A pranzo con Orson. Conversazioni tra Henry Jaglom e Orson Welles 8845935949, 9788845935947

«Il cinema non mi interessa granché. Continuo a ripeterlo e nessuno mi crede. Ma è vero, non mi interessa! Mi interessa

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Italian Pages 340 Year 2021

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A pranzo con Orson. Conversazioni tra Henry Jaglom e Orson Welles
 8845935949, 9788845935947

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A pranzo con Orson Conversazioni tra HenryJaglom e Orson Welles

A cura di Peter Biskind

« Il cinema non mi interessa granché. Continuo a ripeterlo e nessuno mi crede. Ma è vero, non mi interessa! Mi interessa farlo, invece. Vedi, è una cosa terribilmente arrogante da dire, ma non mi interessano gli altri registi - o il mezzo in sé. Per me è il mezzo artistico meno interessante di tutti. A parte il balletto. A me piace solo fare film. Questa è la verità! ». ORSON WELLES

In copertina: L’arrivo di Or­ son Welles alla première di Citizen Kane (Palace Theater, New York, Io maggio 1941).

ISBN 978-88-459-3594-7

© EUGENE SMITH/mAGNUM photos /contrasto

€ 13,00

9 100043 yoovm

GLI ADELPHI

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A partire dal 1978, quasi tutte le settimane, Or­ son Welles e Henryjaglom pranzarono insieme al Ma Maison, il ristorante preferito di Welles e uno dei più in voga di Hollywood. Questo libro raccoglie le loro conversazioni, sulla base dei nastri di un registratore che Jaglom teneva na­ scosto nella sua borsa. Peter Biskind, critico e storico del cinema, è autore di numerosi scritti su Hollywood e il cinema americano, tra i quali ricordiamo See­ ing Is Believing: How Hollywood Taught Us to Stop Worrying and Love the Fifties (1983), e Easy Rid­ ers, Raging Bulls: How the Sex-Drugs-and-Rock- ’NRoll Generation Saved Hollywood (1998), da cui è stato tratto l’omonimo film. A pranzo con Orson è apparso per la prima volta nel 2013.

A pranzo con Orson Conversazioni tra Henry Jagknn e Orson Welles A CURA DI PETER BISKIND TRADUZIONE DI MARIAGRAZIA GINI

CON UNO SCRITTO DI TATTI SANGUINETI

ADELPHI EDIZIONI

titolo originale:

My Lunches with Orson Conversations between Henry Jaglom and Orson Welles

Prima edizione in questa collana: febbraio 2021

© 2013 PETER BISKIND All rights reserved Photos courtesy of Rainbow Film Company

© 2015

ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it

ISBN 978-88-459-3594-7

Anno 2024

Edizione 2023

2022

2021

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INDICE

Come Henry conobbe Orson di Peter Biskind

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Parte prima. 1983

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Parte seconda. 1984-1985 1984 1985

167 169 247

L’ultima risata di Orson di Henry Jaglom

295

Appendice di Peter Biskind

301

Ringraziamenti Note

Postfazione di Tatti Sanguineti

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A PRANZO CON ORSON

per Steve Bloom

COME HENRY CONOBBE ORSON DI PETER BISKIND

Orson Welles è considerato da sempre uno dei più grandi registi di tutti i tempi, e in particolare il più dota­ to nella lunga serie di dotatissimi anticonformisti holly­ woodiani che inizia con D.W. Griffith, o forse con Erich von Stroheim. Oggi, a più di settantanni dalla sua usci­ ta nel 1941, Quarto potere campeggia ancora in tutte le top ten del cinema. E stato per cinquant’anni consecutivi il film più votato dai critici di « Sight & Sound », la rivista del British Film Institute. Solo nel 2012 ha dovuto cedere il passo a La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock: un film che Welles aborriva. Ma nella nostra cultura, così ossessionata da premi e punteggi, sappiamo benissimo che le classifiche non hanno nessun valore. Per giudicare la statura di Orson Welles c’è una via molto più semplice e infinitamente più piacevole: guardare i suoi film, cominciando pro­ prio da Quarto potere. La pellicola si apre con la fosca, minacciosa immagine dell’imponente cancello di Xa­ nadu [Candalù], sormontato da una gigantesca K, con le rovine transilvane della reggia di Rane che incombo­ no sullo sfondo. Lo spettatore ne è subito catturato, ma

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al tempo stesso si rende conto che c’è dell’altro: il dram­ ma sconfina nel melodramma, e mina le proprie fondamenta con l’ironia e il camp. Welles aveva il genio delle trovate spettacolari: era un maestro dello shock and awe, più tardi consacrato a fina­ lità molto meno nobili. Ma fu anche un abile miniaturi­ sta dal tocco lieve e sagace, capace di lavorare su tele piccole con altrettanta facilità. Soprattutto, Quarto potere è attraversato da un’energia vibrante grazie alla straor­ dinaria padronanza del tempo, dello spazio e della luce, e al raffinato gioco tra la veemenza sanguigna del suo immaginario e la meticolosa eleganza scenografica e re­ gistica contraddistinta da pan-focus, angoli di ripresa non convenzionali, sorprendenti dissolvenze, ingegno­ se transizioni. Da allora il cinema non è mai più stato lo stesso. «Tutti gli dovremo sempre tutto»: Jean-Luc Go­ dard ha descritto così l’influsso di Orson Welles. Welles non fu soltanto regista ma anche produttore, grande attore e sceneggiatore, prolifico autore di saggi­ stica, narrativa, teatro, nonché editorialista: spesso, da vero funambolo delle arti, si dedicò contemporanea­ mente a più attività. E difficile trovare aggettivi che pos­ sano descriverlo. La somma delle sue incredibili doti non lo esaurisce, e la sua produzione più straordinaria fu pro­ prio lui stesso: uno spettacolare e carismatico personag­ gio dalla circonferenza equatoriale, negli ultimi anni adorno di una barba biblica che fece di lui il candidato ideale per divinità e guru d’ogni genere: dal padre di Su­ perman (anche se la parte andò a Marion Brando) fino a Dio. George Orson Welles nacque il 6 maggio 1915 a Ke­ nosha, Wisconsin. I genitori, Richard - inventore - e Bea­ trice Ives - pianista, artista e suffragetta -, erano una coppia male assortita e litigiosa. Finirono per separarsi. Orson rimase con la madre, che morì prematuramente. Venne poi affidato al dottor Maurice « Dadda » Bern­ stein, amico intimo di Beatrice e, stando alle chiacchie­ re, suo amante.

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Fu precocissimo. Lesse di tutto già in tenera età; mo­ strò passione per la musica; divenne un illusionista di­ lettante. Concluse le scuole superiori in due anni e vin­ se una borsa di studio per Harvard. Dotato di un’intelli­ genza fuori dal comune, conosceva a fondo i classici della letteratura occidentale e recitava a memoria lun­ ghi brani in prosa e versi. Ma all’erudizione preferiva l’esperienza, tanto che a soli sedici anni convinse Dadda Bernstein a mandarlo in Irlanda per un viaggio a piedi. Aiutato dal naturale talento e dalla bellezza - era alto più di un metro e ottanta, con i capelli biondi, la faccia da bambino e un nasino schiacciato che gli procurò eterno imbarazzo -, riuscì a ottenere una particina in una pro­ duzione del Gate Theatre di Dublino, allora diretto da Hilton Edwards e Micheál Mac Liammóir. Fu l’inizio del­ la sua carriera. Tornato negli Stati Uniti, salì alla ribalta del mondo teatrale newyorkese e, poco più che adolescente, si gua­ dagnò l’appellativo di «ragazzo prodigio». Nel 1936 fu scritturato dal Federal Theatre. Affascinato da moder­ nisti come Max Reinhardt e Bertolt Brecht, non temette di straniare i grandi autori del passato ambientandoli nella contemporaneità. Ne è un esempio il fortunatissi­ mo Macbeth «vudù», diretto a soli ventun anni, con un cast interamente afroamericano. Il giovane Welles vene­ rava i classici, ma non per questo si peritava di trattarli a suo piacimento. L’anno seguente firmò la regia di un Giulio Cesare trasformato in allegoria del fascismo, con attori in camicia nera, dove lui impersonava Bruto. Lo stalinismo non l’aveva mai convinto, ma Welles re­ spirò l’intenso fermento politico degli anni del Fronte Popolare. Si considerava un liberal del New Deal. Più tardi avrebbe affiancato il presidente Franklin Delano Roosevelt, che sfruttò a più riprese le sue qualità orato­ rie, e in particolare la sua voce reboante, simile a un tuono non molto lontano. Tra Macbeth e Giulio Cesare, nel 1937 suscitò scalpore la produzione wellesiana del musical di Marc Blitzstein 15

The Cradle Will Rock. Roosevelt e/o i suoi consiglieri par­ vero temere che lo spettacolo, apertamente schierato con i sindacati e in particolare con gli operai della Re­ public Steel in sciopero (dieci persone morirono sotto il fuoco della polizia di Chicago nel massacro del Me­ morial Day), potesse indurre i conservatori del Congres­ so a tagliare ulteriormente i fondi destinati al Federai Theatre e alla Works Progress Administration che lo finanziava. Così gli agenti dell’FBI misero i sigilli al tea­ tro che avrebbe ospitato la prima. Il 16 giugno 1937, con grande clamore sulla stampa, centinaia di spettatori marciarono per venti isolati fino al Venice Theatre, do­ ve Welles e i suoi la misero in scena gratis in versione povera, con Blitzstein al pianoforte sul palco e il cast sparso tra il pubblico a cantare i brani. Nello stesso an­ no Welles fondò il Mercury Theatre e mietè altri succes­ si. Non ne sbagliava una. Il 9 maggio 1938, tre giorni dopo il suo ventitreesimo compleanno, « Time » lo mise in copertina. Welles fu sempre inseguito dalle polemiche, più o me­ no gradite. Dopo essersi conquistato notorietà alla radio, dove fu la famosa voce di Lamont Cranston - «l’Uomo Ombra » - nella serie The Shadow, si vide affidare un ra­ diodramma della CBS: La guerra dei mondi, tratto dall’o­ monimo romanzo di H.G. Wells. Il 30 ottobre 1938, nella puntata di Halloween, simulò la cronaca in diretta di un’invasione marziana scatenando il panico fra milioni di americani - anche se l’obiettivo dell’attacco, Grover’s Mill, nel NewJersey, anziché Washington o New York, avrebbe dovuto destare qualche sospetto negli ascoltatori. Due anni più tardi il nuovo presidente della RKO, George Schaefer, gli firmò un contratto senza prece­ denti: due lungometraggi con final cut. Il mondo del cinema accolse la notizia con rabbia e stupore. Welles scrisse con Herman J. Mankiewicz Quarto potere, lo dires­ se e interpretò il protagonista. Il film, liberamente ispi­ rato alla figura di William Randolph Hearst, gli valse l’ostilità del magnate della carta stampata e rese famoso 16

il nomignolo - Rosebud [Rosabella] - che Hearst aveva dato alle parti intime della sua amante Marion Davies (anche se le pretendenti a tanto onore possono essere senz’altro più d’una). Quarto potere esordì il primo maggio 1941; Welles ave­ va appena venticinque anni. Hearst tentò disperatamente di bloccare l’uscita del film. Louella Parsons, che era una sua giornalista, raccontò in un’autobiografia che parecchi vertici degli studios, tra cui Louis B. Mayer e Jack Warner, rifiutarono di proiettarlo nelle loro sale. Hearst minacciò di vietare le inserzioni della RKO sui suoi giornali. Schaefer non cedette, ma Quarto potere fu relegato alle sale indipendenti più piccole e meno lu­ crose, con gravi conseguenze per gli incassi. In ultima analisi, era comunque un film troppo sofisticato per un pubblico di massa, e la RKO ci rimise circa centocin­ quantamila dollari. Prima che Welles iniziasse a girare la pellicola succes­ siva - L’orgoglio degli Amberson ( 1942), da un romanzo di Booth Tarkington -, la produzione gli impose un nuovo contratto per revocargli il final cut. La lavorazione pro­ cedette piuttosto tranquillamente, finché gli USA entra­ rono nella seconda guerra mondiale. Dopo aver ultima­ to parte del premontaggio, Welles andò in Brasile per un progetto relativo alla « politica di buon vicinato » del presidente Roosevelt. Affidò quindi il montaggio a Rob­ ert Wise, che avrebbe seguito le istruzioni inviate dal regista per telefono e telegrafo. Wise avrebbe poi porta­ to la pellicola a Rio de Janeiro per consentire a Welles l’ultima messa a punto. Nel frattempo Welles accettò di girare un altro film in Brasile - It’s All True-e si tuffò nei piaceri equivoci di Rio, verso i quali confessò un interes­ se più che passeggero. La guerra non gli permise di ter­ minare l’edizione degli Amberson, e il sogno finì in cene­ re quando, a sua insaputa, il 17 marzo 1942 la produzio­ ne proiettò il film in anteprima al Fox Theater di Pomo­ na, California. All’uscita i commenti sprezzanti degli spettatori si sprecarono, e l’evento fu un flop. Allarma-

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ta, la RKO tagliò quarantacinque minuti dai centotrentadue della versione originale senza avvisare Welles. Da­ to che, allora come oggi, i finali tristi erano tabù, la casa di produzione si incaricò di girarne un altro più lieto. Una cupa saga sull’ascesa e il declino di un’opulenta dinastia sopraffatta da un’America cambiata per sem­ pre dall’industrializzazione divenne una vacua storia di riconciliazione, stucchevole e senza senso. Il film fece fiasco. Welles non riuscì mai a recuperare tutto il materiale girato. Costretto a ridimensionare l’attività di regista, trovò lavoro come attore e recitò in film come Terrore sul Mar Nero (1943), La porta proibita (1944) e Lo straniero (1946), dirigendone alcuni in via più o meno ufficiale. Nel frattempo condusse una frizzante vita sociale. Ebbe tre mogli - Virginia Nicolson, Rita Hayworth e Paola Mori - e divenne padre di tre figlie: una per ogni matri­ monio. Pur senza divorziare dalla Mori, trascorse gli ulti­ mi ventiquattro anni della sua vita con la bellissima arti­ sta croato-ungherese Oja Kodar, attrice e sua collabora­ trice, di ventisei anni più giovane. Non poteva essere fa­ cile vivere con un uomo come lui, considerate le sue in­ fedeltà e un ego che la Nicolson definì « schiacciante ». Rita Hayworth, al secolo Margarita Carmen Cansino, fu una delle star più famose degli anni Quaranta e dei primi Cinquanta. Si narra che l’equipaggio àe\VEnola Gay decorò con la sua decalcomania di pinup il « muso » della bomba atomica Little Bay prima di sganciarla su Hi­ roshima. Pare che Welles si fosse invaghito di lei dopo averla vista sulla copertina di «Life »; subito decise di sposarla e ci riuscì. Scoprì una donna insicura, depres­ sa, morbosamente gelosa - non senza buoni motivi. Do­ po qualche anno di baruffe Rita lo cacciò, sposò il prin­ cipe Aly Khan ed ebbe una bambina, Yasmin. Prima del divorzio Hayworth e Welles fecero un film insieme: La signora di Shanghai (1947). Ovviamente La signora di Shanghai non si svolge a Shanghai e la femme fatale impersonata dalla Hayworth

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non è propriamente una signora. Il film è un noir clas­ sico con una trama straordinariamente intricata e una serie sconcertante di colpi di scena. Si conclude con un confronto - giustamente celebrato - fra Welles e Hayworth nel labirinto di specchi di un luna park. E, come L’orgoglio degli Amberson, fu mutilato dalla casa di produzione. Alla Signora di Shanghai seguì una delle più grandi performance wellesiane davanti alla cinepresa: Il terzo uomo, vincitore della Palma d’Oro al festival di Cannes del 1949. Diretto da Carol Reed e parzialmente sceneg­ giato da Graham Greene, è un noir particolarmente cu­ po e malinconico, girato fra le rovine della Vienna post­ bellica e accanitamente lugubre. E notevolissimo non solo per la scelta delle location ma anche per la recita­ zione adamantina di Welles nelle vesti di Harry Lime, un losco trafficante della borsa nera che si guadagna il pane rubando, adulterando e vendendo penicillina. Vanta una magnifica scena sulla gigantesca ruota pano­ ramica del Prater; un cruciale inseguimento nelle fogne della città, che precorse di quasi dieci anni I dannati di Varsavia di Andrzej Wajda; una colonna sonora indi­ menticabile composta unicamente da brani eseguiti alla cetra tirolese. Fu rimontato dalla produzione anche Pultimo lun­ gometraggio che Welles girò a Hollywood: L’infernale Quinlan (1958), pieno di elementi troppo disparati per essere considerato uno dei suoi capolavori. I protagoni­ sti sono Charlton Heston, più ingessato che mai, e Janet Leigh, che interpreta un personaggio tanto antipatico che viene naturale tifare per i ridicoli teppisti in giubbot­ to di pelle nera, appena fuggiti da II selvaggio, che la ag­ grediscono per drogarla, o peggio. D’altro canto, Welles è memorabile nella parte di un poliziotto corrotto che fa sembrare Harry Lime un angelo, e c’è un carneo di Marlene Dietrich. Il film è arricchito da molti dialoghi wellesiani «vecchia maniera» e da un incipit virtuosisti­ co: tre minuti e venti secondi di piano sequenza mozza19

fiato al seguito di un’auto che supera la frontiera fra Mes­ sico e Texas e infine esplode in un grandioso inferno di fuoco e fumo. Se si riescono a ignorare Heston e la Leigh, queste gemme valgono il prezzo del biglietto e anche le carriere di molti registi. Senza esagerazioni. Malgrado le alterne fortune dietro la cinepresa, Wel­ les diresse in tutto undici lungometraggi, tra cui la sua straordinaria trilogia shakespeariana: Macbeth (1948), Otello (1952) e Falstaff (1965). Concluse l’ultimo, Ffor Fake [F come falso], nel 1973, ma negli Stati Uniti il film uscì solo quattro anni più tardi, finanziato da Welles stesr so, ritrovatosi senza più investitori. Lui lo definiva un film d’essai; in bilico tra fiction e documentario, il film rac­ coglie, in una Ibiza assolata, tutto il materiale che Welles riuscì a procurarsi sul celebre falsario d’arte Elmyr de Hory e sul finto biografo di Howard Hughes, Clifford Irving. Contiene un filmato di Picasso in piedi dietro una persiana, montato in modo che l’artista sembri guar­ dare con concupiscenza Oja Kodar che cammina avanti e indietro per strada con una serie di mises molto chic. Non da ultimo, vi compare lo stesso Welles; teatralmen­ te avvolto nell’iconico mantello nero, flagella i critici e condivide le proprie idee sull’illusione, l’arte e l’auten­ ticità. F comefalso è un film originale ed estroso, in cui il cineasta piega il mezzo ai propri fini e anticipa lavori come Sans Soleil di Chris Marker (1983) e Exit Through the Gift Shop di Banksy (2010), dove il confine tra realtà e finzione diventa labile. Era comunque un’opera troppo intelligente per avere successo. In ogni caso, il pubblico non ebbe nemmeno l’opportunità di giudicarla da sé, poiché il distributore la rifiutò. Quegli anni, nonostante i risultati più che rispettabili viste le condizioni avverse, dipingono una triste storia di frustrazione e sconfitta in cui spesso Welles incarna il peggior nemico di sé stesso. Come Rane, che non finì mai Xanadu, Welles accumulò una serie di film incom­ piuti e si fece la reputazione di quello che li piantava in asso prima di concluderli. Vera o falsa che fosse, la catti-

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va fama gli si incollò addosso e gli rese difficile, se non impossibile, ottenere fondi per girare. Sempre in cerca di soldi per terminare i vecchi pro­ getti e/o iniziarne di nuovi, Welles li raccolse parteci­ pando a innumerevoli film, qualcuno ottimo e molti pessimi: dai B-movie di produttori inverosimili e paesi improbabili a una miscellanea di soap opera, quiz e pub­ blicità televisive. Questa attività febbrile non sembrava dispiacergli, visto che gli rendeva; ma alla lunga non gli fece bene. La Paul Masson divenne famosa grazie a lui che intonava: « We will sell no wine before its time ». (Lo si può vedere su youtube, in una scena tagliata, mentre biascica ubriaco uno di questi spot). Ma la Paul Masson poi lo cacciò, dopo che in un talk show apparve visibil­ mente dimagrito e spiegò che aveva smesso di mangiare fuori pasto e di bere vino.

