati ai rappresentanti della Scalera solo a voce. Fra maggio e giugno arrivò nelle nostre sale il chiacchierato Cagliostro. Tanto aeso quanto deludente, il film di Ratoff spazzò in pochi giorni la benevolenza che Welles si era guadagnato con La signora di Shanghai. “Signor Gregory Ratoff, che razza di pasticcio è mai questo Cagliostro?” chiedeva Lanocita dalle colonne del “Corriere della Sera”: “Grossolano è tuo il film;” l’intrigo della collana “è narrato faticosamente sopra uno scenario asmatico e con un montaggio elementare;” “alcuni episodi […] non si limitano a sfiorare il ridicolo, vi sprofondano.” Il critico salva, solo in parte, l’apporto dell’interprete principale, “benché anch’egli, travolto dall’orientamento melodrammatico dell’opera, […] spesso si gonfi sino all’insincerità tronfia e grossolana.”17 Anche Dino Falconi usa su “Film” la forma della leera aperta ma la indirizza a Welles, contro il quale usa toni pretestuosamente violenti: “Guardi, stavolta non si è traato di una visione privata riservata alla stampa, come accadde alla Mostra di Venezia per il suo Macbeth. Stavolta si è traato di pubblico pagante e scevro da ogni preconceo più o meno culturale. Ma Cagliostro non ci è piaciuto lo stesso. Lo so che lei c’entra soltanto fino ad un certo punto e che autore del film è Gregory Ratoff. Ma […] ella, Mr Welles, ha una personalità talmente spiccata che anche un film di cui lei è soltanto interprete diventa irresistibilmente un film suo. E allora, Mr Welles, ho il dispiacere di dirle che ella ci ha scocciati. Forse – cosa vuol mai – lei è troppo bravo. Troppo grande. E noi siamo dei mediocri, Mr Welles, mentre lei è un genio. Noi non siamo fai per lei e lei non è fao per noi.”18 Perfino Ennio Flaiano approfia del film di Ratoff per aggiungersi al coro di detraori dell’esordio registico di Welles, definendo “molto discutibili” sia Citizen Kane sia Cagliostro, “tanto barocco, truculento, di alta e inutile precisione il primo, quanto sciao e pagliaccesco il secondo”.19 Chissà se Flaiano aveva davvero visto arto potere in uno dei tre fatidici giorni di tenitura a Roma, un anno prima, o se ne riferiva per sentito dire. In una piazza importante come Milano, comunque, il film uscì proprio in quei giorni, e certo le stroncature al Cagliostro non gli giovarono. In un certo senso le tribolazioni italiane di Welles coincidono con le
traversie distributive dei suoi film: la caiva accoglienza veneziana a Macbeth aveva condizionato i recensori della Signora di Shanghai, e i pernacchi a Cagliostro finirono per travolgere arto potere. Per un passo avanti, il regista americano era sempre costreo a farne due all’indietro. Intanto il cast artistico di Otello era ormai al completo, gli ultimi arrivi erano Hilton Edwards per il ruolo di Brabanzio e Doris Dowling per quello di Bianca. Nel reparto tecnico la direzione delle luci era assegnata ad Alberto Fusi in team con Anchise Brizzi (direore della fotografia di Sciuscià) e Oberdan Troiani, conosciuti sul set di Cagliostro. Non contento, Welles telegraò in Brasile a George Fanto, un operatore ungherese già al suo fianco nell’avventura di It’s All True, e gli chiese di aggiungersi alla troupe. Ma i soldi scarseggiavano, e gli accordi con il commendator Scalera si stavano rivelando più fragili del previsto. Da quando erano a Mogador, la troupe si era rimessa in moto giusto un paio di giorni (alcune scene con Betsy Blair che aende Otello sui bastioni della fortezza di Cipro) e già temeva di doversi fermare. Welles cominciò a pensare di essere finito dentro un incubo. “Ero convinto che sarei morto presto,” avrebbe poi raccontato. “Il vento soffiava di continuo, cosa che mi sembrava associata alla mia morte. […] Ero assolutamente, serenamente preparato a non lasciare mai Mogador. Ero sicuro che mi avrebbero portato fuori di lì morto.”20 Il 9 giugno, con l’arrivo a Mogador di Mac Liammóir, Laurence e Coote, giunsero voci allarmanti sulla solvibilità del produore italiano. Mac Liammóir trovò Orson assai preoccupato: passeggiando soo la luna di Mogador venne a sapere “delle sue infinite difficoltà per quel che riguarda i finanziamenti, i costumi italiani e il costo della mano d’opera.” ei costumi erano necessari: nel giro di pochi giorni si sarebbe girata una scena in cui le comparse e i protagonisti maschili avrebbero dovuto essere riccamente vestiti secondo la foggia del Rinascimento. Il pomeriggio del giorno dopo, Welles e Trauner chiamarono l’Italia e scoprirono che i costumi maschili erano ancora alla Scalera. “Orson si mise a supplicare Roma al telefono” racconta Betsy Blair nelle sue memorie; “urlò e minacciò e si appellò nel nome dell’arte, dei valori civili, e del lavoro futuro. Non fu di nessun’utilità. Se non c’era danaro sul tavolo, nessun costume sarebbe stato imbarcato sull’aereo. E non c’era danaro. Orson ruggì
nella sala da pranzo dell’albergo e ordinò due pasti per se stesso. Inveì contro il Fato, Hollywood, gli Italiani, e il suo amministratore di produzione. Noialtri rimanemmo seduti in silenzio.”21
Welles indica un lontano punto all’orizzonte (la conclusione delle riprese di Otello?) a Michał Waszyński e Oberdan Troiani.
Welles non poteva acceare di rimandare a casa una troupe di sessanta persone, e soprauo di rinunciare alla sua impresa. In fondo il personale artistico, i tecnici, la pellicola c’erano, e sarebbero bastati, almeno per qualche giorno. L’unica cosa che mancava erano i costumi maschili… La maina successiva Welles comunicò a tui l’idea: la scena del tentato omicidio di Cassio e dell’assassinio di Roderigo non sarebbe stata girata per strada, come avrebbe voluto la tragedia, ma in un bagno turco, dove gran parte dei protagonisti avrebbe potuto coprirsi con semplici asciugamani. L’aneddoto, il più citato a proposito dell’ingegnosità di Welles nel portare avanti il suo film, è sempre stato raccontato – anche dallo stesso regista – come se la trovata fosse farina del suo sacco. Betsy Blair l’aribuisce invece a Trauner, che la sera prima, durante la sfuriata del regista, se ne era rimasto buono buono a disegnare veneziani avvolti nei vapori di una sauna: quando Welles aveva visto i suoi schizzi, aveva geato le braccia al collo dello scenografo e l’aveva sollevato ballando felice per tua la sala.22 (Malignità di una Desdemona mancata? Si ricordi che in una famosa scena di Les enfants du paradis, il capolavoro di Carné e
Prévert le cui scenografie furono realizzate proprio da Trauner, il malvagio Lacenaire uccide il conte de Montray in un bagno turco.) I giorni successivi furono impiegati a fare alcune prove, mentre un sartorello locale rabberciava per Jago un costume (che sarebbe stato poi lo stesso per tuo il film) e un gruppo di arabi agli ordini di Trauner e Waszyński allestiva un bagno turco dentro una delle torri di guardia della Skala, la fortezza della cià. La maina del 19 giugno, Orson diede di nuovo l’azione e Otello ricominciò a vivere. Welles ha sempre sostenuto che il mancato arrivo dei costumi fosse stato causato dall’improvviso “fallimento” della Scalera. La casa di produzione navigava in caive acque ma in realtà non era ancora fallita; Welles stesso sarebbe poi tornato più volte negli studi romani sulla circonvallazione Appia e in quelli veneziani della Giudecca a girare alcuni interni. Il blocco a Roma dei costumi potrebbe invece essere stato un colpo basso da parte di Scalera per ridiscutere un sodalizio che gli era ormai sfuggito di mano, il tentativo di costringerlo a condizioni (come la direzione italiana affidata a Biancoli) che probabilmente il regista americano non era disposto ad acceare. E quando Welles, inventandosi una scena senza costumi, gli ebbe dimostrato che avrebbe potuto benissimo fare a meno di lui, il partner italiano giocò la sua ultima carta. Il 21 giugno, appena due giorni dopo che il film era ripartito, il commendatore in persona scrisse alla Direzione generale della cinematografia23 per comunicare una decisione che suona piuosto unilaterale. Se Welles insisteva a voler realizzare Otello tuo da solo, che si arrangiasse allora con i suoi propri mezzi. Spe.le Direzione Generale Cinematografia, Roma Ci pregiamo di portare a Vs/ conoscenza che il ns/ accordo con il Sig. Orson Welles, per la produzione del film: “OTELLO” ha subito una bauta d’arresto. In considerazione del fao che il signor Welles si trova aualmente al Marocco, dove si appresta a girare alcuni esterni del film, abbiamo preferito rimandare il perfezionamento del ns. accordo al momento nel quale egli con la sua troupe sarà di ritorno in Italia. Per intanto abbiamo convenuto che il deo film sarà di ns/ distribuzione; ma per la produzione sarà lo stesso Sig. Welles che dovrà sostenere le spese, almeno fino a che al suo ritorno in Italia sia definito l’accordo con noi. Con osservanza, Michele Scalera
Da quel momento, Orson diventò il produore di Otello: le ricevute di pagamento dell’estate 1949 portano l’intestazione “Mercury Films”. Ma non commise l’errore di sganciarsi totalmente da Scalera e dal nostro paese. ell’Italia che aveva bocciato arto potere, che aveva irriso Macbeth e che ora gli lesinava i finanziamenti per Otello, era comunque il paese in cui il progeo era stato concepito e che avrebbe assistito per primo alla sua nascita. Un paese che Orson aveva amato e da cui ancora si considerava arao, anche se, come spiegò a Mac Liammóir, vi abitava con un certo imbarazzo. “Abbiamo parlato dell’Italia e della sua gente,” annota l’interprete di Jago, “decidendo che la prima è una vasta e sontuosa uccelliera e la seconda l’insieme dei suoi reclusi pennuti che beccano, raspano, saltellano, schiamazzano, fanno l’amore e cantano entusiasticamente. Il nostro unico punto di divergenza consiste nel fao che io ho un debole per i volatili, mentre Orson non li ama affao, e ha citato una vignea umoristica del ‘New Yorker’ che rappresentava degli uccelli con ali svolazzanti e becchi spalancati i quali subissavano di prediche e di ingiunzioni un timido San Francesco vanamente sulle difensive; ed è proprio questa, mi ha deo, l’impressione che prova ogni volta che è in Italia.”24
Comunicazione di Michele Scalera alla Direzione generale della cinematografia, del 21 giugno 1949 (Archivio centrale di stato).
Welles continuò a dirigere per circa un mese, tra la fortezza di Mogador e lo Château di Safi. Dopo la scena del bagno turco, realizzò uno dei pochi piani sequenza del film, il lungo dialogo fra Otello e Jago in cui si manifesta per la prima volta la gelosia del Moro, realizzato con una carrellata inesorabile e ritmata, filmata sui bastioni della Skala da una jeep in movimento. Negli stessi giorni venne ultimata la scena dell’ubriacatura di Cassio, durante la quale il vino e la Coca-Cola generosamente distribuiti alle comparse (rispeivamente ebree e arabe) trasformarono il set in un campo di loa libera. Intanto approdavano sul set altri aori, Fay Compton (Emilia) e Nicholas Bruce (Lodovico), e tecnici dalle provenienze più disparate, un amministratore francese, una segretaria di edizione svizzera, un costumista ebreo. Un paio di giornalisti svedesi, arrivati in ritardo per scrivere della Rosa Nera, vennero scriurati da Welles come comparse nell’esercito del Moro.25 La lavorazione proseguì fra problemi di ogni tipo: Mac Liammóir si beccò un’infiammazione agli occhi dovuta alla luce dei rifleori, costringendo il tecnico del suono, che aveva la sua stessa corporatura, a sostituirlo nei campi lunghi; alcuni venditori locali parteciparono entusiasticamente alle sequenze in cui era previsto un mercato, ma ci volle del bello e del bruo per far capire a uno di loro che nel XVI secolo nessuno vendeva macchine da cucire; l’entrata in campo di uno stormo di gabbiani costrinse Welles a prevederli anche nelle successive inquadrature ma per richiamarli dovee far acquistare una decina di chili di sardine da spargere in terra; Hilton Edwards, che doveva raggiungere il set dalla Francia, incappò in un incidente automobilistico e si presentò con testa e braccia fasciate, quindi si prese una polmonite. Infine Welles decise che Betsy Blair (“un tipo troppo moderno”) non era adaa al ruolo di Desdemona. Le andò a parlare: il denaro, le disse, stava per finire di nuovo, e, in tua onestà, non se la sentiva di traenerla ancora in Africa o a Roma, lontana dai suoi cari. Tornasse pure a Los Angeles, le avrebbe fao sapere quando il film sarebbe ripartito; anzi, le sarebbe stato grato se avesse potuto anticipare lei stessa i soldi per il biglieo aereo di ritorno. Betsy Blair era davvero convinta di dover rientrare, di lì a qualche seimana, nei panni di Desdemona; acquistò il biglieo (che non sarebbe mai stato rimborsato) e volò via dall’Africa e dal film. Rivide Welles due o tre anni dopo, in via Veneto, poco dopo aver scoperto su un giornale il volto della Desdemona definitiva.
“Welles aveva un magnetismo così potente che fui contenta di vederlo,” ricorda l’arice. “Gli presentai la mia amica Jeannie. Orson disse: ‘Mi farai causa?’ Io risi e dissi che no, non avevo pensato a una cosa del genere. ‘Bene,’ disse lui. ‘Vi porto tu’e due a cena.’”26 Di nuovo senza protagonista femminile e sempre più a corto di contante, Welles si preparò a una nuova interruzione. Dall’Italia, Walter Bedogni organizzò il rientro a Roma, e fece domanda per l’importazione dal Marocco di trentamila metri di negativo ancora vergine. All’ultimo momento Orson trovò un insperato aiuto in Jean Davis, un distributore francese che riuscì a prevendere il film “in strani posti tipo la Turchia o le Antille olandesi”, consentendo alla troupe di andare avanti per una o due seimane. Per ringraziarlo, malgrado “recitasse malissimo”, gli assegnò nel film il piccolo ruolo di Montano. Il film si bloccò il 25 luglio, quando la cassa ebbe sputato gli ultimi spiccioli. “Mi lascio andare a cupe riflessioni su questo nostro Otello cinematografico,” scrive Mac Liammóir, “e mi chiedo cos’altro succederà.”
Ricevuta di pagamento da parte della Mercury Films per Oberdan Troiani, come “primo assistente operatore”.
Prima di chiudere il set, Welles tentò un ultimo disperato colpo di scena per via telegrafica. ello stesso giorno, da Hollywood, l’amico Richard Wilson annunciò che Welles stava lavorando a un film basato su Iliade e Odissea;27 contemporaneamente, Italo Dragosei di “Hollywood” pubblicizzava la nascita di un Le
avventure di Ulisse, da girarsi in Technicolor nel successivo autunno, con Welles nel ruolo dell’astuto greco.28 Si traava naturalmente della sceneggiatura scria da Borneman. Parlarne fu una mossa per incuriosire nuovi produori, vendere un’opzione, oenere degli anticipi e girarli subito sull’Otello: un’esca per oenere denaro fresco. Ma l’annuncio-civea non oenne i frui sperati e dopo qualche giorno la troupe si sciolse. “Otello,” scrive Mac Liammóir il 28 luglio, “sembra definitivamente sparito dalla nostra vita.”
10. L’ultima Desdemona
– A volte mi sembra che camminiamo sul mondo in equilibrio su una corda. – Non temere, io non cadrò. So come reggermi in bilico. Zoraida (Valentina Cortese) e Cagliostro (Orson Welles) in Cagliostro
In quella stessa estate del 1949, J. Edgar Hoover, direore dell’FBI, ricevee una leera anonima da Parigi che esortava a processare Welles per aività antiamericane; in allegato c’era il ritaglio di un giornale con una foto del regista a cena con Togliai l’8 dicembre ’48. L’FBI riaprì il fascicolo Welles. Da alcuni informatori italiani, Hoover venne a sapere che il cineasta aveva tentato di girare un film in Nord Africa e che la sua troupe sarebbe stata mandata via per problemi economici. Nel fraempo, in Inghilterra lo scriore George Orwell stilò una lista di centotrenta nomi, tui presunti simpatizzanti comunisti, e la girò a un’unità propagandista del Foreign Office; fra questi, accompagnati da un paio di punti interrogativi, c’erano anche Chaplin e Welles.1 I solerti agenti dell’FBI trovarono poco da aggiungere. Malgrado il documentato brindisi con Togliai, il regista sembrava più impegnato a girare un complicato film in costume che a tramare contro il legiimo governo degli Stati Uniti d’America. Nel dossier finirono le scherzose dichiarazioni di un informatore, probabilmente italiano, secondo il quale i tre anni passati da Welles in Italia gli sarebbero serviti per procurarsi il denaro sufficiente per tornare negli Stati Uniti. L’agente che aveva raccolto la testimonianza cominciò a rendersi conto che l’accusa di cospirazione era un po’ azzardata, e concluse il rapporto chiedendo a Hoover se non fosse il caso di cancellare il nome del regista dal famigerato Security Card Index. Hoover acconsentì, avvertendolo comunque di rimanere pronto a riaprire le indagini nel caso in cui
Welles, tornando negli USA, avesse ripreso a occuparsi di questioni inerenti al Partito comunista.2 Welles non ci pensava neanche. La sua aenzione era tua per l’Otello e i soldi da trovare per ricominciare la lavorazione. Sarebbe intanto bastato che gli pagassero i cinquanta milioni di lire pauiti per La Rosa Nera, rimasti incagliati nelle secche della burocrazia italiana: il fao che quei soldi si sarebbero potuti spendere solo sul territorio italiano aveva bloccato tuo. Mario Luporini, direore generale della 20th Century Fox in Italia, aveva richiesto fin dal 28 aprile al Ministero del commercio con l’estero di poter prelevare cinquantatré milioni di lire dal conto presso la Banca d’America e d’Italia, assicurando che l’importo sarebbe stato “consumato in Italia dal Sig. Orson Welles per spese di soggiorno, viaggi, studi in Italia nonché per spese della sua propria segreteria”.3 Per oenere subito lo sblocco, la 20th Century Fox avrebbe in realtà dovuto destinare esplicitamente la paga di Welles alla realizzazione di un film da girarsi in Italia. Otello, per esempio. Il problema è che le riprese di quel film si stavano effeuando fuori dal territorio italiano. O forse che, non essendo una pellicola di loro produzione, alla Fox importava meno di nulla. Luporini, comunque, evitò di citarlo. ando la Fox richiese l’indispensabile parere della Direzione generale della cinematografia, la pratica risultò incompleta. “A noi come ufficio non risulta nulla,” annotò Scicluna su una copia; la Direzione generale chiese ulteriori spiegazioni sull’utilizzo dei fondi e intanto il denaro continuò a rimanere nei caveau romani della Banca d’America e d’Italia. La corrispondenza fra la Fox italiana, la presidenza del Consiglio dei ministri (da cui dipendeva la Direzione generale speacolo) e la produzione di Welles (allocata non più presso il prestigioso Excelsior ma nel più economico Hotel Boston di via Lombardia) riprese a luglio inoltrato, quando il regista americano si era accorto che avrebbe presto dovuto lasciare il Marocco. Papi tirò fuori le carte e il 16 luglio oenne un primo parere favorevole della Direzione generale dello speacolo; due seimane dopo, comunicò alla Direzione generale e al Ministero del commercio con l’estero, in “qualità di capo della produzione e rappresentante in Italia di Orson Welles”, che il denaro della Fox sarebbe servito “esclusivamente per le riprese del film Otello in Italia”, precisando che avrebbero avuto inizio “immediatamente dopo il pagamento
che la Banca d’America e d’Italia, su autorizzazione degli organi competenti del Governo italiano, effeuerà al Sig. Orson Welles”.4 Alla leera accluse un preventivo di spesa per quaro nuove seimane di lavoro a Venezia, includendovi i compensi per direore generale (Papi), primo aiuto regista (Waszyński), operatore (Anchise Brizzi), operatore di macchina (Alberto Fusi) e fonico (Umberto Picistrelli), tui “ingaggiati alla fine del mese di marzo dal Sig. Orson Welles, sia per assicurarsi i loro servizi prima di ogni altro, sia perché allora si ravvisava la lavorazione molto prima”. Il preventivo assomma a 47.244.500 lire (la voce più pesante è quella dei costumi per gli aori, quasi quaro milioni), da cui rimangono escluse le voci del regista e degli aori principali. Il 1° agosto il Ministero del commercio con l’estero concesse formalmente l’autorizzazione allo sblocco, per circa un quarto della somma, 11.222.500 lire. Dieci giorni dopo, “a seguito delle informazioni assunte e dell’esame del preventivo di spesa presentato dalla Dia produrice”, vennero concessi altri 38.777.500 lire (per un totale quindi di cinquanta milioni), da impiegarsi esplicitamente nella produzione del film Otello. Ci volle probabilmente ancora qualche seimana perché l’Ufficio italiano dei cambi sbloccasse materialmente le somme richieste. Nel fraempo Welles fece sapere ai suoi aori, già sparsi per mezza Europa, che la tappa successiva dell’Otello sarebbe stata Venezia. E la troupe tornò a concentrarsi nella laguna, in trepidante aesa di un nuovo inizio. Trovati i denari, rimaneva però un problema decisivo: mancava Desdemona. Senza di lei, ci sarebbe stato ben poco di girare. Intanto che Welles la cercava, Mac Liammóir e gli altri aori rimasero per giorni con le mani in mano nella cià dei Dogi. Orson ricompariva di tanto in tanto, senza che si sapesse nulla di una nuova arice. Un giorno lo si vide alla mostra dell’European Recovery Program (alias piano Marshall), dove firmò l’albo dei visitatori “con ringraziamenti da parte di un americano che ama l’Italia”.5 Un’altra volta fu sorpreso a bracceo con Lea Padovani, a Venezia per presentare al festival Cristo fra i muratori.6 L’8 agosto Edwards e Mac Liammóir lo incontrarono dietro la Frezzaria. “Non è terribile non avere denaro?” disse Orson trascinandoli a una succulenta colazione all’Harry’s Bar. Dopodiché sparì per altre due seimane.
Nelle more, Mac Liammóir si concesse qualche avventura con i più gagliardi rappresentanti della popolazione locale. Una noe, nella furia amorosa, un bel gondoliere finì in acqua e l’incidente rischiò di geare discredito sull’intera troupe. Per meere a tacere lo scandalo, Orson dovee tirar fuori altro denaro. “I gondolieri ti costano quanto le parcelle di un avvocato solo per portarti araverso i canali,” raccontò anni dopo a Barbara Leaming. “S’immagini quanto bisogna pagarli se li gei in un canale consumando con loro amori proibiti…”7 E i debiti si accumulavano: una nota delle spese vive complessivamente sostenute fino a quel momento per l’Otello, dal 18 oobre 1948 al 20 agosto 1949, ammonta a oltre quaranta milioni di lire.8 Le riprese di Otello ricominciarono il 24 agosto sul Canal Grande, mentre poco più in là, al Lido, s’inaugurava la nuova Mostra del Cinema. Turisti in abbondanza e un caldo soffocante: non era certo la Venezia invernale che Welles desiderava ma i problemi erano risolti e la produzione poteva riprendere. La prima scena fu quella con Brabanzio (Edwards) al balcone del suo palazzo, mentre giù Jago (Mac Liammóir) e Roderigo (Coote) gli rispondono da una gondola. La nuova Desdemona fece in quel momento la sua prima apparizione; a tui, con quel vestito di seta e i capelli biondi, parve incantevole. Suzanne Cloutier aveva ventidue anni e un aspeo delicato e rinascimentale; nata in Canada, aveva in curriculum un breve passato da modella, qualche film e una tournée teatrale con la Comédie-Française. Welles l’aveva vista in un film presentato in quei giorni al festival, Nel regno dei cieli, direo da Julien Duvivier, e le aveva subito fao un provino per la parte di Desdemona. Il suo aspeo fragile e delicato, la sua carnagione candida, la sua figura elegante contrastavano perfeamente con la mole bruna e il profilo massiccio del Moro. Tanto esile e soave in apparenza, Suzanne era in realtà una ragazza di caraere, dotata di grande forza di volontà. Mac Liammóir se ne accorse fin dal primo momento: “bilingue, un’eco residua di Canada qua e là nel suo inglese, ma una voce calda, duile, melodiosa; il viso, un Bellini con grandi occhi grigi che ti rivolgono lunghe occhiate con una lieve sfumatura di rimprovero; naso e bocca perfei; il mento un po’ troppo pronunciato; […]
siamo sicuri che dentro di lei, nascosto da qualche parte, ci sia un Temperamento d’Acciaio […]; profetizzo che darà a Orson del filo da torcere (come senz’altro lui a lei).”9 Welles tentò subito di sedurla, e la giovane arice corse ai ripari: chiese consiglio a Lea Padovani e si preparò stoicamente all’assedio. Il regista mise da parte le sue brame ma per tuo il tempo delle riprese si divertì a stuzzicarla e umiliarla. Suzanne ingoiò rimproveri e insulti, scoppiò mille volte a piangere ma riuscì sempre a tenere testa al suo burbero direore, guadagnandosi l’ammirazione della troupe e un soprannome che, coniato da Welles, ebbe subito fortuna: Farfalla d’Acciaio.
Walter Bedogni, Welles e George Fanto con Suzanne Cloutier nel 1949 sul set veneziano di Otello.
Orson ricominciò a creare, soo gli occhi di passanti e speatori anche illustri, come André Bazin: “Accadeva in agosto, a Venezia, in Campo dei Miracoli. Ero andato ad assistere alle riprese di una scena di Otello. Avevo peraltro faticato a trovare la piccola troupe e le arezzature, di una povertà tua elisabeiana, nascosti in una stradina. Ero là fra alcuni curiosi veneziani che ignoravano visibilmente di cosa si traasse. Welles, seduto su una misera sedia di ferro presa in prestito alla traoria più vicina, meditava in aesa di non so cosa, come accade regolarmente nel cinema. Posso assicurare che non c’era alcuna platea in grado di apprezzare il gesto: Welles, scorgendo una massaia italiana per mano al suo
marmocchio, con la sporta soo il braccio, che guardava da un po’ i preparativi delle riprese, si alzò dalla sua misera sedia di regista e l’obbligò a sedersi con la stessa naturalezza che avrebbe avuto se si fosse trovato in metropolitana.”10 Dopo il Canal Grande, la troupe di Otello si spostò davanti al Palazzo dei Dogi e girò il dialogo fra Jago e Roderigo, invidiosi delle furtive nozze di Otello e Desdemona. Il 28 agosto, nelle scene in cui i senatori si recano al concilio di mezzanoe, si unirono al cast Joseph Coen e Joan Fontaine, in Italia per partecipare al festival e poi interpretare insieme Accadde in seembre. Welles volle che l’amico comparisse brevemente nel film, vestito come senatore, convinto che la sua presenza avrebbe portato fortuna alla pellicola; e Joan Fontaine, che aveva interpretato con Welles La porta proibita, acceò spiritosamente di indossare i panni di un giovane paggio (nel film finito, comunque, nessuno dei due sarà riconoscibile in questa o altre scene). Lo stesso giorno Welles impose a Mac Liammóir una sfiancante maratona di recitazione al tramonto, per colorare con la cupezza dell’imbrunire il monologo concluso dal satanico “io non sono quel che sono”: Mac Liammóir sbagliò più volte le baute, s’interruppe prima della conclusione della ripresa e perse la gara col sole, facendo imbestialire il regista. La scena venne completata nel pomeriggio dell’indomani, dopo “un’orgia frenetica di lavoro per tua Venezia”. Mentre passeggiava dietro piazza San Marco, toccò stavolta a Ennio Flaiano, inviato alla Mostra per “Il Mondo”, imbaersi nella troupe di Welles. “L’aore,” racconta Flaiano, “sostava su un ponticello, in compagnia di amici, ma sembrava assorto, gli occhi fissi alle decorazioni di una facciata, in tuo simile al protagonista di quel bel racconto veneziano di Poe [e Assignation] e come quegli altreanto capace di gearsi in acqua per pescarvi un bambino affogato o un’idea. In più, Orson Welles […] s’è fao crescere un paio di scopeoni che danno al suo viso un’aria estremamente venerabile.”11 I giorni successivi la troupe si spostò a Torcello, girando fino a noe fonda la scena di Desdemona confortata da Emilia e quella di Jago che suggerisce a Otello di strangolarla; lo sfondo è quello del chiostro della chiesa di Santa Fosca, un esterno che Welles, come farà qualche mese dopo alla Ca’ d’Oro, allestì come fosse un interno.
Concluso il festival, rimasero in pochi a sorvegliare con curiosità le riprese. “Non più folla di quanta può far capannello dietro al cavalleo di un piore,” informa una noterella di “Film”. L’ultimo avvistamento venne registrato da un cronista, che incontrò Welles alle due di noe, davanti al Danieli, con un gao fra le mani: un’apparizione alla Harry Lime. “Le piacciono i gai?” gli chiese il giornalista. “Molto. Vede? esto diventerà presto un aore. (e ride. Non conosco risata più aperta e simpatica di quella d’Orson Welles, N.d.R.) Penso di fare un ‘prologo’ al mio nuovo film. […] Sì: un ‘prologo’ che prepari l’atmosfera del film. L’alba su Venezia. Un’alba invernale. Venezia che a poco a poco si sveglia alla luce del giorno come se – novella Atlantide – uscisse di sorpresa dalla eterna profondità del mare. I canali: pigri, grigi, silenziosi. Il silenzio dell’alba di Venezia. Per meglio soolineare questo silenzio mi varrò anche dei gai. I gai che si svegliano. Poi, ad un trao, il silenzio sarà ‘spaccato’ da un improvviso urlo di donna. Poi ancora silenzio. Poi un lontano suono di musicanti. Uomini e donne che rincasano da noi di piaceri. Fiaccole ormai pallide che si spengono… Ancora i gai: il loro miagolio dovrebbe soolineare questa atmosfera pigra della Venezia invernale che si desta.”12 Il 4 seembre, dopo dieci giorni di riprese, la troupe si spostò per gli interni a Roma, lasciando a metà le scene veneziane. Mac Liammóir non specifica il motivo di questo improvviso cambio di programma: probabilmente il sole estivo e l’abbondanza di turisti impedivano che la Venezia del film apparisse “invernale” come avrebbe desiderato l’autore; o forse i denari della Fox, erogati a spizzichi e bocconi da Roma, non erano in grado di sostenere tempestivamente le spese di lavorazione in una cià costosa e complicata come Venezia. Il ritorno di Welles nella capitale venne segnalato dalla stampa con l’abituale malignità. “Bisogna ammeere che non si è sentita troppo la sua mancanza,” dice una nota di cronaca di “Cine illustrato”: alloggiato al Grand Hotel, Welles “indossa maina e sera un gualcitissimo abito bianco che evidentemente fa molto artista,” “si è fao ricrescere una folta barbiccia [e] gira per Roma con un cipiglio severissimo, spaventando qualche ragazzino.”13 Agli occhi dei cronisti della capitale, Welles non emanava ormai neanche un briciolo di carisma. “Gli Italiani in genere ed i Romani in ispecie,” infierì Càllari su “Cinema”, “‘livellano’ tue le false
celebrità (tipo, per esempio, Orson Welles e Tyrone Power): da noi durano soltanto le celebrità vere.”14 Welles non era certo tornato a Roma per fare la celebrità, ma per portare a termine il suo film. E il lavoro ricominciò immediatamente, dentro gli studi romani della Scalera, con lo stesso orario dei tempi di Cagliostro, dalle due del pomeriggio in poi. Vennero girate le scene di Emilia, compreso il suo assassinio per mano di Jago, l’arrivo di Lodovico, e lo schiaffo di Otello a Desdemona (che Orson riuscì ad assestare sulla guancia della Cloutier solo dopo averle promesso di riprenderlo l’indomani in una inquadratura successiva, cogliendola così alla sprovvista). Welles era in stato di grazia. Dopo ore e ore di lavoro, aveva ancora voglia di recitare e di stupire; spenti i rifleori, la sera radunava la troupe e dava piccoli speacoli di magia. Una volta si fece prestare da Oberdan Troiani una banconota da cento franchi, ne strappò un angolino e la bruciò davanti a tui; alla disperazione del proprietario, Welles ritirò fuori la stessa banconota, con l’angolino mancante, da un’arancia che stava sul tavolo. Più dei giochi di prestidigitazione, a incantare era la sua grande precisione sul lavoro, che, unita a una profonda competenza tecnica ed estetica, costringeva tecnici e aori a rifare ogni scena infinite volte. “In teatro Welles creava le cose più strambe,” ha ricordato Troiani. “Un giorno volle fare un carrello di sei metri che doveva durare cinque minuti: voleva che durante una cantilena che Desdemona faceva con Emilia, l’inquadratura si allargasse a poco a poco in modo che il pubblico non se ne accorgesse. Dovemmo fare un argano con la ruota, bloccare l’argano piano piano e meere il talco alle ruote. La facemmo ma poi non la montò…”15 La troupe sgobbava e sbuffava, perplessa per i continui cambiamenti di set e di Desdemona, ma la cura che il regista ci meeva e le originali trovate che escogitava per superare i vari ostacoli galvanizzavano le maestranze più ciniche. La macchina da presa traballava? Bastava poggiarci sopra un bel secchio pieno d’acqua. Per la crisi epileica di Otello, Orson legò la cinepresa a un grosso paino a rotelle: mentre la macchina lo riprendeva, la faceva girare intorno a sé spingendola con un bastone. Welles trovava una soluzione per ogni problema. “Facemmo un carrello seguendo lui di spalle che si avvicinava a Jago,” ricordava Troiani. “Lui voleva assolutamente che la macchina da presa lo seguisse alla sua stessa esaa velocità, fermandosi nell’esao istante in cui lui si
fermava. Ma era impossibile sincronizzarsi, perché naturalmente c’è sempre un mezzo secondo di reazione: per cui alla fine del carrello e della camminata la macchina inevitabilmente faceva un ultimo, minimo movimento verso di lui. Welles allora cercò prima di far costruire un marchingegno per tirarsi dietro la macchina da presa da solo. Poi, visto che non funzionava, ci fece girare la scena e alla fine del suo movimento, già fermo sulle gambe, si piegò leggermente in avanti col corpo, ‘riassorbendo’ il movimento della macchina da presa!”16 Orson trovò anche il tempo di fare qualche passeggiata con Christopher, la figlia undicenne avuta dalla prima moglie Virginia Nicolson, venuta a trovarlo dall’America. Le fece vedere l’Appia Antica, visitò con lei le catacombe, la portò per una giornata nella villa di Casal Pilozzo. “È meraviglioso qui in primavera,” le disse seduto in terrazza, indicandole il giardino lussureggiante e la valle che s’intravedeva più avanti. “Ma io sono qui talmente di rado. Stavamo girando Otello a Venezia, come sai, e prima di Venezia eravamo in Marocco, e Dio solo sa quale sarà la prossima location e da dove verrà la prossima pentola d’oro…”17 Il 18 seembre la lavorazione subì un nuovo stop. Orson tentò di traenere gli amici irlandesi (che non aveva ancora pagato) alleandoli con il progeo di un Giulio Cesare da girare a primavera, in Egio, con Edwards regista e Mac Liammóir nei panni di Bruto. Dopo qualche giorno di aesa, i due aori ripartirono per Dublino, sperando almeno di fare in tempo per la nuova stagione teatrale. L’Otello prima o poi sarebbe ripartito, e allora si sarebbero ritrovati tui di nuovo, “in quella Grande Voliera chiamata Italia”, per girare qualche pezzeino della pellicola. “el che c’è di positivo negli ultimi sviluppi della situazione,” annota speranzoso Mac Liammóir, “è che gran parte del film è stata ormai girata e quindi l’idea di non completarlo è sicuramente fuori discussione.” Mac Liammóir non lo dice, ma il motivo dell’interruzione non fu stavolta per cause economiche. O, almeno, non solo per quelle: Welles fu costreo a spostarsi a Londra per concludere una volta per tue la nuova edizione di Macbeth. Un memorandum di questo periodo mandato dal regista alla Republic spiega bene la situazione: “Per questo montaggio e doppiaggio, che non potrebbe essere organizzato subito in Italia per problemi doganali, ho chiuso il mio film e sono venuto qui a Londra praticamente gratis. Senza
esagerare, tuo questo tirerà fuori dalle mie tasche almeno 10.000 dollari e, per come vedo che vanno le cose, probabilmente di più.”18 Intanto Rocco Facchini si era messo alla ricerca di una nuova segretaria per il regista, e l’aveva trovata in Mary Alcaide, una ragazza di Chicago che Welles aveva conosciuto ai tempi del Mercury Wonder Show, e che tra le altre doti, parlava l’italiano. “OW ha bisogno di una segretaria,” scrive Mary alla madre il 2 oobre, “dato che l’ultima [Rita Ribolla] se n’è andata in un lago di lacrime, e appena lui torna da Londra dovrò parlargli personalmente.”19 La convocazione arrivò dopo diversi giorni, e piuosto bruscamente: “Ecco ciò che si definisce pura follia. L’amministratore di OW mi ha chiamato al lavoro nel tardo pomeriggio di oggi dicendomi, in poche parole: ‘Vada a Viterbo il prima possibile – prenda il treno stasera – ma ci VADA! Mr Welles la sta aspeando.’ Bene, mi lascia in aesa per due seimane senza una parola, e poi improvvisamente – abracadabra – si aspea che gli appaia davanti. Oh bella! Che faccia tosta! Be’, adesso mi tocca correre a prendere quel treno.”20 Alle 8.30 del maino dopo, una Studebaker venne a prelevare Mary Alcaide e Ruth Hill (“un’altra americana confusa come me che OW ha assunto per la direzione dei dialoghi”).21 Il viaggio dura quindici chilometri, fino a Tuscania. A Welles basta incontrare la ragazza a cena con Suzanne e gli altri per decidere: Mary è assunta. Di qui in poi, le sue leere alla madre forniscono preziose informazioni di prima mano sulla lavorazione del film, integrando da un diverso punto di vista il diario di Mac Liammóir, e proseguendo il racconto anche oltre la partenza dell’aore irlandese. A Tuscania, la nuova segretaria trova il set del film allestito dentro la cripta di una fatiscente chiesuola dell’XI secolo. “La camera è fantastica,” scrive Mary alla madre, “ci sono 3 colonne di traverso e 8 giù, e il soffio basso è a volta. È molto semplice e primitiva. Ogni due minuti Orson fa uno sguardo truce a Desdemona ed esce dalla porta ed è ‘Cut’! Vanno avanti così da circa mezz’ora. Oh, me tapina – e io voglio fare l’arice⁇! Mai più… Piuosto mi sposo.”22 Nei giorni successivi, mentre Otello e Desdemona continuavano a guardarsi con sospeo e angoscia, Mary baeva a macchina lo script di un Julius Caesar, “che potrebbe essere il suo prossimo progeo”; ma la notizia del giorno fu che la compagnia sarebbe
partita per Mogador, “e forse pure per l’Egio […] e poi ancora forse in Grecia a fare Ulysses”.23 In quello stesso 16 oobre Giorgio Papi telegraò a Hilton e Mac Liammóir costringendoli a interrompere nuovamente i loro progei e a raggiungerlo a Tuscania. Dove fra l’altro sarebbe stata girata la scena in cui Otello si guarda allo specchio mentre Jago lo aiuta a spogliarsi. Si avvicinava il momento in cui Welles e la Cloutier avrebbero dovuto meere in scena la propria morte, e i rapporti fra i due aori si fecero tesi. Dentro e fuori dal set, il cipiglio soave di Suzanne Cloutier cozzava sempre più spesso con i modi franchi di Welles. “Specie di concentrato cosmico di egoismo sfrenato!” la investiva pubblicamente il regista, e lei ribaeva pudicamente che l’unica cosa di cui Orson aveva davvero bisogno era “l’amour d’une brave femme”. Cosa che, per la verità, non gli mancava affao. “L’altro giorno,” scrive Mary Alcaide, “se ne viene di soppiao da me con la sua morbida mantellina e la faccia scura di nerofumo, mi prende per mano e mi porta fuori dalla chiesa a guardare il più bel tramonto di sempre. Il suo buonumore è dovuto al fao che è innamorato di una giovanea che si chiama Lori che va a trovare quasi ogni noe dopo il lavoro a Roma – un’ora e mezza di macchina da qui!”24 (Lori è una vezzosa abbreviazione; il nome completo della ragazza è Loredana Martinelli.) La scena dell’uccisione di Desdemona venne realizzata a Viterbo, dentro Santa Maria della Salute, una chiesa sconsacrata del XIII secolo, trasformata da Alexandre Trauner in una tetra e solenne camera nuziale. Le riprese andarono avanti per alcuni giorni. Al culmine della scena, la Cloutier tenne bloccata la troupe per diverse ore. Cercarono il metodo migliore per spremerle qualche lacrima davanti all’obieivo, dalle cipolle ai sali ammoniacali, ma fu probabilmente la tensione accumulata a risolvere la faccenda. “Alla fine,” scrive ironico Mac Liammóir nel suo diario, “ce l’ha faa senza alcun aiuto.”
Da sinistra: Walter Bedogni (direore di produzione di Otello), Mary Alcaide (seminascosta), Suzanne Cloutier, Ruth Hill, Orson Welles e Michał Waszyński nel ristorante del loro albergo a Viterbo, nell’oobre 1949.
Fra un tentativo e l’altro di uccidere Desdemona, Welles girò un’inquadratura di Jago sui gradini del Palazzo Papale di Viterbo (come controcampo a un’altra realizzata a luglio in Marocco), e probabilmente una manciata di riprese a Orvieto, qualche chilometro a nord. Dopo due seimane alle dipendenze di Orson, la nuova segretaria era già stremata. “Non è che il lavoro sia fisicamente stancante,” Mary Alcaide scrive il 29 oobre, “il fao è che è assolutamente folle e spaccanervi. Preferirei lavorare 12 ore al giorno e sapere quello che devo fare piuosto che sedere dove capita per ore e sentirmi dire ‘Manda un telegramma a quel tizio che ho incontrato l’altro giorno, comesichiama – Jim o George – il suo indirizzo è da qualche parte in uno dei miei vestiti o nella mia valigia o forse nel casseo del mio comodino’ e poi non dover fare nient’altro fino alle 3 del maino quando decide di farmi chiamare la sua fidanzata per dirle che quella noe non verrà a Roma da lei.”25 Welles chiedeva ai suoi collaboratori un impegno notevole ma era il primo a non risparmiarsi. “Orson non ha il tempo per dormire e non sembra neanche averne bisogno,” annota Mac Liammóir il 21 oobre. Una seimana dopo, il regista ebbe un mezzo collasso. I medici gli proibirono fumo e caè e gli prescrissero qualche seimana di riposo. Welles fece finta di obbedire: abbandonò Viterbo ma solo per spostare il set. E il 31 oobre ricomparve con la sua troupe a
Venezia, “annunciando che non c’era più neanche una lira,” scrive Mac Liammóir, “e ordinando poi con scarsa coerenza ‘champagne di marca’ e altre prelibate specialità gastronomiche per tui.” L’indomani si girò ancora a piazza San Marco e al Palazzo Ducale; per completare le scene con Cassio e Lodovico, tornarono sul set Michael Laurence e Nicholas Bruce. Il 2 novembre una folla di turisti e di curiosi venne bloccata a metà del Ponte della Paglia, per lasciare libera la balaustra sulla Riva degli Schiavoni. Welles truccò con una matita nera gli occhi e il naso di Hilton Edwards, mentre gruppi di comparse vestite da senatori aspeavano che la scena fosse pronta. Il tempo era grigio ma al provvidenziale spuntar del sole Welles ebbe la prontezza di spirito di inventarsi una nuova inquadratura, una delle più belle del film, con la partecipazione di quei volatili che, in condizioni normali, detestava sopra ogni altra cosa. Un cronista del “Gazzeino-Sera” registrò la scena: “Welles, faosi allegro anche lui per quell’insperato ritorno al bel tempo, si cacciò con molta degnazione in mezzo ad un gruppo di piccioni e prese a dispensar loro del granoturco, airandosi la curiosità di non pochi passanti. I piccioni, da cinque o sei che erano, divennero ben presto uno stormo assai nutrito. Fu allora che al grido ‘in azione!’ le macchine da presa ricominciarono a friggere e i rifleori, di notevole potenza, a rovesciar nutriti fasci di luce sull’uomo alle prese con i volatili. I vigili insistevano perché nessuno passasse. Sul ponte pienamente illuminato, passarono allora Brabanzio e i seguaci del Moro, l’incedere dei quali valse a spaventare i colombi facendoli fuggire con un magnifico volo a raggera. ‘Magnifico! – tuonò allora Orson Welles – veramente magnifico.’”26
Welles a Venezia con l’arice Elaine Shepard in visita sul set e, a sinistra, Nicholas Bruce, sulla Scala dei Giganti, l’8 novembre 1949.
Due giorni dopo, la troupe era alla Ca’ d’Oro, resa gelida dal freddo e dall’umidità. Le comparse saltellavano per riscaldarsi, gli aori si rifugiavano dentro le guardiole dei custodi dei musei civici, e Suzanne Cloutier rifaceva per la sesta o seima volta le prove di una breve scena in cui doveva salire la piccola gradinata che dal cortile conduce al ballatoio del palazzeo. Intirizzita dal freddo, l’arice si premeva una mano contro lo stomaco e porgeva l’altra a una controfigura di Otello. Partita la macchina, dopo qualche secondo il regista diede ancora lo stop, a causa dell’andatura impacciata della controfigura. A pochi metri di distanza, il cronista del “Gazzeino-Sera” prendeva nota: “Orson era fuori di sé, la Cloutier ritenendo che quelle male parole fossero a lei diree se ne ebbe talmente a male che non seppe traenersi dal rispondergli per le rime in un francese che a chi ascoltava sembrò pulito assai. Diceva di essere arcistufa delle bizze e delle pretese di lui, che la traava peggio di una dileante, e Orson le rispondeva in un inglese non tanto morbido […]. Lo scontro tra i due tenne per qualche tempo col fiato sospeso l’intera troupe, rimasta ad osservare la disinvoltura con cui Desdemona rilanciava gli strali del focoso regista. Desdemona disse ancora qualche cosa a Orson, quindi sparì al piano di sopra piantando tui in asso […]. Un piccolo colpo di testa della ribelle, la quale non tardò a ripresentarsi al centro della balconata del secondo piano, entro il riquadro di una volta perlata, poggiando i gomiti sul davanzale e nascondendo il viso tra le mani: piangeva.”27 I litigi di Welles non furono solo con la Cloutier. Del suo nervosismo e della sua tensione al raggiungimento del miglior risultato facevano spesso le spese i suoi collaboratori più direi, cioè gli operatori. Come si è deo, il titolare ufficiale era Alberto Fusi, con Welles fin dalle riprese dell’autunno ’48, quelle con la Padovani nei panni di Desdemona. Anchise Brizzi lo coadiuvava alla macchina e Oberdan Troiani faceva a entrambi da assistente. Con loro c’era probabilmente anche Tonino Delli Colli. Di tui, il più paziente era Troiani, che infai avrebbe seguito il film fino all’ultimo. Troiani era in grado di accogliere le idee più strane di Welles e in una certa misura padroneggiarle e assecondarle. “Le sue inquadrature, per esempio,” racconta Troiani, “non erano mai a livello, sempre storte, fuori asse, ma io ero l’unico che gliele sapeva fare: me l’aveva insegnato lui, bastava che l’inquadratura stesse in asse su uno degli elementi inquadrati. Certo, il lavoro era difficile… Come macchina da presa Welles usava
la Debrie, che permeeva la visione solo araverso la pellicola; per di più col filtro rosso, che a meerlo davanti alla pellicola è come il compensato, si riusciva a vedere appena il bianco degli occhi di Otello. ando usavamo la Mitchell era ancora peggio; la Mitchell ha la visione col mirino, va bene a una certa distanza ma con i primi piani è piuosto sfasata, un orecchio corrisponde a tuo un viso. E poi per meere a posto i personaggi ci voleva un quarto d’ora, perché magari araverso un capello si doveva vedere una torre lontana. Spostati a sinistra, spostati a destra, e alla fine l’aore doveva stare fermo senza respirare. La maina Welles si presentava sempre tuo truccato di nero, con i capelli ricci, ma le sue parti non le girava mai, alla fine io ero più nero di lui perché il suo trucco si trasferiva sull’obieivo. […] A Welles, poi, non potevi dirgli una cosa per l’altra, e con Fusi c’erano discussioni terribili. ‘Allora,’ chiedeva Welles, ‘è andata bene?’ ‘È andata bene, però…’ ‘Però cosa? Ma insomma, è buona o non è buona?’ ‘Sì, è buona… per me va bene, però…’ E qui Welles cominciava a urlare: ‘Io questo film sono disposto a ricominciarlo tuo di nuovo, dimmi solo se è buona o non è buona!’ ‘Ma sì, è buona, però…’”28 Il lavoro proseguì regolarmente fino all’11 novembre. Il giorno dopo, stufi dei metodi di Welles, Fusi e Brizzi firmarono un contrao per il film italo-tedesco Amore e sangue. “Il primo sabato che capitò durante la lavorazione a Venezia,” prosegue Troiani, “Brizzi e Fusi salutarono Welles e se ne andarono, anche perché il loro contrao era scaduto. Salgo sul motoscafo con il direore di produzione e con Welles, che comincia subito a gridare. ‘Ecco! Vigliacchi! Non capiscono niente! Non hanno capito l’importanza di questo film!… Solo Troiani è una persona correa!’ Io invece dovevo seguire Brizzi perché facevo parte della sua troupe. Un momento che Papi si è appartato, gli ho deo: ‘A’ Papi, guarda che io pure me ne devo anda’ via.’ ‘Ma che, sei mao? Se jelo dici, questo te bua dentro il Canal Grande.’ E così rimasi.”29 Intanto pure Delli Colli si era defilato, adducendo sopraggiunti impegni familiari (“Feci metà di Otello,” dichiarò poi. “Non lo ultimai perché a un certo punto dovei sposarmi”30). Guardacaso, i nomi dei tre fuggitivi riemergono su altri due set veneziani di quell’anno, Il ladro di Venezia (in cui erano finiti a lavorare Brizzi e Fusi) e La rivale dell’imperatrice (coprodoo dalla Scalera, con Delli Colli alla fotografia).
Troiani avrebbe dunque potuto ereditare il ruolo di direore della fotografia ma con un regista difficile come Welles non se la sentì; il compito di primo operatore venne assegnato per il momento a George Fanto. Welles e Trauner partirono quindi alla volta di Perugia, per cercare degli sfondi adai al Senato, lasciando Waszyński e Fanto a girare piccoli controcampi e semplici scene di raccordo, mentre Mary Alcaide era impegnata a Roma a smistare per telefono “ordini per riprese, acquisizioni di fondi e molte altre cose assai importanti e trasmeerle avanti e indietro. […] Vorrei avere solo un giorno completamente libero – senza preoccupazioni e telefonate asfissianti da Orson, Misha [Waszyński], Papi… o dalla fidanzata di Orson!”31 Dall’America Richard Wilson teneva informato Welles dei progressi sulla nuova versione del Macbeth, reclamando ancora qualche piccola miglioria. Il regista era ormai esasperato. “A mio avviso il nostro lavoro su Macbeth è finito,” gli scrive Welles il 14 novembre. “Potremmo continuare a cincischiare e perder tempo, ma […] a me pare che faremmo meglio a prendere questa dannata cosa, stamparla e mandarla al suo destino… qualunque esso sia.”32 Wilson rispose aggiungendo nuovi problemi economici e, a proposito, “nel caso tu non lo sappia, Cagliostro è molto deludente. Non sta andando bene per niente.”33 Mac Liammóir non lo scrive, ma nel fraempo i soldi erano finiti un’altra volta. “Sono maledeamente in bollea,” rivelò Mary a sua madre, “e lo è anche Orson e lo è anche Lou Lindsay (un vecchio amico di O. nonché montatore del film). Insieme formiamo il trio più povero d’Italia! Comunque, qui al Grand Hotel sono talmente abituati al fao che Orson deve loro del denaro che mi è concesso di temporeggiare e pagarli a piccole rate mensili.”34 In un rendiconto giustificativo del denaro sbloccato dalla Fox, la somma spesa per Otello solo fra 20 agosto e 10 novembre ammonta già a 50.463.305 lire. La cifra dei cinquanta milioni guadagnati con La Rosa Nera era stata raggiunta e superata.35 Probabilmente a questo punto Welles ricominciò a sperare in un nuovo miracolo da parte di Jean Davis, il distributore francese che lo aveva già salvato una volta in Africa. I programmi cambiarono di nuovo. “Santi numi‼!” annota la Alcaide, “Siamo appena tornati da colazione e indovina? Orson ha deciso che non andiamo a Perugia… andiamo a Mogador!”36
Mentre Mac Liammóir, Hilton Edwards e Suzanne Cloutier raggiungevano faticosamente la Francia via treno da Venezia, la maina del 19 novembre Welles, Fanto e la Alcaide si alzarono prestissimo per prendere il volo delle 6:30 che da Ciampino avrebbe dovuto portarli a Nizza, tappa obbligata verso il Marocco. Appena i tre si furono accomodati nella carlinga il volo venne cancellato. “Ci hanno deo che dovevamo scendere dall’aereo,” scrive la Alcaide, “e aspeare fino a mezzogiorno perché c’era un qualche problema al motore. Torniamo indietro nella sala d’aspeo dove O. si scusa di doverci costringere ad aspeare…⁇? ‘Sì, è colpa MIA,’ dice abbacchiato, ‘è una maledizione che mi porto addosso…’ Ed era serio! È incredibilmente superstizioso. Povero Orson, era il ritrao dello sconforto più totale e completo, e non c’era nulla che Fanto o io potessimo fare per scuoterlo. Solo quando abbiamo toccato il suolo francese si è rianimato sufficientemente da fare un caldo sorriso a Julien Derode.”37 (Derode rimarrà come direore di produzione del film per parte francese.) Nel giro di pochi giorni tuo il cast era in Costa Azzurra. Welles continuò ad alloggiarli negli alberghi più fastosi, prospeando nuovi film da fare insieme (il Giulio Cesare, una Salomè, una Carmilla) e riproponendo l’idea di una mega tournée teatrale per mezza Europa, a recitare brani da Shakespeare e Wilde. Di tanto in tanto, spariva con Papi alla volta di Parigi, lasciando gli altri in preda allo scoramento. “Vorremmo tui essere a casa per Natale,” scrive Mary il 25 novembre da Saint-Paul-de-Vence, “e siamo stati trasferiti da un posto all’altro senza mai sapere che cosa c’è da fare, vivendo metà dentro e metà fuori dalle nostre valigie…”38 All’inizio di dicembre la situazione fu finalmente chiara: il denaro era davvero finito e la lavorazione si bloccò per la quarta volta. Il cast si sciolse di nuovo, e Welles andò a Parigi a presentare Il terzo uomo, ormai pronto per essere distribuito nelle sale di tua Europa. In Italia, la critica accolse il film con qualche elogio ma anche con una certa degnazione. Mario Gromo parlò di “bravura sovente effeistica, che mira a rilevare e a sorprendere,”39 e il solito “Vice” di “Cinema” diede addosso all’interpretazione di Welles, salvandone a malapena la speacolare entrata in scena: “la presunzione mimica di Orson Welles non ha alcun controllo e sembra diffondere aorno, nell’atmosfera così espertamente oenuta, una vacuità d’espressione e di significato. Di quest’aore, che dà l’impressione
di guardarsi sempre nello specchio, vale solo quel suo primo apparire…”40 Il pubblico invece, sia quello italiano sia quello straniero, assicurò subito al Terzo uomo un successo eclatante, e legò indissolubilmente la fama della pellicola alla figura di Welles. La sua celebre bauta sul Rinascimento e la Svizzera suscitò un piccolo caso: alla première ginevrina, Carol Reed ricevee in dono dagli ammiratori elvetici un bellissimo orologio a cucù accompagnato da un biglieo: “Senza rancore”. La cetra diventò di gran moda: appena Welles entrava in un ristorante l’orchestra si bloccava e cominciava a suonare il motivo composto da Anton Karas. “Orson non riesce mai a essere se stesso,” scrisse Barzini. “Ha appena finito di essere noto come l’ex marito di Rita. Ora è Harry Lime.”41 Festeggiato e vezzeggiato, Welles raccoglieva una gloria del tuo imprevista ma i giornalisti francesi continuavano a riportarlo al punto: quando sarebbe terminato questo famoso Otello? Orson rispondeva che sperava di ultimarlo per Natale, e intanto si lamentava delle difficoltà nel reperire finanziatori e distributori: “Sono il peggior uomo d’affari d’America e devo perdere il novantacinque per cento del mio tempo per traare affari!”42
Alvaro Mancori: “Ogni tanto sparava: Traditori!” Roma, 14 giugno 2005 Gli operatori di Otello furono ben più dei cinque (assistenti inclusi) indicati nei titoli del film. Alcuni furono licenziati da Welles, altri abbandonarono l’impresa sfiduciati dalle varie interruzioni o perché impegnati anche con altre produzioni, qualcuno preferì non essere menzionato per ragioni fiscali. Ricostruire esaamente le singole responsabilità è quindi piuosto complicato. Molte sequenze sono composte da inquadrature girate da tecnici diversi, e il diario di Mac Liammóir non abbraccia l’intera lavorazione. Di certo, al principio della lavorazione c’era Alberto Fusi, al quale si aggiunse presto Anchise Brizzi; Oberdan Troiani e probabilmente Tonino Delli Colli facevano da assistenti. Nella primavera del ’49, a Mogador, si aggiunse George Fanto. Nel novembre del 1949 a Brizzi e Fusi subentrarono stabilmente Fanto e Troiani. Nel novembre 1950 arrivarono G.R. Aldo e Alvaro Mancori (che pare abbia partecipato saltuariamente al film anche prima), con Nino Cristiani e Giuseppe Rotunno: questi ultimi quaro lavorarono negli studi della Scalera di Roma e di Venezia. Andati via pure loro, il resto del film fu illuminato dai soli Fanto e Troiani. E mentre quest’ultimo è stato da tempo individuato come uno dei pochi ad aver seguito quasi per intero la lunga fase delle riprese, il nome di Alvaro Mancori (1923-2011), in seguito aivissimo e stimato direore della fotografia, non è apparso neanche sui titoli del film, facendo sì che la sua partecipazione all’Otello sia rimasta per lungo tempo ignota. Saremo stati dieci o dodici operatori, apposta non ho voluto meere il nome. Nell’Otello feci soprauo le scene negli studi della Scalera. Ma cominciai a lavorare al film un po’ prima, fuori dei teatri. Allora ero un po’ un aiutante tecnico di Welles, facevamo disegni di ambienti che però ancora dovevamo trovare. MANCORI
Come conobbe Orson Welles?
Lo vidi per la prima volta in Cagliostro, dove ero aiuto operatore. Lavorai nelle scene al irinale, giusto uno come Scalera poteva oenere il permesso di girare in un posto così. Il palazzo comunque lo traarono bene, perché nei saloni c’erano sempre le guardie. Guai! Dovevi venire con le scarpe pulite, non dovevi poggiare la giacca su una poltrona, se ti scoprivano seduto su una poltrona erano cazzi! Che tipo era Welles? Furbo, intelligente, un uomo straordinario. Con le sue piccole manie. Dava sempre la colpa agli altri, agli aori, ai macchinisti, all’operatore. E gli aori li maltraava da morire. Aveva iniziato Otello con Lea Padovani, e la traava a pesci in faccia. Lei c’era quando girò la Padovani? Sì, cominciò il film e io cominciai con loro. La Padovani era l’amante di Orson Welles ma si vede che la situazione non funzionava neanche a leo, perché erano sempre tui e due nervosi. Comunque neanche lei era una bambina: quasi a un terzo di film si è sentita sicura, pensava di averlo in pugno, e ha cominciato a farlo soffrire. Un giorno che lei non c’era, lui era molto nervoso, disse “Prepara ’sta scena, io torno subito.” Andò difilato in albergo e la trovò in camera con uno della produzione. Giorgio Papi. Bravo. Io non lo volevo dire. Pare che lo sapessero tui tranne Welles. Però si vede che aveva qualche pulce nell’orecchio, perché quando disse “torno subito” andò direamente in camera: è chiaro che sapeva qualcosa. Allora: “Mignoaaaa…” Tui a calmarlo: ma Orson che vuoi fa’, a quella gli piaceva, a quell’altro gli piaceva, la vita è questa, non crederai mica… “Sì! Io ho avuto le donne più belle del mondo, nessuna mi ha cornificato così!” La Padovani aveva ferito la sua personalità: il chiavone, l’uomo bello, importante, intelligente che si fa fregare da una che vicino a lui era una cretina! Però c’era ’sto
Papi che era un bell’uomo… Welles cacciò via tui e due e ricominciammo il film, uno dei tanti “ricominci”. Venne un’altra arice dall’Inghilterra, bellina, Suzanne Cloutier… Non subito però, passarono diversi mesi… Eh! Si buarono giù le scene, poi si ricostruirono… ello che c’è stato in quel film… Come rientrò nell’Otello? In quel periodo lavoravo insieme a G.R. Aldo, in un film di Léonide Moguy, Domani è un altro giorno con la Pierangeli, e Aldo mi disse: “Alvaro, vuoi venire a fare Otello, io con quello lì di sicuro non ci andrò d’accordo. Vieni come me, anche tu come direore della fotografia: io faccio una cosa, tu ne fai un’altra…” Perché no? Poi Aldo era veramente bravo, Visconti se l’era portato a Roma per fare La terra trema e lui aveva vinto subito il Nastro d’argento, Genina l’aveva voluto per fare Il cielo sulla palude e anche lì aveva preso il Nastro d’argento. Era di una bravura eccezionale. Pederasta, ma questo non vuol dir niente, hanno una sensibilità superiore, è chiaro. O inferiore, non lo so, ognuno si tenga il merito suo… Perché Aldo pensava che con Welles non sarebbe andato d’accordo? Welles ne aveva cacciati via tanti di operatori. In Marocco ne aveva cacciati tre, proprio mandati via, aveva fermato il film e altri erano venuti a sostituirli. Aldo aveva paura di fare la stessa fine, tanto più che per lui tante cose erano nuove… La fotografia la fanno in due, chi sta alla macchina e chi prepara le luci; il regista è più vicino a quello che sta in macchina, vuole che l’inquadratura stia lì, che finisca là, che il piano sia giusto; col direore delle luci invece parla poco, perché ci capisce poco. Aldo non sapeva stare in macchina, non conosceva bene la macchina da presa, e portandosi me stava più tranquillo. Welles pure era tranquillo, voleva che io stessi in macchina perché come operatore dicevano che ero bravo. Però Welles stava sempre sul chi va là, non gli si poteva dire che aveva sbagliato, che la scena non era venuta bene…
Ricorda una sceneggiatura o si tendeva a improvvisare? No, Welles si era preparato bene. Teneva molto a Shakespeare, adorava i suoi testi, era molto severo in questo, era tuo scrio. Gli inglesi lo ritenevano un grande conoscitore di leeratura inglese, e lui ci teneva a fare bella figura con gli inglesi. Solo che di sceneggiature ne avrà scrie tre-quaro. Scriveva, buava, riscriveva… Andò cinque-sei mesi in Marocco e quando tornò fece rifare tuo perché gli piaceva di più la fotografia di Aldo. E volle rifare il Marocco dentro i teatri di Venezia. Buò via i negativi, e ricominciammo. Ma riportare la luce del Marocco in teatro è stata veramente una fatica enorme. Scaccianoce, l’architeo della Scalera, era preoccupato di averne a sufficienza. Perché alla Scalera c’erano poche lampade, quelle più importanti, i proieori, abbiamo dovuto farle venire su da Roma. Perciò durava un’eternità ’sto film! E durante le riprese era una lite continua, perché Welles era di una precisione incredibile, faceva inquadrature a non finire. Il macchinista, l’elericista stavano tui aenti perché a ogni postazione c’era da cambiare qualcosa che non si doveva vedere: la “bandiera”, il proieorino, il carrello… insomma bisognava stare con le palle sveglie. In una scena c’era una trentina di posizioni: Welles si fermava, parlava, incontrava un altro, poi parlavano, e il carrello doveva girare indietro, poi andare avanti, poi indietro: allora non c’erano gli zoom e bisognava fare tuo col carrello, preciso. Welles guardava ogni cosa, aveva gli occhi a 360 gradi: i macchinisti segnavano 1, 2, 3 per terra, ma lui non voleva vedere scrio per terra col gesso… Insomma, era uno che rompeva i coglioni. Nelle prove tuo andava bene, ma quando giri, ciak! partito! senti ’sto motore, il silenzio… è logico che c’è un po’ più di emozione… Lui fa due o tre movimenti, viene fino al primo piano, però io vedo dalla macchina che si sbaglia, invece di pigliare un piede ne piglia un altro ed esce dall’inquadratura. Lui se ne accorge e fa: “Stop! Alvaro, ho visto che la macchina s’è mossa.” Dico: “Orson, io non l’ho mossa. Però se dici così, allora sarà così…” I rapporti fra Welles e la Cloutier com’erano?
I primi giorni… Welles aveva il vizio di mangiare i bruscolini. Dentro c’è il fruo, la buccia bisogna buarla via, e lui, sapendo fin dove inquadrava la macchina, gliela sputava addosso mentre lei recitava. La Cloutier, poveraccia, doveva recitare in un inglese perfeo e questo figlio di buona donna le sputava addosso, durante la ripresa! Alla fine: “Non si fa così, bisogna rifare la scena.” Le faceva vedere come, ed era bravissimo. Lei la sera veniva a piangere da me. E io: “Amore mio, o te ne vai o devi subi’, lui non lo possiamo cacciare via.” Un giorno quest’arice viene a sapere che la madre a Londra sta male. “Alvaro, io me ne vado.” “No, no, dillo a lui prima, sennò poi ti cerca.” Va da Welles che gli dice: “Tu non ti muovi, non te ne vai in nessun posto.” “Ma mia madre sta male, malissimo, vado un giorno e ritorno.” “Non ti devi muovere!” Io guardo il copione, sapevo che non c’erano scene sue: “Guarda, per tre-quaro giorni puoi stare tranquilla.” esta piglia e parte. Welles non dice niente, non la cerca, però va pure lui a Londra, dove aveva degli impegni. Entra in un ristorante e la trova là! esta, poveraccia, si mee a piangere. E lui va lì a dare i pugni sul tavolino: “Ti avevo deo di non muoverti da Roma, chi t’ha fao venire qua?” E quella: “L’ho deo a Alvaro, e Alvaro…” Welles dava i pugni sul tavolino, spingeva, lei piangeva… Da un altro tavolo si alza Peter Ustinov, me lo raccontò poi lui, va vicino a Welles e gli dice: “Senti, adesso basta. Smeila, la stai facendo piangere, non è da uomo…” Litigano. La maina dopo vedo rientrare la Cloutier e capisco che dev’essere successo qualche casino. “Alvaro, ho dovuto dire che sei stato te!” “L’animaccia tua! Ora me tocca anda’ via pure a me!” Welles arriva e mi guarda storto. “Tu, dobbiamo fare i conti, io e te.” “Facciamoli subito, non perdiamo tempo.” “Hai fao una cosa che è contro la mia volontà, io avevo deo di no, perché… sapevo io il perché!” Io ero pronto ad andarmene. Lui mi guardava drio pensando che io abbassavo gli occhi, io non lo facevo e allora lui sfilava: non ebbe il coraggio di affrontarmi. Nel cinema lo sapevano che ero un fumantino, che non sopportavo le critiche. Giusto Papi insisteva: “Alva’, non ti muovere.”
Come mai Welles ha tenuto Papi? Papi è rimasto a fare l’organizzatore a Roma, ma lì a Venezia ha dovuto abbandonare. A Roma certo, ci voleva, era stato lui che aveva preparato tuo il film, sapeva tuo lui. Ma con Welles non si potevano vedere, quando si incontravano erano due sconosciuti. Nel fraempo Peter Ustinov viene a Venezia a trovare la Cloutier e io mi rendo conto che sta nascendo qualcosa. Ustinov a Londra era un dio, la regina lo adorava, entrava a Buckingham come se andasse nel suo camerino; perciò Welles cercò di ruffianarselo. Voleva far pace con lui, forse non sapeva bene chi era quando litigarono al ristorante. Invece Ustinov gli mee la mano davanti e gli dice: “Stai lontano che è meglio. Non per me, ma per te.” Proprio così. La sera noi mangiavamo in un ristorante e pure Ustinov stava lì; appena uno faceva cenno di venire, l’altro se ne andava. Welles si alzava dal tavolino e Ustinov si alzava dal suo. Sembravano due guii napoletani. In pratica fu grazie a lei che Ustinov e la Cloutier si incontrarono e si sposarono. Ebbero anche dei figli. Poi si son separati lo stesso, però è grazie a me in fondo che si sono conosciuti. Alcuni anni dopo, andai in Sicilia a fare un film di Fregonese proprio con Ustinov. Un giorno Ustinov mi chiese di accompagnarlo all’aeroporto. ando Suzanne Cloutier scese dalla scalea, invece di andare ad abbracciare lui abbracciò me: “Alvarooo.” E Ustinov: “Ma come la conosci?” “Ma lo sai che ho fao il film a Venezia…” Non si ricordava più. Io stesso non avevo legato il fao del matrimonio, pensavo che con la Cloutier fosse stata una relazione veloce. Invece la piccolea lo aveva incastrato bene. Poi Ustinov venne a Roma, prese con la moglie una villa con piscina sull’Appia Antica, vicina a quella di Mastroianni; è stato anche qui, a casa mia. A Londra mi portò perfino a cena con la regina. Ho leo anch’io dei pianti della Cloutier, ma pare che avesse un bel caraere pure lei.
All’anima! Guardava Welles con odio, e lui questo non glielo perdonava. ando lei gli faceva gli occhi di fuoco, lui avrebbe voluto andare a menarla, ma si fermava. Era una loa continua fra tui e due e io spesso mi meevo in mezzo. Certo levavo lei, non lui. E quando la Cloutier spiegò a Ustinov che Welles le sputava addosso, Ustinov gli corse dietro in teatro con una sedia. Il caraere di Welles era terribile. Pauroso e mascalzone, se alzavi la voce si fermava, sennò aggrediva. Uno strano animale. Mi sono fao l’idea che volesse meere le persone alla prova, vedere come gli rispondevano. Può darsi. E quando le trovava a un certo livello… … si fermava. Sennò te pistava proprio. Ricorda qualche scena particolarmente difficile? Il finale, che abbiamo dovuto costruire alla Scalera a Roma. C’era tua un’impalcatura, un trabanello altissimo. Con un buco sopra. Esao. La macchina doveva scendere giù con un carrello, perché – ripeto – non c’era lo zoom, tua una carrellata da venti metri circa che scende giù a poco a poco fino ad arrivare al piano di lui morto sopra al leo. Avete usato una gru? No, non avevamo gru. Dall’impalcatura del teatro c’erano delle funi e dei binari. Però ’sti binari bisognava tenerli belli fermi inchiodati, perché nelle giunture ballavano un po’ e a quell’altezza diventava tuo molto evidente, e invece bisognava scivolare. E allora vai col borotalco… Usavate il borotalco? Per far scivolare le ruote. Le ruote sono sempre dirie, però se l’operatore sta sopra, o se c’è un elericista che tiene la lampada sul carrello, basta poco e le ruote vanno a finire sul bordo del binario. Fu un lavorone. Lì Welles era nervoso.
Ma in tuo il film ci ha fao soffrire l’animaccia nostra. Con lui ho fao un film ma non ce ne avrei fao un altro. Io dentro di me abbozzavo, però qualche volta mi sfogavo. Aldo, poveraccio, si mangiava i fazzolei. Mi diceva: “Calmati.” “Ma calmati te,” noi romani siamo più menefreghisti, ne abbiamo viste di tui i colori. Comunque Orson era un genio. Faceva delle inquadrature che ti faceva diventa’ mao però erano di una bellezza… E quando gli andava bene era un pezzo di pane, ti adorava. La sera ci dava appuntamento in teatro per la maina successiva alle nove, e lui arrivava alle sei di pomeriggio! Lei pensi, macchinisti, elericisti, tui ad aendere! E quando arrivava, sapendo che trovava la troupe in fermento, entrava nello studio con tue le troie di Venezia e con uno che suonava la fisarmonica! Che gli fai a uno così? Cercava di rimeere tui di buonumore? Certo, lo faceva per la troupe, perché sapeva che era in torto. Arrivava con le donne per tenere tui allegri, queste ballavano, giravano, ti davano i bacei per tranquillizzarti… ando vedeva che uno cominciava a sorridere, allora: “Via, ricominciamo, forza, azione!” Waszyński se lo ricorda? Nelle prime fasi di lavorazione le cronache lo definiscono addiriura co-regista. Nooo, era un suo grande collaboratore, una specie di aiuto regista. Sa niente di una partecipazione della Lollobrigida e di De Sica? Della Lollobrigida no, ma di De Sica ogni tanto parlavano. Per riconoscere la nazionalità italiana al film c’era bisogno di aori italiani, ma aveva preso per delle figurazioni alcuni aori del Centro sperimentale, li meevano là, gli davano la paga e li mandavano a casa. Di veri e propri aori italiani c’era solo la Padovani, che Welles cacciò via. Mac Liammóir, l’aore che interpretava Jago, lo ha conosciuto?
L’ho solo visto, non ci ho mai parlato. Bravissimo, ma io non parlavo la lingua, me lo vedevo solo passare davanti truccato. A Venezia dove avete girato esaamente? Alla Giudecca. E nella chiesa di Torcello. Ha assistito a qualche gioco di prestigio di Welles? Mai visti, perché appena lui cominciava io me ne andavo. Finito di lavorare, io avevo sempre appuntamenti vari, mentre lui riuniva tui. “Aspea, aspea,” mi diceva. “Sì sì, torno subito,” e scappavo. Gli piaceva fare il mago. Forse gli piaceva soprauo farsi ammirare. Tua la sua grande aività era quella, fare vedere quanto era bravo. Ed era bravo. Io pure lo sfoevo, ma era bravo. Cosa ha imparato lavorando con Welles? Le inquadrature. I movimenti di macchina, che lui faceva di una dolcezza… Li faceva ripetere venti volte ma bisognava che fossero esaamente come li voleva. Ho imparato la precisione, perché con lui si doveva essere precisi. Sennò in proiezione erano cavoli. “Ti avevo deo di guardare un po’ più in là, hai spostato la ‘bandiera’…” Ai giornalieri c’era sempre da litigare. In quanti vedevano i giornalieri? Lui, il direore della fotografia, gli aiuti registi, gli aiuti operatori, e delle volte il montatore, ma già verso la fine, che era Lucidi. Gli aori mai. Con periodi di stacco anche di mesi, come faceva Welles a ricontaare tui? E difai era tua gente nuova. Io all’inizio non c’ero qui a Roma, iniziai a Venezia, con Aldo, quando gli altri non vollero venire. Lei non andò mai in Marocco?
