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Italian Pages 3136 [3133] Year 2017
BOMPIANI il pensiero occidentale Direttore
Giovanni Reale
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Niccolò cusano opere filosofiche, teologiche e matematiche La Dotta ignoranza – Le congetture – Il Dio nascosto – La ricerca di Dio – La filiazione di Dio – Il dono del Padre dei lumi – Congettura sugli ultimi giorni – Dialogo sulla Genesi – Difesa della Dotta ignoranza – La sapienza – La mente – Gli esperimenti con la bilancia – La visione di Dio – Il berillo – L’uguaglianza – Il principio – Il potere-che è – Il Non-Altro – La caccia della sapienza – Il gioco della palla – Compendio – Il vertice della contemplazione – La quadratura del cerchio – I complementi matematici – La perfezione matematica
Testo latino a fronte a cura di Enrico Peroli
Bompiani Il pensiero occidentale
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ISBN 978-88-587-7498-4 www.giunti.it www.bompiani.eu © 2017 Giunti Editore S.p.A./Bompiani Via Bolognese 165 - 50139 Firenze - Italia Piazza Virgilio 4 - 20123 Milano - Italia Prima edizione: aprile 2017 Prima edizione digitale: gennaio 2018
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Sommario Tra i tempi di Enrico Peroli
Scritti filosofici, teologici e matematici
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Note e commentario alle opere
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Apparati
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Tra I TEMPI di Enrico Peroli
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«Poche vite sono state così piene come quella di Cusano. Pochi uomini sono stati coinvolti così da vicino negli avvenimenti più importanti e nei movimenti intellettuali della loro epoca». Con queste parole si apriva la monografia che, nel 1920, Edmond Vansteenberghe dedicava a Cusano1. Dalla seconda metà dell’Ottocento era in atto una grande riscoperta del suo pensiero che, in toni spesso entusiastici, vedeva in Cusano il precursore dell’età moderna; nel capitolo che, nella sua storia della filosofia, aveva dedicato nel 1850 a Cusano, Heinrich Ritter si era espresso in questi termini: «Proprio nel primo anno del XV secolo venne alla luce un bambino, la cui vita e la cui opera, come avviene di solito nei punti di svolta della storia, possono essere considerate come un’anticipazione di quasi tutto quello che avrebbero dovuto apportare i secoli successivi»2. Nella sua grande monografia del 1920 Vansteenberghe non intendeva mettere in discussione l’assoluta originalità del pensiero di Cusano, che qualche anno prima Ernst Cassirer aveva presentato come il fondatore della filosofia moderna; intendeva ricostruire la complessa e singolare figura di un autore la cui straordinaria ed innovativa riflessione filosofica e teologica era, ad un tempo, profondamente radicata nelle vicende storiche e politiche della sua epoca, delle quali egli era stato spesso un attore e un protagonista. Anche i suoi scritti, che vengono presentati in questo volume, Cusano li ha concepiti e composti non nello spazio chiuso di un’università o di una biblioteca, ma in mezzo ai conflitti politici, culturali ed ecclesiali del suo tempo. Per questo motivo, come introduzione alla loro lettura, vorrei presentare in queste pagine un profilo della biografia intellettuale di Cusano e del contesto storico in cui si collocano 1 2
E. Vansteenberghe, Le cardinal Nicolas de Cues (1401-1464), Paris 1920, p. V. H. Ritter, Geschichte der christlichen Philosophie, fünfter Theil, Hamburg 1850, p. 141.
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la sua riflessione e la sua produzione letteraria. Nella seconda parte del volume (pp. 2163-3070), il lettore potrà trovare un commentario sistematico alle opere di Cusano, nel quale vengono esposti ed esaminati i temi fondamentali del suo pensiero, vengono analizzate le loro fonti filosofiche e viene discussa la letteratura secondaria relativa ai diversi argomenti.
1. Heidelberg e Padova Per ripercorrere la storia intellettuale di Cusano possiamo partire da un breve schizzo autobiografico composto dallo stesso Cusano il 21 ottobre 1449, l’anno in cui divenne cardinale: «Dal battelliere Johannes Cryfftz (Krebs) e da Katharina, figlia di Hermann Roemer – che morì il 1427 – nacque a Kues nella dicoesi di Trier Nicola da Cusa. Nicola aveva appena compiuto 22 anni quando divenne dottore all’Università di Padova. All’età di 37 anni venne inviato da papa Eugenio IV a Costantinopoli; da lì poi condusse l’imperatore dei greci, i suoi patriarchi e 28 arcivescovi al concilio di Firenze, dove essi accolsero la fede della santa chiesa romana. Poi difese Eugenio IV, il quale era stato ingiustamente deposto dall’assemblea conciliare di Basilea, e dopo che il principe Amedeo di Savoia aveva usurpato il papato con il nome di Felice V. Già da papa Eugenio IV, poco prima della sua morte, Nicola era stato nominato cardinale “in pectore”, ma non ancora ufficialmente. Il suo successore, papa Niccolò V, rese pubblica la nomina nel 1449; nello stesso anno si ritirò l’antipapa Amedeo. E con ciò tutti sanno che la santa chiesa romana non guarda alla stirpe o al luogo di origine, ma ricompensa in modo generoso le virtù, ed è per questo che il cardinale ha lasciato scritta questa storia il 21 ottobre 1449»3. Da questa breve autobiografia apprendiamo che il padre di Cusano si chiamava Iohan (Henne) Kryfftz o Cryftz, ossia, nel tedesco moderno, Krebs. Il nome della sua famiglia, che dopo il 1430 Cusano non ha più utilizzato, viene ricordato nel suo stemma cardinalizio, nel quale è raffigurato un gambero rosso; il nome «Cusa3 Acta Cusana. Quellen zur Lebensgeschichte des Nikolaus von Kues, I/2, ed. E. Meuthen, Hamburg 1983, n. 849.
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nus», invece, ricorre per la prima volta nel 1440, in un testo di Enea Silvio Piccolomini4. Come abbiamo letto, Cusano osserva con orgoglio di essere riuscito ad ascendere ai vertici della gerarchia ecclesiastica solo grazie alle sue capacità e non alle nobili origini della sua famiglia. Suo padre, infatti, era «nauta», ossia un battelliere che commerciava sulla Mosella; le condizioni economiche della famiglia di Cusano erano in ogni caso agiate, come testimonia la sua casa natale che si può ancora oggi visitare a Kues. Della giovinezza di Cusano sappiamo poco. In passato si è spesso sostenuto che avrebbe studiato a Deventer, presso la scuola dei «Fratelli della vita comune» legati al movimento di spiritualità religiosa della «Devotio moderna», fondato nel 1376 da Gerard Grote5. Questa tesi nasceva anche dal fatto che, negli ultimi anni della sua vita, Cusano provvide, con un lascito testamentario, ad istituire a Deventer una «bursa» per il sostegno economico degli studenti più poveri; la «bursa cusana» venne ufficialmente inaugurata nel 1469, cinque anni dopo la morte di Cusano, ed è tutt’oggi ancora attiva. Si è spesso ritenuto che questa generosa iniziativa di Cusano fosse stata motivata dall’esperienza che egli aveva fatto durante i suoi anni giovanili presso la scuola della «Devotio moderna». In realtà, come ha mostrato lo storico Erich Meuthen, non vi è alcun documento che attesti che Cusano abbia effettivamente studiato a Deventer6, che egli invece visiterà nel 1451 (13-20 agosto), durante il viaggio che, come legato pontificio, compirà in Germania e nei Paesi Bassi (1451-1452)7. La prima informazione sicura su Cusano l’abbiamo 4 5
Cfr. Acta Cusana, I/ 2, cit., n. 427 a. Cfr., ad esempio, Vansteenberghe, Le cardinal Nicolas de Cues, cit., pp. 6-7; si vedano a questo proposito i rilievi critici di R.R. Post, The Modern Devotion, Leiden 1968, pp. 356-357. 6 Sulla questione della presenza di Cusano a Deventer e sulla «bursa cusana», cfr. E. Meuthen, Cusanus in Deventer, in: G. Piaia (ed.), Concordia Discors. Studi su Niccolò Cusano e l’umanesimo europeo offerti a Giovanni Santinello, Padova 1993, pp. 39-54: J.F.M.M. Hoenen, Ut pia testatoris voluntas observetur. Die Stiftung der «bursa cusana» zu Deventer, in: I. Bocken (ed.), Conflict and Reconciliation. Perspectives on Nicholas of Cusa, Leiden 2004, pp. 53-72; N. Staubach, Cusanus und die Devotio moderna, in: Bocken (ed.), Conflict and Reconciliation, cit., pp. 29-51. 7 Cfr. Acta Cusana. Quellen zur Lebensgeschichte des Nikolaus von Kues, vol. I/3 a, ed. E. Meuthen, Hamburg 1996, nn. 1066-1077.
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invece dalla sua iscrizione all’Università di Heidelberg, dove si immatricola nel semestre estivo del 1416 come «Nycolaus Cancer de Coeße clericus Treverensis dyocesis»8. Ad Heidelberg Cusano studia per un anno presso la Facoltà delle arti; non sappiamo, tuttavia, se abbia acquisito un titolo accademico, né se l’indirizzo allora prevalente ad Heidelberg, ossia l’orientamento nominalistico della «via moderna», abbia potuto esercitare un qualche influsso sul sedicenne Cusano. Nella breve autobiografia che abbiamo sopra riportato Cusano non fa tuttavia alcun riferimento al suo soggiorno heidelberghese. Ricorda invece quella che è stata una delle tappe decisive della sua vita: lo studio di diritto presso l’Università di Padova, dove, all’età di 22 anni, come si legge nella nota autobiografica, Cusano consegue il grado di «doctor decretorum», il titolo che nel Quattrocento offriva le «chances» migliori per poter far carriera, sia nel mondo della chiesa che in quello della politica9. A Padova, dove abita nella casa del suo professore di diritto canonico Prosdocimo Conti10, Cusano studia dal 1417 al 1423. Sono anni molto importanti, non solo per la futura carriera di Cusano, ma anche per la sua formazione intellettuale; la Facoltà giuridica dell’Università di Padova godeva di una grande fama11, ma anche nella Facoltà delle arti insegnavano professori molto celebri, come Vittorino da Feltre e il matematico ed astronomo Prosdocimo de’ Beldomandi, che Cusano ha avuto probabilmente occasione di ascoltare12; anche l’interesse per la medicina, che accompagnò conti8
Cfr. Acta Cusana. Quellen zur Lebensgeschichte des Nikolaus von Kues, vol. I/1, ed. E. Meuthen, Hamburg 1976, n. 11. 9 Cfr. E. Meuthen, Das 15. Jahrhundert, München 1980, p. 85. 10 Cfr. P. Sambin, Il Nicolò da Cusa, studente a Padova e abitante nella casa di Prosdocimo Conti suo maestro, «Quaderni per la storia dell’Università di Padova», 12 (1979), pp. 141-145. 11 Cfr. A. Belloni, Professori giuristi a Padova nel XV secolo. Profili bio-bibliografici e cattedre, Frankfurt am Main 1986. 12 Cfr. G. Santinello, Prosdocimo de’ Beldomandi, in: A. Poppi (ed.), Scienza e Filosofia all’Università di Padova nel Quattrocento, Padova 1983, pp. 71-84, 82-84; si veda anche G. Federici Vescovini, Cusanus und das wissenschaftliche Studium in Padua zu Beginn des 15. Jahrhunderts, in: M. Thurner (ed.), Nicolaus Cusanus zwischen Deutschland und Italien, Berlin 2002, pp. 93-113.
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nuamente Cusano, e che è attestato dal numero di manoscritti di contenuto medico che egli raccolse durante tutta la sua vita, potrebbe essere maturato durante gli anni dei suoi studi a Padova, che nel Quattrocento era il centro forse più importante in Europa per gli studi medici13. Ma a Padova Cusano ha avuto anche l’opportunità di stringere rapporti con persone che svolgeranno un ruolo significativo nel corso della sua vita; conosce Giuliano Cesarini, che sarà presidente del concilio di Basilea, al quale Cusano dedicherà le sue prime due grandi opere filosofiche, il De docta ignorantia e il De coniecturis, e con il quale condividerà molte scelte politiche; conosce Domenico Capranica, che avrà una grande carriera nella curia romana e che non dimenticherà mai il compagno di studi degli anni padovani, ed entra in amicizia con Paolo del Pozzo Toscanelli, al quale dedicherà nel 1445 il De geometricis transmutationibus, il primo dei suoi undici scritti matematici14, e a cui resterà legato per tutta la vita. A Padova ascolta anche per la prima volta il francescano Bernardino da Siena, che suscita nel giovane studente di diritto canonico una grande impressione15. Trent’anni più tardi, in un sermone del 1457, Cusano ricorderà ancora quell’episodio e parlerà anche del suo primo soggiorno romano, quando, dopo aver lasciato Padova, ascolta di nuovo Bernardino da Siena, al quale papa Martino V era dovuto ricorrere per convincere i fedeli a seguire le sue esortazioni: «Bernardino fu in grado di fare quello che al papa non era riuscito»16. Questo primo soggiorno a Roma, a cui Cusano fa riferimento nella sua predica del 1457, avvenne probabilmente tra giugno e luglio del 142417. Subito dopo Cusano ritorna in Germania, che aveva lasciato sette anni prima, all’età di sedici anni.
13 Si veda a questo proposito quanto diciamo nel commento al De staticis experimentis, nota 7. 14 Si veda l’«Introduzione» alla traduzione degli scritti matematici che viene presentata in «Appendice» a questo volume. 15 Cfr. Acta Cusana, I/1, cit., n. 16. 16 Cfr. Sermo CCLXIV («Volo mundare», 23 gennaio 1457), n. 3.
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2. Trier e Colonia Come abbiamo già avuto modo di vedere, all’Università di Heidelberg Cusano si era immatricolato come «chierico della diocesi di Trier». La sua ordinazione sacerdotale avverrà tuttavia molti anni più tardi, sicuramente dopo il 21 luglio 1436, in quanto in una cronaca di quell’anno della diocesi di Trier Cusano compare ancora come diacono18. Recentemente Tom Müller ha avanzato l’ipotesi che Cusano abbia procrastinato la sua ordinazione per lasciarsi aperta la possibilità di una carriera professionale al di fuori dell’ambito ecclesiale19. Ad ogni modo, appena ritornato da Padova con il titolo di «doctor decretorum» Cusano inizia a lavorare come legale ed esperto di diritto canonico presso la curia di Trier e poi come segretario dell’arcivescovo Otto von Ziegenhain20. Per i suoi servizi Cusano viene ricompensato con rendite, prebende e benefici ecclesiastici; in una nota personale del 31 gennaio 1425 Cusano scrive che gli era stata assegnata una rendita annua di quaranta fiorini e di aver ricevuto come beneficio la parrocchia di Altrich presso Wittlich21. Questo sarà il primo di una lunga serie di benefici di cui Cusano, fino agli anni del suo vescovato a Bressanone, continuerà ad «andare a caccia»22. Come ha scritto Erich Meuthen, 17 Cfr. Acta Cusana, I/1, cit., n. 20. 18 Cfr. Acta Cusana, I/1, cit., n. 267. 19 T. Müller, Der junge Cusanus. Ein Aufbruch in das 15. Jahrhundert, Münster
2013, p. 79. 20 Cfr. Acta Cusana, I/1, cit., n. 40, dove viene riportata una supplica dell’arcivescovo di Trier, Otto von Ziegenhain, a papa Martino V nella quale si nomina Cusano: «decretorum doctor ac devote creature Ottonis archiepiscopi Treuerensis scretarius ac illius in Romana curia procurator». In questo periodo Cusano deve aver conosciuto anche l’anziano cardinale Giordano Orsini (cfr. Acta Cusana, I/1, cit., nn. 48, 62, 66, 70), che era legato in Germania, ma, diversamente da quanto si è sostenuto in passato, non abbiamo alcun documento che attesti che Cusano sia stato suo segretario: cfr. A. Schmidt, Nikolaus von Kues Sekretar des Kardinals Giordano Orsini?, in: J. Engel-H.M. Klinkenberg (eds.), Aus Mittelalter und Neuzeit, Bonn 1957, pp. 137-143. Si veda anche K. Flasch, Cusano e gli intellettuali del Quattrocento, in: C. Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P. Costantino Pissavino, Milano 2002, pp. 175-192, 181. 21 Cfr. Acta Cusana, I/2, cit., n. 22. 22 Cfr. E. Meuthen, Die Pfründen des Cusanus, «Mitteilungen und Forschungsbeiträge des Cusanus-Gesellschaft» (d’ora in poi: MFCG), 2 (1961), pp. 15-66.
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«Cusano non è mai stato schizzinoso nell’acquisizione di benefici, prebende ed incarichi. Alcuni, che avevano forse ragione, gli rimproveravano la sua ambizione, senza la quale, tuttavia, non avrebbe mai fatto la sua rapida carriera nella gerarchia ecclesiastica»23. Il lavoro presso la curia di Trier non fu tuttavia l’unico interesse che Cusano coltivò in questo periodo. Poco dopo il suo ritorno in Germania, nell’estate del 1425 si iscrive all’Università di Colonia, che probabilmente non ha potuto frequentare con regolarità, dati i suoi impegni presso la sua diocesi. All’Università di Colonia Cusano viene immatricolato come «dottore in diritto canonico» e viene dispensato dal pagamento delle tasse «ob reverenciam personam»24. Per questo motivo, lo storico dell’Università di Colonia Hermann Keussen ha inserito Cusano tra i professori della Facoltà di diritto25. La tesi è stata recentemente ripresa anche da Hamann, secondo il quale l’insegnamento tenuto a Colonia spiegherebbe «come mai già nel 1428 Cusano fosse così noto da essere chiamato dalla città di Lovanio a ricoprire una cattedra presso la nuova Università appena fondata»26. Per quanto riguarda un’attività di docenza svolta da Cusano a Colonia non abbiamo tuttavia alcuna informazione sicura; sappiamo invece che rifiutò la cattedra di diritto canonico che gli venne offerta per due volte dall’Università di Lovanio, dapprima nel dicembre 1428 e poi all’inizio del 143527. Al di là della questione dell’insegnamento svolto da Cusano, gli anni che egli trascorse a Colonia, il più grande centro intellettuale tra le province tedesche, furono fondamentali per la sua formazione filosofica e teologica, come gli anni di Padova lo erano stati per la sua formazione giuridica e per i suoi interessi matematici e scientifici. Una serie di tematiche e di autori, sostanzialmente estranei alla sua professione di giurista, entrano ora per la prima volta nell’orizzonte in23 E. Meuthen, Nikolaus von Kues 1401-1464. Skizze einer Biographie, Münster 1964, 19927, p. 23. 24 Cfr. Acta Cusana, I/1, cit., n. 25. 25 Cfr. H. Keusssen, Die alte Universität Köln. Grundzüge ihrer Verfassung und Geschichte, Köln 1934, p. 452. 26 Cfr. F. Hamann, Der Siegel der Ewigkeit. Universalwissenschaft und Konziliariamus bei Heymericus de Campo, Münster 2006, p. 21. 27 Cfr. Acta Cusana, I/1, cit., nn. 64, 232 e 235.
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tellettuale del giovane Cusano ed iniziano a svolgere un ruolo importante nell’itinerario che, diversi anni più tardi, lo condurrà, ormai quarantenne, a comporre le sue due prime grandi opere filosofiche, il De docta ignorantia e il De coniecturis. Un ruolo significativo ha avuto in questo senso l’incontro con Eimerico da Campo; con questo teologo olandese, di poco più grande di lui, Cusano ha avuto rapporti certi e documentati28, anche se non sappiamo se sia stato effettivamente suo studente, secondo la tesi sostenuta negli anni Cinquanta da Rudolf Haubst29. Formatosi a Parigi, Eimerico era giunto a Colonia tra il 1422 e il 1423 per insegnare alla Facoltà delle arti30; nel 1425, l’anno in cui Cusano arriva a Colonia, Eimerico guida una «bursa», ossia un collegio universitario nel quale gli studenti della Facoltà delle arti vivevano e frequentavano le lezioni31; la «bursa» guidata da Eimerico era la «bursa Laurentiana»32, di orientamento dichiaratamente albertino, che Cusano dovette con ogni probabilità frequentare. Il rapporto con Eimerico mette Cusano in contatto con una lettura di Alberto 28 Cfr. Acta Cusana, I/1, cit., n. 26. 29 Cfr. R. Haubst, Zum Fortleben Alberts des Grossen bei Heymeric von Kamp
und Nikolaus von Kues, in: H. Ostlender (ed.), Studia Albertina, Münster 1952, pp. 420-447. 30 Per una biografia di Eimerico da Campo, cfr. Hamann, Das Siegel der Ewigkeit, cit., pp. 17-63; si veda anche l’«Introduzione» di K. Reinhardt al volume da lui curato: Heymericus de Campo. Philosophie und Theologie im 15. Jahrhundert, Regensburg 2009; in questo volume (pp. 15-52) D. Calma e R. Imbach hanno edito i «marginalia» di Cusano al Colliget principiorum di Eimerico. Per quanto concerne gli studi sul rapporto tra Cusano e Eimerico, cfr. E. Colomer, Nikolaus von Kues und Heimeric von Valden, MFCG, 4 (1964), pp. 198-213; R. Imbach, Heymeric de Campo, in: M.-A. Vannier (ed.), Encyclopédie des mystiques rhénans, Paris 2014, pp. 567-570, con ulteriore bibliografia. 31 Sulla storia e l’organizzazione delle «bursae», cfr. R.C. Schwinges, Sozialgeschichtliche Aspekte spätmittelalterlicher Studienbursen in Deutschland, in: J. Fried (ed.), Schulen und Studium in sozialen Wandel des hohen und späten Mittelalters, Siegmaringen 1986, pp. 529-544; A.B. Cobban, The Medieval Universities. Their Development and Organisation, London 1975, pp. 122-159; per quanto concerne, in particolare, Colonia, cfr. E. Meuthen, Die Artistenfakultät der alten Kölner Universität, in: A. Zimmermann (ed.), Die Kölner Universität im Mittelalter, Geistige Wurzeln und soziale Wirklichkeit, Berlin-New York 1989, pp. 366-393, 369 ss., e G.-R. Tewes, Die Bursen der Kölner Artisten-Fakulät bis zur Mitte des 16. Jahrhunderts, Köln 1993. 32 Cfr. Tewes, Die Bursen, cit., pp. 47-49.
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Magno che ne enfatizzava gli aspetti neoplatonici e che faceva continuamente riferimento a quelle opere che avevano costituito la spina dorsale della tradizione neoplatonica medievale: il Liber de causis, una raccolta di 32 proposizioni desunte dagli Elementi di teologia di Proclo, e gli scritti dello Pseudo-Dionigi Areopagita. Eimerico, tuttavia, non è stato solo il tramite dell’albertismo pseudodionisiano del XV secolo; grazie a questo teologo eclettico, con il quale condividerà anche le posizioni politiche conciliaristiche33, Cusano conosce anche Raimondo Lullo, un autore che eserciterà un influsso significativo su molti aspetti della sua riflessione, e di cui Cusano copia per la prima volta una serie di scritti nella primavera del 1428, durante un suo viaggio a Parigi compiuto insieme allo stesso Eimerico34. 33
Cfr. F. Hamann, Koran und Konziliarismus. Anmerkungen zum Verhältnis von Heymericus de Campo und Nikolaus von Kues, «Vivarium», XVIII (2005), pp. 275-291; R. Imbach, Einheit des Glaubens. Spuren des cusanischen Dialogs De pace fidei bei Heymericus de Campo, «Freiburger Zeitschrift für Philosophie», XXVII (1980), pp. 5-23. 34 Cusano ha avuto una conoscenza molto ampia degli scritti di Lullo, che risale alla fine degli anni Venti grazie, per l’appunto, alla mediazione di Eimerico da Campo. Come ha mostrato Rudolf Haubst, Cusano ha infatti iniziato a copiare degli estratti del Liber contemplationis di Lullo a Parigi nel marzo 1428: cfr. R. Haubst, Der junge Cusanus war im Jahre 1428 zu Handschriftenstudien in Paris, MFCG 14 (1980), pp. 198-205; gli estratti sono contenuti nel cod. Cus. 83, foll. 51r-60v; si veda Th. Pindl-Büchel, Die Exzerpte des Nikolaus von Kues aus dem Liber contemplationis Ramon Lulls, Frankfurt am Main 1992. Dall’inventario dei manoscritti della biblioteca di Bernkastel-Kues sappiamo che Cusano ha conosciuto almeno 68 scritti di Lullo; per le opere di Lullo possedute da Cusano, cfr. K. Reinhardt, Die Lullus-Handschriften in der Bibliotek des Nikolaus von Kues: ein Forschungsbericht, in: E. Bidese-A. Fidora-P. Renner (eds.), Raimon Llull und Nikolaus von Kues. Eine Begegnung im Zeichen der Toleranz, Turnhout 2005, pp. 1-23; per i sunti che Cusano ha tratto dagli scritti di Lullo, si veda Ch. Lohr, Die Exzerptensammlung des Nikolaus von Kues aus den Werken Ramon Lulls, «Freiburger Zeitshrift für Philosophie und Theologie», XXX (1983), pp. 40-64; cfr. anche Th. Pindl-Büchel, Cusanus-Texte, III, Marginalien 3. Raimundus Llullus. Die Exzerpte und Randnotizen des Nikolaus von Kues zu den Schriften des Raimundus Lullus, Heidelberg 1990. Per quanto riguarda l’influsso esercitato da Lullo sul pensiero di Cusano, cfr. E. Colomer, Nikolaus von Kues und Raimund Llull, Berlin 1961; E.W. Platzek, Von der lullschen zur cusanischen Denkform, MFCG 4 (1964), pp. 145-163; Id., Lullsche Gedanken bei Nikolaus von Kues, «Trierer theologische Zeitschrift», 62 (1953), pp. 357-364; Th. PindlBüchel, The Relationship between the Epistemologies of Ramon Lull and Nicholas
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Agli anni di Colonia, infine, Cusano deve la sua prima notorietà. È in questo periodo, infatti, che il suo nome inizia a circolare tra gli umanisti italiani, con i quali ha frequenti contatti35. A Colonia, infatti, Cusano può coltivare anche la sua passione per i manoscritti antichi, una passione che lo accompagnerà per tutto il corso della sua vita36 e grazie alla quale creerà una biblioteca privata imponente, in parte ancora conservata a Bernkastel-Kues37. A Colonia, grazie probabilmente alla mediazione del suo concittadino Ulrich von Manderscheid, di cui dovremo occuparci ancora fra breve, Cusano ha accesso ai tesori della biblioteca del duomo, di cui Ulrich era decano, e diventa noto al mondo degli umanisti per la scoperta di dodici commedie di Plauto, fino ad allora sconosciute, di cui Poggio Bracciolini riferisce al suo amico Niccolò Niccoli il 26 febbraio 142938.
of Cusa, «The American Catholic Philosophical Quarterly», 64 (1990), pp. 73-87; W.A. Euler, Unitas et Pax. Religionsvergleich bei Raimundus Lullus und Nikolaus von Kues, Würzburg 19952. 35 Cfr. H. Schnarr, Frühe Beziehungen des Nikolaus von Kues zu italienischen Humanisten, in: Thurner (ed.), Nikolaus von Kues zwischen Deutschland und Italien, cit., pp. 187-213. 36 Cfr. M.-A. Aris, Der Leser im Buch. Nicholaus von Kues als Handschriftensammler, in: A. Beccarisi-R. Imbach-P. Porro (eds.), Per perscrutationem philosophicam. Neue Perspektive der mittelalterlichen Forschung, Hamburg 2008, pp. 375-391. 37 Per una descrizione della biblioteca di Cusano e delle vicende che, nel corso del Settecento, hanno condotto alla vendita dei molti dei suoi manoscritti, si veda M. Watanabe, Nicholas of Cusa. A Companion to his Life and his Times, Farnham 2011, pp. 363-370. Tra i molti studi che sono stati dedicati alla biblioteca di Kues e ai manoscritti cusaniani, cfr. C. Bianca, Niccolò Cusano e la sua biblioteca: note, «notabilia», glosse, in: E. Canone (ed.), Bibliothecae selectae: da Cusano a Leopardi, Firenze 1993, pp. 1-11; Ead., La biblioteca romana di Niccolò Cusano, in: M. Miglio (ed.), Scrittura, biblioteche e stampe a Roma nel Quattrocento, Città del Vaticano 1983, pp. 669-708; Ead., Le cardinal de Cues en voyage avec ses livres, in: R. De Smet (ed.), Les humanistes et leur bibliotheques, Leuven-Paris 2002, pp. 25-36; G. Heinz-Mohr e W.P. Eckert, Das Werk des Nicolaus Cusanus. Eine bibliophile Einführung, Köln 1963, W. Krämer, Kritisches Verzeichnis der Brüsseler Handschriften aus dem Besitz des Nikolaus von Kues, MFCG, XIV (1980), pp. 182197; H.-W. Stork, Bibliothek und Bücher des Nikolaus von Kues im St. NikolausHospital zu Bernkastel-Kues, in: S. Graef-S. Prühlen-H.-W. Stork (eds.), Sammler und Bibliotheken im Wandel der Zeiten, Frankfurt am Main 2010, pp. 67-95. 38 Cfr. Acta Cusana, I/1, n. 66.
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3. Basilea Nato a Colonia, il rapporto di Cusano con Eimerico da Campo si rafforza ulteriormente durante il concilio di Basilea, al quale Eimerico prende parte dal dicembre 1432 al febbraio 1435 come rappresentante della sua Università. A Basilea Cusano giunge il 29 febbraio 1432 insieme all’abate benedettino Johannes Rode, per trattare, in rappresentanza del clero della sua diocesi39, del contenzioso che si era aperto per la successione all’episcopato di Trier40. Dopo la morte dell’arcivescovo Otto von Ziegenhain il 13 febbraio 1430, la maggioranza del capitolo aveva scelto come suo successore Jakob von Sierk, prevosto di Würzburg e canonico a Metz. Alla scelta del capitolo si era opposto Ulrich von Manderscheid, che abbiamo già incontrato a Colonia come decano del duomo. Sebbene nella elezione del 27 febbraio 1430 avesse ricevuto solo due voti, Ulrich, sostenuto dalla maggior parte delle famiglie nobili di Trier, ed in particolare dal potente conte Ruprecht von Virneburg, si era appellato a Roma contro la scelta della maggioranza del capitolo e il papa Martino V aveva risolto la controversia affidando l’arcivescovato di Trier al settantenne Raban von Helmstadt, vescovo di Spira. Dopo la rinuncia di Jakob von Sierk, Ulrich von Manderscheid, sostenuto questa volta dall’intero capitolo, che il 10 settembre 1430 l’aveva nominato come nuovo arcivescovo di Trier contro il candidato imposto da Martino V, aveva dapprima depositato un appello, alla cui redazione aveva partecipato anche Cusano, che figura fra i testimoni41, e poi, non avendo ottenuto alcun risultato, si era rivolto al concilio di Basilea, che si era aperto nel dicembre 1431. Dopo una serie di schermaglie giuridiche, la controversia di Trier viene trattata ufficialmente a Basilea solo nel marzo 1434. Il 15 marzo Cusano tiene il suo discorso per difendere la scelta compiuta dal capitolo della sua diocesi; un discorso nel quale, come ha 39 Cfr. Acta Cusana, I/1, cit., n. 99. 40 Su questa disputa, nota anche come
«scisma di Trier», cfr. E. Meuthen, Das Trierer Schisma von 1430 auf dem Basler Konzil. Zur Lebensgeschichte des Nikolaus von Kues, Münster 1964; M. Watanabe, The Episcopal Election of 1430 in Trier and Nicholas of Cusa, in: Id., Concord and Reform. Nicholas of Cusa and Legal and Political Thought in the Fifteenth Century, Aldershot 2001, pp. 81-101. 41 Cfr. Acta Cusana, I/1, cit., n. 78.
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scritto Meuthen, fa del caso di Trier «un precedente per la rivendicazione della libertà delle chiese locali rispetto a Roma»42. L’argomento centrale Cusano lo trae dalla dottrina del consenso che egli aveva esposto nel De concordantia catholica, lo scritto programmatico per i lavori conciliari che aveva composto negli ultimi mesi del 1433, nel quale aveva affrontato il tema del rapporto tra concilio e papato, che era al centro delle discussioni di Basilea, unitamente a quello della riforma della chiesa e dell’impero. Nel corso del secondo libro, nel quale aveva propugnato in tutta chiarezza la posizione conciliaristica, Cusano aveva sostenuto la tesi che «ogni potere, sia quello spirituale che quello mondano», deriva dal consenso dei governati, e che nessuna norma o autorità può valere senza l’assenso degli interessati43. Nel suo discorso del 15 marzo al concilio di Basilea Cusano riprende questo argomento per sostenere l’illegittimità della nomina unilaterale dell’arcivescovo di Trier da parte del papa contro la volontà legalmente espressa della chiesa locale. Nonostante gli sforzi di Cusano, due mesi dopo il suo discorso, il 15 maggio 1434 il concilio, a stretta maggioranza, dichiara legittima la nomina di Raban von Helmstadt44. Pur avendo perduto la causa di Ulrich von Manderscheid, che aveva patrocinato con calore, il soggiorno a Basilea rappresentò una tappa fondamentale nella vita di Cusano. Per la sua carriera, come per quella di molti altri della sua generazione, Basilea sarà un trampolino di lancio45. A Basilea Cusano può dimostrare le sue brillanti capacità di giurista e di storico del diritto di fronte ad una platea del tutto singolare; come ha osservato Walter Euler, «né la curia romana, né la corte di un principe europeo, né un’università poteva42 43
Meuthen, Das Trierer Schisma, cit., p. 102. Cfr. De conc. cath., II 14, 127; II 19, 168; sulla teoria del consenso, cfr. M. Merlo, Vinculum concordiae. Il problema della rappresentanza nel pensiero di Nicolò Cusano, Milano 1997, in particolare il cap. III, pp. 171-184; G. Alberigo, Chiesa conciliare. Identità e significato del conciliarismo, Brescia 1981, pp. 323-340; A.G. Weiler, Nicholas of Cusa on Harmony, Concordance, Consensus and Acceptance as Categories of Reform in the Church, in De concordantia catholica, in: Bocken (ed.), Conflict and Reconciliation, cit., pp. 77-89, in particolare pp. 84-85. 44 Cfr. Acta Cusana, I/1, cit., n. 226. 45 Cfr. Th. Woelki, Nikolaus von Kues und das Basler Konzil, «Cusanus Jahrbuch», 5 (2013), pp. 3-33, 6.
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no offrire a quel tempo un’opportunità paragonabile»46, che già una generazione più tardi sarebbe stata forse impossibile. Il concilio di Basilea riunì giuristi, teologi, rappresentanti delle università e intellettuali provenienti da tutta la chiesa latina e fu una «borsa delle idee» nella quale la nuova cultura italiana «trovò le condizioni ottimali per diffondersi»47. Per un giovane e ambizioso giurista, come ha scritto Duclow, «non c’era posto migliore in cui stare»48. A Basilea Cusano può non solo dimostrare le sue capacità, ma può consolidare e ampliare la rete dei suoi rapporti; ritrova gli amici degli anni padovani, come Giuliano Cesarini, che era ora il presidente del concilio, e Domenico Capranica, ma stringe anche nuove ed importanti amicizie che svolgeranno un ruolo significativo nel corso della sua vita. A Basilea Cusano diventa ben presto un personaggio di rilievo e viene coinvolto in molte delle questioni discusse dall’assemblea. In questo senso, si occupa della riforma del calendario giuliano, componendo nel 1436, un breve scritto, il De reparatione kalendarii, nel quale mostra di avere una conoscenza approfondita delle dottrine astronomiche della sua epoca, acquisita probabilmente a Padova49. Partecipa ai lavori della commissione «de fide», e qui contribuisce alla soluzione della questione hussita, proponendo un compromesso che concedeva ai boemi la comunione sotto le specie del pane e del vino. Dopo il De concordantia catholica, si occupa di nuovo del rapporto tra il papa e il concilio nello scritto De auctoritate praesidendi in concilio (1434), nel quale, riprendendo e sintetizzando alcune idee dell’opera precedente, affronta un’altra importante 46 W.A. Euler, Die Biographie des Nikolaus von Kues, in: M. Brösch-W.A. Eul-
er-A. Geissler-V. Ranff, Handbuch Nikolaus von Kues. Leben und Werk, Darmstadt 2014, pp. 31-103, p. 44. 47 K. Flasch, Nikolaus von Kues in seiner Zeit. Ein Essay, Stuttgart 2004, tr. it. di T. Cavallo, Pisa 2005, pp. 27-29. 48 D.F. Duclow, Life and Works, in: C.M. Bellitto-Th. M. Izbicki-G. Christianson (eds.), Introducing Nicholas of Cusa. A Guide to a Renaissance Man, New York 2004, pp. 25-57, 30. 49 Una nuova edizione del De reparatione kalendarii è stata pubblicata da Tom Müller nel suo volume: «Ut reiecto paschali errore veriati insistamus». Nikolaus von Kues und seine Konzilschrift De reparatione kalendarii, Münster 2010. Sul De reparatione kalendarii si veda anche H.-G. Senger, Die Philosophie des Nikolaus von Kues vor dem Jahre 1440, Münster 1971, pp. 114-129.
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questione discussa a Basilea, quella relativa al diritto dei legati papali di presiedere l’assemblea conciliare. In queste ed altre questioni gli scritti e le proposte di Cusano forniscono una solida base per le discussioni e le scelte dell’assemblea, assicurandogli, come dicevo, una posizione di rilievo in seno al concilio. La grande svolta nella biografia di Cusano si verifica tuttavia in rapporto ad un’altra questione, alla quale non aveva dedicato alcuno scritto e che non compariva inizialmente tra i temi centrali dell’agenda di Basilea: la questione della riunificazione con la chiesa d’Oriente. Un primo accordo per lo svolgimento di un concilio in cui si sarebbe dovuto discutere della riunificazione della chiesa latina e della chiesa greca era stato raggiunto nel 1430, durante il pontificato di Martino V. Il progetto venne ripreso e sostenuto con forza da Eugenio IV, e la questione dell’unione con la chiesa bizantina fu sempre di più al centro dei dibattiti del concilio di Basilea e alla fine condusse alla sua spaccatura. La rottura avvenne a proposito della scelta della sede in cui si sarebbe dovuto tenere il concilio dell’unione. La minoranza dei padri di Basilea proponeva come sede Firenze o Udine, o qualsiasi altra città avessero stabilito il papa e i Greci; la maggioranza proponeva Basilea o Avignone, sebbene l’intesa iniziale con l’imperatore bizantino specificasse che il concilio si sarebbe dovuto tenere in Italia e con la partecipazione del papa. Quando il 7 maggio 1437, dopo una discussione tumultuosa, si giunse alla rottura definitiva, Cusano abbandona la maggioranza, schierata a favore della tesi conciliarista, che fino ad allora egli aveva propugnato, e aderisce alla minoranza a sostegno della posizione di papa Eugenio IV. Dal momento che entrambi i gruppi ritenevano di rappresentare il vero concilio, vennero predisposti e votati due decreti contrari e vennero inviate due delegazioni ufficiali a Costantinopoli per avviare le trattative con l’imperatore romano d’oriente. Della delegazione inviata dalla minoranza faceva parte anche Cusano, insieme al vescovo di Digne, Pierre de Versailles, e al vescovo di Porto, Antonio Martins de Chaves50. Nella prima metà di giugno del 1437 i delegati inviati dalla minoranza incontrarono Eugenio IV a Bologna51 50 Cfr. Acta Cusana, I/1, 51 Cfr. Acta Cusana, I/2,
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cit., n. 294; I/2, cit., n. 295 a. cit., n. 299.
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e, su consiglio del papa52, proseguirono verso Costantinopoli in due gruppi separati. Il primo gruppo, con i vescovi di Porto e di Digne, salpò da Venezia il 26 giugno ed arrivò a Costantinopoli il 3 settembre. Il secondo gruppo, nel quale si trovava Cusano, giunse a Costantinopoli il 24 settembre, dopo una sosta presso l’isola di Creta per imbarcare i trecento arcieri che il papa aveva promesso all’imperatore bizantino per la difesa della città durante la sua assenza in Occidente53. Dieci giorni più tardi sbarcò a Costantinopoli la delegazione inviata dalla maggioranza.
4. Costantinopoli Ci si è chiesti più volte per quale motivo Cusano sia stato scelto per la delegazione inviata da Eugenio IV a Costantinopoli e quale ruolo abbia poi svolto nei negoziati con l’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo e con il patriarca Giovanni II. A questo proposito abbiamo un’unica testimonianza, quella di Rodericus Didaci, decano di Braga, il quale in una sua lettera da Costantinopoli del 13 ottobre 1437, racconta che, grazie alla sua eccellente memoria storica, Cusano fu in grado di confutare l’interpretazione degli eventi di Basilea che era stata esposta all’imperatore bizantino dai delegati inviati dalla maggioranza dei padri conciliari54. Erich Meuthen considera questa lettera come una testimonianza attendibile circa il ruolo «centrale» che Cusano avrebbe svolto nelle trattative con i bizantini e vi vede una conferma di quanto lo stesso Cusano dice nella sua breve autobiografia del 1449 a proposito dell’attività da lui svolta a Costantinopoli 55. In realtà, al di là di quanto riferisce nella sua lettera Rodericus Didaci, sappiamo ben poco di ciò che Cusano fece a Costantinopoli tra il 24 settembre e il 29 novembre 143756. Non abbiamo alcuna prova certa che egli abbia svolto un ruolo di rilievo nelle trattative con i bizantini, 52 53 54 55 56
Cfr. Acta Cusana, I/2, cit., n. 313. Cfr. Acta Cusana, I/2, cit., n. 317. Cfr. Acta Cusana, I/2, cit., n. 329. Cfr. Meuthen, Nikolaus von Kues 1401-1464, cit., p. 66. Le fonti che fanno riferimento all’attività svolta da Cusano a Costantinopoli sono poche e molto brevi; sono raccolte in Acta Cusana, I/2, cit., nn. 323-332.
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né che egli sia stato incluso nella delegazione inviata da Eugenio IV a motivo della sua ampia conoscenza del greco, secondo una tesi che è stata a lungo sostenuta57. Con certezza sappiamo che, nei due mesi della sua permanenza a Costantinopoli, Cusano si è dedicato alla ricerca di una serie di manoscritti greci che i padri conciliari avrebbero dovuto utilizzare a Ferrara-Firenze, nelle deliberazioni che si sarebbero dovute prendere relativamente all’unione tra la chiesa orientale e la chiesa occidentale58. Secondo alcuni studiosi, in questa ricerca di manoscritti greci, che molti anni più tardi lo stesso Cusano descriverà nella «Prefazione» della sua Cribratio Alkorani (1460/61), consisteva il compito principale che gli era stato affidato nell’ambito della delegazione inviata dal papa59. Quali opere Cusano sia poi riuscito effettivamente ad acquisire a Costantinopoli, non è facile da stabilire; tre di queste sono conservate attualmente nella sua biblioteca di Bernkastel-Kues, ma secondo Jacob Marx Cusano riuscì a portare ai padri conciliari un numero molto ampio di manoscritti greci60, tra i quali l’Adversus Eunomium di Basilio di Cesarea, il trattato trinitario del grande padre greco del quarto secolo che compare ripetutamente nelle discussioni teologiche di Firenze61. Tra i manoscritti che Cusano ha portato con sé da Costantinopoli vi era con ogni probabilità anche l’edizione greca delle opere di Dionigi Areopagita62 57
Cfr., ad esemio, Vansteenberghe, Le cardinal Nicolas de Cues, cit., p. 24; si veda anche Fr. A. Scharpff, Der Kardinal und Bischof Nicolaus von Cues, Mainz 1843, I, p. 113; M. Düx, Der deutsche Kardinal Nicolaus von Kues und die Kirche seiner Zeit, 2 voll., Regensburg 1847, vol. II, p. 245. 58 Cfr. Acta Cusana, I/2, cit., nn. 333, 372. 59 Cfr. H.L. Bond, Nicholas of Cusa from Constantinople to «Learned Ignorance». The Historical Matrix for the Formation of the Docta ignorantia, in: G. ChristiansonT.M. Izbicki (eds.), Nicholas of Cusa on Christ and Church, Leiden 1996, pp. 135163, 141; si veda anche Woelki; Nikolaus von Kues und das Basler Konzil, cit., p. 28. 60 Cfr. J. Marx, Nikolaus von Kues und seine Stiftungen zu Cues und Deventer, in: Festschrift des Priesterseminars zum Beschofs-Jübilaum, Trier 1906, p. 153; cfr. Id., Verzeichnis der Handschriften-Sammlung des Hospitals zu Cues bei Bernkastel z./Mosel, Trier 1905: i manoscritti greci riportati da Cusano sono contenuti nei codici 18 (Catena patrum graecorum in evangelium S. Joannis), 47 (s. Chrysostomi homeliae) e 49 (Nicetae expositio carminum arcanorum Gregorii Naz.). 61 Cfr. Acta Cusana, I/2, cit., nn. 385-386. 62 Cfr. in questo senso la lettera di Cusano del 14 settembre 1453 all’abate e
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e della Theologia Platonis di Proclo63, un testo che negli anni successivi svolgerà un ruolo significativo nella riflessione di Cusano. Da una sua lettera a Tommaso Parentucelli del 4 agosto 1439, sappiamo che, durante la sua breve permanenza a Ferrara, Cusano consegnò l’esemplare greco dell’opera di Proclo ad Ambrogio Traversari. Come si dice nella lettera, Cusano si augurava che, al termine delle riunioni del concilio, Traversari potesse avere più tempo libero per tradurre lo scritto procliano. Traversari morì tuttavia pochi mesi dopo l’incontro con Cusano, nell’ottobre 1439. Secondo Rudolf Haubst, una «prova della traduzione» che Cusano aveva richiesto a Traversari sarebbe costituita dai tre estratti della Teologia platonica contenuti, insieme ad altri testi, in un manoscritto conservato in un codice della Biblioteca nazionale e universitaria di Strasburgo (codex Argentoratensis 84), sul quale, alla fine degli anni Venti, ha richiamato per primo l’attenzione Edmond Vansteenberghe64. In ogni caso, dopo la morte di Traversari, Cusano, come vedremo, dovette attendere più di vent’anni per poter avere a sua disposizione una traduzione completa della Teologia platonica di Proclo. Il viaggio a Costantinopoli costituisce un’altra tappa fondamentale nella vita di Cusano, e non solo perché segna il suo passaggio al partito papale. Per l’ormai quarantenne Cusano Costantinopoli è infatti un nuovo inizio, quantomeno dal punto di vista della produzione letteraria. Il giurista, il cacciatore di manoscritti e il ricercatore di fonti, il teorico politico che, nel De concordantia catholica, aveva sostenuto la posizione conciliaristica ed aveva dimostrato sulla base di documenti storici l’inautenticità della donazione di Costantino, diventa ora un filosofo e un teologo. Sarà lo stesso Cusano a ricondurre al suo viaggio a Costantinopoli la genesi della sua prima opera filosofica, il De docta ignorantia, lo scritto grazie al quale Cusano si è assicurato un posto nella storia della filosofia come pensatore della «coincidenza degli opposti» e, per ai monaci di Tegernsee, in: E. Vansteenberghe, Autour de la «Docte ignorance». Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters, Münster 1915, p. 117. 63 Cfr. Acta Cusana, I/2, cit., n. 404. 64 Cfr. il commentario al De non-aliud, nota 2.
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l’appunto, della «dotta ignoranza». Nella lettera a Giuliano Cesarini che chiude l’opera, Cusano, infatti, spiegherà di essere pervenuto all’idea della dotta ignoranza tra il 1437 e il 1438, durante il viaggio di ritorno in mare «dalla Grecia», quando, per una sorta di ispirazione («superno dono a patre luminum»), vide in una nuova luce ciò che aveva «da lungo tempo» cercato «percorrendo diverse vie dottrinali»65. Il viaggio di ritorno da Costantinopoli si concluse l’8 febbraio 1438, quando, dopo una lunga traversata in mare iniziata alla fine di novembre, Cusano approdò a Venezia66 insieme all’imperatore romano d’oriente, con i suoi diplomatici e teologi; fra questi vi erano anche Bessarione, che portò in Italia parte della sua biblioteca personale67, e il filosofo greco Gemisto Pletone, i quali avevano probabilmente compiuto il viaggio in mare sulla stessa nave di Cusano. Non sappiamo nulla delle conversazioni che, nei lunghi mesi della traversata invernale, Cusano può aver avuto con questi teologi e filosofi greci, i quali avevano di Platone e della tradizione platonica una conoscenza di gran lunga superiore rispetto a quella di tutti gli occidentali, conoscenza che essi fecero circolare durante le intense discussioni filosofiche e teologiche che si svolsero nel concilio di Firenze. Dal racconto di Cusano possiamo solo dedurre che, dai primi mesi del 1438, egli iniziò a lavorare alla sua prima opera filosofica, che ultimò il 12 febbraio 1440 nella sua città natale di Kues, secondo la data che compare nella maggior parte dei manoscritti del De docta ignorantia. Nello stesso periodo Cusano iniziò a comporre anche la sua seconda grande opera filosofica, il De coniecturis, alla quale rinvia diverse volte nel corso del De docta ignorantia68. Concepite e composte a breve distanza l’una dall’altra, profondamente diverse sia per la struttura che per il linguaggio, il De docta ignorantia e il De co65 66 67
Cfr. De docta ignorantia, III, Epistola auctoris, 263, 3-9. Cfr. Acta Cusana, I/2, ed. E. Meuthen, Hamburg 1983, nn. 334-336. Cfr. L. Jardine, Worldly Goods. A New History of the Renaissance, New York 1996, pp. 57-58. 68 Cfr. De docta ign., II 1, 95, 13; II 6, 123, 9; II 8, 140, 12; II 9, 150, 25-26; III 1, 187, 8; 188, 21. Per quanto riguarda la genesi, la data di composizione del De coniecturis e i suoi rapporti con il De docta ignorantia, si veda il commentario al De coniecturis, nota 1.
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niecturis non sono solo le prime opere filosofiche di Cusano; sono ad un tempo i suoi lavori più sistematici, nei quali Cusano intende proporre una nuova concezione del sapere e, con essa, una nuova visione della realtà, di Dio e dell’uomo, che, per molti aspetti, si muove in una direzione profondamente diversa da quella percorsa dalla tradizione scolastica con le sue diverse «vie dottrinali», come si dice nel passo della lettera a Cesarini a cui abbiamo fatto riferimento. Di questa novità Cusano è perfettamente consapevole; sin dalle prime pagine del De docta ignorantia parla dell’«audacia» del suo nuovo «modo di ragionare circa le questioni teologiche», ripete più volte che esporrà idee che ai più appariranno insolite ed annuncia al lettore che ascolterà «cose mai prima udite» quando, nel secondo libro, presenterà la sua concezione di un universo infinito, omogeno, privo di un centro fisso ed esporrà le sue tesi cosmologiche, nelle quali si è spesso vista un’anticipazione delle teorie di Copernico. Nel commentario al De docta ignorantia e al De coniecturis il lettore potrà trovare un’analisi sistematica di queste due opere, come degli altri scritti di Cusano; qui vorrei aggiungere solo una considerazione a proposito della loro genesi. La composizione del De docta ignorantia, ultimata, come ho detto, il 12 febbraio 1440, e quella del De coniecturis, a cui Cusano continuerà in ogni caso a lavorare anche negli anni successivi69, restano per molti versi un mistero, nonostante la questione relativa alla genesi di queste due opere sia stata spesso affrontata nell’ambito della ricerca cusaniana70. Dopo il suo ritorno da Costantinopoli, infatti, e per i due anni successivi Cusano è stato quasi sempre in viaggio a servizio del papa Eugenio IV. Dopo l’arrivo a Venezia, Cusano si reca con i bizantini a Ferrara, dove resta tuttavia pochi mesi, senza poter probabilmente partecipare a nessuna se69 70
Cfr. il commentario al De coniecturis, nota 1. Cfr. M. Honecker, Die Entstehungszeit der «Docta ignorantia» des Nikolaus von Kues, «Historisches Jahrbuch», 60 (1940), pp. 121-141; R. Klibansky, Zur Geschichte der Überlieferung der Docta ignorantia des Nikolaus von Kues, in: Nicolai de Cusa De docta ignorantia. Liber tertius, edidit Raymundus Klibansky, übersetzt und mit Einleitung, Anm. und Register herausg. von H.-G. Senger, Hamburg 19992, pp. 209-240; Bond, Nicholas of Cusa from Constantinople to «Learned Ignorance»., cit., pp. 135-163.
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duta del concilio. Nel giugno 1438 il papa, infatti, lo invia in Germania insieme ad una legazione di cui facevano parte anche Niccolò Albergati e Tommaso Parentucelli, il futuro papa Niccolò V, e gli spagnoli Juan Carvajal e Juan de Torquemada71. Il compito della legazione era quello di conquistare alla causa del papato i principi tedeschi che, alla dieta di Francoforte del 17 marzo 1438, si erano dichiarati neutrali nel conflitto che divideva il papa Eugenio IV e il concilio di Basilea. Per vincere questa neutralità ci vollero dieci anni di continue discussioni ed una serie infinita di appelli, di lettere e di discorsi. Durante questi dieci anni la Germania tornerà ad essere il centro di gravità della vita di Cusano, il quale, in quanto unico tedesco della legazione papale, prenderà parte a tutte le trattative e a tutte le diete imperiali. Tra il 1438 e il 1440, in particolare, Cusano, come ho accennato, è quasi sempre in viaggio. Giovanni Andrea Bussi, che sarà suo segretario dal 1458 al 1464, racconterà che, durante i suoi lunghi spostamenti come legato papale, nei quali, anche in età avanzata, percorreva circa cinquanta chilometri al giorno in sella ad un cavallo, Cusano era solito meditare sulle questioni filosofiche e teologiche che gli stavano a cuore, per poi trascrivere le sue riflessioni durante le soste serali72. Nonostante questo, è difficile pensare che Cusano abbia potuto comporre interamente le sue due grandi opere filosofiche, il De docta ignorantia e il De coniecturis, tra il 1438-1440, in un periodo nel quale ha avuto ben poco tempo a disposizione per un’attività di studio intensa e produttiva. Al di là del racconto, per molti versi letterario73, dell’improvvisa «illuminazione» ricevuta durante il ritorno da Costantinopoli, è probabile che questi lavori siano stati realizzati in più fasi e nel corso di più anni; come ha osservato Lawrence Bond74, si può in effetti ipotizzare che, durante i suoi viaggi, Cusano abbia portato con sé i manoscritti delle due opere e abbia continuato a lavorare ad essi durante i pochi mesi liberi che 71 72
Cfr. Meuthen, Nikolaus von Kues, cit., pp. 66 ss. Cfr. Giovanni Andrea Bussi, Prefazioni alle edizioni di Sweynheym e Pannartz, prototipografi romani, ed. a cura di M. Miglio, Milano 1978, p. 17. 73 Cfr. il commentario al De docta ignorantia, nota 665. 74 Cfr. Bond, Nicholas of Cusa from Constantinople to Learned Ignorance, cit., pp. 151-154.
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ebbe a disposizione75; in uno di questi, trascorso nella sua città natale di Kues tra il gennaio e il febbraio 1440, rivide e completò il manoscritto del De docta ignorantia.
5. Germania Sui motivi che possono aver spinto Cusano ad abbandonare il partito conciliare e a schierarsi a sostegno del papa si è a lungo discusso tra gli studiosi e non è questa la sede per ritornare sull’argomento76. Certamente, agli occhi di molti protagonisti di Basilea l’atteggiamento politico di Cusano sembrò un voltafaccia, non esente da interessi personali77, anche se agli inizi del 1437 non era affatto sicuro che quello papale sarebbe stato il partito vincente, come attesta il fatto che la maggior parte degli uomini di chiesa della generazione di Cusano abbandonò lo schieramento conciliarista di Basilea solo più tardi78. Da parte sua, negli anni successivi Cusano evidenzierà più volte come la motivazione fondamentale del suo cambio di fronte risiedesse nella questione della riunificazione con la chiesa d’Oriente che, a differenza del papa, il concilio, con le sue profonde divisioni, non era a suo avviso in grado di realizzare79. Al di là 75 Secondo Honecker, Die Entstehungszeit der Docta ignorantia, cit., p. 138, Cusano poté godere di alcuni mesi liberi nell’inverno 1438-1439 (da dicembre a febbraio), nell’estate del 1439 (da maggio a luglio) e nell’autunno dello stesso anno (da settembre ad ottobre). 76 Cfr. M. Watanabe, The Political Ideas of Nicholas of Cusa, with special Reference to his «Concordantia catholica», Genève 1963, p. 98, n. 2, che riporta i giudizi dei critici moderni; si veda inoltre J. Stieber, «The Hercules of the Eugenians» at the Crossroads. Nicholas of Cusa’s Decision for the Pope Against the Council in 1436-37. Theological, Political and Social Aspects, in: Christianson-Izbicki (eds.), Nicholas of Cusa in Search of God and Wisdom, cit., pp. 221-258. 77 Cfr. E. Meuthen, Nikolaus von Kues in der Entscheidung zwischen Konzil und Papst, MFCG, 9 (1971), pp. 19-33. 78 Cfr. a questo proposito le osservazioni di Euler, Die Biographie ds Nikolaus von Kues, cit., p. 48; il 27 febbraio 1438 i partecipanti al concilio di Basilea intentarono un processo contro i tre membri della minoranza che erano stati inviati a Costantinopoli; nell’agosto 1439 richiesero ai principi elettori riuniti a Francoforte di arrestare Cusano e di trasferirlo a Basilea (Acta Cusana, I/2, cit., n. 400) e il 27 gennaio 1440 cercarono di revocargli tutti i benefici (Acta Cusana, I/2, cit., n. 423). 79 Cfr. in questo senso la lettera all’arcivescovo di Trier riportata in Acta
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delle diverse interpretazioni, è certo che, a torto o a ragione, l’impegno per il partito papale ha segnato per molto tempo l’immagine di Cusano80. Ancora nel 1538, il teologo riformato Johannes Kymeus nel titolo di un suo libro definiva Cusano «l’ercole papista contro i tedeschi», riprendendo in questo modo l’espressione «Hercules tamen omnium Eugeniorum» che, all’epoca di Basilea, era stata coniata da Enea Silvio Piccolomini, allora convinto conciliarista81. Nel frontespizio del libro di Kymeus era riportato anche un disegno che ritraeva il papa mentre teneva a guinzaglio Cusano per le nappe del suo cappello cardinalizio e lo guidava contro la nazione tedesca82. Al formarsi di questa immagine contribuirono senza dubbio i dieci anni che, a partire dal 1438, Cusano trascorse in Germania per conquistare i principi tedeschi alla causa papale; anni nei quali si trovò spesso a discutere con gli stessi conciliaristi al fianco dei quali aveva militato fino a poco tempo prima, il che suscitò l’irritazione di molti83, come racconta lo stesso Cusano in una sua lettera a Giuliano Cesarini84. Tra coloro che, a Basilea, avevano militato insieme a Cusano nel partito conciliarista vi era anche Johannes Wenck, un teologo dell’Università di Heidelberg, di cui fu per tre volte anche rettore, che godeva di una certa notorietà sia in Germania che in Italia85. Dopo il concilio di Basilea Wenck aveva partecipato alla dieta di Mainz nel 1441 e poi a quella di Francoforte nel 1442, nelle quali Cusano aveva difeso con grande fervore la causa papale contro Giovanni di Segovia e Niccolò Panormitano, due degli esponenCusana, I/2, cit., n. 469; Epist. Ad Rodericum Sancium, in: Nicolai de Cusa Opera omnia, vol. XV/2, ed. H.-G. Senger, Hamburg 2008, n. 15. Si veda a questo proposito T. Woelki, Nikolaus von Kues und das Basler Konzil, cit., pp. 3-33; cfr. anche A. Leidl, Die Einheit der Kirchen auf den spätmittelalterlichen Konzilien von Konstanz bis Florenz, Paderborn 1966, pp. 88. ss. 80 Cfr. E. Meuthen, Nikolaus von Kues und die deutsche Kirche am Vorabend der Reformation, MFCG, 21 (1994), pp. 39-85, 54. 81 Cfr. Acta Cusana, I/2, nr. 427 a. 82 Il disegno è riprodotto nel volume di K. Kremer, Nicholas of Cusa (14011464). One of the Greatest Germans of the 15th Century, Trier 2002, p. 23. 83 Cfr. J. Sieber, Die Pope Eugenius IV, the Council of Basel and the Secular and Ecclesiastical Authorities in the Empire, Leiden 1978, pp. 341 ss. 84 Cfr. Acta Cusana, I/2, cit., n. 482. 85 Su Johannes Wenck, si veda quanto diciamo nel comentario all’Apologia, nota 3.
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ti più importanti dello schieramento conciliarista. Qualche mese dopo la dieta di Francoforte, Wenck compose il De ignota litteratura, un violento attacco contro il De docta ignorantia di Cusano, nel quale quest’ultimo veniva ripetutamente apostrofato come «pseudoapostolo» e «pseudo-profeta». A dire il vero, nel De docta litteratura (di cui presentiamo una traduzione in appendice al commentario all’Apologia), Wenck non faceva alcun riferimento alle motivazioni politiche della sua polemica; sarà Cusano che, quando comporrà nel 1449 la sua Apologia doctae ignorantiae, non mancherà di rilevarle, osservando come, dietro le accuse del suo avversario, vi fosse in realtà un risentimento personale, motivato dall’adesione di Cusano al partito papale, che Wenck aveva invece combattuto al concilio di Basilea. Nel De ignota litteratura l’intento di Wenck era piuttosto quello di mostrare come le dottrine esposte da Cusano nel De docta ignorantia, per il loro contenuto a suo avviso panteistico, fossero strettamente connesse al pensiero di Meister Eckhart e a tutti quei movimenti laicali, come i «begardi» e le «beghine», che erano stati più volte condannati come eretici e nei quali il tomista Wenck vedeva una forza eversiva dell’ortodossia e della gerarchia della chiesa86. Alle accuse di Wenck Cusano risponderà solo nel 1449. Non sappiamo per quale motivo abbia atteso circa sette anni prima di scrivere la sua Difesa della dotta ignoranza. Secondo Rudolf Haubst, Cusano non venne a conoscenza del De ignota litteratura prima del 1449 e compose immediatamente la sua Apologia87. Jan Bernd Elpert ha tuttavia richiamato giustamente l’attenzione sul fatto che, a partire dal 1438, Cusano, come abbiamo visto, ha soggiornato quasi sempre in Germania ed è pertanto difficile pensare che non abbia avuto notizia delle critiche e delle pesanti accuse che gli erano state rivolte da un noto professore dell’Università di Heidelberg88. Si potrebbe ipotizzare che Cusano abbia reagito solo quando, in seguito alla sua nomina a cardinale (1448), pensava di poter rispon86 Per quanto riguarda le critiche di Wenck, cfr. il commentario all’Apologia, note 1, 3, 12. 87 Cfr. R. Haubst, Studien zu Nikolaus von Kues und Johannes Wenck, Mainz 1955, p. 102. 88 J.B. Elpert, Loqui est revelare. Verbum ostensio mentis. Die sprachphilosophischen Jagdzüge des Nikolaus Cusanus, Frankfurt am Main 2002, pp. 118-119.
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dere alle accuse di eresia di Wenck da una posizione di maggiore autorevolezza, sapendo anche di poter contare sull’appoggio di un papa amico, l’umanista Tommaso Parentucelli, a cui Cusano fa espressamente riferimento nel corso dell’Apologia89. Come avremo modo di vedere nel commentario, nella sua Difesa della dotta ignoranza Cusano risponderà punto per punto alle critiche di Wenck, evidenziando anche come esse derivassero spesso da un intenzionale fraintendimento dei suoi testi. Ma, nel difendere il proprio metodo della dotta ignoranza, Cusano critica anche la forma del discorso del suo avversario, il quale, come ha scritto Ziebart, aveva condotto tutto il suo attacco «a partire dalla prospettiva di una difesa della filosofia di Aristotele, quale veniva impiegata nelle università a supporto della teologia, e della quale Wenck, in quanto tomista, era una fedele seguace»90. Sin dalle prime pagine dell’Apologia, Cusano critica questa forma di aristotelismo scolastico come una «consuetudine obsoleta»; vede in Wenck l’espressione caratteristica di una cultura ormai sclerotizzata, di una forma di pensiero che resta incatenata alle vecchie abitudini della tradizione aristotelica, ancorata ad una teologia resa apparentemente sicura dagli strumenti della logica di Aristotele, ma che, in realtà, legata al principio di autorità, scambia per una «lex» immutabile un insieme di semplici opinioni. Nel corso della sua Apologia, Cusano contrappone a questa forma di aristotelismo scolastico quegli autori che, a partire quantomeno dagli anni di Colonia, erano diventati i punti di riferimento del suo cammino di pensiero: anzitutto, Dionigi Areopagita, che Cusano cita più di venti volte, riportando spesso passi degli scritti dionisiani tratti dalla recente traduzione di Ambrogio Traversari (1436), di cui era entrato in possesso nel 1443, grazie al suo amico Paolo del Pozzo Toscanelli; poi i commentatori di Dionigi, il Platone del Commentario al Parmenide di Proclo e il neoplatonico Bertoldo di Moosburg, i dimenticati pensatori della Scuola di Chartres. Ed infine una serie di autori medievali sospettati di ere89 Si veda in questo senso Kurt Flasch, Einführung in die Philosophie des Mittelalters, Darmstadt 19944, tr. it. di M. Cassisa, Torino 2002, p. 231. 90 Cfr. K.M. Ziebart, Nicolaus Cusanus on Faith and the Intellect. A Case Study in the 15th-Century Fides-Ratio Controversy, Leiden 2014, p. 72.
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sia: Eriugena, con il quale Cusano si è confrontato continuamente e il cui De divisione naturae era stato condannato al rogo nel 1225 da papa Onorio III, la Clavis physicae, ossia l’epitome dell’opera di Eriugena redatta nel XII secolo da benedettino Onorio Augustodunense, Davide di Dinant, sospettato di panteismo e al quale Cusano farà ancora riferimento nel De non aliud, e Meister Eckhart, nel quale Wenck vedeva il leader spirituale dei diversi movimenti ereticali del suo tempo, e del quale Cusano offre invece una significativa riabilitazione91. Per Cusano, come ha scritto efficacemente Flasch, «tutti questi autori medievali sospettati di eresia dovevano riacquistare diritto di cittadinanza nella nuova cultura filosofica. Ciò presupponeva che venisse spezzato il giogo dell’aristotelismo scolastico e che fosse ormai passato il tempo della condanna dei filosofi d’ispirazione neoplatonizzante. Un nuovo inizio, una rinascita dunque, non un ritorno al passato: la nuova filosofia di Cusano doveva essere tutto questo. Egli affermò espressamente che la sua opera avrebbe “vinto” tutti gli orientamenti filosofici [cfr. Apol., 55, 8-9]. Una vittoria da conquistare permettendo a ciascun orientamento di far valere la propria forza, senza ricorrere né alla censura scolastica, né a una nuova dittatura di formule filosofiche»92.
6. Marche Dopo dieci anni di trattative e di discussioni, la legazione pontificia inviata in Germania nel 1438 riesce a conquistare alla causa del papato i principi tedeschi e il 17 febbraio 1448 viene firmato a Vienna il concordato tra la Santa Sede e l’imperatore Federico III. I membri della legazione pontifica vengono ben ricompensati per il loro servizio: Tommaso Parentucelli e Juan de Carvajal vengono nominati cardinali il 16 dicembre 1446; nello stesso giorno anche Cusano viene nominato cardinale, ma solo «in pectore», senza cioè che la sua nomina venga resa ufficiale93, come abbiamo già letto nella nota autobiografica del 1449 e come emerge anche da una 91 Sul rapporto di Cusano con questi autori, si veda il commentario all’Apologia, note 127-129 e nota 195 per quanto riguarda Meister Eckhart. 92 Flasch, Einfügrung, tr. it. cit., pp. 241-241. 93 Cfr. Acta Cusana, I/2, cit., n. 727.
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lettera di Piccolomini a Cusano94. Non sappiamo per quale motivo Eugenio IV non abbia voluto rendere pubblico il nome del nuovo cardinale. Solo due anni più tardi, il 21 dicembre 1448, la nomina viene resa pubblica dal nuovo papa95, l’amico di lunga data Tommaso Parentucelli, il quale il 3 gennaio 1449 conferisce a Cusano la chiesa titolare di San Pietro in Vincoli. Cusano non parte subito per Roma, dove si recherà solo agli inizî del 1450. Per tutto il 1449 resta in Germania; a Kues, nella sua città natale, inizia probabilmente a progettare la fondazione di un ospizio, la cui costruzione verrà avviata l’anno successivo sulla riva sinistra della Mosella, nel sito di un’antica cappella dedicata a S. Nicola vescovo di Mira in Licia96. Nel gennaio 1450 Cusano giunge a Roma per ricevere da Niccolò V il cappello cardinalizio. Per l’anno 1450 il papa ha proclamato il Giubileo; dopo lo scioglimento del concilio di Basilea, l’anno santo doveva essere una testimonianza visibile della ritrovata unità all’interno della chiesa. A Roma Cusano resta per l’intero anno, riprendendo i suoi rapporti con l’ambiente umanistico; entra in contatto con Leon Battista Alberti97, forse tramite l’amico Paolo del Pozzo Toscanelli, e con Lorenzo Valla, che, come sappiamo da una lettera dell’agosto di quell’anno, Cusano raccomanda al pontefice per un posto da segretario98; secondo John Monfasani, anche negli anni successivi Cusano «si adoperò apertamente per difendere l’innovativo umanista contro i suoi detrattori alla corte papale»99. Per Cusano il 1450 è anche l’ultimo anno della sua vita privo di tensioni, ed è un anno importante per quanto concerne la sua produzione letteraria. Tra il 1440 e il 1449 era riuscito a scrivere solo una serie di brevi opuscoli nei quali aveva ripreso alcuni motivi 94 95 96
Cfr. Acta Cusana, I/2, cit., n. 808. Cfr. Acta Cusana, I/2, cit., nn. 708 ss. Sull’ospizio di Kues, cfr. Watanabe, Nicholas of Cusa. A Companion to his Life and his Times, cit., pp. 355-366, con ulteriore bibliografia 97 Cfr. il commento al De staticis experimentis, nota 6. 98 Cfr. Vansteenberghe, Le cardinal Nicolas de Cues, cit., p. 26, n. 1; la lettera è riprodotta da Valla nel suo Antidotum II in Pogium; cfr. Lorenzo Valla, Epistole, ed. O. Besomi e M. Regoliosi, Padova 1984, pp. 332-334. 99 Cfr. J. Monfasani, Nicholas of Cusa, the Byzantines and the Greek Longuage, in: Thurner (ed.), Nicolaus Cusanus zwischen Deutschland und Italien, cit., pp. 215-252, 222-223.
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già sviluppati nel De docta ignorantia e nel De coniecturis, ed aveva affrontato, in modo particolare, il tema della ricerca e della conoscenza di Dio. Nel 1450 Cusano può disporre di un periodo di quiete piuttosto lungo per le sue abitudini, e in quest’anno compone nelle Marche il suo terzo lavoro filosofico di ampio respiro, i tre libri del De idiota, secondo il titolo comune sotto il quale essi sono stati raccolti sin dai primi manoscritti dell’opera: il De sapientia, il De mente e il De staticis experimentis. Come avremo modo di vedere diffusamente nel corso del commentario, si tratta di testi centrali nel contesto della produzione di Cusano, che prendono le mosse da una discussione sul significato più proprio della sapienza e su quale sia la via migliore per conseguirla (De sapientia), proseguono con un’analisi della natura e delle capacità conoscitive della mente (De mente) e si chiudono con un breve ma rilevante libro sui vantaggi delle misurazioni quantitative dei fenomeni fisici (De staticis experimentis). Per quanto riguarda la forma letteraria, i tre libri che formano il De idiota segnano il passaggio definitivo dal trattato, che aveva caratterizzato il De docta ignorantia e il De coniecturis, al dialogo, che Cusano utilizzerà in tutti gli scritti successivi, nei quali non ritornerà più al «format» delle sue due prime grandi opere filosofiche. Mentre queste ultime, inoltre, avevano un carattere sistematico, il terzo lavoro filosofico di ampio respiro che Cusano compone nel 1450 non presenta una struttura unitaria chiaramente evidente. I libri che formano il De idiota affrontano, in effetti, tre temi distinti, e potrebbero essere letti anche come scritti a sé stanti, cosa che è effettivamente accaduta per il De staticis experimentis, che, nel corso del Cinquecento, verrà pubblicato separatamente dagli altri due dialoghi, e per il primo libro del De sapientia, che verrà stampato come opera di Petrarca100. Nonostante la diversità di argomenti, i Dialoghi dell’idiota rivelano tuttavia un’ispirazione comune che, da un punto di vista esteriore, è confermata anche dai due personaggi che Cusano mette in scena in tutti e tre gli scritti, ossia l’«idiota» e l’«oratore». Come ha osservato giustamente Renate Steiger, questi due personaggi non rimandano a degli individui 100
nota 1.
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Cfr. il commentario al De sapientia, nota 1, e al De staticis experimentis,
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storicamente riconoscibili, ma sono, per così dire, dei «tipi» ideali101. L’oratore incarna la figura dell’intellettuale, sia quella dello «scholasticus» medievale, legato alla tradizione consolidata dell’aristotelismo universitario, sia quella del dotto umanista, che conosce tutti gli autori del passato e vezzeggia continuamente con il tesoro dei classici, disdegnando le vili arti meccaniche. L’idiota è invece l’illetterrato, l’uomo semplice che non si è addottorato nella scuola, colui che nella tradizione medievale veniva designato anche con il termine di «laico»102. Facendo dell’idiota o del laico il personaggio principale dei tre dialoghi del 1450 e affidando a lui l’esposizione del proprio pensiero, Cusano ne opera una «trasvalutazione filosofica», come ha osservato Grundmann a conclusione della sua storia dei termini «litteratus/illitteratus»103; fa della figura dell’idiota il simbolo di un nuovo tipo di sapere che, proprio perché estraneo alla cultura letteraria ufficiale, si fonda sull’esperienza diretta del mondo e sul giudizio autonomo della ragione. In questo modo, il personaggio dell’idiota o del laico diventa in Cusano una figura critica sia della cultura libresca e della sopravvalutazione della retorica caratteristiche del nuovo umanesimo, sia dell’aristotelismo scolastico e del sapere universitario della tradizione medievale, che, qualche mese prima la stesura dei Dialoghi dell’idiota, Cusano aveva criticato con forza nell’Apologia, in termini simili a quelli che compaiono sin dalle prime pagine del De sapientia. Come abbiamo già avuto modo di vedere, nell’Apologia Cusano aveva risposto alle accuse del tomista Wenck mostrando come esse fossero l’espressione di una cultura sclerotizzata, incatenata alle vecchie abitudini dell’aristotelismo scolastico. In modo analogo, qualche mese 101
Cfr. R. Steiger, Introduzione a: Nicolai de Cusa, Idiota de sapientia. Der Laie über die Weisheit, ubersetzt, mit Einl. und Anm., von R. Steiger, Hamburg 1988, p. XIII, n. 21. 102 Cfr. R. Imbach, Dante, la philosophie et les laïcs, Fribourg 1996, tr. it. a cura di P. Porro, Genova 2003, p. 16: «Nella società medievale, e sino alla Riforma, il termine laicus designava contemporaneamente sia il non chierico, sia colui che non è esperto, non è letterato; un sinonimo quindi di idiota o illitteratus». 103 Cfr. H. Grundmann, Litteratus-illitteratus. Der Wandel einer Bildungsnorm vom Alertum zum Mittelalter, «Archiv für Kulturgeschichte», 40, 1958, pp. 1-65, 3-7; 63.