Henry Jaglom viene da una famiglia di facoltosi emi­ grati tedeschi e russi. Dopo la rivoluzione del 1917 il pa­ dre, Simon, fu imprigionato con l’accusa di essere un ca­ pitalista. Poco più tardi se ne andò con i suoi fratelli dall’Unione Sovietica. Arrivò a Londra, dove nel 1941 nac­ que Henry, e poi si trasferì a New York, dove il figlio creb­ be. Henry non seppe mai con esattezza che mestiere fa­ cesse suo padre, ma quando dovette compilare il modulo per l’ammissione alla University of Pennsylvania e di­ chiararlo, Simon gli disse: « Scrivi “commercio e finanza internazionale” ». Formatosi all’Actors Studio, alla metà degli anni Ses­ santa si unì alla migrazione da New York a Los Angeles, dove l’amico Peter Bogdanovich gli aveva promesso il ruolo del protagonista nel suo primo lungometraggio Bersagli (1968); in seguito Bogdanovich decise di inter­ pretarlo da sé. Jaglom vide terminare bruscamente la propria carriera d’attore il giorno in cui, mentre si lava­ va i piedi nel lavandino di casa, suonò il telefono: il ruo­ lo di protagonista nel Laureato (1967), per il quale era 21

convinto di essere nato, era stato assegnato a Dustin Hoffman. Henry disse una parolaccia e decise di dedi­ carsi alla sceneggiatura e alla regia. Gli anni Sessanta videro un’esplosione mondiale della cultura cinematografica; il cinema divenne il mez­ zo espressivo di elezione degli aspiranti artisti. Influen­ zati dai francesi, Jaglom e molti suoi contemporanei ambirono non solo a recitare o sceneggiare, ma anche a montare, dirigere, produrre. Non volevano essere re­ gisti al soldo di un affarista con un grosso sigaro tra le labbra; volevano invece essere cineasti o, per dirla con i francesi, auteurs, termine che in quegli anni Andrew Sarris rese popolare negli Stati Uniti. In breve, Y auteur stava al film come il poeta alla poesia o il pittore al di­ pinto. Secondo la discussa tesi di Sarris, negli studios non solo i registi come Howard Hawks, John Ford e Al­ fred Hitchcock, ma anche diligenti lavoratori come Sam Fuller mostravano uno stile personale, erano i crea­ tori unici dei loro film e, quindi, artisti a pieno titolo. Na­ turalmente Welles era l’emblema dell9 auteur; perJaglom e i suoi amici fu il nume tutelare della cosiddetta Nuova Hollywood. « Lo consideravamo il santo patrono di quel­ la nouvelle vague della cinematografia» ricorda. Jaglom, che aveva un debole per le lunghe sciarpe co­ lorate e i cappelli flosci, iniziò presto a frequentare catti­ ve compagnie. Fumò erba con Jack Nicholson all’Old World Restaurant di Sunset Boulevard e fu attratto nell’orbita di Bert Schneider. Schneider e Bob Rafelson, che avevano fatto fortuna con I Monkees, guidavano as­ sieme a Stephen Blauner una piccola casa di produzione: la BBS Productions. Jaglom ebbe da Schneider l’oppor­ tunità di montare il loro secondo film: Easy Rider, con Dennis Hopper e Peter Fonda (1969). Easy Rider sbancò al botteghino e la BBS navigò con il vento in poppa. Jaglom scoprì i suoi poteri di persuasio­ ne. Forte del recente successo, convinse Schneider a fi­ nanziargli il primo lungometraggio: Un posto tranquillo (1971), con Jack Nicholson e Tuesday Weld. Ma teneva

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moltissimo a inserire nel cast Orson Welles. Bogdano­ vich, che stava facendo al maestro una serie di lunghe interviste per un libro, era entrato in grande confidenza con lui. «Ñon accetterà» lo avvertì. « Dimmi lo stesso dov’è. Lo voglio conoscere » replicò Jaglom. « All’Hotel Plaza di New York. Ma non presentarti sen­ za un copione. E una cosa che detesta. E il copione non ce l’hai». Welles metteva soggezione. Era imperioso, sarcasti­ co, famoso per la sua intolleranza alla stupidità. Jaglom non era certo stupido, ma non sapeva proprio come con­ vincerlo a entrare nel suo cast. Imperterrito, prese un aereo per New York e bussò alla sua camera d’albergo. Welles lo accolse in pigiama di seta viola. « Sembrava un enorme grappolo d’uva» racconta. « Cosa vuole? » esordì il maestro, scostante. « Sono HenryJaglom ». « Non è una risposta alla mia domanda ». « Dovrebbe esserlo, se ha parlato con Peter Bogdano­ vich». « Con Peter ci parlo spesso ». « Sono qui perché sto facendo un film per Bert Schnei­ der, e Peter sta facendo un film per lui. Io l’ho montato. Li ho messi in contatto io ». « So chi è Bert Schneider ». « Peter sta facendo L’ultimo spettacolo... ». « Già. Buon per lui ». « E io voglio fare il mio film, Un posto tranquillo, con lei nel cast». « Dov’è il copione? ». « Non l’ho portato ». «E perché?». « Perché se accetterà la parte, sarà totalmente diverso ». « Senza il copione non sono interessato ». « Il suo personaggio è un illusionista». « Un illusionista? Io sono un illusionista. Dilettante, ov­ viamente. Comunque non recito in opere prime ».

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1971.Jaglom aveva convinto il riluttante Orson Welles a recitare nel suo primo film Un posto tranquillo. Qui dirige Welles e Tuesday Weld a Cen­ tral Park.

« In che senso? Quarto potere era la sua opera prima ». « Diceva davvero “illusionista”? ». « Sì. Penso che la vorrei con un leggero accento ebrai­ co. So che a Londra lei pranza sempre in quel ristorante ebraico. Si considera ebreo, dicono ». « Sono ebreo. Probabilmente il mio vero padre era il dottor Bernstein ». Dopo un momento di riflessione Wel­ les aggiunse: « Potrò mettermi il mantello? ». « Certo ». «Vabene. Ci sto». Inutile dire che sul set le vecchie guardie, cioè quasi tutti, guardavano in cagnesco il giovane regista con la lunga coda di cavallo e i piedi strizzati nelle scarpe da ballo bianche di Capezio. Il secondo giorno di riprese si presentarono con una spilletta a stelle e strisce appunta­ ta al petto (correva il 1971 e gli USA erano in piena guer­ ra del Vietnam). Durante una pausa pranzo Welles rag­ giunse Jaglom, seduto in compagnia di Schneider, Ni-

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cholson e Weld. « Ecco Γarrogantello che mi ha convin­ to a fare questo film. Come andiamo? ». «Non molto bene. Le maestranze mi odiano. Sono sempre negative. Qualsiasi cosa dica di girare, rispondo­ no che non funziona o non è nel copione. Devo sudare sangue a ogni scena. Sono sfinito ». « Oddio, dovevo avvisarti. Digli che è una sequenza onirica». « Cosa? ». « Diglielo e basta. Fidati di me. Ti sei fidato abbastan­ za da scritturarmi. Diglielo ». Dopo mangiato ricominciarono le riprese. Jaglom aveva in programma un’inquadratura complessa. « Impos­ sibile » disse l’operatore di macchina. « Qual è il problema? ». « Non funziona ». « E una sequenza onirica ». « Una sequenza onirica? Bastava dirlo! Mi sdraio a fac­ cia in su e la facciamo psichedelica». La sera, Jaglom andò da Welles. « Ma che cavolo è? Alle parole “sequenza onirica” diventano tutti agnellini ». « Devi capire che queste persone sgobbano, per tirare avanti. Fanno una vita da cani. Una vita completamente strutturata. Lavorano tutto il giorno, cenano, mettono a letto i figli, vanno a dormire e alle cinque del mattino tornano sul set. Tutto obbedisce a una serie di regole, tranne i sogni. Perciò l’unico momento in cui sono vera­ mente liberi è quando si addormentano e sognano. Se gli dici che è una sequenza onirica loro abbandonano le regole e tirano fuori la fantasia e la creatività; ti danno tutto quello che hanno dentro ». Fu il miglior consiglio che Jaglom avesse mai ricevuto. « Fa’ cinema per te stesso » gli insegnò ancora Welles. « Non scendere mai a compromessi, se non vorrai rim­ piangerli fino alla fine dei tuoi giorni». «Non dare a Hollywood il controllo dei tuoi strumenti, altrimenti prima o poi te li toglierà». Alla fine della proiezione di Un posto tranquillo, Jaglom

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vide Schneider in lacrime. Oh, fantastico, l’ho fatto com­ muovere, dedusse. « Sì, sono molto commosso » commentò il produttore. « Sono anche un coglione ». «Perché?». « Questo film non farà un soldo. È troppo astratto, troppo lirico. Io sono stato ancora più incosciente di te: io, che te l’ho lasciato fare. E perché? Perché mi faceva piangere ».

Nel 1978, impegnato nel montaggio del suo secondo film, Tracks. Lunghi binari di follia, con Dennis Hopper, Jaglom si imbattè in Orson Welles a pranzo con Warren Beatty al ristorante Ma Maison. Ormai Welles era il mo­ numento sbiadito a una carriera illustre ma oscillante, inseguito dai creditori, afflitto dall’obesità e dalla de­ pressione (il «cane nero», come la chiamava). Si era quasi arreso. All’inizio degli anni Settanta Schneider avrebbe voluto finanziargli un film con Jack Nicholson come protagonista. «Jack era pronto a rinunciare al compenso, » disse « ma quando arrivammo al dunque, Orson non aveva più il coraggio di lavorare. Era blocca­ to, qualsiasi fosse la proposta». Schneider vedeva giu­ sto. Le grandi speranze di Welles per Ffor Fake si erano infrante contro il muro dell’indifferenza generale. « Avevo pensato di scrivere venti volumi di memorie per far cassa e metter fine a quel supplizio » osservò in seguito Welles. « Ho perso il mio entusiasmo da fanciullina » spie­ gò più succintamente ajaglom. Ma per quanto volesse ritirarsi, non poté o non ci riu­ scì. Era ambivalente verso gli studios. Confessò ajaglom di aver qualcosa da dimostrare a una Hollywood che gli aveva girato le spalle. E, orgoglio a parte, il suo immagi­ nario creativo era costoso: richiedeva l’utilizzo di risorse che solo le grandi case di produzione potevano offrire. Allo stesso tempo sapeva di essere inadatto per carattere e gusto estetico alla cinematografia industriale. Era sta26

to costretto a lavorare da indipendente anche tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, quando Hol­ lywood usava corteggiare gli anticonformisti. Dalla fine degli anni Settanta, la riaffermazione del consueto siste­ ma di produzione gli negò ogni possibilità di sostegno da parte dei grandi studios. Welles e Jaglom divennero presto amici: una strana coppia, a dir poco. Erano diversi per origine, personali­ tà, età (Jaglom si avvicinava ai quarant’anni, Welles era attorno ai sessantacinque); persino i loro film non an­ davano d’accordo. Ma li accomunava l’irriducibile desi­ derio di seguire la propria strada, senza contare che il nuovo sodalizio offriva qualche vantaggio a tutti e due. Jaglom fu abbagliato dalla leggenda di Welles e sedotto dalla sua realtà. Chi non lo sarebbe stato? Fece tesoro dei consigli dell’amico; si crogiolò nella sua luce rifles­ sa; amò il ruolo di guardiano del grande regista e nel frattempo si rese conto di possedere qualcosa che all’al­ tro mancava: l’energia, l’entusiasmo, e le prospettive in quanto regista produttivo. Jaglom aveva finanziato i pro­ pri film vendendo i diritti esteri a un insieme di distribu­ tori e investitori del vecchio continente, proprio come avrebbero fatto gli indipendenti americani dieci anni più tardi; era nella posizione perfetta per districarsi nel labirinto dei finanziamenti europei. All’epoca in cui ini­ ziò ad aiutare Welles aveva solo pochi film al suo attivo, ma ne avrebbe girati molti altri. Sotto la calda ammirazione di Jaglom, Welles rifiorì. «Harry mi ha risuscitato» disse sull’onda del ritrovato ottimismo. « Ora niente mi può fermare ». Impantanato fra nuovi film rimasti nel limbo e vecchi lasciati a metà, doveva sapere che il giovane amico era la sua migliore scommessa e si interessò sinceramente al suo lavoro, passando ore e ore chino sulla moviola con lui, prestan­ dogli il suo talento narrativo e di fatto lavorando per in­ terposta persona. Henry Jaglom finì per diventare la cassa di risonanza di Orson Welles, il suo confessore, produttore, agente e

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fan numero uno. Era il mago del mago, pronto a trasfor­ mare in oro una carriera finita in niente a costo di ruba­ re, truffare e mentire... più o meno in senso figurato. Lo rialzò da terra e gli tolse la polvere di dosso; lucidò in­ stancabilmente la sua immagine; smacchiò la sua leg­ genda. Con la sua già sperimentata strategia iniziò a tro­ vare possibili finanziatori. Fece scrivere bene di lui sulla stampa. Organizzò interviste in cui promuovere i suoi progetti, molti vicinissimi alla produzione, già dotati di un cast, semplicemente in attesa di un assegno. Sman­ tellò il cliché secondo cui l’amico soffriva di una sorta di deficit d’attenzione cinematografico: «Non è vero che non finiva i suoi film. In realtà finiva i soldi, poi ne rice­ veva altri per girare qualcosa di diverso. Lui avrebbe sempre voluto riprendere in mano tutti i suoi lavori». Ma che lo si ammetta o no, Jaglom si era votato a una fatica di Sisifo. E vero: un cineasta come Orson Welles, in cerca di riconoscimento in un mercato dominato da una manciata di potenti studios, doveva affrontare diffi­ coltà immani. Nel caso dello scempio dell’ Orgoglio degli Amberson, circostanze più che attenuanti lo scagionano. Ma persino Barbara Learning, la sua biografa più atten­ ta e benevola, ammette che Welles ebbe poche scuse per dileguarsi in Europa prima del montaggio di Mac­ beth, ripetendo quasi alla lettera la débàcle degli Amber­ son. Come se non bastasse, per smentire gli scettici Wel­ les aveva garantito di concludere la lavorazione in anti­ cipo rispettando il budget. Era una storia già vista. Or­ son Welles fu vittima della propria genialità; fece troppo e quindi, tirate le somme, troppo poco. Nemmeno lui - sceneggiatore, attore, produttore e regista - avrebbe potuto finire tutti i film, le opere teatrali, le trasmissioni radiofoniche e gli altri progetti che ideava, per di più contribuendo allo sforzo bellico e conducendo un’in­ tensa vita amorosa. La sua mente era paragonabile a un calderone fumante pieno di bolle che salgono in super­ ficie e scoppiano nel nulla. Qualcuno doveva mettere a 28

fuoco le idee al posto suo, e proprio questo fu il ruolo che assunse Jaglom. Indipendentemente dalle ragioni dell’accidentata carriera post Quarto potere, come Jaglom scoprì nessuno dei paperoni che danzavano attorno alla fiamma di Or­ son Welles era disposto a metter soldi sul tavolo. Welles si ritrovò nella condizione paradossale di chi viene onora­ to come il più grande cineasta d’America ma allo stesso tempo non trova finanziatori. Sotto un diluvio di rifiuti, annaspò come un qualsiasi neofita appena uscito dalla scuola di cinema. « Orson non riusciva a girare » raccon­ ta Jaglom. «Voleva fare uno stupendo adattamento di due racconti di Karen Blixen. L’avrebbe intitolato I so­ gnatori. Andai negli studios e incontrai tutti i produttori. Non ottenni un soldo. “Orson,” gli dissi “non vogliono fare un adattamento. Ma posso proporre un film nuovo con una sceneggiatura nuova. Dammi qualche soggetto”. E lui: “Non riesco più a scrivere. Non sono più capace”. « “Stronzate. Metti nero su bianco. Oppure racconta; scriverò io per te”. « “Non ci riesco. Conosco i miei limiti”. Tre settimane dopo, alle quattro del mattino suonò il telefono. “Non so perché cazzo mi hai ficcato in questa storia. Non riesco a dormire, ma intanto ho scritto tre pagine. Terribili!”. « “Leggimele”. Ovviamente erano fantastiche. Per i tre o quattro mesi a seguire lo convinsi a finire quella sceneg­ giatura ». Si intitolava The Big Brass Ring [ Giochi sporchi] e parlava di un anziano consigliere politico di Roosevelt: Kimball Minnaker, omosessuale e mentore di Blake Pellarin, giovane senatore del Texas di stampo kennediano con ambizioni presidenziali. Pellarin si candidava contro Ronald Reagan e ne usciva sconfitto. Welles lo descrisse come se parlasse di sé stesso: « Ha dentro di sé il demone dell’autodistruzione che dimora in ogni genio ... Come tutti i grandi, non è mai sicuro di aver scelto la strada giu­ sta nella vita. Forse non gli va bene nemmeno la presi­ denza. “Dovrei diventare un monaco? Farmi le seghe al

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parco? Pensare a scopare e lasciar perdere tutto il resto?”. The Big Brass Ring parla di questo. « Era un film sull’America di fine secolo, come Quarto potere era sull’America di inizio secolo. Non riuscivo a crederci, ma avevo il pendant di Quarto potere». Adesso Jaglom era sicuro che i portafogli si sarebbero aperti. « “Vedi,” dissi a Orson “tutte le persone con cui all’inizio ho sgobbato fianco a fianco sono diventate star e produt­ tori. Li conosco; siamo amici. Ti adorano”. Andai a tro­ varli uno per uno, ma non li convinsi. Tutti gli studios rifiutarono la sceneggiatura. I tempi erano cambiati. Non mi parlavano di Orson Welles, ma del botteghino. Orson lo capì. “Mi aspettavo di trovare le porte chiuse” disse. “Perché avrebbero dovuto accettare? Non gli ho mai fatto guadagnare un centesimo” ». Jaglom non riuscì a risvegliare nemmeno un’ombra di interesse per The Big Brass Ring finché il produttore Arnon Milchan accettò di dare a Welles otto milioni di dollari e il final cut - per la prima volta dopo Quarto pote­ re - a patto di avere uno dei sei o sette grandi nomi di­ sposto a interpretare Blake Pellarin. « Festeggiammo » raccontaJaglom. « Stappammo una magnum di Cristal. Orson era sicuro che gli attori non lo avrebbero tradito. “So come son fatti” diceva. Invece non lo sapeva abba­ stanza. Clint Eastwood non volle la parte perché a suo dire il film era troppo di sinistra. Robert Redford rispo­ se che doveva già fare un altro thriller politico. L’agente di Burt Reynolds disse soltanto: “No”. Orson se la prese moltissimo. “Burt Reynolds mi deve un favore. Ho scrit­ to la prefazione a un libro su di lui, e non ha nemmeno avuto il coraggio di telefonarmi e dirmi semplicemente che non gli va. Me l’ha fatto dire dal suo agente. Il pro­ blema con queste star sono i soldi. Quando ne fanno a palate non sanno più cosa sia l’educazione”. «Uno dopo l’altro gli attori trovarono delle scuse, compresi i miei amici Warren e Jack. Warren si compor­ tò meglio di tutti gli altri. Fu molto corretto, e Orson non se la prese. Aveva appena finito Reds, che Orson