No. Lì c’erano altri operatori, inglesi e francesi. Non so manco i nomi. Vediamo: Anchise Brizzi. Ah, lui sì, ma era stato a Roma, quando fecero i provini. All’inizio del film. Poi partirono per il Marocco, e Brizzi non ci volle andare. Brizzi era un dio fra gli operatori e con Welles aveva capito il tipo… George Fanto. Non so… Alberto Fusi. Fece qualche cosa come operatore di macchina, in Marocco credo. Oberdan Troiani. Oberdan Troiani sostituì me gli ultimi giorni del film, alla Scalera di Roma. Forse ha coperto un pochino in Marocco. Perché in Marocco ci sono andati tre-quaro volte, mica una. Tonino Delli Colli? Ah, uno dei più grandi in Italia. Doveva stare all’inizio con Brizzi. Da un punto di vista fotografico doveva essere un bel problema legare scene diverse, girate da tanti operatori diversi. Com’era possibile mantenere una luce uniforme? Era Orson Welles che diceva che tipo di luce ci voleva… Lui preferiva i tagli di luce. Per il Marocco, voleva tue sciabolate. Lui stesso, che era un drio, si meeva molta vaselina sul viso, e allora brillava, si vedevano veramente i pori, gli occhi “uscivano”. Prese Aldo proprio perché era uno che “tagliava” molto. Io ero più calmo, però lì anch’io feci un po’ come Aldo. Welles aveva visto La terra trema? Eh. Aveva visto La terra trema, aveva visto il film di Genina, e anche quello che avevamo fao con Moguy.
Parlavate in italiano con lui? Io un po’ in italiano e un po’ in francese. Gli altri tui in inglese. Lui un po’ d’italiano ormai lo aveva afferrato, specialmente le parolacce. E cosa pensava degli italiani? Non s’è mai saputo. Però non aveva stima. Né fiducia. Ogni tanto sparava: “Traditori.” Rispondevamo: “Affanculo.” “Fanculo a me no.” “E allora non dire traditori.” Ha visto Otello finito? L’ho visto in proiezione perché da direore della fotografia dovei andare allo stabilimento di sviluppo e stampa per regolare tuo. Welles chiese a me di andare a “meere le luci” proprio perché vengo dagli stabilimenti di sviluppo e stampa. E le piacque il risultato? A me sì. Un film straordinario. Commovente, bravo, forte, scene meravigliose. I piori erano tui della Scalera. Welles li amava molto, erano bravi. Lui stesso si meeva a dipingere, noe e giorno, a fare i fondali. Fu un film difficilissimo, un po’ per il caraere di Welles, un po’ per le situazioni, un po’ perché era complicato, un po’ perché non c’erano soldi. Già si sentiva su a Venezia: “I soldi li pigliamo ’st’altra seimana.” “Oh, ma qui dobbiamo paga’ l’albergo,” qualche volta rimandavano. Otello ha fao fallire la Scalera. E gli Scalera erano quelli che facevano le strade durante il fascismo, gente miliardaria, riuscire a farla fallire… Però all’epoca di Otello gli Scalera erano già in difficoltà. Sì, sono stati sempre in difficoltà, però erano sempre miliardari… Come mai lei non completò con Welles? Perché dopo tui questi mesi io avevo impegni con altri film. Avevo deo a Gentilomo che avrei fao il suo film, Ao di accusa. I produori, Carpentieri e Donati, mi dicevano: “Alvaro, per carità, non ci tradire.” Cominciarono con un
operatore inglese, Gentilomo lo cacciò via e arrivai a sostituirlo io. E per farlo sospesi il film di Welles. Nel cast c’era Mastroianni, un grande amico, e ci ritrovai anche la Padovani, che faceva finta di niente… Aldo finì la scena alla Scalera e andò via. Andammo via quasi insieme. Aldo s’era arrabbiato molto con me: “Perché mi lasci?” Sa com’è, ognuno cercava di cominciare la strada, era così difficile iniziare… Perché Aldo andò via? Lavorare con uno del genere di Welles era difficile. Aldo era entusiasta dell’uomo, affascinato. E anche lui era bravo, però i grandi registi temevano sempre Aldo: quando uno non è padrone della macchina da presa, è sempre… sa, ci sono i diaframmi, le situazioni di macchina… E Welles tue queste cose le conosceva. Madonna! Era preciso, precisissimo, tecnicamente aveva un cervello! Nella Debrie c’è uno specchieo davanti che si apre e si chiude quando cambi gli obieivi, e quando si sta al buio il personaggio illuminato si riflee nello specchieo; mentre recitava, con la coda dell’occhio Welles si guardava e controllava se l’inquadratura era precisa. Come mai il suo nome non compare sui titoli del film? Perché avevo troppi film miei in giro, e le tasse mi ammazzavano. Lì avevo guadagnato bene, anche se non ci meevo il nome non me ne fregava niente. Sa, a quell’epoca in Italia facevamo trecento film l’anno, se non ne facevo uno, andavo a farne un altro… Non meere il nome mi ha danneggiato, per la verità, perché il film di Orson Welles era importante, e il nome mio sarebbe apparso come quello di Aldo, però dissi ma chi me lo fa fare di dover pagare le tasse? Basta che ti vedono una volta su un film importante, ti acchiappano, vanno a vede’ i contrai, la SIAE, e non scappi più. Io per fortuna sono sempre scappato. Magari aveva il dubbio che con tui i problemi che c’erano, il film non si sarebbe completato mai?
Ah, di questo eravamo tui convinti nella troupe. Oggi ci stiamo, domani chissà… Lo dicevano anche i truccatori. Comunque mi pare di capire che Welles in Italia non meesse in soggezione proprio nessuno. Robert Taylor ha fao film eccezionali ma qui lo pigliavano a calci nel culo. Roma è Roma, non c’è niente da fare. Poi esse’ Gesù Cristo, dopo due giorni che ti vedono a piazza Navona o a Campo de’ Fiori sei uno stronzo qualunque. A Roma i fotografi gli davano le spinte. “Guarda, c’è Orson Welles!” “Ma che ci frega di Welles, c’è Richard Burton e la Taylor!”
11. Ulisse a Taormina
is all happened in Sicily, which is as good place for a honeymoon as there is anywhere in the world. All sunshine, full moons, and orange blossoms. Ideal… Orson Welles in e Adventures of Harry Lime: Honeymoon
Le riprese di Otello ricominciarono il 31 gennaio 1950 a Mogador. “Mentre aerravamo ancora una volta a Casablanca,” scrive Mac Liammóir, sono stato colto da uno strano senso di eternità in relazione all’Otello cinematografico.” La situazione si era sbloccata grazie a Edmond Ténoudji, un produore ebreo franco-algerino che aveva acceato di investire dodici milioni di franchi in cambio dei dirii di distribuzione in Francia. In questa fase il direore principale della fotografia è George Fanto, anche se molta parte delle riprese furono curate da Oberdan Troiani. Alexandre Trauner e Michał Waszyński non c’erano più, sostituiti da un nuovo scenografo, James Allan, e da un giovane assistente alla regia, Patrice Dally. E se qualche aore non era disponibile, Welles aggirava l’ostacolo utilizzando il primo che gli capitava a tiro. “Ogni volta che si vede qualcuno di spalle,” spiegò poi, “con un cappuccio in testa, si può esser certi che si traa di una controfigura.”1 A Mogador, Welles riuscì finalmente a completare alcuni dialoghi fra Jago e Otello e la scena dell’aacco epileico del Moro; altre sequenze, in gran parte di raccordo, furono girate allo Château di Safi. Il lavoro più pesante ebbe luogo dentro un’enorme cisterna di pietra del XV secolo, costruita nel cuore portoghese della cià di Mazagan, aperta sul cielo da un largo orifizio. Per giorni, Orson e la sua troupe respirarono aria fetida, i piedi a mollo in poche dita d’acqua, per girare la scena della zuffa con varie controfigure nei
panni di Jago, Cassio e Roderigo. Welles fece scurire l’acqua con l’anilina, e, estasiato da pozzanghere e gocciolii, continuò a farne geare a secchi sulle pareti, finché Troiani oenne un effeo migliore schizzando gli acquitrini con della sabbia. Stremato dal lavoro, Fanto tornò una sera in albergo con la febbre alta e la gola in fiamme, e Welles per tua risposta gli scrisse un paio di bigliei in cui lo accusava di aver lasciato il set anzitempo: “Un operatore che lavora con scadenze serrate come queste deve essere piuosto duro – e lavorare con me lo è ancora di più.”2 Mary Alcaide resisteva eroicamente a tue le intemperie. “O. mi ha affibbiato diversi soprannomi dei quali bisogna che faccia una lista. Finora: Sexy, AMLA (America’s Most Leaden Ass) [il Culo Più Pesante d’America], Carne e, ultima ma non meno importante, Imperatrice delle Dormite Ardenti. Nel fraempo sono passata dal rango di segretaria a quello di chef. Starsene seduti tuo il giorno in quella cisterna umida è comunque una noia, così almeno ho qualcosa da fare. Visto che ad O. piace riempirsi di caè, ed è una bella passeggiata fino al bar, ho avuto l’idea di meere sei o see tazze di caè dentro una pentola e di tenermela vicina. ando si raffredda prendo in prestito da Vasco, il nostro parrucchiere, una ‘meta’ e piazzo la pentola su due blocchi di legno. Mi siedo, scaldo le mani e il caè e canto vecchie canzoni di cowboy, gli altri si uniscono e ci divertiamo tui quanti.”3 (Le meta, mi spiegò la Alcaide, erano stecche infiammabili, bianche come gesso, che il parrucchiere Vasco Reggiani utilizzava per arroventare il ferro con cui rendeva ricci e moreschi i capelli di Orson.)
Orson Welles riprende Suzanne Cloutier a Safi, nel febbraio 1950.
Alla troupe si era aggiunta nel fraempo Barbara, la nuova fidanzata di Welles, una giovane svedese che negli anni successivi ebbe qualche esperienza come arice, e che in seguito, cambiata vita e ambiente, decise di far perdere le proprie tracce. Anche se Mary Alcaide, al suo arrivo, dovee lasciarle la propria stanza, le due divennero subito buone amiche e con Suzanne Cloutier fondarono una società di mutuo soccorso, “un club chiamato Mabasu, che sta facendo impazzire O. perché non riesce a immaginare cosa possa significare. È fin troppo semplice: MAryBArbara-SUzanne. È una società di mutua protezione contro uomini e pulci.”4 (Mac Liammóir, l’8 febbraio: “Orson e Hilton reagiscono con disgusto e citano frasi di Nietzsche a proposito delle donne.”) L’amicizia con Barbara portò Mary a condividere con lei e Orson una memorabile serata a Casablanca, con una visita all’interno del “quartiere proibito” che si concluse dentro l’abitazione di due ballerine arabe: “Era confortevole e pulita e ci siamo seduti a scherzare amichevolmente. O. sosteneva che Barbara e io fossimo le sue mogli, aggiungendo di averne altre oo a casa a prendersi cura dei suoi sedici figli. Entrambe le ragazze sono rimaste scioccate a morte quando O. ha deo che ci portava entrambe a leo contemporaneamente. Nel loro mondo l’uomo va a leo con una moglie per volta, che lascia le sue pantofole fuori dalla porta in modo che le altre lo sappiano.”5 Nel clima cameratesco di una lavorazione piena di difficoltà e di imprevisti (“il nostro lavoro dipende da talmente tante cose… nuvole, gabbiani, marea e vento ecc.”)6, con una sistemazione quantomeno precaria (stanze sporche e niente acqua), le tre donne procurarono di dividersi lo stesso leo, il migliore dell’albergo, dormendoci a rotazione a due per volta. Nemmeno Welles resistee, e pur di dormire a Casablanca si faceva ogni noe 150 km da Mazagan. Il giorno dopo, naturalmente, le riprese non iniziavano prima di mezzogiorno. Nel testo shakespeariano di Otello non si dice nulla della pena destinata a Jago; Lodovico si limita a esclamare (sono quasi le ultime baute del testo): “A voi, governatore, il giudizio su questo malcreato furfante: tempo luogo tortura a vostra discrezione. Punitelo.”7 Welles decise di dare una spiegazione e una visibilità a questa promessa di morte richiudendo Jago in una gabbia di ferro esposta al sole e alle intemperie.
Da dove gli venne l’idea? A Bogdanovich avrebbe citato la morte di Abd el-Krim, capo di un’insurrezione araba, rinchiuso in una gabbia e trascinato per miglia da un asino per mostrarlo a tue le tribù; ma la prima ispirazione gli era di certo arrivata durante le riprese del Principe delle volpi, quando Borgia/Welles aveva promesso a Orsini/Power un analogo traamento: “Domani verrai esposto in una gabbia sulla torre del castello e vi rimarrai come speacolo e monito fino a che le tue ossa non cadano a pezzi.” Il povero Mac Liammóir fu quindi assicurato con un collare di ferro a un lungo catenone, e tirato, straonato, trascinato per un giorno e mezzo in un piazzale di Mogador da gruppi di comparse. Il seguito della sua pena venne girato nel porto di Mazagan: imprigionato dentro la gabbia più grande, l’aore fu issato e abbassato svariate volte, suscitando la più viva ilarità in gruppi di arabi plaudenti. Di gabbie ne furono costruite in tuo tre esemplari: una in miniatura e una intermedia, utilizzate in varie scene come minaccioso annuncio di morte, e una a grandezza naturale. Welles utilizzò i modellini preparati da Troiani in diverse altre occasioni. Tue le navi veneziane sono imbarcazioni in miniatura, e il marinaio che compare su una di esse è un macchinista salito sul teo del ristorante della Scalera e filmato in asse con un modellino navale in primo piano; una schiera di soldati armati di lance venne evocata con una mano sulle cui dita erano infilati dei ditali legati a semplici stecchini; un catino d’acqua posto accanto a un lenzuolo steso restituì dentro l’obieivo la vela di una nave sul Mediterraneo. Il trucco più straordinario è la botola che si chiude sul protagonista moribondo: Welles aveva deciso che Otello avrebbe rivolto le sue ultime parole verso Cassio e altri gentiluomini che lo osservano araverso una botola sul soffio, una specie di grande occhio che si apre sulle ultime parole dello sventurato Moro e si chiude come una pietra tombale sulle spoglie mortali dei due sposi. L’ispirazione scenografica gli venne quasi certamente dal quarocentesco oculo della Camera degli Sposi, eseguito da Mantegna per Ludovico Gonzaga e sua moglie Barbara di Brandeburgo nel castello di San Giorgio a Mantova, uno straordinario trompe-l’oeil che “sfonda” in prospeiva il soffio, aprendo un finto foro circolare su cui si affacciano pui, ragazze e un cielo azzurro; lo stesso colpo d’occhio realizzato nella cisterna di
Mazagan per la scena della zuffa con Jago, Cassio e Roderigo. Nella chiesa di Viterbo in cui era stata girata la morte di Desdemona non esisteva però nessuna apertura circolare; Welles chiese a Troiani di costruire uno sportellino da porre vicino all’obieivo della macchina da presa, che un macchinista potesse aprire e chiudere; appollaiati su un praticabile, Cassio e gli altri personaggi avrebbero contemporaneamente fao il gesto di spalancare e serrare, dando l’illusione di una botola a grandezza naturale che in realtà non esisteva.
Mary Alcaide, Welles e Micheál Mac Liammóir a Mogador nel febbraio-marzo 1950.
Sono trucchi semplici ma ingegnosi, deati da esigenze di risparmio, che nel film rimangono in buona parte imperceibili. “Il film non sopporta la menzogna,” affermava Welles nella prefazione a un libro sui trucchi cinematografici scria proprio in quei giorni, “e non è questione di sollecitare la complicità dello speatore. Per l’unica ragione che la macchina da presa è un apparecchio di registrazione. […] A teatro, quando il mago fa sparire un uovo, ci domandiamo come lo faccia sparire. Al cinema, se un uovo sparisce, ci domandiamo come lo abbiano fao sparire. esta differenza di tempo distingue il teatro dal cinema, il trucco dalla magia. […] Il ruolo del trucco cinematografico è di accrescere l’effeo della probabilità. Non possiede alcun fascino specifico; non vuole altro che passare inavvertito.”8
Welles (seduto) e Oberdan Troiani (in piedi dietro di lui) preparano un’inquadratura di Otello con dei modellini.
Il 4 marzo Mac Liammóir segnala nel suo diario la scena dell’arrivo di Lodovico al porto di Cipro, “con tende e tappeti e pavillons e piccole imbarcazioni al largo, e decine di soldati con lance e pennoni fluuanti: un fastoso speacolo, che nella sua indescrivibile grazia, gaiezza e purezza faceva pensare a Monteverdi.”9 Nella stessa data Mary Alcaide scrive alla madre di un’altra scena, ancora più complicata, alla cui lavorazione Mac Liammóir evidentemente non partecipò, “un’inquadratura di prigionieri che si ribellano dentro le loro celle. […] Gli arabi più torvi che tu possa immaginare sono stati spinti soo degli archi con alcune sbarre piazzate davanti a simulare delle prigioni. Solo che invece di ribellarsi, hanno impugnato dei secchielli di laa e cominciato a baerli ritmicamente, cantando e facendo danze da mai. Fin troppo per degli aori presi dalla strada!”10 conclude citando ironicamente una delle più note caraeristiche del cinema neorealista. Dopo un mese d’intenso lavoro i diari paralleli di Mac Liammóir e della Alcaide lasciano trasparire una certa stanchezza da parte di tua la troupe, Welles compreso, e la tentazione della nostalgia. “L’ultimo soprannome che O. mi ha dato,” scriveva la Alcaide, “è ‘il mio bersaglio preferito’. La noe scorsa è rimasto seduto al tavolo di cena e non ha fao che geare palloole di pane, tappi, scatole di fiammiferi e bucce di mandarino araverso la stanza, ridendo sguaiatamente ogni volta che colpiva il bersaglio… la mia testa. Naturalmente non gli ho negato questo gioco innocente, dopo tuo
non mi faceva male e poi lui dice che reagisco in un modo così tipicamente americano da renderlo nostalgico di casa. Anch’io ho nostalgia di casa.”11 Il 7 marzo Welles e Mac Liammóir girarono la scena in cui Jago porta al parossismo la gelosia del Moro, giurando di aver sentito Cassio dire di aver giaciuto con Desdemona (“giaciuto con lei… o su di lei… A piacer vostro”): un impetuoso carrello seguito da una serie di concitati campi e controcampi, con i due personaggi intrappolati soo un teo di canne e assicelle, fustigati da raggi di sole e fasce d’ombra. La scena venne ripetuta see volte, dopodiché Welles abbracciò Mac Liammóir e gli annunciò che, dopo un anno di riprese, il suo lavoro era terminato. Il diario dell’“onesto Jago” si conclude a questo punto, con l’annuncio di un’ultima seimana di lavoro a Perugia, e l’augurio di ritrovare presto Orson per nuove magnifiche imprese: un nuovo film in Irlanda, una tournée teatrale per mezza Europa, l’organizzazione di un festival in Vaticano… Mac Liammóir e Hilton Edwards tirarono un sospiro di sollievo e ripresero finalmente il volo per Dublino. In realtà il film non era vicino alla conclusione e Mac Liammóir non aveva affao completato le sue scene. L’interruzione del diario a questo punto ha una precisa ragione diplomatica: omeere il lungo successivo contraare con Orson per oenere la propria paga. A parte il vio e l’alloggio nei migliori alberghi marocchini, francesi e veneziani, Micheál e Hilton non erano infai mai stati retribuiti e, dopo avere rinunciato a due stagioni teatrali per seguire Welles, avrebbero penato a lungo prima di riuscire a oenere il pauito. La stessa lavorazione di Otello era lontana dalla fine: ci sarebbe voluto almeno un anno e mezzo prima che fosse pronta una copia del film, più o meno definitiva. Ma al momento mancava di nuovo il contante. Welles si mise a caccia di nuove sovvenzioni, annusando possibili finanziamenti portoghesi. Prima di scomparire alla volta di Lisbona, consegnò a Troiani un prontuario di scene da realizzare a Mogador, tre fogli bauti a macchina in un italiano saltellante e imperfeo, accompagnati da foto e provini su cui Orson aveva disegnato le posizioni degli aori e gli effei desiderati. Le indicazioni sono estremamente precise, sia dal punto di vista dei movimenti voluti, sia per le osservazioni accessorie: “Cannoni che sparano dalle mura come gia stabilito […] esta scena dovra essere di effeo alba e
tramonto. Si capisce che alba puo andare per tramonto e vice versa. Pero suggerisco girarlo la maina e anche il pomeriggio tardi. […] La seconda scena è una inquadratura a piombo dalla torre. esto lo faremo con un 40 se questo era l’obbieivo usato per fare le due fotografie che ho marcato e che inchiudo qui dentro. […] L’erba che cresce sul mura dev’essere strapato e li bisogno meere nove o dieci soldati ben vestiti dei quali uno o due devono passeggiare su e giu lentamente ma non in modo troppo evidente. […] Se è un giorno senza vento levare le bandiere dagli stendardi e usate soltanto i stendardi perche sarebbe ridicolo avere le bandiere ferme. […] La macchina non si muove da Otello al castello ma dal castello atraverso il muro a Otello: contrario a quello che sembra logico. […] La macchina deve’essere tenuta in mano e deve seguire i movimenti dei gabbiani per dare l’illusione di delirio. […] L’inquadratura dei cannoni che sparano e l’alzata di Otello dopo l’epilessia debbono essere girate con pellicola inglese…” e così via fino alla conclusione, scria in un minaccioso maiuscolo: “NON 12 DIMENTICATE I CANNONI. NON DIMENTICATE I CANNONI.”
Primo piano di Otello con sguardo in macchina (inquadratura presente solo nell’edizione italiana del film).
Orson salì su un aereo direo in Portogallo, probabilmente per chiedere denaro al magnate armeno Calouste Gulbenkian. Segretaria e fidanzata rimasero nell’hotel di Casablanca, a “garanzia” del conto da saldare. “Siamo sole adesso che O. è a
Lisbona,” scrive Mary il 10 marzo, “e il resto del gruppo si è lentamente disintegrato. È tuo molto triste ma non vedo l’ora della grande riunione a Perugia dove saremo di nuovo tui insieme con la squadra italiana. L’altra noe mi sono faa coraggio e ho menzionato a O. la mia ambizione di una vita, quella di fare la segretaria di edizione. Al che O., piuosto sorprendentemente, ha deo che pensava che sarei stata abbastanza brava. Ha anche deo che potrei essere la segretaria di edizione nel suo prossimo film, ma da altre conversazioni che abbiamo fao ho dedoo che non intende mai più fare cinema. Vorrebbe trasferirsi nelle isole Canarie e meersi a scrivere. Il Cielo ce ne scampi‼”13 Il viaggio in Portogallo non diede i frui sperati. Poco dopo aver scrio le righe sopra citate, Mary venne “riscaata” con Barbara da Julien Derode e avviata verso Parigi. Le riprese si fermarono per la quinta volta. A Parigi, Mary Alcaide continuò a baere a macchina nuovi soggei, “un dramma teatrale […], tuo politico ma davvero divertente”14 (probabilmente e Unthinking Lobster, ma potrebbe anche essere Fair Warning) e “una storia di vampiri” (Carmilla)15. Welles stava esplorando lavori alternativi, con i quali pagare i suoi aori e finanziare la conclusione di Otello ma le prospeive continuavano a rimanere nebulose. Ancora Mary, dalle leere alla madre: “Sono rimasta A) meravigliata B) sconvolta C) stordita D) depressa – dai suoi discorsi col suo amministratore riguardo le location delle nostre prossime riprese. Germania? Austria? Svizzera? Belgio? Irlanda? Egio? Fulmini e saee! Be’, ad ogni modo domani partiamo certamente alla volta di Roma? di Taormina? di Perugia? di Pavia?”16 In poco meno di due anni, Welles aveva speso tui i proventi del Principe delle volpi, del Terzo uomo e della Rosa Nera, e venduto i dirii di distribuzione del nuovo film in Italia (Scalera) e in Francia (Ténoudji): l’unica cosa che gli rimaneva da meere all’asta era la distribuzione in America e Inghilterra. Perciò ricorse di nuovo all’unico connazionale che fino a quel momento si era rivelato sensibile alle sue suppliche, Darryl Zanuck. La leggenda dice che Welles sia saltato su un taxi romano ordinando al conducente di salire su per mezza Italia e scaricarlo a Cap d’Antibes, in Costa Azzurra. Ci sarebbe arrivato alle quaro di noe, sborsando all’aonito autista una cifra astronomica. In
albergo, chiese subito del produore americano. Lo aspeò, lo abbracciò, lo supplicò, pare si sia messo perfino in ginocchio: “Aiutami, ho bisogno di soldi per terminare Otello! Sono a tre quarti delle riprese ma non ho ancora pagato gli aori!”17 Tre anni prima era stato Welles ad assistere a una scena del genere, quando il dirigente della Scalera aveva pregato Arata di lavorare al Cagliostro. Zanuck, benevolo, gli strinse la mano. In cambio del denaro che gli avrebbe versato, la 20th Century Fox avrebbe avuto il 50% dei dirii di sfruamento di Otello sul mercato anglofono, ovvero Stati Uniti e Commonwealth britannico. Il contrao venne formalizzato a Roma il 28 marzo, presso l’Hotel Eden, fra la 20th Century Fox International Corp., rappresentata da Francis L. Hartley, e la Orson Welles Productions. Trasformata in lire, la somma pauita divenne di 195 milioni, da prelevare presso il fondo cinematografico della Fox alla Banca d’America e d’Italia. Per entrare materialmente in possesso del denaro, era necessario passare la solita trafila della domanda con preventivo alla Direzione generale della cinematografia. Grazie a questa documentazione, sappiamo a che punto si trovava effeivamente il film: nella domanda preparata da Giorgio Papi, si legge che per ultimare la pellicola sarebbero occorse ancora circa dieci seimane, di cui quaro a Perugia (“nella Sala del Palazzo Comunale, nella Sala dei Notari ed in alcune piazze e strade”), due negli studi Scalera (“dove verrà costruita appositamente la costruzione di un castello”, sic), due a Pavia (“negli interni ed esterni della Certosa”), e due ancora a Venezia.18 La previsione di un’ultima sola seimana a Perugia segnalata da Mac Liammóir era dunque piuosto oimistica. O forse Welles, soddisfao del congruo accordo con Zanuck, aveva pensato che valesse la pena aggiungere o rifare qualche scena. La sede della Orson Welles Productions aveva nel fraempo cambiato di nuovo sede, scendendo ancora di un gradino nella scala del prestigio sociale: dall’iniziale Excelsior di via Veneto al Boston, poi all’Eden, ora presso una fantomatica Arcadia Film in via dell’Oca 27, che in realtà coincide con l’indirizzo legale della Scalera; più avanti verrà infine indicato come indirizzo proprio quello degli stabilimenti Scalera. Papi corredò la domanda per lo sblocco dei capitali con un preventivo delle spese ancora da sostenere, per un ammontare
totale di 216.295.000 lire, ma il Ministero del commercio con l’estero ebbe subito da eccepire, soprauo sul compenso del regista (venti milioni, poi ricorrei in trenta). Papi si vide costreo a insistere, a entrare in particolari, a certificare che oltre ai cinquanta milioni già spesi e documentati, Otello fra agosto e oobre del ’49 ne aveva impiegati altri diciassee in salari, liquidazioni, trasporti, costumi e svariate altre voci; anzi, visto che c’erano ancora da saldare alla Scalera quasi dieci milioni per la prestazione degli studi e alcune costruzioni, i debiti assommavano in realtà a un totale di ventisee. Precisò che le riprese ancora da effeuare erano il 60% del film (!), che le dieci seimane di lavoro non potevano essere ridoe e che la nuova sceneggiatura appena sooposta alla Direzione generale dava la possibilità di controllare quantità e qualità del lavoro da svolgere. In quanto al compenso di Welles, perorava Papi, la somma di trenta milioni avrebbe compreso le spese di permanenza in Italia per le riprese e l’iniziale montaggio; considerando che la somma cumulava le mansioni di produore, regista e aore, l’importo non poteva essere ritenuto eccessivo. Alcune voci erano state tenute “logicamente un poco più larghe”, per coprire eventuali aggravi di spesa dovuti a incidenti o ritardi di lavorazione, ma i 195 milioni richiesti sarebbero serviti anche per saldare i debiti contrai (ai giustificativi furono infai aggiunte le spese sostenute fra oobre ’48 e agosto ’49, teoricamente già pagate con i cachet del Principe delle volpi e del Terzo uomo). Nel carteggio fra Orson Welles Productions, Direzione generale e Ministero del commercio con l’estero, questi finanziamenti all’Otello appaiono in bilico fino all’ultimo. L’insistenza di Papi riscosse l’aenzione del direore generale in persona, Nicola De Pirro, il quale intervenne su Luigi Ailio Iaschi, direore generale delle valute presso il Ministero del commercio con l’estero, l’uomo che aveva la facoltà di sbloccare i fondi cinematografici stranieri: “Visto il lavoro impegnativo fao, sia che si esamini il consuntivo speso, sia quanto ulteriormente preventivato, tenuto conto della costosa direzione di Orson Welles che fra l’altro nel film Cagliostro fece consumare più di 120.000 metri di pellicola negativa, e della durata ancora necessaria alla ultimazione dell’opera, le cifre sembrano effeivamente rispondenti agli utilizzi indicati. Esaminando le voci più importanti si rileva che 32.000.000 per la molteplice aività di due anni per un uomo del valore di Orson Welles non sono molti. […] Gli stabilimenti, le costruzioni, le spese
di scena, per circa 80 milioni, occorre valutarle in relazione allo sfarzo di un film prodoo soprauo per i mercati stranieri e quello americano in specie. In considerazione di quanto sopra, ti sarei grato se, sciogliendo le riserve mosse al riguardo, il tuo Ufficio potesse al più presto esaminare benevolmente la pratica interessante lo sblocco di cui sopra.”19 aro giorni dopo, De Pirro scrisse a Iaschi una seconda leera per segnalargli che si erano dissolti anche i dubbi dell’ANICA e dell’Unione produori, in principio preoccupate che i proventi finanziassero produori “di terzi paesi”, ma infine persuase a chiudere un occhio, tenuto conto che il film avrebbe dovuto essere coprodoo dalla Scalera, ormai in una “grave situazione economica”.20 E così il 22 giugno, dopo oltre due mesi di carteggio, il Ministero del commercio con l’estero autorizzò la Banca d’America e d’Italia a sbloccare a favore della Orson Welles Productions 195 milioni di lire per il completamento di Otello. Non tui in una volta, s’intende: il denaro sarebbe arrivato “mano a mano che le necessità finanziarie della produzione lo richiederanno.”21 Mentre Papi s’ingegnava a recuperare il denaro della Fox, Orson ricominciò a cavalcare il progeo di Le avventure di Ulisse. Dino De Laurentiis, che lavorava da tempo a una sua Odissea, non era affao contento di eventuali concorrenti: quando il progeo di Welles ricomparve sulla stampa, il produore italiano entrò in fibrillazione e si preparò al duello. I giornali riferirono di una vertenza giudiziaria, poi la smentirono. alche seimana dopo, De Laurentiis decise di calare l’asso: annunciò che per dirigere il suo Ulisse aveva messo soo contrao Georg Wilhelm Pabst, l’autore di La via senza gioia e Il vaso di Pandora. Welles non si scompose: all’inizio di aprile dichiarò ai giornalisti francesi che il suo progeo sarebbe comunque andato avanti. Intanto Pabst arrivò in Italia, fece qualche sopralluogo e proclamò in conferenza stampa che il film sarebbe stato girato fra Sicilia e Calabria, a colori; Greta Garbo, addiriura, sarebbe ritornata al cinema per interpretare Penelope. Secondo Peter Noble, a questo punto Welles mandò a De Laurentiis la sceneggiatura di Borneman proponendogli di finanziare la sua versione. Il produore la lesse, la trovò radicalmente diversa dalle sue aspeative commerciali e la rinviò al
miente. Welles tenne duro: continuò a dichiararsi pronto a girare e interpretare il suo Ulisse. E intanto che De Laurentiis pensava a una contromossa, se ne andò in Sicilia a riposarsi e a ruminare altri progei. La sera del 6 aprile Giorgio Papi andò a prendere Mary Alcaide alla guida di una Citroën di proprietà di Welles e la scarrozzò da Roma giù giù fino all’albergo Diodoro di Taormina. Orson aveva preso una stanza tranquilla, appartata, dotata di balcone con un’oima vista, con ordine al concierge di non essere disturbato da nessuno. Intanto che Welles si rilassava facendo un giro turistico dell’isola, Mary rimase a baere a macchina le note per la Carmilla progeata con Mac Liammóir e Edwards, e a leggere i libri che il “Master” le aveva consigliato “per migliorare la mia mente, che, mi assicura, è notevolmente inferiore”.22 Tornato a Taormina, Welles venne raggiunto da Lori, la fidanzata italiana (nel fraempo, come in una pochade, quella svedese telegrafava da Parigi a Mary per chiederle di usufruire del suo appartamento romano). Il trio andava tui i giorni a visitare qualcosa o a mangiare in un nuovo ristorante: una volta un pranzo vicino al cratere dell’Etna, la sera dopo un nightclub dove Orson si esibì a far trucchi con le carte, la sera successiva ad assistere a uno speacolo di pupi siciliani “a Catania, in una vecchia stalla nascosta dietro una discarica”, da cui Welles uscì “scherzoso e allegro come un ragazzino”.23 All’albergo Diodoro, un cronista lo avvicinò nella sala del ristorante, dove mangiava in compagnia di Mary e di un grosso cane lupo che si nutriva da un piao poggiato sulla stessa tavola. Sorridente, il mento ornato da una gran barba, Welles rivelò di aver appena ricevuto la proposta di interpretare l’Ulisse concorrente: “Il soggiorno a Taormina rispondeva ad un mio vecchio voto. Ogni anno vengo in Sicilia, e in queste contrade, nella serenità dei suoi luoghi e delle sue campagne, rivivo i miei personaggi o mi accingo ad impersonarne di nuovi. esta volta sono giunto con un voluminoso copione faomi pervenire da Pabst: prima di acceare l’offerta, voglio studiare se il mio temperamento riuscirà ad interpretare oimamente quell’Ulisse che il film vorrà rappresentare. Aualmente ho soo pressione, e ne sono quasi al termine, un altro gran film: Otello, che ho iniziato nel Marocco e che termino a Perugia, nella quiete dell’Umbria verde. esto film esige una preparazione non solo artistica, ma spirituale: e mi
auguro di esser riuscito nella mia parte. In questa perenne quiete della vostra Sicilia, ho pensato varie volte ad un film a sfondo siciliano: varie offerte mi sono state fae, soprauo dopo Vulcano e Stromboli, fino ad ora però nulla ho deciso. Il film vorrei scriverlo io, vorrei che in esso si riversasse il lato umano della Sicilia, la sua pace e il suo amore per il bello… Forse lo scriverò io il copione, se ne avrò tempo, e verrò quassù a Taormina di nuovo ad ispirarmi…”24 In una pausa di Otello, Welles valutava l’ipotesi di Ulisse e intanto pensava a un altro progeo! Il nuovo “copione” a cui accennava è probabilmente Lovelife, conosciuto anche col titolo italiano Luna di miele, un progeo che, da quel poco che si sa, si sarebbe concentrato sulle ossessioni sessuali dell’alta società. Il primo annuncio sarebbe stato dato in Francia poche seimane dopo, a maggio, quindi rilanciato sul “Corriere d’Informazione” araverso alcune dichiarazioni di Welles: “Io farò […] un film sulla gente oziosa. La gente che s’incontra sulla Costa Azzurra, per esempio, che ha molto denaro e lo spende.” “Orson Welles,” chiosa nell’articolo Arturo Lanocita, “ritiene che anche gli uomini e le donne senza necessità e senza voglia di lavorare siano titolari di un dramma; e si propone di portarli in un film proprio perché il cinema non si occupa mai di essi.”25 A luglio, l’inglese Francis Koval annoterà sul suo taccuino qualche altro particolare: “Welles mi ha confidato il segreto (piuosto noto) che nei suoi momenti liberi (dove diavolo riesce a trovarli?) sta scrivendo un film sull’ossessione sessuale intitolato Lovelife. ‘Nonostante il soggeo, non correrà il rischio di incappare nella censura,’ afferma. ‘Sarà così decoroso che le famiglie porteranno i figli a vederlo senza la minima esitazione. Ma se dovessi riuscire nel mio intento… il film scioccherà ogni adulto che abbia sentimenti umani e coscienza sociale.’”26 Ancora Lanocita aggiungerà a novembre: “Finito l’Otello, realizzerà, in Sicilia, Luna di miele in oo episodi, legati da un conceo comune: il declino delle classi sociali più fortunate, ‘senza intenzione di polemica classista né politica’.”27 Infine Gian Gaspare Napolitano, nel gennaio dell’anno successivo, rivelerà: “[Welles] dice che vuol essere la rappresentazione di un mondo destinato a sparire: quello degli snobs. La vicenda si svolge fra Parigi, Roma, Capri e la Costa Azzurra. Il neorealismo italiano ha messo a fuoco il mondo dei poveri. Welles ambirebbe a ritrarre la società dei ricchi di questo dopoguerra, destinata a sparire. ‘Anch’io sono uno snob,’ dice.”28
Nei mesi successivi Welles cercò finanziamenti per Lovelife in Francia, Italia e Germania, immaginando un cast internazionale (furono interpellati fra gli altri Pierre Fresnay e Yvonne Printemps, e si fece il nome di Michèle Morgan), ma forse il progeo era soprauo un’esca per produori disposti a sganciare un anticipo. Alla quale comunque non abboccò nessuno. alche brandello di quella storia, o almeno di quelle atmosfere, sarebbe poi finito dentro Honeymoon, puntata n. 50 dell’originale radiofonico e Adventures of Harry Lime, in onda l’11 luglio 1952, che si apre nel bar del Diodoro di Taormina. Tornando al film omerico, c’è da scommeere che Welles non avesse mai pensato seriamente di interpretare Ulisse. Alla fine rifiutò la proposta di Pabst, continuò ad annunciare il suo film sulle mirabili gesta di Odisseo, e oenne ciò a cui aveva puntato fin dall’inizio: De Laurentiis gli consegnò “una somma considerevole” perché non girasse Le avventure di Ulisse.29 A giugno la cancellazione del progeo venne ufficialmente annunciata. De Laurentiis poté così cominciare a organizzare il suo Ulisse, il film italiano più costoso del dopoguerra. Senza Pabst, però: nell’oobre del ’50, con una decisione mai chiarita, il regista tedesco uscì dai giochi. Al suo posto arrivò Mario Camerini, che ebbe il suo bel daffare a dirigere un indisciplinato Kirk Douglas nei panni dell’astuto acheo. E Greta Garbo continuò a mantenere la promessa di non tornare al cinema: Penelope ebbe il volto della signora De Laurentiis, Silvana Mangano. Al tavolo del poker cinematografico Welles non era l’unico a saper bluffare.
12. Uno Sporcacione nell’Anno Santo
Non mi ricordo chi diceva che tui gli italiani sanno recitare ma che i meno bravi sono proprio gli aori. Beehovian (Welles) in e Unthinking Lobster
Il titolo originale di L’onesto Iago, il diario di lavorazione tenuto da Micheál Mac Liammóir, è Put Money in y Purse, dalla terza scena del primo ao di Otello: “mei denaro in bolgia. esti mori sono d’umor cangiante: empi bene la bolgia di denaro.”1 Un titolo velatamente sarcastico. Il vecchio amico irlandese aveva capito fin dall’inizio che con Orson sarebbe stato ben difficile “meere denaro in bolgia”. La scriura e la pubblicazione del diario di lavorazione furono quindi anche un modo per assicurarsi un piccolo guadagno. Durante le riprese dell’Otello Mac Liammóir preparò pure il testo di eatre in Ireland, un fascicoleo di una quarantina di pagine commissionato dal Cultural Relations Commiee of Ireland. “Dopo averlo accantonato per diverse lunghe seimane, ho ripescato il vecchio articolo sul teatro in Irlanda e l’ho contemplato come se si traasse della stele di Rosea. Devo finirlo qui o buarlo nel Canal Grande,” scriveva il 5 agosto 1949 da Venezia. Un anno dopo, il libriccino sarebbe stato posto in vendita al prezzo di due scellini, e solo chi sa dell’Otello può immaginare le implicazioni dell’indicazione a fine testo, “Rome-Marrakech-Venice, July-August 1949”.
Welles con Eartha Ki durante le prove di Time Runs.
Ovviamente Mac Liammóir non poteva fare affidamento economico né su questo libro né sulle sue memorie cinematografiche, che sarebbero apparse nel ’52 accompagnate da una scherzosa prefazione di Orson. Il lavoro suo e di Hilton Edwards nel film avrebbe comunque dovuto essere pagato: esisteva un impegno scrio, e perfino un regista ossessivamente dedito a completare il suo film doveva provare qualche rimorso a non aver mantenuto la promessa. Welles cercò un modo di mantenerla: con i due amici irlandesi aveva più volte vagheggiato una tournée teatrale che gli avrebbe dato la possibilità di compensarli, almeno in parte. E il progeo venne alla fine realizzato. e Blessed and the Damned è una doppia riflessione sulla presenza del sacro nella società contemporanea. La “benedea” del primo ao è una dailografa di Hollywood, artefice di un miracolo su un set cinematografico; il “dannato” della seconda parte è il door Faust, rileo in chiave moderna con musiche composte da Duke Ellington. Nella rivisitazione di Faust, rititolata Time Runs, Welles mescolò Goethe, Dante, Milton e Marlowe: in scena lui avrebbe interpretato Faust, Hilton Edwards sarebbe stato Mefistofele e la felina Eartha Ki (con la quale Orson ebbe probabilmente un affaire) Elena. L’altra parte s’intitola e Unthinking Lobster ed è basata su un
gustoso soggeo originale dello stesso Welles. Il sipario si apre sulla proiezione dei giornalieri di un film sulla Genesi, alla presenza di Jake Behoovian (lo stesso Welles), un produore disposto anche a modificare la Bibbia pur di risparmiare sul budget. Nella sua satira, Welles aacca la Hollywood più commerciale e ipocrita, quella che in nome del dollaro non esita a trasformare in speacolo le vicende di Bernadee e di Giovanna d’Arco. Nel mirino della commedia non c’è però solo il cinema americano: Welles intendeva regolare un paio di conti anche con Cinecià. La vera star è un italiano, Alessandro Sporcacione, una specie di regista neorealista che non compare in scena ma del quale si sente il colorito eloquio: è lui a pretendere una corte di storpi e di infermi autentici sul set americano del film su una santa, ed è lui a decidere di sostituire la stella designata con la dailografa Miss Pra (Suzanne Cloutier), giudicata più spirituale. ando però la signorina, indossati i panni della protagonista, si mee davvero a far miracoli, Hollywood si trasforma in una cià santa: malati e pellegrini accorrono in massa facendo concorrenza a Roma (il 1950 è anche l’anno del Giubileo), nessuno osa più divorziare, brani di pellicola vengono venduti come reliquie. In America non si girano più film, si prega soltanto: Beehovian e gli altri produori sono rovinati. Un arcangelo cala quindi in ascensore a proporre un accordo: niente più miracoli a Hollywood, a pao che Hollywood smea di far film sulla religione.2 A fine aprile Welles lasciò Taormina per Roma, e di lì ripartì per la Francia. Le prove dello speacolo si svolsero a Parigi, dove il lavoro avrebbe debuato. Orson impegnò macchinisti e aori fino a orari impossibili, in un’atmosfera febbrile. “Sono le due,” cercavano di farlo ragionare, “bisogna lasciarli andare, le loro mogli li aspeano.” “Procureremo loro altre mogli,” rispondeva ribaldo il regista. Fissata per il 15 giugno, la prima venne rinviata quaro volte; il teatro Édouard VII si aprì al pubblico la sera del 19. In sala arrivò Duke Ellington, accorse l’arice Deanna Durbin, si fece vedere la stilista Elsa Schiaparelli, e spuntò clamorosamente anche Rita Hayworth (“Non c’è nulla di strano,” disse Orson ai giornalisti, “Aly, Rita ed io siamo buoni amici”).3 e Blessed and the Damned raccolse un discreto favore; “Le Monde” lo definì “un capolavoro di arte scenica”, mentre da noi “La Seimana Incom” ammeeva, a sopracciglio alzato, che all’Édouard
VII “nonostante recitino in inglese, c’è sempre molta gente.”4 Un anonimo spiritosone di “Film” scrisse che il Faust “nell’assieme era una cosa altamente rispeabile: si sentiva anche in questa interpretazione l’unghiata del beone.”5 “Sipario” lo definì “uno speacolo sconcertante, secondo il costume di Welles.”6 Su “Film d’oggi”, Marco Ramperti chiese scherzosamente a Blasei se, chiamandosi Alessandro come lo Sporcacione della pièce, non gli sembrasse opportuno chiedere spiegazioni all’autore.7 Ma il modello del personaggio italiano era evidentemente Roberto Rossellini, regista corteggiato da Hollywood, legato a Ingrid Bergman che aveva girato in America una mediocre Giovanna d’Arco in technicolor; nella star sostituita all’ultimo momento s’intravede il caso della Magnani, che la Bergman aveva appena sostituito nel progeo di Stromboli; e e Miracle of Saint Anna, il film religioso-neorealista citato nella commedia, rimanda al Miracolo direo da Rossellini e interpretato dalla Magnani, visto da Welles nell’aprile del ’48. Di Rossellini non è aestata alcuna reazione: l’uomo era troppo intelligente per farsi trascinare in una polemica, e all’epoca, non avendo ancora potuto sposare Ingrid ed essendo già nato Robertino (il “figlio del peccato”), aveva ben altri problemi per la testa. Al posto suo, si lagnò il giornalista Giuseppe Grieco, riferendo tre anni dopo della pièce su “Cinema nuovo”. Il periodico fondato da Aristarco dedica due pagine a e Blessed and the Damned, ammeendo a denti strei che la commedia “merita di essere conosciuta anche da noi. Si capisce non per i suoi meriti artistici che in verità sono molto scarsi e opinabili. Welles, in fondo, non è che un dileante. Ma egli conosce assai bene metodi e sistemi di lavoro di Hollywood e le sue baute spesso colgono nel segno.” Il giornalista commenta in realtà solo e Unthinking Lobster, rimproverando alla fine l’autore di avere parodiato il neorealismo: “Si traa di una caricatura in sostanza priva di mordente e quasi sempre gratuita. Insomma le baute veramente originali sono mancanti. Comunque riportiamo quella che ci sembra la migliore: ‘L’Italia è una nazione di aori i peggiori dei quali sono i professionisti.’ Generica e approssimativa è anche la figura del regista Sporcacione – un nome che vorrebbe, almeno nelle intenzioni, essere tuo un programma. Del resto egli non appare mai sulla scena. Si sente solo la sua voce che infila una dopo l’altra parolacce e bestemmie. Può darsi che ciò, secondo Orson Welles, faccia molto neorealismo. Noi francamente ci permeiamo
di dubitarne. E pensiamo con tristezza che se a Hollywood i miracoli diventano una farsa e la Bibbia un pretesto per film ‘sexy’, il realismo italiano, ammesso che possa giungervi per instaurare un nuovo ‘ciclo’, finirebbe fatalmente per rassomigliare alla squallida caricatura del Welles.”8 Sapido e divertente, e Unthinking Lobster contiene diversi elementi della poetica di Welles, a partire dal tema vero/falso, incarnato fra l’altro dal personaggio di un arciduca (forse finto forse no) evidentemente ispirato alla figura di Michał Waszyński. Per noi italiani riveste una certa importanza anche l’approccio caricaturale al neorealismo, opposto e speculare a Hollywood ma dall’autore ugualmente irriso, con una chiave farsesca che sarebbe poi stata alla base del progeo cinematografico Operation Cinderella. E con lo sguardo spassionato di cui può essere capace un grande regista che osserva il piccolo circo del cinema, un mondo spesso talmente assurdo da avergli fao scrivere, in una introduzione preparata nello stesso periodo, che “una delle leggi più sicure del teatro è che non si può trarre una farsa da ciò che è già una farsa in sé. esto è forse il motivo per cui capita così raramente di essere divertenti a coloro che pretendono di traare in modo umoristico le cose del cinema.”9 Con e Unthinking Lobster, almeno lui ci era riuscito. Il successo di e Blessed and the Damned andò calando rapidamente, un po’ a causa dell’alto prezzo dei bigliei, un po’ per la limitata fruibilità di un lavoro in lingua inglese da parte di una platea soprauo francese. In aesa che i milioni di Zanuck venissero effeivamente versati – e che Venezia si colorasse dei toni autunnali giusti per Otello, Welles continuò a escogitare nuove idee per tirare avanti. “Orson Welles è da qualche mese a Parigi,” scrive nel luglio 1950 il non meglio precisato Gulliver sul seimanale romano “L’Elefante”. “Egli si è trasferito in Francia dopo un lungo soggiorno in Italia. Nel nostro Paese ha girato Cagliostro, un film indimenticabilmente bruo e ha condoo una vita piena di movimento, di chiasso, di stranezze. Alla fine, lui si è stancato degli italiani, gli italiani si sono stancati di lui ed è andato via. La vita che fa ora in Francia non presenta nulla di nuovo. Anche lì le sue parole, le sue azioni, i suoi gesti, sembrano obbedire a un imperativo categorico: quello di mantenere sempre viva curiosità ed interesse aorno al nome di Orson Welles. Per convincersi di
questo basta leggere le interviste che ha concesso nel mese di giugno ai giornalisti parigini. Da queste interviste risulta: 1) Che farà un film su Enrico IV; 2) Che andrà in Corea come corrispondente di guerra; 3) Che ritornerà in America per comprarsi un ranch e vivere il resto dei suoi giorni coltivando rose e betulle; 4) Che costituirà una compagnia di prosa ed eseguirà nei maggiori teatri europei quaro tragedie di Shakespeare; 5) Che parteciperà al prossimo Gran Premio automobilistico di Francia; 6) Che preparerà una serie di articoli relativamente ai problemi linguistici per contrapporli a quelli di Stalin; 7) Che inizierà quanto prima la carriera di artista della Radio; 8) Che nel prossimo autunno si trasferirà in un paesello alpino per specializzarsi negli sport invernali e specialmente nel bob sul ghiaccio.”10 In mezzo a peegolezzi ed esagerazioni, alcune notizie sono corree: il cineasta aveva effeivamente ricominciato a meditare sull’Enrico IV da Pirandello, si preparava a fare da corrispondente per alcuni quotidiani e progeava di organizzare una tournée che portasse Shakespeare in vari paesi europei: il nuovo progeo è An Evening with Orson Welles, uno show con repertorio mobile formato da Time Runs, estrai da L’importanza di chiamarsi Ernesto di Wilde, un recital di canzoni di Eartha Ki, un numero di magia di Welles, e scene dalle tragedie Enrico VI, Giulio Cesare e Otello. Come primo paese per la tournée venne scelta la Germania; per racimolare altro denaro, Welles si era accordato con alcuni giornali ai quali avrebbe inviato articoli “in presa direa” sulla nazione tedesca. Le bibliografie wellesiane citano oughts on Germany, apparso nel marzo 1951 sul periodico londinese “e Fortnightly Review”: in realtà quel testo è un condensato di diversi articoli, pubblicati su “France Dimanche” e pochi mesi dopo sul “Corriere d’Informazione”, gemello pomeridiano del “Corriere della Sera”.11 Sono reportage pensosi e agili, articoli apparentemente svagati, in realtà molto lucidi nel descrivere la Germania dopo la guerra e prima del muro, la Monaco dove tornano rigurgiti nazisti, la Berlino affranta che ispirò il suicidio a Hitler, e una Francoforte rimasta ai tempi del Kaiser. a e là affiorano ricordi, ora acuti ora affeuosi, dell’Italia: “La leggenda del tedesco massiccio come quella dell’italiano pigro […] sono miti razziali altreanto balordi quanto errati. Ci si domanda perché gli italiani, che sono caraerizzati da un’aività esuberante, ci vogliano far credere e credano essi stessi di essere dei fannulloni, solo capaci di fare la siesta e cantare serenate.”12 “Mi è capitato, appena qualche mese fa,
di uscire da una traoria a Venezia dove mi accingevo a consumare il desinare perché il traore e altri invitati avevano deo cose assurde di Toscanini, accusandolo perfino di tradimento…”13 “Osservavo questi bambini il cui terreno di giuoco […] era costituito dall’interno di un immobile commerciale della Friedrichstrasse e pensavo ad alcuni italiani che discutevano in una traoria presso le Terme di Caracalla, oppure ad una coppia di innamorati che si abbracciava all’ombra del Colosseo. Pensavo a tui coloro che condividono la gioiosa innocenza di non aver mai visto la gloria di altri tempi.”14 “Hitler è ancora vivo? La domanda ormai stucchevole consente, se non altro, di ravvivare la conversazione quando questa langue, nel corso di un pranzo. Risponderò che sì, vive ancora, però ben inteso nel senso in cui anche Mussolini vive ancora, qua e là, in Italia. E unicamente in quel senso.”15 Il pot-pourri teatrale An Evening with Orson Welles debuò all’Altjakobstheater am Zoo di Francoforte il 7 agosto 1950. Sul palcoscenico si alternarono Welles, Eartha Ki, Micheál Mac Liammóir e Hilton Edwards, al quale toccò anche l’onere della regia. Dopo Amburgo, Monaco, Düsseldorf e Bad Oeynhausen, lo speacolo arrivò ai primi di seembre a Berlino. In uno dei suoi articoli, Welles raccontò di un incidente occorsogli in un locale nourno della capitale: l’orchestrina aveva aaccato a suonare Horst-Wessel-Lied, l’inno del Partito nazionalsocialista, suscitando cori entusiastici e perfino un saluto nazista. Una donna invitò il nostalgico avventore ad abbassare il braccio; non avendo ricevuto risposta, gli scaraventò addosso un vaso ma fu subito schiaffeggiata dal “nazista” fra gli applausi degli avventori. Orson si geò nella mischia, riuscendo ad averla vinta sull’aggressore ma prendendosi in testa un secondo vaso scagliato dalla donna. Welles commentò che “gli istinti tedeschi sono stati molto meno danneggiati delle loro cià,” aggiungendo che in fondo la natura del loro paese “non è tua un’invenzione del do. Goebbels.” Non l’avesse mai fao. I tedeschi si videro dipinti in blocco come un plotone di SS e scoppiò il pandemonio: le orchestrine delle birrerie smisero di suonare il tema del Terzo uomo e gli esercenti della Renania e del Palatinato boicoarono Il principe delle volpi, appena uscito nelle sale germaniche. Ancora una volta tradito dal suo caraere combaivo e da una congenita inclinazione alla provocazione, Welles protestò in un ultimo articolo la sua onestà intelleuale e il suo rispeo verso i tedeschi, mostrandosi comunque più stupito
che addolorato (“giornalmente mi si taccia di essere un mentitore e un ciarlatano”). Ma l’incendio era ormai divampato, e il colpevole continuò ad aggiungere benzina: un giornale riprese un’intervista in cui Welles avrebbe affermato che “in Germania i veri antinazisti sono rari come i denti delle galline”.16 La 20th Century Fox convocò la stampa e prese platealmente le distanze dal regista: “La nostra società,” dichiararono i dirigenti, “è sconvolta dal modo frivolo e superficiale in cui Welles ha giudicato un popolo intero – noi vogliamo soolineare che Welles non ha alcun contrao permanente.”17 Di fronte alle leere di protesta, i rappresentanti tedeschi di Zanuck doveero infine rassegnarsi a rinunciare alla distribuzione della Rosa Nera in terra di Germania. Il lungo intermezzo teatrale non distolse Welles da Otello. A Parigi il regista aveva avuto le sere occupate dalle rappresentazioni di e Blessed and the Damned, ma le maine e i pomeriggi erano stati consacrati al montaggio (con Jean Sacha) e al doppiaggio della pellicola. E la tournée in Germania, in cui Welles mise per la prima volta in scena alcuni brani dall’Otello, gli servì anche a rimasticare la tragedia, a rimescolarsela in testa, a studiarla e approfondirla. Nel fraempo i suoi uomini cercavano di tenere buoni i vari distributori (Scalera, Ténoudji, Zanuck) che avevano acquistato il film. Da Roma l’amministratore Walter Bedogni chiese in agosto alla Direzione generale della cinematografia di poter esportare quindicimila metri di positivo in Francia, in modo da effeuare una proiezione a Parigi per le varie società di distribuzione, “al fine di tranquillizzarle dopo circa un anno sullo stato delle riprese ed avanzamento del film e mostrare la quantità e qualità del materiale”.18 Un mese dopo, la Orson Welles Productions informò di averci ripensato: l’esportazione non era più necessaria “poiché abbiamo potuto rinviare la proiezione a Parigi per gli acquirenti per l’estero del film”19 (una proiezione di un montaggio senza sonoro sarà infine organizzata a Roma in oobre, senza comunque riuscire a guadagnare l’interesse di altri distributori).20 Chiusa il 9 seembre la tournée tedesca, Welles si sistemò con tua la compagnia in un lussuoso hotel sul lago di Como: ma la cassa era agli sgoccioli, la programmata tournée italiana andò in cavalleria e la compagnia si sciolse per un mese. Risoluto a girare gli ultimi esterni di Otello in autunno inoltrato, Welles si concesse ancora un po’ di vacanza a Capri, dove si fece
raggiungere da Mary Alcaide (che nel fraempo sbarcava il lunario dando lezioni di inglese a Gina Lollobrigida e facendo da segretaria allo scriore Curzio Malaparte),21 e dove fornì a Dado Ruspoli un’infarinatura sull’ipnotismo. Una sera, entrando da Vuoo nella piazzea, chiese al nobiluomo: “Cosa ti piacerebbe che succedesse adesso?” Ruspoli, vedendo una signora ben vestita con un drink in mano, gli propose: “Be’, non sarebbe male che quella signora si versasse sul vestito nuovo il suo bloody mary”. Welles emise un poderoso ululato e il sugo di pomodoro dilagò lungo il décolleté della signora impietrita. Ipnotismo, magia, o forse un semplice spavento? “Forse,” spiegò anni dopo Ruspoli. “Ma che importa? Nelle storie bisogna sempre lasciare un piccolo margine al dubbio, altrimenti sarebbero troppo paurose. Dopo avermi dato altre prove dei suoi poteri, Orson Welles mi ha insegnato a ipnotizzare. […] È un cardine della filosofia orientale: trasformarsi da oggeo a soggeo del pensiero. […] Se passa una bella ragazza e io la guardo […] la ragazza è il soggeo e io l’oggeo, perché è la ragazza che arae e fagocita la mia aenzione, il mio pensiero. […] Welles mi disse: ‘Prova un po’ a rovesciare i ruoli. esta noe vaene in camera tua, da solo, e porta con te un oggeo così insignificante che non abbia la forza di essere un soggeo: una mollica di pane, per esempio. Poi concentrati, e non consentire al tuo pensiero di staccarsi da quella mollica di pane. Se ci riuscirai per più di un quarto d’ora, almeno quaro persone su cinque, che si sooporranno al tuo sguardo, saranno ipnotizzate, perché tu sarai diventato il soggeo del tuo pensiero, un vero e proprio centro di irradiazione magnetica.’”22 All’inizio di oobre Welles e Mary Alcaide ripartirono per il Belgio, dove Orson, Micheál e Hilton conclusero definitivamente la tournée di An Evening with Orson Welles. Le due seimane di repliche finirono con “un folle party con tuo il cast e la troupe, dopo il quale,” scrive la Alcaide il 14 oobre, “O. ha dormito per venti ore filate.”23 Welles intanto ribolliva di progei, tui votati al fallimento. Una notiziola pubblicata da “Film” lo dice alle prese con la preparazione di un film ispirato alla vita del bandito Giuliano,24 da ricollegarsi forse alla vecchia chiacchierata faa con Sergio Sollima. Una indiscrezione dell’“Europeo” gli aribuisce l’intenzione di trarre un nuovo film (titolo I dannati) dal suo Time Runs.25 Carol Reed gli offrì il ruolo di protagonista in L’avventuriero della Malesia (Outcast of the Islands), che avrebbe riunito produore (Alexander Korda),
scriore (Graham Greene), regista (Reed) e interprete (Welles) del Terzo uomo; il soggeo era fra l’altro trao da un romanzo di Joseph Conrad, scriore molto amato da Orson; ma Greene non se la sentì di rielaborarlo in un copione, e alla fine Korda preferì come protagonista Trevor Howard.26 Dopodiché Welles è segnalato di nuovo a Taormina, dove incontrò Truman Capote, forse per sopralluoghi di Lovelife. “Welles,” scrisse Capote a un amico con autentico snobismo, “mi ha chiesto di recitare una parte in un film che girerà qui. Naturalmente ho rifiutato.”27 Era ormai venuto il tempo di riprendere l’Otello. A metà oobre il regista e i suoi aori organizzarono un nuovo raduno a Perugia, probabilmente per aggiungere scene al senato veneziano. Ma le cose andarono subito storte. Suzanne Cloutier si sentì male e decise di rimanere a Parigi; e la noe prima della partenza, la Citroën di Welles venne rubata. Mary Alcaide e George Fanto arrivarono a Roma dopo ventidue ore di treno solo per scoprire che le riprese a Perugia erano state di nuovo rimandate. Abbandonato Casal Pilozzo, in quei giorni Orson stava cercando una nuova casa a Roma. S’era innamorato di un appartamento a piazza del Grillo, con due fontane del Bernini in giardino, a cui dovee rinunciare perché troppo costoso. La sistemazione che trovò poco dopo fu però ancora più prestigiosa. “O. si è trasferito in un piccolo affascinante appartamento a casa di Dio e fuori dal percorso di qualsivoglia tipo di trasporto pubblico,” scrive Mary Alcaide il 12 novembre 1950. “Si trova nelle ex stalle di Villa Madama, che appartengono alla contessa Dorothy di Frasso che le affia a Mr Olian (l’uomo che ha acquistato gli studi Scalera e che rappresenta al momento la borsa di denaro che ci permee di andare avanti a girare Otello).”28 Compare qui per la prima volta uno dei personaggi più misteriosi e decisivi del periodo italiano di Orson Welles. Il regista ne accennerà a Bogdanovich definendolo un “russo pazzo” ma in realtà Michel Olian era nato a Riga, in Leonia. Si sa che era figlio di un mugnaio ebreo, che nel 1922 si era spostato a Berlino, dove si era arricchito speculando in rubli russi, e che, trasferitosi in Francia, era stato coinvolto in un’ampia speculazione immobiliare e diverse altre operazioni finanziarie, per alcune delle quali era stato condannato; le autorità avevano emanato un decreto di espulsione, più volte rinviato, finché nel ’39 era stato costreo a spostarsi con la famiglia a Ginevra. In Svizzera il suo permesso di soggiorno non
gli avrebbe consentito di svolgere alcuna aività lucrativa ma Olian era riuscito a prosperare orchestrando traffici clandestini di valuta, capitalizzando immobili e diamanti, conducendo una vita dispendiosa e pagando per giunta pochissime tasse. Le banche elvetiche erano allora la silenziosa cassaforte del Terzo Reich ma quando venne appurato che fra i contai di Olian c’erano un ufficiale della Wehrmacht e perfino l’avvocato di Hermann Göring, la Svizzera vide messa in discussione la propria neutralità e cercò di espellerlo. Ci vollero diversi anni, e alla fine ci riuscirono più per l’insostenibilità della sua condoa pubblica che per accertabili violazioni del Codice penale svizzero.29 Nel 1948, Michel Olian era stato così costreo a lasciare Ginevra ma aveva trovato subito in Italia un nuovo terreno fertile per traffici di tui i tipi, legandosi ad ambienti vicini alla Democrazia cristiana. Si deve a lui se nel ’49 l’Opera Don Gnocchi riuscì a porre la sua sede nella bella Villa Negroni di Pessano, nel milanese, solo qualche anno prima al centro di polemiche locali: la sua trasformazione da villa signorile a casinò aveva provocato una raccolta di firme indirizzata a De Gasperi, che l’aveva chiusa con un decreto. Girò voce che Olian avesse vinto Villa Negroni al gioco ma è molto più probabile che l’abbia semplicemente acquistata con una piccola parte dei suoi risparmi, per poi donarla alla Federazione Pro Infanzia Mutilata di don Carlo Gnocchi. Secondo Frank Brady, Welles potrebbe avere conosciuto Olian grazie alla presenza a Roma di Mike Frankovich, dirigente della Columbia inglese,30 ma a collegarli sarebbero sufficienti le Scuderie di Villa Madama, di proprietà della contessa Dorothy di Frasso, conosciuta da Welles e da Mac Liammóir: le ex stalle che avevano già ospitato Michał Waszyński erano ora occupate proprio da Olian, che vi si era installato con famiglia e servitù. La figura di Olian, miliardario stravagante, pieno di soldi e di segreti, airò moltissimo Welles, sia a livello umano (il personaggio di Mr Arkadin è evidentemente basato su di lui) sia come possibile soluzione ai suoi eterni problemi di denaro. Olian lo prese a ben volere: il miliardario leone accompagnò il regista americano nei più fastosi locali nourni di Roma, dove offriva da bere a tui lasciando mance principesche, e nell’autunno del ’50 offrì a Orson di alloggiare presso di lui. Olian era riuscito a realizzare anche nel mondo del cinema italiano i suoi mirabolanti traffici di valute, prestando contante alle
produzioni internazionali che avevano bisogno di sbloccare fondi o di trasferire denaro da uno stato all’altro, meendosi in tasca un’oima percentuale o partecipando ai guadagni delle produzioni.31 Come testimoniano le righe di Mary Alcaide, Olian aveva esteso i suoi interessi alla Scalera Film, ormai sull’orlo del fallimento. Sarà impreciso definirlo formalmente come “l’uomo che ha acquistato gli studi Scalera” ma nella sostanza la giovane segretaria di Orson Welles non si sbagliava: a spulciare cronache e documenti si scopre che un certo Franco Bodini ricopriva all’epoca sia il ruolo di presidente e liquidatore della Scalera Film sia quello di vicepresidente della Pro Juventute di don Gnocchi. Sul finire del 1950, sperando di oenere chissà quale tornaconto, Olian acceò di finanziare la conclusione della lavorazione di Otello. Il travagliato film di Orson Welles poté così riprendere la lavorazione grazie ai denari di uno scaltro profiatore di guerra. Un promemoria di Welles a Fanto sulle riprese da realizzare in quei giorni elenca primi piani del Moro, inquadrature di folla a Castel Sant’Angelo, scene a Pavia e ancora di nuovo a Venezia.32 Intanto il set venne riaperto a Roma, dentro i vecchi studi Scalera. Nel fraempo Troiani aveva convinto Welles a scriurare Aldo Graziati, alias G.R. Aldo, il direore della fotografia di La terra trema, e Aldo aveva chiesto ad Alvaro Mancori di condividere con lui la responsabilità delle luci del film. Del gruppo faceva parte Nino Cristiani, abituale assistente di Aldo, ma anche Giuseppe Rotunno, futuro collaboratore di Visconti e Fellini, che aveva conosciuto Welles sul set del Principe delle volpi, e che sembra avesse già lavorato sul set di Otello in qualche fase precedente (“Ci abbiamo lavorato in tanti, secondo gli impegni che avevamo. Mi ricordo vagamente un castello sul mare, una scena nourna, lo sguardo magnetico di Orson”33).
Orson Welles gira Otello negli studi della Scalera.
Ai primi di novembre, Lanocita del “Corriere della Sera” e Rispoli di “Film” vennero in visita nel teatro n. 2 della Scalera. Dentro una cavea buia distinsero a malapena Welles, sovrastato da un’apertura circolare e da un gruppeo di aori appollaiati su un cavalleo (fra i quali Lanocita riconobbe Mac Liammóir), ai quali il regista suggeriva le baute in inglese. All’arrivo dei due giornalisti, Orson interruppe le riprese e concesse affabile mezz’ora di intervista, discorrendo in un italiano “pioresco e scorrevole”. “Un altro Shakespeare,” disse a Lanocita, “questa volta, più fedelmente riportato al tempo e allo spirito del dramma. Forse l’Otello sarà meno scespiriano di Macbeth, ma aderirà meglio all’epoca cui si riferisce e all’indole della sua gente. L’urto tra l’istintività brutale dell’eroe orientale e il raffinato mondo della civiltà veneziana. […] Ma non sono certo che la mia d’oggi sia la strada giusta. E nemmeno che esista una strada giusta. Io non faccio film, faccio esperimenti. Ogni mio lavoro è un esperimento.”34 I due giornalisti gli obieano che certi esperimenti, finiti in film “di dubbio gusto” come Cagliostro e La Rosa Nera, somigliano a vacanze ben retribuite. “Egli ride, come a dire che bisogna campare, che lui non c’entra. ei films, è chiaro, non gli piacciono e nemmeno gli somigliano. ‘Può darsi che siano dei capolavori’ dice con simulata correezza ‘ma io non li ho visti.’”35 Nella chiacchierata, Welles rinnovò la sua stima nei confronti di De Sica, paragonato a Chaplin, e confermò il progeo di Luna di miele, che annunciò di volere girare a Taormina, smentendo che si traasse di un film politico: “La politica non m’interessa più. La situazione politica è ormai quella che è: drammaticamente stupida e priva di risorse. Due blocchi contrapposti con tanta neezza non danno più luogo a dramma. In tui i casi sarebbe un dramma che già tui conoscono, senza ombre senza luci.”36 I due giornalisti uscirono dal teatro di posa ammirati e addomesticati: Welles era completamente diverso dal mostro che si diceva, da quel satanasso divoratore di macchinisti che gli avevano descrio. “Ma allora,” si chiese Rispoli, “tuo quello che s’era stampato su di lui?”
Riprese di Otello negli studi Scalera; l’uomo a destra che si scherma dalla luce è G.R. Aldo.
Nella seconda metà di novembre, il set di Otello traslocò a Venezia. “O. sta contemporaneamente girando Otello e un documentario su Venezia,” annota Mary, “usando parte del materiale tagliato dal film e alcune nuove riprese fae mentre aspeiamo che le scenografie siano montate […]. Sta oenendo alcune delle più meravigliose sequenze su celluloide che il mondo del cinema abbia mai visto, e se non verranno apprezzate ciò proverà semplicemente quel che già so del mondo del cinema.”37 (Oberdan Troiani ha ricordato che si traava di tre documentari, sulle isole veneziane, sulle targhe delle strade e su un matrimonio; malgrado i suoi tentativi, non è mai riuscito a recuperarli.) Con la sua barba lunga, una sciarpa nera e un impermeabile spiegazzato, Welles non impressionava ormai nessuno; il regista che da quando era arrivato in Italia non era riuscito a completare un solo film, a Venezia era ormai poco più che un curioso personaggio scandalistico. Il giornalista del “Gazzeino-Sera” che lo avvicinò al Bauer-Grünwald Hotel mise da parte il cinema per intervistarlo su ben altre questioni: gli chiese se credeva ai marziani (e la domanda provocò “una risata, secca e forte come una cannonata”), quale sport lo appassionasse maggiormente (“la corrida”), e cosa pensasse degli appassionati di calcio (“li considera un po’ pazzi, forse, per quel loro tifo esplodente, ma lo dice con tanto garbo che nessuno se ne adonterebbe”).38
Il 29 novembre, a Venezia c’era anche Olian, forse a controllare che l’amico americano stesse effeivamente portando a termine il suo film. Welles si preparò a rilanciare, e chiese aiuto alla fedele segretaria. “Ha fao in modo […] che io ‘ammaliassi’ Mr Olian, il suo finanziatore,” scrive la Alcaide. Sia chiaro, Orson non chiese alla segretaria di fare nulla di scabroso, giusto di titillarlo menzionandogli l’amicizia di Mary con Dimitrij e Nicholas Romanoff. Welles d’altra parte fu assai prudente nei confronti della ragazza. “O., nella sua abituale maniera proteiva, ci ha raggiunti al bar dell’albergo, dove Olian ed io eravamo seduti, per districarmi se necessario dalla situazione. Poi O. ed io abbiamo danzato insieme per la prima volta e WOW, è stato MAGNIFICO! Abbiamo volteggiato tra rumbe, sambe e paso doble, che ha imparato mentre si trovava in Brasile a lavorare in quel tal film [It’s All True].”39 All’inizio di dicembre la troupe dell’Otello era sempre dentro gli studi nell’isola della Giudecca. “Sto seduta col naso che cola dentro il set più freddo del mondo, gli studi veneziani della Scalera. La miseria della nostra povera troupe sarebbe un buon soggeo per un film alla Rossellini con me nel ruolo di Anna Magnani.”40 Fay Compton era dovuta tornare per completare le sue scene (o ripeterle: in tre anni di riprese, a volte era difficile ripescare il giusto pezzeino di girato), e secondo Mary Alcaide c’erano anche Waszyński e Mac Liammóir. Ma fra Welles e il nuovo direore della fotografia i rapporti non erano dei migliori. “Su una scena Aldo faceva delle eccezioni,” ha ricordato Troiani, “secondo lui non era possibile. Welles s’arrabbiò: ‘Guardi che se lei non gira questa inquadratura, la faccio girare a Troiani.’ Aldo si era intestardito che quella cosa non si sarebbe potuta montare. ‘Non fa niente, lei la giri, io sono disposto a rigirare tuo da capo. Per me non esiste l’impossibile, quello che non va io non lo monto…’ insisteva Welles. Io vado da Aldo e gli dico: ‘Guarda che se non la giri la faccio davvero io, io sto con lui ormai da tre anni. E se mi rifiuto anche io, come caccia via te, caccia via pure me.’ Aldo girò quella scena ma le cose fra di loro rimasero un po’ così, infai dopo un po’ Welles lo mandò via.”41 La presenza di Aldo sul set è aestata almeno fino al 16 dicembre, quando i sopravvissuti dell’Otello festeggiarono il compleanno di Mary Alcaide. Dopodiché sparì, e con lui, o poco prima di lui, sparirono anche Cristiani e Mancori.
Le ultime riprese vennero realizzate da Troiani. Per una di queste, Welles si spostò in una Pavia ormai innevata, dove pare sia stata girata una sola inquadratura, breve ma complicata. “Andammo fino a Pavia,” ricordava Troiani, “per far passare Jago dietro a un passaggio sul frontale del Duomo di S. Pietro, che Welles aveva trovato chissà in che modo. Il passaggio non era praticabile, per mandarci uno Jago ci furono non so quanti problemi; e il controcampo, col punto di vista di Jago che guardava giù araverso le colonne, fu realizzato con un altro modellino minuscolo perché lassù la macchina da presa non si poteva portare. Un modellino araverso cui si vede un selciato trovato a Roma, all’EUR.”42 Di qui in poi le leere della Alcaide alla madre non ci soccorrono più: il 21 dicembre 1950 la destinataria delle missive la raggiunse in Italia, e Mary concluse il suo lavoro di segretaria al servizio di “Master” Welles.
Un autoironico biglieo d’auguri di Orson agli amici.