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più tardi, nel De sapientia il personaggio dell’oratore ci viene presentato come il simbolo di una forma di pensiero che resta legata in modo cieco alla tradizione e alle «auctoritates» che la rappresentano e che, in questo modo, preclude all’uomo un’effettiva comprensione della realtà, alla quale possiamo pervenire partendo, anzitutto, da un’esperienza diretta del mondo e dall’osservazione della natura, come Cusano mostrerà nel De staticis experimentis, il breve scritto che conclude i Dialoghi dell’idiota. In questo senso, il personaggio del laico o dell’idiota può essere considerato come una figura dell’immediatezza, come ha osservato giustamente Hans Blumenberg104, dell’immediatezza dell’esperienza rispetto ad un accesso alla realtà filtrato dai concetti della tradizione, o mediato attraverso lo studio dei libri e il sapere delle scuole. Ad un tempo, tuttavia, il laico di Cusano è il simbolo di una nuova figura sociale di intellettuale il cui mondo non è più esclusivamente quello delle università o delle corti. Il mondo in cui l’idiota o il laico costruisce il suo sapere è lo spazio aperto in cui Cusano ambienta il De sapientia, il mondo cioè della piazza o del mercato, dove gli uomini svolgono le loro attività commerciali, o è il mondo degli artigiani del De mente, dove l’idiota ci viene presentato come un intagliatore di cucchiai, che vive del lavoro delle sue mani e che, a partire dalla sua arte, è in grado di giungere ad una forma di sapere superiore rispetto a quella tradizionale del filosofo; è infine il mondo delle scienze e delle tecniche moderne, le quali, come mostra il De staticis experimentis, si basano su un accesso sperimentale alla natura e sui metodi di misurazione quantitativa della realtà. Attorno a questa nuova figura di intellettuale e al nuovo tipo di sapere che essa rappresenta Cusano, come avremo modo di vedere nel commentario, sviluppa una serie di tematiche che resteranno centrali anche nella riflessione degli anni successivi, dalla teoria della conoscenza alla filosofia del linguaggio, dalla concezione della creatività dello spirito umano alla posizione dell’uomo nel mondo e al suo rapporto con Dio.
104 Cfr. H. Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt, Frankfurt am Main 19832, tr. it. di B. Argenton, Bologna 1984, pp. 58 s.
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7. Germania e Paesi Bassi Come ho già accennato, il 1450 è stato uno degli ultimi periodi di quiete nella vita di Cusano; alla fine dell’anno sarà di nuovo in viaggio. Dopo aver ricevuto il cappello cardinalizio, il 23 marzo 1450 era stato nominato da Niccolò V vescovo di Bressanone ed il 26 aprile aveva ricevuto l’ordinazione vescovile nella basilica di San Pietro105. A Bressanone, tuttavia, Cusano farà il suo ingresso solo nell’aprile del 1452. Il 31 dicembre 1450 lascia infatti Roma106 per intraprendere un lungo viaggio in Germania e nei Paesi Bassi come legato pontificio; nella bolla ufficiale di nomina del 24 dicembre 1450 vengono indicati due compiti fondamentali per il viaggio della legazione apostolica: la predicazione dell’indulgenza giubilare per coloro che non avevano potuto recarsi a Roma per l’anno santo e la riforma della chiesa tedesca107, secondo quella che, ad avviso di Meuthen108, era stata una richiesta esplicita fatta dallo stesso Cusano. Secondo Joseph Koch, il viaggio della legazione apostolica in Germania degli anni 1451-1452 fu «il punto culminante della vita» di Cusano109. Di certo fu un’impresa enorme, che per l’epoca rappresentò un «fenomeno del tutto singolare», come ha scritto Meuthen110. Dalla sua partenza da Roma il 31 dicembre 1450 al suo arrivo a Bressanone agli inizi di aprile del 1452 Cusano è stato in viaggio complessivamente per 465 giorni e ha percorso, insieme al suo seguito composto da una trentina di persone, circa 4500 chilometri, attraversando, per lo più a dorso di un mulo, l’Austria, la Germania e i Paesi Bassi111. Non stupisce che fra le tante eredità di cui 105 106 107 108
Cfr. Acta Cusana, I/2, cit., nn. 872 e 887. Acta Cusana, I/2, cit., n. 962. Acta Cusana, I/2, cit., n. 952. Cfr. E. Meuthen, Die deutsche Legationsreise des Nikolaus von Kues 1451/52, in: H. Boockmann-B. Moeller-K. Stackmann (eds.), Lebenslehren und Weltentwürfe im Übergang vom Mittelalter zur Neuzeit. Politik, Bildung, Naturkunde, Theologie, Göttingen 1989, pp. 421-499, 444. 109 Cfr. J. Koch, Die deutsche Kardinal in deutschen Landen. Die Legationsreise des Nikolaus von Kues (1451-52), Trier 1964, p. 3. 110 Cfr. Meuthen, Die deutsche Legationsreise, cit., p. 427. 111 Cfr. D. Sullivan, Nicholas of Cusa as Reformer. The Papal Legation to the Germanies 1451-1452, «Medieval Studies», 36 (1974), pp. 382-428; E. Meuthen, Das Itinerar der deutschen Legationsreise des Nikolaus von Kues 1451-52, in: J.
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la prima età moderna è debitrice nei confronti del poliedrico intelletto di questo «homo viator» vi sia anche una delle prime carte geografiche dell’Europa centrale. Dall’enorme quantità di documenti relativi al viaggio della legazione che sono stati raccolti negli Acta Cusana112 sappiamo che Cusano e il suo seguito venivano spesso accolti con grandi fasti ed ospitati con opulenza; in molte città si radunavano folle enormi per vedere il legato papale e per ascoltare le sue prediche. Secondo la testimonianza entusiasta dell’abate benedettino di Sponheim, il celebre umanista Giovanni Tritemio, Cusano «apparve in Germania come un angelo di luce in mezzo all’oscurità e al disordine», diffondendo «in abbondanza semi di una nuova vita»113. In realtà, durante il suo viaggio la legazione apostolica incontrò ben presto forti resistenze ed aperte ostilità. È lo stesso Cusano a raccontare di come a Liegi venne accolto dalla popolazione con grande calore, ma poi l’umore cambiò rapidamente non appena iniziò a parlare di riforma della vita religiosa114. Dei due compiti che, come abbiamo visto, la bolla ufficiale del 24 dicembre 1450 aveva assegnato alla legazione apostolica, la riforma della chiesa tedesca era in effetti quello a cui Cusano attribuiva senza dubbio più importanza e nel quale profonde tutte le sue energie. Per avviare la riforma, Cusano si propone anzitutto di convocare una serie di sinodi diocesani e provinciali; già l’8 dicembre 1450 comunica all’arcivescovo di Salisburgo di essere stato nominato dal papa legato per la Germania e lo invita a convocare per il 3 febbraio un sinodo provinciale al quale avrebbero dovuto partecipare i vescovi delle diverse diocesi. Il 30 aprile Cusano convoca il sinodo diocesano di Bamberga, il 18 giugno è la volta del sinodo provinciale di Magdeburgo, al quale seguono, il 14 novembre e il 22 febbraio 1452, i sinodi di Magonza e di Colonia115. Già dagli statuti redatti per il sinodo provinciale di Salisburgo emerge con Dahlhaus-E. Wolgast (eds.), Papstgeschichte und Landesgeschichte, Köln 1995, pp. 473-502; M. Watanabe, Nicholas of Cusa. A Companion to his Life and his Times, cit., pp. 29-34, con ulteriore bibliografia. 112 Cfr. Acta Cusana, I/3 a, ed. E. Meuthen, Hamburg 1996; nn. 963-2452. 113 Cfr. Sullivan, Nicholas of Cusa as Reformer, cit., p. 383. 114 Per questo episodio, cfr. Meuthen, Nikolaus von Kues 1401-1464, cit., p. 92. 115 Cfr. Acta Cusana, I/3 b, ed. E. Meuthen, Hamburg 1996, n. 2279.
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chiarezza come Cusano si proponesse un ampio programma di riforma della chiesa tedesca116 che, nel corso della legazione, ha cercato di realizzare attraverso l’emanazione di tredici decreti, i quali prevedevano, tra le altre cose, l’invio di ispettori del legato apostolico che dovevano vigilare sulla loro attuazione. Questo progetto di riforma, che per molti aspetti intendeva essere non qualcosa di rivoluzionario, ma un’attuazione delle decisioni assunte dal concilio di Basilea, investiva tutti gli ambiti della vita della chiesa, dalla pratica liturgica all’amministrazione economica, dalla condotta morale del clero, alla vita degli ordini monastici117. Sin dagli statuti del sinodo di Salisburgo, nei quali, tra le altre cose, si prescriveva ai parroci di predicare regolarmente sui contenuti fondamentali della dottrina cristiana, Cusano si è inoltre impegnato in modo intenso nella formazione religiosa dei laici. A questo riguardo, oltre all’attività di predicazione che, durante il viaggio della legazione, Cusano svolse con ammirevole regolarità118, l’iniziativa forse più nota, in quanto unica nel suo genere, fu quella dei cosiddetti «catechismi murali», i grandi pannelli di legno che Cusano fece affiggere nelle chiese, e nei quali erano riportati, scritti in tedesco, i testi del credo, dei dieci comandamenti e di alcune preghiere119. Unitamente al progetto di riforma della vita ecclesiale, Cusano ha cercato anche di contrastare quelle espressioni più diffuse della religiosità tardo-medievale che non di rado sfociavano in vere e proprie forme di superstizione e di idolatria. L’esempio forse più significativo in questo senso è quello del «miracolo delle ostie sanguinanti», di cui Cusano vietò il culto con un apposito decreto120. Il decreto venne emanato per la prima volta il 15 luglio 1451 a Halberstadt e poi venne rinnovato ad Hildesheim, Minden e Mainz121. Con esso Cusano aveva di mira anzitutto il «miracolo delle ostie» 116 117 118 119
Cfr. Acta Cusana, I/3 a, cit., n. 1000. Cfr. Euler, Die Biographie des Nikolaus von Kues, cit., pp. 63-65. Cfr. Meuthen, Nikolaus von Kues 1401-1464, cit., pp. 129 ss. Cfr. H.J. Rieckenberg, Die Katechismus-Tafel des Nikolaus von Kues in der Lamberti-Kirche zu Hildesheim, «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters», 39 (1983), pp. 555-581. 120 Cfr. Acta Cusana, I/3 a, cit., n. 1454. 121 Cfr. Meuthen, Die deutsche Legationsreise, cit., p. 486.
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di Wilsnack, nel nord del Brandeburgo, attorno al quale si era venuto formando un sorprendente e lucroso movimento popolare di pellegrini da tutta Europa122. Non è chiaro se Cusano si sia recato personalmente a Wilsnack per verificare l’autenticità del miracolo delle ostie sanguinanti; ciò che è certo è che ne proibì il culto, sostenendo che favoriva solo l’avidità di denaro del clero ed oscurava il vero significato spirituale del sacramento dell’eucarestia123. Il decreto di Cusano ebbe una vita molto breve. Il vescovo di Havelberg, nella cui diocesi si trovava Wilsnack, e il clero locale si appellarono al papa; il 12 marzo 1453 Niccolò V annullò il decreto di Cusano e i pellegrinaggi verso Wilsnack, con il loro lucroso giro d’affari, vennero riabilitati dalla chiesa124. L’insuccesso di Wilsnack non fu il solo. Già dal sinodo di Salisburgo era emerso chiaramente come il clero non avesse alcun interesse per la grande riforma della vita della chiesa che aveva in mente Cusano125, il quale non riuscì pertanto a rendere operanti i suoi provvedimenti. Lo stesso accadde, con rare eccezioni, nelle altre sedi vescovili; molti furono i ricorsi all’autorità papale, energica fu anche l’opposizione degli ordini mendicanti, i quali sostenevano di non essere sottoposti al potere del legato apostolico126. E di fronte alle crescenti resistenze che incontrava la sua azione per la riforma della chiesa tedesca Cusano reagì spesso con un richiamo inflessibile all’osservanza disciplinare dei decreti e delle norme127 che non 122 Cfr. Watanabe, Nicholas of Cusa. A Companion to his Life and his Times, cit., p. 318. 123 Cfr. H. Boockmann, Der Streit um das Wilsnacker Plut, «Zeitschrift für historische Forschung», IX (1982), pp. 388-408; M. Watanabe, The German Chruch Shortly Before the Reformation: Cusanus and the Veneration of the Bleeding Hosts at Wilsnack, in: Id., Concord and Reform. Nicholas of Cusa and Legal and Political Thought in the Fifteenth Century, cit., pp. 117-131. 124 Cfr. Acta Cusana, II/1, d. H. Hallauer-E. Meuthen-J. Helmrath-Th. Woelki, Hamburg 2012, n. 3209. 125 Cfr. Acta Cusana, I/3 a, cit., n. 1004. 126 Cfr. E. Meuthen, Nikolaus von Kues und die deutsche Kirche am Vorabend der Reformation, cit. , p. 74. 127 Cfr. Acta Cusana, II/1, cit., n. 2801, dove viene riportata una lettera di un monaco del monastero di Tegernsee che Cusano aveva inviato come visitatore in alcuni monasteri benedettini della provincia di Salisburgo; in questa lettera il monaco di Tegernsee, citando anche papa Gregorio Magno, fa osservare a Cusa-
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di rado finì per inasprire i conflitti, più che contribuire a risolverli128. «Malauguratamente», come osservava Edmond Vansteenberghe, la straordinaria figura di filosofo e di teologo che fu Cusano non riuscì sempre «a far tacere il giurista che era presente in lui»129. La sua azione poté raggiungere dei risultati là dove poté collegarsi a «delle correnti di riforma già in atto», come ha osservato Joseph Koch130; in questo senso, le iniziative di Cusano trovarono un sostegno nei centri della riforma monastica del XV secolo, come i monasteri benedettini di Melk e di Tegernsee. Con quest’ultimo, in particolare, Cusano avrà una consonanza d’intenti e di aspirazioni, attestata dalla ricca corrispondenza con il priore Bernhard di Waging e con l’abate Gaspar Aindorffer, alla quale è dovuta anche la genesi delle due opere più importanti del periodo di Bressanone, il De visione dei e il De beryllo. Per il resto, tuttavia, nel corso dei due anni in cui percorse in lungo e in largo la Germania, Cusano non riuscì ad attuare nessuna riforma generale della chiesa tedesca.
8. Bressanone Come abbiamo visto, il 23 marzo 1450 Niccolò V aveva nominato Cusano vescovo di Bressanone. Durante il viaggio che, dal 31 dicembre di quell’anno, lo aveva condotto come legato pontificio da Roma a Salisburgo, Cusano aveva tuttavia evitato di passare per il territorio della sua nuova diocesi; era giunto in Austria attraverso Tarvisio e Spittal. La situazione a Bressanone non era infatti delle più pacifiche; il capitolo del duomo si era opposto alla nomina papale e aveva eletto come vescovo il canonico Leonhard Wiesmayer, che era stato cancelliere e consigliere del conte del Tirolo, il duca Sigismondo d’Austria. La disputa sull’elezione del nuovo vescovo si era composta solo nel marzo 1451 e Cusano aveva potuto prendere no che un’insistenza rigorosa sul diritto senza tener conto di una gradualità nella sua applicazione è destinata solo al fallimento: «Plerumque iusticia, si modum non habet, in crudelitatem mutatur». 128 Cfr. M. Watanabe, Nicholas of Cusa and the Tyroles Monasteries. Reform and Resistence, in: Id., Concord and Reform, cit., pp. 133-153, 138, 151-152. 129 Cfr. Vansteenberghe, Le cardinal Nicolas de Cues, cit., p. 164. 130 Cfr. Koch, Der deutsche Kardinal in deutschen Landen, cit., p. 27.
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possesso della sede vescovile nell’aprile dell’anno successivo. Nonostante l’accordo raggiunto, le circostanze della nomina del nuovo vescovo preludevano a tutte le difficoltà a cui Cusano sarebbe andato incontro durante il periodo bressanonense (1452-1458). Gli anni trascorsi in Tirolo saranno in effetti tra i più turbolenti della vita di Cusano, caratterizzati da continue controversie, da inutili sforzi per riformare i conventi, da conflitti diplomatici e persino militari. Eppure, per un’ironia della storia, il periodo di Bressanone si era aperto con uno scritto dedicato alla pace, all’intesa e alla concordia tra gli uomini. Questo scritto è il De pace fidei, un’opera con la quale inizia per molti versi la storia dell’idea di tolleranza in età moderna e che avrà un’ampia e singolare recezione nei secoli successivi: nel corso del XVI e del XVII secolo verrà ripetutamente letta, commentata e in parte tradotta, in modo particolare negli ambienti protestanti, e ancora verso la fine del XVIII secolo Lessing, mentre era impegnato nella stesura del suo Nathan il saggio, si adopererà per una nuova edizione dell’opera cusaniana131. Cusano scrive il De pace fidei nel settembre 1453. Qualche mese prima, 29 maggio 1453, il sultano Maometto II, alla testa di un esercito di 160.000 uomini e munito della più avanzata tecnologia dell’epoca, aveva conquistato Costantinopoli, ponendo in questo modo fine ad una situazione politica e culturale che durava da più di 1100 anni. La notizia della caduta di Costantinopoli si era diffusa rapidamente in Occidente e aveva suscitato un vero e proprio trauma nell’elite politica e intellettuale: in essa si vedeva il preludio ad un imminente scontro di civiltà che avrebbe condotto alla distruzione del cristianesimo132. Come scriveva il 25 Settembre 1453 131
Cfr. a questo proposito R. Klibansky, Die Wirkungsgeschichte des Dialogs “De pace fidei”, in: R. Haubst (ed.), Der Friede unter den Religionen nach Nikolaus von Kues, MFCG, 16 (1984), pp. 113-125. 132 Le testimonianze dei contemporanei e le loro reazioni alla caduta di Costantinopoli sono state raccolte da Agostino Pertusi, La caduta di Cosatntinopoli. Vol. I: Le testimonianze dei contemporanei. Vol. II: L’eco del mondo, Mondadori, Milano 1976. Si veda anche E. Meuthen, Der Fall von Konstantinopel und der lateinische Westen, MFCG, 16 (1984), pp. 35-60. Come ha scritto Cesare Vasoli, L’ecumenismo di Nicolò Cusano, «Archivio di Filosofia», 3 (1964), pp. 9-52, «voci apocalittiche, previsioni di imminenti catastrofi, prognostici astrologici che indicavano nel libro del cielo segni premonitori della nuova fortuna della lex Alco-
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Enea Silvio Piccolomini al suo amico Leonardo Benvoglienti, ambasciatore senese presso la Serenissima: «Padroni dell’universo furono già gli itali, ora ha inizio l’impero dei turchi». Sull’onda della paura suscitata nel mondo cristiano dalla caduta della «sacra capitale d’Oriente», della «seconda Roma», il papato veniva sollecitato da più parti a preparare un’azione militare comune dell’Occidente. In questo contesto, il 21 luglio Enea Silvio Piccolomini aveva inviato una lettera anche a Cusano per esortarlo a sostenere la preparazione della crociata contro i turchi; i toni di Piccolomini erano stati ancora una volta apocalittici: i turchi venivano descritti come un popolo crudele, nemico della civiltà, che, se non contrastato militarmente, avrebbe condotto ad «una seconda morte per Omero, per Pindaro, per Menandro e per tutti i più famosi poeti» e avrebbe prodotto «l’ultima distruzione dei filosofi greci»133. Cusano, che era stato raggiunto dalla notizia della caduta di Costantinopoli il 28 giugno, sulla strada che lo riportava da Roma a Bressanone, risponde all’appello alla guerra santa componendo un’opera dedicata al dialogo e alla concordia delle religioni. Un’opera nella quale immagina sotto forma di una visione un concilio celeste di tutti i rappresentanti delle diverse tradizioni religiose. Il concilio si apre con un discorso di Dio, il quale dice di aver udito il gemito degli uccisi, di coloro che sono stati resi schiavi e soffrono a motivo dei conflitti religiosi e di aver deciso pertanto di affidare ai rappresentanti delle diverse religioni il compito di realizzare un accordo che ponga fine alle loro guerre ed assicuri una «pace perpertua» della fede134. rani in quei mesi, e poi ancora nei mesi e negli anni immediatamente seguenti» contribuirono ad accrescere i timori e le ansie che si stavano diffondendo in tutta la cristianità; «se uomini di religione, monaci e profeti traevano dall’annunzio della caduta della “seconda Roma” conforto alle più nere previsioni sul destino di Roma e della Chiesa, e nuovamente parlavano della venuta dell’Anticristo, prelati e uomini di curia temevano per le ricche decime delle terre danubiane e balcaniche, mercanti e armatori vedevano ormai in pericolo le colonie e i mercati del vicino Oriente e il mondo germanico sentiva gravare sul progressivo sfacelo del Sacro Romano Impero il peso di una minaccia insostenibile». 133 Cfr. Enea Silvio Piccolomini, Epistola 112 ad Nicolaum de Cusa cardinalem, in: Der Briefwechsel des Eneas Silvius Piccolomini, III/1, Wien 1918, pp. 204205. 134 Cfr. De pace fidei, III 9, 12 ss.
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Per un’ironia della storia, come dicevo, all’idea del dialogo e della pace che, pochi mesi dopo il suo ingresso nella sua sede vescovile, Cusano aveva teorizzato in una delle sue opere più note e lette, corrisponderanno a Bressanone anni di lotte e di aspri conflitti, non esenti anche da qualche espisodio di sangue. Cusano era giunto a Bressanone nell’aprile del 1452, durante la settimana santa. Il 7 aprile aveva tenuto la sua prima predica nella cattedrale. La disputa sull’elezione del nuovo vescovo si era conclusa l’anno precedente a Salisburgo con un accordo che ratificava la scelta del papa135; come ha osservato Meuthen, è probabile che gli avversari di Cusano pensassero che il famoso cardinale non avrebbe risieduto personalmente a Bressanone, ma avrebbe considerato il vescovado come uno dei suoi tanti benefici136. Tra l’aprile 1452 e il settembre 1458 Cusano, invece, trascorrerà la maggior parte del suo tempo nella sua diocesi137, e il conflitto si riaccese immediatamente quando il nuovo vescovo pose mano all’amministrazione dei beni ecclesiastici. Del resto, come ha scritto Tillinghast, la scelta del papa era stata considerata non solo come illegittima, come si era espresso il capitolo del duomo nel gennaio 1451138; dall’aristocrazia tirolese era stata vista come un vero e proprio «atto di guerra»139, e non solo per le origini borghesi di Cusano. La contea del Tirolo, che dal 1363 era retta dalla famiglia degli Asburgo, alla quale apparteneva il duca Sigismondo, si era venuta formando attraverso l’acquisizione da parte della nobiltà tirolese di molti dei territori, delle proprietà e dei diritti che erano originariamente appartenuti alla diocesi di Bressanone. L’intento del papa era chiaramente quello di porre un argine a questo processo di secolarizzazione dei beni ecclesiastici, che aveva già condotto le diocesi vicine di Coira 135 136 137
Cfr. Acta Cusana, I/3 a, cit., nn. 1103-1105. Cfr. Meuthen, Nikolaus von Kues 1401-1464, cit., p. 101. Cfr. G. Mutschlechner, Itinerar des Nikolaus von Kues für den Aufenthalt in Tirol (1452-1460), in: N. Grass (ed.), Cusanus-Gedächtnisscrift im Auftrag der Rechts-und Staatswissenschaftlichen Fakultät der Universität Innsbruck, Innsbruck 1970, pp. 525-534. 138 Cfr. Acta Cusana, I/3 a, cit., n. 1103. 139 Cfr. P.E. Tillinghast, Nicholas of Cusa vs. Sigismund of Habsburg. An Attempt at Post-Conciliar Church Reform, «Church History», 36 (1967), pp. 371-390, 377.
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e di Trento sotto il controllo del duca d’Austria; e in Cusano, come si espresse Niccolò V, aveva trovato «un uomo virtuoso che avrebbe potuto difendere i diritti e i privilegi della chiesa del Tirolo»140. Sin dal suo arrivo a Bressanone, uno degli intenti fondamentali di Cusano è in effetti quello di riaffermare i diritti del vescovado e di ristabilire l’indipendenza della diocesi. A questo scopo, attua un risanamento economico della chiesa di Bressanone, che si trovava in una condizione pressoché disastrosa. Nel giro di due anni, attraverso una gestione oculata dei beni e delle proprietà della diocesi, un’organizzazione efficiente e talvolta inflessibile del sistema delle decime, Cusano riesce a sanare la situazione debitoria del vescovado ed inizia a riacquistare quanto, nel corso dei decenni precedenti, era stato ipotecato, fino a giungere, nel marzo 1456, a concedere un ingente prestito allo stesso duca Sigismondo, sempre alle prese con difficoltà finanziarie. A questa attività economica Cusano affianca un ampio lavoro storico su una serie di documenti legali e di fonti normative volto a rivendicare il ripristino dei diritti territoriali del vescovo di Bressanone; «il suo cavallo di battaglia – come ha scritto Hallauer – Cusano lo vide ancora una volta nelle amate pergamene, negli antichi codici, nelle lettere e nei sigilli»141. Negli archivi arcivescovili, che inizia a riordinare sin dal suo arrivo a Bressanone, Cusano trova una moltitudine di documenti che attestavano come, nel corso dell’ultimo secolo, la diocesi di Bressanone fosse stata privata di molti dei suoi possedimenti; sulla base di queste ricerche, che sintetizza in una serie di studi e di memorie, Cusano inizia a rivendicare la restituzione di proprietà terriere, di antichi feudi, di miniere e castelli, che, «de iure», appartenevano alla diocesi, ma che, nel corso dei decenni, erano stati «de facto» acquisiti dai reggenti del Tirolo e dalle nobili famiglie locali. Secondo Hallauer, Cusano non pensava che si potessero in questo modo riportare le lancette della storia indietro di un secolo, ma intendeva dimostrare come le richieste che egli andava avanzando fossero in realtà 140 Citato in M. Watanabe, Monastic Reform in the Tyrol and «De visione Dei», in: Piaia (ed.), Concordia discors, cit., pp. 181-197, 182. 141 Cfr. H.J. Hallauer, Nikolaus von Kues Bischof von Brixen 1450-1464. Gesammelte Aufsätze, Bozen 2002, p. 46.
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molto più modeste rispetto a quanto sarebbe spettato di diritto alla sua diocesi142. Agli occhi dell’aristocrazia tirolese le cose apparvero tuttavia diversamente, ed iniziarono a circolare, in modo sempre più insistente, minacce di morte nei confronti del vescovo143. Il risanamento economico della diocesi e la rivendicazione dei suoi antichi diritti territoriali non sono tuttavia gli unici obiettivi che Cusano persegue durante gli anni trascorsi in Tirolo. A Bressanone Cusano dedica una buona parte del suo tempo e delle sue energie all’attività pastorale e alla riforma della vita ecclesiale. Secondo Meuthen, nessun vescovo del suo secolo si è occupato della sua diocesi con tanta serietà pastorale come fece Cusano144. In questo senso, una cura particolare viene dedicata da Cusano alla predicazione, che svolge regolarmente nella cattedrale di Bressanone, in un modo del tutto inusuale per la sua epoca145. Ma negli anni che trascorre nella sua sede vescovile Cusano cerca soprattutto di realizzare quella riforma della istituzioni ecclesiastiche e della vita religiosa che aveva a lungo perseguito nel corso della sua legazione in Germania e nei Paesi Bassi. Come ha scritto Vansteenberghe, l’intento di Cusano era quello di fare di Bressanone «una diocesi modello» e una «cittadella della virtù» posta al confine culturale tra la Germania e l’Italia146. In questo senso, si adopera per attuare quel programma di riforma della chiesa che aveva esposto nei decreti emanati durante il suo viaggio in Germania e che, come abbiamo già avuto modo di vedere, riguardava tutti gli ambiti della vita ecclesiale, dalla pratica liturgica alla condotta morale del clero, dalla formazione dei laici alla lotta contro le forme più diffuse di superstizione. Per promuovere questo piano di riforma, Cusano convoca, a partire dal 1453, quattro sinodi provinciali, programma nel 1455 una visita generale della diocesi, che viene fatta precedere dall’invio alle parrocchie di un dettagliato questionario relativo alla vita 142 Cfr. Hallauer, Nikolaus von Kues Bischof von Brixen, cit., p. 70. 143 Cfr. J. Gelmi, «Des Lebens nicht mehr sicher». Attentate auf Kardinal Niko-
laus Cusanus in Tirol, «Konferenzblatt für Theologie und Seelsorge», 106 (1996), pp. 226-235. 144 Cfr. Meuthen, Nikolaus von Kues 1401-1464, cit., p. 111. 145 Cfr. Euler, Die Biographie des Nikolaus von Kues, cit., p. 83. 146 Cfr. Vansteenberghe, Le cardinal Nicolas de Cues, cit., p. 138.
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dei sacerdoti e dei fedeli147, e suddivide poi la diocesi in tre zone collegiali, ciascuna delle quali viene fatta presiedere da un legato vescovile incaricato di visitare la zona a lui assegnata per l’attuazione delle decisioni sinodali. Come nel corso della sua legazione in Germania, Cusano, tuttavia, impiega gran parte delle sue energie per riformare i monasteri della sua diocesi, incontrando le stesse difficoltà e gli stessi ostacoli che aveva sperimentato negli anni precedenti, e che solo in alcuni casi resce a superare148, nonostante i poteri speciali che, il 12 maggio 1453, aveva ottenuto da Roma su alcuni dei conventi più importanti del Tirolo149. Le resistenze più forti Cusano le incontra nel suo tentativo di riformare il monastero di Sonnenburg, presso S. Lorenzo di Sebato in Val Pusteria, di cui dal 1440 era badessa Verena von Steuben. L’abbazia di Sonnenburg era ufficialmente un monastero benedettino, nel quale, tuttavia, venivano di fatto sistemate le giovani nobili delle famiglie più in vista del Tirolo, che destinavano alla vita conventuale le loro figlie non sposate150. Quando Cusano invia a visitare l’abbazia il priore del monastero benedettino di Tegernsee, Bernhard di Waging, questi riferisce stupefatto che le suore di Sonnenburg non avevano alcuna idea di come si dovesse vivere secondo la regola benedettina e che non avevano alcuna intenzione di farlo151; non osservavano la clausura prevista per i conventi benedettini, abitavano in quartieri riservati e disponevano di patrimoni personali, partecipavano alle feste popolari, visitavano case di cura, presenziavano ai matrimoni, ricevevano i loro parenti nella massima libertà152. Per anni Verena von Steuben, 147 Cfr. Brixener Dokumente, 1. Sammlung, Akten zur Reform des Bistums Brixen, herausg. von H. Hürten, Heidelberg 1960, pp. 23-32, 52-57. 148 Cfr. W. Baum, Nikolaus von Kues in Tirol. Das Wirken des Philosophen und Reformators als Fürstbischof von Brixen, Bozen 1983, p. 122; Watanabe, Nicholas of Cusa and the Tyrolese Monsateries, cit. 149 Cfr. Acta Cusana, II/1, cit., n. 2535. 150 Cfr. K. Spahr, Nikolaus von Kues, das adelige Frauenstift Sonnenburg OSB und die mittelalterliche Nonnenklausur, in: Grass (ed.), Cusanus-Gedächtnisscrift, cit., pp. 307-326. 151 Cfr. W. Baum-R. Senoner (eds.), Nikolaus von Kues. Briefe und Dokumente zum Brixner Streit, vol. 1, Vienna 1998, pp. 112-118. 152 Cfr. Hallauer, Nikolaus von Kues Bischof von Brixen, cit., pp. 249 ss.
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sostenuta dall’aristocrazia tirolese e dal duca Sigismondo, si oppone alla riforma del monastero voluta da Cusano, anche perché l’osservanza della clausura avrebbe di fatto impedito l’amministrazione delle estese proprietà feudarie dell’abbazia, che venivano gestite direttamente dalla badessa. Il 4 settembre 1455 Cusano colpisce con l’interdetto il monastero, proibendo in questo modo ogni funzione religiosa153. Le suore si appellano al nuovo papa Callisto III, il quale, l’11 dicembre 1455, invita Cusano a cercare una composizione diplomatica del contenzioso con Sonnenburg154. Dopo due anni di infruttuose trattative, il conflitto si conclude tragicamente con la cosiddetta «battaglia di Enneberg» (Marebbe), nella quale, il 5 aprile 1458, muoiono circa cinquanta soldati arruolati dalla badessa Verena von Steuben per riscuotere con la forza le decime dai locali contadini. Le fonti e i documenti di cui disponiamo non consentono di ricostruire con chiarezza la vicenda, della quale sono state date due versioni differenti155; secondo una versione, l’esercito arruolato da Verena e comandato da suo cognato, Jobst von Hornstein, sarebbe stato assalito e sconfitto dal capitano vescovile Gabriel Prack; secondo un’altra versione, i contadini di Enneberg, esasperati dalle vessazioni a cui erano sottoposti da parte dei soldati del monastero, li avrebbero attirati in una trappola facendo precipitare su di loro una slavina di pietre, provocando la morte dei cinquanta mercenari. Sebbene le truppe di Sigismondo fossero pronte ad intervenire, il conflitto con l’abbazia di Sonnenburg viene risolto alla fine di agosto del 1458, grazie anche alla mediazione del vescovo di Trento, Georg Hack: liberato il monastero dall’interdizione, nell’aprile 1459 Verena von Steuben rinuncia definitivamente al titolo di badessa e lascia il convento, dove si insedia come nuova badessa Barbara Schöndorffer del monastero di Nonnberg presso Salisburgo. La lotta per la riforma del monastero di Sonnenburg si concluse con una piccola vittoria per Cusano, ottenuta, tuttavia, ad un prezzo molto alto, al di là delle responsabilità che le truppe vesco153 154 155
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Cfr. Baum, Nikolaus von Kues in Tyrol, cit., p. 184. Cfr. Baum, Nikolaus von Kues in Tyrol, cit., p. 185. Cfr. Hallauer, Nikolaus von Kues Bischof von Brixen, cit., pp. 129-154.
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vili possono aver avuto nella «battaglia di Enneberg». Negli anni successivi, Cusano sosterrà più volte che il conflitto con Verena von Steuben, gestito con la stessa intransigenza di cui aveva dato prova durante il suo viaggio per la riforma in Germania, era stato uno dei motivi fondamentali che avevano condotto alla conclusione la sua esperienza di vescovo di Bressanone156. Certamente, il conflitto con Sonnenburg contribuì ad inasprire i rapporti con l’aristocrazia tirolese e con Sigismondo, con il quale le relazioni si erano ulteriormente deteriorate quando il duca d’Austria era venuto a conoscenza dell’intenzione di Cusano di cedere il vescovado di Bressanone ad un principe della dinastia rivale dei Wittelsbach di Baviera. Dal 4 luglio 1457 Cusano aveva lasciato la città di Bressanone, dove non si sentiva più al sicuro. Qualche giorno prima aveva incontrato Sigismondo nel monastero di Wilten, alla periferia di Innsbruck, la capitale dove risiedeva il duca d’Austria. Le gravi intimidazioni subite dagli uomini del duca e le voci di un complotto per assassinarlo che lo raggiunsero sulla via del ritorno, avevano convinto Cusano a rifugiarsi nel castello di Andraz (Buchenstein), al confine della sua diocesi. Nel castello di Andraz, che gli assicurava una facile via di fuga verso Belluno e Venezia, Cusano rimarrà fino a settembre 1458; ed anche qui, a 1700 metri di altezza sulle Dolomiti, Cusano continua ad essere infaticabilmente attivo: rende nota la sua situazione a papa Callisto III, che, l’11 settembre 1457, minaccia il duca Sigismondo d’infliggere l’interdizione sui suoi territori157, compie un viaggio, nell’aprile 1458, a Veldes, nell’attuale Slovenia, per rivendicare ancora una volta gli antichi diritti della chiesa di Bressanone su quel territorio, ed è nel «deserto» di Andraz, come Cusano lo definiva158, che egli compone, nel 1458, uno dei suoi scritti filosoficamente più complessi, il De beryllo.
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Cfr. Hallauer, Nikolaus von Kues Bischof von Brixen, cit., p. 237. Cfr. Baum-Senoner, Nikolaus von Kues. Briefe und Dokumente, cit., pp. 312-321. 158 Cfr. J. Koch, Nikolaus von Kues als Mensch nach dem Briefwechsel und persönlichen Aufzeichnungen, in: J. Koch (ed.), Humanismus, Mystik und Kunst in der Welt des Mittelalters, Leiden 1959, pp. 56-75, 75.
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9. Brunico Nel settembre 1458 Cusano lascia Andraz per recarsi a Roma ad incontrare Enea Silvio Piccolomini, che era stato da poco eletto papa come Pio II. Cusano e Piccolomini si conoscevano dai tempi del concilio di Basilea e, nonostante la differenza di carattere, nutrivano una profonda stima reciproca. Negli anni precedenti, Piccolomini aveva scritto più volte a Cusano supplicandolo di lasciare le nevi e le oscure valli del Tirolo159; come molti studiosi del secolo scorso, anche Piccolomini riteneva che un grande filosofo e teologo come Cusano sprecasse le sue energie in una diocesi sperduta nelle Alpi. Quando nel castello di Andraz gli giunse la notizia dell’elezione del nuovo papa, è probabile che Cusano abbia ripensato agli inviti che Piccolomini gli aveva rivolto. In ogni caso, subito dopo il suo arrivo a Roma, Pio II, come vedremo fra breve, assegnò a Cusano importanti incarichi, per cui, un suo rapido ritorno a Bressanone non sembrava possibile. Invece, il 3 febbraio 1460, dopo aver incontrato Sigismondo a Mantova, Cusano fa improvvisamente ritorno nella sua diocesi; per quale motivo l’abbia fatto non è chiaro, né è chiaro quanto a lungo intendesse rimanere a Bressanone. Secondo Meuthen, da una lettera di Barbara di Brandeburgo a suo marito Ludovico Gonzaga si evince che Cusano intendeva far ritorno nella curia romana per la pentecoste160. Sarà invece costretto ad abbandonare la sua diocesi molto prima; alla fine di marzo, infatti, gli eventi precipitano. Giunto a Brunico, Cusano aveva convocato per la settimana santa un’assemblea del clero diocesano nel corso della quale aveva minacciato di trasferire tutti i domini feudali della chiesa di Bressanone all’imperatore Federico, per colpire in questo modo le ambizioni di Sigismondo, che mirava a realizzare un’autonomia politica in Tirolo. La minaccia disperata di Cusano viene considerata dal duca d’Austria come un atto di guerra; il giorno di Pasqua Sigismondo attacca con il suo esercito Brunico e due giorni dopo fa il suo ingresso in città. Segregato per una settimana nel castello di Brunico, Cusano è costretto a sottoscrivere 159
Cfr. E. Meuthen, Die letzten Jahre des Nikolaus von Kues. Biographische Untersuchungen nach neuen Quellen, Köln 1958, p. 15. 160 Cfr. Meuthen, Die letzen Jahre, cit., p. 56.
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un umiliante trattato nel quale, di fatto, cede a tutte le richieste del duca d’Austria161. Rimesso in libertà, Cusano sconfessa immediatamente il trattato e lascia la sua diocesi, diretto di nuovo a Roma. Gli eventi di Brunico posero fine in maniera drammatica all’esperienza di Cusano come vescovo di Bressanone162. In una lettera al suo amico Johannes von Eych, vescovo di Eichstätt, Cusano indicherà la ragione fondamentale del suo fallimento nel fatto di aver consumato molte delle sue energie per difendere il prestigio e il potere della chiesa e di aver fatto invece troppo poco per i poveri163. Dopo gli anni travagliati di Bressanone, nonostante i conflitti, le delusioni e le sconfitte, Cusano continuò tuttavia nella sua «vita activa». Già da diversi anni si era fatto riservare nel monastero dei suoi amici benedettini di Tegernsee una cella per trascorrere la sua vecchiaia164; quella cella non l’occuperà mai, ma fino agli ultimi giorni della sua vita continuerà ad essere fedele al suo impegno politico ed ecclesiale.
10. Roma Ad eccezione del breve soggiorno nella sua diocesi fra il febbraio e l’aprile del 1460, Cusano trascorse gli ultimi sei anni della sua vita a Roma. Abitò nel palazzo papale, in una condizione di relative ristrettezze economiche, in quanto non poteva più contare sui proventi della diocesi di Bressanone. Com’era già accaduto durante il suo viaggio in Germania come legato pontificio, la sua sobrietà e il suo stile di vita divennero in qualche modo famosi, soprattutto se paragonati con lo sfarzo e l’opulenza di molti altri cardinali165. Nelle sue Vite di uomini illustri del XV secolo, Vespasiano da Bisticci scriverà di Cusano che «fu degnissimo uomo, grandis161 Cfr. Hallauer, Nikolaus von Kues Biscof von Brixen, cit., pp. 181-185. 162 Nell’agosto 1460 Pio II scomunicò Sigismondo; quattro anni più tardi
si giunse ad un accordo: Cusano sarebbe rimasto vescovo di Bressanone, ma non avrebbe esercitato le sue funzioni. Nell’estate del 1464 morirono sia Cusano che Pio II, e Sigismondo d’Austria venne riaccolto nella chiesa. 163 Per il testo della lettera, cfr. Hallauer, Nikolaus von Kues Bischof von Brixen, cit., p. 31. 164 Cfr. Meuthen, Nikolaus von Kues, cit., p. 80. 165 Cfr. Meuthen, Die letzen Jahre des Nikolaus von Kues, cit., p. 88.
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simo filosofo e teologo e grande platonista [...]. Furono l’opere sua di grandissima riputazione. La pompa né la roba non stimò nulla. Fu poverissimo cardinale e non si curò d’avere. Fu di buonissimo esempio in tutte l’opere sua»166. Sin dal suo arrivo a Roma, a Cusano venne affidato dal nuovo papa il compito di sovraintendere quale «legatus urbis» al governo degli Stati della Chiesa durante lo svolgimento del Congresso di Mantova, che Pio II aveva convocato per convincere i principi europei a prendere parte alla crociata che egli voleva condurre contro i turchi. Questo era uno degli obiettivi fondamentali che Pio II voleva perseguire durante il suo pontificato. Da quando il sultano Moametto II aveva conquistato la città di Costantinopoli il 29 maggio 1453, la crociata contro i turchi era diventata per il nuovo papa una sorta di ossessione. Come emerge chiaramente dalla lettera che aveva scritto a Cusano il 21 luglio 1453, già prima del suo pontificato Piccolomini vedeva nell’avanzata dei turchi una minaccia all’esistenza stessa dell’occidente cristiano, che andava contrastata con ogni mezzo. Sappiamo che, alla lettera di Piccolomini, Cusano aveva risposto componendo, nel settembre 1453, il De pace fidei, nel quale aveva mostrato l’evitabilità delle guerre di religione. Secondo Erich Meuthen, richiamato Cusano a Roma, Pio II si attendeva da lui un forte sostegno al suo progetto di una nuova crociata167. È difficile capire su che cosa potesse fondarsi una tale aspettativa; certamente, nella Cribratio Alkorani, che Cusano compone nell’inverno fra il 1460 e il 1461, i giudizi sull’Islam sono espressi in termini più negativi rispetto alle posizioni sostenute nel 1453, ma in nessuno degli scritti o dei sermoni di Cusano è in ogni caso possibile trovare nulla che sia lontanamente paragonabile agli appelli alle armi lanciati da Enea Silvio Piccolo166
Vespasiano da Bisticci, Le vite, edizione critica con introduzione e commento di A. Greco, Firenze 1970, I, p. 185; «È chiaro – come ha scritto Vasoli – che il suo schietto volgare di popolano riecheggia giudizi e opinioni ascoltate in quegli ambienti dotti fiorentini e romani così familiari al celebre amanuense e libraio, umile amico di Niccolò V, ma anche ben partecipe e a suo modo narratore di tante vicende della storia intellettuale quattrocentesca» (C. Vasoli, Niccolò Cusano e la cultura umanistica fiorentina, in: Thurner, Nicolaus Cusanus zwischen Deutschland und Italien, cit., pp. 75-90, 75) 167 Cfr. Meuthen, Die letzen Jahre, cit., p. 53.
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mini, il quale già un mese dopo la sua elezione aveva convocato per l’estate del 1459 il convegno di Mantova, che avrebbe dovuto mobilitare la cristianità contro i turchi. Prima di lasciare Roma, l’11 dicembre 1458 il nuovo papa aveva nominato Cusano «legatus urbis» e l’11 gennaio 1459 vicario generale «in temporalibus» per il governo della città di Roma e di una parte degli stati della chiesa168. Nella bolla di nomina, a Cusano veniva affidato espressamente il compito della riforma della curia alla quale Pio II si era impegnato al momento della sua elezione. Come d’abitudine, Cusano si mette all’opera immediatamente; nel gennaio 1459 compie una visitazione ai canonici della Basilica di S. Pietro, e poi alle Basiliche di S. Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore; nel febbraio 1459 convoca un sinodo generale del clero romano e nello stesso anno redige un ampio piano di riforma della Curia, la Reformatio generalis169. Il piano proposto da Cusano è articolato in tre parti e prevede anzitutto che la riforma della chiesa inizi dal vertice. Anche il potere del papa, infatti, dev’essere utilizzato per l’edificazione del corpo della chiesa; in questo senso, il papa dev’essere come l’occhio che scruta qual è il bene della chiesa e lo promuove responsabilmente. Ma anche gli occhi, che devono essere la luce del corpo, possono essere oscurati dallo spirito di dominio, dall’avarizia e da altri abusi, per cui è necessario che anche il papa e i cardinali siano soggetti a dei «visitatori» incaricati di purificare e riformare la chiesa. Le «visite» devono essere condotte sulla base di quattordici regole che Cusano espone in modo dettagliato nella seconda parte della Reformatio, dove riprende anche alcuni dei decreti di riforma che aveva cercato di attuare nel168 Cfr. Meuthen, Die letzen Jahre, cit., pp. 143 ss. 169 La Reformatio generalis è edita in: Nicolai de Cusa opera omnia, vol. XVI/2:
Opuscula ecclesiastica. Epistula ad Rodericum Sancium et Reformatio generalis, ed. H.-G. Senger, Hamburg 2008, pp. 19-61. Una traduzione italiana è stata curata da Andrea Di Giampaolo e compare in appendice alla sua tesi di laurea magistrale: «Ad primam formam reducere». Filosofia e riforma nel pensiero di Niccolò Cusano, Università degli Studi G. D’Annunzio di Chieti-Pescara, a.a. 2015-2016, pp. 108-154. Sulla Reformatio, cfr. M. Watanabe, Nicholas of Cusa and the Reform of the Roman Curia, in: Id., Concord and Reform, cit., pp. 169-185; J. Dendorfer, Die Reformatio generalis des Nikolaus von Kues, in: T. Frank-N. Winkler (eds.), Renovatio et unitas. Nikolaus von Kues als Reformer, Göttingen 2012, pp. 137-155.
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la diocesi di Bressanone e nel corso della sua legazione in Germania, come la proibizione dell’accumulo di benefici, la riforma degli ordini monastici, la lotta contro tutte le forme di devozione che vengono utilizzate in modo fraudolento come fonti di guadagno. Sulla base delle regole esposte nella seconda parte della Reformatio, devono essere condotte le visite al Papa, ai cardinali e alla curia, di cui Cusano tratta nell’ultima sezione del suo scritto, dove insiste in modo particolare sul fatto che i visitatori devono verificare anzitutto che il papa e i membri del collegio cardinalizio conducano una vita esemplare, lontana da ogni forma di sfarzo e di ricchezza. Com’era già accaduto negli anni precedenti, anche a Roma Cusano dovrà sperimentare con amarezza l’inutilità della maggior parte dei suoi sforzi per la riforma della chiesa. Quale fosse il suo stato d’animo ci viene riferito dallo stesso Pio II, il quale, in una sua lettera, racconta lo sfogo che Cusano fece in sua presenza: «Se tu puoi ascoltare la verità: nulla mi piace di quanto accade in questa curia. Tutto è corrotto. Nessuno compie il suo dovere; né tu, né i cardinali vi curate della chiesa. Chi mai osserva le prescrizioni canoniche? Chi rispetta le leggi? Dov’è lo zelo per la liturgia? Tutti sono interessati solo alla carriera e ad accumulare ricchezze. Vengo irriso se nel concistoro parlo di riforma. Qui io sono superfluo. Permettimi di andarmene! Io non posso sopportare questo genere di vita. Sono vecchio e ho bisogno di quiete. Voglio ritirarmi in solitudine e se non posso vivere per il bene comune, allora voglio vivere per me»170. Alla fine Piccolomini convinse Cusano a restare. Gli anni romani, del resto, non furono solo un periodo di delusioni per una riforma della chiesa che sembrava ormai svanita; per Cusano furono anni proficui di rapporti con umanisti e uomini di cultura, pieni di nuove letture, fecondi da un punto di vista della riflessione filosofica. Di questi anni romani ci offre una testimonianza Giovanni Andrea Bussi, che abbiamo già incontrato parlando dei lunghi viaggi di Cusano come legato apostolico. Cusano lo aveva scelto come se170 Il testo di Pio II contenuto nei suoi Commentarii (VII 9, ed. Bellus-Boronkai, I, p. 351) è riportato da K. Flasch, Nikolaus von Kues. Geschichte einer Entwicklung, Frankfurt am Main 20012, trad. it. di T. Cavallo, Torino 2010, p. 621 e n. 256 per il testo latino.
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gretario subito dopo il suo arrivo a Roma; qualche anno più tardi, nel 1461, prenderà alle sue dipendenze anche Gaspare Biondo, il figlio del celebre umanista Flavio Biondo. Nel 1467, tre anni dopo la morte di Cusano, Bussi iniziò la sua collaborazione con Konrad Sweynheym e Arnold Pannartz, i due chierici tedeschi che avevano introdotto a Subiaco la prima tipografia italiana, per poi trasferirla a Roma. Nel 1468 Bussi ne assumerà la direzione e nel giro di pochi anni pubblicherà un «corpus» di classici vasto e accurato, che comprenderà autori antichi, greci e latini, testi neoplatonici e scritti dei padri della chiesa. Nella sua Prefazione alle Epistulae di san Girolamo del 1470, Bussi esalterà l’invenzione della stampa ad opera di Guttenberg come una «sancta ars» e racconterà che Cusano aveva visto nascere quest’arte in Germania e aveva desiderato che fosse portata in Italia171. L’anno precedente Bussi aveva pubblicato un’edizione delle opere di Apuleio (1469) e nella sua Prefazione, dedicata a Paolo II, aveva tracciato un ampio profilo di Cusano172, nel quale, accanto ai ricordi personali, emerge chiaramente il ruolo di guida culturale svolto dal cardinale nei suoi ultimi anni romani173. Oltre ad evidenziare le preoccupazioni di riforma ecclesiale del suo maestro, le sue doti morali («vitiorum omnium hostis acerrimus») e intellettuali («studiosissimus», «eloquens et latinus»), la sua passione per la ricerca storica e il suo amore per i libri, Bussi parla anche degli interessi filosofici di Cusano e ricorda, in modo particolare, l’urgenza con la quale Cusano si preoccupava di avere fra le sue mani le traduzioni di Platone e di Proclo: «Parmenidem Platonis magna veluti ardens siti de graeco in latinum fecit converti, item Platonis theologiam a Proclo, quem supra nominavimus, scriptam»174. 171
Cfr. Giovanni Andrea Bussi, Prefazioni alle edizioni di Sweynheym e Pannartz, cit., p. 4. 172 Cfr. Bussi, Prefazioni, cit., pp. 11-19. 173 Su questo aspetto, cfr. B. Schwarz, Über Patronage und Klientel in der spätmittelalterlichen Kirche am Biespiel des Nikolaus von Kues, «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 68 (1988), pp. 284-310. 174 Bussi, Prefazioni, cit., p. 18; su Bussi, si veda M. Miglio, Bussi, Giovanni Andrea, in: Dizionario biografico degli italiani, XV, Roma 1972, pp. 565-572; per il suo ruolo di segretario di Cusano, cfr. Meuthen, Die letzen Jahre, cit., pp. 100101, 164-168; si veda anche Watanabe, Nicholas of Cusa. A Companion to his Life and His Times, cit., pp. 87-94, con ulteriore bibliografia.
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La traduzione del Parmenide di Platone a cui Bussi fa qui riferimento era stata commissionata da Cusano a Giorgio di Trebisonda negli ultimi mesi del 1458, poco dopo il suo arrivo a Roma175. Conclusa tra il gennaio e il settembre dell’anno successivo, la traduzione di Trebisonda, che Cusano ha ampiamente rivisto e corretto, è la prima versione latina integrale del dialogo platonico, che precede di cinque anni quella di Marsilio Ficino176. A questo periodo risale anche una nuova ed intensa lettura del Commentario di Proclo al dialogo platonico, che Cusano aveva citato espressamente per la prima volta nel De beryllo; come ha mostrato Klibansky, le 620 annotazioni con le quali Cusano ha accompagnato la lettura del testo di Proclo risalgono a tre fasi diverse, ed una di queste coincide con la redazione dei primi due scritti del periodo romano177, il De aequalitate e il De principio, che Cusano compone nel 1459 come introduzione alla raccolta dei suoi sermoni. A questa lettura del Commentario al Parmenide è ispirato, in modo particolare, il De principio, nel quale Cusano fa un uso sistematico, spesso quasi letterale, dell’opera di Proclo. Oltre che con Giorgio di Trebisonda, al qua175 Cfr. J. Monfasani, Georg of Trebizond. A Biography and Study of His Rhetoric and Logic, Leiden 1976, pp. 142 ss. 176 La traduzione di Giorgio di Trebisonda è conservata nel codex 6201 della Biblioteca Guarnacci di Volterra (la traduzione è stata edita da Ilario Ruocco, Il Platone latino. Il Parmenide: Giorgio di Trebisonda e il cardinale Cusano, Firenze 2003, pp. 35-84). Quello di Volterra è il «codex unicus» della traduzione di Trebisonda e contiene numerose correzioni al testo e annotazioni a margine di Cusano, che sono state edite da Karl Bormann: Die Randnoten des Nikolaus von Kues zur lateinischen Übersetzung des platonischen “Parmenides” in der Handschrift Volterra, Biblioteca Guarnacci, 6201, in: J. Helmarth-H. Müller-H. Wolff (eds.), Studien zum 15. Jahrhundert. Festschrift für Erich Meuthen, 2 voll., München 1994, vol. 1, pp. 331-340; J. Monfasani, Nicholas of Cusa, the Byzantines and the Greek Language, in: Thurner, ed., Nicolaus Cusanus zwischen Deutschland und Italien, pp. 215-252, 228 ss. Monfasani (pp. 223-224) ha mostrato come i numerosi interventi di Cusano, ossia le revisioni interlineari della traduzione di Trebisonda e le traduzioni alternative proposte ai margini del testo (in tutto ottantasei interventi), consentano di rimettere definitivamente in discussione la tesi, sostenuta alla fine degli anni Trenta da Honecker, relativa alla limitatissima padronanza della lingua greca da parte di Cusano (cfr. M. Honecker, Nikolaus von Kues und die griechische Sprache, Heidelberg 1938, pp. 20 ss.). 177 Cfr. R. Klibansky, Ein Proklos-Fund und seine Bedeutung, Heidelberg 1929, pp. 27-28.
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le si era rivolto nonostante le critiche di cui era stata oggetto la sua traduzione di Eusebio, negli anni romani Cusano intrattiene proficui rapporti con Pietro Balbi di Pisa, che, insieme a Bussi, compare anche come interlocutore in alcuni dei suoi ultimi scritti. È a Pietro Balbi, in particolare, che Cusano si rivolge come esperto di greco, una competenza che non avevano né Bussi, né Gaspare Biondo. Tra il 1459 e il 1460 Balbi traduce per Cusano il Didaskalikos di Albino/Alcinoo, come ricorderà lo stesso Bussi, che ne pubblicherà l’edizione nel 1469, e poi la Teologia plaonica di Proclo, l’opera che più di vent’anni prima Cusano aveva portato con sé da Costantinopoli e della quale può ora avere finalmente una traduzione completa178. Le nuove letture che Cusano compie in questi anni svolgono un ruolo significativo nelle sue ultime opere, nelle quali torna nuovamente a riflettere sul rapporto tra il principio divino e il mondo, cercando nuove formule per la sua concezione, come quella di «non-aliud», che dà il titolo al grande scritto che compone a Roma nell’inverno tra il 1461 e il 1462, o sviluppando una speculazione sul nesso tra «esse» e «posse» nell’Assoluto, che Cusano elabora dapprima nel De possest (1460) e poi riprende ulteriormente nei suoi due ultimi lavori, il Compendium (1463/64) e il De apice theoriae (1464). I «libri Platonicorum» non sono tuttavia le sole nuove letture di cui Cusano va «a caccia» in questi anni. Già prima di arrivare a Roma si era procurato delle nuove traduzioni delle opere di Aristotele, quella dell’Etica Nicomachea di Leonardo Bruni (cod. Cus. 179) e soprattutto la nuova traduzione della Metafisica di Bessarione (cod. Cus. 184), che, anche in questo caso, Cusano ha studiato dall’inizio alla fine, inserendovi diverse correzioni e molti commenti personali; anche di queste letture vi sono tracce evidenti nei suoi ultimi scritti, nei quali, a partire dal De beryllo, il confronto con Aristotele, e in particolare con la metafisica aristotelica della sostanza, diventa più frequente ed esteso. Tra i nuovi libri che Cusano legge a Roma vi è infine la traduzione del De vitiis philosophorum di Diogene Laerzio, di cui entra in possesso nell’autunno del 178 Su Pietro Balbi di Pisa e la sua traduzione della Teologia platonica, si veda il commentario al De non-aliud, note 1 e 228.
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1462. La raccolta dossografica di Diogene consente a Cusano di avere uno sguardo complessivo sull’intera storia della filosofia antica e lo sollecita ad un confronto con i grandi pensatori del passato; da questa lettura nasce l’opera che viene generalmente considerata come il suo testamento filosofico, il De venatione sapientiae, che Cusano compone tra l’agosto del 1462 e il gennaio del 1463, secondo la datazione proposta da Erich Meuthen. Nella primavera dell’anno precedente Cusano si era ammalato gravemente ed il 15 giugno aveva dettato il suo testamento179. Con molta probabilità soffriva di una malattia intestinale estremamente dolorosa che, come lo stesso Cusano scrive il 23 luglio 1462 al vescovo di Feltre, gli procurava coliche così forti da impedirgli anche di leggere180. Su consiglio del cardinale Pietro Barbo, nell’estate del 1461 trascorre alcuni mesi di cura ad Orvieto, dove si recherà anche nell’estate del 1462 e del 1463. In questo periodo inizia a fare un bilancio della sua attività e della sua produzione letteraria; prepara l’edizione di tutte le sue opere, che rivede e corregge di suo pugno, e compone, per l’appunto, il De venatione sapientiae, lo scritto nel quale, come si dice nel «Prologo», Cusano vuole «lasciare ai posteri» una breve esposizione dei risultati della sua ricerca filosofica, o dei diversi «campi» in cui ha condotto la sua personale «caccia della sapienza», secondo l’immagine platonica (cfr. Rep., IV 322 b-d) che dà il titolo all’opera. Dopo il De venatione sapientiae Cusano avrà ancora modo di sviluppare ulteriormente la sua riflessione nel Compendium e nel De apice theoriae. Il progetto di riforma della chiesa che aveva esposto nella Reformatio generalis non conoscerà invece più alcun sviluppo e non verrà mai attuato. Anche la bolla Pastor aeternus, che Pio II avrebbe dovuto annunciare nel 1464 e nella quale accoglieva alcune della proposte di Cusano, non vedrà mai la luce. Il papa aveva altre urgenze. Nonostante il congresso di Mantova si fosse dimostrato un completo fallimento, Pio II non aveva rinunciato al suo progetto di una crociata contro i turchi. Nell’inverno 1461 aveva scritto una lettera a Maometto II, nella quale offriva al 179 Cfr. G. Kortenkamp, Die Urkunden des St. Nikolaus-Hospitals in Bernkastel-Kues an der Mosel, herausg. St. Nikolaus-Hospital-Cusanusstift, Trier 2004, p. 133. 180 Cfr. Meuthen, Die letzen Jahre, cit., p. 110.
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sultano la corona imperiale se avesse accettato di convertirsi al cristianesimo181. Non conosciamo la risposta del sultano, né sappiamo con certezza se il papa abbia effettivamente inviato la sua lettera. In ogni caso, nell’ottobre 1463 Pio II chiama di nuovo alla crociata e stabilisce come luogo di raccolta Ancona, da dove la flotta dei crociati sarebbe dovuta partire nell’estate. Anche in questo caso, i principi europei si dimostrano molto tiepidi nei confronti del nuovo appello alle armi del papa, che decide pertanto di recarsi personalmente ad Ancona, e il 18 giugno 1464, ormai vecchio e malato, lascia Roma. Cusano non faceva parte del seguito papale; tuttavia, poco tempo dopo la partenza di Pio II, si mette in viaggio verso Ancona. Non sappiamo per quale motivo l’abbia fatto. Secondo una fonte citata da Meuthen, Cusano avrebbe dovuto prendersi cura della massa di poveri che «stavano morendo come mosche nella calura estiva»182, ma, come ha osservato Euler, si tratta di una testimonianza poco credibile, se si considerano, fra le altre cose, le condizioni di salute del vecchio cardinale183. Il 16 luglio, lungo la strada che doveva condurlo ad Ancona, Cusano si ammala gravemente a Todi, e l’11 agosto muore; qualche giorno più tardi, nella notte tra il 14 e il 15 agosto, muore anche Pio II ad Ancona, poco dopo aver visto la flotta dei crociati, che non partirà mai. Il 6 agosto Cusano aveva dettato il suo secondo testamento, dopo quello del 15 giugno 1461. Secondo le sue ultime volontà, il corpo di Cusano venne trasferito a Roma e venne tumulato nella chiesa di San Pietro in Vincoli di cui era cardinale titolare; il cuore venne collocato nella cappella dell’ospizio che, come abbiamo visto, aveva fatto costruire nella sua città natale di Kues e che era stato ultimato il 5 maggio 1457. Nell’ospizio Cusano aveva fatto predisporre una sala per la sua biblioteca, dove vennero trasferiti i suoi manoscritti. Dopo più di cinquecento anni l’ospizio voluto da Cusano è ancora in attività, come è viva l’eredità intellettuale che questo straordinario filosofo e teologo ha consegnato ai suoi scritti. 181
Cfr. L. D’Ascia, Il Corano e la tiara. L’epistola a Maometto II di Enea Silvio Piccolomini (papa Pio II), Bologna 2001 (traduzione della lettera a pp. 151-232, e testo latino a pp. 233-286). 182 Cfr. Meuthen, Die letzen Jahre, cit., p. 123. 183 Cfr. Euler, Die Biographie, cit., p. 102.
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Nota editoriale
In questo volume vengono presentati gli Scritti filosofici e teologici di Cusano e le sue tre più importanti Opere matematiche (De circuli quadratura, De mathematicis complementis, De mathematica perfectione). La traduzione è stata condotta sul testo dell’edizione critica di Heidelberg (cfr. sotto, Bibliografia, sezione I, pp. 3019-3020), che viene riprodotto a fronte della versione italiana. Fanno eccezione il De docta ignorantia e il De non aliud: il testo latino sul quale è stata condotta la traduzione del De docta ignorantia è quello dell’«editio minor» dell’Accademia di Heidelberg, che in alcuni punti corregge e migliora la precedente edizione del 1932; il testo sul quale è stata condotta la traduzione del De non aliud è quello della nuova edizione critica che, sulla base di un manoscritto scoperto nella Biblioteca capitolare di Toledo, è stata pubblicata nel 2008 da una équipe internazionale di studiosi. Al termine della prima nota di ogni scritto, il lettore può trovare tutte le indicazioni relative al testo dell’edizione critica sul quale è stata condotta la traduzione. La traduzione è corredata di un ampio apparato di note e di un commentario sistematico ai singoli scritti. Nelle note vengono di preferenza indicati, nella maniera più esaustiva possibile, i passi degli scritti di Cusano in cui ricorrono termini, concetti e temi analoghi a quelli del testo che viene analizzato, e vengono inoltre indicate le opere o gli autori a cui Cusano fa, esplicitamente o implicitamente, riferimento. Il commentario è introdotto dalle prime parole in corsivo del passo che viene esaminato o dalla parola «introduzione» sempre in corsivo. Il commentario (a) spiega la genesi dell’opera, (b) illustra l’argomentazione che viene condotta nel corso del testo, (c) presenta un’analisi e un’interpretazione delle singole dottrine filosofiche, (d) esamina le fonti filosofiche dei concetti e dei temi più importanti, e, in alcuni casi, ripercorre la storia della loro recezione, (e) discute, nella maniera più ampia possibile, la letteratura critica secondaria relativa ai diversi argomenti (la letteratura secondaria citata nel commentario è riportata nella Bibliografia alla fine del volume, sezione VII, pp. 3025-3066).
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Niccolò Cusano Opere filosoficHE, teologicHE e matematicHE
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De docta ignorantia
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LA DOTTA IGNORANZA
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Liber primus
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Deo amabili reverendissimo patri domino Iuliano sanctae A postolicae Sedis dignissimo cardinali, praeceptori suo metuendo. Admirabitur et recte maximum tuum et iam probatissimum ingenium, quid sibi hoc velit quod, dum meas barbaras ineptias incautius pandere attempto, te arbitrum eligo, quasi tibi pro tuo cardinalatus officio apud Apostolicam Sedem in publicis maximis negotiis occupatissimo aliquid otii supersit et post omnium Latinorum scriptorum, qui hactenus claruerunt, supremam notitiam et nunc Graecorum etiam ad meum istum fortassis ineptissimum conceptum tituli novitate trahi possis, qui tibi, qualis ingenio sim, iam dudum notissimus existo. Sed haec admiratio, non quod prius incognitum hic insertum putes, sed potius qua audacia ad de docta ignorantia tractandum ductus sim, animum tuum sciendi peravidum spero visendum alliciet. Ferunt enim naturales appetitum quandam tristem sensationem in stomachi orificio anteire, ut sic natura, quae seipsam conservare nititur, stimulata reficiatur. Ita recte puto admirari, propter quod philosophari, sciendi desiderium praevenire, ut intellectus, cuius intelligere est esse, studio veritatis perficiatur. Rara quidem, et si monstra sint, nos movere solent. Quam ob rem, praeceptorum unice, pro tua humanitate aliquid digni hic latitare existimes, et ex
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Libro primo1
Prologo
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al reverendissimo padre e signore giuliano,
ben amato da dio, illustre cardinale della santa sede apostolica, maestro suo venerato2
Ti chiederai giustamente con stupore, tu che hai uno spirito vastissimo e di provata eccellenza, per quale motivo, nel momento in cui tento, con molta imprudenza, di rendere pubbliche queste mie cose di poco valore scritte da uno straniero3, io scelga te come giudice; come se tu, che, dato il tuo officio di cardinale presso la sede apostolica, sei occupatissimo in affari pubblici della massima importanza, avessi a disposizione un po’ di tempo libero, e come se, nonostante la tua profonda conoscenza di tutti gli scrittori latini che sono giunti sino a noi, alla quale si è aggiunta adesso anche la conoscenza degli autori greci, la novità del titolo della mia opera potesse spingerti ad occuparti della concezione che vi espongo e che è, con ogni probabilità, di scarsissimo valore, tu che conosci benissimo i limiti del mio intelletto. Ma oso sperare che proprio questo stupore possa spingere il tuo animo, così avido di sapere, a dare uno sguardo a questo libro, non perché tu possa ritenere di trovarvi qualcosa che prima non era noto, ma piuttosto per vedere quale sia l’audacia che mi ha condotto a trattare della dotta ignoranza4. I filosofi della natura sostengono che l’appetito è preceduto da una certa qual sensazione dolorosa all’ingresso dello stomaco, in modo tale che la natura, che tende a conservare se stessa, attraverso questo stimolo sia spinta a ristorarsi5. In modo analogo, ritengo che lo stupore, che conduce a filosofare6, preceda il desiderio del sapere, in modo tale che l’intelletto, il cui essere consiste nell’intendere, si perfezioni con lo studio della verità7. E sono le cose insolite che, in genere, richiamano la nostra attenzione. È per questo motivo che oso sperare che tu, maestro senza pari, nella tua benevolenza possa trovare nascosto in questo libro qualcosa che stimi degno
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Germano in rebus divinis talem qualem ratiocinandi modum suscipe, quem mihi labor ingens admodum gratissimum fecit. 2
CAPITULUM I
Quomodo scire est ignorare. Divino munere omnibus in rebus naturale quoddam desiderium inesse conspicimus, ut sint meliori quidem modo, quo hoc cuiusque naturae patitur conditio, atque ad hunc finem operari instrumentaque habere opportuna, quibus iudicium connatum est conveniens proposito cognoscendi, ne sit frustra appetitus et in amato pondere propriae naturae quietem attingere possit. Quod si fortassis secus contingat, hoc ex accidenti evenire necesse est, ut dum infirmitas gustum aut opinio rationem seducit. Quam ob rem sanum liberum intellectum verum, quod insatiabiliter indito discursu cuncta perlustrando attingere cupit, apprehensum amoroso amplexu cognoscere dicimus non dubitantes verissimum illud esse, cui omnis sana mens nequit dissentire. Omnes autem investigantes in comparatione praesuppositi certi proportionabiliter incertum iudicant; comparativa igitur est omnis inquisitio, medio proportionis utens. Et dum haec, quae inquiruntur, propinqua proportionali reductione praesupposito possunt comparari, facile est apprehensionis iudicium; dum multis mediis opus habemus, difficultas et labor exoritur; uti haec in mathematicis nota sunt, ubi ad prima notissima principia priores propositiones facilius reducuntur, et posteriores, quoniam non nisi per medium priorum, difficilius.
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della tua attenzione; e voglia tu accettare da un tedesco un modo di ragionare circa le questioni teologiche come quello che qui presento, un modo che un ingente lavoro mi ha reso estremamente caro. CAPITOLO I
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Conoscere è ignorare Vediamo che in tutti gli esseri è presente, per dono di Dio, un certo desiderio naturale di esistere nel modo migliore consentito dalla condizione che è propria della natura di ciascuno di essi8. E vediamo che tutti gli esseri agiscono a questo fine e hanno i mezzi a ciò adatti; essi hanno una capacità innata di giudizio, idonea per conoscere il loro fine, in modo tale che la loro aspirazione non sia vana e ciascuno di essi possa raggiungere la sua quiete in quel centro di gravità della propria natura che ogni essere ama9. E se le cose vanno per caso in modo diverso, ciò è dovuto senz’altro a cause accidentali, come quando una malattia corrompe il gusto o un’opinione svia la ragione. Per questo motivo, diciamo che un intelletto che sia sano e libero conosce ed abbraccia con amore quelle verità che anela insaziabilmente di raggiungere mediante l’indagine che va conducendo su ogni cosa con il procedimento discorsivo che gli è insito; e non abbiamo alcun dubbio sul fatto che la verità più sicura sia quella da cui ogni mente che sia sana non può dissentire10. Tutti coloro che conducono un’indagine, tuttavia, giudicano le cose incerte in modo proporzionale, mediante cioè una comparazione con qualcosa che viene presupposto come certo. Ogni ricerca, pertanto, ha carattere comparativo e impiega come mezzo la proporzione11. Ora, quando le cose che vengono ricercate possono essere comparate con un presupposto certo e ricondotte proporzionalmente ad esso per una via breve, allora il giudizio formulato dalla nostra conoscenza è facile. Quando, invece, abbiamo bisogno di molti passaggi intermedi, allora insorgono difficoltà e il procedimento diventa più faticoso; ciò è ben noto in matematica, dove le prime proposizioni vengono ricondotte con facilità ai primi principi, che sono di per sé noti, mentre è più difficile ricondurre ad essi le proposizioni successive, in quanto lo si può fare solo attraverso la mediazione delle proposizioni precedenti.
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igitur inquisitio in comparativa proportione facili vel difficili existit; propter quod infinitum ut infinitum, cum omnem proportionem aufugiat, ignotum est. Proportio vero cum convenientiam in aliquo uno simul et alteritatem dicat, absque numero intelligi nequit. Numerus ergo omnia proportionabilia includit. Non est igitur numerus in quantitate tantum, qui proportionem efficit, sed in omnibus, quae quovismodo substantialiter aut accidentaliter convenire possunt ac differre. Hinc forte omnia Pythagoras per numerorum vim constitui et intelligi iudicabat. 4 Praecisio vero combinationum in rebus corporalibus ac adaptatio congrua noti ad ignotum humanam rationem supergreditur, adeo ut Socrati visum sit se nihil scire, nisi quod ignoraret, sapientissimo Salomone asserente cunctas res difficiles et sermone inexplicabiles; et alius quidam divini spiritus vir ait absconditam esse sapientiam et locum intelligentiae ab oculis omnium viventium. Si igitur hoc ita est, ut etiam profundissimus Aristoteles in prima philosophia affirmat in natura manifestissimis talem nobis difficultatem accidere ut nocticoraci solem videre attemptanti, profecto, cum appetitus in nobis frustra non sit, desideramus scire nos ignorare. Hoc si ad plenum assequi poterimus, doctam ignorantiam assequemur. Nihil enim homini etiam studiosissimo in doctrina perfectius adveniet quam in ipsa ignorantia, quae sibi propria est, doctissimus reperiri; et tanto quis doctior erit, quanto se sciverit magis ignorantem. In quem finem de ipsa docta ignorantia pauca quaedam scribendi labores assumpsi.
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Ogni ricerca, pertanto, consiste nel porre una proporzione comparativa, che può essere facile o difficile. Per questo motivo, l’infinito, in quanto infinito, non può essere conosciuto, dal momento che esso si sottrae ad ogni proporzione [rapporto comparativo]12. Ogni proporzione, tuttavia, indica un accordo rispetto a qualcosa e ad un tempo un’alterità, per cui non è possibile intenderla senza il numero. Di conseguenza, il numero include in sé tutto ciò che può essere posto in un rapporto comparativo [proporzionato]13. Pertanto, il numero, che costituisce una condizione necessaria di ogni rapporto comparativo [proporzione], non è presente soltanto nell’ambito della quantità, ma è presente in tutte le cose che, in qualsiasi modo, possono concordare o differire fra loro per la sostanza o per gli accidenti. È forse per questo motivo che Pitagora riteneva che tutte le cose sono costituite e vengono conosciute attraverso la forza dei numeri14. Giungere tuttavia a una precisa conoscenza delle combinazioni che vi sono fra le cose corporee e far corrispondere in modo adeguato il noto all’ignoto è qualcosa che supera la capacità della ragione umana, a tal punto che Socrate15 pervenne alla convinzione di non sapere nulla tranne il fatto di non sapere, mentre il sapientissimo Salomone16 sosteneva che «tutte le cose sono difficili» e risultano inspiegabili con le nostre parole; e un certo altro saggio17, dotato di spirito divino, afferma che la sapienza e il luogo dell’intelligenza sono nascosti «agli occhi di tutti viventi». Se le cose stanno dunque in questo modo, tanto che anche il profondissimo Aristotele afferma, nella sua filosofia prima, che nelle cose che sono per natura più evidenti noi incontriamo una difficoltà simile a quella di una civetta che tenti di guardare il sole18, allora, dato che l’aspirazione [al sapere] che è presente in noi non può essere vana, ciò significa che noi desideriamo acquisire un sapere circa il nostro non-sapere. E se riusciremo a conseguire appieno questo scopo, avremo allora conseguito una dotta ignoranza. Non c’è infatti nulla di più perfetto che un uomo, anche il più interessato al sapere, potrà raggiungere nella sua dottrina che l’essere considerato come la persona più dotta in quella ignoranza che gli è propria. Ed egli sarà tanto più dotto, quanto più saprà di essere ignorante. È a questo fine che mi sono assunto il compito di scrivere alcune poche cose sulla dotta ignoranza19.