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considerava l’idea più stupida mai sentita per un film. “Dio,” fece Warren “di’ a Orson che è come aver passato tutta una notte in un bordello e poi uscirne esausto e tro­ varsi lì Marilyn Monroe a braccia aperte. Mi piacerebbe, ma proprio non ce la faccio” ». L’opzione migliore era Nicholson. Nel luglio 1982 Welles era pronto: aveva un budget, un piano di produ­ zione, maestranze e location. A Nicholson era destinato mezzo milione di dollari. Ma più la star è grande, più impiega tempo a rispondere, e nel 1984 Welles non ave­ va ancora saputo nulla da lui. Nonostante la delusione di Orson, Jaglom non volle arrendersi. « Orson doveva varcare le Alpi con gli ele­ fanti » dice. Organizzò una conferenza stampa per il ri­ torno di Welles al festival di Cannes del 1983, sulla ter­ razza del Carlton. In dieci minuti il grande cineasta fu circondato da un nugolo di giornalisti. Per far credere che camminasse bene, Jaglom nascose la sedia a rotelle. L’evento fu un successo e la stampa accolse Welles con un turbinio di commenti positivi. Anzi, per certi aspetti il viaggio fu anche troppo piacevole. Welles dove­ va osservare una dieta drastica imposta dal suo medico. Cenando con l’amico al ristorante L’Oasis prese insala­ ta, pesce al limone e Perrier. « Ma a me fece ordinare di tutto: tre antipasti, sei dessert» ricordaJaglom. « “Assag­ gia e dimmi com’è” mi chiedeva. Non immaginavo che al ritorno in albergo avrebbe svegliato lo chef nel cuore della notte per farsi portare quattro bistecche, sette con­ torni di patate arrosto e un sacco di altra roba ». A partire dal 1978 quasi tutte le settimane, e talvolta anche più spesso, Welles e Jaglom pranzarono insieme al Ma Maison, il ristorante preferito di Welles, dove man­ giava quasi sempre. Il rinomato locale di Patrick Terrail era a West Hollywood, all’8360 di Melrose Avenue, nei pressi di King’s Road. Aveva aperto i battenti nel 1975 in un piccolo edificio logoro e assai modesto dove prima

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c’era un’azienda di moquette. Nello spazio che lo sepa­ rava dalla strada c’era il « giardino », riparato da un telo di plastica bucherellato che Terrail chiamava affettuosa­ mente «la tenda della doccia», con un prato artificiale verde bile. Nemmeno gli interni erano memorabili: un critico lo canzonò definendolo « il più elegante ristoran­ te francese di Kingman, Arizona ». Ma non aveva importanza: presto il Ma Maison diven­ ne il ristorante più in voga di Hollywood. Serviva cuisine francese con una nouvelle sfumatura californiana, e per i primi sei anni i fornelli furono il regno di Wolfgang Puck. Il posto era così chic che non divulgava il nume­ ro di telefono. Fra le sue mura Hollywood conduceva le trattative; gli agenti raggiravano i produttori; i produt­ tori raggiravano gli agenti. Welles, che aveva ormai la taglia di un piccolo elefan­ te, lasciava la carrozzella accanto alla porta di servizio e faceva il suo ingresso nel locale passando dalla cucina. Di solito si metteva a destra dell’entrata, a uno dei po­ chi tavoli interni, su una sedia monumentale. Gore Vi­ dal, altro suo commensale abituale, raccontò che si ve­ stiva con delle « tende riadattate, su cui attaccava il ba­ vero, le tasche e i bottoni per dare l’illusione di un abi­ to normale ». Welles e Terrail erano grandi amici; il primo dava sempre al secondo impossibili incarichi dell’ultimo mi­ nuto. « Il ristorante era diventato il suo ufficio » ricorda Terrail. « Ricevevamo tutta la sua posta e parecchie tele­ fonate ». Passava a Welles i messaggi di chi voleva contat­ tarlo. Una volta ne lasciò uno George Stevens, Jr, che metteva in onda i Kennedy Center Honors; voleva sape­ re se Orson avrebbe accettato uno dei suoi prestigiosi riconoscimenti. Di solito equivaleva a dire che il premia­ to era pronto per la formaldeide. «Ti pagano l’aereo fino a Washington. Ci vuoi andare?» chiese Terrail. Welles rispose: « No. Non mi va di stare in piccionaia di fianco a Reagan ». In un’altra occasione l’arcivescovo greco ortodosso cenò al Ma Maison, chiese di essergli 32

presentato e volle stringergli la mano. Kiki, la bizzosa barboncina non più grande di una scatola di Kleenex e inseparabile compagna di Welles, balzò su dall’ampio «grembo» del proprietario, secondo le parole di Terrail, e addentò il braccio dell’arcivescovo. Ciò nondime­ no, quest’ultimo invitò l’imponente cineasta alla messa solenne che avrebbe celebrato nella cattedrale di Saint Sophia il giorno seguente, offrendosi di dedicargliela. « Lusingato, » disse Welles « ma mi vedo costretto a de­ clinare. Sono ateo ». Si avvicinavano al suo tavolo persone d’ogni tipo, nel­ la speranza di ricevere qualche detto memorabile: ami­ ci, ammiratori, emeriti sconosciuti. «BUONGIORNO! COME VA? » tuonava la reboante voce orsoniana. A vol­ te, invece, era scortese. «Dicevano: “Che piacere cono­ scerla!”» raccontaJaglom. «E lui: “Il piacere è tutto mio, ma basta così”. Voleva intimidirli. Spaventarli». Quando Jaglom gliene chiese la ragione, Welles si indi­ cò il naso e rispose: « In qualche modo devi far capire alla gente che non sei solo un bambolotto. Devi essere il re della foresta. La gente vuole “Orson Welles”. Vuole lo spettacolo dell’orso ballerino ». « Ma non ne hai bisogno. Non sei così insicuro da... ». « Lo sono molto più di quanto possa immaginare per­ sino tu, Henry». « Stento a crederci. Sei spavaldo e sicuro di te stesso ». « Di me sono sicuro, ma non lo sono di nessun altro ». Secondo Vidal, Welles « era spesso surreale e sempre criptico. Se non gli stavi al passo eri tagliato fuori ». Con Jaglom sembrò trovare una zona franca dove lasciare affiorare le sue debolezze. I loro scambi toccavano molti argomenti: cinema, teatro, letteratura, musica, politica, sui quali Welles dimostrava sempre un’impressionante competenza. Nessun tema era troppo insignificante o esoterico per lui. «Io sono un’autorità su tutto» affer­ mava Minnaker in The Big Brass Ring', parole ugualmen­ te adatte a lui. Il cinema? « Per me è il messo artistico me­ no interessante di tutti. A parte il balletto ». Eisenhower? 33

« Sottovalutato ». L’art déco? « La detesto dal profondo del cuore ». Il kiwi? « Tutti gli chef francesi del mondo lo rovinano ». Era prodigo di lodi verso chi stimava, ma insaporiva ogni dialogo con aneddoti divertenti e spesso poco lu­ singhieri su chi non amava. Finivano sotto la sua scure i nemici e gli ex amici. Nell’ambiente artistico Welles era il bersaglio di molti e l’oggetto dell’invidia di tutti, vista la personalità ingombrante e il precoce trionfo a teatro, alla radio e nel cinema. A torto o a ragione, a tavola pa­ reggiava i conti con quelli che secondo lui gli avevano fatto del male. C’era Pauline Kael, per esempio: la criti­ ca cinematografica del « New Yorker » divenuta una ce­ lebrità negli anni Sessanta e Settanta, protagonista di una faida durata un decennio con il collega Andrew Sar­ ris. Con buona pace di Sarris, Pauline Kael sosteneva che il film era una forma d’arte collettiva: il frutto della collaborazione di molti artisti. Scrittrice lei stessa, ama­ va magnificare la figura del paziente sceneggiatore. To­ gliere crediti a Welles le avrebbe permesso di distrugge­ re la teoria dell’ auteur-oltre a Sarris. In un suo noto scrit­ to pubblicato in due parti sul «New Yorker» nel 1971 e intitolato Raising Kane, sostenne che la sceneggiatura di Quarto potere era stata scritta soprattutto da Herman J. Mankiewicz, e non da Welles, mentre nei titoli del film veniva attribuita a entrambi. Per aggiungere al danno la beffa, quello scritto, poi screditato, fu ripubblicato lo stesso anno come introduzione a The Citizen Kane Book. Welles ne fu profondamente ferito. «Tutti lo trattavano male, » commenta Jaglom « ma Orson aveva soltanto gi­ rato il più grande film di sempre. Pauline Kael tentò di intaccare questo merito insinuando che si fosse impos­ sessato di una sceneggiatura altrui. Orson si infuriò ». Per ironia della sorte le sue ire non risparmiarono nemmeno Bogdanovich, noto auteurist. Dopo L’ultimo spettacolo, Bogdanovich aveva girato nel 1972 Ma papà ti manda sola? con Barbra Streisand, e nel 1973 Paper Moon, con Ryan O’Neal e sua figlia Tatum. Dopo tre successi

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consecutivi gli studios gli avrebbero fatto filmare anche la guida del telefono. La sua amicizia con Welles soprav­ visse per tutto quel periodo, ma alla fine degli anni Set­ tanta si raffreddò. Welles lamentava che Peter, all’apice del successo, non l’aveva mai aiutato, pur avendo il po­ tere di farlo. In seguito Bogdanovich subì un drammatico declino. Welles disapprovò sia la sua chiacchierata relazione con la pin-up Dorothy Stratten sia The Killing of the Unicom, il libro che Bogdanovich scrisse su di lei dopo che il mari­ to respinto l’ebbe uccisa con un colpo di fucile. John Houseman, definito da Bogdanovich « il nemico più micidiale di Orson », era il bersaglio delle frecce più velenose. Secondo Welles, l’ex socio si era costruito una fama razziando i relitti della sua. Houseman l’aveva fatto entrare nel 1934 al Federal Theatre, dove Welles aveva presto eclissato il suo benefattore. « Prima si innamorò di me; poi iniziò a odiarmi » disse. Per i successivi dieci anni, come i due proverbiali scorpioni nella bottiglia, fa­ ticosamente Welles e Houseman guidarono vari progetti fianco a fianco, tra cui il Mercury Theatre. Poi, mentre Welles lavorava per la RKO, divenne guerra aperta. A una cena da Chasen’s, Houseman disse che Welles gli ave­ va lanciato contro dei piatti pieni di cibo, compresi due vassoi di flambé, e lo accusò di aver rubato dei soldi. Più tardi la carriera di Welles andò in caduta libera, mentre quella di Houseman procedette a gonfie vele: dopo una lunga attività come produttore e regista tea­ trale e cinematografico, vinse l’Oscar al miglior attore non protagonista per il film Esami per la vita (1973) e passò direttamente all’omonima serie televisiva. Pubbli­ cò parecchi libri di memorie con particolari non lusin­ ghieri sui retroscena della carriera di Welles. I due rima­ sero nemici per sempre. Con Bogdanovich impossibilitato o non intenzionato ad aiutarlo, Welles lavorò in maniera discontinua per la gran parte del periodo post Quarto potere. Ebbe decenni per riflettere sui propri errori e sulle opportunità man-

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cate. A Hollywood non fu mai a suo agio. O forse è vero il contrario: lo fu troppo, e si disprezzo per questo. Ama­ va mostrare aJaglom le insidie di un mondo che stravol­ geva i valori di chi ci viveva e lavorava. Una settimana dopo il tributo di Welles a Natalie Wood, Robert Wag­ ner andò al suo tavolo. « Come stai? » gli chiese Welles. «Bene, grazie». «Che tragedia». « Però sei stato magnifico ». «Ah sì?». « Il migliore ». «Ti ringrazio». « Il migliore. Così pieno di sfumature. Sei stato inten­ so. Struggente ». « Hai capito? » disse Welles a Jaglom quando Wagner se ne fu andato. « Hai appena visto che cos’è Hollywood. Un uomo in lacrime, colpito da una tragedia immane, ha trasformato la realtà in uno spettacolo. E la mia per­ formance è stata la migliore ». « Persino Orson era sgo­ mento » commentaJaglom. Nella primavera del 1984 la versione cinematografica di The Cradle Will Rock colò a picco dopo il ritiro del fi­ nanziatore principale. I ruoli erano già assegnati e Wel­ les si apprestava a dirigerla. « Questo mi dimostra» dis­ se, affranto, a Barbara Learning « che non avrei dovuto continuare a fare questo mestiere [...]. Qui viviamo in una fossa di serpenti. Sono quarant’anni che mi nascon­ do un segreto - a me stesso, non agli altri. Il segreto è che odio il mondo del cinema».

Welles sapeva che Jaglom aveva registrato per tren­ tanni il padre che narrava i suoi ricordi, così gli chiese di registrare anche le loro conversazioni, a patto di tene­ re il registratore nella borsa, nascosto ai suoi occhi. Jag­ lom iniziò a registrare nel 1983 e continuò fino alla mor­ te di Welles, il 10 ottobre 1985, quando ebbe un infarto nel cuore della notte. Morì con la macchina da scrivere 36

in grembo; stava lavorando a una sceneggiatura. Queste chiacchierate sono giunte fino a noi. Jaglom mise i na­ stri - una quarantina - dentro una scatola da scarpe, dove presero polvere per quasi trentanni. Lo conobbi all’inizio degli anni Novanta: condivise con me ricordi e diari per la mia storia della Nuova Hol­ lywood degli anni Settanta: Easy Riders, Raging Bulls. Mi raccontò di quei nastri e io lo incoraggiai a farli trascrive­ re. Ma c’era sempre un nuovo film da girare, e natural­ mente aveva la precedenza. I nastri attesero a lungo, an­ che se Jaglom era ansioso di portarli alla luce. Alla fine ci riuscì. Lessi le trascrizioni chiedendomi se ci fosse mate­ riale per un libro, e decisi che sicuramente ce n’era. Questi nastri sono una cronaca degli ultimi tre anni di vita di Orson Welles e forse l’ultima, preziosa testimo­ nianza del regista su sé stesso. Ascoltare i due amici è qua­ si come riceverne direttamente le confidenze... e che confidenze! Orson ne emerge come un’affascinante ma­ tassa di contraddizioni. E bellicoso, e allo stesso tempo vulnerabile come un bambino. E un cospiratore, ma spesso si abbandona all’impulsività, a proprio danno. E un uomo timido che si nasconde dietro un’infinita serie di maschere, ma ama mettersi in mostra e nulla gli piace più del fragore degli applausi. E indulgente e generoso, ma tenace nel serbare rancore verso chi gli ha fatto un torto. Può inferocirsi e, un istante dopo, ridere a crepapelle. Non è dato sapere in quale buio sprofondi nei mo­ menti di depressione, ma non si abbandona quasi mai al vittimismo, o almeno non durante questi dialoghi con l’amico. Il Welles che qui affiora non è né l’impostore che cer­ ti biografi misero alla gogna né il genio che altri tratta­ rono come una divinità. Jaglom, che non lo intervistava ma chiacchierava con lui, ci presenta un uomo indifeso, rilassato, spontaneo, pronto ad abbandonarsi a ogni sorta di opinione politicamente scorretta - sessista, raz­ zista, omofobo, volgare (siamo magnanimi: definiamolo «rabelaisiano») -, trasportato forse dal piacere beffar-

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do di stuzzicare l’amico liberal e offenderne la sensibili­ tà progressista, o forse solo da un’insopprimibile esube­ ranza. Più le sue opinioni erano aberranti, più feroce­ mente le sosteneva. Goliardia, ironia stringente ed enor­ me intelligenza attraversano questi dialoghi e illuminano ogni parola, tanto che è difficile non amarlo. « Orson è una figura enigmatica per il grande pubbli­ co » ha scritto Jaglom. « E un rompicapo: come far con­ vivere il ragazzo prodigio, il rivoluzionario regista tea­ trale, l’iconoclasta della radio, il celebrato artista shake­ speariano, il cineasta d’avanguardia al quale quasi tutti riconoscono il merito di aver girato il più grande film di tutti i tempi... con il pagliaccio dei talk show, il melenso imbonitore di vini, il compiacente interprete di pasqui­ nate di bassa lega, il reietto obeso e autodistruttivo, no­ torio per le sue opere incompiute e i progetti abortiti? ». Forse è impossibile conciliare i due personaggi. E questo libro non pretende di scoprire il «vero » Welles, che potrebbe non esserci mai stato. Nelle parole di Jag­ lom, « la scena finale della Signora di Shanghai è forse la sua metafora autobiografica più vera. E impossibile in­ dividuare il vero Orson Welles nel labirinto di specchi che allestì con tanta alacrità ». A lui piaceva così. «Aspet­ ta che muoia, » gli disse una volta a pranzo « e vedrai che scriveranno di tutto su di me. Mi spolperanno fino all’os­ so. Non mi riconoscerai, e se risuscitassi non mi ricono­ scerei nemmeno io. Ho raccontato tante storie solo per cavarmi d’impiccio, per noia, per fare spettacolo! Non saprei mai ricordarle tutte, ma sono sicuro che mi per­ seguiteranno. O perseguiteranno il mio fantasma. Non dire la verità su di me, Henry. Non la vogliono sapere. Lasciagli le loro fantasie ». Orson Welles apparve per l’ultima volta davanti alla cinepresa nel film di Jaglom Qualcuno da amare (1987). Jaglom interpreta il protagonista - un regista -, mentre il personaggio di Orson è noto soltanto come «l’ami­ co ». « Gli diedi modo di congedarsi dal pubblico » ricor­ da Jaglom. «Non voleva assolutamente che lo ripren-

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dessi quando rideva. “I grassoni” ripeteva “non devono ridere. È bruttissimo da vedere”. Una volta lo ripresi, e lui diede lo stop al mio operatore, che smise di girare. “Cosa fai?” gli chiesi. « Orson Welles mi ha dato lo stop”. «Riparti subito». L’operatore ricominciò a girare. Credendo che la cinepresa fosse spenta, Orson allungò una mano dietro di sé e, chissà come, prese un sigaro acceso. Aspirò e si mise a ridere: una risata stentorea, totale, meravigliosa. Sapevo che non avrei potuto inseri­ re quel momento nel film, pena le sue ire. Quando mo­ rì, capii che il minimo che potessi fare era regalare al pubblico la sua ultima risata ». Patrick Terrail chiuse il Ma Maison nell’autunno 1985, circa un mese dopo la morte di Welles. La decisione era stata presa prima del suo infarto, ma non si può non ravvisare un certo tempismo. Di solito quando qualcu­ no va all’altro mondo la vita continua, ma in questo caso il ristorante che fu la sua seconda casa e il suo sostegno morì insieme a lui. Fu riaperto in un luogo diverso, da un diverso proprietario, ma in assenza del suo cliente più famoso al solito tavolo non fu mai più lo stesso.

Nota al testo A pranzo con Orson è diviso in due parti: il 1983 - l’an­ no in cui si svolse la maggior parte dei dialoghi - e gli an­ ni 1984-1985. Rispetta una cronologia di massima, non rigida. Sono stati unificati i dialoghi sullo stesso argo­ mento, magari intervallati da mesi o anni. La qualità dei nastri varia drasticamente: molti sono chiari, alcuni più indistinti per via della posizione del registratore dentro la borsa di Jaglom. Quindi mi sono preso di tanto in tanto alcune libertà modificando il testo e sistemando la sintassi con lo scopo di rendere le conversazioni più sin­ tetiche e comprensibili. A volte ho attribuito a Welles 39

materiale contenuto nei diari di Jaglom o fornitomi da lui in qualche intervista. Con il consenso di Jaglom ho modificato qualche sua frase per dare dei riferimenti al contesto. Orson Welles fu soprattutto un grande intrat­ tenitore: un affabulatore che aveva imparato a racconta­ re per vivere, come Shahrazàd. Alcuni aneddoti posso­ no essere già noti e sicuramente vengono menzionati al­ trove, ma sono così belli che vale la pena di ripeterli, senza contare che Welles li arricchiva sempre di partico­ lari inediti e sviluppi inattesi.

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PARTE PRIMA 1983

1983. Jaglom e Welles a un ricevimento affollato di star, ospitato dalla 1 lollywood Foreign Press Association e organizzato da Jaglom per mo­ strare ai potenziali finanziatori che Welles era ancora attivo. Tra gli ospiti ( ’erano Warren Beatty, Jack Nicholson, Jack Lemmon e Michael Caine.

Dopo parecchi mesi ho incontrato Orson a pranzo al Ma Mai­ son. Si è alzato a fatica e mi ha abbracciato con grande calare (o forse sembra grande calore; non ne sono mai stato sicuro). Mi commuove sempre, e anche oggi. E come al solito, stranamente mi sono mancate le parole e sono riuscito a dire soltanto qualche banalità come « Tutto a posto?». «Be’, tutto non saprei. E tu?» mi ha risposto. Ho capito che la mia domanda era stata troppo vaga. «Tutto a posto, oggi?» ho precisato. Allora, contento di avermi costretto a essere più specifico, ha detto: « Tutto a posto... fino a questo momento ».