Mary Alcaide: “Di cosa poteva parlare un genio con una segretaria ignorante?” Porano (Terni), 1 marzo 2008 Micheál Mac Liammóir, nell’elenco dei personaggi di L’onesto Iago, la presenta con queste parole: “Giovinea del Middle West degli Stati Uniti, Segretaria di Orson Welles, amante dell’Italia, molto Simpatica e molto, molto Paziente.” Mary Alcaide è nata a Chicago nel 1927, da una cantante d’opera di origini norvegesi e da un tenore portoghese, con un’infanzia milanese originata dalle tournée dei genitori. Amica di famiglia di Dockey Bernstein, il tutore di Welles, a quindici anni assistee per trentaquaro (34!) volte al Mercury Wonder Show e, temendo di dimenticarlo, trascrisse tuo ciò che aveva visto. Welles lo venne a sapere e, non avendo conservato alcuna traccia scria, mandò la sua segretaria Shifra Haran a chiederle quegli appunti. Mary domandò in cambio, per sé e i suoi compagni di scuola, dei bigliei per assistere a uno dei suoi celebri show radiofonici, e soprauo un lavoro estivo come segretaria al Mercury eatre Office di Beverly Hills. L’ambiente culturale dei genitori e la conoscenza di Welles la misero poi in contao con personaggi straordinari: negli anni successivi baerà a macchina per Rita Hayworth, collaborerà con Renzino Avanzo alla genesi di Vulcano, lavorerà con Rossellini a Viaggio in Italia e con Visconti sul set di Senso, darà lezioni di inglese ad Anna Magnani, Michelangelo Antonioni e Gina Lollobrigida. Con Welles tornò in contao nell’autunno del ’49. “Renzino mi dice di essersi appena imbauto in Orson Welles,” scrive da Roma alla madre il 22 seembre 1949, “e gli ha deo che ero qui. Orson ha deo che vuole assolutamente vedermi.” Fra vari stop and go, gli fece da segretaria per un anno abbondante, nel pieno della lavorazione di Otello. A Roma ha continuato a bazzicare il mondo del cinema finché non ha sposato uno dei figli di Armando Brasini, l’architeo a cui si deve via dei Fori Imperiali. Nei suoi ultimi anni viveva in un ameno paesino umbro, sempre innamorata del suo Master (“in modo platonico”, ripeteva con un sorriso), del quale amava leggere ogni nuova biografia o rivedere vecchi film. Il testo che segue è stato raccolto nel 2008 nella sua casa, e poi completato nel corso di incontri successivi. La signora ha fao in
tempo a riguardare il testo, aggiungere nuovi ricordi, correggere qualche svista. Ci ha lasciati nel dicembre 2013. Davvero fu lei a baere a macchina L’onesto Iago? Sì, ma solo una parte, da quando Micheál Mac Liammóir era venuto nel ’49 a Viterbo. L’ho avuto in mano quando siamo andati giù in Marocco, dove avevo meno da fare. I resoconti di Mac Liammóir sono fedeli o tendeva a cambiare qualcosa? No, io trovo per esempio che sia riuscito a trascrivere miracolosamente, quasi parola per parola, quelle conversazioni che si facevano a cena… Come quando Orson chiamava Suzanne “Schnucks” o “Farfalla d’Acciaio” o le diceva che era “una specie di concentrato cosmico di egoismo sfrenato”. Sono cose che uscivano dalla bocca di Orson con grande facilità. Cosa significa esaamente “Schnucks”? È una parola yiddish che ha molti significati e molte sfumature ma non era davvero dispregiativa. Credo che Orson stesse pensando a un popolare programma radiofonico, e Baby Snooks Show, con Fanny Brice, un’arice ebrea, molto divertente, quella poi ritraa da Barbra Streisand in Funny Girl. Il personaggio di Baby Snooks era una specie di enfant terrible, un po’ dispeosa e saputella; nelle foto pubblicitarie veniva sempre raffigurata con un enorme fiocco in testa. In fondo Orson e Micheál amavano Suzanne, riconoscevano in lei una brava arice, ma le sue moine da fanciullina innocente e romantica la rendevano un po’ irritante. Forse volevano farle capire che tue le sue puerili barriere erano per loro una lastra di vetro. esto mi fa venire in mente una delle sue leere in cui racconta di quando Welles si mise a spiegare cosa volesse dire shmaltz. Neanche Micheál lo sapeva e allora Orson glielo spiegò. È una parola yiddish, vuol dire qualcosa di smielato, di sviolinato, talmente sentimentale da far quasi venire il vomito. Leggo dalla sua leera del 25 novembre 1949: “Pochi giorni fa, in una delle conversazioni di O. è stata usata e spiegata la parola shmaltz. Dal mio angolino, ho borboato che a me le cose shmaltz piacevano. ‘Lo so,’ ha deo O., che è in grado di udire la caduta di uno spillo, ‘tu in quel genere di cose ci caschi proprio come una pera coa.’ Ho di nuovo imperceibilmente sussurrato che in realtà piacevano
anche a lui ma che non l’avrebbe mai ammesso. ‘Vero,’ è arrivata subito la risposta da Mr O. ‘Ma la differenza tra noi due è che, mentre cado, io almeno ho il buonsenso di lamentarmi.’” Il tono umoristico delle sue leere è simile a quello di Mac Liammóir, si direbbe che baendo il suo diario ne sia stata influenzata. Eeeeehh. Ero come una canna al vento, da giovane si capiva esaamente dov’ero stata perché tornavo da Napoli o da Firenze con la cadenza napoletana o con le aspirate fiorentine: prendevo tuo quello che era intorno a me. Sul set di Otello assorbivo Micheál e il suo umorismo come una spugna, parlavo e mi esprimevo come lui. In mancanza di un’educazione formale prendevo dai grandi, da persone più erudite di me. Purtroppo ero abbastanza stupida, per cui non ho potuto assorbire bene. Come mai si trovava in Italia in quel momento? Avevo fao da interprete per Renzo Avanzo e un certo commendator Caramelli, venuti a Los Angeles a cercare regista e aori per Vulcano: finirono per prendere Geraldine Brooks, Rossano Brazzi e [William] Dieterle come regista. Poi Avanzo ripartì per l’Italia, invitandomi ad andarlo a trovare se fossi venuta a Roma. Cominciai a lavorare per un’agenzia per aori di Charles Feldman, e quando guadagnai abbastanza per comprarmi il biglieo per la nave, sono venuta in Italia. Ma perché in Italia? Perché ne ero innamorata. C’ero stata da bambina, e poi anche nel ’48: avevo ritrovato quasi tui i vecchi amici, e sono stata così bene, così bene… Una vita favolosa, ho fao nuove amicizie, con alcuni sono in contao ancora adesso. Mi dissi: io non posso vivere più in America, è troppo provinciale. A Roma ho subito cercato Avanzo, che mi ha portato dove stavano montando Vulcano, in un palazzone a Ponte Milvio (costruito dall’architeo Brasini; dopo un po’ di anni ne sposai il figlio, tuo si ricongiunge). Lui mi fece fare le traduzioni dei ritagli di giornale su Vulcano. Avevo sentito che Welles mi voleva come segretaria ma non ne ho più avuto notizie per seimane. Un giorno il ragionier Facchini, che lavorava per Welles, mi telefonò per dirmi di venire subito a Viterbo. Stavano girando a Tuscania, nella bellissima cripta di una chiesa. Ricordo Micha o Michał Waszyński, parlava sempre dei film che aveva fao in Polonia con Pola Negri, era divertentissimo. Mac Liammóir era adorabile, intelligentissimo e irrimediabilmente dell’altra sponda,
senza ritegno alcuno. Ho conosciuto anche Lea Padovani; andammo a mangiare con lei e Suzanne Cloutier a Venezia, mi pare al Vecchio Pilsen, ne scrive pure Mac Liammóir. Fu l’incontro delle due Desdemone, tue e due a dirsi quanto sei brava, no sei brava tu. Con noi c’era anche Giorgio Papi, evidentemente la loro storia continuava. Orson invece a quell’epoca stava con una ragazzina molto giovane.
Il parrucchiere Vasco Reggiani, la segretaria di edizione Ruth Hill, Alain Capellier, assistente dello scenografo Alexandre Trauner, e Mary Alcaide a Viterbo nell’oobre 1949.
Che tipo di regista era Welles sul set? Orson era molto concentrato quando girava. Se qualcosa non andava bene si infuriava come una bestia e non risparmiava il colpevole, ricoprendolo di insulti, qualche volta anche pesanti. Salvo dopo far finire tuo in risate, ma non sempre. In genere sul set era rilassato e scherzoso, e fumava di continuo il suo sigaro. Una volta, accorgendosi che lo stavo riprendendo con la mia piccola cinepresa 16 mm mentre conversava placidamente con Mac Liammóir, saltò su di scao gridando: “Ci sta riprendendo! Diamo un po’ di movimento alla scena!” E si mise a far finta di duellare con Micheál. Purtroppo quello storico filmeo è andato perduto! Le è capitato di fare la comparsa nel film? Solo per una scena, a Mazagan, in cui mi hanno messo il costume di Emilia. Era un’inquadratura di donne che guardavano in giù dalla boccatura di un pozzo. Ma non credo che mi si veda, eravamo solo delle sagome in controluce. Uno dei problemi più grossi nella storia delle riprese di Otello è capire quali operatori si sono alternati, e quando. ando ho raggiunto la troupe a Viterbo mi sembra che il capo operatore fosse Brizzi. Poi la troupe si sciolse e quando si riformò per Mogador c’era George Fanto. Dopo, a Venezia, credo che sia rimasto di nuovo Brizzi. A Venezia ci fu anche G.R. Aldo, ma alla fine, nel dicembre 1950, quando abbiamo girato negli studi Scalera alla Giudecca. Il 16 era il mio compleanno e tua la troupe fece una collea per farmi un regalo, una pelle di ghepardo che poi utilizzai come collo di un cappoo. Mi diedero anche una specie di rotolo di pergamena con tue le firme dei membri della troupe, e c’è anche quella di G.R. Aldo. L’ho rincontrato sul set di Senso, dove poi è morto. La pergamena ce l’ho ancora, la dedica dice: “Alla segretaria modello, alla vivace collega, alla cara amica, i superstiti dell’Otello augurano almeno un giorno di completo riposo.” Di tanto in tanto, quando doveva ripartire, Welles lasciava girare dei pezzi – anche complicati – a Waszyński, Troiani o Fanto. Conoscendo la sua precisione, come faceva a fidarsi di lasciare il suo lavoro ad altri? Io credo che non si fidasse granché, e quindi lasciava delle spiegazioni più deagliate possibile, per cui seguendo le sue
istruzioni non si poteva sbagliare. Ma questo è solo quel che penso io. A un certo punto dal Marocco Welles se ne andò in Portogallo. Cosa andò a fare? Partì sempre con l’idea di trovare denaro. Lasciò me e Barbara, la sua nuova fidanzata, a Casablanca. Non avendo una lira bucata, aveva paura che se se ne andava via con me, lei e le valigie, l’albergo avrebbe prima preteso di essere pagato. Disse loro: tenetemi la stanza perché adesso vado a Lisbona e torno. E visto che lasciava lì la segretaria e la ragazza lo hanno fao andare. A Lisbona, dove tra l’altro ha conosciuto anche il mio babbo, credo sia andato da Gulbenkian, il famoso businessman armeno, per cercare un finanziamento per finire questo benedeo film… Riuscì ad avere denaro anche da lui? Non so ma non credo. E cosa successe a lei e Barbara dopo che Welles vi lasciò “in pegno” a Casablanca? Orson non era un incosciente, sapeva benissimo che lasciava indietro anche Julien Derode, il production manager, che avrebbe potuto dare i soldi per riscaarci dall’albergo e mandarci a Parigi. È quello che successe poi. Per quanto tempo ha lavorato con Welles? L’ho lasciato alla fine del ’50, quando anche mia mamma è arrivata in Italia. L’ho visto solo un’altra volta, un anno dopo, in una pensioncina romana vicino allo stadio Olimpico, sulle pendici di Monte Mario. Andai da lui un giorno perché aveva bisogno di scrivere delle leere. Poi ci siamo scambiati un po’ di cartoline di Natale e anche le partecipazioni di nozze: ci siamo sposati nello stesso periodo. Sa niente di come cominciò la relazione con Paola Mori? Allora stavo lavorando come insegnante di dizione inglese sul set di Fanciulle di lusso; il regista Bernard Vorhaus mi fece fare anche una particina, l’insegnante di balleo. Nel cast c’era anche la Mori. Una sera mi telefonò sua mamma e mi chiese: “Mary, senti, c’è la Paola che sta andando con Orson, devo preoccuparmi?” Io: “Sììììììì.” Perché Welles aveva parecchie avventure.
Orson affascinava tue. Io lo adoravo. Non sono stata con lui, non ci sarei voluta andare, era la cosa più lontana dal mio pensiero, però se lui ci si meeva ce la faceva, con la stessa facilità di uno schioccar di dita, perché era proprio uno svengali, una cosa incredibile! Non provò mai a corteggiarla? No, per lui ero una sorellina. Le racconto una cosa che non ho scrio nelle mie leere. Eravamo a Marrakech, all’hotel Mamounia. Una sera Orson mi dice: va bene, adesso basta, riposati, fai un bagno, vestiti carina, e vieni giù al bar alle oo. ando ci vediamo mi fa: “Caraaaa, come staiiii?” come due che si incontrano dopo mille anni in mezzo al deserto. “Vieni, andiamo a mangiare.” Ci meiamo seduti e lui parla di tuo, meendosi al mio livello. E di cosa poteva parlare un genio con una segretaria ignorante? Di balleo. Perché il balleo era la mia grande passione, la cosa di cui sapevo di più. S’immagina Orson che parla di balleo? E ne parlava con conoscenza! E tua la sera, a versarmi il vino, come due persone che in un tempo lontano erano amanti e che s’incontrano in un’oasi. Finito il pranzo: “Buonanoe, dormi bene.” Cosa gli era saltato in testa? Era l’ora di fare teatro. Di fare una scena. Di stare insieme come amici, non più come segretaria e boss. Di essere carino. Ed era un amore, un uomo così ti scioglie. Io non ne ero innamorata, ma lo amavo comunque molto. Avevamo la medesima passione per l’opera. Mi era affezionato anche perché venivamo entrambi dal Midwest. Mi diceva che il mio accento gli era molto caro perché gli ricordava le sue origini. Lui era nato in Wisconsin ma ha vissuto parecchio a Chicago, dove sono nata io. Conoscevo i Bernstein e avevamo molti amici in comune. Era molto nostalgico, perciò per lui ero una specie di punto fermo d’America che poteva vedere e toccare. Un’altra cosa che ricordo del periodo in Marocco mi riporta ancora più indietro negli anni, quando vivevo a Hollywood e Dockey Bernstein mi lasciò prendere in prestito una serie di incisioni del Mercury eatre con il Giulio Cesare di Shakespeare, in cui Orson interpretava il ruolo di Bruto (e, credo, anche diversi altri ruoli minori). Avevo ascoltato quei dischi più volte, ancora ancora e ancora, solo per sentire la mirabolante voce di Orson. Ero soprauo appassionata della scena tra Bruto e Cassio quando il primo accusa l’altro di aver preso compensi illeciti dai Sardiani, e Cassio si difende dicendo: “Che tu mi abbia fao torto è chiaro da
questo…” L’avevo sentita talmente tante volte che la conoscevo per intero a memoria. A Mogador, mentre ci trovavamo nella sala da pranzo dell’albergo e Orson stava in un tavolo con Micheál e Hilton mentre io sedevo a un altro con i tecnici italiani, sento di sfuggita il Master accusarmi di aver fao qualche pasticcio. Mi giro e dichiaro ad alta voce: “Che tu mi abbia fao torto è chiaro da questo…” e per pura forza d’abitudine arrivo fino alla fine della bauta. Al che Orson esclama: “Tu hai fao torto a te stesso scrivendo in questo caso…” e pure lui arriva fino alla fine del discorso. Abbiamo continuato a recitare l’intera scena per lo stupore di coloro che si trovavano con noi. Alla fine ci siamo tui messi ad applaudire e a ridere scuotendo freneticamente la testa, specialmente Orson con quella sua tonante contagiosa risata in cui i suoi occhi diventavano soili come quelli di un cinese. Nelle sue leere sembra meno interessata alle questioni tecniche. In realtà io guardavo molto il set. La mia massima aspirazione era diventare segretaria di edizione. Non avevo idea di quanto fosse difficile, però vedevo Gouzy, la script girl svizzera, tenere libri e libri di spiegazioni e annotazioni. Si faceva un campo a Viterbo e un controcampo a Mogador, per cui si doveva segnare tuo. Oltre a Gouzy arrivò anche un’altra script girl, che Mac Liammóir chiama col solo nome, Ruth. Ruth Hill. È stata con noi la bellezza di due seimane! Non so perché, ma Orson l’aveva assunta col titolo di direrice di dialogo. Dalle sue mani sono passati tanti progei di quel periodo. Ricorda qual era “il dramma teatrale tuo politico ma davvero divertente” che stava dailoscrivendo a Taormina nel marzo del ’50? e Unthinking Lobster, che poi ha fao in teatro a Parigi; baei a macchina tue le scene ma non ho tenuto niente. Negli stessi giorni Orson mi deava un soggeo su una vampira, la Carmilla, che poi al cinema è stato fao non da lui ma da Vadim; ricordo che mentre baevo il testo di Orson avevo tanta paura. Era veramente spaventoso. Una noe, era molto tardi, stavo baendo a macchina da sola, in una camera isolata, perché non volevo dare fastidio all’unica altra ospite dell’albergo, un’anziana signora inglese. Il vento soffiava fortissimo e improvvisamente una persiana si mise a baere. Sono saltata su urlando e sono volata nella mia camera chiudendomi dentro a chiave.
Nella stessa epoca lei baé a macchina anche delle note a proposito dell’Ulysses; un giornalista riferì che Pabst aveva appena mandato a Welles un copione per fargli interpretare Ulisse nel suo film. esto non lo so. So che Orson aveva delle idee sue per questo film e deava: qui farei questo anziché quello, si potrebbe aumentare l’interesse se si allargasse questo tema qua… Note così, sull’eventuale realizzazione. È l’unica cosa che poteva dire a una segretaria, non è che mi parlasse del progeo. Cosa pensava Welles degli italiani? Non saprei perché non l’ho capito. ando era a Taormina i giornali scrissero che era arrivato il marito di Gilda, e lui commentò “ecco, posso fare tuo ma verrò sempre riconosciuto solo come l’ex marito di Rita Hayworth dagli italiani.” Usando un nome non carino per “italiani”, che sarebbe wops. A me questo dava fastidio, come dava fastidio a Mac Liammóir quando chiamava gli irlandesi harps. Però sa, tante volte, in un momento di stizza… Poco prima che con Welles lei lavorò con Anna Magnani. Voleva perfezionare l’inglese e quindi facevo conversazione con lei. Come donna era molto nervosa, era una furia traenuta. Come allieva, distraissima. Voleva fare tuo, fare conversazione con me e intanto portare i suoi cani a fare la passeggiata a Villa Borghese. Uno mi ha azzannato pure. Ha smesso quasi subito, tre o quaro lezioni. E dopo Welles, passò con Rossellini. Mi presero a lavorare nell’episodio di Rossellini e Ingrid in Siamo donne. Dopo mi hanno chiamato per Viaggio in Italia e Giovanna d’Arco al rogo. Ho fao la segretaria di edizione, non so come, perché non ne sapevo niente. Che tipo di regista era Rossellini? Per me era un Orson Welles junior, come charme e anche come mentalità. Mi sembrava un pesce fuor d’acqua quando faceva i film cosiddei normali, non fai spontaneamente come Paisà e Roma cià aperta. A me Viaggio in Italia non è piaciuto; e Giovanna d’Arco al rogo che nell’allestimento teatrale al San Carlo di Napoli mi era piaciuto da morire, non era secondo me una cosa da filmare. Ha lavorato anche con Visconti.
Senso è l’unico film dove mi danno sui crediti il titolo di segretaria di edizione, e non era vero, mentre negli altri film che ho fao lo ero e non lo meevano. Io lavoravo con il gruppo della macchina da presa, tenevo il diario di lavorazione e il metraggio. Il vero script boy, quello che teneva i raccordi, era il povero Giancarlo Zagni; Visconti saltava su per un nonnulla e se la prendeva sempre con lui. “E che è questo⁈ Io ho deo rose dell’Oocento! este non sono rose dell’Oocento‼” Lasciai il film prima della fine, poco dopo che morì G.R. Aldo, in un incidente d’auto; per un po’ tuo si fermò, per cercare un altro operatore. Dopo aver girato al Teatro della Fenice andai via. Da americana, cosa pensava di quella Italia? Politicamente non sapevo nulla, ero completamente digiuna. Conoscevo vita morte e miracoli di tui quelli che stavano sul set ma non quello che succedeva fuori… Era scoppiata la guerra in Corea e io non ne sapevo niente! Il cinema era un mondo favoloso, che adoravo, mi sembrava di vivere un sogno. Sembra un sogno anche oggi. In pochi anni il cinema italiano ebbe una fioritura di talenti che non si è più ripetuta. Allora non mi ponevo certo il problema, vedevo questa fioritura e dicevo che il genio italiano proseguiva dopo la batosta della guerra, una specie di rinascimento post World War II. Non ci pensavo, andavo sempre avanti vivendo il presente. al è la cosa più importante che ha imparato da Orson Welles? anto fossi ignorante. Anche perché me l’ha proprio deo: “Mary, se non leggi sarai sempre eternamente stupida. Te lo dico io, tu hai una mentalità inferiore, quindi leggi.” Dopo Senso non ha più lavorato in un film. Perché? Forse perché volevo sposarmi. Ma non ho nessun rimpianto, solo dei ricordi bellissimi a cui amo tornare con la mente. Sapere che non avrò mai nel futuro quello che ho avuto nel passato non mi rarista. Perciò guardo al passato con grande piacere, e penso a come sono stata fortunata.
13. Mascherate
And you my Lady Countess, you certainly don’t dye you hair to fool the others, only to chest your image a lile before the looking glass. But I assure you, that you also, Madame, are in masquerade. L’Imperatore alla Contessa nella sceneggiatura Masquerade (1951)
Un cane che morde un uomo non fa notizia. Ma un cane che morde Orson Welles sì. Dal “Corriere d’Informazione” del 16 gennaio 1951: “Un cagnolino di pelo rossiccio ha addentato, all’alba di ieri, in piazza Barberini, un dito della mano destra di Orson Welles. Abbauto a rivoltellate dal vigile nourno Achille De Angelis, l’animale è stato trasportato al Canile municipale e riconosciuto idrofobo. Così che l’aver accarezzato un cane randagio costerà all’aore e scriore americano, da qualche tempo a Roma, quaranta giorni di noiose cure.”1 Pare che Welles, alle quaro del maino, si fosse imbauto in un cane fermamente deciso ad addentargli la piega dei pantaloni. Il regista si era piegato per accarezzarlo, forse aveva tentato di allontanarlo col piede, e l’animale lo aveva azzannato alla mano; intervenuto prontamente, un vigile nourno aveva fulminato la bestia con la rivoltella d’ordinanza. Il quotidiano romano “Momento-Sera” dedicò alla notizia tre colonne con foto, e l’eco arrivò fino in America. L’associazione per la protezione del cane stigmatizzò il comportamento del vigile, che aveva ucciso la bestia senza essere sicuro che fosse malata. alcuno insinuò che fosse stato Welles a cominciare, prendendo a calci la povera bestia. Bob Hope ne approfiò per piazzare l’ennesima bauta: “Certe baruffe in famiglia bisognerebbe ignorarle, ha fao male l’agente a meersi in mezzo ai due.”
el morso a tradimento costrinse Welles a rinunciare a viaggi e spostamenti per un mese e passa; d’altra parte l’impegno maggiore, in quel momento, era il montaggio di Otello. “Caro George,” aveva scrio una seimana prima a Fanto, “ti scrivo in tua frea dall’anticamera di Catalucci [famoso laboratorio di sviluppo e stampa] dove praticamente vivo in questi giorni […] Il lavoro di montaggio continua a ritmo sostenuto. Tuavia, la nostra squadra di montatori è tanto dispendiosa quanto ampia, e il loro tempo di lavoro è infelicemente europeo piuosto che americano. Se non sto col fiato sul collo a tui, si combina molto poco.”2 Fanto era a Londra, a fronteggiare varie questioni wellesiane in sospeso: una causa minacciata da Borneman, un presunto credito di cinque milioni di lire da Alexander Korda e soprauo la promessa di diverse edizioni di Otello per oemperare agli accordi con Jean Davis e Edmond Ténoudji. Da un’altra leera a Fanto, pare che Welles intendesse preparare una “versione europea” del film, da doppiare prima in italiano e poi in francese, e una differente in lingua inglese. Ma, aenzione: il regista ricorda a Fanto che in un eventuale incontro con Ténoudji “è importante insistere che la versione europea del film non va vista come una seconda versione. Non lo è. È leeralmente la versione europea. Non è qualcosa di preparato successivamente per le sale della provincia. Al contrario.”3 Una precisazione da tenere presente nel confronto fra le varie edizioni. Il lavoro alla moviola, coordinato a Roma da Renzo Lucidi, era complicatissimo. Le riprese caotiche e intermienti di Otello avevano costreo Welles a girare campi e controcampi a notevoli distanze di tempo e di chilometri (ci sono dialoghi che cominciano in Marocco e finiscono a Venezia o negli studi romani della Scalera, campi lunghi a Viterbo e controcampi a Ostia), con disparate emulsioni di pellicola (la Dupont, la Kodak francese, la Kodak americana, la Ferrania), svariati operatori che si erano alternati all’obieivo e alle luci, e la mancanza per parte delle riprese di una segretaria di edizione, con la conseguente difficoltà a sorvegliare la “continuità” dell’azione. E in un’epoca in cui il monitor era ancora inconcepibile, Welles aveva girato almeno mezzo film in un paese, il Marocco, in cui il tempestivo controllo dei “giornalieri” era impossibile!
Welles e Michał Waszyński al ristorante Da Alfredo in piazza Augusto Imperatore, probabilmente nel 1951.
Tuo ciò aveva complicato e moltiplicato il materiale girato (i dati ufficiali Scalera parlano di 24.000 metri di pellicola, quasi quindici ore di proiezione ininterroa), costituito a volte di brevi inquadrature, con ciak rigirati, ripensati e correi a distanza di mesi, campi lunghi in cui Desdemona era quasi sempre Suzanne Cloutier ma poteva essere anche Lea Padovani o Betsy Blair, e qualche raro piano sequenza che a volte finiva per essere spezzeato. Per raccapezzarsi, la troupe di Welles aveva stampato su carta dei provini; alcuni però erano andati perduti perché venivano pure utilizzati per vendere il film ai distributori. Fu lo stesso Welles, con la sua abilità mnemonica, a evitare problemi insormontabili. Sul set le sue idee visive erano state chiarissime (una Venezia sonnacchiosa, invernale, immersa nell’acqua, contro una Cipro esaltata da sciabolate di luce); e se in moviola qualche personaggio che avrebbe dovuto guardare verso destra lanciava il suo sguardo a sinistra, il regista ricreava le corree posizioni invertendo il negativo. Come tui i veri artisti, Welles seppe trarre forza e coerenza dai problemi e dai contraempi, trasformando i difei in pregi, il caos in stile, facendo sì che la “disintegrazione” visiva suggerita dalle immagini e quella “sensazione di instabilità titubante” causata dalla precarietà delle riprese, apparisse come la conseguenza della “logica disfaa” e della “sintassi sminuzzata” di Jago, non di deficienze tecniche o organizzative.
Intanto Angelo Francesco Lavagnino componeva le musiche (un tema lugubre e solenne per i funerali di Otello, un ballabile aggraziato per le scene veneziane, un tappeto di mandolini per l’assassinio di Roderigo);4 e lo scriore Gian Gaspare Napolitano, che aveva appena finito di lavorare sui dialoghi italiani del Macbeth, assunse l’incarico di curare anche il doppiaggio dell’Otello. Man mano che il film veniva montato, Welles s’accorgeva di qualche passaggio migliorabile e girava ancora qualcosina. Sempre a gennaio, Napolitano accenna di alcune riprese in studio a Roma, “il film è finito e ormai in fase di mixage,” spiega, “ma lui conserva intorno alle gote la corta barba del Moro di Venezia per il caso che occorra girare qualche scena supplementare.” “Parla italiano correntemente, con una punta di civeeria,” aggiunge Napolitano. “L’Italia gli piace, ma capisce benissimo che lui non piace agli italiani. Il suo è un caso di amore non corrisposto. Non è neppure che in Italia si diverta. L’Italia non è un paese divertente. È importante, lui non può farne a meno oramai, ma sente che tua la sua vita, qui, è sbagliata.”5 I malumori di Welles dipendevano probabilmente anche dal fao che Olian, in quei giorni al centro di una campagna scandalistica come “l’uomo del mistero di Villa Madama”, finanziava il film sempre meno volentieri. In aesa di formalizzare il tuo con un accordo ufficiale, Welles gli aveva promesso la versione in lingua italiana entro marzo;6 Olian aveva cominciato col dargli 35.000 dollari ma la cifra si alzò a poco a poco fino a 200.000, e Welles fu costreo a dargli in garanzia sempre maggiori quote di proprietà del film. Olian, che all’inizio doveva avere creduto di trovarsi di fronte a un affare come tanti, si ritrovò impastoiato nelle promesse dell’americano, e, irritato dai continui rinvii, esplodeva in pubbliche sfuriate nella hall dell’Excelsior. “Tu as raison, Michel,” cercava di rabbonirlo in francese un imbarazzatissimo Welles.7 “Non so davvero cosa capiterà più avanti,” Orson scriveva a Fanto l’8 gennaio. “Finché non risolvo qualcosa con Olian, sia sul futuro contrao sia sulle future vendite di Otello – finché Jean Davis non inventa qualcosa – o tu inventi qualcosa – non so proprio cosa dirti di fare. Avrai presto bisogno di denaro, e l’unico modo di fartelo oenere è di rallentare seriamente da parte mia il completamento di Otello da cui tuo dipende.”8
Sia stato il bisogno di contante, o la necessità strategica di dilazionare la chiusura di Otello, Welles cominciò a occuparsi anche d’altro. Harriet White, che dopo le lezioni d’inglese alla Padovani aveva trovato un impiego come doppiatrice, se lo trovò davanti quando venne convocata per il doppiaggio in inglese del film Enrico Caruso (Leggenda di una voce): “Ero stata assoldata per far questo lavoro da qualcun altro, così potete immaginare la mia sorpresa quando entrai nello studio e scoprii che Orson dirigeva il doppiaggio! Allo scopo di fare qualche soldo in più per Otello, Orson acconsentì di dirigere il doppiaggio inglese di alcuni film italiani. Fu probabilmente pagato qualcosa come 20.000 dollari a film, e naturalmente non gli fu riconosciuta alcuna menzione per il lavoro. Diresse le sedute con grande cordialità e humour. Avrebbe voluto dire agli aori, ‘Prendetevi tuo il tempo; è solo nastro, non pellicola. Possiamo farlo e rifarlo tue le volte che sono necessarie.’”9 Un altro film doppiato in inglese da Welles (e, come Enrico Caruso, prodoo da Peppino Amato) fu Don Camillo, in cui è di Welles sia la voce del narratore fuori campo sia quella del Crocifisso. Né il lavoro di doppiaggio si limitò ai soli film italiani; poco più avanti, “L’Écran français” annunciò che nella versione in lingua inglese di Le Trésor de Cantenac, Welles avrebbe dato la propria voce al protagonista (e regista) del film, Sacha Guitry.10 Risalgono probabilmente a questo periodo anche le riprese del cortometraggio Return to Glennascaul, una graziosa ghost story direa da Hilton Edwards, anche produore insieme a Mac Liammóir. Orson vi partecipò dando la propria voce di narratore fuori campo, apparendo brevemente nei panni di se stesso e verosimilmente con qualche consiglio qua e là: un altro modo di ripagare il suo debito con i due amici. Il corto si apre con Welles intento a dirigere Otello in uno degli studi della Scalera, e si chiude ancora con lui al volante di un’auto dopo avere ascoltato da Michael Laurence (l’interprete di Cassio in Otello) il pauroso racconto che costituisce il nocciolo del film stesso. Ma l’inizio del 1951 suggerì a Welles anche un’altra cosa: il ritorno al progeo cinematografico dall’Enrico IV di Luigi Pirandello. Il 26 gennaio il Fiammea era assediato dai fotografi. Il teatro ospitava la prova generale di Se il Tevere parlasse…, rivista in due tempi di Fiorentini e Gigliozzi, interpretata dai nomi più sonanti
della nobiltà romana. Il biglieo costava una sberla: diecimila lire a poltrona, incasso destinato in beneficenza. La sala era fia di aristocratici ma c’erano anche grossi nomi dello speacolo: Anna Magnani, Wanda Osiris, Totò e Orson Welles, che malgrado l’invito a non fumare continuava a tirar grosse boccate da un voluminoso sigaro.11 ella sera la prestigiosa platea venne caurata da una scatenata diciasseenne, la contessina Gisella Sofio, che si esibì in un paio di tipizzazioni da manuale. A fine speacolo, Antonio de Curtis e Orson Welles andarono a complimentarsi in camerino; il primo le offrì un posto nella sua compagnia di rivista, il secondo un ruolo nel film dall’Enrico IV di Pirandello, “la parte della figlia di Enrico, che nel rifacimento di Orson diventa una signorina qualunque”.12 “ella sera fu il mio debuo nello speacolo,” racconta Gisella Sofio, arice brillante destinata a raccogliere successi in cinema, tv, radio e teatro. “Avevo cominciato a fare imitazioni guardando le signore che venivano a casa a prendere il tè: arrivavo, facevo la riverenza, me ne tornavo di là e le imitavo. Un giorno la principessa di Belmonte, grande amica di mia madre, le dice: ‘Ma mandaci tua figlia, che facciamo questa cosa di beneficenza. Basta che stia lì sul palcoscenico, la meiamo in un cesto con delle rose, con dei fiori in testa, a fare i tableaux vivants.’ Mi hanno messa in una specie di vaseo con dei fiori. Dopo due giorni ero disperata. Continuavo a guardare tue queste signore, la sarta che ci vestiva, una che voleva fare la cantante, e facevo le imitazioni di questa e di quella. La sera della prova generale, mi misi d’accordo col regista Enrico Glori, che si faceva chiamare Pupeo, e decisi di proporre tue le mie imitazioni. La Magnani e Orson Welles stavano in prima fila, accanto a loro c’erano anche Totò e Wanda Osiris, e qualsiasi cosa io facessi applaudivano. Andai così, allo sbaraglio, allora non me ne importava niente. Alla fine Welles venne a offrirmi la parte della figlia di Enrico IV. Io naturalmente ero tua entusiasta e dissi di sì. Andai sull’Appia, dove Welles aveva un ufficio, a fare una piccola prova. Avevo un tailleur rosso, il rosso mi porta fortuna e io credo molto al malocchio. In questo ufficio c’era lui con tante persone intorno a un grande tavolo, sembrava di sognare. Welles parlava italiano, abbastanza bene; meeva soggezione così alto, grosso, con quella barba, però simpaticissimo, gentilissimo. Il copione era in inglese, il film si sarebbe girato in quella lingua, e io l’inglese lo conoscevo. Il ruolo era lungo, una bella parte. Ne ho leo un
pezzeo, l’ho imparato a memoria, gliel’ho recitato, andò tuo benissimo. Una cosa così, senza provino filmato. Dopodiché Welles si mise in contao con i miei: io ero ancora minorenne, dovevano essere loro ad acceare. Ma mia nonna non volle, perché dovevo ancora finire il liceo. Uscì anche un giornale, pensi che titolo: ‘La nonna ha deo no’. Ha deo no a tui, a Welles, a Totò, pure a Wanda Osiris che mi aveva offerto una rivista con Gianni Agus. L’Enrico IV finì così. So che Welles lo aveva modificato rispeo alla commedia di Pirandello, il copione del film me lo aveva dato ma io non ce l’ho più. Peccato, tuo sparito nel nulla… Rincontrai Orson Welles qualche anno dopo, quando sposò Paola Mori, che conoscevo già di famiglia. Erano andati a vivere a Fregene e lo rividi lì qualche volta, in spiaggia, innamoratissimo della moglie. Era un tipo appassionato, sanguigno, pieno di temperamento. Come personaggio l’avevo tanto ammirato però non avevo avuto modo di approfondirlo. Ero solo intimidita, impressionata dal fao che mi avesse chiamato e poi arrabbiatissima di non fare niente, furibonda con tui… Ma sa che non me ne ricordavo più? La prima proposta cinematografica della mia vita me l’ha faa Orson Welles e io me n’ero dimenticata! Mi sono presa un colpo quando lei me l’ha deo. Io poi non ricordo mai le cose non riuscite, infai la mia vita mi sembra sempre bellissima: il resto lo ‘rimuovo’, come si dice adesso.”13 Nelle interviste e nei testi di cui si ha notizia, Welles ha parlato solo una volta dello script pirandelliano e con evidente soddisfazione: “Ci ho passato dei mesi su quella sceneggiatura. Se mai desiderassi pubblicare una mia sceneggiatura, vorrei che fosse quella. Era un rifacimento completo sul tema pirandelliano, non era una versione cinematografica del dramma. Si svolge in Europa, ma il protagonista è un americano. Più tardi, Tennessee Williams mi ha rovinato l’idea usando la lobotomia frontale in Suddenly Last Summer. L’idea era questa: il padre dell’uomo che crede di essere, o finge di credere di essere Enrico IV, vive in una isolea al largo della costa italiana, e decide di vedere il bluff di suo figlio e di svergognarlo.”14 La sceneggiatura consegnata a Gisella Sofio è andata smarrita, ma un’altra copia esiste ancora. È un dailoscrio di circa centoseanta pagine, in lingua inglese, con rare annotazioni a mano. Non ha data, anche se è presumibile che risalga al 1951. In copertina il titolo è Masquerade, seguito dalle indicazioni “A
Screenplay by Orson Welles” e, più in basso tra parentesi, “Based on a eme by Luigi Pirandello”.15 Il confronto con il dailoscrio conferma le parole di Welles. L’idea di fondo (l’uomo che finge di essere un pazzo che crede di essere un antico imperatore), diversi personaggi e anche alcune baute sono trai leeralmente dal dramma di Luigi Pirandello, ma il testo teatrale è soprauo un punto di partenza: oltre al tema vero/falso, sempre capitale negli interessi di Welles, dentro Masquerade c’è molto altro. L’ambientazione è l’Adriatico, al largo di Bari (anche se un “Palermo” semicancellato suggerisce un’indecisione riguardo l’ambientazione), sulla piccola isola immaginaria di Illyria, come si chiamava anticamente la parte occidentale della regione balcanica di fronte alla costa pugliese. La giovane Frida, che nell’Enrico IV si prestava a “guarire” il folle, è qui la sedicenne Lise, di cui il protagonista s’innamora ricambiato. Il suo spazio e la sua funzione sono molto più ampi che in Pirandello, fino ad assumere, in voce over, un esplicito ruolo di narratrice. Il personaggio entra già nella prima pagina, impegnata nella passerella di una rivista, evidente ricordo dello speacolo al Fiammea – il che situa il dailoscrio successivamente (probabilmente di poco) all’incontro con Gisella Sofio. Lise è un’arice sedicenne in fuga dalla madre, una contessa italiana; il padre, uno scandinavo che lavorava come istruore di sci a St. Moritz, non è stato l’unico uomo della madre: l’auale amante è il conte Sandro Belcredi, proprietario dell’isola di Illyria, affiata al folle “imperatore” perché ne faccia il suo regno personale. Come in Pirandello, il protagonista ha smarrito la ragione in seguito a una grande festa in maschera, dopo la quale ha continuato a vivere con le stesse regali vesti indossate al ricevimento. Il medico che nella fonte teatrale cercava di “guarire” il pazzo ha qui il nome mieleuropeo di Knoedler, ed è un chirurgo specializzato in lobotomia. L’aggiornamento più stuzzicante riguarda l’espediente araverso il quale Lise tenta di riportare l’uomo alla ragione provocandogli uno shock. Anziché realizzare una recita, che in Pirandello sarebbe stato teatro nel teatro, lo script di Welles immagina la proiezione del film amatoriale che aveva ripreso la festa mascherata, organizzando così un film dentro il film.
Welles non era tipo da appassionarsi alla mise en abyme, i suoi interessi andavano ben oltre cinefilie e semiotiche. Il vero motore di Masquerade è il personaggio del padre, assente nel testo pirandelliano, che irrompe alla metà esaa della sceneggiatura. Nello script si chiama James J. Hamsun, ed è descrio come un elemento decisivo nella storia d’America: amico intimo di omas Edison e Henry Ford, è stato per quarant’anni consigliere presidenziale e dirigente di una grossa industria di prodoi in gomma a Duluth, in Minnesota. È lui ad avere provocato la “follia” del figlio, calandogli in testa un candelabro in oone massiccio durante la fatidica festa in maschera (idea evidentemente ispirata dall’incidente occorso sul set di Cagliostro all’aore Stephen Bekassy, colpito da un candeliere durante un duello con Welles; nel dramma di Pirandello era invece una caduta da cavallo provocata dal rivale in amore Belcredi). Il litigio fra padre e figlio sembra essere stato causato da antichi dissapori familiari, una separazione fra i genitori della quale il vecchio Hamsun ha almeno una parte di responsabilità. La “follia” del figlio è stata dunque indoa dal candelabro oppure rappresenta il suo rifiuto a tornare nel consesso civile di cui il padre fa parte? È una domanda che il vecchio Hamsun non vorrebbe neanche porsi: per lui l’aeggiamento del figlio è qualcosa da superare, un caivo ricordo che la lobotomia potrebbe sedare e possibilmente cancellare, anche a costo di uccidere il paziente.
Pagina di sceneggiatura da Masquerade di Orson Welles.
Uno degli elementi interessanti di Masquerade è che risuona di accenti religiosi, riecheggiando un poco e Unthinking Lobster. “Forse è questo ciò che è sbagliato oggi nel mondo, la mancanza di fede. È una perdita terribile,” dice a un certo punto Burns, il factotum che lavora da una vita per il vecchio Hamsun. “Ci dimentichiamo delle cose brue,” dice più avanti l’Imperatore. “È la misericordia di Dio. Se la bruezza restasse per sempre con noi, nessuno sarebbe sano di mente.” Si noti soprauo questa bauta di Lise: “Fede? Fede in cosa? Nella giustizia di Dio, o nella bontà degli uomini? Sciocchezze. Bisogna essere dei santi per amare Dio malgrado i Suoi errori, e per credere che le persone siano buone devi essere un pazzo…” Bret Wood, fra i pochissimi ad accennarne, ha messo in relazione il progeo dall’Enrico IV con quelli di e Way to Santiago e Carnaval (entrambi con un protagonista che non ricorda neanche il proprio nome), come ponte per arrivare infine a Mr. Arkadin.16 Il tema della ricerca dell’identità non è in realtà centrale. L’intesa fra l’Imperatore e Lise, che conversano citando brani di Shakespeare (da La dodicesima noe, Amleto, Re Lear, La tempesta) è emblematica. alcosa del genere era appena avvenuta a Mogador fra Welles e Mary Alcaide ma l’abitudine di scambiarsi baute del Bardo c’era già fra Orson bambino e la madre. Non è un riferimento casuale: se il dramma della follia era in Pirandello legato al tradimento amoroso, la versione di Welles riguarda i traumi legati all’infanzia. Nella seconda metà il copione si assesta infai decisamente sul confronto padre-figlio. Entrambi riluanti a incontrarsi, i due infine si affrontano, si fronteggiano. L’Imperatore finisce per aggredire il genitore e fugge credendo di averlo ucciso. ando si rende conto che il vecchio Hamsun è ancora vivo, lascia a Lise una leera in cui annuncia il suo suicidio: “L’oceano qui è profondo e freddo, e suppongo che la morte sia ciò che ho davvero cercato per tui questi anni […] Non lasciare che giustifichino questa o qualsiasi altra cosa con una parola presa da un manuale di medicina. Non sarà una cosa originale da parte mia, ma preferisco essere un peccatore che un mao. Non lo vorrebbe chiunque? E non si traa di una specie di prova? Non prova che la maggior parte delle persone è buona perché preferisce essere ritenuta responsabile? Ma a questo dovrai trovare una risposta da sola. Io non ho tempo. Mio padre ha sempre deo che non contavo niente.”
Commento del padre: “L’ha fao per farmi male…” Nell’ultima pagina, Lise lascia l’isola di Illyria, e l’imbarcazione raggiunge la terraferma in un silenzio di quieta disperazione. Molti film di Welles si concludono con la morte del protagonista ma pochi con un suicidio. Giusto l’Otello e Mr. Arkadin, cioè proprio la pellicola girata prima e quella girata dopo la scriura di Masquerade. Anche l’incompiuto e Other Side of the Wind si chiude con un (presumibile) suicidio, e il nocciolo tematico ha in effei a che fare con una figura paterna e una filiale. Travestimenti indirei, metaforici, come avverrà anche in Falstaff; solo all’inizio di arto potere (non a caso un esordio, il film in cui si tende a meere dentro tuo) Welles ha raccontato in modo esplicito la sua condizione infantile, di ragazzino abbandonato traumaticamente da genitori assai diversi. Ma mentre la madre, perduta a soli nove anni, si prestava a essere idealizzata, con la figura del padre, Orson ebbe un rapporto a dir poco irrisolto. All’età di sei anni assistee al litigio dopo il quale i genitori si separarono, mentre l’amante di lei, il door Maurice Bernstein, diventava una sorta di genitore adoivo e, insieme, il peggior nemico di papà Welles. Il quale si lasciò lentamente andare sprofondando nell’alcolismo. Orson ha più volte sostenuto di sentirsi responsabile della morte del padre, avvenuta quando lui aveva quindici anni; il referto segnala malaie legate all’alcolismo ma Welles ha adombrato un tentativo di suicidio che sarebbe stato sollecitato dal suo rifiuto di vederlo negli ultimi sei mesi. Una condoa che, pur deata dal tentativo di frenare l’alcolismo del genitore, ha sempre considerato “inescusabile”. Né il ricorso alla psicanalisi avrebbe potuto sbarazzarlo del senso di colpa. Come disse a Barbara Leaming, “non voglio perdonarmi. Ecco perché odio la psicanalisi. Io penso che se sei colpevole di qualcosa devi conviverci. Sbarazzartene… come fai a sbarazzarti di una vera colpa? Io penso che la gente debba conviverci, guardarla in faccia.”17 Tui i film di Welles vertono sul tema del tradimento, ma Masquerade sarebbe stato l’unico ad applicarlo esplicitamente al rapporto fra un padre e un figlio, in modo più esplicito che in Falstaff, rimestando fra le sue angosce più profonde. “La perdita di suo padre fu irrimediabile,” ha scrio Simon Callow, “un colpo devastante. Non avendolo mai avuto davvero, lo cercò in tui i giorni a venire, a volte cercando di esserlo lui stesso, altre volte
provando a crearne un’immagine che dissolvesse le delusioni del passato.”18 In Masquerade è evidente che Welles, da aore, si sarebbe riservato il ruolo del figlio, vicino a lui innanzituo per età, ma è facile vederlo anche nel personaggio del padre, un anziano tycoon affascinante e impulsivo come Charles Foster Kane, e come il vero Welles ben deciso a tenersi i propri traumi. Hamsun a un certo punto urla: “Non voglio essere analizzato! Tui gli esperti sono venuti qui una volta o l’altra, e quando tornano per il loro report cominciano sempre ad analizzare tuo, specialmente me.” Un punto ribadito dalle parole di Giobbe che lo scienziato Knoedler recita dopo la leura del biglieo del suicida: “L’uomo nato da donna vive pochi giorni ed è pieno di inquietudini, come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma…” Pronuncia queste parole non perché sia religioso – precisa il chirurgo – ma per rispeare le volontà dello scomparso “di citare la Bibbia anziché Freud”. È una sceneggiatura appassionante, sorprendente, complessa. Traandosi di un regista come Welles, è impossibile immaginare con quale stile e quali modifiche sarebbe stata realizzata se si fosse fao avanti un produore lungimirante, e se la nonna di Gisella Sofio avesse deo di sì. Masquerade rimane soprauo il film (mancato) in cui Welles si mee più a nudo, negli angosciosi traumi familiari e in relazione al proprio credo religioso, due argomenti sui quali in vita ha scelto di rivelare il meno possibile. Poche seimane dopo lo speacolo con Gisella Sofio, le sale italiane distribuirono Macbeth nella nuova versione. “L’edizione italiana,” annuncia Alberto Mondadori su “Epoca”, “[…] ha subito qualche taglio ma è sempre un’opera che resterà nella storia del cinema insieme all’altro capolavoro di Welles Citizen Kane.”19 Il film venne considerato con maggiore aenzione rispeo all’accoglienza veneziana del ’48, riconducendo alcuni recensori a più miti giudizi. Ennio Flaiano, per esempio, ricalca solo in parte il roboante ritrao di Welles fao tre anni prima. Però gli scappa comunque di parlare di “compiacimento di stregoneria”, di “sospeo di fuoco d’artificio”, di “un gusto da nuovo ricco dell’intelligenza che non bada a spese e colpisce la fantasia dei convitati accendendo il sigaro con un biglieo da mille”.20 Anche Guido Aristarco fa parziale marcia indietro, sfiorando appena la questione della trasposizione da Shakespeare: “esta di Welles [si rià] a un primitivismo istintivo, ad uno scatenamento di forze
rozze e barbariche anche se contenute in inquadrature calligraficamente studiate. […] Molto si addicono, del resto, al prestigiatore Welles e al suo narcisismo, il diatore Macbeth e quelle streghe che gridano […]. Macbeth, film sia pure discutibile, ha un particolare fascino; e potrebbe suggerire un riesame aento della personalità di Welles.”21 “ando si sarà ricordata la sostanza del testo shakespeariano,” scrive Fernaldo Di Giammaeo, “si sarà compreso che non esiste altra via per accostarsi al film di Welles. […] Welles ha visto nella tragedia violenza e orrore […] ciò che di fao vi si trova. […] Le contraddizioni del regista sono innumerevoli, e formano un groviglio quasi inestricabile, da Citizen Kane a Macbeth. Si aggiunga però che non tue le contraddizioni, e non sempre in Citizen Kane come in Macbeth, come nelle opere minori – danno esito negativo.”22 “Di fronte alla controllata regia di Olivier,” Cosulich rievoca i giorni veneziani, “gli esibizionismi di Welles non potevano non irritare: tuavia va presto deo che la critica, almeno in parte, assunse un tono assai poco obieivo. […] Welles […] poteva rispeare il testo fin che voleva: restava il selfmade man, dalle svariate esperienze, l’enfant prodige […]. A due anni di distanza, fuori di ogni polemica, certe cose si vedono e si giudicano meglio. […] Welles avrà fao del male al cinema, ma, fra tanti mali che incombono su quest’arte disgraziata, il suo è forse quello che preferiamo.”23 Meno conciliante, Mario Gromo, già membro con Aristarco della giuria veneziana del ’48, aribuisce disinvoltamente al regista i tagli imposti dai produori: “Stabilito – secondo Welles – che l’aenzione e la tensione di uno speatore non possono essere poste alla prova per più di un’ora e mezzo, ecco allora l’animoso regista a vigorosamente abbaere e potare nella gran selva shakespeariana. Il testo, così ridoo, doveva poi essere preminente nel film; ed ecco allora le scenografie ridoe al minimo […], ecco una recitazione tanto serrata quanto sostenuta […], con una preminenza fin troppo tesa e contraa del protagonista […] da rasentare l’esibizionismo. […] In ogni modo,” concede infine magnanimo, “lo speacolo c’è.”24 Gian Luigi Rondi non muta aeggiamento di una virgola, e continua a parteggiare per Olivier: “Mentre il regista inglese si era avvicinato all’opera del suo grande connazionale con devoto, intelligente rispeo, profondendo nella sua fatica tui i tesori più preziosi della civiltà europea, il regista d’oltreoceano aveva considerato il testo scespiriano unicamente in funzione di una
cultura cinematografica di seconda mano, accoppiata a una vanagloria che sembrava ritener lecita qualunque iperbole pur di stupire gli ingenui.”25 Infine Alberto Moravia arriva a definire il film “teatro fotografato”. Tanto spietata quanto superficiale, la sua requisitoria sull’“Europeo” raduna tui i pregiudizi su Welles e la sua opera: “Un film di un espressionismo quasi tedesco;” “ricerca affannosa di effei sorprendenti ma forzatamente superficiali;” “doveva essere interpretato con maggiore compostezza, umanità e semplicità;” “i personaggi […] danno […] l’impressione di essere in preda alle convulsioni del mal caduco;” “i re di Scozia li sapevamo poveri, ma non cavernicoli.”26
Locandina pubblicitaria per l’uscita italiana di Macbeth (da “Cinemundus”, oobre 1950).
Di tuo ciò a Orson Welles dovee importare assai poco. La sua principale preoccupazione nella primavera del ’51 rimaneva il completamento di Otello, e il contante necessario per finanziarlo. Nell’ultimo resoconto della Orson Welles Productions alla Direzione generale dello speacolo, fra le spese sostenute da marzo a luglio del ’51 ci sono i compensi per la postproduzione (musiche, stampe, sviluppo, montaggio, sincronizzazione) ma anche per viaggi e per il lavoro di aori, comparse, maestranze e operatore. Le riprese – ebbene sì – erano ricominciate di nuovo. Una noticina di cronaca segnala infai Welles in marzo a Casablanca, a scrivere un soggeo intitolato Mascarades, storia d’amore fra un americano e una giovane italiana, da girare fra Casablanca e un piccolo porto dell’Adriatico;27 si traa evidentemente di Masquerade, ma la vera ragione del viaggio in Africa è l’aggiunta di nuove inquadrature all’inarrestabile Otello. Nella cartella stampa del film, preparata dalla Scalera in occasione della prima italiana, si legge che “nell’aprile 1951 Orson Welles riprende e ultima la lavorazione dell’Otello con gli esterni a Mogador.”28 Fra marzo e aprile Welles, Fanto, Suzanne Cloutier e probabilmente Troiani erano infai tornati a Mogador, presumibilmente per aggiungere alcuni musicanti nella scena del bagno turco (trovata suggerita dall’idea di Lavagnino di commentare l’assassinio di Roderigo con un suono di mandolini), e per perfezionare le scene fra Otello e Desdemona. “Non dimenticherò mai la faccia di Orson quando facemmo l’ultima ripresa, e fu davvero la fine. Ci meemmo tui a piangere,” ha raccontato Suzanne Cloutier.29 Secondo la documentazione finanziaria della Scalera, Welles lavorò all’edizione italiana di Otello fino all’11 luglio 1951. Prima di quella data, il regista aveva già ripreso i suoi viaggi in giro per l’Europa. Fece capolino al Festival di Cannes e trascorse parecchio tempo a Londra, a recitare nel programma radiofonico e Adventures of Harry Lime, ispirato al personaggio del Terzo uomo. Alcune puntate furono scrie dallo stesso Welles ma gran parte portano la firma di Ernest Borneman, lo sceneggiatore delle mancate Avventure di Ulisse; qualche episodio venne registrato a Parigi, qualcuno anche a Roma: in totale ben cinquantadue puntate.30 Nove furono poi ridoe in italiano e trasmesse sul secondo programma radiofonico Rai per la regia di Anton Giulio Majano.
Sempre a Londra, Orson e sua figlia Christopher incontrarono a cena Laurence Olivier e Vivien Leigh; al tavolo c’erano fra gli altri Danny Kaye, Spencer Tracy e Katharine Hepburn. “Orson è il vero artista fra noi,” Olivier disse a Christopher quella sera, “e quando lo avrà finito, il suo Otello sarà un film epocale. La gente lo guarderà ben più a lungo dopo che i miei film shakespeariani saranno dimenticati.”31 ando Welles gli confidò che avrebbe voluto allestire un Otello dal vivo, Olivier gli mise a disposizione il St. James’s eatre, che allora dirigeva; Orson si fece spedire a Londra le pizze dell’Otello e, mentre si occupava dell’organizzazione e delle prove dello speacolo, proseguì il montaggio con John Shepridge, terzo montatore del film dopo il francese Jean Sacha e l’italiano Renzo Lucidi.32 Ma, infine, quanto è costato l’Otello? Secondo Frank Brady il costo complessivo della produzione si aggirerebbe intorno ai cinquecentomila dollari33 mentre la cartella stampa della Scalera (che pure registra i soli costi della versione italiana) dichiara un costo esaamente doppio.34 alche cifra aendibile si può trovare su alcuni documenti conservati all’Archivio centrale di stato, a cominciare da un report degli ispeori che a maggio andarono a verificare i bilanci della Orson Welles Productions. “Dall’esame della contabilità e dei libri paga,” scrissero gli ispeori, “si è rilevato che esistono tui i documenti giustificativi delle spese effeuate, ma si è altresì dovuto constatare che molte ricevute consistono in semplici pezzi di carta con firme illeggibili (specie nel primo periodo della lavorazione del film) e che inoltre per talune voci figurano somme piuosto elevate…”35 Esagerati tre milioni di lire solo per fotografie e provini? Troppe le centomila seimanali che Papi si era aribuito anche nei periodi di pausa? Per una normale produzione, forse. D’altra parte, notarono gli ispeori, fra le spese effeuate non erano state incluse le paghe per gli aori stranieri (vale a dire l’intero cast principale) e tua una serie di uscite ancora da sostenere o da saldare. E per fortuna le spese in Marocco erano state pagate da Ténoudji, e quindi escluse dai rendiconti italiani. Possibile che questo Otello costasse tanto? La Direzione generale dà infine la sua benedizione: “Dato il soggeo e il caraere del film e tenuto conto della costosa direzione di Orson Welles che, evidentemente si propone con l’Otello di gareggiare con Laurence
Olivier nell’Amleto e considerato anche che la lavorazione del film, comprese le baute d’arresto, è durata quasi tre anni e che sono stati fai numerosissimi rifacimenti, l’elenco delle spese sostenute potrebbe anche considerarsi, nel complesso, acceabile.”36 Diamolo allora anche noi uno sguardo alla contabilità. Le cifre di cui disponiamo sono quelle fornite alla Direzione generale dello speacolo come giustificazione delle spese sostenute in Italia con il denaro via via sbloccato dal conto Fox. Non vanno prese come oro colato: una lavorazione avventurosa come quella di Otello rende più che probabile l’esistenza di aggiustamenti contabili; inoltre molte spese, in un periodo di circa tre anni, sono da aribuire alle pause durante le quali Welles e i suoi compagni, oltre a sostenere comunque il noleggio di arezzature e le paghe del personale, dovevano anche nutrirsi, dormire, viaggiare. Però la verità non può essere troppo distante, perché tuo venne in qualche modo giustificato e documentato. – Un primo rendiconto elenca le spese dal 18 oobre 1948 al 20 agosto 1949 (riprese a Venezia, incluse le scene con Lea Padovani e la ricerca di una nuova Desdemona), e ammonta a 40.037.468 lire. – Un secondo rendiconto copre il periodo dal 20 agosto 1949 al 10 novembre 1949 (riprese a Venezia, negli studi Scalera di Roma, a Viterbo, a Tuscania e di nuovo a Venezia): 50.463.305 lire. – Un terzo copre il periodo, parzialmente sovrapposto al precedente, dal 23 oobre 1949 al 18 oobre 1950 (riprese a Viterbo e Venezia), per 41.001.157 lire. – Il quarto va dal 18 oobre 1950 al 3 marzo 1951 (riprese negli studi Scalera di Roma e Venezia, a Pavia, e l’inizio della postproduzione), e arriva a 60.686.796 lire – Il quinto e ultimo giustifica le spese sostenute dal 3 marzo 1951 all’11 luglio 1951 (le ultimissime riprese e la fase finale della post-produzione); e sono altre 52.831.987 lire. Il primo e gli ultimi tre rendiconti (che sommati insieme arrivano infai a un totale di 194.557.408), giustificano i 195 milioni dati dalla Fox in cambio del 50% dei dirii di distribuzione sul mercato angloamericano; il secondo rendiconto riguarda i cinquanta milioni sbloccati, sempre dalla Fox, per La Rosa Nera. La cifra complessiva di 245.020.713 lire dovrebbe riguardare però solo le spese effeuate in Italia. A questi 245 milioni di lire
vanno quindi aggiunti i dodici milioni di franchi erogati da Ténoudji (una ventina di milioni di lire dell’epoca) per le riprese nel Marocco francese, esclusi dai rendiconti italiani in quanto utilizzati fuori confine. Un riepilogo delle spese sostenute (un documento senza data ma evidentemente posteriore, stilato dall’amministratore della Orson Welles Productions, Rocco Facchini), arriva in effei a 264.848.228 lire, una ventina di milioni in più rispeo ai 245 totali sbloccati dalla Fox. Fermandoci alle cifre dichiarate, abbiamo un costo complessivo di circa 265 milioni di lire, che equivalgono a 424.000 dollari dell’epoca. A questi dovremmo aggiungere almeno gli stipendi per Il terzo uomo e Il principe delle volpi (secondo Barbara Leaming, 100.000 dollari per ciascuna pellicola), per un totale di 624.000 dollari. Con i 200.000 che Olian avrebbe investito nel film, si sale a 824.000. Il contributo di Ténoudji fu tra l’altro certamente superiore a quello dichiarato alla Direzione generale dello speacolo; una leera di Patrice Dally a George Fanto aesta come ricevuti non 12.000.000 di franchi ma 18.100.000, e annuncia l’arrivo di altro denaro per arrivare all’“anticipo previsto di 28.000.000”.37 E non abbiamo considerato gli introiti provenienti da altre fonti di reddito (il doppiaggio di film italiani, l’aività teatrale, la redazione di articoli e prefazioni, gli ingaggi radiofonici in Inghilterra), che oltre al mero sostentamento di Welles e all’organizzazione di altri progei finanziarono certamente anche Otello. D’altro canto la documentazione della Scalera Film riguarda la preparazione della prima edizione della pellicola, quella italiana, e non le successive migliorie che avrebbero portato alla versione ufficiale. Il milione di dollari indicato dall’ufficio stampa della Scalera è probabilmente arrotondato per eccesso ma non sembra lontano dalla realtà. “Di tui i film in lingua inglese girati sinora,” scriveva Gian Gaspare Napolitano durante le ultime fasi di doppiaggio di Otello, “e sono decine e decine di migliaia, Otello è l’unico che verrà presentato in Italia prima che in qualsiasi parte del mondo.”
Riepilogo (parziale) dei costi del film Otello, stilato da Walter Bedogni per conto della Orson Welles Productions (Archivio centrale di stato).
La decisione di fare debuare il film alla Mostra del Cinema potrebbe essere stata della Scalera, ovvero di Michel Olian, ma anche un genuino desiderio di Welles: baezzare Otello a Venezia era un’occasione irripetibile per seppellire le incomprensioni suscitate al Lido tre anni prima. Dopo i lunghi piani sequenza di Macbeth, la critica italiana avrebbe scoperto in Otello un’opera sintaicamente agli antipodi, sconvolta da un montaggio serratissimo e imprevedibile. Sempre Shakespeare, certo, ma stavolta non dentro un teatro di posa, utilizzando anzi location autentiche. D’altra parte, il neorealismo non era più un credo assoluto, la retorica dell’aore preso dalla strada mostrava la corda e la seducente qualità formale del cinema americano, massicciamente esportato in Italia, influiva sul gusto di pubblico e critica. Infine, molto semplicemente, Otello era in parte ambientato e girato a Venezia: quale migliore cornice per la sua prima mondiale? otidiani e periodici annunciarono la presentazione di Otello fra le pellicole in concorso alla Mostra senza particolare enfasi ma evitando di rievocare i fai di tre anni prima o di ironizzare sulla lunga lavorazione del film. La collana “Cento Stelle”, una piccola biblioteca incentrata sugli aori più popolari del momento, dedicò per l’occasione il 76° fascicolo a Orson Welles, definendolo “l’aore che tante volte avete, forse vostro malgrado, ammirato.”38 “L’Eco del Cinema e dello Speacolo” pubblicò un numero speciale sulla Mostra in cui Welles viene esplicitamente “considerato oggi, tra i registi contemporanei, uno dei più originali e dei più dotati tecnicamente, senza dubbio il più poliedrico.”39 Il problema è che Otello non era ancora finito. Il giorno in cui era previsto il suo arrivo al Lido, Orson si trovava in Inghilterra, a combaere contro il tempo per terminare il film. Alcuni problemi erano sorti a proposito del commento musicale di Lavagnino. “C’era una grande insoddisfazione sul modo in cui la musica venne registrata a Roma,” ricordava anni dopo il compositore Hubert Clifford. Il musicista era stato contaato da Waszyński con l’idea di registrare di nuovo tuo il commento musicale a Londra ma l’incarico in seguito sfumò, portando a Welles l’ennesima richiesta di risarcimento.40 Alla fine Otello rimase nel laboratorio londinese e Welles volò all’ultimo momento a Venezia, insaccato in un informe abito di tela blu, il volto cupo come il vestito.
Ugo Casiraghi, sull’“Unità”, fu felice di cogliere l’occasione per parlar male di Antonio Petrucci, piazzato a guida della Mostra dalla Democrazia cristiana: “Ormai l’atmosfera di tensione, di aesa quasi spasmodica da parte del direore della manifestazione – che ogni giorno si faceva sempre più esile, più emaciato – è terminata. Sia lode al Signore, Orson Welles è qui. Il suo film Otello, regolarmente annunciato nel programma, no.”41 Girò voce che la pellicola fosse arrivata all’ultimo momento e che Welles non l’avesse trovata di suo gradimento; altri dissero che il film era stato spedito, sì, ma che era rimasto bloccato alla dogana italiana. Petrucci fu costreo a uscire personalmente allo scoperto per dichiarare il vero motivo: “Se non è stato possibile presentare la copia originale di Otello, è semplicemente perché non è stata completata. Nessuna questione doganale può impedire la presentazione di un film designato per il Festival di Venezia.”42 Welles propose di proieare la versione italiana, che si era appena finito di doppiare; non avrebbe avuto le voci originali ma meglio che niente. Petrucci disse di sì, la Scalera stampò in frea e furia una copia e la mise sul treno per Venezia. Welles aese l’arrivo del film continuando ad aggirarsi corrucciato intorno al Palazzo del cinema. I frequentatori del festival lo incoraggiavano applaudendolo per strada, mentre Alberto Mondadori, che aveva assistito alla proiezione di una copia lavoro, continuava a sostenerlo sulla stampa. “Fino a oggi, […] venerdì 31 agosto 1951,” scrive su “Epoca”, “non c’è opera apparsa sullo schermo del XII festival che possa reggere il confronto con l’Otello di Orson Welles.” E sì che il concorso annoverava Rashomon di Kurosawa, Il diario di un curato di campagna di Bresson, L’asso nella manica di Wilder e Un tram che si chiama desiderio di Kazan. Arrivata finalmente al Lido la copia, Welles si chiuse dentro una sala e si fece passare uno a uno tui i rulli. Gruppi di giornalisti presidiarono il Palazzo del cinema finché un portavoce di Petrucci sbucò con una dichiarazione ufficiale: per volontà del suo autore il film Otello era appena stato ritirato dalla competizione; sarebbe seguita, nel pomeriggio, una conferenza stampa. Si può immaginare lo sconcerto dei giornalisti: a tre anni dal ritiro di Macbeth dalla competizione, Welles rifaceva lo stesso scherzo! Anzi peggio, stavolta negava del tuo la proiezione! Persino Callisto Cosulich, fino a quel momento difensore della
genialità di Welles, perse la pazienza: “Si poteva immaginare un Orson Welles che venisse al Lido senza riuscire a meere soosopra la Mostra del Cinema? Evidentemente no. Nulla d’allarmante peraltro: non che Welles abbia fao qualche dichiarazione storica, non che abbia presentato un Otello, ove vengono messi in forse cinquant’anni di cinema. […] Più semplice […]: è arrivato lui ma non è arrivato il film. […] Chi ha torto è comunque Orson Welles, il quale come regista ha il dirio di non presentare una copia che egli ritiene non soddisfacente, ma, come produore, ha il dovere di prevedere questi incidenti e di porvi rimedio, quando ormai s’è preso un impegno con la Mostra.”43 Ancora più indignato, Luigi Fossati dell’“Avanti!” segnalò che fra i giurati c’era Gian Gaspare Napolitano: se la versione italiana di Otello fosse stata proieata, sarebbe stata giudicata in conflio d’interessi dal curatore del doppiaggio.44 Orson andò in albergo a cambiarsi di vestito e si preparò al peggio. “Speriamo che non ci sia ostilità,” ripeteva passeggiando nervosamente all’Excelsior, “speriamo che ci stiano a sentire.” Araversò fosco il breve trao di strada che lo separava dal Palazzo del cinema ed entrò in sala. Il resto lo lasciamo raccontare ai giornalisti che lo aspeavano.
Copertina della cartella stampa Scalera di Otello per il Festival di Venezia del 1951 (Biblioteca Luigi Chiarini, Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma).
“Alla conferenza stampa si presentava simbolicamente vestito di bianco. Una dichiarazione di pace. Il suo vestito era d’inaudita abbondanza; infai, pur essendo grande e grosso, Welles doveva rimboccarsi le maniche esageratamente lunghe. I giornalisti erano tui irritati, ricordavano il passato, erano inclini a rinfacciare il precedente ritiro di Welles da Venezia. Perché iscriversi per poi abbandonare? Perché il Festival deve essere considerato come una specie di gioco per bambini? La sala era piena di domande imbarazzanti e di malcontento…”45 “Esordì dicendo in italiano che non ricordava più l’italiano e in inglese che non ricordava più nemmeno l’inglese. […] Disse d’esser grato alla direzione della Mostra per le gentilezze ricevute ‘in un momento in cui il regista conta sempre di meno’. Era sincero e dolente.”46 “Seraficamente vestito di bianco, un ampio sorriso che gli distendeva le rughe del volto, devotamente e quasi umilmente rivolto al direore della Mostra, Petrucci, e alla stampa, in un italiano sommesso e stentato in cui baluginavano, qua e là, accenti di sincerità e di dolore, chiarì le ragioni per cui Otello era stato ritirato.”47 “Girata con materiale diversissimo in diversissimi climi, la pellicola aveva bisogno di un traamento finale, fissaggio e stampa, molto accurato. La frea invece aveva disposto altrimenti, sicché il film era come una tela asciugata soltanto in parte, a macchie. Anche la registrazione sonora era imperfea. E infine, ultima ragione, la copia di cui si poteva disporre era quella doppiata in italiano da Gino Cervi. Cervi è un abilissimo doppiatore e Welles l’ha riconosciuto lealmente. Ma è altreanto doveroso riconoscere a Welles il dirio di presentarsi a una gara come questa nella propria integrità di autore-aore, ossia con la propria voce e non con quella di un altro, quantunque bravo.”48 “‘Gli altri registi vanno tui avanti, ma io resto qui. esto mio film è la mia ultima carta e non posso sciuparla.’ Parlava in italiano, con una cantilena infantile, alzando ogni tanto gli occhi al cielo. ‘Il film è finito, ma la stampa e il missaggio sono troppo difeosi. Abbiamo avuto troppa frea di venire a Venezia. Ma io non posso permeere che questa copia freolosa venga proieata, non posso rovinare il mio lavoro di tre anni.’ Insomma, Welles ha recitato alla perfezione la parte d’uomo contrito, forse era contrito davvero.”49 “Fu gentile, spiritoso, un po’ impacciato. Disse che dopo tre anni di lavoro un artista ha dirio di non veder scippata la propria
opera: disse che la copia italiana era oimamente doppiata, ma faa troppo in frea, e da ciò dipendevano le sue imperfezioni tecniche. Disse che Shakespeare è un grand’uomo; disse tuo, insomma, dimenticando soltanto di spiegarci come mai Otello, iscrio alla Mostra circa tre mesi prima, non fosse pronto alla data della sua presentazione; come mai la copia inglese fosse rimasta triste e vedova a Londra, mentre il suo autore, dimentico d’ogni impegno, meditava dalle parti di Versailles. Ma gli uomini geniali hanno dirio di dimenticare qualche cosa, e Welles è indubbiamente geniale.”50 “Il geniale regista americano usa, per tic nervoso, tormentare il suo orecchio destro quando parla in pubblico: questo favorisce il flusso delle idee; non abbiamo avuto l’impressione lo abbia aiutato a spiegare con chiarezza l’indugio che ha tolto al Festival una delle opere in programma. ‘Parteciperà alla prossima Mostra, con altri suoi film?’ gli è stato chiesto. ‘Tuo sta – ha risposto – se dopo questo incidente d’oggi mi ci vorranno alla prossima Mostra.’”51 “Per concludere, infine, che egli, avendo lavorato indefessamente per tre anni, era assai più da compiangere di quanti aendevano di vedere il film. Salvo rare eccezioni, i giornalisti si dichiararono, chi più chi meno, soddisfai. E Welles vinse, ancora una volta, la sua baaglia. Destino curioso il suo: sempre viorioso nella vita e sempre sconfio nella produzione artistica.”52 “Gli applausi con cui vennero accolte le sue parole intendevano essere un saluto al loatore solitario e testardo, al talento di uno dei pochi registi e aori di questa generazione capace ancora di buarsi a capofio in una impresa generosa e, insomma, nobile.”53 Welles se la cavò per un soffio. Con quel discorso era riuscito a calmare una platea di giornalisti furenti, e a contenere l’irritazione dei dirigenti del festival. “La Mostra di Venezia mi traò male quando ero il grande Welles,” disse incredulo dopo l’incontro, “mi traa bene ora che sono il piccolo Welles.” La notizia del ritiro del film venne divulgata fuori tempo massimo. alche ora dopo, il pubblico si assiepò inutilmente davanti al Palazzo del cinema: i cancelli non si aprirono e lo schermo rimase buio. All’annuncio che Otello non sarebbe stato proieato, alcuni cinefili tentarono di aggredire Petrucci. alcuno insinua, già all’epoca, che la conferenza stampa di Welles fosse in realtà un abile saggio di recitazione. “Il dramma,”
scrisse Viorio Bonicelli, “è che recitava la contrizione sebbene fosse realmente contrito, recitava il dispiacere e la paura sebbene fosse realmente dispiaciuto e preoccupato delle conseguenze del suo gesto.” (Più tardi, Bonicelli e il regista andarono a cena insieme. Ordinarono carne. ando il cameriere gli portò una mezza gallina rinsecchita, Orson sboò: “esto pollo è come ciò che i produori concedono a Welles quando Welles chiede di realizzare una scena in un certo modo.”) Forse Welles nei giorni precedenti si era pentito di aver promesso il film a Venezia e aveva già pensato di passarlo a Cannes. Forse aveva avuto paura del fao che in giuria, oltre all’amico Napolitano, c’erano due appassionati stroncatori delle sue opere, Gian Luigi Rondi e Mario Gromo, quest’ultimo col decisivo ruolo di presidente.54 Forse aveva deciso di chiudere definitivamente con questa strana Italia da cui non si era mai sentito amato. Ma non c’è dubbio che Otello avesse ancora bisogno di qualche ritocco, e di denaro per pagarlo. La presenza a Venezia di Olian e di un suo socio gli ridiede speranza. Orson fissò un appuntamento a colazione, all’Excelsior, chiese a Joseph Coen, pure lui ospite del festival, di accompagnarlo e si fece dare il tavolo vicino a quello usato in quei giorni da Winston Churchill, che al Lido ricaricava le baerie in aesa delle elezioni. All’ora convenuta Orson passò davanti al leader britannico buando lì un: “Winston, che bello rivederti di nuovo.” Senza oenere alcuna risposta. “Winston non si sente molto bene,” bofonchiò imbarazzato ai commensali. Durante l’incontro continuò a fare grossi nomi ma i due interlocutori (che Coen descrive come “due uomini d’affari rozzi ed eccezionalmente in salute”) proposero di rivedersi in serata e sparirono in aesa di misteriose telefonate intercontinentali. “Più tardi, nel pomeriggio,” racconta Coen, “vedemmo Churchill nuotare al Lido. In un lampo, Orson indossò i pantaloncini da bagno e fu in acqua accanto a lui.” Welles si scusò per essere stato insolente, e gli disse che la sua intenzione era stata quella di impressionare i due gentiluomini. Churchill non disse una parola ma quella sera, quando vide Welles e Coen raggiungere il loro tavolo con i due finanziatori, l’ex primo ministro inglese si alzò in piedi, guardò fisso Orson e si inchinò lentamente e profondamente. “Lei è amico di Churchill…” sbalordì Olian, e poco dopo l’affare venne concluso.