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CAPITULUM II
Elucidatio praeambularis subsequentium. Tractaturus de maxima ignorantiae doctrina ipsius maximitatis naturam aggredi necesse habeo. Maximum autem hoc dico, quo nihil maius esse potest. Habundantia vero uni convenit. Coincidit itaque maximitati unitas, quae est et entitas; quod si ipsa talis unitas ab omni respectu et contractione universaliter est absoluta, nihil sibi opponi manifestum est, cum sit maximitas absoluta. Maximum itaque absolutum unum est, quod est omnia; in quo omnia, quia maximum. Et quoniam nihil sibi opponitur, secum simul coincidit minimum; quare et in omnibus; et quia absolutum, tunc est actu omne possibile esse, nihil a rebus contrahens, a quo omnia. Hoc maximum, quod et Deus omnium nationum fide indubie creditur, primo libello supra humanam rationem incomprehensibiliter inquirere eo duce, qui solus lucem inhabitat inaccessibilem, laborabo. 6 Secundo loco, sicut absoluta maximitas est entitas absoluta, per quam omnia id sunt, quod sunt, ita et universalis unitas essendi ab illa, quae maximum dicitur ab absoluto, et hinc contracte existens uti universum; cuius quidem unitas in pluralitate contracta est, sine qua esse nequit. Quod quidem maximum, etsi in sua universali unitate omnia complectatur, ut omnia, quae sunt ab absoluto, sint in eo et ipsum in omnibus, non habet tamen extra pluralitatem, in qua est, subsistentiam, cum sine contractione, a qua absolvi nequit, non existat. De hoc maximo, universo scilicet, in secundo libello pauca quaedam adiciam. 7 Tertio loco maximum tertiae considerationis subsequenter manifestabitur. Nam cum universum non habeat nisi contracte sub-
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11 CAPITOLO II
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Spiegazione preliminare di ciò che seguirà Dal momento che mi propongo di esaminare quale sia la dottrina massima dell’ignoranza, devo prima necessariamente considerare la natura della massimità 20. Ora, chiamo «massimo» ciò di cui nulla può essere maggiore21. La pienezza, tuttavia, conviene a ciò che è uno22. Pertanto, l’unità, che è anche l’entità23, coincide con la massimità; infatti, se una tale unità è del tutto libera da ogni relazione e da ogni contrazione, è evidente che non c’è nulla che sia opposto ad essa, essendo essa la massima unità assoluta. Il massimo, pertanto, è l’uno assoluto, il quale è tutte le cose; e tutte le cose sono in lui [nel massimo], in quanto è il massimo. E dal momento che non c’è nulla che sia opposto ad esso [al massimo], anche il minimo coincide ad un tempo con lui. Per questo motivo, il massimo è anche in tutte le cose. E poiché è assoluto, egli è in atto ogni essere possibile, mentre non riceve alcuna contrazione dalle cose, le quali derivano tutte da lui. Nel primo libro, cercherò di indagare, al di sopra della ragione umana e in un modo ad essa incomprensibile, questo massimo, che la fede di tutti popoli crede indubitabilmente essere Dio, e cercherò di farlo prendendo come guida «colui che solo abita in una luce inaccessibile»24. In secondo luogo, come la massimità assoluta è l’entità assoluta, attraverso la quale tutte le cose sono ciò che sono, così da essa deriva anche l’unità universale dell’essere, la quale viene anch’essa designata come «massimo» in quanto deriva dall’assoluto; questa unità universale dell’essere esiste in maniera contratta25 ed è l’universo. L’unità dell’universo è contratta nella pluralità, senza la quale non può esistere26. Questo massimo, in effetti, sebbene nella sua unità universale comprenda in sé tutte le cose, in modo tale che tutte le cose che derivano dall’assoluto sono presenti in esso ed esso è presente in tutte le cose, non ha tuttavia alcuna sussistenza al di fuori della pluralità nella quale si trova, in quanto non esiste senza contrazione, dalla quale non può essere sciolto. A proposito di questo massimo, ossia a proposito dell’universo, farò alcune ulteriori considerazioni nel secondo libro. In terzo luogo, in ciò che segue emergerà un terzo modo di considerare il massimo. Infatti, dal momento che l’universo ha la sua
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sistentiam in pluralitate, in ipsis pluribus inquiremus unum maximum, in quo universum maxime et perfectissime subsistit actu ut in fine. Et quoniam tale cum absoluto, quod est terminus universalis, unitur, quia finis perfectissimus supra omnem capacitatem nostram, de illo maximo, quod simul est contractum et absolutum, quod Iesum semper benedictum nominamus, nonnulla, prout et ipse Iesus inspiraverit, subiciam. 8 Oportet autem attingere sensum volentem potius supra verborum vim intellectum efferre quam proprietatibus vocabulorum insistere, quae tantis intellectualibus mysteriis proprie adaptari non possunt. Exemplaribus etiam manuductionibus necesse est transcendenter uti, linquendo sensibilia, ut ad intellectualitatem simplicem expedite lector ascendat; ad quam viam quaerendam studui communibus ingeniis quanto clarius potui aperire, omnem stili scabrositatem evitando, radicem doctae ignorantiae in inapprehensibili veritatis praecisione statim manifestans. 9
CAPITULUM III
Quod praecisa veritas sit incomprehensibilis. Quoniam ex se manifestum est infiniti ad finitum proportionem non esse, est et ex hoc clarissimum, quod, ubi est reperire excedens et excessum, non deveniri ad maximum simpliciter, cum excedentia et excessa finita sint. Maximum vero tale necessario est infinitum. Dato igitur quocumque, quod non sit ipsum maximum simpliciter, dabile maius esse manifestum est. Et quoniam aequalitatem reperimus gradualem, ut unum aequalius uni sit quam al-
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sussistenza solo nella pluralità e in modo contratto, cercheremo, nell’ambito della stessa pluralità, un’unità massima nella quale l’universo sussista in atto in modo massimo e perfettissimo come nel suo fine. E un tale massimo è unito all’assoluto, che è il fine ultimo universale, in quanto è un fine perfettissimo che supera ogni nostra capacità di comprensione. Per questo motivo, esporrò alcune considerazioni anche su un tale massimo, che è contratto e assoluto ad un tempo, e che noi chiamiamo Gesù sempre benedetto, così come Gesù stesso mi ispirerà. Chi tuttavia vuole giungere a cogliere il senso profondo delle cose deve elevare il suo intelletto al di sopra del significato letterale delle parole, piuttosto che restare fisso al significato dei singoli termini, in quanto non è possibile rendere le parole pienamente adeguate a misteri intelligibili così grandi. Anche gli esempi [che verranno presentati] devono essere intesi [solo] come delle guide27, che è necessario utilizzare in maniera trascendente [in modo da trascenderle], lasciando cioè da parte il piano del sensibile, in modo tale che il lettore possa ascendere speditamente alla visione intellettiva. Nella ricerca di questa via, mi sono sforzato di spiegare le cose per le persone dotate di un’intelligenza comune, e ho cercato di farlo nel modo più chiaro che ho potuto, evitando ogni asprezza e durezza di stile e mostrando subito quale sia la radice della dotta ignoranza, la quale consiste nel fatto che la precisione della verità è inconoscibile. CAPITOLO III
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La verità precisa è incomprensibile È di per sé evidente che non c’è alcun rapporto proporzionale fra l’infinito e il finito28. Da ciò segue nella maniera più chiara che, dove è dato trovare un di più e un di meno, non si è giunti al massimo in quanto tale, poiché le realtà che ammettono comparativamente un di più e un di meno sono entità finite29. Un massimo che sia effettivamente tale è invece necessariamente infinito30. È chiaro, pertanto, che, dato qualcosa che non sia il massimo in quanto tale, può sempre darsi qualcosa che sia maggiore di esso. Inoltre, troviamo gradi diversi di eguaglianza, per cui una cosa è più egua-
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teri secundum convenientiam et differentiam genericam, specificam, localem, influentialem et temporalem cum similibus: patet non posse aut duo aut plura adeo similia et aequalia reperiri, quin adhuc in infinitum similiora esse possint. Hinc mensura et mensuratum, quantumcumque aequalia, semper differentia remanebunt. 10 Non potest igitur finitus intellectus rerum veritatem per similitudinem praecise attingere. Veritas enim non est nec plus nec minus, in quodam indivisibili consistens, quam omne non ipsum verum existens praecise mensurare non potest; sicut nec circulum, cuius esse in quodam indivisibili consistit, non-circulus. Intellectus igitur, qui non est veritas, numquam veritatem adeo praecise comprehendit, quin per infinitum praecisius comprehendi possit, habens se ad veritatem sicut polygonia ad circulum, quae quanto inscripta plurium angulorum fuerit, tanto similior circulo, numquam tamen efficitur aequalis, etiam si angulos in infinitum multiplicaverit, nisi in identitatem cum circulo se resolvat. Patet igitur de vero nos non aliud scire quam quod ipsum praecise, uti est, scimus incomprehensibile, veritate se habente ut absolutissima necessitate, quae nec plus aut minus esse potest quam est, et nostro intellectu ut possibilitate. Quidditas ergo rerum, quae est entium veritas, in sua puritate inattingibilis est et per omnes philosophos investigata, sed per neminem, uti est, reperta; et quanto in hac ignorantia profundius docti fuerimus, tanto magis ipsam accedimus veritatem.
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le ad un’altra che ad una terza, a seconda dell’accordo e della differenza che vi è fra cose simili per quanto riguarda il genere, la specie, il luogo in cui sono situate, la capacità di esercitare un influsso, il tempo31. Da tutto ciò risulta evidente che non è possibile trovare due o più cose così simili ed eguali fra di loro, che non ve ne possano essere altre di ancora più simili, all’infinito32. Di conseguenza, la misura e il misurato, per quanto eguali possano essere, resteranno sempre differenti. Un intelletto finito, pertanto, non può raggiungere con precisione la verità delle cose procedendo mediante similitudini. La verità, infatti, non è qualcosa di più o qualcosa di meno, ma consiste piuttosto in qualcosa di indivisibile, per cui tutto ciò che non è il vero stesso non può misurarla con precisione, così come il cerchio, il cui essere consiste in qualcosa di indivisibile, non può essere misurato da una figura che non sia il cerchio. L’intelletto, pertanto, che non è la verità, non giunge mai a comprendere la verità in modo così preciso da non poterla comprendere in modo ancora più preciso, all’infinito. L’intelletto, infatti, sta alla verità come un poligono [inscritto in un cerchio] sta al cerchio33: quanti più saranno gli angoli del poligono, tanto più esso sarà simile al cerchio; tuttavia, anche se il numero dei suoi angoli venisse moltiplicato all’infinito, il poligono non diventerà mai eguale al cerchio, a meno che non si risolva in identità con il cerchio. È evidente, pertanto, che, per quanto riguarda il vero, noi non sappiamo altro che questo, ossia sappiamo che il vero è incomprensibile per com’è in se stesso, nella sua precisione34. La verità, infatti, può essere paragonata alla più assoluta necessità, che non può essere né di più, né di meno di ciò che essa è, mentre il nostro intelletto può essere paragonato alla possibilità. Di conseguenza, l’essenza delle cose, che è la verità degli enti, è irraggiungibile nella sua purezza, e in effetti è stata ricercata da tutti filosofi, ma da nessuno è stata trovata per com’essa è35. E quanto più a fondo saremo dotti in questa ignoranza, tanto più ci avvicineremo alla verità stessa.
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CAPITULUM IV
Maximum absolutum incomprehensibiliter intelligitur; cum quo minimum coincidit. Maximum, quo maius esse nequit, simpliciter et absolute cum maius sit, quam comprehendi per nos possit, quia est veritas infinita, non aliter quam incomprehensibiliter attingimus. Nam cum non sit de natura eorum, quae excedens admittunt et excessum, super omne id est, quod per nos concipi potest; omnia enim, quaecumque sensu, ratione aut intellectu apprehenduntur, intra se et ad invicem taliter differunt, quod nulla est aequalitas praecisa inter illa. Excedit igitur maxima aequalitas, quae a nullo est alia aut diversa, omnem intellectum; quare maximum absolute cum sit omne id, quod esse potest, est penitus in actu; et sicut non potest esse maius, eadem ratione nec minus, cum sit omne id, quod esse potest. Minimum autem est, quo minus esse non potest. Et quoniam maximum est huiusmodi, manifestum est minimum maximo coincidere. Et hoc tibi clarius fit, si ad quantitatem maximum et minimum contrahis. Maxima enim quantitas est maxime magna; minima quantitas est maxime parva. Absolve igitur a quantitate maximum et minimum – subtrahendo intellectualiter magnum et parvum –, et clare conspicis maximum et minimum coincidere; ita enim maximum est superlativus sicut minimum superlativus. Igitur absoluta quantitas non est magis maxima quam minima, quoniam in ipsa minimum est maximum coincidenter. 12 Oppositiones igitur hiis tantum, quae excedens admittunt et excessum, et hiis differenter conveniunt; maximo absolute nequaquam, quoniam supra omnem oppositionem est. Quia igitur maximum absolute est omnia absolute actu, quae esse possunt, tali-
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CAPITOLO IV
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Il massimo assoluto, con il quale coincide il minimo, viene inteso in maniera incomprensibile Dal momento che il massimo in quanto tale e assoluto, di cui non vi può essere qualcosa di maggiore, è maggiore [anche] di ciò che noi possiamo comprendere, poiché esso è la verità infinita, non c’è altro modo in cui possiamo giungere a coglierlo se non in maniera incomprensibile36. Infatti, dato che non appartiene alla natura di quelle cose che ammettono comparativamente un di più è un di meno, il massimo è al di sopra di tutto ciò che può essere da noi concepito. Tutte le cose, infatti, qualunque esse siano, che noi apprendiamo con i sensi, con la ragione o con l’intelletto, differiscono sia in se stesse, sia l’una rispetto all’altra, a tal punto che fra loro non vi è alcuna eguaglianza precisa. L’eguaglianza massima, pertanto, che non è altra o diversa da nulla, supera ogni capacità dell’intelletto. Per questo motivo, il massimo assoluto, essendo tutto ciò che può essere, è pienamente in atto. E come non può essere maggiore, per lo stesso motivo non può essere minore, dato che è tutto ciò che può essere37. Il minimo, tuttavia, è ciò di cui non può esservi qualcosa di minore. E dato che anche il massimo è della stessa natura, è evidente che il minimo coincide con il massimo38. Questo fatto può risultarti più chiaro se consideri il massimo e il minimo contratti nella quantità. La quantità massima, infatti, è massimamente grande. La quantità minima è massimamente piccola. Separa ora il massimo e il minimo dalla quantità, togliendo loro mentalmente i caratteri quantitativi del grande e del piccolo, e vedi chiaramente che il massimo e il minimo coincidono. Il massimo, infatti, è un superlativo, così come un superlativo è il minimo. Di conseguenza, la quantità assoluta non è la quantità massima più di quanto sia la quantità minima, dal momento che in essa il minimo è il massimo, e i due coincidono fra di loro. Caratteri opposti, pertanto, appartengono solo a quelle cose che ammettono comparativamente un di più e un di meno, e ad esse si addicono in modi differenti; non si addicono affatto, invece, al massimo in senso assoluto, in quanto esso è al di sopra di ogni opposizione39. Poiché il massimo in senso assoluto è assolutamente in atto
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ter absque quacumque oppositione, ut in maximo minimum coincidat, tunc super omnem affirmationem est pariter et negationem. Et omne id, quod concipitur esse, non magis est quam non est; et omne id, quod concipitur non esse, non magis non est quam est. Sed ita est hoc, quod est omnia, et ita omnia, quod est nullum; et ita maxime hoc, quod est minime ipsum. Non enim aliud est dicere ‘Deus, qui est ipsa maximitas absoluta, est lux,’ quam ita ‘Deus est maxime lux, quod est minime lux’. Aliter enim non esset maximitas absoluta omnia possibilia actu, si non foret infinita et terminus omnium et per nullum omnium terminabilis, prout in sequentibus ipsius Dei pietate explanabimus. Hoc autem omnem nostrum intellectum transcendit, qui nequit contradictoria in suo principio combinare via rationis, quoniam per ea, quae nobis a natura manifesta fiunt, ambulamus; quae longe ab hac infinita virtute cadens ipsa contradictoria per infinitum distantia connectere simul nequit. Supra omnem igitur rationis discursum incomprehensibiliter absolutam maximitatem videmus infinitam esse, cui nihil opponitur, cum qua minimum coincidit. Maximum autem et minimum, ut in hoc libello sumuntur, transcendentes absolutae significationis termini existunt, ut supra omnem contractionem ad quantitatem molis aut virtutis in sua simplicitate absoluta omnia complectantur.
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tutte le cose che possono essere ed è talmente libero da qualsiasi opposizione che il minimo coincide con lui, allora il massimo assoluto è al di sopra sia di ogni affermazione che di ogni negazione40. E tutto ciò che concepiamo che esso sia, esso lo è non più di quanto non lo è. E tutto ciò che concepiamo che esso non sia, esso non lo è non più di quanto lo è. Il massimo assoluto, piuttosto, è una determinata cosa in modo tale da essere tutte, ed è tutte le cose in modo da non essere nessuna di esse41. Ed è in maniera massima una determinata cosa, in modo tale da essere quella stessa cosa in maniera minima. Dire, ad esempio, «Dio, che è la massimità assoluta stessa, è luce» non è qualcosa di diverso dal dire che «Dio è luce in modo massimo, al punto tale da essere luce in modo minimo». Altrimenti, infatti, la massimità assoluta non sarebbe in atto tutte le cose possibili, se essa, cioè, non fosse infinita e se non fosse il termine di tutte le cose, un termine che non è determinabile da nessuna di esse, come spiegheremo nelle pagine che seguono, con l’aiuto benevolo di Dio stesso. Tutto questo, tuttavia, trascende ogni nostra capacità intellettiva, la quale, seguendo la via della ragione, non è in grado di congiungere insieme i contraddittori nel loro principio, dal momento che noi procediamo servendoci di quelle cose che la [nostra] natura ci rende manifeste; e la nostra ragione, essendo ben al di sotto di questa forza infinita, non è in grado di connettere insieme i contraddittori che sono fra loro infinitamente distanti42. Pertanto, è al di sopra di ogni procedimento discorsivo della ragione che noi vediamo, in maniera incomprensibile, che la massimità assoluta, alla quale nulla si oppone e con la quale coincide il minimo, è infinita. I concetti di «massimo» e di «minimo», così come vengono impiegati in questo [primo] libro, sono termini trascendenti che hanno un significato assoluto, per cui essi sono al di sopra di ogni contrazione ad un significato di tipo quantitativo, relativo a masse o forze, e abbracciano nella loro semplicità assoluta tutte le cose.
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CAPITULUM V
Maximum est unum. Ex hiis clarissime constat maximum absolute incomprehensibiliter intelligibile pariter et innominabiliter nominabile esse, uti de hoc manifestiorem doctrinam inferius pandemus. Nihil est nominabile, quo non possit maius aut minus dari, cum nomina hiis attributa sint rationis motu, quae quadam proportione excedens admittunt aut excessum. Et quoniam omnia sunt eo meliori modo, quo esse possunt, tunc sine numero pluralitas entium esse nequit; sublato enim numero cessant rerum discretio, ordo, proportio, harmonia atque ipsa entium pluralitas. Quod si numerus ipse esset infinitus – quoniam tunc maximus actu, cum quo coincideret minimum –, pariter cessarent omnia praemissa. In idem enim redit numerum infinitum esse et minime esse. Si igitur ascendendo in numeris devenitur actu ad maximum, quoniam finitus est numerus: non devenitur tamen ad maximum, quo maior esse non possit, quoniam hic foret infinitus. Quare manifestum est ascensum numeri esse finitum actu et illum in potentia fore ad alium. Et si in descensu pariter se numerus haberet, ut dato quocumque parvo numero actu, quod tunc per subtractionem semper dabilis esset minor sicut in ascensu per additionem maior, – adhuc idem; quoniam nulla rerum discretio foret, neque ordo neque pluralitas neque excedens et excessum in numeris reperiretur, immo non esset numerus. Quapropter necessarium est in numero ad minimum deveniri, quo minus esse nequit, uti est unitas. Et quoniam
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21 CAPITOLO V
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Il massimo è uno Da quanto abbiamo detto risulta in tutta chiarezza che il massimo in senso assoluto è intelligibile [solo] in modo incomprensibile ed è parimenti nominabile [solo] in modo innominabile, come mostreremo più avanti esponendo in maniera più esplicita questa dottrina43. Ciò di cui non si può dare qualcosa di maggiore o di minore non è nominabile, in quanto i nomi vengono attribuiti, con un movimento della nostra ragione44, a quelle cose che ammettono comparativamente un di più o un di meno, secondo una certa proporzione. E poiché tutte le cose sono nel modo migliore in cui possono essere, non può allora esistere una pluralità di enti senza il numero. Se viene tolto il numero, infatti, vengono meno la distinzione, l’ordine, la proporzione e l’armonia delle cose, e viene meno anche la stessa pluralità degli enti. Tutto ciò, tuttavia, verrebbe egualmente meno se il numero fosse infinito, perché, in questo caso, esso sarebbe in atto il numero massimo con il quale coinciderebbe il minimo. Essere un numero infinito, infatti, equivale a non essere minimamente un numero. Se, pertanto, nell’ascendere nella serie dei numeri giungiamo ad un numero che è in atto massimo, in quanto il numero è una realtà finita, non giungiamo tuttavia ad un numero massimo di cui non possa esservi un numero maggiore, in quanto un tale numero sarebbe infinito. È evidente, pertanto, che l’ascesa nella serie dei numeri è finita in atto, e che il numero massimo [al quale di volta in volta si perviene] sarà in potenza rispetto ad un altro numero [maggiore]45. E se si verificasse la stessa cosa anche nel discendere la serie dei numeri, per cui dato un qualsiasi numero piccolo in atto potrebbe sempre darsi per sottrazione un numero più piccolo di esso, così come nell’ascesa può sempre darsi per addizione un numero maggiore [di quello dato], allora si perverrebbe allo stesso risultato: non vi sarebbe infatti alcuna distinzione fra le cose, e non sarebbe possibile trovare fra i numeri né un ordine, né una pluralità, né il più e il meno, ed anzi non vi sarebbe più alcun numero. Per questo motivo, è necessario che, nell’ambito del numero, si giunga ad un minimo del quale non possa esservi una cosa più piccola, come è, per l’appunto, l’unità. E dal momento che non può esservi qual-
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unitati minus esse nequit, erit unitas minimum simpliciter, quod cum maximo coincidit per statim ostensa. 14 Non potest autem unitas numerus esse, quoniam numerus excedens admittens nequaquam simpliciter minimum nec maximum esse potest; sed est principium omnis numeri, quia minimum. Est finis omnis numeri, quia maximum. Est igitur unitas absoluta, cui nihil opponitur, ipsa absoluta maximitas, quae est Deus benedictus. Haec unitas, cum maxima sit, non est multiplicabilis, quoniam est omne id, quod esse potest. Non potest igitur ipsa numerus fieri. Vide per numerum ad hoc nos deductos, ut intelligamus innominabili Deo unitatem absolutam propius convenire quodque Deus ita est unus, ut sit actu omne id, quod possibile est. Quapropter non recipit ipsa unitas magis nec minus, nec est multiplicabilis. Deitas itaque est unitas infinita. Qui ergo dixit: «Audi, Israel, Deus tuus unus est» et «unus est magister et pater vester in caelis», nihil verius dicere potuit; qui diceret plures deos esse, hic nec Deum nec quidquam omnium universi esse falsissime affirmaret, uti in sequentibus ostendetur. Nam uti numerus, qui ens rationis est fabricatum per nostram comparativam discretionem, praesupponit necessario unitatem pro tali numeri principio, ut sine eo impossibile sit numerum esse: ita rerum pluralitates ab hac infinita unitate descendentes ad ipsam se habent, ut sine ipsa esse nequeant; quomodo enim essent sine esse? Unitas absoluta est entitas, ut posterius videbimus. 15
CAPITULUM VI
Maximum est absoluta necessitas. Ostensum est in praecedentibus omnia praeter unum maximum simpliciter eius respectu finita et terminata esse. Finitum vero et terminatum habet, a quo incipit et ad quod terminatur. Et quia non potest dici, quod illud sit maius dato finito et finitum,
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cosa che sia minore dell’unità, l’unità sarà il minimo in quanto tale che, come abbiamo dimostrato poco fa, coincide con il massimo. L’unità, tuttavia, non può essere un numero, perché il numero ammette sempre un di più, per cui non può in alcun modo essere né il minimo in quanto tale, né il massimo in quanto tale. L’unità, piuttosto, è il principio di ogni numero46, perché è il minimo. Ed è il fine di ogni numero, perché è il massimo. L’unità assoluta, cui nulla si oppone, è pertanto la massimità assoluta stessa, la quale è Dio benedetto. Questa unità, essendo massima, non è moltiplicabile, perché è tutto ciò che può essere. Non può pertanto diventare essa stessa un numero. Il numero, come vedi, ci ha condotto a comprendere che al Dio innominabile si addice più da vicino l’unità assoluta, e che Dio è uno in modo tale da essere in atto tutto ciò che è possibile. Per questo motivo, l’unità assoluta non ammette il più e il meno, e non è moltiplicabile. La divinità, pertanto è unità infinita. Colui che disse: «Ascolta Israele, il tuo Dio è uno»47, e: «Uno è il maestro» ed è il «padre vostro nei cieli»48, non avrebbe quindi potuto dire cosa più vera. E chi dicesse che vi sono più dèi, costui affermerebbe, nel modo più falso, che non esiste né Dio, né alcuna delle cose dell’universo, come mostreremo in seguito. Come il numero, infatti, che è un ente di ragione, prodotto dalla nostra facoltà di discernere mediante comparazioni49, presuppone necessariamente l’unità come principio del numero, in modo tale che senza questo principio è impossibile che vi sia il numero, così la pluralità delle cose, che discendono dall’unità infinita, si rapportano ad essa, in modo tale che, senza tale unità, esse non potrebbero esistere. In che modo infatti potrebbero essere senza l’essere? L’unità assoluta è l’entità, come vedremo più avanti50. CAPITOLO VI
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Il massimo è necessità assoluta Nei capitoli precedenti ho mostrato che tutte le cose, tranne l’uno, che è il massimo in quanto tale, sono, rispetto ad esso, finite e limitate51. Ora, ciò che è finito e limitato ha un punto da cui inizia e un punto in cui termina. Non si può tuttavia dire che un tale punto sia maggiore di una data realtà finita e che sia, a sua volta, esso stes-
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ita semper in infinitum progrediendo, quoniam in excedentibus et excessis progressio in infinitum actu fieri non potest – alias maximum esset de natura finitorum –: igitur necessario est maximum actu omnium finitorum principium et finis. Praeterea, nihil esse posset, si maximum simpliciter non esset. Nam cum omne non-maximum sit finitum, est et principiatum; erit autem necessarium, quod ab alio; alioquin, si a seipso, fuisset quando non fuisset. Nec in principiis et causis est – ut ex regula patet – possibile ire in infinitum. Erit igitur maximum simpliciter, sine quo nihil esse potest. 16 Praeterea, contrahamus maximum ad esse et dicamus: Maximo esse nihil opponitur; quare nec non esse nec minime esse. Quomodo igitur intelligi potest maximum non esse posse, cum minime esse sit maxime esse? Neque quidquam intelligi potest esse sine esse. Absolutum autem esse non potest esse aliud quam maximum absolute. Nihil igitur potest intelligi esse sine maximo. Praeterea, veritas maxima est maximum absolute. Maxime igitur verum est ipsum maximum simpliciter esse vel non esse, vel esse et non esse, vel nec esse nec non esse; et plura nec dici nec cogitari possunt. Qualecumque horum dixeris maxime verum, habeo propositum; nam habeo veritatem maximam, quae est maximum simpliciter. 17 Unde, etsi per praemissa manifestum sit, quod hoc nomen esse aut aliud quodcumque nomen non sit praecisum nomen maximi, quod est super omne nomen, tamen esse maxime et innominabiliter per nomen maximum super omne esse nominabile sibi convenire necesse est. Talibus quidem et infinitis consimilibus rationibus
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so finito, procedendo così sempre avanti all’infinito, perché fra realtà nelle quali vi è comparativamente un di più e un di meno non può darsi in atto un progresso all’infinito, in quanto, altrimenti, il massimo apparterrebbe alla natura delle realtà finite. Da ciò consegue necessariamente che il massimo in atto è il principio e il fine di tutte le cose finite. Inoltre, se non vi fosse il massimo in quanto tale, non potrebbe esistere nulla. Infatti, dato che tutto ciò che non è il massimo è finito, esso ha anche un principio. Sarà poi necessario che esso derivi da qualcos’altro. Altrimenti, se derivasse da se stesso, esso sarebbe esistito quando ancora non esisteva. E nella serie dei principi e delle cause non è possibile andare all’infinito, come risulta evidente dalla regola52. Di conseguenza, vi sarà un massimo in quanto tale, senza il quale nulla può esistere. Consideriamo inoltre il massimo contratto nell’essere, e diciamo: all’essere massimo non si oppone nulla, per cui ad esso non si oppongono né il non-essere, né l’essere inteso in senso minimo. Come si può allora pensare che il massimo possa non essere, dal momento che l’essere in senso minimo è l’essere in senso massimo? E non è neppure possibile pensare che qualcosa possa essere senza l’essere53. Ma l’essere assoluto non può essere altro che il massimo in senso assoluto. Non è quindi possibile pensare che qualcosa esista senza il massimo. Inoltre, la verità massima è il massimo in senso assoluto. È quindi assolutamente vero che il massimo in quanto tale o è o non è, oppure che esso è e non è, oppure che esso né è, né non è. Non ci sono altre possibilità oltre queste che si possono formulare o pensare. Qualunque di queste proposizioni tu dirai essere quella massimamente vera, io ho in ogni caso dimostrato quanto mi ero proposto. Ho infatti la verità massima, che è il massimo in quanto tale. Di conseguenza, sebbene da quanto abbiamo detto risulti evidente che il nome di «essere», o qualunque altro nome, non è il nome preciso del massimo, «il quale è al di sopra di ogni nome»54, è tuttavia necessario che ad esso l’essere si addica in modo massimo, anche se in un modo che non è nominabile mediante il nome di «massimo» e che è al di sopra di ogni essere nominabile. Per queste ragioni e per infinite altre simili a queste, la dotta ignoran-
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ex superioribus docta ignorantia apertissime videt maximum simpliciter necessario esse, ita quod sit absoluta necessitas. Est autem ostensum non posse nisi unum esse maximum simpliciter. Quare unum esse maximum est verissimum. 18
CAPITULUM VII
De trina et una aeternitate. Nulla umquam natio fuit, quae Deum non coleret et quem maximum absolute non crederet. Reperimus Marcum Varronem in libris Antiquitatum annotasse Sissennios unitatem pro maximo adorasse. Pythagoras autem, vir suo aevo auctoritate irrefragabili clarissimus, unitatem illam trinam astruebat. Huius veritatem investigantes, altius ingenium elevantes dicamus iuxta praemissa: Id, quod omnem alteritatem praecedit, aeternum esse nemo dubitat. Alteritas namque idem est quod mutabilitas; sed omne, quod mutabilitatem naturaliter praecedit, immutabile est; quare aeternum. Alteritas vero constat ex uno et altero; quare alteritas sicut numerus posterior est unitate. Unitas ergo prior natura est alteritate et, quoniam eam naturaliter praecedit, est unitas aeterna. 19 Amplius, omnis inaequalitas est ex aequali et excedente. Inaequalitas ergo posterior natura est aequalitate, quod per resolutionem firmissime probari potest. Omnis enim inaequalitas in aequalitatem resolvitur; nam aequale inter maius et minus est. Si igitur demas, quod maius est, aequale erit; si vero minus fuerit, deme a reliquo, quod maius est, et aequale fiet. Et hoc etiam facere poteris, quousque ad simplicia demendo veneris. Patet itaque, quod omnis inaequalitas demendo ad aequalitatem redigitur. Aequalitas ergo naturaliter praecedit inaequalitatem. Sed inaequalitas et
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za, sulla base di quanto abbiamo detto in precedenza, vede in maniera chiarissima che il massimo in quanto tale esiste necessariamente, in modo tale da essere la necessità assoluta. Ed ho anche dimostrato che il massimo in quanto tale non può essere che l’uno55. Perciò, è assolutamente vero che l’uno è il massimo. CAPITOLO VII
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L’eternità trina e una Non c’è mai stato un popolo che non abbia adorato un Dio, e che non abbia creduto che egli fosse il massimo in senso assoluto. Nei libri di Marco Varrone sulle Antichità, troviamo che i Sisseni adoravano come massimo l’unità56. Pitagora, invece, un uomo estremamente illustre nella sua epoca per la sua indiscussa autorità, sosteneva che quell’unità è trina57. Se vogliamo indagare la verità circa questo argomento, ed elevare così la nostra mente più in alto, allora, sulla base di quanto abbiamo detto in precedenza, possiamo affermare questo: nessuno dubita che ciò che precede ogni alterità sia eterno. L’alterità, infatti è identica alla mutabilità58. Ma tutto ciò che precede per natura la mutabilità è immutabile e, pertanto, eterno. L’alterità, tuttavia, è costituita dall’uno e da ciò che altro dall’uno59. Per questo motivo, l’alterità, come il numero, è posteriore all’unità. L’unità, pertanto, è anteriore per natura all’alterità, e poiché precede per natura l’alterità l’unità è eterna. Inoltre, ogni ineguaglianza è composta da qualcosa di eguale e da un qualcosa che eccede. L’ineguaglianza, pertanto, è posteriore per natura all’eguaglianza, cosa che si può provare in modo assolutamente sicuro mediante un procedimento di risoluzione [analitico]. Ogni ineguaglianza, infatti, si risolve nell’eguaglianza60. L’eguale, in effetti, sta tra il di più e il di meno. Se togli la parte che è di più, avrai pertanto l’eguale. Se si trattasse invece di qualcosa che è di meno, togli dall’altra parte ciò che vi è di più, e ne risulterà l’eguale. E potrai proseguire con questa operazione, fino a che, continuando a togliere, giungerai agli elementi semplici. È chiaro, quindi, che ogni ineguaglianza, togliendo, viene ricondotta all’eguaglianza61. L’eguaglianza, pertanto, precede per natura l’ineguaglianza. Ma l’ineguaglianza e l’alterità sono per natura concomitan-
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alteritas simul sunt natura; ubi enim inaequalitas, ibidem necessario alteritas, et e converso. Inter duo namque ad minus erit alteritas. Illa vero ad unum illorum duplicitatem facient; quare erit inaequalitas. Alteritas ergo et inaequalitas simul erunt natura, praesertim cum binarius prima sit alteritas et prima inaequalitas. Sed probatum est aequalitatem praecedere natura inaequalitatem, quare et alteritatem; aequalitas ergo aeterna. 20 Amplius, si duae fuerint causae, quarum una prior natura sit altera, erit effectus prioris prior natura posterioris. Sed unitas vel est connexio vel est causa connexionis; inde enim aliqua connexa dicuntur, quia simul unita sunt. Binarius quoque vel divisio est vel causa divisionis; binarius enim prima est divisio. Si ergo unitas causa connexionis est, binarius vero divisionis: ergo, sicut unitas est prior natura binario, ita connexio prior natura divisione. Sed divisio et alteritas simul sunt natura; quare et connexio sicut unitas est aeterna, cum prior sit alteritate. 21 Probatum est igitur: Quoniam unitas aeterna est, aequalitas aeterna, similiter et connexio aeterna. Sed plura aeterna esse non possunt. Si enim plura essent aeterna, tunc, quoniam omnem pluralitatem praecedit unitas, esset aliquid prius natura aeternitate; quod est impossibile. Praeterea, si plura essent aeterna, alterum alteri deesset ideoque nullum illorum perfectum esset; et ita esset aliquod aeternum, quod non esset aeternum, quia non esset perfectum. Quod cum non sit possibile, hinc plura aeterna esse non possunt. Sed quia unitas aeterna est, aequalitas aeterna est, similiter et connexio: hinc unitas, aequalitas et connexio sunt unum. Et haec est illa trina unitas, quam Pythagoras, omnium philosophorum primus, Italiae et Graeciae decus, docuit adorandam. Sed adhuc aliqua de generatione aequalitatis ab unitate subiungamus expressius.
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ti. Dove, infatti, c’è l’ineguaglianza, lì c’è necessariamente l’alterità, e viceversa. L’alterità, infatti, ci sarà dove ci sono almeno due cose. E il fatto che siano due significa che, rispetto ad una di esse, formeranno una duplicità. Per cui vi sarà fra di esse una ineguaglianza. L’alterità e l’ineguaglianza, pertanto, saranno per natura concomitanti, specialmente per il fatto che la dualità è la prima alterità62 e la prima forma di ineguaglianza. Ma ho già dimostrato che l’eguaglianza precede per natura all’ineguaglianza, per cui precede anche l’alterità. L’eguaglianza, quindi, è eterna. Inoltre, se vi saranno due cause, delle quali una è per natura anteriore all’altra, anche l’effetto della prima sarà per natura anteriore all’effetto della seconda. L’unità, tuttavia, o è connessione, o è causa di connessione63. La ragione per la quale, infatti, si dice che alcune cose sono connesse risiede nel fatto che esse sono unite insieme. Allo stesso modo, la dualità o è divisione o è causa di divisione; la dualità, infatti, è la prima forma di divisione. Se, pertanto, l’unità è causa di connessione e la dualità, invece, è causa di divisione, allora, come l’unità è anteriore per natura alla dualità, così la connessione è anteriore per natura alla divisione. Ma la divisione e l’alterità sono per natura concomitanti. Pertanto, anche la connessione, come l’unità, è eterna, essendo anteriore all’alterità. Abbiamo dunque dimostrato che, poiché l’unità è eterna, è eterna l’eguaglianza ed è eterna anche la connessione. Non possono tuttavia esservi più realtà eterne64. Se vi fossero infatti più realtà eterne, allora, dal momento che l’unità precede ogni pluralità, vi sarebbe qualcosa che per natura sarebbe anteriore all’eternità. Il che è impossibile. Inoltre, se vi fossero più realtà eterne, ciascuna sarebbe priva delle altre, e pertanto nessuna di esse sarebbe perfetta. In questo modo, vi sarebbe qualcosa di eterno che non sarebbe eterno, in quanto non sarebbe perfetto. Dal momento che questo non è possibile, non possono pertanto esservi più realtà eterne. Ma poiché l’unità è eterna, l’eguaglianza è eterna ed è eterna anche la connessione, ne consegue che l’unità, l’eguaglianza e la connessione sono un’unica cosa. E questa è quella unità trina che Pitagora, il primo fra tutti filosofi, onore dell’Italia e della Grecia, insegnò che si deve adorare 65. Ma ora vorrei aggiungere, in maniera più esplicita, alcune considerazioni a proposito della generazione dell’eguaglianza dall’unità.
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CAPITULUM VIII
De generatione aeterna. 22 Ostendamus
nunc brevissime ab unitate gigni unitatis aequalitatem, connexionem vero ab unitate procedere et ab unitatis aequalitate. Unitas dicitur quasi ὠντας ab ὠν Graeco, quod Latine ens dicitur; et est unitas quasi entitas. Deus namque ipsa est rerum entitas; forma enim essendi est, quare et entitas. Aequalitas vero unitatis quasi aequalitas entitatis, id est aequalitas essendi sive existendi. Aequalitas vero essendi est, quod in re neque plus neque minus est; nihil ultra, nihil infra. Si enim in re magis est, monstruosum est; si minus est, nec est. 23 Generatio aequalitatis ab unitate clare conspicitur, quando quid sit generatio attenditur. Generatio est enim unitatis repetitio vel eiusdem naturae multiplicatio a patre procedens in filium. Et haec quidem generatio in solis rebus caducis invenitur. Generatio autem unitatis ab unitate est una unitatis repetitio, id est unitas semel; quod, si bis vel ter vel deinceps unitatem multiplicavero, iam unitas ex se aliud procreabit, ut binarium vel ternarium vel alium numerum. Unitas vero semel repetita solum gignit unitatis aequalitatem; quod nihil aliud intelligi potest quam quod unitas gignat unitatem. Et haec quidem generatio aeterna est. CAPITULUM IX
De connexionis aeterna processione. 24 Quemadmodum
generatio unitatis ab unitate est una unitatis repetitio, ita processio ab utroque est repetitionis illius unitatis,
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CAPITOLO VIII
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La generazione eterna Vorrei ora mostrare in modo molto breve come dall’unità si generi l’eguaglianza dell’unità e come, invece, la connessione proceda dall’unità e dall’eguaglianza dell’unità. Il termine «unità» è in un certo qual modo l’equivalente di ὠντας, che deriva dal greco ὠν e che in latino viene reso con il termine «ens» [ente]66. «Unità», quindi, significa in certo qual modo entità. In effetti, Dio è l’entità stessa delle cose. È infatti la forma dell’essere67, e per questo è anche entità. Ora, l’eguaglianza dell’unità è in un certo qual modo l’eguaglianza dell’identità, ossia l’eguaglianza dell’essere o dell’esistere68. Ma «eguaglianza dell’essere» significa che in una cosa non c’è né di più, né di meno [del suo essere], nulla al di sopra e nulla al di sotto69. Se vi fosse infatti qualcosa di più, la cosa risulterebbe mostruosa; se vi fosse qualcosa di meno, la cosa non esisterebbe neanche. La generazione dell’eguaglianza dall’unità la si può osservare chiaramente se si presta attenzione a che cosa sia la generazione. La generazione, infatti, è la ripetizione dell’unità, o la moltiplicazione della medesima natura, come quella che procede dal padre nel figlio. Questo secondo tipo di generazione lo si trova solo nelle realtà mortali. La generazione dell’unità dall’unità è invece una ripetizione unica dell’unità, ossia è l’unità presa una sola volta; ma se moltiplicherò l’unità due volte o tre volte, e così via, l’unità procreerà da se stessa qualcosa di altro da sé, come, ad esempio, il numero due o il numero tre, o qualche altro numero. L’unità ripetuta una sola volta, invece, genera soltanto l’eguaglianza dell’unità, e con ciò non si può intendere altro se non che l’unità genera l’unità. E questa generazione è certamente eterna70. CAPITOLO IX
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La processione eterna della connessione Come la generazione dell’unità dall’unità è un’unica ripetizione dell’unità, così la processione da entrambi i termini è l’unità della ripetizione di quella unità, o, se preferisci quest’altra espressione,
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sive mavis dicere unitatis et aequalitatis unitatis ipsius unitas. Dicitur autem processio quasi quaedam ab altero in alterum extensio; quemadmodum cum duo sunt aequalia, tunc quaedam ab uno in alterum quasi extenditur aequalitas, quae illa coniungat quodammodo et connectat. Merito ergo dicitur ab unitate et ab aequalitate unitatis connexio procedere; neque enim connexio unius tantum est, sed ab unitate in aequalitatem unitas procedit, et ab unitatis aequalitate in unitatem. Merito igitur ab utroque procedere dicitur eo, quod ab altero in alterum quasi extenditur. 25 Sed nec ab unitate vel unitatis aequalitate gigni dicimus connexionem, quoniam nec ab unitate per repetitionem fit neque per multiplicationem; et quamvis ab unitate gignatur unitatis aequalitas et ab utroque connexio procedat, unum tamen et idem est unitas et unitatis aequalitas et connexio procedens ab utroque, – velut si de eodem dicatur: ‘hoc, id, idem’. Hoc ipsum quidem, quod dicitur id, ad primum refertur; quod vero dicitur idem, relatum connectit et coniungit ad primum. Si igitur ab hoc pronomine, quod est id, formatum esset hoc vocabulum, quod est iditas, ut sic dicere possemus ‘unitas, iditas, identitas’, relationem quidem faceret iditas ad unitatem, identitas vero iditatis et unitatis designaret connexionem, satis propinque Trinitati convenirent. 26 Quod autem sanctissimi nostri doctores unitatem vocaverunt Patrem, aequalitatem Filium, et connexionem Spiritum sanctum, hoc propter quandam similitudinem ad ista caduca fecerunt. Nam in patre et filio est quaedam natura communis, quae una est, ita quod in ipsa natura filius patri est aequalis. Nihil enim magis vel minus humanitatis est in filio quam in patre, et inter eos quaedam est connexio. Amor enim naturalis alterum cum altero connectit, et
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è l’unità dell’unità e dell’eguaglianza dell’unità. Con «processione», tuttavia, s’intende in un certo senso un’estensione da una cosa ad un’altra. È quanto accade quando due cose sono eguali; in questo caso, dall’una all’altra si estende una certa eguaglianza, che le congiunge in qualche modo e le connette. Per questo, si dice giustamente che la connessione procede dall’unità e dall’eguaglianza dell’unità71. La connessione, infatti, non riguarda un termine soltanto, ma procede piuttosto dall’unità verso l’eguaglianza dell’unità e dall’eguaglianza dell’unità verso l’unità. Pertanto, si dice giustamente che la connessione procede da entrambi i termini, in quanto si estende, in un certo qual modo, dall’uno verso l’altro. Tuttavia, non diciamo che la connessione è generata dall’unità o dall’eguaglianza dell’unità, perché essa non deriva dall’unità, né attraverso una sua ripetizione, né mediante una sua moltiplicazione. E sebbene l’eguaglianza dell’unità sia generata dall’unità e la connessione proceda da entrambe, ciononostante l’unità, l’eguaglianza dell’unità e la connessione che procede da entrambe sono un’unica ed identica cosa, come se di uno stesso oggetto si dicesse: «questo, quello, identico»72. Ciò che chiamiamo «quello» si riferisce al primo, mentre ciò che chiamiamo «identico» connette e congiunge al primo il «quello» che è ad esso riferito. Supponiamo, dunque, che dal pronome «id» [«quello»] si possa formare un sostantivo come «idità», per cui potremmo dire «unità, idità, identità»: in questo caso, l’idità esprimerebbe una relazione all’unità, mentre l’identità designerebbe la connessione dell’idità e dell’unità. In questo modo, i termini «unità», «idità» e «identità» potrebbero convenire con sufficiente approssimazione alla trinità. Per quanto poi concerne il fatto che i nostri dottori santissimi hanno chiamato l’unità «padre», l’eguaglianza «figlio» e la connessione «spirito santo», occorre dire che essi hanno impiegato questi termini per una certa similitudine con le cose mortali73. In un padre e in un figlio, infatti, c’è una natura comune che è una, per cui, per quanto concerne questa natura, il figlio è eguale al padre. Nel figlio, infatti, la natura umana non è presente in misura maggiore o minore rispetto a come è presente nel padre, per cui fra un padre e un figlio c’è anche una certa connessione. Vi è in effetti un amore
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hoc propter similitudinem eiusdem naturae, quae in eis est, quae a patre in filium descendit; et ob hoc ipsum filium plus diligit quam alium secum in humanitate convenientem. Ex tali quidem – licet distantissima – similitudine Pater dicta est unitas, Filius aequalitas, connexio vero amor sive Spiritus sanctus, creaturarum respectu tantum, prout infra etiam suo loco clarius ostendemus. Et haec est meo arbitratu iuxta Pythagoricam inquisitionem trinitatis in unitate et unitatis in trinitate semper adorandae manifestissima inquisitio. 27
CAPITULUM X
Quomodo intellectus trinitatis in unitate supergreditur omnia. Nunc inquiramus, quid sibi velit Martianus, quando ait Philosophiam ad huius trinitatis notitiam ascendere volentem circulos et sphaeras evomuisse. Ostensum est in prioribus unicum simplicissimum maximum; et quod ipsum tale non sit nec perfectissima figura corporalis, ut est sphaera, aut superficialis, ut est circulus, aut rectilinealis, ut est triangulus, aut simplicis rectitudinis, ut est linea. Sed ipsum super omnia illa est, ita quod illa, quae aut per sensum aut imaginationem aut rationem cum materialibus appendiciis attinguntur, necessario evomere oporteat, ut ad simplicissimam et abstractissimam intelligentiam perveniamus, ubi omnia sunt unum; ubi linea sit triangulus, circulus et sphaera; ubi unitas sit trinitas et e converso; ubi accidens sit substantia; ubi corpus sit spiritus, motus sit quies et cetera huiusmodi. Et tunc intelligitur, quando quodlibet in ipso uno intelligitur, unum; et ipsum unum omnia; et per consequens quodlibet in ipso omnia. Et non recte
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naturale che connette l’uno con l’altro, e questo a motivo della somiglianza della medesima natura che è presente in essi, e che passa dal padre al figlio. Ed è per questo motivo che un padre ama suo figlio più di quanto ami un’altra persona che condivide con lui la natura umana. È a motivo di questa similitudine, per quanto molto lontana, che l’unità è stata chiamata «padre», l’eguaglianza «figlio» e la connessione «amore» o «spirito santo»; nomi, questi, che sono stati impiegati solo per la loro relazione con le creature, come mostreremo con maggiore chiarezza anche più avanti, a suo luogo. E questa indagine, condotta seguendo la ricerca pitagorica74, è a mio parere l’indagine più chiara che si possa svolgere intorno a quella trinità nell’unità e a quella unità nella trinità che dobbiamo sempre adorare. CAPITOLO X
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La conoscenza della trinità nell’unità è superiore ad ogni altra conoscenza Esaminiamo ora che cosa intenda dire Marziano quando afferma che la filosofia, volendo elevarsi ad una conoscenza di questa trinità, ha rigettato circoli e sfere75. Nei capitoli precedenti76 abbiamo mostrato che il massimo è assolutamente semplice ed è unico, e che un tale massimo non può essere né la figura più perfetta fra i solidi, ossia la sfera, né la figura più perfetta fra le superfici, ossia il cerchio, né quella più perfetta fra le figure composte di linee [rette], ossia il triangolo, e neppure la semplice rettitudine, ossia la linea. Il massimo, piuttosto, è al di sopra di tutto ciò, per cui noi dobbiamo necessariamente rigettare tutte quelle cose che, insieme alle loro appendici materiali, vengono colte con i sensi, con l’immaginazione o con la ragione, in modo da poter giungere ad una forma di conoscenza intellettiva del tutto semplice ed astratta, dove tutto è uno, dove la linea è triangolo, cerchio e sfera, dove l’unità è trinità e viceversa, dove l’accidente è sostanza, il corpo è spirito, il movimento è quiete, e così via. Ed è solo allora che si perviene alla conoscenza, quando, cioè, si comprende che ogni cosa nell’uno è l’uno, che l’uno è tutte le cose e che, di conseguenza, ogni cosa nell’uno è tutte le altre. E non è sufficiente che tu abbia
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evomuisti sphaeram, circulum et huiusmodi, si non intelligis ipsam unitatem maximam necessario esse trinam. Maxima enim nequaquam recte intelligi poterit, si non intelligatur trina. 28 Ut exemplis ad hoc utamur convenientibus: videmus unitatem intellectus non aliud esse quam intelligens, intelligibile et intelligere. Si igitur ab eo, quod est intelligens, velis te ad maximum transferre et dicere maximum esse maxime intelligens et non adicias ipsum etiam esse maxime intelligibile et maximum intelligere, non recte de unitate maxima et perfectissima concipis. Si enim unitas est maxima et perfectissima intellectio, quae sine istis correlationibus tribus nec intellectio nec perfectissima intellectio esse poterit, non recte unitatem concipit, qui ipsius unitatis trinitatem non attingit. Unitas enim non nisi trinitas est; nam dicit indivisionem, discretionem et connexionem. Indivisio quidem ab unitate est, similiter discretio, similiter et unio sive connexio. Maxima igitur unitas non aliud est quam indivisio, discretio et connexio. Et quoniam indivisio est, tunc est aeternitas sive absque principio, sicut aeternum a nullo divisum. Quoniam discretio est, ab aeternitate immutabili est. Et quoniam connexio sive unio est, ab utroque procedit. 29 Adhuc, cum dico: ‘Unitas est maxima’, trinitatem dico. Nam cum dico unitas, dico principium sine principio; cum dico maxima, dico principium a principio; cum illa per verbum est copulo et unio, dico processionem ab utroque. Si igitur ex superioribus manifestissime probatum est unum esse maximum, quoniam minimum, maximum et connexio unum sunt, ita quod ipsa unitas est et minima et maxima et unio: hinc constat, quomodo evomere omnia imaginabilia et rationabilia necesse est Philosophiam, quae unita-
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rigettato la sfera, il cerchio e cose simili, se non comprendi che la stessa unità massima è necessariamente trina. Infatti, non la si potrà in alcun modo intendere correttamente come massima, se non la si intende come trina. Facciamo degli esempi che possono essere convenientemente impiegati per illustrare questo punto: vediamo che l’unità dell’intelletto non consiste in altro che nel soggetto intelligente, nell’oggetto intelligibile e nell’atto d’intendere. Supponiamo, pertanto, che tu voglia trasferire la tua riflessione dall’intelletto in quanto soggetto intelligente al massimo, e dire che il massimo è il massimamente intelligente: se non aggiungi che il massimo è anche il massimamente intelligibile e il massimo atto d’intendere, non giungi a concepire in maniera corretta l’unità massima e perfettissima. Se l’unità, infatti, è la forma massima e più perfetta d’intellezione, la quale senza la reciproca relazione fra questi tre momenti non potrebbe essere né un’intellezione, né la forma perfettissima di intellezione, allora non concepisce in maniera corretta l’unità chi non giunge a cogliere la trinità di questa stessa unità. Non può infatti esservi unità senza trinità, perché unità significa indivisione, distinzione e connessione. L’indivisione deriva certamente dall’unità, come la distinzione e come pure l’unione o connessione. L’unità massima, pertanto, non è altro che indivisione, distinzione e connessione. Poiché è indivisione, l’unità massima è eternità, ovvero senza principio, così come l’eterno non è diviso da nulla. Poiché è distinzione, l’unità massima deriva dall’eternità immutabile. E poiché è connessione o unione, procede dall’una e dall’altra [dall’indivisione e dalla distinzione]. Inoltre, quando dico: «L’unità è massima», in questo modo indico una trinità. Quando infatti dico «unità», indico un principio senza principio, quando dico «massima» indico un principio dal principio, e quando congiungo ed unisco le due parole mediante la copula «è», indico una processione dall’uno e dall’altro77. Se in precedenza78 abbiamo dimostrato in maniera estremamente chiara che l’uno è massimo in quanto è il minimo, allora il massimo e la connessione sono un’unica cosa, per cui la stessa unità è sia l’unità minima, sia l’unità massima, sia la loro unione. Da ciò risulta evidente che la filosofia deve necessariamente rigettare tutto ciò che è oggetto della
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tem maximam non nisi trinam simplicissima intellectione voluerit comprehendere. Admiraris autem de hiis, quae diximus, quomodo volentem maximum simplici intellectione apprehendere necesse sit rerum differentias et diversitates ac omnes mathematicas figuras transilire, quoniam lineam diximus in maximo superficiem et circulum et sphaeram. Unde, ut acuetur intellectus, ad hoc te facilius indubitata manuductione transferre conabor, ut videas ista necessaria atque verissima, quae te non inepte, si ex signo ad veritatem te elevaveris verba transsumptive intelligendo, in stupendam suavitatem adducent; quoniam in docta ignorantia proficies in hac via, ut – quantum studioso secundum humani ingenii vires elevato conceditur – videre possis ipsum unum maximum incomprehensibile, Deum unum et trinum semper benedictum. 30
CAPITULUM XI
Quod mathematica nos iuvet plurimum in diversorum divinorum apprehensione. Consensere omnes sapientissimi nostri et divinissimi doctores visibilia veraciter invisibilium imagines esse atque creatorem ita cognoscibiliter a creaturis videri posse quasi in speculo et in aenigmate. Hoc autem, quod spiritualia – per se a nobis inattingibilia – symbolice investigentur, radicem habet ex hiis, quae superius dicta sunt, quoniam omnia ad se invicem quandam – nobis tamen occultam et incomprehensibilem – habent proportionem, ut ex omnibus unum exsurgat universum et omnia in uno maximo sint ipsum unum. Et quamvis omnis imago accedere videatur ad similitudinem exemplaris: tamen praeter maximam imaginem, quae est
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facoltà immaginativa e della ragione, se vuole comprendere con un atto intellettivo semplicissimo che l’unità massima non è che trina. Quanto abbiamo detto può tuttavia destare in te un certo stupore, ossia che chi vuole cogliere il massimo con un atto intellettivo semplice deve necessariamente oltrepassare le differenze e le diversità che vi sono fra le cose e tutte le figure matematiche, perché nel massimo, come abbiamo detto, la linea è superficie, cerchio e sfera. Pertanto, per rendere più acuto il tuo intelletto, cercherò di condurti a queste cose in maniera più facile, guidandoti per mano con sicurezza in modo tale che tu possa vedere come queste affermazioni siano necessarie ed assolutamente vere. Ed esse saranno uno strumento non privo di valore per condurti ad una meravigliosa soavità, se sarai in grado di elevarti dai segni sensibili alla verità, intendendo in modo traslato il significato letterale delle parole. Procedendo lungo questa via, infatti, farai progressi nella dotta ignoranza, in modo tale che potrai giungere a contemplare l’uno massimo incomprensibile, il Dio uno e trino sempre benedetto, per quanto ciò è concesso a chi si adopera per elevarsi secondo le forze dell’intelligenza umana. CAPITOLO XI
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La matematica ci offre un grande aiuto per intendere diverse verità nell’ambito delle cose divine Tutti i nostri dottori, sapienti e santi in sommo grado, concordano nel sostenere che le cose visibili sono veramente immagini delle realtà invisibili79, e che, per questo, a partire dalle creature è possibile vedere e conoscere il creatore come «in uno specchio» e «in enigma»80. Il fatto, tuttavia, che le realtà spirituali, che di per sé sono a noi inaccessibili, possano venire indagate in maniera simbolica, ha il suo fondamento in quanto abbiamo detto in precedenza, ossia nel fatto che tutte le cose stanno fra loro in una certa proporzione, per quanto a noi nascosta ed incomprensibile, in modo tale che da tutte scaturisce un unico universo e che tutte nell’uno massimo sono l’uno stesso. E sebbene ogni immagine sembri avvicinarsi all’esemplare come una sua similitudine, tuttavia, ad eccezione dell’immagine massima, che è identica all’esemplare nell’unità
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hoc ipsum quod exemplar in unitate naturae, non est imago adeo similis aut aequalis exemplari, quin per infinitum similior et aequalior esse possit, uti iam ista ex superioribus nota facta sunt. 31 Quando autem ex imagine inquisitio fit, necesse est nihil dubii apud imaginem esse, in cuius transsumptiva proportione incognitum investigatur, cum via ad incerta non nisi per praesupposita et certa esse possit. Sunt autem omnia sensibilia in quadam continua instabilitate propter possibilitatem materialem in ipsis habundantem. Abstractiora autem istis, ubi de rebus consideratio habetur, – non ut appendiciis materialibus, sine quibus imaginari nequeunt, penitus careant neque penitus possibilitati fluctuanti subsint – firmissima videmus atque nobis certissima, ut sunt ipsa mathematicalia. Quare in illis sapientes exempla indagandarum rerum per intellectum sollerter quaesiverunt, et nemo antiquorum, qui magnus habitus est, res difficiles alia similitudine quam mathematica aggressus est; ita ut Boethius, ille Romanorum litteratissimus, assereret neminem divinorum scientiam, qui penitus in mathematicis exercitio careret, attingere posse. 32 Nonne Pythagoras, primus et nomine et re philosophus, omnem veritatis inquisitionem in numeris posuit? Quem Platonici et nostri etiam primi in tantum secuti sunt, ut Augustinus noster et post ipsum Boethius affirmarent indubie numerum creandarum rerum in animo conditoris principale exemplar fuisse. Quomodo Aristoteles, qui singularis videri voluit priores confutando, aliter nobis in Metaphysicis specierum differentiam tradere potuit quam quod ipsas numeris compararet? Et idem dum de formis naturalibus, quomodo una sit in alia, scientiam tradere vellet, ad formas mathe-
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della natura, non c’è nessuna immagine che sia così simile o eguale al suo esemplare da non poter essere ancora più simile ed eguale, all’infinito, come abbiamo già chiarito in precedenza81. Ora, quando conduciamo una ricerca partendo da un’immagine, è necessario che tale immagine non dia luogo ad alcun dubbio, in quanto è dalla sua proporzione trascendente che procediamo ad indagare ciò che non conosciamo, perché la via che conduce verso le cose incerte non può passare che attraverso le cose che presupponiamo e che ci risultano certe82. Tutte le cose sensibili, tuttavia, sono in una condizione di continua instabilità, dovuta al grado abbondante di possibilità costituito in esse dalla materia. Quando consideriamo i diversi oggetti, tuttavia, vediamo che quelli che, rispetto alle cose percepibili sensibilmente, sono più astratti, come gli enti matematici, sono molto stabili e ci risultano assolutamente certi83, anche se essi non sono del tutto privi di connessioni materiali, senza le quali non possiamo rappresentarceli, né sono del tutto sottratti ad ogni possibilità di mutamento. È per questo motivo che i sapienti hanno cercato accuratamente nell’ambito della matematica gli esempi per indagare le cose mediante l’intelletto, e nessuno degli antichi, fra quelli che vengono considerati grandi, ha affrontato questioni difficili impiegando similitudini diverse da quelle tratte dalla matematica, al punto che Boezio, il più erudito dei romani, affermava che nessuno può giungere ad una conoscenza delle cose divine, se manca completamente di esercizio nelle cose matematiche84. E Pitagora, il primo filosofo di nome e di fatto, non ha forse ritenuto che ogni ricerca della verità dovesse essere condotta mediante i numeri85? I Platonici86 ed anche i nostri primi pensatori lo hanno seguito, a tal punto che il nostro Agostino, e dopo di lui Boezio, hanno affermato che «nella mente del creatore» il numero è stato indubbiamente «il principale esemplare» delle cose che dovevano essere create87. Ed anche Aristotele, che pure ha voluto mostrarsi originale confutando i suoi predecessori, come avrebbe potuto nella Metafisica insegnarci la differenza fra le specie se non le avesse paragonate ai numeri88? E allo stesso modo, quando, a proposito delle forme naturali, ha voluto insegnarci in che modo una forma è contenuta nell’altra, ha dovuto fare necessariamente ricorso
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maticas necessario convolavit dicens: «Sicut trigonus in tetragono, ita inferior in superiori.» Taceo de innumeris exemplis suis similibus. Aurelius etiam Augustinus Platonicus, quando de quantitate animae et eiusdem immortalitate et ceteris altissimis investigavit, ad mathematica pro adiutorio convolavit. Ista via Boethio nostro adeo placere visa est, ut constanter assereret omnem veritatis doctrinam in multitudine et magnitudine comprehendi. Et si velis, ut compendiosius dicam: Nonne Epicurorum de atomis et inani sententia, quae et Deum negat et cunctam veritatem collidit, solum a Pythagoricis et Peripateticis mathematica demonstratione periit? Non posse scilicet ad atomos indivisibiles et simplices deveniri, quod ut principium Epicurus supposuit. Hac veterum via incedentes, cum ipsis concurrentes dicimus, cum ad divina non nisi per symbola accedendi nobis via pateat, quod tunc mathematicalibus signis propter ipsorum incorruptibilem certitudinem convenientius uti poterimus. 33
CAPITULUM XII
Quomodo signis mathematicalibus sit utendum in proposito. Verum quoniam ex antehabitis constat maximum simpliciter nihil horum esse posse, quae per nos sciuntur aut concipiuntur, hinc, cum ipsum symbolice investigare proponimus, simplicem similitudinem transilire necesse est. Nam cum omnia mathematicalia sint finita et aliter etiam imaginari nequeant: si finitis uti pro exemplo voluerimus ad maximum simpliciter ascendendi, primo necesse est figuras mathematicas finitas considerare cum suis passionibus et rationibus, et ipsas rationes correspondenter ad infini-
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alle forme matematiche, dicendo: «Come il triangolo è contenuto nel quadrato», così la forma inferiore è contenuta nella superiore89. E tralascio gli innumerevoli altri esempi simili a questi impiegati da Aristotele. Anche il platonico Aurelio Agostino, quando ha condotto le sue ricerche sulla quantità dell’anima, sulla sua immortalità e su altri argomenti molto profondi, ha fatto ricorso alla matematica per trovarvi aiuto90. Al nostro Boezio questo metodo è parso così utile, che egli ha affermato ripetutamente che ogni vera dottrina risulta compresa nell’ambito della molteplicità e della grandezza91. E, se vuoi, per illustrare questo argomento in modo più conciso: la teoria epicurea degli atomi e del vuoto, che giunge anche a negare Dio e che è in contrasto con ogni verità, non è stata forse distrutta dai Pitagorici e dai Peripatetici con una dimostrazione matematica? Intendo la dimostrazione secondo la quale non è possibile giungere a degli atomi indivisibili e semplici, che era quanto Epicuro aveva presupposto come principio92. Procedendo lungo questa strada percorsa dagli antichi e in gara con loro, anche noi diciamo quanto segue: dal momento che la via per accedere alle cose divine ci viene dischiusa solo attraverso simboli, potremo allora impiegare con molta convenienza i segni matematici, data la loro certezza incorruttibile93. CAPITOLO XII
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Come devono essere impiegati i segni matematici per il compito che ci siamo proposti Dalle considerazioni precedenti risulta evidente che il massimo in quanto tale non può essere nessuna delle cose che noi siamo in grado di conoscere o di concepire. Di conseguenza, essendoci noi per questo proposti di condurre la nostra indagine sul massimo in maniera simbolica, dobbiamo oltrepassare la semplice forma della similitudine94. Tutti gli enti matematici, infatti, sono finiti, perché, altrimenti, non potremmo neppure rappresentarceli [con la facoltà immaginativa]; pertanto, se vogliamo servirci del finito come esempio per ascendere al massimo in quanto tale, dobbiamo in primo luogo considerare le figure matematiche finite con le loro proprietà e i loro rapporti; in secondo luogo, dobbiamo trasferire que-
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tas tales figuras transferre, post haec tertio adhuc altius ipsas rationes infinitarum figurarum transsumere ad infinitum simplex absolutissimum etiam ab omni figura. Et tunc nostra ignorantia incomprehensibiliter docebitur, quomodo de altissimo rectius et verius sit nobis in aenigmate laborantibus sentiendum. 34 Ita igitur agentes et sub directione maximae veritatis incipientes dicimus, quod sancti viri et elevatissimi ingenii, qui se figuris applicarunt, varie locuti sunt: Anselmus devotissimus veritatem maximam rectitudini infinitae comparavit; quem nos sequentes ad figuram rectitudinis, quam lineam rectam imaginor, convolemus. Alii peritissimi Trinitati superbenedictae triangulum trium aequalium et rectorum angulorum compararunt; et quoniam talis triangulus necessario est ex infinitis lateribus, ut ostendetur, dici poterit triangulus infinitus; et hos etiam sequemur. Alii, qui unitatem infinitam figurare nisi sunt, Deum circulum dixerunt infinitum. Illi vero, qui actualissimam Dei existentiam considerarunt, Deum quasi sphaeram infinitam affirmarunt. Nos autem istos omnes simul de maximo recte concepisse et unam omnium sententiam ostendemus. 35
CAPITULUM XIII
De passionibus lineae maximae et infinitae. Dico igitur quod, si esset linea infinita, illa esset recta, illa esset triangulus, illa esset circulus et esset sphaera; et pariformiter, si esset sphaera infinita, illa esset circulus, triangulus et linea; et ita de triangulo infinito atque circulo infinito idem dicendum est. Primum autem, quod linea infinita sit recta, patet: Diameter circuli est linea recta, et circumferentia est linea curva maior dia-
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sti stessi rapporti alle corrispondenti figure matematiche infinite. Dopo questo, dobbiamo in terzo luogo applicare, in maniera ancora più elevata, i rapporti di queste figure infinite all’infinito semplice, che è del tutto indipendente anche da ogni figura. È solo a questo punto che la nostra ignoranza verrà istruita, in maniera incomprensibile, su quale sia per noi, che ci affatichiamo tra gli enigmi, il modo più corretto e più vero di pensare a proposito dell’altissimo. Procedendo dunque in questo modo, e facendoci guidare sin dall’inizio dalla massima verità, stabiliamo anzitutto quali sono le diverse affermazioni che sono state fatte da quegli uomini santi e di altissimo ingegno che si sono occupati delle figure matematiche. Il devotissimo Anselmo ha paragonato la verità massima alla rettitudine infinita95, ed anche noi, seguendo Anselmo, vogliamo ricorrere alla figura della rettitudine, che io mi rappresento come una linea retta. Altri autori espertissimi hanno paragonato la trinità benedetta ad un triangolo formato da tre angoli uguali e retti96; e poiché un tale triangolo, come mostreremo, è composto necessariamente da lati infiniti, lo si potrebbe chiamare «triangolo infinito»; seguirò anche questi autori. Altri ancora, che hanno cercato di raffigurarsi l’unità infinita, hanno detto che Dio è un cerchio infinito97. Coloro che hanno invece preso in considerazione l’esistenza assolutamente in atto di Dio, hanno sostenuto che Dio è come una sfera infinita98. Da parte nostra, mostreremo come tutti questi autori abbiano formulato una concezione giusta del massimo, e come essi abbiano tutti voluto dire la stessa cosa. CAPITOLO XIII
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Le proprietà della linea massima e infinita La tesi che io sostengo è dunque la seguente: se vi fosse una linea infinita, essa sarebbe una linea retta, sarebbe un triangolo, sarebbe un cerchio e sarebbe una sfera. E parimenti, se vi fosse una sfera infinita, essa sarebbe un cerchio, un triangolo e una linea. E lo stesso si deve dire a proposito del triangolo infinito e del cerchio infinito99. In primo luogo, che una linea infinita sia una retta è evidente: il diametro di un cerchio è una linea retta, e la circonferenza è una
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metro. Si igitur curva linea in sua curvitate recipit minus, quanto circumferentia fuerit maioris circuli, igitur circumferentia maximi circuli, quae maior esse non potest, est minime curva; quare maxime recta. Coincidit igitur cum maximo minimum, ita ut ad oculum videatur necessarium esse, quod maxima linea sit recta maxime et minime curva. Nec hic potest remanere scrupulus dubii, quando in figura hic lateraliter videtur, quomodo arcus cd maioris circuli plus recedit a curvitate quam arcus ef minoris circuli, et ille plus a curvitate recedit quam arcus gh adhuc minoris circuli; quare linea recta ab erit arcus maximi circuli, qui maior esse non potest. Et ita videtur, quomodo maxima et infinita linea necessario est rectissima, cui curvitas non opponitur, – immo curvitas in ipsa maxima linea est rectitudo; et hoc est primum probandum. 36 Secundo dictum est lineam infinitam triangulum maximum, circulum et sphaeram. Et ad hoc ostendendum oportet, ut in finitis lineis videamus, quid sit in potentia finitae lineae; et quia quidquid est in potentia finitae, hoc est infinita actu, erit nobis clarius id, quod inquirimus. Et primo scimus, quod linea finita in longitudine potest esse longior et rectior, et iam probatum est maximam esse longissimam atque rectissimam. Secundo, si linea ab, remanente puncto a immobili, circumduceretur, quousque b veniret in c, ortus est triangulus; si perficitur circumductio, quousque b redeat ad initium ubi incepit, fit circulus. Si iterum, a remanente immobili, b circumducitur, quousque perveniat ad locum oppositum ubi incepit, qui sit d, est ex linea
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linea curva che è maggiore del diametro. Di conseguenza, se la curvatura della linea curva diventa tanto minore quanto maggiore diventa la circonferenza del cerchio, allora la circonferenza del cerchio massimo, ossia del cerchio che non può essere maggiore [di quanto è], risulta curva in modo minimo, e pertanto è retta in modo massimo. Di conseguenza, il minimo coincide con il massimo, a tal punto che si può riconoscere anche visivamente che è necessario che la linea massima sia massimamente retta e minimamente curva. E ogni minimo dubbio a questo proposito viene eliminato quando si osserva la figura che viene riportata qui a fianco, e si vede che l’arco CD del cerchio maggiore risulta meno curvo dell’arco EF del cerchio minore, e che l’arco EF risulta meno curvo dell’arco GH del cerchio ancora più piccolo; pertanto, la linea retta AB sarà l’arco del cerchio massimo, ossia del cerchio che non può essere maggiore [di quanto è]. Ed in questo modo si vede che la linea massima e infinita è necessariamente la linea perfetta, alla quale non si oppone la curvità; anzi, nella linea massima la curvità è la rettitudine. E questo è il primo punto che dovevamo dimostrare. In secondo luogo, ho detto che la linea infinita è triangolo massimo, cerchio e sfera. Per dimostrare questo punto, bisogna prendere in considerazione le linee finite e vedere che cosa sia presente in potenza in una linea finita. Poiché, infatti, la linea infinita è in atto tutto ciò che è presente in potenza nella linea finita, in questo modo ci risulterà più chiaro quanto stiamo indagando. In primo luogo, sappiamo che una linea di lunghezza finita può essere più lunga e più retta, e abbiamo già dimostrato che la linea massima è la linea più lunga e più retta possibile. In secondo luogo, se mantenendo fermo il punto A si facesse ruotare la linea AB fino a portare il punto B nel punto C, si formerebbe un triangolo. E se si completa la rotazione fino a ricondurre il punto B nel punto di partenza, ne viene un cerchio. Se poi, mantenendo sempre fermo il punto A, si fa ruotare il punto B fino a farlo giungere nel punto opposto rispetto al punto di
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ab et ad effecta una continua linea et semicirculus descriptus. Et si, remanente bd diametro immobili, circumducatur semicirculus, exoritur sphaera; et ipsa sphaera est ultimum de potentia lineae, totaliter existens in actu, quoniam sphaera non est in potentia ad aliquam figuram ulteriorem. Si igitur in potentia lineae finitae sunt istae figurae, et linea infinita est omnia actu, ad quae finita est in potentia, sequitur infinitam esse triangulum, circulum et sphaeram. Quod erat probandum. Et quia fortassis clarius hoc videre velles, quomodo ea, quae sunt in potentia finiti, est actu infinitum, adhuc de hoc te certissimum reddam. 37
CAPITULUM xiv
Quod infinita linea sit triangulus. Imaginativa, quae genus sensibilium non transcendit, non capit lineam posse triangulum esse, cum improportionabiliter ista in quantis differant. Erit tamen apud intellectum hoc facile. Nam iam constat non nisi unum possibile esse maximum et infinitum. Deinde constat – quoniam omnia duo latera cuiuslibet trianguli simul iuncta tertio minora esse non possunt – triangulum, cuius unum latus est infinitum, alia non esse minora. Et quia quaelibet pars infiniti est infinita, necessarium est omnem triangulum, cuius unum latus est infinitum, alia pariformiter esse infinita. Et quoniam plura infinita esse non possunt, transcendenter intelligis triangulum infinitum ex pluribus lineis componi non posse, licet sit maximus ve-
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partenza, ossia nel punto D, allora le linee AB e AD vengono a formare una sola linea continua, e ne risulta descritto un semicerchio. E se, mantenendo fermo il diametro BD, si fa ruotare il semicerchio, si forma una sfera100. E la sfera è l’ultima figura presente nella potenzialità della linea, ed è una figura che esiste totalmente in atto, in quanto non è in potenza rispetto a nessun’altra figura ulteriore. Se, pertanto, nella potenzialità della linea finita vi sono queste figure, e se la linea infinita è in atto tutte le figure rispetto alle quali la linea finita è in potenza, ne consegue allora che la linea infinita è triangolo, cerchio e sfera. Come dovevasi dimostrare. E poiché probabilmente vorresti vedere più chiaramente in che modo l’infinito sia in atto quelle cose che sono in potenza nel finito, te ne darò adesso una certezza ancora maggiore. CAPITOLO XIV
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La linea infinita è triangolo La facoltà immaginativa, che non trascende il genere delle cose sensibili, non comprende come una linea possa essere un triangolo, perché, nell’ambito delle realtà dotate di quantità, fra una linea e un triangolo vi è una differenza che non è riconducibile ad una proporzione comune. Per l’intelletto, invece, sarà facile comprendere questo. È risultato già evidente che non può esserci che un solo massimo e un solo infinito101. Inoltre, poiché in qualsiasi triangolo la somma di due lati non può essere minore del terzo, è evidente che nel caso di un triangolo che abbia un lato di lunghezza infinita gli altri due non sono minori di esso. E poiché qualsiasi parte di ciò che è infinito è infinita, è necessario che in ogni triangolo che abbia un lato infinito gli altri due siano parimenti infiniti. E poiché non possono esservi più infiniti102, comprendi, in modo trascendente, che un triangolo infinito non può essere composto di più linee, per quanto sia il triangolo massimo e assolutamente vero,
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rissimus triangulus, incompositus et simplicissimus; et quia verissimus triangulus, qui sine tribus lineis esse nequit, erit necessarium ipsam unicam infinitam lineam esse tres et tres esse unam simplicissimam. Ita de angulis, quoniam non erit nisi angulus unus infinitus, et ille est tres anguli et tres anguli unus. Nec erit iste maximus triangulus ex lateribus et angulis compositus, sed unum et idem est linea infinita et angulus; ita quod et linea est angulus, quia triangulus linea. 38 Adhuc, poteris te iuvare ad huius intelligentiam per ascensionem a triangulo quanto ad non-quantum. Nam omnem triangulum quantum habere tres angulos aequales duobus rectis manifestum est; et ita, quanto unus angulus est maior, tanto alii minores. Et licet angulus unusquisque possit augeri usque ad duos rectos exclusive et non maxime secundum principium primum nostrum: admittamus tamen, quod maxime augeatur usque ad duos rectos inclusive, triangulo permanente. Tunc est manifestum triangulum unum angulum habere, qui est tres, et tres esse unum. 39 Pariformiter videre poteris triangulum lineam esse, quoniam, cum omnia duo latera trianguli quanti sint simul iuncta tanto tertio longiora, quanto angulus, quem faciunt, est duobus rectis minor, ut angulus b a c quia duobus rectis multo est minor, hinc lineae ba et ac simul iunctae multo longiores bc. Igitur quanto angulus ille maior fuerit, ut b d c, tanto minus vincunt lineae bd et dc lineam bc, et superficies minor. Quare si per positionem angulus valeret duos rectos, resolveretur in lineam simplicem totus triangulus. Unde cum hac positione, quae in quantis impossibilis est, iuvare te potes ad non-quanta ascen-
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senza composizione e semplicissimo; ma poiché si tratta del triangolo più vero, e un triangolo non può esistere senza avere tre linee, sarà necessario che l’unica linea infinita sia essa stessa tre linee, e che le tre linee siano una sola linea semplicissima. E la stessa cosa vale per gli angoli: non vi sarà che un solo angolo infinito, e questo angolo sarà tre angoli e i tre angoli saranno un angolo solo. E questo triangolo massimo non sarà neppure composto di lati e di angoli, in quanto la linea infinita e l’angolo sono piuttosto un’unica ed identica cosa, in modo tale che anche la linea è angolo, perché il triangolo è linea. Un ulteriore giovamento per intendere queste cose, lo potrai trovare se ti elevi dal triangolo quantitativo al triangolo non quantitativo. È noto, infatti, che ogni triangolo quantitativo ha tre angoli uguali a due retti. In questo caso, pertanto, quanto più uno degli angoli è grande, tanto più sono piccoli gli altri due. Ora, secondo il nostro primo principio, ognuno dei tre angoli non può essere aumentato di grandezza in modo massimo, ma solo fino al limite di due angoli retti; supponiamo tuttavia che un angolo aumenti in maniera massima fino a raggiungere la grandezza di due retti, pur restando il triangolo un triangolo. In questo caso, è chiaro che il triangolo ha un angolo che è tre angoli, e tre angoli che sono uno solo. In modo simile, potrai anche vedere che il triangolo è una linea. In un triangolo quantitativo, infatti, due lati congiunti insieme sono di tanto più lunghi del terzo di quanto l’angolo che essi formano è minore di due retti. Ad esempio, poiché l’angolo BAC è molto minore di due retti, le linee BA e AC, congiunte insieme, sono molto più lunghe della linea BC. Di conseguenza, quanto più questo angolo sarà grande, come BCD, tanto meno la somma delle linee BD e DC supera la linea BC, e tanto minore risulta la superficie [del triangolo]. Se per ipotesi, pertanto, un angolo fosse equivalente a due retti, l’intero triangolo si risolverebbe in una linea semplice. Da queste ipotesi, che non è possibile nell’ambito delle figure quantitative, ti puoi quindi servire per elevarti all’ambito delle figure non quanti-
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dendo; in quibus, quod in quantis est impossibile, vides per omnia necessarium. Et in hoc patet lineam esse infinitam triangulum maximum. Quod erat ostendendum. 40
CAPITULUM XV
Quod ille triangulus sit circulus et sphaera. Deinde clarius videbitur triangulum esse circulum. Nam sit triangulus a b c causatus per positionem, per circumductionem lineae ab, quousque b venit in c, a fixo remanente. Non habet dubium, quando linea ab esset infinita et penitus circumduceretur b, quousque rediret ad initium, circulum maximum causari, cuius bc est portio. Et quia est portio arcus infiniti, tunc est linea recta bc. Et quoniam omnis pars infiniti est infinita, igitur bc non est minor integro arcu circumferentiae infinitae. Erit igitur bc non tantum portio, sed completissima circumferentia. Quare necessarium est triangulum a b c esse circulum maximum. Et quia bc circumferentia est linea recta, non est maior ab infinitae, cum infinito non sit maius. Nec sunt duae lineae, quia duo infinita esse non possunt. Quare linea infinita, quae est triangulus, est etiam circulus. Quod fuit propositum. 41 Adhuc, quod linea infinita sit sphaera, ita manifestissimum fit: Linea ab est circumferentia maximi circuli, – immo et circulus, ut iam probatum est; et est in triangulo de b ducta in c, ut supra dictum est. Sed bc est infinita linea, ut etiam statim probatum est. Quare ab rediit in c, supra se reditione completa. Et quando hoc est, sequitur sphaeram necessario exortam ex tali revolutione cir-
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tative, nelle quali vedi che è del tutto necessario ciò che è impossibile nelle figure quantitative. E con ciò risulta evidente che la linea infinita è il triangolo massimo. Come dovevasi dimostrare. CAPITOLO XV
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Il triangolo massimo è cerchio e sfera Si potrà ora vedere con più chiarezza che il triangolo è cerchio. Supponiamo che il triangolo ABC sia prodotto facendo ruotare la linea AB attorno al punto fisso A fino a portare il punto B nel punto C. Non c’è alcun dubbio che, se la linea B fosse infinita e B venisse fatto ruotare completamente fino a farlo ritornare al suo punto di partenza, si verrebbe a formare un cerchio massimo di cui BC sarebbe una porzione. E poiché si tratta di una porzione di un arco infinito, BC è una linea retta103. E dato che ogni parte di ciò che è infinito è infinita, BC non è minore dell’intero arco della circonferenza infinita. BC, pertanto, non sarà soltanto una porzione, ma sarà la circonferenza in tutta la sua completezza. È necessario, pertanto, che il triangolo ABC sia il cerchio massimo. E poiché la circonferenza BC è una linea retta, essa non è maggiore della linea infinita AB, in quanto non c’è nulla che sia maggiore di ciò che è infinito. E non si tratta neppure di due linee, perché non vi possono essere due infiniti. Pertanto, la linea infinita, che è triangolo, è anche cerchio. E questo era quanto c’eravamo proposti di dimostrare. Inoltre, che la linea infinita sia sfera risulta del tutto evidente in questo modo: la linea AB è la circonferenza del cerchio massimo, ed anzi è essa stessa cerchio, come abbiamo già dimostrato. E nel triangolo ABC essa è la linea che è stata tracciata dal punto B al punto C, come sopra abbiamo detto. Ma BC è una linea finita, come abbiamo appena dimostrato. AB, pertanto, è ritornata nel punto C facendo una rotazione completa su se stessa. E se è così, ne risulta necessariamente una sfera, sorta da un tale movimento di rotazio-
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culi supra se. Et quia supra probatum est a b c esse circulum, triangulum et lineam, habemus nunc probatum esse etiam sphaeram. Et ista sunt, quae investigare proposuimus. 42
CAPITULUM XVI
Quomodo translative maximum se habeat ad omnia, sicut maxima linea ad lineas. Postquam nunc manifestum est, quomodo infinita linea est omnia illa actu infinite, quae in potentia sunt finitae: habemus translative in maximo simplici pariformiter, quomodo ipsum maximum est actu maxime omnia illa, quae in potentia sunt simplicitatis absolutae. Quidquid enim possibile est, hoc est actu ipsum maximum maxime; non ut ex possibili est, sed ut maxime est; sicuti ex linea triangulus educitur et infinita linea non est triangulus, ut ex finita educitur, sed actu est triangulus infinitus, qui est idem cum linea. Praeterea, ipsa possibilitas absoluta non est aliud in maximo quam ipsum maximum actu, sicut linea infinita est actu sphaera. Secus in non-maximo; nam ibi potentia non est actus, sicut linea finita non est triangulus. 43 Unde hic videtur magna speculatio, quae de maximo ex isto trahi potest: quomodo ipsum est tale, quod minimum est in ipso maximum, ita quod penitus omnem oppositionem per infinitum supergreditur. Ex quo principio possent de ipso tot negativae veritates elici, quot scribi aut legi possent; immo omnis theologia per nos apprehensibilis ex hoc tanto principio elicitur. Propter quod maximus ille divinorum scrutator Dionysius Ariopagites in Mystica sua theologia dicit beatissimum Bartholomaeum mirifice intellexisse theologiam, qui aiebat eam maximam pariter et minimam. Qui hoc enim intelligit, omnia intelligit; omnem intellectum crea-
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ne del cerchio su se stesso. E dato che prima abbiamo dimostrato che ABC è cerchio, triangolo e linea, ora abbiamo dimostrato che è anche sfera. E questo è quanto ci eravamo proposti di indagare. CAPITOLO XVI
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Come la linea massima sta alle linee, così, in maniera traslata, il massimo sta a tutte le cose Se ora, dopo aver visto chiaramente come la linea infinita sia in atto e in maniera infinita tutto ciò che è presente in potenza nella linea finita, trasferiamo in maniera traslata questo risultato al massimo semplice, abbiamo parimenti che il massimo è in atto e in modo massimo tutte quelle cose che sono contenute in potenza nella semplicità assoluta104. Tutto ciò che è possibile, infatti, il massimo lo è in atto in modo massimo, e lo è non come qualcosa che sia passato all’atto dal possibile, ma in quanto lo è in modo massimo; allo stesso modo, ad esempio, dalla linea si ricava il triangolo, ma la linea infinita non è il triangolo così come esso viene ricavato da una linea finita, ma è in atto un triangolo infinito, il quale è identico alla linea. Nel massimo, inoltre, la stessa possibilità assoluta non è altro che il massimo stesso in atto, così come la linea infinita è in atto sfera. Le cose stanno in maniera del tutto diversa per quanto riguarda ciò che è non-massimo. In questo caso, infatti, la potenza non coincide con l’atto, così come una linea finita non è un triangolo. Emerge qui, pertanto, come da un tale esempio si possa trarre un’importante considerazione speculativa intorno al massimo: il massimo, cioè, è tale che, in lui, il minimo è il massimo, per cui il massimo trascende infinitamente e sotto qualsiasi aspetto ogni opposizione. Da questo principio si potrebbero ricavare tutte le verità negative che riguardano il massimo, tutte quelle che si potrebbero scrivere o leggere. Ed anzi, tutta la teologia che noi possiamo apprendere la si ricava da un principio così grande. Questo è anche il motivo per il quale, nella sua Teologia mistica, Dionigi Areopagita, il più grande indagatore delle cose divine, dice che il beatissimo Bartolomeo «ha inteso in modo mirabile» la teologia, quando ha affermato che la teologia è massima e parimenti minima105. Chi intende questo, infatti, intende ogni altra cosa, e si eleva al di so-
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tum ille supergreditur. Deus enim, qui est hoc ipsum maximum, ut idem Dionysius De divinis nominibus dicit, non istud quidem est et aliud non est, neque alicubi est et alicubi non. Nam sicut omnia est, ita quidem et nihil omnium. Nam – ut idem in fine Mysticae theologiae concludit – tunc ipse super omnem positionem est perfecta et singularis omnium causa, et super ablationem omnium est excellentia illius, qui simpliciter absolutus ab omnibus et ultra omnia est. Hinc concludit in Epistola ad Gaium ipsum super omnem mentem atque intelligentiam nosci. 44 Et ad hoc concordanter ait Rabbi Salomon omnes sapientes convenisse, «quod scientiae non apprehendunt creatorem; et non apprehendit quid est nisi ipse; et apprehensio nostra respectu ipsius est defectus appropinquandi apprehensioni eius». Et propterea idem alibi concludens dicit: «Laudetur creator, in cuius essentiae comprehensione inquisitio scientiarum abbreviatur et sapientia ignorantia reputatur et elegantia verborum fatuitas.» Et ista est illa docta ignorantia, quam inquirimus; per quam Dionysius ipsum solum inveniri posse, non alio arbitror principio quam praefato, multipliciter ostendere nisus est. 45 Sit igitur nostra speculatio – quam ex isto, quod infinita curvitas est infinita rectitudo, elicimus – transsumptive in maximo de simplicissima et infinitissima eius essentia, quomodo ipsa est omnium essentiarum simplicissima essentia; ac quomodo omnes rerum essentiae, quae sunt, fuerunt aut erunt, actu semper et aeternaliter sunt in ipsa ipsa essentia, et ita omnes essentiae sicut ipsa omnium essentia; ac quomodo ipsa omnium essentia ita est quaelibet quod simul omnes et nulla singulariter; ac quomodo ipsa maxima essentia, uti infinita linea est omnium linearum adaequatissima mensura, pariformiter est omnium essentiarum adaequatissima mensura.