E due ore fa, cambiando canale, mi sono ritrovato davanti con stupore l’inizio di Quarto potere, con la scena del cinegiorna­ le. Ho appena finito di vedere Orson invecchiato dal trucco e dalla sua bravura di attore venticinquenne, in unfilm concepito dalla sua mente di venticinquenne, e ilfilm — e lui, nelfilm - so­ no così intensi e vicini alla perfezione che dopo mi è sembrato in­ concepibile guardare qualcos’altro. Mi chiedo, dopo un film così, che altro puoifare? E questo il suo segreto ? E lui Iosa? Che Quar­ to potere sia la sua Rosabella ? Dal diario di HenryJaglom, 2 aprile 1978

1 « TUTTI DOVREBBERO ESSERE RAZZISTI »

Dove Orson si dà alla critica gastronomica, confessa di non aver mai capito perché Katharine Hepburn lo detestasse, ma di­ chiara perché lui detestava Spencer Tracy: odia gli irlandesi, malgrado la sua amicizia con John Ford, e preferisce la gente di destra a quella di sinistra

Jaglom entra. Welles si alza con difficoltà dalla sedia per salu­ tarlo. Si abbracciano e si baciano sulle guance, come si usa in Europa. ( a Kiki ) Come stai, Kiki? Orson Welles Attento che ti morde... Bene: cosa vo­ gliamo mangiare? hj Io proverei l’insalata di pollo. ow Per carità! Non ti piace, con tutti quei capperi. hj Glieli faccio togliere. ow Vuoi che ti spieghi cosa sta succedendo in cucina? hj Staranno diventando pazzi. Mai vista tanta gente. ow Col daffare che hanno è il giorno perfetto per man­ dare indietro un piatto allo chef. hj Vedi, il Ma Maison non è come mi aspettavo... i leg­ gendari ristoranti di Hollywood. Il mio sogno era Roma­ noff’s, poi sono arrivato qui e non c’era. ow Certo, chiuse nel ’43, ’44. Ebbe vita breve. Roma­ noff’s e Ciro’s erano i posti delle nostre tresche, e non ci sono più. All’uscita i fotografi ci beccavano sempre inhenry jaglom

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sieme all’altra. Adesso Romanoffs è un parcheggio. Quando stava fallendo ci cantò Sinatra con un’orche­ stra di sedici violini, tre settimane di fila, gratis, per dar­ gli una mano. Eravamo lì tutte le sere. Un posto incre­ dibile. Anche Don The Beachcomber era favoloso per portarci le ragazze, perché era buio. Non ci si vedeva in faccia. hj E Chasen’s? ow All’inizio Chasen’s era una griglieria. Fui uno dei primi investitori. Anche di Romanoffs. hj Eri uno dei proprietari di Romanoffs ? ow Sì, e pensa che da lui non vidi mai un centesimo. Stessa storia con Chasen’s. Li fondai tutti e due. Io, e un sacco di altri fresconi. Tanto, da Romanoff non ci aspettavamo niente perché era un farabutto. Quanto a Dave Chasen, quando la sua griglieria divenne un gros­ so ristorante, si dimenticò chissà come dei suoi primi finanziatori. Invece il Ma Maison ha aperto nel 1973 e sopravvive. Non ci ho messo piede per un bel pezzo perché la storia del numero di telefono segreto mi irritava. E snob non pubblicare il numero di telefono. Poi qualcuno l’ha man­ dato in onda in TV, così, per fare lo stronzo. Comunque non invidio questa gente; mandare avanti un ristorante è durissima. cameriere Oggi pranziamo, Mr Welles? Abbiamo del­ le capesante, se desidera. Al naturale, oppure preparate con una petite légume. ow No: meglio al naturale. Ma vediamo cos’altro c’è. c Nel caso, la avverto che abbiamo terminato l’insalata di granchio. ow L’insalata di granchio? Era meglio non dirlo. Al­ meno non avrei saputo che cosa non potevo ordinare! c Gradirebbe un’insalata con pompeimo e arancia? ow No, che orrore. Un connubio insensato, pessimo:

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tipicamente tedesco. Facciamo insalata di pollo, ma sen­ za... senza capperi. hj L’hanno rovinata, con quel condimento alla sena­ pe. È diventata tutta un’altra cosa. ow È cambiato lo chef. c E dell’arrosto di maiale? ow Oddio! Arrosto di maiale con questo caldo? Non posso mangiare maiale, sono a dieta. Però lo ordino lo stesso, solo per sentire il profumo. « Se v’aggradasse ce­ nar con noi » dice Bassanio a Shylock; e Shylock rispon­ de: « Sì, per fiutare il porco; per mangiar la dimora in cui il Nazarita, vostro profeta, ficcò per magia il demo­ nio! Con voi posso comprare, con voi vendere, parlare, passeggiare e via dicendo, ma non mangiare, bere, e nemmeno pregare ». hj Non c’era già qualcosa nella Bibbia sul demonio che prende la forma di un maiale? O è un’invenzione di Shakespeare? ow No; in realtà Gesù mise una schiera di diavoli nei porci di Gadara. Shakespeare invece voleva solo dare a Shylock un motivo per non mangiare con quelli là. hj Io prendo il pollo allo spiedo. c Benissimo. ow E una tazza di capperi. c Di capperi? hj No, no. Sta scherzando. ow E per me un granchio morbido. Purtroppo lo im­ panano... Comunque lo prendo lo stesso. Est-ce que vous avez de Vaspirine? Ha dell’aspirina? c Certo. Eccola, Monsieur Welles. hj Non ti senti bene? ow Oggi mi sono venuti tutti i dolori reumatici del mondo. Le ginocchia. Ma per farmi compatire meglio dico sempre che è la schiena. Comunque ho il ginoc­ chio destro acciaccato, quindi zoppico. Probabilmente

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sta cambiando il tempo. Non ho mai creduto a queste storie finché non mi è venuta Γartrite. È mezz’ora che mi fa male. Secondo me pioverà. Ma l’aspirina è porten­ tosa. Del resto, non ho problemi di stomaco e non sono allergico.

Il cameriere esce. hj Hai sentito di Tennessee Williams? È terribile com’è morto, vero? ow Ho sentito solo che è morto stanotte. Cos’è suc­ cesso? hj Ha inalato qualcosa con una sua strana pipa. A un certo punto non è più riuscito a deglutire, a respirare o a... ow Droga? O un panino con il roast beef, magari. hj Hanno detto «cause naturali». Poi sono passati a « cause ignote ». Un bel mistero. ow Anche a me piacerebbe morire da solo in una ca­ mera d’albergo - ti schianti e via, come si usava una volta. Ken Tynan raccontava un aneddoto divertentissimo. Non lo scrisse, però. Lui e Tennessee andarono insieme a Cuba, ospiti di Fidel Castro. Erano nell’ufficio del líder máximo, con tanta altra gente - gente vicina a eljefe-, e c’era anche Che Guevara. Tynan spiccicava un po’ di spagnolo, Castro parlava un buon inglese, e così erano presi dalla conversazione. Ma Tennessee si annoiava un po’. Se ne stava seduto in disparte, per conto suo. A un certo punto fece un cenno a Guevara e gli disse col suo accento del Sud: « Scusa, non è che faresti una corsa fuori a prendermi un paio di tamales? ». hj Secondo te è vera? ow Tynan non se le inventava. Sicuramente Tennes­ see a qualcuno l’aveva chiesto. Magari lui l’ha migliora­ ta mettendoci Guevara. Ti ho mai detto di quando, come uno scemo, mi sono fatto soffiare una sua pièce da Elia Kazan? Eddie Dowling,

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che faceva il produttore a Broadway, mi mandò il lavoro di un certo Tennessee Williams. Non gli diedi neanche una scorsa. « Non ce la faccio » dissi. «Adesso non posso proprio pensare a una pièce ». Si chiamava Lo zoo di vetro. hj Dio, Lo zoo di vetro! ow Se avessi fatto quella, sarebbero state mie anche tutte le altre. Fu un errore madornale. hj Che peccato... A proposito: stavo leggendo il libro di Garson Kanin su Spencer Tracy e Katharine Hepburn. ow Sì, gli ho scritto lo strillo. Credevo che così avrei finalmente fatto breccia con Katie... Invece scoprii che non potevo far di peggio! hj Devo dire che leggendolo non ho capito perché la fece tanto arrabbiare. ow Kanin disse che lei e Tracy vivevano insieme... hj Ma lo sapevano in molti. ow Visto che se la faceva con tutta la città, a ruota li­ bera. hj La Hepburn? ow Alla faccia! Stavo girando Quarto potere. L’avevo vi­ cino, al trucco; si preparava per Febbre di vivere. E con do­ vizia di parolacce raccontava di come la sbatteva How­ ard Hughes. Ai tempi nessuno parlava così, tranne Car­ ole Lombard: per lei era naturale, non sapeva esprimersi in nessun altro modo. Invece Katie, con quel suo accen­ to da collegiale di buona famiglia, era come se avesse scelto di parlare così. Anche Grace Kelly ci dava dentro in camerino, quando nessuno guardava... ma poi non lo andava a dire. Katie era diversa. Era una ragazza libera. Quasi come quelle di adesso. hj Vorrei capire perché ce l’ha con te. Hai mai fatto qualcosa a Tracy o parlato male di lui? ow Non sono mai stato un suo ammiratore. Da ragaz­ zo, a teatro, mi alzai e gli feci una piazzata durante Capi­ tani obbrobriosi. Coraggiosi, coraggiosi. 47

hj Qualcuno lo avrà riferito a Katie. Ecco perché non le sei simpatico. ow Ma va! Ero un emerito sconosciuto di diciannove anni. Mi alzai in piedi al Paramount Theater quando lui faceva l’accento portoghese, con quei capelli tutti arric­ ciati! Mi alzai e gli urlai: « Si vergogni! ». Poi la masche­ ra mi sbattè fuori perché non la smettevo. hj Sbraitavi? ow No, gli facevo il verso mentre recitava. hj Fu l’unico passo falso della sua carriera. ow No, non l’unico. Ce ne furono parecchi. Sto cer­ cando di pensare a una grande performance di Tracy, ma è un’impresa. Be’, fu immenso in Vincitori e vinti, an­ che se non è un film eccelso; invece, in quelle cose ro­ mantiche con la Hepburn non lo potevo sopportare. hj Non lo trovavi affascinante? ow Macché. Odioso, semmai, odioso. Lui mi detestava, ma del resto detestava chiunque. Una volta andai a pren­ derlo in un bar di Londra: dovevo portarlo a Notley Ab­ bey, la casa fuori città di Larry [Olivier] e Vivien [Leigh]. La gente veniva da me a chiedere l’autografo e a lui non badava. Ma io ero il Terzo Uomo, diamine, mentre Tra­ cy aveva i capelli bianchi. Cosa pretendeva? Si sedette al tavolo e disse: «Guardano solo te. Io sono invisibile». È stato furioso per tutto il giorno. Era lui il divo, no? Sul set si lamentava: «Perché quell’attore distrae tutti mentre parlo io? ». Comunque Katie non mi odia per questo. E che non le piaccio; punto. Non le piaccio fisicamente. Sai come funziona l’antipatia fisica. Fra europei è normale. Se penso che una persona sia brutta, non mi è nemmeno simpatica. Sai, io non credo nell’uguaglianza tra le raz­ ze e tra i popoli. Sono profondamente convinto che sia una menzogna bella e buona. Secondo me, le differen­ ze ci sono eccome. I sardi, per esempio, hanno le dita corte e tozze. I bosniaci sono senza collo. hj Orson, è ridicolo.

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ow Misurali. Misurali e vedrai! Se per me Bette Davis è inguardabile, non voglio nemmeno vederla recitare. Woody Alien mi ripugna, fisicamente; detesto gli uomi­ ni fatti in quel modo. Hj Non ho mai capito perché. L’hai conosciuto? ow Certo. Non sopporto nemmeno di parlarci. Ha la sindrome di Chaplin. Quella combinazione unica di ar­ roganza e insicurezza che mi dà Γ orticaria. hj Non è arrogante; è timido. ow No, no, è proprio arrogante. All’ennesima poten­ za, come tutti gli insicuri. Quelli che in compagnia si raggrinziscono e parlano piano sono incredibilmente arroganti. Fa il timido, ma non lo è. Ha paura. Si odia e si ama: pensa la tensione. Son quelli come me che devo­ no tirare avanti fingendosi modesti. hj Dici che si prende molto sul serio? ow Moltissimo. E questo trapela nei suoi film. E la co­ sa più imbarazzante del mondo: uno che mette in mo­ stra il peggio di sé per far ridere, e così si libera dei suoi complessi. Tutto quello che fa sullo schermo è una tera­ pia, per lui. hj Quindi non ti piace nemmeno Bob Fosse, All That Jazz. ow Esatto. Non mi piace quel tipo di cinema terapeu­ tico. I miei gusti sono piuttosto ampi, ma certe cose non le tollero. hj A me i film di Woody piacciono. Su questo non sia­ mo d’accordo. Nemmeno sugli attori. Non riesco a dige­ rire il tuo giudizio su Marion Brando. ow E quel collo. Sembra un salsiccione; una scarpa fat­ ta di carne. hj Dicono che non sia molto intelligente. ow Be’, come quasi tutti i grandi attori. Larry [Oliv­ ier] è un beota - sul serio. L’intelligenza è un handicap, per un attore. Perché se sei intelligente non sei emotivo, ma cerebrale. Il tipo cerebrale può essere un grande at-

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tore, ma è più difficile. Fra gli artisti, attori e musicisti hanno più o meno la stessa intelligenza. A me i musicisti piacciono moltissimo. I cantanti meno. Sono fissati con il loro gargarozzo. Dopo vent’anni di quello, cosa puoi avere da dire? Sono prigionieri delle loro corde vocali. Quindi, i cantanti all’ultimo posto; gli attori, al primo. Con le dovute eccezioni. Leo Slezak, il padre dell’attore Walter Slezak, disse la più grande battuta di tutti i tem­ pi, a teatro. Era il massimo tenore wagneriano della sua epoca. Il re senza corona di Vienna. Cantava il Lohen­ grin. Se sei un wagneriano, sai che Lohengrin entra in scena su un cigno che galleggia sul fiume. Scende, can­ ta, e alla fine dell’ultima aria deve ripartire a bordo del cigno. Non fosse che una sera il cigno se ne andò via da solo, prima che Slezak riuscisse a imbarcarsi. Al che lui non batté ciglio, si girò verso il pubblico e disse: «A che ora passa il prossimo cigno? ». hj Com’è possibile avere tanto fascino e nessuna intel­ ligenza? Non mi è mai stato chiaro. ow Be’, è come il talento senza intelligenza. Càpita. hj Se Tracy era antipatico, nel suo lavoro non si vede, ow Per me sì. Lo detesto, veramente. Una carogna come tutti gli irlandesi. hj Cosa? ow Una carogna come tutti gli irlandesi. hj Non credo alle mie orecchie. ow Io sono razzista... Sai come si fa la frittata unghere­ se? Primo: rubi due uova. E questa me la raccontò Alex­ ander Korda. hj Ma Korda ti era simpatico. ow Adoro gli ungheresi. Tutti a letto, li porterei. Qua­ si mi diventa duro, quando sento un accento unghere­ se. Mi fanno impazzire. hj Non capisco perché parli così degli irlandesi. ow Io li conosco; tu no. Loro odiano sé stessi. Ho vissu-

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to anni in Irlanda. Alla maggioranza degli irlandesi intel­ ligenti gli irlandesi non piacciono, e hanno ragione. hj Tutti questi popoli che odiano sé stessi. Anche gli ebrei. ow Nessuno batte gli irlandesi. hj Ma non hanno ragione, Orson; lo sai benissimo. E non accetto da te questo pregiudizio. So che non la pen­ si veramente così. ow Altroché se la penso così. Specialmente parlando di irlandesi americani. Preferisco di gran lunga gli irlan­ desi d’Irlanda. Se proprio devo averci a che fare, scelgo i nativi. Anche gli irlandesi d’Inghilterra non sono nien­ te male. Quasi tutti i grandi autori irlandesi se ne sono andati in Inghilterra, a parte [George William] Russell e Yeats. Mi dà i brividi, Yeats. Stavo a Dublino quando lui era ancora... hj Già, Yeats c’era ancora, negli anni Trenta. ow Certo. Lo vedevi a tutte le feste, lo incontravi a pas­ seggio nel parco. Anche Lady Gregory. C’era ancora tutta quella gente: i famosi nazionalisti irlandesi. Tutti, li conobbi. Comunque ti faccio notare che molti dei miei migliori amici sono irlandesi. hj Orson, ti prego! ow Ma quando guardo Tracy, vedo che tutti i suoi peggiori difetti sono irlandesi. Tutte le sue cattiverie. Qualsiasi irlandese te lo dirà. Settecento anni di feroce oppressione hanno cambiato il carattere della gente: le hanno inculcato la meschinità, la disonestà. Ti cito sol­ tanto Micheál Mac Liammóir. Facevamo ΓOtello. «De­ scrivimi gli irlandesi con una parola sola » gli dissi. E lui: « Malvagi ». Guarda: io amo l’Irlanda, amo la letteratura irlandese, amo qualsiasi cosa facciano. Ma l’Irlanda d’i­ mitazione messa in piedi dagli irlandesi americani è in­ descrivibile. The Wearin’ofthe Green. Perdio... da vomito! hj Un po’ noiosa, forse, e... ow No, no, è proprio da vomito. Non noiosa forse. Tu

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sei un liberal fatto e finito! Ovviamente non posso dimo­ strare quel che dico. E una mia visione personale! A te non piace, ma io la vedo così! Tutti dovrebbero essere razzisti. Non si è umani, se non si riconosce di avere qual­ che pregiudizio. hj Sì, ma un conto è avere qualche pregiudizio e un altro è odiare a morte, come fai tu con gli irlandesi... ow Non arrivo a trattarli male o a bandirli da casa mia. Non significa chissà cosa, è solo una percezione del loro carattere. O del carattere della maggioranza. hj Bene. Ma se tutto questo è vero, vuole solo dire che subiscono un condizionamento culturale. ow Ci puoi scommettere ! hj Venire in America li cambia. ow Esatto. Diventano una razza nuova e terribile che si chiama « irlandesi americani ». In Australia mi vanno bene; in Inghilterra mi vanno bene; nell’America lati­ na mi vanno bene. A New York e a Boston diventano mo­ struosi. Kennedy padre era un vero irlandese americano. Questo, intendo. hj I suoi figli invece no? ow No. L’hanno scampata. Le origini si notavano, ma il carattere non era irlandese. La loro vita non si basava sulla malvagità. Chi resta qui in America abbastanza a lungo perde i pregi e i difetti della sua cultura d’origine. Quando gli italiani arriveranno alla prossima generazio­ ne dimenticheranno quel loro senso della famiglia. Non staranno più sempre insieme. hj E come in Israele, dove di arte non ce n’è più. Tutti quegli ebrei credevano in un loro rinascimento, e ora co­ sa producono? Una grande aviazione militare. Di artisti, neanche l’ombra. Tutte le loro incredibili qualità, per secoli... ow Le hanno lasciate in Europa. Del resto, cosa se ne fanno? Loro vanno in Israele, che è più o meno come andare in pensione.

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hj 11 loro teatro è noioso; il cinema è noioso. La pittu­ ra e la scultura... ow Sono noiose. Fanno buona musica solo quando va a dirigerli Zubin Mehta: un indù. hj E stupefacente. All’epoca in cui stavano in Polonia, tutti i pianisti del mondo erano... ow Tutti i violinisti della storia: ebrei. C’era il mono­ polio assoluto degli ebrei russi e polacchi. Adesso son tutti giapponesi e orientali. Rubinstein se n’è andato... hj L’anno scorso. ow Lo conoscevo da quarant’anni, molto bene. Te l’ho detta, la sua battuta più bella. Vado a sentirlo alla Albert Hall. Non ho il posto, quindi mi siedo dietro le quinte. Finisce. Applausi scroscianti. Viene ad asciugarsi il viso e mi fa: «Vedi, si sono spellati le mani proprio come gio­ vedì scorso, quando ho suonato bene ». hj Non è male morire a novantacinque anni. Ha vissu­ to intensamente. ow Eccome. hj Ma allora è vero che ci dava dentro? ow E stato il più grande mandrillo dell’ottocento. Del Novecento. Il più grande incantatore, linguista, narrato­ re, uomo di mondo. E non si esercitava mai. Diceva: « Sai, molti miei rivali sono più bravi di me, tecnicamente, per­ ché io sono troppo pigro per fare esercizio. Proprio non mi piace. Horowitz sa fare di più. Lui si siede al piano e lavora. Io, invece, voglio godermi la vita. Sbaglio sempre qualche nota. Ma con gli errori suono meglio ». hj Horowitz, per esempio, detesta la sua vita. Sono quindici anni che non riesce più a suonare. E neanche a muoversi. ow Per Rubinstein è stata tutta una gran festa. hj Per di più l’ha conclusa assieme a una donna giova­ ne. Non è lui che a novant’anni lasciò la moglie dopo quarantacinque anni di matrimonio, per scappare con una di trentuno?