Il contenuto dell’accordo è ignoto ma l’Archivio centrale di stato conserva la copia di un contrao datato 24 agosto, stipulato dalla Orson Welles Productions con i rappresentanti romani della Loew’s International Corporation (fino al 1959, una sorta di associata alla MGM) per la cessione del 50% ancora disponibile di dirii di distribuzione di Otello in Gran Bretagna e nei paesi del Commonwealth. “Per terminare il film nella versione inglese,” vi si legge, “per alcuni rifacimenti e per il lavoro di sincronizzazione e di doppiaggio, nonché per il pagamento dei debiti, delle paghe dei salari sospesi a tu’ora, occorrono ancora 100 milioni di lire all’incirca.” La somma pauita è appunto di cento milioni di lire, e la durata del contrao stabilita in see anni. Il meccanismo per entrare in possesso del contante era sempre lo sblocco di denaro americano da un conto presso la Banca d’America e d’Italia. Il documento è però siglato dalla sola Orson Welles Productions, in aesa che la controparte restituisse la seconda copia debitamente firmata, e non è accompagnato dalla consueta documentazione con i giustificativi delle somme erogate. È comunque più che probabile che si trai del contrao orchestrato da Olian, o di una sua aendibile minuta: la data del 24 agosto è di poco successiva all’inaugurazione del Festival di Venezia; inoltre la somma pauita, cento milioni di lire, equivalenti a 160.000 dollari dell’epoca, non è molto lontana dai 200.000 dollari che, secondo Frank Brady, Olian avrebbe alla fine investito in Otello. Il giorno dopo, Welles incontrò in spiaggia Churchill e lo ringraziò della sua provvidenziale cortesia. E la cosa non finì lì. “Per tuo il tempo che sono rimasto a Venezia,” raccontava Welles, “ogni volta che ci incontravamo al ristorante Churchill si alzava. Avrà pensato, ‘ecco, gli faccio avere un altro po’ di soldi.’”55 Finalmente rilassato, Orson si lasciò un po’ andare. A bracceo di Alberto Mondadori, si concesse qualche whisky di troppo, al bar dell’Excelsior o all’Hotel des Bains. “Si piacevano e allo stesso tempo non finivano mai di studiarsi. E intanto bevevano,” ricordava Virginia, la moglie di Mondadori. “Una volta mi ritrovai da sola con lui in ascensore. Non ricordo dove fosse Alberto. Orson Welles aveva bevuto, e tanto. Era un uomo molto sicuro di sé, del proprio fascino. Stavamo scendendo lui e io da soli all’atrio dell’Hotel des Bains. E lui così, da un momento all’altro, mi ha preso e mi ha baciato. Io lo lasciai fare. Poi quando le porte dell’ascensore si
aprirono si allontanò da me. E uscimmo tranquillamente direi non so più dove.”56 Se avesse saputo che Orson aveva baciato sua moglie, Alberto Mondadori non gli avrebbe fao scrivere per “Epoca” un articolo – presumibilmente ben pagato – sulla grande festa che il miliardario messicano de Beistegui aveva organizzato per la sera del 3 seembre. O forse invece gliel’avrebbe comunque concesso, tanta era l’ammirazione che provava per lui.
Welles con Alberto Mondadori e la moglie Virginia Barella al Lido di Venezia alla Mostra del Cinema del 1951.
Don Carlos de Beistegui aveva organizzato il fastoso ricevimento dentro lo straordinario Palazzo Labia affrescato da Giambaista Tiepolo, da lui acquistato, restaurato e arredato. Fra i millecinquecento invitati c’erano Gene Tierney, Cecil Beaton, Salvador Dalí, la signora Churchill, l’Agha Khan, lady Diana Cooper, Christian Dior e appunto Welles, insieme ai migliori nomi della società romana e milanese. Il tema fissato da de Beistegui era il Seecento, che ogni invitato interpretò a modo proprio. Varie orchestre suonarono dal vivo, una squadra di pompieri vestiti da Arlecchino si esibì in una piramide umana, e per il gran finale si prepararono fuochi d’artificio. Da
Palazzo Labia si spandevano le note di Mozart, di Boccherini, di Gluck e della samba, mentre il vicino Campo San Geremia si affollava di un pubblico curioso e partecipe. L’evento, che rimarrà memorabile, venne criticato da diversi giornali per il lusso che preannunciava. Si temeero aggressioni agli invitati ma, a parte qualche isolata contestazione, il popolo veneziano reagì con festosa curiosità, pronto a fischiare o applaudire fino all’ultimo invitato. “Ero invitato anch’io, e naturalmente Churchill,” racconterà Welles. “Ma siccome sperava di tornare in carica e tui criticavano il ballo – lusso scandaloso eccetera – non poté venire. E mentre noi prendevamo il motoscafo per andare al ballo, in fondo all’imbarcadero c’era Churchill che ci guardava partire, con una gran voglia di venire anche lui, sconsolato…”57
Welles e Gene Tierney alla festa di don Carlos de Beistegui a Palazzo Labia, la noe del 3 seembre 1951.
Anche Welles avrebbe avuto qualche buona ragione per non acceare l’invito: una eccentrica festa criticata dai giornali e perfino dalla Chiesa non era il contesto più consigliabile dove farsi vedere a soli tre giorni dal ritiro di Otello dal festival. Ma l’uomo aveva almeno tre buoni motivi per partecipare. Innanzituo rivedere Louise de Vilmorin, la fascinosa scririce di cui si era innamorato, e con la quale tentò, non senza difficoltà, di isolarsi un momento in mezzo alla folla mascherata.58 La seconda ragione è una sorta di verifica di Masquerade, il ricevimento veneziano come prova generale per la scena dell’incidente scatenante, la festa mascherata in cui il giovane Hamsun perde la ragione in seguito al litigio col padre. L’ultimo è un motivo mercenario, la stesura del lungo reportage per il seimanale direo dall’amico Mondadori. Nell’articolo, Welles s’improvvisò reporter dell’alta società, garbato e leggero, mescolando impressioni personali, macchiee veloci, osservazioni sull’Italia e su Venezia, sufficientemente spiritoso da citare più volte il suo disgraziato Otello. “Venezia è la più bella casa del mondo,” esordisce il Welles cronista. “Ci ho vissuto in mezzo per ogni ruga e in ogni campiello, nei rii più nascosti e sul Canal Grande, dai quartieri di Cannaregio e Dorso Duro al cortile di Palazzo Ducale.” Welles non nasconde le polemiche che anticiparono la festa, ma le mimetizza accomunandole a quelle suscitate in Italia da lui stesso: “I giornali non smeevano di parlare di scandalo. Io sono un playboy e molti hanno deo e magari scrio che mi piacciono gli scandali. Anzi che mi piace crearli. Anche quando non era proprio vero. Magari era falso. Ma questo mi piaceva, questo di Venezia. Ero curioso, proprio curioso, di vedere i veneziani alle prese con Don Carlos. Una cià che nella sua storia non ha mai fao una rivoluzione – tranne quella del povero Fornareo… – tua in rivolta contro un messicano.” Le parti più divertenti dell’articolo sono quelle autobiografiche, soilmente autoindulgenti. Welles racconta di aver pensato a quale costume indossare durante le prove al St. James’s eatre di Londra. “Otello per primo. Spostarlo nel Seecento era però, soprauo per Venezia, un salto troppo lungo. Naturalmente Cagliostro, allora. Ma naturalmente arrivai senza il costume che doveva arrivare da Roma e non arrivò.” Uno sfortunato evento che gli era già capitato almeno un’altra volta, su un set africano. “Sono anche distrao, lo sanno tui. Dicono anche che lo faccio apposta, eppure quella sera alle oo era proprio vero che mi ero dimenticato di essere senza costume.” Nessun problema, un domino si trova
facilmente. E al Danieli gli fornirono anche un turbante, “ma un turbante che stava tra il cappello di una signora liberty e le penne degli indiani Sioux.” Welles, così abbigliato, si avviò verso il ricevimento. Davanti a Palazzo Labia dovee soomeersi al giudizio dei lavoratori del porto, che applaudivano o fischiavano gli ospiti al loro arrivo “con uno spirito così concentrato che non sarebbe stato possibile in un altro paese che non l’Italia e in un’altra cià che non Venezia. […] esta cià, assediata dalle acque, ha sempre vissuto in un suo mondo particolare. Il tradizionale equilibrio italiano trova in Venezia il suo punto più felice. Nei secoli il popolo ha troppo vissuto spalla a spalla con gli aristocratici, i mercanti, i guerrieri, gli artisti per non diventare come loro personaggi e aori della stessa grande commedia. ella di Veronese e di Tintoreo, quella di Otello confusa con i Pulcinella di Tiepolo e le magnifiche donne di Tiziano. […] Il popolo premeva soo le finestre che danno su Campo San Geremia. Ci chiamava per nome, quelli che conosceva – Otello, Otello, a me, davvero.” Il ricevimento andò avanti tua la noe, finché “alle see Don Carlos disse che l’anno prossimo avrebbe ripetuto la festa in un altro secolo. Alle oo ero alla macchina per scrivere”, conclude sardonico l’uomo che aveva garantito Otello al festival: “Dovevo dimostrare che non è proprio vero che io non mantengo le promesse.”59 Welles intascò il compenso per il suo articolo, e scambiò probabilmente qualche effusione con Louise de Vilmorin. Ma l’immersione nel carnevale seecentesco non recò alcuna utilità al Masquerade da Pirandello, un progeo di cui dopo il 1951 non si sente più parlare. La festa in maschera risorgerà poi, con tu’altre implicazioni, in Mr. Arkadin, il primo film che Welles porterà a termine dopo Otello.
14. Di acqua e di roccia
Ah, Otello… L’ho visto quest’anno al St. James’s eatre. L’interprete principale non mi è piaciuto ma sono andato mao per il lavoro teatrale. Sigsbee Manderson (Orson Welles) in Ritorna il terzo uomo
La presentazione di Otello a Venezia era l’ultima occasione per riconciliarsi con l’Italia, e fu perduta. I giornalisti si lasciarono apparentemente convincere dalle ragioni del regista – e dalla sua abilità oratoria – ma in fondo a ogni articolo rimane un’ombra di rancore; i peegolezzi e le critiche seminate lungo quaro anni di soggiorno italiano avevano scavato un solco profondo che, dopo il ritiro di Otello, nessuna conferenza stampa avrebbe potuto colmare. Non c’è nulla di peggio, per giudicare un film, di farlo in un contesto di polemica e partigianeria. La primissima recensione di Otello uscì sul numero di “Epoca” dell’8 seembre 1951, a firma di quell’Alberto Mondadori che si spendeva da anni perché fossero riconosciuti i giusti meriti al creatore di Citizen Kane.1 Mondadori, che lo aveva visto poco prima del festival in una forma non definitiva, ne fornisce una descrizione appassionata, difendendolo in anticipo dalle prevedibili accuse di barocchismo. Di più: tenta di sorarre il Barocco alla categoria storico-stilistica in cui la critica crociana lo aveva costreo, per farlo assurgere a un sistema aperto, “ricco di intime tensioni, di movimento grandissimo e di inesauribile vitalità, fantasia immaginosa nel coprire ogni possibile vuoto,” una costante che secondo Mondadori ha araversato tua la storia, in opposizione a una dimensione cosiddea “classica”. “Welles nasce da questa costante barocca,” scrive Mondadori, “che ha per maestri di immagini Tintoreo ed El Greco, fondendo il razionale di Pascal con il labirinto di Teseo.” Una dimensione lontanissima dagli ideali estetico-ideologici della nostra critica, e perciò foriera di nuovi fraintendimenti e aggressioni. “Dio solo sa,”
si allarma il critico, “a questa stregua, come verrà giudicata questa nuova fatica wellesiana.” Il lungo articolo di Mondadori (fondamentale già solo per il fao di essere la prima recensione di Otello) trabocca di entusiasmo per il film, analizzato nel merito del contenuto shakespeariano ma anche nella tecnica e nello stile, e con l’obieivo di dimostrare che la sua forma turgida e violenta è tale non per capricci estetici dell’autore ma per una ricercata sintonia con il contenuto. “La singolarità più immediata,” scrive Mondadori, “benché esteticamente mediata, è l’uso fedele del primo e primissimo piano in funzione di sentimenti e stati d’animo;” Welles imprime una nuova forma all’antico dramma “modernamente interpretando i sentimenti, i moti dell’animo diversissimi, la fatalità di un destino che wagnerianamente ha da compiersi oltre la volontà degli Dei stessi.” Le immagini che la pellicola offre all’occhio sono “prorompenti, incantate, talora comprese della elementarietà della vicenda, talvolta scatenate nella precarietà dei sensi, […] immagini non precarie, bensì mosse da un ritmo interiore deato da elementari esigenze di espressione, [perché] il cinema giustifica la sua presenza fra le muse solo quando la tecnica si risolva in linguaggio.” Nel suo orgoglioso dispiegamento di citazioni e riferimenti, l’articolo di Mondadori sembra scrio apposta per umiliare chiunque avversasse il regista, in difesa di un grande regista ma anche contro colleghi e addei ai lavori, rievocando la bagarre scatenata contro Welles alla Mostra del ’48, “accoglienza che classificare maleducata è ao gentile da parte del cronista, riserbatagli per il Macbeth che nonostante – anzi… – i giudizi di un Luigi Chiarini o di un Gian Luigi Rondi, resta fra le poche opere apprezzabili del cinematografo.” Le provocazioni trovarono terreno fertile. Paolo Valmarana riferisce subito sull’“Eco dello Speacolo” dello spinoso Caso Orson Welles: boccia allusivamente l’autorevolezza di Mondadori, conferma il giudizio negativo su Macbeth, rimprovera a Welles il reportage sul ballo in maschera pubblicato sul seimanale di Mondadori, e paragona – acutamente, va riconosciuto – le incomprensioni tra Welles e la cultura europea al dissidio fra Otello e Desdemona: “ando ci si dice – da parte di informatissime anche se non autorevoli persone – che Otello è la maggiore opera di Welles, la più felice, la più sincera, noi non stentiamo a credervi.
Che l’amore di Otello per Desdemona, questo amore travolgente e immenso, primitivo e irrazionale, così tempestoso e tumultuoso da finire per soffocare il suo stesso oggeo, altro non è, in chiave mutata, che l’amore di Welles per la cultura europea. […] E l’espressione massima di tale cultura non poteva […] non essere Shakespeare. Avvicinatosi […] a Macbeth, con indiscusso amore, ma con scarso rispeo e nessuna preoccupazione, dinanzi alla macchina da presa il dramma di Macbeth e di Lady Macbeth scompare, si dissolve nel nulla. Non resta […] che il canovaccio della vicenda: questo sanguinolento ed orrido fao di cronaca […]; questi personaggi che urlano la loro parte, perseguiti da una nemesi che pare stia solamente fissata sul copione della sceneggiatura di un incomprensivo e superficiale autore. Aendevamo Otello […] ma abbiamo avuto un nuovo caso. […] Così il più recente capitolo della storia di Welles si chiudeva in bianco, con un nulla di fao. Almeno così noi credevamo. Perché aprendo, qualche giorno fa, uno dei maggiori seimanali italiani, ci rendemmo conto che […] l’ultimissimo capitolo della vita del regista americano si chiudeva in modo alquanto infelice. Sulla lucida carta del rotocalco, in un articolo da lui stesso firmato, Welles, questo uomo che aveva terrorizzato l’America con una invasione di marziani, questo uomo che aveva sbalordito, anche se non conquistato, il mondo, con il suo primo film, era – e noi speriamo solo transitoriamente – divenuto un crepuscolare e decadente cronista mondano e veniva fedelmente annotando le toilees di Emanuela Castelbarco o di Simonea Visconti.”2 Essendosi visto tirato in ballo con nome e cognome, Luigi Chiarini ribae a Mondadori su “Cinema” con altreanta chiarezza: “Non voglio qui rilevare il tono insolente nei miei riguardi che il Mondadori tiene, senza giustificazione alcuna e non da oggi, solo perché invitato ad esprimere il mio parere sul Macbeth dello stesso Welles feci a suo tempo molte riserve. […] Ora io non ho mai contestato l’innegabile talento di Orson Welles, né tanto meno la sua padronanza della tecnica cinematografica, né posso pronunciarmi su questo Otello che non ho veduto e che potrà essere, come afferma il Mondadori, un bellissimo film, perché l’estroso regista americano ha certo un grande temperamento, ma non vorrei che l’eccessivo virtuosismo tecnico fosse scambiato per linguaggio cinematografico, unico autorizzato.”3 Una posizione rispeabile se l’accusa preventiva di un “eccessivo virtuosismo
tecnico” non fosse già lì, pronta per un film ancora da vedere e da considerare. Mondadori rispose con una leera privata, ringraziando Chiarini di aver citato la sua recensione dell’Otello e protestando di non avere il tempo sufficiente per una risposta da pubblicare su “Cinema”. Stoccatina finale in tono diplomatico: “Ciò che mi fa maggiormente piacere è che Ella, in fondo, è tornato sul Suo precedente giudizio nel senso di riconoscere a Orson Welles un talento e un temperamento tali da esigere rispeo. Né io sono meno coerente di Lei nel riconoscerLe che forse, talvolta, si può scambiare un virtuosismo tecnico per un linguaggio cinematografico autorizzato; su questo punto la discussione potrebbe farsi lunga…”4 Il dibaito a questo punto ebbe una tregua: l’Otello rimaneva ancora invisibile come il suo autore, volato di nuovo a Londra per dedicarsi all’altro Otello, quello teatrale. Il debuo avvenne il 1 oobre 1951, con l’arice scozzese Gudrun Ure nei panni di Desdemona. Le critiche furono altalenanti e Welles, come al solito, la prese con filosofia. Aprendo uno speacolo di magia davanti alla principessa Elisabeth e al duca di Edimburgo, si presentò dicendo: “Arrivo dal St. James’s eatre, dove ho ammazzato Desdemona, o Shakespeare, a seconda del giornale che leggete.” alche seimana dopo, il tribunale di Milano lo convocò per dibaere la causa intentata tre anni e mezzo prima contro la rivista “Bis” e il redaore De Paolis (alias Aristarco) che lo aveva dipinto come un ubriacone. Più volte rimandata, la data definitiva dell’udienza venne fissata per il 5 novembre. L’ultimissima edizione del “Corriere della Sera” di quel giorno racconta come andò a finire: “Alla undicesima sezione del Tribunale, presieduta dal door Bioi (il P.M. do. Balsamo; canc. Galante) è stata chiamata stamane la causa per diffamazione intentata dall’aore e regista americano Orson Welles contro il seimanale cinematografico ‘Bis’. Il noto protagonista del Terzo uomo e di Otello non si è presentato però alla udienza: e così pure erano assenti coloro contro i quali era stata presentata la querela: il direore di ‘Bis’ Salvato Cappelli, l’estensore dell’articolo Guido Aristarco, e il fotoreporter Stefano Vanzini. Nell’articolo, corredato da numerose fotografie, erano contenuti degli apprezzamenti che il
Welles ritenne lesivi della sua dignità di artista e di uomo. Egli pertanto, stesa regolare querela, dava incarico di assisterlo in giudizio all’avvocato Serrao. Il compito invece di assistere il seimanale veniva assunto dall’avv. A. Pestalozza. Il processo, che ha già subito diversi rinvii per l’ostinata assenza della parte lesa, si sarebbe dovuto svolgere questa maina: ma nemmeno questa volta Orson Welles ha ritenuto opportuno presentarsi. Contro questa ‘scorreezza’ è insorto il P.M. do. Balsamo il quale, invocando l’articolo 144 del codice di procedura penale, ha chiesto l’accompagnamento in aula del Welles con la forza ed ha proposto altresì la sua condanna a seemila lire di multa. Dopo breve permanenza in camera di deliberazione, il Tribunale ha inflio all’aore cinquemila lire di multa, non aderendo però alla richiesta del P.M. riguardo all’accompagnamento forzato. Il processo è stato pertanto rinviato a nuovo ruolo.”5 La causa finì quindi in un nulla di fao. Nessuno aveva ormai interesse a proseguirla. Non conveniva a Cappelli, direore di una testata che all’epoca del processo era già stata chiusa; di certo non ad Aristarco, che avrebbe dovuto pubblicamente confessare di essersi nascosto soo uno pseudonimo per criticare Citizen Kane e speegolare sul tasso alcolico del suo autore; in quanto a Welles, figuriamoci se aveva tempo per preoccuparsi di un iter processuale ormai annoso. Il regista in quel momento si trovava in Costa Azzurra, “per certi suoi affari di natura privata”, dicono le cronache. Affari che riguardano quasi certamente la partecipazione di Otello al Festival di Cannes. Welles si traenne in Costa Azzurra per un paio di giorni, durante i quali partecipò a un incontro con la stampa. Parlò soprauo del suo Otello teatrale, che dopo Londra si proponeva di portare in scena a Parigi, Bruxelles, Milano, Roma, Venezia e Madrid; il discorso sfiorò inevitabilmente l’ancora misteriosa versione cinematografica, e andò a parare sulle perplessità suscitate dalla doppia trasposizione. “Taluni mi rimproverano di aver dato due interpretazioni differenti della stessa opera,” disse. “E perché no? Shakespeare è immenso: contiene tuo. È un perpetuo divenire. Tue le interpretazioni sono valide e possibili. Mi hanno anche rimproverato di aver operato dei tagli, nel copione. È esao: Otello non si può rappresentare integralmente. Un critico francese, che per il resto mi ha molto elogiato, ha trovato che io ho
impostato in maniera ‘clownesca’ la figura di Roderigo. Un rilievo simile non poteva provenire che da un francese: i francesi non capiranno mai Shakespeare, così come gli inglesi non capiranno mai Racine…”6 Non mancarono le dichiarazioni sull’Italia, in cui l’affeo si mescolava ormai apertamente alla diffidenza o alla perplessità. “Dice di adorare il Mediterraneo e l’Italia,” scrive il giornalista Angelo Maccario, “ma trova il pubblico italiano freddo, distaccato da quanto avviene sulla scena… Forse perché gl’italiani hanno il teatro nelle loro strade: così animate, così pioresche, così piene di vita.” Epperò, Welles lo aveva promesso, l’Italia sarebbe stato il primo paese a vedere la sua pellicola più recente. I regolamenti dei grandi festival erano molto più permissivi di quelli odierni: il film avrebbe potuto essere presentato in concorso a Cannes, anche se fosse stato prima distribuito nelle sale italiane. E così sarebbe in effei accaduto: la proiezione di Cannes ha cancellato quasi del tuo il ricordo della prima proiezione pubblica di Otello, uscito prima nelle sale italiane, in una versione doppiata ma comunque benedea dal suo autore. “Per esplicito desiderio di Orson Welles” la prima mondiale del film venne organizzata a Roma, il 29 novembre 1951, al cinema Barberini, in una serata di gala il cui incasso sarebbe stato interamente devoluto (guarda caso) all’Opera di Don Carlo Gnocchi pro-mutilatini di guerra, abituale beneficiaria di Michel Olian. La versione di Otello presentata quella sera è la più antica e la più lunga (tre minuti più di quella francese, cinque più di quella americana), forse anche la più bella: al neo di qualche errore che sarà correo nelle versioni successive, e piccoli cambiamenti nel montaggio e nelle musiche, ha una parte veneziana un poco più ampia e coerente, e offre maggiore spazio ai personaggi di Brabanzio e di Emilia.7 Coordinato da Mario Almirante, il lavoro di doppiaggio è eccellente: Otello e Desdemona sono meravigliosamente reinterpretati da Gino Cervi e Rina Morelli, Jago è doppiato in modo insinuante da Sandro Ruffini, Emilio Cigoli presta la sua calda ugola a Cassio, Giovanna Scoo rende ancora più gigantesco il personaggio di Emilia, Mario Besesti dà voce a un impetuoso Brabanzio, Carleo Romano incrementa la comicità di Roderigo. Ormai a un passo dal tracollo, la Scalera preparò una cartella stampa, composta da quaro facciatine dailoscrie in cui
s’informa che, dopo i fai di Venezia, Welles e Waszyński ci avevano messo ancora un mese prima di oenere una copia dal doppiaggio perfeo e dalla stampa nitida; e che la versione inglese sarebbe stata pronta ai primi di dicembre. I due principali quotidiani di Roma, “Il Messaggero” e “Il Tempo”, reclamizzarono la prima fino al giorno stesso, annunciando che gli ultimi bigliei erano ancora in vendita presso il boeghino del cinema. Alla serata intervennero personalità del cinema e della cultura fra cui Doris Duranti, Eleonora Rossi Drago, Léonide Moguy e Massimo Serato. Ma i cronisti disertarono l’evento, e i critici aspearono l’ormai imminente distribuzione in sala: i quotidiani del giorno dopo non riportano nessuna cronaca della serata, nessuna recensione del film, tanto da far pensare a un consapevole boicoaggio prima che a una serata mondana di basso profilo. Solo un paio di riviste informano brevemente che i mutilatini di don Gnocchi, “con gesto altamente umano”, avevano a loro volta deciso di girare il ricavato della serata ai bambini viime delle recenti alluvioni nel Polesine (e c’è da scommeere che dietro questa decisione ci fosse un altro dei mirabolanti tornaconti di Olian). La prima milanese si tenne il giorno dopo, sempre con serata di gala e sempre con l’incasso devoluto dai mutilatini di don Gnocchi agli alluvionati del Polesine: la sala era il Missori, da dove la pellicola iniziò la normale programmazione. Nella capitale, Otello tornò poi in cartellone il 5 dicembre, nei cinema Fiamma e Ariston, preceduta da un’iniziativa pubblicitaria aerea in puro stile Welles (“ATTENZIONE!”, recita uno strillo sul “Tempo” del 2 dicembre, “alle ore 13 circa di oggi leggerete in cielo il titolo di un grande film: Otello”).
Locandina della prima versione di Otello, distribuita dalla Scalera Film alla fine del novembre 1951 (da “Cento Stelle”, n. 76, Roma, 8 seembre 1951).
Il giorno dopo cominciarono ad apparire su quotidiani e periodici le prime recensioni ufficiali. Certe pregiudiziali stilistiche erano nel fraempo cadute; con Europa ’51, Umberto D. e Bellissima i padri fondatori del neorealismo, Rossellini, De Sica e Visconti, stavano cominciando a svincolarsi dal movimento, e intanto si affacciavano gli esordi di due nuovi autori, Federico Fellini (Lo sceicco bianco) e Michelangelo Antonioni (Cronaca di un amore), che avrebbero tragheato il cinema italiano ancora oltre. Si erano aenuati i furori ideologici legati allo stile scabro e asciuo di Sciuscià e Paisà: perfino un regista baagliero come Giuseppe De Santis aveva deciso di immergere Non c’è pace fra gli ulivi in uno smagliante e sofisticato panfocus. Nell’accostarsi all’Otello i recensori mantengono però l’accusa di barocchismo, e una certa acrimonia verso il personaggio pubblico, le sue uscite scandalistiche, le vecchie e nuove polemiche festivaliere. La critica italiana, con sfumature diverse e qualche rimarchevole eccezione, fece di nuovo pollice verso. “Otello è di gran lunga preferibile a Macbeth,” giudica Lanocita del “Corriere della Sera”, “per densità e per immediatezza espressiva, per potenza d’evocazione, ma specialmente per una quasi raggiunta concisione poetica che sembrava vano aendersi da un regista indoo dalla sua indole alla dispersione di mezzi opulenti, sprecati nelle notazioni marginali. […] Commisto alla materia poetica questo decorativismo ampolloso e corrusco ha il torto di volere anch’esso divenire poesia, senza penetrarla né penetrarsene. […] Nemmeno è risolto […] il problema dei rapporti tra Welles interprete e Welles direore. esto è ancora al fedele servizio di quello. […] Resta, pur con la magnificenza delle sue scintillanti iperboli, scaturite da una concezione sonora e fastosa, la più meditata opera di Welles, dopo il rivoluzionario arto potere.”8 Sul seimanale mondadoriano “Tempo”, Viorio Bonicelli osa l’inosabile, preferire Welles a Olivier: “Il film, presentato ora nelle due maggiori cià italiane in ‘anteprima’ mondiale (omaggio al paese che l’errante Welles dice di prediligere?), non avrà vita facile. Sento già gridare da ogni parte all’enfasi e alla megalomania. Me ne dispiace. La giudico una importante opera nel suo insieme. E penso che non sia uno scherzo dell’immaginazione, che mi fa sempre subire il fascino delle nature imperfee ma generose. i c’è qualcosa di più d’un gioco d’azzardo: c’è quella pienezza di vita che sempre si accompagna agli errori e che si avvicina alla grandezza più facilmente dei soili calcoli dei dabbenuomini senza peccato. È
vero che Welles è un personaggio impopolare. Ma il cinema, di uomini popolari, ne ha troppi: grande disgrazia in tempi di conformismo. Ritrovo più Shakespeare, comunque, nella ‘superbia’ e nella ‘ribalderia’ di Orson Welles che nella raffinatissima accademia di Laurence Olivier. (E adesso, addio reputazione.)”9 Su “Oggi”, Angelo Solmi tiene a freno l’entusiasmo. Il film ha “qua e là degli alti e bassi inspiegabili, […] la copia presentata al pubblico è ancora lontana dall’essere perfea, […] i pregi formali si mutano in altreanti difei là dove il regista ne abusa,” e, oltretuo, per gli appassionati dell’omonima opera di Verdi “l’arrivo di Otello a Cipro costituirà una particolare delusione.” Il giudizio è comunque positivo, e dimostra che i tempi erano ormai maturi per una reciproca comprensione, forse anche per un riesame dei precedenti film del regista: “L’Otello di Welles non è, neppure lontanamente, teatro fotografato; al contrario, è cinema al più alto grado, con un dinamismo cui da tempo eravamo disabituati. Se il film non avesse altro merito, basterebbe questo: l’essere uscito finalmente dal piao e banale racconto nel quale (seguendo una facile corrente di mal inteso realismo) si sono adagiate quasi tue le opere del dopoguerra, e l’aver invece narrato facendo ricorso a tui i mezzi propri del cinema, usati largamente nel passato e ora ingiustamente dimenticati in blocco. […] Welles non è un ‘blu’, quando riuscirà ad infrenare pienamente la sua vena prepotente e porrà argini robusti alla sua magniloquenza, al suo estetismo, alle sue manie simbolistiche, il cinema avrà acquistato un artista di primo piano. Molto egli ha già fao con l’Otello; ma anche se non manterrà interamente le promesse, si può essere certi che, comunque, Welles farà ancora parlare a lungo di sé.”10 I toni positivi non furono isolati, ma fra soili “distinguo” ed esplicite stroncature l’accoglienza italiana all’Otello fu comunque nel complesso negativa. Ermanno Contini impiega gran parte dello spazio a disposizione sul “Messaggero” per stigmatizzare i difei del film, dalla decisione di scarnificare i primi tre ai, riducendo così l’intrigo di Jago “ad un meccanico giocheo piuosto ingenuo e grossolano,” a un “non esauriente racconto cinematografico” la cui densità visiva, accoppiata a dialoghi ripresi dalla tragedia originale, lasciano il critico più confuso che persuaso. Solo nelle ultime righe affiora qualche notazione positiva: “Non ostante questi difei che derivano in parte da un’esasperazione dello stile cinematografico di Welles e in parte da un errato calcolo di proporzioni e che tolgono al film ogni comunicativa, Otello ha
sequenze di forte suggestione drammatica. A parte la bellezza ruskiniana di certi scorci veneziani e, specialmente, delle scene riprese sui quarocenteschi bastioni di Mogador; a parte il plastico vigore di alcune fotografie; il divampare della gelosia di Otello, l’erompere dal suo appassionato furore, il suo disperato dibaersi fra l’amore e l’odio, la pietà e la violenza, il disprezzo e l’adorazione, la ferocia e il rimpianto, danno luogo a momenti di alta e pura emozione. Anche se non riescono a commuovere, come dovrebbero, colpiscono e prendono.”11 Alberto Moravia stronca invece senza possibilità d’appello. Tolto un passaggio che contiene un’intuizione interessante, in cui parla di “un sogno balenante e stupefao, come visto da un uomo in preda al delirio,” la recensione dello scriore si riduce a uno stolido rimestare nell’accusa di barocchismo: “Welles è un artista senza dubbio geniale ma innamorato piuosto della forza che dell’intelligenza, della grandiosità che della naturalezza, dell’effeo che della verità. Si direbbe che, come certi pesci, egli non sia capace di scendere nel profondo e per muoversi e respirare a suo agio debba sempre tenersi alla superficie. Donde, però, per compenso, un bisogno di agitare le acque con violenza; come appunto certi artisti barocchi tanto più eccentrici e convulsi nella forma quanto più normali e inerti nella sostanza. Viene, insomma, il sospeo che come il cavalier Marino, Welles pensi che il fine dell’artista sia di meravigliare piuosto che persuadere o commuovere. E questo, appunto, per la sua incapacità di penetrare profondamente nell’arte e nella vita.”12 Rondi, sul “Tempo”, aspeava solo quel momento per rintuzzare Mondadori. Nulla era valso a fargli cambiare idea sul cinema di Orson Welles, né questo Otello riusciva ora a spiazzarlo. Anzi, per dimostrare la sua coerenza, il critico spiega il nuovo fallimento shakespeariano con il tentativo di emulare l’Olivier dell’Amleto: “Oggi è la volta dell’Otello e l’occasione, almeno in apparenza, sembrava poter essere più propizia alla poetica ossessiva, truce e esasperata di Welles regista e aore. […] Welles non ha però, compiutamente seguito la sua antica ispirazione. Discutibile quanto il Macbeth, la sua fatica sarebbe stata almeno rigorosamente sincera. Memore, invece, delle riduzioni scespiriane di Laurence Olivier, il regista americano ha fao variamente ricorso, per la cornice del suo film, allo stile del collega inglese, esasperandone oltre ogni necessità le molte scale, i castelli, gli spalti, i funerali. […] La rotonda sovrabbondanza dello stile, anche per il contrasto con il
più composto quadro esteriore, è sembrata risolversi nella concitata ricerca di effei forti e fortissimi. Da questi si è fao soprauo avvincere il pubblico […], [che] ha trovato, come sempre, motivi facili di emozione e interesse. anto alla critica, gli scompensi di questo nuovo linguaggio che partecipa, per un verso, a tui i pericoli di Olivier, e per un altro, a tui quelli di Welles, le impediscono di guardare a questo film con un sentimento più caldo del rispeo, pur dovendo riconoscergli una nobiltà, un impegno, un’intenzione poetica come non sempre il cinema sa offrire.”13 È comunque dalla critica di sinistra che arrivano i giudizi più pesanti. Ancora arrabbiato per la mancata presentazione del film a Venezia, Luigi Fossati dell’“Avanti!” gli rimprovera tuo: l’esasperazione dei toni, l’aver falsato certi caraeri della tragedia, il caraere folcloristico delle scene marocchine, il funambolismo di Welles rispeo all’armoniosità di Olivier, perfino la “fin troppa” confidenza del regista con la macchina da presa. “Macbeth,” scrive il critico, “era una realizzazione barocca, nel senso deteriore della parola. Non molto diversamente è successo per Otello. […] Non è neppure il caso di parlare di ‘teatro filmato’ e cose del genere. Welles per fare del cinema a tui i costi si è sbizzarrito facendo muovere il più possibile la macchina da presa e presentando colonnati a ripetizione, giochi di luce poco indovinati.”14 La recensione di Casiraghi sull’edizione milanese dell’“Unità” raggiunge toni addiriura grevi: “Se l’Otello di Orson Welles non fosse stato ritirato dall’autore all’ultimo momento, l’avremmo visto già alla Mostra di Venezia presentato dal Marocco. Ora che ci è dato di vederlo, possiamo dire tranquillamente che la tragedia di Shakespeare è stata ‘marocchinata’ a dovere. […] All’Otello dedicò un paio d’anni. E cercò, vagabondando per diverse contrade, di raccaare, con l’ingorda macchina da presa, palazzi, bastioni, pietroni, colonnati, marine ventose, voli di colombi, garrir di stendardi, insomma pezzi di colore – possibilmente levantino e cipriota – da farne un mosaico così a sensazione, che anche il famoso dramma della gelosia del Moro umanamente impallidisce, per ingrossarsi a quella che Welles chiama ‘visione plastica’ che è soprauo una visione formalistica e confusa.”15 Di singolare pervicacia il giudizio di Aristarco, il quale, partendo dal medesimo punto di vista di Rondi (la presunta rivalità con Olivier), liquida su “Cinema” l’Otello in un paio di colonne il cui succo rimane contenuto nelle espressioni, negli aggeivi, negli
avverbi che il critico copia e incolla dai tempi dello Straniero: “Se non dedichiamo a Otello un’ampia disamina, la cosa deriva dal fao che esso nulla in fondo aggiunge a quanto avemmo occasione di riferire, qui e altrove, su questo regista-aore esuberante, sconcertante e ambizioso, provvisto di doti non comuni: su questa specie di prestigiatore […] ancora una volta […] preoccupato di sbalordire a ogni costo, si serve di virtuosismi tecnici, di una architeura complicatissima e ricercata […] soltanto nelle apparenze ‘rivoluzionaria’, e comunque non legata a una rivoluzione di contenuto. […] Giuochi edonistici […], stravaganti posizioni della camera […], narcisismo di regista e anche di aore […], reminiscenze facilmente individuabili,”16 eccetera eccetera eccetera. Sul successivo numero di “Cinema” il testimone viene afferrato da Chiarini, soddisfao di poter dare a Mondadori quella risposta compiuta che aveva del resto pronta prima ancora di vedere Otello: “Il film […] mostra a mio avviso l’equivoco in cui si cade quando, con l’errato presupposto di rendere cinematografico uno speacolo, si sovrappone una tecnica complicatissima, sapientissima e raffinatissima, ma fine a se stessa, a quella che dovrebbe essere la fonte d’ispirazione: nel caso il testo della tragedia di Shakespeare.”17 La cosa agghiacciante è che gran parte degli stroncatori, anziché interrogarsi sulle intenzioni dell’autore e sui risultati della sua visione, s’impegna a esibire un simulacro di coerenza rispeo alle proprie posizioni, a parlarsi fra colleghi o a trascinare polemiche già bollite. Rondi si ostina ad aborrire Macbeth, Moravia mantiene la barra sul virtuosismo, Aristarco si autocita. E Chiarini ribae sul tasto dello “specifico filmico”: capovolgendo la friata con un doppio salto mortale, denuncia in Welles l’intenzione di “raggiungere una cinematograficità del tuo illusoria”, “il senso della tecnica proprio degli americani”, i cascami di “una critica che venuta su dall’empiria delle teoriche del film si trascina dietro” fin dall’epoca del muto “un bagaglio di equivoci”; insomma aribuisce a Welles “l’incubo dello specifico filmico”, proprio quello che limitava lo spirito critico di Chiarini.
Flano pubblicitario per l’arrivo in sala di Otello (da “Il Tempo” di Roma, 5 dicembre 1951).
Il massacro di Welles, ormai diventato un trastullo per intelleuali, continuò autoalimentandosi. Franco Berui riprende su “Sipario” la questione dello specifico filmico, salvando del film le sole interpretazioni, giudicate memorabili, e tre scene: la crisi epileica del Moro soo il volo dei gabbiani, l’uccisione di Roderigo nel bagno turco e i funerali di Otello. Per il resto, “il cinema rischia davvero di diventare la macchina per inscatolare drammi e diffonderli là dove il palcoscenico non esiste,” la cinepresa “lega troppo con l’uso della panoramica a sventagliata,” le solite accuse di debiti da Ėjzenštejn, e la riduzione di Welles a “genieo”, anzi un “commesso viaggiatore in articoli shakespeariani”, malato di “irrequietezza visiva”. Ciliegina sulla torta, l’ennesimo affondo contro arto potere: “Citizen Kane, il geniale raduno di mille effeacci scontati, il festival del tecnicismo barocco, spiega come Welles si sia lasciato colpire dai lenocini che altri registi hanno abbandonato da tempo. Tra Citizen Kane e Otello vi sono quasi dieci anni. Due lustri per perdere i vizi e aumentare le virtù. Ma Welles fa ancora di testa sua e non accea consigli, cosicché questo Otello, visto dal lato dello ‘specifico filmico’, rimane lo sconnesso risultato di chi non ha acceato la grammatica di un linguaggio nuovo.”18 Una meditata recensione positiva arriva nel febbraio dell’anno successivo, a film ormai digerito e metabolizzato, ma non è per questo meno coraggiosa. Sul primo numero del torinese “Rassegna del Film”, Fernaldo Di Giammaeo prova a spostare l’Otello di Welles dall’universo romantico a un contesto culturale vagamente superomistico, riassumendo con acutezza anni di scorciatoie critiche: “In un primo tempo – da arto potere a La signora di Shangai – Welles lo si disse ‘barocco’. Ora, dopo le due riduzioni shakespeariane, si tende a vedere in lui un epigono di quel romanticismo che diede, delle opere del poeta inglese, una celebre
interpretazione. […] Insomma, un Welles barbaro, perché romantico in ritardo. […] Tesi che sarebbe acceabile se non si tenesse conto della formazione del regista americano, estranea ad un romanticismo così concepito. […] I personaggi di Welles – da arto potere a Otello – esprimono tui, in termini confusi ed esagitati, una sorda volontà di potenza che discende da certa cultura facilmente riferibile alle volgarizzazioni del pensiero nietzschiano: e Welles si muove in questa orbita, più o meno consciamente.”19 Sganciato da pregiudizi estetici e ideologici, Di Giammaeo entra nel nucleo del film araverso il cuore del Moro protagonista, “simbolo di una forza incontrollabile, non importa se buona o malvagia”: al di là del bene e del male, e perciò ingiudicabile dal punto di vista morale. È un tentativo onesto e fino ad allora inedito, di leggere nell’irrequietezza di Welles e dei suoi personaggi la fascinazione per l’uomo di potere, spiegando con ciò gli entusiasmi degli ammiratori (leggi Mondadori) e “l’accanita avversione” dei detraori (sostenitori del neorealismo e del “messaggio”): “E il fastoso, raffinato e barbaro Welles, che esalta nei propri film – con una tecnica al tempo stesso sconcertante e puerile – l’ansia dominatrice dell’uomo sul mondo e sui propri simili, rappresenta uno dei tipici eccessi di una cultura che ancora si avverte nell’aria, incerta nei suoi fini ma tenace nella sua ricerca di espansione, di conquista. In un certo senso, si traa di un caso unico, di un fenomeno isolato nel cinema auale; ma non è difficile scoprire gli echi che suscita, la “presa” che ancora esercita una posizione siffaa, sia per l’entusiasmo che in qualcuno provoca sia per l’accanita avversione con cui da altri viene accolta.” È una riflessione importante questa di Di Giammaeo, coraggiosamente “politica” e, ancora più coraggiosamente, aideologica. ella del 1951-52 non era una stagione sufficientemente serena per sviluppare l’argomento, e il seme geato rimase sepolto e nascosto, ma l’intuizione era giusta, l’analisi azzeccata: la riflessione sul potere e il suo mito è rintracciabile in quasi tui i film di Welles, fino al diatore favolistico di Storia immortale. La critica italiana avrebbe saputo riconoscerla e recuperarla solo diversi anni più tardi, dopo che Italo Calvino ebbe intravisto nell’Infernale inlan il ritrao deformato di Stalin.
L’analisi del film non può però prescindere dai suoi evidenti valori formali, da quella splendida esteriorità, impetuosa e ricca di risonanze ritmiche e metaforiche, che la nostra critica ansiosa di “contenuti” interpretò come una ridondante forma di disimpegno. alche recensore si esercitò semmai a evidenziare influenze da Ėjzenštejn, che informava peraltro ormai lo stile di tanti cineasti di qua e di là dell’oceano (si pensi a certe figurazioni di La terra trema di Visconti). Welles fu un cineasta ammaliato dalla forma ma allergico a ogni forma di citazione; nelle sue opere certe possibili parentele sono ispirazione e spunto, mai copiatura né tantomeno omaggio. Ne è esempio un evidente “prestito” dall’Amleto di Olivier (curiosamente notato solo da Rondi), che si apre e chiude con il cadavere del protagonista disteso per i funerali, la stessa idea che, con ben altro stile e solennità, fa da prologo e da epilogo all’Otello.20 Welles si può comparare solo a Welles. E infai le recensioni italiane si ricollegano quasi sempre a Macbeth, pur essendo i due film visivamente assai diversi. L’approccio spezzeato e en plein air di Otello è esaamente opposto a quello del Macbeth, girato tuo al chiuso e fao di lunghi piani sequenza; nella fotografia, l’ampia gamma di grigi del Macbeth ha lasciato il posto a un violento contrasto di bianchi e neri, di luci e ombre; l’astraismo scenografico ha ceduto il passo ad ambienti più realistici; monologhi e soliloqui sono stati sostituiti da dialoghi e interpellazioni (Macbeth è tragedia individuale dell’ambizione e del rimorso, mentre Otello, vicenda di sopraffazioni psichiche e fisiche, vive una dimensione esplicitamente drammatica). Passato dall’America all’Italia, dalla Republic alla Scalera, il cinema di Welles acconsente a un approccio avventuroso, “italiano”, vissuto il più possibile fuori dagli studi di posa, aento a sfruare le contingenze del luogo e del momento; e il radicale cambiamento dello stile visivo potrebbe perfino sembrare una risposta alle critiche sul precedente film, quasi un accondiscendere alle opinioni dei recensori. Se allora i critici non se ne accorsero fu forse perché, se il metodo di lavorazione e la sintassi delle inquadrature di Macbeth sono radicalmente diversi da quelli di Otello, la struura è comunque analoga, e la narrazione si sviluppa ugualmente araverso un massiccio uso di metafore e simbolismi. Otello è la parabola di un uomo di potere, colta dal momento dal suo zenit (le nozze con la raffinata Desdemona) e seguita fino alla
distruzione della sua stessa persona; analogamente, Macbeth raccontava l’ascesa e la caduta di un altro tiranno, dalla vioria iniziale sui norvegesi al duello mortale con MacDuff. Viime entrambi: Macbeth del fato e di forze oscure, Otello dei pregiudizi e dell’invidia, ma tui e due della debolezza di una personalità gigantesca solo in apparenza, che non riesce a evitare l’inevitabile. Entrambi i film raccontano l’esecuzione di una condanna annunciata fin dall’inizio (il maleficio che apre Macbeth, i funerali che inaugurano Otello); il corpo centrale della pellicola illustra quindi il precipitare del protagonista in una disfaa senza speranza, imprigionato claustrofobicamente (le groe di Macbeth, le inferriate di Otello) da un destino già segnato. Anche l’approccio psicologico è il medesimo: lo scopo di Welles è immergersi nella mentalità allucinata di un presunto vincente, visualizzando le ossessioni di una psiche avvelenata. Sia Otello che Macbeth vivono in una dimensione espressionista; non per ipotetici riferimenti cinefili a Lang o Ėjzenštejn, ma in senso proprio. Le apparizioni del pugnale e di Banquo in Macbeth, e il mondo che turbina durante l’aacco epileico in Otello, oggeivano uno stato di alterazione che influenza integralmente le due pellicole; il riverbero di quelle allucinazioni ingloba contesto e comprimari, avvolge tuo Macbeth dentro tenebre fumiganti, imprigiona l’intero Otello dietro cancelli e sartiame navale. Come se la vicenda fosse vissuta in soggeiva, da uno sguardo ben preciso. Ma uno sguardo di chi? Macbeth era stato messo in scena come visto dalla mente oenebrata di un despota impazzito. Più problematico è capire a chi riferire la “soggeiva” di Otello. La risposta più immediata è che il film rispecchi la visione del condoiero al quale la tragedia è intitolata; in fondo si apre con il volto del Moro, e si chiude con una sua falsa soggeiva, come se – pur già morto – osservasse chiudere su di sé l’enorme botola che lo sovrasta; una conferma potrebbe essere l’introduzione fuori campo (la leura dei credits nella versione europea, un breve prologo nella versione americana) da parte dello stesso Welles, regista e interprete del Moro, nella cui voce vengono così a identificarsi protagonista e narratore. Eppure Otello potrebbe avere tu’altro punto di vista: issato all’inizio del film dentro la gabbia del supplizio, Jago osserva soo di sé l’agitarsi confuso dei soldati di Cipro e i feretri di Otello e Desdemona, e sembra riconsiderare gli eventi che lo hanno portato lassù; quello sguardo impassibile, inquadrato in deaglio dalla macchina da
presa, suggerisce che il resto della pellicola sia una specie di suo ricordo. Otello o Jago, dunque? In realtà il film sembra “rivissuto” da entrambi, in un gioco di alternanze e contrasti che è anche la cifra espressiva della pellicola. “Lo stile visivo di Otello,” ha scrio Jack J. Jorgens, “pone al centro del dramma il matrimonio – non il matrimonio idilliaco di Otello e Desdemona, ma il matrimonio perverso fra Otello e Jago.”21 È questa la vera coppia protagonista del film, ed è sulle loro differenze e sui loro contrasti che s’innesta il dramma, e che il dramma sfocia in tragedia. La storia viene raccontata in un certo senso a due voci. La versione del Moro e quella del suo alfiere si alternano, generando differenti modalità di visione, e a poco a poco si sovrappongono e s’intrecciano, fino a precipitare entrambe nell’abisso di una narrazione sconvolta, innescata in Otello dal proprio delirio d’insicurezza e gelosia, in Jago dalla mentalità bizantina e ingannevole di un uomo malvagio. Se Macbeth era l’incubo di un usurpatore assassino, Otello è un doppio incubo, quello del governatore tradito e quello del suo confidente traditore. Di Otello, Bazin ha soolineato, oltre al découpage frammentario, l’uso antinaturalistico di scenografie naturali, “un’architeura drammatica immaginaria”, una tragedia che “si svolge a cielo aperto ma niente affao nella natura”,22 mentre Michael Anderegg ha rintracciato il nocciolo del film nell’opposizione fra bianco e nero, con tue le eventuali implicazioni razziali del caso.23 Joseph McBride ha notato che, dopo il marinaio O’Hara della Signora di Shanghai, Otello è l’unico personaggio “innocente” in una carriera costruita su formidabili e ambigui uomini di potere, avanzando il dubbio che, “staccandosi dagli ostili ormeggi di Hollywood e alla deriva nelle acque inesplorate del cinema europeo del dopoguerra,” oltre alla “necessità di esplorare il lato più avventuroso del suo caraere” Welles sentisse “un senso di viimizzazione della propria carriera;” lo stile del film rifleerebbe così “il suo stesso senso di disorientamento come esule politico e artistico, e il suo accresciuto senso in quegli anni che il mondo fosse fuori controllo.”24 Nel suo film italo-franco-marocchino sembra esserci anche questo: il riflesso di una loa ormai perduta con l’ostile ambiente italiano, dove il raffinato mellifluo Jago rappresenta e compendia i recensori
di casa nostra, quei “dogi veneziani” che avevano massacrato Macbeth.25 Ma è ancora a Jorgens che dobbiamo tornare, non foss’altro perché le sue parole sono state avallate dallo stesso Welles, che le cita – qua e là appropriandosene – in Filming Othello. In esse Cipro viene definita come “la frontiera del mondo civilizzato” e Venezia s’identifica in una “architeura ricca e armoniosa”: il film, secondo Jorgens e secondo Welles, racconta “il cristianesimo veneziano sconfio dal paganesimo”. Anche James Naremore si è subito accorto della particolare aenzione dedicata all’opposizione fra i due mondi al centro della tragedia.26 Ma la velocità caleidoscopica con cui Welles ha cucito i frammenti del suo film permee solo dopo ripetute visioni che si decriino elementi e suggestioni quasi subliminali. Ci si accorge allora quanto le scenografie e la fotografia siano densi di simbologie e antagonismi. Venezia è il mondo dell’armonia e dell’ambiguo, della politica e dell’intrigo, delle penombre e dei tramonti: il suo colore è il grigio, il suo elemento è l’acqua. Cipro è invece un universo dai contrasti forti, adao agli spiriti guerrieri che comprendono solo la pace e la guerra; ha due colori, il bianco squillante e il nero fondo, i suoi elementi sono l’aria e la roccia. Venezia è bellezza esausta, decadente, felina, femmina, agghindata di bifore e bassorilievi, affollata di piccioni che si alzano in volo spaventati; Cipro è essenziale, virile, fallica (i cannoni che sparano verso il Mediterraneo), il suo cielo è gremito di gabbiani, la sua fortezza adornata di poche rozze icone. Il gioco di opposizioni ritrae e racconta i due personaggi principali: Venezia è Jago, l’eleganza del suo costume carpacciano, i riflessi dei canali, la sua arte soile e maligna, l’ambiguità sessuale di un uomo impotente, il labirinto dei suoi ragionamenti insinuanti; Cipro è Otello, la forza, la lealtà, la disciplina militare, e l’incapacità di ragionare per vie tortuose. Il gioco di contrasti è ancora più interessante perché l’uno interagisce nell’universo dell’altro. Nella prima parte del film, Otello si trova a Venezia, il regno di Jago: è spiato dal suo alfiere, invidiato da Roderigo, disprezzato da Brabanzio; quasi processato dai senatori, viene insultato e maledeo. Ma il suo cuore è onesto, la sua mente forte e semplice: dopo un veloce succedersi di avvenimenti innescato dalla malizia di Jago (e reso nel film da un montaggio veloce e da una serie di immagini immerse nella
penombra), l’arrivo del Moro nell’inquadratura, a volto sereno, pienamente illuminato dalla luce, imprime al film un ritmo tranquillo e sicuro. Ai dubbi e ai pregiudizi del senato veneziano, il condoiero oppone con chiarezza il suo amore per Desdemona, la pienezza e la sincerità del suo sentimento, la reitudine del suo animo. Il senso dell’azione viene soolineato dal trascorrere del tempo, dall’alba baluginante in cui si celebra il matrimonio clandestino alla precipitosa udienza in Senato, quando la luce del maino illumina completamente la verità: al primo round il nebbioso Jago è sconfio, il luminoso Otello ha la vioria. Nel resto del film Jago invade Cipro, il regno di Otello, dove mantiene la stessa sicurezza e spavalderia che lo guidavano sulla laguna. Abituato ad agire nella penombra dei palazzi del potere o su gondole oscillanti, prova per la prima volta a tessere la sua tela in pieno sole. Con astuzia e pazienza, avvicina Otello e lo ghermisce, fingendo di soomeersi alle sue regole; lungo i bastioni della fortezza, mimetizza il proprio ragionare oscuro e serpentino con un lungo dialogo di finta sincerità, e passeggiando accanto al suo signore mostra di acceare i suoi tempi, il suo ritmo, si mee leeralmente al suo passo. La sintassi del film è ancora abbastanza tranquilla e lineare. Ma a contao con Jago, Otello perde progressivamente l’equilibrio, e con lui lo stile visivo del film tende a spezzarsi. Inquinata dai veleni del suo alfiere, la mente del Moro vacilla, la sua personalità solare s’incupisce, la sua forza si sgretola. O è forse lo spirito di Jago a impossessarsi della regia del film, a deare legge mutando l’amore in odio, la bellezza in disgregazione. Da lì in poi gran parte delle scene con Otello e Jago si svolgono nella penombra dei saloni, nell’incertezza dei cunicoli, o, all’esterno, soo la protezione di un ampio cappuccio, mentre gabbie e cancelli si fanno sempre più vicini, si sovrappongono ai volti dei due protagonisti, li imprigionano fisicamente e metaforicamente. Ridoo a due elementi primordiali, il duello tra Jago e Otello assume le sembianze di uno scontro tra acqua e roccia. Jago, le sue movenze dondolanti, il suo sguardo torbido, sono acqua; Otello, la sua figura massiccia, le sue rigide corazze, il suo profilo fiero, sono roccia. esta identificazione viene soolineata più volte, in modo spesso fuggevole, quasi subliminale, basandosi talora sui versi di Shakespeare, e trovando rispondenza nei due universi da cui provengono Jago e Otello: Venezia, la cià lagunare, e Cipro, la
ciadella assolata, faa di nuda pietra, strade polverose, bastioni e rocce a strapiombo, saloni vasti e scabri come immense camere sepolcrali. L’acqua è per tuo il film l’allegoria più frequente del tradimento di Jago, fin dal suo primo apparire, specchiato dentro i canali, i trai somatici cancellati e sostituiti dal torbido elemento; per Jago l’acqua è strumento di morte e malvagità, liquido dotato di riflessi illusori, adaabile a qualsiasi contenitore eppure inafferrabile, e in cui “affogare gai e cuccioli ciechi”; è Jago l’acqua stagnante di cui s’azzuffano Roderigo e Cassio, dentro la cisterna in cui li ha trascinati il suo disegno criminoso; è ancora Jago il pentolone che ribolle minaccioso nel bagno turco, e gli schizzi d’acqua sanciscono la sua azione deliuosa ai danni di Roderigo. Jago ha familiarità con i liquidi, s’identifica con essi; è di nuovo grazie a un liquido, il vino che l’alfiere gli mesce abbondantemente, che Cassio perde la luogotenenza e l’onore. Otello è invece pietra fin dal suo primo apparire, da quel volto riverso che sembra già un monumento funebre. La gelosia e l’insicurezza che Jago gli instilla non alterano ma esaltano le sue caraeristiche: “Il cuore mi è diventato di pietra,” si dispera Otello al culmine della gelosia, “mi bao il peo e la mano si ferisce.” ando cade in preda all’epilessia, la sua faccia stravolta, gelata da un’iterazione dello stesso fotogramma, pare quella di una statua mostruosa; anche l’immagine finale di Desdemona (un fotogramma ingrandito e sgranato) appare pietrificata, come se dandole la morte Otello le avesse in qualche modo trasmesso una parte della propria natura. La stessa recitazione di Welles appare in linea con la rocciosità del suo personaggio, un condoiero che non esplode ma tende all’erosione e alla rovina, come un colosso egizio crepato dal tempo. alcosa del genere notava confusamente Mac Liammóir, ancora durante la prima fase di prove, nella “strana rapidità ansimante” che Welles aveva scelto per il proprio personaggio: “esta impostazione,” scrive Mac Liammóir, “insieme alla sua enorme mole e potenza, dà al personaggio uno straordinario senso di perdita, di inaridimento, di progressiva erosione, di squilibrio, di crollo totale.” Acqua e pietra. Il nodo del film sembra insistere su questo rapporto “geologico” fra i due protagonisti maschili. La loro loa si fa esplicita nei flui che assediano furiosi la fortezza di Otello, gli argini di Cipro bauti dal Mediterraneo fanno da specchio al Moro
che chiede a Jago una prova delle sue accuse. A poco a poco l’acqua della malizia, della calunnia, s’infiltra nella roccia, la penetra, la spacca. Il Moro soccombe, incapace di rendersi conto che, nel suo mondo di regole militari e leggi d’onore, possano esistere congiure e veleni. Ma anche Jago viene punito, da forze opposte alla sua perversione: spiazzato dalle accuse di Emilia, onesta a costo della vita, e inchiodato dal rimorso di Otello, coerente fino a darsi la morte. Sospeso in aria, dentro una gabbia incatenata alla fortezza, il “mezzo demonio” verrà asciugato dal sole e dal vento; perderà tua l’acqua che ha in corpo, e si trasformerà in un secco scheletro.
Foto pubblicitaria di Otello con Suzanne Cloutier e Orson Welles.
Di fronte a questo duello, il terzo elemento della tragedia, il personaggio di Desdemona, rimane in ombra, speatrice ignara, poi viima rassegnata di una loa che la riguarda solo in parte. Welles non ha mai mostrato grande aenzione per l’universo femminile; come nel film precedente aveva ridoo il peso di Lady Macbeth, in Otello ha messo in secondo piano il rapporto fra il Moro e la sua infelice sposa, deludendo chi si aspeava la tragedia di un amore impossibile. L’utilizzo che Welles fa di Desdemona non è però superficiale o semplicistico, e la distanza fra i due personaggi (la scarsa passionalità, i rari momenti di tenerezza) ha un fondamento ben preciso: l’abisso (di casta, di razza, di temperamento) che separa i due sposi, a causa dell’intimo complesso d’inferiorità del Moro nei confronti della sposa e dell’oggeiva distanza fra lo schieo e rozzo uomo d’arme e la splendente civiltà veneziana, impenetrabile nella sua diversità. La distanza è sempre, immediatamente, fisica. Esistono pochi momenti, lungo tuo il film, in cui Otello e Desdemona hanno un contao esplicito: un tenero afferrarsi la mano e un improvviso schiaffo. In entrambi i casi, Welles si preoccupa di dividere la coppia fra campo e controcampo: Otello accoglie nella sua la mano tiepida di Desdemona, e più tardi fa partire un fulmineo schiaffo sul volto della sposa; ma nell’inquadratura c’è sempre solo lui o solo lei, mai le due persone insieme. “Distanti” sono anche i vari momenti di intimità sessuale fra i due sposi: si traa quasi sempre di allusioni, abbracci in campo lungo, ombre che si congiungono, baci occultati dai vestiti rigonfi; anche la prima noe di nozze, strappata alla guerra che aende Otello, si riduce a un rapporto freoloso (“non ho che un’ora d’amore da passare con te, dobbiamo obbedire al tempo”). Una scelta precisa, consapevole, da parte di Welles. Della scena in cui Otello e Desdemona si abbracciano e si baciano davanti a Jago, furono girate alcune versioni (conservate fra i cosiddei Othello Doubles alla Cineteca nazionale) in cui il contao delle labbra, per quanto castamente serrate, avveniva alla luce del sole, ma in sala di montaggio Welles ha invece scelto un ciak in cui il bacio risulta “impallato” dal mantello del protagonista. Tuo ciò contribuisce a suggerire una separazione fra il Moro e la sua bellissima sposa, non solo in termini psicologici e spirituali ma anche razziali, come se il
contao fra un moro e una veneziana non fosse neanche concepibile. I momenti più passionali del film appartengono alle ultime ore di vita di Desdemona, e si concretizzano in una carezza sul ventre e nell’ultimo, mortifero, bacio. Otello può permeerseli perché ormai disprezza sua moglie, se li concede perché non sono più rivolti all’angelo che ha sposato ma a quella che crede una sgualdrina indegna di vivere. E se nella lenta trepidante carezza che Otello fa alla pancia della sposa l’inquadratura lascia ancora una volta fuori campo il corpo del Moro, la scena dell’uccisione di Desdemona, di poco successiva, è la più sensuale e allusiva di tua la pellicola. Desdemona ha fao preparare il leo con le lenzuola nuziali, e la violenta apertura delle tende del baldacchino è un’evidente metafora della perdita della verginità; il moto di paura della donna ricorda per contrasto la serenità della prima noe, quando il peso di Otello sul leo la faceva dolcemente dondolare; il singulto della sposa è ora invece l’aeggiamento della viima che ha appena ricevuto il colpo, prefigurazione della sua morte imminente, allegoria di un ao sessuale vissuto come violenza, caricatura esasperata di quel primo amplesso. Il rapporto carnale fra i due sposi può ora esplodere con tua l’energia accumulata durante il film: il Moro sembra perdere il suo senso di inferiorità, si slancia sulla bocca di Desdemona in un ultimo bacio, il più esplicito e appassionato, e la uccide. Desdemona muore, con una differenza sostanziale rispeo al testo di Shakespeare; nella tragedia veniva strangolata, qui è invece soffocata da un lenzuolo premuto sul suo volto e dal bacio che araverso di esso le dà Otello. Usando un tessuto, Welles crea un parallelo con il sudario e intende insieme ricordare quel fazzoleo che l’inganno di Jago aveva frapposto fra i due sposi. Ma quel lenzuolo è anche, ancora, uno strumento di separazione, l’ultimo invalicabile ostacolo fra il solido Otello e la spirituale Desdemona, un corpo estraneo che unisce e insieme divide i due infelici sposi. Il Moro la bacia ma le sue labbra non possono congiungersi a quelle della consorte: anche morendo, la bianca, delicata figlia di Brabanzio rimane intangibile da parte del nero, rozzo Otello. Poco dopo, la botola sopra di loro si chiude, spegnendo del tuo quello splendore che il condoiero innamorato aveva irradiato intorno a sé nel senato veneziano, e che dopo un serrato contrasto fra luce e
tenebre, si è andato via via smorzando, facendo infine piombare la camera nel buio. Nell’ultima scena, una ripresa della sequenza d’apertura, il corpo del Moro viene portato in processione sugli spalti della sua fortezza. Dietro di lui c’è il feretro di Desdemona, ma il condoiero appare tristemente solo, una monumentale silhouee pietrificata, definitivamente separato dalla sua sposa. Gli fanno ancora da cornice il sole e la pietra, il cielo luminoso e l’aspra fortezza di Cipro che infine lo ingoia, nella pietra e nel buio. Subito dopo, i titoli di coda ripropongono i riflessi cangianti dell’acqua di Venezia, il mondo ambiguo e multiforme di Jago, che sembra così prendersi l’ultima parola, e la vioria finale.
Tullio Kezich: “Un cineasta contromano” Roma, 23 aprile 2005 Giornalista, saggista e drammaturgo, Tullio Kezich (1928-2009) è stato uno dei decani della nostra critica cinematografica. Amico di Federico Fellini, sul quale ha scrio diversi volumi, fu tra i fondatori di “Cinema nuovo”, l’influente periodico direo da Guido Aristarco. Mosse i primi passi della sua professione riferendo della Mostra di Venezia per un’emiente della sua cià, Radio Trieste; fu quindi testimone della prima sortita veneziana di Welles, dileggiato per il Macbeth. Tre anni dopo, lo rivide di nuovo in laguna, abile retore in occasione del ritiro di Otello. A distanza di oltre mezzo secolo ricordava, forse meglio di chiunque altro, l’atmosfera di reciproca incomprensione creatasi in quegli anni tra il Welles italiano e la nostra critica. Oggi Welles è una leggenda, ma all’epoca non lo era affao. I suoi film arrivarono preceduti da una fama che forse al momento un po’ indisponeva. Arrivava tanta roba, e questo mito del ragazzo prodigio, del film più importante della storia del cinema che già allora si era formato, in Italia era stato preso un po’ male. Ma che sarà mai, si diceva, ma queste sono americanate, cose che inventano le grandi case di Hollywood per creare nuove leve che poi in realtà non ci sono! L’aesa era minima e anche maldisposta. Per di più la RKO ha leeralmente buato via sia arto potere che L’orgoglio degli Amberson, considerati alla stregua di niente. Allora a Trieste io facevo la critica alla radio e Callisto Cosulich era al “Piccolo”, ed eravamo sempre in rapporto con i noleggiatori locali. ando vedemmo annunciato arto potere siamo andati da quello della RKO, il quale ci disse testualmente “Ma sul serio vi interessa questo ferialòn?” Nel gergo locale ferialòn era il film che non faceva i festivi, che andava su il martedì fino al venerdì. E non so neanche se sia riuscito a farli tui, quei tre giorni. KEZICH
La stessa sorte gli toccò nelle altre cià, almeno a Roma e a Milano.
arto potere era uno di quei film maudits uscito magari in alcune cià e non in altre, insomma una cosa assolutamente minore. Ho l’impressione che l’accoglienza sia stata un po’ di delusione, un po’ limitativa, insomma, e praticamente zero per L’orgoglio degli Amberson. Trieste poi era in una condizione particolare, i cinema più importanti erano tui requisiti dagli Alleati, io e Callisto ci meevamo dei maglioni e facevamo finta di essere dei soldati americani, si pagava e si diceva “up” o “down”, galleria o platea, le uniche parole in inglese che sapevamo. Abbiamo visto tanti film così, ma Citizen e Amberson non li abbiamo visti in quella sede, perché non erano nella distribuzione dell’esercito, per loro erano già vecchi. Uscirono in cinema minori, se non minimi. Amberson me lo ricordo addiriura al Novo Cine, una salea che faceva pellicole di serie B o C, film di mostri o western da quaro soldi, per due soli giorni. Lo straniero, invece, venne presentato nel ’47 a Venezia dove ebbe delle stroncature, forse anche giustamente; certo non era dei più pregevoli di Welles. Cosa successe alla Mostra del 1948? Welles arrivò al Lido col Macbeth, e lì la cosa cominciò a essere interessante. Allora non è come adesso che i divi si mostrano pochi minuti e per il resto rimangono segregati nelle suite dei grandi alberghi, allora c’era un vero melting pot, si stava tui insieme, li si poteva avvicinare e si poteva chiacchierare normalmente. Ricordo che Welles aveva un suo clan: c’era Luigi Barzini junior, poi naturalmente Lea Padovani, e anche Alberto Mondadori, uno molto esuberante, sempre col bicchiere di whisky in mano, col vocione, che faceva la piazza. Una squadrea che veniva guardata anche con una certa ironia. E di cui fece parte anche Alfredo Todisco. A Trieste il giovane Todisco era un po’ un “giornalista della domenica”, durante la seimana lavorava negli uffici del Governo militare alleato, credo ai lavori pubblici. Veniva dal teatro GUF e aveva questa ambizione di scrivere. Parlava bene l’inglese, proprio araverso la sua conoscenza della lingua
aveva avuto questo posto presso gli Alleati e lì a Venezia, inviato del quotidiano “Ultimissime”, ha avuto l’idea di presentarsi a Welles. All’epoca nessuno parlava inglese, in realtà il gruppo intorno a Orson si era formato perché potevano parlarci. Welles non capiva l’italiano e si sentiva come uno di noi si sentirebbe in Finlandia, aveva bisogno di qualcuno che lo appoggiasse, che gli parlasse. E così c’è stato un fulmineo innamoramento di Orson che ha cambiato la vita di Todisco, nel senso che fu l’occasione per lui di fare delle conoscenze che lo indussero a trasferirsi a Roma iniziando così una brillante carriera nei giornali. Una maina al Lido ci capitò davanti con una cravaa bianca autografata, tuo emozionato. “Mi ha firmato la cravaa, mi ha deo che mi chiamerà Alfredo e io lo chiamerò Orson…” Noi eravamo anche un po’ invidiosi, ma non potevamo competere, né io né Callisto parlavamo inglese… Cosa successe alla proiezione del Macbeth? Venne dato la stessa sera di Fuga in Francia di Mario Soldati. Ricordo che eravamo nella Sala Grande del Palazzo del cinema; era il primo anno che il festival tornava al Lido e la sala era strapiena. Allora i giornalisti vedevano i film col pubblico, quindi, per quanto i giornalisti fossero pochissimi in confronto a oggi, la sala era rigurgitante, tanto è vero che io mi sono dovuto sedere sugli scalini, e vicino a me Soldati, perché c’era il suo film. Film che fu una delle ragioni che innervosirono Orson: disse che lo avevano programmato male, che lo avevano messo insieme con un film commerciale italiano, lo traò dall’alto in basso. Poi proiearono il Macbeth, e devo dire che fu accolto dal pubblico con un certo consenso, mentre la critica in generale non fu buona. Ci fu una conferenza stampa che diventò subito tragica. Orson dovee fare i conti con un aeggiamento del genere ma-chisarà-mai-questo-che-ci-vendono-come-un-genio. Fu una conferenza stampa veramente ostile, io c’ero, e in seguito a questa conferenza stampa ha ritirato Macbeth dal concorso, perché ha saputo che l’Amleto di Olivier era molto ben piazzato. Barzini fungeva da interprete, e mi pare che
tendesse a enfatizzare certe affermazioni che Orson buava là. Per esempio: “Il signor Welles accea per la sua opera la definizione di barocco.” Oppure, e questa mi pare bella: “Il signor Welles e Eisenstein si scambiarono una nota in cui si riconoscevano ambedue figli di Griffith, ma non parenti fra loro.” È stato secondo me tuo un gioco a non capirsi. Welles disse, l’ho sentito con le mie orecchie: “Ma cosa volete… il mio è un piccolo film e mi vado a meere contro un film che rappresenta l’impero britannico…” E non era vero niente, l’Amleto non è affao il film del potere artistico-economico inglese, è il film di un avventuriero italiano, Filippo Del Giudice, che aveva capito il genio di Olivier e ha avuto il merito di portarlo nel cinema, facendogli fare Enrico V e Amleto, un baitore libero che cercava i soldi di qua e di là, come si faceva all’epoca. Può avere influito sui giudizi che il film fosse prodoo da Del Giudice? Forse i nostri critici tentavano anche di proteggere un produore italiano? No, ormai Del Giudice stava in Inghilterra… C’era proprio un fraintendimento… Ricordo che Mondadori scrisse “questo Macbeth scolpito nel bronzo e nell’acciaio…” e qualcuno gli ha deo: “Ma è scolpito nel cartone!” perché le scenografie erano queste groe fae come i presepi napoletani, e con degli aori teatralmente bravi ma un po’ sindacali, un’impresa allestita veramente con poco… Welles l’aveva realizzato per il gusto di farlo, anche se poi è un signor film. Insomma, pochi capirono che era una cosa geniale, faa da uno che non solo era un grande regista e un grande aore ma anche uno che si inventava i mezzi di produzione con niente, all’italiana proprio. Mentre lui disse che non poteva meersi con Amleto e ritirò il film dal concorso, e in tuo questo fu giudicato un po’ male. Lo contestarono, e lui: “Ma cosa importa a me, tanto questo film in Italia non verrà mai distribuito perché Shakespeare non si può doppiare…” In realtà il film fu doppiato, e molto bene da Gino Cervi, che doppiò anche Amleto. Un doppiaggio che costava, all’epoca, è come se oggi lo facesse Giancarlo Giannini. Comunque con
risultato zero. La situazione del Macbeth fu di incomprensione generale, di ostilità più o meno controllata ma abbastanza esplicita. In tuo questo Welles fu molto appoggiato, prima durante e dopo, da Elsa Maxwell, la famosa columnist, una befana che avrà avuto già allora seant’anni, tracagnoa, brua. Stranamente, lui che era entrato in conflio con la Hopper e con la Parsons, le peegole di Hollywood, lì a Venezia si portava Elsa sempre dietro nel suo gruppo. Lo ricordo servizievole nell’infilarle la pelliccia, si vedeva che l’autorità del tavolo era la Maxwell, e che lui era al suo servizio, evidentemente ne aveva bisogno. Infai poi lei fece una polemica sui suoi giornali, disse che l’Italia aveva traato malissimo Orson Welles, che aveva avuto ragione a ritirarsi perché gli avevano fao chiaramente capire che il film non era piaciuto, che questa giuria infame si stava preparando a non dargli niente. E l’articolo fu ripreso dai giornali italiani con molta ostilità verso la Maxwell perché aveva trasformato la difesa di Orson in un aacco contro tua l’Italia, e contro una Mostra che imbrogliava. In effei la Mostra aveva delle cose strane, allora i giurati potevano contemporaneamente scrivere le recensioni sui loro quotidiani, oggi è una cosa inconcepibile. Ma i film allora erano sootitolati? Dal tenore delle recensioni veneziane del Macbeth sembra che quasi nessuno dei nostri critici ci abbia capito qualcosa. I film erano sootitolati. Mi pare, eh… In generale lo erano… Però di questo di Welles non sono sicurissimo, proprio perché la produzione era povera… Era della Republic, una società che non aspirava al cinema alto, faceva i western di Gene Autry e Roy Rogers, i cowboy cantanti, tua la serie dei Musketeers, John Wayne prima maniera, non è che si arezzassero per andare ai festival… E la mancata presentazione di Otello alla Mostra del 1951? Una situazione completamente diversa. Il film era previsto per la sera del 31 agosto, ma si sparse la voce che la proiezione era annullata e ci fu una conferenza stampa nel Palazzo del cinema. Welles era da solo, sul palcoscenico, con
la sala piena di giornalisti internazionali, però stavolta stupì tui parlando in italiano. Ormai lo parlava bene, ma un po’ come uno che si è formato un lessico sui testi di Dante e Machiavelli. Venne fuori e disse: “Gli altri registi vanno avanti, io solo resto fermo e questo non mi pare giusto.” Accennò a tue le difficoltà che aveva avuto per fare questo film e poi precisò: “Come il film è adesso, nel mio Otello un po’ è mezzogiorno e un po’ è mezzanoe,” per dire che ancora in stampa doveva pareggiare l’uso di pellicole e operatori diversi, per scene cominciate in un luogo e finite in un altro. “Io speravo di completarlo per questa circostanza ma non sono riuscito.” ell’anno a Venezia c’erano anche Rashomon, Diario di un curato di campagna, e Big Carnival, forse Welles capì che non avrebbe preso niente, e forse qualcuno di Cannes gli arrivò soo, gli fece delle promesse per cui lui ritardò… In realtà fece bene perché nel maggio successivo sulla Croisee oenne il massimo premio, sia pure ex aequo con Due soldi di speranza del nostro Castellani, il che gli sarà seccato moltissimo. È un retroscena che penso io adesso, alla luce di quello che è successo negli anni successivi, con i registi e i produori che fra Cannes e Venezia paraculeggiano… Ma certamente il film aveva molti problemi. Comunque lì alla conferenza stampa, il fao che parlasse italiano, che avesse questo tono anche un po’ desolato, di confidenza, come uno che non faceva il grande regista, che si concedeva, che diceva guardate in che condizioni sono, i miei colleghi a Hollywood hanno quello che gli serve mentre io mi devo inventare tuo, eccetera… tuo ciò suscitò simpatia. Solo alcuni erano molto risentiti. Ricordo per esempio un giornalista inglese: “Sono Francis Koval, lei vorrebbe dire che noi non possiamo vedere un film perché ha una stampa approssimativa… Ma noi siamo degli specialisti, e lei avrebbe la possibilità, anche il dovere visto che ci siamo scomodati, di farci vedere questo film. Poi faremo noi la tara sulle cose che saranno migliorate.” E Welles gli rispose: “Voi scusatemi, vedrete il film quando sarà finito, perché fin che il film non sarà finito…” e fece un gesto allargando le braccia come a delineare un cerchio intorno alla sua figura, “io ho questa
fortezza.” Un’espressione aulica per dire: io ho il dirio, la forza di tenermi questo film finché a me pare che possa uscire. Il pubblico come reagì? Sono stato testimone direo, a un metro di distanza, di un incidente clamoroso che ci fu sulle scale del Palazzo del cinema mentre entravamo. In effei Orson Welles aveva cominciato a interessare, c’era gente venuta da fuori per vedere il film. Passava di là Antonio Petrucci, direore democristiano della Mostra, un personaggio molto duro, messo lì da Andreoi a cercare di sorarre la Mostra ai veneziani, uno molto arrogante, circondato da uscieri, per parlargli dovevi passare araverso dieci sbarramenti… Un tizio, piuosto maleducato, lo vide e quasi gli mise le mani addosso: “Ma lei non sa dirigere la Mostra! Noi siamo venuti, dobbiamo vedere il film, il film non c’è!” E siccome c’era un maresciallo dei carabinieri, Petrucci gli ordinò: “Maresciallo, mi tolga dai piedi questo cialtrone,” e i carabinieri lo afferrarono. L’incidente ci fu anche con altri che stavano con lui, che avevano protestato proprio clamorosamente, con l’aria di voler malmenare l’incolpevole Petrucci per l’assenza del film. Accanto a una certa simpatia che si era creata per Orson, c’era quindi da parte di una minoranza, direi più fuori che dentro la sala, un grande risentimento per essere venuti a vedere un film che non c’era. La serata tra l’altro rimase vuota, questo è strano, non proiearono niente, la Mostra fece un buco, e questo a Welles non glielo perdonarono. Uno dei piccoli misteri del Welles italiano è la famosa foto al Caè Greco. Non so chi l’abbia organizzata, chi abbia fao venire tui, ma di certo è una foto pensata. Orson è stato ritrao nel cuore dell’intelleualità italiana, però è chiaramente in prestito. Lea Padovani, che era amica un po’ di tui, coccolata perché bella, deve essersi portata dietro l’americano e allora avranno messo lì dentro anche lui. Orson era diventato a Roma una figura quotidiana o quasi, mai secondo me amalgamato, con alcune conoscenze ma senza essere
diventato un membro della comunità. Infai fece delle dichiarazioni tremende, definì l’Italia un paese in cui tui sono grandi aori tranne i professionisti. E la foto del Caè Greco documenta la pseudointegrazione di Welles. Secondo me è proprio lui l’ispiratore del famoso Un marziano a Roma di Flaiano. Il racconto uscì sul “Mondo” e ripropone praticamente la sua parabola. C’è Orson Welles a via Veneto, andiamo a vedere cosa fa… Poi lo rivedi in piazza: ancora Orson Welles. Poi un’altra sera: ah, ancora quello! E poi: ma sta sempre qua, ma perché non sta a casa sua⁈ Il rapporto di Orson con l’Italia fu proprio in questi termini. D’altra parte i contrasti con l’Italia furono anche lo scontro fra due concezioni artistiche praticamente opposte. Lo accusavano di formalismo, e lui faceva continue baute contro il neorealismo. I nostri critici esagerarono, ma non è che lui fosse poi tanto diplomatico… Certamente, il nostro cinema più valido in quel momento stava da tua un’altra parte, era il momento più sbagliato per proporre Shakespeare. Giuliea e Romeo di Castellani è del ’54, quando era già cambiata l’aria: nel ’48 un regista italiano di prima categoria non ti faceva un film come Macbeth, sarebbe stato contromano, leeralmente. Ma tuo Welles era contromano, era un cinema leerario legato al palcoscenico, legato moltissimo agli aori. ando fece Citizen Kane trasferì tua la compagnia Mercury nel cinema e creò alcuni personaggi, Joseph Coen, Paul Stewart, Evere Sloane, Agnes Moorehead e altri, che rimasero a Hollywood. In quel momento Macbeth era improponibile in Italia. Non ci fu invece lo stesso aeggiamento nei confronti di Hamlet, che forse aveva intimorito tui con l’autorevolezza del grande indiscutibile Olivier… Ma il film di Orson si è poi riversato nelle varie edizioni del Macbeth fae in Italia, quella famosa di [Tino] Buazzelli del ’68 riportava parecchie cose di Welles. Però dici giusto, il momento era sbagliato, il gusto stava da tu’altra parte. esti non capivano lui e lui non capiva loro. Il primo a parlare di Welles con cognizione di causa fu Giulio Cesare Castello. So che vi siete conosciuti bene.