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pra di ogni intelletto creato. Come dice infatti lo stesso Dionigi nel suo scritto I nomi divini, Dio, che è questo massimo, «non è codesta cosa sì e quell’altra no, né è in un luogo e non in un altro». Infatti, come è tutte le cose, così non è nessuna di esse106. In effetti, come Dionigi conclude al termine della sua Teologia mistica, Dio «è al di sopra di ogni affermazione, è la causa perfetta e singolare di tutte le cose, e la sua eccellenza sta al di sopra di ogni negazione, egli che è sciolto assolutamente da tutte le cose e sta al di là di tutte»107. Per questo, nella sua Lettera a Gaio, Dionigi conclude dicendo che Dio viene conosciuto «al di sopra di ogni mente e di ogni intelligenza»108. E concordando su questo, Rabbi Salomone afferma109 che tutti i saggi hanno convenuto nel sostenere che «le scienze non riescono a conoscere il creatore; e che cosa egli sia non lo sa che egli stesso, mentre la conoscenza che noi abbiamo di lui è un venir meno del nostro sforzo di avvicinarci alla conoscenza che egli ha di sé». Inoltre, altrove, concludendo queste sue riflessioni, egli dice: «Sia lodato il creatore; nella comprensione della sua essenza la ricerca delle scienze diventa breve [...], la sapienza viene stimata ignoranza [...] e l’eleganza delle parole vanità». E questa è quella dotta ignoranza che noi cerchiamo; ed anche Dionigi si è sforzato di mostrare in molti modi che Dio può essere trovato solo attraverso la dotta ignoranza, impiegando, penso, non altro principio se non quello di cui abbiamo parlato in precedenza. La nostra considerazione speculativa, che abbiamo tratto dal fatto che la curvità infinita è la rettitudine infinita, applichiamola ora in maniera traslata al massimo, per quanto riguarda la sua essenza assolutamente semplice e infinita. Vedremo allora che tale essenza è l’essenza semplicissima di tutte le essenze; e che in essa tutte le essenze delle cose che sono, che furono e che saranno, sono sempre ed eternamente in atto quell’essenza stessa, la quale, pertanto, è tutte le essenze, così come è l’essenza di tutte [le essenze]; vedremo, inoltre, che essa, in quanto essenza di tutte le essenze, è ogni essenza, in modo tale da essere, ad un tempo, tutte le essenze e nessuna di esse singolarmente, perché, come la linea infinita è la misura adeguatissima di tutte le linee, così l’essenza massima è parimenti la misura adeguatissima di tutte le essenze.
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Maximum enim, cui non opponitur minimum, necessario omnium est adaequatissima mensura; non maior quia minimum, non minor quia maximum. Omne autem mensurabile cadit inter maximum et minimum. Est igitur adaequatissima et praecisissima omnium essentiarum mensura infinita essentia. 46 Et adhuc, ut hoc clarius videas, considera, si linea infinita constitueretur ex infinitis pedalibus et alia ex infinitis bipedalibus, illas nihilominus aequales esse necesse esset, cum infinitum non sit maius infinito. Sicut igitur unus pes non est minor in linea infinita quam duo pedes, ita infinita linea non est maior plus uno pede quam duobus. Immo, cum quaelibet pars infiniti sit infinita, tunc unus pes lineae infinitae ita cum tota infinita convertitur sicut duo pedes. Pariformiter, cum omnis essentia in maxima sit ipsa maxima, non est maximum nisi adaequatissima mensura omnium essentiarum. Neque reperitur alia praecisa mensura cuiuscumque essentiae quam illa; nam omnes aliae deficiunt et praecisiores esse possunt, ut hoc superius est clarissime ostensum. 47
CAPITULUM XVII
Ex eodem profundissimae doctrinae. Adhuc circa idem: Linea finita est divisibilis et infinita indivisibilis, quia infinitum non habet partes, in quo maximum coincidit cum minimo. Sed finita linea non est divisibilis in non-lineam, quoniam in magnitudine non devenitur ad minimum, quo minus esse non possit, ut superius est ostensum. Quare finita linea in ratione
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Il massimo, al quale non si oppone il minimo, è infatti necessariamente la misura assolutamente più adeguata di tutte le cose110: una misura che non è maggiore di nessuna cosa, in quanto egli è il minimo, e che non è minore di nessuna cose, in quanto egli è il massimo. Tutto ciò che è misurabile, tuttavia, sta tra il massimo e il minimo. Pertanto, l’essenza infinita è la misura in assoluto più adeguata e più precisa di tutte le essenze. E perché tu possa vedere questo più chiaramente, considera inoltre anche quanto segue: se una linea infinita fosse costituita da un numero infinito di segmenti di un piede, e un’altra linea infinita da un numero infinito di segmenti di due piedi, queste due linee sarebbero nondimeno necessariamente eguali, in quanto l’infinito non è maggiore dell’infinito. Come, pertanto, in una linea infinita un piede non è minore di due piedi, così la linea infinita non è maggiore rispetto a un piede piuttosto che rispetto a due piedi. Anzi, dato che qualsiasi parte dell’infinito è infinita, un piede di una linea infinita coincide con l’intera linea infinita come vi coincidono due piedi. Allo stesso modo, dato che nell’essenza massima ogni essenza è la stessa essenza massima, il massimo non è altro che la misura assolutamente più adeguata di tutte le essenze, e non è possibile trovare un’altra misura, diversa dall’essenza massima, che sia la misura precisa di qualunque essenza. Tutte le altre, infatti, sono manchevoli e possono essere più precise, come abbiamo mostrato con estrema chiarezza in precedenza111. CAPITOLO XVII
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Altre conoscenze estremamente profonde che derivano dal medesimo principio Ancora un’osservazione a proposito dello stesso argomento: una linea finita è divisibile, mentre la linea infinita è indivisibile, perché l’infinito, nel quale il massimo coincide con il minimo, non ha parti. Una linea finita, tuttavia, non può essere divisa fino al punto da non essere più una linea, perché, nel caso della grandezza, non si giunge ad un minimo di cui non possa esservi qualcosa di ancora più piccolo, come abbiamo mostrato in precedenza112. Per que-
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lineae est indivisibilis; pedalis linea non est minus linea quam cubitalis. Relinquitur ergo, quod infinita linea sit ratio lineae finitae. Ita maximum simpliciter est omnium ratio. Ratio autem est mensura. Quare recte ait Aristoteles in Metaphysicis primum esse metrum et mensuram omnium, quia omnium ratio. 48 Adhuc: Sicut linea infinita est indivisibilis, quae est ratio lineae finitae, et per consequens immutabilis et perpetua, ita et ratio omnium rerum, quae est Deus benedictus, sempiterna et immutabilis est. Et in hoc aperitur intellectus magni Dionysii dicentis essentiam rerum incorruptibilem et aliorum, qui rationem rerum aeternam dixerunt; sicut ipse divinus Plato, qui, ut refert Chalcidius, in Phaedone dixit unum esse omnium rerum exemplar sive ideam, uti in se est; in respectu vero rerum, quae plures sunt, plura videntur exemplaria. Nam cum lineam bipedalem et aliam tripedalem et sic deinceps considero, duo occurrunt: scilicet ratio lineae, quae est in utraque et omnibus una et aequalis, et diversitas, quae est inter bipedalem et tripedalem. Et ita alia videtur ratio bipedalis et alia tripedalis. Manifestum autem est in infinita linea non esse aliam bipedalem et tripedalem; et illa est ratio finitae. Unde ratio est una ambarum linearum, et diversitas rerum sive linearum non est ex diversitate rationis, quae est una, sed ex accidenti, quia non aeque rationem participant. Unde non est nisi una omnium ratio, quae diversimode participatur. 49 Quod autem diversimode participetur, hoc evenit, quia probatum est superius non posse esse duo aeque similia et per consequens praecise aequaliter participantia unam rationem. Nam non
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sto motivo, una linea finita è indivisibile nel suo essere linea. Una linea di un piede, infatti, non è meno linea di una linea di un cubito. Ne consegue, dunque, che la linea infinita è la ragion d’essere della linea finita. Allo stesso modo, il massimo in quanto tale è la ragion d’essere di tutte le cose. La ragion d’essere, tuttavia, è misura. Per questo motivo, nella Metafisica Aristotele dice giustamente che il primo [principio] è il metro e la misura di tutte le cose113, perché è la ragion d’essere di tutte. Inoltre, come la linea infinita, che è la ragion d’essere della linea finita, è indivisibile e di conseguenza immutabile e perpetua, così anche la ragion d’essere di tutte le cose, che è Dio benedetto, è eterna e immutabile. E così possiamo comprendere il pensiero del grande Dionigi, il quale dice che l’essenza delle cose è incorruttibile114, e il pensiero di altri autori che hanno affermato che la ragion d’essere delle cose è eterna. A questi appartiene, ad esempio, Platone, il quale, come ci riferisce Calcidio, nel Fedone ha detto che c’è un unico essere esemplare o idea di tutte le cose, se lo si considera in se stesso, mentre, se lo si considera in rapporto alle cose, che sono molteplici, gli esemplari appaiono essere molti115. Quando infatti considero una linea di due piedi, un’altra di tre piedi e così via, mi si presentano due cose: la ragion d’essere della linea, che è una sola ed è uguale per l’una e per l’altra linea come per tutte, e la diversità che vi è tra una linea di due piedi e una linea di tre piedi. Ed è per questo che la ragion d’essere di una linea di due piedi sembra diversa dalla ragion d’essere di una linea di tre piedi. Ma è chiaro che, in una linea infinita, una linea di due piedi non è diversa da una linea di tre piedi. Ora, la linea infinita è la ragion d’essere della linea finita. Di conseguenza, la ragion d’essere di entrambe le linee è una sola, e la diversità che vi è tra le cose o tra le linee non deriva da una diversità nella loro ragion d’essere, che è una sola, ma è accidentale, dipende cioè dal fatto che le cose o le linee non partecipano in modo uguale della ragion d’essere116. Non vi è pertanto che una sola ragion d’essere di tutte le cose, della quale le cose partecipano in modi diversi. Che la partecipazione, invece, avvenga in modi diversi, ciò dipende dal fatto che, come abbiamo dimostrato sopra117, non possono esservi due cose che siano esattamente simili e che, di conseguenza, partecipino dell’unica ragion d’essere in modo esattamente
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est ratio in summa aequalitate participabilis nisi per maximum, quod est ipsa ratio infinita. Sicut non est nisi una unitas maxima, ita non potest esse nisi una unitatis aequalitas. Quae quia est aequalitas maxima, est ratio omnium. Sicut enim non est nisi una linea infinita, quae est ratio omnium finitarum, et per hoc quod finita linea cadit necessario ab ipsa, quae est infinita, – tunc etiam per hoc non potest esse suiipsius ratio, sicut non potest esse finita pariter et infinita. Unde, sicut nullae duae lineae finitae possunt esse praecise aequales, cum praecisa aequalitas, quae est maxima, non sit nisi ipsum maximum: ita etiam non reperiuntur duae lineae aequaliter rationem unam omnium participantes. 50 Praeterea, linea infinita non est maior in bipedali quam bipedalis neque minor, ut superius dictum est; et ita de tripedali et ultra. Et cum sit indivisibilis et una, est tota in qualibet finita. Sed non est tota in qualibet finita secundum participationem et finitationem; alioquin, quando esset tota in bipedali, non posset esse in tripedali, sicut bipedalis non est tripedalis. Quare est ita tota in qualibet, quod est in nulla, ut una est ab aliis distincta per finitationem. Est igitur linea infinita in qualibet linea tota, ita quod quaelibet in ipsa. Et hoc quidem coniunctim considerandum est; et clare videtur, quomodo maximum est in qualibet re et in nulla. Et hoc non est aliud nisi maximum, cum sit eadem ratione in qualibet re, sicut quaelibet res in ipso, et sit metipsa ratio, quod tunc maximum sit in seipso. Non est ergo aliud maximum esse metrum et mensuram omnium quam maximum simpliciter esse in seipso sive maximum esse maximum. Nulla igitur res est in seipsa nisi
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eguale. Solo il massimo, infatti, che è la ragion d’essere stessa infinita, può partecipare della ragion d’essere nella forma dell’eguaglianza somma. Come non c’è che una sola unità massima, così non c’è che una sola eguaglianza dell’unità, ed essa, essendo l’eguaglianza massima, è la ragion d’essere di tutte le cose. Allo stesso modo, ad esempio, non c’è che una sola linea infinita, che è la ragion d’essere di tutte le linee finite; la linea finita, poiché deriva da quella infinita ed è ad essa necessariamente inferiore, non può per questo neppure essere la ragion d’essere di se stessa, così come non può essere parimenti finita e infinita. Come, quindi, non vi sono due linee finite che possano essere precisamente eguali, in quanto la precisa eguaglianza, che è l’eguaglianza massima, non è che lo stesso massimo, così non è neppure possibile trovare due linee che partecipino in modo eguale dell’unica ragion d’essere di tutte le cose. Inoltre, in una linea di due piedi la linea infinita non è né maggiore, né minore di due piedi, come abbiamo detto sopra118; e lo stesso vale per la linea di tre piedi, e così via. Ed essendo indivisibile ed una, la linea infinita è presente tutta intera in qualsiasi linea finita. Essa, tuttavia, non è presente tutta intera in qualsiasi linea finita secondo la partecipazione e la finitezza che sono proprie di tale linea, perché, altrimenti, se fosse presente tutta intera in una linea di due piedi, non potrebbe essere presente in una linea di tre piedi, così come la linea di due piedi non è quella di tre piedi. Per questo motivo, essa è presente tutta intera in qualsiasi linea, in maniera tale da non esserlo in nessuna, in quanto una linea è distinta dalle altre per la sua finitezza. La linea infinita, pertanto, è presente tutta intera in qualsiasi linea, in modo tale che qualsiasi linea è presente in essa. E questi due aspetti devono essere considerati in maniera congiunta, perché così si può vedere chiaramente in che senso il massimo sia presente in qualsiasi cosa e in nessuna119. E questo non è proprio se non del massimo, in quanto la ragione per la quale il massimo è in qualsiasi cosa è la stessa per la quale qualsiasi cosa è in lui, ed è la stessa ragione per la quale il massimo è in se stesso. Dire, pertanto, che il massimo è il metro e la misura di tutte le cose non è diverso dal dire che il massimo assoluto esiste in se stesso, ossia che il massimo è il massimo. Non c’è nessuna cosa, quindi, che esista in se stessa
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maximum, et omnis res ut in sua ratione est in seipsa, quia sua ratio est maximum. 51 Ex hiis quidem potest se intellectus iuvare et in similitudine lineae infinitae ad maximum simpliciter super omnem intellectum in sacra ignorantia plurimum proficere. Nam hic nunc clare vidimus, quomodo Deum per remotionem participationis entium invenimus. Omnia enim entia entitatem participant. Sublata igitur ab omnibus entibus participatione remanet ipsa simplicissima entitas, quae est essentia omnium. Et non conspicimus ipsam talem entitatem nisi in doctissima ignorantia, quoniam, cum omnia participantia entitatem ab animo removeo, nihil remanere videtur. Et propterea magnus Dionysius dicit intellectum Dei magis accedere ad nihil quam ad aliquid. Sacra autem ignorantia me instruit hoc, quod intellectui nihil videtur, esse maximum incomprehensibile. 52
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Quomodo ex eodem manuducimur ad intellectum participationis entitatis. Amplius, non satiabilis noster intellectus cum maxima suavitate vigilanter per praemissa incitatus inquirit, quomodo hanc participationem unius maximi possit clarius intueri. Et iterum exemplo infinitae rectitudinis linealis se iuvans ait: Non est possibile curvum, quod recipit magis et minus, esse maximum aut minimum; neque curvum ut curvum est aliquid, quoniam est casus a recto. Esse igitur, quod in curvo est, est ex participatione rectitudinis, cum maxime et minime curvum non sit nisi rectum. Quare, quanto curvum est minus curvum, ut est circumferentia maioris circuli, tanto plus participat de rectitudine; non quod partem capiat, quia rectitudo infinita est impartibilis; sed li-
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tranne il massimo, ed ogni cosa è in se stessa in quanto è nella sua ragion d’essere, poiché la sua ragion d’essere è il massimo. L’intelletto può certamente trarre giovamento da queste considerazioni e può servirsi della similitudine della linea infinita per avanzare moltissimo verso il massimo assoluto, al di sopra di ogni sua capacita intellettiva, nella sacra ignoranza. In effetti, abbiamo appena visto chiaramente in che modo possiamo trovare Dio attraverso la rimozione della partecipazione di cui godono gli enti. Tutti gli enti, infatti, partecipano dell’entità. Se da tutti gli enti, pertanto, si toglie la loro partecipazione, ciò che resta è la stessa entità semplicissima, che è l’essenza di tutte le cose. E questa entità noi la scorgiamo solo nella dotta ignoranza, perché, quando rimuovo dalla mia mente tutte le cose che partecipano dell’entità, sembra che non resti più nulla. Per questo, il grande Dionigi dice che la nostra conoscenza di Dio ci conduce più vicino «al nulla che a un qualcosa»120. La sacra ignoranza, tuttavia, mi insegna che ciò che all’intelletto appare come nulla è il massimo incomprensibile. CAPITOLO XVIII
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Il medesimo principio ci conduce alla comprensione della partecipazione all’entità Inoltre, il nostro intelletto insaziabile, stimolato dalle cose che abbiamo già detto, si pone a ricercare attentamente e con il massimo piacere in che modo si possa cogliere più chiaramente questa partecipazione all’uno massimo. E servendosi ancora una volta dell’esempio della linea retta infinita, dice: Non è possibile che il curvo, che ammette un di più e un di meno, sia il massimo o il minimo. Né il curvo, in quanto curvo, è qualcosa in sé, poiché è una declinazione da ciò che è retto. L’essere che è presente nel curvo deriva pertanto dalla partecipazione alla rettitudine, in quanto qualcosa che sia curvo in modo massimo e in modo minimo non è che retto. Per questo motivo, quanto meno il curvo è curvo, come accade, ad esempio, nella circonferenza di un cerchio molto grande, tanto più partecipa della rettitudine; ciò non significa che ne prenda una parte, dato che la rettitudine infinita non è divisibile in parti, ma quanto più una linea retta è gran-
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nea recta finita quanto maior, tanto videtur plus participare de infinitate lineae infinitae maximae. Et sicut finita recta in hoc quod recta – in quod quidem rectum curvitas minima resolvitur – secundum simpliciorem participationem participat infinitam, et curvum non ita simplicem et immediatam sed potius mediatam et distantem, quoniam per medium rectitudinis quam participat: ita aliqua sunt entia immediatius entitatem maximam in seipso subsistentem participantia, ut sunt simplices finitae substantiae, et sunt alia entia non per se, sed per medium substantiarum entitatem participantia, ut accidentia. Unde illa diversa participatione non obstante adhuc, ut ait Aristoteles, rectum est sui et obliqui mensura; sicuti infinita linea lineae rectae et curvae, ita maximum omnium qualitercumque diversimode participantium. 53 Et in hoc aperitur intellectus illius, quod dicitur substantiam non capere magis nec minus. Nam hoc est ita verum, sicut linea recta finita in eo, quod recta, non suscipit magis et minus; sed quia finita, tunc per diversam participationem infinitae una respectu alterius maior aut minor est, nec umquam duae reperiuntur aequales. Curvum vero, quoad participationem rectitudinis, recipit magis et minus; et consequenter per ipsam participatam rectitudinem sicut rectum recipit magis et minus. Et hinc est, quod accidentia, quanto magis participant substantiam, sunt nobiliora; et adhuc, quanto magis participant substantiam nobiliorem, tanto adhuc nobiliora. Et in hoc videtur, quomodo non possunt esse nisi entia aut per se aut per alia entitatem primi participantia, sicut non inveniuntur nisi lineae aut rectae aut curvae. Et propterea recte divisit Aristoteles omnia, quae in mundo sunt, in substantiam et accidens. 54 Substantiae igitur et accidentis una est adaequatissima mensura, quae est ipsum maximum simplicissimum; quod licet neque sit
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de, tanto più sembra partecipare dell’infinità della linea massima e infinita. La linea retta finita, per il fatto di essere retta – la curvità minima si risolve infatti nel retto –, partecipa della linea infinita secondo una forma più semplice di partecipazione, mentre il curvo vi partecipa secondo una forma di partecipazione non così semplice e immediata, ma piuttosto in una forma mediata e distante, in quanto partecipa della linea infinita attraverso la mediazione della rettitudine di cui esso è partecipe. In modo simile, alcuni enti, ossia le sostanze finite semplici, partecipano in una maniera più immediata dell’unità massima che sussiste in se stessa, mentre ci sono altri enti, ossia gli accidenti, che partecipano dell’entità non di per sé, ma attraverso la mediazione delle sostanze. Di conseguenza, nonostante questa diversa forma di partecipazione, il retto, come dice Aristotele, è la misura di se stesso e dell’obliquo121; come la linea infinita è la misura della linea retta e di quella curva, così il massimo è la misura di tutte le cose, le quali, in forme certamente diverse, partecipano tutte in qualche modo di lui. In questo modo, si giunge a comprendere quell’affermazione secondo la quale la sostanza non ammette il più o il meno122. Questo è vero nello stesso senso in cui è vero che una linea retta, per quanto riguarda il suo essere retta, non accoglie il più e il meno; in quanto finita, tuttavia, e quindi in virtù del diverso modo in cui partecipa della linea infinita, una linea retta è maggiore o minore rispetto ad un’altra, e non è mai possibile trovare due linee che siano eguali. Il curvo, invece, accoglie il più e il meno a seconda del modo in cui partecipa della rettitudine. Di conseguenza, è in virtù della sua partecipazione alla rettitudine che il curvo accoglie il più e il meno come il retto. E questo è il motivo per il quale gli accidenti, quanto più partecipano della sostanza, tanto più sono nobili. E quanto più la sostanza di cui partecipano è nobile, tanto più essi sono nobili. In questo modo, inoltre, si vede per quale motivo non possano esservi se non enti che partecipano dell’entità del primo [principio], o per se stessi, o attraverso la mediazione di altri enti, così come non si danno che linee, o rette o curve. Perciò, Aristotele ha avuto ragione nel dividere tutte le cose che esistono nel mondo in sostanze e accidenti123. Della sostanza e degli accidenti vi è, dunque, una sola misura assolutamente adeguata, e questa è il massimo stesso semplicissi-
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substantia neque accidens, tamen ex praemissis manifeste patet ipsum potius sortiri nomen immediate ipsum participantium, scilicet substantiarum, quam accidentium. Unde Dionysius maximus ipsum plus quam substantiam sive supersubstantialem vocat potius quam superaccidentalem; quoniam magis est dicere supersubstantiale quam superaccidentale, hinc maximo convenientius attribuitur. Dicitur autem supersubstantiale, hoc est scilicet non substantiale, quia hoc inferius eo, sed supra substantiam. Et ita est negativum verius maximo conveniens, ut infra de nominibus Dei dicemus. Posset quis ex superioribus multa circa accidentium et substantiarum diversitatem et nobilitatem inquirere; de quibus hic locus tractandi non existit. 55
CAPITULUM XIX
Transsumptio trianguli infiniti ad trinitatem maximam. Nunc de eo, quod dictum et ostensum est maximam lineam esse triangulum maximum, in ignorantia doceamur. Ostensum est maximam lineam triangulum; et quia linea est simplicissima, erit simplicissimum trinum. Erit omnis angulus trianguli linea, cum totus triangulus sit linea; quare linea infinita est trina. Non est autem possibile plura esse infinita; quare illa trinitas est unitas. Praeterea, cum angulus maiori lateri oppositus sit maior, ut in geometria ostenditur, et hic sit triangulus, qui non habet latus nisi infinitum, erunt anguli maximi et infiniti. Quare unus non est minor aliis nec duo maiores tertio, sed quia extra infinitam quantitatem non posset esse quantitas, ita extra unum angulum infinitum
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mo. E sebbene il massimo non sia né sostanza, né accidente, dalle cose che abbiamo detto in precedenza risulta tuttavia evidente che al massimo può essere assegnato il nome di ciò che partecipa di lui in maniera immediata, ossia le sostanze, piuttosto che il nome degli accidenti. Per questo motivo, il grandissimo Dionigi lo chiama «più-che-sostanza», ossia gli attribuisce il nome di «sovrasostanziale»124, piuttosto che quello di «sovra-accidentale». Dato che dire «sovrasostanziale» significa infatti dire qualcosa di più di «sovraaccidentale», per questo al massimo si attribuisce in modo più idoneo il primo nome piuttosto che il secondo. Lo si chiama tuttavia «sovrasostanziale», ossia «non-sostanziale», perché la sostanza è inferiore al massimo, mentre egli è al di sopra della sostanza. E così «sovrasostanziale» è un nome negativo, che si addice in modo più vero al massimo, come diremo più avanti parlando dei nomi di Dio. Partendo da quanto abbiamo detto, si potrebbe condurre un’ampia indagine a proposito della differenza fra gli accidenti e le sostanze e circa il valore degli uni e degli altri, ma non è questo il luogo per trattare di tali argomenti. CAPITOLO XIX
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Trasposizione del triangolo infinito alla trinità massima Ed ora, dopo aver detto e mostrato che la linea massima è il triangolo massimo125, vediamo di trarne alcuni insegnamenti nella nostra ignoranza. Abbiamo mostrato che la linea massima è triangolo; e poiché una tale linea è semplicissima, essa sarà una trinità semplicissima. Essendo l’intero triangolo linea, anche ogni angolo del triangolo sarà linea. Per questo motivo, la linea infinita è trina. Ma non è possibile che vi siano più infiniti. Pertanto, quella trinità è unità. Inoltre, come si dimostra in geometria, l’angolo opposto al lato maggiore è maggiore degli altri; ora, qui abbiamo a che fare con un triangolo i cui lati sono infiniti, per cui anche i suoi angoli saranno massimi e infiniti. Un angolo, pertanto, non è minore degli altri due, né due sono maggiori del terzo; piuttosto, poiché al di fuori della quantità infinita non potrebbe esservi alcuna quantità, al di fuori dell’unico angolo infinito non possono egualmente esservi al-
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non possunt esse alii. Quare unus erit in alio, et omnes tres unum maximum. 56 Insuper, sicut maxima linea non plus est linea, triangulus, circulus vel sphaera, sed in veritate est illa omnia absque compositione, ut ostensum est: ita consimiliter maximum simpliciter est ut maximum lineale, quod possumus dicere essentiam; est ut triangulare, et potest dici trinitas; est ut circulare, et potest dici unitas; est ut sphaerale, et potest dici actualis existentia. Est igitur maximum essentia trina, una actu; nec est aliud essentia quam trinitas, nec aliud trinitas quam unitas, nec aliud actualitas quam unitas, trinitas vel essentia, licet verissimum sit maximum ista esse identice et simplicissime. Sicut igitur verum est maximum esse et unum esse, ita verum est ipsum trinum esse, eo modo quo veritas trinitatis non contradicit simplicissimae unitati, sed est ipsa unitas. 57 Hoc autem aliter possibile non est, quam ut per similitudinem trianguli maximi attingibile est. Quare ipsum verum triangulum atque simplicissimam lineam ex praehabitis scientes, modo quo hoc homini possibile est, in docta ignorantia Trinitatem attingemus. Nam videmus, quod non reperimus angulum unum et post alium et tertio adhuc alium, ut in triangulis finitis, quoniam alius et alius et alius in unitate trianguli absque compositione esse non possunt. Sed unum absque numerali multiplicatione triniter est; quare recte quidem doctissimus Augustinus ait: «Dum incipis numerare Trinitatem, exis veritatem.» Oportet enim in divinis simplici conceptu, quantum hoc possibile est, complecti contradictoria, ipsa antecedenter praeveniendo; puta non oportet in divinis concipere distinctionem et indistinctionem tamquam duo contradicentia, sed illa ut in principio suo simplicissimo antecedenter, ubi non est
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tri angoli. Pertanto, un angolo sarà nell’altro, e tutti e tre gli angoli saranno un angolo solo massimo. Inoltre, come la linea massima non è linea più di quanto sia triangolo, cerchio o sfera, ma, come abbiamo dimostrato126, è tutte queste figure nella loro verità e senza alcuna composizione, così, in modo simile, il massimo assoluto può essere considerato come la linea massima, che possiamo chiamare essenza; può essere considerato come il triangolo massimo, e possiamo chiamarlo trinità; può essere considerato con il cerchio massimo, e può essere chiamato unità; può essere considerato come la sfera massima, e può essere chiamato esistenza in atto. Il massimo, pertanto, è un’essenza trina, che è una e in atto; e l’essenza non è qualcosa di altro dalla trinità, né la trinità qualcosa di altro dall’unità, né l’attualità qualcosa di altro dall’unità, dalla trinità o dall’essenza, per quanto sia del tutto vero che il massimo è queste cose in maniera identica e assolutamente semplice. Com’è vero, pertanto, che il massimo è ed è uno, così è vero che è trino, nello stesso modo in cui la verità della trinità non contraddice l’unità semplicissima, ma è la stessa unità. L’unico modo in cui tutto questo ci appare possibile è tuttavia quello che possiamo cogliere attraverso la similitudine istituita con il triangolo massimo. Quando, pertanto, dalle cose dette in precedenza acquisiamo la conoscenza del vero triangolo e della linea semplicissima, nel modo in cui questo è possibile all’uomo, giungiamo, nella dotta ignoranza, alla trinità. Vediamo, infatti, che non troviamo prima un angolo, poi un altro e poi ancora un terzo, come accade nel caso dei triangoli finiti, in quanto nell’unità di un triangolo privo di composizione non possono esservi un primo, un secondo e un terzo angolo. Piuttosto, l’uno esiste trinitariamente senza moltiplicazione numerica. Per questo, aveva ragione il dottissimo Agostino nel dire che «quando inizi a numerare la trinità, ti allontani dalla verità»127. Nel caso di Dio, infatti, bisogna, per quanto è possibile, abbracciare i contraddittori con un concetto semplice, prevenendo anticipatamente la loro contraddittorietà. Ad esempio, in Dio non bisogna concepire la distinzione e l’indistinzione come due concetti contraddittori, ma bisogna piuttosto concepirle così come esse sono presenti, antecedentemente alla loro contrad-
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aliud distinctio quam indistinctio; et tunc clarius concipitur trinitas et unitas esse idem. Nam ubi distinctio est indistinctio, trinitas est unitas; et e converso, ubi indistinctio est distinctio, unitas est trinitas. Et ita de pluralitate personarum et unitate essentiae; nam ubi pluralitas est unitas, trinitas personarum est idem cum unitate essentiae; et e converso, ubi unitas est pluralitas, unitas essentiae est trinitas in personis. 58 Et ista clare in nostro exemplo videntur, ubi simplicissima linea est triangulus et e converso simplex triangulus est unitas linealis. Hic etiam videtur, quomodo numerari anguli trianguli per unum, duo, tria non possunt, cum quilibet sit in quolibet, – ut ait Filius: «Ego in Patre et Pater in me.» Iterum, veritas trianguli requirit tres angulos. Sunt igitur hic verissime tres anguli, et unusquisque maximus, et omnes unum maximum. Requirit insuper veritas trianguli, quod unus angulus non sit alius; et ita hic requirit veritas unitatis simplicissimae essentiae, quod tres illi anguli non sint aliqua tria distincta, sed unum. Et hoc etiam verum est hic. Coniunge igitur ista, quae videntur opposita, antecedenter, ut praedixi; et non habebis unum et tria vel e converso, sed unitrinum seu triunum. Et ista est veritas absoluta. 59
CAPITULUM XX
Adhuc circa Trinitatem, et quod non sit possibilis quaternitas et ultra in divinis. Amplius, requirit veritas Trinitatis, quae est Triunitas, trinum esse unum, quia dicitur triunum. Hoc autem non cadit in conceptu nisi eo modo, quo correlatio distincta unit et ordo distinguit. Unde, sicut – dum facimus triangulum finitum – primo est angulus
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dizione, nel loro principio semplicissimo, dove la distinzione non è qualcosa di altro dall’indistinzione128. Ed allora si riesce a concepire in modo più chiaro che la trinità e l’unità sono un’identica cosa. Infatti, dove la distinzione è indistinzione, la trinità è unita. E viceversa, dove l’indistinzione è distinzione, l’unità è trinità. E lo stesso vale per la pluralità delle persone e l’unità dell’essenza. Dove la pluralità è unità, infatti, la trinità delle persone è identica all’unità dell’essenza. E viceversa, dove l’unità è pluralità, l’unità dell’essenza è trinità nelle persone. Tutto questo lo si vede chiaramente nel nostro esempio, dove la linea semplicissima è triangolo e, viceversa, il triangolo semplice è unità lineare. E nel nostro esempio si vede anche chiaramente come gli angoli del triangolo non possano essere numerati con i numeri uno, due o tre, dal momento che ogni angolo è in ogni altro, come dice il Figlio: «Io sono nel padre e il padre è in me»129. Dall’altro lato, la verità del triangolo richiede che vi siano tre angoli. E qui, pertanto, vi sono nel modo più vero tre angoli, ed ognuno di essi è un angolo massimo, e tutti sono un unico angolo massimo. La verità del triangolo esige, inoltre, che un angolo non sia l’altro. E così qui la verità dell’unità dell’essenza semplicissima richiede che quei tre angoli non siano tre angoli distinti, ma uno solo. Ed anche questo è qui vero. Queste cose che ti paiono opposte congiungile pertanto insieme, come ho detto, antecedentemente alla loro opposizione, ed allora non avrai l’uno e il tre o viceversa, ma l’unitrino o il triuno. E questa è la verità assoluta. CAPITOLO XX
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Ancora a proposito della trinità: in Dio non è possibile una quaternità e oltre La verità della trinità – una trinità che è triunità – richiede, inoltre, che il trino sia uno, ed è per questo che lo designamo come triuno. Questo, tuttavia, non riusciamo a concepirlo se non pensando a come la reciproca relazione unisca le cose che sono distinte, e l’ordine, invece, le distingua. Quando costruiamo un triangolo finito, infatti, in primo luogo c’è un angolo solo, poi un secondo an-
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unus, secundo alius, tertio tertius ab utroque, et illi anguli ad invicem correlationem habent, ut sit unus ex ipsis triangulus: ita quidem et in infinito infinite. Tamen concipiendum est ita, quod prioritas taliter concipiatur in aeternitate, quod posterioritas non sibi contradicat; aliter enim prioritas et posterioritas in infinito et aeterno cadere non possent. Unde Pater non est prior Filio et Filius posterior; sed ita Pater est prior, quod Filius non est posterior. Ita Pater prima persona, quod Filius non est post hoc secunda; sed sicut Pater est prima absque prioritate, ita Filius secunda absque posterioritate et Spiritus sanctus pariformiter tertia. Sed quia hoc superius dictum est amplius, sufficiat. 60 Velis tamen circa hanc semper benedictam Trinitatem advertere, quod ipsum maximum est trinum et non quaternum vel quinum et ultra. Et hoc certe est nota dignum; nam hoc repugnaret simplicitati et perfectioni maximi. Omnis enim figura polygonia pro simplicissimo elemento habet triangularem, et illa est minima figura polygonia, qua minor esse nequit. Probatum est autem minimum simpliciter cum maximo coincidere. Sicut igitur se habet unum in numeris, ita triangulus in figuris polygoniis. Sicut igitur omnis numerus resolvitur ad unitatem, ita polygoniae ad triangulum. Maximus igitur triangulus, cum quo minimus coincidit, omnes figuras polygonias complectitur; nam sicut unitas maxima se habet ad omnem numerum, ita triangulus maximus ad omnem polygoniam. Quadrangularis autem figura non est minima, ut patet, quia ea minor est triangularis. Igitur simplicissimo maximo, quod cum solo minimo coincidere potest, quadrangularis, quae absque compositione esse non potest, cum sit maior minimo, nequaquam poterit convenire. Immo implicat contradictionem esse maximum et esse
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golo e in terzo luogo il terzo angolo, che dipende dagli altri due, e fra questi angoli vi è una reciproca relazione, in modo tale che essi possano formare un solo triangolo. Lo stesso avviene, in maniera infinita, anche nell’infinito. Nell’infinito, tuttavia, questa reciproca relazione dev’essere intesa in questo modo: bisogna concepire l’anteriorità nell’eternità in modo tale che la posteriorità non sia con essa in contraddizione. Altrimenti, infatti, non potrebbe darsi alcuna anteriorità e posteriorità nell’ambito di ciò che è infinito ed eterno. Di conseguenza, il padre non è anteriore al figlio e il figlio posteriore [al padre], ma il padre è anteriore in modo tale che il figlio non gli è posteriore. Il padre è la prima persona, in modo tale che il figlio è la seconda persona senza essere posteriore [al padre]. Piuttosto, come il padre è la prima persona senza essere anteriore, così il figlio è la seconda persona senza essere posteriore, e lo spirito santo, in eguale maniera, è la terza persona. Quanto abbiamo detto può essere sufficiente, in quanto di questo argomento abbiamo già parlato ampiamente in precedenza130. A proposito di questa trinità sempre benedetta, presta tuttavia attenzione al fatto che il massimo è trino e non quaterno o quinterno, ed oltre. E questa cosa è certamente degna di nota. Se non fosse infatti così, si andrebbe contro la semplicità e la perfezione del massimo. Ogni poligono, in effetti, ha come suo elemento più semplice il triangolo, il quale, fra i poligoni, è la figura geometrica minima, di cui non vi può essere una figura geometrica minore. Abbiamo tuttavia dimostrato131 che il minimo assoluto coincide con il massimo. La posizione che il triangolo ha fra i poligoni è quindi la stessa che l’uno ha fra i numeri. Come ogni numero, infatti, è riconducibile all’unità, così tutti poligoni sono riconducibili al triangolo132. Il triangolo massimo, con il quale coincide il triangolo minimo, abbraccia pertanto tutti poligoni. Infatti, come l’unità massima sta ad ogni numero, così il triangolo massimo sta ad ogni poligono. È evidente, tuttavia, che il quadrato non è la figura minima, dato che il triangolo è minore di esso. Di conseguenza, al massimo assolutamente semplice, che può coincidere soltanto con il minimo, non potrà in alcun modo convenire una figura quadrangolare, la quale non può essere priva di composizione essendo maggiore del minimo. Che il massimo sia massimo e sia quadrangolare implica
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quadrangulare. Nam non posset esse mensura triangularium adaequata, quia semper excederet. Quomodo igitur esset maximum, quod non esset omnium mensura? Immo quomodo esset maximum, quod esset ab alio et compositum et per consequens finitum? 61 Et iam patet, quare primo ex potentia lineae simplicis oritur triangulus simplex, quoad polygonias, deinde circulus simplex, deinde sphaera simplex, et non devenitur ad alias quam istas elementales figuras ad invicem in finitis improportionales, omnes figuras intra se complicantes. Unde, sicut si nos vellemus concipere mensuras omnium quantitatum mensurabilium: primo pro longitudine necesse esset habere lineam infinitam maximam, cum qua coincideret minimum; deinde pariformiter pro latitudine rectilineali triangulum maximum; et pro latitudine circulari circulum maximum; et pro profunditate sphaeram maximam; et cum aliis quam cum istis quattuor omnia mensurabilia attingi non possent. Et quia istae omnes mensurae necessario essent infinitae et maximae, cum quo minimum coincideret, et cum plura maxima esse non possint: hinc ipsum unicum maximum, quod esse debet omnium quantorum mensura, dicimus esse illa, sine quibus maxima mensura esse non posset, licet in se consideratum – absque respectu ad mensurabilia – nullum istorum sit aut dici possit veraciter, sed per infinitum et improportionabiliter supra. Ita maximum simpliciter cum sit omnium mensura, ipsum illa esse dicimus, sine quibus ipsum omnium metrum posse esse non intelligimus. Unde maximum, licet sit super omnem trinitatem per infinitum, trinum dicimus, quia aliter ipsum rerum, quarum unitas essendi est trinitas – sicut in figuris unitas triangularis in trinitate angulorum consistit –, causam
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anzi una contraddizione. In questo caso, infatti, non potrebbe essere la misura adeguata dei triangoli, perché ne eccederebbe sempre. Come potrebbe quindi essere il massimo, se non fosse la misura di tutto? Ed anzi, come potrebbe essere il massimo, se dipendesse da qualcos’altro e fosse composto e di conseguenza finito? Risulta ormai chiaro per quale motivo la prima figura che, per quanto riguarda i poligoni, nasce dalla potenza della linea semplice sia il triangolo semplice, poi nasce il cerchio semplice ed infine la sfera semplice; ed è chiaro per quale motivo non si pervenga ad altre figure oltre queste figure elementari, le quali, nell’ambito del finito, sono senza proporzione fra di loro e complicano in se medesime tutte le altre figure. Di conseguenza, se volessimo concepire delle misure per tutte le quantità misurabili, dovremmo in primo luogo avere per la lunghezza una linea massima infinita, con la quale coinciderebbe il minimo; poi, allo stesso modo, per la superficie rettilinea dovremmo avere un triangolo massimo, per la superficie circolare un cerchio massimo e per la profondità una sfera massima. E non ci sono altre figure diverse da queste quattro con le quali potremmo raggiungere e misurare tutte le cose misurabili. Ora, tutte queste misure dovrebbero necessariamente essere infinite e massime, dovrebbero cioè essere quel massimo col quale coinciderebbe il minimo; dal momento che, tuttavia, non possono esservi più massimi, per questo diciamo che lo stesso massimo unico, che dev’essere la misura di tutte le quantità, è quelle cose133 senza le quali non potrebbe essere la misura massima, anche se, considerato in se stesso, senza alcun rapporto con le cose misurabili, egli non è nessuna di queste cose, né si può dire in modo vero che sia una di queste cose, ma è piuttosto infinitamente e senza alcuna proporzione al di sopra di esse. Allo stesso modo, poiché il massimo assoluto è la misura di tutte le cose, gli attribuiamo quei predicati senza i quali non riusciamo ad intendere come egli possa essere la misura di tutto. È per questo motivo che, sebbene sia infinitamente al di sopra di ogni trinità, noi definiamo il massimo come trino, perché, altrimenti, non riusciremo ad intendere come egli possa essere la causa semplice, il metro e la misura delle cose, la cui unità dell’essere ha una struttura trinitaria, così come, per quanto riguarda le figure geometriche, l’unità triangolare consiste nella trinità degli
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simplicem, metrum et mensuram esse non intelligeremus; licet in veritate et nomen et conceptus noster trinitatis, semoto isto respectu, maximo nequaquam conveniat, sed per infinitum ab illa maxima et incomprehensibili veritate deficiat. 62 Habemus itaque maximum triangulum omnium triniter subsistentium mensuram simplicissimam, quemadmodum sunt operationes actiones in potentia, obiecto, actu triniter subsistentes; similiter visiones, intellectiones, volitiones, similitudines, dissimilitudines, pulchritudines, proportiones, correlationes, appetitus naturales et cetera omnia, quorum essendi unitas consistit in pluralitate, sicuti est principaliter esse et operatio naturae consistens in correlatione agentis, patientis et communis ex illis resultantis. 63
CAPITULUM XXI
Transsumptio circuli infiniti ad unitatem. Habuimus de triangulo maximo pauca quaedam. Similiter de infinito circulo subiungamus. Circulus est figura perfecta unitatis et simplicitatis. Et iam ostensum est superius triangulum esse circulum. Et ita trinitas est unitas. Ista autem unitas est infinita, sicut circulus infinitus; quare est unior aut identior omni expressibili unitati atque per nos apprehensibili per infinitum. Nam tanta est ibi identitas, quod omnes etiam relativas oppositiones antecedit, quoniam ibi aliud et diversum identitati non opponuntur. Quare est: cum maximum sit infinitae unitatis, tunc omnia, quae ei conveniunt, sunt ipsum absque diversitate et alietate, ut non sit alia bonitas eius et alia sapientia, sed idem. Omnis enim diversitas in ipso est identitas; unde eius potentia cum sit unissima, est et fortissima et infinitissima. Tanta quidem est eius unissima duratio, quod praeteritum non est aliud a
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angoli. E tuttavia, se non prendiamo in considerazione questo rapporto [con le cose], allora, in verità, al massimo non si addicono affatto né il nome, né il nostro concetto di trinità, i quali sono infinitamente lontani da quella verità massima e incomprensibile134. Per questo, consideriamo il triangolo massimo come la misura semplicissima di tutte le cose che sussistono trinitariamente; a queste appartengono le operazioni, le quali sono azioni che sussistono trinitariamente, ossia in potenza, in riferimento ad un oggetto e in atto. Lo stesso vale per gli atti della vista, dell’intelletto, della volontà, per le similitudini e le dissomiglianze, per le bellezze, le proporzioni, le correlazioni, gli appetiti naturali, e per tutte le altre cose la cui unità dell’essere consiste in una pluralità, come avviene, in modo particolare, nell’essere e nell’operare delle realtà naturali, che consiste in una correlazione tra ciò che agisce, ciò che riceve l’azione e ciò che risulta in comune dall’uno e dall’altro. CAPITOLO XXI
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Trasposizione del cerchio infinito all’unità Abbiamo svolto alcune brevi considerazioni a proposito del triangolo massimo. Vogliamo ora aggiungere parimenti qualcosa a proposito del cerchio infinito. Il cerchio è la figura perfetta dell’unità e della semplicità. Ho già mostrato in precedenza che il triangolo massimo è cerchio135. E così la trinità è unità. Questa unità, tuttavia, è infinita, come infinito è il cerchio. Per questo motivo, essa è infinitamente più unitaria o più identica di qualsiasi unità che noi possiamo esprimere o apprendere. In un cerchio infinito, infatti, l’identità è così grande che essa precede tutte le opposizioni, anche quelle relative, in quanto in un tale cerchio l’altro e il diverso non si oppongono all’identico. Per questo motivo, essendo il massimo dotato di un’unità infinita, tutte le cose che gli convengono sono identiche a lui, senza differenza e alterità, in modo tale che la sua bontà non è diversa dalla sua sapienza, ma sono la stessa cosa. Nel massimo, infatti, ogni differenza è identità. Di conseguenza, la potenza del massimo, essendo sommamente una, è anche fortissima e assolutamente infinita136. La sua durata sommamente unitaria è così grande che, in
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futuro et futurum non est aliud a praesenti in ea; sed sunt unissima duratio sive aeternitas sine principio et fine. Nam tantum est in ipso principium, quod et finis est in ipso principium. 64 Haec omnia ostendit circulus infinitus sine principio et fine aeternus, indivisibiliter unissimus atque capacissimus. Et quia ille circulus est maximus, eius diameter etiam est maxima. Et quoniam plura maxima esse non possunt, est intantum ille circulus unissimus, quod diameter est circumferentia. Infinita vero diameter habet infinitum medium. Medium vero est centrum. Patet ergo centrum, diametrum et circumferentiam idem esse. Ex quo docetur ignorantia nostra incomprehensibile maximum esse, cui minimum non opponitur; sed centrum est in ipso circumferentia. Vides, quomodo totum maximum perfectissime est intra omne simplex et indivisibile, quia centrum infinitum; et extra omne esse omnia ambiens, quia circumferentia infinita; et omnia penetrans, quia diameter infinita. Principium omnium, quia centrum; finis omnium, quia circumferentia; medium omnium, quia diameter. Causa efficiens, quia centrum; formalis, quia diameter; finalis, quia circumferentia. Dans esse, quia centrum; gubernans, quia diameter; conservans, quia circumferentia. Et horum similia multa. 65 Apprehendis itaque per intellectum, quomodo maximum cum nullo est idem neque diversum et quomodo omnia in ipso, ex ipso et per ipsum, quia circumferentia, diameter et centrum. Non quod aut sit circulus aut circumferentia, diameter vel centrum; sed maximum tantum simplicissimum, quod per ista paradigmata investigatur et reperitur omnia, quae sunt et non sunt, ambire; ita quod non-esse in ipso est maximum esse, sicut minimum est maximum. Et est mensura omnis circulationis, quae est de potentia in actum et redeundo de actu in potentiam, compositionis a principiis ad
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essa, il passato non è altro dal futuro e il futuro non è altro dal presente137, ma sono la stessa durata del tutto unitaria, o eternità, senza principio e senza fine. Nel massimo, infatti, il principio è così grande che anche la fine è in lui il principio. Tutto questo viene mostrato dal cerchio infinito138, che è eterno, senza principio e senza fine, sommamente unitario e indivisibile e capace di abbracciare tutto. E poiché un tale cerchio è il cerchio massimo, anche il suo diametro è massimo. E dato che non possono esservi più massimi, questo cerchio sommamente uno è tale che il diametro è la circonferenza. Un diametro infinito, tuttavia, ha un punto mediano infinito. Ora, il punto mediano è il centro. È evidente, pertanto, che il centro, il diametro e la circonferenza sono la stessa cosa. Da queste considerazioni la nostra ignoranza apprende che il massimo, al quale non si oppone il minimo, è incomprensibile. Ma nel massimo il centro è la circonferenza. Vedi ora che il massimo, poiché è centro infinito, è presente nella sua totalità e in modo perfettissimo dentro ogni cosa, come semplice e indivisibile; e poiché è circonferenza infinita, è al di fuori di ogni essere, come ciò che abbraccia tutte le cose; e poiché è diametro infinito, è ciò che pervade tutte le cose. È il principio di tutte le cose perché centro, fine di tutte le cose perché circonferenza, punto mediano di tutte le cose perché diametro139; causa efficiente perché centro, causa formale perché diametro, causa finale perché circonferenza; è ciò che conferisce l’essere a tutte le cose perché centro, ciò che tutte le governa perché diametro, ciò che tutte le conserva perché circonferenza. Ed è molte altre cose simili a queste. In questo modo, il tuo intelletto apprende che il massimo non è identico a nulla, né è diverso da nulla, e che tutte le cose sono in lui, da lui e per mezzo di lui140, poiché egli è circonferenza, diametro e centro. Con ciò non intendo dire che egli sia effettivamente cerchio o circonferenza, diametro o centro; egli è piuttosto soltanto il massimo assolutamente semplice, che noi indaghiamo mediante questi esempi con l’ausilio dei quali scopriamo che egli abbraccia tutte le cose che sono e che non sono, in modo tale che, nel massimo, il non-essere è il massimo stesso, così come il minimo è il massimo. Ed egli è la misura di ogni movimento circolare, che va dalla potenza all’atto e ritorna dall’atto alla potenza, di ogni composi-
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individua et resolutionis individuorum ad principia, et formarum perfectarum circularium et circularium operationum et motuum super se et ad principium redeuntium, et consimilium omnium, quorum unitas in quadam circulari perpetuitate consistit. 66 Multa hic de perfectione unitatis ex hac figura circulari trahi possent, quae cum faciliter per unumquemque iuxta praemissa fieri possint, brevitatis causa transeo. Hoc tantum notatum esse admoneo, quomodo omnis theologia circularis et in circulo posita existit, adeo etiam quod vocabula attributorum de se invicem verificentur circulariter: ut summa iustitia est summa veritas, et summa veritas est summa iustitia, et ita de omnibus. Ex quo, si extendere inquisitionem volueris, tibi infinita theologicalia iam occulta manifestissima fieri poterunt. 67
CAPITULUM XXII
Quomodo Dei providentia contradictoria unit. Ad hoc autem, ut etiam experiamur, quomodo ad altam ducimur intelligentiam per praemissa, ad Dei providentiam inquisitionem applicemus. Et quoniam ex prioribus manifestum est Deum esse omnium complicationem, etiam contradictoriorum, tunc nihil potest eius effugere providentiam; sive enim fecerimus aliquid sive eius oppositum aut nihil, totum in Dei providentia implicitum fuit. Nihil igitur nisi secundum Dei providentiam eveniet. 68 Unde, quamvis Deus multa potuisset providisse, quae non providit nec providebit, multa etiam providit, quae potuit non providere, tamen nihil addi potest divinae providentiae aut diminui. Ut in simili: Humana natura simplex et una est; si nasceretur homo,
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zione che procede dal principio agli individui e di ogni risoluzione che riconduce gli individui nei principi; misura delle forme perfette circolari, delle operazioni circolari e dei movimenti che ritornano su se stessi e al principio, e di tutti movimenti simili a questi, la cui unità consiste in una qualche durata perpetua circolare. Da questa figura del cerchio si potrebbero trarre molte conclusioni sulla perfezione dell’unità; conclusioni che per brevità tralascio, anche perché chiunque le può facilmente ricavare in base a quanto abbiamo detto. Vorrei richiamare l’attenzione solo su questo punto, ossia sul fatto che ogni teologia è circolare e si trova disposta come in un cerchio141, al punto che i nomi che essa impiega per designare degli attributi divini si predicano reciprocamente gli uni degli altri in circolo, come quando si dice che la somma giustizia è somma verità e che la somma verità è somma giustizia, e così via per tutti gli attributi. Se, a partire da qui, vorrai estendere la tua indagine, ti potranno risultare chiarissime un’infinità di altre questioni teologiche che sono ancora oscure. CAPITOLO XXII
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La prescienza divina unisce insieme i contraddittori Per poter tuttavia sperimentare come le considerazioni che abbiamo svolto in precedenza ci conducano ad una profonda comprensione, rivolgiamo la nostra indagine al problema della prescienza di Dio. Ora, da quanto abbiamo detto in precedenza risulta evidente che Dio è la complicazione di tutte le cose, anche dei contraddittori; di conseguenza, niente può sfuggire alla sua prescienza. Se compiremo una certa azione o il suo opposto, o anche se non faremo nulla, in ogni caso tutto è stato già implicato nella prescienza divina. Non accadrà pertanto nulla che non sia conforme alla prescienza di Dio142. Di conseguenza, sebbene Dio [nella sua prescienza] avrebbe potuto prevedere molte cose che in realtà non previde né prevederà, e sebbene previde anche molte cose che avrebbe potuto non prevedere, in ogni caso non c’è nulla che possa essere aggiunto o sottratto alla prescienza divina. Facciamo un esempio: la natura umana è semplice e una. Se nascesse un uomo che nessuno si aspetta-
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qui etiam numquam nasci exspectabatur, nihil adderetur naturae humanae; sicut nihil demeretur ab illa, si non nasceretur, sicut nec cum nati moriuntur. Et hoc ideo, quia humana natura complicat tam eos qui sunt, quam qui non sunt neque erunt, licet esse potuerunt. Ita licet eveniret, quod numquam eveniet, nihil tamen adderetur providentiae divinae, quoniam ipsa complicat tam ea, quae eveniunt, quam quae non eveniunt, sed evenire possunt. Sicut igitur multa sunt in materia possibiliter, quae numquam evenient, ita per contrarium, quaecumque non evenient, sed evenire possunt, si in Dei sunt providentia, non sunt possibiliter, sed actu; nec inde sequitur, quod ista sint actu. Sicut ergo dicimus, quod humana natura infinita complicat et complectitur, quia non solum homines, qui fuerunt, sunt et erunt, sed qui possunt esse, licet numquam erunt, et ita complectitur mutabilia immutabiliter, sicut unitas infinita omnem numerum: ita Dei providentia infinita complicat tam ea, quae evenient, quam quae non evenient, sed evenire possunt, et contraria, sicut genus complicat contrarias differentias. Et ea, quae scit, non scit cum differentia temporum, quia non scit futura ut futura, nec praeterita ut praeterita, sed aeterne et mutabilia immutabiliter. 69 Hinc inevitabilis et immutabilis est, et nihil eam excedere potest; et hinc omnia ad ipsam providentiam relata necessitatem habere dicuntur; et merito, quia omnia in Deo sunt Deus, qui est necessitas absoluta. Et sic patet quod ea, quae numquam evenient, eo modo sunt in Dei providentia, ut praedictum est, etiam si non sunt provisa, ut eveniant. Et necesse est Deum providisse, quae providit, quia eius providentia est necessaria et immutabilis; licet etiam oppositum eius providere potuit, quod providit. Nam posi-
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va che nascesse, ciò non aggiungerebbe nulla alla natura umana, così come nulla verrebbe tolto ad essa se quell’uomo non nascesse, come non viene tolto nulla alla natura umana quando muoiono coloro che sono nati. E questo perché la natura umana complica tanto coloro che esistono, quanto coloro che non esistono e che non esisteranno, e tuttavia avrebbero potuto esistere. In modo simile, seppur potesse accadere qualcosa che poi non accadrà mai, ciò non aggiungerebbe nulla alla prescienza divina, in quanto essa complica non solo le cose che accadono, ma anche quelle che non accadono, ma possono accadere. Come nella materia, pertanto, vi sono allo stato potenziale molte cose che non accadranno mai, così, in senso contrario, tutte quelle cose che non accadranno, ma che possono accadere, se sono presenti nella prescienza di Dio vi sono non allo stato potenziale, ma in atto. Da ciò tuttavia non segue che queste cose esistano in atto. Come diciamo, pertanto, che la natura umana complica e abbraccia un numero infinito di individui, in quanto complica non solo gli uomini che furono, che sono e che saranno, ma anche quelli che possono essere, anche se non saranno mai, per cui essa abbraccia le cose mutevoli in maniera immutabile, come l’unità infinita abbraccia ogni numero, allo stesso modo la prescienza infinita di Dio complica non solo le cose che accadranno, ma anche quelle che non accadranno ma che possono accadere, e complica in sé anche i contrari, come il genere complica in sé le differenze fra loro contrarie. E le cose che conosce, la prescienza divina non le conosce nella diversità dei tempi, in quanto non conosce le cose future come future, né le cose passate come passate, ma le conosce eternamente, e le cose mutevoli le conosce in maniera immutabile143. La prescienza divina, pertanto, è inevitabile e immutabile, e nulla le può sfuggire; per questo, si dice che tutte le cose, in relazione alla prescienza divina, abbiano il carattere della necessità. E lo si dice giustamente, perché, in Dio, tutte le cose sono Dio, il quale è necessità assoluta144. E così è evidente che tutte le cose che non accadranno mai sono presenti nella prescienza di Dio nel modo che abbiamo detto, anche se non è stato previsto che esse avvengano. Ed è necessario che Dio abbia previsto le cose che ha previsto, poiché la sua prescienza è necessaria e immutabile, sebbene egli avrebbe potuto prevedere anche l’opposto di ciò che ha previsto. Con la posizione della complicazione, infatti, non è posta ancora
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ta complicatione non ponitur res complicata, sed posita explicatione ponitur complicatio. Nam, licet cras possum legere vel non legere, quodcumque fecero, providentiam non evado, quae contraria complectitur. Unde, quidquid fecero, secundum Dei providentiam eveniet. Et ita patet, quomodo per praemissa, quae nos docent maximum omnem anteire oppositionem, quoniam omnia qualitercumque complectitur et complicat, quid de providentia Dei et aliis consimilibus verum sit, apprehendimus. 70
CAPITULUM XXIII
Transsumptio sphaerae infinitae ad actualem existentiam Dei. Convenit adhuc pauca quaedam circa sphaeram infinitam speculari; et reperimus in infinita sphaera tres lineas maximas longitudinis, latitudinis et profunditatis in centro concurrere. Sed centrum maximae sphaerae aequatur diametro et circumferentiae. Igitur illis tribus lineis in infinita sphaera aequatur centrum; immo centrum est omnia illa, scilicet longitudo, latitudo et profunditas. Erit itaque maximum simplicissime atque infinite omnis longitudo, latitudo et profunditas, quae in ipso sunt unum simplicissimum indivisibile maximum. Et ut centrum praecedit omnem latitudinem, longitudinem atque profunditatem, et est finis omnium illorum atque medium, quoniam in sphaera infinita centrum, crassitudo et circumferentia idem sunt. Et sicut sphaera infinita est penitus in actu et simplicissima, ita maximum est penitus in actu simplicissime. Et sicut sphaera est actus lineae, trianguli et circuli, ita maximum est omnium actus. Quare omnis actualis existentia ab ipso habet, quidquid actualitatis existit, et omnis existentia pro tanto existit actu, pro quanto in ipso infinito actu est. Et hinc maximum est forma formarum et forma essendi sive maxima actualis entitas. 71 Unde Parmenides subtilissime considerans aiebat Deum esse, cui esse quodlibet, quod est, est esse omne id, quod est. Sicut igitur
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la cosa complicata, mentre con la posizione dell’esplicazione è posta la complicazione145. Sebbene domani, ad esempio, io possa leggere o non leggere, qualunque di queste due cose farò non sfuggo alla prescienza divina, la quale abbraccia i contrari. Di conseguenza, qualunque cosa farò, essa accadrà secondo la presenza di Dio. In questo modo, risulta evidente come le cose che abbiamo detto sopra, le quali ci insegnano che il massimo precede ogni opposizione, in quanto abbraccia e complica tutte le cose, ci consentano di apprendere la verità circa la prescienza di Dio e altre questioni simili. CAPITOLO XXIII
Trasposizione della sfera infinita all’esistenza in atto di Dio È opportuno fare ancora alcune riflessioni sulla sfera infinita. Ora, nella sfera infinita troviamo tre linee massime che convergono al centro: la linea della lunghezza, quella della larghezza e quella della profondità. Il centro di una sfera massima, tuttavia, è uguale al diametro e alla circonferenza146. Di conseguenza, nella sfera infinita il centro è uguale a quelle tre linee. Ed anzi, il centro è tutte e tre quelle linee, ossia la lunghezza, la larghezza e la profondità. E così il massimo sarà, in modo assolutamente semplice e infinito, ogni lunghezza, ogni larghezza e ogni profondità, le quali, nel massimo, sono lo stesso massimo uno, assolutamente semplice e indivisibile. In quanto centro, il massimo precede ogni larghezza, ogni lunghezza e ogni profondità, ed è di tutte il loro fine e il loro punto mediano, perché nella sfera infinita il centro, il volume e la circonferenza sono un’identica cosa. E come la sfera infinita è del tutto in atto ed è assolutamente semplice, così il massimo è del tutto in atto in modo assolutamente semplice. E come la sfera è l’atto della linea, del triangolo e del cerchio, così il massimo è l’atto di tutte le cose147. Per questo, ogni esistenza in atto ha da lui tutto ciò che essa ha di attualità, ed ogni esistenza in tanto esiste in atto, in quanto è in atto nell’infinito. Ne consegue che il massimo è la forma delle forme e la forma dell’essere148, ovvero l’entità massima in atto. Per questo, Parmenide, con una considerazione estremamente acuta, diceva che Dio è «colui per il quale essere un qualunque ente che esiste significa essere tutto ciò che esiste»149. Come la sfe-
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sphaera est ultima perfectio figurarum, qua maior non est, ita maximum est omnium perfectio perfectissima, adeo quod omne imperfectum in ipso est perfectissimum, sicut infinita linea est sphaera et curvitas est rectitudo et compositio simplicitas et diversitas identitas et alteritas unitas, et ita de reliquis. Quomodo enim posset esse ibi aliquid imperfectionis, ubi imperfectio est infinita perfectio et possibilitas infinitus actus, et ita de reliquis? 72 Videmus nunc clare, cum maximum sit ut sphaera maxima, quomodo totius universi et omnium in universo existentium est unica simplicissima mensura adaequatissima, quoniam in ipso non est maius totum quam pars, sicut non est maior sphaera quam linea infinita. Deus igitur est unica simplicissima ratio totius mundi universi. Et sicut post infinitas circulationes exoritur sphaera, ita Deus omnium circulationum, uti sphaera maxima, est simplicissima mensura. Omnis enim vivificatio, motus et intelligentia ex ipso, in ipso et per ipsum; apud quem una revolutio octavae sphaerae non est minor quam infinite, quia finis est omnium motuum, in quo omnis motus ut in fine quiescit. Est enim quies maxima, in qua omnis motus quies est; et ita maxima quies est omnium motuum mensura, sicut maxima rectitudo omnium circumferentiarum et maxima praesentia sive aeternitas omnium temporum. 73 In ipso igitur omnes motus naturales ut in fine quiescunt, et omnis potentia in ipso perficitur ut in actu infinito. Et quia ipse est entitas omnis esse et omnis motus est ad esse: igitur quies motus est ipse, qui est finis motus, scilicet forma et actus essendi. Entia igitur omnia ad ipsum tendunt. Et quoniam finita sunt et non possunt aequaliter participare finem in comparatione ad se invicem, tunc aliqua participant hunc finem per medium aliorum, sicut linea per medium trianguli et circuli in sphaeram ducitur, et triangulus per medium circuli, et circulus in sphaeram per seipsum.