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ow Come Casals. Che a ottantasette anni o giù di lì si trovò una lolita. hj Ma tornando agli irlandesi, ce ne sono anche di lib­ eral, come Robert Ryan, che fu un uomo coraggioso, po­ liticamente e socialmente. Dimmi che Robert Ryan non era uno a posto. ow Attore fantastico. Non lo ritengo un irlandese; di irlandese aveva solo il nome. Doveva essere di quarta generazione. hj E poi Ford, che ti era simpatico. Irlandese anche lui. ow Eravamo ottimi amici. Ha sempre voluto fare un film con me. Un gran bastardo di irlandese, cattivo il giusto. Però gli volevo bene. hj Quando l’hai conosciuto? ow Venne sul set di Quarto potere il primo giorno di ri­ prese. hj Per dirti buona fortuna? ow No. Per un motivo preciso. Mi indicò l’aiuto regi­ sta: un certo Ed Donahue, assoldato dai miei nemici alla RKO. « Ho visto che hai nel film quella serpe di Dona­ hue » disse, e se ne andò. Era venuto ad avvertirmi che il mio aiuto era una carogna. hj Ho sempre sentito che Ford beveva come una spu­ gna. ow Mai, sul lavoro. Nemmeno un goccio. Solo l’ultimo giorno. Poi rimaneva sbronzo per settimane. Ma sbron­ zo forte. Beveva per divertimento, però. Insomma, non era un alcolizzato. Usciva con le maestranze. Irlandesi: bevevano e menavano. Cosa si va a fare al pub? A pic­ chiarsi, no? Io sono sopravvissuto a tutte queste cose. In Irlanda finii in galera per condotta turbolenta. Era una cultura dove gli uomini si sposavano solo dopo i trentacinque anni perché sognavano sempre di emigrare,'e non volevano avere il peso economico dei figli. Quindi c’erano in giro tante povere vergini che aspettavano di sposarsi. Intanto i maschi rispolveravano gli istinti bellui­ ni e scazzottavano.

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Hj Non si scopava, immagino, perché era una cultura cattolica... ow Perdio, sì, invece. Quando sono stato sulle isole Aran le donne non mi facevano nemmeno prendere fia­ to. Avevo diciassette anni e c’erano queste meravigliose ragazzone con le sottogonne bianche che mi saltavano addosso. Via la sottogonna... Somigliava molto a uno stupro sul maschio. Con i mariti lontani sulle canoe rive­ stite di cuoio. Tutto il giorno, perché io non avevo nien­ te da fare. Dopo le ragazze andavano a confessarsi. Il prete a un certo punto mi disse: « Stamattina ho ricevu­ to un’altra confessione. Quando parti? ». Voleva proteg­ gere la virtù del suo gregge. In America, quando lo rac­ contai, i preti andarono in ebollizione; dicevano che non sarebbe mai potuto succedere. hj Politicamente Ford era un reazionario, no? Come i suoi amici John Wayne e Ward Bond. ow Sì, ma non so come, loro mi volevano bene. E io li ricambiavo. Ho ancora una bottiglia di birra che mi misero insieme sulla barca di Ford, con diverse etichet­ te di birre messicane e americane autografate da tutti quelli del gruppo. E allora ero un famigerato rosso di Hollywood. hj Ma come mai erano così reazionari? ow Irlandesi, irlandesi, irlandesi. « Dàgli al giudeo » gli avevano insegnato. Che gran persona, John Wayne. L’attore più educato che abbia conosciuto a Hollywood. hj Hai mai parlato di politica con lui? ow E perché? Non sono mica come te, io. Ti pare che mi metto a raddrizzare le idee a John Wayne? Non ho mai avuto nessun problema con gli estremisti di destra. Li ho sempre trovati simpaticissimi sotto ogni aspetto, a parte la politica. Di solito sono meglio di quelli di sinistra. hj Facile per te dirlo. Eri in Europa negli anni Cin­ quanta, quando c’era la lista nera e tutta quella merda, ow Sì: ebbi la fortuna di restare fuori dagli Stati Uniti 55

durante il maccartismo. Ero il più schedato al mondo. Tutte le volte che qualcuno chiedeva sostegno per una battaglia, gli dicevo: « Mettici il mio nome ». Ma nei miei editoriali sul «New York Post» dall’inizio alla fine degli anni Quaranta criticai la Russia stalinista, proprio quan­ do tutti credevano che Dio sorridesse a Stalin. Volevo tanto spiegare a quelli della Commissione per le attività antiamericane la differenza tra un comunista e un libe­ ral. Quanto li pregai! « Per favore, mi fate andare a Wash­ ington a testimoniare? ». Be’, non s’azzardarono. hj Certo che sei molto tollerante verso queste idee pe­ ricolosissime... ow Tollerante?! Mettiamo che tu vada in Amazzonia, a vivere in un villaggio di cacciatori di teste. Se sei un antropologo diventerai un loro grande amico, ma non ti metterai a criticare le loro usanze. hj E che non capisco come un progressista potesse non discutere di politica con John Wayne, Ward Bond o Adolphe Menjou nel periodo in cui avevano il potere di nuocere alla gente... e danni ne fecero parecchi. ow Menjou era pazzo col botto; non ci si poteva parla­ re. Però Noël Coward lo sistemò per bene. Menjou diri­ geva una troupe della USO,1 e Noël Coward l’equivalen­ te della USO in Inghilterra; non so come si chiamasse, ma anche loro facevano spettacoli per le truppe. I due si conoscono a Casablanca. Un giorno stanno mangiando in sala mensa. Menjou spiega quant’è grave la situazio­ ne in Inghilterra con quei « soldati negri » che si scopano tutte le ragazze inglesi, e chissà che razza ne verrà mai fuori. « O sbaglio, Noël? ». « Be’, secondo me è meravi­ glioso» dice Noël. «Come?» fa Menjou. E Noël: «Alme­ no avremo una razza di inglesi con i denti sani ». No... con Menjou non si poteva proprio parlare. Era un invasato.

1. United Service Organizations, l’ente che organizza gli spettacoli per le truppe americane [N.d.T.].

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2 « THALBERG ERA SATANA! »

Dove Orson è villano con Richard Burton, rivela che Meyer Lansky era soporifero e sostiene che la cinematografia industriale e il suo sistema di produzione furono inventati dal «ragazzo prodigio » Irving Thalberg

henry JAGLOM In questi ultimi quindici giorni due studios sono stati acquisiti dai loro distributori. Orson Welles Se la RKO non fosse stata acquisita dal distributore non avrei mai fatto Quarto potere. Ecco per­ ché ottenni il final cut, perché George Schaefer era un novellino. Nessun altro avrebbe mai firmato quel con­ tratto. hj Ma è vero che una volta si lavorava meglio? ow Gli anziani fanno pietà quando lo dicono, perché lo dicono sempre, ma una volta era davvero meglio. La cosa più bella era la quantità di film. Se eri Darryl Zanuck e ne producevi ottanta sotto la tua diretta supervisione, quanta attenzione potevi dare a ciascuno? Qualcuno riu­ sciva per forza a infilarci dentro qualcosa di buono. Io andavo d’accordo anche con le peggiori cariatidi, come Harry Cohn. Era più facile trattare con loro che con questa gente di oggi, uscita dal college, sempre con il mercato in testa. Non ho mai avuto grossi problemi con la vecchia guardia, solo con avvocati e agenti. Norman Mailer non ha detto che la nuova, grande forma d’arte di Hollywood è il contratto? È lì che vanno a finire le ener­

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gie di tutti. Sono quarantacinque anni che lavoro con gli agenti, come attore e regista. Come produttore, seduto dall’altra parte della scrivania, non ne ho mai visto uno impuntarsi e combattere per il suo cliente. Mai sentito uno che dicesse: « No, aspetti un minuto! Questo è proprio l’attore che fa per voi ». Dicevano sempre: « Non le piace? Ne ho un altro da proporle». Un branco di pusillanimi. hj Una volta le grandi trattative si concludevano con una stretta di mano. Senza contratto scritto. E i patti ve­ nivano sempre rispettati. ow Come tutte le culture protestanti o ebraiche, gli Stati Uniti vennero fondati sull’idea che la parola di un uomo ha un valore. Altrimenti non saremmo potuti an­ dare nel West, dato che era senza legge. La parola di un uomo doveva contare qualcosa. La mia teoria è che tut­ to andò in malora con il proibizionismo, perché era una legge che nessuno poteva rispettare. In quel momento il concetto di sovranità della legge si guastò. Poi ci fu il Vietnam, e la marijuana, che chiaramente non dovrebbe essere illegale, ma lo è. Se nel Texas vai in galera per die­ ci anni appena ti accendi uno spinello, chi sei? Un malvi­ vente. E esattamente uguale al proibizionismo. Quando la gente accetta che infrangere la legge è normale, tutta la società ne risente. Capisci?

Richard Burton si avvicina al tavolo.

Orson, che piacere vederti. Quanto tempo. Ti trovo bene. C’è Elizabeth con me. Vorrebbe tanto conoscerti. Posso portarla qui? ow No. Come vedi sto mangiando. Passo da voi quan­ do esco. richard burton

Burton esce.

Orson, che stronzo! L’hai trattato malissimo! E scap­ pato come un cane bastonato. hj

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ow Non darmi i calci sotto il tavolo, non lo sopporto. Non ho bisogno di te come voce della coscienza, caro il mio grillo parlante ebreo. Sugli stivali, poi. Lo sai che mi proteggono le caviglie. Richard Burton aveva un grande talento: l’ha buttato alle ortiche. E diventato una barzel­ letta, l’appendice di una moglie diva. Adesso lavora solo per i soldi e fa della gran merda. Comunque, non l’ho trattato male. Per dirla con Cari Laemmle, « gli ho dato una risposta evasiva: fotti ti ». Hj Vuoi dire che lui si è svenduto e tu no? ow Se mi fossi messo a girare le sceneggiature dei gran­ di studios, avrei potuto lavorare per chiunque. Ero per­ fettamente vendibile, anche quando impazzava il mito del cattivo Welles. Ne avrei fatti, di film. hj Sempre che fossero di qualcun altro, e non tuoi. Ma avresti accettato una loro proposta? ow No. Non l’avrei accettata. Porgy and Bess, mi offri­ rono. Anche Sam Goldwyn mi propose due o tre cose. hj Lui com’era? ow Alla sua epoca era considerato un produttore di alto livello. Non voleva mai fare nulla che non rispon­ desse al suo concetto di massima qualità. In questo, lo stimavo. Era un imprenditore onesto. Se usciva con un brutto film, non se ne rendeva conto. Ed era molto spi­ ritoso, mi faceva ridere. Sai, con quella sua vocetta: « Or­ son, ti prego, ti faccio un assegno scoperto! ». «Alla War­ ner Brothers un impegno sulla parola non vale neanche il pezzo di carta dov’è scritto ». Mi aiutò sempre. Gregg Toland, che girò tantissimi film della Goldwyn, mi disse che in Russia, se non si vedevano alla perfezione le facce di tutti gli attori, ti obbligavano a girare di nuovo. Sam Goldwin era uno così. Diventava matto, se non c’erano trenta secondi di luce sparata sulla faccia di una star. «Io pago, per quella faccia! Fatemelo vedere, l’attore! ». Benissimo i campi lunghi, ma guai alle ombre. Per me era troppo. Non ero fatto della pasta giusta per lavorare con lui.

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Non ti venne mai la tentazione? ow Mai. Per passarmela come Willie Wyler? La vita è troppo breve. Charlie MacArthur e Ben Hecht scrissero La voce nella tempesta1 nella mia casa di Sneden’s Land­ ing. Goldwyn non li mollò un secondo. Il pomeriggio, prima di andare in radio, cercavo di dormire e sentivo come li trattava. Mai mi ficcherò in una situazione del genere, pensavo. Era proprio un mostro. L’ultima sera che trascorsi con lui me lo fece crollare per sempre. Ero tornato a Holly­ wood dopo anni; avevo invitato tutti i vecchi dinosauri - i superstiti - e un po’ di altra gente. E lui se ne andò via su­ bito dopo il dessert perché certi ospiti non erano di pri­ mo piano. Vedi... prima non l’avrebbe fatto. Invecchiava. hj Ci fu qualcun altro che ti propose dei film, a parte Goldwyn? ow Louis B. Mayer mi propose la sua casa di produzio­ ne! Si era innamorato di me perché non volevo avere niente a che fare con lui. Mi ci portò due volte - e giù a farmi le moine, tutto il tempo. Orsy, mi chiamava. Mi convocava e scoppiava in lacrime; una volta svenne. Per arrivare allo scopo. Tutto finto, fintissimo. Il contratto di­ ceva che per avere la casa di produzione dovevo smettere di recitare, dirigere e scrivere. Cioè di fare film. hj Come mai non volevi avere niente a che vedere con lui? ow Perché era il peggio di tutti. Gli altri erano quello che erano. Prendi Harry Cohn: si vedeva, che era un produttore di Hollywood con il pelo sullo stomaco. Con lui non ci si stupiva di niente. Ma L.B. era peggio. Bigot­ to, untuoso, con la bandiera americana sempre in ma­ no. Faceva affari con la Purple Gang di Detroit... hj La Purple Gang di Detroit? ow Prima dei sindacati comandava la mafia. Ma non la chiamavano «mafia», dicevano soltanto «le famiglie », e hj

1. Film tratto da Cime tempestose [N.d.T.].

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si riferivano soprattutto alla Purple Gang. L.B. aveva il controllo di tutte le maestranze: i proiezionisti, i carrel­ listi, quelli che spazzano per terra. Gestiva autisti e ma­ gazzinieri. Non i registi e simili - non ne aveva bisogno. Quando gli servivano più soldi, se li faceva dare dalla Purple Gang. Quando aveva bisogno di usare le manie­ re forti chiamava la Purple Gang, che mandava in città i suoi picchiatori. hj Louis B. Mayer faceva picchiare la gente? ow A sangue. Non escluderei che abbia fatto uccidere qualcuno. Amava considerarsi un padre fondatore e ca­ po della mafia. hj Tu conoscevi qualche mafioso? Conoscevi Meyer Lansky? ow Molto bene. Era il gangster numero uno d’Ameri­ ca, direi. Ma li conoscevo tutti... per forza. Se in quel periodo vivevi, come me, a Broadway, se vivevi nei night club, non potevi non conoscerli. Io portavo a letto le bal­ lerine, socializzavo con chiunque entrasse, stavo lì fino alle cinque del mattino; e loro amavano bazzicare i nightclub. Arrivavano e si sedevano al tuo tavolo. hj Come trovi Lee Strasberg nella parte di Hyman Roth, nel Padrino 2? ow Molto meglio del vero. Meyer Lansky era noiosissi­ mo, magari fosse stato come Hyman Roth! Avrebbero dovuto tutti esser così, ma nessuno lo era. Il padrino è l’esaltazione di una banda di straccioni che non è mai esistita. I migliori? Gente che al massimo potrebbe gui­ dare un camion. Bifolchi. Il gangster di classe fu un’in­ venzione di Hollywood. Divenne l’ideale di tutti i gang­ sterveri, che all’epoca di George Raft iniziarono a vestir­ si come George Raft, tentarono di comportarsi come George Raft, e così via. hj Qualche capacità dovevano pur averla, per arrivare così in alto. ow Energie, fegato, fortuna, e nessun problema ad am­

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mazzare gli amici in nome del business. Il codice d’ono­ re e tante boiate... tutta roba inventata di sana pianta. A Broadway c’era un famoso poliziotto: Brannigan. Credo sia il nome giusto, perché in seguito Damon Runyon lo cambiò leggermente per un personaggio di Bulli e pupe. Brannigan setacciava la Broadway ogni due o tre setti­ mane portandosi una mazza da baseball. Gli andai die­ tro un paio di volte, per vedere cosa succedeva. Stavo a distanza, ovviamente, non al suo fianco. Entrava da Lin­ dy’s - « Mindy’s » per Damon Runyon - e locali del gene­ re, la sera tardi. Se adocchiava qualcuno, uno a caso, lo portava fuori in strada e lo bastonava. Significato: lascia la città. Non startene da queste parti: sciupi il panora­ ma. Una volta lo vidi ficcare Charlie Luciano di testa den­ tro un bidone dell’immondizia, davanti a Reuben’s, alle cinque e mezzo del mattino. hj Lucky Luciano? ow Esatto. Ma nessuno l’ha mai chiamato Lucky, a par­ te la stampa. hj Credevo che Luciano andasse in giro con quaranta uomini pronti a far secco chiunque gli si avvicinasse. ow Con Brannigan era un altro discorso: davanti a lui c’era il fuggi-fuggi. Quando entrava con la mazza da ba­ seball filavano tutti in bagno. Era un irlandese di ferro. « Che si fottano » diceva. hj Ma guardando al positivo, non fu Louis B. Mayer a creare Thalberg, il più grande produttore di sempre? ow Thalberg fu il più grande malfattore della storia di Hollywood. Prima di lui, il produttore interveniva il mini­ mo: solo se necessario. Non dirigeva, non recitava, non scriveva - quindi, poteva solo a) sbagliare i conti... ma non capitava spesso; oppure b) coccolare il film, dargli sostegno. Il produttore andava sul set solo per controlla­ re che il budget fosse rispettato e non si incendiassero gli scenari. Finché Mayer non aprì la strada al sistema attua­ le. Creò il personaggio di quello che decide, e decide al posto del regista: non era mai esistito prima. 62

hj Gli altri produttori non si immischiavano mai nel lavoro del regista? ow Nessuno dei vecchi capoccioni aveva mai fatto tan­ to danno. Se vedevano uno bravo, lo ingaggiavano. Poi cercavano comunque di intromettersi, ma c’era sempre una sorta di dialogo fra talenti e vertici. Da bravi ebrei russi, rispettavano l’artista. Si limitavano a dire che cosa gli piaceva e che cosa no, e discutevano. Era più facile. Ogni tanto, il talento aveva la meglio. Mentre il produt­ tore che ha studiato e sta dietro una scrivania vuole ave­ re una funzione; vuole fare qualcosa. Non dirige lui l’a­ zienda; non conta i soldi: deve per forza essere creativo. Questo era Thalberg. A quel punto il regista divenne un semplice incaricato a dire «azione» e «stop». Tutt’a un tratto eri « solo un regista » in « un film di Thalberg ». Mi spiego? Era stato creato un ruolo nel mondo. Per esempio, una volta nella musica sinfonica non esisteva il direttore d’orchestra. hj No? ow No. Il tempo lo dava il Konzertmeister', il primo violi­ no. Il mestiere del direttore d’orchestra fu inventato dal nulla. Come quello del regista teatrale: è un ruolo che ha solo centocinquanta, duecento anni. Prima, a teatro nessuno faceva la regia. Il direttore di scena diceva: « Cammina a sinistra lungo quella linea ». La regia teatra­ le fu inventata da quello là... il tedesco... il Sassonia-Meiningen. Dal canto suo, Thalberg inventò la produzione cinematografica. Convinse tutti gli sceneggiatori che non potevano fare a meno di lui, perché era il capo. hj Francis Scott Fitzgerald doveva esserne rimasto col­ pito, se lo usò come modello per Gli ultimi fuochi. ow Intortava tutti gli autori. « Io non sono uno sce­ neggiatore, » diceva « ma ti spiego cosa non funziona qui». E loro, sempre così insicuri, gli davano retta. Li mortificava con le sue trovate da «genio», li teneva se­ duti tre ore ad aspettare prima di farli entrare nel suo ufficio. A proposito: nel complesso le sceneggiature di

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allora erano più belle - lo so, sto generalizzando, ma la penso così -, anche quando gli autori sapevano che ve­ nire qui voleva dire abbassarsi. Faulkner eccetera. «An­ diamo a Hollywood a tirar su un po’ di soldi ». Eppure producevano roba decente, per quel che guadagnava­ no, perché invece di andarsene a scrivere nella loro ca­ setta in collina dovevano mangiare insieme ogni giorno alla mensa, dove nasceva la competizione. Era una situa­ zione collegiale. «A che cosa stai lavorando? » si chiede­ vano a vicenda, e sghignazzavano sulla stupidità del pro­ duttore, sull’incapacità del regista, eccetera. Ma sicco­ me non volevano essere surclassati dai colleghi, lavora­ vano sodo. Più di tutti quelli che oggi vogliono fare i re­ gisti senza aver mai combinato altro che guardare film dall’età di otto anni, senza aver mai avuto un’esperienza di vita. O senza aver mai conosciuto da vicino nessuna cultura che non sia quella cinematografica. hj Ma Thalberg era anche creativo. Almeno stando a Fitzgerald. ow Appunto. Un bastardo. Aveva questo potere, è evi­ dente. Convinse Mayer che lui alzava il livello. Hai pre­ sente la frasetta di Mayer? Tutti gli altri grossi produtto­ ri erano « ebreacci che fanno filmetti da quattro soldi ». Me lo diceva sempre. hj Quando Mayer ti scoprì eri giovanissimo, bellissi­ mo, magnetico. ow Per questo mi adorava; credeva fossi un altro Thalberg. hj Thalberg lo conoscevi personalmente? ow No. Ero qui - recitavo a teatro -, ma non lo incon­ trai mai. Poi è morto. hj Nel libro su suo padre Irene Mayer Selznick dice che tutti sapevano che Thalberg aveva una specie di condan­ na a morte sulla testa. Quando iniziò a lavorare alla MGM già sapeva di dover morire. Soffriva di febbre reumatica. Era malato di cuore.