Un personaggio che adoravo. Castello era fra i pochissimi che coprivano teatro e cinema. Come prassi, nella critica c’è sempre stato un muro, a quelli del cinema non glien’è mai importato niente del teatro, e quelli del teatro hanno qualche risentimento verso il cinema che li ha un po’ trascurati. Effeivamente il cinema neorealista odiava gli aori. Una volta un aore triestino mio amico, Mario Valdemarin, che aveva fao speacoli con Visconti e Strehler, andò a un’audizione da Pietro Germi. Germi lo fa avvicinare, gli fa fare tante foto, “Interessante, interessante,” si appassiona, “ma lei cosa fa nella vita?” “Io sono aore,” gli risponde Valdemarin. “Ah… Vabbè, le faremo sapere,” e lo ha liquidato. esto era l’aeggiamento verso gli aori professionisti da parte del neorealismo, che eventualmente conglobava con sforzo la Magnani, Fabrizi, quelli che venivano dalla rivista. Orson è lui stesso un aore di teatro, nasce nel teatro, e quindi per formazione, gusto e modo di fare era gli antipodi. Castello però aveva il piede in due scarpe, conosceva molto bene il teatro e conosceva molto bene il cinema. Poi a un certo punto della vita ha avuto una crisi. Una cosa pazzesca. Insegnava al Centro sperimentale ma voleva diventare professore di università: fu bocciato alla libera docenza e la prese di un male… Pur sapendo di essere viima di un’ingiustizia, abbandonò tuo. “Mi sono rovinato la vita per una cosa stupida come il cinema quando esiste la musica…” mi diceva. “Una pagina di Mozart vale tua la storia del cinema e io vorrei occuparmi di musica, ma ormai è tardi…” Gli ultimi venti/trent’anni si è ritirato, è vissuto emarginato, non so neanche come, forse aveva una piccola riserva di famiglia. Mai più visto a un festival. Eppure era molto, molto bravo. Welles l’hai mai più incontrato? Mai più visto. Lo ha visto invece mia moglie. Alessandra da bambina abitava in largo Bradano 4; sua mamma, una volta, si affacciò alla finestra e lo vide soo. Paola Mori stava in casa lì con la famiglia e lui la andava a trovare. L’ha visto
andare e venire un paio di volte. Insomma, il “marziano” Welles era diventato uno che incontravi a largo Bradano. E di questo articolo sai niente? Roberto De Paolis… Non lo conosco. In realtà l’autore è Guido Aristarco. La vera identità è saltata fuori perché Welles aveva fao causa contro l’autore dell’articolo, per via di certi riferimenti al bere… Fammi leggere… “Si alza alle nove del maino già ubriaco…” Non è vero niente, io Welles non l’ho mai visto bere. Nel ’51 Coen fece una conferenza stampa sulla terrazza dell’Excelsior e lui sì che era ’mbriago, ondeggiava proprio, sembrava prendesse il vento. Come Dana Andrews, come Van Heflin: gli americani, quando bevono, bevono. Orson, non dico che fosse astemio, semmai era un mangione; il che depone a favore del fao che non beveva, perché di solito l’alcolista mangia poco. Ho avuto la prova confrontando l’articolo firmato De Paolis con quest’altro firmato Aristarco. In tui e due si parla di Citizen Kane e alcune righe sono le stesse. Praticamente si è copiato. esta era una grande differenza con Castello. Castello aveva delle qualità professionali che mancavano a Guido. ando aveva scrio una cosa e doveva traare dello stesso argomento su un altro giornale, non poteva non copiarsi. Se Castello doveva recensire uno speacolo, ricordo per esempio I capricci di Marianna a Capri con Giorgio De Lullo, per pagarsi viaggio e albergo s’impegnava con quaro giornali e scriveva quaro articoli tui diversi. Aristarco lo guardava come avesse visto il vitello con due teste. Diceva: ma come fa? Io gli dicevo: potresti farlo anche tu; e lui: ma non posso mica cambiare idea! Tentavo di replicare: ma non si traa di cambiare idea, si traa di cambiare il modo di esporla. Era l’antigiornalista. “Sbalordire ad ogni costo è il fine di Welles…” Sì, è Aristarco, puoi dirlo tranquillamente. Secondo me l’incidente con Welles derivò dal fao che Aristarco, pur occupandosene tua la vita, non ebbe mai con l’ambiente del
cinema una qualche dimestichezza e infai ebbe l’accortezza di parlarne pochissimo, limitandosi a fare il critico…
15. L’ombra di Salomè
– Do you want the truth? – Of course not. Procula e Ponzio Pilato, dalla sceneggiatura di Salomè
A Milano, Otello tenne il cartellone per oo giorni, al cinema Missori: l’8 dicembre lo smontarono per far posto a Mago per forza, un film comico con Tino Scoi e Isa Barzizza. Anche la programmazione romana durò una seimana, dal 5 al 12 dicembre, quando i cinema Fiamma e Ariston lo sostituirono con Profughi dell’amore, una vecchia commedia con Claude Rains. Le repliche dell’altro Otello, al St. James’s di Londra, terminarono subito dopo, il 15 dicembre, né Welles riuscì a coronare il suo sogno di proseguire la tournée in altri paesi europei: troppi soldi aveva speso per un solo film, troppo pochi gliene rimanevano per perfezionarlo in vista di Cannes. Rimessosi a caccia di denaro interpretò Moriarty in uno Sherlock Holmes radiofonico. Poi andò a trovare Edwards e Mac Liammóir al Gate eatre di Dublino, dove un centinaio di membri della Catholic Cinema and eatre Patrons Association lo accolsero lanciandogli boiglie e chiamandolo “star di Stalin”, urlandogli di tornarsene a Mosca. Il lavoro più consistente del periodo è la partecipazione al film Trent’s Last Case. È un giallo tipicamente britannico, un onesto prodoo d’intraenimento tuo deduzioni e colpi di scena, direo da Herbert Wilcox, che Welles aveva conosciuto all’epoca di Citizen Kane e rincontrato durante le rappresentazioni di Otello al St. James’s eatre. Welles vi interpreta il miliardario americano Sigsbee Manderson, trovato cadavere sul retro della sua villa. Parrebbe un suicidio ma il giornalista Philip Trent (Michael Wilding) indaga, sospeando della moglie (Margaret Lockwood) e del segretario (John McCallum) dell’ucciso. Welles entra in scena a un’ora dall’inizio, in un flashback che fa finalmente luce
sull’accaduto: avendo colto un bacio furtivo fra la moglie e il segretario, Manderson aveva deciso di uccidersi inscenando un finto omicidio di cui avrebbe dovuto essere accusato il rivale; il quale, accortosi appena in tempo del piano, ha riorchestrato alibi e indizi in modo da ricondurre all’ipotesi di un semplice suicidio. La verità vera torna infine a galla. Finale con bacio fra la vedova e il giornalista che ha risolto il caso. Nel film Welles si camuffa con un paio di cespugliose sopracciglia e il naso di gomma più ingombrante della sua collezione. Essendo il suo personaggio geloso della moglie, ne approfia per citare qualche passo dall’Otello e per scherzare su se stesso, dicendo di aver assistito a una rappresentazione della tragedia al St. James’s eatre e di non aver troppo gradito l’interpretazione del protagonista. Pur caricaturale, l’entrata in scena di Welles fa comunque cambiare marcia al film, portando all’intricata vicenda un insperato soffio di vitalità. Molto, fra l’altro, Trent’s Last Case deve a Welles anche dal punto di vista della struura: come Citizen Kane, il racconto si apre con la morte del protagonista, e prosegue con la tenacia investigativa di un reporter, deciso a svelare il motivo della scomparsa di Manderson anziché il significato di Rosebud. La stessa tardiva entrata in scena di Welles, tanto più aesa in quanto rimandata, sfrua il medesimo meccanismo del Terzo uomo. Cosa che suggerì ai nostri distributori l’idea bislacca di proiearlo in Italia con il titolo Ritorna il terzo uomo, spacciando il gialleo di Wilcox per una specie di seguito del film di Reed. Per Welles il film aveva comunque un unico scopo: raggranellare qualche sterlina in modo da mandare avanti la postproduzione della versione inglese di Otello. “A volte,” ricordava Margaret Lockwood, “rimaneva seduto per delle ore fra le scenografie, taciturno, completamente ripiegato su se stesso. A quel punto era impossibile strappargli una parola. So che Otello gli aveva causato molte preoccupazioni; non era riuscito a finirlo. Forse era innamorato. Non so; ma allora diventava assolutamente odioso.”1 La stampa italiana continuava a lanciargli insulti. In una leera aperta pubblicata su “Cinema”, John Francis Lane, giornalista inglese trapiantato in Italia, aveva rincarato la dose su Otello (“tui quei prestigiosi movimenti di macchina, a che servono? […] Agli effei psicologici, altro non sono che trucchi di modesta
concezione. Non è cinema, e non è William Shakespeare. È, soltanto, Orson Welles”), consigliandogli caldamente di cambiar strada: “Lei s’aggira in Europa da ormai quaro anni. Probabilmente, considera l’Italia la sua nuova patria spirituale. […] Hollywood la mise al bando, la costrinse all’esilio. Immagino che il ritorno a Hollywood sia impossibile e inammissibile. Ma non importa: perché non prova a fare film americani a Roma? Perché non convince qualche casa di produzione italiana, qualche produore intelligente (e ce ne sono) a lasciarle fare un film che rappresenti il modo di vita americano, i problemi americani, quindi la cultura e le tradizioni spirituali americane?”2 Non sarebbe stata una gran novità. Da Citizen Kane all’Orgoglio degli Amberson, dallo Straniero alla Signora di Shanghai, il regista aveva già scandagliato le ansie di potere e le intime contraddizioni dell’universo a stelle e strisce. In quel momento i suoi interessi erano radicalmente diversi, come testimoniano i vari progei che, talora contemporaneamente, Welles portava avanti in quel periodo. Nel seembre del ’51 aveva annunciato un Capitan Noè (titolo inglese: Two by Two) da sceneggiare, dirigere e interpretare in Italia, una nuova impresa soo le insegne della Orson Welles Productions. Il film avrebbe raccontato Noè, interpretato dallo stesso Welles, come “un simpatico vecchio ubriacone” entrato nelle simpatie dell’Onnipotente, in un’epoca antichissima esteriormente simile alla nostra (in fondo, ragionava Welles, nulla sappiamo dell’era antidiluviana, chi dice che non fosse del tuo uguale a quella moderna?). Stando alla testimonianza di Oberdan Troiani, l’ispirazione sarebbe venuta dai modellini costruiti per Otello. “Dopo questo film, infai,” ricordava Troiani, “aveva deciso di girarne un altro usando esclusivamente i modellini: aveva già preparato tue le miniature per girare il diluvio universale, ricostruendo famosissimi monumenti che voleva far travolgere dai flui. Sarebbe stata una versione moderna del diluvio, in cui l’Arca sarebbe stata una nave-bisca; dovevano esserci dei figli negri di Noè che, durante il diluvio, sarebbero finalmente stati traati senza razzismi, ma da cui i figli bianchi avrebbero ripreso le distanze appena finito il pericolo.”3 Due anni più tardi, Welles raccontava ancora il progeo a Peter Noble, citando come possibile produore il solito Alexander Korda:4 ma fu l’ultima volta che ne parlò. Otello venne intanto ufficialmente selezionato per il concorso del Festival di Cannes. Welles si rispostò sul continente, e sul baello per la Francia incontrò Peter Brook, che stava preparando
una Salomè al Covent Garden con scene e costumi di Dalí. La domanda sorse spontanea: “Orson, vorresti interpretare Erode?” Welles rispose a Brook che stava preparando una propria versione cinematografica. Il suo interesse per la figlia di Erodiade risale almeno all’epoca della Signora di Shanghai, con un progeo sceneggiato da Fletcher Markle basato sul lavoro teatrale di Oscar Wilde e una cornice ambientata in epoca contemporanea. È uno dei tanti progei di Welles non prodoi da Alexander Korda. “C’era molto più Wilde che Welles, nel copione definitivo,” spiegò poi il regista, “ed era un’idea di Alex. Aveva promesso il ruolo del titolo a Eileen Herlie. Io volevo una gaina, e lui voleva una gaa; odiavamo essere in disaccordo, e così credo che fu un sollievo per entrambi quando Alex decise di non farlo.”5 ello del 1952 è tu’altro progeo (noto solo per alcune pagine della sceneggiatura tradoe in francese da Maurice Bessy per il suo Orson Welles del 1963), del quale possiamo qui ora, per la prima volta, rendere conto. La sceneggiatura originale in lingua inglese è un dailoscrio non datato di 218 pagine più tre non numerate, titolato in frontespizio come Salomè, A Screenplay by Orson Welles, e stampato nella tipografia londinese May Hemery. La copia consultata è affiorata fra le carte del produore Peppino Amato, che Welles ha certamente conosciuto: esiste una foto dei due sul set di Otello e, come si ricorderà, Orson nel ’51 aveva lavorato al doppiaggio in inglese di Don Camillo e di Enrico Caruso, entrambe produzioni di Amato. Nelle pagine introduive Welles dichiara che le fonti del racconto sono “principalmente bibliche, sebbene sia stata consultata anche una grande quantità di storici laici”, comunque preferendo la lezione dei Vangeli alle conclusioni degli studi più moderni. L’autore si preoccupa di segnalare che “la leggenda di una dilazione nell’esecuzione di Giovanni il Baista è, naturalmente, apocrifa (e comunque storicamente possibile)” e che l’allungamento del governatorato di Pilato sulla Giudea è una palese licenza. Due scene, spiega ancora Welles, sono parzialmente basate sul dramma di Oscar Wilde, “i cui dirii di traduzione (dal francese) sono controllati dall’autore della sceneggiatura” (l’ao unico di Wilde fu scrio direamente in lingua francese).6 Una ulteriore precisazione riguarda i dialoghi scrii in due stili differenti, in modo da differenziare la parlata degli Ebrei da quella dei Romani: i
rappresentanti dell’impero conversano in modo “idiomatico, praticamente moderno”, e dovranno farlo con l’accento della uppermiddle class britannica, equivalente contemporaneo del governo coloniale del I secolo d.C., mentre gli Ebrei (che hanno la maggioranza dei dialoghi) non dovranno avere alcuno specifico accento. Nelle mani di Welles un film su Salomè diventa, ovviamente, un film su molte cose. Prima che entri in scena la figlia di Erodiade si parla di Giovanni il Baista, la cui esistenza scorre a sua volta in parallelo con quella di Cristo, spesso evocato ma mai effeivamente visibile. Si inizia con l’arrivo di Zacharias, uno dei tre Magi, che bussa alla porta di Elisabea, la madre di Giovanni, alla ricerca dell’altro Bambino, indicato dalle Sacre Scriure come il Re dei Giudei. Scandalizzato, il sacerdote Caifa informa l’auale regnante: Erode il Grande, vecchio e stanco, dà quindi ordine di uccidere tui i bambini di Betlemme soo i due anni. La strage aira l’aenzione del governatore romano Ponzio Pilato, preoccupato di azioni violente non autorizzate. In un lungo e talvolta umoristico confronto con Caifa, Pilato lo esorta a non intralciare l’amministrazione della Giudea e gli ricorda il rispeo dovuto all’imperatore di Roma. I romani sono fra l’altro infastiditi dalla condoa di Erode Antipa, succeduto a Erode il Grande e diventato Tetrarca di Galilea: invaghitosi della cognata Erodiade, ha fao uccidere il marito, suo fratello Filippo, sposandola subito dopo; a cinque mesi dalle nuove nozze, Erodiade ha quindi dato alla luce Salomè, figlia di Filippo. Pilato è un uomo di governo, che cerca di tenere a bada ogni possibile minaccia: la violenza, gli scandali, le rivendicazioni religiose; irritato dall’ipocrisia di Caifa, e da una cultura orientale che non riesce a comprendere, avvisa il sacerdote: “Adorate il vostro Jehovah nella forma barbarica che più vi aggrada, ma fate in modo che la vostra congregazione non dimentichi che si traa di un Dio locale, nato nel deserto e conosciuto solo nei ristrei confini di questa provincia. Cesare, d’altra parte, non è solo un Dio, mio caro amico Caifa. È anche Imperatore del Mondo. Una buona giornata.” L’azione si sposta quindi avanti di quindici anni. Salomè è diventata una ragazza bellissima e sua madre Erodiade è furiosa per le continue critiche che le vengono da Giovanni Baista, che nelle sue prediche la svergogna chiamandola “sgualdrina”, “figlia di
Babilonia” e “di Sodoma”. Erodiade vorrebbe ucciderlo ma suo marito è contrario; tetragono alle insistenze della moglie, Erode Antipa è in realtà un irresoluto, un uomo maturo irresistibilmente arao dalla figliastra, che non ardisce togliere di mezzo Giovanni per la sua fama di “profeta”. Si decide ad arrestarlo solo quando viene a sapere che Salomè se n’è innamorata dopo averlo incontrato sulle rive del Giordano: lo fa quindi portare a palazzo e lo segrega in un pozzo umido, facendo credere alla moglie di averlo finalmente ucciso. La lunga parte finale si riallaccia al racconto dei Vangeli e soprauo all’ao unico di Oscar Wilde. Erode organizza un ricco festino supplicando inutilmente Salomè di danzare per lui. Ossessionata da Giovanni, la ragazza cerca di incontrarlo e, malgrado i divieti, oiene dal capo delle guardie di calarsi nel pozzo a visitarlo; il soldato, che si era innamorato di lei, si uccide subito dopo. Salomè intanto corteggia Giovanni, vorrebbe toccarlo, vorrebbe baciarlo ma il prigioniero la respinge. L’atmosfera si fa sempre più inquietante; abbrutito dal vino, Erode supplica nuovamente Salomè di esibirsi per lui, arrivando a promeerle la metà del suo regno pur di vederla danzare. La ragazza acconsente dopo essersi faa promeere che Erode le darà in cambio qualunque cosa le chieda, e alla fine di una danza sensualissima, chiede la testa del Baista. Erode è costreo a mantenere la promessa e fa decapitare il prigioniero: Salomè può così finalmente baciare le labbra che le si erano negate. Disgustato, il patrigno ordina alle guardie di uccidere anche lei. Nel fraempo si compie pure il destino di Cristo, che, a pochi giorni dall’entrata trionfale a Gerusalemme sulla groppa di un asino, era stato arrestato per blasfemia dal Sinedrio e condannato a morte; a nulla sono valsi gli sforzi di Pilato, che avrebbe voluto evitare l’esecuzione: nelle ultime pagine il corpo di Gesù viene portato in un sudario entro le mura di Gerusalemme per essere sepolto. Stufo degli “indovinelli” orientali e schiacciato dalle conseguenze dei suoi ai, Pilato confida alla moglie Procula che probabilmente torneranno presto a Roma: “Ringrazierò gli Dei quando me ne sarò liberato. È il fardello più pesante che esista, sai, mia cara: la responsabilità.” La sceneggiatura si chiude con Erode che alimenta il fuoco della pira funebre di Salomè con la scria che era stata aaccata sulla croce di Cristo: “Ecco il Re dei Giudei”.
Come per Masquerade, anche per questa Salomè è difficile immaginare come sarebbe stato il film realizzato. A parte il caso di Monsieur Verdoux (e Chaplin meeva in forse anche quello), Welles non ha mai preparato sceneggiature per altri, scriveva film che voleva dirigere lui stesso e che poi modificava e arricchiva sul set e alla moviola. La sceneggiatura di Salomè si fa ammirare per la sua godibilità, per la ricchezza di riferimenti e i diversi livelli di interpretazione, ma si traa comunque di un testo preparatorio, che alla forma e allo stile dedica solo occasionali annotazioni lungo le pagine: arrivati alla groa di Betlemme “va messa, naturalmente, molta cura a evitare la cartolina o l’effeo da litografia da quaro soldi”; per il massacro degli innocenti Welles raccomanda che, anche se “l’effeo complessivo della sequenza dovrebbe essere assolutamente terrificante, l’orrore vada suggerito piuosto che soolineato in modo sensazionalistico”; specifica che il palazzo del governatore romano e le porte di Gerusalemme siano realizzati con modellini su sfondi reali; suggerisce che le figure dei Romani scarsamente interessati alle arazioni della festa di Erode assumano l’aria di “uomini d’affari di successo o importanti diplomatici a un cabaret”. Le indicazioni più ampie riguardano l’esibizione di Salomè con i see veli, ossia “la danza più famosa di tua la storia”: è “improbabile che qualunque specifica realizzazione riesca a soddisfare l’immaginazione del pubblico,” commenta Welles. “La questione ancora più seria è che dovrebbe avere caraeristiche erotiche a un livello decisamente inammissibile per uno speacolo popolare.” L’autore propone di risolvere il problema puntando sulle reazioni sbalordite ed eccitate degli astanti, “i cortigiani, i Romani, gli schiavi e i servitori, i sacerdoti, Erodiade e soprauo Erode”; della danzatrice si potranno comunque mostrare deagli del corpo e del volto, soprauo la sua ombra, suggerendo che sia praticamente nuda e ipotizzando che alla conclusione dell’esibizione uno schiavo le porti un mantello con cui ricoprirsi. L’importante è che alla fine “la musica, il montaggio, i volti esprimano una completa esperienza sessuale”. Nella bibliografia wellesiana si parla molto poco di questa Salomè, anche se non mancano indizi disseminati nel periodo in cui il regista portava a termine le riprese di Otello: il progeo era citato fra altri che Welles si proponeva di realizzare con Edwards e Mac Liammóir, e giustifica fra l’altro le voci di trasferimento della troupe di Otello in Egio. A questa ipotesi biblica (oltre che
all’altra, sul Diluvio Universale) si devono evidentemente gli accenni giornalistici a un lavoro di annotazione della Bibbia da parte di Welles. Il lato religioso non è da soovalutare: a partire dal progeo con Rossellini di quella Vita di Gesù riferita da un giornalista francese, l’aenzione di Welles nel cuore del suo periodo italiano sembra irresistibilmente araa dalla Sacre Scriure. e Unthinking Lobster, Capitan Noè, Salomè e certi accenni all’interno di Masquerade dimostrano un evidente interesse del regista per la religione caolica, l’importanza della sua tradizione e la necessità di riportarla all’aualità del secolo. Chissà se fu l’aria di Roma a sollecitare questo interesse, o se sia stata sufficiente l’educazione caolica impartitagli da bambino – “e una volta caolici, caolici per sempre, si dice”.7 D’altra parte i riferimenti biblici sono osservati con sguardo laico, senza inutili ribalderie o dissacrazioni; è per esempio interessante che Salomè racconti sullo sfondo la vita di Cristo, dalla stella cometa alla deposizione, ma si arresti prima della resurrezione, ridoa a un accenno riferito da un ufficiale romano (il soldato riporta sogghignando le voci di alcuni seguaci secondo i quali “He’ll rise again”).
L’ultima pagina della sceneggiatura di Salomè.
Ma oltre che su Cristo, Giovanni Baista e Salomè, questo di Welles sarebbe stato soprauo un film sulla complessità della politica (di ieri, di oggi, di domani), costrea a districarsi fra culture locali, riformismo dei nuovi dominatori, questioni teologiche e umanissime idiosincrasie. Lontano dall’immagine del governatore che “si lava le mani” dalle questioni più spinose, il personaggio di Ponzio Pilato (un presumibile ruolo d’aore per lo stesso Welles, del quale riprende la parlata sorniona e piena di humour) compare in un numero ridoo di pagine ma rappresenta il punto di vista “occidentale” dello script, e la chiave interpretativa più interessante del progeo. Durante uno dei deliziosi dialoghi con la moglie Procula, Pilato riassume argutamente la sua complicata situazione di governatore della Giudea: “I sacerdoti vogliono il potere e lo stesso vuole Erode. Io voglio tenermi il lavoro, e Cesare naturalmente desidera un Impero che funzioni piacevolmente in modo da continuare a stare a Capri… Paura, avidità e dato che siamo in Oriente, mia cara, non dimentichiamo i sogni. Erode sogna di farsi re come suo padre, e Gesù sogna di essere re come i Suoi antenati.” Sul filo della ragion di stato, Pilato cerca un difficile equilibrio che mantenga la supremazia di Roma: “Riassumendo: incoronare Erode significa che gli Ebrei si meono contro Cesare. Incoronare Gesù significa che gli Ebrei si meono contro gli Ebrei… La seconda alternativa è ovviamente preferibile.” “Perché allora non supportare Gesù?” gli chiede Procula. “Mia cara,” risponde Pilato, “una Palestina unita significa una Palestina più forte. Se Cesare si confrontasse nuovamente con l’inconveniente di un re ebreo, io sarei certamente richiamato a Roma.” Come risolvere allora il problema? “A nome dell’impero, propongo di mantenere un poco di questioni a bollire nella pentola palestinese, evitando di farla traboccare. Propongo di mantenere Cesare contento, Erode soo il mio controllo e Gesù in vita. Perlomeno, potrò essere sicuro che mentre sono governatore, nessuno si incoronerà re… Un bel programma!” conclude Pilato con “una breve triste risata”. In questo dialogo riecheggiano i dissidi contemporanei tra Ebrei e arabi (il primo Piano di partizione della Palestina è del 1947) ma anche la concreta e prosaica necessità del vivere civile, dove questioni politiche (Pilato), smanie di potere (Caifa) e pulsioni sessuali (Erode e Salomè) si agitano sullo sfondo della Più Grande Storia Mai Raccontata. Il fao che la sceneggiatura sia stata ritrovata negli archivi di Peppino Amato fa presumere che Welles si sia rivolto al produore
italiano per portarla sul set, ma sulla stampa dell’epoca gli unici accenni al progeo riguardano la ricerca dell’arice protagonista. A metà gennaio del ’52, Welles era di certo al Crion Club di Parigi, a passare in rassegna ragazze sedicenni. Una noticina di cronaca informa che il regista, insoddisfao delle francesi, sarebbe andato a fare provini in Belgio, Olanda e perfino in Danimarca; sarebbe quindi tornato nel nostro paese, dove il film avrebbe dovuto in parte essere girato, anche perché, disse, “le italiane sono le uniche che riescono a dimostrare la freschezza della loro età”; proseguì infine le audizioni in Costa Azzurra, a ridosso dell’inizio del festival che avrebbe visto finalmente la presentazione di Otello nella sua versione originale. L’Italia partecipava alla competizione di Cannes con uno spiegamento di assi irripetibile: Umberto D. di De Sica, Il cappoo di Lauada, Due soldi di speranza di Castellani, Guardie e ladri di Monicelli e Steno (ed erano stati esclusi, fra polemiche, Bellissima di Visconti e Roma ore 11 di De Santis). Intanto al largo incrociavano alcune portaerei americane, da cui il senatore McCarthy era sceso a colloquio con il ministro Jean-Marie Louvel per rinnovare una serie di accordi sulle esportazioni cinematografiche. Otello si rivelò subito un film ingombrante. Tanto per cominciare, si trovò scoperto sulla nazionalità. Le regole burocratiche del concorso stabilivano che ogni pellicola dovesse avere un certificato d’origine; ma, come spiegò poi lo stesso Welles, “gli italiani, i francesi e gli americani che avrebbero potuto presentare Otello, non volevano: avevano i loro film.”8 Welles era molto grato al re del Marocco per l’aiuto prestatogli durante la lavorazione del film. E il film diventò marocchino. D’altra parte una buona metà era stata girata in quel paese; secondo la testimonianza di Suzanne Cloutier il sovrano avrebbe prestato alcuni soldati e saldato anche alcune spese. E però Welles – ci credereste mai? – era ancora indeciso sulla versione definitiva: continuò a lavorare sulla pellicola fino all’ultimo minuto, oenendo di poterlo presentare il 10 maggio, la penultima sera del festival. Anche stavolta non riuscì ad avere una copia del tuo soddisfacente, pare a causa del fao che il negativo italiano fosse rimasto bloccato in laboratorio. Se a Venezia il regista non aveva acconsentito a mostrare Otello in un’edizione imperfea per stampa e sincronizzazione, a Cannes il film venne proieato su
un supporto scadente, ricavato dal controtipo di una copia lavoro, in lingua originale senza sootitoli. “Avere lavorato tre anni per poi presentare un film difeoso: è un duro colpo,” si lamentò il regista.9 Ma stavolta mantenne la promessa e il film fu proieato. Il giorno dopo, sorpresa! “Ero in albergo, in camera mia, e il direore del festival, Robert Favre Le Bret, mi chiama al telefono e mi fa: ‘al è l’inno nazionale del Marocco?’ E così ho saputo di avere vinto il primo premio. Perché suonano sempre l’inno nazionale della nazione vincitrice. E, naturalmente, non esiste un inno nazionale del Marocco, o perlomeno allora non esisteva, così hanno suonato un qualche brano da Chu Chin Chow o non-so-cosa, e tui si sono alzati in piedi. Non c’era nessuna delegazione del Marocco, niente. Nel mondo arabo, credo di essere l’unico vincitore di un grande premio internazionale.”10 Il Grand Prix del festival venne in realtà diviso con un altro film, l’italiano Due soldi di speranza, e alla notizia del premio dimezzato i nostri inviati rimasero sbalorditi. Al di là dello sconcerto per il secondo ex aequo consecutivo (l’anno prima erano stati premiati insieme Miracolo a Milano di De Sica e La noe del piacere di Sjöberg), i critici italiani non si capacitavano dell’“inspiegabile” accostamento fra il film di Castellani, “di eccezionale merito artistico”, e quello di Welles, secondo Lanocita “ornamentale e solenne”, per Casiraghi “album d’immagini senza sostanza”, per Di Lauro in gran parte “formalista e pretensioso” (sic). Il più arrabbiato di tui è Rondi, piccato da una conferenza stampa in cui pare che Welles abbia di nuovo tirato fuori il suo veleno nei confronti dei cineasti italiani. “Se a […] Due soldi di speranza di Castellani,” scrive il critico, “è andato tuo il consenso ammirato e cosciente della giuria, […] Otello di Welles si è imposto quasi certamente per quel singolare complesso di inferiorità che ancora oggi Orson Welles è capace di suscitare nei francesi: un complesso che, inconsciamente, sembra nascere tue le volte in cui espressioni vistose di un’arte doviziosa e quasi barbarica sono poste di fronte a giudici che provengono da raffinate civiltà culturali. Welles non meritava alcun premio e il suo aeggiamento intimidatorio tenuto all’ultima conferenza stampa del festival ha aumentato in quanti lo apprezzano per quello che vale il dispiacere di vedergli riconosciute doti che non ha. Ai giornalisti, infai, che lo interrogavano, egli ha trovato modo di dire frasi scortesi per gli aori italiani e non ha esitato ad affermare che non esistono film italiani completamente riusciti. Ai suoi insulti e alla sua boria, comunque, ha ampiamente
risposto la giuria francese che, se ha commesso l’errore del doppio gran premio, non ha potuto però fare a meno di assegnare all’Italia anche il premio per la migliore partecipazione alla competizione.”11 Va deo che neanche i francesi plaudirono al verdeo della giuria. Jean-Jacques Gautier del “Figaro” definisce Othello “un film fradicio di leeratura e avvelenato di intelleualismo”, “un’accozzaglia di effei magniloquenti oenuti con i mezzi più artificiosi”.12 Per Henry Magnan di “Le Monde” la decisione “extravagante” di premiare un film “monstrueux” si spiegherebbe con una boa di stanchezza della giuria, sooposta l’ultimo giorno a dieci ore di proiezioni consecutive: “Non concedo neanche dieci anni,” scrive il critico, “a questo esercizio di caivo stile prima che ci appaia più desueto di L’arroseur arrosé”13 (la preistorica gag dell’innaffiatore innaffiato filmata dai Lumière). Forse, fra i vari luoghi comuni legati a Welles, anche quello di una critica francese riceiva e illuminata andrebbe un po’ rivisto. Renato Castellani disertò la cerimonia di premiazione, ufficialmente perché offeso dal fao che il festival non fosse riuscito a organizzare una proiezione aggiuntiva del suo film. Welles invece sul palco ci salì ma ne scese quasi subito, indispeito dal dissenso proveniente dalla platea e, pare, da una salva di fischi. Welles accantonò la Salomè dopo mesi passati all’infruuosa ricerca della giovane protagonista, ma forse il motivo principale fu che nel fraempo ne era entrata in lavorazione un’altra, direa da William Dieterle e soprauo prodoa e interpretata dall’adorata ex moglie Rita Hayworth. In quel periodo Welles fece cadere anche due proposte teatrali, la direzione del Porgy and Bess di Gershwin al Metropolitan di New York e la regia di due opere verdiane (verosimilmente Macbeth e Otello) alla Scala di Milano.14 Pure la rielaborazione dell’Enrico IV di Pirandello s’era inabissata, per la seconda e ultima volta, ma il tema dell’identità continuava ad assillare il regista. Welles aveva annunciato un nuovo progeo già a gennaio, come “un film che racconterà le disavventure di un mercante di cannoni del genere Basil Zaharo”;15 l’11 aprile la parte essenziale del plot fu trasmessa come episodio dell’originale radiofonico e Adventures of Harry Lime, con il titolo Man of Mistery. La prima sceneggiatura conosciuta, di un anno dopo, avrebbe poi ereditato come titolo il Masquerade dello script pirandelliano, prima di assestarsi sul definitivo Mr. Arkadin.16
Fra primavera ed estate Welles tornò quindi a Shakespeare, con il progeo del Giulio Cesare (titolo inglese: Caesar!) discusso con Hilton Edwards durante la lavorazione di Otello, da ambientarsi nella Roma moderna – presumibilmente una derivazione cinematografica del famoso allestimento del ’37. Il 19 giugno Oberdan Troiani venne leeralmente rapito dal ristorante dove si dava il ricevimento di nozze della cognata. Rocco Facchini, uno degli amministratori della Orson Welles Productions, lo caricò in macchina e lo portò all’EUR, dove Welles stava immaginando il suo film; il regista volle che Troiani fotografasse, una per una, le inquadrature che lui gli indicava, sulle quali, una volta stampate, avrebbe disegnato personaggi e movimenti. Incollate su enormi volumi, le foto di Troiani andarono a comporre un’originale sceneggiatura/storyboard di cui si sono purtroppo perse le tracce.
Welles nel quartiere romano EUR il 19 giugno 1952, impegnato a realizzare lo storyboard del Giulio Cesare.
Sulla stampa dell’epoca, brevi notizie segnalano la preparazione del film, e accennano a una prima ipotesi di cast: Welles nei panni di Marco Antonio, Trevor Howard in quelli di Bruto, Alida Valli nel ruolo della moglie di Bruto, e Laurence Olivier o Richard Burton come interprete di Cesare. Il problema è che, come già successo per Salomè, anche per Giulio Cesare esisteva un progeo concorrente. Secondo Oberdan Troiani il film di Welles aveva già un produore, tale “Friedman” (che è probabilmente Charles K. Feldman, produore esecutivo di Macbeth), che si sarebbe tirato indietro in
seguito all’annuncio del Giulio Cesare17 direo da Joseph L. Mankiewicz, quello con Marlon Brando nel ruolo di Marco Antonio. Welles inviò in America la sua sceneggiatura, nell’ingenua speranza che i produori di Mankiewicz decidessero di finanziare il suo film, ma il plico tornò indietro senza neanche essere stato aperto. Anche questo progeo venne archiviato, e Welles cominciò a prendere in considerazione una nuova proposta di Peter Brook, il ruolo principale in un Re Lear televisivo.
Uno dei bozzei sopravvissuti dello storyboard per Giulio Cesare (da Maurice Bessy, Orson Welles, Éditions Seghers, Paris 1963).
16. Orario bizantino
Se c’è uno che deve avere i nervi qui, sono io. Perella (Orson Welles) in L’uomo, la bestia e la virtù
Con sprezzo del pericolo, Welles tornò alla Mostra di Venezia anche l’anno dopo l’Otello ritirato. La pellicola d’apertura dell’edizione 1952 era Altri tempi di Blasei, il film a episodi in cui Gina Lollobrigida interpreta il ruolo della “maggiorata fisica”. Orson dichiarò a destra e a manca che sarebbe rimasto fino alla fine della Mostra, dopodiché, finita la proiezione del film, se ne andò a Fregene, la località costiera a una trentina di chilometri da Roma. A Fregene abitava Paola Mori, una giovane arice. Orson, racconta un articolo dell’epoca, l’avrebbe conosciuta grazie a un misterioso “regista Vishinsky”, che è probabilmente un refuso per Waszyński. L’aiuto regista polacco di Otello era stato ingaggiato come direore artistico di Il maestro di Don Giovanni, interpretato da Errol Flynn e Gina Lollobrigida; prima dell’inizio delle riprese, intorno al marzo 1952, Waszyński aveva invitato amici e colleghi a un cocktail nella sua abitazione romana. Fra gli ospiti, Welles aveva notato una bellissima ragazza bruna, dalla figura elegante e dallo sguardo vivace, che nel Maestro di Don Giovanni avrebbe ricoperto un piccolo ruolo. Orson si presentò, scoprì che Paola parlava un buon inglese e volle sentire la sua storia. La giovane arice era nata in Somalia, nell’oasi di Tagiura, dove il padre, un alto funzionario delle colonie italiane, si era trasferito con la famiglia. Durante la guerra, lei, sua sorella Patrizia e la madre, la contessa di Girfalco, erano state radunate in un campo di concentramento inglese. Liberate nel ’42, erano state raggiunte dal padre un anno dopo; la
famiglia si era quindi ricomposta a Fregene, dove Paola, nostalgica delle gazzelle e dei leopardi con cui era cresciuta, si era circondata di cani, gai e galline. Anche Orson aveva un debole per gli animali, ma era pure sensibile al fascino del blasone, e il titolo nobiliare di contessina di Girfalco fu il magico tocco finale: Welles s’innamorò di nuovo di un’italiana. “Waszyński non c’entra niente,” precisa Patrizia Mori, solitamente restia a parlare della sorella. “el ricevimento può anche esserci stato, ma arrivò dopo. Era, mi pare, il 1951. Allora la nostra famiglia aveva una villa a Fregene. Eravamo verso giugno, fuori stagione, e in quel periodo Orson era ospite di Luchino Visconti. Stavano insieme sulla spiaggia di Fregene quando da lì passò Paola. ‘Madonna, quanto è bella,’ disse Welles. L’inizio fu quello, io non c’ero ma è una storia che poi venne raccontata anche da Orson. Lui voleva conoscerla a tui i costi, e non sapendo come fare convinse Visconti a meersi di mezzo: Luchino mandò una sua persona a casa nostra dicendo che voleva incontrare mia sorella per farle fare un film. Paola aveva già ricevuto alcune proposte cinematografiche, a cui mio padre era sempre stato contrario, e anche stavolta disse assolutamente no. Io ero piccolina ma ero presente, e questa cosa me la ricordo. Però a quel punto Paola ha insistito: si traa di Visconti, fammi andare, almeno vediamo di che si traa. E lui diede il suo permesso. Lì, invece del fantomatico film, c’era Orson Welles; a Visconti di Paola non importava nulla.”1 Vishinsky, Waszyński o Visconti che fosse, cominciò il corteggiamento. Orson fece diverse visite a villa Mori, a Fregene, e nell’appartamento romano della madre di lei, in largo Bradano. ando era in giro per il mondo, si faceva vivo per telefono, inviando telegrammi e mandando mazzi di fiori freschi. Più giovane di quaordici anni, Paola rimase affascinata dall’intelligenza e dalla creatività dell’uomo, fu lusingata ma anche intimorita dalle sue aenzioni. Vinte le resistenze del padre, acceò le prime particine e, non potendo impedire che Welles la venisse a trovare su un set
cinematografico, si limitava ad accoglierlo con indifferenza, lasciando gli astanti a bocca aperta. Welles infiì le visite, moltiplicò i fasci di fiori e decise di sgominare subito la concorrenza. Sapeva che su Paola si erano posati gli occhi di Walter Chiari, e volle evitare di finire come ai tempi di Lea Padovani, terzo vertice di uno scomodo triangolo. “Durante le riprese di una biografia televisiva di Walter Chiari per Rai 3,” racconta Tai Sanguineti, “gli chiesi come fosse nata la sua amicizia con Orson Welles. Walter mi narrò di un’estate, a Fregene nei primi Cinquanta, su una spiaggia popolata più da pescatori che da turisti, quando improvvisamente apparvero, ‘come nate dal mare in una canzone di Modugno’, due belle aristocratiche siciliane. Al comico più brillante e scatenato d’Italia parve naturale e quasi doveroso corteggiare e sedurre a modo suo, facendo ginnastica buffa e raccontando barzellee, la più affascinante delle due sorelle, Paola Mori di Girfalco. Finché un giorno non si materializzò davanti a Walter un giovane uomo molto più imponente di lui che con un tono più malinconico e intenso che minaccioso lo tirò da parte per un braccio per dirgli leeralmente così: ‘Amico, ti prego… Tu giochi con lei.’ Pausa, sguardo negli occhi. ‘Ma io ho bisogno di lei… io l’amo.’ E il più giovane capocomico italiano, che dall’amore ‘serio’ e dal ‘bisogno’ di una donna (e solo di quella) era stato appena scoato, si ritirò in buon ordine, senza far casino.”2 Paola acceò le devote aenzioni di Orson. Fra alti e bassi, annunci ufficiali e crisi improvvise, il corteggiamento durò tre anni, quanto le riprese di Otello. Intanto la villa della famiglia Mori a Fregene diventò per Orson prima un comodo punto di riferimento, poi un vero e proprio rifugio creativo. Non solo creativo, in realtà. Dopo alcuni mesi di ospitalità, Welles aveva ormai abbandonato le Scuderie di Villa Madama. La leggenda dice che Michel Olian lo cacciò dopo essersi riconosciuto nel copione del futuro Mr. Arkadin, che Welles gli avrebbe incautamente fao leggere. Nel novembre ’52, il periodico cinematografico “Hollywood” diffonde la notizia di nuovi progei wellesiani.
Una piccola casa di produzione romana, la Olympic Films, avrebbe messo Welles soo contrao per due pellicole da girare in Italia, come aore, regista e produore, da realizzare in doppia versione, italiana e inglese. La rivista fornisce cenni solo di una, Benvenuto Cellini, una biografia dell’artista rinascimentale. La seconda potrebbe essere Giulio Cesare, o Capitan Noè, ma quasi certamente si traa di Operation Cinderella, una nuova commedia scria in quel periodo. Welles era particolarmente fiero di quest’ultimo progeo: “La migliore commedia cinematografica che abbia mai scrio,” la definì a Bogdanovich. La storia è ambientata in un paesino del napoletano, invaso da una troupe americana che intende girarvi un film ambientato in epoca rinascimentale: gli abitanti si dividono tra favorevoli e contrari all’occupazione, e il dissidio sfocia in un vero e proprio conflio, con guerriglie di tui i tipi. La moderna Cenerentola del titolo è Nanda, una sedicenne irretita da Hollywood, ma Operation Cinderella sarebbe stato animato da molti altri personaggi: il fidanzato di Nanda (che voleva far interpretare ad Antonio Cifariello), che tenta di impedirle di partire, la diva americana Gilda Gardner, la starlet Tze Tze Herzog, la giornalista Leila Parker (una evidente caricatura di Louella Parsons), un sindaco comunista che ammira segretamente il cinema americano ed è in perenne loa contro il parroco, la miracolosa statua del santo locale, e la pasionaria della resistenza contro gli hollywoodiani (ruolo che Welles intendeva affidare alla Magnani). “Una bellissima sceneggiatura,” ha confermato Giuseppe Rotunno, al quale Welles propose di fare da direore della fotografia. “Durante la preparazione del film, Welles, tra le altre cose, mi volle spiegare che a lui, quando era possibile, piaceva un punto di vista della cinepresa basso, come se provenisse dalla platea di un teatro. Visconti, anche lui come Welles regista di grande esperienza teatrale, preferiva invece come punto di vista abituale della cinepresa l’altezza del proprio occhio. Nel corso dei tanti provini, Welles scoprì
Marina Vlady che inserì nel cast insieme a Anna Magnani, Eduardo De Filippo e tanti altri.”3 Marina Vlady fu presentata a Welles dalla Mori. Il regista le propose di interpretare Nanda, la protagonista, e nel marzo ’52 la ragazza fece il provino. “La sera stessa,” ricorda l’arice, “ricevei un bouquet di fiori, il primo della mia vita, con una bauta: ‘It fits perfectly! O.W.’ Il che significa che la scarpea di Cenerentola disegnata sulla breve bauta mi calzava alla perfezione. Io avrei compiuto quaordici anni nel mese di maggio. Avevo la vita davanti. Anche molti, molti film. Ma non Cinderella: come accadeva spesso, Welles non avrebbe trovato i finanziamenti! Ha sposato Paola Mori, ma non mi ha mai dimenticata. Ci saremmo ritrovati quindici anni più tardi, nel 1967, per uno dei suoi capolavori, Falstaff.”4 Dentro la sceneggiatura di Operation Cinderella si riconoscono prestiti e ricordi da Don Camillo, e Unthinking Lobster, Pane, amore e fantasia con l’amica Lollobrigida, e Due soldi di speranza, il film con cui Otello aveva diviso il Grand Prix. Oltre, s’intende, a una buona dose di sarcasmo contro lo stile cinematografico più in voga in Italia. “Neorealismo,” dice nella sceneggiatura Gilda Gardner, “significa che sono le controfigure a recitare, e nessuno ha più bisogno di farsi il bagno!”5 A parte la testimonianza della Vlady, gli unici ricordi di un film mai girato appartengono a Piero Regnoli, il prolifico sceneggiatore che nel ’51 aveva fao parte della giuria veneziana. Con lui, Welles scrisse gran parte del film, ospitato nella villa della Mori a Fregene. “Avevamo già fao i provini,” ricordava Regnoli, “la scelta era caduta sulla Magnani. Fu la volta in cui Marina Vlady e Cifariello fecero il loro primo provino. La produzione ci rimise una cinquantina di milioni già sborsati. […] Nella sua villa di Fregene dove mi recavo la sera per lavorare alla sceneggiatura, finivo quasi regolarmente col non scrivere una riga. Invece assistevo a degli speacoli stupendi. Welles aveva sistemato nel giardino dei piccoli rifleori che poteva manovrare a mano. Spesso mi schiaffava un bicchiere di whisky in mano, mi diceva: ‘Siediti,
stasera non scriviamo, adesso ti recito qualcosa…’ E aaccava. Una sera mi recitò l’intero terzo ao del Re Lear, interpretandone tui i personaggi. Un istrionismo meraviglioso.”6 Masquerade, Capitan Noè, Salomè, Mr. Arkadin, Giulio Cesare, Benvenuto Cellini, Operation Cinderella: nel giro di due anni Welles aveva concepito e tentato di organizzare see film (e probabilmente di tui scrisse una sceneggiatura), senza iniziarne neanche uno. Per i detraori, una simile dissipazione di creatività è la prova di un talento prolifico ma volubile. Ripetute da un giornale all’altro, da un libro all’altro, questo tipo di semplificazioni hanno consolidato la leggenda di un artista inaffidabile e spendaccione. La realtà è che dopo la lunga e contrastata lavorazione del suo ultimo film, e malgrado la vioria a Cannes, Welles faticava a incontrare produori disposti a finanziarlo. Soprauo in Italia, dove arto potere era stato ridimensionato a un giocaolo barocco e Macbeth a un esperimento ridicolo. E dove la gloriosa Scalera era ormai in una crisi irreversibile; il commendatore supplicò la Direzione generale dello speacolo di riconoscere a Otello la nazionalità italiana, in ragione almeno dell’utilizzo di tecnici, mezzi e capitali provenienti dal nostro paese, ma i dirigenti di via Veneto non fecero eccezioni, e la casa di produzione chiuse in breve i baenti.7 Temendo probabilmente di far la stessa fine di Scalera, nessun imprenditore cinematografico italiano ebbe il coraggio di raccogliere le proposte dell’americano. I see film rimasero sulla carta e il regista si trovò costreo ad acceare il primo ingaggio che gli passava il convento. Fu così che Orson Welles entrò nel cast di L’uomo, la bestia e la virtù. Un film trao da Pirandello: in qualche modo, dopo il tentativo di portare al cinema l’Enrico IV, Welles “incontrava” finalmente lo scriore agrigentino. Ma il progeo non era neanche lontanamente vicino alle sue ambizioni: direa da un artigiano abile e veloce come Steno, L’uomo, la bestia e la virtù è sostanzialmente una
pellicola commerciale al servizio di un grande comico, Totò. È il film meno noto interpretato da Welles, per certi versi il più curioso, e forse quello a cui partecipò con meno divertimento. Orson acceò l’offerta solo per sbarcare il lunario, pagare qualche debito e finanziare i suoi sogni da regista, una marchea d’aore che costituì il degno coronamento delle sue disillusioni italiane. Il soggeo di L’uomo, la bestia e la virtù è trao dall’omonima commedia di Pirandello e dalla novella Richiamo all’ordine, in cui lo scriore aveva anticipato la vicenda. Il meccanismo comico dell’intreccio è imperniato su un gioco di paradossi. Il professor Paolino Lo Vico (Totò, l’“Uomo”) ha appena appreso dalla sua amante (Viviane Romance, la “Virtù”) che diventerà padre, proprio alla vigilia dell’arrivo del marito, il capitano Perella (Welles, la “Bestia”), un marinaio brutale e infedele che nei suoi radi ritorni a casa ha sempre disertato il talamo coniugale. Per giustificare la gravidanza, Lo Vico tenta quindi una riconciliazione sessuale tra i due, e si ritrova così a istruire la donna sui metodi migliori per sedurre il suo rivale. Incinta dell’amante, la moglie si rivela però paradossalmente fin troppo virtuosa per alleare il marito. L’ultima speranza è affidata a una torta drogata, dai presunti poteri afrodisiaci. Sembra che l’idea dell’operazione fosse di Ponti, entusiasta di trasporre Pirandello con un cast internazionale. Il film fu prodoo con il socio De Laurentiis soo le insegne della Rosa Film, una società di comodo in cui venivano di solito riversate le realizzazioni più commerciali. Malgrado la derivazione pirandelliana, la principale ambizione del progeo guardava all’incasso: un intreccio pruriginoso, un cast bislacco ma alleante e i colori squillanti del primo Gevacolor italiano sembrarono a Ponti e De Laurentiis gli ingredienti per un successo facile facile. Totò, allora soo contrao con i due produori, fu il primo maone della nuova impresa. Il comico napoletano avrebbe in realtà preferito evitare Pirandello, che stimava troppo e per il quale non si sentiva all’altezza; e non aveva
nessuna voglia di soomeersi ancora ai potentissimi rifleori necessari per impressionare la pellicola a colori (e che infai nel giro di pochi anni lo avrebbero portato a una parziale cecità). Ponti e De Laurentiis vennero a blandirlo e supplicarlo, sventolandogli davanti un contrao che Totò fu infine costreo a onorare. Il principale ruolo femminile andò a Viviane Romance, diva francese in disarmo, che arrivò a Roma accompagnata dal marito, Jean Josipovici, i cui continui (e non richiesti) consigli e suggerimenti gli avrebbero valso sui titoli il ruolo di cosceneggiatore, e sul set l’epiteto (coniato da Totò) di “Pallesecche”. Intorno al principe de Curtis, i produori ricrearono il consueto contesto di spalle e amici, da Mario Castellani a Nino Vingelli, e in alcune scene gli misero accanto la sua compagna, Franca Faldini, l’ex sedicenne che Welles aveva corteggiato ai tempi del Cagliostro. Nel cast erano previsti anche alcuni bambini, due dei quali diverranno discretamente celebri: uno è Carlo Delle Piane, il caraerista dal pioresco naso storto, l’altro Giancarlo Nicotra, futuro regista televisivo. Non fu facile stendere una sceneggiatura conciliando le tante, divergenti, esigenze produive: rispeare il testo originale, confezionare un nuovo film di Totò, comporre un prodoo di appeal internazionale, misurarsi con un nuovo tipo di pellicola a colori, e fronteggiare una censura che sulla commedia di Pirandello aveva già avuto da ridire. Vitaliano Brancati, Steno e Lucio Fulci fecero il possibile, ma il fao che a riprese iniziate la sceneggiatura consegnata alla censura preventiva fosse ancora priva del finale dimostra l’imbarazzo degli sceneggiatori, che temevano di incorrere nelle solite polemiche sulla pruriginosità della commedia, già sanzionata dalla censura a teatro. L’idea giusta per la conclusione arrivò infine con l’invenzione di un personaggio completamente nuovo, una prostituta (Faldini) che si redime due volte, sposando Lo Vico e distogliendolo dalla ritrovata armonia coniugale di casa Perella.8 La partecipazione di Welles restò in bilico per molto tempo. Sul piano di lavorazione gli unici aori segnati fino
all’apertura del set furono Totò e Viviane Romance: accanto al ruolo del capitan Perella rimase a lungo una casella vuota. Le traative durarono fino all’ultimo momento. Orson riuscì infine a strappare tre milioni di lire al giorno, un cachet non eccezionale per una star americana ma decisamente ragguardevole per gli standard italiani (Totò in genere ne prendeva uno). Ad accordo concluso, Luigi De Laurentiis, direore di produzione del film, venne ad annunciare la grande notizia a Steno, Brancati e Fulci, ancora riuniti a lavorare sulla sceneggiatura. “Abbiamo trovato la bestia!… Orson Welles!… Non ha una lira, in America non lo pensa più nessuno!” Più meravigliati che lusingati, sceneggiatori e regista si prepararono al grande incontro. A parte Brancati, che lo aveva incrociato al Caè Greco per la celebre foto di Irving Penn, nessuno aveva mai incontrato Welles, che aveva fama di un personaggio aggressivo e imprevedibile. Gli sceneggiatori chiesero consiglio a Lea Padovani, che li rassicurò subito. “Lasciatelo parlare,” disse loro, “ruggisce, ruggisce, ma alla fine è una brava persona”. Il giorno dopo, Welles arrivò puntuale nella grande suite all’Hotel Hassler, il lussuoso albergo predileo da Greta Garbo, che la produzione gli aveva prenotato, portandosi dietro Paola Mori, alcune ceste di frua e una decina di fotografie di Totò. La sera stessa convocò in albergo Steno e gli sceneggiatori, dichiarando di voler recitare in italiano; mentre divorava arance su arance, consegnò loro venti pagine in inglese su Totò e sul personaggio di Lo Vico, un saggio in cui parlava “di sinistra comicità, di cupa tragedia mediterranea e di oscuro serpentismo”, e che si concludeva con la fatidica domanda: “Ma perché facciamo questo film?”9 Steno lo faceva per vivere, per sostentare una famiglia, perché era un mestiere che lo divertiva e che sapeva far bene. Ma Welles, perché mai un regista come lui era disposto a recitare in un film così lontano dai suoi interessi? “Perché sono disperato,” gli rispose Orson, “non ho denaro. Loro non
mi vogliono più, dicono che sono uno sprecone!” Loro erano le major, le grandi compagnie. Le riprese iniziarono il 12 gennaio 1953, negli studi romani della Ponti-De Laurentiis, con le scene degli interni di casa Perella. Il film era in realtà un doppio film: da ogni ripresa andavano ricavati due ciak buoni, uno per l’edizione italiana e l’altro per quella internazionale. Già complicato dal Gevacolor, la fatica andava pure moltiplicata per due. Produori e sceneggiatori erano preoccupati che, una volta insieme, i divi protagonisti finissero per litigare. L’unica a creare qualche difficoltà fu la Romance, che cercava di guadagnare visibilità nell’inquadratura spiegando davanti alla faccia di Welles degli enormi fazzolei, mentre suo marito continuava a interloquire sulla sceneggiatura. Welles e Totò si traarono fin dall’inizio con rispeo e anche con un pizzico di deferenza. Il regista rimase ammaliato dalla personalità del comico italiano; e approvava calorosamente l’orario di lavoro, dalle 14 alle 19, che il principe di Bisanzio si era fao assegnare per contrao e che ribaezzò in suo onore “orario bizantino”. Totò, signorile e vagamente ironico, definiva l’americano “genio in esilio”, senza farsi peraltro impressionare dalle venti pagine di saggio che gli fecero avere tradoe, semmai curioso di avere da Welles qualche particolare sulla Hayworth.
Giancarlo Nicotra, Welles, Totò e Viviane Romance (di spalle) sul set di L’uomo, la bestia e la virtù.
La stampa venne subito invitata sul set. Lanocita, il critico del “Corriere”, osservò che “la corposità violenta della bestia si addice a un sanguigno aore qual è Orson Welles, esposto specialmente al turbamento fisico, senza interiori macerazioni.”10 Italo Dragosei, brillante giornalista di “Hollywood”, assistee alle riprese della scena del pranzo (durante la quale, fra un ciak e l’altro, pare che Welles abbia ingurgitato un numero spropositato di torte). I film di Totò si giravano sempre alla svelta e Steno era specializzato nel portarli a termine in breve tempo: ma nessuno si sarebbe aspeato di vedere Welles, dotato di una resistenza leggendaria, soccombere all’energia del gracile regista romano. “Lavoravano di buon maino,” scrive Dragosei, “con Steno febbricitante – che pareva dovesse improvvisamente rientrare in se stesso – e Orson Welles gigantesco ma stanco; fra i due s’era ingaggiata una gara di resistenza ed era Steno che forzava la mano, che voleva dimostrare al gigante americano di potercela fare, alle see di sera, dopo dieci ore di lavoro, pronto a meer su un’altra serie di riprese che sarebbe durata fino alla mezzanoe. Steno insisteva, Welles protestava e protestò finché non si dichiarò bauto; solo
Totò, in un angolo, piccolo anche lui, sghignazzava alle spalle dei due rudi lavoratori. ‘ante inquadrature?’ domandava il Principe de Curtis. ‘Sono state trenta, ne devon fare ancora…’”11 Dietro la corsa, c’era naturalmente la frea dei produori. Welles lo sapeva, e, almeno all’inizio, con Steno non fece capricci. L’unica discussione fra i due ci fu solo per il fao che Orson continuava a pretendere di recitare in italiano (e a osservare il labiale, diverse sue baute sono recitate nella nostra lingua) mentre Totò preferiva un buon inglese a un caivo italiano, a pao che l’aiuto regista Fulci gli segnalasse gli aacchi. Steno avrebbe poi ricordato Welles come “uno di quei registi che, quando lavorano come aori per un altro regista, si comportano da ospiti e non da padroni.” Orson infai non interferì mai. Fu anzi il regista romano, di tanto in tanto, a chiedergli consiglio: l’inizio del film, con le inquadrature del professor Paolino schiacciato dall’alto o ingabbiato dietro la cancellata della scuola, e l’immagine del preside, inquadrato dal basso, che lo aspea impaziente, sfoggia l’inconfondibile stile visivo del collega americano. Ai primi di marzo il set si spostò per le ultime scene a Cetara, sulla Costiera Amalfitana. Welles preferì alloggiare a Napoli, dove erano previsti almeno due giorni di lavorazione al porto; si fece affiare un appartamento in cui andò a vivere con Paola Mori, e dove passò parecchie noi a lavorare sui suoi progei e a sbranare arance (Fulci: “Una sera ne contai quarantasee, mi terrorizzava”). La scena da girare nel porto di Napoli è quella in cui Perella/Welles, timone in mano, torna a casa con il suo peschereccio. Steno, che soffriva il mal di mare, delegò il compito ad altri e Welles ne approfiò per chiedere a De Laurentiis una piccola tregua. L’esperimento del Gevacolor si era dimostrato più difficile del previsto (allo sviluppo era venuta fuori una dominante rossastra) e l’inconveniente obbligò la troupe a una pausa di almeno cinque giorni: l’americano propose quindi di scambiare i suoi cinque giorni
di paga a vuoto per l’uso gratuito della troupe. De Laurentiis gli disse di sì, e Fulci si trovò improvvisamente cooptato in una nuova impresa. “Lei domani lavora con me,” gli disse Orson, che quella stessa sera chiese a un giovane assistente di fargli da organizzatore generale. ell’assistente, un ragazzo che aveva fama di inflessibile domatore di comparse, si chiamava Sergio Leone; il film che Welles stava per cominciare era Masquerade alias Mr. Arkadin alias Rapporto confidenziale. Anni dopo, Leone avrebbe ricordato così la richiesta che l’americano gli fece: “Cercami qualcuno che abbia la più spaventosa faccia di ladro che si possa immaginare.” Leone trovò un tizio col volto segnato dal vaiolo, e soprauo somigliantissimo a Mussolini. “È perfeo,” disse Welles. “Lo prendo per la sua somiglianza col più grande ladro del mondo…” Dopodiché lo incaricò di trovare una decina di figuranti vestiti da polizioi e un treno vero. “Così girammo la prima sequenza,” racconta Leone, “il ladro, inseguito dai polizioi, a un trao doveva rasentare un treno in corsa. La lavorazione di questa scena durò tre sere. A ogni nuovo ciak Welles ordinava al ladro di correre sempre più accanto al treno, finché il quarto giorno il figurante venne da me e mi disse: ‘Signor Leone mi faccia un piacere: dica al signor Welles che io faccio il cinema per sopravvivere, non per morire!’”12 La scena venne comunque ultimata, ed è effeivamente una delle prime di Rapporto confidenziale. È comprensibile che Welles partecipasse a L’uomo, la bestia e la virtù senza il benché minimo entusiasmo. Se Steno lo dipinge come un collaboratore rispeoso e correo, altri ricordano un aore nervoso, disinteressato al lavoro, comunque distante. Finita l’inquadratura, andava immediatamente a rifugiarsi nel suo camerino, dove si meeva a scrivere e da dove nessuno aveva poi voglia di tirarlo fuori, terrorizzati di disturbarlo. A distanza di anni, Franca Faldini ricordava soprauo l’esule sconsolato, in cerca di denaro facile. Sul set gli sentì
dire: “Se per bisogno uno decide di prostituirsi, si tappa gli occhi e cerca di sbrigarsi.”13 Al piccolo Giancarlo Nicotra rimasero invece impressi soprauo due momenti: “Ricordo un omone, una montagna. Un po’ perché io ero piccolissimo, un po’ perché lui era davvero imponente. Io avevo oo anni ma avevo già fao una quindicina di film, ero un piccolo professionista. Welles sembrava a disagio, un po’ triste, un po’ sempre per conto suo. Seduto sulla sedia con su stampato ‘Orson Welles’, sembrava avesse scrio in fronte ‘Cosa ci sto a fare qui?’ Totò era di una umanità eccezionale, una persona deliziosa, Welles invece scontrosissimo, intristito. Lo traavano tui con molto rispeo ma sul set si sentiva una certa tensione. Il primo giorno rifiutò la macchina: gli mandarono una 1400 che tornò vuota. Dissero che l’aveva rifiutata perché era troppo piccola, e andarono a prenderlo con una automobile americana. Sul set ricordo soprauo una scena importante e complicata. Nel film io ero appena andato a prenderlo al porto; lui, la ‘bestia’, tornava a casa, portando in braccio me e una serie di pacchi e pacchei; appena entrava a casa vedeva la moglie tua imbelleata e scoppiava in una risata fragorosa. Era uno dei primi film a colori e perciò la preparazione era molto accurata, per meere le luci ci voleva un sacco di tempo. Per di più, Steno decise di riprendere la scena con un lungo carrello circolare che gli girava intorno. Welles se ne stava seduto su una sedia ad aspeare, ma ci vollero molte ore per meere le luci e provare il carrello: era proprio una scena difficile. Alla fine della giornata finalmente erano tui pronti. Welles mi prende in braccio e afferra i pacchi. ‘Silenzio… Motore!’ ‘Partito.’ ‘Ciak!’ ‘325, prima.’ ‘Azione!’ E a quel punto, invece di dire la bauta, Welles mi posa per terra, posa i pacchi, con una lentezza teatrale si prende da un angolo la barba finta, se la toglie, allontana la mano, bua a terra la barba e dice: ‘Domani, freschi come rosa, facciamo scena.’ Doveero girarla il giorno dopo. Tuo lo studio ci rimase malissimo.”14
Viviane Romance, Welles, Clelia Matania e Totò con il piccolo Giancarlo Nicotra mentre girano L’uomo, la bestia e la virtù.
Il fao è che Welles aveva cominciato a tirare sul prezzo. Ansioso di dedicarsi ai suoi progei, ribolliva, stufo di un film che non capiva e non condivideva. Nel suo contrao era riuscito a inserire una clausola vantaggiosa: il lavoro straordinario gli sarebbe valso sostanziose pro-rate. Ogni rallentamento di tempi equivaleva quindi per lui a un guadagno, e Orson cercò di approfiarne giocando sulla laboriosità del trucco, una folta barba difficile da incollare: bastava spostarla o alterarla un poco, e Steno era costreo a chiamare di nuovo truccatori e parrucchieri, si usciva dall’orario e scaava la pro-rata. La lavorazione andò avanti con la barba di Welles che appariva un giorno un po’ a destra e un giorno un po’ a sinistra, mentre Totò coniava nuove baute. “Barba a ponente pro-rata crescente,” scherzava il comico. Cominciato con un epico volo in aeroplano, l’esilio italiano di Welles si stava trasformando in una farsa da avanspeacolo. Ponti sulle prime cedee, poi si fece più guardingo e rifiutò di pagare gli straordinari. L’aore e il produore cominciarono una baaglia di telegrammi araverso i
rispeivi rappresentanti legali. Ponti continuò a tener duro, e riuscì ad arrivare agli ultimi giorni di riprese. Welles, sempre più irritato, capì che non avrebbe spuntato una lira di più e prese una decisione drastica. La parola a Fulci: “Una noe era talmente incazzato, si tolse la barba, prese il telefono e mandò al diavolo i produori. Mancavano tre giorni alla fine del film. Ponti non lo voleva più pagare. Welles sparì. Era scappato lasciando tue le valigie all’Hotel Hassler. Lasciò una leera nella quale ringraziava Steno, me, Leone e poi faceva seguire una sfilza di ‘Son of Bitch’ e ‘Fuck You’ indirizzata ai produori. Girammo il resto del film con la controfigura.”15 Le valigie di Welles furono messe all’asta e il film venne completato in pochi giorni. Il commento musicale fu affidato ad Angelo Francesco Lavagnino, che costellò la colonna sonora di mandolini e commentò un paio di sequenze interpretate da Welles con un violoncello che volge in parodia il tema del funerale dell’Otello, ben altra storia di passioni e tradimenti. Welles, stavolta, non fu doppiato da Gino Cervi o da Emilio Cigoli, ma dal più ordinario Mario Besesti. Il risultato fu una commediola graziosa, fin troppo traenuta, qua e là superiore agli standard dei film di Totò. Ponti avrebbe voluto presentarla a Cannes, sfruando magari la fama di Otello, ma le sue ambizioni s’infransero miseramente. All’uscita italiana il film si airò le severe rampogne dei recensori, da Lanocita, che sul “Corriere” accusò Steno di aver “pesato la mano sull’impudico, sfruando quanto più era possibile il sapore boccaccesco del canovaccio,”16 a Giulio Cesare Castello, che se la prese con gli sceneggiatori, colpevoli di avere “esasperato lo spunto pirandelliano in direzione di un farsesco esagitato, triviale e banalmente rivistaiolo,” e aizzando contro l’affronto gli eredi di Pirandello.17 I quali, non avendo fra l’altro ricevuto dalla produzione nessun emolumento per i dirii d’autore, ricorsero agli avvocati e, dopo un breve periodo di sfruamento, riuscirono a far sparire la pellicola per quarant’anni. Riapparso fugacemente in bianco e nero in vhs
e in tv, il film si è poi inabissato di nuovo, a causa di una legge che ha allungato i dirii degli autori defunti. L’edizione internazionale non è mai uscita: venne di certo montato e stampato un negativo con la scena, composto di sequenze analoghe a quelle dell’edizione italiana ma non identiche, e differenti anche nella durata, ma probabilmente non si arrivò a meere insieme una colonna sonora in lingua francese o inglese; fra i materiali sopravvissuti, visionati da chi scrive, esistono, separati, i rulli dei negativi con i rumori e quelli con le musiche ma non quelli dei dialoghi. Di tui i film d’occasione di Welles, L’uomo, la bestia e la virtù è così diventato il meno visto e citato della sua filmografia. Con la partecipazione al film di Steno, ancora un altro pezzeo di quell’affeuoso legame che legava Welles al nostro paese si ruppe per sempre. E la fuga dal set pirandelliano diventò fuga dall’Italia. Parecchi fra i nostri critici avevano trascorso gli ultimi sei anni a denunciarlo per esibizionismo artistico e barocchismo aggravato. Spiazzati dalla sua vitalità e dai suoi metodi, i nostri produori non avevano intenzione di finanziarlo; tu’al più, gli appiccicavano una barba sulla faccia e gli chiedevano di fare da spalla a Totò. A che scopo, dunque, intestardirsi a lavorare in Italia? Welles se ne andò prima in Francia, a interpretare Benjamin Franklin in Versailles di Sacha Guitry. In agosto fece tappa al festival di Edimburgo, dove proieò l’ultimo rullo di Macbeth e il primo di Otello, e tenne una conferenza in cui parlò fra l’altro dei rapporti fra Hollywood e Roma, due capitali del cinema poste ancora una volta sullo stesso livello, rimangiandosi affermazioni fae solo pochi anni prima. “È un luogo comune,” scandì Welles, “ormai persino passato di moda, quello di dar sempre la colpa a Hollywood. In questi ultimi tempi, abbiamo visto Roma diventare una piccola Hollywood e l’Inghilterra tentare di fare altreanto, senza riuscirvi. […] Non bisogna dare la colpa a Hollywood dell’alto costo dei film, dal momento che anche a Roma succede la stessa cosa. I film italiani, sia deo per inciso, costano molto e
molto di più di quello che la loro pubblicità lascia intendere. Rossellini, ad esempio, è un regista che spende e spande. Gli italiani spenderebbero anche di più, se ne avessero i mezzi. E, per ciò, se non sono da lodare non sono neanche da biasimare. È la loro maniera: essendo, come sono sempre stati, gente che ama il bello stile, lo stile ‘calligrafico’, hanno reagito contro questa tendenza calligrafica, dopo la guerra, e i risultati sono stati chiamati col nome di neorealismo da taluni, da altri invece i ‘film che non rendono’.”18 È un’ultima stoccata al neorealismo ma ha il sapore di un benservito a tua l’Italia cinematografica. A seembre Welles presentò a Londra il suo primo (e unico) libreo per un balleo, e Lady in the Ice, quindi interpretò Lord Mountdrago nel film inglese ree Cases of Murder. Nel fraempo aveva acceato la proposta di Peter Brook, interpretare un Re Lear per la CBS, con l’amico Micheál Mac Liammóir nel ruolo di Edgar, e se ne tornò così negli Stati Uniti. La critica italiana, intanto, non accennava a dar segni di ripensamento. Anzi. Franco Dorigo aveva appena ribadito su “Cinema” che arto potere “si palesa di gusto alquanto discutibile, nel complesso,” che in Macbeth Welles “si trastulla in un eccessivo calligrafismo e in una ancor più accentuata ricerca formale avulsa da intime e sentite giustificazioni,” che l’Otello rimane “la manifestazione di uno spirito bizzarro e curioso” in cui la poesia “è tuora latitante”.19 L’aacco più violento e famoso contro il cinema di Welles arriva all’inizio del ’54. Viene sferrato da Umberto Barbaro, già stroncatore dell’Orgoglio degli Amberson, nel bel mezzo di una recensione al Giulio Cesare di Mankiewicz: compiendo un excursus sulle fallimentari riduzioni da Shakespeare, il critico arriva “alle recenti, presuntuose e orripilanti pasticciate di Orson Welles, del Macbeth e dell’Otello, torte barocche e avvelenate di stile cinematografico retrivamente 20 avanguardistico.” Poco dopo Luigi Chiarini ribadisce in un celebre libro le sue idee sullo specifico filmico, relegando Welles e il suo ultimo film a una nota a fine volume: “L’Otello
di Orson Welles mostra proprio come una falsa preoccupazione della cinematograficità abbia viziato uno speacolo che poteva essere di alto livello.”21 Giovanni Calendoli, in un breve saggio su “L’Eco del Cinema e dello Speacolo”, insiste: “l’Otello e il Macbeth sono offuscati da […] una visione troppo rigidamente romantica e barbarica” e risultano “spaventosamente monocordi.”22 Sempre nel ’54, Ennio Flaiano pubblicò sul “Mondo” Un marziano a Roma, un breve apologo (che, trasformato in una commedia teatrale interpretata da Gassman, avrebbe poi oenuto un rumoroso insuccesso) in cui è agevole leggere una caricatura di Welles e delle sue traversie italiane. Nel racconto, la bella società di via Veneto accoglie lo straniero intergalaico con entusiasmi da palingenesi abbandonandolo poi rapidamente fra i personaggi fuori moda buoni solo per le pernacchie dei giovinastri. Il finale è amaro e beffardo, con il marziano che da Villa Borghese scruta il puntino rosso del suo pianeta, sognando un possibile ritorno. “Sempre se riuscirà a riavere l’aeronave,” chiude Flaiano, “che gli albergatori hanno fao, si dice, pignorare.”23 ell’extraterrestre sembra Welles, dicono Todisco e Kezich. Pare che il modello del marziano fosse in realtà un altro patetico forestiero, l’ex re egiziano Faruk, che, sbarcato a Roma nel ’52, consumava allora i suoi giorni d’esilio a via Veneto. Ma Welles c’entra comunque. Secondo il suo amico e biografo Maurice Bessy, Orson era affascinato da Faruk e appariva legato a lui da una “segreta fraternità”;24 i due si conobbero, si riconobbero, e nel febbraio del 1953, mentre Welles recitava con Totò e la Romance, Faruk gli propose di dirigere e interpretare un film sulla sua vita, un altro progeo poi rapidamente caduto.25 L’ultimo ao ufficiale dell’esilio italiano di Welles risale al 5 aprile 1954. Un laconico documento notarile aesta in quella data lo scioglimento della Orson Welles Productions, Rocco Facchini venne nominato liquidatore, e la fantomatica s.r.l. nata per finanziare Otello cessò formalmente di esistere mediante un verbale di assemblea e il rogito di un notaio.