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ra, pertanto, è la perfezione ultima delle figure geometriche, della quale non c’è nessuna figura che sia maggiore, così il massimo è la perfezione assolutamente perfetta di tutte le cose, e lo è a tal punto che tutto ciò che è imperfetto è in lui assolutamente perfetto, così come la linea infinita è sfera infinita, e, in questa sfera150, la curvità è rettitudine, la composizione è semplicità, la diversità è identità, l’alterità è unità, e così via. Come potrebbe infatti esservi qualche imperfezione là dove l’imperfezione è infinita perfezione, la possibilità è atto infinito, e così di seguito? Dal momento che il massimo è come una sfera massima, ora vediamo con chiarezza che egli è la misura unica, semplicissima e assolutamente adeguata dell’intero universo e di tutte le cose che esistono nell’universo151, poiché in lui il tutto non è maggiore della parte, come la sfera infinita non è maggiore della linea infinita. Dio, pertanto, è l’unica e semplicissima ragion d’essere del mondo intero o dell’universo152. E come la sfera nasce dopo un numero infinito di movimenti circolari, così Dio, in qualità di sfera massima, è la misura semplicissima di tutti i movimenti circolari. Ogni vivificazione, infatti, ogni movimento ed ogni intelligenza sono da lui, in lui e attraverso di lui153. Presso di lui, una sola rivoluzione dell’ottava sfera non è minore di una rivoluzione della sfera infinita, perché egli è il fine di ogni movimento e in lui ogni movimento trova la sua quiete come nel suo fine. Egli, infatti, è la quiete massima, nella quale ogni movimento è quiete. E così, la quiete massima è la misura di tutti i movimenti, come la rettitudine massima è la misura di tutte le circonferenze, il presente massimo o eternità è la misura di tutti i tempi. In lui, pertanto, tutti i movimenti naturali trovano la loro quiete come nel loro fine, ed ogni potenzialità trova in lui il suo compimento come nell’atto infinito. E dato che egli è l’entità di ogni essere, ed ogni movimento è ordinato all’essere, egli, che è il fine del movimento, ossia la forma e l’atto dell’essere, è la quiete di ogni movimento. Tutti gli enti, pertanto, tendono a lui. E dato che sono finiti e non possono partecipare del fine in modo uguale gli uni rispetto agli altri, alcuni enti partecipano di questo fine grazie alla mediazione di altri, come la linea viene ricondotta alla sfera grazie alla mediazione del triangolo e del cerchio, il triangolo grazie alla mediazione del cerchio, mentre il cerchio si riconduce da se stesso alla sfera154.
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De nomine Dei et theologia affirmativa. Postquam nunc auxiliante Deo exemplo mathematico studuimus in nostra ignorantia circa primum maximum peritiores fieri, adhuc pro completiori doctrina de nomine maximi investigemus. Et ista quidem inquisitio, si recte saepe dicta menti habuerimus, facilis adinventionis erit. Nam manifestum est, cum maximum sit ipsum maximum simpliciter, cui nihil opponitur, nullum nomen ei proprie posse convenire. Omnia enim nomina ex quadam singularitate rationis, per quam discretio fit unius ab alio, imposita sunt. Ubi vero omnia sunt unum, nullum nomen proprium esse potest. 75 Unde recte ait Hermes Trismegistus: «Quoniam Deus est universitas rerum, tunc nullum nomen proprium est eius, quoniam aut necesse esset omni nomine Deum aut omnia eius nomine nuncupari», cum ipse in sua simplicitate complicet omnium rerum universitatem. Unde secundum ipsum proprium nomen – quod ineffabile per nos dicitur et tetragrammaton sive quattuor litterarum est et ex eo proprium, quia non convenit Deo secundum aliquam habitudinem ad creaturas, sed secundum essentiam propriam – interpretari debet ‘unus et omnia’ sive ‘omnia uniter’, quod melius est. Et ita nos repperimus superius unitatem maximam, quae idem est quod omnia uniter; immo adhuc videtur nomen propinquius et convenientius ‘unitas’ quam ‘omnia uniter’. Et propter hoc dicit propheta, quomodo «in illa die erit Deus unus et nomen eius unum.» Et alibi: «Audi Israel (id est Deum per intellectum videns), quoniam Deus tuus unus est.» 76 Non est autem unitas nomen Dei eo modo, quo nos aut nominamus aut intelligimus unitatem, quoniam, sicut supergreditur Deus omnem intellectum, ita a fortiori omne nomen. Nomina quidem per motum rationis, quae intellectu multo inferior est, ad re-
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Il nome di Dio e la teologia affermativa Finora ci siamo sforzati, con l’aiuto di Dio e servendoci di un esempio matematico, di acquisire, nella nostra ignoranza, una maggiore conoscenza intorno al primo massimo; adesso, per rendere il nostro insegnamento ancora più completo, intendiamo condurre una ricerca sul nome di Dio. Ed anche il percorso di quest’indagine risulterà facile, se terremo correttamente a mente le cose che abbiamo detto più volte. È chiaro, infatti, che, se il massimo è il massimo assoluto cui nulla si oppone, nessun nome gli può convenire in modo appropriato155. Tutti nomi, in effetti, vengono assegnati alle cose sulla base di un’operazione peculiare della ragione, attraverso la quale una cosa viene distinta da un’altra156. Per questo, dice giustamente Ermete Trismegisto: poiché Dio è la totalità delle cose, nessun nome gli è appropriato; sarebbe infatti necessario chiamare Dio con tutti i nomi, o chiamare tutte le cose con il nome di Dio157, dal momento che egli complica, nella sua semplicità, la totalità di tutte le cose. Di conseguenza, [secondo Ermete] il nome proprio di Dio, che noi consideriamo ineffabile e che è il «tetragramma»158, ossia composto di quattro lettere – nome che è proprio di Dio in quanto gli conviene non in base a qualche rapporto con le creature, ma in forza della sua propria essenza – dev’essere reso con l’espressione «uno e tutto», o «tutto in uno», il che è ancora meglio. Ed in modo simile anche noi abbiamo scoperto in precedenza il nome di «unità massima»159, che ha lo stesso significato di «tutto in uno». Ed anzi il nome di «unità» sembra essere ancora più adatto e appropriato di quello di «tutto in uno». Per questo, il profeta dice che «in quel giorno Dio sarà uno e il suo nome sarà uno»160. E altrove: «Ascolta Israele, il tuo Dio è uno», dove «Israele» significa «colui che vede Dio mediante l’intelletto»161. L’unità, tuttavia, non è il nome di Dio nel modo in cui noi designamo o intendiamo l’unità, perché, come Dio è al di sopra di ogni intelletto, così, a maggior ragione, è al di sopra di ogni nome. I nomi, infatti, vengono assegnati alle cose allo scopo di distinguerle, e vengono assegnati da un movimento della ragione, la quale è
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rum discretionem imponuntur. Quoniam autem ratio contradictoria transilire nequit, hinc non est nomen, cui aliud non opponatur secundum motum rationis; quare unitati pluralitas aut multitudo secundum rationis motum opponitur. Hinc unitas Deo non convenit, sed unitas, cui non opponitur aut alteritas aut pluralitas aut multitudo. Hoc est nomen maximum omnia in sua simplicitate unitatis complicans, istud est nomen ineffabile et super omnem intellectum. 77 Quis enim intelligere possit unitatem infinitam per infinitum omnem oppositionem antecedentem, ubi omnia absque compositione sunt in simplicitate unitatis complicata, ubi non est aliud vel diversum, ubi homo non differt a leone et caelum non differt a terra, et tamen verissime ibi sunt ipsum, non secundum finitatem suam, sed complicite ipsamet unitas maxima? Unde, si quis posset intelligere aut nominare talem unitatem, quae cum sit unitas, est omnia, et cum sit minimum, est maximum, ille nomen Dei attingeret. Sed cum nomen Dei sit Deus, tunc eius nomen non est cognitum nisi per intellectum, qui est ipsum maximum et nomen maximum. Quare in docta ignorantia attingimus: Licet ‘unitas’ videatur propinquius nomen maximi, tamen adhuc a vero nomine maximi, quod est ipsum maximum, distat per infinitum. 78 Est itaque ex hoc manifestum nomina affirmativa, quae Deo attribuimus, per infinitum diminute sibi convenire; nam talia secundum aliquid, quod in creaturis reperitur, sibi attribuuntur. Cum igitur Deo nihil tale particulare, discretum, habens oppositum sibi nisi diminutissime convenire possit, hinc affirmationes sunt incompactae, ut ait Dionysius. Nam si dicis ipsum veritatem, occurrit falsitas; si dicis virtutem, occurrit vitium; si dicis substantiam, occurrit accidens; et ita de reliquis. Cum autem ipse non sit substantia, quae non sit omnia et cui nihil opponitur, et non sit veritas, quae
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molto inferiore all’intelletto. Poiché la ragione, tuttavia, non può andare oltre i contraddittori, non c’è alcun nome al quale, conformemente al movimento proprio della ragione, non si opponga un altro nome162. Per cui, conformemente al movimento proprio della ragione, all’unità si oppongono la pluralità e la molteplicità. Non è questa tuttavia l’unità che si addice a Dio, ma è l’unità alla quale non si oppongono né l’alterità, né la pluralità, né la molteplicità. Ed è questo il nome massimo, che complica tutte le cose nella semplicità della sua unità; questo è il nome che è ineffabile e che al di sopra di ogni intelletto163. Chi potrebbe infatti intendere l’unità infinita che precede all’infinito ogni opposizione, dove tutte le cose sono complicate nella semplicità dell’unità senza alcuna composizione, dove non c’è l’altro o il diverso, dove l’uomo non differisce da leone, il cielo non differisce dalla terra, e dove le cose, tuttavia, sono nel modo più vero il massimo stesso, non secondo la propria finitezza, ma perché sono in modo complicato la stessa unità massima164? Di conseguenza, se qualcuno potesse intendere o nominare una tale unità, che, essendo unità, è tutte le cose, e che, essendo il minimo, è il massimo, costui giungerebbe a cogliere il nome di Dio. Poiché, tuttavia, il nome di Dio è Dio, il suo nome è conosciuto solo da quell’intelletto che è il massimo stesso e che è il nome massimo. Nella dotta ignoranza, pertanto, raggiungiamo questa conoscenza: sebbene «unità» sembri essere il nome che si avvicina maggiormente al massimo, un tale nome, tuttavia, resta ancora infinitamente distante dal vero nome del massimo, da quel nome che è il massimo stesso. Da queste considerazioni risulta pertanto evidente che i nomi affermativi che attribuiamo a Dio gli convengono in modo infinitamente limitato; tali nomi, infatti, gli vengono attribuiti sulla base di qualcosa che riscontriamo nelle creature. Dato che a Dio, pertanto, non può convenire nessuno di questi nomi che designano cose particolari, discrete e che hanno un opposto, ne consegue che le affermazioni, come dice Dionigi, sono inadeguate165. Se, infatti, chiami Dio «verità», gli si oppone la falsità, se lo chiami «virtù», gli si oppone il vizio, se lo chiami «sostanza», gli si oppone l’accidente, e così via166. Poiché Dio, tuttavia, non è una sostanza tale da non essere tutte le altre cose e da avere qualcosa come suo opposto, e non
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non sit omnia absque oppositione, non possunt illa particularia nomina nisi diminute valde per infinitum sibi convenire. Omnes enim affirmationes, quasi in ipso aliquid sui significati ponentes, illi convenire non possunt, qui non est plus aliquid quam omnia. 79 Et propterea nomina affirmativa, si sibi conveniunt, non nisi in respectu ad creaturas conveniunt; non quod creaturae sint causa, quod sibi conveniant, quoniam maximum a creaturis nihil habere potest, sed sibi ex infinita potentia ad creaturas conveniunt. Nam ab aeterno Deus potuit creare, quia, nisi potuisset, summa potentia non fuisset. Igitur hoc nomen ‘creator’, quamvis sibi in respectu ad creaturas conveniat, tamen etiam convenit, antequam creatura esset, quoniam ab aeterno creare potuit. Ita de iustitia et ceteris omnibus nominibus affirmativis, quae nos translative a creaturis Deo attribuimus propter quandam perfectionem per ipsa nomina significatam; licet illa omnia nomina ab aeterno, ante etiam quam nos sibi illa attribuimus, fuissent veraciter in summa sua perfectione et infinito nomine complicata, sicut et res omnes, quae per ipsa talia nomina significantur et a quibus per nos in Deum transferuntur. 80 Et intantum hoc est verum de affirmativis omnibus, quod etiam nomen Trinitatis et personarum, scilicet Patris et Filii et Spiritus sancti, in habitudine creaturarum sibi imponuntur. Nam cum Deus ex eo, quod unitas est, sit gignens et Pater, ex eo, quod est aequalitas unitatis, genitus sive Filius, ex eo, quod utriusque connexio, Spiritus sanctus: tunc clarum est Filium nominari Filium ex eo, quod est unitatis sive entitatis aut essendi aequalitas. Unde patet ex hoc, quod Deus ab aeterno potuit res creare, licet eas etiam non creasset, respectu ipsarum rerum Filius dicitur. Ex hoc enim est Filius, quod est aequalitas essendi res, ultra quam vel infra res
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è una verità tale da non essere tutte le cose senza alcuna opposizione, questi nomi particolari non gli possono convenire se non in modo infinitamente limitato. Tutte le affermazioni, che introducono in qualche modo in Dio qualcosa del loro significato, non possono infatti convenire a colui che non è qualche cosa di particolare più di quanto sia tutte le cose. È per questo che i nomi affermativi, se convengono a Dio, gli convengono soltanto in relazione alle creature. Non che le creature siano la causa per la quale questi nomi convengono a Dio, in quanto il massimo non può ricevere nulla dalle creature; tali nomi, piuttosto, convengono a Dio in virtù della sua potenza infinita nei confronti delle creature. Dio, infatti, ha potuto creare sin dall’eternità, perché, se non avesse potuto, non sarebbe stato la potenza suprema. Il nome di «creatore», pertanto, sebbene convenga a Dio in relazione alle creature, gli conveniva tuttavia anche prima che le creature esistessero, dato che Dio ha potuto crearle sin dall’eternità. Lo stesso vale per la giustizia e per tutti gli altri nomi affermativi, che noi trasferiamo a Dio dalle creature, e che attribuiamo a lui per il fatto che essi designano una certa perfezione. Tutti questi nomi, tuttavia, prima ancora di essere da noi attribuiti a Dio, erano già complicati sin dall’eternità e in modo vero nella sua perfezione somma e nel suo nome infinito, così come erano in lui complicate tutte quelle cose che vengono designate mediante tali nomi, e a partire dalle quali noi li trasferiamo a Dio. Quanto abbiamo detto è vero a proposito di tutti nomi affermativi, a tal punto che anche i nomi della trinità e delle persone divine, ossia «padre», «figlio» e «spirito santo», vengono attribuiti a Dio sulla base del suo rapporto con le creature167. In effetti, è per il fatto di essere unità che Dio è generante e padre, è per il fatto di essere eguaglianza dell’unità che egli è generato e figlio, ed è per il fatto di essere connessione dell’uno dell’altro che gli è spirito santo168. E chiaro, pertanto, che il figlio viene chiamato figlio perché è eguaglianza dell’unità, ossia dell’entità o dell’essere. Di conseguenza, dal fatto che Dio ha potuto creare le cose sin dall’eternità, risulta evidente che egli, anche se non le avesse create, viene chiamato figlio in riferimento a queste cose. Egli è infatti figlio perché è eguaglianza dell’essere delle cose, le quali non potrebbero esistere
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esse non possent; ita videlicet quod est Filius ex eo, quod est aequalitas entitatis rerum, quas Deus facere poterat, licet eas etiam facturus non esset; quas si facere non posset, nec Deus Pater vel Filius vel Spiritus sanctus, immo nec Deus esset. Quare, si subtilius consideras, Patrem Filium gignere, hoc fuit omnia in Verbo creare. Et ob hoc Augustinus Verbum etiam artem ac ideam in respectu creaturarum affirmat. 81 Unde ex eo Deus Pater est, quia genuit aequalitatem unitatis; ex eo autem Spiritus sanctus, quod utriusque amor est; et haec omnia respectu creaturarum. Nam creatura ex eo, quod Deus Pater est, esse incipit; ex eo, quod Filius, perficitur; ex eo, quod Spiritus sanctus est, universali rerum ordini concordat. Et haec sunt in unaquaque re Trinitatis vestigia. Et haec est sententia Aurelii Augustini exponentis illud Geneseos: «In principio creavit Deus caelum et terram», dicens Deum ex eo, quia Pater, principia rerum creasse. 82 Quare quidquid per theologiam affirmationis de Deo dicitur, in respectu creaturarum fundatur, etiam quoad illa sanctissima nomina, in quibus maxima latent mysteria cognitionis divinae, quae apud Hebraeos et Chaldaeos habentur, quorum nullum Deum nisi secundum aliquam proprietatem particularem significat praeter nomen quattuor litterarum, quae sunt ioth he vau he, quod est proprium et ineffabile superius interpretatum. De quibus Hieronymus et Rabbi Salomon in libro Ducis neutrorum extense tractant; qui videri possunt. 83
CAPITULUM XXV
Gentiles Deum varie nominabant creaturarum respectu. Pagani pariformiter Deum variis creaturarum respectibus nominabant: Iovem quidem propter mirabilem pietatem (ait enim Iulius
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se fossero al di sopra o al di sotto di tale eguaglianza. Si vede così che egli è figlio perché è l’eguaglianza dell’entità delle cose che Dio avrebbe potuto creare, anche se poi non le creerà; ma se non potesse crearle, Dio non sarebbe né padre, né figlio o spirito santo, ed anzi non sarebbe nemmeno Dio. Se consideri pertanto la questione in maniera più approfondita, vedrai che il fatto che il padre generi il figlio significa che gli crea tutte le cose nel verbo. È questo il motivo per il quale Agostino afferma che il verbo è come l’arte o l’idea [di Dio] in rapporto alle creature169. Dio è padre, pertanto, perché ha generato l’eguaglianza dell’unità. È invece spirito santo perché è amore dell’uno dell’altro. E tutto questo egli lo è in relazione alle creature. La creatura, infatti, incomincia ad essere in virtù del fatto che Dio è padre; giunge a compimento in virtù del fatto che Dio è figlio, ed è in armonia con l’ordine universale delle cose in virtù del fatto che Dio è spirito santo. E queste sono le vestigia della trinità che sono presenti in ogni cosa. Questa l’opinione anche di Aurelio Agostino, quando espone il passo della Genesi nel quale si dice: «In principio Dio creò il cielo e la terra»; Agostino, infatti, afferma che Dio, in virtù del fatto che è padre, ha creato i principi delle cose170. Tutto ciò che si dice di Dio nella teologia affermativa si basa pertanto sulla considerazione del suo rapporto con le creature. Questo vale anche per quei nomi santissimi che si trovano presso gli Ebrei e i Caldei, e nei quali si nascondono i misteri più grandi della conoscenza divina. Nessuno di questi nomi, infatti, designa Dio se non tramite una qualche proprietà particolare, tranne quel nome di quattro lettere – iot, he, vau, he –, che, come abbiamo spiegato in precedenza, è il nome proprio e ineffabile di Dio. Di questi argomenti trattano diffusamente Girolamo e Rabbi Salomone, nella Guida dei perplessi, autori che si possono consultare171. CAPITOLO XXV
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I gentili chiamavano Dio con vari nomi in relazione alle creature In modo simile, anche i pagani denominavano Dio considerando i suoi diversi rapporti con le creature: lo chiamavano Giove per la sua straordinaria benevolenza (Giulio Firmico dice, infatti, che
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Firmicus, quod Iupiter adeo prosperum sidus sit, quod, si solus in caelo Iupiter regnasset, homines essent immortales); ita Saturnum propter profunditatem cogitationum et inventionum in rebus vitae necessariis; Martem propter victorias bellicas; Mercurium propter consiliarem prudentiam; Venerem propter amorem conservativum naturae; Solem propter vigorem motuum naturalium; Lunam propter humoralem conservationem, in qua vita consistit; Cupidinem propter unitatem duplicis sexus, ob quam rem etiam Naturam ipsum vocarunt, quoniam per duplicem sexum species rerum conservat. Hermes ait omnia tam animalia quam non-animalia duplicis sexus; propterea causam omnium – scilicet Deum – in se masculinum et femininum sexum dixit complicare, cuius Cupidinem et Venerem explicationem credebat. Valerius etiam Romanus idem affirmans canebat Iovem omnipotentem genitorem genitricemque Deum. Unde dicebant Cupidinem, prout scilicet una res cupit aliam, filiam Veneris, hoc est ipsius pulchritudinis naturalis; Venerem vero Iovis aiebant omnipotentis filiam, a quo Natura et cuncta ipsam concomitantia. 84 Templa etiam, Pacis scilicet et Aeternitatis ac Concordiae, Pantheon, in quo erat altare Termini infiniti, cuius non est terminus, in respectum ad creaturas varie nominasse. Quae quidem omnia nomina unius ineffabilis nominis complicationem sunt explicantia; et secundum quod nomen proprium est infinitum, ita infinita nomina talia particularium perfectionum complicat. Quare et explicantia possent esse multa et numquam tot et tanta, quin possent esse plura; quorum quodlibet se habet ad proprium et ineffabile, ut finitum ad infinitum. Deridebant veteres pagani Iudaeos, qui Deum unum infinitum, quem ignorabant, adorarunt; quem tamen ipsi in explicationibus venerabantur, ipsum scilicet ibi venerantes, ubi divina sua opera conspiciebant. Et ista inter omnes homines diffe-
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Giove è una stella così favorevole che, se regnasse nel cielo da solo, «gli uomini sarebbero immortali»)172; lo chiamavano Saturno, per la profondità dei suoi pensieri e per le scoperte nell’ambito delle cose necessarie alla vita; Marte, per le vittorie militari; Mercurio, per la saggezza nel dare consigli; Venere, per l’amore che conserva la natura; Sole, per la forza dei movimenti naturali; Luna, per la conservazione degli umori dai quali dipende la vita; Amore per l’unità dei due sessi, e per questo lo chiamarono anche natura, in quanto attraverso i due sessi conserva le diverse specie delle cose173. Ermete [Trismegisto] sostiene che tutte le specie, sia animali che non animali, sono dotate di un duplice sesso174; per questo motivo, egli afferma che la causa di tutte le cose, ossia Dio, complica in sé il sesso maschile e il sesso femminile, di cui egli credeva che Amore e Venere fossero un’esplicazione. Anche Valerio Romano, sostenendo la stessa opinione, cantava Giove come onnipotente genitore e genitrice175. Per questo, dal momento che una cosa ama l’altra, davano al figlio di Venere, ossia della stessa bellezza naturale, il nome di Amore, mentre affermavano che Venere era figlia di Giove onnipotente, dal quale derivano la natura e tutte le cose che la seguono. Anche i templi – quello della Pace, dell’Eternità, della Concordia, il Pantheon, nel quale si trovava l’altare del dio Termine infinito, che non conosce termine, situato nel mezzo di quel tempio, sotto il cielo aperto – ed altri edifici simili ci insegnano che i pagani attribuivano a Dio vari nomi a seconda del suo rapporto con le creature. E questi sono tutti nomi che esplicano quanto è complicato nell’unico nome ineffabile. E conformemente al fatto che tale nome proprio è infinito, esso complica in se stesso un numero infinito di questi nomi che designano delle perfezioni particolari176. Per questo motivo, per quanti possano essere i nomi che esplicano quell’unico nome proprio e ineffabile177, essi non saranno mai così tanti da non poter essere ancora di più. Ognuno di questi nomi, infatti, si rapporta al nome proprio e ineffabile come il finito si rapporta all’infinito. Gli antichi pagani deridevano i Giudei, che adoravano un unico Dio infinito che essi non conoscevano. Gli stessi pagani, tuttavia, veneravano il medesimo Dio nelle sue esplicazioni, ossia lo veneravano là dove scorgevano le sue opere divine. Questa, in effetti, era la differenza che esisteva a quel tempo fra tutti
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rentia tunc fuit, ut omnes Deum unum maximum, quo maius esse non posset, crederent, quem alii, ut Iudaei et Sissennii, in sua simplicissima unitate, ut est rerum omnium complicatio, colebant; alii vero in hiis colebant, ubi explicationem divinitatis reperiebant, recipiendo notum sensibiliter pro manuductione ad causam et principium. Et in hac ultima via seducti sunt simplices populares, qui non sunt usi explicatione ut imagine, sed ut veritate. Ex qua re idolatria introducta est in vulgum, sapientibus ut plurimum de unitate Dei recte credentibus, uti haec nota cuique esse possunt, qui Tullium De deorum natura ac philosophos veteres diligenter perspexerit. 85 Non negamus tamen quosdam ex paganis non intellexisse Deum, cum sit entitas rerum, aliter quam per abstractionem extra res esse, sicut materia prima extra res non nisi per abstrahentem intellectum existit; et hii tales Deum in creaturis adorarunt, qui etiam rationibus idolatriam astruebant. Quidam etiam Deum devocabilem putarunt. Quorum quidam in angelis eum devocabant, ut Sissennii; gentiles vero devocabant eum in arboribus, qualia de arbore Solis et Lunae leguntur; et quidam in aere, aqua vel templis certis carminibus eum devocabant. Qui omnes qualiter seducti sint et longe fuerint a veritate, praemissa ostendunt. 86
CAPITULUM XXVI
De theologia negativa. Quoniam autem cultura Dei, qui adorandus est in spiritu et veritate, necessario se fundat in positivis Deum affirmantibus, hinc omnis religio in sua cultura necessario per theologiam affirmativam ascendit, Deum ut unum ac trinum, ut sapientissimum, piissimum, lucem inaccessibilem, vitam, veritatem et ita de reliquis adorando, semper culturam per fidem, quam per doctam ignorantiam
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gli uomini: tutti credevano che Dio fosse il massimo uno, del quale non può esservi nulla di maggiore; alcuni, tuttavia, come i Giudei e i Sisseni178, lo veneravano nella sua unità semplicissima, quale complicazione di tutte le cose, altri, invece, lo veneravano in quelle cose dove trovavano un’esplicazione della sua divinità, prendendo quanto ci è noto mediante i sensi come una guida verso la causa e il principio. Da quest’ultima via furono traviate le persone semplici del popolo, le quali non si servirono dell’esplicazione come di un’immagine, ma la considerarono come la verità stessa. Il risultato fu che l’idolatria venne introdotta tra il popolo, mentre la maggior parte dei sapienti continuò a credere correttamente nell’unità di Dio. Questi fatti possono essere noti a chiunque abbia letto con attenzione il libro di Tullio La natura degli dèi e i filosofi antichi179. Non intendo tuttavia negare che alcuni tra i pagani non abbiano compreso che Dio, essendo l’entità delle cose, è al di fuori delle cose in un modo diverso da quello che si realizza attraverso l’astrazione, come avviene invece per la materia prima, la quale non esiste al di fuori delle cose se non in virtù dell’astrazione dell’intelletto. Costoro adorarono Dio nelle creature ed hanno anche giustificato l’idolatria con motivazioni razionali. Alcuni ritennero persino che si potesse evocare Dio [con esorcismi]. Gli Esseni, ad esempio, lo evocavano negli angeli. I Gentili, invece, lo evocavano negli alberi, come si legge a proposito dell’albero del Sole e della Luna180. Altri lo evocavano nell’aria, nell’acqua o nei templi, impiegando determinati canti magici. Le cose che ho detto in precedenza mostrano quanto tutti costoro siano stati traviati e condotti ben lontano dalla verità. CAPITOLO XXVI
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La teologia negativa Poiché, tuttavia, il culto di Dio, che vuole essere adorato «in spirito e verità»181, si basa necessariamente su delle affermazioni positive intorno a Dio, ogni religione, nel suo culto, deve necessariamente ascendere a Dio mediante la teologia affermativa, adorando Dio come uno e trino, come sommamente sapiente e clemente, come «luce inaccessibile», come vita, come verità182 e così via, facendosi in questo guidare nel proprio culto dalla fede, alla qua-
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verius attingit, dirigendo; credendo scilicet hunc, quem adorat ut unum, esse uniter omnia; et quem ut inaccessibilem lucem colit, non quidem esse lucem, ut est haec corporalis, cui tenebra opponitur, sed simplicissimam et infinitam, in qua tenebrae sunt lux infinita; et quod ipsa infinita lux semper lucet in tenebris nostrae ignorantiae, sed tenebrae eam comprehendere nequeunt. Et ita theologia negationis adeo necessaria est quoad aliam affirmationis, ut sine illa Deus non coleretur ut Deus infinitus, sed potius ut creatura; et talis cultura idolatria est, quae hoc imagini tribuit, quod tantum convenit veritati. Hinc utile erit adhuc parum de negativa theologia submittere. 87 Docuit nos sacra ignorantia Deum ineffabilem; et hoc, quia maior est per infinitum omnibus, quae nominari possunt; et hoc quidem quia verissimum, verius per remotionem et negationem de ipso loquimur, sicuti et maximus Dionysius, qui eum nec veritatem nec intellectum nec lucem nec quidquam eorum, quae dici possunt, esse voluit; quem Rabbi Salomon et omnes sapientes sequuntur. Unde neque Pater est neque Filius neque Spiritus sanctus secundum hanc negativam theologiam, secundum quam est infinitus tantum. Infinitas vero, ut infinitas, neque generans est neque genita neque procedens. Quare Hilarius Pictaviensis subtilissime dixit, dum personas distingueret: «In aeterno» inquit, «infinitas, species in imagine, usus in munere»; volens quod, quamvis in aeternitate non nisi infinitatem possumus videre, tamen ipsa infinitas, quae est ipsa aeternitas, cum sit negativa, non potest intelligi ut generans, sed bene aeternitas, quoniam aeternitas est affirmativa unitatis sive praesentiae maximae; quare principium sine principio. «Species in imagine» dicit principium a principio; «usus in munere» dicit processionem ab utroque. 88 Quae omnia per praemissa notissima sunt. Nam quamvis aeternitas sit infinitas, ita quod aeternitas non sit maior causa Patris
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le essa giunge con più verità attraverso la dotta ignoranza. In questo modo, infatti, essa crede che colui che adora come uno è tutte le cose in maniera unitaria; che colui che venera come luce inaccessibile non è luce nel senso di questa luce corporea, alla quale si oppongono le tenebre, ma è la luce assolutamente semplice e infinita, nella quale le tenebre sono luce infinita; che la luce infinita risplende sempre nelle tenebre della nostra ignoranza, ma le tenebre non sono in grado di comprenderla183. In questo modo, la teologia negativa è così necessaria per la teologia affermativa che, senza di essa, Dio non verrebbe adorato come il Dio infinito, ma piuttosto come una creatura. Ed un tale culto è idolatria, la quale attribuisce all’immagine ciò che conviene solo alla verità. Sarà pertanto utile aggiungere ancora qualcosa a proposito della teologia negativa. La sacra ignoranza ci ha insegnato che Dio è ineffabile, e questo perché Dio è infinitamente più grande di tutto ciò che possiamo nominare. E poiché ciò è assolutamente vero, noi parliamo in modo più vero di Dio per mezzo della rimozione e della negazione, come insegna anche il sommo Dionigi, il quale volle che Dio non fosse né verità, né intelletto, né luce, né alcuna delle cose di cui possiamo parlare184. Rabbi Salomone185 e tutti i sapienti seguono l’esempio di Dionigi186. Di conseguenza, conformemente a questa teologia negativa, Dio non è né padre, né figlio, né spirito santo: secondo la teologia negativa, Dio è soltanto infinito187. Ora, l’infinità, in quanto infinità, non è né generante, né generata, né procedente. Per questo motivo, Ilario di Poitiers, nel distinguere le persone divine, impiegò con estrema perspicacia queste espressioni: «Nell’eterno infinità, idea nell’immagine, fruizione nel dono»188. Con ciò egli intese dire che l’infinità, che è l’eternità, pur non potendo essere intesa, per la sua negatività, come generante, può essere intesa come eternità, perché l’eternità è un’affermazione che designa in modo positivo l’unità, ossia la presenza massima. L’espressione «infinità nell’eterno» indica, pertanto, il principio senza principio. L’espressione «idea nell’immagine» indica invece il principio che discende dal principio, e l’espressione «fruizione nel dono» indica la processione da entrambi189. Tutto questo ci è ben noto da quanto abbiamo detto in precedenza. Sebbene l’eternità, infatti, sia infinità, per cui l’eternità non è
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quam infinitas, tamen secundum considerationis modum aeternitas Patri attribuitur et non Filio nec Spiritui sancto, infinitas vero non plus uni personae quam alteri; quoniam ipsa infinitas secundum considerationem unitatis Pater est, secundum considerationem aequalitatis unitatis Filius, secundum considerationem connexionis Spiritus sanctus, secundum simplicem considerationem infinitatis nec Pater nec Filius nec Spiritus sanctus; licet ipsa infinitas, sicut et aeternitas, quaelibet trium personarum sit, et e converso quaelibet persona infinitas et aeternitas: non tamen secundum considerationem – ut praefertur –, quoniam secundum considerationem infinitatis Deus nec unum est nec plura. Et non reperitur in Deo secundum theologiam negationis aliud quam infinitas. Quare secundum illam nec cognoscibilis est in hoc saeculo neque in futuro, quoniam omnis creatura tenebra est eo respectu, quae infinitum lumen comprehendere nequit, sed sibi solus notus est. 89 Et ex hiis manifestum est, quomodo negationes sunt verae et affirmationes insufficientes in theologicis; et nihilominus, quod negationes removentes imperfectiora de perfectissimo sunt veriores aliis; ut quia verius est Deum non esse lapidem quam non esse vitam aut intelligentiam, et non esse ebrietatem quam non esse virtutem. Contrarium in affirmativis; nam verior est affirmatio Deum dicens intelligentiam ac vitam quam terram, lapidem aut corpus. Ista enim omnia clarissima sunt ex praehabitis. Ex quibus concludimus praecisionem veritatis in tenebris nostrae ignorantiae incomprehensibiliter lucere. Et haec est illa docta ignorantia, quam inquisivimus; per quam tantum ad infinitae bonitatis Deum maximum unitrinum secundum gradus doctrinae ipsius ignorantiae accedere posse explicavimus, ut ipsum ex omni nostro conatu de hoc semper laudare valeamus, quod nobis seipsum ostendit incomprehensibilem, qui est super omnia in saecula benedictus.
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causa del padre in misura maggiore di quanto lo sia l’infinità, tuttavia, secondo un certo modo di considerare queste cose, l’eternità è attribuita al padre e non al figlio, né allo spirito santo, mentre l’infinità non è attribuita più ad una persona che ad un’altra. Se si considera infatti l’unità, allora l’infinità è il padre, se si considera l’eguaglianza dell’unità è il figlio, se si considera la connessione è lo spirito santo, mentre se si considera semplicemente l’infinità, allora essa non è né padre, né figlio, né spirito santo. Nonostante questo, tuttavia, l’infinità, come pure l’eternità, è ognuna delle tre persone divine e, viceversa, ciascuna persona è infinità ed è eternità; ciò, tuttavia, non se si considera l’infinità semplicemente in se stessa, come abbiamo già detto, perché, dal punto di vista dell’infinità, Dio non è uno, né molti. Ora, secondo la teologia negativa, in Dio non si trova altro che l’infinità. Per questo motivo, secondo tale teologia Dio non può essere conosciuto in questo mondo, né nel mondo futuro, ma egli è noto solo a se stesso; rispetto a Dio, infatti, ogni creatura è tenebra, e la tenebra non è in grado di comprendere la luce infinita. Da quanto abbiamo detto risulta evidente che, in ambito teologico, le negazioni sono vere e le affermazioni sono insufficienti190, e che, cionondimeno, le negazioni che rimuovono dal perfettissimo gli attributi più imperfetti sono più vere delle altre. Ad esempio, è più vero dire che Dio non è pietra, che dire che egli non è vita o non è intelligenza, ed è più vero dire che Dio non è ebrietà, che dire che egli non è virtù191. Il contrario vale invece nelle affermazioni. È più vera infatti l’affermazione che descrive Dio come intelligenza e vita di quella che lo descrive come terra, pietra o corpo. Tutto questo emerge con estrema chiarezza dalle considerazioni che abbiamo svolto in precedenza. Possiamo concludere che, nella tenebra della nostra ignoranza, la precisione della verità risplende in un modo che non è da noi comprensibile. E questa è quella dotta ignoranza sulla quale abbiamo compiuto la nostra ricerca. È solo attraverso di essa, come abbiamo spiegato, che noi possiamo avvicinarci al Dio di infinita bontà, al massimo uni-trino, e possiamo farlo secondo il grado di conoscenza che abbiamo acquisito della nostra ignoranza, in modo da poter giungere, con ogni nostro sforzo, a lodarlo continuamente per essersi manifestato a noi come incomprensibile, egli che è benedetto nei secoli192.
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Liber secundus
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Prologus. Doctrina ignorantiae taliter circa absoluti maximi naturam expedita per symbolicos quosdam characteres amplius per ipsam aliquantulum in umbra nobis resplendentem eadem via ea inquiramus, quae omne id, quod sunt, ab ipso absoluto maximo sunt. Cum autem causatum sit penitus a causa et a se nihil et originem atque rationem, qua est id quod est, quanto propinquius et similius potest, concomitetur: patet difficile contractionis naturam attingi exemplari absoluto incognito. Supra igitur nostram apprehensionem in quadam ignorantia nos doctos esse convenit, ut – praecisionem veritatis uti est non capientes – ad hoc saltim ducamur, ut ipsam esse videamus, quam nunc comprehendere non valemus. Hic est mei laboris finis in hac parte. Quem clementia tua iudicet et acceptet.
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CAPITULUM I
Correlaria praeambularia ad inferendum unum infinitum universum. Proderit plurimum doctrinae ignorantiae correlaria praeambularia ex principio nostro praemitti. Praestabunt enim quandam facilitatem ad infinita similia, quae pari arte elici poterunt, et dicenda facient clariora.
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Libro secondo
Prologo
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Nel libro precedente abbiamo esposto, per mezzo di certi segni simbolici, la dottrina dell’ignoranza per quanto riguarda la natura del massimo assoluto; con l’ausilio di questa stessa natura che in qualche modo risplende su di noi nell’ombra e seguendo il medesimo procedimento, ora vogliamo esaminare più ampiamente quelle realtà che traggono dal massimo assoluto tutto ciò che esse sono193. Poiché, tuttavia, ciò che è causato dipende interamente dalla causa e non è nulla da se stesso, e poiché, inoltre, il causato cerca, per quanto gli è possibile, di avvicinarsi e di rendersi simile alla sua origine e al suo principio razionale, grazie al quale esso è quello che è, risulta evidente che è difficile giungere a cogliere la natura della contrazione se non conosciamo l’esemplare assoluto. È opportuno, pertanto, che, andando al di là della nostra capacità di comprensione, noi diventiamo dotti in una certa qual ignoranza, in modo tale che, pur non potendo cogliere la precisione della verità così come essa è in se stessa, possiamo almeno essere condotti a riconoscere l’esistenza di quella verità che ora non siamo in grado di comprendere. Questo è il fine a cui tende il mio lavoro in questa parte dell’opera. Mi auguro che la tua clemenza lo voglia giudicare e accettare favorevolmente. CAPITOLO I
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Corollari preliminari per la dimostrazione dell’universo uno e infinito Per la dottrina della ignoranza risulterà molto utile premettere, come introduzione, alcuni corollari tratti dal nostro principio [ossia dalla regola della dotta ignoranza]194. Essi, infatti, ci consentiranno di trattare con maggiore facilità una serie infinita di altri punti simili che si potranno ricavare con il medesimo procedimento, e renderanno più chiare le cose che dovremo dire.
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Habuimus in radice dictorum in excessis et excedentibus ad maximum in esse et posse non deveniri. Hinc in prioribus ostendimus praecisam aequalitatem solum Deo convenire. Ex quo sequitur omnia dabilia praeter ipsum differre. Non potest igitur unus motus cum alio aequalis esse nec unus alterius mensura, cum mensura a mensurato necessario differat. Haec quidem, etsi ad infinita tibi deserviant, tamen si ad astronomiam transfers, apprehendis calculatoriam artem praecisione carere, quoniam per solis motum omnium aliorum planetarum motum mensurari posse praesupponit. Caeli etiam dispositio, quoad qualemcumque locum sive quoad ortus et occasus signorum sive poli elevationem ac quae circa hoc sunt, praecise scibilis non est. Et cum nulla duo loca in tempore et situ praecise concordent, manifestum est iudicia astrorum longe in sua particularitate a prae cisione esse. 92 Si consequenter hanc regulam mathematicae adaptes in geometricis figuris, aequalitatem actu impossibilem vides et nullam rem cum alia in figura praecise posse concordare nec in magnitudine. Et quamvis regulae verae sint in sua ratione datae figurae aequalem describere, in actu tamen aequalitas impossibilis est in diversis. Ex quo ascende, quomodo veritas abstracta a materialibus ut in ratione aequalitatem videt, quam in rebus experiri per omnia impossibile est, quoniam ibi non est nisi cum defectu. 93 Age, in musica ex regula praecisio non est. Nulla ergo res cum
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Alla base di quanto abbiamo detto abbiamo posto il principio secondo il quale, nelle realtà che ammettono comparativamente un di più e un di meno, non si giunge mai ad un massimo per quanto riguarda l’essere e il potere. Come conseguenza di questo principio, nei capitoli precedenti abbiamo mostrato che la precisa eguaglianza conviene solamente a Dio195. Da ciò segue che, tranne Dio, tutte le cose che si possono dare sono fra loro differenti. Un movimento, pertanto, non può essere eguale ad un altro, né uno può essere la misura di un altro, in quanto la misura è necessariamente differente dal misurato196. Queste considerazioni ti potranno certamente essere utili per affrontare una serie infinita di questioni, ma se tu le applichi all’astronomia riconoscerai subito che l’arte dei calcoli è priva di precisione, dato che essa presuppone che si possa misurare il movimento di tutti gli altri pianeti mediante il movimento del sole. E non è possibile conoscere con precisione neppure la disposizione del cielo, qualunque sia il punto di riferimento che assumiamo, si tratti del sorgere o del tramontare delle costellazioni, o dell’elevazione di un polo197, o di qualsiasi altro elemento di questo genere. E dato che non vi sono due punti che concordino precisamente fra loro nel tempo e nello spazio, i giudizi sugli astri198 sono, nella loro particolarità, ben lontani dalla precisione199. Se questa regola [della dotta ignoranza] la applichi poi alla matematica, vedrai che, nell’ambito delle figure geometriche, è impossibile un’eguaglianza che sia tale in atto, perché nessuna cosa può concordare in modo preciso con un’altra nella figura e nella grandezza. E sebbene nelle definizioni della geometria vi siano delle regole vere che consentono di tracciare una figura che sia eguale ad un’altra figura data, fra cose [sensibili] diverse, tuttavia, è impossibile un’eguaglianza che sia tale in atto200. Partendo da qui, puoi elevarti fino a riconoscere come la verità, astratta dalle condizioni materiali, ci consenta di vedere l’eguaglianza così come essa sussiste nella sua realtà concettuale, mentre è del tutto impossibile averne esperienza nelle cose sensibili, perché qui essa è presente solo in maniera imperfetta. Inoltre, dalla regola [della dotta ignoranza] discende che anche nella musica non c’è precisione. Non c’è pertanto nessuna cosa che
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alia in pondere concordat neque longitudine neque spissitudine; neque est possibile proportiones harmonicas inter varias voces fistularum, campanarum, hominum et ceterorum instrumentorum praecise reperiri, quin praecisior dari possit. Neque in diversis instrumentis idem gradus veritatis proportionis est, sicut nec in diversis hominibus; sed in omnibus secundum locum, tempus, complexionem et alia diversitas necessaria est. Praecisa itaque proportio in ratione sua videtur tantum, et non possumus in rebus sensibilibus dulcissimam harmoniam absque defectu experiri, quia ibi non est. Ascende hic, quomodo praecisissima maxima harmonia est proportio in aequalitate, quam vivus homo audire non potest in carne, quoniam ad se attraheret rationem animae nostrae, cum sit omnis ratio, sicut lux infinita omnem lucem; ita quod anima a sensibilibus absoluta sine raptu ipsam supreme concordantem harmoniam aure intellectus non audiret. Magna quaedam dulcedo contemplationis hic hauriri posset: tam circa immortalitatem intellectualis et rationalis nostri spiritus, qui rationem incorruptibilem in sua natura gestat, per quam similitudinem concordantem et discordantem ex se attingit in musicis; quam circa gaudium aeternum, in quod beati a mundanis absoluti transferuntur. Sed de hoc alias. 94 Praeterea, si regulam nostram arithmeticae applicemus, nulla duo in numero convenire posse videmus; et quoniam ad varietatem numeri compositio, complexio, proportio, harmonia, motus et omnia variantur extendendo infinita, ex hoc nos ignorare intelligimus. Quoniam nemo est ut alius in quocumque – neque sensu neque imaginatione neque intellectu neque operatione aut scriptura aut
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concordi con un’altra nel peso, nella lunghezza e nello spessore. Né è possibile trovare fra diversi suoni emessi dai flauti, dalle campane, dalle voci umane e dagli altri strumenti, delle proporzioni armoniche che siano precise, tali, cioè, che non se ne possano dare di più precise. Ed anche nei diversi strumenti [dello stesso genere] non è possibile trovare un identico grado di proporzione, come non lo si può trovare nei diversi uomini, ma è piuttosto necessario che in tutte le cose vi siano delle differenze, in rapporto al luogo, al tempo, alla loro costituzione, e ad altri aspetti. Una proporzione che sia precisa, pertanto, la si può vedere soltanto nella sua realtà concettuale, mentre nelle cose sensibili non possiamo sperimentare un’armonia che sia dolcissima e senza difetto, perché una tale armonia qui non esiste. Elevati ora a considerare come l’armonia massima e assolutamente precisa sia quella proporzione dell’eguaglianza che l’uomo non può udire da vivo, nella sua condizione corporea; una tale armonia, infatti, essendo il principio razionale di ogni armonia, attrarrebbe a sé la forza razionale della nostra anima, come la luce infinita attrae a sé ogni luce, in modo tale che, senza questo rapimento, anche quando si sia liberata dai suoi legami sensibili, l’anima non potrebbe udire, con l’orecchio dell’intelletto, questa armonia che concorda in modo supremo. Da ciò si potrebbe trarre una contemplazione piena di grande dolcezza considerando sia l’immortalità del nostro spirito razionale e intellettuale, il quale porta in sé un principio razionale incorruttibile, grazie al quale, nell’ambito della musica, giunge a cogliere da se stesso la somiglianza concordante e discordante [dei suoni], sia la gioia eterna alla quale vengono condotti i beati, una volta che si sono liberati dalle cose di questo mondo. Ma di questo argomento tratterò altrove201. Inoltre, se applichiamo la nostra regola [della dotta ignoranza] all’aritmetica, vediamo che non vi sono due cose che possono convenire fra loro nel numero. E dato che, con il variare del numero, varia anche la composizione delle cose, la loro costituzione, la proporzione, l’armonia, il movimento e così via, da ciò comprendiamo che, di tutte queste cose, noi non sappiamo nulla. Non c’è nessun aspetto nel quale un individuo sia come un altro, né per quanto riguarda la percezione sensibile, né per quanto riguarda la facoltà immaginativa o l’intelletto, né per quanto con-
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pictura vel arte –: etiam si mille annis unus alium imitari studeret in quocumque, numquam tamen praecisionem attingeret, licet differentia sensibilis aliquando non percipiatur. Ars etiam naturam imitatur, quantum potest, sed numquam ad ipsius praecisionem poterit pervenire. Carent igitur medicina, alchimia, magica et ceterae artes transmutationum veritatis praecisione, licet una verior in comparatione ad aliam, ut medicina verior quam artes transmutationum, ut ista ex se patent. 95 Adhuc, ex eodem fundamento elicientes dicamus: Quoniam in oppositis excedens et excessum reperimus, ut in simplici et composito, abstracto et concreto, formali et materiali, corruptibili et incorruptibili et ceteris: hinc ad alterum purum oppositorum non devenitur, aut in quo concurrant praecise aequaliter. Omnia igitur ex oppositis sunt in gradus diversitate, habendo de uno plus, de alio minus, sortiendo naturam unius oppositorum per victoriam unius supra aliud. Ex quo rerum notitia rationabiliter investigatur, ut sciamus, quomodo compositio in uno est in quadam simplicitate et in alio simplicitas in compositione, et corruptibilitas in incorruptibilitate in uno, contrarium in alio, – ita de reliquis, prout extendemus in libro Coniecturarum, ubi de hoc latius agetur. Sufficiant ista pauca pro mirabili potestate doctae ignorantiae ostendenda. 96 Amplius, magis ad propositum descendendo dico: Quoniam ascensus ad maximum et descensus ad minimum simpliciter non est possibilis, ne fiat transitus in infinitum, ut in numero et divisione continui constat, tunc patet, quod dato quocumque finito semper est maius et minus sive in quantitate aut virtute vel perfectione
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cerne l’agire, o lo scrivere, o il dipingere, o l’arte; per questo motivo, anche se una persona si sforzasse per mille anni di imitarne un’altra in uno qualsiasi di questi aspetti, non riuscirebbe tuttavia mai a raggiungere la precisione, per quanto talvolta le differenze presenti nel sensibile non vengano percepite. Anche l’arte imita per quanto può la natura202, ma non potrà mai raggiungere la precisione che è propria di quest’ultima. È per questo che la medicina, l’alchimia, la magia e le altre arti della trasformazione sono prive della precisione che è propria della verità, per quanto un’arte possa certamente essere più vera in confronto con un’altra, come la medicina, ad esempio, è più vera rispetto alle arti della trasformazione, come è di per sé evidente203. Dal medesimo fondamento ricaviamo ancora quanto segue: dato che negli opposti – ad esempio, nel semplice e nel composto, nell’astratto e nel concreto, nel formale e nel materiale, nel corruttibile e nell’incorruttibile, ecc. – troviamo un di più e di meno, ne consegue che non si raggiunge mai uno degli opposti nella sua purezza, o ciò in cui gli opposti concordino in modo preciso ed eguale. Tutte le cose, pertanto, sono costituite da opposti secondo gradi diversi, in quanto hanno più dell’uno e meno dell’altro, e ricevono la natura di uno degli opposti grazie alla sua vittoria sull’altro. Per questo, cerchiamo con la ragione di acquisire una conoscenza delle cose, per sapere come in una cosa la composizione sia presente in una certa semplicità e in un’altra la semplicità sia presente in una certa composizione, come in una la corruttibilità sia presente nell’incorruttibilità e in un’altra avvenga il contrario, e così via, come spiegherò nel libro Le congetture, dove tratterò più diffusamente di questo tema204. Queste poche considerazioni possono tuttavia essere sufficienti per mostrare la straordinaria potenza della dotta ignoranza. Venendo poi più da vicino al tema proposto, dico inoltre quanto segue: un’ascesa al massimo assoluto e una discesa al minimo assoluto non sono possibili, cosicché non può esservi un passaggio all’infinito [in atto], come risulta evidente nel caso dei numeri e della divisione del continuo205; per questo motivo, dal momento che nelle cose non può mai darsi un massimo o un minimo assoluti, è evidente che di qualsiasi cosa finita data ve ne può neces-
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et ceteris necessario dabile – cum maximum aut minimum simpliciter dabile in rebus non sit –, nec processus fit in infinitum, ut statim ostensum est. Nam cum quaelibet pars infiniti sit infinita, implicat contradictionem magis et minus ibi reperiri, ubi ad infinitum deveniretur, cum magis et minus, sicut nec infinito convenire possunt, ita nec qualemcumque proportionem ad infinitum habenti, cum necessario ipsum etiam infinitum sit. Binarius enim non esset minor centenario in numero infinito, si per ascensum ad ipsum possit actu deveniri, sicut nec linea infinita ex infinitis bipedalibus esset minor linea infinita ex infinitis quadrupedalibus lineis. Nihil est itaque dabile, quod divinam terminet potentiam; quare omni dato dabile est maius et minus per ipsam, nisi datum simul esset absolutum maximum, ut in tertio libello deducetur. 97 Solum igitur absolute maximum est negative infinitum; quare solum illud est id, quod esse potest omni potentia. Universum vero cum omnia complectatur, quae Deus non sunt, non potest esse negative infinitum, licet sit sine termino et ita privative infinitum; et hac consideratione nec finitum nec infinitum est. Non enim potest esse maius quam est; hoc quidem ex defectu evenit; possibilitas enim sive materia ultra se non extendit. Nam non est aliud dicere ‘universum posse semper actu esse maius’ quam dicere ‘posse esse transire in actu infinitum esse’; quod est impossibile, cum infinita actualitas, quae est absoluta aeternitas, ex posse exoriri nequeat, quae est actu omnis essendi possibilitas. Quare, licet in respectu infinitae Dei potentiae, quae est interminabilis, universum posset esse maius: tamen resistente possibilitate essendi aut mate-
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sariamente sempre essere un’altra maggiore o minore, o per quanto riguarda le quantità, o per quanto riguarda la forza, o per la perfezione, o per altre proprietà. E questo processo non continua sino all’infinito [in atto], come abbiamo appena indicato. Infatti, poiché ogni parte dell’infinito è infinita, comporta una contraddizione dire che si può trovare un di più e un di meno là dove si arriverebbe all’infinito; il più e il meno, infatti, come non possono convenire all’infinito, così non possono convenire a qualunque parte abbia un qualche rapporto proporzionale con l’infinito, in quanto una tale parte sarebbe essa stessa necessariamente infinita. Se mediante l’ascesa potessimo infatti giungere ad un numero infinito in atto, avremmo allora che in un tale numero infinito il due non sarebbe minore del cento206, così come una linea infinita composta di infiniti segmenti di due piedi non sarebbe minore di una linea infinita composta di segmenti di quattro piedi. Non vi può pertanto essere nulla che ponga un limite alla potenza divina. Per questo motivo, per la potenza divina, può sempre darsi qualcosa di maggiore e di minore rispetto qualsiasi cosa data, a meno che ciò che è dato non sia ad un tempo il massimo assoluto, come si dimostrerà nel terzo libro207. Solo il massimo assoluto, pertanto, è infinito in maniera negativa. Per questo motivo, esso solo è tutto ciò che può essere, secondo tutte le sue possibilità. L’universo, invece, per quanto racchiuda in sé tutte le cose che non sono Dio, non può essere infinito in maniera negativa, anche se esso è senza limiti ed è per questo infinito in maniera privativa208. Sotto questo aspetto, l’universo non è né finito, né infinito. Non può essere infatti maggiore di quello che è. Ciò, tuttavia, è la conseguenza di un difetto. La possibilità dell’universo, infatti, o materia, non si estende al là di se stessa. Dire, infatti, che «l’universo può essere in atto sempre maggiore [di quanto è]» non è diverso dal dire che «il poter-essere passa all’essere infinito in atto», cosa, questa, impossibile, poiché l’attualità infinita, che è l’eternità assoluta, non può sorgere dal «poter-essere», in quanto essa è in atto ogni possibilità dell’essere. Per questo motivo, sebbene rispetto alla potenza infinita di Dio, che è senza limiti, l’universo potrebbe essere maggiore, data tuttavia la resistenza che oppone la possibilità di essere o materia209, la quale non può esse-
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ria, quae in infinitum non est actu extendibilis, universum maius esse nequit; et ita interminatum, cum actu maius eo dabile non sit, ad quod terminetur; et sic privative infinitum. Ipsum autem non est actu nisi contracte, ut sit meliori quidem modo, quo suae naturae patitur conditio. Est enim creatura, quae necessario est ab esse divino simpliciter absoluto, prout consequenter in docta ignorantia – quanto clarius et simplicius fieri poterit – quam breviter ostendemus. 98
CAPITULUM II
Quod esse creaturae sit inintelligibiliter ab esse primi. Docuit nos sacra ignorantia in prioribus nihil a se esse nisi maximum simpliciter, ubi a se, in se, per se et ad se idem sunt: ipsum scilicet absolutum esse; necesseque esse omne, quod est, id quod est – inquantum est –, ab ipso esse. Quomodo enim id, quod a se non est, aliter esse posset quam ab aeterno esse? Quoniam autem ipsum maximum procul est ab omni invidia, non potest esse diminutum ut tale communicare. Non habet igitur creatura, quae ab esse est, omne id quod est: corruptibilitatem, divisibilitatem, imperfectionem, diversitatem, pluralitatem et cetera huiusmodi a maximo aeterno, indivisibili, perfectissimo, indistincto, uno, neque ab aliqua causa positiva. 99 Sicut enim linea infinita est rectitudo infinita, quae est causa omnis esse linealis, linea vero curva, in hoc quod linea, ab infinita est, in hoc quod curva, non ab infinita est, sed curvitas sequitur fi-
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re estesa in atto all’infinito, l’universo non può essere maggiore di come è. E in questo senso l’universo è illimitato, in quanto non può darsi in atto qualcosa che sia maggiore di esso, nel quale l’universo possa trovare un suo limite. E così, l’universo è infinito in senso privativo. L’universo, tuttavia, esiste in atto solo in modo contratto, perché è così che esso può esistere nel modo migliore consentito dalla condizione che è propria della sua natura. L’universo, infatti, è una creatura, che di necessità dipende dall’essere divino e assoluto, come mostreremo molto brevemente nelle pagine seguenti per mezzo della dotta ignoranza, nel modo più chiaro e più semplice che ci sarà possibile. CAPITOLO II
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L’essere della creatura dipende dall’essere del primo in un modo che non è per noi comprensibile Nei capitoli precedenti, la sacra ignoranza ci ha insegnato che non c’è nulla che esista da se stesso, tranne il massimo assoluto210, nel quale l’essere «da se stesso», «in se stesso», «attraverso se stesso» e «verso se stesso» [come fine] sono la stessa cosa, sono cioè l’essere assoluto stesso. La sacra ignoranza ci ha inoltre insegnato che è necessario che ogni cosa che esiste abbia ciò che essa è, in quanto è, dallo stesso essere assoluto. Ciò che non è da sé, infatti, in quale altro modo potrebbe essere, se non ricevendo il proprio essere dall’essere eterno?211 Tuttavia, dal momento che il massimo è ben lontano da ogni invidia, egli non può comunicare un essere diminuito come tale [ossia in quanto essere diminuito]212. Di conseguenza, la creatura, che è un essere «che-deriva-da» [dall’essere assoluto]213, non ha dal massimo tutto ciò che essa è: la corruttibilità, la divisibilità, l’imperfezione, la diversità, la pluralità e le altre proprietà di questo genere la creatura non le ha dal massimo, che è eterno, indivisibile, perfettissimo, indistinto, uno, e non le ha da nessun’altra causa positiva. La linea infinita è rettitudine infinita, ed è la causa di tutto l’essere che è proprio di una linea; ora, una curva, in quanto è una linea, deriva anch’essa dalla linea infinita, ma il suo essere una curva non deriva dalla linea infinita; la curvità è piuttosto una conse-
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nitatem, quoniam ex eo curva, quia non maxima – si enim maxima esset, curva non esset, ut superius est ostensum –: ita quidem contingit rebus, quoniam maximum esse non possunt, ut sint diminuta, altera, distincta et cetera huiusmodi, quae quidem causam non habent. Habet igitur creatura a Deo, ut sit una, discreta et connexa universo et, quanto magis una, tanto Deo similior. Quod autem eius unitas est in pluralitate, discretio in confusione et connexio in discordantia, a Deo non habet neque ab aliqua causa positiva, sed contingenti. 100 Quis igitur copulando simul in creatura necessitatem absolutam, a qua est, et contingentiam, sine qua non est, potest intelligere esse eius? Nam videtur, quod ipsa creatura, quae nec est Deus nec nihil, sit quasi post Deum et ante nihil, intra Deum et nihil, ut ait unus sapientum: «Deus est oppositio nihil mediatione entis.» Nec tamen potest esse ab esse et non-esse composita. Videtur igitur neque esse, per hoc quod descendit de esse; neque non esse, quia est ante nihil; neque compositum ex illis. Noster autem intellectus, qui nequit transilire contradictoria, divisive aut compositive esse creaturae non attingit, quamvis sciat eius esse non esse nisi ab esse maximi. Non est igitur ab esse intelligibile, postquam esse, a quo, non est intelligibile, sicut nec adesse accidentis est intelligibile, si substantia, cui adest, non intelligitur. Et igitur non potest creatura ut creatura dici una, quia descendit ab unitate; neque plura, quia eius esse est ab uno; neque ambo copulative. Sed est unitas eius in quadam pluralitate contingenter. Ita de simplicitate et compositione et reliquis oppositis pariformiter dicendum videtur.
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guenza della finitezza, poiché una linea è curva per il fatto che non è la linea massima; se fosse infatti la linea massima, essa non sarebbe curva, come abbiamo mostrato in precedenza 214. Lo stesso si può dire delle cose: dal momento che non possono essere il massimo, accade, in maniera contingente, che le cose siano diminuite, affette da alterità, divise, e così via, proprietà, queste, che non hanno una causa. Da Dio, pertanto, la creatura ha il fatto di essere una, distinta e connessa all’universo, e quanto più essa è una, tanto più è simile a Dio. Il fatto, invece, che la sua unità sia nella molteplicità, la sua distinzione nella confusione, la sua connessione con l’universo nella discordia, tutto questo la creatura non lo ha da Dio, né da una qualche causa positiva, ma deriva da una causa contingente215. Chi può dunque intendere l’essere della creatura congiungendo insieme in essa la necessità assoluta, dalla quale la creatura deriva, e la contingenza, senza la quale essa non esiste? Sembra infatti che la creatura, che non è né Dio216, né nulla, venga in certo qual modo dopo Dio e prima del nulla, e sia collocata tra Dio e il nulla, come dice uno dei sapienti: «Dio è l’opposizione al nulla per la mediazione dell’ente»217. La creatura, tuttavia, non può neppure essere composta di essere e di non-essere. Sembra, pertanto, che non si possa dire né che la creatura sia, in quanto essa discende dall’essere, né che non sia, dato che precede il nulla, né che sia un composto di essere e di non-essere. Il nostro intelletto, tuttavia, che non è in grado di andare oltre i contraddittori218, non giunge a cogliere l’essere della creatura né procedendo con il metodo della divisione, né con quello della composizione, sebbene esso sappia che l’essere della creatura non deriva che dall’essere del massimo. L’essere derivato della creatura non risulta dunque comprensibile, per il fatto che non è comprensibile l’essere dal quale esso deriva, così come non è possibile comprendere l’essere-inerente dell’accidente, se non si comprende la sostanza alla quale l’accidente inerisce. E di conseguenza non si può dire che la creatura, in quanto creatura, sia una, dato che essa discende dall’unità, né che sia molti, dato che il suo essere deriva dall’uno, né che sia una-e-molti insieme. L’unità della creatura esiste piuttosto, in una maniera contingente, in una certa molteplicità. La stessa cosa sembra la si debba dire anche per quanto riguarda la semplicità, la composizione e gli altri attributi opposti fra loro.
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vero creatura per esse maximi creata est, in maximo vero idem est esse, facere et creare, tunc non aliud videtur esse creare quam Deum omnia esse. Si igitur Deus est omnia et hoc est creare, quomodo intelligi hoc poterit, quod creatura non est aeterna, cum Dei esse sit aeternum, immo ipsa aeternitas? Inquantum enim ipsa creatura est esse Dei, nemo dubitat esse aeternitatem; inquantum igitur cadit sub tempore, non est a Deo, qui est aeternus. Quis igitur intelligit creaturam ab aeterno et cum hoc temporaliter esse? Non potuit enim creatura in esse ipso in aeternitate non esse neque potuit prius tempore esse, quando ante tempus non fuit prius; et ita semper fuit, quando esse potuit. 102 Quis denique intelligere potest Deum esse essendi formam nec tamen immisceri creaturae? Non enim ex infinita linea et finita curva potest unum exoriri compositum, quod absque proportione esse nequit. Proportionem vero inter infinitum et finitum cadere non posse nemo dubitat. Quomodo igitur capere potest intellectus esse lineae curvae ab infinita recta esse, quae tamen ipsam non informat ut forma, sed ut causa et ratio? Quam quidem rationem non potest participare partem capiendo, cum sit infinita et indivisibilis; aut ut materia participat formam, ut Socrates et Plato humanitatem; aut ut totum participatur a partibus, sicut universum a suis partibus; nec ut plura specula eandem faciem diversimode, cum non sit esse creaturae ante ab esse, cum sit ipsum, – sicut speculum ante est speculum quam imaginem faciei recipiat. 103 Quis est igitur, qui intelligere queat, quomodo diversimode una infinita forma participetur in diversis creaturis, cum creaturae esse non possit aliud esse quam ipsa resplendentia, non in aliquo alio
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Ma dato che la creatura è creata mediante l’essere del massimo, e nel massimo sono la stessa cosa l’essere, il fare e il creare, allora il creare non sembra consistere in altro che nel fatto che Dio è tutte le cose219. Se Dio, pertanto, è tutte le cose e se questo significa creare, come si potrà allora intendere il fatto che la creatura non è eterna, dal momento che l’essere di Dio è eterno, ed è anzi la stessa eternità?220 In quanto la creatura è l’essere di Dio, infatti, nessuno dubita che essa sia eterna. Ma in quanto è soggetta al tempo, essa non deriva da Dio, che è eterno. Chi può dunque comprendere il fatto che la creatura deriva dall’eterno e tuttavia esiste nel tempo? Nell’essere stesso, infatti, la creatura non poté esistere che nell’eternità, e non poté neppure esistere prima del tempo, dal momento che «prima» del tempo non c’era alcun «prima»221. E così la creatura fu da sempre, dal momento in cui essa poté essere. Chi può infatti comprendere il fatto che Dio è la forma dell’essere222 e che, tuttavia, non si mescola con la creatura? Dalla linea infinita e dalla curva finita non può infatti nascere un composto unitario, il quale non può esistere senza un rapporto proporzionale tra le sue componenti. Nessuno, tuttavia, dubita del fatto che fra l’infinito e il finito non può esservi alcun rapporto proporzionale223. Come può dunque l’intelletto capire che l’essere della curva deriva dall’essere della linea retta infinita, la quale, tuttavia, non informa la curva come fa la forma, ma come fa la causa e il principio razionale? La creatura non può partecipare di questo principio razionale prendendone una parte, in quanto esso è infinito e indivisibile, né può partecipare di esso come la materia partecipa della forma, come Socrate e Platone, ad esempio, partecipano della natura umana, o come del tutto partecipano le [sue] parti, ad esempio come le parti dell’universo partecipano dell’universo, e neppure come più specchi partecipano in modi diversi dello stesso volto, perché l’essere della creatura non esiste prima del suo «essere-derivata-dall’essere [assoluto]», in quanto l’essere della creatura consiste proprio in questo suo «derivare-dall’essere», mentre uno specchio è già specchio prima di ricevere l’immagine di un volto224. Chi, pertanto, riesce a comprendere come un’unica forma infinita si partecipi in modi diversi nelle diverse creature? L’essere della creatura, infatti, non può essere altro che un riflesso dell’unica
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positive recepta, sed contingenter diversa? Quemadmodum fortassis, si penitus artificiatum ab idea artificis dependens non haberet aliud esse quam dependentiae, a quo haberet esse et sub cuius influentia conservaretur, sicut imago faciei in speculo, posito, quod speculum ante aut post per se et in se nihil sit. Neque potest intelligi, quomodo Deus per creaturas visibiles possit nobis manifestus fieri; nam non sicut intellectus noster solum Deo et nobis cognitus, qui, dum in cogitationem venerit, ex quibusdam phantasiis formam quandam in memoria recipit coloris aut soni aut alterius, qui prius informis fuit et post hoc aliam assumens signorum, vocum aut litterarum formam se aliis insinuat. Nam quamvis Deus propter suam cognoscendam bonitatem – ut religiosi volunt – aut ex eo, quia maxima absoluta necessitas, creavit mundum, qui ei oboediat, ut sint qui cogantur et eum timeant et quos iudicet, vel aliter: tamen manifestum est eum nec aliam formam induere, cum sit forma omnium formarum, nec in positivis signis apparere, cum ipsa signa pariformiter in eo, quod sunt, alia requirerent, in quibus, et ita in infinitum. 104 Quis ista intelligere posset, quomodo omnia illius unicae infinitae formae sunt imago, diversitatem ex contingenti habendo, quasi creatura sit Deus occasionatus sicut accidens substantia occasionata et mulier vir occasionatus? Quoniam ipsa forma infinita non est nisi finite recepta, ut omnis creatura sit quasi infinitas finita aut Deus creatus, ut sit eo modo, quo hoc melius esse possit; ac si dixisset creator: «Fiat», et quia Deus fieri non potuit, qui est ipsa aeternitas, hoc factum est, quod fieri potuit Deo similius. Ex quo
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forma infinita, un riflesso, tuttavia, che non viene ricevuto positivamente in qualcosa di altro [da esso], ma che è diverso solo per una causa contingente. Si potrebbe forse fare un paragone con un artefatto: se l’artefatto dipendesse interamente dall’idea dell’artista e non avesse altro essere che quello della dipendenza, esso avrebbe il suo essere dall’artista e verrebbe conservato sotto la sua influenza, in modo analogo all’immagine di un volto in uno specchio, supposto che, prima e dopo il riflettersi del volto, lo specchio non sia nulla per se stesso e in se stesso225. E non possiamo neppure comprendere come Dio possa rendersi manifesto a noi attraverso le creature visibili226. Dio, infatti, non si manifesta in modo analogo al nostro intelletto, il quale è noto solo a Dio e a noi stessi: quando inizia a pensare, infatti, il nostro intelletto riceve da talune immagini della fantasia conservate nella memoria una certa forma, come quella di un colore, o di un suono, o di altri oggetti sensibili; dopo ciò, l’intelletto, che prima era privo di qualsiasi forma, assume altre forme, come quelle dei segni, delle voci o delle lettere, e si comunica così agli altri [intelletti]. Dio, invece, qualunque sia il motivo per il quale abbia creato il mondo – che lo abbia creato per far conoscere la sua bontà, come vogliono gli spiriti pii227, o che l’abbia creato per il fatto che egli è la necessità massima e assoluta 228, per avere un mondo che gli obbedisca, nel quale vi siano coloro che gli sono soggetti, che lo temano e che siano da lui giudicati, o infine che l’abbia creato per altri motivi –, è tuttavia evidente che non assume un’altra forma [diversa da quella che egli è], dato che Dio è la forma delle forme229, né appare in segni positivi, in quanto questi stessi segni, per la loro stessa natura, ne richiederebbero a loro volta altri nei quali poter apparire, e così via all’infinito. Chi potrebbe comprendere questo, ossia che tutte le cose sono l’immagine di quell’unica forma infinita e traggono la loro diversità da una causa contingente, come se la creatura fosse un Dio occasionato230, così come un accidente è una sostanza occasionata e la donna un uomo occasionato? La forma infinita, infatti, non può essere recepita che in modo finito, cosicché ogni creatura è come un’infinità finita, o un Dio creato231, ed esiste pertanto nel modo migliore in cui può esistere. È come se il creatore avesse detto: «Sia fatto», e
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subinfertur omnem creaturam ut talem perfectam, etiam si alterius respectu minus perfecta videatur. Communicat enim piissimus Deus esse omnibus eo modo, quo percipi potest. Cum igitur Deus absque diversitate et invidia communicet et recipiatur, ita quod aliter et altius contingentia recipi non sinat, quiescit omne esse creatum in sua perfectione, quam habet ab esse divino liberaliter, nullum aliud creatum esse appetens tamquam perfectius, sed ipsum, quod habet a maximo, praediligens quasi quoddam divinum munus, hoc incorruptibiliter perfici et conservari optans. 105
CAPITULUM III
Quomodo maximum complicet et explicet omnia inintelligibiliter Nihil dici aut cogitari potest de veritate investigabili, quod in prima parte non sit complicatum. Omnia enim, quae cum eo, quod de veritate prima ibi dictum est, concordant, vera esse necesse est; cetera, quae discordant, falsa sunt. Ibi autem ostensum reperitur non posse esse nisi unum maximum omnium maximorum. Maximum autem est, cui nihil potest opponi, ubi et minimum est maximum. Unitas igitur infinita est omnium complicatio; hoc quidem dicit unitas, quae unit omnia. Non tantum ut unitas numeri complicatio est, est maxima, sed quia omnium; et sicut in numero explicante unitatem non reperitur nisi unitas, ita in omnibus, quae sunt, non nisi maximum reperitur. Ipsa quidem unitas punctus dicitur in respectu quantitatis ipsam unitatem explicantis, quando nihil in quantitate reperitur nisi punctus; sicut undique in linea est punctus, ubicumque ipsam diviseris, ita in superficie et corpore.