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ow Conosco un sacco di gente che sa di dover morire presto. Ma Thalberg ci marciava. Hj Doveva manipolare Mayer incredibilmente bene. ow Thalberg era bravissimo a manipolare tutti. Non solo Mayer, ma gli attori, i registi, gli sceneggiatori. Fa­ ceva leva sulle sue malattie, sulla sua bellezza, su qualsia­ si cosa. hj Perché era anche molto bello, vero? ow Eh sì. Affascinante e convincente oltre ogni misu­ ra. Era Satana! Il classico Satana, no? Ovviamente Nor­ man lavorava giorno e notte. hj Irving. ow Sì, Irving. Chissà perché lo chiamo sempre Nor­ man. Sminuiva le persone, e dopo averle sminuite le adu­ lava. Era ovviamente un incantatore che sapeva persua­ dere la gente che l’artista era lui. Thalberg era quassù in alto e il regista laggiù, in fondo. Così distrusse il cinema d’autore e lo rimpiazzò con il cinema industriale. Con lui la Metro iniziò a produrre robaccia, e nacque uno stile che sarebbe durato negli anni a venire: lo stile Thalberg. hj E vero. Nessuno sa chi abbia diretto Via col vento. Oppure c’erano molti registi, come per II mago di Oz. I grandissimi film della Metro si realizzavano da soli. ow Già. A tutt’oggi danno l’impressione che possa averli girati qualsiasi regista della Metro. A pranzo, in mensa, si poteva giocare a scambiare i registi fra i set, tan­ to il giorno dopo, guardando i giornalieri, non si capiva la differenza. Il grande cinema lo faceva la Warner. Era un ambiente duro. Jack Warner era un sadico e un assas­ sino, ma tirava fuori film magnifici da tutti i suoi, si sa. hj Quali registi riuscivano a lavorare sotto Thalberg in quelle condizioni? ow Victor Fleming, Woody van Dyke, non so. hj C’era qualcuno bravo? ow George Cukor. 65

hj Non è all’altezza della sua fama. I suoi film sono anonimi. Anche i migliori. ow Era un ottimo regista teatrale. Ma è vero: i suoi film sono tutti uguali. hj Incantesimo. Scandalo a Filadelfia. ow Quelli sono film degli sceneggiatori. hj O quelli con Tracy, quelli con la Hepburn; quelli so­ no film di star. ow Tutti. Ecco perché secondo me Thalberg fu il pri­ mo bastardo. Peggio di un bulldozer. hj Ho capito. Ma non faceva del male alle persone. ow Be’, distrusse Von Stroheim, come uomo e come artista. Lo annientò. E in quel momento Von Stroheim era, credo senz’ombra di dubbio, il più grande regista di Hollywood e il più valido argomento contro la figura del produttore. Era evidente che fosse un genio, e evidente­ mente bisognava lasciarlo lavorare - e pazienza le sue pazzie... hj Ma a un certo punto lavorare con lui diventò impos­ sibile, con tutto quello che spendeva... sempre che sia ve­ ro quel che si dice. O forse gli altri si sentivano minac­ ciati dalla sua originalità? ow Dovevano proprio farne un mostro. Durante le ri­ prese àeWInfernale Quinlan mi capitò un fatto interes­ santissimo. Avevo una scena in un archivio di polizia e mi fu concesso di girarla nel vero archivio della Univer­ sal. Intanto che piazzavano le luci, andai a controllare i budget di Von Stroheim. Non erano così alti. Il mito del grande spendaccione era campato in aria. C’è un bellis­ simo libro su Hollywood: Kiss Hollywood Goodbye, di Anita Loos. La Loos dice che Josef von Sternberg era un uo­ mofantastico. Scusa: non Von Sternberg, Von Stroheim. Von Sternberg era un verme. Dice che era fantastico e allo stesso tempo ne fa un ritratto impietoso. «Tutti adoravamo Von » scrive, e intanto dipinge questo terribi-

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le prussiano. Una volta me lo definì «l’attore ebreo più simpatico che si possa mai incontrare ». Rendo l’idea? hj Conoscevi Von Stroheim di persona? ow Sì, benissimo. Ma l’avevo incontrato tardi, quando faceva l’attore e viveva in Francia. Charlie Lederer e io scrivemmo una sceneggiatura per lui a Parigi, con Pier­ re Brasseur e Arletty. Si chiamava Ritratto di un assassino. Parlava di quei tizi che girano sulla moto dentro una gabbia, sempre più veloce. Un po’ una stronzata da cir­ co. Non usarono una sola battuta delle nostre, ma il sog­ getto sì, quello lo usarono. Ci pagò un produttore del mercato nero che venne all’hotel Lancaster con i soldi fatti su in un giornale, tutto bagnato. Pioveva sempre, a Parigi. E così facemmo la bella vita laggiù, scrivendo quel film. hj E ti era simpatico, Von Stroheim? ow Lo adoravo. Era una persona magnifica. Una se­ gretaria di edizione francese che aveva lavorato nella Grande illusione mi disse che non aveva mai visto nessuno bravo come lui a recitare con gli oggetti. Perché aveva il giornale, il bastone da passeggio, il monocolo, la sigaret­ ta - tante carabattole. E c’erano scene dove le posava e le raccoglieva a seconda della battuta. Impossibile gestire tanta roba e ricordarsi bene la parte. Eppure, in ogni scena che girava Renoir, lui non sbagliava una virgola. hj Diresse qualche film, da vecchio? ow Nessuno. In Francia divenne un attore puro e una star, negli anni Trenta. Ma erano film brutti. Fu una per­ dita terribile. Perché aveva un talento gigantesco, davve­ ro. Indiscutibile. hj Era molto frustrato? Risentito? Avvilito? ow Non sembrava. Quando lo conobbi se n’era fatto una ragione, quindi non ce l’aveva con nessuno. Non era un allegrone, ma nemmeno un musone. Gli piaceva molto essere una star, e lo rimase anche dopo la guerra. Questo lo ripagò in abbondanza.

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hj Fece quel ruolo meraviglioso in Viale del tramonto. Fu il suo grande ritorno. ow Solo agli occhi di Hollywood. Sembrò ripescato dal dimenticatoio, quando in realtà veniva da una popo­ larità ininterrotta in Francia. Ma il successo di Viale del tramonto non significò niente per lui, perché era il film della Swanson e di Billy Wilder. Paragonato alla sua si­ tuazione in Francia... con VON STROHEIM in cima a ogni cartellone! hj Quindi tutte le storie su di lui erano bugie? ow Alcune follie le fece, ma niente in confronto ai film da cinquanta milioni di dollari dei giovani registi di oggi· hj Però non si era mai visto niente del genere. Film di otto ore... ow Certo; ma il vero elemento di rottura fu Thalberg. Senza Thalberg, Von Stroheim non sarebbe mai caduto in disgrazia. D.W. Griffith fece cose ben più folli. Ma ave­ va lo scettro del comando. Era « D.W. Griffith », lui.

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3 « FRANKLIN DELANO ROOSEVELT DICEVA SEMPRE: “IO E LEI SIAMO I DUE PIÙ GRANDI ATTORI D’AMERICA” »

Dove Orson racconta di quando mandava a monte le sciarade a casa di David O. Selznick, afferma che Vaereo di Carole Lombard fu abbattuto dai nazisti e rivela che il grande rimpianto di Roose­ velt era di non essere intervenuto nella guerra civile spagnola

henry JAGLOM L’altra volta ce l’avevi con Thalberg. È strano, perché la leggenda vuole che fosse un uomo di grande gusto e cultura. Orson Welles In tutta la sua carriera non ha fatto un solo film che possa resistere altri cinquant’anni da ades­ so. E lo idolatrano! La vetta culturale dei suoi dieci anni di cinematografia fu Romeo e Giulietta, prodotto da lui e diretto da Cukor. Be’, non se ne reggono quattro minu­ ti, da quant’è orrendo. Norma Shearer, con quegli oc­ chietti, e Leslie Howard, un ebreo ungherese, che fan­ no due adolescenti di Verona? Hj Howard era un vero dandy, e così British... Com’è che gli ungheresi sono sempre dei perfetti gentiluomini inglesi? ow Pensa che un tempo l’antica aristocrazia austro­ ungarica si vestiva a Londra. Parlavano elegantemente francese, ma le scarpe se le facevano fare a Londra; i cappelli, a Londra; la bambinaia dei loro figli era di Londra - e non c’era niente di più fantastico che essere un nobile inglese. Sicuramente è per questo che Lord Leslie Howard, come lo chiamava Sir Winston [Chur-

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chill] arrotando la r, era un inglese così perfetto. E poi, vuoi mettere morire in un incidente aereo per via di Churchill anziché accoppato da un contadino magiaro imbestialito... hj Fu quando Churchill non poté rivelare che il codi­ ce Enigma era stato decifrato e quindi lasciò abbattere l’aereo dai nazisti, no? A bordo non c’era anche Norma Shearer, la vedova di Thalberg? ow No, no. Norma Shearer non rimase uccisa in un incidente aereo. Questa è un’altra storia che ha dell’in­ credibile. Lei era una delle attrici più negate mai appar­ se sul grande schermo: faccia insignificante, era anche strabica. Eppure dopo la morte di Thalberg continuò a essere la regina di Hollywood e ottenne parti su parti. hj Maria Antonietta. ow II più grande flop del secolo. In un coro di « ecco Miss Thalberg »... « sta arrivando Miss Shearer »... nean­ che parlassero di Sarah Bernhardt. Intanto c’erano in giro la Garbo, la Dietrich, la Lombard e tutte quelle bra­ ve. Altro merito del sortilegio di quell’uomo. hj Ma a Thalberg si deve anche la carriera di gente come David O. Selznick, che venne dopo e riuscì a rea­ lizzare film straordinari. ow I registi li avrebbero fatti anche senza di lui, e me­ glio. Che rompicoglioni, Selznick. Lo conoscevo bene quanto conosco te. Era un essere mostruoso; il peggio del peggio. hj Passava per un uomo elegante e di classe. ow Macché elegante. Era volgare. Una forza della na­ tura... intelligentissimo. Ma di gusti atroci. Si considera­ va appena un gradino al di sotto di Gesù Cristo. Anche lui con la stessa missione di Thalberg: cancellare la cifra del regista. Voleva addirittura eclissare il suo predeces­ sore! Ed era senza scrupoli. Voleva diventare il più gran­ de produttore del mondo, con ogni mezzo. Incredibile. Una volta eravamo sulla sua barca, tutti insieme, dopo

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cena. «Stasera» disse «possiamo tornare a Miami, oppu­ re andare all’Avana. Decidiamo per alzata di mano. Chi vuole andare all’Avana? ». Alzarono la mano tutti. An­ dammo a dormire, e ci risvegliammo a Miami. hj II padrone della barca si può permettere certe cose, ow Lo frequentavo perché certi miei amici erano ami­ ci suoi. La domenica sera andavamo da lui. C’era tutta Hollywood, e si giocava alle sciarade. Ma Selznick gioca­ va per vincere. Ogni volta. Se la nostra squadra perdeva, inseguiva le nostre macchine sul vialetto e ci gridava die­ tro di tutto. Sentivamo l’eco della sua voce per i canyon. Valeva la pena di andarci solo per vederlo sclerare. Era uno spettacolo esilarante. La settimana dopo ci invitava di nuovo: « Stavolta vinciamo, è chiaro? ». Una volta tentò di fare a pugni con me, a casa di Wal­ ter Wanger. Le signore erano andate di là e noi uomini ci bevevamo il nostro porto. David disse che era rimasto malissimo perché non aveva potuto avere Ronald Colman in Rebecca, e per colpa di quel tizio: Olivier. Mi die­ de sui nervi. Gli chiesi: « Cos’ha che non va Olivier? ». « Non è certo un signore ». « David, che stronzate dici? Cosa significa “non è un signore”? ». « Be’, non lo è, pun­ to e basta, lo si capisce subito. Mentre Ronnie lo è e ba­ sta». «E tu, ipocrita pallone gonfiato?». Lui si alzò, si tolse gli occhiali e si mise in posizione di combattimen­ to. Andammo fuori, in giardino; poi gli altri ci tratten­ nero. hj Volevate proprio darvele? ow Altroché. Era un classico di Hollywood: uscire in giardino per fare a pugni. Gli altri ti trattenevano, e la cosa finiva lì. hj Anche Bogart, sempre a scazzottare, vero? ow Bogart, che era un vigliacco e non sapeva affatto picchiare, cercava di continuo rogne nei night club, sa­ pendo che i camerieri l’avrebbero fermato. Si ubriacava e faceva lo spavaldo, sapendo di essere ben protetto.

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Ma la più famosa zuffa d’anteguerra fu quella tra John Huston e... chi era l’altro? Continuarono a saltella­ re intorno per un pezzo, senza mai colpirsi. Nella mia vita ho visto un solo grande picchiatore. Un pomeriggio ero seduto all’Harry’s Bar di Venezia. C’erano quattro soldati americani con il loro sergente. Arrivò un altro soldato; disse qualcosa, il sergente si voltò e lo stese, con la precisione di un film di John Ford; poi lo portarono via. Dopodiché un altro soldato aprì bocca, e il sergente stese anche lui. Ora, sai bene che una cosa del genere è impossibile. Però lui ci riuscì, proprio davanti a me, e ogni volta si girò a dirmi: « Chiedo scusa, Sir ». hj Ma se non era Norma Shearer, chi è l’attrice che rimase uccisa in un incidente aereo? ow Sì, tu dici... come si chiama... quella brava. Dimen­ tico sempre tutti i nomi. Terribile. hj La donna di Gable. Carole Lombard. ow La moglie. La adoravo. Era una mia carissima ami­ ca. E con questo non voglio affatto dire che siamo mai stati amanti. Gable fece un film intitolato Parnell. Pellico­ la del ’37, in costume, con Myrna Loy. Non andò a veder­ la un’anima. La proiettarono nelle sale deserte} Dimostra­ zione che non esiste una star che non possa fare fiasco. Fu, credo, l’unico film della MGM che andò in perdita. Non che a Mayer importasse. Per la Metro il denaro non era mai un problema. Non potevano rimetterci. hj Vuoi dire che con una distribuzione così organizza­ ta e le sale di proprietà erano talmente blindati che... ow Quando imparai a pilotare volai con Carole sopra la Metro, a ora di pranzo. Sorvolammo la mensa a bassa quota, proprio all’uscita della gente, e lei lanciò dei vo­ lantini che dicevano: « Ricordatevi di Pamell»\ Ecco che ragazza era. hj A me sembrava una Greta Garbo dei poveri. ow Non c’entrava nulla con la Garbo! Era un tipo ge­ nuino, perdio. Bellissima, ma si comportava come una

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cameriera di bettola. E così recitava, anche, con un ef­ fetto molto suggestivo. Non era volgare; era solo... La conobbi quando dovetti fare da paciere tra lei e Charles Laughton. Ero una specie di messaggero di Laughton. Stavano girando un film intitolato Non desiderare la don­ na d’altri, la storia di un viticoltore italiano che cerca moglie per corrispondenza. La Lombard interpretava la ragazza. Il regista era Garson Kanin. Laughton era il contadinotto italiano. Veniva nel mio ufficio, si sedeva da­ vanti a me, si accasciava sulla scrivania e piangeva. hj Laughton? ow Nel bel mezzo della giornata. «Non ce la faccio più, non fanno che prendermi in giro, sul set ». Gli face­ vano il verso. Allora andai a parlare con Gar e Carole. « Guardate che è un grande attore. Andateci piano, fini­ sce che vi rovinate il film». Era fuori di sé, Laughton. Perché era stato un super divo, in Inghilterra, con Kor­ da. Quando aveva interpretato Rembrandt per lui, anni prima - performance superlativa: una delle rare volte in cui un attore ti convince che è un genio -, si era fatto portare dal fratello di Alex, lo scenografo, in Olanda, al museo di Amsterdam, a vedere la Ronda di notte e altri quadri di Rembrandt. Erano arrivati la domenica, e il museo aveva aperto solo per loro. Laughton va davanti alla Ronda di notte, la guarda e paf, sviene. Per la bellezza del quadro. Sai che quando doveva entrare in scena ave­ va dei piccoli set allestiti apposta per lui, dove faceva quel­ lo che stava facendo prima di entrare? hj II metodo Stanislavskij ante litteram. ow Be’, il metodo suo. hj Ma la Lombard non poteva essere un pozzo di in­ telligenza. ow Era molto intelligente, invece, più di tutti i registi con cui lavorò. Le belle idee erano tutte sue. Me lo dis­ se anche Jack Barrymore: «In tutta la mia vita non ho mai recitato con un’attrice così intelligente ». 73

Gable, invece, non lo era di sicuro. ow No, ma era molto simpatico. Un simpatico fustacchione. Se sgobbi da mattina a sera - se devi essere al trucco alle cinque e un quarto e te ne vai a casa alle sette - quanta intelligenza ci vuole? Gli attori volevano solo trascinarsi fino a casa e rimediare una scopata, se possi­ bile. Altrimenti, un bel sorriso e via, pronti per il giorno dopo. hj Quindi anche la Lombard rimase uccisa in un inci­ dente aereo? ow Sì. Sai perché il suo aereo precipitò? hj Perché? ow Fu abbattuto dai nazisti perché era carico di famo­ si fisici americani. Lei era tra i pochi civili a bordo. Lo ridussero a un colabrodo. hj Abbattuto da chi? ow Da agenti nazisti di stanza negli Stati Uniti. Un ve­ ro giallo. hj Questa è troppo grossa. Che cosa ci faceva lei su un aereo pieno di fisici? E una storia risaputa? ow Chi la sa la tiene per sé. Passò sotto silenzio. Secon­ do la versione ufficiale si schiantarono contro una mon­ tagna. hj Gli spararono con le mitragliatrici antiaeree? ow No. A quei tempi non si poteva volare ad alta quo­ ta, si superavano appena le montagne. I criminali cono­ scevano la rotta esatta ed erano posizionati su una cre­ sta, la più difficile da passare. Per abbattere un aereo ba­ sta una persona, e visto che erano in cinque o sei non potevano mancarlo. Ora, non ti posso assicurare che sia vero. Quelli che me l’hanno detto giurano che lo sia, e sono persone fidate. Ma più di così non si può sapere, senza avere accesso a documenti segreti. Nessuno volle ammettere che nel bel mezzo degli Sta­ ti Uniti c’era gente che poteva abbattere un aereo per hj