“Deo verbale,” avrebbe poi scrio il notaio in una dichiarazione a fini fiscali, “non ha avuto corso per mancato versamento dei fondi necessari.”26
17. Partenze e ritorni
… ma ora mi dispiace dovervi informare che ho appena ricevuto il segnale di dire… Be’, non “goodbye”, in Italia la parola è “ciao”. Una deliziosa piccola parola. E allora ciao, per il momento. Ci rivedremo presto, spero, da qualche altra parte del mondo. E fino ad allora io rimarrò sempre il vostro obbediente servitore. Orson Welles in Portrait of Gina
Welles tornò negli Stati Uniti ai primi di oobre del 1953. Erano almeno cinque anni, dalla visita lampo per il montaggio di Macbeth, che non rimeeva piede sul suolo patrio. In America il maccartismo non aveva ancora esaurito la sua fase più speacolare, quella degli interrogatori e delle udienze, e intanto raccoglieva i frui del suo terrore, costringendo decine di cineasti a cambiar mestiere o a lavorare soo falso nome. Lo scriore Dashiell Hamme per essersi appellato al into emendamento si era già fao cinque mesi di galera; dopo avergli rinfacciato di aver traato nelle sue detective stories “alcuni problemi sociali”1, McCarthy fece in modo che i suoi libri venissero ritirati da tue le biblioteche americane, quindi gli requisì i dirii d’autore, contestandogli centomila dollari di tasse non pagate. alcosa del genere avvenne anche a Orson Welles: il fisco, che non aveva dimenticato il suo vecchio debito, permise che
interpretasse il Re Lear su suolo americano a pao che non spendesse nulla oltre al necessario per sopravvivere: i suoi guadagni professionali sarebbero tui andati a saldare una parte delle vecchie imposte dovute. Imprigionato fra l’albergo e gli studi newyorkesi della CBS, Welles trascorse due seimane a fare le prove, incuriosito e insieme perplesso dalle possibilità del mezzo televisivo. La trasmissione oenne un grande successo e per qualche giorno si parlò di nuovi progei, ma nessuno di questi riuscì a far incontrare i desideri di Orson con l’interesse dei produori. Dopo qualche seimana ripartì quindi per l’Europa, inaugurando un lungo esilio internazionale, con le valigie perennemente in mano e, soo soo, il pensiero di un rientro definitivo negli USA. Tornò più volte anche in Italia, dove c’era una donna che lo amava e una comoda villea di fronte al mare, ma preferì di gran lunga fermarsi in Francia e Spagna: il Welles italiano era definitivamente sparito nella primavera del ’53, con la fuga da Cetara. Nei successivi ritorni nel nostro paese, Orson fu poco più che un villeggiante, un ospite grato del clima e del cibo, l’interprete a geone di camei cinematografici e spot televisivi. Furono tappe, intermezzi, soggiorni; un ripassare, tu’al più un rientrare, mai un rincasare. Ci furono ritorni italiani voluti e organizzati, altri occasionali e casuali, alcuni lunghi altri fulminei: questo capitolo li racconta per sommi capi. Welles riaraversò di nuovo l’oceano con la coda fra le gambe. Non era stato in grado di sopravvivere in Europa, né di rimanere negli Stati Uniti, e così tornava ancora sul vecchio continente. Il titolo di un suo articolo, apparso nel maggio del 1954 sul seimanale milanese “Tempo”, suona come una doppia giustificazione, per l’andata e per il ritorno: Non sono un profugo di Hollywood. Con la scusa di compiere una divagazione sul mondo delle star americane, Welles tenta di correggere l’immagine di “genio in esilio” che lo aveva accompagnato in Italia dal suo arrivo nel ’47, negando allo
stesso tempo di essersi riconciliato con Hollywood: l’apprezzamento per “la capitale di un fantastico regno nelle nuvole” e il rimpianto per produori in via d’estinzione alla Sam Goldwyn non gli fa dimenticare come né gli uni né l’altra fossero stati in grado di offrirgli la libertà di cui aveva bisogno, costringendolo per la seconda volta a spostarsi sul vecchio continente. Senza “un briciolo di amarezza”, scrive; e poi aggiunge un “o quasi” che pesa come un macigno. “Bella parola, ‘studio’, che non riflee minimamente la desolata, nuda realtà di uno di quegli impianti industriali semideserti all’ora in cui gli aori si meono, mezzo intontiti e addormentati, a lavorare. Ecco uno dei segreti di Hollywood che ancora non è stato svelato; e sfido chiunque a svelarlo; né fiumi di parole né films neorealisti potrebbero degnamente esprimere questo squallore; e a ogni modo Dostoevskij è morto e Rossellini è sposato. […] Certo vorrete sapere perché ho piantato Hollywood. Be’, forse lo capirete meglio se vi dirò perché ci sono andato. Non certo per diventar ricco o famoso o per prendere la ‘tintarella’. […] No, quello che volevo era far del cinema. Mi ero messo in mente che fosse una cosa interessante. E infai lo è. Interessantissima, tanto che continuo a farne. Ma non volevo ‘recitare’ nei films, capite; è dall’altra parte della macchina da presa che a me piace lavorare. E il guaio era che Hollywood non mi voleva dall’altra parte e su un’offerta di lavoro dietro alla macchina da presa ne ricevevo un centinaio davanti, come aore. Perché, poi, non chiedetelo a me, chiedetelo a Hollywood. Naturalmente non è che abbia fao cento films, e nemmeno cinquanta e nemmeno dieci, forse; ne ho fai meno che ho potuto, insomma, e non appena ho avuto il modo di tagliar la corda, sono venuto da questa parte dell’Atlantico, sperando che le cose andassero meglio. Non crediate, dunque, che sia stato preso a calci, laggiù o che mi sia sbauta la porta alle spalle. Certo nessun produore tiene accesa una candela davanti al mio ritrao nel suo ufficio né io, da parte mia, dormo con una sua fotografia soo il cuscino. E non c’è un briciolo di amarezza – o quasi – tuo considerato.”2
Il suo nuovo impegno furono le riprese di Rapporto confidenziale, il film iniziato sul set napoletano di Steno. È il distillato dell’intero soggiorno italiano: dentro finiscono, frullati, il sognato Masquerade pirandelliano, alcuni episodi radiofonici da e Adventures of Harry Lime, le ombre ingannevoli di Michał Waszyński e Michel Olian, il ballo in maschera da Carlos de Beistegui. Come protagonista femminile, Orson decise di arruolare Paola Mori, ma prima la spedì in Irlanda, a prender lezioni di recitazione da Mac Liammóir e Edwards. Girò il film a pezzei, un po’ qua e un po’ là, a Cannes, a Madrid, a Monaco, anche a Roma. Poi una sera, in Spagna, pregò Paola di accompagnarlo alla stazione e scendendo dal taxi le chiese a bruciapelo: “Sei disposta a sposarmi?” “Io capisco Orson,” dichiarò la Mori in una delle sue rare sortite sulla stampa. “So quello che la gente dice di lui. Irritabile… instabile… difficile… meraviglioso… un genio. ‘Recita con lui – mi dicono – e ti meerai a leo col mal di fegato. È un essere impossibile.’ Invece lo sposo. Vedete, io so come traarlo. […] ando sta lavorando, Orson è tuo teso. ando qualcosa va male deve esplodere per forza. Dura cinque minuti. Io mi limito a uscire dalla stanza e ad aspeare che l’esplosione abbia termine. Finisce così presto e dopo c’è ancora la calma. O altrimenti, quando la situazione diventa caiva, mi siedo, mi meo a lavorare a maglia e sto a guardarlo. […] Orson e io ci comprendiamo così bene che quando usciamo insieme possiamo sedere in un ristorante perfeamente felici senza dirci nulla. […] Voglio continuare a recitare naturalmente. Forse con mio marito. Sarà sempre interessante. Sarà sempre l’inaeso, il cosa-faremo-dopo? Non che Orson sia anormale, è solo super-normale. Il segreto è di scoprire quanto normale egli sia soo il super.”3 “Prendo il matrimonio come una cosa seria,” le fece eco il promesso sposo. “Sono certo di aver trovato la ragazza che fa per me. Essa sa come prendermi e, data la mia angolosa natura, è questa una dote più che aurea. Cambierò e migliorerò.”4
L’oo maggio 1955, due mesi dopo l’uscita di Rapporto confidenziale e a quarant’anni appena compiuti, Orson Welles si sposò per la terza e ultima volta. Malgrado le origini italiane della sposa, le nozze vennero celebrate in Inghilterra, a Westminster, con rito civile. Le traversie di Otello non si erano ancora concluse: uscito in Italia e in Francia, il film aendeva una distribuzione in Inghilterra e in America. Fra i problemi che preoccupavano l’autore c’era la censura statunitense, all’erta anche con Shakespeare. “È interessante constatare che sarebbe impossibile scrivere Otello soo le regole auali,” scriveva Welles su un giornale francese. “I rapporti misogini fra Otello il Moro e l’ariana Desdemona sono contrari a una delle prime e più importanti regole auali. L’uso frequente in Shakespeare delle parole più ardite è assolutamente inammissibile. Peggio di tuo: quando il Moro ha ucciso sua moglie, si suicida. Al giorno d’oggi, questo sarebbe ‘sorarsi alla giustizia’. Proibito. Se Shakespeare facesse lo sceneggiatore a Hollywood, sarebbe obbligato a introdurre nella tragica camera (a lei gemelli, naturalmente) numerosi polizioi ciprioti al fine di arrestare il tragico eroe per assassinio (… il crimine non paga mai!).”5 Nei due anni precedenti Welles aveva continuato a lavorare sul film, accantonando la criticata versione italofrancese. In tre anni di modifiche, il regista cambiò diverse cose soprauo nella parte veneziana, resa più concisa, quasi precipitosa, anche a scapito della comprensione dei fai. Sostituì la propria voce fuori campo (che elencava nome e cognome del cast come nell’Orgoglio degli Amberson) con i tradizionali “quadri” ma aggiunse un commento per presentare le figure di Otello e Desdemona, dalla novella di Giovan Baista Giraldi Cinzio che aveva fornito lo spunto a Shakespeare. Fu soprauo la colonna sonora a essere rimaneggiata, anche a causa di una presa direa problematica. Un terzo dei dialoghi venne inciso ex novo: con una certa maligna soddisfazione, Welles eliminò il parlato di Suzanne Cloutier e
lo fece ripetere, con intonazione più decisa e combaiva, a Gudrun Ure, la Desdemona dell’allestimento teatrale al St. James’s eatre. Ridoppiò circa la metà dei propri dialoghi e rifece personalmente anche qualche bauta di Jago, Lodovico e Roderigo (che nella prima versione aveva già doppiato qua e là). I rumori furono modificati quel tanto che i cambiamenti di montaggio e doppiaggio resero opportuno modificare. E le musiche vennero probabilmente rieseguite, se non tue, buona parte: Franco Ferrara, il direore d’orchestra della versione italiana, venne sostituito dal quasi omonimo Willy Ferrero. Il 15 seembre del ’55, Otello uscì in una terza versione ulteriormente limata anche negli USA, con reazioni a volte analoghe a quelle italiane: “I recensori avevano la tendenza a paragonarlo ai film shakespeariani di Laurence Olivier,” sintetizza Jonathan Rosenbaum, “trovandolo dileantesco e auto-indulgente rispeo alla levigatezza produiva dell’Enrico V e di Amleto. In qualche modo questa reazione semplicemente ripeté e amplificò le obiezioni fae al Macbeth di Welles see anni prima; di aver fao violenza al testo di Shakespeare, di essersi lasciato andare, e di avere reso oscuri molti versi.”6 Alcuni mesi dopo, Welles fece un nuovo tentativo di ritorno negli Stati Uniti, con la scusa di proporre un Re Lear teatrale al New York City Center. Prese in affio una villa su una collina che guardava verso Los Angeles e, mentre Paola Mori meeva alla luce Beatrice, continuò a darsi da fare fra teatro, cinema e televisione. Colse al volo la proposta di dirigere e interpretare L’infernale inlan, sperando di farsi riaccogliere da Hollywood: riscrisse la sceneggiatura da capo a fondo e acceò di farsi pagare solo come aore. Andò male anche stavolta: i produori lo estromisero dal montaggio finale e fecero girare ad altri scene aggiuntive. Rassegnato alla sua sorte di reieo, cominciò in Messico la sua opera più lunga e complicata, il Don Chiscioe, con lo stesso approccio avventuroso e frammentario, ma ancora più esasperato, con cui aveva girato Otello. Ogni guadagno
oenuto dalla sua aività artistica, nel fraempo, gli veniva rosicchiato dal vecchio debito col fisco. Meglio ripartire. Costreo dagli eventi, Orson scelse ancora l’Italia, che era almeno il paese di sua moglie. Alla fine del 1957, Welles riaraversò l’Atlantico in nave, portandosi dietro Paola, la figlia Beatrice e Colombina, una cagnea che aveva regalato alla moglie per l’ultimo anniversario. “Vivrò e lavorerò in Italia senza divenirne parte integrante,” mise le mani avanti parlando con i cronisti a Genova, “mi piace restare in ogni Paese uno straniero per poterlo guardare, gustare ed amare di più. Spero che gli italiani capiscano il mio stato d’animo e la mia sincerità… Che mi piaccia l’Italia non dovrebbero esserci dubbi, dal momento che ho sposato una italiana e sono molto felice. Ecco, mi piace l’Italia anche perché è raro sentir dire che una ragazza ha lasciato improvvisamente l’uomo che la accompagna per andare dal suo psicanalista. In Italia c’è sempre da qualche parte una vecchia zia Rosalia, alla quale ogni ragazza può raccontare tui i suoi dispiaceri. Negli Stati Uniti tuo questo è impossibile: perché le zie Rosalie abitano sempre troppo lontano, sono assorbite dai loro clubs, dai loro affari, dalle loro manie, dai loro psicanalisti. È la compaezza della famiglia italiana che mi affascina e mi convince e mi conquista. Anzi, mi ha già conquistato da tempo.”7 La famiglia Welles meditò di stabilirsi in Toscana o nella Sicilia orientale, ma alla fine optò per la soluzione più comoda ed economica, Fregene. Moglie e figlia s’installarono a Villa Mori; ci rimasero per circa cinque anni, e intanto Orson se ne andava in giro per mezzo mondo, a giracchiare Don Chiscioe, a interpretare parti e particine per conto terzi, a organizzare le imprese più disparate. Oltre alla bellezza e alla dolcezza, Paola aveva per Orson una dote mai riscontrata in nessuna delle altre mogli o amanti: acceava la sua sregolata vita d’artista, e sapeva tenergli alla larga problemi e scocciatori, proteggendo la sua concentrazione dalle interferenze della vita. “Ho inventato una tecnica particolare per traare coloro che telefonano a
Orson,” raccontava. “A volte sembrano arrabbiati. Gridano: ‘Orson deve recitare questo,’ o ‘Orson deve andare in quel posto a fare quella cosa.’ So che colui che telefona farà innervosire Orson e allora rispondo: ‘Spiacente, il signor Welles è nella vasca, nella vasca da bagno voglio dire. Si è appena annegato…’ L’individuo infuriato di solito toglie la comunicazione a questo punto e così non succede niente.”8 Uno dei progei più singolari del periodo è un pilot televisivo dedicato all’amica Lollobrigida, diventata nel fraempo una star. La diva è in realtà il pretesto per una divagazione ammirata e ironica sul nostro paese, un modernissimo bizzarro reportage su Roma e il cinema italiano, girato con un gusto per il frammento e la divagazione che anticipa F come falso. Il filmato mee in scena Welles, impegnato a girare per l’Urbe, a intervistare De Sica, Rossano Brazzi, Paola Mori e Anna Gruber (un’amica d’infanzia della Lollobrigida), rimandando continuamente l’apparizione della star; la quale, una volta padrona del fotogramma, parla solo di tasse e di quanto gli italiani abbiano cercato di ostacolarla. Girato nel gennaio ’58 e subito montato, il film prevedeva già i punti in cui i dirigenti televisivi della ABC avrebbero potuto inserire gli spot. Ma il risultato non piacque, e Welles dimenticò freudianamente le tre pizze di pellicola al Ritz di Parigi. Riemerso trent’anni dopo, Viva Italia!, meglio conosciuto come Portrait of Gina, venne proieato al Festival di Venezia alla presenza di Gina Lollobrigida, che se n’era completamente dimenticata. Pare che il risultato non abbia entusiasmato l’arice: essendone il soggeo, ha però ritenuto di avere qualche dirio sul film e ha dato mandato ai propri legali di bloccare ulteriori proiezioni. “È una brua storia,” ha raccontato l’arice. “Orson l’avevo conosciuto diverso tempo prima, quando facevo la generica e la comparsa. Allora studiavo all’Accademia di belle arti e intanto cantavo, un po’ di soldi facevano sempre comodo. Dopo dieci anni volle rivedermi, e con la scusa di fare un’intervista è venuto qui sull’Appia Antica. Io mi meravigliavo: perché Orson Welles
ha bisogno di un’intervista registrata? Era solo una scusa per rivedermi e da questa piccola intervista è venuto fuori un ritrao, un omaggio in cui mi preferiva alle esordienti di allora. L’ha lasciato in un albergo – lui non era, diciamo, molto aento –, e chi l’ha preso l’ha sfruato. esto signore sta in Francia, si è fao anche una casa di edizione, è un ex cameriere che è rimasto in possesso della pellicola, ha aspeato che Welles morisse per farci dei soldi. Orson non me ne aveva mai parlato, l’ho anche incontrato e fotografato a New York negli ultimi tempi, ma ho saputo di questo filmato solo a Venezia, dove l’ho lasciato proieare per vedere di cosa si traasse. C’è una fotografia speacolosa e io mi ripromeevo con la figlia di Welles (sua madre, Paola Mori, aveva fao la comparsa insieme a me) di fare causa, per riprendere questo negativo che spea a me e agli eredi di Orson, non a uno che l’ha sfruato per fare dei soldi…”9 Dopo la morte dell’arice, Portrait of Gina è stato proieato in versione restaurata alla serata di preapertura della Mostra di Venezia del 2023.
Welles e Gina Lollobrigida sul set di Portrait of Gina, nella villa dell’arice sull’Appia Antica.
Orson provò a girare un secondo documentario su un’altra diva italiana, Elsa Martinelli, che abitava sull’Appia Antica giusto di fronte a Gina. Entrò in giardino, sbaragliando guardiani e giardinieri, si presentò, si accomodò accanto a lei sui gradini della villa e le descrisse per un’ora la sua idea. Ma l’arice aveva appena avuto una bambina e non aveva voglia di riprendere subito a lavorare. “Elsa, scusami l’intrusione,” le disse l’americano leggendole nel pensiero. “Si vede lontano un miglio che sei stanca e non hai voglia di niente. Dai rea a me, riposati e tra qualche mese io torno e faremo una cosa interessantissima.”10 Sparì. Portrait of Elsa non fu mai girato. Per saldare un vecchio debito con Zanuck (forse ancora in rapporto all’Otello), Welles interpretò a Fontainebleau un ruolo in Le radici del cielo, accontentandosi come compenso di una vecchia moviola che la Fox gli fece recapitare a Fregene. Poco dopo partì alla volta della Cina, per un ruolo in Passaggio a Hong Kong. Tornato in Italia, nell’agosto ’59 si rassegnò a interpretare re Saul in David e Golia, un modesto peplum direo a quaro mani da Ferdinando Baldi e Richard Poier. Pose però alcune condizioni: che ci fosse nel cast l’amico Hilton Edwards, che potesse scrivere e dirigere le proprie scene, e che venissero girate dopo le 17; maina e pomeriggio furono consacrati ad alcune riprese del Don Chiscioe nell’assolata campagna di Manziana. Audrey Stainton, che gli fece da segretaria in quel periodo, ricordava una troupe boccheggiante per il caldo, sbigoita dalla determinazione di Welles a raggiungere il cocuzzolo di una montagna, trascinandovi Francisco Reiguera e Akim Tamiroff, affranti interpreti di Chiscioe e del suo scudiero. “Era proprio uno speacolo,” scrive la Stainton, “lui che incedeva solido verso l’alto, quest’uomo enorme in una tuta da lavoro azzurro brillante, con un gran cappello di paglia piantato sulla testa e un raffinato parasole giapponese in mano. ‘Orson Welles sta per perdersi in montagna,’ rimarcò Hilton Edwards nel suo modo gioviale, e Paola aggiunse con un sospiro malinconico: ‘Se solo si perdesse davvero – per un mese!’”11
A novembre era a Parigi, sul set di Crack in the Mirror, dove cercava ancora di rifilare ai francesi la vecchia storia degli Orsini: assicurò a Jean Cau di discendere dalla illustre famiglia italiana per via femminile, che uno dei suoi antenati era stato ambasciatore alla corte inglese, e che per tradizione tui i ragazzi della sua famiglia venivano chiamati Orson.12 Welles continuò a saltabeccare da un capo all’altro dell’Europa, da Fregene a Londra, da Madrid a Parigi, prendendo parte a una quantità di progei propri e altrui che sarebbe impossibile citare senza rischiare la noia dell’elenco. In Italia calamitò una serie di collaboratori validi e pazienti, soprauo montatori e operatori (Mariano Faggiani, Roberto Perpignani, Maurizio Lucidi, Giorgio Tonti, Mauro Bonanni), che tentava di portarsi dietro da un film all’altro. Strinse nuove amicizie ma fece anche perdere le sue tracce a collaboratori che gli erano sempre rimasti fedeli. Troiani, per esempio, continuava ad acceare film di poco conto per poter correre in soccorso alle improvvise smanie creative di Orson. Ma Welles, dopo i provini del Giulio Cesare, si manifestò solo una volta, durante la lavorazione di L’uomo, la bestia e la virtù, tramite segretaria. “Domani Mr Welles la aspea a Napoli,” gli aveva deo per telefono una voce femminile. Troiani, che aveva appena iniziato un nuovo film, chiese di avere qualche informazione in più, sui tempi e sui luoghi. E Orson non si rifece più vivo. Se c’è una cosa che a Welles non mancò mai è il gusto della provocazione verso gli italiani. Nel ’60 conobbe Arnoldo Foà sul set triestino dei Tartari, e cominciò a punzecchiarlo. “Aveva deo una cosa che non mi era piaciuta affao,” scrive Foà nelle sue memorie: “‘La lingua italiana non è una lingua teatrale ed è per questo che non ci sono aori italiani bravi.’ Gli feci osservare che non conoscendo la lingua italiana non poteva fare un’affermazione simile: in quanto agli aori, a parte gli universalmente noti, grandissimi interpreti del passato, che ne sapeva lui del nostro teatro? Mi rispose che se un aore non è noto non può essere bravo. ‘Non è vero, gli dissi, tu sei molto noto.’ Rise molto.”13
Fra agosto e seembre ’60, Welles girò a Roma altre scene di Don Chiscioe: come per Otello era stato capace di aspeare mesi per avere la giusta luce invernale, ora, per il film da Cervantes, era determinato ad aendere la stagione estiva, l’unica che gli assicurasse cieli addobbati di suggestive nuvole cumuliformi. L’anno seguente, il 1961, fu probabilmente quello in cui passò il periodo più lungo a Fregene: si chiuse per sei mesi nel garage di Villa Mori a scrivere la sceneggiatura e disegnare le scenografie del Processo. Nel cast chiamò fra gli altri Arnoldo Foà ed Elsa Martinelli. Il film fu girato in gran parte fra Parigi e la Jugoslavia, ma una sequenza venne realizzata davanti alla sede della Cassazione, quello che a Roma viene chiamato familiarmente Palazzaccio, e un’altra fra i graacieli dell’EUR. Durante le riprese Oriana Fallaci lo intervistò per l’“Europeo”. Welles le raccontò la sua anima divisa in due, fra America e Italia, e la sua crescente insofferenza per entrambi i paesi: “In America do fastidio perché non mi allineo coi conformisti: non bisogna dimenticare che l’America ha molti punti in comune con la Russia, soprauo il conformismo. In Italia do fastidio perché non rispondo al cliché dell’americano. Gli italiani sono convinti che gli americani siano fessi e così, quando si accorgono che non sono fesso, dicono che non sono americano. Io sono americanissimo e dire che non sembro americano è scemo come dire che tui gli italiani suonano la chitarra.”14 Un anno dopo, Il processo fu selezionato per la Mostra di Venezia. Malgrado gli incidenti già avuti con Welles (anche Rapporto confidenziale era rimasto escluso dalla Mostra per problemi tecnico-burocratici), il maggiore festival italiano continuava a corteggiarlo. Aesa fino all’ultimo, la copia definitiva del Processo non arrivò, e il festival tappò precipitosamente il buco con l’anteprima italiana di West Side Story. Nel ’63 Dino De Laurentiis, l’antico concorrente dell’Ulisse, il coproduore di L’uomo, la bestia e la virtù,
convinse Welles a scrivere e dirigere l’episodio del sacrificio di Isacco per un kolossal a più mani sulla Bibbia; il progeo prevedeva Bresson come regista del paradiso terrestre, Visconti per il periodo egiziano e Welles per il sacrificio di Isacco. La costumista Giulia Mafai, allora assistente di Maria De Maeis, conferma che si arrivò a fare uno screen test a un aore inglese per il ruolo di Abramo. “Ricordo un trucco straordinario,” dice la Mafai, “il naso rifao con la gobba, il fondo della pelle scurito perché si traava di un uomo mediorientale. Welles disse: ‘Non è male, bisognerebbe solo meergli le lenti a contao per scurirgli pure gli occhi,’ per dire che era tuo falso. Aveva un’aria molto distaccata, non partecipava più di tanto, ci credeva forse fino a un certo punto.”15 “Perché ha acceato?” gli chiese un giornalista del “New York Post”. Welles: “Un angelo giunse da me e mi disse: ‘Orson, inchinati a De Laurentiis e firma per 200.000 dollari.’”16 Ma poi De Laurentiis cambiò idea: modificò il finale dell’episodio (nella versione di Welles, Isacco non appariva affao disposto a lasciarsi sacrificare) e affidò tuo il film a John Huston. Orson incassò l’assegno e ritirò la firma dalla sceneggiatura. La partecipazione più importante del periodo è nella Ricoa, episodio di RoGoPaG, una delle cose migliori fae da Pasolini nel cinema. Welles interpreta il regista di un film religioso, un marxista che fra un’intervista e un ciak assiste all’agonia del sooproletario Stracci, interprete del buon ladrone, che muore sulla croce dopo essersi abbuffato di ricoa. “Da una parte il sooproletario Stracci,” spiegò Pasolini, “dall’altra l’intelleuale Orson Welles: sono questi i personaggi che più aerriscono la piccola borghesia, perché sfuggono totalmente – l’uno verso il basso, l’altro verso l’alto – al suo misero dominio culturale della realtà.”17 ando ricevee la proposta, Welles non aveva idea di chi fosse Pasolini. Chiese una grossa cifra che per qualche tempo mise in forse l’approvazione del progeo. Nello stesso periodo era impegnato a Parigi per il film in costume Le meravigliose avventure di Marco Polo, con Anthony inn,
Akim Tamiroff, Elsa Martinelli e Omar Sharif. Le sue condizioni furono acceate. Welles fece avanti e indietro dalla Francia tre o quaro volte, sbrigando tua la faccenda in una seimana. Il rapporto con Pasolini fu sereno, senza bisticci o ingerenze. Sul set di La ricoa s’informava poco prima del ciak del contenuto della scena, e poi esigeva i cartelli con le baute scrie. Il regista friulano rimase colpito dalla semplicità con cui Orson recitò in italiano davanti alla cinepresa; preferì comunque farlo doppiare dalla voce chioccia di un altro intelleuale, lo scriore Giorgio Bassani. Welles definì Pasolini “tremendamente intelligente e dotato” ma non acceò più neanche uno dei ruoli che Pier Paolo gli propose successivamente (in Edipo re, Teorema, I racconti di Canterbury e Porcile). Dei colleghi italiani, ebbe calde parole di elogio solo per De Sica. ello di Sciuscià, e pure dell’Oro di Napoli (“per me, la scena della pizza è la sequenza più divertente mai girata nel cinema parlato”);18 meno di Ladri di biciclee, che considerava “più commerciale e più scaltro, ma meno coerente”. Anche l’uomo gli stava simpatico: non lo poté avere in Otello, riuscì almeno a infilarlo in Portrait of Gina. Su altri registi italiani Welles formulò giudizi piuosto nei, fino a sfiorare l’insulto. A partire da Rossellini: “Di quello ho visto tui i film: è un dileante. I film di Rossellini provano solamente che gli italiani sono aori nati e che in Italia basta prendere una macchina da presa e meerci delle persone davanti per far credere che si è registi.”19 Sul neorealismo rosselliniano Welles ebbe parole anche più crude, come la sarcastica bauta ispirata dal ricordo della proiezione veneziana di Una voce umana: “Il neorealismo? Non è altro che una donna speinata seduta sur le siège de toilee che grida al telefono: Pronto! Pronto!”20 Man mano che ne cresceva la fama, nel mazzo dei colleghi meno stimati entrò Michelangelo Antonioni: “Secondo i giovani critici americani, una delle grandi scoperte della nostra epoca è il valore della noia come tema artistico. Se è
così, Antonioni merita di essere annoverato tra i pionieri della tendenza come padre fondatore. I suoi film sono sfondi perfei per mannequins di alta moda. Forse non ci sono sfondi altreanto perfei neanche su ‘Vogue’, anzi, è così che dovrebbero farli. Dovrebbero ingaggiare Antonioni per progearli.”21 Su Fellini il suo giudizio fu generalmente positivo, con alcune grosse riserve: “Il suo limite – che è anche la fonte del suo fascino – è di essere fondamentalmente molto provinciale. I suoi film sono il sogno della grande cià da parte di un ragazzo di provincia. […] Tuavia mostra spesso segni pericolosi di essere un artista superlativo che ha molto poco da dire.”22 L’unico dei tre registi italiani di cui sia aestata una risposta è proprio Fellini, che, dopo aver rimuginato gli apprezzamenti del collega, concluse: “Ha ragione e non è un’insolenza; l’adolescenza è indispensabile per un creativo.” Dei tre, fu anche l’unico a conoscerlo personalmente. Si incontrarono alcune volte a Fregene, dove pure Fellini aveva una villa, e da Cesarina, il ristorante romano preferito da entrambi. “Welles,” ricordava il regista riminese, “era un enorme macchione nero, più largo del tavolo per sei persone a cui sedeva nel ristorante della Cesarina, a Roma. Gli andai incontro come se lo avessi conosciuto da sempre. Con un gesto benedicente da monarca, m’invitò a sedere. E vidi arrivare quaro primi piai: minestrone, feuccine, cannelloni, rigatoni. Se li dispose aorno, come fa un giocatore con le carte. Mangiava lentamente, gustando tuo: un Enrico VIII, un Giove come lo avevo immaginato al ginnasio. Un’altra volta, alle sei e mezzo del maino, nella nebbia dell’alba d’inverno, da una gran sagoma di medusa nera fluuante tra gli alberi di Fregene m’arrivò la sua bella voce: ‘Federico! Lo sapevo che abitavi qui!’ Cominciava ad avere i primi guai con la salute, per le molte intemperanze, e propose: ‘Federico, facciamo il bagno, facciamo una corsa di tre chilometri, troviamo una sega da boscaiolo e tagliamo due alberi…’ Finimmo col prendere un caè.”23
Il fronte critico italiano continuò a lungo a bombardarlo. Umberto Barbaro approfiava di ogni occasione per parlar male del cinema di Welles: recensendo Foglie d’autunno di Robert Aldrich, loda il film per la “riconquista della fondamentale efficacia dei primi piani ed anche dei vecchi effei dell’iris, senza le leziosaggini e le civeerie avanguardistiche, poniamo di un Orson Welles.”24 Rapporto confidenziale venne recensito in Italia grosso modo come gli altri film di Welles, fra pregiudizi e indifferenza (Rondi: “il solito equivoco di Welles, da sempre in bilico tra le sofisticherie e il Grand Guignol”). Anche L’infernale inlan suscitò la sua dose di perplessità (Morandini: “È il suo barocchismo un gusto o il corrompimento di un gusto?”), ma oenne una maggiore aenzione anche grazie a un memorabile intervento di Italo Calvino, che aveva intuito dietro inlan l’ombra sinistra di Stalin.25 Il processo venne accolto tuo sommato discretamente, comunque con la sua buona dose di prese di distanza (Casiraghi: “Da tempo non appariva sugli schermi normali un film così irritante, e pur così coerente alla personalità e alla poetica del suo autore”).26 Una nuova generazione di critici si stava facendo avanti, e alcuni fra loro erano disposti a loare per una riconsiderazione del cinema di Welles. Notevole il saggio di Roberto Pariante pubblicato nel ’56 su “Bianco e nero”: uno studio non rivoluzionario ma coraggioso nel suo tentativo di giudicare la produzione del regista senza timori reverenziali verso la critica precedente. I vituperati “preziosismi tecnici” di arto potere diventano “pregi formali” e l’accusa aristarchiana di aver proposto nei suoi film “un compendio di reminiscenze tecniche e stilistiche” risulta “se non proprio ingiustificata, per lo meno esagerata”. Aristarco viene citato esplicitamente, a proposito della stroncatura alla Signora di Shanghai, e le sue riserve confrontate con i giudizi benevoli di Castello e di Dino Risi. Dove Pariante ripete giudizi già ascoltati è invece su Macbeth (“fedele allo spirito esso stesso barbarico del testo teatrale” e però rovinato da “un’inutile
quanto pericolosa ricerca calligrafica”) e su Otello (che sarebbe afflio da un uso dei mezzi espressivi “inutile, ingiustificato e controproducente”, che unito alla “narcisistica interpretazione” di Welles aore e al “decorativismo barocco” delle scenografie, renderebbe il film “bruo e tedioso”). Ad ogni modo, conclude Pariante, Welles rimane “un regista il cui valore è innegabile”, un autentico “artista libero”, autore di sei film ciascuno dei quali “è un colpo all’anodina produzione cinematografica hollywoodiana”.27 L’orientamento della critica italiana nei confronti di Welles muta decisamente con un numero monografico del “Nuovo Speatore Cinematografico”, uscito nel dicembre 1963, in aperta polemica con Barbaro e soci. “Se c’è un regista che la critica italiana ha sempre, nella sua quasi totalità, preso soogamba, questo è Orson Welles,” dichiara Goffredo Fofi fin dall’inizio. Fofi analizza i motivi di tanto astio, individuandoli perfeamente in quaro punti: “L’azione di disturbo sul piano della tecnica” che aveva messo in crisi canoni e pigrizie dei cosiddei intenditori; “la situazione storica del cinema italiano” del dopoguerra, ansioso solo di tornare al realismo; “l’ipoteca crociana della formazione degli intelleuali”, per i quali barocco era solo sinonimo di caivo gusto; “il realismo socialista e le sue applicazioni”, lontanissime dal modo originale e sofisticato con cui Welles analizza dal suo interno il mondo del capitale. Il rigeo dei pregiudizi critici viene fao senza peli sulla lingua, esponendo le “torte barocche” di Barbaro al pubblico ludibrio, e ricordando le assurde prese di posizione italiane al festival francese del ’52: “A Cannes la critica italiana si scandalizzò per la premiazione ex aequo di Due soldi di speranza e di Otello, giudicando blasfemo l’accostamento del secondo col ‘gioiello’ del neorealismo nazionale e popolare. Oggi, affascinati dal contrasto tra l’istinto e la grazia, la forza e la bellezza che oppongono Otello e Desdemona, il rozzo Moro allo splendore veneziano […], la decisione appare ugualmente scandalosa, ma per il motivo opposto.”28
Il numero del “Nuovo Speatore Cinematografico” è uno studio dirompente che sarebbe stato impossibile ignorare. Finalmente qualcuno osava far piazza pulita dei luoghi comuni, finalmente Welles veniva definito “uno dei registi più importanti della storia del cinema”, finalmente si riconosceva il suo status di autore raffinato, in grado di recuperare le grandi lezioni del muto e di influenzare i maestri successivi, un cineasta capace di raccontare le ambiguità dell’animo umano e la molteplicità del presente. alche mese dopo, Claudio Rispoli dedica su “Filmcritica” un lungo saggio a arto potere. “Nelle sue intuizioni disordinate e nel suo ecleismo,” il critico scrive del regista, “ha comunque saputo produrre un’opera che si allinea con le ‘grandi’ opere moderne, leerarie, musicali ecc., il cui valore è già universalmente riconosciuto.”29 La critica italiana si apprestava a far pace con Orson Welles. Troppo tardi. Da appassionato ammiratore della cultura latina, il regista aveva appena scoperto l’altro grande paese mediterraneo e aveva deciso di trasferirvisi con tua la famiglia. Prese in affio una villa a Malaga, poi una a Madrid. “Un tempo ero un americano esule in Italia,” disse a Kenneth Tynan, “ora sono un italiano esule in Spagna.” Durante la lavorazione di un western, Lucio Fulci lo incontrò in una sperduta stradina spagnola, intabarrato in un costume di scena, mentre tracannava acqua a garganella da un orcio di terracoa. “Orario bizantino!” lo apostroò Orson riconoscendolo. Welles stava girando il suo terzo Shakespeare, Falstaff, finanziato da un produore spagnolo. Con lui era tornato Alessandro Tasca, il nobile palermitano che Welles aveva tentato di licenziare dal Cagliostro per nascondere i suoi nasi finti. Nel cast c’erano Marina Vlady, la mancata Cenerentola di Operation Cinderella, e Walter Chiari, l’antico rivale in amore, che si fece un giorno e mezzo di viaggio solo per una piccola caraerizzazione, un Master Silence dal volto porcino. “Mi sono mortificato, con gioia,” raccontò a Tai Sanguineti. “Ho fao un porcellino, ma ben
felice di farlo con Orson Welles. Meglio che fare un’aquila con un altro.” Alla fine del ’64, la televisione italiana decise di mandare in onda Nella terra di Don Chiscioe, un brillante documentario televisivo in nove puntate, basato su una serie di filmini girati da Welles in 16 millimetri con la partecipazione di Paola Mori e della piccola Beatrice: un ammaliante bloc-notes di immagini e impressioni sonore che Welles aveva montato personalmente alcuni anni prima nel garage della villa di Fregene, senza inutili parole di commento. Alla Rai, quando lo videro, s’impuntarono: ci voleva un commento parlato. Alessandro Tasca convinse Welles a scrivere un testo che avrebbe leo lui stesso ma i dirigenti televisivi protestarono: Welles avrebbe parlato con un evidente accento americano! Fecero scrivere il commento a Gian Paolo Callegari e lo diedero da leggere fuori campo ad Arnoldo Foà. La critica italiana di sinistra riprese a stuzzicarlo, condannando il “disimpegno” con cui Welles contemplava nei suoi documentari la Spagna di Franco,30 non immaginando che Orson aveva scartato dal montaggio l’unica scena in cui appariva “il generalissimo”.31 L’anno dopo, la Mostra di Venezia tentò di avere Falstaff in concorso, ma il regime di Franco pose il veto e il film finì a Cannes. “Valeva la pena,” si chiese cogitabondo Aristarco, “al di là però dei problemi politici, ‘sacrificare’ La guerre est finie – il film di Resnais da Semprún sulla loa antifranchista – per poter esporre a Cannes l’ultimo Orson Welles?”32 In quei giorni arrivava intanto nelle nostre sale una nuova versione di arto potere, distribuita dalla Ultra Film, interamente ridoppiata e risonorizzata. È l’edizione che gli italiani conoscono, quella in cui Emilio Cigoli (già doppiatore di Welles nel Terzo uomo e nella Signora di Shanghai) fornisce la sua voce calda a Kane, e Gino Cervi è il narratore fuori campo del cinegiornale News on the March. Rispeo a quella manomessa del ’49, questa versione è assai più rispeosa ma è però dimagrita di una decina di minuti, rosicchiati dal
primo incontro del giornalista con Susan, dal faraonico picnic in tenda, dalla presentazione di Leland in ospizio, dal magistrale riassunto del matrimonio di Kane araverso le colazioni con la moglie, dalle lezioni di canto con il maestro italiano, e con due interi momenti musicali in meno (un motiveo da vaudeville al party con il nuovo “Inquirer”, e una canzone che Susan suonava al piano per Kane). A causa di questi tagli fu, tra l’altro, necessario sostituire con musiche di repertorio alcuni brani del commento originale di Bernard Herrmann. La motivazione di queste modifiche è assai banale: far scendere la durata dello speacolo soo le due ore, così da poter vendere (usanza tua italiana) gelati e altri generi di conforto fra primo e secondo tempo. In quanto al nome di colui che operò i tagli, lo scoprirete solo alla fine di questo libro. Nel 1964 Welles conobbe Francesco Rosi, in Spagna per preparare Il momento della verità. Il tramite fu Domingo Dominguín, procuratore di tori, fratello del torero Luis e amico di Welles. “Una sera andammo a cena,” ha ricordato Rosi, “io, Dominguín e Welles, a cui erano piaciuti moltissimo Le mani sulla cià e Salvatore Giuliano. […] Era uno speacolo vederlo mangiare le ostriche, incredibile. Si beava tra quelle ostriche. Era velocissimo. Le mandava giù a dozzine.” Welles in quel periodo meditava di girare un film sulle corride, e quando Rosi cominciò il suo, disse a Dominguín: “Ma come? Io sono qui da mesi e mesi per sapere tuo della corrida, dei tori, dei toreri e non sono ancora pronto. esto Rosi invece arriva e in quaro e quar’oo comincia a girare il film?” “Lo incontravo alle corride,” prosegue Rosi. “Aveva sempre con sé la scatola dei sigari, fumava dei grossi Partagas e dei Montecristo. Come Churchill, sempre col sigaro a portata di bocca. Poi il film sui toreri, Orson non l’ha mai fao. Solo una parte. L’aveva cominciato, poi smise. Ma lui era un grande. Faceva cortometraggi, documentari. Si era stufato, e lo capisco.”33
Nella sua nuova residenza spagnola, Welles si trovava magnificamente, felice di non essere continuamente infastidito da giornalisti o cinefili. Ma continuava a pensare all’America. Dei principali ostacoli al suo ritorno almeno uno, la fobia anticomunista, poteva ormai dirsi superato; sull’argomento gli era rimasta solo una grande amarezza al pensiero che, mentre lui e altri erano stati costrei a lasciare gli Stati Uniti, un collega come Elia Kazan si fosse prestato alla delazione. “La cosa più triste della sinistra americana,” dichiarò nel ’64, “è che ha tradito per proteggere le sue piscine. Non c’era nessuna destra americana nella mia generazione. Dal punto di vista intelleuale non esisteva. C’erano solo persone di sinistra, e si sono tradite a vicenda. La sinistra non è stata distrua da McCarthy: si è demolita da sola, cedendo a una nuova generazione di nichilisti.”34 All’ipotesi di un ritorno negli USA si frapponeva comunque la questione fiscale: una nuova aività artistica di Orson Welles negli Stati Uniti avrebbe significato esclusivamente saldare i debiti del 1947. Secondo McBride, però, “i problemi fiscali non furono la causa del suo esilio ma un sintomo e un riflesso del suo problema più grande; furono una sporadica forma di persecuzione da parte del governo americano” per le sue idee politiche.35 In ogni caso, meglio continuare a fare l’esule, concedersi per improbabili camei e prestazioni occasionali, e conservare la possibilità di realizzare i propri sogni. Welles cominciò ad acceare qualsiasi cosa, a costo di raschiare il fondo dell’autostima. Anche in Italia. Pino Peserico, produore di filmati pubblicitari, lo chiamò per il carosello di un liquore ma furono quelli della Stock a fare problemi: “Chi è Orson Welles?” Pretesero un provino, che Welles girò e interpretò, rifiutandosi però di apparire nel “codino” finale in cui si pubblicizza il fatidico brandy. Welles incassò un milione di lire ma la Stock non gradì il risultato e sbaé il carosello ad ammuffire in archivio.36 Nel 1968 acceò di tornare a vestire i panni di un Borgia interpretando papa Alessandro VI, il genitore di Cesare
(vent’anni e parecchi chili dopo Prince of Foxes, Welles stava ormai meglio nel ruolo del padre che in quello del figlio) nel film Lucrezia di Osvaldo Civirani, il fotografo che Ratoff aveva buato fuori dal set di Black Magic; ma Welles all’ultimo momento dovee rimanere in Jugoslavia a terminare altri lavori e il suo ruolo passò al meno prestigioso Leon Askin.37 Orson se ne andò invece in Spagna e in Messico per interpretare il sadico colonnello Cascorro di Tepepa, impegnato a dare la caccia a un peone rivoluzionario (Tomas Milian). Dietro la macchina da presa c’era ancora un italiano, Giulio Petroni. “Welles me lo propose un’agenzia di casting,” ha raccontato Petroni, “avvisandomi che era intraabile. Lo era, ma non con me: gentile e docile. ando gli dissi di essere intimidito all’idea di dirigere il regista di arto potere, rispose: ‘Non dire fesserie.’”38 Nello stesso anno si concesse a John Guillermin per Il castello di carte, in parte girato in Italia. Welles interpreta Leschenhaut, un caivone razzista che vorrebbe instaurare la diatura in Francia e impadronirsi delle sue ex colonie. Sul set ebbe uno dei suoi tipici scontri con Tony Brandt, leggendario (e romanissimo) aiuto regista. “Si portava a casa il vestito di scena,” ricordava Brandt, “che è professionale se sei un aore che il giorno dopo si ricorda. Una maina, venne da me Elvira d’Amico, la segretaria di edizione, e mi disse che Orson aveva la cravaa sbagliata. ‘Chiama la sartoria.’ ‘No, se l’è portata a casa!’ Allora Orson cercò di dare la colpa al sarto perché era un fijo de ’na mignoa ma intelligente: ‘La cravaa non ce l’ho, è colpa del sarto. Ecco perché io non vorrei mai girare in questo paese!’ Guillermin subiva ’sto mostro sacro. Tony Brandt, invece, prese una sedia e disse: ‘La colpa non è del sarto, ma tua che ti porti la roba a casa.’ Gli urlai: ‘Te ce spacco le reni co’ ’sta sedia,’ come una pantera. Io quando ho ragione non ho paura di nessuno. E lui: ‘Ma no, Tony, io non volevo.’ La troupe gelata. Orson tornò in camerino e Guillermin mi abbracciò: ‘I love you.’ Poi Orson ritornò giù con una scatola di sigari – allora fumavo i sigari – e disse: ‘Ti chiedo scusa davanti a tui.’”39
L’anno successivo, Welles prese parte a Una su 13, commedia italo-francese interpretata con Viorio Gassman, Sharon Tate e Viorio De Sica, direa da Nicolas Gessner a quaro mani con Luciano Lucignani, il critico che vent’anni prima aveva profetizzato che “il nome di Orson Welles nella storia del cinema americano resterà soprauo, se non soltanto, come quello del marito di ‘Gilda’.” In quello stesso 1969 Welles lavorò per due giorni alla Reggia di Caserta per interpretare Luigi XVIII di Borbone, re di Francia, nel Waterloo di Sergej Bondarčuk; e poi ancora a Roma, nei panni della superspia Bresnavich di Leera al Kremlino. “C’è un vuoto enorme,” dichiarò a Cereo del “Corriere”, “nella vita di un aore costreo a fare di se stesso soltanto uno speacolo.” “Perché allora non legarsi a una casa di produzione?” gli chiese il giornalista. “Perché vendo il mio lavoro, non la mia persona,”40 rispose Welles mordendo il sigaro. Nello stesso periodo Orson girò fra Veneto e Jugoslavia alcuni speciali televisivi per la CBS, fra cui un Mercante di Venezia rimasto incompiuto a causa del furto di due rulli da un ufficio di Roma. Il montaggio venne realizzato negli studi romani della Safa Palatino, dove, nel febbraio 1970, Welles fu visto chiudersi a chiave insieme alla sua giovane bellissima assistente jugoslava. Orson aveva conosciuto Oja Kodar all’epoca del Processo, durante alcune riprese a Zagabria, e la ragazza aveva a poco a poco preso nel suo cuore il posto di Paola Mori. È la donna con cui Welles rimarrà fino alla fine della vita, l’ultima musa con cui inventerà e organizzerà ancora mille progei, quasi tui abortiti o interroi. Della storia d’amore fu testimone la nuova nidiata di tecnici italiani che Orson allevò in quel periodo: Mauro Bonanni al montaggio, Giorgio Tonti come operatore e Maurizio Maggi come assistente operatore. Con loro cominciò a girare e Girl from Ipanema, “con Oja Kodar che faceva shopping in via Piave, mentre noi su un pulmino ‘rubavamo’ le immagini,” ha ricordato Maggi. “Poi abbiamo iniziato a girare alla Safa Palatino, che Welles reputava lo stabilimento cinematografico più bello del mondo […]. Non
puoi immaginare quante cose avesse per la testa Welles! Un giorno lavoravamo a Ipanema, mentre, quando eravamo a Primošten, giravamo Il mercante di Venezia. Poi girava OneMan Band, in cui era un uomo banda con la grancassa e l’organeo. Alla Safa Palatino facevamo delle retroproiezioni con le immagini di Churchill. Con quaro foto Welles creava la scenografia di Londra: perfea! Un giorno mi ha chiamato e mi ha deo: ‘Ci vediamo all’Hilton,’ e lì ho fao un servizio fotografico con lui che si esibiva come ventriloquo con un pupazzo. Abbiano ripreso anche alcuni suoi giochi di prestigio. Contestualmente faceva lo speaker per un documentario americano in Vaticano. Aveva quaro moviole e le organizzava in modo da lavorare contemporaneamente.”41 A Roma il regista, ormai di casa, poteva passare inosservato, ma non quella stupenda ragazza, e il seimanale “Oggi” fece scoppiare un nuovo scandalo: “Moglie via, Orson se la spassa con Oja”, titolò il rotocalco pubblicando anche alcune foto.42 Welles mise Oja sul primo aereo e si trasferì nello studio di montaggio della Safa Palatino. “Non ho un posto dove stare,” disse allo sbigoito Bonanni. Per tre giorni il regista rimase a dormire lì, tra moviole e pizze di celluloide.43 Calmate le acque, la coppia si stabilì a Orvilliers, vicino a Parigi. Fu lì che Welles cominciò a girare F come falso, un pirotecnico saggio su verità e menzogne dove andò a finire anche la sequenza di Ipanema girata a via Piave, quella con i passanti e gli automobilisti romani sbalorditi al passaggio della bellissima Kodar. Terminato F come falso nel 1974, il regista iniziò Filming Othello, un documentario prodoo da una tv tedesca sulla rocambolesca impresa italo-franco-marocchina. Welles tornò appositamente a Venezia, e per cinque giorni salì in gondola alle prime luci dell’alba per indicare all’operatore Gary Graver i luoghi in cui aveva girato Otello un quarto di secolo prima; ma quelle bobine sparirono misteriosamente, forse rubate, e il materiale veneziano non trovò mai posto nel film. Nel ’75 l’American Film Institute gli conferì il premio alla carriera. Welles volò a Los Angeles, ringraziò la platea con un
tenero e magnifico discorso, e acceò il riconoscimento “in nome di tui i mavericks e in omaggio alla generosità di tui coloro fra voi che hanno un domicilio fisso”. Subito dopo, gli avvocati oennero uno sconto sui vecchi debiti fiscali: dopo anni di vagabondaggi, il regista tornò definitivamente in America. I critici italiani avevano intanto imparato ad apprezzarlo. Alcune riviste (“Cinema & Cinema”, “Filmcritica”, “cult movie”) gli dedicarono numeri monografici, il sindacato critici c’imbastì un convegno (Fiesole, 1974) e un quaderno di saggi curato da Paolo Mereghei (’77), cominciarono anche a uscire delle monografie (Saloi, Valentinei). “Oggi si scrive molto su Orson Welles,” osserva Guido Fink nel ’75, “forse per una legge di compenso: compenso agli equivoci in cui per anni certa critica si è crogiolata […]; compenso all’indifferenza che il mercato internazionale del film […] continua a dimostrargli.”44 Persino Aristarco aveva mitigato il suo giudizio; se nella Storia delle teoriche del film aveva traato il regista solo in termini di “narcisismo barbarico”,45 nel Dissolvimento della ragione scriveva che “la tecnica impiegata da Orson Welles in Otello […] e prima ancora in Macbeth – ma in genere in tua l’opera sua – non è affao elementare,”46 un lento progressivo ripensare e affinare i propri giudizi che lo condurrà infine ad ammeere che il cinema di Welles è dotato di “alti pregi artistici” e, finalmente, che Citizen Kane è “un capolavoro”. Rimangono, insopprimibili, alcune autocitazioni sul “virtuosismo”, sulle “struure complicatissime e ricercate, spesso ‘barocche’”, ma trovano stavolta una qualche giustificazione intravedendo nell’opera del regista “una nuova interpretazione del conceo bergsoniano di tempo”.47 Nel 1982 Welles curò il numero natalizio dell’edizione francese di “Vogue”, realizzando appositamente disegni e pubblicando articoli e ricordi. In uno di essi ripesca il suo celebre paradosso sugli aori italiani, rinnegandolo come proprio: “‘L’Italia è una nazione d’aori i peggiori dei quali
stanno sulla scena.’ Spero che il mio amico Luigi Barzini si sbagliasse quando mi aribuì questo giudizio.”48 Il resto dell’articolo è dedicato a Eduardo De Filippo, che in tanti anni Welles non aveva cessato di ammirare: “Gli Italiani sono conosciuti come dei maestri nell’arte della gesticolazione eloquente. […] Eduardo è un Napoletano puro; tuavia, non esiste da nessuna parte un aore più misurato nei propri movimenti. Lui non si contenta di dominare la scena; concentra su di sé l’intera sala… E con un’economia fisica quasi irreale. Non vi è l’equivalente fra gli aori di cinema, che si suppone vengano frenati dalla vicinanza della cinepresa. Nella sala più vasta, Eduardo si proiea in primo piano fino al fondo del loggione. È il più grande aore del mondo.”49 ell’anno i francesi insignirono Welles della Legion d’Onore. Noi italiani, più modestamente, del David di Donatello. Gian Luigi Rondi, organizzatore del premio, gli assegnò un David speciale. Era la primavera del 1983: intanto che baeva la Francia alla ricerca di finanziatori per un suo agognato Re Lear, Orson interveniva a Cannes per premiare i vincitori del concorso. Ad Aldo Tassone, che lo incontrò per “Repubblica”, ricordò la tempestosa esperienza pirandelliana con Totò (“lui era bravissimo, io molto meno”) e rispose per l’ennesima volta all’imputazione di regista barocco (“il primo che mi definì ‘barocco’ fu il compianto Mondadori, che era mio amico. Deo da lui era un complimento”).50 I David sarebbero stati consegnati solo un mese e mezzo dopo, ma già che Welles si trovava in zona si sarebbe potuto fare un’eccezione, organizzando in anticipo una cerimonia speciale tua per lui. Rondi, il critico che trentacinque anni prima aveva stroncato con veemenza Macbeth e Otello, fece tuo il possibile per averlo in Italia: gli promise una macchina che lo avrebbe accompagnato da Cannes a Roma, e un incontro pubblico nell’aula magna dell’Università La Sapienza, al quale avrebbe partecipato Eduardo De Filippo; l’incontro (i giornali svelarono anche il titolo, I sogni e le oiche) sarebbe stato ripreso da tre telecamere che lo stesso
Welles avrebbe controllato da un banco di regia. Il viaggio italiano di Welles venne annunciato, pubblicizzato, chiacchierato e infine annullato, ufficialmente per un incidente al ginocchio occorsogli durante il Festival di Cannes (però al momento della premiazione era salito agilmente sul podio a ricevere una standing ovation da 2500 persone). Rondi rilanciò per il 2 luglio, la data ufficiale della consegna dei David ’83, ma neanche allora Orson poté – o volle – venire a prendersi la statuea al Circo Massimo.
Gian Luigi Rondi: “Ho cambiato idea solo su arto potere” Roma, 9 novembre 2005 Piemontese, figlio di un ufficiale dei carabinieri reali, durante la guerra Gian Luigi Rondi (1921-2016) aveva partecipato ad alcune azioni clandestine con i caolici comunisti in appoggio ai partigiani. Laureato in giurisprudenza, cominciò a scrivere di teatro finché ereditò la rubrica di critica cinematografica sul quotidiano conservatore “Il Tempo”. Un anno dopo (1948) aderì alla Democrazia cristiana, diventando nel tempo un punto di riferimento sicuro – e potente – della cultura cinematografica vicina al mondo caolico. In sessant’anni di aività ha scrio decine di libri, partecipato a svariate giurie, organizzato premi, collaborato a film e lavorato come critico cinematografico per numerosi giornali e riviste. Rondi è stato l’ultimo grande critico antiwellesiano in aività, e sempre per lo stesso giornale. “Non sono mai stato un ammiratore di Welles,” mi disse subito al telefono quando gli chiesi un’intervista. Comunque acceò l’incontro, con generosa sportività, e mi diede appuntamento alla sede dell’ente David di Donatello, che presiedeva dal 1981. La avverto, non cambio idea su nulla. Su Welles comunque ho trovato una recensione in cui dicevo bene di F come falso. Scrissi bene di lui anche quando morì. Per quanto nei necrologi si tende a parlare sempre bene del defunto… RONDI
Cominciamo dall’arrivo di Welles a Roma. C’era anche lei alla prima conferenza stampa all’Excelsior. Cosa ricorda di quei giorni? Nel 1947, di Orson Welles si conosceva soprauo il grande scherzo per La guerra dei mondi e non molto altro, al di fuori del fao che era il marito di Rita Hayworth. Per cui quando venne, come si usa purtroppo anche adesso, non gli facevano domande su di lui ma su sua moglie. Rispondeva a tui che il rischio della Hayworth era che era troppo bella, ma che ci avrebbe pensato lui con La signora di Shanghai a
piegare la sua bellezza ai significati che il personaggio avrebbe dovuto esprimere. L’ho anche incontrato al irinale, mentre girava nei panni di Cagliostro con Gregory Ratoff. Ratoff è un regista che ho sempre detestato, fino al giorno in cui Ingrid Bergman, cui ho voluto molto bene, e che con Ratoff aveva fao Intermezzo americano, mi disse: “Guarda, l’hai giudicato male, lo credevi un orso russo e invece è una persona di grande delicatezza, di grande sensibilità.” Può anche darsi. Io l’ho conosciuto solo in quell’occasione, durante uno scontro che ha avuto con Welles. È la prova che erano entrambe due personalità forti: se Ratoff non fosse stato una personalità forte, non si sarebbe opposto a quello che non era ancora un divo ma comunque un autore con una sua fama. Sa niente della storia con Lea Padovani? Ero molto amico di Lea. E lei era molto amica di Dmytryk, con cui fece Cristo fra i muratori in Inghilterra. Lea mi raccontava di Welles cose molto tenere e molto affeuose. Io le dicevo: “Ma come, se è così scorbutico!” E lei: “No… ma sai, va conosciuto molto bene…” Era una donna innamorata, quasi una moglie. Però fu lei a troncare con Welles. esto l’ho sentito dire, ma non da lei. Io non ho mai seguito i “colori” e i peegolezzi… Il primo film di Welles ad arrivare in Italia fu L’orgoglio degli Amberson, distribuito nell’estate del ’46. Lei lo recensì? Io ho cominciato a scrivere di cinema nel 1947, il 1° gennaio. Se lo hanno distribuito prima non credo di averlo recensito, allora facevo critica drammatica con Silvio d’Amico. ando vide arto potere? ando uscì in Italia, certamente. Forse quello è stato un mio errore critico, non lo avevo apprezzato in modo… Probabilmente lo vidi ancora con il presupposto di questo Orson Welles che mi aveva lasciato interdeo dal punto di
vista umano, o per i peegolezzi che avevo sentito. O forse ero alle prime armi, e non lo penetrai come invece successe in seguito. Rividi arto potere più tardi, in occasione di una presentazione che fecero in Rai, dove curavo dei cicli di film in prima serata su quella che allora era l’unica rete; mi proposero di fare un ciclo sul cinema americano, e in quel ciclo c’era anche arto potere. Erano già gli anni sessanta, o la fine dei cinquanta, ero perciò un critico che oramai il suo mestiere lo conosceva. ando rividi arto potere mi accorsi che era un film di straordinaria importanza, e lo apprezzai moltissimo. Presentandolo, dissi che mi era molto piaciuto e che quando l’avevo visto la prima volta probabilmente non l’avevo capito fino in fondo; mi spiaceva di non averlo valutato a sufficienza e mi giustificavo dicendo che all’epoca ero un critico alle prime armi. Non ho mai trovato una sua recensione di arto potere. Sa che mi fa venire in mente che forse io non ho scrio di arto potere? È per questo che non l’ho trovato quando ho preparato una raccolta di articoli… Forse allora, in Rai, mi ero ricordato di averlo visto e che non mi era piaciuto. Devo averlo visto in un’occasione qualsiasi, senza averne scrio, era un’epoca in cui si facevano pochi articoli… esta comunque è l’unica volta che io ho correo un mio giudizio. È l’unico film su cui ha cambiato idea? Tra l’altro è l’unico film che per combinazione ho rivisto. Io sono come il mio amico René Clair, che diceva: “Lo schermo è bianco, ci appare un film, poi si spegne e torna bianco.” Non torno mai più a rivedere i film, e sono contento di non farlo. alche volta, mentre aspeo che l’autista mi venga a prendere, mi è capitato di aprire la televisione e ho rivisto alcuni film che mi hanno fao addiriura inorridire per quanto li ho trovati brui. Anche per questa abitudine, non ho rivisto nessun film di Welles, salvo appunto arto potere, per una occasione televisiva che mi dee motivo di dire che mi ero sbagliato.
Andiamo alla Mostra di Venezia del ’48. Welles aveva portato Macbeth ma lo ritirò dalla competizione, sollevando parecchie critiche. In quei giorni c’era con lui Elsa Maxwell… Una vipera. … che diceva che la giuria era prevenuta e che avrebbe premiato l’Amleto di Laurence Olivier, come poi avvenne. Molti critici italiani parlarono male del film di Welles; ho trovato la sua recensione da Venezia che… … che non era così favorevole. Però usai termini come “barbarico”… ricordo che mi colpì molto… Ma non era a Cannes? A Cannes ci fu poi l’Otello. Ah, ecco, era per l’Otello che avevo parlato di immagini barbariche… Anche per Macbeth. Però non disse solo quello. Forse il passaggio più forte della sua recensione è questo: “Una ricerca eccessiva dei grossi effei, un frenetico montaggio di primi piani nuocciono alla solennità dell’atmosfera tragica che si veniva addensando: anche Wagner scompare: lo sostituisce… Strauss. Dal fondo del loro sepolcro marmoreo, in Westminster Abbey, le sacre ossa di Shakespeare fremono all’affronto.”1 Un po’ forte. Ci furono anche due infuocate conferenze stampa, che fecero probabilmente aumentare gli equivoci. Ricorda questa atmosfera di ostilità? Le dirò che mi risulta completamente nuova. Ricordo il mio entusiasmo sviscerato per Laurence Olivier (sul “Tempo” avevo scrio un inno per l’Enrico V), felicissimo che poi avesse avuto un premio. Ricordo che per una rara combinazione ero venuto alla Mostra di Venezia con il mio maestro Silvio d’Amico, il quale sentendo un critico (le posso fare il nome, adesso è morto povereo, Vinicio Marinucci, che scriveva sul “Momento-Sera”) che uscendo diceva: “Ma questo non è cinema,” d’Amico gli disse: “Tanto peggio per il cinema!” Ricordo questo entusiasmo per Olivier, ma non
ricordo minimamente un’opposizione fra i due Shakespeare e perciò fra i due autori. A Venezia, nel ’51, lei era in giuria. Otello era in concorso ma la copia che arrivò non era missata bene. C’era alla conferenza stampa in cui Welles ritirò il film? No. Perché, le dirò, io ho sempre fao il critico e partecipato molto raramente alle conferenze stampa, non facevo parte di quelli che allora si chiamavano i “coloristi”, che andavano in giro e raccoglievano anche notizie ma spesso peegolezzi… Non credo di aver mai scrio di questa operazione. L’unica sua presenza a una conferenza stampa di Welles… … è quella del ’47 all’Excelsior, ci ho fao anche un articolo. Ce n’è anche un’altra a Cannes, nel ’52. Lei ne fa cenno in un articolo sui premi del festival, quando il Grand Prix venne assegnato a Otello in ex aequo con Due soldi di speranza di Castellani. Lei scrive: “Welles non meritava alcun premio e il suo aeggiamento intimidatorio tenuto all’ultima conferenza stampa del festival ha aumentato in quanti lo apprezzano per quello che vale il dispiacere di vedergli riconosciute doti che non ha. Ai giornalisti, infai, che lo interrogavano, egli ha trovato modo di dire frasi scortesi per gli aori italiani e non ha esitato ad affermare che non esistono film italiani completamente riusciti. Ai suoi insulti e alla sua boria, comunque, ha ampiamente risposto la giuria francese…”2 Tuo questo non me lo ricordo. L’ho scrio io? Non me lo ricordavo, questo particolare. Il cinema di Welles comunque non le è mai piaciuto molto. No. Confesso che in vecchiaia F come falso ricordo di averlo lodato. In questi giorni sono anche andato a rileggermi il necrologio di Welles e ho visto che globalmente ho finito per dirne bene. Ma non rappresentava un cinema a cui io potessi aderire, mentre riconosco che queste cose barbariche in Shakespeare, soprauo quelle groe e quelle caverne in
cui si svolgeva il Macbeth e anche un pochino l’Otello… L’Otello, per esempio, mi sembra che era stato fao con asciugamani e cose così… per una mancanza di soldi come gli succedeva spesso, si ricordi il Don Chiscioe… Non riusciva a finire i film o perché si meeva con produori sbagliati o perché sperperava i soldi prima. Ma io, insomma, non posso dire di essere stato un ammiratore di Orson Welles. Anzi, ho avuto nei suoi confronti un aeggiamento sempre abbastanza distaccato, non simpatetico. ando Otello venne restaurato e distribuito nel ’92 in sala, tornò a vederlo? No, non vedo mai i film restaurati. E poi, le ripeto, non mi piace riscrivere di film già visti e di cui ho già scrio. Comunque il giudizio complessivo su Welles, mi dispiace, non l’ho mai dato positivo, salvo per questi ultimissimi film. Gli ho fao poi un omaggio, dopo che lui è morto, quando dirigevo la Mostra di Venezia, proieando dei suoi inediti tra cui Portrait of Gina. Fu la Kodar a portarmelo. È vero che alla Lollobrigida non piacque? Non era molto contenta né dell’incontro con Welles né di questo film, però è venuta per vederlo. Mi diceva: non è che mi convinca molto, comunque se le può far piacere vengo; ed è venuta… Faccio un passo indietro. Nel ’62 la Mostra di Venezia aveva annunciato in concorso Il processo; lei era fra i selezionatori di quell’edizione. Sì, facevo parte della commissione di esperti, quelli che oggi sono i selezionatori. Ricordo che Il processo l’abbiamo visto a Parigi. Il direore era Domenico Meccoli. Siamo andati e l’abbiamo scelto. A me per esempio Il processo è piaciuto. Però poi non arrivò la copia definitiva e anche Il processo venne ritirato dalla competizione. Cos’era successo? Meccoli disse che era un dispeo che gli avevano fao. Il film non arrivò credo perché c’era stata una polemica con
Orson Welles. Ricordo Meccoli molto irritato con Welles perché questo film che noi avevamo scelto (convinti, perché ci era piaciuto), lui non l’ha dato; ma non l’ha dato con delle giustificazioni che erano offensive per la Mostra, per quello che io ricordo vagamente. Il povero Meccoli non c’è più, ma ricordo la sua profonda irritazione per un film scelto, annunciato, e poi all’ultimo momento cancellato. Nel 1983 lei decise di tributare a Welles un David speciale con una motivazione anche piuosto articolata: “Per aver portato un contributo innovatore e profondo alla evoluzione del linguaggio cinematografico nell’ambito di una aività artistica che ha esplorato con prepotente originalità e spirito di indipendenza le forme più diverse della rappresentazione.” Aveva cambiato idea? Un momento: io ero presidente del David, c’era una giuria che ha votato, con Giulio Cesare Castello, Sergio Frosali, allora critico della “Nazione”, e parecchi altri… Alla morte di Luchino avevo istituito questo premio “David Luchino Visconti” con una giuria di critici cinematografici italiani fra i più qualificati, critici e saggisti… Furono loro che ovviamente decisero di darlo a Welles, io non ero neanche in giuria. Ma io non ne ho affao discusso, ho deo vabbè diamoglielo, non è che… Però non mi pare che Orson Welles sia venuto. Sembra che all’ultimo momento abbia addoo una scusa… So che non è venuto. Che fine ha fao il premio? Sarà stato dato a qualcuno. Altrimenti è ancora qui. Un momento, chiedo subito in segreteria… No, noi non ce l’abbiamo. Forse gliel’avrà fao pervenire uno dei critici che gliel’aveva assegnato. A parte lei, mi sembra che quelli che si sono accaniti con un livore anche eccessivo nei confronti del cinema “barocco” di Welles fossero tui critici di ispirazione marxista, gli Aristarco, i Casiraghi, i Barbaro. Badando molto al contenuto, un “eccesso” di forma poteva sembrare contrario a certe istanze che
il cinema avrebbe potuto avere. Esisteva secondo lei nella critica questo tipo di opposizione ideologica? La critica cinematografica è sempre stata tua abbastanza di sinistra, anche la giuria del “David Luchino Visconti”; e il premio proposto a Welles aveva avuto il consenso unanime di tui. Barbaro non aveva nulla a che vedere con la critica cinematografica in sé: era un saggista, intelligente, aperto a tante idee, anche di rinnovamento dei linguaggi… Per quello che riguarda la critica cinematografica di sinistra, diciamo pure marxista, potrei magari acceare Aristarco. Ma non mi risulta che ci fossero delle chiusure ideologiche nei confronti di Welles. Essendo di formazione crociana, io sono sempre stato uno che teneva molto alla forma, e magari non mi preoccupavo molto del contenuto né delle ideologie, tant’è vero che potevo anche acceare dei film che potevano non essere conformi ad alcune idee che potevo avere professato io in quegli anni. Anche se io vengo dai partigiani caolici comunisti, tua la mia formazione è stata con i d’Amico, con Franco Rodano, Adriano Ossicini… Erano anni in cui la politica aveva un peso nelle valutazioni delle persone, degli autori, quello di sicuro, ma non mi ricordo onestamente una simile nea distinzione politica. Forse perché non essendo molto interessato a Welles non stavo a vedere chi era a favore e chi era contro. Io certamente ero contrario, per il suo modo chiamiamolo raffazzonato di fare il cinema: appunto, le dico, gli asciugamani in testa per Otello… Ma mi colpivano quelle rocce, quelle caverne, quei dirupi, che mi avevano fao parlare di cinema barbarico… Lei ha conosciuto bene Aristarco. Gli ho voluto molto bene, è stato per me un caro amico, lui e la moglie. Ovviamente lui era un marxista con delle teorie sue anche sul cinema, che io non ho mai condiviso. Non ho mai condiviso i suoi aeggiamenti su certi autori all’epoca di “Cinema nuovo”, mentre quando era soltanto collaboratore del primo “Cinema” era una persona molto più tranquilla, che seguiva direive, non dico ideologiche ma diciamo estetiche, molto equilibrate. Dopo, a mio parere, quando ha voluto
servire l’ideologia, o l’estetica (il suo grande mito era Lukács per intenderci), allora ovviamente io non ho più condiviso certe sue opinioni. Ma devo riconoscere che è stato uno dei teorici e degli studiosi di cinema più importanti che abbiamo avuto, non si può prescindere da Aristarco. Noi eravamo molto legati. Tanto è vero che mi invitò a parlare sul cinema italiano all’università dove era docente, e mi lasciò discutere del neorealismo sapendo che le nostre idee comunque combaciavano. Ugo Casiraghi lo ha conosciuto? Poco, perché lui stava a Milano. Era il critico dell’“Unità” di Milano. Lo incontravo qualche volta ai festival. Dovessi dire, sul piano ideologico mi sembrava quello che adesso si dice un “massimalista”, era uno che veramente andava avanti come un carro armato. Però era una brava persona. Comunque non ci ho avuto mai molti rapporti, proprio per una differenza di cià non ci si incontrava mai. Un altro milanese, Alberto Mondadori, che fu fra l’altro amico di Welles, lo conobbe? Io Alberto l’ho conosciuto durante la guerra in montagna, dove lui era in vacanza, reduce dalla guerra in Africa, pensi un po’. Una conoscenza di villeggiatura, non altro, di lui non so nulla. Non lo rivide a Venezia? Mai, mai, solo l’occasione di una vacanza. Ricordo che in Africa si era preso l’ameba, di cui si lamentava moltissimo. Vorrei leggerle un passaggio da uno dei suoi ultimi libri, in cui lei fornisce un giudizio di Welles, partendo dal personaggio: “La sua molteplicità di idee, la genialità delle sue trovate anziché a lode gli erano imputate a difeo e per questo tua la sua carriera – relativamente breve – era stata disseminata di ostilità anche perché lui vi aggiungeva, di suo, il caraere e quel gusto provocatorio di essere e di voler apparire un personaggio scomodo che, per indole e per istinto, si dava perennemente in speacolo, fino a fabbricarsi aorno una vera
leggenda, quella del selvatico, dell’aggressivo, del rustico e soprauo dell’imprevedibile. Con tue le conseguenze del caso.”3 È il mio ultimo parere su di lui, questo lo condivido, perché l’ho scrio pochi anni fa. Suona un po’ come una giustificazione, da parte sua e di altri, dell’incomprensione che ci fu nei confronti di Welles. Ma certamente. Welles è stato un uomo contestato, vilipeso, a volte anche ingiustamente, altre volte l’ostilità era motivata dai suoi aeggiamenti. este frasi le meditai molto. Comunque di Welles l’unico film su cui ho cambiato idea è arto potere. Non sono come Giovanni Paolo II che chiedeva scusa, ma insomma… ho deo che mi è dispiaciuto.