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poiché Dio, che è la stessa eternità, non poteva essere fatto, è stato fatto ciò che poteva essere fatto di più simile a Dio. Da ciò inferiamo che ogni creatura, in quanto tale, è perfetta, anche se può sembrare meno perfetta in rapporto ad un’altra. Nella sua somma benevolenza, infatti, Dio comunica l’essere a tutte le cose nel modo in cui esse lo possono recepire. Poiché Dio, pertanto, comunica l’essere senza diversità e senza invidia232, e poiché ciò che egli comunica viene recepito in modo tale che la contingenza non consente che esso venga recepito in modo diverso o in misura più elevata, ogni essere creato riposa nella propria perfezione, che esso riceve con liberalità dall’essere divino; e non desidera essere un’altra creatura, come se questa fosse più perfetta233, ma predilige ciò che ha ricevuto dal massimo, quasi come un dono divino, e si augura di poterlo perfezionare e conservare in maniera incorruttibile. CAPITOLO III
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Il massimo complica ed esplica tutte le cose in un modo per noi incomprensibile Della verità, nella misura in cui può essere da noi indagata, non si può dire o pensare nulla che non si trovi già complicato nella prima parte. Tutto ciò, infatti, che concorda con quanto nella prima parte abbiamo detto a proposito della prima verità è necessariamente vero. Quanto invece non concorda con esso è falso; ora, nella prima parte si è dimostrato che non può esservi che un solo massimo di tutti massimi 234. Il massimo, tuttavia, è ciò che non può avere nulla come suo opposto, e nel quale anche il minimo è il massimo235. L’unità infinita, pertanto, è la complicazione di tutte le cose236. Unità, infatti, significa proprio questo, ossia che essa unisce tutte le cose. L’unità infinita è massima non solo perché è la complicazione del numero, ma perché è la complicazione di tutte le cose. E come nel numero, che è l’esplicazione dell’unità, non si rinviene che l’unità237, così in tutte le cose che esistono non si rinviene che il massimo. Questa unità si chiama punto in riferimento alla quantità, la quale è l’esplicazione di tale unità; nella quantità, infatti, non si rinviene altro che il punto. Come nella linea, per quanto tu la divida il punto è presente ovunque, così accade anche nella superficie
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Nec est plus quam unus punctus, qui non aliud quam ipsa unitas infinita, quoniam ipsa est punctus, qui est terminus, perfectio et totalitas lineae et quantitatis, ipsam complicans; cuius prima explicatio linea est, in qua non reperitur nisi punctus. 106 Ita quidem quies est unitas motum complicans, qui est quies seriatim ordinata, si subtiliter advertis. Motus igitur est explicatio quietis. Ita nunc sive praesentia complicat tempus. Praeteritum fuit praesens, futurum erit praesens; nihil ergo reperitur in tempore nisi praesentia ordinata. Praeteritum igitur et futurum est explicatio praesentis; praesens est omnium praesentium temporum complicatio, et praesentia tempora illius seriatim sunt explicatio, et non reperitur in ipsis nisi praesens. Una est ergo praesentia omnium temporum complicatio. Et illa quidem praesentia est ipsa unitas. Ita identitas est diversitatis complicatio, aequalitas inaequalitatis, et simplicitas divisionum sive discretionum. 107 Una est ergo omnium complicatio; et non est alia substantiae, alia qualitatis aut quantitatis et ita de reliquis complicatio, quoniam non est nisi unum maximum, cum quo coincidit minimum, ubi diversitas explicata identitati complicanti non opponitur. Sicuti enim unitas alteritatem praecedit, ita et punctus, qui est perfectio, magnitudinem. Perfectum enim omne imperfectum antecedit, ita quies motum, identitas diversitatem, aequalitas inaequalitatem et ita de reliquis, quae cum unitate convertuntur, quae est ipsa aeternitas; plura enim aeterna esse non possunt. Deus ergo est omnia complicans in hoc, quod omnia in eo; est omnia explicans in hoc, quod ipse in omnibus. 108 Et ut in numeris intentionem declaremus: Numerus est explicatio unitatis. Numerus autem rationem dicit. Ratio autem ex mente est; propterea bruta, quae mentem non habent, numerare ne-
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e nel volume. E tuttavia non vi è che un unico punto, il quale non è altro che la stessa unità infinita; questa, infatti, è quel punto che è il termine, la perfezione e la totalità della linea e della quantità, che l’unità infinita complica in sé. La prima esplicazione del punto è la linea, nella quale non si rinviene altro che il punto. Allo stesso modo, la quiete è l’unità che complica in sé il movimento, il quale, se lo consideri con attenzione, è una serie ordinata di momenti di quiete che si succedono l’un l’altro altro. Il movimento, pertanto, è l’esplicazione della quiete. Allo stesso modo, l’ora o il presente complica in sé il tempo. Il passato è stato presente, il futuro sarà presente. Nel tempo, quindi, non si rinviene che è una serie ordinata di momenti presenti. Il passato e il futuro, pertanto, sono l’esplicazione del presente. Il presente è la complicazione di tutti i tempi presenti, e tutti singoli momenti di tempo presente sono l’esplicazione in serie del presente, e in essi non si rinviene altro che il presente stesso. C’è pertanto un unico presente, che è la complicazione di tutti tempi, e questo presente, in effetti, è l’unità stessa. Allo stesso modo, l’identità è la complicazione della differenza, l’eguaglianza della diseguaglianza e la semplicità è la complicazione delle divisioni o delle distinzioni238. Vi è pertanto una sola complicazione di tutte le cose, e non ve n’è una per la sostanza, un’altra per la qualità o per la quantità, e così di seguito, perché non vi è che un solo massimo, con il quale coincide il minimo e nel quale la diversità esplicata non è qualcosa di opposto all’identità complicante. Come infatti l’unità precede l’alterità239, così anche il punto, che è una perfezione, precede la grandezza. Ciò che è perfetto, infatti, precede tutto ciò che è imperfetto; per questo, la quiete precede il movimento, l’identità precede la differenza, l’eguaglianza precede l’ineguaglianza, e così via per tutte le altre perfezioni che sono convertibili con l’unità, la quale è l’eternità stessa. Non possono infatti esservi più eterni240. Pertanto, Dio è colui che complica tutte le cose, in quanto tutte le cose sono in lui. Ed è colui che esplica tutte le cose, in quanto egli è in tutte le cose. Vorrei spiegare il mio pensiero con l’esempio dei numeri: il numero è l’esplicazione dell’unità. Ora, il numero rinvia alla ragione. La ragione, tuttavia deriva dalla mente. Per questo motivo, i bruti, che non hanno una mente, non sono in grado di numerare. Come
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queunt. Sicut igitur ex nostra mente, per hoc quod circa unum commune multa singulariter intelligimus, numerus exoritur: ita rerum pluralitas ex divina mente, in qua sunt plura sine pluralitate quia in unitate complicante. Per hoc enim, quod res non possunt ipsam aequalitatem essendi aequaliter participare, Deus in aeternitate unam sic, aliam sic intellexit, ex quo pluralitas, quae in ipso est unitas, exorta est. Non habet autem pluralitas sive numerus aliud esse quam ut est ab ipsa unitate. Unitas igitur, sine qua numerus non esset numerus, est in pluralitate; et hoc quidem est unitatem explicare, omnia scilicet in pluralitate esse. 109 Excedit autem mentem nostram modus complicationis et explicationis. Quis rogo intelligeret, quomodo ex divina mente rerum sit pluralitas, postquam intelligere Dei sit esse eius, qui est unitas infinita? Si pergis ad numerum similitudinem considerando, quomodo numerus est unius communis per mentem multiplicatio, videtur, quasi Deus, qui est unitas, sit in rebus multiplicatus, postquam intelligere eius est esse; et tamen intelligis non esse possibile illam unitatem, quae est infinita et maxima, multiplicari. Quomodo igitur intelligis pluralitatem, cuius esse est ab uno absque unius multiplicatione? Aut quomodo intelligis multiplicationem unitatis absque multiplicatione? Non quidem sicut speciei unius aut unius generis in multis speciebus aut individuis, extra quae genus aut species non est nisi per intellectum abstrahentem. 110 Deus igitur, cuius esse unitatis non est per intellectum a rebus abstrahentem neque rebus unitum aut immersum, quomodo explicetur per numerum rerum, nemo intelligit. Si consideras res sine eo, ita nihil sunt sicut numerus sine unitate. Si consideras ipsum sine rebus, ipse est et res sunt nihil. Si consideras ipsum ut est in
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il numero, pertanto, proviene dalla nostra mente, per il fatto che riusciamo ad intendere molte cose singole in riferimento ad un’unità comune, così la pluralità delle cose proviene dalla mente divina241, nella quale la pluralità delle cose è presente senza pluralità, in quanto è contenuta nell’unità che la complica. Per il fatto, tuttavia, che le cose non possono partecipare in maniera eguale dell’eguaglianza dell’essere, Dio le ha concepite nell’eternità una in un modo e una in un altro, ed è da ciò che è sorta la pluralità, la quale in Dio è unita. La pluralità, ossia il numero, non ha tuttavia altro essere che quello che deriva dalla stessa unità. Per questo motivo, l’unità, senza la quale il numero non sarebbe numero, è presente nella pluralità. In effetti esplicare tutte le cose per l’unità significa proprio questo, ossia essere presente nella pluralità 242. Il modo in cui avvengono la complicazione e l’esplicazione supera, tuttavia, la capacità di comprensione della nostra mente. Chi, mi domando, potrebbe comprendere in che modo dalla mente divina deriva la pluralità delle cose, dato che in Dio, che è unità infinita, il conoscere si identifica con il suo stesso essere? Se prosegui il paragone con il numero, allora, considerando che il numero è la moltiplicazione di un’unità comune compiuta dalla mente, sembrerebbe che Dio, che è l’unità, venga moltiplicato nelle cose, dato che il suo conoscere coincide con il suo essere. E tuttavia comprendi subito che non è possibile che questa unità, che è infinita e massima, si moltiplichi. Come si può allora intendere la pluralità, il cui essere deriva dall’uno senza che vi sia una moltiplicazione dell’uno? E come si può concepire una moltiplicazione dell’unità senza moltiplicazione? Certamente, non la si può concepire nel modo in cui avviene la moltiplicazione di un genere o di una specie in molte specie o in molti individui, al di fuori dei quali il genere e le specie non esistono se non in virtù dell’astrazione dell’intelletto. Di conseguenza, nessuno è in grado di comprendere in che modo Dio, il cui essere, nella sua unità, non è qualcosa che l’intelletto astragga dalle cose, né è unito alle cose o immerso in esse, si esplichi attraverso la molteplicità numerica delle cose. Se consideri le cose senza Dio, allora esse sono nulla, come è nulla il numero senza l’unità243. Se consideri Dio senza le cose, allora egli è e le cose sono nulla. Se consideri Dio così come egli è nelle cose, allo-
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rebus, res aliquid esse, in quo ipse est, consideras; et in hoc erras, ut patuit in proximo capitulo, quoniam esse rei non est aliud, ut est diversa res, sed eius esse est ab esse. Si consideras rem ut est in Deo, tunc est Deus et unitas. Non restat nisi dicere, quod pluralitas rerum exoriatur eo, quod Deus est in nihilo. Nam tolle Deum a creatura, et remanet nihil; tolle substantiam a composito, et non remanet aliquod accidens et ita nihil remanet. Quomodo hoc possit per nostrum attingi intellectum? Nam quamvis accidens pereat sublata substantia, non est propterea accidens nihil. Perit autem, quia accidentis esse est adesse; et propterea, sicut quantitas non est nisi per esse substantiae, tamen quia adest, tunc substantia per quantitatem est quanta. Non sic hic; nam creatura ita Deo non adest. Nihil enim confert Deo, sicut accidens substantiae; immo accidens intantum confert substantiae, quod quamvis ab ea habeat esse, tamen ex consequenti substantia sine omni accidente esse nequit. Hoc quidem in Deo similiter esse nequit. 111 Quomodo igitur poterimus intelligere creaturam ut creaturam, quae a Deo est et nihil etiam ex consequenti ei tribuere potest, qui est maximus? Et si ut creatura non habet etiam tantum entitatis sicut accidens, sed est penitus nihil, quomodo intelligitur pluralitatem rerum per hoc explicari, quod Deus est in nihilo, cum nihil non sit alicuius entitatis? Si dicis: ‘Eius voluntas omnipotens causa est, et voluntas et omnipotentia sunt suum esse; nam tota est in circulo theologia’, necesse est igitur fateri te penitus et complicationem et explicationem, quomodo fiat, ignorare; hoc tantum scire, quod tu ignoras modum, licet etiam scias Deum omnium rerum complicationem et explicationem, et – ut est complicatio – om-
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ra sei portato a considerare queste ultime come un qualcosa [di altro] in cui egli si trova. Ed in questo sbagli, com’è risultato evidente nel capitolo precedente, in quanto l’essere di una cosa non è qualcosa di altro [da Dio], come se si trattasse di una cosa diversa, ma l’essere della cosa è il suo «essere-dipendente» da lui. Se consideri la cosa così come essa è in Dio, allora essa è Dio ed è unità. Non resta da dire che questo, ossia che la pluralità delle cose nasce dal fatto che Dio è presente nel nulla. Togli infatti Dio dalla creatura e non resta nulla. Togli la sostanza da un composto e non resta alcun accidente, e così del composto non resta nulla. Come potrebbe il nostro intelletto giungere a comprendere questo? Infatti, per quanto l’accidente scompaia una volta che venga tolta la sostanza, non per questo l’accidente è un nulla. Esso scompare, perché l’essere dell’accidente consiste nel suo essere-inerente alla sostanza. Per questo, sebbene la quantità, ad esempio, esista solo grazie all’essere della sostanza, tuttavia, dato che è qualcosa che inerisce alla sostanza, quest’ultima riceve dalla quantità la propria determinazione quantitativa. Nel nostro caso, invece, non è così. La creatura, infatti, non inerisce a Dio in questo modo. Ed essa non conferisce nulla a Dio, come fa l’accidente nei confronti della sostanza244. Ed anzi l’accidente conferisce così tanto alla sostanza che, sebbene esso abbia il suo essere dalla sostanza, quest’ultima, tuttavia, non può a sua volta sussistere senza qualche accidente. Un rapporto simile certamente è impossibile nel caso di Dio. Come potremo quindi comprendere la creatura in quanto creatura, essa che deriva da Dio e che, di conseguenza, non può da parte sua attribuire nulla a colui che è il massimo? E se, in quanto creatura, essa non ha neppure quel tanto di entità che ha l’accidente, ma è del tutto un nulla, come possiamo intendere che la pluralità delle cose viene esplicata in virtù del fatto che Dio è presente nel nulla, dato che il nulla non ha alcun essere? Se dici: «La causa è la sua volontà onnipotente, e la volontà e l’onnipotenza sono il suo essere. Tutta la teologia, infatti, è circolare»245, devi allora ammettere di ignorare completamente in quale modo avvengano la complicazione e l’esplicazione; devi ammettere di sapere soltanto questo, ossia che tu ignori il modo in cui esse avvengono, sebbene tu sappia che Dio è la complicazione e l’esplicazione di tutte le cose246, e che,
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nia in ipso esse ipse, et – ut est explicatio – ipsum in omnibus esse id quod sunt, sicut veritas in imagine. Ac si facies esset in imagine propria, quae ab ipsa multiplicatur distanter et propinque quoad imaginis multiplicationem (non dico secundum distantiam localem, sed gradualem a veritate faciei, cum aliter multiplicari non possit): in ipsis multiplicatis ab una facie diversis imaginibus diversimode et multipliciter una facies appareret supra omnem sensum et mentem inintelligibiliter. 112
CAPITULUM IV
Quomodo universum, maximum contractum tantum, est similitudo absoluti. Si ea, quae in praemissis nobis per doctam ignorantiam manifestata sunt, subtili consideratione extenderimus, ex hoc tantum, quod omnia absolutum maximum esse aut ab eo esse scimus, de mundo seu universo, quod maximum contractum tantum esse volo, multa nobis patere poterunt. Nam ipsum contractum seu concretum cum ab absoluto omne id habeat, quod est, tunc illud, quod est maximum, maxime absolutum quantum potest concomitatur. Igitur quae in primo libro de absoluto maximo nobis nota facta sunt, illa, ut absoluta absoluto maxime conveniunt, contracto contracte convenire affirmamus. 113 Aliqua exemplificemus, ut inquirenti ingressum paremus: Deus est absoluta maximitas atque unitas, absolute differentia atque distantia praeveniens atque uniens, uti sunt contradictoria, quorum non est medium; quae absolute est id, quod sunt omnia, in omnibus absolutum principium atque finis rerum atque entitas. In
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in quanto complicazione, tutte le cose sono presenti in lui come identiche a lui stesso, e che, in quanto esplicazione, egli è in tutte le cose ciò che esse sono, così come in un’immagine è presente la verità [l’esemplare]. È come se un volto fosse presente nella propria immagine e venisse moltiplicato da essa secondo la distanza o la vicinanza dell’immagine che lo moltiplica – non intendo dire secondo la distanza spaziale, ma secondo il grado di distanza dalla verità del volto, in quanto quest’ultimo non potrebbe essere moltiplicato in altro modo. Se fosse così, nelle diverse immagini che derivano da esso e che lo moltiplicano apparirebbe, in un modo rispettivamente diverso e molteplice, quell’unico volto, anche se in una maniera che è per noi incomprensibile, e che è al di sopra di ogni capacità dei sensi e della mente. CAPITOLO IV
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L’universo, che è solo un massimo contratto, è un’immagine del massimo assoluto Se adesso, procedendo con una riflessione più approfondita, estendiamo quanto nelle pagine precedenti ci si è reso manifesto grazie la dotta ignoranza, allora, dal solo fatto di sapere che tutto o è il massimo assoluto, o è una realtà che dipende da lui, ci potranno risultare chiare molte cose a proposito del mondo o universo, che io sostengo essere solo un massimo contratto247. Infatti, dal momento che ciò che è contratto o concreto ha dall’assoluto tutto ciò che esso è, quella realtà che è il massimo contratto [il mondo] segue, per quanto può, il massimo assoluto. Di conseguenza, tutto ciò che nel primo libro abbiamo appreso a proposito del massimo assoluto diciamo che conviene in modo contratto anche al massimo contratto, così come conviene in modo assoluto al massimo assoluto. Per preparare la strada alla nostra ricerca, vorrei proporre alcuni esempi. Dio è massimità ed unità assoluta, che precede e unifica realtà che sono assolutamente differenti e separate fra di loro, come sono i contraddittori, fra i quali non vi è alcun termine medio248. Questa massimità e unità assoluta è, in maniera assoluta, ciò che tutte le cose sono; in tutte le cose è il loro principio assoluto, ed è il fine delle cose e la loro entità. In Dio tutte le cose esistono sen-
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quo omnia sunt sine pluralitate ipsum maximum absolutum simplicissime, indistincte, sicut infinita linea omnes figurae. Ita pariformiter mundus sive universum est contractum maximum atque unum, opposita praeveniens contracta, ut sunt contraria; existens contracte id, quod sunt omnia; in omnibus principium contractum atque contractus finis rerum, ens contractum, infinitas contracta, ut sit contracte infinitus; in quo omnia sine pluralitate sunt ipsum maximum contractum cum contracta simplicitate et indistinctione, sicut linea maxima contracta est contracte omnes figurae. 114 Unde, quando recte consideratur de contractione, omnia sunt clara. Nam infinitas contracta aut simplicitas seu indistinctio per infinitum descendit in contractione ab eo, quod est absolutum, ut infinitus et aeternus mundus cadat absque proportione ab absoluta infinitate et aeternitate et unum ab unitate. Unde unitas absoluta ab omni pluralitate absoluta est. Sed contracta unitas, quae est unum universum, licet sit unum maximum, cum sit contractum, non est a pluralitate absolutum, licet non sit nisi unum maximum contractum. Quare quamvis sit maxime unum, est tamen illa eius unitas per pluralitatem contracta, sicut infinitas per finitatem, simplicitas per compositionem, aeternitas per successionem, necessitas per possibilitatem et ita de reliquis, quasi absoluta necessitas se communicet absque permixtione et in eius opposito contracte terminetur. Ac si albedo haberet in se esse absolutum sine abstractione nostri intellectus, a qua album esset contracte album: tunc albedo per non-albedinem in actu albo terminatur, ut hoc sit album per albedinem, quod absque ea album non esset. 115 Ex hiis multa investigator elicere poterit. Nam sicut Deus, cum sit immensus, non est nec in sole nec in luna, licet in illis sit id,
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za molteplicità e sono, in modo del tutto semplice, lo stesso massimo assoluto, senza alcuna distinzione, come la linea infinita è tutte le figure249. In modo simile, il mondo o universo è parimenti un massimo contratto e un uno contratto, che precede gli opposti contratti quali sono i contrari, e che, in modo contratto, è ciò che tutte le cose sono; in tutte le cose è il principio contratto e il fine contratto delle cose, è ente contratto e infinità contratta, così da essere infinito in modo contratto. Nel mondo o universo tutte le cose sono, senza molteplicità, lo stesso massimo contratto, con una semplicità e una indistinzione contratte, come la linea massima contratta è tutte le figure in modo contratto. Pertanto, quando si riflette in modo corretto sulla contrazione, tutto diventa chiaro. L’infinità contratta, infatti, o la semplicità o l’indistinzione, quali sono presenti nella contrazione, sono infinitamente distanti da colui che è assoluto, per cui anche un mondo infinito ed eterno250 risulta inferiore rispetto all’infinità e all’eternità assolute, senza alcuna possibilità di comparazione, come l’uno è inferiore rispetto all’unità. L’unità assoluta, pertanto, è libera da ogni molteplicità. L’unità contratta, invece, che è l’universo uno, sebbene sia uno in senso massimo, essendo contratto non è libero dalla molteplicità, per quanto non vi sia che un unico massimo contratto. Per questo motivo, sebbene l’universo sia uno in modo massimo, la sua unità, tuttavia, è contratta attraverso la molteplicità, così come la sua infinità è contratta attraverso la finitezza, la sua semplicità attraverso la composizione, la sua eternità attraverso la successione, la sua necessità attraverso la possibilità, e così via. È come se la necessità assoluta si comunicasse senza alcuna mescolanza, e finisse per essere delimitata in modo contratto nel suo opposto. È come se la bianchezza, ad esempio, avesse in sé un essere assoluto, senza l’intervento dell’astrazione del nostro intelletto, e grazie ad essa ciò che è bianco fosse bianco in modo contratto: in questo caso, in ciò che è bianco in atto la bianchezza verrebbe delimitata dalla nonbianchezza, in modo tale che, grazie alla bianchezza, possa essere bianco ciò che, senza di essa, non potrebbe esserlo. Da queste osservazioni un ricercatore può ricavare molte cose. Come Dio, infatti, essendo immenso, non è né nel sole, né nella luna, sebbene in queste realtà egli sia ciò che esse sono, ma in
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quod sunt, absolute: ita universum non est in sole nec in luna, sed in ipsis est id, quod sunt, contracte. Et quia quidditas solis absoluta non est aliud a quidditate absoluta lunae – quoniam est ipse Deus, qui est entitas et quidditas absoluta omnium, – et quidditas contracta solis est alia a quidditate contracta lunae – quia, ut quidditas absoluta rei non est res ipsa, ita contracta non est aliud quam ipsa –, quare patet quod, cum universum sit quidditas contracta, quae aliter est in sole contracta et aliter in luna, hinc identitas universi est in diversitate sicut unitas in pluralitate. Unde universum, licet non sit nec sol nec luna, est tamen in sole sol et in luna luna; Deus autem non est in sole sol et in luna luna, sed id, quod est sol et luna, sine pluralitate et diversitate. Universum dicit universalitatem, hoc est unitatem plurium; propter hoc, sicut humanitas non est nec Socrates nec Plato, sed in Socrate est Socrates, in Platone Plato, ita universum ad omnia. 116 Quoniam vero dictum est universum esse primum contractum tantum atque in hoc maximum, patet, quomodo per simplicem prodiit in esse. Omnia autem entia, quae sunt partes universi, sine quibus universum – cum sit contractum – unum, totum et perfectum esse non posset, simul cum universo in esse prodierunt, et non prius intelligentia, deinde anima nobilis, deinde natura, ut voluit Avicenna et alii philosophi. Tamen, sicut in intentione artificis est prius totum, puta domus, quam pars, puta paries, ita dicimus, quia ex intentione Dei omnia in esse prodierunt, quod tunc universum prius prodiit et in eius consequentiam omnia, sine quibus nec universum nec perfectum esse posset. Unde, sicut abstractum est in concreto, ita absolutum maximum in contracto maximo prioriter consideramus, ut sit consequenter in omnibus particularibus, quia
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modo assoluto, così l’universo non è né nel sole, né nella luna, ma in queste realtà esso è ciò che esse sono, ma in modo contratto. E poiché la quiddità assoluta del sole non è diversa dalla quiddità assoluta della luna – in quanto tale quiddità è Dio stesso, che è l’entità e la quiddità assoluta di tutte le cose –, e poiché, invece, la quiddità contratta del sole è diversa dalla quiddità contratta della luna – come, infatti, la quiddità assoluta di una cosa non è la cosa stessa251, così la quiddità contratta non è altro che la cosa stessa –, risulta allora chiaro che, essendo l’universo una quiddità contratta, che è contratta in un modo nel sole e in un altro modo nella luna, l’identità dell’universo sta nella diversità, come la sua unità sta nella molteplicità 252. Di conseguenza, sebbene l’universo non sia né sole né luna, esso, tuttavia, nel sole è sole e nella luna è luna. Dio, invece, non è sole nel sole e luna nella luna, ma è ciò che il sole e la luna sono, senza molteplicità e senza diversità. «Universo» significa «universalità», ossia un’unità di molte cose. Per questo motivo, come la natura umana non è né Socrate, né Platone, ma in Socrate è Socrate e in Platone è Platone, così è l’universo in rapporto a tutte le cose. Dal momento che, tuttavia, l’universo, come abbiamo detto, è primo soltanto nell’ordine della contrazione, e solo in questo senso è massimo, è evidente che l’intero universo è giunto all’essere attraverso una semplice emanazione del massimo contratto dal massimo assoluto253. Tutti gli enti, invece, che sono parti dell’universo e senza i quali l’universo, essendo contratto, non potrebbe essere né uno, né un tutto, né una realtà compiuta, sono giunti all’essere insieme con l’universo, e non c’è stata prima l’intelligenza, poi l’anima nobile, e poi la natura, come hanno sostenuto Avicenna e altri filosofi254. Tuttavia, come nel progetto di un artista il tutto, ad esempio la casa, viene prima di una parte, ad esempio le pareti, allo stesso modo, poiché tutte le cose sono giunte all’essere dal progetto di Dio, diciamo che è apparso prima l’universo e poi, come sua conseguenza, tutte le cose255 senza le quali esso non sarebbe né un universo, né sarebbe un universo compiuto. Pertanto, come l’astratto è nel concreto, così il massimo assoluto lo consideriamo prima nel massimo contratto, in modo tale che esso venga poi ad essere conseguentemente in tutte le singole cose particolari per il fatto di essere pre-
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est absolute in eo, quod est omnia contracte. Est enim Deus quidditas absoluta mundi seu universi; universum vero est ipsa quidditas contracta. Contractio dicit ad aliquid, ut ad essendum hoc vel illud. Deus igitur, qui est unus, est in uno universo; universum vero est in universis contracte. Et ita intelligi poterit, quomodo Deus, qui est unitas simplicissima, existendo in uno universo est quasi ex consequenti mediante universo in omnibus, et pluralitas rerum mediante uno universo in Deo. 117
CAPITULUM V
Quodlibet in quolibet. Si acute iam dicta attendis, non erit tibi difficile videre veritatis illius Anaxagorici ‘quodlibet esse in quolibet’ fundamentum fortassis altius Anaxagora. Nam cum manifestum sit ex primo libro Deum ita esse in omnibus, quod omnia sunt in ipso, et nunc constet Deum quasi mediante universo esse in omnibus, hinc omnia in omnibus esse constat et quodlibet in quolibet. Universum enim quasi ordine naturae ut perfectissimum praecessit omnia, ut quodlibet in quolibet esse posset. In qualibet enim creatura universum est ipsa creatura, et ita quodlibet recipit omnia, ut in ipso sint ipsum contracte. Cum quodlibet non possit esse actu omnia, cum sit contractum, contrahit omnia, ut sint ipsum. Si igitur omnia sunt in omnibus, omnia videntur quodlibet praecedere. Non igitur omnia sunt plura, quoniam pluralitas non praecedit quodlibet. Unde omnia sine pluralitate praecesserunt quodlibet ordine natu-
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sente in modo assoluto in ciò che è tutte le cose in modo contratto [ossia, nell’universo]. Dio, infatti, è la quiddità assoluta del mondo o dell’universo. L’universo, invece, è questa stessa quiddità, ma contratta. Ora, «contrazione» significa contrazione a qualcosa, ossia ad essere questo o quello. Dio, quindi, che è uno, è in un universo che è uno. L’universo, invece, è in tutte le cose in modo contratto. In questo modo si potrà comprendere come Dio, che è unità semplicissima, esistendo in un universo unitario, sia presente in tutte le cose quasi come conseguenza della mediazione dell’universo, e come la molteplicità delle cose sia in Dio attraverso la mediazione dell’unità dell’universo256. CAPITOLO V
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Ogni cosa è in ogni cosa Se consideri con grande attenzione le cose che sono state già dette, non ti sarà difficile vedere il fondamento sul quale si basa la verità di quell’affermazione di Anassagora secondo la quale «ogni cosa è in ogni cosa», verità che forse è più profonda di quanto lo stesso Anassagora non pensasse257. Infatti, poiché dal primo libro è emerso chiaramente che Dio è in tutte le cose, in modo tale che tutte le cose sono in lui258, e poiché è risultato ora evidente che Dio è in tutte le cose quasi attraverso la mediazione dell’universo, è chiaro che tutto è in tutto e che ogni cosa è in ogni cosa259. L’universo, infatti, essendo la realtà più perfetta, ha preceduto tutte le cose per un certo qual ordine di natura 260, in modo tale che ogni cosa potesse essere in ogni cosa. In ogni singola creatura, infatti, l’universo è quella creatura, e così ogni cosa accoglie in sé tutte le altre, in modo tale che, in ogni cosa, tutte le altre siano, in modo contratto, quella cosa. Poiché ogni singola cosa, essendo contratta, non può essere in atto tutte le cose, essa contrae in se stessa tutte le altre cose, in modo tale che esse siano il suo stesso essere. Se, quindi, tutto è in tutto, è allora chiaro che il tutto precede ogni singola cosa. La totalità delle cose, pertanto, non è una molteplicità, in quanto la molteplicità non precede ogni singola cosa. Di conseguenza, ciò che ha preceduto ogni singola cosa per un ordine di natura è la totalità delle cose senza molteplicità. In ogni singola cosa,
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rae. Non sunt igitur plura in quolibet actu, sed omnia sine pluralitate sunt id ipsum. 118 Non est autem universum nisi contracte in rebus, et omnis res actu existens contrahit universa, ut sint actu id, quod est. Omne autem actu existens in Deo est, quia ipse est actus omnium. Actus autem est perfectio et finis potentiae. Unde, cum universum in quolibet actu existenti sit contractum, patet Deum, qui est in universo, esse in quolibet et quodlibet actu existens immediate in Deo, sicut universum. Non est ergo aliud dicere ‘quodlibet esse in quolibet’ quam Deum per omnia esse in omnibus et omnia per omnia esse in Deo. Subtili intellectu ista altissima clare comprehenduntur, quomodo Deus est absque diversitate in omnibus, quia quodlibet in quolibet, et omnia in Deo, quia omnia in omnibus. Sed cum universum ita sit in quolibet, quod quodlibet in ipso, est universum in quolibet contracte id, quod est ipsum contracte, et quodlibet in universo est ipsum universum, – quamvis universum in quolibet sit diverse et quodlibet in universo diverse. 119 Vide exemplum: Manifestum est lineam infinitam esse lineam, triangulum, circulum et sphaeram. Omnis autem linea finita habet esse suum ab infinita, quae est omne id, quod est. Quare in linea finita omne id, quod est linea infinita (ut est linea, triangulus, et cetera), est id, quod est linea finita. Omnis igitur figura in linea finita est ipsa linea; et non est in ipsa aut triangulus aut circulus aut sphaera actu, quoniam ex pluribus actu non fit unum actu, cum quodlibet actu non sit in quolibet, sed triangulus in linea est linea, et circulus in linea est linea, et ita de reliquis. Et ut clarius videas: Linea actu esse nequit nisi in corpore, ut ostendetur alibi. In corpore autem longo, lato et profundo omnes figuras complicari nemo dubitat.
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pertanto, non è presente in atto una molteplicità di cose, ma è piuttosto la totalità delle cose, senza molteplicità, che, in ogni cosa, è quella rispettiva cosa261. Ora, l’universo è nelle cose solo in modo contratto, ed ogni cosa che esiste in atto contrae in sé tutte le altre cose che fanno parte dell’universo, affinché siano in atto ciò che essa è. Ogni cosa che esiste in atto, tuttavia, è in Dio, perché Dio è l’atto di tutte le cose. Ora, l’atto è il compimento e il fine ultimo della potenza. Di conseguenza, dal momento che l’universo è presente in modo contratto in ogni cosa che esiste in atto, è evidente che Dio, che è nell’universo, è in ogni cosa, e che ogni cosa che esiste in atto è immediatamente in Dio, così come l’universo è in Dio. Dire che «ogni cosa è in ogni cosa» non è pertanto diverso dal dire che Dio, mediante tutte le cose, è in tutte, e che tutte le cose, mediante tutte, sono in Dio262. Un intelletto perspicace comprende con chiarezza queste verità molto profonde, ossia che Dio è presente, senza diversità, in tutte le cose, perché ogni cosa è in ogni cosa, e che tutte le cose sono in Dio, perché tutte sono in tutte. Ma, dal momento che l’universo è in ogni singola cosa, in modo tale che ogni cosa è in esso, allora in ogni singola cosa l’universo è, in modo contratto, ciò che quella cosa è in modo contratto, e ogni singola cosa nell’universo è l’universo stesso, sebbene il modo in cui l’universo è presente in ogni singola cosa sia diverso dal modo in cui ogni cosa è nell’universo. Considera il seguente esempio: è evidente che la linea infinita sia linea, triangolo, cerchio e sfera 263. Ogni linea finita, tuttavia, ha il proprio essere dalla linea infinita, la quale è tutto ciò che una linea finita è264. Per questo, tutto ciò che è la linea infinita – ossia, linea, triangolo, eccetera –, nella linea finita è ciò che è la linea finita. Di conseguenza, nella linea finita ogni figura è la linea stessa. In essa non vi sono il triangolo, o il cerchio, o la sfera in atto, in quanto da più cose in atto non può risultare un’unica cosa in atto; e in effetti ogni cosa non è in atto in ogni cosa; piuttosto, nella linea il triangolo è linea, nella linea il cerchio è linea, e lo stesso vale per le altre figure. E perché tu veda questo con più chiarezza, considera che una linea può sussistere in atto solo in un corpo, come mostreremo altrove265. Ora, nessuno dubita che in un corpo, che è dotato di lunghezza, di larghezza e di profondità, vi siano complicate tut-
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Sunt igitur in linea actu omnes figurae actu ipsa linea, et in triangulo triangulus, et ita de reliquis. Nam omnia in lapide lapis, et in anima vegetativa ipsa anima, et in vita vita, et in sensu sensus, in visu visus, in auditu auditus, in imaginatione imaginatio, in ratione ratio, in intellectu intellectus, in Deo Deus. Et nunc vide, quomodo rerum unitas sive universum est in pluralitate et e converso pluralitas in unitate. 120 Considera attentius et videbis, quomodo quaelibet res actu existens ex eo quiescit, quia omnia in ipso sunt ipsum et ipsum in Deo Deus. Mirabilem rerum unitatem, admirandam aequalitatem et mirabilissimam vides connexionem, ut omnia sint in omnibus. Rerum etiam diversitatem et connexionem in hoc exoriri intelligis. Nam cum quaelibet res actu omnia esse non potuit – quia fuisset Deus, et propterea omnia in quolibet essent eo modo, quo possent secundum id, quod est quodlibet, – nec potuit quodlibet esse consimile per omnia alteri, ut patuit supra: hoc fecit omnia in diversis gradibus esse; sicut et illud esse, quod non potuit simul incorruptibiliter esse, fecit incorruptibiliter in temporali successione esse; ut ita omnia id sint, quod sunt, quoniam aliter et melius esse non potuerunt. 121 Quiescunt igitur omnia in quolibet, quoniam non posset unus gradus esse sine alio, sicut in membris corporis quodlibet confert cuilibet et omnia in omnibus contentantur. Postquam enim oculus non potest esse manus et pedes et alia omnia actu, contentatur se esse oculum, et pes pedem; et omnia membra sibi mutuo conferunt, ut quodlibet sit meliori modo, quo potest, id quod est. Et non est manus nec pes in oculo, sed in oculo sunt oculus, inquantum ipse oculus est immediate in homine; et ita omnia membra in pede,
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te le figure. Di conseguenza, nella linea finita che esiste in atto tutte le figure sono in atto la linea stessa, e nel triangolo che esiste in atto sono il triangolo, e così per il resto. Nella pietra, infatti, tutte le cose sono pietra, nell’anima vegetativa sono la stessa anima vegetativa, nella vita sono vita, nei sensi sono i sensi, nella vista sono vista, nell’udito sono udito, nell’immaginazione sono immaginazione, nella ragione ragione, nell’intelletto intelletto, in Dio Dio. Ed ora vedi come l’unità delle cose, ossia l’universo, sia nella molteplicità e, viceversa, la molteplicità nell’unità. Se consideri la questione più attentamente, vedrai che ogni cosa che esiste in atto trova la sua quiete per il fatto che tutte le cose in lei sono lei stessa, ed essa in Dio è Dio. Vedi allora come fra le cose vi sia una straordinaria unità, un’ammirevole eguaglianza e una ancor più mirabile connessione, che fanno sì che tutte le cose siano in tutte266. E comprendi come anche la diversità e la connessione delle cose abbiano in ciò la loro origine. Ogni cosa, infatti, non poteva essere in atto tutte le cose, perché così sarebbe stata Dio, e perché, di conseguenza, tutte le cose sarebbero state [in atto] in ognuna di esse nel modo in cui potevano esserlo, in maniera cioè conforme a quello che ogni singola cosa è. Dall’altro lato, come è risultato evidente in precedenza267, ogni cosa non poté neppure essere in tutto simile ad un’altra. Tutto questo, pertanto, fece sì che le cose dovettero esistere secondo gradi diversi, e comportò anche che quell’essere, che non poté esistere in modo incorruttibile tutto in una volta [l’universo], esistesse in modo incorruttibile nella successione temporale. Così, tutte le cose sono ciò che sono perché non poterono esistere in modo diverso e migliore268. Tutte le cose, pertanto, trovano la loro quiete in ognuna di esse, perché un grado dell’essere non potrebbe stare senza l’altro, come avviene fra le membra del corpo, dove ognuna è utile ad ogni altra e tutte trovano il proprio soddisfacimento in tutte269. Dato che l’occhio, infatti, non può essere in atto mano, piede e tutte le altre membra, esso è soddisfatto di essere occhio e il piede di essere piede. E tutte le membra si aiutano reciprocamente l’un l’altra, affinché ciascuna sia ciò che è nel modo migliore in cui può esserlo. E né la mano, né il piede sono nell’occhio, ma nell’occhio esse sono occhio, in quanto l’occhio, da parte sua, è immediatamente nell’uo-
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inquantum pes immediate in homine, ut quodlibet membrum per quodlibet immediate sit in homine et homo sive totum per quodlibet membrum sit in quolibet, sicut totum in partibus est per quamlibet in qualibet. 122 Si igitur consideras humanitatem quasi esse quid absolutum, impermiscibile et incontrahibile, et hominem consideras, in quo est ipsa absoluta humanitas absolute et a quo est ipsa contracta humanitas, quae est homo: est ipsa humanitas absoluta quasi Deus et contracta quasi universum. Et sicut ipsa absoluta humanitas est in homine principaliter seu prioriter et consequenter in quolibet membro aut qualibet parte, et ipsa contracta humanitas est in oculo oculus, in corde cor et ita de reliquis, et ita contracte in quolibet quodlibet: tunc secundum hanc quidem positionem reperta est similitudo Dei et mundi et eorum omnium manuductio, quae in istis duobus capitulis tacta sunt, cum aliis multis quae ex hoc sequuntur. 123
CAPITULUM VI
De complicatione et gradibus contractionis universi. Supra omnem intellectum in prioribus universum sive mundum esse comperimus unum, cuius unitas contracta est per pluralitatem, ut sit unitas in pluralitate. Et quia unitas absoluta est prima et unitas universi ab ista, erit unitas universi secunda unitas, quae in quadam pluralitate consistit. Et quoniam, ut in De coniecturis ostendetur, secunda unitas est denaria, decem uniens praedicamenta, erit universum unum explicans primam absolutam unitatem simplicem denaria contractione. Complicantur autem omnia in denario, quoniam non est numerus supra ipsum. Quare unitas universi denaria pluralitatem omnium contractorum complicat. Et
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mo. E alla stessa maniera tutte le membra sono nel piede, in quanto il piede è immediatamente nell’uomo, cosicché ogni membro, attraverso ogni altro membro, è immediatamente nell’uomo, e l’uomo, ossia il tutto, attraverso ogni membro è in ogni altro membro, così come il tutto è nelle sue parti, ossia in ogni parte attraverso ogni altra parte. Se consideri pertanto la natura umana come se fosse qualcosa di assoluto, di non mescolabile e di non contraibile, e consideri poi un uomo nel quale questa natura umana assoluta sia presente in modo assoluto e dal quale derivi quella natura umana contratta che è il singolo uomo, avresti allora che la natura umana assoluta è come se fosse Dio e la natura umana contratta è come se fosse l’universo. E la natura umana assoluta è presente in maniera principale o prioritaria nell’uomo e poi, in conseguenza di esso, anche in ogni membro o in ogni parte, mentre la natura umana contratta nell’occhio è occhio, nel cuore è cuore, e così via, per cui in ogni membro è, in modo contratto, ogni membro. Con quest’esempio abbiamo trovato una similitudine del rapporto tra Dio e il mondo e un modo di introdurci alla comprensione di tutti gli argomenti che abbiamo toccato in questi due capitoli, e di molti altri che ne conseguono. CAPITOLO VI
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La complicazione e i gradi della contrazione dell’universo Nelle pagine precedenti abbiamo appreso, al di sopra di ogni capacità dell’intelletto, che l’universo, ovvero il mondo, è uno, e che la sua unità è contratta attraverso la molteplicità, in modo tale da essere un’unità nella molteplicità270. E dato che l’unità assoluta è la prima e l’unità dell’universo deriva da essa, l’unità dell’universo sarà un’unità seconda, che consiste in una certa molteplicità. E dato che, come mostrerò nelle Congetture, l’unità seconda è quella del dieci, che unisce le dieci categorie, l’universo sarà uno nel senso che esplica la prima e semplice unità assoluta nella contrazione del dieci. Nel numero dieci, tuttavia, sono complicate tutte le cose, in quanto non c’è alcun numero che sia al di sopra di esso271. Per questo, l’unità del dieci, che è propria dell’universo, complica in sé la molteplicità di tutte le cose contratte. E poiché questa unità dell’u-
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quia illa universi unitas ut principium contractum omnium est in omnibus, tunc, ut denarius est radix quadrata centenarii et cubica millenarii, ita unitas universi est radix universorum. A qua quidem radice primo oritur quasi numerus quadratus ut unitas tertia, et cubicus numerus ut unitas ultima sive quarta. Et est unitatis universi prima explicatio unitas tertia, centenaria; et ultima explicatio unitas quarta, millenaria. 124 Et ita reperimus tres universales unitates gradualiter descendentes ad particulare, in quo contrahuntur, ut sint actu ipsum. Prima absoluta unitas omnia complicat absolute, prima contracta omnia contracte. Sed ordo habet, ut absoluta unitas videatur quasi primam contractam complicare, ut per eius medium alia omnia; et contracta prima videatur secundam contractam complicare, et eius medio tertiam contractam; et secunda contracta tertiam contractam, quae est ultima universalis unitas et quarta a prima, ut eius medio in particulare deveniat. Et sic videmus, quomodo universum per gradus tres in quolibet particulari contrahitur. Est igitur universum quasi decem generalissimorum universitas, et deinde genera, deinde species. Et ita universalia sunt illa secundum gradus suos, quae ordine quodam naturae gradatim ante rem, quae actu ipsa contrahit, existunt. Et quoniam universum est contractum, tunc non reperitur nisi in generibus explicatum, et genera non reperiuntur nisi in speciebus; individua vero sunt actu, in quibus sunt contracte universa. 125 Et in ista consideratione videtur, quomodo universalia non sunt nisi contracte actu; et eo quidem modo verum dicunt Peripatetici uni versalia extra res non esse actu. Solum enim singulare actu est, in quouniversalia sunt contracte ipsum. Habent tamen universalia
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niverso, in quanto principio contratto di tutte le cose, è presente in tutte, allora come il dieci è la radice quadrata del cento e la radice cubica del mille, così l’unità dell’universo è la radice di tutte le cose. Da questa radice nasce per primo il numero al quadrato, per così dire, quale terza unità, e poi il numero al cubo, come unità ultima o quarta. E la terza unità, ossia il cento, è la prima esplicazione dell’unità dell’universo, mentre la quarta unità, ossia il mille, è l’ultima esplicazione. Abbiamo così trovato tre unità universali, che discendono per gradi fino a ciò che è particolare, nel quale esse risultano contratte, in modo tale da essere in atto il singolo ente particolare. La prima unità assoluta complica insieme tutte le cose in modo assoluto, la prima unità contratta complica in sé tutte le cose in modo contratto. L’ordine tuttavia comporta che l’unità assoluta sembri in qualche modo complicare la prima unità contratta, in maniera tale da complicare, tramite essa, tutte le altre cose; che la prima unità contratta sembri complicare la seconda unità contratta e, tramite essa, la terza unità contratta; ed infine che la seconda unità contratta sembri complicare la terza unità contratta, la quale è l’ultima unità universale ed è la quarta a partire dalla prima, in modo tale che, per mezzo di essa, la seconda [unità contratta] possa giungere a ciò che è particolare. Ed in questo modo vediamo che l’universo viene contratto in ogni ente particolare attraverso questi tre gradi272. L’universo, pertanto, è come fosse l’universalità dei dieci generi sommi, a cui seguono i generi e a questi poi le specie. E così questi sono gli universali secondo i loro rispettivi gradi; essi, secondo un certo ordine di natura, esistono gradatamente prima della cosa, la quale li contrae in atto. E poiché l’universo è contratto, non lo si trova che esplicato nei generi, e i generi non li si trova che nelle specie273. In atto esistono invece gli individui, nei quali sono presenti in modo contratto tutte le cose dell’universo. Nelle considerazioni che abbiamo qui fatto si vede che gli universali esistono in atto solo in modo contratto274. Da questo punto di vista, hanno ragione i Peripatetici quando dicono che gli universali non esistono in atto al di fuori delle cose. Ciò che esiste in atto, infatti, è solo il singolare, nel quale gli universali sono, in modo contratto, lo stesso ente singolare. Secondo l’ordine di natura, tut-
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ordine naturae quoddam esse universale, contrahibile per singulare – non quod sint actu ante contractionem aliter quam naturali ordine, ut universale contrahibile in se non subsistens, sed in eo, quod actu est, sicut punctus, linea et superficies ordine progressivo corpus, in quo actu tantum sunt, praecedunt. Universum enim quia non est actu nisi contracte, ita omnia universalia: Non sunt universalia solum entia rationis, licet non reperiantur extra singularia actu; sicut et linea et superficies, licet extra corpus non reperiantur, propterea non sunt entia rationis tantum, quoniam sunt in corpore sicut universalia in singularibus. Intellectus tamen facit ea extra res per abstractionem esse. Quae quidem abstractio est ens rationis, quoniam absolutum esse eis convenire non potest. Universale enim penitus absolutum Deus est. 126 Quomodo autem universale per abstractionem sit in intellectu, in libro De coniecturis videbimus, licet ex superioribus hoc satis patere posset, cum non si[n]t ibi nisi intellectus, et ita intellectualiter contracte. Cuius intelligere, cum non sit esse clarius et altius, apprehendit universalium contractionem in se et in aliis. Canes enim et cetera animalia eiusdem speciei uniuntur propter naturam communem specificam, quae in eis est; quae etiam in ipsis contracta esset, si Platonis intellectus species ex comparatione similitudinum sibi non fabricaret. Sequitur igitur intelligere esse et vivere, quoad operationem suam, quoniam per operationem suam nec potest dare esse nec vivere nec intelligere; sed intelligere ipsius intellectus, quoad res intellectas, sequitur esse et vivere et intelligere naturae in similitudine. Quare universalia, quae ex comparatione facit, sunt similitudo universalium contractorum in rebus; quae
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tavia, l’universale ha un certo qual essere universale che può essere contratto da parte del singolo ente; non intendo dire che gli universali esistano in atto prima della contrazione, se non secondo questo ordine di natura, ossia come un universale che può essere contratto e che non sussiste in sé, ma solo in ciò che è in atto, così come la linea e la superficie precedono, in ordine progressivo, il corpo, solo nel quale, tuttavia esse esistono in atto. Infatti, poiché l’universo non esiste che in modo contratto, lo stesso vale anche per tutti gli universali. Gli universali, tuttavia, non sono solo degli enti di ragione275, sebbene non li si trovi in atto al di fuori dei singolari. Allo stesso modo, anche la linea e la superficie, per quanto non le si trovi al di fuori del corpo, non sono per questo solo degli enti di ragione, poiché esse esistono nel corpo, come gli universali esistono nei singolari. È l’intelletto, invece, che, mediante l’astrazione, li fa esistere al di fuori delle cose. Il risultato di tale astrazione è certamente un ente di ragione, in quanto all’universale non può convenire un essere assoluto. L’universale del tutto assoluto è infatti Dio. Nel libro sulle Congetture vedremo in che modo l’universale esista per astrazione nell’intelletto276, sebbene questo punto possa risultare sufficientemente chiaro anche da quanto abbiamo detto, dato che, nell’intelletto, l’universale non è che intelletto, per cui vi è presente in maniera contratta e secondo il modo proprio dell’intelletto. L’intendere dell’intelletto, essendo un modo di essere più chiaro e più elevato, apprende la contrazione degli universali sia in se stesso che nelle altre cose. I cani, ad esempio, e tutti gli altri animali della stessa specie, sono unificati in virtù della comune natura specifica che è in loro. Questa natura esisterebbe contratta in essi anche se l’intelletto di Platone non si costruisse il concetto di specie mediante una comparazione delle cose simili. L’intendere, pertanto, per quanto concerne la sua operazione, consegue all’essere e al vivere, dato che, mediante la sua operazione, esso non può conferire né l’essere, né il vivere, né l’intendere. Piuttosto, l’intendere dello stesso intelletto, per quanto concerne gli oggetti che esso intende, consegue, attraverso una similitudine, all’essere, al vivere e all’intelligibilità della natura. Pertanto, gli universali, che l’intelletto forma mediante comparazioni, sono una similitudine degli universali contratti nelle cose. Questi universali sono già presen-
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in ipso intellectu iam sunt contracte, antequam etiam exteris illis notis explicet per intelligere, quod est operari ipsius. Nihil enim intelligere potest, quod non sit iam in ipso contracte ipsum. Intelligendo igitur mundum quendam similitudinarium, qui est in ipso contractus, notis et signis similitudinariis explicat. De unitate et contractione universi in rebus hoc loco satis dictum est. Amplius de trinitate eius subiciamus. 127
CAPITULUM VII
De trinitate universi. Postquam unitas absoluta est necessario trina, non quidem contracte, sed absolute – nam non est aliud absoluta unitas quam trinitas, quae quidem in quadam correlatione humanius apprehenditur, ut de hoc satis in primo libro dictum est –: ita quidem unitas maxima contracta, etiam ut est unitas, est trina; non quidem absolute, ut trinitas sit unitas, sed contracte, ita quod unitas non sit nisi in trinitate, sicut totum in partibus contracte. In divinis unitas non est contracte in Trinitate, ut totum in partibus seu universale in particularibus, sed ipsa unitas est Trinitas. Propterea quaelibet personarum est ipsa unitas; et quoniam unitas est Trinitas, una persona non est alia. In universo vero non potest ita esse. Propter hoc tres illae correlationes, quae in divinis personae vocantur, non habent esse actu nisi in unitate simul. 128 Oportet acute ista advertere. Nam in divinis tanta est perfectio unitatis, quae est Trinitas, quod Pater est actu Deus, Filius actu Deus, Spiritus sanctus actu Deus; Filius et Spiritus sanctus actu in Patre, Filius et Pater in Spiritu sancto, Pater et Spiritus sanctus in Filio. Ita quidem in contracto esse nequit. Nam correlationes non sunt subsistentes per se nisi copulate; neque quaelibet prop
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ti nell’intelletto in modo contratto, prima che, mediante il suo atto intellettivo, che costituisce la sua operazione, l’intelletto li esplichi attraverso quei segni esterni. L’intelletto, infatti, non può intendere nulla che non sia già presente in esso in modo contratto come identico all’intelletto stesso. Nell’intendere, pertanto, l’intelletto esplica, mediante le immagini delle lettere e dei segni, un certo qual mondo di immagini che si trova contratto nell’intelletto stesso277. Dell’unità dell’universo e della sua contrazione nelle cose abbiamo qui detto abbastanza. Vorrei ora aggiungere delle considerazioni più ampie sulla sua trinità. CAPITOLO VII
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La trinità dell’universo L’unità assoluta è necessariamente trina, non in modo contratto, ovviamente, ma in modo assoluto. L’unità assoluta, infatti, non è altro che trinità, che noi cogliamo, in modo più conforme alla condizione umana, per mezzo di una certa reciproca relazione, come abbiamo detto a sufficienza nel primo libro278. In modo simile, anche l’unità massima contratta, in quanto è unità, è trina, non in maniera assoluta, certamente, nel senso cioè che la trinità sia unita, ma in maniera contratta, cosicché l’unità non esiste se non nella trinità, così come il tutto esiste contrattamente nelle sue parti 279. In Dio, l’unità non è nella trinità in modo contratto, come il tutto [è in maniera contratta] nelle sue parti e l’universale nei particolari, ma è l’unità stessa che è trinità. Per questo, ognuna delle persone divine è l’unità stessa. E dato che l’unità è trinità, una persona non è l’altra. Nell’universo, invece, non può essere così. Per questo motivo, quelle tre relazioni reciproche che in Dio si chiamano persone, nell’universo hanno l’essere in atto solo insieme nell’unità. Bisogna prestare grande attenzione a questa differenza. In Dio, infatti, la perfezione dell’unità, che è trinità, è così grande che il padre è Dio in atto, il figlio è Dio in atto, lo spirito è Dio in atto; il figlio e lo spirito santo sono in atto nel padre, il figlio e il padre sono in atto nello spirito santo, il padre e lo spirito santo sono in atto nel figlio. In ciò che è contratto non può certamente essere così. Qui, infatti, le relazioni reciproche non sono per sé sussistenti se non
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terea potest esse universum, sed simul omnes; neque una est in aliis actu, sed sunt eo modo, quo hoc patitur conditio contractionis, perfectissime ad invicem contractae, ut sit ex ipsis unum universum, quod sine illa trinitate esse non posset unum. Non potest enim contractio esse sine contrahibili, contrahente et nexu, qui per communem actum utriusque perficitur. Contrahibilitas vero dicit quandam possibilitatem, et illa ab unitate gignente in divinis descendit, sicut alteritas ab unitate. Dicit enim mutabilitatem et alteritatem, cum in consideratione principii . Nihil enim praecedere videtur posse. Quomodo enim quid esset, si non potuisset esse? Possibilitas igitur ab aeterna unitate descendit. 129 Ipsum autem contrahens, cum terminet possibilitatem contrahibilis, ab aequalitate unitatis descendit. Aequalitas enim unitatis est aequalitas essendi; ens enim et unum convertuntur. Unde, cum contrahens sit adaequans possibilitatem ad contracte istud vel aliud essendum, recte ab aequalitate essendi, quae est Verbum in divinis, descendere dicitur. Et quoniam ipsum Verbum, quod est ratio et idea atque absoluta rerum necessitas, possibilitatem per ipsum tale contrahens necessitat et constringit: hinc ipsum contrahens quidam formam aut animam mundi et possibilitatem materiam vocaverunt; alii fatum in substantia, alii, ut Platonici, necessitatem complexionis, quoniam a necessitate absoluta descendit, ut sit quasi quaedam contracta necessitas et forma contracta, in qua sint omnes formae in veritate, – de quo infra dicetur. 130 Est deinde nexus contrahentis et contrahibilis sive materiae et formae aut possibilitatis et necessitatis complexionis, qui actu perficitur quasi quodam spiritu amoris motu quodam illa unientis. Et
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congiunte insieme; nessuna di esse, pertanto, può essere da sola l’universo, ma lo sono prese tutte insieme; né ciascuna di esse è in atto nelle altre, ma lo sono nel modo consentito dalla condizione della contrazione, ossia contratte nel modo più perfetto l’una rispetto alle altre, in maniera tale che da esse nasca un solo universo unitario280, il quale non potrebbe essere uno senza quella trinità. Non può esservi infatti contrazione senza un elemento contraibile, un elemento contraente e il nesso281, il quale viene portato a compimento mediante l’atto comune ad entrambi. La contraibilità, tuttavia, indica una certa qual possibilità, e questa discende, in Dio, dall’unità generante282. Essa, infatti, significa mutabilità ed alterità283, poiché, prendendo in considerazione il principio, nulla può essere prima dell’unità. Tuttavia, nulla passa all’essere se prima non ha potuto essere. Nulla sembra in effetti precedere il potere. Come vi sarebbe infatti qualcosa, se esso non avesse potuto essere? La possibilità, dunque, discende dall’unità eterna. L’elemento contraente, invece, dal momento che determina la possibilità dell’elemento contraibile, discende dall’eguaglianza dell’unità 284. L’eguaglianza dell’unità è in effetti eguaglianza dell’essere285. L’essere e l’uno, infatti, sono convertibili286. Di conseguenza, dal momento che l’elemento contraente rende la possibilità adeguata ad essere, in modo contratto, questa o quella cosa, si dice giustamente che esso discende dall’eguaglianza dell’essere, la quale, in Dio, è il Verbo. Inoltre, poiché il Verbo, che è il principio razionale, l’idea e la necessità assoluta delle cose, attraverso un tale elemento contraente necessita e costringe la possibilità, alcuni hanno per questo chiamato l’elemento contraente «forma» o «anima del mondo», e la possibilità «materia»287; altri lo hanno chiamato «destino nella sostanza», altri ancora, come i Platonici, «necessità del complesso»288, perché discende dalla necessità assoluta, in modo tale da essere una certa qual necessità contratta e forma contratta, nella quale vi sono tutte le forme nella loro verità. Di questo argomento parleremo più avanti289. C’è poi il nesso tra l’elemento contraibile e l’elemento contraente, ossia tra la materia e la forma, o tra la possibilità e la necessità del complesso; questo nesso viene realizzato in atto da un certo qual spirito d’amore, che unisce i primi due elementi median-
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hic nexus determinata possibilitas a quibusdam nominari consuevit, quoniam posse esse ad actu esse hoc vel illud determinatur ex unione ipsius determinantis formae et determinabilis materiae. Hunc autem nexum a Spiritu sancto, qui est nexus infinitus, descendere manifestum est. Est igitur unitas universi trina, quoniam ex possibilitate, necessitate complexionis et nexu, quae potentia, actus et nexus dici possunt. Et ex hoc quattuor modos universales essendi collige. Nam est modus essendi, qui absoluta necessitas dicitur, ut scilicet Deus est forma formarum, ens entium, rerum ratio sive quidditas; et in hoc essendi modo omnia in Deo sunt ipsa necessitas absoluta. Alius modus est, ut res sunt in necessitate complexionis, in qua sunt rerum formae in se verae cum distinctione et ordine naturae, sicut in mente; an autem hoc ita sit, videbimus infra. Alius modus essendi est, ut res sunt in possibilitate determinata actu hoc vel illud. Et infimus modus essendi est, ut res possunt esse, et est possibilitas absoluta. 131 Tres modi essendi ultimi sunt in una universitate, quae est maximum contractum; ex quibus est unus universalis modus essendi, quoniam nihil sine ipsis esse potest. Dico essendi modos, quoniam non est universalis essendi modus quasi ex tribus illis ut partibus taliter compositus, sicut domus ex tecto, fundamento et pariete; sed ex essendi modis, quoniam rosa, quae est in rosario in potentia in hieme et in actu in aestate, transivit de uno modo essendi possibilitatis ad determinatum actu. Ex quo videmus alium esse essendi modum possibilitatis, alium necessitatis et alium actualis determinationis, ex quibus est unus universalis modus essendi, quoniam sine illis nihil est; neque est unus sine alio actu.
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te una sorta di movimento. E alcuni furono soliti chiamare questo nesso «possibilità determinata», per il fatto che il poter-essere viene determinato ad essere in atto questa o quella cosa dall’unione della forma determinante e della materia determinabile. Ma è chiaro che questo nesso discende dallo spirito santo, il quale è nesso infinito290. L’unità dell’universo è dunque trina, in quanto è costituita dalla possibilità, dalla necessità del complesso e dal nesso, elementi, questi, che si possono chiamare anche potenza, atto e nesso. E da ciò puoi inferire quattro modi universali dell’essere291. C’è infatti un modo dell’essere che viene detto «necessità assoluta», ed è quello per il quale Dio è forma delle forme, ente degli enti, fondamento razionale o entità delle cose. E secondo questo modo dell’essere tutte le cose in Dio sono la stessa necessità assoluta. Un altro modo dell’essere è quello per il quale le cose sono nella necessità del complesso, nella quale si trovano le forme, in sé vere, delle cose con le loro distinzioni e nel loro ordine di natura, e questo è il modo in cui le troviamo nella mente. Se sia proprio così, lo vedremo più avanti292. Un altro modo dell’essere è quello per il quale le cose, nella possibilità determinata, sono in atto questo o quello. Infine, il modo dell’essere più basso è quello per il quale le cose possono essere, ed è il modo della possibilità assoluta. I tre ultimi modi dell’essere si trovano in quell’unica totalità universale che è il massimo contratto293. Essi costituiscono insieme un unico modo universale dell’essere, in quanto, senza di essi, non può esistere nulla. Li chiamo «modi dell’essere», perché il modo universale dell’essere non è composto dagli altri tre come se fossero delle parti, così come una casa è composta dal tetto, dalle fondamenta e dalle pareti, ma è costituito piuttosto da modi dell’essere. La rosa, infatti, che è in potenza nel rosaio in inverno ed è in atto in estate, è passata da un modo di essere, quello della possibilità, ad un altro modo di essere, quello di ciò che è determinato in atto294. Da ciò vediamo che altro è il modo d’essere della possibilità, altro il modo d’essere della necessità ed altro quello della determinazione in atto; questi tre modi dell’essere costituiscono insieme un unico modo universale dell’essere, dato che, senza di essi, non esiste nulla, né l’uno può essere in atto senza l’altro.