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ordine dei nazisti. Altrimenti tutti si sarebbero messi a denunciare chiunque avesse la nonna tedesca... cosa che Roosevelt temeva molto. La prima guerra mondiale era finita da poco più di vent’anni. Roosevelt le aveva viste, le sommosse contro i tedeschi. Non si poteva suo­ nare Wagner. Ma nemmeno Beethoven. Per strada i te­ deschi rischiavano la pelle. Venivano linciati. E lui vole­ va evitare che si ripetesse qualcosa del genere. Era terro­ rizzato al pensiero della sorte dei giapponesi, se tutti i tangheri fossero scesi sul piede di guerra. Specialmente in California, con la costa sul Pacifico. hj Allora li fece internare per proteggerli? ow Sì. Nella sua testa lo scopo era questo. Ma fu un errore spaventoso. Altri - quelli del Pentagono - pensa­ vano che fossimo pieni di spie, ma Roosevelt si preoccu­ pava della sicurezza dei giapponesi che vivevano qui. I giapponesi ovviamente non lo sapevano e non ce l’han­ no mai perdonata. Non direbbero mai che è stata una bella mossa. hj Tu conoscevi Roosevelt. Sei mai rimasto da solo con lui? ow Sì, parecchie volte. Poi Missy [LeHand] si intromet­ teva. Non voleva che lo andassi a trovare alla Casa Bianca. hj Perché? ow Perché lo facevo stare alzato fino a tardi. Gli piace­ va chiacchierare. Con me si sentiva libero. Non c’era bi­ sogno di manipolarmi e lui non aveva bisogno del mio voto. Lo rilassavo; gli piaceva stare con me. Diceva sem­ pre: « Io e lei siamo i due più grandi attori d’America». hj Era un tipo intelligente? ow Molto intelligente. hj E quella lettera che ti scrisse, sulla Spagna? ow Una lettera di quattro pagine, così, di punto in bianco, pochi mesi prima di morire, sullo stato del mon­ do. Andò perduta in un incendio. Non ho mai capito 75

perché l’avesse scritta a me. Si era semplicemente mes­ so lì, una sera, e l’aveva dettata. hj Ti scrisse che si sentiva in colpa per la faccenda del­ la Spagna? ow No, quello me lo disse a voce. Eravamo sul treno della campagna elettorale, non alla Casa Bianca. Stava­ mo parlando di errori commessi da altri - Woodrow Wilson, Clemenceau. Sì, la Spagna. La neutralità con la Spagna era stata un grande errore. Disse che ci pensava sempre. hj Ho sempre immaginato che per alcuni dei nostri presidenti più progressisti - Roosevelt, Kennedy - veni­ re da un ambiente ricco significava non avere soggezio­ ne dei ricchi, e quindi essere meno esposti agli interessi particolari. I presidenti poveri sono i più pericolosi. Rea­ gan va in visibilio, per i ricchi. Nella sua vita è una cosa importantissima. ow Nixon lo tenevano in pugno già quand’era al Con­ gresso, da subito. Comunque io non la vedo come te. In realtà è l’antica tradizione del Whig - del ricco liberal -, l’antica tradizione del servizio pubblico e del liberali­ smo. Roosevelt era un vero Whig americano vecchio sti­ le. L’ultimo esemplare, e il migliore. E... hj Un presidente non può essere un povero ed essere circondato da ricchi. ow Be’, un senatore può essere un povero, ma è vero: in quel caso si ritroverà a fare il burattino dei ricchi. La carica di senatore una volta era molto prestigiosa. Ades­ so coincide molto di più con quello che il denaro può comprare. Con gli interessi particolari. hj Nel ’44 Roosevelt voleva che Henry Wallace si ri­ candidasse come suo vicepresidente, ma quei reaziona­ ri dei democratici del Sud gli imposero Truman. Così si è sempre detto. ow Gli sarebbe piaciuto avere un Wallace migliore. hj William O. Douglas, o qualcuno così. 76

ow Esatto: gli sarebbe piaciuto Douglas. Ma gli impo­ sero Truman, e lui non gli diede tregua. Non lo stimava granché. Nessuno di noi lo stimava. hj Tu tifavi per Wallace, quando nel ’48 si candidò al­ la presidenza col partito progressista? ow Oh, no. Ero convinto che sarebbe stata una sciagu­ ra. Lui era prigioniero del partito comunista. Sarebbe sempre stato attento a non rompergli le uova nel panie­ re. Non ero dell’idea che per questo sarebbe stato un cattivo presidente... però era un segno di debolezza. Ero sfegatato contro di lui. La sinistra mi considerò un gran­ de traditore. Se Wallace avesse vinto credo che la rea­ zione sarebbe stata molto più grande, dopo. hj Un maccartismo più grande? ow Più pericoloso, più velenoso, e più lungo.

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4 « ME LE FACEVO TUTTE »

Dove Orson racconta che tornò con Rita Hayworth per girare La signora di Shanghai e che lei era al suo fianco quando pensò di lasciare Hollywood per darsi alle opere di bene

henry JAGLOM

Rita lavorava alla Columbia per Harry Cohn, vero? Orson Welles Sì. Cohn si reputava un grande amato­ re. Anno dopo anno, sempre a rincorrerla attorno alla scrivania. Rita beccava sospensioni di continuo. hj Ho appena rivisto La signora di Shanghai. Quant’era brava. ow Scherzi? Era una fuoriclasse! E pensa che era con­ vinta del contrario. Nessuno, a Hollywood, glielo voleva riconoscere. hj Una carriera sprecata. ow Era una fantastica attrice, e non le diedero la pos­ sibilità di dimostrarlo. hj Dicono che nella Signora di Shanghai la rovinasti. Che le facesti tagliare i famosi capelli rossi e le tingesti il resto di biondo senza dirlo a Harry Cohn. ow Mi sarei vendicato così perché mi aveva lasciato. Facendole interpretare un’assassina, tagliandole i ca­ pelli e via dicendo. Che psicologia, eh? Ma perché avrei 78

dovuto vendicarmi? Me le facevo tutte. E questo è pe­ sante, per una donna; è pesantissimo. hj Lei credette alla storia della vendetta? ow No, mai. Lo considerò il miglior film della sua vita. Lo difese, e difese me. Stavo per girare un bel B-movie con una ragazza che avevo portato da Parigi - roba di una ventina di giorni. Senza finanziamenti. Rita venne a piangere da me perché voleva farlo lei. Naturalmente la accontentai, e da un giorno all’altro mi ritrovai invischia­ to con la colonna degli studios, la donna da cui ero se­ parato da un anno. Mi toccò rimpiombare nel matrimo­ nio e nel lavoro. hj Non eravate ancora divorziati? ow No, quindi tornammo insieme. Non c’era altro mo­ do per dirigere il film. Ripresi a vivere con lei. Non era proprio come lavorare con un’ex moglie, perché ci amavamo ancora. Poi, i parrucchieri e tutti quanti co­ minciarono a montarla, a metterla in allarme, raccon­ tandole che scopavo quella e quell’altra. A Hollywood le chiacchiere sono la norma, con tutta la gente che vive addosso alle star. Lei era molto sospettosa di chiunque. Era stata così ferita, nella vita... poteva solo credere che l’avrei trattata così. Quindi mi cacciò di casa. Ero di­ strutto. hj Volevi rimanere con lei? Anche se era alcolizzata? E depressa? ow Per sempre? Sì. Perché mi ero reso conto che aveva un disperato bisogno di me. Le sarei rimasto accanto fino alla sua morte. Nessuno avrebbe potuto prendersi cura di lei come me. Non sapevo che la malattia sarebbe di­ ventata così grave. hj E non ti avrebbe pesato? ow Non c’entra; te ne occupi lo stesso. hj Per alcuni è così, per altri, no. ow Sì, ma io mi lascio condizionare dal senso di colpa. 79

Però la amavi, anche. ow Certo che l’amavo, e molto. Ma ormai non sessual­ mente. Dovevo metterci tutto l’impegno per scoparla. Era diventata... era diventata un’icona del desiderio, e voleva soltanto essere una casalinga. Per Marlene era la perfetta Hausfrau. Sai cosa diceva sempre Rita? «Vanno a letto con Rita Hayworth e si svegliano con Margarita Carmen Cansino». Ed era stata così dolce con me... un tesoro. Quando per poco non morivo di epatite mi ri­ mase accanto cinque mesi senza mai fare altro che accu­ dirmi, finché guarii. Quando le dissi: «Voglio lasciare il cinema e il teatro » e le domandai se volesse lasciarli an­ che lei insieme a me, disse di sì. Più tardi ero a Roma, a lavorare AY Otello. Mi fece chia­ mare. «Vieni da me stasera ». Ad Antibes. Non mi spiegò il motivo, e io pensai che le fosse successo qualcosa di terribile. Siccome non trovai posto sull’aereo di linea viaggiai su un cargo, in piedi, in mezzo ai pacchi. Arrivai all’hotel, hai presente? Quell’hotel. Andai su nell’unica grande suite. Quella suite. Lei venne ad aprire la porta in négligé, con i capelli sciolti, fantastica. C’erano fiori dap­ pertutto. Le finestre davano sulla terrazza davanti al Me­ diterraneo. E il profumo: quel profumo. Irresistibile. Mi guardò con gli occhi pieni di lacrime e disse: «Avevi ra­ gione tu; siamo fatti l’uno per l’altra; ho sbagliato». Ma ormai ero pazzo di un cessetto di italiana che mi tirava scemo, e dovevo tornare da lei a tutti i costi. hj Quella con la faccia a cucchiaio. ow Insomma, mi toccò spiegarlo a Rita. « Mi dispiace tanto, ma sono innamorato di quella ragazza; è troppo tardi». Lei si mise a piangere e con un filo di voce mi disse: «Va bene. Allora rimani con me solo stanotte; tie­ nimi stretta mentre dormo». Così la tenni stretta. E nient’altro. Mi si addormentava il braccio. Controllavo l’orologio con l’angolo dell’occhio per vedere se sarei riuscito a tornare a Roma con il volo del mattino. Ripar­ tii l’indomani. Cinque giorni più tardi Rita sposò Ali hj

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Khan. Moriva dalla voglia di lasciare il cinema. Ecco per­ ché si gettò nelle sue braccia. hj L’amore è imprevedibile. Io sono a pezzi, dopo che Patrice [Townsend] mi ha lasciato. Credevo che il no­ stro fosse il matrimonio perfetto. ow Le donne sono un’altra razza. Cambiano sempre, come la luna. Puoi uscirne vincitore solo se sei il placido centro del loro essere. Devi rappresentare solidità e af­ fetto. Devi essere un’ancora. Anche se non lo sei. Non puoi dire la verità. Devi mentire e fingere. In tutta la mia vita non sono mai stato assieme a una donna con cui non dovessi fingere. Non potevo mai essere esattamente me stesso. hj Volevi davvero abbandonare il cinema e il teatro? ow Sì; a un certo punto decisi che la cosa migliore che potessi fare, l’uso migliore delle mie doti - a beneficio del prossimo... per altruismo - era insegnare. Nell’arco di cinque mesi mi presentai a tutte le più grandi istitu­ zioni e dissi che volevo rinunciare alla carriera. Ai tempi ero famosissimo e all’apice del successo. Volevo discute­ re di come istruire i giovani perché capissero che cosa succedeva nel mondo e ne facessero un posto migliore. Avremmo usato ogni metodo possibile. Mi sarei messo a loro completa disposizione. Ma nessuno mi diede retta, quindi lasciai perdere. Eppure l’avrei fatto molto volen­ tieri. Ormai il mio vero fuoco si era estinto. Io sono es­ senzialmente uno che si getta nell’avventura. Avevo fat­ to tutte le cose che volevo, quindi pensai di rendermi utile. Invece sai cosa feci? Un altro film. hj Ti senti mai in colpa perché vivi una bella vita a Hollywood mentre nel mondo tanta gente muore di fame? ow A mio parere la gran parte degli americani si sente a disagio perché qui siamo incredibilmente fortunati. Moltissimi hanno un peso sulla coscienza. Una coscien­ za romantica, a seconda della persona.

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Se è così, non ne parlano. ow Perché farebbero la figura dei supponenti. Come faccio a starmene seduto a tavola e dire: « Ero al Ma Mai­ son con Henry, a parlare di tutta la gente che muore di fame in Africa, e pensavo che dovrei essere laggiù a dare una mano»? La risposta è semplice: «Allora chiudi il becco e vattene in Africa! ». Nessuno ti starà a sentire se il tuo problema è che non ci vai. hj Non hai mai immaginato che se ci andassi e facessi certe cose ne saresti così coinvolto da dover cambiare radicalmente la tua vita? ow Ogni giorno. E un tormento. Ci convivo. Come convivo con l’idea della morte, della vecchiaia e di tutte queste cose. hj E in che termini ci convivi? ow Be’, vedi, io non sono come te, non giudico. Dico: «Eccomi qui: non sto andando in Africa» e non: «Per­ ché non vado in Africa? ». Non ne discuto con me stesso. Perché se ne discutessi, ci andrei. Il mio diavoletto del­ l’ignavia tronca il dialogo. hj Io me lo ripeto da quando ho diciassette, diciotto anni. A quell’età lo si pensa sinceramente. ow Quella è la voce che dovrebbe guidarti. Poi gli amici, l’ignavia e il resto la mettono a tacere. hj Non è sconvolgente che facciamo così poco per al­ leviare queirincredibile sofferenza? ow No. No, perché è solo un aspetto della nostra condi­ zione di peccatori. Siamo peccatori per tantissimi versi. hj Non voglio mai credere che tu abbia inclinazioni religiose, ma le hai. ow Lo so. Penso che sia molto più sano considerare il nostro egoismo un peccato. Perché lo è. Anche se l’uni­ verso fosse un insieme casuale di infiniti oggetti e gas in movimento, il peccato esisterebbe comunque. Non c’è bisogno di un diavolo con le corna, quella è la definihj

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/ione sociale del peccato. L’ignavia e l’egoismo che ci allontanano dalla nostra dignità di esseri umani sono un peccato contro i doni che abbiamo ricevuto alla nasci­ ta, le nostre capacità, quello che potremmo fare di que­ sto pianeta. Oggi funziona così: se ti senti in colpa, c’è uno psicoanalista del piffero che ti mette a posto. Zac! Dopodiché sarai felice, no? Ma il senso di colpa non è una cosa di cui ci si deve liberare. Devi farci i conti. E se non si fa qualcosa di utile, non esiste remissione del « pec­ cato», come lo intendo io. Il confessionale è un po’ co­ me lo strizzacervelli, ma è più rapido ed economico. Tre Ave Maria e sei a posto. Io, però, non sono mai stato una di quelle persone religiose che pensano di cavarsela con tre Ave Maria. Hj II concetto di peccato mi è ostico perché implica qualcosa che va oltre la nostra esistenza animale, mate­ riale. Penso che abbiamo semplicemente degli impulsi, buoni e cattivi. ow Sì, ma noi li controlliamo. Io credo nel libero arbi­ trio. Credo che siamo padroni del nostro destino. hj Ma allora credi in una sorta di disegno. ow Certo. Vedi, è vero che sono religioso, ma non c’è bisogno di Dio e dei suoi angeli per pensarla così. «La colpa, caro Bruto, non è nelle nostre stelle, bensì in noi stessi». hj Be’, apparentemente abbiamo il libero arbitrio. Ma... ow II libero arbitrio è reale. Con la mia storia, per esempio, perché non dovrei diventare un ubriacone, un povero relitto a spasso per Hollywood? hj Perché... be’, per via di certi equilibri chimici, che sono predeterminati. ow Se sono davvero predeterminati, tu sei più religio­ so di me. Sei un fatalista. Ogni momento della vita è una scelta. Non è possibile vivere moralmente e civilmente se non accettiamo il concetto di scelta.

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Questa non l’ho mai capita. Perché hai bisogno di credere nella scelta? Il senso morale viene dal compren­ dere che cosa è il bene. Io so che è bene aiutare gli al­ tri. So che è sbagliato fare loro del male. Per essere una persona buona non ho bisogno di credere nel libero arbitrio. ow Tu pensi che le nostre vite siano governate dal ca­ so? Pensi che se vuoi fare un film e non un altro dipende da una serie di squilibri chimici? hj Stai semplificando. Penso che siamo il prodotto di una costruzione genetica iniziata da molto, moltissimo... ow Ma niente di tutto ciò esclude il libero arbitrio. hj Se un fulmine ti cade in testa o no è... non c’entra nulla con il tuo libero arbitrio. ow II libero arbitrio non vuol dire che posso fermare il fulmine, vuol dire soltanto che posso decidere se an­ dare in Africa oppure no! È mortificante pensare che tut­ to dipenda da combinazioni chimiche. Non c’è niente di più sterile di una lunga conversazio­ ne fra due persone che sono fondamentalmente d’accor­ do. Se non lo fossimo, almeno concluderemmo qualcosa. hj

Arriva il cameriere. ow Per me un caffè espresso. c Décaféiné"? o w Oui, décaféiné - oui. hj E per me un... c Un café au lait? hj Un café au lait. Grazie. Con un po’ di latte caldo a parte. Grazie. (A Orson ) Ti vanno dei frutti di bosco? ow ( a Kiki ) Lo vuoi un dolcetto? La cosa paradossale di questo genere di conversazio­ ni è che si concludono con: « Ti vanno dei frutti di bo­ sco? ».

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È che non mi è chiaro perché sono così bravo a non fare niente per i meno fortunati di me. Forse per­ ché se facessi qualcosa, sarebbe un impegno totale. E la miavita diventerebbe un’altra. ow Vedi, invece a me è chiarissimo. Ho delle persone che dipendono da me. Se diventassi un cazzo di santo laico metterei nei guai tutte le persone che mi sono ca­ re. Il pianto del bambino che muore di fame in Africa è più forte di chi mi è accanto e ha bisogno di me? E un dilemma morale interessante. hj Io mi sono occupato molto di politica e incontro sempre persone molto impegnate. Le trovo immanca­ bilmente nevrotiche, disturbate... ow La politica rovina, sempre. Rovina anche i santi. E un mondo corrotto in sé. Non soddisferai il tuo bisogno di perfezione spirituale in nessun movimento politico senza essere tradito e senza tradire gli altri. Solo l’aiuto diretto è ineccepibile: aiutare, mettiamo, i bambini affa­ mati in un paese del Terzo mondo. hj Mi fa sentire ancora più in colpa. ow II senso di colpa è un’invenzione puramente ma­ schile. Nessuna femmina ce l’ha. Per questo la Bibbia è così azzeccata! hj Come fai a dire una cosa del genere? La Bibbia è un libro scritto da uomini! ow Certo, lo so. Ma la storia del giardino dell’Eden è la perfetta espressione del fatto che... chi si sente in col­ pa? Adamo! hj Sì. Ma gli autori gli fanno dare la mela da Èva. ow Certo. Ma lei non si fa problemi! hj E il concetto maschile della donna. ow No; secondo me è vero. Secondo me il senso di col­ pa è in larga parte un vizio, e un vizio tipicamente maschi­ le. Puoi trovarlo anche nelle donne, ma è raro. Se tu fossi religioso saresti menomato, senza il senso di colpa. hj

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5 « TANTO UNA BRAVA CATTOLICA CHE MI VENIVA VOGLIA DI PRENDERLA A CALCI »

Dove Orson ricorda quando intratteneva le truppe con Marlene Dietrich, spiega perché detestava Irene Dunne e perché andare al cinema negli anni Trenta era come guardare la TV oggi

Durante la guerra ti esibivi per le trup­ pe... C’era anche la Dietrich? Orson Welles Sì. « Potremmo farti cantare una can­ zone » le dissi. E lei: « Oh, voglio suonare la sega musica­ le ». « Cos’è che suoni, Marlene? ». « La sega musicale ». «Be’, perfetto». hj Sapeva suonare la sega? ow Molto bene. Era spassosissima, ma non la suonava per far ridere. Verso la fine della guerra andai nel Sud Pacifico, e lei in Europa. Si sentiva sola e sperduta - « co­ me faccio senza di te? » eccetera. Così si mise a cantare, e così nacque il suo numero di cabaret. Però non can­ tammo mai insieme. hj Ed è vero che adesso è così ingrassata che non vuo­ le più farsi vedere da nessuno? ow Non vuole assolutamente. Nemmeno dagli amici intimi. Dà appuntamento e poi si nega. Sono andato a Parigi sei volte per vederla, e alla fine le ho parlato da una cabina telefonica. Mi ha sempre detto che non stava bene. Una volta ha detto che aveva il tifo! henry jaglom