18. Welles & Rossellini
Addio soldati piumati e grandi imprese che fan virtù l’ambizione, addio. Addio nitrito dei cavalli e squilli delle trombe e voi trascinanti tamburi, addio pifferi acuti e dogali bandiere, nobili aributi, orgoglio, pompa e cerimonia di guerre gloriose, e voi congegni mortali che con rude voce imitate l’orrido grido di Giove immortale, addio per sempre. Il destino di Otello s’è compiuto. Otello (Orson Welles) in Otello
Welles sperava ancora di riuscire a realizzare qualcosa. Intanto che lavorava agli eterni incompiuti, Don Chiscioe e e Other Side of the Wind, cercava finanziatori per i suoi ultimi progei, Re Lear, I sognatori. E e Cradle Will Rock, il film che lo avrebbe riportato in Italia – gli interni erano programmati a Cinecià – se un aimo prima di firmare il contrao i produori non avessero fao marcia indietro. Continuò a cogliere le occasioni più varie – dallo spot di un whisky all’ospitata in dischi hard rock – per “meere denaro in bolgia”. E divorava enormi quantità di cibo, piacere a cui si era ormai abbandonato senza remore, condannandosi a un’evidente obesità. Con una certa coerenza, aveva posto il suo quartier generale al Ma Maison, il ristorante di Los Angeles che preferiva (anche perché il proprietario cinefilo gli faceva credito); nei primi anni Oanta, il Ma Maison era diventato una sorta di succursale di Hollywood ma Welles lo
frequentava dagli anni seanta, prima che diventasse rinomato. Al Ma Maison incontrava amici, dava appuntamento ai produori, esercitava la nobile arte della conversazione; molti anni dopo, le sue chiacchierate con Henry Jaglom, registrate al tavolo, sarebbero diventate un libro. Chi passava da Los Angeles sapeva di trovarlo lì. Gilles Jacob, il direore del Festival di Cannes, raccolse in quel ristorante tua la sua amarezza nei confronti di un mondo, quello del cinema, che Welles detestava ormai apertamente. “Li guardi,” gli disse indicandogli cineasti e addei ai lavori seduti nel dehor. “Guardi come si pavoneggiano con la loro pelle abbronzata, le loro squallide faccende di leo, la loro cocaina a portata di mano… Guardi come hanno paura di perdere il loro posto, gli sguardi assassini e i sorrisi da cobra. L’altro giorno uno di quei cobra, un ragazzino di vento’anni, vicepresidente in uno studio, alla MGM credo, ha chiesto a Billy Wilder di raccontargli cos’aveva fao nella vita. A Billy Wilder, si rende conto? E lo sa cos’ha risposto Billy? Ha ribauto: ‘You first!’” i Welles esplose in una risata. Poi proseguì a voce alta, meendo in imbarazzo Jacob che lì dentro conosceva diverse persone. “Ne approfii, mio caro amico, lì c’è tua Hollywood… Sì, i topi sono lì, i direori degli studios, gli aori, i registi, gli avvocati, gli agenti, le donne, le donne! E tua questa merda che producono oggi, non è forse la vioria dell’idiozia e dei quarini? Hollywood è diventata un barile che rotola verso l’abisso. Si ammazzano a vicenda. Guardi il pavimento di questo ristorante, brulica di cadaveri…”1 Anche Eore Scola lo incontrò in quel periodo al Ma Maison. “Mi presentò a lui Jack Lemmon […],” scrive il regista di Maccheroni, “e Welles ci invitò al suo tavolo. Debordante e sorridente disse in italiano che la sequenza iniziale di Una giornata particolare era terrificante (traduzione leerale di ‘terrific’, parola sicuramente elogiativa, in inglese: ma il suo sorriso ironico e la sua buona conoscenza dell’italiano mi fecero dubitare delle sue intenzioni). Aggiunse, sognante, che
il più bel posto del mondo nel quale aveva lavorato era l’Italia: ‘È il paese dove si possono far debiti con maggior facilità e dove ho ricevuto più anticipi per film che non ho mai fao.’”2 In quello stesso ristorante Welles andò a mangiare la sera del 9 oobre 1985 con Barbara Leaming e Alessandro Tasca di Cutò. Il maino dopo, il cameriere entrò nella sua stanza e lo trovò inerte: un infarto lo aveva stroncato all’alba, mentre baeva a macchina appunti per un nuovo film. Welles non volle essere seppellito in America, il paese in cui era nato e da cui era fuggito, né in Francia, da cui era infine rimasto deluso per il mancato finanziamento di Re Lear. Né, tanto meno, in Italia. Il paese che ce lo ha sorao anche da morto è la sua ultima patria, la Spagna. Seguendo le volontà del padre, Beatrice Welles ne interrò le ceneri a Ronda, una piccola località non distante da Siviglia, nella faoria del toreador Antonio Ordóñez, dove Orson aveva trascorso in gioventù giorni felici. Cresciuti ed educati dal suo genio, gli ex collaboratori italiani di Welles hanno proseguito la carriera portando sulle spalle un’eredità ingombrante. Oberdan Troiani ha continuato a incolpare Welles di avergli rovinato la carriera, non solo per averlo spinto a rifiutare ingaggi più remunerativi ma anche per averlo abituato a standard qualitativi troppo elevati; “lavorai anche con Visconti,” diceva, “ma dopo Welles tui gli altri mi sembravano delle schiappe.” Roberto Perpignani, dopo essersi fao le ossa sul Processo, faticò a trovare lavoro proprio perché allora avere in curriculum Welles era controproducente, dopodiché è diventato uno dei nostri montatori più importanti. Mauro Bonanni ha conservato per anni a proprie spese migliaia di metri del Don Chiscioe affidatigli da Orson in persona – poi assegnati dopo una lunga causa a Oja Kodar. I film e i sogni di Welles hanno continuato a vivere, rinnovandosi e trasformandosi a ogni uscita, ora in meglio ora in peggio. In Italia la versione integrale di Citizen Kane è arrivata per la prima volta nel 2004, in dvd, pubblicizzata ed
elogiata da critici eminenti ma penalizzata da un riversamento digitale sparagnino; e solo allora ci si rese conto che l’ultima versione distribuita al cinema era monca di dieci minuti. Nel 1980 era intanto saltata fuori la copia integrale di Macbeth, con l’accento scozzese e i lunghi piani sequenza voluti dal regista, una versione che ha fao ricredere diversi esegeti sull’importanza e la coerenza del primo Shakespeare cinematografico di Welles. Il Don Chiscioe è stato oggeo nel 1992 di uno sciagurato “restauro”, rappezzato da Jess Franco con brani del televisivo Nella terra di Don Chiscioe, che ha unito l’intera comunità internazionale degli studiosi di Welles, orripilati dall’operazione. Dopo molti tentativi e altreante baaglie legali, nel 2018 e Other Side of the Wind è stato ricomposto e portato a termine grazie alla tenacia dei vecchi amici di Welles (Bogdanovich, Marshall, McBride) ma soprauo ai miliardi di Netflix. E Otello? Negli anni, Welles era riuscito a ricomprarne i dirii, rientrando nel legale possesso dell’opera. Alla sua morte, la figlia Beatrice ha cavalcato la leggenda del film “perduto” per imbastire un’operazione controversa: recuperata una vecchia copia americana, una variante dell’edizione distribuita in USA nel 1955, ha “aggiustato” senza troppi riguardi la colonna sonora, riregistrando musiche e rumori e ridoppiando baute.3 Un restauro assai discutibile, che ha però il merito di aver riportato il film al cinema e, araverso vhs e dvd, anche in casa. Era il 1992: i quarant’anni di Otello furono celebrati a Essaouira, l’ex Mogador, dove il sindaco inaugurò una piazza intitolata a Welles, e vennero a festeggiare Gina Lollobrigida, Dennis Hopper, il re del Marocco Hassan II e André Azoulay, consigliere reale per l’economia e i media, che a nove anni aveva fao la comparsa nel film. L’edizione più brua di Otello ha così avuto recensioni ammirate e commosse. In America, dove all’epoca non se l’era filato praticamente nessuno, e anche in Italia: “Uno dei film più grandi d’uno dei registi più geniali” (Tornabuoni sulla “Stampa”); “uno dei capolavori del cinema moderno”
(Ferzei, “Il Messaggero”); “immenso” (Paolo Mereghei, “See”); “la fedeltà di Welles a Shakespeare è fuori discussione” (Morandini, “Il Giorno”); “chi non ama il cinema di plastica è pregato di non lasciarsi sfuggire l’occasione” (Bignardi, “Repubblica”). Nessun mea culpa da chi a suo tempo aveva scambiato la fantasia e la vitalità di Welles per gli sterili esercizi di un megalomane. L’ultimo capitolo riguarda la bellissima versione italiana, la più lunga e più antica, distribuita in sala nel ’51. Riscoperta da chi scrive, è stata restaurata dalla Cineteca nazionale, che la conservava nei suoi cellari: nel 2015, sessantaquaro anni dopo il suo ritiro dalla Mostra, il film italiano di Orson Welles ha così potuto avere la sua “prima” al Festival di Venezia, in una serata di gala che lo ha visto proieare insieme a una ricostruzione del Mercante di Venezia. Riconoscere che Otello è un capolavoro e affermare che il suo autore è uno dei più grandi registi di tui i tempi fa oggi parte del catalogo delle ovvietà. Eppure le asce di guerra non sono state tue seppellite. Parte della critica italiana continua a mantenere fra i suoi vizi/vezzi un pregiudizio a metà fra il romantico e lo psichiatrico, mutuato da analoghe prese di posizione della critica statunitense: che Welles, in fondo, non avesse davvero voglia di terminare i suoi film; che i quaro anni di riprese e montaggio di Otello o l’incompiutezza del Don Chiscioe siano dovuti a un suo desiderio di lavorarci in eterno, un cupio dissolvi nell’infinitezza della propria opera. esta ipotesi, se da un lato vorrebbe riscaare Welles dall’accusa di regista ingestibile e disubbidiente, facile agli sforamenti, costoso, imprevedibile e nemico dei produori, ripropone di fao gli stessi pregiudizi soo un’altra forma: quella dell’autore egocentrico preso solo dalla propria opera. Alessandro Tasca di Cutò s’imbestialiva quando gli parlavano di Welles come di un regista poco professionale: “In fondo la carriera di Orson è servita da alibi per i profondi limiti di tanti produori mediocri e maneggioni da quaro soldi. Uno di questi personaggi, ad un party hollywoodiano mi ripeté il solito luogo comune: ‘Peccato che un simile
talento sia così inaffidabile.’ Gli chiesi quanti film avesse mai fao con Orson, sentendomi rispondere che in effei non lo conosceva. ello che gli dissi io non si può meere nero su bianco.”4 Welles sapeva essere puntuale e veloce, non sforava né il budget né i giorni di riprese, a pao che le condizioni produive glielo consentissero. I veri problemi venivano dall’inaffidabilità di coproduori come Scalera; cacciato dalla RKO all’epoca di It’s All True ed esautorato da Harry Cohn sul montaggio di La signora di Shanghai, Welles aveva dovuto rivolgersi a piccoli finanziatori che gli garantivano tua la libertà che desiderava ma che spesso, non avendo i mezzi delle major, non riuscivano a mantener fede agli impegni presi. L’unico germe di verità contenuto nella presunta “paura della completezza” riguarda, come ha osservato Joseph McBride, “l’impossibilità caraeriale di Welles a lavorare alla catena di montaggio.”5 Come Chaplin e Rossellini, anche Welles aveva il coraggio di fermarsi tue le volte che gli occorreva per preparare meglio il suo lavoro. Se Lo straniero, La signora di Shanghai, L’infernale inlan, Il processo furono in qualche modo “opere su commissione”, di Otello e Don Chiscioe l’unico vero commiente era lo stesso Welles, ed era perciò solo a se stesso che doveva rendere conto: da produore dei propri film, poteva permeersi di decidere come e quando lavorare, se interrompere le riprese in cerca di nuove idee, se riaprire un progeo che qualche mese prima aveva considerato concluso, libero di elaborare e rielaborare senza porsi scadenze. Ciò che successe a Welles nel nostro paese non deve far credere che gli italiani fossero gli unici a traarlo male, o i peggiori. Molte delle stesse accuse gli vennero mosse altrove, spesso con le medesime parole. Pure in Francia: “Il rimprovero più comune che gli è stato rivolto”, scrisse Bazin nella prima versione del suo saggio, “è di essere l’istigatore di un vasto bluff: il suo.”6 Negli Stati Uniti, una solida corrente antiwellesiana continua a sminuire la perdita della versione
integrale dell’Orgoglio degli Amberson, prende le difese del vilipeso studio-system nei confronti dell’indipendente e baldanzoso cineasta, e insiste a ridimensionare il suo apporto creativo a Citizen Kane (si veda il revanscistico Mank di David Fincher, che ricicla la vecchia idea di Pauline Kael secondo cui il film sarebbe stato perlopiù farina del sacco di Mankiewicz). Ma nel nostro paese Welles fu ostaggio di una situazione critica tanto assurda e frustrante da apparire tragicomica. “In Italia,” ha deo il regista a Bogdanovich, “sono sempre stato sul fondo. […] In molti paesi ti rispeano solo se non ci vivi. Pensano che devi avere qualcosa che non va, se vai ad abitarci. Così, quando sono andato per Cagliostro ho fao furore per una seimana con tui gli intelleuali esistenti sulla piazza, dopo di che non sono più stato nessuno perché vivevo lì. ‘Chi è quello? Avrà qualcosa che non va, o non starebbe in Italia.’”7 Welles e l’Italia s’incontrarono ma non si presero, e in sei anni di turbolenta permanenza continuarono a mancare l’appuntamento. Artista perfeamente “fuori sincrono”, Welles aerrò a Ciampino con sei ore di ritardo e ripartì dal set di Steno con tre giorni di anticipo. In piena febbre neorealista, si propose come regista sperimentale (Macbeth) e aore commerciale (Cagliostro), annunciò film che non avrebbe mai realizzato (Cyrano, Enrico IV, Operation Cinderella, Capitan Noè, Luna di miele) rimandando continuamente la presentazione della sua opera più sofferta (Otello). L’opposizione di fondo era tua artistica: da parte di Welles, una concezione smisurata, totale, del cinema, e dall’altra l’ossequio a canoni consolidati, segnatamente neorealistici. Welles ebbe la sfortuna di arrivare nel momento cruciale del dibaito sul nuovo verismo cinematografico, a cui partecipavano le due opposte fazioni, quella comunista e quella caolica. Assetata d’impegno sociale dopo i fessacchioi telefoni bianchi del regime, la critica d’ispirazione marxista scambiò il corrusco Macbeth e il
vertiginoso Otello per inutile calligrafismo. ella caolica era ugualmente affascinata dalla prospeiva di un cinema tuo sulla “realtà”, e predicava una concezione “opposta alle tesi formalistiche che fanno del cinema un giuoco d’ombre, di parole, di situazioni e complicazioni inventate”;8 opposta insomma a tuo quello che un film di Welles, con le allucinazioni di Macbeth e le sparatorie fra gli specchi del Luna Park, poteva apparire o rappresentare. Welles dovee rendersi subito conto che il suo cinema rivoluzionario e pirotecnico stava rompendo le uova in troppi panieri, ma continuò a manifestare disprezzo per il neorealismo, incurante di alienarsi in un colpo solo le due conventicole italiane, le uniche in grado di garantire la sua stessa sopravvivenza di cineasta. “Il suo pensiero sui film realisti di scuola italiana,” riferiva Lanocita con una punta di divertimento, “è piuosto sommario: per essi, afferma, tuo consiste nel mostrare l’unica stanzea in cui si stipano i sei componenti d’una famiglia povera: la madre è in un angolo e fa da cucinare sulla stufa; dopo questa immagine il film potrebbe essere finito. D’altronde, dice Welles, io non ho il temperamento lirico di un Chaplin o di un De Sica. ‘A me non interessano le viime, interessano gli eroi, nel senso greco della parola.’”9 Troppo direo, di sicuro poco diplomatico. In effei la vita avventurosa di Welles e le sue opere straordinarie scaturiscono quasi sempre da un antagonismo, da uno scontro, da una polemica, da quella contriety che James Naremore ha definito “il suo modo personalissimo di essere sempre e comunque all’opposizione.”10 I suoi film esprimono anche questo, un caraere incoercibile che vuole confrontarsi e contrapporsi, un anticonformismo che vive nei contrasti, anzi, che spesso li fomenta. I compagni di lavoro di Welles lo ricordano geniale, generoso, magnifico, veloce, acuto, ma anche come un uomo che infondeva un grande timore fisico, un provocatore, un personaggio rissoso, che si fermava solo quando gli si rispondeva con la stessa intensità.
Il nostro paese reagì sminuendo l’artista e ridicolizzando l’uomo. Nell’odissea italiana di Welles, i pregiudizi estetici e ideologici si congiungono a preconcei umani, confondendosi fra loro in un continuo girotondo: la nostra critica era sconcertata dai suoi movimenti di macchina non meno che dalle sue abitudini alimentari. L’Orson Welles prestigiatore, beone, sciupafemmine, vorace, eccentrico, malvestito è anche l’autore di film ridondanti, confusi, roboanti, eccessivi: ad Aristarco e soci, il secondo Welles apparve come l’ovvia e prevedibile conseguenza del primo. “In Italia il senso della ‘personalità’ è assai sentito,” notò acutamente Todisco dopo la caiva accoglienza del Macbeth. “Forse in nessun paese si reagisce tanto, rispeo a questa particolarissima essenza distintiva dell’uomo, essendone il nostro popolo assai provveduto. […] Welles, che è uomo di personalità molto forte e spiccata, non poteva non sollevare intorno, oltre ai peegolezzi inevitabili, anche questo quasi nascosto aeggiamento antagonistico, che in senso lato non saprei definire se non come una forma di ‘gelosia di mestiere’.”11 Non è un caso che l’esilio italiano di Welles abbia prodoo Otello, che quei contrastati sei anni di residenza si siano concretizzati nel “dramma del tradimento” per antonomasia. L’intera opera di Welles può essere lea come una riflessione sul senso di colpa e sul tradimento, temi che nel periodo italiano trovarono abbondante linfa e nutrimento visto che il rapporto fra il regista e il nostro paese si consumò all’insegna del contrasto e del voltafaccia. Valmarana aveva ragione, Otello è anche una metafora biografica; ma la tragica vicenda del Moro non è solo la storia di un amore “così tempestoso e tumultuoso da finire per soffocare il suo stesso oggeo, […] la cultura europea”, quanto la parabola di un artista straniero arao e ospitato da una cultura che in realtà lo invidiava e che si preparava a tradirlo. Welles era un uomo libero, e un artista ancora più libero, ma la gran parte dei nostri recensori era lontana le mille miglia dal capirlo, soprauo per condizionamenti ideologici,
e per giustificare questa lontananza prese ancora di più le distanze usando appellativi fintamente lusinghieri. “Enfant terrible”, “genio”, “wonder boy”: per anni la nostra stampa indicò Welles con questi epiteti, nell’intento di ridimensionare un fenomeno arduo da comprendere. “Non sono affao un genio,” si difendeva Welles, “e non ho mai preteso di esserlo. Secondo me, nel cinema ci sono soltanto due geni: Chaplin e Griffith. Figuratevi un po’ se potrei pretendere di essere io il terzo!”12 Né la politica riuscì a offrirgli un riparo: arrivato dagli USA in odore di persecuzione maccartista, Welles venne aaccato con maggiore virulenza proprio dalla sinistra marxista; e anche dalla destra clericale, che nell’alleanza con Hollywood vedeva un efficace contraltare al neorealismo ideologico. Svalutato l’uomo e l’artista, i nostri produori gli offrirono ruoli buffoneschi negandogli l’opportunità di una regia prestigiosa; e intanto il piccolo ambiente romano si esercitava nel gioco a sminuire tipico di chi non ha talento e invidia quello altrui. L’errore di Welles, semmai, fu di averci messo sei anni per capirlo. Incrociandolo un paio di volte, Alberto Lauada si era reso perfeamente conto che Orson era caduto in una ragnatela di vacue gentilezze nella quale rischiava di finire invischiato e divorato. Lo spiegò bene lo stesso Lauada raccontando di un altro esule cinematografico, Charles Chaplin, cacciato dagli USA per sospeo comunismo, e scappato dall’Italia subito dopo averne annusato l’aria: “Aveva capito immediatamente che la cordialità dei ‘Chaplin, come va?’ con la mano sulla spalla, dei ‘Chaplin, voi magnà?’ era cordialità esagerata, lo ha spaventato, e ha tagliato la corda velocemente e non ha mai più messo piede in Italia, perché ha sentito, con la sua conoscenza del mondo e la sua diffidenza istintiva, il pericolo di questa confidenza romana che già aveva distruo Orson Welles, che, con la sua bontà, aveva creduto alla cordialità romana precipitando in certe brue trappole.”13
Per quanti artisti straordinari e intelleuali finissimi ospitasse, la mitica Roma di via Veneto era in realtà un piccolo mondo provinciale. Uno come Orson Welles non ce lo meritavamo proprio. Ma siamo sicuri che oggi le cose andrebbero diversamente? Se un altro autore dalla personalità vivace, poniamo entin Tarantino, decidesse di trasferirsi a piazza di Spagna, non verrebbe anche lui celebrato per quindici giorni in tui gli studi televisivi e i campidogli per essere poi ridimensionato a un bizzarro cineasta come tanti, mentre qualche bella penna si eserciterebbe a dimostrare che in fondo Pulp Fiction non è quel po’ po’ di capolavoro che si è sempre deo? Resta la curiosità di sapere di più su alcune ipotesi di collaborazione fra Orson Welles e i colleghi italiani. In sei anni di residenza nella nostra penisola, l’autore di Citizen Kane rischiò di lavorare insieme a De Sica, Lauada e Rossellini; nessuno di quei progei venne realizzato, e di quei contai sono rimaste vaghe tracce sulla stampa dell’epoca. Fra ’48 e ’50 Welles tentò insieme a Carol Reed di farsi cedere da De Sica “il soggeo ideale per un grande film” (Miracolo a Milano?) che il regista italiano avrebbe poi invece deciso di realizzare in proprio.14 Nel gennaio ’51 Lauada lo corteggiava per averlo come aore in una pellicola che stava preparando (Il cappoo? Anna?): “Sei giorni di lavoro e ci terrei enormemente,” gli disse. Orson diede un sì di massima ma la collaborazione non ebbe mai luogo.15 Il progeo più stravagante è quella Vita di Gesù che Rossellini avrebbe dovuto scrivere e Welles interpretare e dirigere. Una boutade fra cineasti? L’abbaglio di un cronista fantasioso? Il recupero di una sceneggiatura del ’41, in cui Welles aveva trasferito i Vangeli ai giorni nostri? Una versione iniziale della Salomè? La successiva acrimonia di Orson, unita alla volubilità di Roberto, è comunque tale da suggerire qualche concreto motivo di inimicizia: una promessa non mantenuta, un’idea scippata, una collaborazione troncata sul nascere, o tue e tre le cose insieme.
Un’ipotesi si potrebbe cercare tra i progei che in quel periodo Rossellini discuteva febbrilmente con Selznick e i suoi emissari; fra questi c’era un altro soggeo biblico, la Maria Maddalena pensata per Jennifer Jones. E anche una storia d’ambiente circense: non si dimentichi la misteriosa sparizione del documentario di Orson sul Circo Zoppé, avvenuta subito dopo che Roberto aveva assistito alla prima proiezione del girato alla Tecnostampa. Caso volle che qualche anno dopo, Chaplin regalasse a Rossellini un soggeo, Shadow and Substance, su un personaggio simile alla Nannina di Il miracolo chiusa in un convento di monaci malvagi; Chaplin gli suggerì che Welles sarebbe stato perfeo nel ruolo dell’abate, ma il consiglio cadde nel vuoto insieme al progeo.16 In quanto alla Vita di Gesù, Rossellini ne portò effeivamente una sullo schermo nel ’75, con il titolo Il Messia; Welles aveva intanto interpretato Cristo in voce, doppiando per il mercato anglofono il crocifisso di Don Camillo. L’incontro professionale tra Welles e Rossellini non si concretizzò mai. E mentre l’uno veniva irriso e messo da parte, l’altro rimase, a torto o a ragione, la personificazione ideale del neorealismo, e il polo di arazione di tua la critica italiana, rossa e pure bianca. Forse per questo Rossellini fu per anni il bersaglio preferito di Welles: arrivato nel ’47 a Roma, Orson aveva citato Roma cià aperta e Paisà fra i film italiani che lo avevano più colpito ma dall’estate successiva denigrò il collega italiano tue le volte che poteva. Al di là di giudizi direi sul cineasta (“è un dileante”, “è un regista che spende e spande”) o sui suoi film (Una voce umana: “I piani cambiano senza una vera ragione”), utilizzò il regista romano anche per irridere la scuola neorealista in genere: assegnando alla Magnani il ruolo del capo della resistenza antihollywoodiana in Operation Cinderella, nel caricaturale Alessandro Sporcacione di e Unthinking Lobster, nella definizione del neorealismo come “una donna speinata che urla al telefono”. Perfino e Immortal Story, secondo una stuzzicante intuizione di Elena Dagrada, sembra nascondere
una parodia del neorealismo rosselliniano, essendo “un po’ la storia di un regista che crede solo nella realtà dei fai, e per far sì che una pura finzione (la leggenda del marinaio che trascorre una noe d’amore con una sconosciuta per volere dell’anziano marito di lei) diventi un fao vero va di persona a cercare un marinaio al porto di Macao (come aveva fao Rossellini per Stromboli), per fargli vivere quella storia; fallendo, perché la realtà non si adaa allo schermo e il regista così muore (come muore il protagonista di e Immortal Story).”17 Rossellini non rispose alle provocazioni di Welles. Però in alcuni deagli biografici i due cineasti sembrano a trai rincorrersi e gareggiare: come il soccorso alle viime del Polesine, beneficiarie dell’incasso della prima mondiale di Otello e del breve incompiuto Santa Brigida che Rossellini preparava nello stesso periodo con Ingrid Bergman; o quando Welles rifiutava una regia scaligera mentre Rossellini acceava di dirigere un Otello verdiano al San Carlo di Napoli; i due curiosi incontri con Totò, direo da Rossellini in Dov’è la libertà…? e pochi mesi dopo partner di Welles in L’uomo, la bestia e la virtù; e un film addiriura condiviso, RoGoPaG, con Rossellini regista dell’episodio Illibatezza e Welles protagonista della Ricoa di Pasolini (che fu alla fine l’unica collaborazione di Orson con un collega italiano di serie A). Difficile immaginare due registi più lontani fra loro come Rossellini e Welles, l’uno dedito a caurare la realtà e mantenerla palpitante, rendendola coscienza colleiva, l’altro impegnato a espandere il conceo di realtà, a farla esplodere nell’esasperazione di un espressionismo individualistico; un cinema coraggiosamente “oggeivo” contro un cinema orgogliosamente “soggeivo”. Eppure i due avevano anche molto in comune: una fiera opposizione a Hollywood, un rapporto confliuale con la critica, alcuni amici (Marlene Dietrich) e nemici (Howard Hughes), una vita sconcertante e “scandalosa”, un legame personalissimo con la religione caolica, un’intima inclinazione verso il moralismo, una
curiosità umana verso l’esperienza, un disinteresse totale per qualsiasi tipo di cinefilia, e una pionieristica passione per il mezzo televisivo. “Welles era l’artista avventuriero,” ha deo Fellini. “Uno come Cagliostro, Casanova, Rossellini.”18 Forse furono proprio le loro stesse affinità a respingerli, condannandoli a percorsi distinti ma paralleli. Salta all’occhio come le contestazioni italiane a Welles coincidano storicamente con un mutato aeggiamento della nostra critica nei confronti di Rossellini: già turbati da Germania anno zero, con L’amore e Stromboli i recensori parlarono apertamente di involuzione, rimanendo legati al Rossellini “partigiano”. Negli stessi giorni la nostra critica sparava a zero su Welles, e non per difendere Rossellini, ma un’idea di cinema rosselliniano di cui ormai non era più partecipe neanche lo stesso Rossellini. La critica di sinistra, soprauo quella, era spiazzata da entrambi: Casiraghi e Aristarco avrebbero voluto un nuovo Paisà, un secondo Roma cià aperta, e invece Rossellini filava come un treno verso il cinema ascetico di Francesco, giullare di Dio ed Europa ’51. L’eco incendiaria di Citizen Kane, film americano contro il tycoon Hearst, li aveva illusi che Welles fosse un “rivoluzionario” di contenuto, mentre il regista preferiva dedicarsi a Shakespeare e indagare il dramma dell’esistenza con tue le armi speacolari che il mezzo gli consentiva, arrivando a risultati spesso opposti a quelli del collega romano. Il cinema di Rossellini tende a una meditazione monacale, quello di Welles a uno scoppio pirotecnico, uno ardisce arrampicarsi verso dimensioni superne, l’altro vorrebbe aprire una buona volta il Vaso di Pandora, il primo vede la vita come un purgatorio provvisorio, il secondo come un anticipo dell’inferno; entrambi affondano comunque il proprio sguardo nelle pieghe più riposte del loro soggeo preferito, l’uomo. In molti marciarono compai contro Welles e contro Rossellini, offesi dal non aver oenuto da nessuno dei due quanto si pretendeva: una fiera presa di posizione contro il capitalismo americano dal primo, e dal secondo l’acceazione
del ruolo di cantore ideologico della repubblica nata dalla Resistenza. Orson e Roberto se ne infischiavano delle aspeative, delle convenienze, delle presunte regole. Come ha deo Adriano Aprà: “Welles e Rossellini, due personalità antitetiche, che non si amavano, almeno in questo si rivelano simili: sono i due grandi fuorilegge del cinema.”19
Roberto Perpignani: “Un senso di colpa enorme” Roma, 3 maggio 2022 Figlio di un fotografo e di una sarta del cinema, Roberto Perpignani era convinto che avrebbe fao il piore e l’assistente sociale. Ma il suo destino si chiamava Welles, fin dall’inizio. “Sono nato nel ’41, quando usciva Citizen Kane,” dice con un sorriso. Una volta imparato il mestiere lavorando come assistente al montaggio del Processo, il suo talento trova la strada definitiva. Dopo il Bertolucci di Prima della rivoluzione, Perpignani ha montato per Bellocchio, Samperi, Faenza, Bolognini, Amelio, realizzando uno stabile sodalizio con i Taviani; dalle sue mani sono passati fra gli altri La Cina è vicina, Ultimo tango a Parigi, La polizia ringrazia, La noe di San Lorenzo, Sogni d’oro, Il postino. Al lavoro di montatore, Perpignani ha affiancato fin dagli anni seanta l’insegnamento al Centro sperimentale di cinematografia, dove ha allevato diverse generazioni di nuovi montatori. A Welles è sempre rimasto legato nel ricordo, e nel senso di colpa per un incarico discutibile, di cui parla qui per la prima volta. Come ha conosciuto Orson Welles? Intanto ero giovanissimo, issimo issimo. E la mia strada era tu’altra: studiavo piura e mi occupavo di bambini con problematiche. Facendo parte di un gruppo del CEMEA, i Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione aiva, avevo preso la strada del sostegno sociale, e la cosa mi appassionava molto. A fine 1961 ricevo una telefonata da Mariano Faggiani, ultimo figlio di una mia sorellastra, che mi dice: “Sto lavorando con Orson Welles, che mi ha chiesto di cercare un altro giovane.” Io rispondo che ho altri progei. Cosa faceva Faggiani con Welles? L’assistente al montaggio. La mia sorellastra aveva quaro figli, il primo dei quali sposato con Patrizia Mori, la sorella di Paola: la famiglia aveva praticamente preso il più giovane e gliel’aveva messo in casa ad apprendere il montaggio.
Dunque io gli risposi che non mi sembrava il caso. Ma ero molto amico di Francesco Venturoli, figlio di Marcello, il critico d’arte di “Paese Sera”; Francesco, che voleva diventare regista, quando viene a saperlo mi dice: “Orson Welles? Corri‼” Vabbè. Vado, molto poco convinto. Lei non sapeva chi era Welles? Certo che lo sapevo, avevo frequentato con passione tui i cineclub dell’epoca. Ma io che c’entravo con il cinema, con Welles, con il montaggio? Io aspiravo a diventare piore. Dunque, lento pede, nel dicembre del 1961 arrivo a Fregene alla Villa Mori, la casa che i genitori di Paola avevano lasciato a lei e a Orson, ed entro in un garage tuo buio, con due punti luce che erano due moviole. Mi meono a un tavolino con un’altra lucea perché potessi imparare a meere in ordine, a suddividere, a realizzare le cose che mi venivano chieste. Dieci giorni dopo, Welles chiede a Mariano di insegnarmi a usare la moviola. Ho imparato a usarla soo lo sguardo di Welles, che come si sa era una persona con un aeggiamento estremamente esigente. Autorevole. Anche autoritario. Con un imbarazzo incredibile, per alcuni giorni ho lavorato su Nella terra di Don Chiscioe, rompendo spesso la pellicola. Erano i corti in 16 mm che sarebbero poi stati trasmessi dalla Rai; ricordo dodici episodi da mezz’ora, poi se ne sono trovati una decina, e non saprei dire se varia la mia memoria o meno. Welles segnava i fotogrammi, mi diceva: “Ecco, tagli qui e prenda questo pezzo,” poi mi sedevo. “Prenda là,” poi mi rialzavo e lasciavo il posto a lui. Lui non toccava materialmente la pellicola, diceva solo: “esto pezzo adesso lo va a meere lì, prenda questo, lo tenga in mano, quest’altro invece lo sposta, lo mee lì, quest’altro lo mee al centro, quell’altro lo mee lì e questo lo mee là…” Tue queste cose dovevo realizzarle nel modo più veloce possibile. Dopo alcuni giorni ero diventato il suo strumento. E questo sono stato per un anno intero. Parlavate in italiano? Welles parlava benissimo l’italiano. Tranne alcune parole… “Bagnatori” invece che “bagnanti”, per esempio. Una
volta disse: “In Italia io mi sono suicidato agli spaghei,” perché ne mangiava in modo spropositato. Parlava italiano, francese, e anche lo spagnolo, tant’è vero che poi le sue ceneri sono andate nella villa di Ordóñez. ando è arrivato Il processo? Mentre finivamo i corti per la tv, lui è partito per Parigi e Zagabria per girare Il processo, lasciando a Mariano e a me da consegnare la versione internazionale di quei lavori. A giugno io e Mariano abbiamo raggiunto Welles a Parigi dove stava finendo di girare il film, alla Gare d’Orsay. Allora non era già più una stazione ferroviaria, il piano terra era una specie di landa disastrata, con spazi enormi che ha utilizzato per le riprese, e dove ha fao collocare le due moviole di Roma. Le aveva fae meere in una cassa e portare lì, c’è mancato poco che finissimo nelle casse pure noi. Io sono arrivato a Parigi per primo, il 4 giugno, Mariano intanto finiva di consegnare le cose alla tv. Il girato veniva raccolto da un’équipe francese di montaggio, della quale il produore Salkind aveva bisogno per giustificare la versione della coproduzione francese, anche se Welles aveva deo: “Il montaggio lo faccio io” – e lo ha fao lui, fino alla fine. L’équipe francese doveva aggiornare i rulli come noi li andavamo portando avanti. Il montaggio della versione francese è lo stesso? Identico. Loro dovevano solo riportare i tagli, niente di autonomo. D’altronde Salkind aveva sperato che il film andasse a Venezia quell’anno, il 1962, e Welles gliel’ha lasciato credere, perché era notevolmente astuto. Salkind c’è cascato con tue le scarpe, come si dice. Il mese di luglio, con il lavoro a metà, Welles è sparito per non so quanti giorni, dimostrando che era impossibile arrivare in tempo per Venezia. Non gliel’ha nemmeno deo, lo ha fao diventare un dato di fao! Welles aveva pianificato fin dall’inizio di non mandare il film a Venezia?
ello che passava nella testa di Welles era indecifrabile. Aveva un’autonomia strategica per la quale solo lui poteva sapere cos’avrebbe fao… Il film si è completato poco prima della fine dell’anno. Ricordo di aver salutato Welles per le vacanze di Natale. Avrei voluto seguirlo in Spagna per il Falstaff ma mi ero innamorato della figlia dell’albergatore da cui abitavo, ci saremmo sposati di lì a poco e Welles non voleva gente sposata. Voleva giovani, anche perché con lui – è una cosa che mi ha segnato per la vita – si dormiva niente. Welles ci lasciava alle tre di noe dicendoci: “Ci vediamo domaina alle nove,” e noi dovevamo tornare a casa, mangiare una cosa, meerci a dormire, e alzarci dopo aver dormito tre-quaro ore. Il lavoro con Welles era totalizzante, non c’erano spazi personali. Poi ti segnava una cosa e tu dovevi tagliare esaamente in quel punto. E se c’era un minimo di autonomia interpretativa, diceva: “Perché ha fao questo?” Rispondevo: “Ma pensavo che…” Mi ribaeva puntualmente: “Lei non deve pensare.” anto è durato il montaggio del Processo? Abbiamo cominciato in giugno e finito a dicembre: i sei mesi canonici per un montaggio con un certo tipo di elaborazione garantita, non tirata via. Io ero un oimo esecutore, senza nessuna autonomia come ho deo. Però c’è un avvenimento curioso accaduto nell’ultimo periodo. Mentre si stava finendo il montaggio, si è associato a noi Fritz Müller, nipote di Renzo Lucidi che era stato montatore per l’Otello e Rapporto confidenziale. Lucidi gli aveva deo che il nipote aveva più esperienza di me e di Mariano, e questo Müller, come tui i piccoli paraculi, è riuscito a farsi meere il nome nei titoli di coda come montaggio, anche se non ha fao un “aacco” neanche per sbaglio. A un certo punto Mariano è tornato in Italia, perché doveva sposarsi, ed eravamo rimasti io e Fritz. Io ormai ero maturato parecchio – con Welles si maturava per forza. ei mesi di apprendistato mi avevano dato la capacità di tenere in mano le situazioni in modo consapevole, non solo esecutivo. Un giorno Welles mi dice: “Vorrei che lei montasse dei pezzi di musica jazz.” Nel
film, l’Adagio di Albinoni era l’identificazione del dramma di Joseph K. ma per tui gli snodi Welles aveva chiesto a un musicista jazz dei momenti di musica da ricomporre come gli tornava utile. Welles voleva che io montassi la musica della scena di Joseph K. quando lascia lo studio di Titorelli e viene inseguito dalle bambine. La scena era montata, bisognava meere dei frammenti di musica che avrebbero finito per costruire un percorso ansiogeno. I pezzi di musica occupavano due bobine da trecento metri, venti minuti di roba. Orson mi dice: “Ecco, sulla prima testa c’è questo, lei prende questo pezzo, lo mee lì, quest’altro pezzo lo mee lì,” e io vado segnando sulle due teste della moviola i pezzi che mi indica, e mi dice anche come utilizzarli, come incastrarli uno nell’altro, sempre con grande lucidità e intelligenza. Doveva andare a prendere Paola e la figlia Beatrice alla stazione e accompagnarle all’albergo, e perciò mi dice: “Io poi devo andare al missaggio, non faccio in tempo a fare questo, lei lo fa per me.” Dico: “Va bene.” Ancora sulla porta, un po’ incerto, mi dice: “Lo può fare?” Io dico: “Sì.” Appena è uscito, mi rendo conto che i jack dell’amplificatore erano invertiti, dunque quello che io avevo sulla prima testa in realtà era sulla seconda, avrei dovuto spostare tui i segni, avrei dovuto cambiare tui gli appunti che m’ero preso, mi si sconvolgeva tuo… Con la sicurezza di chi ha compreso veramente, mi sono deo: ma io ho capito. Ho fao le cose che m’aveva deo di fare, anche se era difficile ricostruirle, bisognava veramente essere molto svegli. Allora: faccio tuo il lavoro, preparo un foglio di missaggio per la sequenza, appunto tui i segni di entrata e di uscita, le dissolvenze, gli incroci, predispongo tuo. Arrivo al missaggio e trovo Welles già seduto, che stava missando un altro rullo con l’ingegnere del suono. Mi chino e gli dico in un orecchio: “Orson, quando lei è uscito – ci si dava del lei ma ci si chiamava per nome – mi sono reso conto che i jack erano invertiti, dunque…” Non finisco la frase e lui mi dice: “Non fa niente.” Mi richino e gli dico: “Ma io l’ho fao lo stesso, lo vuole sentire?” “No.” “Ma io l’ho fao come lei mi ha deo di farlo, lo vuole sentire?” “No.” Non c’era niente da fare. Vabbè. Lui finisce di missare
quel rullo, poi come in una scena di Citizen Kane, si alza dalla poltrona, va al centro della sala, contro lo schermo, si gira e dice: “Roberto, carichi quella sequenza.” Emozione. Corro in cabina, controllo gli start, allora questa è la prima, questa è la seconda, con il foglio di missaggio torno giù, mi siedo accanto al fonico e gli spiego quello che avremmo dovuto fare; questo ascoltava e guardava senza darmi alcun riscontro, io non ero sicuro di cosa avrebbe fao… Pronti a partire. E ho avuto la prova dell’esistenza di Dio. Passa la sequenza e io non ho mai sentito un missaggio così perfeo: meraviglioso, il fonico aveva colto tuo! Si riaccendono le luci e Welles mi dice: “Bravo.” Io ho barcollato leeralmente. Mi alzo dalla sedia, lui si siede. A quel punto ho avuto l’impulso di chinarmi e gli ho deo in un orecchio: “esta volta ho dovuto pensare.” E lui ha risposto qualcosa? Mi ha odiato. Si è girato, mi ha dato un’occhiata che se fosse stato un dio greco mi avrebbe incenerito! Io reggevo questo sguardo violento, lo sguardo di uno che non poteva far niente perché avevo fao il massimo di quello che lui voleva. Si gira, missa lui il pezzo e io me la sono cavata. Eravamo arrivati alla fine, il nostro lavoro si stava concludendo… ando poi ha visto Il processo in sala che impressione ne ha avuto? Adoravo Welles ma Il processo mi lasciò incerto. ando poi l’ho ripreso nelle mie lezioni al Centro sperimentale, mi sono accorto che è pieno di cose meravigliose! Ma pieno! E poi posso testimoniare come queste cose sono andate costruendosi. A volte c’è un simbolismo un po’ troppo dichiarato, come la bomba finale, però la capacità di convincimento dei personaggi che mee in scena è impressionante, senti proprio che lui riconsidera Il processo di Kaa, lo stravolge, se lo reinventa. Pensi cosa sarebbe stato Cuore di tenebra se Welles lo avesse fao, tuo in prima persona come d’altronde Conrad aveva fao con Marlow. Pensi al coraggio di un autore che non racconta una cosa se
non la può stravolgere, se non la può fare diventare vibrante. Touch of Evil è un racconto trovato per caso, Welles lo sfoglia e dice: ci faccio un film. E fa uno dei suoi film più belli! C’è una scena del Processo che le sembra più interessante di altre? Intanto ricorderà quanto è importante l’incipit, i disegni iniziali dove “un uomo si avvicina alla porta, e il guardiano gli dice che non può entrare…” Welles si è fao fare quei disegni da Alexeieff e li ha ricevuti in moviola mentre stavamo lavorando ai corti per la tv. Ho visto che li sfogliava e vedeva già il crescendo di questo paradosso dell’uomo che rimane fuori della porta e al quale alla fine dicono “questa porta la devo chiudere ma era solo per te, sei tu che avresti dovuto entrare”: una sfida alla natura umana che è tremebonda, titubante, che non osa. ando quella scena finisce, la voce fuori campo dice: “esta è la storia di un libro chiamato Il processo e somiglia alla logica di un sogno.” Dopodiché si vede la testa di Perkins rovesciata in diagonale, poi la macchina da presa si muove, lui sente un rumore ed entra il commissario: tua quella sequenza, se la analizzi tempo per tempo, è meravigliosa, miracolosa. I ritmi dentro la scena – come si aprono le tende, come entra la luce, come lui apre la porta e dice: “Mrs Grubeeeer,” poi la chiude finché si trova di fronte la stanza di Mrs Bürstner – ti rendi conto che è una composizione plastica… Si potrebbe dire che Welles fa del virtuosismo, sì, ma ha sempre un fine molto forte, e lavora la materia fino a farla diventare esaamente come la vuole. ella testa rovesciata mi ha fao venire in mente tue le cose che Welles si porta appresso come elaborazione di un punto di vista. All’inizio di Otello c’è la stessa testa rovesciata, che sale e che scende, a seconda dei movimenti in campo e della macchina da presa. Mi viene in mente in Citizen Kane il bicchiere che Susan ha bevuto, un’inquadratura alla Ėjzenštejn. Welles porta dentro di sé anche quello che gli viene dai conflii: con Ėjzenštejn ha disputato non poco però sapeva riconoscere la matrice di qualcosa che nella storia del cinema ha una forza
interpretativa, non semplicemente dimostrativa di qualche cosa. Nel Processo ci sono sequenze molto lavorate, quella dello studio di Titorelli è lavoratissima, addiriura a un certo punto Titorelli ripete la stessa bauta, prima seduto poi in piedi. Welles la usa come rafforzativo. È evidente che nelle riprese gli è venuto di farla in due modi diversi, ma al montaggio le ha usate tue e due, e ti rendi conto che gioca sulla potenza della ripetitività, dell’insistenza, del soolineare. I punti di vista di Welles sono tui tradizionalmente dissacratori. ando ha usato il punto di vista dal basso, costruendo i primi soffii della storia del cinema, dici: ma che bisogno ha? Intanto è il punto di vista della prima fila del teatro: chi è soo, vede così il personaggio. Welles assume sempre un punto di vista, non la resa in qualche modo “convincente”. Cos’ha imparato da Welles? All’inizio quando me lo chiedevano non riuscivo a dirlo perché il coinvolgimento era stato assolutamente forte e insieme assolutamente irrazionale. Eseguivo con partecipazione, cercando di acquisire certe cose, ma non potevo razionalizzarle. Poi m’è venuto in mente, pian piano. Io segno la pellicola come la segnava Welles (altri montatori facevano dei segni più piccoli, lui era sovrabbondante coi segni). Welles lavorava con due moviole, e anch’io lavoro con due moviole. E poi, la cosa determinante: Welles procedeva montando prima la sequenza in una forma più ampia e pian piano l’andava asciugando fino a che diventava solida, e questo è pure il mio modo di lavorare. La cosa che credo di avere assimilato bene è il senso di esaezza. Ricorderà lo sgabuzzino in cui vengono picchiati i due polizioi dell’inizio. ella sequenza è stata lavorata in modo proprio… acharné, come si dice in francese. Ed è incredibile come tui i tagli sono dinamici, hanno un’ispirazione, come la lampada che essendo stata colpita comincia a frustare lo spazio, e dunque sui personaggi arrivano sciabolate di luce. Lì c’è un principio ideativo forte, che però dev’essere assunto, deve diventare una materia che si muove da sola. Sui ritmi
delle baute, sui ritmi della luce, sui ritmi dei tagli di montaggio. A un certo punto c’è un’immagine improponibile: ci dovrebbe essere Perkins in campo e invece non c’è. Ma non riesci a percepire che è un assurdo: il taglio arriva in tempo perché quell’immagine paradossale faccia parte di una specie di flusso, come se ci fosse qualcosa che sta bollendo, di cui percepisci solo l’essenza. esto montaggio – me l’ha insegnato proprio quella sequenza lì – è capace di costruire una percezione che non esiste in natura. Ovvero esiste, nella nostra capacità di percepire le cose più minute e poi di ricomporle, perché noi viviamo di percezioni. Allora mi sono stupito, ma era vero: Welles m’ha insegnato a pensare. Cosa pensava Welles secondo lei degli italiani? I nostri critici gli hanno fao la guerra per anni. Non lo capivano proprio. Parliamoci chiaro, noi siamo tanto pieni di Rinascimento… … ma lui lo capiva meglio di noi. Molto molto meglio! L’Otello è l’esaltazione dei punti di vista di una caedrale. Poi, sa, io ero molto giovane. Sono andato da lui a Fregene che avevo vent’anni, ne ho compiuti ventuno ad aprile. Per me Welles era quello che avevo visto al cinema, non gli aribuivo neanche un’età. Non avrei potuto entrare in confidenza con lui né lui aveva la minima intenzione di essere confidenziale. ando l’ho salutato l’ultimo giorno, ero giovanissimo e gli ho streo la mano con troppo enfasi. Lui ha fao un urlo – “Haw!” – perché aveva mani non piccole ma molto morbide, mani che non avevano lavorato molto. Ero commosso ma ho avuto la sensazione che fosse emozionato anche lui. Avrebbe potuto dirmi solo: “Arrivederla, grazie,” invece aveva capito cos’era stato per me quell’intero anno con lui, e che avrei portato con me un bagaglio d’esperienza eccezionale. Dopo Il processo cos’è successo? ell’anno con Welles mi ha ribaltato totalmente: non sono più tornato alla piura. Ho provato a disegnare ma sentivo che ero impacciato, che non ero più lo stesso. Tornato
a Roma mi sono proposto come assistente. Mi dicevano: “Con chi hai lavorato?” intendendo “di quale montatore sei stato assistente?” Dicevo: “Ho lavorato con Welles.” “Con chi?” “Con Orson Welles.” E non trovavo lavoro. Ho trovato solo un certo Alfonsi, un montatore simpatico e intelligente per il quale non ero adao, e poi ho lavorato per la Cinelatina, l’istituto di produzione e distribuzione del PCI, dove ho montato la colonna di Go Mit Uns, un documentario sulle guerre tedesche composto da Fernaldo Di Giammaeo con materiali di repertorio, dove ho fao un’esperienza enorme di montaggio del suono. Nel fraempo Cecrope Barilli, il presidente del CEMEA, interpretava in Prima della rivoluzione di Bertolucci il personaggio di Puck, l’anziano proprietario terriero che dà l’addio alle sue terre. Sul set parla di me, Bernardo s’interessa al fao che io ho lavorato con Welles e mi vuole incontrare. Ci siamo visti a piazza del Popolo – per riconoscerci avevo in mano un libro con un faccione di Ėjzenštejn in copertina. Bernardo, che aveva già finito le riprese, mi dice: “Ho intenzione di montare Prima della rivoluzione tenendo presente il nuovo faro linguistico della Nouvelle Vague, e dunque ho bisogno di un giovane, di qualcuno che non rispei le cosiddee norme che il montaggio ha finito per stabilire.” Io adoravo il cinema della Nouvelle Vague e mi meo a disposizione. Ma Bernardo a un certo punto si rende conto che sono un esecutore, che non ho autonomia creativa, che aspeo che mi si dica “taglia qui e mei là”. Dopo una ventina di giorni mi dice: “Io vado a casa dal 20 dicembre a inizio gennaio, però ti lascio una sequenza da montare; se l’avrai montata bene rimarrai come montatore, sennò come assistente.” La franchezza di Bernardo non aveva appelli. In dieci giorni avrei dovuto montare proprio l’addio di Puck a Stagno Lombardo, dove c’è il piore che dice: “Le zanzare… la rana gigante… i pioppi…” Era una composizione poetica di immagini e di parole. Per dieci giorni ho fao avanti e indietro in moviola non riuscendo a tagliare. Non osavo. Il primo dell’anno mi sono chiuso dentro, ho montato tuo il giorno e tua la noe. Il maino dopo è
arrivato Bernardo. Gli ho fao vedere la sequenza e lui mi ha deo: “Sei il montatore del film.” Ha mai più incontrato Welles? No. Lì c’è stata una mia colpa, molto pesante. Mentre montavo Prima della rivoluzione alla CTS a via dei Villini, arriva qualcuno che dice: “Abbiamo deciso di distribuire di nuovo arto potere, l’abbiamo fao doppiare, però dobbiamo tagliarlo perché è troppo lungo. Mi dicono che tu hai lavorato con Welles, ti chiediamo se lo vuoi tagliare tu.” Dico: “No, non lo farò mai.” Bernardo mi dice: “Guarda che se non lo fai te, lo fa qualcun altro, e lo fa peggio di te. Perché loro i dieci minuti che vogliono togliere, li tolgono.” E allora ho acceato, veramente obtorto collo. È stato lei? Non lo sapevo. Non lo sa nessuno. L’ho raccontato solo a Roger Crienden, che è stato deputy director della National Film and Television School per una quarantina d’anni. Tra l’altro non c’era neanche la colonna internazionale, c’era solo la copia, dunque tua la parte parlata non aveva nemmeno il sostegno delle musiche: mi hanno dato un consulente musicale con il quale ho cercato fra le musiche senza dirii, ovvero nel repertorio classico, delle cose analoghe, tipo Bach. Ho fao questa cosa veramente con un senso di colpa, stavo malissimo. La mia intenzione però era di tagliare il film in modo che non ce ne si accorgesse. È un lavoro molto particolare: mancano un paio di sequenze ma la maggior parte sono asciugature, piccoli tagli, abbreviazioni. Ho tolto un po’ qua, un po’ là, ma dieci minuti son tanti… Mi sentivo di merda. Fino a che incontro per strada un montatore che mi dice: “Sai che avevano chiesto a me di tagliarlo? Ma non era difficile.” “Come non era difficile?” “Guarda, c’era tua una prima parte, toglievi tuo ’sto documentario iniziale…” “Ma che sei, pazzo⁈” ello avrebbe tagliato tuo il finto cinegiornale iniziale! este erano le mentalità per le quali ho finito per dire che avevo fao
meglio di quanto avrebbero fao altri. Però non mi sarei mai presentato davanti a Welles. Innanzituo non sarei mai andato a dirgli che ero diventato un montatore. Perché? Perché era mio “papà”. Non potevo andare lì e vantarmi: “Ho fao Prima della rivoluzione, ho fao questo e quest’altro…” Poi Welles non è che mi avrebbe fao i complimenti. Nell’85, quando è morto, sono stato malissimo, come se fosse morto un papà vero. Ricordo bene quando lasciò che io usassi la moviola mentre lui mi guardava, e valutava se ero la persona giusta a cui insegnare… Con tuo il suo rigore, il suo modo di essere autoritario, ha avuto con me una pazienza che non ho riconosciuto mai in nessuno. E poi avevo il peso di una colpa di cui non sapeva nessuno. Posso parlarne solo oggi, che sono passati sessant’anni.
Welles e la moglie Paola Mori nella villa di Fregene.
Note bibliografiche
Capitolo 1. L’arrivo Cfr. Luigi Barzini jr., Finiva la benzina ma il pilota vide Roma, “L’Europeo”, Milano, 23 novembre 1947, p. 2. 1
Mary Pacios, Childhood Shadows: e Hidden Story of the Black Dahlia Murder, 1stBooks Library, Bloomington 1999. L’autrice, una vecchia amica della viima, ha collegato le modalità del delio con una serie di labili indizi (come il manichino femminile mutilato in La signora di Shanghai, nel finale eliminato dal produore Harry Cohn). Welles “possibile sospeo” di un famoso omicidio? Gli eredi hanno definito l’ipotesi uno “scherzo di caivo gusto”. Nel fraempo il vero colpevole del delio è stato identificato, “perciò Welles è fuori dai guai; e non si può fare a meno di considerare quanto lui stesso avrebbe amato questa storia” (Simon Callow, Orson Welles, vol. 2: Hello Americans, Vintage, London 2007, p. 378). D’altra parte, come ha osservato Joseph McBride, “il libro della Pacios non sarebbe degno di menzione se non fosse la manifestazione più bizzarra dell’ostilità anti-Welles che ha invaso come un cancro i mass media americani negli ultimi anni” (Joseph McBride, What Ever Happened to Orson Welles?, University Press of Kentucky, Lexington 2006, p. 98). 2
Cfr. Mariapaola Pierini, Prima del cinema, Bulzoni, Roma 2005, uno studio aento e ricco di materiali sul Welles teatrale. 3
Cfr. James Naremore, e Trial. e Fbi vs. Orson Welles, “Film Comment”, New York, January-February 1991, pp. 22-27. Vedi anche McBride, What Ever Happened to Orson Welles?, cit., pp. 84-111. 4
Orson Welles, “New York Post”, 1945, cit. in James Naremore, Orson Welles. Ovvero la magia del cinema, Marsilio, Venezia 1993, p. 164. 5
Charles Higham, Orson Welles. e Rise and Fall of an American Genius, St. Martin’s Press, New York 1985, p. 308. 6
Orson Welles a Peter Bogdanovich in Idd., Io, Orson Welles, a cura di Jonathan Rosenbaum, Baldini & Castoldi, Milano 1993, p. 137. 7
Hélène Tournaire, Moi aussi j’ai interviewé Orson Welles, “L’Écran français”, 19-26 aout 1947, pp. 4-5. 8
Paolo Bavazzano, ell’estate a Cremolino con Orson Welles, “Urbs”, giugnoseembre 2005, pp. 119-122. L’aneddoto viene raccontato da Guido Arata, figlio di Ubaldo, all’epoca undicenne. 9
Charlie Chaplin, Dichiaro guerra a Hollywood, “Espresso”, Roma 22 novembre 1947, p. 1. 10
Gigi Cane, Orson Welles: chi è. Il profilo biografico introduce la pubblicazione della “radioscena” Columbus Day (Admiral of the Ocean Sea), scria da Welles nel ’42 e tradoa in italiano da Gigi Cane. Cfr. “Il Dramma”, Torino, 1° seembre 1947, pp. 112-117. 11
La versione italiana della pellicola oiene il nulla osta alla programmazione il 12 agosto 1946. La commissione di revisione rileva, fra l’altro, nel suo verbale l’alta qualità dell’opera: “La narrazione procede aenta e controllata soo la vigile direzione del regista, che ha saputo curare tui i particolari con efficaci e preziosi mezzi espressivi. Viva ed interessante la descrizione degli ambienti e dell’epoca; buona la tecnica ed oima l’interpretazione.” 12
13
L’orgoglio degli Amberson, “Corriere della Sera”, Roma, 27 agosto 1946, p. 2.
14
Vice, L’orgoglio degli Amberson, “Il Messaggero”, Roma, 22 agosto 1946, p. 3.
Fabrizio Sarazani, L’orgoglio degli Amberson, “Il Tempo”, Roma, 22 agosto 1946, p. 2. 15
Amedeo Rivolta, Ingresso libero – L’orgoglio degli Amberson, “Hollywood”, Milano, 12 luglio 1947, p. 15. 16
Cfr. Suso Cecchi d’Amico, Storie di Cinema (e d’altro), Garzanti, Milano 1996, p. 141, e l’intervista in Andrea Pergolari, La fabbrica del riso, unmondoaparte, Roma 2004, p. 63. 17
Umberto Barbaro, Orson Welles e l’“Orgoglio degli Amberson”, “l’Unità”, Roma, 23 agosto 1946, p. 3, poi in Id., Servitù e grandezza del cinema, Editori Riuniti, Roma 1962, pp. 498-499. 18
Arturo Lanocita, Il festival cinematografico inaugurato a Venezia, “Corriere della Sera”, Milano, 24 agosto 1947. 19
20
Guido Aristarco, Cinema a Venezia, “Sipario”, Milano, oobre 1947.
Adriano Baracco, Venti giorni di cinema a Venezia, “Hollywood”, Milano, 20 seembre 1947. 21
22
Federico Fellini, Un regista a Cinecià, Mondadori, Milano 1988, pp. 85 e 88.
Cfr. È partito Tyrone, arriva Orson Welles, “Espresso”, Roma, 10 novembre 1947, p. 2. 23
24
Orson Welles in Barzini jr., Finiva la benzina ma il pilota vide Roma, cit.
25
i e nell’ultimo virgoleato: Sergio Sollima, Roma, 27 maggio 2006.
Orson Welles: “Hollywood non insegna più nulla” Lancilloo, Orson Welles all’Excelsior, “Espresso”, Roma, 13 novembre 1947, p. 2; Gian Luigi Rondi, Orson Welles crede nel cinema italiano, “Il Tempo”, Roma, 13 novembre 1947, p. 2; Sergio Sollima, Il regista Orson Welles ama il cinema italiano, 1
“l’Unità”, Roma, 13 novembre 1947, p. 2; M. Cecchi, Orson Welles: occhi da Cagliostro, sorriso di bimbo, “Film”, Roma-Milano, 22 novembre 1947, pp. 4-5; Luigi Barzini jr., Finiva la benzina ma il pilota vide Roma, “L’Europeo”, Milano, 23 novembre 1947, p. 2; Boezio, Gazzeino Romano, “Momento Sera”, Roma, 14 novembre 1947, p. 1; Conosceranno Rita quando sarà vecchia, dice Orson Welles, “Oggi”, Milano, 23 novembre 1947, quarta di copertina; Doriana Danton, Linda Christian e Orson Welles, “Hollywood”, Milano, 29 novembre 1947, quarta di copertina.
Capitolo 2. Una pizza con Togliai Accenni al viaggio a Napoli e Roma compaiono in Roberto Leydi, L’uomo che volle diventare un genio, “L’Europeo”, Milano, 19 febbraio 1970, pp. 64-65. 1
Orson Welles, Peter Bogdanovich, Io, Orson Welles, a cura di Jonathan Rosenbaum, Baldini & Castoldi, Milano 1993, p. 72. 2
Cfr. Robert L. Carringer, Come Welles ha realizzato arto potere, il castoro, Milano 2000, pp. 185-186. 3
4
Barbara Leaming, Orson Welles. A Biography, Viking, New York 1985, p. 351.
Luigi Barzini jr., Finiva la benzina ma il pilota vide Roma, “L’Europeo”, Milano, 23 novembre 1947, p. 2. 5
6
Maurice Bessy, Orson Welles, Éditions Seghers, Paris 1963, p. 29.
7
Indro Montanelli, Addio, Wanda!, Longanesi, Milano 1956, pp. 17-18.
Davide Ferrario, Dissolvenza al nero, Longanesi, Milano 1994. Lo scriore (che oltre a essere uno stimato regista è anche un appassionato wellesiano) rielabora episodi storici del primo soggiorno romano di Welles facendone il protagonista di un intrigo internazionale. Dal romanzo è stato trao nel 2006 Fade to Black, sfortunato film di Oliver Parker. 8
Palmiro Togliai, in Sumner Welles conferma di essere un calunniatore, “l’Unità”, Roma, 20 maggio 1947, prima pagina. 9
Emanuele Rocco, Il pranzo della pace, “Tempo”, Milano, 20 dicembre 1947, p. 6; Luigi Barzini jr., Togliai a tavola, “L’Europeo”, Milano, 21 dicembre 1947, pp. 12. 10
Esiste un’altra versione dell’aneddoto, sempre raccontata da Welles. Il regista e il Presidente si sarebbero trovati poco prima di un comizio. Accecato dai rifleori, Roosevelt gli avrebbe chiesto: “Per dove devo salire al palco? A destra o a sinistra?” E Orson: “Una manovra a sinistra non vi ha mai nuociuto, signor Presidente.” Cfr. gli appunti di Maurice Bessy pubblicati con il titolo Orson Welles par Orson Welles, “ECRAN”, février 1975, poi tradoi in “Cinema & Cinema”, Bologna, seembre-dicembre 1985, p. 59; e Leaming, Orson Welles. A Biography, cit., p. 294. 11
James Naremore, e Trial. e FBI vs. Orson Welles, “Film Comment”, New York, January-February 1991, pp. 26-27. 12
Capitolo 3. Cagliostro “Commendatore Scalera”, non “Montatori Scalera” come riportano numerosi testi in lingua inglese. L’errore risale probabilmente a una malintesa trascrizione delle parole pronunciate da Welles nel suo Filming Othello. 1
Cosea Greco, in Moraldo Rossi, Tai Sanguineti, Fellini & Rossi. Il sesto vitellone, Cineteca di Bologna-Le Mani, Recco 2001, p. 7. 2
Richiesta di nulla osta della Edward Small Productions alla presidenza del Consiglio dei ministri, seembre 1947, depositata in copia presso l’Archivio centrale di stato di Roma. 3
4
Frank Brady, Citizen Welles, Charles Scribner’s Sons, New York 1989, p. 419.
esto e i virgoleati precedenti: appunto del capo dell’Ufficio centrale della cinematografia per il soosegretario di stato, datato a mano 23 seembre 1947, Archivio centrale di stato di Roma. 5
Giberto Severi, Piura e avventura, Carlo Bestei Edizioni d’Arte, Roma 1975, p. 180. 6
Samuel Blumenfeld, L’homme qui voulait être prince, Grasset, Paris 2006, p. 138. Nella leera di accompagnamento si specificava che i nasi “possono essere utilizzati see o oo volte se Orson farà aenzione a rimuoverli”. 7
Alessandro Tasca di Cutò, Un principe in America, Sellerio, Palermo 2004, p.
8
253. 9
Orson Welles, Out of a Trance, “New York Times”, New York, 17 April 1949.
10
Maurice Bessy, Orson Welles, Éditions Seghers, Paris 1963, p. 43.
11
Carlo Laurenzi, Roma caput cinema, “Tempo”, Milano, 25 dicembre 1947, pp.
12
Georges Annenkov, Vestendo le dive, Roma, Fratelli Bocca 1955, p. 67.
13
Laurenzi, Roma caput cinema, cit.
14
Valentina Cortese, anti sono i domani passati, Mondadori, Milano 2012, p.
8-9.
80.
Annenkov, Vestendo le dive, cit., p. 69; poi in L’avventurosa storia del cinema italiano (1935-1959), a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Milano, Feltrinelli 1979, p. 132. 15
Franca Faldini, Roma Hollywood Roma. Totò, ma non solo, Baldini & Castoldi, Milano 1997, p. 35. 16
17
Cfr. Annenkov, Vestendo le dive, cit., p. 69.
18
Emanuele Rocco, Il pranzo della pace, “Tempo”, Milano, 20 dicembre 1947, p.
19
Cortese, anti sono i domani passati, cit., p. 80.
6.
20
Brady, Citizen Welles, cit., p. 421.
21
Tonino Delli Colli, in AA.VV., La cià del cinema, Napoleone, Roma 1979, p.
157. 22
Osvaldo Civirani, Un fotografo a Cinecià, Gremese, Roma 1995, p. 64.
Francesco Càllari, Vengano pure a “girare” in Italia ma con garbo e discrezione, “Hollywood”, Milano, 20 dicembre 1947, p. 14. 23
Il cronista, Era già Cagliostro prima di diventarlo, “Film”, Roma-Milano, 27 marzo 1949, p. 4. 24
Tonino Delli Colli, in L’avventurosa storia del cinema italiano (1935-1959), cit., p. 131. 25
Annenkov, Vestendo le dive, cit., p. 66; poi in L’avventurosa storia del cinema italiano (1935-1959), cit., p. 132. 26
Gian Luigi Rondi, Un lungo viaggio 2. Gli stranieri, Le Monnier, Firenze 2001, p. 278. 27
Cfr. Augusto Borselli, Il irinale conteso fra Repubblica e registi, “MomentoSera”, Roma, 4 gennaio 1948, p. 3. 28
Annenkov, Vestendo le dive, cit., p. 67; poi in L’avventurosa storia del cinema italiano (1935-1959), cit., p. 132. 29
Cfr. il dossier curato da Catherine L. Benamou in “Michigan arterly Review”, Spring 2009, in particolar modo la leera di Richard Wilson a Orson Welles del 29 novembre 1947 e la successiva leera di Welles a Wilson (senza data ma situabile tra i primi mesi del ’48), alle pp. 203-213. Cfr. anche Charles Higham, Orson Welles. e Rise and Fall of an American Genius, St. Martin’s Press, New York 1985, pp. 309-310; e Simon Callow, Orson Welles, vol. 2: Hello Americans, Vintage, London 2007, pp. 416-418. 30
Oberdan Troiani, in Alberto Farina, Tuo genio e sregolatezza, “Film cronache”, Roma, gennaio-febbraio 1993. Non sembrano esistere modellini di accampamenti nelle edizioni finali del film, né in quella da 107’ né in quella ridoa a 84’, ma i ricordi di Troiani sono esai: la donna “minimizzata” in campo lungo è Lady Macbeth, nella scena in cui Macbeth si presenta per la prima volta in pubblico con la corona, sul trono nel cortile del suo palazzo. 31
32
Orson Welles, Filming Othello (1978).
33
Callow, Orson Welles, vol. 2: Hello Americans, cit., pp. 418-420.
34
Tasca, Un principe in America, cit., p. 258.
35
Troiani, in Farina, Tuo genio e sregolatezza, cit.
Un aore ungherese si ferisce girando il film “Cagliostro”, “Corriere della Sera”, Milano, 25 gennaio 1948. 36
Sulla copia del 23 maggio 1945, oggi parzialmente in Orson Welles, Peter Bogdanovich, Io, Orson Welles, a cura di Jonathan Rosenbaum, Baldini & Castoldi, Milano 1993, p. 170. È interessante notare come alcuni rilievi di Welles sul film di Ėjzenštejn (“sterili esercizi, vuote dimostrazioni del meramente piorico”) sarebbero stati riutilizzati dalla critica di tuo il mondo, e da quella italiana in particolare, nei confronti dello stesso regista americano. 37
Luigi Barzini jr., Roma può diventare la capitale cinematografica d’Europa, “Il Corriere di Milano”, 11 gennaio 1948. 38
39
Welles, Bogdanovich, Io, Orson Welles, cit., p. 136.
Capitolo 4. Dolce vita Ennio Flaiano, Gli anni migliori, “Bis”, Milano, 27 aprile 1948, poi in Id., Leere d’amore al cinema, Rizzoli, Milano 1978, p. 92. 1
2
136.
Samuel Blumenfeld, L’homme qui voulait être prince, Grasset, Paris 2006, p.
Cfr. Michel Sander, Mister Welles c’est le diable! S’exclament les Romains, “L’Écran français”, Paris, 27 Avril 1948, p. 3. 3
Giberto Severi, Jennifer Jones si riposa a Roma, “Fotogrammi”, Roma, 13 gennaio 1948, p. 5. 4
Doriana Danton, Jennifer Jones è a Roma, “Hollywood”, Milano, 24 gennaio 1948, p. 6. 5
Il nome di Gabriella Baiti affiora da una cronachea di “Fotogrammi”. Rintracciata nel 2012, la signora ricordava ancora bene quella breve conoscenza: Welles l’aveva notata con un’amica al bar Rosati, anche grazie al fao che la Baiti parlava un poco l’inglese, unendosi poi per un paio di sere al suo gruppo. 6
Franca Faldini, Roma Hollywood Roma. Totò, ma non soltanto, Baldini & Castoldi, Milano 1997, p. 36. 7
Mario Gromo, Lo straniero, “La Stampa”, ora in Film visti, Edizioni di Bianco e Nero, Roma 1957, pp. 274-275. 8
Luciano Lucignani, L’equivoco “Orson Welles”, “Rivista del cinematografo”, Roma, febbraio 1948, p. 10. 9
C.A. Felice, Bluffa, questo W. (recensione di Lo straniero), “Film”, RomaMilano, 3 gennaio 1948, p. 4. 10
André Bazin, Je plaide pour Orson Welles, “L’Écran français”, Paris, 20 janvier 1948, p. 2. 11
12
Lucignani, L’equivoco “Orson Welles”, cit.
13
Augusto Errante, Orson Welles si sposa, “Oggi”, Milano, 25 aprile 1948, pp. 22-
14
Doriana Danton, Tamiroff e René Clair, “Hollywood”, Milano, 3 aprile 1948.
23.
15
Paola Ojei, Ma ti calmi, sì o no?, “Film”, Roma-Milano, 21 febbraio 1948, pp.
16
Transit, Cronache dei 4 venti, “Film”, Roma-Milano, 10 aprile 1948, p. 2.
17
Errante, Orson Welles si sposa, cit.
18
Sergio Sollima, Roma, 27 maggio 2006.
3-4.
Luciana Peverelli, Donnina da due soldi, “Cine illustrato”, Roma, 9 maggio 1948, p. 2. 19
Zeta, Lea Padovani al bivio: Serato o Welles?, “Film”, Roma-Milano, 1 maggio 1948, p. 5. 20
21
Cfr. Sander, Mister Welles c’est le diable!, cit.
Orson Welles in Barbara Leaming, Orson Welles: A biography, Viking, New York 1985, p. 351. Sembra una panzana ma i racconti di Welles, pure i più assurdi, hanno in genere un fondamento. In un rapporto del 17 marzo 1948, l’agente Henry L. Manfredi, che sorvegliava il gangster per conto della Criminal Investigation Division, scrive che “Luciano is making a strong bid to enter the Italian movie industry” e che “talked about a future meeting with Orson Welles, the famous actor who is at present in Rome residing at the Excelsior Hotel.” Il documento desecretato è stato gentilmente concesso dall’Archivio Casarrubea di Partinico (PA), e fa parte del fondo NARA, JPEG, busta C, doc. 133; l’originale si trova a College Park, Maryland, USA (Record Group 170, Entry 71A-3555, Box 2, Folder 2). Sul progeo di Luciano per Welles, si veda il mio Orson Welles vs. Lucky Luciano, “Cabiria”, n. 180, Recco, maggio-agosto 2015, pp. 74-80. 22
Virgilio Tosi, Dopo questo film, il divorzio, “Tempo”, Milano, 17 aprile 1948, pp. 18-19. Di un altro incontro con Pagnol era stato dato annuncio in un articolo senza firma (Hollywood muore, “Film”, Roma-Milano, 21 febbraio 1948, p. 3): vi si scrive che Welles, Chaplin, René Clair, Julien Duvivier e Pagnol si sarebbero presto incontrati “per studiare un’eventuale costituzione di un’organizzazione cinematografica europea, totalmente indipendente.” 23
Elizabeth Montagu, citata in Simon Callow, Orson Welles, vol. 3: One-Man Band, Jonathan Cape, London 2015, p. 23. 24
25
Roberto De Paolis, Un solo Welles non basta, “Bis”, Milano, 6 aprile 1948, p. 5.
Franca Faldini: “Fu solo un flirtino ragazzino” Franca Faldini, Roma Hollywood Roma. Totò, ma non soltanto, Baldini & Castoldi, Milano 1997, p. 36. 1
2
Ibid., p. 35.
Capitolo 5. Il ciadino Kane 1
François Truffaut, in “Express”, Paris, 26 novembre 1959, p. 36.
2
Flem Bollini, Il ciadino Kane, “Cinetempo”, n. 1, Milano, 30 agosto 1945, p. 4.