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CAPITULUM VIII
De possibilitate sive materia universi. Ut summatim saltem ea, quae nostram ignorantiam doctam efficere possunt, hic enarremus, iam dictos essendi trinos modos aliquantulum discutiamus, a possibilitate inchoantes. De qua multa quidem per veteres dicta sunt, quorum omnium sententia fuit ex nihilo nihil fieri; et ideo quandam absolutam omnia essendi possibilitatem et illam aeternam affirmarunt, in qua omnia possibiliter complicata credebant. Quam quidem materiam seu possibilitatem contrario modo ratiocinando sicut de absoluta necessitate conceperunt, ut per abstractionem formae corporeitatis a corpore, corpus non corporaliter intelligendo. Et ita non nisi ignoranter materiam attigerunt; quomodo enim intelligitur corpus sine forma incorporee? Hanc omnem rem natura praeire dicebant, ita quod numquam verum fuit dicere: ‘Deus est’, quin etiam verum esset dicere: ‘Absoluta possibilitas est’. Non tamen affirmarunt eam Deo coaeternam, quoniam ab ipso est; quae nec est aliquid nec nihil, neque una neque plures, neque hoc neque illud, neque quid neque quale, sed possibilitas ad omnia, et nihil omnium actu. 133 Quam Platonici, quia omni forma caret, carentiam dixerunt. Et quia caret, appetit; et per hoc est aptitudo, quia oboedit necessitati, quae ei imperat – id est attrahit ad esse actu –, sicut cera artifici ex ea aliquid facere volenti. Procedit autem informitas ex carentia et aptitudine, ipsa connectens, ut sit possibilitas absoluta quasi trina incomposite, quoniam carentia et aptitudo et informitas non possunt esse eius partes; alioquin possibilitatem absolutam praece-
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CAPITOLO VIII
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La possibilità o materia dell’universo Per esporre qui, almeno sommariamente, quegli argomenti che possono rendere dotta la nostra ignoranza, vorrei esaminare per un momento i tre modi dell’essere che ho già menzionato, iniziando dalla possibilità. Su di essa molte cose sono state certamente dette dagli antichi, i quali erano tutti dell’opinione che dal nulla non viene nulla295. Per questo motivo, sostennero che vi è una certa possibilità assoluta di essere per tutte le cose, che essi considerarono eterna e nella quale credevano fossero complicate tutte le cose allo stato di possibilità. Essi giunsero a questo concetto della materia o della possibilità con un ragionamento inverso a quello che si fa a proposito della necessità assoluta, come quando, ad esempio, astraendo dal corpo la forma della corporeità, lo si concepisce in maniera non corporea296. E procedendo in questo modo, essi giunsero a cogliere la materia solo nella modalità del non-sapere. Come si può infatti concepire un corpo senza la sua forma e in modo non corporeo?297 Essi dicevano che questa materia o possibilità precede per natura ogni cosa, per cui non sarebbe mai vero dire che «Dio esiste», se non fosse ad un tempo vero anche dire che «la possibilità assoluta esiste». Non sostennero, tuttavia, che la possibilità assoluta sia coeterna a Dio298, poiché dissero che essa deriva da lui. La possibilità assoluta non è né qualcosa, né nulla, non è né una, né molti, non è né questo, né quello, non ha una determinata quantità né ha una determinata qualità, ma è possibilità rispetto a tutte le cose e non è in atto nessuna di esse299. I Platonici chiamarono la possibilità assoluta «mancanza», in quanto essa manca di ogni forma300. E dato che si trova in una condizione di mancanza, essa desidera. E per questo motivo è anche attitudine, perché obbedisce alla necessità che le comanda, ossia l’attrae verso l’essere in atto, così come la cera obbedisce all’artigiano che vuole forgiare qualcosa da essa301. Dalla mancanza e dell’attitudine proviene l’assenza di forma, la quale connette l’una all’altra, cosicché la possibilità assoluta è, in certo qual modo, trina senza essere composta, perché mancanza, attitudine e assenza di forma302 non possono essere sue parti. Altrimenti, infatti, vi sarebbe
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deret aliquid, quod est impossibile. Unde sunt modi, sine quibus possibilitas absoluta talis non esset. Carentia enim contingenter est in possibilitate. Ex eo enim, quod formam non habet, quam habere potest, carere dicitur; ex quo carentia. Informitas vero est quasi forma possibilitatis, quae, ut voluerunt Platonici, est quasi materia formarum. Nam anima mundi materiae secundum ipsam connectitur, quam stirpeam vegetabilitatem dixerunt, ita quod, cum anima mundi possibilitati immiscetur, vegetabilitas illa informis ad actu vegetativam animam perducitur ex motu ab anima mundi descendente et ex mobilitate possibilitatis sive vegetabilitatis. Ex quo affirmarunt ipsam informitatem quasi materiam formarum, quae per sensitivam, rationalem et intellectualem formatur, ut sit actu. 134 Unde Hermes aiebat yle esse corporum nutricem et illam informitatem nutricem animarum; et ex nostris quidam aiebat chaos mundum naturaliter praecessisse et fuisse rerum possibilitatem, in quo ille informis spiritus fuit, in quo omnes animae sunt possibiliter. Unde aiebant veteres Stoici formas omnes in possibilitate actu esse, sed latitare et per sublationem tegumenti apparere, quemadmodum si coclear ex ligno fit per ablationem partium tantum. 135 Peripatetici vero solum possibiliter formas in materia esse dicebant et per efficientem educi. Unde istud verius est, quod scilicet formae non solum sunt ex possibilitate, sed per efficientem. Qui enim tollit in ligno partes, ut fiat ex ligno statua, addit de forma. Et hoc quidem manifestum est. Nam quod ex lapide non potest fieri
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qualcosa che precederebbe la possibilità assoluta, il che è impossibile. Ne consegue che mancanza, attitudine e assenza di forma sono modi, senza i quali la possibilità assoluta non sarebbe tale. La mancanza, infatti, è presente in maniera contingente nella possibilità. Si dice infatti che la possibilità manca di qualcosa per il fatto che non ha la forma che essa può avere. Di qui il nome di mancanza. L’assenza di forma, tuttavia, è in certo qual modo, la «forma» della possibilità, la quale, come vollero i Platonici, è, per così dire, la «materia» delle forme303. L’anima del mondo304, infatti si unisce alla materia seguendo questa forma della possibilità, che essi chiamarono «radice della forza vegetativa», in modo tale che, quando l’anima del mondo si mescola alla possibilità, quella attitudine informe alla vita vegetativa viene condotta ad essere in atto anima vegetativa, grazie ad un movimento che discende dall’anima del mondo e grazie alla mobilità che caratterizza la possibilità o vegetatività. Per questo, essi sostennero che l’assenza di forma è quasi come la materia delle forme, la quale materia viene formata dalla forma sensitiva, razionale e intellettuale, in modo da essere in atto. È per questo che Ermete diceva che la hyle è la nutrice dei corpi, e che quell’assenza di forma è la nutrice delle anime305. E qualcuno dei nostri [filosofi]306 sosteneva che il caos aveva preceduto per natura il mondo e aveva costituito la possibilità delle cose, e che in esso era presente quello spirito informe nel quale sono contenute, allo stato di possibilità, tutte le anime. Per questo, gli antichi Stoici dicevano che tutte le forme sono presenti in atto nella possibilità, ma sono come nascoste ed appaiono rimuovendo ciò che le ricopre, come quando si forma un cucchiaio da un pezzo di legno togliendo semplicemente delle parti del legno307. I Peripatetici, invece, sostenevano che le forme sono presenti nella materia solo allo stato di possibilità e vengono tratte fuori da essa da una causa efficiente308. È pertanto più vero dire che le forme non provengono solo dalla possibilità, ma che provengono da essa in virtù di una causa efficiente. Infatti, colui che toglie da un pezzo di legno delle parti perché dal legno nasca una statua, aggiunge qualcosa tratto dall’ambito della forma. E questo è certamente evidente. Che un artigiano, infatti, non possa ricavare una
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arca per artificem, defectus est materiae; et quod quis alius ab artifice ex ligno eam efficere nequit, defectus est in efficiente. Requiritur igitur materia et efficiens. Et hinc formae quodammodo possibiliter sunt in materia, quae ad actum secundum convenientiam efficientis deducuntur. Sic in possibilitate absoluta universitatem rerum possibiliter dixerunt. Et est ipsa possibilitas absoluta interminata et infinita propter carentiam formae et aptitudinem ad omnes, ut possibilitas figurandi ceram in leonis aut leporis figuram aut alterius cuiuscumque interminata est. Et ista infinitas contraria est infinitati Dei, quia ista est propter carentiam, Dei vero propter habundantiam, quoniam omnia in ipso ipse actu. Ita infinitas materiae est privativa, Dei negativa. Haec est positio eorum, qui de possibilitate absoluta locuti sunt. 136 Nos autem per doctam ignorantiam reperimus impossibile fore possibilitatem absolutam esse. Nam cum inter possibilia nihil minus esse possit quam possibilitas absoluta, quae est propinquissime circa non-esse (secundum etiam positionem auctorum), hinc ad minimum deveniretur atque ad maximum in recipientibus magis et minus, quod est impossibile. Quare possibilitas absoluta in Deo est Deus, extra ipsum vero non est possibilis; numquam enim est dabile aliquid, quod sit in potentia absoluta, cum omnia praeter primum necessario sint contracta. Si enim reperiuntur diversa in mundo ita se habentia, quod ex uno possunt plura esse quam ex alio, ad maximum et minimum simpliciter et absolute non devenitur; sed quia ista reperiuntur, patet absolutam possibilitatem non esse dabilem. 137 Omnis igitur possibilitas contracta est; per actum autem contrahitur. Quare non reperitur pura possibilitas, penitus indeterminata per quemcumque actum; neque aptitudo possibilitatis potest esse
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cassa da una pietra, questo dipende dalla deficienza del materiale, ma che una persona diversa dall’artigiano non riesca fare una cassa dal legno, questo dipende da una deficienza nella causa efficiente. Di conseguenza, sono necessarie sia la materia, sia la causa efficiente. Le forme, quindi, sono in certo qual modo presenti nella materia allo stato di possibilità, ed esse vengono portate all’atto in base alla capacità della causa efficiente. In questo mondo, i Peripatetici hanno detto che, nella possibilità assoluta, è presente, allo stato di possibilità, la totalità delle cose. E questa possibilità assoluta è illimitata e infinita, data la sua mancanza di forma e la sua attitudine a ricevere tutte le forme, così come è illimitata la possibilità di modellare la cera nella figura di un leone o di una lepre, o di qualsiasi altra cosa. Ora, questa infinità è di tipo contrario rispetto all’infinità di Dio, perché essa è dovuta ad una mancanza, mentre l’infinità di Dio è dovuta ad un’abbondanza, perché in Dio tutte le cose sono in atto Dio stesso. Pertanto, l’infinità della materia è privativa, quella di Dio è negativa309. Queste sono le dottrine di coloro che hanno trattato della possibilità assoluta. Noi, invece, grazie la dotta ignoranza, scopriamo che è impossibile che vi sia una possibilità assoluta. Tra le cose possibili, infatti, nessuna potrebbe avere un essere minore della possibilità assoluta, la quale, anche secondo la dottrina degli autori di cui abbiamo parlato, è ciò che vi è di più vicino al non-essere310; di conseguenza, se vi fosse una possibilità assoluta, si perverrebbe, nell’ambito delle cose che ammettono un di più e un di meno, ad un minimo e ad un massimo, il che è impossibile. Pertanto, in Dio la possibilità assoluta è Dio, mentre al di fuori di Dio essa non è possibile. Non può mai darsi infatti qualcosa che sia in potenza in senso assoluto, poiché tutte le cose, tranne il primo, sono necessariamente contratte. Se nel mondo, infatti, si trovano cose diverse che si rapportano fra di loro in modo tale che da una possono provenire più cose che da un’altra, allora non si perviene mai al massimo e al minimo in quanto tali e in senso assoluto. Ma dato che si trovano di queste cose, è chiaro che non può darsi una possibilità assoluta. Ogni possibilità, quindi, è contratta. Essa viene tuttavia contratta dall’atto. Pertanto, non si trova una possibilità pura che sia del tutto indeterminata rispetto a qualsiasi atto. Ed anche l’attitu-
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infinita et absoluta, omni carens contractione. Deus enim, cum sit actus infinitus, non est nisi causa actus. Sed possibilitas essendi est contingenter. Si igitur possibilitas est absoluta, cui contingit? Contingit autem possibilitas per hoc, quod esse a primo non potest esse penitus et simpliciter et absolute actus. Quare contrahitur actus per possibilitatem, ut non sit absolute nisi in potentia; et potentia non est absolute, nisi per actum sit contracta. Cadunt autem differentiae et graduationes, ut unum magis actu sit, aliud magis potentia, absque hoc quod deveniatur ad maximum et minimum simpliciter, quoniam maximus et minimus actus coincidunt cum maxima et minima potentia et sunt maximum absolute dictum, ut in primo libro est ostensum. 138 Amplius, nisi possibilitas rerum contracta esset, non posset ratio rerum haberi, sed casu omnia essent, ut voluit falso Epicurus. Quod enim hic mundus prodiit rationabiliter ex possibilitate, ex eo necessario fuit, quia possibilitas ad essendum mundum istum tantum aptitudinem habuit. Contracta igitur et non absoluta fuit aptitudo possibilitatis. Ita de terra et sole et ceteris, quae, nisi quadam contracta possibilitate latitassent in materia, non maior ratio fuisset, cur ad actum potius quam non prodiissent. 139 Unde, quamvis Deus infinitus sit et mundum secundum hoc infinitum creare potuisset, tamen – quia possibilitas necessario contracta fuit, et non penitus absoluta nec infinita aptitudo – hinc secundum possibilitatem essendi mundus actu infinitus aut maior aut aliter esse non potuit. Contractio autem possibilitatis ex actu est, actus autem ab ipso maximo actu est. Quare, cum contractio possibilitatis sit ex Deo et contractio actus ex contingenti, hinc mundus necessario contractus ex contingenti finitus est. Unde ex noti-
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dine della possibilità non può essere infinita e assoluta, priva di ogni contrazione. Dio, infatti, essendo infinito, è causa solo di enti in atto. La possibilità dell’essere esiste invece in modo contingente. Se vi fosse pertanto una possibilità assoluta, rispetto a che cosa essa sarebbe contingente? Ora, la possibilità è contingente per il fatto che l’essere che deriva dal primo [principio] non può essere interamente e in senso assoluto atto. L’atto, pertanto, viene contratto dalla possibilità, in modo tale che esso non esiste in senso assoluto, se non secondo la potenza311. E la potenza non esiste in senso assoluto, in quanto non esiste se non contratta dall’atto. Vi sono tuttavia differenze e gradi, cosicché una cosa è più in atto e un’altra più in potenza, senza che con ciò si pervenga al massimo e al minimo in quanto tali, poiché l’atto massimo e l’atto minimo coincidono con la potenza massima e minima, e sono il massimo in senso assoluto, come abbiamo mostrato nel primo libro312. Inoltre, se la possibilità delle cose non fosse contratta, non potrebbe esservi alcuna ragione delle cose, ma tutto sarebbe a caso, come volle falsamente Epicuro313. Infatti, che la processione di questo mondo dalla possibilità sia avvenuta in modo razionale, è dipeso necessariamente dal fatto che la possibilità ebbe un’attitudine ad essere questo mondo soltanto. L’attitudine della possibilità era pertanto contratta e non assoluta. Lo stesso vale per la terra, per il sole e per le altre realtà: se esse non fossero state presenti in modo latente nella materia, nei termini di una qualche possibilità contratta, non vi sarebbe stata ragione che uscissero all’atto piuttosto che non ne uscissero. Di conseguenza, sebbene Dio sia infinito e avrebbe potuto creare un mondo infinito, tuttavia, poiché la possibilità era necessariamente contratta e non aveva un’attitudine del tutto assoluta e infinita, il mondo, conformemente alla sua possibilità d’essere, non ha potuto essere in atto infinito, né ha potuto essere più grande e diverso da com’è. La contrazione, tuttavia, proviene dall’atto, ma l’atto deriva a sua volta dall’atto massimo stesso. Pertanto, dal momento che la contrazione della possibilità proviene da Dio e la contrazione dell’atto dipende dalla contingenza, ne discende che il mondo, che è necessariamente contratto, è finito come conseguenza della contingenza. La conoscenza della possibilità ci conduce quindi a vede-
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tia possibilitatis videmus, quomodo maximitas contracta evenit ex possibilitate necessario contracta; quae quidem contractio non est ex contingenti, quia per actum. Et ita universum rationabilem et necessariam causam contractionis habet, ut mundus, qui non est nisi esse contractum, non sit contingenter a Deo, qui est maximitas absoluta. 140 Et hoc quidem singularius considerandum. Unde, cum possibilitas absoluta sit Deus, si mundum consideramus ut in ipsa est, tunc est ut in Deo et est ipsa aeternitas; si ut est in possibilitate contracta consideramus, tunc possibilitas natura tantum mundum praecedit, et non est illa possibilitas contracta nec aeternitas nec Deo coaeterna, sed cadens ab ipsa, ut contractum ab absoluto, quae distant per infinitum. Hoc enim modo ea, quae de potentia aut possibilitate sive materia dicuntur, secundum regulas doctae ignorantiae limitari necesse est. Quomodo autem possibilitas ad actum gradatim progrediatur, libro De coniecturis tangendum relinquimus. 141
CAPITULUM IX
De anima sive forma universi. Sapientes omnes in hoc concordant, quod posse esse ad actu esse non potest nisi per actu esse deduci, quoniam nihil seipsum ad actu esse producere potest, ne sit sui ipsius causa; esset enim, antequam esset. Unde illud, quod possibilitatem actu esse facit, ex intentione agere dixerunt, ut ordinatione rationabili possibilitas ad actu esse deveniret et non casu. 142 Hanc excelsam naturam alii mentem, alii intelligentiam, alii animam mundi, alii fatum in substantia, alii – ut Platonici – necessitatem complexionis nominarunt, qui aestimabant possibilitatem necessitate per ipsam determinari, ut sit nunc actu, quod prius na-
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re come la massimità contratta provenga dalla possibilità, che è necessariamente contratta. E questa contrazione, certamente, non dipende dalla contingenza, in quanto è dovuta all’atto. E così, l’universo ha una causa razionale e necessaria della sua contrazione, in modo tale che il mondo, che non è che un essere contratto, non deriva in modo contingente da Dio, il quale è la massima unità assoluta. Questo punto va certamente considerato in maniera più dettagliata. Ora, la possibilità assoluta è Dio; se, pertanto, consideriamo il mondo com’esso è nella possibilità assoluta, il suo modo d’essere è quello che è proprio di tutto ciò che è in Dio, per cui il mondo è la stessa eternità. Se consideriamo il mondo nella possibilità contratta, in questo caso la possibilità precede il mondo solo per natura, e quella possibilità contratta non è nell’eternità, né è coeterna a Dio, ma discende dall’eternità ed è ad essa inferiore, come il contratto discende dall’assoluto ed è ad esso inferiore, e la distanza che li separa è infinita. È in questo modo, pertanto, che bisogna specificare, secondo le regole della dotta ignoranza, le affermazioni che sono state fatte a proposito della potenza o possibilità o materia. La trattazione invece del modo in cui la possibilità progredisce gradualmente all’atto, la lasciamo al libro sulle Congetture314. CAPITOLO IX
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L’anima o forma dell’universo Tutti i sapienti concordano nel sostenere che il poter-essere non può passare all’atto se non in virtù di un essere [già] in atto, perché nulla può portare se stesso all’atto, se non si vuole che sia causa di sé. In questo caso, infatti, sarebbe prima di essere315. Per questo motivo, essi dissero che ciò che conduce all’atto la possibilità agisce intenzionalmente, cosicché la possibilità giunge ad essere in atto secondo un ordinamento razionale e non a caso. Alcuni hanno chiamato questa natura eccelsa «mente», altri «intelligenza», altri «anima del mondo», altri «fato nella sostanza», altri, come i Platonici, «necessità del complesso»316, attraverso la quale, a loro avviso, la possibilità viene determinata dalla necessità ad essere ora in atto ciò che, per natura, poté prima esse-
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tura potuit. In illa enim mente formas rerum actu intelligibiliter esse aiebant sicut in materia possibiliter, et quod ipsa necessitas complexionis in se veritatem habens formarum cum hiis, quae ipsas concomitantur, secundum naturae ordinem moveret caelum, ut mediante motu tamquam instrumento possibilitatem ad actum et, quanto conformius posset, conceptui veritatis intelligibili aequale deduceret; concedentes formam, ut in materia est, per hanc operationem mentis mediante motu esse imaginem verae intelligibilis formae, et ita non veram, sed verisimilem. Et ita aiebant Platonici non tempore, sed natura prius esse formas veras in anima mundi quam in rebus. Quod Peripatetici non concedunt, quoniam dicunt formas aliud esse non habere nisi in materia et per abstractionem in intellectu, quae sequitur rem, ut patet. 143 Placuit autem Platonicis talia distincta exemplaria in necessitate complexionis plura cum naturali ordine ab una infinita ratione esse, in qua omnia sunt unum. Non tamen ab illa ista exemplaria creata crediderunt, sed taliter descendere, quod numquam fuit verum dicere ‘Deus est’, quin etiam esset verum ‘anima mundi est’; affirmantes eam esse explicationem mentis divinae, ut omnia, quae in Deo sunt unum exemplar, sint in mundi anima plura et distincta; addentes Deum naturaliter praecedere hanc complexionis necessitatem, et ipsam animam mundi praecedere naturaliter motum, et motum ut instrumentum explicationem temporalem rerum, ita quod illa, quae veraciter essent in anima, possibiliter in materia per motum temporaliter explicarentur. Quae quidem temporalis expli-
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re solo in potenza. I Platonici sostenevano che le forme delle cose sono presenti in atto in quella mente come suoi contenuti intelligibili317, così come nella materia esse sono presenti in maniera potenziale; dicevano, inoltre, che la stessa necessità del complesso, la quale contiene in sé la verità delle forme insieme con le proprietà che le accompagnano, muove il cielo secondo l’ordine della natura, in modo tale che, servendosi di questo movimento come di uno strumento, essa conduce la possibilità all’atto e la rende quanto più possibile conforme ed eguale al concetto della verità intelligibile. Essi, tuttavia, ammettevano che la forma, così come esiste nella materia, grazie a quest’operazione compiuta dalla mente con la mediazione del movimento, è un’immagine della vera forma intelligibile, e pertanto non è una forma vera, ma verosimile318. Per questo motivo, i Platonici sostenevano che le forme vere sono nell’anima del mondo prima che nelle cose, secondo una priorità non temporale ma di natura319. Questo è un punto che i Peripatetici non ammettono320, poiché sostengono che le forme non hanno altro essere che nella materia e, per astrazione, nell’intelletto, astrazione che, com’è evidente, è successiva alla cosa. Secondo l’opinione dei Platonici, tuttavia, questi esemplari, che, distinti fra loro, sono presenti nella necessità del complesso come molteplici, discendono, secondo un ordine naturale, da un unico principio razionale infinito, nel quale essi sono tutti un’unità321. I Platonici, tuttavia, non ritenevano che tali esemplari fossero stati creati da quel principio, ma pensavano che discendessero da esso, in modo tale che l’affermazione «Dio esiste» non è mai vera se non è anche vera l’affermazione «l’anima del mondo esiste». Ed essi sostenevano che l’anima del mondo è l’esplicazione della mente divina, cosicché tutto ciò che in Dio costituisce un unico esemplare, nell’anima del mondo è dispiegato in una molteplicità di esemplari distinti. A ciò essi aggiungevano che Dio precede per natura questa necessità del complesso, che la stessa anima del mondo precede per natura il movimento, e che il movimento, in quanto strumento, precede l’esplicazione delle cose nel tempo, cosicché ciò che è presente in modo vero nell’anima del mondo e allo stato potenziale nella materia viene esplicato nel tempo attraverso il movimento. Quest’esplicazione nel tempo segue l’ordine naturale che è presente
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catio sequitur ordinem naturalem, qui est in anima mundi et dicitur fatum in substantia; et eius explicatio temporalis est fatum ab illo descendens actu et opere nominatum a plerisque. 144 Et ita modus essendi in anima mundi est, secundum quem dicimus mundum intelligibilem. Modus essendi actu per determinationem possibilitatis actu per explicationem, ut iam dictum est, est modus essendi, secundum quem iste mundus est sensibilis secundum eos. Neque voluerunt illas formas, ut sunt in materia, esse alias ab illis, quae sunt in anima mundi, sed tantum secundum modum essendi differenter, ut in anima mundi veraciter et in se, in materia verisimiliter, non in sua puritate, sed cum obumbratione; adicientes veritatem formarum solum per intellectum attingi, per rationem, imaginationem et sensum non, sed imagines, prout formae sunt permixtae possibilitati; et quod propterea non vere attingerent quidquam, sed opinative. 145 Ab hac mundi anima omnem motum descendere putarunt, quam totam in toto et in qualibet parte mundi esse dixerunt, licet non easdem virtutes in omnibus partibus exerceat; sicut anima rationalis in homine non exercet in capillis et in corde eandem operationem, licet tota sit in toto et in qualibet parte. Unde in ipsa omnes animas complicari voluerunt, sive in corporibus sive extra, quoniam per totum universum eam diffusam dixerunt, non per partes, quia simplex et impartibilis est, sed totam in terra, ubi terram connectit, totam in lapide, ubi partium tenacitatem operatur, totam in aqua, totam in arboribus, et ita de singulis. Et quoniam ipsa est prima explicatio circularis – mente divina se ut pun-
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nell’anima del mondo e che viene chiamato «fato nella sostanza». E l’esplicazione nel tempo di questo «fato nella sostanza» è quel destino di cui molti parlano, il quale discende da esso [dal «fato nella sostanza»] e si trova nella realtà in atto e nelle azioni322. E così, il modo d’essere che è nell’anima del mondo è quello per il quale parliamo di un mondo intelligibile. Il modo d’essere in atto, che, come abbiamo già detto, risulta dalla determinazione in atto della possibilità che si realizza attraverso l’esplicazione, è quel modo d’essere per il quale, ad avviso dei Platonici, questo mondo è un mondo sensibile. Ed essi hanno sostenuto che le forme che sono nella materia non sono diverse da quelle che sono nell’anima del mondo, ma che se si differenziano solo per il rispettivo modo d’essere: nell’anima del mondo sono in modo vero e in se stesse, nella materia sono in un modo che è simile al vero, non nella loro purezza, ma in uno stato umbratile323. Aggiungono, inoltre, che la verità delle forme viene colta solo mediante l’intelletto, e non mediante la ragione, l’immaginazione e i sensi; mediante queste facoltà giungiamo a cogliere solo le immagini delle forme, a seconda di come le forme sono mescolate con la possibilità. Ed è per questo che, qualunque cosa queste facoltà giungano a cogliere, non la colgono con verità, ma solo sotto forma di opinione324. I Platonici pensarono che ogni movimento discendesse da quest’anima del mondo, la quale, a loro avviso, è presente tutta intera in tutto il mondo e in ciascuna delle sue parti, anche se non esercita in tutte le parti le medesime funzioni, così come nell’uomo l’anima razionale non esercita la stessa operazione nei capelli e nel cuore, sebbene essa sia presente tutta intera in tutto il corpo e in ciascuna delle sue parti325. Per questo motivo, i Platonici hanno sostenuto che nell’anima del mondo sono complicate tutte le anime, sia quelle che si trovano nei corpi, sia quelle che ne stanno fuori, perché, a loro avviso, l’anima del mondo è diffusa per tutto l’universo, e non mediante delle sue parti, in quanto è semplice e indivisibile, ma tutta intera nella terra, dove opera la connessione della terra, tutta intera nella pietra, dove produce la coesione delle parti, tutta intera nell’acqua, tutta intera nelle piante, e così via per ogni singola cosa. E poiché essa è la prima esplicazione del movimento circolare – la mente divina è come se fosse il centro e l’a-
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cto centrali habente et anima mundi ut circulo centrum explicante – et complicatio naturalis omnis temporalis ordinis rerum, ideo ipsam propter discretionem et ordinem ‘numerum se moventem’ dixerunt ac esse ex eodem et diverso affirmarunt. Quam etiam solo numero ab anima hominis differre putabant, ut, sicut hominis anima ad hominem se habet, ita ipsa ad universum, credentes omnes animas ab ipsa et in ipsam finaliter resolvi, si demerita non obstarent. 146 Multi Christianorum illi viae Platonicae acquieverunt. Ex eo praesertim, cum alia sit ratio lapidis, alia hominis, et in Deo non cadat distinctio et alietas, necessarium putabant has rationes distinctas, secundum quas res distinctae sunt, post Deum et ante res esse, cum ratio rem praecedat, et hoc in intelligentia rectrice orbium, quodque ipsae tales distinctae rationes notiones sint rerum in ipsa anima mundi numquam delebiles. Immo ipsam animam ex omnibus omnium notionibus esse voluerunt, ita quod omnes notiones in ipsa substantia sint ipsius, licet dictu et cognitu hoc asserant difficile. Hoc quidem auctoritate divinae Scripturae astruunt. «Dixit enim Deus ‘Fiat lux’, et facta est lux.» Si enim lucis veritas prius naturaliter non fuisset, quomodo dixisset: ‘Fiat lux’? Postquam autem temporaliter fuit explicata illa lux, quare potius dicta lux quam aliquid aliud fuisset, si non fuisset prius lucis veritas? Et multa consimilia tales adducunt pro fortificatione huius. 147 Peripatetici vero quamvis fateantur opus naturae esse opus intelligentiae, exemplaria tamen illa non admittunt; quos certe, nisi per intelligentiam Deum intelligant, deficere puto. Nam si non est
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nima del mondo il cerchio che esplica il centro326 – ed è la complicazione naturale di tutto l’ordine temporale delle cose, per questo, data la differenziazione e l’ordine che la caratterizzano, i Platonici l’hanno chiamata «numero che muove se stesso»327, e hanno sostenuto che essa è composta dell’identico e del diverso328. Essi ritenevano anche che l’anima del mondo differisse dall’anima dell’uomo solo di numero, in modo tale che essa sta all’universo come l’anima dell’uomo sta all’uomo329, e credevano che tutte le anime discendessero dell’anima del mondo e che alla fine si risolvessero di nuovo in essa, se non avevano colpe che ne impedivano il ritorno. Molti cristiani hanno aderito a questa via platonica. E lo hanno fatto soprattutto sulla base di questa considerazione: dal momento che la ragion d’essere della pietra è diversa dalla ragion d’essere dell’uomo, mentre in Dio non vi è alcuna distinzione e alterità, essi hanno ritenuto necessario che queste distinte ragioni, grazie alle quali anche le cose sono distinte, fossero posteriori a Dio e anteriori alle cose, dato che la ragion d’essere precede sempre la cosa; per questo, le hanno collocate nell’intelligenza che regge i cieli, e hanno ritenuto che tali ragioni distinte fossero le nozioni delle cose impresse in maniera indelebile nella stessa anima del mondo. Ed anzi, pur riconoscendo che si trattava di una cosa difficile da pensare e da dire, essi hanno sostenuto che l’anima del mondo è costituita da tutte le nozioni di tutte le cose, in modo tale che la sostanza dell’anima è formata da tutte queste nozioni che sono presenti in lei330. Certamente, questi cristiani sostengono tale concezione fondandosi sull’autorità della divina Scrittura: «Dio disse “sia fatta la luce”, e la luce fu fatta»331. Se la verità della luce non fosse per natura già precedentemente esistita, in che modo Dio avrebbe potuto dire: «Sia fatta la luce»? E dopo che venne realizzata nel tempo l’esplicazione di quella luce, per quale motivo sarebbe stata chiamata proprio «luce» piuttosto che in qualche altro modo, se non ci fosse stata prima la verità della luce? Ed essi adducono molti altri argomenti simili a questi a sostegno della loro concezione332. I Peripatetici, invece, sebbene riconoscano che l’opera della natura è opera dell’intelligenza, non ammettono, tuttavia, l’esistenza di quegli esemplari. Io ritengo che essi abbiano sicuramente torto, a meno che per «intelligenza» non intendano Dio. Se nell’intelli-
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notitia in intelligentia, quomodo movet secundum propositum? Si est notitia rei explicandae temporaliter, quae est ratio motus, talis a re, quae nondum est temporaliter, abstrahi non potuit. Si igitur est notitia sine abstractione, certe tunc est illa, de qua loquuntur Platonici, quae non est a rebus, sed res secundum eam. Unde Platonici non voluerunt tales rerum rationes esse quid distinctum et diversum ab ipsa intelligentia, sed potius quod tales distinctae inter se unam quandam intelligentiam simplicem, in se omnes rationes complicantem, efficerent; ut quamvis ratio hominis non sit ratio lapidis, sed sint distinctae rationes, tamen ipsa humanitas, a qua descendit homo sicut ab albedine album, non habet aliud esse quam in ipsa intelligentia secundum naturam intelligentiae intelligibiliter et in ipsa re realiter; non quod sit alia humanitas Platonis et alia separata, sed eadem secundum diversos modos essendi, existens prius naturaliter in intelligentia quam materia, non prius tempore, sed sicut ratio rem natura praecedit. 148 Acute satis atque rationabiliter locuti sunt Platonici, forte irrationabiliter per Aristotelem reprehensi, qui potius in cortice verborum quam medullari intelligentia eos redarguere nisus est. Sed quid sit verius, per doctam ignorantiam eliciemus. Nam ostensum est non perveniri ad maximum simpliciter, et ita non posse esse aut absolutam potentiam aut absolutam formam sive actum, qui non sit Deus; et quod non sit ens praeter Deum non contractum, et quod non est nisi una forma formarum et veritas veritatum, et non est alia veritas maxima circuli quam quadranguli. Unde formae rerum non sunt distinctae, nisi ut sunt contracte; ut sunt ab-
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genza, infatti, non c’è alcuna conoscenza, come può essa muovere secondo un fine? Dall’altro lato, se c’è una conoscenza della cosa che deve essere esplicata nel tempo, tale conoscenza, che è anche la ragion d’essere del movimento, non ha potuto essere ricavata per astrazione da una cosa che ancora non esisteva nel tempo. Se c’è, dunque, una conoscenza che non viene acquisita per astrazione, si tratta allora certamente della conoscenza di cui parlano i Platonici, la quale non è tratta dalle cose, ma sono piuttosto le cose che esistono grazie ad essa. I Platonici, pertanto, non hanno inteso dire che tali ragioni d’essere delle cose siano qualcosa di distinto e di diverso dalla stessa intelligenza; essi hanno piuttosto sostenuto che tali ragioni, distinte fra loro, costituiscono insieme un’unica intelligenza semplice, che complica in se stessa tutte le ragioni. Pertanto, sebbene la ragion d’essere dell’uomo non sia la ragion d’essere della pietra, ma si tratta di ragioni distinte, l’umanità, tuttavia, dalla quale discende l’uomo, come il bianco discende dalla bianchezza, non ha altro essere che quello intelligibile e quello reale: quello intelligibile nell’intelligenza, conformemente alla natura dell’intelligenza, quello reale nella cosa. Questo non significa che vi sia l’umanità di Platone e un’altra umanità separata da essa, ma si tratta della medesima umanità che esiste secondo modi d’essere diversi: essa esiste per natura prima nell’intelligenza e poi nella materia, prima non in senso temporale, ma prima come la ragion d’essere precede per natura la cosa333. I Platonici hanno parlato con sufficiente acume e in modo ragionevole, e sono stati criticati, in maniera forse non ragionevole, da Aristotele, il quale si è sforzato di confutarli considerando l’esteriorità delle parole più che il contenuto profondo delle loro dottrine. Ma quale posizione si avvicini di più alla verità, potremo accertarlo mediante la dotta ignoranza. Abbiamo già mostrato che non si può pervenire al massimo in quanto tale334, e che, pertanto, non può esistere alcuna potenza assoluta, o forma assoluta, o atto che non sia Dio; abbiamo inoltre mostrato che, tranne Dio, non vi è alcun ente che non sia contratto335, che non vi è che un’unica forma delle forme e un’unica verità delle verità336, e che la verità massima del cerchio non è diversa dalla verità massima del quadrangolo337. Ne consegue che le forme delle cose sono distinte fra loro
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solute, sunt una indistincta, quae est Verbum in divinis. Anima igitur mundi non habet esse nisi cum possibilitate, per quam contrahitur, et non est ut mens separata a rebus aut separabilis. Nam si de mente consideremus, prout separata est a possibilitate, ipsa est mens divina, quae solum penitus actu est. Non est igitur possibile plura distincta exemplaria esse. Quodlibet enim ad sua exemplata esset maximum atque verissimum; sed hoc non est possibile, ut plura maxima et verissima sint. Unum enim infinitum exemplar tantum est sufficiens et necessarium, in quo omnia sunt ut ordinata in ordine, omnes quantumcumque distinctas rerum rationes adaequatissime complicans; ita quod ipsa infinita ratio est verissima ratio circuli, et non maior nec minor nec diversa aut alia; et ipsamet est ratio quadranguli, non maior nec minor nec diversa; et ita de reliquis, ut ex exemplo lineae infinitae comprehendi potest. 149 Nos autem rerum diversitates videntes admiramur, quomodo unica ratio simplicissima omnium sit etiam diversa singulorum. Quod tamen necessarium scimus ex docta ignorantia, quae diversitatem in Deo ostendit identitatem. In hoc enim, quod videmus diversitatem rationum rerum omnium verissime esse, tunc in hoc, quod hoc est verissimum, apprehendimus unam omnium rationem verissimam, quae est ipsa veritas maxima. Quando igitur dicitur Deum alia ratione creasse hominem, alia lapidem, verum est habendo respectum ad res, non ad creantem, – sicut in numeris videmus: Ternarius est ratio simplicissima non recipiens nec magis nec minus, in se una; ut autem ad res diversas refertur, secundum hoc
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solo in quanto esistono in modo contratto. Considerate nel loro essere assoluto [ossia indipendentemente dalla contrazione], esse costituiscono un’unica forma priva di distinzioni, che è il Verbo in Dio338. Di conseguenza, l’anima del mondo [di cui parlano i Platonici] non ha l’essere se non in connessione con la possibilità, dalla quale risulta contratta, e non è separata o separabile dalle cose come la mente. Se consideriamo infatti la mente in quanto separata dalla possibilità, essa è la mente divina, la quale sola è del tutto in atto. Non è quindi possibile che vi sia una molteplicità di esemplari distinti gli uni dagli altri. Ciascuno di essi, infatti, rispetto alle cose di cui è l’esemplare, sarebbe l’esemplare massimo e quello assolutamente più vero. Non è tuttavia possibile che vi siano più realtà massime e assolutamente vere. Un unico esemplare infinito è in effetti sufficiente e necessario; in esso sono contenute tutte le cose come le cose ordinate sono nell’ordine, ed esso complica, in maniera del tutto adeguata, tutte le ragioni delle cose, per quanto distinte esse siano le une dalle altre, cosicché la medesima ragione infinita è la ragion d’essere assolutamente vera del cerchio, e non è maggiore, né minore di esso, né diversa o altra. Ed è, ad un tempo, la ragion d’essere del quadrato, né maggiore, né minore, né diversa da esso. E lo stesso vale per tutte le altre cose, come si può comprendere sulla base dell’esempio della linea infinita339. Noi, tuttavia, vedendo la diversità delle cose, ci chiediamo con stupore come sia possibile che un’unica ragione semplicissima di tutte le cose sia anche la ragion d’essere, rispettivamente diversa, delle singole cose. Che questo sia necessario lo sappiamo tuttavia dalla dotta ignoranza, la quale mostra che la diversità in Dio è identità. Noi riconosciamo, infatti, che è assolutamente vero che vi è una diversità di ragioni per tutte le cose; ma proprio da ciò, ossia dal fatto che questo è assolutamente vero, ci rendiamo conto che vi è un’unica ragione assolutamente vera di tutte le cose, che è la stessa verità massima. Pertanto, quando si dice che Dio mediante una ragion d’essere ha creato l’uomo e mediante un’altra ha creato la pietra, ciò è vero in riferimento alle cose, ma non è vero in riferimento al creatore, come possiamo vedere nel caso dei numeri. Il tre è una ragione semplicissima, che non ammette il più e il meno e che è in se stessa una. Se lo riferiamo tuttavia a cose diverse, esso
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alia ratio existit. Nam alia est ratio ternarii triangulorum in triangulo; alia materiae, formae et compositi in substantia; alia patris, matris et filii, aut trium hominum et trium asinorum. Unde necessitas complexionis non est, ut posuerunt Platonici, scilicet mens minor gignente, sed est Verbum et Filius aequalis Patri in divinis, et dicitur logos seu ratio, quoniam est ratio omnium. Nihil est ergo illud, quod de imaginibus formarum Platonici dixerunt, quoniam non est nisi una infinita forma formarum, cuius omnes formae sunt imagines, ut superius quodam loco diximus. 150 Oportet igitur acute intelligere ista, quoniam anima mundi est Oportet igitur acute intelligere ista, quoniam anima mundi est consideranda ut quaedam forma universalis in se complicans omnes formas, non tamen existens actu nisi contracte in rebus, quae in qualibet re est forma contracta rei, uti de universo superius dictum est. Est igitur Deus causa efficiens et formalis atque finalis omnium, qui efficit in Verbo uno omnia quantumcumque diversa inter se. Et nulla potest esse creatura, quae non sit ex contractione diminuta, ab ipso opere divino per infinitum cadens. Solus Deus est absolutus, omnia alia contracta. Nec cadit eo modo medium inter absolutum et contractum, ut illi imaginati sunt, qui animam mundi mentem putarunt post Deum et ante contractionem mundi. Solus enim Deus anima et mens mundi est eo modo, quo anima quasi quid absolutum, in quo omnes rerum formae actu sunt, consideratur. Philosophi quidem de Verbo divino et maximo absoluto sufficienter instructi non erant; ideo mentem et animam ac necessitatem in quadam explicatione necessitatis absolutae sine contractione considerarunt. Non sunt igitur formae actu nisi in Verbo ipsum Verbum et in rebus contracte. Formae autem, quae sunt in natura intellectuali crea-
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diventa in questo modo una ragion d’essere di volta in volta diversa. Una cosa, infatti, è la ragion d’essere del numero tre per quanto riguarda i tre angoli di un triangolo, altra è la ragion d’essere del tre per quanto riguarda la materia, la forma e il composto nella sostanza, altra ancora quella relativa alla triade di padre, madre e figlio, o quella che distingue tre uomini e tre asini. Di conseguenza, la necessità del complesso non è, come ritennero i Platonici, una mente inferiore rispetto al principio che la genera, ma è il Verbo e il figlio di Dio, uguale al Padre; ed egli viene chiamato logos o ragione perché è il principio razionale di tutte le cose. Quanto i Platonici hanno detto a proposito delle immagini delle forme è quindi falso, in quanto non c’è che un’unica e infinita forma delle forme340, della quale tutte le forme sono immagini, come abbiamo detto in precedenza in un altro passo341. È necessario pertanto comprendere con molta precisione questo punto: l’anima del mondo dev’essere considerata come una sorta di forma universale che complica insieme tutte le forme342, la quale, tuttavia, esiste in atto solo in modo contratto nelle cose e, in ogni cosa, è la forma contratta di quella cosa, come abbiamo detto in precedenza a proposito dell’universo343. Dio e non l’anima [del mondo] è quindi la causa efficiente, formale e finale di tutte le cose, il quale produce, in un Verbo unico, tutti gli esseri, per quanto diversi essi siano fra loro. E non può esservi alcuna creatura che non risulti diminuita dalla contrazione e che non si trovi ad una distanza infinita dall’opera divina. Dio solo è assoluto, tutti il resto è contratto344. E, in questo senso, non c’è neppure una realtà intermedia fra l’assoluto e il contratto, come hanno immaginato coloro che hanno considerato l’anima del mondo come una mente collocata dopo Dio e prima della contrazione del mondo. Solo Dio, infatti, è anima e mente del mondo, nel senso in cui si considera l’anima come qualcosa di assoluto, nel quale sono in atto tutte le forme delle cose. I filosofi, in realtà, non ne sapevano abbastanza del Verbo divino e del massimo assoluto. Per questo motivo, hanno pensato che la mente, l’anima e la necessità si trovassero in una certa esplicazione della necessità assoluta, senza alcuna forma di contrazione. Le forme, pertanto, sono in atto solo nel Verbo, dove sono lo stesso Verbo, e nelle cose, dove esistono in modo contratto. Le forme che sono in-
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ta, licet secundum intellectualem naturam sint magis absolute, tamen sine contractione non sunt, ut sint intellectus, cuius operatio est intelligere per similitudinem abstractivam, ut ait Aristoteles. De quo quaedam in libro De coniecturis. Et ista de anima mundi dicta sufficiant. 151
CAPITULUM X
De spiritu universorum. Quendam esse, quasi inter formam et materiam medium, quidam opinati sunt et hunc in aplane, in planetis et rebus terrenis diffusum considerarunt. Primum Atropos, quasi sine conversione, vocarunt, quia aplane simplici motu ab oriente in occidens moveri crediderunt. Secundum Clotho vocaverunt, id est conversio, quoniam planetae per conversionem contra aplane de occidente in oriens moventur. Tertium Lachesis, id est sors, quoniam casus rebus terrenis dominatur. Motus planetarum est ut evolutio primi motus, et motus temporalium et terrenorum est evolutio motus planetarum. In rebus terrenis latent quaedam proventuum causae ut seges in semine; unde dixerunt, quod ea, quae in anima mundi quasi in glomo sunt complicata, per talem motum explicantur et extenduntur. Considerarunt enim sapientes, quasi, sicut artifex vult statuam in lapide exsculpere, formam statuae in se habens quasi ideam, per quae dam instrumenta, quae movet, ipsam formam statuae in figura ideae et in eius imagine efficit, – ita putabant mentem sive animam
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vece presenti nella natura intellettuale creata, per quanto abbiano un maggiore grado di indipendenza [dalle cose], conformemente al carattere intellettuale proprio di tale natura, non sono tuttavia prive di contrazione, perché solo in questo modo possono essere forme proprie dell’intelletto, la cui operazione consiste nell’intendere mediante una similitudine astrattiva, come dice Aristotele345. Su questo argomento dirò qualcosa nel libro sulle Congetture346. Per quanto riguarda l’anima del mondo, le cose che sono state dette possono essere sufficienti. CAPITOLO X
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Lo spirito dell’universo Alcuni hanno ritenuto che il movimento, attraverso il quale avviene la connessione della forma e della materia, fosse una sorta di spirito, qualcosa che media, per così dire, la forma e la materia, e lo hanno considerato come diffuso nella sfera delle stelle fisse, nei pianeti e nell’ambito delle realtà terrestri. Essi chiamarono il primo movimento «Atropo», ossia «senza rivolgimento», in quanto credevano che il cielo delle stelle fisse si muova di un moto semplice da oriente ad occidente. Il secondo movimento lo chiamarono «Cloto», ossia «rivolgimento», in quanto i pianeti si muovono da occidente ad oriente con un moto contrario a quello del cielo delle stelle fisse. Il terzo lo chiamarono «Lachesi», ossia «fortuna», in quanto il caso domina gli eventi che accadono sulla terra347. Il movimento dei pianeti è come un dispiegamento del primo movimento, ed il movimento delle realtà temporali e terrestri è il dispiegamento del movimento dei pianeti. Nelle cose terrestri sono contenute in maniera latente certe cause degli eventi futuri, come la messe è presente in maniera latente nel seme. Per questo motivo, essi dissero che, attraverso un tale movimento, vengono esplicate e diffuse quelle cose che stanno complicate nell’anima del mondo come in un gomitolo. I sapienti, infatti, considerarono le cose in questo modo: come un artista, che vuole scolpire nel marmo una statua di cui ha in sé la forma allo stato di idea, si serve di certi strumenti, mediante i quali produce la forma della statua come una raffigurazione dell’idea e come una sua immagine, così, pensarono, la
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mundi in se gestare exemplaria rerum et per motum illa in materia explicare; et hunc motum per omnia diffusum dixerunt sicut animam mundi. Quem in aplane, in planetis et rebus terrenis – quasi fatum descendens actu et opere a fato in substantia – dixerunt esse explicationem fati in substantia, quoniam res actu ad sic essendum per ipsum talem motum seu spiritum determinatur. 152 Hunc spiritum connexionis procedere ab utroque, scilicet possibilitate et anima mundi, dixerunt. Nam materia cum habeat ex aptitudine sua recipiendi formam quendam appetitum, ut turpe appetit bonum et privatio habitum, et cum forma desideret esse actu et subsistere et non possit absolute subsistere, cum non sit suum esse nec sit Deus, descendit, ut sit contracte in possibilitate; hoc est, ascendente possibilitate versus actu esse descendit forma, ut sit finiens, perficiens et terminans possibilitatem. Et ita ex ascensu et descensu motus exoritur connectens utrumque; qui motus est medium connexionis potentiae et actus, quoniam ex possibilitate mobili et motore formali oritur ipsum movere medium. 153 Est igitur hic spiritus per totum universum et singulas eius partes diffusus et contractus; qui natura dicitur. Unde natura est quasi complicatio omnium, quae per motum fiunt. Quomodo autem hic motus ab universali contrahatur usque in particulare servato ordine per gradus suos, hoc exemplo consideratur. Nam dum dico ‘Deus est’, quodam motu progreditur haec oratio, sed ordine tali, ut primo proferam litteras, deinde syllabas, deinde dictiones, dein-
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mente o anima del mondo porta in sé gli esemplari di tutte le cose e li esplica nella materia servendosi del movimento. Inoltre, dicevano che questo movimento è diffuso in tutte le cose come l’anima del mondo. E considerarono questo movimento, che è presente nella sfera delle stelle fisse, nei pianeti e nelle realtà terrestri, come una specie di fato che, nel suo essere in atto e nel suo agire, discende dal fato che si trova nella sostanza, e dissero che esso è l’esplicazione di questo «fato nella sostanza»348, in quanto è attraverso un tale movimento, o spirito, che una cosa viene determinata ad essere in atto nel modo in cui essa è. Essi dissero che questo spirito di connessione procede da entrambe le cose, ossia dalla possibilità e dall’anima del mondo. Infatti, poiché la materia, in virtù della sua attitudine a ricevere la forma, ne possiede un certo desiderio349, così come ciò che è turpe desidera ciò che è buono e la privazione desidera il possesso, e poiché la forma, d’altro canto, desidera essere in atto e sussistere, ma non è in grado di sussistere in se stessa in maniera assoluta [ossia separatamente dalla materia], in quanto essa non è il proprio essere, né è Dio, allora la forma discende per poter così esistere in maniera contratta nella possibilità; ossia, mentre la possibilità ascende verso l’essere in atto, la forma discende, in modo tale da definire, da portare a compimento e da determinare la possibilità350. E così, dall’ascesa e dalla discesa nasce un movimento che connette l’una e l’altra. Questo movimento è il mezzo attraverso il quale si realizza la connessione della potenza e dell’atto, in quanto dalla possibilità, che caratterizza ciò che può essere mosso, e dal motore, che è la forma, nasce, come mediazione, proprio il movimento. Questo spirito, pertanto, è diffuso e contratto nell’intero universo e in ciascuna delle sue parti, ed è tale spirito che viene chiamato «natura»351. Di conseguenza, la natura è, in certo qual modo, la complicazione di tutte le cose che avvengono mediante il movimento. In che modo, poi, questo movimento si contragga dall’universale fino a giungere nel particolare attraverso una serie di gradi nei quali viene conservato un ben determinato ordine, lo si può vedere considerando il seguente esempio. Quando dico «Dio esiste», questa frase procede con un certo movimento, ma secondo un determinato ordine, per il quale prima pronuncio le lettere, poi le sil-
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de orationem ultimo, licet auditus hunc ordinem gradatim non discernat. Ita quidem motus gradatim de universo in particulare descendit et ibi contrahitur ordine temporali aut naturali. Hic autem motus sive spiritus descendit a Spiritu divino, qui per ipsum motum cuncta movet. Unde, sicut in loquente est quidam spiritus procedens ab eo, qui loquitur, qui contrahitur in orationem, ut praefertur, ita Deus, qui est Spiritus, est a quo descendit omnis motus. Ait enim Veritas: «Non vos estis, qui loquimini, sed Spiritus Patris vestri, qui loquitur in vobis.» Et ita de aliis omnibus motibus et operationibus. 154 Hic igitur spiritus creatus est spiritus, sine quo nihil est unum aut subsistere potest, sed totus iste mundus et omnia, quae in eo sunt, per ipsum spiritum, qui replet orbem terrarum, naturaliter id sunt connexive, quod sunt, ut potentia per eius medium sit in actu et actus eius medio in potentia. Et hic est motus amorosae connexionis omnium ad unitatem, ut sit omnium unum universum. Nam dum omnia moventur singulariter, ut sint hoc, quod sunt, meliori modo et nullum sicut aliud aequaliter, tamen motum cuiuslibet quodlibet suo modo contrahit et participat mediate aut immediate – sicut motum caeli elementa et elementata et motum cordis omnia membra –, ut sit unum universum. Et per hunc motum sunt res meliori quidem modo, quo possunt. Et ad hoc moventur, ut in se aut in specie conserventur per naturalem sexuum diversorum connexionem, qui in natura complicante motum sunt uniti et divisive contracti in individuis. 155 Non est igitur aliquis motus simpliciter maximus, quia ille cum quiete coincidit. Quare non est motus aliquis absolutus, quoniam
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labe, e poi, da ultimo, la frase, anche se l’udito non distingue i diversi gradi di questo ordine352. Allo stesso modo, il movimento discende per gradi dall’universale nel particolare, e qui esso trova la sua contrazione secondo un determinato ordine temporale o naturale. Questo movimento, o spirito, discende tuttavia dallo spirito divino, il quale, attraverso tale movimento, muove tutte le cose. Di conseguenza, come in una persona che parla c’è un certo spirito [o soffio] che procede da colui che parla e che, come abbiamo appena detto, si contrae in una frase, così Dio, che è spirito, è colui dal quale discende ogni movimento. Dice infatti la verità: «Non siete voi che parlate, ma è lo spirito del padre vostro che parla in voi»353. Lo stesso vale per tutti gli altri movimenti e operazioni. Questo spirito creato, pertanto, è uno spirito senza il quale niente può essere un’unità o può sussistere; piuttosto, questo mondo nella sua interezza e tutte le cose che sono in esso sono naturalmente e congiuntamente ciò che esse sono in virtù di questo spirito, il quale riempie «l’orbe della terra»354, in modo tale che, attraverso la sua mediazione, la potenza è presente nell’atto e l’atto nella potenza. Ed esso è lo spirito grazie al quale vi è un movimento di connessione amoroso che congiunge tutte le cose in unità355, cosicché da tutte le cose nasca un unico universo. Infatti, mentre tutte le cose si muovono individualmente per essere ciò che sono nel modo migliore possibile, e nessuna si muove in maniera uguale ad un’altra356, ciascuna di esse, tuttavia, contrae, nel modo che le è proprio, il movimento di ogni altra e ne partecipa in maniera mediata o immediata – come gli elementi e le cose composte di elementi partecipano del movimento del cielo e lo contraggono, e come tutte le membra del corpo partecipano del movimento del cuore e lo contraggono –, ed è così che si costituisce un unico universo357. Ed in virtù di un tale movimento le cose esistono nel modo migliore in cui esse possono esistere. Ed esse si muovono al fine di conservarsi in se stesse o nella propria specie mediante la connessione naturale tra sessi diversi, i quali sono uniti nella natura, che complica il movimento, mentre sono divisi e contratti negli individui. Non vi è pertanto alcun movimento che sia il movimento massimo in quanto tale, perché quest’ultimo coincide con la quiete. Per questo motivo, non vi è alcun movimento che sia assoluto, in quan-
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absolutus motus est quies et Deus; et ille complicat omnes motus. Sicut igitur omnis possibilitas est in absoluta, quae est Deus aeternus, et omnis forma et actus in absoluta forma, quae est Verbum Patris et Filius in divinis, ita omnis motus connexionis et proportio ac harmonia uniens est in absoluta connexione divini Spiritus, ut sit unum omnium principium Deus, in quo omnia et per quem omnia sunt in quadam unitate Trinitatis, similitudinarie contracta secundum magis et minus intra maximum et minimum simpliciter secundum gradus suos, ut alius sit gradus potentiae, actus et connexionis motus in intelligentiis, ubi intelligere est movere, et alius materiae, formae et nexus in corporalibus, ubi esse est movere, de quibus alibi tangemus. Et ista de trinitate universi sufficiant pro praesenti. 156
CAPITULUM XI
Correlaria de motu. Fortassis admirabuntur, qui ista prius inaudita legerint, post quam ea vera esse docta ignorantia ostendit. Scimus nunc ex istis universum trinum; et nihil universorum esse, quod non sit unum ex potentia, actu et connexionis motu; et nullum horum sine alio absolute subsistere posse, ita quod necessario illa in omnibus sunt secundum diversissimos gradus adeo differenter, quod nulla duo in universo per omnia aequalia esse possunt in illis aut aliquo istorum. Nam tamen devinitur in aliquo genere etiam motus ad maximum et minimum simpliciter. Propter quod machinam mundanam habere aut istam terram sensibilem aut aerem vel ignem vel aliud
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to il movimento assoluto è quiete ed è Dio. Ed il movimento assoluto complica in sé ogni movimento. Pertanto, come ogni possibilità si trova racchiusa nella possibilità assoluta, che è il Dio eterno, e come ogni forma ed ogni attualità si trovano racchiuse nella forma assoluta, che è il Verbo del Padre e il Figlio del divino, così ogni movimento di connessione, ogni proporzione ed ogni armonia che istituiscono un’unità fra le diverse cose si trovano racchiuse nella connessione assoluta dello spirito divino, in modo tale che Dio è l’unico principio di tutte le cose, e in lui e attraverso di lui tutte le cose esistono358 in una certa unità della trinità, ovviamente secondo il modo proprio dell’immagine, contratte in maniera maggiore e minore, secondo una diversità di gradi che si collocano tra il massimo e il minimo in quanto tali; così che altro è il grado della potenza, dell’atto e del movimento di connessione nelle intelligenze, nelle quali il movimento coincide con il loro intendere, ed altro è il grado della materia, della forma e della loro unione nelle realtà corporee, nelle quali il movimento coincide con il loro semplice essere. Di questo tratterò tuttavia altrove359. Quanto ho detto a proposito della trinità dell’universo può per il momento essere sufficiente. CAPITOLO XI
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Corollari sul moto Coloro che leggeranno queste cose mai prima ascoltate saranno forse presi da meraviglia360, dal momento che la dotta ignoranza mostra che esse sono vere. Da quanto abbiamo visto in precedenza, sappiamo già che l’universo è trino361, che non c’è nulla nell’universo che non sia un’unità costituita di potenza, di atto e dal movimento di connessione362, e che nessuno di questi [tre] elementi può assolutamente sussistere senza gli altri [due], di modo che essi sono necessariamente presenti in tutte le cose secondo gradi diversissimi363 e in maniere tanto differenti, che in tutto l’universo non vi sono due cose che, per quanto riguarda questi elementi o anche uno solo di essi, possano essere eguali sotto tutti gli aspetti364. In nessun genere, tuttavia, neppure in quello del movimento, si giunge ad un massimo e ad un minimo assoluti365. Per questo motivo, se consideriamo i vari movimenti delle sfere, vedremo che è impossi-
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quodcumque pro centro fixo et immobili variis motibus orbium consideratis est impossibile. Non devenitur enim in motu ad minimum simpliciter, puta fixum centrum, quia minimum cum maximo coincidere necesse est. Centrum igitur mundi coincidit cum circumferentia. Non habet igitur mundus circumferentiam. Nam si centrum haberet, haberet et circumferentiam, et sic intra se haberet suum initium et finem, et esset ad aliquid aliud ipse mundus terminatus, et extra mundum esset aliud et locus; quae omnia veritate carent. Cum igitur non sit possibile mundum claudi intra centrum corporale et circumferentiam, non intelligitur mundus, cuius centrum et circumferentia sunt Deus. Et cum licet non sit mundus infinitus, tamen non potest concipi finitus, cum terminis careat, intra quos claudatur. 157 Terra igitur, quae centrum esse nequit, motu omni carere non potest. Nam eam moveri taliter etiam necesse est, quod per infinitum minus moveri posset. Sicut igitur terra non est centrum mundi, ita nec sphaera fixarum stellarum eius circumferentia, quamvis etiam, comparando terram ad caelum, ipsa terra videatur centro propinquior et caelum circumferentiae. Non est igitur centrum terra neque octavae aut alterius sphaerae, neque apparentia super horizontem sex signorum terram concludit in centro esse octavae sphaerae. Nam si esset etiam distanter a centro et circa axim per polos transeuntem, ita quod una parte esset elevata versus unum polum, in alia depressa versus alium, tunc hominibus tantum a polis distantibus, sicut horizon se extendit, sola medietas sphaerae appareret, ut est manifestum. Neque etiam est ipsum mundi centrum plus intra terram quam extra, neque etiam terra ista neque aliqua sphaera habet centrum. Nam cum centrum sit punctus ae-
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bile che la macchina del mondo abbia come centro fisso e immobile questa terra sensibile, o l’aria, o il fuoco, o qualche altra cosa366. Nel movimento, infatti, non si giunge ad un minimo assoluto, ossia ad un centro fisso, poiché il minimo [assoluto] deve necessariamente coincidere con il massimo. Il centro del mondo, pertanto, coincide con la sua circonferenza367. Di conseguenza, il mondo non ha alcuna circonferenza. Se avesse infatti un centro, avrebbe anche una circonferenza, e di conseguenza avrebbe al suo interno il proprio inizio e la propria fine; in questo modo, il mondo sarebbe delimitato rispetto a qualcos’altro, e al di fuori del mondo vi sarebbe qualcos’altro e vi sarebbero altri luoghi ancora. Ma queste affermazioni sono tutte prive di verità. Non essendo pertanto possibile che sia racchiuso fra un centro fisico e una circonferenza, il mondo, di cui Dio è il centro e la circonferenza, non risulta comprensibile. E sebbene il mondo non sia infinito, non lo si può tuttavia concepire neppure come finito, in quanto è privo di limiti entro i quali possa essere racchiuso368. Di conseguenza, la terra, che non può essere il centro, non può essere priva di ogni movimento369. Che essa si muova è in effetti necessario, anche se di un movimento che potrebbe muoversi sempre di meno all’infinito. Come la terra, pertanto, non è il centro del mondo, così neppure la sfera delle stelle fisse costituisce la sua circonferenza, sebbene, quando compariamo la terra con il cielo, la terra sembri essere più vicina al centro e il cielo più vicino alla circonferenza. La terra, pertanto, non è il centro né dell’ottava sfera, né di qualsiasi altra sfera celeste, e neppure il fatto che le sei costellazioni appaiano al di sopra dell’orizzonte ci consente di concludere che la terra sia al centro dell’ottava sfera370. Infatti, anche se la terra fosse ad una certa distanza dal centro e si trovasse sull’asse che passa attraverso i poli, di modo che una faccia della terra fosse rivolta in alto verso un polo e un’altra fosse rivolta in basso verso un altro polo, è evidente che solo metà della sfera risulterebbe in ogni caso visibile agli uomini, i quali sono distanti dai poli quanto si estende l’orizzonte. Inoltre, anche il centro del mondo non è all’interno della terra più di quanto sia all’esterno di essa, né la terra ha un centro, come non lo ha nessun’altra sfera. Infatti, dal momento che il centro è un punto che si trova ad una eguale distanza dalla circon-
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quedistans circumferentiae et non sit possibile verissimam sphaeram aut circulum esse, quin verior dari possit, manifestum est non posse dari centrum, quin verius etiam dari possit atque praecisius. Aequedistantia praecisa ad diversa extra Deum reperibilis non est, quia ipse solus est infinita aequalitas. Qui igitur est centrum mundi, scilicet Deus benedictus, ille est et centrum terrae et omnium sphaerarum atque omnium, quae in mundo sunt; qui est simul omnium circumferentia infinita. 158 Praeterea, non sunt in caelo poli immobiles atque fixi, quamvis etiam caelum stellarum fixarum videatur per motum describere graduales in magnitudine circulos, minores coluros quam aequinoctialem; et ita de intermediis. Sed necesse est omnem caeli partem moveri, licet inaequaliter comparatione circulorum per motum stellarum descriptorum. Unde, sicut quaedam stellae videntur maximum circulum describere, ita quaedam minimum; sed non reperitur stella, quae nullum describat. Quoniam igitur non est polus in sphaera fixus, manifestum est neque aequale medium reperiri quasi aequedistanter a polis. Non est igitur stella in octava sphaera, quae per revolutionem describat maximum circulum, quoniam illam aequedistare a polis necesse esset, qui non sunt; et per consequens non est, quae minimum circulum describat. 159 Poli igitur sphaerarum coincidunt cum centro, ut non sit aliud centrum nisi polus, quia Deus benedictus. Et quoniam nos motum non nisi comparatione ad fixum, scilicet polos aut centra, deprehendere possumus et illa in mensuris motuum praesupponimus: hinc in coniecturis ambulantes in omnibus nos errare comperimus et admiramur, quando secundum regulas antiquorum stellas in situ non reperimus concordare, quia eos recte de centris et polis et mensuris credimus concepisse.
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ferenza, e dal momento che non è possibile che vi siano una sfera o un cerchio veri in senso assoluto, dei quali, cioè, non se ne possono dare di più veri, è evidente che non vi può essere un centro del quale non se ne possa dare uno ancora più vero è più preciso. Una precisa equidistanza fra punti diversi non è possibile trovarla al di fuori di Dio, in quanto solo Dio è l’eguaglianza infinita. Pertanto, colui che è il centro del mondo, ossia Dio benedetto, è anche il centro della terra, di tutte le sfere e di tutte le cose che sono nel mondo. Ed egli è, ad un tempo, la circonferenza infinita di tutte le cose371. Inoltre, nel cielo non vi sono poli immobili e fissi, sebbene anche il cielo delle stelle fisse sembri descrivere con il suo movimento dei circoli di grandezza progressivamente differente, i circoli coluri372, che sono più piccoli del circolo dell’equinozio. E lo stesso vale per i circoli intermedi. È necessario, tuttavia, che tutte le parti del cielo siano in movimento, per quanto in maniera diseguale se vengono paragonate ai circoli descritti dal movimento delle stelle. Di conseguenza, come certe stelle sembrano descrivere un circolo massimo, così altre sembrano descriverne uno minimo. Ma non si trova nessuna stella che non descriva in un qualche circolo. Di conseguenza, dato che nella [ottava] sfera non c’è un polo fisso, è evidente che non si può neppure trovare un punto centrale che sia ad un’eguale distanza dai poli. Nell’ottava sfera, pertanto, non c’è una stella che descriva, con la sua rivoluzione, un circolo massimo, in quanto esso dovrebbe essere ad un’eguale distanza dai poli, i quali, invece, non esistono. E di conseguenza non vi è neppure una stella che descriva un circolo minimo. I poli delle sfere, pertanto, coincidono con il centro, di modo che non vi è altro centro che il polo, ossia Dio benedetto. E dal momento che noi possiamo avvertire il movimento solo facendo riferimento a qualcosa di fisso373, ossia a dei poli o a dei centri, che pertanto presupponiamo quando misuriamo i movimenti, ci rendiamo allora conto del fatto che ci aggiriamo fra congetture e che in tutte queste misurazioni vi sono degli errori, e restiamo sorpresi quando scopriamo che le stelle non si trovano nel posto in cui dovrebbero essere secondo le regole [di misurazione] degli antichi, in quanto siamo portati a credere che gli antichi abbiano avuto una corretta concezione dei centri, dei poli e delle misure.
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Ex hiis quidem manifestum est terram moveri. Et quoniam ex motu cometae, aeris et ignis elementa experti sumus moveri et lunam minus de oriente in occasum quam Mercurium aut Venerem vel solem, et ita gradatim: hinc terra ipsa adhuc minus omnibus movetur, sed tamen non est ut stella circa centrum aut polum minimum describens circulum; neque octava sphaera describit maximum, ut statim probatum est. 160 Acute igitur considera, quoniam, sicut se habent stellae circa polos coniecturales in octava sphaera, ita terra, luna et planetae sunt ut stellae circa polum distanter et differenter motae, coniecturando polum esse, ubi creditur centrum. Unde, licet terra quasi stella sit propinquior polo centrali, tamen movetur et non describit minimum circulum in motu, ut est ostensum. Immo neque sol neque luna neque terra neque aliqua sphaera, licet nobis aliud videatur, describere potest verum circulum in motu, cum non moveantur super fixo. Neque verus circulus dabilis est, quin verior dari possit, neque umquam uno tempore sicut alio aequaliter praecise aut movetur aut circulum verisimilem aequalem describit, etiamsi nobis hoc non appareat. 161 Necesse est igitur, si de motu universi aliquid quoad iam dicta vere intelligere velis, ut centrum cum polis complices, te quantum potes cum imaginatione iuvando. Nam si quis esset supra terram et sub polo arctico et alius in polo arctico, – sicut existenti in terra appareret polum esse in zenith, ita existenti in polo appareret centrum esse in zenith. Et sicut antipodes habent sicut nos caelum sursum, ita existentibus in polis ambobus terra appareret esse in zenith; et ubicumque quis fuerit, se in centro esse credit. Com-
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Da queste considerazioni risulta evidente che la terra si muove. Infatti, sulla base del movimento di una cometa sappiamo per esperienza che gli elementi dell’aria e del fuoco si muovono, e inoltre osserviamo che, da oriente ad occidente, la luna si muove meno di Mercurio o di Venere o del sole, e così via progressivamente; ne consegue che la terra si muove ancora di meno di tutti gli altri pianeti, ma ciononostante non è come una stella che descriva un circolo minimo intorno ad un centro o ad un polo. E neppure l’ottava sfera descrive un circolo massimo, come abbiamo appena dimostrato. Considera pertanto attentamente che, come le stelle dell’ottava sfera si muovono attorno a dei poli congetturali, così la terra, la luna e i pianeti sono come stelle che si muovono, a distanze differenti e con una differente velocità, attorno ad un polo, che noi congetturiamo si trovi lì dove crediamo vi sia il centro. Di conseguenza, sebbene la terra, come una stella, si trovi più vicina al polo centrale, essa tuttavia si muove e, nel suo movimento, non descrive un circolo minimo, come abbiamo già mostrato. Ed anzi, sebbene le cose ci appaiano in modo diverso, né il sole, né la luna, né la terra, né alcun’altra sfera può con il suo movimento descrivere un vero circolo, in quanto nessuno di questi pianeti si muove attorno ad un punto fisso374. E non può neppure esservi un circolo così vero che non se ne possa dare uno più vero, né una stella si muove in un determinato momento in modo precisamente uguale a come si muove in un altro momento, o descrive un circolo verosimilmente uguale, anche se tutto questo non ci risulta visibile. Se, pertanto, conformemente a quanto abbiamo già detto, vuoi comprendere veramente qualcosa circa il movimento dell’universo, è necessario che tu complichi insieme il centro con i poli, servendoti, per quanto puoi, dell’aiuto della facoltà immaginativa. Ad esempio, se qualcuno si trovasse sulla terra ma al di sotto del polo artico e un altro si trovasse nel polo artico, allora, come a colui che si trova sulla terra il polo apparirebbe essere allo zenith, così a colui che si trova nel polo apparirebbe essere allo zenith il centro. E come coloro che stanno agli antipodi hanno, come noi, il cielo sopra di loro, così alle persone che si trovano ai due poli la terra apparirebbe essere allo zenith. E ovunque una persona si trovi crede di essere nel centro. Complica pertanto insieme queste diverse
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plica igitur istas diversas imaginationes, ut sit centrum zenith et e converso, et tunc per intellectum, cui tantum docta servit ignorantia, vides mundum et eius motum atque figuram attingi non posse, quoniam apparebit quasi rota in rota et sphaera in sphaera, nullibi habens centrum vel circumferentiam, ut praefertur. 162
CAPITULUM XII
De conditionibus terrae. Ad ista iam dicta veteres non attigerunt, quia in docta ignorantia defecerunt. Iam nobis manifestum est terram istam in veritate moveri, licet nobis hoc non appareat. Non enim apprehendimus motum nisi per quandam comparationem ad fixum. Si enim quis ignoraret aquam fluere et ripas non videret existendo in navi in medio aquae, navem quomodo apprehenderet moveri? Et propter hoc, cum semper cuilibet videatur, quod sive ipse fuerit in terra sive sole aut alia stella, quod ipse sit in centro quasi immobili et quod alia omnia moveantur, ille certe semper alios et alios polos sibi constitueret existens in sole et alios in terra et alios in luna et Marte, et ita de reliquis. Unde erit machina mundi quasi habens undique centrum et nullibi circumferentiam, quoniam eius circumferentia et centrum est Deus, qui est undique et nullibi. 163 Terra etiam ista non est sphaerica, ut quidam dixerunt, licet tendat ad sphaericitatem. Nam figura mundi contracta est in eius partibus, sicut et motus; quando autem linea infinita consideratur ut contracta taliter, quod ut contracta perfectior esse nequit atque capacior, tunc est circularis; nam ibi principium coincidit cum fine. Motus igitur perfectior est circularis, et figura corporalis perfectior ex hoc sphaerica. Quare omnis motus partis est propter perfectio-
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rappresentazioni, in modo tale che il centro sia lo zenith e viceversa, ed allora, attraverso l’intelletto, solo per il quale è utile la dotta ignoranza, vedrai che non è possibile giungere ad una comprensione del mondo, del suo movimento e della sua figura, in quanto il mondo ti apparirà come una ruota in una ruota e come una sfera in una sfera, senza avere in alcun luogo il suo centro o la sua circonferenza, come abbiamo già detto in precedenza375. CAPITOLO XII
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Le condizioni della terra Gli antichi non giunsero alle verità di cui abbiamo appena parlato, perché furono privi della dotta ignoranza. A noi risulta già chiaro che questa nostra terra in realtà si muove, anche se non ci sembra che sia così. Noi riusciamo infatti ad accorgerci del movimento solo facendo riferimento a qualcosa di fisso376. Se uno, ad esempio, non sapesse che l’acqua scorre e trovandosi su una barca in mezzo ad un fiume non vedesse le rive, in che modo potrebbe rendersi conto che la nave si sta muovendo?377 E proprio per il fatto che ad ogni persona, ovunque si trovi – sulla terra, sul sole o su un altro pianeta – sembra di essere nel centro immobile, per così dire, mentre le sembra che tutte le altre cose si muovano, ognuno certamente porrebbe per se stesso dei poli di volta in volta diversi, a seconda che egli si trovi sul Sole, sulla Terra, sulla Luna, su Marte, e così via. Di conseguenza, la macchina del mondo sarà tale da avere il suo centro ovunque e la sua circonferenza in nessun luogo, in quanto il suo centro e la sua circonferenza sono Dio, il quale è ovunque e in nessun luogo378. Inoltre, anche questa nostra terra non è sferica, come alcuni hanno detto379, per quanto essa tenda alla sfericità. La figura del mondo, infatti, è contratta nelle sue parti, come lo è anche il suo movimento. Ora, quando una linea infinita viene considerata come contratta in modo tale da non poter essere, in quanto contratta, più perfetta e più estesa, allora essa ha una forma circolare; in un cerchio, infatti, l’inizio coincide con la fine. Il movimento più perfetto è quindi quello circolare, e la figura corporea più perfetta è di conseguenza quella sferica380. Per questo motivo, in vista cioè della perfezione, ogni movimento di una parte è orientato verso il tutto, così
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nem ad totum, ut gravia versus terram et levia sursum, terra ad terram, aqua ad aquam, aer ad aerem, ignis ad ignem; et motus totius, quantum potest, circularem concomitatur et omnis figura sphaericam figuram, ut in animalium partibus et arboribus et caelo experimur. Unde unus motus est circularior et perfectior alio, ita et figurae sunt differentes. 164 Terrae igitur figura est nobilis et sphaerica et eius motus circularis, sed perfectior esse posset. Et quia maximum aut minimum in perfectionibus, motibus et figuris in mundo non est, ut ex statim dictis patet, tunc non est verum, quod terra ista sit vilissima et infima; nam quamvis videatur centralior quoad mundum, est tamen etiam eadem ratione polo propinquior, ut est dictum. Neque est ipsa terra pars proportionalis seu aliquota mundi. Nam cum mundus non habeat nec maximum nec minimum, neque habet medium neque partes aliquotas, sicut nec homo aut animal; nam manus non est pars aliquota hominis, licet pondus eius ad corpus videatur proportionem habere; et ita de magnitudine et figura. Neque color nigredinis est argumentum vilitatis eius; nam in sole si quis esset, non appareret illa claritas quae nobis. Considerato enim corpore solis, tunc habet quandam quasi terram centraliorem et quandam luciditatem quasi ignilem circumferentialem et in medio quasi aqueam nubem et aerem clariorem, quemadmodum terra ista sua elementa. 165 Unde, si quis foret extra regionem ignis, terra ista in circumferentia regionis per medium ignis lucida stella appareret, sicut nobis, qui sumus circa circumferentiam regionis solis, sol lucidissimus apparet. Et non apparet luna adeo lucida, quoniam forte ci-
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come le cose pesanti si muovono verso la terra e le cose leggere verso l’alto381, l’acqua si muove verso l’acqua, l’aria verso l’aria, il fuoco verso il fuoco. Il movimento del tutto si avvicina, per quanto può, al movimento circolare, ed ogni figura si avvicina alla figura sferica, come possiamo sperimentare nelle parti degli animali, negli alberi e nel cielo. Di conseguenza, un movimento è più circolare e più perfetto di un altro. In modo analogo, anche le figure sono differenti. La forma della terra, pertanto, è nobile e sferica e il suo movimento è circolare, ma lo potrebbero essere in modo più perfetto. E poiché nel mondo non c’è un massimo o un minimo per quanto riguarda le perfezioni, i movimenti e le figure, come risulta evidente da quanto abbiamo appena detto, non è allora vero che questa nostra terra sia quanto mai vile e infima. Sebbene, infatti, rispetto al resto del mondo sembri occupare una posizione alquanto centrale, per la stessa ragione, tuttavia, essa è anche alquanto vicina al polo, come abbiamo detto382. Inoltre, la terra non è neppure una parte proporzionale del mondo o una percentuale di esso. Infatti, dal momento che il mondo non ha né un massimo, né un minimo, esso non ha neanche un punto mediano, ne parti proporzionali, come non ne hanno neppure l’uomo o l’animale. Una mano, ad esempio, non è una parte proporzionale di un uomo383, sebbene il suo peso sembri avere una proporzione con il peso del corpo. E lo stesso vale per la grandezza e per la forma delle membra. Ed anche il colore scuro della terra non prova che essa sia qualcosa di vile. Se uno infatti si trovasse nel sole, non gli risulterebbe visibile quello splendore che risulta visibile a noi. Se si considera in effetti il corpo del sole, si vede che esso ha un nucleo più centrale che è come una specie di terra, nella circonferenza ha una sorta di luminosità quasi come quella del fuoco e in mezzo fra l’uno e l’altra vi è una specie di nube acquea e di aria più chiara, come avviene con la terra, che ha anch’essa i suoi elementi384. Di conseguenza, se qualcuno si trovasse al di fuori della regione del fuoco, allora questa nostra terra, che si trova nella circonferenza di tale regione, gli apparirebbe, grazie al fuoco, come una stella luminosa, come a noi, che ci troviamo al bordo della circonferenza della regione solare, il sole ci appare luminosissimo. E la luna non ci appare altrettanto luminosa perché, forse, noi ci troviamo all’in-
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tra eius circumferentiam sumus versus partes magis centrales, puta in regione quasi aquea ipsius; et hinc non apparet eius lumen, licet habeat lumen proprium illis in extremitatibus circumferentiae eius existentibus apparens, et solum lumen reflexionis solis nobis apparet. Etiam propterea calor lunae, quem sine dubio ex motu efficit plus in circumferentia, ubi est maior motus, nobis non communicatur sicut in sole. Unde ista terra inter regionem solis et lunae videtur situata et per horum medium participat aliarum stellarum influentiam, quas nos non videmus propter hoc, cum extra earum regiones simus; videmus enim tantum regiones earum, quae scintillant. 166 Est igitur terra stella nobilis, quae lumen et calorem et influentiam habet aliam et diversam ab omnibus stellis, sicut etiam quaelibet a qualibet lumine, natura et influentia differt. Et sicut quaelibet stella alteri communicat lumen et influentiam non ex intentione, quoniam omnes stellae moventur tantum atque choruscant, ut sint meliori modo, unde ex consequenti participatio oritur, – sicut lux ex sua natura lucet, non ut ego videam, sed ex consequenti participatio fit, dum utor lumine ad finem videndi –: ita quidem Deus benedictus omnia creavit, ut dum quodlibet studet esse suum conservare quasi quoddam munus divinum, hoc agat in communione cum aliis; ut sicut pes non sibi tantum, sed oculo et manibus ac corpori et homini toti servit per hoc, quod est tantum ad ambulandum; et ita de oculo et reliquis membris; pariformiter de mundi partibus. Plato enim mundum animal dixit; cuius animam absque immersione Deum si concipis, et multa horum, quae diximus, tibi clara erunt.
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terno della sua circonferenza, rivolti verso le sue parti più centrali, come se ci trovassimo nella regione, per così dire, «acquea» della luna. È questo il motivo per il quale la sua luce non ci risulta visibile, sebbene la luna abbia una luce propria, che risulta visibile a coloro che si trovano nelle regioni più esterne della sua circonferenza, mentre a noi risulta visibile solo la luce che proviene dal riflesso del sole. Per lo stesso motivo, non giunge fino a noi il calore della luna, come accade invece con il sole, calore che la luna certamente produce come effetto del suo movimento, in misura maggiore nella sua circonferenza dove il movimento è più veloce. La nostra terra, pertanto, sembra essere collocata fra la regione del sole e la regione della luna, e attraverso la loro mediazione partecipa degli influssi delle altre stelle, che noi invece non vediamo per il fatto che siamo al di fuori delle loro regioni. Noi, infatti, vediamo solo le regioni delle stelle che brillano. La terra, pertanto, è una stella nobile385, che ha una luce, un calore ed esercita un influsso che sono distinti e differenti da quelli di tutte le altre stelle, così come ogni stella si differenzia da ogni altra per quanto riguarda la sua luce, la sua natura e l’influsso che essa esercita. Ed ogni stella comunica a ogni altra la sua luce e il suo influsso, ma non lo fa intenzionalmente, dato che tutte le stelle si muovono e risplendono al solo scopo di esistere nel modo per loro migliore possibile; come conseguenza di ciò, tuttavia, nasce una partecipazione, così come la luce illumina per sua natura e non perché io veda, e tuttavia, quando io mi servo della luce al fine di vedere, ne nasce, come conseguenza, una partecipazione. Così, Dio benedetto ha creato tutte le cose, in maniera tale che ciascuna, mentre si adopera per conservare il proprio essere, quasi come un compito ricevuto da Dio, lo fa in comunione con tutte le altre386. Così, il piede, ad esempio, in virtù della sua funzione, che consiste soltanto nel camminare, è utile non soltanto a se stesso, ma anche agli occhi, alle mani, al corpo e all’uomo tutto intero, e lo stesso vale per l’occhio e per le altre membra. Questo è ciò che accade in modo analogo fra le parti del mondo. In effetti, Platone ha detto che il mondo è un essere vivente dotato di anima387. E se concepisci Dio come la sua anima, senza che egli vi sia immerso, allora molte delle cose che abbiamo detto ti risulteranno chiare.