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i ij Quindi probabilmente vorrebbe, ma... ow Ma dopo si guarda e crolla. C’è Max Schell che si­ curamente non mi rivolgerà mai più la parola. Devo es­ sermelo inimicato per sempre. Sta facendo un docu­ mentario su Marlene. Ha molte sue registrazioni. Al momento di fotografarla, lei ha tergiversato un po’ e alla fine ha disdetto. Quindi Schell ha ricostruito sul set il suo appartamento di Parigi. C’è solo lui - il regista - in un appartamento vuoto, con la voce di lei fuori campo. E poi dovrei arrivare io, come una specie di apparizio­ ne - in doppia esposizione, credo. Be’, quando me l’ha detto, tutt’a un tratto mi sono ritrovato terribilmente im­ pegnato con un altro film. Gli ho scritto che avevo una scrittura troppo bella per rifiutarla e non potevo più fa­ re la sua comparsala di tre giorni. Prima o poi verrà a sapere che non è vero. Il fatto è che da questo film non può uscire niente di buono. L’idea è orrenda. Ammiro molto Schell, ma sta commettendo un grande errore. Non è da lui darsi alle pazzie. Hj A me piace, come regista. E uno serio. Serissimo. ow Troppo serio. Troppo svizzero. E svizzero, non è un crucco. Lui e Yul Brynner sono i due attori svizzeri più importanti. Anche se Yul Brynner, a quanto pare come dire... - è partito da Zurigo per trascorrere qual­ che annetto nel Caucaso. hj Stai parlando di tutte quelle biografie in cui lo da­ vano per nato in... ow Nelle steppe. Mezzo zingaro, mezzo mongolo! In un lungo viaggio che fece con me nella neve in Iugosla­ via, una sera tardi, dopo avere alzato un po’ troppo il go­ mito, spiattellò che era nato a Brenner, vicino a Zurigo, dove tutti si chiamano Brenner. Non avrebbe mai dovuto dirlo, guastò tutta la storia. hj Ha creato un solo personaggio, ma l’ha creato splen­ didamente. H re ed io. Non ho ancora superato il fatto che ti offrirono la parte nella versione precedente, Anna e il re del Siam. Quella che poi fu di Rex Harrison. 87

ow Infatti lui la ebbe proprio perché lo raccomandai. Rex faceva film che uscivano solo in Inghilterra, com­ medie leggere, robetta. Quelli degli studios non l’aveva­ no mai sentito nominare. Te li vedi, seduti nella stanza del vapore alla Twentieth: « Rex Harrison. E chi è? ». hj Per caso hai visto via cavo The Kingfisher, con lui? ow Dove sembra reduce da otto anni di cortisone. hj Come mai eri così sicuro di non voler fare Anna e il re del Siami ow Perché non sopportavo Irene Dunne, che era nel cast. Per lo stesso motivo rifiutai Angosàœ. doveva esserci lei. Invece scelsero poi la Bergman. E io, ormai ero fuo­ ri. Irene Dunne. Che idiota. hj Perché ti era così antipatica? ow Piantala di indagare sul perché delle mie antipa­ tie. Non perdiamo tempo. hj Devo accettarle e basta? ow Sì. Esattamente. Irene Dunne era una beghina, tanto una brava cattolica del cazzo che mi veniva voglia di prenderla a calci. Così virtuosa, sempre a capitanare gruppi pro-censura e affini. Conservatrice, in quell’orribile senso cristiano-cattolico che trovo particolarmente insopportabile. Una Jeanette MacDonald che non sa cantare; così la vedevo. E come attrice, la detestavo. Fa­ ceva la gran dama, sentivo che non ci sarebbe stata nes­ suna vibrazione fra di noi. hj Irene ha fatto Joe il pilota con Spencer Tracy e Van Johnson. Cosa pensi di Van Johnson? ow Be’, venne a Hollywood per merito mio. Non gliel’ho mai detto, quindi non lo sa. Faceva il ballerino di fila in PalJoey, ma era un tale personaggio che mandai un telegramma a George Schaefer della RKO. « Scrittu­ rate questo Van Johnson ». E loro lo mandarono a pren­ dere. Però non gli piacque e non lo usarono. Allora an­ dò allaMGM, e...

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HJ Non era poi questo grande attore. ( )w Adesso fa pietà. Di solito gli uomini diventano più belli, invecchiando. Lui è quel tipo di checca che non migliora. Era bello solo da giovane. 11J I suoi film sono inguardabili. ow Oja [Kodar] non vuole venire al cinema con me. Dice che, ammesso che non me ne vada, mi metto a ge­ mere e faccio versi terribili. h J E davanti alla televisione no? ow Ma no. C’è chi cambia canale, ma io no. Preferisco di gran lunga guardare spazzatura che brutti film, perché i film me li ricordo per troppo tempo. E se sono appena appena belli, mi metto a pensarci in modo ossessivo. E chi ne ha voglia? hj Warren Beatty diceva che la TV ha cambiato il cine­ ma, perché in genere quando si va al cinema si resta, che il film piaccia o no. Si vuole vedere com’è il film, mentre a casa... ow Per me è il contrario. E una questione d’età. Ai tempi in cui andavo veramente al cinema, cioè negli an­ ni Trenta, non ci si metteva in fila. Si passeggiava per strada e si entrava, in qualsiasi momento del giorno e della notte. Come si va al bar. Le sale erano sempre mez­ ze vuote. Non ci interessava a che ora iniziava il film. Di solito ci andavamo dopo il teatro. Andavamo al Para­ mount, dove facevano il doppio spettacolo, e vedevamo il secondo film. Ridevamo di quanto recitavano male nei B-movie. Ragazzate. C’era un attore che si chiama­ va J. Carrol Naish. Qualsiasi cosa facesse, ridevamo. Non mi piacevano le screwball comedies, per niente, a me­ no che non ci fosse Carole Lombard. Se c’era lei, mi an­ dava bene tutto. hj Non vi interessava vedere il film dall’inizio? ow No. Uscivamo al punto in cui eravamo entrati. Fa­ cevano tutti così. Ecco perché adoravo andare al cine­ ma. Il biglietto non era caro, e quindi se un film non ti

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piaceva dicevi: « Cambiamo. Andiamo a vederne un al­ tro ». Perciò diventava una cosa normale, tanto che usci­ re era come spegnere la televisione oggi. Oja e io lo fac­ ciamo ancora. L’ultima volta che siamo stati a Parigi ab­ biamo visto cinque film: un paio di rulli per ogni film. hj E tra una proiezione e l’altra c’era l’intrattenimento? ow Sicuro. C’erano Kate Smith, i documentari di viag­ gio, i cinegiornali e un episodio delle Simpatiche canaglie. hj Quindi è fondamentale che il regista ti appassioni nel primo rullo. Nei primi dieci, venti minuti. ow Altrimenti sono già in piedi. hj E fuori dal cinema. Non ti piace entrare a poco a poco nel vivo, lasciarti sviare... ow No. Certo: se hai fatto la fila, logicamente vuoi ve­ dere per che cosa l’hai fatta. Ma a quei tempi ci scomoda­ vamo solo quando Frank Sinatra cantava al Paramount. Nessun film ebbe mai il suo stesso richiamo. Comunque, la verità è che non mi piacevano tanto le cose di fine anni Trenta... quelle dei due o tre anni prima che andassi a Hollywood. La cosiddetta « epoca d’oro ». hj Sto leggendo l’autobiografia di Budd Schulberg: Moving Pictures. Mi ha introdotto al mondo del cinema muto. Non lo conoscevo affatto. ow Io preferisco non leggerla. Non li apro neanche, i libri sul cinema o sul teatro. Il cinema non mi interessa granché. Continuo a ripeterlo e nessuno mi crede. Ma è vero, non mi interessa! Mi interessa farlo, invece. Vedi, è una cosa terribilmente arrogante da dire, ma non mi interessano gli altri registi - o il mezzo in sé. Per me è il mezzo artistico meno interessante di tutti. A parte il bal­ letto. A me piace solo fare film. Questa è la verità! Ma i primi film li conosco abbastanza bene perché il cinema mi interessava, prima di farlo. E mi interessava il teatro prima di entrarci. Dentro di me si spegne qualco­ sa, una volta che inizio a fare. E come se mi mancasse la forza. In altre parole, prima di diventare un regista tea-

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traie leggevo tutto sul teatro. Dopo, non ci andai più e non lessi più niente. Con il cinema, lo stesso. Forse mi sentivo minacciato: personalmente minacciato da tutti gli altri film e da tutte le critiche. Temevo che potessero intaccare la purezza della mia visione. E penso che l’ultima generazione di registi abbia visto troppi film.

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6 « NESSUNO DEGNAVA MARILYN DI UNO SGUARDO »

Dove Orson saluta Swifty Lazar, ricorda i tempi in cui usava con Marilyn Monroe, che era solo una delle tante belle ragazze in circolazione, e di non essere riuscito a segnalarla a Zanuck, benché il debole del produttore per le attricette gli stesse per rovinare la carriera

Entra Swifty Lazar. swifty lazar Volevo solo fare un salutino. Orson Welles Sei in forma strepitosa. SL Sì, mi sento bene. Sto bene. Ci vediamo mercoledì, Orson. Abbiti cura. ow Perché, ho un brutto aspetto? SL No. Stai benissimo.

Lazar esce.

ow Non mi piace quando dicono: « Abbiti cura ». Swifty è così da trent’anni. Vive in albergo. Si fa portare una pila di asciugamani e li mette per terra per spostarsi dal bagno al letto. hj Per non camminare sulla moquette? E così fissato con i germi? ow Sì. hj E se vuole andare all’armadio? ow Mette giù un’altra fila. L’ho visto io. Con i miei occhi. 92

i i j Che malattie crede di prendere, dai piedi? ow I vermi. Al Ritz, no? E paranoico. hj Volevo chiederti di Zanuck, prima che arrivasse Swifty. Cosa pensi dei suoi film quando dirigeva la Fox? ow Fu il più grande montatore mai esistito. Ma solo per il suo genere. In altre parole, se un film era troppo hello non sapeva cosa fare. Invece era in grado di salvare qualsiasi film mediocre. Lo migliorava, automaticamen­ te. Era bravissimo con i più zuccherosi - che a me di so­ lito non piacevano. I suoi musical erano orrendi. Ma se si rendeva conto di avere per le mani un film artistico, lo lasciava stare. Compresi quelli che noi non riteniamo artistici, tipo... qual era quello dell’impiccagione? Il west­ ern che all’epoca era considerato super artistico. hj Con Henry Fonda? ow Sì. E molti altri bravi attori messi lì a spandere tri­ stezza, per così dire. Quello del linciaggio. Albafatale! hj La Fox fece qualcosa di buono in quel periodo? ow Sì. Qualcosa. Poca roba. Fece Com 'era verde la mia valle. hj Com’era Zanuck? ow Era un grande giocatore di polo. Quando ero ap­ pena arrivato qui andava a giocare al campo di Pacific Palisades. Che ridere, il grande produttore che gioca a polo. Io avevo la solita superiorità newyorkese. Sai che per anni, andando e tornando dall’ufficio, si portò in macchina un insegnante di francese? Pensa: il grande capo che vuole imparare qualcosa! hj Come mai queste qualità non si vedevano, nei suoi film? ow Perché voleva essere un produttore di successo, e lo fu. Fin quando non si innamorò di quella terribile Juliet­ te Gréco. Ci feci due film, con la Gréco. hj Dramma nello specchio 1 93

ow Sì, e un altro, che ora non ricordo. Zanuck lasciò tutto per lei: il potere, sua moglie... tutto. hj Per Juliette Greco? ow Per farle da cavalier servente. Quando giravamo le portava a spasso il cagnolino lì intorno. Te lo giuro, era indecente. Un produttore non dovrebbe mai innamo­ rarsi della sua prima attrice. O almeno, non dovrebbe farlo trapelare. hj Aveva sotto contratto Marylin, vero? ow Era la mia ragazza, allora. La portavo alle feste pri­ ma che diventasse una star. hj Questa non la sapevo ! ow Volevo promuovere la sua carriera. Nessuno la de­ gnava di uno sguardo. C’erano in giro ragazze magni­ fiche, elegantissime; spendevano una fortuna travestiti e salone di bellezza. E tutti: « Tesoro, sei uno schianto! ». Dopodiché le ignoravano. Gli uomini, intendo. Faceva­ no capannello e raccontavano barzellette o discutevano d’affari. Parlavano delle ragazze solo per dire che se n’erano fatta una la sera prima. Così indicavo Marilyn a Darryl: « Guarda che fenomeno! ». E lui: « Non è niente di che. Ne abbiamo a carrettate. Smettila di rifilarmi que­ ste troiette. A quella diamo già centoventicinque dollari la settimana ». Be’, sei mesi dopo Darryl gliene dava quattrocentomila, e gli uomini la guardavano eccome - le avevano messo l’etichetta. hj Dio, è incredibile. ow Finché Darryl scomparve in Europa con Juliette Gréco. Lo davamo per disperso. hj Quando sono arrivato io, a metà anni Sessanta, era a fine carriera e cercava di fare un grande film di guerra a Parigi. Il giorno più lungo. ow La Twentieth era in grossi guai. hj Per Cleopatra. ow Quando lo seppe, Zanuck si rimboccò le maniche 94

(‘ fece II giorno più lungo, che risollevò l’azienda. Il film incassò un patrimonio e lo riportò alla presidenza della Fox, anche se ormai era un po’ lo zimbello di tutti. Poi suo figlio e altri manovrarono per buttarlo fuori. 11 j Richard Zanuck manovrò per buttarlo fuori? Rich­ ard, il socio di David Brown? ow In persona. Era complice di quelli che volevano cacciare suo padre. hj Suo figlio! Che ebreo sarebbe? Non è da ebrei fare... ow Tutti pensavano che Darryl fosse ebreo, perché Zanuck sembra un cognome straniero. Ma era cristiano. L’unico produttore cristiano. hj A parte il capo della Twentieth, [Spyros] Skouras. ow Sempre che lo si possa definire cristiano. Era gre­ co ortodosso. La Twentieth era l’unica casa di produzio­ ne cristiana. La peggiore di Hollywood. Sì. Zanuck è ceco. Un ceco del Nebraska. Aveva iniziato pubblicando a sue spese un romanzo e piazzandolo sulla scrivania dei vari produttori. A diciannove anni divenne il cocco di tutti scrivendo le storie di Rin Tin Tin, che come si sa fecero una fortuna. hj La porta proibita [JaneEyre] non è un film di Zanuck? L’ho visto ieri sera. Avevi un naso finto. ow Sì. hj Perché? ow Per quel mio viso da bambino. Sembravo un sedi­ cenne. Come potevo fare Mr Rochester con quel facci­ no? Anche in Quarto potere era finto. Poi lo allungam­ mo ancora, per farmi invecchiare. Il naso si allunga, con l’età. hj La recitazione non mi piace per nulla. ow Quale? hj Quella della Porta proibita. ow La mia? hj No! La tua mi piace immensamente.

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ow Ah, parli di lei. Joan Fontaine. No, non funziona­ va. La solita pessima attrice con quattro intonazioni, due espressioni, e fine. Tutta tesa a fare Tumile gover­ nante - la santarellina. Grosso errore. La governante dev’essere una ragazza fiera che si fa valere a dispetto della sua posizione. Motivo per cui suscita l’interesse di quel bastardo. hj Penso sia questa la cosa che mi ha sempre creato problemi con quel film; non sono mai riuscito a capire perché a lui piaccia quella racchietta. ow Si dovrebbe capire che dietro la racchietta si na­ sconde una gran donna, e invece niente. Il bello della storia è che, per come funzionava la società dell’epoca, lei è condannata a una posizione di totale servilismo. Ma la sua straordinaria indipendenza di spirito risveglia l’interesse di Rochester. Anche se non è una bellezza. Lo colpisce con la sua personalità. È per questo che alla fine lui si innamora. hj Quello che si vede è un’attrice che si sforza di non fare la bellona. ow Già: è l’unica cosa che si vede. Rovina tutto il senso della storia. In realtà si dovrebbe capire che l’ospite come si chiama? - è lei la bellona. È lei il gioiello che Ro­ chester dovrebbe far suo, eccetera. Invece c’è questa ra­ gazza che non solo fa la domestica, ma non è nemmeno bellissima. Eppure alla fine domina su tutta la vita di quest’uomo. Per merito del suo carattere. Della sua fie­ rezza. Perché è una ragazza tosta. Ma il film non è affat­ to questo! Non dà nemmeno l’idea. AJoan non l’aveva detto nessuno. hj Né lei né sua sorella Olivia de Havilland sapevano recitare. Non ho mai capito come abbiano fatto carriera, ow Ma sì che l’hai capito. C’è sempre una parte per le graziose signorine che parlano un inglese semi-istruito. Per me, nessuna delle due vale granché... hj Capisco come abbiano fatto carriera, ma non come siano così apprezzate da qualcuno.

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( )w Di cani ce ne sono tanti. i i j Merle Oberon è un’altra, per me. ow Già. Bellissima, però. In un film fu eccezionale, ma eccezionale perché non le chiesero di recitare. E uno stranissimo film francese. Lei faceva la parte di una giap­ ponese; fu prima di mettere piede a Hollywood. Non ricordo più come si intitolava. Sayonara 1? Una cosa del genere. Ecco telo, un brutto film: Sayonara 2. 11 j Povero Marion. ow Se ti trovi impelagato in un film così, non sai dove sbattere la testa. Eppure lui ci prese un Oscar. Capisci a che punto eravamo. Quel film era atroce, in tutto e per tutto. Sembrava un musical senza canzoni. L’Oriente è la tomba dei registi americani. L’unico film veramente brutto di Frank Capra è Orizzonte perduto. E terribile... terribile. Assurdo! Mi sbellicavo dalle risate! Vengono tenuti a Shangri-La, in quella specie di country club ο­ ι tentale. Però io ero un grande fan di Capra. hj La vita è meravigliosa. Un film che si vorrebbe odia­ re, ma... ow Be’, sì. Melassa. Puro Norman Rockwell dall’inizio alla fine. Ma non gli si può resistere! Non c’è modo di odiare quel film.

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7 « “L’ANGELO AZZURRO” È PURO KITSCH »

Dove Orson dileggia gli eccessi deU’autorialismo e in particola­ re Peter Bogdanovich e la sua ammirazione per i registi degli studios, come Howard Hawks. Narra le sue avventure con re e regine dei B-movie, che sfornavano materiale di riempimento

Orson Welles Questo pomeriggio vado alla ABC per la trasmissione prima degli Oscar. Per questo sono truc­ cato. Ci saranno anche Peter Bogdanovich e Hal Roach. L’ho suggerito io, Hal Roach, dopo averlo visto in TV l’altra sera. Ha ottantasei anni ma ragiona ancora alla grande! Fortissimo. Volevano Capra. «Capra sarà anche il più grande regista vivente, » ho detto « ma è un pessimo ospite. Si metterà a spiegare quant’è magnifica l’Ameri­ ca, eccetera. Lasciatelo perdere. Chiamate Hal Roach! ». Avevano già Bogdanovich e stavano puntando a Francis Ford [Coppola]. « Troppa gente » ho detto. « Non fa per me. Non potrete dare spazio a tutti noi. Sentirete solo Bogdanovich ». henry JAGLOM Quindi oggi Bogdanovich parteciperà a questo programma. ow È bravo, lui, in TV. hj Sì, ma è polemico con tutti \ Sprezzante. ow Così faccio bella figura. E sempre un’ottima cosa avere di fianco un bullo. hj Quando ho conosciuto Bogdanovich...

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( )W Hai pensato che fosse matto. i ij Non faceva che trovare grandi virtù in tutti i registi degli studios. ow Inguardabili. 11 j Come si chiamava quel regista idiota? ow Sam Fuller. Peter si infuria se dico che Fuller non ini entusiasma. Fritz Lang, hai presente? Peter pensa che sia un grande. Lang, di madre ebrea, mi raccontò che Goebbels voleva metterlo a capo dell’industria cinema­ tografica nazista e gli aveva proposto di nominarlo aria­ no ad honorem. In tutto, gli ariani ad honorem si pote­ vano contare sulle dita di una mano. « Ma io sono ebreo » disse Lang. Al che Goebbels gli fece: «Decido io chi è