Stefano Terra, “Rosebud” per il ciadino Kane, e An., Aualità Cinematografica, “Il Politecnico”, Milano, 23 marzo 1946, p. 3. 3
esto il giudizio che la quarta commissione dell’Ufficio centrale per la cinematografia rilascia il giorno dopo la visione: “Dalla vita l’uomo può oenere tuo ciò che vuole, ma può spesso perdere tuo. esta è la tesi del film, che per la superba interpretazione di Orson Welles e per la sfarzosa ambientazione, è degno di ogni rilievo. La Commissione, non osservando nulla per quanto riguarda la morale, ha espresso parere favorevole per la programmazione del film in pubblico e per il doppiaggio in lingua italiana.” 4
Luciano Lucignani, L’equivoco “Orson Welles”, “Rivista del cinematografo”, Roma, febbraio 1948, p. 10. 5
6
Roberto De Paolis, Un solo Welles non basta, “Bis”, Milano, 6 aprile 1948, p. 5.
Ugo Casiraghi, Kane è arrivato in ritardo su Orson, “l’Unità”, Milano, 13 maggio 1948. 7
lan. [Arturo Lanocita], Ciadino Kane, “Corriere della Sera”, Milano, 13 maggio 1948, p. 2. 8
9
Alfredo Panicucci, Tanto rumore per Orson, “Avanti!”, Milano, 13 maggio 1948.
Guido Aristarco, Festival Internazionale – Il ciadino Kane, “Bis”, Milano, 25 maggio 1948, p. 9. 10
11
Ibid.
12
Cfr. Guido Aristarco, Cinema a Venezia, “Sipario”, Milano, oobre 1947.
13
Alberto Mondadori, Il ciadino Kane, “Tempo”, Milano, 22 maggio 1948, p.
24.
Cesare Garboli, fondatore con Mondadori del Saggiatore: “C’era un film che Alberto Mondadori ha amato svisceratamente e che io invece ho sempre considerato, con gran scandalo dei miei amici intelleuali, un film qualsiasi. Il titolo? Citizen Kane di Orson Welles. Io penso che lui vedesse in quel film una parte di se stesso. Si commuoveva solo a parlarne, come dire, per un processo di identificazione, di immedesimazione” (Citizen Mondadori, “Panorama”, Milano, 2 maggio 1993, p. 131). 14
Giulio Cesare Castello, 10 anni di cinema, “Sipario”, Milano, giugno 1948, pp. 29-30. 15
g.v. [Glauco Viazzi], Citizen Kane (arto potere), “Bianco e nero”, Roma, luglio 1948, pp. 67-70. 16
Jean George Auriol, Diario Romano, “La critica cinematografica”, Roma, giugno-luglio 1948, p. 11. 17
18
M.C., Orson e il arto Potere, “Film”, Milano-Roma, 20 novembre 1948, p. 8.
19
Callisto Cosulich, Il magnifico istrione, “Paese Sera”, Roma, 12 oobre 1985.
Paolo Gobei, «arto potere» di Orson Welles, “l’Unità”, ediz. torinese, 20 gennaio 1949, p. 3. 20
Callisto Cosulich, arto potere, “Giornale di Trieste”, 19 febbraio 1949, ora in Id., Il cinema secondo Cosulich, Transmedia, Gorizia 2005, pp. 61-62. 21
Il Postiglione, La diligenza – Corrispondenza coi leori, “Cinema”, Milano, 15 seembre 1949, p. 150. 22
23
Alfredo Panicucci, in “Avanti!”, Milano, 17 luglio 1949.
Goffredo Fofi, Un regista maledeo, “Il Nuovo Speatore Cinematografico”, Torino, dicembre 1963, p. 5. 24
Guido Fink, Rapporto confidenziale su Orson Welles e la critica italiana, “Bianco e nero”, Roma, gennaio-marzo 1986, p. 9. 25
26
arto Potere, “Corriere della Sera”, Milano, 14 luglio 1949, p. 2.
27
Vice, arto potere, “Cinema”, Milano, 31 luglio 1949, p. 51.
G.A. [Guido Aristarco], arto potere, “Sipario”, Milano, agosto-seembre 1949, pp. 105-106. 28
Volpone [Pietro Bianchi], “Bertoldo”, Milano, 7 agosto 1949; poi in Pietro Bianchi, L’occhio di vetro. Il cinema degli anni 1945-1950, Il Formichiere, Milano 1979, pp. 232-233. 29
Ennio Flaiano, Cagliostro, “Il Mondo”, Roma, 4 giugno 1949, ora in Id., Nuove leere d’amore al cinema, Rizzoli, Milano 1990, p. 179. 30
Guido Fink, Rapporto confidenziale su Orson Welles e la critica italiana, “Bianco e nero”, Roma, gennaio-marzo 1986, p. 9. 31
Capitolo 6. Orson vuol rifarsi una Rita Anita Colby, Filo direo, “Hollywood”, Milano, 18 giugno 1949. Sugli aneddoti della lavorazione del film, cfr. Hedda Hopper, ando il marito è un genio, “Hollywood”, Milano, 12 luglio 1947, pp. 3-4. 1
2
J. Heyn, Rita divorzia ma risposerà, “Espresso”, Roma, 19 novembre 1947, p. 2.
Rita Hayworth, in Mario Gilardon, Rita Hayworth e i suoi brevi amori, “Il Messaggero”, Roma, 16 febbraio 1948, p. 3. 3
Servizio segreto, “Fotogrammi”, Roma, 27 luglio 1948, p. 6. Vedi anche Peter Noble, e Fabulous Orson Welles, Hutchinson, London 1956, p. 206. 4
Joe Morella, Edward Z. Epstein, Rita. La vita di Rita Hayworth, Sonzogno, Milano 1984, p.100. 5
Orson Welles, Peter Bogdanovich, Io, Orson Welles, a cura di Jonathan Rosenbaum, Baldini & Castoldi, Milano 1993, p. 139. 6
G.L.R. [Gian Luigi Rondi], Il cinema nelle scuole e nei caè, “Il Tempo”, Roma, 5 giugno 1948, p. 3. 7
8
Cfr. Samuel Blumenfeld, L’homme qui voulait être prince, Grasset, Paris 2006.
9
Piero Vivarelli all’autore, Roma, 17 marzo 2010.
Rondone, Noi Bianche, “Fotogrammi”, Roma, 27 luglio 1948, p. 2. Vedi anche Charles Higham, Orson Welles. e Rise and Fall of an American Genius, New English Library, London 1986, p. 311. 10
Jean Malin, Rita schiaffeggiò il principe, “Cine illustrato”, Roma, 22 agosto 1948, p. 5. Cfr. anche John Staff, Il principe azzurro di Rita Hayworth, “Cine illustrato”, Roma, 2 gennaio 1949, p. 13. 11
Rita Hayworth e Welles si sono incontrati in Riviera, “Corriere della Sera”, Milano, 25 luglio 1948, p. 3. 12
A pranzo con Orson. Conversazioni tra Henry Jaglom e Orson Welles, a cura di Peter Biskind, Adelphi, Milano 2015, p. 80. 13
14
Morella, Epstein, Rita. La vita di Rita Hayworth, cit., p. 94.
e Merv Griffin Show, 10 October 1985. Welles morì quella stessa noe, a poche ore dall’intervista. 15
16
Rondone, Noi Bianche, “Fotogrammi”, Roma, 17 agosto 1948, p. 2.
17
Rondone, Noi Bianche, “Fotogrammi”, Roma, 19 oobre 1948, p. 2.
18
Bruno Ventavoli, Roma 1948: Welles indaga, “La Stampa”, Torino, 3 seembre
1994.
Capitolo 7. La caduta di Macbeth Alfredo Todisco, Incontro con Orson Welles, “Ultimissime”, Trieste, 31 agosto 1948. 1
André Bazin, Orson Welles, l’ogre des journalistes, m’a dit: “Macbeth est mon premier film. Les autres n’étaient que des expériences”, “Le Parisien libéré”, Paris, 2 septembre 1948. 2
3
“Combat”, 29 agosto 1948.
Jean Cocteau, prefazione alla prima edizione di André Bazin, Orson Welles, Chavane, Paris 1950, poi in Jean Cocteau, Du Cinematographe, Belfond, Paris 1973, pp. 76-77 (oggi, con traduzione diversa, in André Bazin, Orson Welles, a cura di Elena Dagrada, Temi, Trento 2005). 4
5
Cocteau, Du Cinematographe, cit., p. 74.
Piangevano o stavano per piangere Anna Magnani e Orson Welles, “L’Europeo”, Milano, 13 seembre 1948, p. 11. 6
Orson Welles contro il realismo cinematografico, “L’Europeo”, Milano, 15 oobre 1950, p. 14. 7
André Bazin, Jean-Charles Tacchella, Les Secrets d’Orson Welles, “L’Écran français”, Paris, 21 septembre 1948. 8
Renzo Renzi, Sullo schermo per una volta, “Cinema”, Milano, 15 febbraio 1949, p. 240. 9
10
Bazin, Tacchella, Les Secrets d’Orson Welles, cit.
Jean Desternes, Le realisme ne m’interesse pas, “La Revue du cinéma”, Paris, septembre 1948, p. 54. In un veloce schema cinematografico schizzato personalmente, Welles si pone alla fine di una linea che, partendo dai patriarchi Méliès e Griffith, passava araverso Ėjzenštejn. Accanto alla coppia MélièsGriffith, Welles mee fra i fondatori del cinema quaro categorie di registi: gli “intraenitori”, i “poeti”, i “narratori” e i “realizzatori”. Charles Chaplin fa parte di tue e tre le prime categorie, e da lui sarebbero discesi, in linea direa, Mack Senne e Sturges (fra gli intraenitori), Murnau, Renoir, Flaherty e De Sica (i poeti), Feyder e Lubitsch (i narratori); della quarta categoria (i realizzatori, intesi evidentemente nell’accezione di “realisti”) fanno parte von Stroheim e “gli italiani”, che vengono quindi a trovarsi nello schema dalla parte opposta a quella in cui Welles situa se stesso. Cfr. Maurice Bessy, Orson Welles, Éditions Seghers, Paris 1963, p. 105. 11
12
Todisco, Incontro con Orson Welles, cit.
Giulio Cesare Castello, A Orson Welles piacciono Eduardo De Filippo e De Sica, “Il Maino del Popolo”, Venezia, 4 seembre 1948, p. 3. 13
James Naremore, Orson Welles. Ovvero la magia del cinema, Marsilio, Venezia 1993, p. 197. 14
Claude Daire, Une interview exclusive d’Orson Welles, “L’Écran français”, Paris, 26 juin 1950, p. 11. 15
Cfr. Alfredo Todisco, Uomini e film sulla laguna, “Ultimissime”, Trieste, 31 agosto 1948. 16
Alberto Mondadori, “Gioia dell’anima mia, se le tempeste…”, “Epoca”, Milano, 8 seembre 1951, p. 57. 17
Gli altri giurati erano Alberto Consiglio, Vinicio Marinucci, Mario Melloni e Giorgio Prosperi. 18
19
Bazin, Tacchella, Les Secrets d’Orson Welles, cit.
20
Castello, A Orson Welles piacciono Eduardo De Filippo e De Sica, cit.
Alfredo Panicucci, Buona volontà e ambizione di Orson, “Avanti!”, Milano, 4 seembre 1948. 21
22
Castello, A Orson Welles piacciono Eduardo De Filippo e De Sica, cit.
Alfredo Todisco, Orson Welles “riabilitato” dalla stampa italiana, “Ultimissime”, Trieste, 18 seembre 1948. 23
24
Ibid.
Piangevano o stavano per piangere Anna Magnani e Orson Welles, “L’Europeo”, cit. 25
26
Desternes, Le realisme ne m’interesse pas, cit.
Leone Comini, Soldati lascia perplessi, Orson Welles sconcerta, “Giornale di Trieste”, 4 seembre 1948, p. 1. 27
Orson Welles in Leone Comini, L’astraismo non si addice a “Macbeth”, “Gazzeino-Sera”, Venezia, 4-5 seembre 1948. 28
29
Panicucci, Buona volontà e ambizione di Orson, cit.
30
Bazin, Tacchella, Les Secrets d’Orson Welles, cit.
31
Desternes, Le realisme ne m’interesse pas, cit.
Ugo Casiraghi, Macbeth è il film che non vi fa dormire, “l’Unità”, Milano, 4 seembre 1948. 32
Gian Baista Cavallaro, recensione a Macbeth, “L’Avvenire d’Italia”, Roma, 4 seembre 1948. 33
Alberto Mondadori, I due scandali del Festival, “Tempo”, Milano, 11 seembre 1948, pp. 25-27. 34
Orson Welles, riportato in Giuseppe Prezzolini, Cinematografai [sic] americani scontenti dell’Italia, “La Nazione”, Firenze, 29 seembre 1948, p. 3. Gli interventi originali di Elsa Maxwell e Orson Welles furono pubblicati sul “Daily Variety” dell’8 e del 15 seembre 1948. 35
Alberto Mondadori, Conclusioni sul Festival, “Tempo”, Milano, 18 seembre 1948, p. 24 e 31. 36
Augusto Borselli, Guerra tra pubblico e giuria, “Oggi”, Milano, 19 seembre 1948, p. 22. 37
Gian Luigi Rondi, Orson Welles alle prese con Shakespeare fa del teatro roboante e wagneriano, “La Nazione”, Firenze, 4 seembre 1948; lo stesso articolo uscì, in versione leggermente ridoa, come La tragedia di Macbeth insuccesso di Orson Welles, “Il Tempo”, Roma, 4 seembre 1948. 38
Leonardo Mitri, Welles con “Macbeth” ci ha voluto “macbeffare”, “Espresso”, Roma, 4 seembre 1948, pp. 1-2. 39
Arturo Lanocita, “Fuga in Francia” di Mario Soldati, “Corriere della Sera”, Milano, 4 seembre 1948. 40
41
Panicucci, Buona volontà e ambizione di Orson, cit.
Guido Aristarco, Molte buoni occasioni perdute alla mostra veneziana del cinema, “Sipario”, Milano, seembre 1948. 42
43
Casiraghi, Macbeth è il film che non vi fa dormire, cit.
Ennio Flaiano, recensione di Cagliostro, “Il Mondo”, Roma, 4 giugno 1949, poi in Id., Nuove leere d’amore al cinema, Rizzoli, Milano, 1990, p. 179. 44
Mondadori, Conclusioni sul Festival, cit. Ancora Mondadori, una seimana dopo: “Macbeth è un film di quella categoria che si chiama arte, senza aggeivi” (Postille a Venezia, “Tempo”, Milano, 25 seembre 1948, p. 28). A tanta passione, Welles rispose personalmente con una accorata leera di gratitudine in lingua inglese (“Dear Alberto, I want to feel sure, and I do, that you expressed your honest opinion about Macbeth, that none of the good things you wrote about it were meant merely as a favor to me […]”), dailoscria su carta intestata dell’Hotel Excelsior di Roma e firmata “your devoted friend, Orson” (Orson Welles ad Alberto Mondadori, Roma, dailoscrio senza data, Archivio della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Archivio storico il Saggiatore, fascicolo Welles). 45
A titolo d’esempio, 800.000 dollari è la cifra citata in una breve cronaca in “Fotogrammi” (Roma, 10 febbraio 1948, p. 6). Il costo esao della prima edizione del film, quella presentata a Venezia, ammonterebbe a 870.000 dollari, ancora soo il budget finale autorizzato di 885.000; queste cifre “che non sono accurate al cento per cento”, vengono dalle Richard Wilson Papers, oggi alla Special Collections Library, University of Michigan (Michael Anderegg, Orson Welles, Shakespeare, and Popular Culture, Columbia University Press, New York 1999 p. 80). 46
Mario Gromo, Hollywood contro Venezia – Una risposta, “La Stampa”, Torino, 29 seembre 1948, p. 3. 47
Giorgio Prosperi, Risposta ad Elsa Maxwell e ad Orson Welles, “Cinema”, Milano, 25 oobre 1948, p. 5. 48
Gian Francesco Luzi, Critici, “La Critica Cinematografica”, Roma, novembre 1948, p. 3. 49
Sulle differenze fra le due versioni, e l’accoglienza americana al film, si veda Anderegg, Orson Welles, Shakespeare, and Popular Culture, cit., pp. 74-97. 50
51
Gherardo Casale, L’incantesimo è compiuto, Lindau, Torino 2001.
Alfredo Todisco: “Una cravaa con dedica” Alfredo Todisco, Incontro con Orson Welles, “Ultimissime”, Trieste, 31 agosto 1948. 1
Dall’ao I, scena I; lo scambio di baute è in realtà fra Brabanzio e Jago, davanti a Roderigo. 2
Capitolo 8. Comincia Otello (e finisce un amore) Scalera Film, Promemoria sul film “Otello”, Roma, 28 dicembre 1951, depositato in copia all’Archivio centrale di stato di Roma, fascicolo CF 822. 1
Il soggeo di Visconti & Pietrangeli, intitolato Otello. Il moro di Venezia, si può leggere in Antonio Pietrangeli, Lampi d’estate e altri soggei, a cura di Antonio Maraldi, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena 1997; il dailoscrio non è datato ma secondo Maraldi, depositario dell’archivio Pietrangeli, risale intorno al 1946. 2
Gian Gaspare Napolitano, Al terzo uomo piace il bloody marriage, “L’Europeo”, Milano, 14 gennaio 1951, p. 12. 3
In quell’occasione il Sindacato giornalisti cinematografici consegnò a Zanuck una coppa d’argento per Sfida infernale, considerato miglior film straniero della stagione 1947-1948. 4
Nino Bo, Ty combae a San Marino, “Cine illustrato”, Roma, 26 seembre 1948, p. 3. 5
Amy Ravagnan, Orson e Lea gireranno “Otello”, “Fotogrammi”, Roma, 9 novembre 1948, p. 12. 6
Alessandro Tasca di Cutò, Un principe in America, Sellerio, Palermo 2004, p.
7
259. 8
Maurice Bessy, Orson Welles, Éditions Seghers, Paris 1963, pp. 68-69.
9
Barbara Leaming, Orson Welles. A Biography, Viking, New York 1985, p. 361.
Harriet White Medin, Othello, Desdemona & Me, “Video Watchdog”, Cincinnati, May-July 1994, pp. 54-57. 10
Orson Welles e Lea Padovani aerrati in un campo di meliga, “l’Unità”, ediz. piemontese, 21 seembre 1948. 11
In Giampiero Mughini, Che belle le ragazze di via Margua (Mondadori, Milano 2004, p. 127), l’autore accenna alle circostanze che portarono a costruire l’immagine, da un racconto reso dallo stesso Penn. 12
13
Libero De Libero, Borrador. Diario 1933-1955, Rai Libri, Roma 1994, p. 200.
L’aneddoto è raccontato, insieme ad altri particolari sulla lavorazione del film, nel documentario Shadowing e ird Man, direo nel 2004 da Frederick Baker. 14
15
252.
Clinton Heylin, Despite the System, Chicago Review Press, Chicago 2005, p.
Micheál Mac Liammóir, L’onesto Iago, Giunti, Firenze 1995, p. 28. L’aore scrive anche che il precedente Jago sarebbe stato interpretato da un aore italiano: “Il nome di quest’ultimo, poi giudicato inadao, mi sfugge (Freud? Probabilmente).” 16
17
Giovanni Austoni all’autore, 29 giugno 2006.
Ger., Desdemona rifiuta autografi, “Gazzeino-Sera”, Venezia, 5-6 novembre 1948, p. 2. 18
19
2.
Cronachee: Otello n. 2, “Gazzeino-Sera”, Venezia, 10-11 novembre 1948, p.
Orson Welles, Peter Bogdanovich, Io, Orson Welles, a cura di Jonathan Rosenbaum, Baldini & Castoldi, Milano 1993, pp. 233-234. 20
Alfredo Todisco, Una martellata nel bagno, “L’Europeo”, Milano, 29 oobre 1950, p. 7. 21
Lea Padovani, intervista con P. Porro, 14 dicembre 1973, in L’avventurosa storia del cinema italiano (1935-1959), a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Feltrinelli, Milano 1979, p. 303. 22
Lea Padovani in Matilde Amorosi, Lea Padovani: “Ero bellissima e Massimo Serato lasciò la Magnani per amor mio”, “Gente”, Milano, 1 febbraio 1990, p. 67. 23
24
Bessy, Orson Welles, cit., p. 69.
Alfredo Panicucci, Passo doppio, “Tempo”, 12-13 marzo 1949, p. 17. Vedi anche Le Portrait d’un assassin: Pierre Brasseur tue Maria Montez et voilà pourquoi…, “L’Écran français”, 3 mai 1949, p. 7. 25
26
201.
Peter Noble, e Fabulous Orson Welles, Hutchinson, London 1956, pp. 195-
Luigi Barzini jr., I tavolini di via Veneto, “Oggi”, Milano, 12 febbraio 1949, p. 8. Cfr. anche Luigi Barzini jr., Almanacco dei see giorni – febbraio 21 lunedì, “La Seimana Incom”, Roma, 26 febbraio 1949, p. 4. 27
28
Napolitano, Al terzo uomo piace il bloody marriage, cit.
Rita Kohler, citata in Simon Callow, Orson Welles, vol. 3: One-Man Band, Jonathan Cape, London 2015, p. 33. 29
30
3.
Mariella Parker, Cinecià e dintorni, “Film”, Roma-Milano, 17 aprile 1949, p.
Oriana Fallaci, Le disoccupate più famose d’Italia, “L’Europeo”, 16 novembre 1958, oggi in Id., L’Italia della dolce vita, Rizzoli, Milano 2018, p. 70. 31
Capitolo 9. Le incertezze di Scalera 1
162.
Silvana Pampanini, Scandalosamente perbene, Gremese, Roma 1996, pp. 161-
2
Zorro, I dimenticati, “Hollywood”, Milano, 27 novembre 1948, p. 16.
3
Seegiorni – Orson è tornato, “Oggi”, Milano, 10 marzo 1949, p. 4.
Hedda Hopper, elli che credono al proprio mito, “Hollywood”, Milano, 23 luglio 1949, pp. 4-5. 4
5
Alberto Mondadori, Ancora di Welles, “Tempo”, Milano, 2 oobre 1948, p. 20.
6
Guido Aristarco, La signora di Shangai, “Cinema”, Milano, 25 oobre 1948, p.
7
Dino Risi, Morte della sequenza, “Cinema”, Milano, 25 novembre 1948, p. 79.
31.
Callisto Cosulich, La signora di Sciangai, “Giornale di Trieste”, 19 seembre 1948, ora in Callisto Cosulich, Il cinema secondo Cosulich, Transmedia, Gorizia 2005, p. 32. 8
Volpone [Pietro Bianchi], “Bertoldo”, Milano, 26 seembre 1948, poi in Pietro Bianchi, L’occhio di vetro. Il cinema degli anni 1945-1950, Il Formichiere, Milano 1979, p. 203. 9
Giulio Cesare Castello, e Magnificent Orson Welles, “Bianco e nero”, Roma, gennaio 1949, pp. 12-21. 10
Orson Welles, leera a Charles K. Feldman, 6 marzo 1949, nel dossier curato da Catherine L. Benamou in “Michigan arterly Review”, Spring 2009, p. 216. 11
Orson Welles ad Alberto Mondadori, Parigi, 25 febbraio 1949, dailoscrio, Archivio della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Archivio storico il Saggiatore, fascicolo Welles. 12
13
Orson Welles, Filming Othello (1978).
“Orson Welles ha infai l’intenzione di partire fra qualche mese per un autentico giro del mondo ‘teatrale-cinematografico’, di una formula completamente nuova. E durante il suo viaggio, girerà a ogni tappa le scene di questa sua nuova produzione” (Bruno Matarazzo, Arco di trionfo, “Film”, Roma, 15 maggio 1949, p. 3). 14
Società Scalera Film, domanda di nullaosta di lavorazione relativo al film Otello, 22 maggio 1949, conservata presso l’Archivio centrale di stato di Roma. 15
Annibale Scicluna, giudizio preventivo alla sceneggiatura di Otello, 3 giugno 1949, conservato presso l’Archivio centrale di stato di Roma. 16
lan. [Arturo Lanocita], Cagliostro, “Corriere della Sera”, Roma, 19 maggio 1949, p. 2. 17
18
Dino Falconi, Due righe in frea, “Film”, Roma-Milano, 17 luglio 1949, p. 2.
Ennio Flaiano, Cagliostro, “Il Mondo”, Roma, 4 giugno 1949, ora in Ennio Flaiano, Nuove leere d’amore al cinema, Rizzoli, Milano 1990, p. 179. 19
Orson Welles in Barbara Leaming, Orson Welles. A Biography, Viking, New York 1985, p. 370. 20
Betsy Blair, e Memory of All at (revised edition), Ellio & ompson, London 2004, p. 162. 21
22
Ibid.
Michele Scalera, leera alla Direzione generale della cinematografia, 21 giugno 1949, conservata presso l’Archivio centrale di stato di Roma. 23
24
Micheál Mac Liammóir, L’onesto Iago, Giunti, Firenze 1995, p. 132.
Cfr. Simone Mougin, A grand renfort de coups de guele et d’éclats de rire Orson Welles fait d’Othello un Maure de Mogador, “L’Écran français”, Paris, 25 juillet 1949, p. 13. 25
26
Blair, e Memory of All at, cit., pp. 162-163.
omas Brady, Welles plans film on ‘Iliad’, ‘Odissey’, “New York Times”, 25 July 1949. 27
Italo Dragosei, Seimana Romana – Comincia l’euforia pellicolare, “Hollywood”, Milano, 30 luglio 1949, p. 22. 28
Capitolo 10. L’ultima Desdemona Cfr. Fabio Galvano, Orwell, grande fratello per le spie inglesi, “La Stampa”, Torino, 23 giugno 1998, p. 21. 1
James Naremore, e Trial. e FBI vs. Orson Welles, “Film Comment”, New York, January-February 1991, pp. 22-27. 2
Mario Luporini, domanda al Ministero del commercio con l’estero, 28 aprile 1949, conservata presso l’Archivio centrale di stato di Roma. 3
Giorgio Papi, leera al Ministero del commercio con l’estero, 28 luglio 1949, conservata presso l’Archivio centrale di stato di Roma. 4
5
Orson Welles nuovamente in cià, “Gazzeino di Venezia”, 4 agosto 1949.
Una foto pubblicata sul “Gazzeino-Sera” del 6 agosto 1949 li ritrae a passeggio insieme a Venezia. 6
Orson Welles in Barbara Leaming, Orson Welles. A Biography, Viking, New York, 1985, p. 372. 7
Rendiconto produzione Othello “n. 2”, inviato da Giorgio Papi (Orson Welles Productions) alla presidenza del Consiglio, 27 seembre 1950, copia conservata all’Archivio centrale di stato. 8
Micheál Mac Liammóir, L’onesto Iago, Giunti, Firenze 1995, pp. 162-163 (diario del 3 agosto 1949). 9
André Bazin, Orson Welles, Chavanne, Paris, 1950, ora tradoo in Id., Orson Welles, a cura di Elena Dagrada, Temi, Trento 2005, pp. 70-71. 10
Ennio Flaiano, L’aesa del capolavoro, “Il Mondo”, Roma, 27 agosto 1949, poi in Id., Leere d’amore al cinema, Rizzoli, Milano 1978, pp. 135-136. 11
12
p. 3.
Carlo Martini, Orson Welles e i gai, “Film”, Roma-Milano, 11 seembre 1949,
Cartoni animati – L’Otello di Orson, “Cine illustrato”, Roma, 18 seembre 1949, p. 2. 13
Francesco Càllari, La crisi del cinema americano, “Cinema”, Milano, 15 seembre 1949, p. 118. 14
Oberdan Troiani, materiali da un documentario in lavorazione realizzato da Massimiliano Troiani. 15
Oberdan Troiani, in Alberto Farina, Tuo genio e sregolatezza, “Film cronache”, Roma, n. 35, gennaio-febbraio 1993, p. 24. 16
17
84-85
Chris Welles Feder, In My Father’s Shadow, Mainstream, Edinburgh 2010, pp.
Orson Welles, Memorandum to Republic Pictures, nel dossier curato da Catherine L. Benamou in “Michigan arterly Review”, Spring 2009, p. 223. 18
Mary Alcaide, 2 October 1949, from Rome. Le leere di Mary Alcaide citate di qui in poi, originariamente in inglese, appaiono qui tradoe dall’autore. 19
20
Mary Alcaide, 11 October 1949, from Rome.
21
Mary Alcaide, 12 October 1949, from Viterbo.
22
Mary Alcaide, 12 October 1949, from Viterbo.
23
Mary Alcaide, 16 October 1949, from Viterbo.
24
Mary Alcaide, 21 October 1949, from Viterbo.
25
Mary Alcaide, 29 October 1949, from Viterbo.
A Orson costano fiato le ultime scene di Otello, “Gazzeino-Sera”, Venezia, 3 novembre 1949, p. 2. 26
Nel cortile della Ca’ d’Oro Desdemona piangeva sul serio, “Gazzeino-Sera”, Venezia, 5 novembre 1949, p. 2. 27
Oberdan Troiani da un documentario di Massimiliano Troiani ancora in produzione. 28
Oberdan Troiani in Memorie a 15 ASA (Memoirs in 15 ASA), a documentary by Massimiliano Troiani produced by La grande opera in 2006. 29
Tonino Delli Colli, in L’avventurosa storia del cinema italiano (1935-1959), a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Feltrinelli, Milano 1979, p. 303. 30
31
Mary Alcaide, 15 November 1949, from Rome.
Orson Welles a Richard Wilson, 14 November 1949, nel dossier curato da Catherine L. Benamou in “Michigan arterly Review”, Spring 2009, p. 226. 32
Richard Wilson a Orson Welles, 22 November 1949, nel dossier curato da Benamou, cit., p. 229. 33
34
Mary Alcaide, 15 November 1949, from Rome.
Elenco spese film Otello, inviato da Giorgio Papi (Orson Welles Productions) all’Istituto nazionale per i cambi con l’estero, Roma, 15 aprile 1950, conservato nell’Archivio centrale di stato. 35
36
Mary Alcaide, 15 November 1949, from Rome.
37
Mary Alcaide, 19 November 1949, from Nice.
38
Mary Alcaide, 25 November 1949, from Saint-Paul-de-Vence.
Mario Gromo, Il terzo uomo, “La Stampa”, 1949, poi in Id., Film visti, Edizioni di Bianco e Nero, Roma 1957, pp. 332-333. 39
Vice, recensione di Il terzo uomo, “Cinema”, n. 32, Milano, 15 febbraio 1950, pp. 93 e 97. 40
Luigi Barzini jr., Almanacco dei see giorni, “La Seimana Incom”, n. 4, 28 gennaio 1950, p. 3. 41
Angelo Rai, Lea non pubblicherà le leere di Orson, “La Seimana Incom”, n. 51, Roma, 17 dicembre 1949, p. 27. 42
Capitolo 11. Ulisse a Taormina Orson Welles, in André Bazin, Charles Bitsch, Entretien avec Orson Welles, “Cahiers du Cinéma”, n. 84, 1958, oggi in Id., Orson Welles, a cura di Elena Dagrada, Temi, Trento 2005, p. 188. 1
George Fanto, citato in Simon Callow, Orson Welles, vol. 3: One-Man Band, Jonathan Cape, London 2015, p. 53. 2
3
Mary Alcaide, 20 February 1950, from Mazagan.
4
Mary Alcaide, 14 February 1950, from Mazagan.
5
Mary Alcaide, 22 February 1950, from Casablanca.
6
Mary Alcaide, 20 February 1950, from Mazagan.
William Shakespeare, Otello, a cura di Cesare Vico Lodovici, Einaudi, Torino 1953, p. 118. 7
Orson Welles, préface a Maurice Bessy, Les Trucquages au cinema, Éditions Prisma, Paris 1951. 8
9
Micheál Mac Liammóir, L’onesto Iago, Giunti, Firenze 1995, p. 311.
10
Mary Alcaide, 4 March 1950, from Mogador.
11
Ibid.
Il dailoscrio è riprodoo integralmente in L’«Otello» senz’acca, a cura di Alberto Anile, CSC/Rubbeino, Roma 2015, pp. 47-52; i provini fotografici sono purtroppo dispersi. 12
13
Mary Alcaide, 10 March 1950, from Casablanca.
14
Mary Alcaide, 19 March 1950, from Paris.
15
Mary Alcaide, 24 March 1950, from Paris.
16
Mary Alcaide, 24 March 1950, from Paris.
Frank Brady, Citizen Welles: A Biography of Orson Welles, Charles Scribner’s Sons, New York 1989, p. 434. Cfr. anche Barbara Leaming, Orson Welles, Viking, New York 1985, p. 371. 17
Leera di Giorgio Papi alla Direzione generale della cinematografia, 5 aprile 1950, conservata presso l’Archivio centrale di stato di Roma. 18
Nicola De Pirro, leera a Luigi Ailio Iaschi, 13 giugno 1950, minuta conservata presso l’Archivio centrale di stato di Roma. 19
Nicola De Pirro, leera a Luigi Ailio Iaschi, 17 giugno 1950, minuta conservata presso l’Archivio centrale di stato di Roma. 20
Il Ministero del commercio con l’estero alla Banca d’America e d’Italia, 22 giugno 1950, copia conservata presso l’Archivio centrale di stato di Roma. 21
22
Mary Alcaide, 14 April 1950, from Taormina.
23
Mary Alcaide, 20 and 21 April 1950, from Taormina.
Pier Luigi Carli, Sarà Ulisse e, con la barba, il moro di Venezia, “La Gazzea di Livorno”, 22 aprile 1950 (e, con titoli diversi, su altri quotidiani dello stesso periodo). 24
lan. [Arturo Lanocita], Orson Welles il ribelle, “Corriere d’Informazione”, 27 maggio 1950, p. 6. 25
Francis Koval, Interview with Welles, “Sight and Sound”, London, December 1950, p. 316 (ora in Orson Welles, It’s All True. Interviste sull’arte del cinema, minimum fax, Roma 2005, pp. 76-77); l’intervista venne realizzata a Parigi durante le repliche di e Blessed and the Damned e risale quindi almeno al luglio precedente. 26
Arturo Lanocita, alcuno ricorda Petrolini e altri evocano Shakespeare, “Corriere della Sera”, Milano, 29 novembre 1950, p. 3. 27
Gian Gaspare Napolitano, Al terzo uomo piace il bloody marriage, “L’Europeo”, Milano, 14 gennaio 1951, p. 12. 28
Peter Noble, Orson Welles le magnifique, Éditions Pierre Horay, Paris 1957, pp. 155 e 178. Interpellato per la prima edizione di questo libro, Dino De Laurentiis ha dichiarato di non ricordare nulla di un episodio così lontano. 29
Capitolo 12. Uno Sporcacione nell’Anno Santo William Shakespeare, Otello, a cura di Cesare Vico Lodovici, Einaudi, Torino 1953, p. 31. 1
Il testo di e Unthinking Lobster è stato pubblicato in francese, con il titolo Miracle à Hollywood, dall’editore La Table Ronde nel 1952. Uno dei pochi saggi italiani dedicati alla pièce è quello di Marco Vanelli e Davide Zordan, Orson Welles e il miracolo dell’aragosta, in “Cabiria”, n. 180, Recco, maggio-agosto 2015, pp. 2953. La traduzione italiana è infine apparsa come Miracolo a Hollywood (a cura di Gianfranco Giagni, Sellerio, Palermo 2022). Sull’intero e Blessed and the Damned cfr. Simon Callow, Orson Welles, vol. 3: One-Man Band, Jonathan Cape, London 2015, pp. 57-69. 2
Alla commedia di Welles in prima fila Rita Hayworth, “Corriere d’Informazione”, Milano, 20 giugno 1950, p. 1. 3
Lorenzo Bocchi, Stravaganza di Orson Welles, “La Seimana Incom”, Roma, 24 giugno 1950, p. 34. 4
5
“Film”, Roma, 2 dicembre 1950, quarta di copertina.
6
Palcoscenici di Parigi, in “Sipario”, Milano, luglio 1950, p. 28.
7
Marco Ramperti, Cronache dei 4 venti, “Film d’oggi”, 15 novembre 1950, p. 5.
Giuseppe Grieco, I santi si vendono meglio dei cow-boys, “Cinema nuovo”, Milano, 15 luglio 1953, pp. 62-63. Più che una recensione dello speacolo, allestito tre anni prima, l’articolo sembra in realtà prendere spunto dalla leura del testo pubblicato in Francia nel 1952. 8
Orson Welles, prefazione a Frédéric O’Brady, Extérieurs a Venise, Gallimard, Paris 1950. 9
10
Gulliver, Resti fra noi – Orson Welles, “L’Elefante”, Roma, 19 luglio 1950, p. 2.
I cinque pezzi furono pubblicati in Italia sul quotidiano milanese “Corriere d’Informazione”, il 20, 21, 22, 23 e 27 dicembre 1950, con i titoli: Ma che cos’è questa Germania?, Berlino Est Berlino Ovest, Le do a un nazi le prendo da una antinazi, Musica del “Terzo Uomo” fra i ruderi di Berchtesgaden, I Tedeschi mi insultano perché la penso come Nietzsche. 11
12
Welles, Ma che cos’è questa Germania?, cit.
13
Welles, Le do a un nazi le prendo da una antinazi, cit.
14
Ibid.
15
Welles, Musica del “Terzo Uomo” fra i ruderi di Berchtesgaden, cit.
Contro Orson Welles finimondo dei tedeschi, “Gazzeino-Sera”, Venezia, 6 novembre 1950, p. 1. 16
17
Ibid.
Walter Bedogni alla Direzione generale dello speacolo, Roma, 4 agosto 1950, copia conservata nell’Archivio centrale di stato. 18
Giorgio Papi (Orson Welles Productions) alla Direzione generale dello speacolo, Roma, 9 seembre 1950. 19
Jean-Pierre Berthomé, Les labyrinthes d’Othello, in “Positi”, Paris, juilletaoût 1998, p. 46. 20
21
Mary Alcaide, 25 September 1950, from Capri.
Dado Ruspoli in Ludovica Ripa di Meana, Un decaduto in aesa di giudizio, “L’Europeo”, Milano, 10 dicembre 1983, pp. 162-164. 22
23
Mary Alcaide, 14 October 1950, from Paris.
24
Servizio segreto – Anche lui, “Film”, Roma-Milano, 28 oobre 1950, p. 4.
Orson Welles contro il realismo cinematografico, “L’Europeo”, Milano, 15 oobre 1950, p. 14. 25
“I can only regret,” Welles scrisse addolorato a Reed, “that he [Korda] took such a lenghty and elaborate means of dislodging me since this was not only financially very costly to myself but, as you may immagine, the most disappointing and humiliating experience of my professional life.” Welles to Reed, BFI Special Collections, citato in Peter William Evans, Carol Reed, Manchester University Press, Manchester 2005, p. 120. 26
La citazione, traa dall’epistolario Too Brief a Treat, è riportata in James Campbell, Truman Capote preso alla leera, “Diario”, Milano, 14 dicembre 2004, p. 29. 27
28
Mary Alcaide, 12 November 1950, from Rome.
Cfr. Gerhard Koch, «Ein fertiger Gauner» – Michel Olian im Clinch mit den Schweizer Behörden, in AA.VV., Prominente Flüchtlinge im Schweizer Exil, Bundesamt ür Flüchtlinge, Medien und Kommunikation, Bern 2003, pp. 196-217. 29
30
Frank Brady, Citizen Welles, Charles Scribner’s Sons, New York 1989, p. 433.
31
Ibid.
Per questa leera (Orson Welles a George Fanto, 14 novembre 1950) e per altri deagli sulla lavorazione di Otello, cfr. Jean-Pierre Berthomé, Les labyrinthes d’Othello, “Positi”, Paris, juillet/août 1998, pp. 40-48. 32
Orio Caldiron, Conversazione con Giuseppe Rotunno, in Id., Giuseppe Rotunno. La verità della luce, CSC/Skira, Roma 2007, p. 38. 33
Arturo Lanocita, alcuno ricorda Petrolini e altri evocano Shakespeare, “Corriere della Sera”, Milano, 29 novembre 1950, p. 3. 34
F.R. [Franco Rispoli], Orson il “diavolo” non è bruo come si dipinge, “Film”, Roma-Milano, 11 novembre 1950, p. 3. 35
36
Ibid.
37
Mary Alcaide, 22 November 1950, from Venice.
Giuliano Doge, Con una risata Orson respinge i marziani, “Gazzeino-Sera”, Venezia, 21 novembre 1950, p. 3. 38
39
Mary Alcaide, 30 November 1950, from Venice.
40
Mary Alcaide, 6 December 1950, from Venice.
Oberdan Troiani, materiali da un documentario in lavorazione realizzato da Massimiliano Troiani. 41
Oberdan Troiani in Alberto Farina, Tuo genio e sregolatezza, “Film cronache”, Roma, gennaio-febbraio 1993, p. 23. 42
Capitolo 13. Mascherate Orson Welles morso da un cane idrofobo, “Corriere d’Informazione”, Milano, 16 gennaio 1951, p. 1. Cfr. Morso da un cagnolino l’aore Orson Welles, “MomentoSera”, Roma, 17 gennaio 1951, p. 4. 1
Orson Welles to George Fanto, 8 January 1951, “Fanto Mss” Collection, folder 2, Manuscripts Department, Lilly Library, Indiana University, Bloomington, Indiana. 2
Orson Welles to George Fanto, 20 December 1950, “Fanto Mss” Collection, folder 2, Manuscripts Department, Lilly Library, Indiana University, Bloomington, Indiana. 3
Angelo Francesco Lavagnino è indicato nei credits come autore delle musiche di Otello insieme ad Alberto Barberis. Secondo François omas fu Barberis a presentare Lavagnino a Welles; il regista, grato della segnalazione, deciderà di meere nei credit anche Barberis. Cfr. François omas, Lavagnino e Orson Welles, in Angelo Francesco Lavagnino. Un compositore e il cinema, Cià del silenzio, Novi Ligure 2006, p. 113. 4
Gian Gaspare Napolitano, Al terzo uomo piace il bloody marriage, “L’Europeo”, Milano, 14 gennaio 1951, p. 12. 5
6
Orson Welles to George Fanto, 20 December 1950, cit.
7
Cfr. Frank Brady, Citizen Welles, Charles Scribner’s Sons, New York 1989, p.
440. 8
Orson Welles to George Fanto, 8 January 1951, cit.
Harriet White Medin, Othello, Desdemona & Me, “Video Watchdog”, Cincinnati, May-July 1994, p. 57. 9
Jean-Charles Tacchella, Sans commentaire, “L’Écran français”, Paris, 14 mars 1951, p. 14. Ma il lavoro presumibilmente non venne neanche iniziato. Nella citata missiva a Fanto dell’8 gennaio, Welles accenna di essere stato a Parigi a vedere “the Guitry picture, which was not only abominable as a film, but quite impossible politically and morally, and therefore I had no choice but to refuse it”. Malgrado il suo costante bisogno di denaro, Welles non acceava automaticamente qualunque offerta. 10
Giorgio Berti, Il Tevere ha parlato con la erre moscia, “La Seimana Incom”, Roma, 3 febbraio 1951, pp. 19-21. 11
Giorgio Berti, Una ragazza di sangue blu sarà la Wandissima di domani, “La Seimana Incom”, Roma, 31 marzo 1951, p. 27. 12
13
Gisella Sofio, Roma, 19 novembre 2004.
Orson Welles, Peter Bogdanovich, Io, Orson Welles, a cura di Jonathan Rosenbaum, Baldini & Castoldi, Milano 1993, p. 435. 14
La sceneggiatura Masquerade mi è stata messa generosamente a disposizione da Emiliano Campagnola. 15
Bret Wood, Orson Welles. A Bio-Bibliography, Greenwood Press, Westport (Connecticut) 1990, p. 218. 16
17
Barbara Leaming, Orson Welles. A Biography, Viking, New York 1985, p. 33.
Simon Callow, Orson Welles, vol. 1: e Road to Xanadu, Vintage, London 1996, p. 63. 18
Alberto Mondadori, Orson Welles e Shakespeare, “Epoca”, Milano, 2 dicembre 1950, p. 65. 19
Ennio Flaiano, La macchina di Welles, “Il Mondo”, Roma, 24 marzo 1951, poi in Id., Leere d’amore al cinema, Rizzoli, Milano 1978, pp. 203-204. 20
21
82.
Guido Aristarco, Film di questi giorni, “Cinema”, Milano, 15 febbraio 1951, p.
Fernaldo Di Giammaeo, Macbeth, “Bianco e nero”, Roma, aprile 1951, pp. 71-73. 22
Callisto Cosulich, Macbeth, “Giornale di Trieste”, 5 giugno 1951, ora in Id., Il cinema secondo Cosulich, Transmedia, Gorizia 2005, p. 192. 23
24
Mario Gromo, Film visti, Edizioni di Bianco e Nero, Roma 1957, pp. 372-373.
25
G.L.R. [Gian Luigi Rondi], Macbeth, “Il Tempo”, Roma, 10 marzo 1951, p. 3.
Alberto Moravia, Macbeth con le convulsioni, “L’Europeo”, Milano, 25 marzo 1951, p. 12. 26
Anita [Colby], Filo direo: Mascherate di Welles, “Hollywood”, Milano, 17 marzo 1951, p. 2. 27
Press book di Otello, Scalera Film, Roma, 1951, conservato alla Biblioteca Chiarini, presso il Centro sperimentale di cinematografia di Roma. 28
David Robinson, “e Times”, October 1992, cit. in Simon Callow, Orson Welles, vol. 3: One-Man Band, Jonathan Cape, London 2015, p. 84. 29
Cfr. Frank Tavares, Orson Welles, Harry Alan Towers, and the Many Lives of Harry Lime, “Journal of Radio & Audio Media”, vol. 17, issue 2, 2010, pp. 167-181. 30
31
110.
Chris Welles Feder, In My Father’s Shadow, Mainstream, Edinburgh 2010, p.
Sacha, Lucidi e Shepridge vengono citati come montatori dell’edizione italiana; quella americana, ulteriormente rimaneggiata, aggiunge il nome di William Morton; oltre a questi andrebbe citato anche Lou Lindsay, che cominciò a montare alcune scene durante le riprese. 32
Densa di notizie e riscontri sul periodo italiano di Welles, la biografia di Brady è però anche ricca di svarioni e imprecisioni, dalla storpiatura di molti nomi italiani a errate dislocazioni di situazioni ed episodi. Anche i dati economici 33
sull’Otello, riportati senza peraltro dichiarare le fonti, contengono senz’altro errori. L’ultimo contrao con Zanuck, che secondo Brady si aggirava sui 75.000 dollari, fu invece – documento firmato alla mano – di 195 milioni di lire, al cambio dell’epoca circa 312.000 dollari. 34
Press book di Otello, cit.
Appunto sull’utilizzo dei fondi sbloccati per la produzione del film Otello, documento della Direzione generale speacolo, senza firma e senza data [maggio 1951?], conservato presso l’Archivio centrale di stato di Roma. 35
36
Ibid.
La leera di Patrice Dally a George Fanto, datata 14 aprile 1950, è conservata fra le carte di Fanto alla Lilly Library of Indiana University. Dalla leera sembrerebbe che, al 18 marzo ’50, la produzione avesse già ricevuto 18.100.000 franchi da Ténoudji e che stesse per riceverne altri 9.600.000. 37
38
Orson Welles, collana “Cento Stelle”, n. 76, Roma, 3 seembre 1951.
Otello, il Moro di Venezia, “L’Eco del Cinema e dello Speacolo”, numero speciale per la Mostra di Venezia, Roma, agosto 1951. 39
40
194.
Peter Noble, e Fabulous Orson Welles, Hutchinson, London 1956, pp. 193-
Ugo Casiraghi, È cominciato a Venezia il carnevale della mondanità, “l’Unità”, Milano, 1° seembre 1951, p. 3. 41
Da un articolo del giornale francese “Ce soir”, del 6 seembre 1951, cit. in Jean-Pierre Berthomé, Les labyrinthes d’Othello, “Positi”, n. 449/450, juillet-août 1998. 42
Callisto Cosulich, Neppure quest’anno Welles ha voluto smentire se stesso, “Giornale di Trieste”, 2 seembre 1951, ora in Id., Il cinema secondo Cosulich, cit., p. 280. 43
Luigi Fossati, Ritirato all’ultima ora l’“Otello” di Orson Welles, “Avanti!”, Roma, 1° seembre 1951, p. 4. 44
Oreste Tesei, Orson vestito di bianco ha sedoo i giornalisti, “Oggi”, Milano, 13 seembre 1951, p. 35. 45
Viorio Bonicelli, Il colpo di scena di Orson Welles, “Tempo”, Milano, 15 seembre 1951, pp. 10-11. 46
Paolo Valmarana, Il caso Orson Welles, “L’Eco del Cinema e dello Speacolo”, Roma, seembre 1951, p. 27. 47
48
Bonicelli, Il colpo di scena di Orson Welles, cit.
49
Tesei, Orson vestito di bianco ha sedoo i giornalisti, cit.
Adriano Baracco, Venezia, primo tempo, “Hollywood”, Milano, 15 seembre 1951, p. 10. 50
Arturo Lanocita, Orson Welles ha agitato le acque chete del Festival, “Corriere della Sera”, Milano, 2 seembre 1951, p. 3. 51
52
Valmarana, Il caso Orson Welles, cit.
Gian Gaspare Napolitano, Churchill a Venezia si sente ancora giovane, “L’Europeo”, Milano, 9 seembre 1951, p. 46. 53
Gli altri membri della giuria erano Antonio Baldini, Ermanno Contini, Fabrizio Dentice, Piero Gadda Conti, Vinicio Marinucci e Giorgio Vigolo. 54
Cfr. Welles, Bogdanovich, Io, Orson Welles, cit., pp. 237-238, e Joseph Coen, Vanity Will Get You Somewhere, Mercury House, San Francisco 1987, p. 106. Coen colloca erroneamente l’episodio nel 1949, durante il suo precedente soggiorno a Venezia. 55
Sebastiano Mondadori, Verità di famiglia, La nave di Teseo, Milano 2022, pp. 102-103. 56
57
Welles, Bogdanovich, Io, Orson Welles, cit., p. 238.
Sulla relazione fra Welles e Louise de Vilmorin, cfr. Giuseppe Scaraffia, Nota, in Louise de Vilmorin, La leera in un taxi, Sellerio, Palermo 2000; Giuseppe Scaraffia, Ti amerò per sempre. Stasera, “Amica”, Milano, 30 agosto 2000, p. 143. 58
Orson Welles, La lunga noe di Don Carlos, “Epoca”, Milano, 15 seembre 1951, pp. 62-67. 59
Capitolo 14. Di acqua e di roccia Alberto Mondadori, “Gioia dell’anima mia, se le tempeste…”, “Epoca”, Milano, 8 seembre 1951, p. 57. 1
Paolo Valmarana, Il caso Orson Welles, “L’Eco del Cinema e dello Speacolo”, Roma, seembre 1951, p. 27. 2
3
Luigi Chiarini, Pane al pane…, “Cinema”, Milano, 15 oobre 1951, pp. 203-204.
Alberto Mondadori a Luigi Chiarini, in Leere di una vita, Mondadori, Milano 1996, pp. 392-393. 4
Orson Welles querela ma poi non si presenta, “Corriere d’Informazione”, Milano, 5 novembre 1951, ultimissima edizione. 5
Angelo Maccario, Orson Welles e Pagnol, “Teatro Scenario”, Milano, 1° dicembre 1951, pp. 46-47. 6
Per un confronto fra questa versione, conservata alla Cineteca nazionale, e le successive si veda Alberto Anile, L’Otello senz’acca, CSC/Rubbeino, Roma 2015. 7
8
lan. [Arturo Lanocita], Otello, “Corriere della Sera”, Roma, 1° dicembre 1951.
Viorio Bonicelli, L’inquieto Otello di Orson Welles, “Tempo”, Milano, 15 dicembre 1951, p. 18. 9
Angelo Solmi, Il geometrico Otello di Welles, “Oggi”, Milano, 13 dicembre 1951, p. 38. 10
11
Ermanno Contini, Otello, “Il Messaggero”, Roma, 6 dicembre 1951, p. 3.
Alberto Moravia, Un Otello forte ma senza cervello, “L’Europeo”, Milano, 12 dicembre 1951, p. 43. 12
13
G.L.R. [Gian Luigi Rondi], Otello, “Il Tempo”, Roma, 6 dicembre 1951, p. 3.
14
fo. [Luigi Fossati], Otello, “Avanti!”, Milano, 1° dicembre 1951, p. 4.
15
u.c. [Ugo Casiraghi], Otello, “l’Unità”, Milano, 1° dicembre 1951.
Guido Aristarco, Otello, “Cinema”, Milano, 15 dicembre 1951, p. 340 e terza di copertina. 16
Luigi Chiarini, Pane al pane… – Noticina sull’Otello, “Cinema”, Milano, 31 dicembre 1951, p. 354. 17
18
Franco Berui, I film del mese, “Sipario”, Milano, dicembre 1951, pp. 39-41.
f.d.g. [Fernaldo Di Giammaeo], Otello e Umberto D., “Rassegna del film”, Torino, febbraio 1952, pp. 30-31. 19
Maurizio Del Ministro, che peraltro non dà peso all’evidente ricalco da Amleto, rileva un paio di altri “ricordi” dal film di Olivier, nella scoperta da parte della macchina da presa del talamo coniugale, e nel paesaggio marino che compare all’inizio del monologo “To be or not to be”. Cfr. Maurizio Del Ministro, Othello di Welles, Bulzoni, Roma 2000, pp. 91 e 93. 20
Jack J. Jorgens, Shakespeare on Film, Indiana University Press, Bloomington and London 1977. Cfr. anche Antonio Tuzzi, Welles e Shakespeare, “Cinemasessanta”, Roma, novembre-dicembre 1985, pp. 15-29. 21
André Bazin, Orson Welles, Éditions du Cerf, Paris 1972, ora tradoo in Id., Orson Welles, a cura di Elena Dagrada, Temi, Trento 2005, p. 162. 22
Michael Anderegg, Orson Welles, Shakespeare, and Popular Culture, Columbia University Press, New York 1999, pp. 104-111. 23
Joseph McBride, Orson Welles (Revised and Expanded Edition), Da Capo Press, Cambridge, 1996, p. 126, e Id., What Ever Happened to Orson Welles?, University Press of Kentucky, Lexington 2006, p. 252. 24
Alberto Anile, Welles in Italia: l’aggressione della critica e la dissoluzione della forma, in My Name is Orson Welles, a cura di Giorgio Placereani e Luca Giuliani, il castoro, Milano 2007, pp. 223-224. 25
James Naremore, Orson Welles. Ovvero la magia del cinema, Marsilio, Venezia 1993, p. 247. 26
Capitolo 15. L’ombra di Salomè Margaret Lockwood, in Peter Noble, Orson Welles le magnifique, Éditions Pierre Horay, Paris 1957, p. 143. 1
John Francis Lane, leera aperta a Welles pubblicata su “Cinema”, Milano, 1° febbraio 1952, seconda di copertina. 2
Oberdan Troiani in Alberto Farina, Tuo genio e sregolatezza, “Film cronache”, Roma, gennaio-febbraio 1993, p. 23. 3
4
Peter Noble, e Fabulous Orson Welles, Hutchinson, London 1956, p. 183.
Orson Welles, Peter Bogdanovich, Io, Orson Welles, a cura di Jonathan Rosenbaum, Baldini & Castoldi, Milano 1993, p. 140. 5
Fra le carte di Peppino Amato si trova anche il traamento di un’altra Salomè, firmato dallo sceneggiatore ungherese Géza Herczeg, pure questo esplicitamente basato sui Vangeli e sulla versione francese della tragedia di Oscar Wilde; sul frontespizio l’indicazione “Copyright 1951, by Orson Welles, Rome, Italy” suggerisce che Welles l’abbia acquistato per assicurarsi in qualche modo, come indicato all’inizio della sua sceneggiatura, l’utilizzo dell’ao unico di Wilde. Il traamento di Herczeg si limita in effei a rimeere in forma narrativa la tragedia teatrale di Wilde, col classico espediente del volumone della Bibbia che si apre a inizio film e si chiude alla sua conclusione. 6
Peter Bogdanovich, Introduzione, a Welles, Bogdanovich, Io, Orson Welles, cit., p. 28. 7
8
Welles, Bogdanovich, Io, Orson Welles, cit., p. 251.
9
Max Favalelli, “Paris-Press”, 9 mai 1952.
10
Welles, Bogdanovich, Io, Orson Welles, cit.
Gian Luigi Rondi, Primato del cinema italiano, “Il Tempo”, Roma, 13 maggio 1952, p. 3. Cfr. anche: l’articolo dello stesso Rondi sulla “Nazione” di Firenze dello stesso giorno; Arturo Lanocita, “Due soldi di speranza” e “Otello” vincono il Gran premio a Cannes, “Corriere della Sera”, Roma, 11 maggio 1952, p. 3; Ugo Casiraghi, Né la floa né MacCarthy hanno fao vincere i film di Hollywood, “l’Unità”, Milano, 13 maggio 1952, p. 3; Alfredo Di Lauro, V festival di Cannes, “Rivista del cinematografo”, Roma, 1952, p. 13. 11
Jean-Jacques Gautier, En couronnant “Othello”, le jury n’a-t-il pas rendu homage aux qualités de “Citizen Kane”?, “Le Figaro”, Paris, 13 mai 1952, p. 6. 12
Henry Magnan, “Deux Sous d’espérance” (Renato Castellani) et “Othello” (Orson Welles) Grand Prix ex aequo du Ve Festival de Cannes, “Le Monde”, Paris, 13 mai 1952, p. 9. 13
Leonard Lyons, e Lyons Den, “e Rome Daily American”, Roma, 16 aprile 1952, p. 4; in effei il Macbeth di Verdi avrebbe inaugurato a dicembre, con una diversa regia teatrale, la nuova stagione scaligera. 14
Jean-Charles Tacchella, Sans Commentaire, “L’Écran français”, Paris, 30 janvier 1952, p. 2. 15
Cfr. Jonathan Rosenbaum, e Seven Arkadins, in Discovering Orson Welles, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 2007, p. 151. 16
17
Oberdan Troiani in Farina, Tuo genio e sregolatezza, cit., p. 25.
Capitolo 16. Orario bizantino 1
Patrizia Mori, Roma, 2 giugno 2006.
2
Tai Sanguineti, Roma, 21 aprile 2006.
Orio Caldiron, Conversazione con Giuseppe Rotunno, in Id., Giuseppe Rotunno. La verità della luce, CSC/Skira, Roma 2007, p. 38. 3
4
Marina Vlady, 24 images/seconde, Fayard, Paris 2005, p. 18.
Cfr. Daniel Kothenschulte, Aendez que je sois mort. Tout sera vendable!, in AA.VV., e Other Side of e Wind, Cahiers du Cinéma/Festival International du Film de Locarno, 2005, pp. 93-95. 5
Piero Regnoli, in L’avventurosa storia del cinema italiano (1935-1959), a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 303-304. 6
Con una leera datata 8 gennaio 1952, Eitel Monaco, presidente dell’ANICA, era intervenuto personalmente presso la Direzione generale dello speacolo per perorare il riconoscimento, “che agevolerebbe di molto la Scalera Film, di cui è nota la non certo florida situazione finanziaria”. Il 15 luglio 1954, in una missiva conservata anch’essa presso l’Archivio centrale di stato, Annibale Scicluna comunica infine alla SIAE, a nome della Direzione generale, che l’Otello “non deve considerarsi di nazionalità italiana”. 7
Per un’analisi più ampia sull’influenza della censura su questo film, si veda Alberto Anile, Totò proibito, Lindau, Torino 2005, pp. 70-75. 8
Cfr. Lucio Fulci, Totò e Orson Welles l’impossibile coppia, “L’Italia”, Roma, 24 marzo 1993, pp. 60-61. Enrico e Carlo Vanzina, i figli di Steno, hanno consultato le carte del padre ma non hanno mai trovato le venti pagine; il saggio di Welles su Totò è probabilmente perduto. 9
Arturo Lanocita, Totò rivale di Orson Welles in un film trao da Pirandello, “Corriere della Sera”, Milano, 20 gennaio 1953, p. 3. 10
Italo Dragosei, Tra l’uomo e la bestia in pericolo la virtù, “Festival”, Milano, 28 febbraio 1953, pp. 6-7. 11
Marcello Garofalo, Tuo il cinema di Sergio Leone, Baldini & Castoldi, Milano 1999, p. 56. 12
Franca Faldini, Roma Hollywood Roma. Totò, ma non solo, Baldini & Castoldi, Milano 1997, p. 35. 13
14
Giancarlo Nicotra, Roma, 22 febbraio 2006.
Lucio Fulci in Marcello Garofalo, Uno, nessuno, centofulci, “Segnocinema”, Milano, novembre-dicembre 1993, pp. 2-3. 15
Arturo Lanocita, L’uomo, la bestia e la virtù, “Corriere della Sera”, Milano, 14 maggio 1953, p. 4. 16
Giulio Cesare Castello, L’uomo, la bestia e la virtù, “Cinema”, Milano, 30 aprile 1953, pp. 245-246. 17
Orson Welles, Il terzo pubblico, “Cinema”, Milano, 31 marzo 1954, pp. 172174. Il testo originale, da cui “Cinema” ha trao la sua traduzione, è e ird Audience, “Sight and Sound”, London, January-March 1954, pp. 120-122. 18
19
Franco Dorigo, Orson Welles, “Cinema”, Milano, 15 febbraio 1953, pp. 78 e 80.
Umberto Barbaro, Giulio Cesare, “Vie Nuove”, Roma, 17 gennaio 1954, poi in Id., Servitù e grandezza del cinema, Editori Riuniti, Roma 1962, p. 460. 20
Luigi Chiarini, Il film nella baaglia delle idee, Fratelli Bocca, Milano-Roma 1954, p. 258. 21
Giovanni Calendoli, A Shakespeare si addice la dimensione fantastica, “L’Eco del Cinema e dello Speacolo”, Roma, 30 novembre 1954, pp. 18-20. 22
Il racconto si può leggere oggi in Ennio Flaiano, Diario nourno, Adelphi, Milano 1994, pp. 165-185. 23
24
Maurice Bessy, Orson Welles, Éditions Seghers, Paris 1963, p. 76.
Orson Welles impersonerà l’ex-re d’Egio Faruk, “Corriere d’Informazione”, Milano, 13 febbraio 1953, p. 1. Il film, di cui non viene menzionato il titolo, sarebbe una biografia dell’ex monarca egiziano, una non meglio specificata coproduzione italo-francese interpretata da Welles, Micheline Presle ed Erich von Stroheim. Secondo Bogdanovich, Farouk si sarebbe invece offerto di finanziare Caesar!, il film in costume contemporaneo trao dal Giulio Cesare. 25
Avv. Angelo Angoi notaio, dichiarazione dell’11 febbraio 1955, conservata presso l’Archivio centrale di stato di Roma. Della Orson Welles Productions, negli archivi della Camera di commercio di Roma resta oggi ancora qualche traccia (una vecchia scheda del 1948, con fallaci rimandi a società argentine) ma nessun incartamento: la sparizione di un fascicolo del genere, ancorché dovuta a traslochi o incuria, viene in genere ritenuta indizio di insolvenze da nascondere. 26
Capitolo 17. Partenze e ritorni Dagli ai del processo del 26 marzo 1953, ora in Pike Borsa, Imputato Hamme, collana Millelire, Stampa alternativa, Roma 1993, p. 16. 1
Orson Welles, Non sono un profugo di Hollywood, “Tempo”, Milano, 13 maggio 1954, p. 37. 2
3
Paola Mori, L’uomo che sposo, “Tempo”, Milano, 19 maggio 1955, p. 60.
R. S., È morta l’arice Paola Mori, ultima moglie di Orson Welles, “La Stampa”, Torino, 14 agosto 1986. 4
Orson Welles, Il n’y a pas d’art apprivoisé, “La Démocratie combaante”, avril-mai 1953, poi in Maurice Bessy, Orson Welles, Éditions Seghers, Paris 1963, p. 104. 5
Jonathan Rosenbaum, Othello Goes Hollywood, in “Chicago Reader”, 10 April 1992, ora in Id., Discovering Orson Welles, University of California Press, Berkeley 2007, p. 167. 6
Giorgio Salvioni, È venuto in Italia per sposare sua moglie, “Epoca”, Milano, 19 gennaio 1958, p. 51. 7
8
Mori, L’uomo che sposo, cit., p. 60.
9
Gina Lollobrigida, Roma, 15 aprile 2002.
10
Elsa Martinelli, Sono come sono, Rusconi, Milano 1995, p. 206.
Audrey Stainton, Don ixote: Orson Welles’ Secret, “Sight & Sound”, London, Autumn 1988, tradoo da Giorgio Placereani in “Nickelodeon”, Udine, marzo 2006, pp. 13-22. 11
12
Jean Cau, Orson Welles, “Express”, Paris, 26 novèmbre 1959, p. 39.
13
Arnoldo Foà, Recitare, Gremese, Roma 1998, p. 52.
Oriana Fallaci, L’uomo che sarà presidente, “Europeo”, Milano, 4 febbraio 1962, p. 34. 14
15
Giulia Mafai, Roma, 19 marzo 2010.
16
Orson Welles, in Leonard Lyons, e Lyons Den, “New York Post”, 2 April
1963. 17
p. 7.
«La ricoa» sequestrato dalla Procura di Roma, “l’Unità”, Roma, 2 marzo 1963,
Orson Welles, Peter Bogdanovich, Io, Orson Welles, Baldini & Castoldi, Milano 1993, p. 167. 18
André Bazin, Charles Bitsch, Jean Domarchi, Intervista con Orson Welles, “Cahiers du Cinéma”, septembre 1958; ora in Orson Welles, It’s All True, minimum fax, Roma 2005, p. 129. 19
Claudio arantoo, La moda del neorealismo conquista produori e registi, “Roma”, Napoli, 1° marzo 1960, p. 3. 20
Kenneth Tynan, Le interviste di Playboy: Orson Welles, “Playboy”, March 1967; ora in Welles, It’s All True, cit., p. 202. 21
22
Tynan, Le interviste di Playboy: Orson Welles, cit.
Liea Tornabuoni, Fellini, il barocco di Orson Welles, “La Stampa”, Torino, 12 oobre 1985. 23
Umberto Barbaro, Foglie d’autunno, “Vie Nuove”, Roma, 2 febbraio 1957, poi in Id., Servitù e grandezza del cinema, Editori Riuniti, Roma 1962, p. 396. 24
25
1959. 26
Italo Calvino, Due film e Stalin, “Cinema nuovo”, Milano, gennaio-febbraio Ugo Casiraghi, “l’Unità”, Milano, 11 seembre 1963.
Roberto Pariante, Orson Welles da Citizen Kane a Othello, “Bianco e nero”, Roma, marzo 1956, pp. 19-35. 27
Goffredo Fofi, Un regista maledeo, “Il Nuovo Speatore Cinematografico”, n. 5, Torino, dicembre 1963, pp. 5-10. 28
Claudio Rispoli, Introduzione a Citizen Kane, “Filmcritica”, Roma, luglioagosto 1964, pp. 373-380. 29
30
30.
Cfr. Maurizio Ponzi, Welles à la tv, “Cahiers du Cinéma”, Paris, avril 1965, p.
Cfr. Alessandro Tasca di Cutò, Un principe in America, Sellerio, Palermo 2004, p. 296. 31
Guido Aristarco, Il ciadino Orson Welles e il mito del potere, “Cinema nuovo”, Milano, luglio-agosto 1966, p. 276. 32
Francesco Rosi, Giuseppe Tornatore, Io lo chiamo cinematografo, Mondadori, Milano 2012, pp. 227-228. 33
Orson Welles, 1964, dai “Cahiers du Cinéma in English”, n. 5, 1966, ora in Id., It’s All True, cit., p. 175. 34
Joseph McBride, What Ever Happened to Orson Welles?, University Press of Kentucky, Lexington 2006, p. 107. 35
Cfr. Marco Giusti, Silvio rimembri ancor quel carosello?, “il manifesto”, Roma, 2 luglio 1996, p. 27. 36
37
Osvaldo Civirani, Un fotografo a Cinecià, Gremese, Roma 1995, p. 161.
Paola Zanuini, Ma chi è questo Tarantino che parla così bene di me?, “Venerdì”, Roma, 21 novembre 2003, p. 94. 38
Domenico Monei e Luca Pallanch, Champagne e cambiali. Nuove storie e leggende dei produori italiani da Cinecià a Hollywood, minimum fax/CSC, Roma 2024 (di prossima pubblicazione). 39
Alberto Cereo, Welles a Roma fa la superspia, “Corriere della Sera”, Roma, 13 maggio 1969. 40
Luca Pallanch, Fotografando Orson. Conversazione con Maurizio Maggi, in I mille volti di Orson Welles, a cura di Emiliano Morreale, CSC/Edizioni Sabinae, Roma 2015, p. 25. 41
Mila Murzi, Moglie via, Orson se la spassa con Oja, “Oggi”, Milano, 17 febbraio 1970, pp. 34-35. 42
Mauro Bonanni nel documentario Rosabella. La storia italiana di Orson Welles (1993) di Gianfranco Giagni, Ciro Giorgini e Maia G. Borelli. 43
Guido Fink, L’accostamento a Welles, “Cinema & Cinema”, Milano, aprilegiugno 1975, p. 9. 44
Cfr. Guido Aristarco, Storia delle teoriche del film, Einaudi, Torino 1951; le parole dedicate al cinema di Welles (sostanzialmente al solo Macbeth) rimangono immutate anche nell’edizione rivista e aggiornata del 1960. 45
Guido Aristarco, Il dissolvimento della ragione. Discorso sul cinema, Feltrinelli, Milano 1965, p. 379. 46
Cfr. Guido Aristarco, “Rosebud”, in Id., L’utopia cinematografica, Sellerio, Palermo 1984, pp. 150-155; il libro raccoglie saggi e articoli redai negli anni sessanta e seanta. 47
Il riferimento a Barzini riguarda un passaggio di e Italians, celebre saggio uscito in inglese nel ’64 e tradoo l’anno dopo in Italia: “Orson Welles osservò una volta acutamente che l’Italia è piena di aori, cinquanta milioni di aori, in effei, e che quasi tui sono bravi; ve ne sono soltanto pochi caivi ed essi si possono trovare per lo più sui palcoscenici e nel cinema” (in edizione italiana: Luigi Barzini jr., Gli italiani – vizi e virtù di un popolo, Rizzoli, Milano 1997, pp. 101-102). 48
Orson Welles, Eduardo, “Vogue” (edizione francese), Natale 1982; l’articolo è corredato da un ritrao del drammaturgo, vivace e assai somigliante, realizzato dallo stesso Welles. 49
Aldo Tassone, Welles: chi ha paura di quel Falsta?, “la Repubblica”, Roma, 30 giugno 1983. 50
Gian Luigi Rondi: “Ho cambiato idea solo su arto potere” Gian Luigi Rondi, Orson Welles alle prese con Shakespeare fa del teatro roboante e wagneriano, “La Nazione”, Firenze, 4 seembre 1948; lo stesso articolo uscì, in versione leggermente ridoa, come La tragedia di Macbeth insuccesso di Orson Welles, “Il Tempo”, Roma, 4 seembre 1948. 1
Gian Luigi Rondi, Primato del cinema italiano, “Il Tempo”, Roma, 13 maggio 1952, p. 3. Cfr., dello stesso autore, l’articolo su “La Nazione” dello stesso giorno. 2
Gian Luigi Rondi, Un lungo viaggio 2 – Gli stranieri, Le Monnier, Firenze 2001, pp. 275-276. 3
Capitolo 18. Welles & Rossellini 1
Gilles Jacob, Cinema è sogno, Gremese, Roma 2010, pp. 55-56.
Eore Scola, Cosa vi ricorda quella “Giornata particolare”?, “l’Unità”, Roma, 18 febbraio 1995, pp. 1 e 6. 2
Fra gli studi più aenti sul “restauro” del ’92 si segnala François omas, La tragédie d’“Othello”, “Positi”, n. 424, juin 1996, pp. 70-76, e il capitolo “e Texts of Othello” in Michael Anderegg, Orson Welles, Shakespeare, and Popular Culture, Columbia University Press, New York 1999. 3
Alessandro Tasca di Cutò, Un principe in America, Sellerio, Palermo 2004, pp. 301-302. 4
Joseph McBride, Orson Welles (Revised and Expanded Edition), Da Capo Press, Cambridge 1996, pp. 6-7. 5
André Bazin, Orson Welles, Chavanne, Paris 1950, ora tradoo in Id., Orson Welles, a cura di Elena Dagrada, Temi, Trento 2005, p. 64. 6
Orson Welles, in Orson Welles, Peter Bogdanovich, Io, Orson Welles, Baldini & Castoldi, Milano 1993, p. 108. 7
Félix Morlion, Le basi filosofiche del neorealismo cinematografico italiano, “Bianco e nero”, giugno 1948, p. 25. 8
lan. [Arturo Lanocita], Orson Welles il ribelle, “Corriere d’Informazione”, Milano, 27 maggio 1950, p. 6. 9
James Naremore, Orson Welles. Ovvero la magia del cinema, Marsilio, Venezia 1993, p. 376. 10
Alfredo Todisco, Orson Welles “riabilitato” dalla stampa italiana, “Ultimissime”, Trieste, 18 seembre 1948. 11
12
Orson Welles, collana “Cento Stelle”, n. 76, Roma, 3 seembre 1951.
Alberto Lauada, in L’avventurosa storia del cinema italiano (1935-1959), a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Feltrinelli, Milano 1979, p. 287. 13
Cfr. Francis Koval, Interview with Welles, “Sight and Sound”, London, dicembre 1950, p. 316, ora in Orson Welles, It’s All True, minimum fax, Roma 2005, pp. 76-77. 14
Gian Gaspare Napolitano, Al terzo uomo piace il bloody marriage, “L’Europeo”, Milano, 14 gennaio 1951, p. 12. 15
Tag Gallagher, e Adventures of Roberto Rossellini, Da Capo Press, New York 1998, p. 390. 16
Elena Dagrada, Conta di più una bella voce o un buon microfono? Orson Welles, il talento, la tecnica, “La Valle dell’Eden”, Torino, gennaio-giugno 2005. I due cineasti risultano comunque legati, tra le altre cose, anche nelle coeve riflessioni del più importante critico francese. “Non è un caso,” scrive ancora Elena Dagrada nel suo saggio, “che Bazin amasse entrambi e li ponesse, con Renoir, al centro della sua riflessione, lontano dagli estremismi della politique des auteurs per ribadire il primato dell’opera sull’autore (un’affermazione che Welles farà sua).” 17
Federico Fellini, in Liea Tornabuoni, Fellini, il barocco di Orson Welles, “La Stampa”, Torino, 12 oobre 1985. 18
Adriano Aprà, in Giovanni Buafava, La pelle dell’Orson, “Espresso”, Roma, 6 aprile 1986. 19
Crediti fotografici
foto 1, foto 2, foto 3, foto 4: gentile concessione di Giovanni Austoni e Gabriella Severi. foto 5, foto 6: gentile concessione di Andrea Barzini. foto 7, foto 8, foto 9, foto 10, foto 11, foto 12, foto 13: gentile concessione di Massimiliano Troiani. foto 14, foto 15, foto 16, foto 17: foto di Cameraphoto Epoche/ ©Viorio Pavan. foto 18: Irving Penn, Vogue © Condé Nast. foto 19, foto 20, foto 21: gentile concessione di Mary Alcaide Brasini. foto 22: gentile concessione di Jean-Pierre Berthomé. foto 23, foto 24: Huguee Ronald / Collezione Maraldi, per gentile concessione di Antonio Maraldi. foto 25, foto 26: Mondadori Press. foto 27, foto 28: gentile concessione di Giancarlo Nicotra. foto 29, foto 30, foto 31: foto di © REPORTERS ASSOCIATI & ARCHIVI – ROMA