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dici debet, quod quia terra est minor sole et ab eo recipit influentiam, quod propterea sit vilior; quoniam regio tota terrae, quae usque ad ignis circumferentiam se extendit, magna est. Et quamvis terra minor sit quam sol, ut ex umbra et eclipsibus hoc notum nobis est, tamen non est nobis notum, quantum regio solis sit maior aut minor regione terrae. Aequalis autem ei praecise esse nequit; nulla enim stella alteri aequalis esse potest. Neque terra est minima stella, quia est maior luna, ut experientia eclipsium nos docuit, et Mercurio etiam, ut quidam dicunt, et forte aliis stellis. Unde ex magnitudine argumentum vilitatem non concludit. 168 Influentia etiam, quam recipit, non est argumentum concludens imperfectionem. Nam ipsa, ut est stella, soli et suae regioni forte pariformiter influit, ut praefertur; et cum non experiamur nos aliter quam in centro esse, in quo confluunt influentiae, de ista refluentia nihil experimur. Nam etsi terra quasi possibilitas se habeat et sol ut anima sive actualitas formalis eius respectu et luna ut medius nexus, ita ut istae stellae intra unam regionem positae suas ad invicem influentias uniant, aliis – scilicet Mercurio et Venere et ceteris – supra existentibus, ut dixerunt antiqui et aliqui etiam moderni: tunc patet correlationem influentiae talem esse, quod una sine alia esse nequit; erit igitur una et trina in quolibet pariformiter secundum gradus suos. Quare patet per hominem non esse scibile, an regio terrae sit in gradu imperfectiori et ignobiliori respectu regionum stellarum aliarum, solis, lunae et reliquarum, quoad ista. 169 Neque etiam quoad locum; puta quod hic locus mundi sit habitatio hominum et animalium atque vegetabilium, quae in gradu
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E non si può neppure dire che la terra sia più vile del sole per il fatto che è più piccola di esso e ne riceve gli influssi, in quanto l’intera regione della terra, che si estende fino alla circonferenza del fuoco, è grande. E anche se la terra è più piccola del sole, come c’è noto dalla sua ombra e dalle eclissi, non sappiamo tuttavia di quanto la regione del sole sia più grande o più piccola della regione della terra. Precisamente eguale ad essa, tuttavia, non può esserlo, perché nessuna stella può essere eguale ad un’altra. E la terra non è neppure la stella più piccola, in quanto è più grande della luna, come ci ha insegnato l’esperienza delle eclissi, ed è anche più grande di Mercurio, come sostengono alcuni, e forse anche di altre stelle. Di conseguenza, l’argomento basato sulla grandezza non dimostra che la terra sia vile. Anche gli influssi che la terra riceve non costituiscono un argomento che consenta di dimostrare la sua imperfezione. Essendo una stella, infatti, forse anche la terra esercita egualmente il suo influsso sul sole e sulla regione solare, come ho già detto388. E dal momento che noi non abbiamo altra esperienza che quella di stare al centro dove confluiscono gli influssi, di questo contro-influsso [esercitato dalla terra] non abbiamo alcuna esperienza. Supponiamo, infatti, che la terra sia come la possibilità, che il sole sia, in rapporto ad essa, come l’anima o la forma che porta all’atto la possibilità, e che la luna sia come il nesso che media fra l’una e l’altra, in modo tale che queste [tre] stelle, che sono all’interno di un’unica regione, uniscono i loro reciproci influssi, mentre gli altri pianeti – ossia Mercurio, Venere, ecc. – ne sono al di sopra, come dissero gli antichi e anche alcuni fra i moderni389. Ebbene, anche in questo caso è evidente che le correlazioni fra gli influssi è tale che gli uni non possono esistere senza gli altri. Di conseguenza, in ognuna di queste tre stelle [terra, sole e luna] l’influsso sarà parimenti uno e trino, in maniera conforme al grado della stella [ossia all’influsso che ogni stella esercita]. Sotto questo aspetto [quello degli influssi], pertanto, è evidente che l’uomo non può sapere se la regione della terra abbia un grado di realtà più imperfetto o meno nobile rispetto a quello delle regioni delle altre stelle, del sole, della luna e degli altri pianeti. Lo stesso vale anche per quanto riguarda il luogo; ad esempio, non possiamo sapere se il luogo del mondo sia abitato da uomini,
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sunt ignobiliora in regione solis et aliarum stellarum habitantium. Nam etsi Deus sit centrum et circumferentia omnium regionum stellarum et ab ipso diversae nobilitatis naturae procedant in qualibet regione habitantes, ne tot loca caelorum et stellarum sint vacua et solum ista terra fortassis de minoribus inhabitata, tamen intellectuali natura, quae hic in hac terra habitat et in sua regione, non videtur nobilior atque perfectior dari posse secundum hanc naturam, etiamsi alterius generis inhabitatores sint in aliis stellis. Non enim appetit homo aliam naturam, sed solum in sua perfectus esse. 170 Improportionabiles igitur sunt illi aliarum stellarum habitatores, qualescumque illi fuerint, ad istius mundi incolas, etiamsi tota regio illa ad totam regionem istam ad finem universi quandam occultam nobis proportionem gerat, ut sic inhabitatores istius terrae seu regionis ad illos inhabitatores per medium universalis regionis hincinde quandam ad se invicem habitudinem gestent, sicut particulares articuli digitorum manus per medium manus proportionem habent ad pedem et particulares articuli pedis per medium pedis ad manum, ut omnia ad animal integrum proportionata sint. 171 Unde, cum tota nobis regio illa ignota sit, remanent inhabitatores illi ignoti penitus, sicut in hac terra accidit, quod animalia unius speciei quasi unam regionem specificam facientia se uniunt et mutuo propter communem regionem specificam participant ea, quae eorum regionis sunt, de aliis nihil aut se impedientes aut veraciter apprehendentes. Non enim animal unius speciei conceptum alterius, quem per signa exprimit vocalia, apprehendere po-
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da animali e da piante che hanno un grado di realtà meno nobile rispetto a quello degli esseri che abitano nella regione del sole e delle altre stelle. Infatti, sebbene Dio sia il centro della circonferenza di tutte le regioni delle stelle e da lui procedano nature che hanno un diverso grado di nobiltà e che abitano in ogni regione, in modo tale che un numero così grande di luoghi nei cieli e sulle stelle non siano vuoti e non risulti abitata solo questa nostra terra, che è forse tra i corpi più piccoli, tuttavia, per quanto riguarda la natura intellettuale, non sembra che possa esservi una natura più nobile e più perfetta di quella che abita qui sulla terra e nella propria regione, anche nel caso in cui nelle altre stelle vi siano abitanti appartenenti ad un altro genere390. L’uomo, infatti, non aspira ad una natura diversa dalla sua, ma desidera solamente essere perfetto nella propria natura. Gli abitanti delle altre stelle, qualunque sia la loro natura, non possono pertanto essere comparati agli abitanti di questo mondo, anche se, nel contesto del fine complessivo dell’universo, tra quella regione, considerata nella sua totalità, e la totalità di questa nostra regione vi è un rapporto proporzionale che è a noi ignoto, cosicché, in questo modo, fra gli abitanti di questa nostra terra o di questa regione e gli abitanti di quella regione vi è, attraverso la mediazione della regione dell’universo, una certa relazione reciproca, così come le articolazioni particolari del piede hanno, attraverso la mediazione del piede, un rapporto proporzionale con la mano, di modo che tutte le membra siano ordinate in modo proporzionato all’animale nella sua completezza391. Di conseguenza, poiché tutta quella regione delle stelle ci è ignota, ci restano del tutto ignoti anche i suoi abitanti. Lo stesso accade, del resto, anche sulla terra, dove gli animali di una specie, che appartengono, per così dire, a un’unica regione specifica, si uniscono fra di loro e, in virtù della loro comune regione specifica, partecipano reciprocamente di quelle cose che fanno parte della loro regione, mentre delle altre regioni non se ne interessano, o non ne comprendono effettivamente nulla. Un animale di una specie, ad esempio, non riesce a comprendere ciò che un animale di un’altra specie concepisce ed esprime con dei segni orali, se non esteriormente e per pochissimi segni, ed anche in questo
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test nisi in paucissimis signis extrinsecus, et tunc per longum usum et solum opinative. Minus autem de habitatoribus alterius regionis improportionabiliter scire poterimus, suspicantes in regione solis magis esse solares, claros et illuminatos intellectuales habitatores, spiritualiores etiam quam in luna, ubi magis lunatici, et in terra magis materiales et grossi; ut illi intellectuales naturae solares sint multum in actu et parum in potentia, terrenae vero magis in potentia et parum in actu, lunares in medio fluctuantes. 172 Hoc quidem opinamur ex influentia ignili solis et aquatica simul et aerea lunae et gravedine materiali terrae, consimiliter de aliis stellarum regionibus suspicantes nullam inhabitatoribus carere, quasi tot sint partes particulares mundiales unius universi, quot sunt stellae, quarum non est numerus; ut unus mundus universalis sit contractus triniter progressione sua quaternaria descensiva in tot particularibus, quod eorum nullus est numerus nisi apud eum, qui omnia in numero creavit. Etiam corruptio rerum in terra, quam experimur, non est efficax argumentum ignobilitatis. Nobis enim constare non poterit, postquam est unus mundus universalis et proportiones influentiales omnium particularium stellarum ad invicem, quod aliquid sit corruptibile penitus, sed bene secundum alium et alium essendi modum, quando ipsae influentiae iam quasi contractae in uno individuo resolvuntur, ut modus essendi sic vel sic pereat, ut non sit morti locus, ut ait Virgilius. Mors enim nihil esse videtur nisi ut compositum ad componentia resolvatur; et an talis resolutio solum sit in terrenis incolis, quis scire poterit? 173 Dixerunt quidam tot esse rerum species in terra, quot sunt stellae. Si igitur terra omnium stellarum influentiam ita ad singulares
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caso solo dopo una lunga consuetudine e in modo solo ipotetico. Degli abitanti di un’altra regione, tuttavia, potremo sapere incomparabilmente di meno; possiamo limitarci a fare delle supposizioni, ipotizzando, ad esempio, che nella regione del sole vi siano abitanti più solari e dotati di una natura intellettuale più chiara e illuminata, che essi siano più spirituali anche di coloro che si trovano sulla luna, dove gli abitanti hanno una natura più lunatica, e di coloro che sono sulla terra, dove gli abitanti hanno una natura più materiale e grossolana, per cui possiamo supporre che quelle nature intellettuali di tipo solare siano molto in atto e poco in potenza, che quelle terrestri siano invece molto in potenza e poco in atto, e che quelle lunari oscillino in una condizione intermedia. Facciamo questa ipotesi sulla base dell’influsso igneo esercitato dal sole, di quello acquatico e aereo esercitato, ad un tempo, dalla luna e sulla base della pesantezza materiale della terra; in modo simile, supponiamo che nessuna delle altre regioni delle stelle sia priva di abitanti, come se vi siano tanti mondi particolari nell’unico universo quante sono le stelle, che sono innumerevoli 392, in modo tale che l’unico mondo universale, nella sua discesa graduale in quattro momenti393, si trovi contratto trinitariamente in così tanti mondi particolari che di essi non vi è alcun numero, tranne che per colui che ha creato tutte le cose nel numero394. Anche la corruzione delle cose di cui facciamo esperienza sulla terra non è un argomento efficace per dimostrare la sua mancanza di nobiltà. Infatti, dal momento che vi è un unico mondo universale e dal momento che vi sono rapporti reciproci fra tutte le stelle particolari, che esercitano i loro influssi le une sulle altre, non potremo mai essere sicuri che qualcosa sia del tutto corruttibile, o che non lo sia piuttosto rispetto a questo o a quel modo di essere, il quale si corrompe quando si dissolvono quegli influssi che si trovano come contratti in un individuo, cosicché perisce questo o quel modo di essere, senza che vi sia tuttavia posto per una morte totale, come dice Virgilio395. La morte, infatti, non sembra essere altro che un risolversi del composto nelle sue componenti. E chi potrà sapere se una tale risoluzione si verifica solo negli esseri che abitano sulla terra? Alcuni hanno sostenuto che sulla terra vi sono tante specie di esseri quante sono le stelle. Se la terra, pertanto, contrae nelle sin-
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species contrahit, quare similiter non fit in regionibus aliarum stellarum influentias aliarum recipientium? Et quis scire poterit, an omnes influentiae, contractae prius in compositione, in dissolutione redeant, ut animal nunc existens individuum alicuius speciei in regione terrae contractum ex omni stellarum influentia resolvatur, ita ut ad principia redeat, forma tantum ad propriam stellam redeunte, a qua illa species actuale esse in terra matre recepit? Vel an forma tantum redeat ad exemplar sive animam mundi – ut dicunt Platonici –, aut forma tantum ad propriam stellam redeat, a qua illa species actuale esse in terra matre recepit, et materia ad possibilitatem, remanente spiritu unionis in motu stellarum? Qui spiritus dum cessat unire, se retrahens ob organorum indispositionem vel alias, ut ex diversitate motus separationem inducat, tunc quasi ad astra rediet, forma supra astrorum influentiam ascendente et materia infra descendente? Aut an formae cuiuslibet regionis in altiori quidem forma, puta intellectuali, quiescant, et per illam illum finem attingant, qui est finis mundi? 174 Et quomodo hic finis attingitur per inferiores formas in Deo per illam, et quomodo illa ad circumferentiam, quae Deus est, ascendat corpore descendente versus centrum, ubi etiam Deus est, ut omnium motus sit ad Deum; in quo aliquando, sicut centrum et circumferentia sunt unum in Deo, corpus etiam quamvis visum sit quasi ad centrum descendere et anima ad circumferentiam, iterum in Deo unientur, cessante non omni motu, sed eo, qui ad generationem est; tamquam partes illae mundi essentiales necessario redeant tunc successiva generatione cessante, sine quibus mundus esse non possit, redeunte etiam spiritu unionis et connectente possibilitatem ad suam formam.
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gole specie gli influssi di tutte le stelle, per quale motivo non dovrebbe accadere qualcosa di simile nelle regioni delle altre stelle, ciascuna delle quali riceve gli influssi delle altre? E chi potrà mai sapere se tutti questi influssi, che inizialmente sono contratti in un composto, quando questo si dissolve non ritornino alla loro origine, per cui un animale che ora, nella regione della terra, esiste come un individuo di una determinata specie, che contrae in sé gli influssi che provengono da tutte le stelle, si dissolve in modo tale da ritornare ai suoi principi? O chi potrà mai sapere se non sia solo la forma a fare ritorno al suo esemplare o all’anima del mondo, come dicono i Platonici396, oppure se la forma non ritorni solo alla propria stella, dalla quale quella specie ha ricevuto il suo essere in atto nella terra madre, mentre la materia ritorna alla possibilità e lo spirito dell’unione rimane nel movimento delle stelle? O chi potrà mai sapere se questo spirito, quando cessa di unire, a causa di una disposizione non più favorevole degli organi o per qualche altro motivo, in modo da provocare, con la sua differenza di movimento, la separazione, non ritorni allora in qualche modo agli astri, mentre la forma ascende al di sopra degli influssi degli astri e la materia discende al di sotto di essi? O chi potrà sapere se le forme che sono proprie di ciascuna regione non trovino la loro quiete in una qualche forma più elevata, ad esempio in una forma intellettuale, e attraverso di essa non raggiungano quel fine che è il fine del mondo? E in che modo questo fine viene raggiunto in Dio dalle forme inferiori in virtù di quella forma superiore? In che modo la forma superiore ascende alla circonferenza, che è Dio, mentre il corpo discende verso il centro, dove pure è presente Dio, in maniera tale che il movimento di tutte le cose sia diretto verso Dio, cosicché, come in Dio il centro e la circonferenza sono un’unica cosa, anche il corpo e l’anima, benché l’uno sia sembrato discendere quasi verso il centro e l’altra ascendere verso la circonferenza, un giorno possano essere di nuovo uniti in Dio, quando cesserà non ogni movimento, ma solo il movimento che presiede alla generazione? È come se, una volta che sia cessata la successione delle generazioni e sia ritornato anche lo spirito dell’unione che connette la possibilità alla propria forma, quelle parti essenziali del mondo, senza le quali il mondo non potrebbe esistere, ritornino necessariamente ad incontrarsi.
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Haec quidem nemo hominum ex se, nisi singularius a Deo habuerit, scire poterit. Licet non dubitet quisquam Deum optimum ad se omnia creasse et non velle quidquam perire eorum, quae fecit, sciatque eum remuneratorem largissimum omnium ipsum colentium, modum tamen divinae operationis praesentis et futurae remunerationis Deus ipse solum scit, qui est sua operatio. Dicam tamen inferius iuxta inspiratam divinitus veritatem pauca circa hoc, de quibus nunc sufficit in ignorantia taliter tetigisse. 175
CAPITULUM XIII
De admirabili arte divina in mundi et elementorum creatione. Quoniam sapientum concors sententia est per ista visibilia et magnitudinem, pulchritudinem atque ordinem rerum nos duci in stuporem artis et excellentiae divinae, et nonnulla mirabilis scientiae Dei artificia tetigimus, quam breviter in universi creatione pauca subiungamus admirative de elementorum situ et ordine. Est autem Deus arithmetica, geometria atque musica simul et astronomia usus in mundi creatione, quibus artibus etiam et nos utimur, dum proportiones rerum et elementorum atque motuum investigamus. Per arithmeticam enim ipsa coadunavit; per geometriam figuravit, ut ex hoc consequerentur firmitatem et stabilitatem atque mobilitatem secundum conditiones suas; per musicam proportionavit taliter, ut non plus terrae sit in terra quam aquae in aqua et aeris in aere et ignis in igne, ut nullum elementorum in aliud sit penitus resolubile. Ex quo evenit mundi machinam perire non pos-
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Nessun uomo potrà mai giungere a conoscere da se stesso queste cose, a meno che non abbia ricevuto questa conoscenza come un dono particolare da parte di Dio. Certamente, nessuno dubita che Dio, nella sua bontà suprema, non abbia creato tutte le cose in vista di se stesso e che egli non voglia che perisca nessuna delle cose che ha creato, e tutti sanno, inoltre, che Dio remunera in modo generosissimo tutti coloro che lo adorano; quale sia tuttavia il modo in cui egli opera nel presente e in cui avverrà la sua remunerazione futura lo conosce soltanto Dio stesso, il cui essere consiste nel suo stesso operare. Più avanti, tuttavia, dirò alcune cose a proposito di questo argomento397, in conformità con la verità rivelataci da Dio; per il momento, è sufficiente averne accennato in questo modo, nell’ambito della nostra ignoranza. CAPITOLO XIII
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La mirabile arte divina nella creazione del mondo e degli elementi È opinione unanime dei sapienti che, attraverso le realtà visibili, ed in particolare attraverso la grandezza, la bellezza e l’ordine delle cose, noi siamo condotti ad ammirare con stupore l’arte e l’eccellenza di Dio. Per questo motivo, dato che ho già accennato ad alcuni prodotti della mirabile scienza di Dio, vorrei ora aggiungere molto brevemente alcune considerazioni, piene di ammirazione, a proposito della posizione e dell’ordine degli elementi nel contesto della creazione dell’universo398. Nel creare il mondo, Dio ha impiegato l’aritmetica, la geometria, la musica e insieme l’astronomia, arti che anche noi impieghiamo quando indaghiamo le proporzioni che vi sono fra le cose, fra gli elementi e fra i movimenti399. Mediante l’aritmetica, infatti, Dio ha congiunto insieme le cose in unità; mediante la geometria, ha conferito loro una figura, in modo che potessero acquisire fermezza, stabilità e una capacità di movimento, conformemente alle loro condizioni; mediante la musica, le ha poste in una reciproca proporzione, in modo tale che nella terra non vi sia più terra di quanta acqua vi è nell’acqua, di quanta aria vi è nell’aria e di quanto fuoco vi è nel fuoco, cosicché nessun elemento sia completamente risolvibile in un altro. Il risultato di tutto questo è che la macchina del mondo non può perire. E sebbe-
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se. Et licet pars unius in aliud resolvi possit, numquam tamen totus aer, qui est permixtus aquae, in aquam converti potest propter aerem circumstantem hoc impedientem, ut elementorum semper sit permixtio. Unde egit Deus, ut partes elementorum resolverentur mutuo. Et quando hoc fit cum mora, aliquid generatur ex concordia elementorum ad ipsum generabile durans, quamdiu durat concordia elementorum, qua rupta rumpitur et dissolvitur generatum. 176 Admirabili itaque ordine elementa constituta sunt per Deum, qui omnia in numero, pondere et mensura creavit. Numerus pertinet ad arithmeticam, pondus ad musicam, mensura ad geometriam. Gravitas enim levitate constringente sustinetur – terra enim gravis quasi in medio suspensa ab igne –, levitas autem gravitati innititur, ut ignis terrae. Et dum haec aeterna sapientia ordinaret, proportione inexpressibili usa est, ut, quantum quodlibet elementum aliud praecedere deberet, praesciret ponderans ita elementa, ut, quanto aqua terra levior, tanto aer aqua et ignis aere, ut simul pondus cum magnitudine concurreret et continens maiorem locum occuparet contento. Et tali habitudine ipsa ad invicem connexuit, ut unum in alio necessario sit; ubi terra est quasi animal quoddam – ut ait Plato – habens lapides loco ossium, rivos loco venarum, arbores loco pilorum, et sunt animalia, quae intra illos terrae capillos nutriuntur ut vermiculi inter pilos animalium. 177 Et ad ignem terra se habet quasi ut mundus ad Deum. Multas enim Dei similitudines ignis habet in ordine ad terram, cuius potentiae non est finis, omnia in terra operans, penetrans, illustrans et distinguens atque formans per medium aeris et aquae, ut nihil quasi in omnibus sit, quae ex terra gignuntur, nisi alia et alia ignis
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ne una parte di un elemento possa risolversi in un altro, non è tuttavia mai possibile che l’aria, che è mista all’acqua, si trasformi totalmente in acqua, in quanto l’aria circostante lo impedisce; in questo modo, vi è sempre una mescolanza reciproca fra gli elementi. Per questo motivo, Dio ha fatto in modo che le parti degli elementi si risolvessero le une nelle altre. E dal momento che questo avviene con un certo impiego di tempo, allora, quando vi è una concordanza di elementi in un qualcosa di generabile, ne nasce un ente, il quale dura finché dura la concordanza degli elementi, rotta la quale si rompe e si dissolve anche l’ente generato. E così Dio, che «ha creato tutte le cose nel numero, nel peso e nella misura»400, ha disposto gli elementi in un ordine mirabile. Il numero attiene all’aritmetica, il peso alla musica, e la misura alla geometria. La pesantezza, ad esempio, viene sostenuta dalla leggerezza che la restringe – la terra, che è pesante, resta infatti sospesa quasi nel mezzo grazie al fuoco; la leggerezza, invece, poggia sulla pesantezza, come il fuoco poggia sulla terra. E quando la sapienza eterna ha disposto in ordine gli elementi, si è servita di una proporzione che ci è impossibile da esprimere a parole; essa, infatti, sapeva in precedenza di quanto un elemento doveva essere superiore ad un altro, per cui ha stabilito il peso degli elementi in modo tale che, di quanto l’acqua è più leggera della terra, di tanto l’aria lo è dell’acqua e il fuoco dell’aria, ed è in modo tale, inoltre, che il peso corrispondesse al volume ed il contenente occupasse uno spazio maggiore del contenuto. E congiunse fra loro gli elementi con un rapporto tale per cui un elemento è presente necessariamente in un altro. In questo senso, la terra è come un animale, come disse Platone401, che ha le pietre al posto degli occhi, i fiumi al posto delle vene, gli alberi al posto dei capelli, e vi sono animali che traggono il loro nutrimento all’interno di quei capelli della terra, come i parassiti si alimentano fra i peli degli animali. E la terra si rapporta al fuoco quasi come il mondo si rapporta Dio. Nel suo rapporto con la terra, il fuoco ha infatti molte somiglianze con Dio402; la potenza del fuoco, ad esempio, non ha fine, ed essa agisce su tutte le cose della terra, tutte le pervade, le illumina, le distingue e le forma per mezzo dell’aria e dell’acqua, in modo tale che in tutte le cose che si generano dalla terra non vi è
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operatio, ut rerum formae diversae ex diversitate resplendentiae ignis sint. Est tamen ipse ignis rebus immersus, sine quibus nec est nec res sunt terrenae. Deus autem non est nisi absolutus; unde quasi ignis consumens absolutus et claritas absoluta Deus, qui lux, in quo non sunt tenebrae, ab antiquis vocatur; cuius quasi igneitatem atque claritatem omnia, quae sunt, nituntur iuxta posse participare, ut in omnibus astris conspicimus, ubi reperitur ipsa talis claritas materialiter contracta; quae quidem discretiva et penetrativa claritas quasi immaterialiter est contracta in vita viventium vita intellectiva. 178 Quis non admiraretur hunc opificem, qui etiam tali siquidem arte in sphaeris et stellis ac regionibus astrorum usus est, ut sine omni praecisione cum omnium diversitate sit omnium concordantia, in uno mundo magnitudines stellarum, situm et motum praeponderans et stellarum distantias taliter ordinans, ut, nisi quaelibet regio ita esset sicut est, nec ipsa esse nec in tali situ et ordine esse nec ipsum universum esse posset; dans omnibus stellis differentem claritatem, influentiam, figuram et colorem atque calorem, qui claritatem concomitatur influentialiter, et ita proportionaliter partium ad invicem proportionem constituens, ut in qualibet sit motus partium ad totum, deorsum ad medium in gravibus et sursum a medio in levibus, et circa medium, uti stellarum motum orbicularem percipimus. 179 In hiis tam admirandis rebus, tam variis et diversis, per doctam ignorantiam experimur iuxta praemissa nos omnium operum Dei nullam scire posse rationem, sed tantum admirari, quoniam ma-
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quasi nulla che non sia frutto di questa o di quell’attività del fuoco, cosicché le diverse forme delle cose dipendono dal diverso grado di splendore del fuoco. Il fuoco, tuttavia, è immerso nelle cose, senza le quali il fuoco non esisterebbe, così come le cose della terra non esisterebbero senza il fuoco. Dio, invece, non è se non assoluto. Per questo motivo, Dio, che è luce nella quale non vi è tenebra alcuna403, viene chiamato dagli antichi «fuoco» assoluto «che [tutto] divora»404 e splendore assoluto. Tutte le cose che esistono si sforzano, secondo le loro possibilità, di partecipare della sua natura ignea, per così dire, e del suo splendore, come osserviamo in tutti gli astri, nei quali troviamo questo splendore contratto al livello materiale. Nella vita degli esseri che vivono di una vita intellettiva, questo splendore, che penetra in tutte le cose e tutte le distingue, è invece contratto in un modo, per così dire, immateriale. Chi non ammirerebbe questo artefice, il quale, anche nella costituzione delle sfere celesti, delle stelle e delle regioni degli astri, ha impiegato una tale arte per cui, pur senza esservi una totale precisione, alla diversità di tutte le cose è congiunta una concordanza fra tutte405. Egli ha ponderato in anticipo quale dovesse essere la grandezza, la posizione e il movimento delle stelle nel contesto di un mondo unitario, e ha quindi ordinato le loro distanze in modo tale che, se ogni regione non fosse così com’è, essa non potrebbe sussistere, né si troverebbe in quella posizione e in quell’ordine che ha, e non potrebbe sussistere neppure lo stesso universo. Egli ha inoltre dotato tutte le stelle di una diversa luminosità, di una diversa capacità di esercitare il proprio influsso, di una diversa figura, di un diverso colore e di un diverso calore, il quale è un effetto concomitante della luminosità, ed ha costituito il rapporto delle parti le une con le altre con una tale proporzione, per cui in ognuna di esse il movimento delle parti è orientato al tutto, in basso verso il centro nelle cose pesanti, dal centro verso l’alto nelle cose leggere, e attorno al centro, come possiamo osservare nel moto circolare delle stelle. Di fronte a queste cose, che sono così degne di ammirazione, così varie e diverse, ci rendiamo conto, grazie alla dotta ignoranza e conformemente a quanto abbiamo detto in precedenza, che di «nessuna delle opere di Dio» possiamo conoscere la ragione406, ma possiamo solo ammirarle, perché «grande è il Signore» e della sua
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gnus Dominus, cuius magnitudinis non est finis. Qui cum sit maximitas absoluta, ut est omnium operum suorum auctor et cognitor, ita et finis, ut in ipso sint omnia et extra ipsum nihil; qui est principium, medium et finis omnium, centrum et circumferentia universorum, ut in omnibus ipse tantum quaeratur, quoniam sine eo omnia nihil sunt. Quo solum habito omnia habentur, quia ipse omnia; quo scito omnia sciuntur, quia veritas omnium. Qui etiam vult, ut in admirationem ex mundi machina tam mirabili ducamur; quam tamen nobis occultat eo plus, quo plus admiramur, quoniam ipse tantum est, qui vult omni corde et diligentia quaeri. Et cum inhabitet ipsam lucem inaccessibilem, quae per omnia quaeritur, solus potest pulsantibus aperire et petentibus dare. Et nullam habent potestatem ex omnibus creatis se pulsanti aperire et se ostendere, quid sint, cum sine eo nihil sint, qui est in omnibus. 180 Sed omnia quidem in docta ignorantia ab eis sciscitanti, quid sint aut quomodo aut ad quid, respondent: «Ex nobis nihil neque ex nobis tibi aliud quam nihil respondere possumus, cum etiam scientiam nostri non nos habeamus, sed ille solus, per cuius intelligere id sumus, quod ipse in nobis vult, imperat et scit. Muta quidem sumus omnia; ipse est, qui in omnibus loquitur. Qui fecit nos, solus scit, quid sumus, quomodo et ad quid. Si quid scire de nobis optas, hoc quidem in ratione et causa nostra, non in nobis quaere. Ibi reperies omnia, dum unum quaeris. Et neque teipsum nisi in eo reperire potes.» «Fac itaque», ait nostra docta ignorantia, «ut te in eo reperias; et cum omnia in ipso sint ipse, nihil tibi deesse poterit. Hoc autem non est nostrum, ut inaccessibilem accedamus, sed eius qui nobis dedit faciem ad ipsum conversam cum summo desiderio quaerendi; quod dum fecerimus, piissimus est et nos non deseret, sed seipso nobis ostenso, cum apparuerit gloria eius, nos aeternaliter satiabit. Qui sit in saecula benedictus.»
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«grandezza non c’è fine»407. Ed essendo la massimità assoluta408, come di tutte le sue opere egli è l’autore e il conoscitore, così ne è anche il loro fine, in modo tale che tutte le cose sono in lui409 e al di fuori di lui non vi è nulla. Egli è il principio, il mezzo e il fine di tutte le cose, è il centro e la circonferenza dell’universo410, cosicché in tutte le cose non si ricerca che lui, perché senza di lui tutte le cose sono nulla411. Solo se si possiede lui, si possiedono tutte le cose, poiché egli è tutte le cose. Se lo si conosce, si conoscono tutte le cose, poiché egli è la verità di tutte le cose. Ed è lui che vuole anche che una macchina del mondo così mirabile susciti in noi ammirazione. Ma quanto più l’ammiriamo, tanto più egli ce la nasconde, perché vuole che ricerchiamo solo lui, con tutto il nostro cuore e con tutto il nostro impegno. E poiché egli abita in una «luce inaccessibile»412, che è la luce che viene ricercata in tutte le cose, è solo lui che può aprire a coloro che bussano e può donare a coloro che chiedono413. E fra le cose create nessuna ha il potere di aprire se medesima a chi bussa e di mostrare ciò che essa è, in quanto tutte le cose sono nulla senza colui che è presente in tutte. Ma a chi, nella dotta ignoranza, chiede loro che cosa siano, o in che modo esistano e a quale fine, tutte le cose rispondono così414: «Per virtù nostra non siamo nulla e da noi stesse non possiamo risponderti altro che nulla, in quanto non abbiamo neanche la conoscenza di noi stesse; piuttosto, chi conosce e comanda in noi è solo colui grazie al cui sapere noi siamo ciò che egli vuole essere in noi. Noi, in effetti, siamo tutte mute. È lui che parla in tutte noi. Solo lui, che ci ha fatte, sa che cosa siamo, in che modo e a quale fine esistiamo. Se desideri sapere qualcosa di noi, ricercalo nel nostro principio razionale e nella nostra causa, non in noi. E là, cercando una cosa, le troverai tutte. Ed è solo in lui che puoi trovare anche te stesso». «Fai in modo, dunque, di trovare te stesso in lui», dice la nostra dotta ignoranza. «E poiché in lui tutte le cose sono lui stesso, non ti potrà mancare nulla. Accedere a colui che è inaccessibile non è tuttavia in nostro potere, ma è in potere di colui che ci ha donato un volto che è orientato verso di lui e che è ricolmo del più grande desiderio di ricercarlo. E non appena lo faremo, egli, nella sua somma benevolenza, non ci abbandonerà415, ma, dopo essersi mostrato a noi, ci sazierà in eterno, quando “apparirà la sua gloria”416. Sia egli benedetto nei secoli».
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Liber tertius
Prologus.
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hiis de universo praemissis, quomodo in contractione subsistat, ad finem ut de maximo absoluto pariter et contracto, Iesu Christo semper benedicto, aliqua docte in ignorantia perquiramus in augmentum fidei et perfectionis nostrae, amplius tuae admirandae industriae quam breviter de Iesu conceptum pandemus, ipsum invocantes, ut sit via ad seipsum, qui est veritas; qua nunc per fidem et posthac per adeptionem vivificemur in ipso per ipsum, qui et vita exstat sempiterna.
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CAPITULUM I
Maximum ad hoc vel illud contractum, quo maius esse nequeat, esse sine absoluto non posse. Primo libello ostenditur unum absolute maximum incommunicabile, immersibile et incontrahibile ad hoc vel illud in se aeternaliter, aequaliter et immobiliter idem ipsum persistere. Post haec secundo loco universi contractio manifestatur, quoniam non aliter quam contracte hoc et illud existit. Unitas itaque maximi est in se absolute; unitas universi est in pluralitate contracte. Plura autem, in quibus universum actu contractum est, nequaquam summa aequalitate convenire possunt; nam tunc plura esse desinerent. Omnia igitur ab invicem differre necesse est aut genere, specie et nu-
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Libro terzo
Prologo
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Dopo le brevi considerazioni che ho esposto nel libro precedente a proposito dell’universo e del modo in cui esso esiste nella contrazione, vorrei ora esaminare attentamente, nello spirito della dotta ignoranza, alcune questioni a proposito di quel massimo che è, ad un tempo, assoluto e contratto, ossia a proposito di Gesù Cristo sempre benedetto, per accrescere così la nostra fede e la nostra perfezione. A questo scopo, esporrò al tuo amorevole interesse e nel modo più conciso possibile il mio pensiero su Gesù, iniziando con l’invocarlo, perché egli, che è la verità, sia per noi via che ci conduce a lui; grazie ad una tale verità noi avremo la vita in lui e attraverso di lui, che è anche la vita eterna417, ora mediante la fede e poi per una diretta partecipazione418. CAPITOLO I
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Un massimo, che è contratto a questo o a quello, e del quale non può esservi nulla di maggiore, non può esistere senza l’assoluto Nel primo libro abbiamo mostrato come l’uno assolutamente massimo, che è incomunicabile e che non è suscettibile di essere immerso e contratto in questa o quella cosa, sussista eternamente in se stesso e permanga, in modo eguale e immutabile, identico a se stesso419. Poi, nel secondo libro, abbiamo esposto la contrazione dell’universo, in quanto l’universo non esiste in altro modo che come contratto in questa e quella cosa420. L’unità del massimo, pertanto, sussiste in stessa in modo assoluto, l’unità dell’universo sussiste nella molteplicità in modo contratto. La molteplicità delle cose, nelle quali l’universo è contratto in atto, non può in alcun modo dar luogo a concordanze fra i diversi enti che siano di somma eguaglianza; altrimenti, infatti, la molteplicità cesserebbe di essere tale421. È necessario, pertanto, che tutte le cose differiscano le une dalle altre o per genere, specie e numero422, o per specie e nume-
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mero; aut specie et numero; aut numero: ut unumquodque in proprio numero, pondere et mensura subsistat. Quapropter universa ab invicem gradibus distinguuntur, ut nullum cum alio coincidat. 183 Nullum igitur contractum gradum contractionis alterius praecise participare potest, ita ut necessario quodlibet excedat aut excedatur a quocumque alio. Consistunt igitur inter maximum et minimum omnia contracta, ut quocumque dato possit dari maior et minor contractionis gradus, absque hoc quod hic processus fiat in infinitum actu, quia infinitas graduum est impossibilis, cum non sit aliud dicere infinitos gradus esse actu quam nullum esse, ut de numero in primo diximus. Non potest igitur ascensus vel descensus in contractis esse ad maximum vel minimum absolute. Hinc, sicut divina natura, quae est absolute maxima, non potest minorari, ut transeat in finitam et contractam, ita nec contracta potest in contractione minui, ut fiat penitus absoluta. 184 Omne igitur contractum cum possit esse minus aut magis contractum, terminum non attingit neque universi neque generis neque speciei. Nam universi prima generalis contractio per generum pluralitatem est, quae gradualiter differre necesse est. Non autem subsistunt genera nisi contracte in speciebus neque species nisi in individuis, quae solum actu existunt. Sicut igitur non est dabile secundum naturam contractorum individuum nisi infra terminum suae speciei, sic etiam omne individuum terminum generis et universi attingere nequit; inter plura etenim eiusdem speciei individua diversitatem graduum perfectionis cadere necesse est. Quare nullum secundum datam speciem erit maxime perfectum, quo perfectius dari non posset; neque etiam adeo imperfectum est dabile,
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ro, o per numero, in modo tale che ciascuna cosa sussista nel proprio numero, nel proprio peso e nella propria misura423. È per questo motivo che tutte le cose si distinguono le une dalle altre secondo diversi gradi, in modo tale che nessuna coincide con un’altra. Nessuna cosa contratta, pertanto, può partecipare in modo preciso del grado di contrazione proprio di un’altra cosa, cosicché ogni cosa è necessariamente maggiore o minore rispetto ad ogni altra. Di conseguenza, tutte le cose contratte si collocano fra un massimo e un minimo, per cui data qualunque cosa contratta se ne può sempre dare un’altra dotata di un grado di contrazione maggiore o minore, senza che per questo vi sia un processo infinito in atto, perché una serie infinita in atto di gradi è impossibile424: dire, infatti, che esiste una serie infinita in atto di gradi non è diverso dal dire che non esiste nessun grado, come abbiamo detto nel primo libro a proposito del numero425. Nell’ambito delle cose contratte, pertanto, non può esservi un’ascesa o una discesa che giungano ad un massimo o ad un minimo in senso assoluto. Di conseguenza, come la natura divina, che è massima in senso assoluto, non può essere resa minore, in modo da passare in una natura finita contratta, così neanche la natura contratta può essere diminuita nella sua contrazione, al punto da diventare del tutto assoluta426. Nessuna cosa contratta, pertanto, raggiunge il limite ultimo né dell’universo, né del genere o della specie, in quanto può sempre esservi un’altra cosa contratta maggiore o minore di essa. La prima contrazione generale dell’universo, infatti, avviene attraverso una pluralità di generi, i quali devono necessariamente avere una gradualità di differenze. I generi, tuttavia, non esistono che contratti nelle specie, e le specie non esistono che contratte negli individui, i quali soltanto esistono in atto427. Pertanto, come, conformemente alla natura delle cose contratte, un individuo può darsi solo all’interno dei limiti della sua specie, così nessun individuo può raggiungere il limite ultimo del genere e dell’universo. Fra i molti individui, che appartengono ad una medesima specie, deve infatti esservi una diversità di gradi di perfezione. Per questo motivo, nell’ambito di una data specie non vi sarà nessun individuo che sia perfetto in senso massimo, del quale, cioè, non ve ne possa essere uno più perfetto; e non può nemmeno esservi un individuo così imperfetto,
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quod imperfectius dabile non sit. Terminum igitur speciei nullum attingit. 185 Non est igitur nisi unus terminus aut specierum aut generum aut universi, qui est centrum, circumferentia atque connexio omnium. Et universum non evacuat ipsam infinitam absolute maximam Dei potentiam, ut sit simpliciter maximum terminans Dei potentiam. Non attingit itaque universum terminum maximitatis absolutae, neque genera terminum universi attingunt neque species terminum generum neque individua terminum specierum: ut omnia sint id, quod sunt, meliori quidem modo intra maximum et minimum, et Deus principium, medium et finis universi et singulorum, ut omnia, sive ascendant sive descendant sive ad medium tendant, ad Deum accedant. Connexio autem universorum per ipsum est, ut omnia, quamquam sint differentia, sint et connexa. Quapropter inter genera unum universum contrahentia talis est inferioris et superioris connexio, ut in medio coincidant, ac inter species diversas talis combinationis ordo existit, ut suprema species generis unius coincidat cum infima immediate superioris, ut sit unum continuum perfectum universum. 186 Omnis autem connexio graduativa est, et non devenitur ad maximam, quia illa Deus est. Non ergo connectuntur diversae species inferioris et superioris generis in quodam indivisibili, magis et minus non recipienti, sed in tertia specie, cuius individua gradualiter differunt, ut nullum sit aequaliter participans utramque, quasi ex ipsis sit compositum. Sed propriae speciei naturam unam in gradu suo contrahit, quae ad alias relata ex inferiori et superiori composita videtur, neque aequaliter ex ipsis, cum nullum compositum
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che non ve ne possa essere uno più imperfetto. Nessun individuo, pertanto, raggiunge il limite ultimo della propria specie. Non vi è pertanto che un unico limite ultimo delle specie, come dei generi e dell’universo, e questo limite è il centro, la circonferenza e la connessione di tutte le cose428. L’universo non esaurisce questa potenza infinita e assolutamente massima di Dio, come se l’universo fosse un massimo in quanto tale che pone un limite alla potenza di Dio. L’universo, pertanto, non raggiunge il limite ultimo della massimità assoluta, né i generi raggiungono il limite ultimo dell’universo, né le specie il limite ultimo dei generi, né gli individui il limite ultimo delle specie, cosicché tutte le cose sono ciò che sono, nel modo migliore possibile, all’interno fra il limite massimo e il minimo; e Dio è il principio, il mezzo e il fine dell’universo429 e di tutte le singole cose, in modo tale che tutte, sia che ascendano, sia che discendano o che tendano al mezzo, accedano sempre a Dio430. Grazie a Dio, tuttavia, avviene anche la connessione di tutti gli esseri dell’universo, in modo tale che, per quanto differenti, tutte le cose siano anche connesse le une alle altre. Questo è il motivo per il quale fra i generi che contraggono l’unico universo vi è una tale connessione, per cui un genere inferiore ed uno superiore coincidono in un genere intermedio, e fra le diverse specie vi è un tale ordine di accordi, per cui la specie suprema di un genere coincide con la specie più bassa del genere immediatamente superiore, e l’universo ha così una perfetta unità e continuità431. Ogni connessione, tuttavia, avviene per gradi, e non si perviene mai ad una connessione che sia massima, perché una tale connessione è Dio. Di conseguenza, le diverse specie di un genere inferiore e di un genere superiore non si connettono in qualcosa di indivisibile che non ammetta un di più e un di meno; esse si connettono piuttosto in una terza specie, i cui individui si differenziano in maniera tale che nessuno di essi partecipa in modo eguale di entrambe le specie, come se fosse composto di esse. Ogni individuo, piuttosto, contrae l’unica natura della propria specie secondo il grado che gli è proprio; e questa [terza] specie, considerata in rapporto alle altre, sembra essere composta della specie [ad essa] inferiore e di quella [ad essa] superiore, anche se non in parti eguali, in quanto nessun composto può essere formato di parti precisamen-
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praecise ex aequalibus esse possit; et inter ipsas species media cadens, secundum unam, superiorem aut inferiorem scilicet, necessario vincit, uti de hoc in philosophorum libris, in ostraeis et conchis marinis et aliis exempla reperiuntur. 187 Non igitur descendit species aliqua, ut sit minima alicuius generis, quoniam antequam ad minimum deveniat, commutatur in aliam; et pariformiter de maxima, quae commutatur in aliam, priusquam maxima sit. In genere animalitatis species humana altiorem gradum inter sensibilia dum attingere nititur, in commixtionem intellectualis naturae rapitur; vincit tamen pars inferior, secundum quam animal dicitur. Sunt fortassis alii spiritus – de quibus in De coniecturis –, et hii quidem large dicuntur de genere animalitatis propter sensibilem quandam naturam. Sed quoniam in ipsis natura intellectualis vincit aliam, potius spiritus quam animalia dicuntur, licet Platonici ipsos animalia intellectualia credant. Quapropter concluditur species ad instar numeri esse ordinatim progredientis, qui finitus est necessario, ut ordo, harmonia ac proportio sit in diversitate, ut in primo ostendimus. 188 Et ad infimam speciem infimi generis, qua actu minor non est, et supremam supremi, qua pariformiter actu nulla maior et altior est, quibus tamen minor et maior dari posset, absque processu in infinitum deveniri necesse est; ut sive sursum numeremus sive deorsum, ab unitate absoluta, quae Deus est, ut ab omnium principio, initium sumamus; ut sint species quasi obviantes numeri, de minimo, quod est maximum, et de maximo, cui minimum non opponitur, progredientes; ut nihil sit in universo, quod non gaude-
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te eguali; poiché, infatti, sta nel mezzo fra le altre due, questa terza specie ha necessariamente una conformità prevalente a una di esse, ossia a quella superiore o a quelle inferiore432; esempi di questo fatto si possono trovare nei libri dei filosofi, a proposito delle ostriche, delle conchiglie marine e di altre cose433. Nessuna specie, pertanto, discende fino al punto di diventare la specie minima di qualche genere, perché, prima di giungere al minimo, essa si tramuta in un’altra specie; e lo stesso vale per la specie massima, la quale si tramuta in un’altra specie prima di diventare massima. Nell’ambito del genere «animale», ad esempio, la specie umana, quando si sforza di raggiungere il grado più elevato fra gli animali dotati di senso, viene rapita in alto, fino a mescolarsi con la natura intellettuale; in questo caso, tuttavia, a prevalere è ancora la parte inferiore, quella per la quale l’uomo viene definito come «animale». Ma esistono probabilmente altri spiriti – di cui tratteremo nelle Congetture434 –, dei quali si dice che appartengono, in senso lato, al genere «animale», per il fatto che hanno una certa qual natura capace di percezione. Ma dal momento che in essi la natura intellettuale prevale sull’altra, vengono chiamati spiriti, piuttosto che animali, anche se i Platonici ritengono che essi siano degli animali intellettuali435. Si può pertanto concludere che le specie sono come una serie numerica che procede ordinatamente in senso crescente e che è necessariamente finita436, in modo tale che, nella diversità, vi siano ordine, armonia e proporzione, come abbiamo mostrato nel primo libro437. È necessario che, senza procedere all’infinito, si giunga alla specie più bassa del genere più basso, a quella specie di cui non esiste in atto una minore, e alla specie suprema del genere supremo, a quella specie di cui, parimenti, non ne esiste in atto un’altra maggiore o più elevata, sebbene possa sempre darsi una specie minore della prima è una specie maggiore della seconda; pertanto, sia che numeriamo partendo dal basso, sia che numeriamo partendo dall’alto, iniziamo sempre dall’unità assoluta, che è Dio, ossia dal principio di tutte le cose; di conseguenza, le specie sono come serie di numeri che convergono procedendo [da due direzioni opposte, ossia] da un minimo che è il massimo, e da un massimo al quale non si oppone il minimo. In questo modo, non c’è nulla nell’uni-
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at quadam singularitate, quae in nullo alio reperibilis est, ita quod nullum omnia in omnibus vincat aut diversa aequaliter, sicut cum nullo ullo umquam tempore aequale in quocumque esse potest; etiam si uno tempore minus eo fuerit et alio maius, hunc transitum facit in quadam singularitate, ut numquam aequalitatem praecisam attingat; sicut quadratum inscriptum circulo transit ad magnitudinem circumscripti de quadrato, quod est minus circulo, ad quadratum circulo maius, absque hoc quod umquam perveniat ad aequale sibi, et angulus incidentiae de minori recto ad maiorem ascendit absque medio aequalitatis. Et plura horum in libro Coniecturarum elicientur. 189 Principia enim individuantia in nullo individuo in tali possunt harmonica proportione concurrere sicut in alio, ut quodlibet per se sit unum et modo, quo potest, perfectum. Et quamvis in quacumque specie, puta humana, in dato tempore aliqui reperiantur aliis perfectiores et excellentiores secundum certa, uti Salomon ceteros vicit sapientia, Absolon pulchritudine, Sampson fortitudine, et illi, qui magis in parte intellectiva ceteros vicerunt, meruerint prae ceteris honorari: tamen, quia diversitas opinionum secundum diversitatem religionum et sectarum ac regionum diversa facit iudicia comparationum, ut laudabile secundum unam sit vituperabile secundum aliam sintque nobis per orbem dispersi incogniti, ignoramus, quis ceteris mundi excellentior, quando nec unum ex omnibus perfecte cognoscere valemus. Et hoc quidem a Deo factum est, ut quisque in seipso contentetur – licet alios admiretur – et in propria patria, ut sibi videatur
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verso che non goda di una certa sua singolarità che non si può rinvenire in nessun’altra realtà438, cosicché nessuna cosa supera tutte le altre sotto tutti gli aspetti, o supera in egual misura le cose che sono da essa diverse. Allo stesso modo, non c’è nessun momento in cui una cosa può essere sotto qualche aspetto eguale ad un’altra: anche se, infatti, in un certo momento è stata minore di quella cosa e in un altro momento è stata maggiore, essa compie questo passaggio mantenendo una certa sua singolarità, per cui non raggiunge mai una precisa eguaglianza con l’altra cosa. In modo simile, un quadrato iscritto in un cerchio giunge alla grandezza di un quadrato circoscritto al cerchio passando dall’essere un quadrato minore del cerchio all’essere un quadrato maggiore del cerchio, senza che, in ciò, esso pervenga mai ad essere un quadrato eguale al cerchio; e così, anche un angolo di incidenza minore di un angolo retto aumenta fino a diventare un angolo maggiore del retto, senza mai raggiungere l’angolo mediano eguale all’angolo retto. Molti altri esempi di questo fatto verranno esposti nel libro sulle Congetture439. I principi di individuazione, infatti, non possono raccogliersi in un individuo in una proporzione armonica eguale a quella che essi hanno in un altro, cosicché ogni cosa è per se stessa unica e, per quanto possibile, perfetta. E sebbene in ogni specie, come ad esempio in quella umana, vi siano in una data epoca alcuni individui che, per certe doti, sono più perfetti e più eccellenti di altri – come Salomone, ad esempio, che superava tutti gli altri per la sapienza, Assalone per la bellezza, Sansone per la forza440, e come quelli che furono superiori agli altri soprattutto per le loro doti intellettuali e che meritarono di essere onorati più degli altri –, tuttavia, poiché la diversità delle opinioni, dovuta alla diversità delle religioni, delle sette e delle regioni, dà luogo a giudizi comparativi diversi, per cui ciò che secondo un tipo di opinione è degno di lode è invece degno di biasimo secondo un altro, e poiché, inoltre, su tutta la terra sono disseminati uomini a noi sconosciuti, allora noi non sappiamo chi nel mondo sia più eccellente di tutti gli altri uomini441, dato che non siamo in grado di conoscerne in maniera perfetta nemmeno uno solo. E Dio ha disposto così le cose affinché ognuno, pur ammirando gli altri, possa essere soddisfatto di se stesso e della propria pa-
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natale solum dulcius et in moribus regni et lingua ac ceteris; ut sit unitas et pax absque invidia, quanto hoc possibilius esse potest, cum omnimoda esse nequeat nisi cum ipso regnantibus, qui est pax nostra omnem sensum exsuperans. 190
CAPITULUM II
Maximum contractum pariter est et absolutum, creator et creatura. Bene satis apertum est universum non nisi contracte esse plura, quae actu ita sunt, quod nullum pertingit ad simpliciter maximum. Amplius adiciam, si maximum contractum ad speciem actu subsistens dabile esset, quod tunc ipsum secundum datam contractionis speciem omnia actu esset, quae in potentia generis aut speciei illius esse possent. Maximum enim absolute est omnia possibilia actu absolute, et in hoc est infinitissimum absolute. Maximum ad genus et speciem contractum pariformiter est actu possibilis perfectio secundum datam contractionem, in qua cum maius dabile non sit, est infinitum ambiens omnem naturam datae contractionis. Et quemadmodum minimum coincidit maximo absoluto, ita etiam ipsum contracte coincidit cum maximo contracto. 191 Huius exemplum clarissimum de maxima linea, quae nullam patitur oppositionem, et quae est omnis figura et aequalis omnium figurarum mensura, cum qua punctus coincidit, ut in primo libro ostendimus. Quapropter, si aliquod dabile foret maximum contractum individuum alicuius speciei, ipsum tale esse illius generis ac speciei plenitudinem necesse esset ut via, forma, ratio atque veritas in plenitudine perfectionis omnium, quae in ipsa specie possibilia forent. Hoc tale maximum contractum supra omnem natu-
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tria, in modo tale che la sua terra natale gli sembri più dolce delle altre, per i costumi, per la lingua e per tutti gli altri aspetti, e vi siano così unità e pace senza invidia, nella misura maggiore in cui questo è possibile; un’unità e una pace completa, infatti, possono esservi solo per coloro che regnano con colui che è la nostra pace, una pace, questa, che supera ogni nostra comprensione442. CAPITOLO II
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Il massimo contratto è parimenti il massimo assoluto, ed è creatore e creatura Abbiamo ben chiarito a sufficienza che l’universo esiste solo in modo contratto come molteplicità, e che la molteplicità delle cose che esistono in atto è tale che nessuna di esse giunge al massimo assoluto443. Vorrei aggiungere qualcosa di ulteriore: se in una specie potesse esservi come esistente in atto un massimo contratto, allora, conformemente alla contrazione di quella data specie, esso sarebbe in atto tutto ciò che potrebbe esservi nella potenzialità di quel genere o di quella specie. Il massimo in senso assoluto, infatti, è in atto e in modo assoluto tutto ciò che è possibile, e per questo è totalmente e assolutamente infinito. Allo stesso modo, un massimo, che è contratto in un genere o in una specie, è in atto ogni perfezione possibile secondo quella determinata contrazione; e poiché in questa contrazione non può darsi nulla che sia maggiore di esso, quel massimo è infinito e abbraccia tutta la natura della contrazione data. E come il minimo [assoluto] coincide con il massimo assoluto, così anche il minimo contratto coincide con il massimo contratto. Un esempio estremamente chiaro di quanto abbiamo detto ce lo offre la linea massima, la quale non ammette alcuna opposizione, che è sia ogni misura, sia la misura eguale per tutte le figure, e con la quale coincide il punto, come abbiamo mostrato nel primo libro444. Di conseguenza, se potesse darsi un qualche individuo che fosse il massimo contratto nell’ambito di una qualche specie445, esso dovrebbe necessariamente essere la pienezza di quel genere e di quella specie, e così esso sarebbe la via, la forma, la ragion d’essere e la verità di tutte le cose che sarebbero possibili in quella specie, in tutta la pienezza delle loro perfezioni. Un massimo contratto di questo tipo,
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ram contractionis illius terminus finalis existens, in se complicans omnem eius perfectionem, cum quocumque dato supra omnem proportionem summam teneret aequalitatem, ut nulli maior et nulli minor esset, omnium perfectiones in sua plenitudine complicans. 192 Et ex hoc manifestum est ipsum maximum contractum non posse ut pure contractum subsistere, secundum ea quae paulo ante ostendimus, cum nullum tale plenitudinem perfectionis in genere contractionis attingere possit. Neque etiam ipsum tale ut contractum Deus, qui est absolutissimus, esset; sed necessario foret maximum contractum, hoc est Deus et creatura, absolutum et contractum, contractione, quae in se subsistere non posset nisi in absoluta maximitate subsistente. Non est enim nisi una tantum maximitas, ut in primo ostendimus, per quam contractum dici posset maximum. Si maxima potentia ipsum contractum sibi taliter uniret, ut plus uniri non posset salvis naturis, ut sit ipsum tale servata natura contractionis, secundum quam est plenitudo speciei contracta et creata, propter hypostaticam unionem Deus et omnia: haec admiranda unio omnem nostrum intellectum excelleret. 193 Nam si ipsa conciperetur, quemadmodum diversa uniuntur, error est; non enim maximitas absoluta est alia aut diversa, cum sit omnia. Si ut duo conciperetur prius divisa, nunc coniuncta, error; non enim aliter se habet divinitas secundum prius et posterius, neque est potius hoc quam illud; neque ipsum contractum ante unionem potuit hoc esse vel illud quemadmodum individualis persona in se subsistens. Neque ut partes coniunguntur in toto, cum Deus pars esse non possit. 194 Quis igitur tam admirandam conciperet unionem, quae neque est ut formae ad materiam, cum Deus absolutus sit impermiscibi-
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che è il termine finale di quella data contrazione, che è [pertanto] al di sopra di ogni sua natura e che complica in sé ogni sua perfezione, avrebbe un’eguaglianza somma, al di sopra di ogni proporzione, con qualsiasi cosa di quella specie, in modo tale che, complicando nella sua pienezza le perfezioni di tutte le cose di quella specie, non sarebbe né maggiore, né minore rispetto a nessuna. E da ciò risulta evidente che questo massimo contratto, secondo quanto abbiamo mostrato poco sopra, non può sussistere come contratto in modo puro, perché nessun essere puramente contratto potrebbe raggiungere la pienezza della perfezione nel genere della sua contrazione. E un tale essere, in quanto contratto, non potrebbe neppure essere Dio, che è del tutto assoluto; dovrebbe piuttosto necessariamente essere un massimo contratto, ossia Dio e creatura, assoluto e contratto, in virtù di una contrazione che potrebbe sussistere in se stessa solo se sussistesse nella massimità assoluta. Come abbiamo mostrato nel primo libro446, infatti, non vi è che una sola massimità, in virtù della quale ciò che è contratto si potrebbe dire massimo. Se la potenza massima unisse a sé quel contratto al punto tale che non potrebbe esservi un’unione maggiore nella quale vengano ad un tempo preservate le rispettive nature, e se quel contratto, conservando quella natura della contrazione per la quale egli è la pienezza contratta e creata della sua specie, in virtù di un’unione ipostatica fosse Dio e tutte le cose, allora un’unione mirabile di questo genere supererebbe ogni nostra capacità di comprensione447. Se questa unione venisse infatti concepita in modo analogo all’unione di cose diverse, allora saremmo in errore. La massimità assoluta, infatti, non è qualcosa di altro o di diverso, dato che è tutte le cose448. Se la concepissimo come l’unione di due cose che prima erano divise ed ora sono congiunte, saremmo in errore. La divinità, infatti, non si comporta in modi diversi secondo il prima e il poi, né essa è questo piuttosto che quello. Né prima dell’unione questo contratto ha potuto essere questo o quello, come avviene con una persona individuale che sussiste in sé; e non si può neppure concepire l’unione come quella di parti che si congiungono a formare un tutto, in quanto Dio non può essere una parte. Chi riuscirebbe quindi a concepire un’unione tanto straordinaria che non è come quella della forma con la materia, in quanto il
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lis materiae non informans? Omnibus profecto unionibus intelligibilibus haec maior esset, ubi contractum non subsisteret – cum sit maximum – nisi in ipsa absoluta maximitate, nihil illi adiciens, cum sit maximitas absoluta, neque in eius naturam transiens, cum sit contractum. Subsisteret igitur contractum in absoluto taliter, quod, si ipsum Deum conciperemus, falleremur, cum contractum naturam non mutet; si creaturam ipsum esse imaginaremur, deciperemur, cum maximitas absoluta, quae Deus est, naturam non deserat; si vero ut compositum ab utroque putaremus, erraremus, cum ex Deo et creatura, contracto et absoluto maxime, compositio sit impossibilis. Oporteret enim ipsum tale ita Deum esse mente concipere, ut sit et creatura, ita creaturam ut sit et creator, creatorem et creaturam absque confusione et compositione. Quis itaque in excelsum adeo elevari possit, ut in unitate diversitatem et in diversitate unitatem concipiat? Supra omnem igitur intellectum haec unio foret. 195
CAPITULUM III
Quomodo in natura humanitatis solum est ipsum tale maximum possibilius. Faciliter ad ista consequenter inquiri poterit, cuius naturae contractum ipsum maximum esse deberet. Postquam enim ipsum necessario est unum, sicut unitas absoluta est maximitas absoluta, et cum hoc contractum ad hoc vel illud, primo quidem manifestum est ordinem rerum necessario deposcere, ut quaedam res sint inferioris naturae comparatione aliorum, ut sunt ipsae, quae carent vita et intelligentia, quaedam superioris naturae, quae sunt intelligentiae, ac quaedam mediae. Si igitur maximitas absoluta est omnium entitas universalissime, ita ut non magis unius quam alterius,
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Dio assoluto non può mescolarsi alla materia, e non penetra in essa come fa la forma?449 Una tale unione sarebbe certamente superiore a tutti i tipi di unione pensabili; in questo caso, infatti, il contratto, essendo il massimo, non potrebbe sussistere che nella stessa massimità assoluta, senza aggiungere nulla ad essa, in quanto si tratta della massimità assoluta, e senza neppure passare nella sua natura, essendo esso contratto. Ciò che è contratto, pertanto, sussisterebbe nell’assoluto in modo tale che, se lo concepissimo [solo] come Dio sbaglieremmo, poiché il contratto non muta la sua natura; se immaginassimo che si tratti di una creatura, ci inganneremmo, perché la massimità assoluta, che è Dio, non abbandona la sua natura; se invece ritenessimo che si tratti di un composto dei due, sbaglieremmo ancora, perché una composizione fra Dio e la creatura, fra ciò che è contratto e ciò che è massimamente assoluto, è impossibile. Bisognerebbe infatti concepire un tipo di unione nella quale Dio sia tale da essere anche creatura, la creatura sia tale da essere anche creatore, il creatore e la creatura siano congiunti insieme senza confusione e senza composizione. Chi potrebbe, quindi, elevarsi a tanta altezza da concepire nell’unita la diversità e nella diversità l’unità? Una tale unione sarebbe pertanto al di sopra di ogni capacità di comprensione dell’intelletto. CAPITOLO III
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Un tale massimo può essere presente solo nella natura umana La domanda che ci si potrebbe ovviamente porre a proposito nel nostro argomento è di quale natura dovrebbe essere il massimo contratto450. Oltre il fatto che questo massimo deve essere uno, così come la massimità assoluta è l’unità assoluta, e che esso è inoltre contratto a questa o a quella cosa, è evidente, in primo luogo, che l’ordine delle cose esige necessariamente che alcune realtà abbiano, rispetto ad altre, una natura inferiore, come quelle che sono prive di vita e di intelligenza, che altre abbiano una natura superiore, come le intelligenze451, e che altre ancora abbiano una natura intermedia. Di conseguenza, se la massimità assoluta è l’entità di tutte le cose nel modo più universale, per cui non lo è più di una che di un’altra, è chiaro che l’ente che risulta maggiormente asso-
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clarum est hoc ens magis maximo sociabile, quod magis universitati entium est commune. 196 Si enim ipsa inferiorum natura consideratur, et aliquid talium entium ad maximitatem elevetur, erit tale Deus et ipsum, ut in linea absolutam et maxima per maximitatem, cui necessario unitur, si maxima est, Deus erit per maximitatem, et remanet linea per contractionem; et ita erit actu omne id, quod ex linea fieri potest. Linea autem non includit neque vitam neque intellectum. Quomodo ergo linea ad ipsum maximum gradum poterit assumi, si plenitudinem naturarum non attingit? Esset enim maximum, quod maius esse posset, et perfectionibus careret. 197 Pariformiter de suprema natura dicendum, quae inferiorem non complectitur ita, ut maior sit inferioris et superioris adunatio quam separatio. Maximo autem, cui minimum coincidit, convenit ita unum amplecti, quod et aliud non dimittat, sed simul omnia. Quapropter natura media, quae est medium connexionis inferioris et superioris, est solum illa, quae ad maximum convenienter elevabilis est potentia maximi infiniti Dei. Nam cum ipsa intra se complicet omnes naturas, ut supremum inferioris et infimum superioris, si ipsa secundum omnia sui ad unionem maximitatis ascenderit, omnes naturas ac totum universum omni possibili modo ad summum gradum in ipsa pervenisse constat. 198 Humana vero natura est illa, quae est supra omnia Dei opera elevata et paulo minus angelis minorata, intellectualem et sensibilem naturam complicans ac universa intra se constringens, ut microcosmos aut parvus mundus a veteribus rationabiliter vocitetur. Hinc ipsa est illa, quae si elevata fuerit in unionem maximitatis,
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ciabile al massimo è quello che è maggiormente comune alla totalità degli enti. Se si considera, infatti, la natura delle cose inferiori e si eleva uno di questi enti alla massimità, allora esso sarà sia Dio che se stesso. Si può vedere un esempio di questo nella linea massima452. La linea massima, infatti, è infinita, in virtù dell’infinità assoluta, ed è massima, in virtù della massimità, alla quale è necessariamente unita, se è massima; di conseguenza, la linea massima sarà Dio, in virtù della massimità, e resterà linea, in virtù della contrazione, e in questo modo essa sarà in atto tutto ciò che una linea può diventare. La linea, tuttavia, non include in sé né la vita, né l’intelletto. In che modo potrebbe allora una linea essere elevata fino al grado massimo, se non raggiunge la pienezza di tutte le nature? Sarebbe infatti un massimo che potrebbe diventare maggiore e che sarebbe privo di alcune perfezioni. La stessa cosa va detta della natura suprema; questa, infatti, non abbraccia la natura inferiore, per cui l’unione della natura inferiore e della natura superiore sarebbe maggiore della loro separazione453. Del massimo, al quale non si oppone il minimo, è proprio invece il fatto di abbracciare una cosa senza con ciò escluderne un’altra, per cui esso abbraccia tutte le cose simultaneamente. Per questo motivo, la natura intermedia, che è il mezzo di connessione fra la natura inferiore e quella superiore454, è la sola che può essere elevata in maniera conveniente al massimo dalla potenza del Dio massimo e infinito. Questa natura intermedia, infatti, complica in sé tutte le nature, in quanto essa è il grado più elevato delle nature inferiori e il grado più basso delle nature superiori; per questo motivo, se questa natura, con tutto ciò che la caratterizza, ascendesse all’unione con la massimità, è evidente, allora, che, in essa, anche tutte le nature e l’intero universo perverrebbero al grado supremo, sotto ogni possibile aspetto. Ora, la natura umana è quella che risulta elevata al di sopra di tutte le opere di Dio e che è di poco minore rispetto agli angeli455; essa complica la natura intellettuale e quella sensibile e racchiude in se stessa tutte le cose, per cui a ragione gli antichi hanno definito l’uomo come un microcosmo o un piccolo mondo456. La natura umana, pertanto, è quella natura che, se venisse elevata all’unio-
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plenitudo omnium perfectionum universi et singulorum existeret, ita ut in ipsa humanitate omnia supremum gradum adipiscerentur. 199 Humanitas autem non est nisi contracte in hoc vel illo. Quare non esset possibile plus quam unum verum hominem ad unionem maximitatis posse ascendere, et hic certe ita esset homo quod Deus, et ita Deus quod homo, perfectio universi, in omnibus primatum tenens, in quo minima, maxima ac media naturae maximitati absolutae unitae ita coinciderent, ut ipse omnium perfectio esset, et cuncta, ut contracta sunt, in eo ut in sua perfectione quiescerent. Cuius hominis mensura esset et angeli, ut Iohannes ait in Apocalypsi, et singulorum, quoniam esset universalis contracta entitas singularum creaturarum per unionem ad absolutam, quae est entitas absoluta universorum; per quem cuncta initium contractionis atque finem reciperent, ut per ipsum, qui est maximum contractum, a maximo absoluto omnia in esse contractionis prodirent et in absolutum per medium eiusdem redirent, tamquam per principium emanationis et per finem reductionis. 200 Deus autem, ut est aequalitas essendi omnia, creator est universi, cum ipsum sit ad ipsum creatum. Aequalitas igitur summa atque maxima essendi omnia absolute illa esset, cui ipsa humanitatis natura uniretur, ut ipse Deus per assumptam humanitatem ita esset omnia contracte in ipsa humanitate, quemadmodum est aequalitas essendi omnia absolute. Homo igitur iste cum in ipsa maxima aequalitate essendi per unionem subsisteret, filius Dei foret sicut Verbum, in quo omnia facta sunt, aut ipsa essendi aequalitas, quae Dei filius nominatur secundum ostensa in prioribus; nec tamen desineret esse filius hominis, sicut nec desineret esse homo, prout infra dicetur.
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ne con la massima unità, sarebbe la pienezza di tutte le perfezioni dell’universo e dei singoli enti, in modo tale che, nell’umanità, tutte le cose raggiungerebbero il loro grado supremo. L’umanità, tuttavia, non esiste che in modo contratto in questo o in quell’uomo. Per questo motivo, non sarebbe possibile che più di un solo vero uomo potesse ascendere all’unione con la massimità. E quest’uomo, certamente, sarebbe uomo in modo tale da essere Dio, e Dio in modo tale da essere uomo; sarebbe la perfezione dell’universo e avrebbe il primato su tutte le cose457, e in lui coinciderebbero le realtà minime, massime e intermedie della natura, che è unita al massimo assoluto, al punto che egli sarebbe la perfezione di tutte le cose, e tutte, in quanto contratte, troverebbero in lui la propria quiete come nella propria perfezione. La misura di un tale uomo sarebbe anche la misura dell’angelo, come Giovanni dice nell’Apocalisse458, e sarebbe la misura di tutte le singole cose, perché, in virtù della sua unione con la massima unità assoluta, che è l’entità assoluta di tutte le cose, egli sarebbe l’entità contratta universale delle singole creature. Attraverso lui tutte le cose riceverebbero l’inizio e il fine della contrazione, in modo tale che, attraverso lui, che è il massimo contratto, tutte le cose procederebbero dal massimo assoluto nell’essere della contrazione e ritornerebbero all’assoluto grazie alla sua stessa mediazione, in quanto egli è il principio della loro emanazione e il fine del loro ritorno. Dio, tuttavia, essendo l’eguaglianza dell’essere di tutte le cose459, è il creatore dell’universo, il quale è stato creato in vista di Dio stesso. Pertanto, ciò a cui la natura umana si unirebbe sarebbe la massima e somma eguaglianza dell’essere di tutte le cose in senso assoluto; in questo modo, attraverso l’assunzione della natura umana, Dio stesso sarebbe, nella sua natura umana, tutte le cose in maniera contratta, così come egli è l’eguaglianza dell’essere di tutte le cose in senso assoluto. Quest’uomo, pertanto, poiché, in virtù dell’unione, sussisterebbe nell’eguaglianza massima dell’essere, sarebbe figlio di Dio, il Verbo nel quale sono state create tutte le cose460, ossia sarebbe la stessa eguaglianza dell’essere, la quale si chiama Figlio di Dio, come abbiamo mostrato nei due libri precedenti461; e tuttavia, egli non cesserebbe di essere figlio dell’uomo, come non cesserebbe di essere uomo, come spiegheremo più avanti462.
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quoniam Deo optimo atque perfectissimo non repugnant ista, quae absque sui variatione, diminutione aut minoratione per ipsum fieri possunt, sed potius immensae bonitati conveniunt, ut optime atque perfectissime congruo ordine universa ab ipso et ad ipsum creata sint, tunc, cum semota hac via omnia perfectiora esse possent, nemo nisi aut Deum aut ipsum optimum negans ab istis rationabiliter poterit dissentire. Relegata est enim procul omnis invidia ab eo, qui summe bonus est, cuius operatio defectuosa esse nequit, sed sicut ipse est maximus, ita et opus eius, quanto hoc possibilius est, ad maximum accedit. Potentia autem maxima non est terminata nisi in seipsa, quoniam nihil extra ipsam est, et ipsa est infinita. In nulla igitur creatura terminatur, quin data quacumque ipsa infinita potentia possit creare meliorem aut perfectiorem. 202 Sed si homo elevatur ad unitatem ipsius potentiae, ut non sit homo in se subsistens creatura, sed in unitate cum infinita potentia, non est ipsa potentia in creatura, sed in seipsa terminata. Haec autem est perfectissima operatio maximae Dei potentiae infinitae et interminabilis, in qua deficere nequit; alioquin neque creator esset neque creatura. Quomodo enim creatura esset contracte ab esse divino absoluto, si ipsa contractio sibi unibilis non esset? Per quam cuncta, ut sunt ab ipso, qui absolute est, existerent, ac ipsa, ut sunt contracta, ab ipso sint, cui contractio est summe unita, ut sic primo sit Deus creator, secundo Deus et homo creata humanitate supreme in unitatem sui assumpta, quasi universalis rerum omnium contractio aequalitati omnia essendi hypostatice ac personaliter unita, ut sic per Deum absolutissimum mediante contractione universali, quae humanitas est; tertio loco omnia in esse contrac-
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Al Dio ottimo e perfettissimo non contraddicono quelle cose che egli può fare senza alcun mutamento, diminuzione o minorazione da parte sua, ma anzi convengono alla sua immensa bontà, cosicché tutte le cose sono state create da lui e in vista di lui in un modo del tutto perfetto e secondo un ordine loro conveniente; pertanto, dato che nessuna cosa potrebbe essere più perfetta463 se venisse rimosso questo ordine464, nessuno dovrebbe dissentire da queste conclusioni, a meno che egli non sia un ateo o un negatore dell’assoluta bontà di Dio. Ogni invidia, infatti, è del tutto lontana da colui che è sommamente buono465 e la cui opera non può avere alcun difetto; al contrario, come egli è il massimo, così anche la sua opera si avvicina quanto più è possibile al massimo. La potenza massima, tuttavia, non ha alcun limite se non in se stessa, dal momento che non vi è nulla che sia al di fuori di essa ed essa è infinita. In nessuna creatura, pertanto, essa trova il suo limite, per cui, data qualsiasi creatura, la potenza infinita ne potrebbe creare una migliore e più perfetta466. Ma se un uomo viene elevato all’unità con questa potenza, in modo tale da essere una creatura che sussiste non più in se stessa ma nell’unità con la potenza infinita, allora questa potenza ha il suo limite non nella creatura, ma in se stessa. Questa, tuttavia, è l’opera assolutamente più perfetta compiuta dalla potenza massima, infinita e non limitabile di Dio, nella quale non può esservi alcuna mancanza, perché, altrimenti, non sarebbe né creatore, né creatura. Come potrebbe infatti la creatura discendere in modo contratto dall’essere divino assoluto, se la contrazione non fosse poi unibile con lui? Attraverso una tale contrazione, tutte le cose, in quanto sono467, riceverebbero il proprio essere da colui che è in senso assoluto, e, in quanto contratte, riceverebbero il proprio essere da colui al quale la contrazione è unita in modo supremo, in maniera tale che egli, in primo luogo, è Dio creatore e, in secondo luogo, una volta creata l’umanità ed assunta all’unità suprema con lui, è Dio e uomo; è come se la contrazione universale di tutte le cose fosse unita in modo ipostatico e personale all’uguaglianza dell’essere di tutte le cose468, cosicché, in virtù di Dio, che è del tutto assoluto, e attraverso la mediazione di quella contrazione universale che è l’umanità, tutte le cose, in terzo luogo, vengono all’essere contratto, in
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tum prodeant, ut sic hoc ipsum, quod sunt, esse possint ordine et modo meliori. Hic autem ordo non temporaliter considerari debet, quasi Deus in tempore praecesserit primogenitum creaturae, aut quod primogenitus Deus et homo tempore mundum antevenerit, sed natura et ordine perfectionis supra omne tempus, ut ille apud Deum supra tempus cunctis prior existens in plenitudine temporis multis revolutionibus praeteritis mundo appareret. 203
CAPITULUM IV
Quomodo ipsum est Iesus benedictus, Deus et homo. Quoniam quidem ad hoc indubia nunc fide hiis talibus ratiocinationibus provecti sumus, ut in nullo haesitantes firmiter teneamus praemissa verissima esse, subiungentes dicimus temporis plenitudinem praeteritam ac Iesum semper benedictum primogenitum omnis creaturae esse. Nam ex hiis, quae ipse existens homo supra hominem divine operatus est, ac aliis, quae ipse in omnibus verax repertus de seipso affirmavit, testimonium in sanguine suo perhibentes, qui cum ipso conversati sunt, constantia invariabili infinitis dudum infallibilibus probata argumentis iuste asserimus ipsum esse, quem omnis creatura in tempore futurum ab initio exspectavit, et qui per prophetas se in mundo appariturum praedixerat. Venit enim, ut omnia adimpleret, quoniam ipse voluntate cunctos sanitati restituit et omnia occulta et secreta sapientiae tamquam potens super omnia edocuit, peccata tollens ut Deus, mortuos suscitans, naturam transmutans, imperans spiritibus, mari et ventis, supra aquam ambulans, legem statuens in plenitudine supplementi ad omnes leges. In quo secun-
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modo da poter essere ciò che esse sono nella maniera migliore possibile e nell’ordine migliore possibile469. Quest’ordine, tuttavia, dev’essere inteso non in senso temporale, come se Dio avesse preceduto nel tempo il primogenito fra le creature470, o come se il primogenito, ossia Dio e uomo, fosse venuto prima del mondo in senso temporale, ma dev’essere piuttosto inteso al di sopra di ogni tempo, come una precedenza per natura e secondo l’ordine della perfezione; di conseguenza, colui che esisteva presso Dio471, al di sopra del tempo e prima di tutte le cose, è potuto apparire nel mondo nella pienezza del tempo472, dopo che erano passati molti cicli di rivoluzione compiuti dal mondo. CAPITOLO IV
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Questo massimo contratto è Gesù benedetto, Dio e uomo Poiché i ragionamenti che abbiamo fin qui svolto ed una fede priva di dubbi ci hanno condotto a comprendere che quanto abbiamo detto in precedenza è del tutto vero, possiamo ora aggiungere con fermezza e senza alcuna esitazione che la pienezza dei tempi è passata e che Gesù Cristo, sempre benedetto, è il primogenito di ogni creatura473. Infatti, sulla base di quanto Gesù, pur essendo un uomo, ha compiuto in maniera divina, al di sopra di ogni capacità umana, e in base ad altre cose che egli, che risultò essere verace sempre in tutto, affermò di se stesso – cose di cui diedero testimonianza con il proprio sangue coloro che vissero con lui474 –, noi, con immutata fermezza, rafforzata da un numero oramai grandissimo di argomenti certissimi, sosteniamo a buon diritto che Gesù è colui che, sin dall’inizio, l’intera creazione ha atteso nel corso del tempo, ed è colui di cui i profeti avevano predetto che sarebbe apparso nel mondo475. Egli venne, infatti, per portare a compimento tutte le cose476, poiché di sua volontà restituì a tutti gli uomini la salvezza477 e, avendo potere su tutte le cose, insegnò tutti i misteri occulti della sapienza478; in quanto Dio, egli rimise peccati479, risuscitò i morti480, trasfigurò la propria natura, comandò agli spiriti, al mare e ai venti, camminò sopra le acque481 ed istituì una nuova legge che, nella pienezza, fosse di aiuto a tutte le leggi482. Secondo la testimo-
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dum testimonium illius singularissimi praedicatoris veritatis Pauli desuper in raptu illuminati habemus perfectionem omnem, «redemptionem et remissionem peccatorum; qui est imago Dei invisibilis, primogenitus omnis creaturae, quia in ipso condita sunt universa in caelis et in terra, visibilia et invisibilia, sive throni sive dominationes sive principatus sive potestates: omnia per ipsum et in ipso creata sunt, et ipse est ante omnes, et omnia in ipso constant. Et ipse est caput corporis ecclesiae, qui est principium, primogenitus ex mortuis, ut sit in omnibus ipse primatum tenens; quia in ipso complacuit omnem plenitudinem inhabitare et per eum reconciliari omnia in ipsum.» 204 Talia quidem et alibi plura perhibentur sanctorum de eo testimonia, quoniam ipse Deus et homo; in quo ipsa humanitas in ipsa divinitate Verbo unita est, ut non in se, sed in ipso subsisteret, postquam humanitas in summo gradu et omni plenitudine aliter esse non potuit nisi in divina Filii persona. Et ad hoc, ut supra omnem intellectualem nostram comprehensionem quasi in docta ignorantia hanc personam concipiamus, quae hominem sibi univit, ascendentes in nostro intellectu consideremus: Cum Deus per omnia sit in omnibus et omnia per omnia in Deo, ut quodam loco superius ostendimus, tunc, cum ista simul copulative consideranda sint, sic quod Deus sit in omnibus, ita quod omnia in Deo, et cum esse ipsum divinum sit supremae aequalitatis et simplicitatis, hinc Deus, ut est in omnibus, non est secundum gradus in ipsis quasi se gradatim et particulariter communicando. Omnia autem sine diversitate graduali esse non possunt; quapropter in Deo sunt secundum se cum graduum diversitate. Hinc, cum Deus sit in omnibus, ita ut omnia in eo, est manifestum Deum absque sui mutatione in aequalitate essendi omnia esse in unitate cum humanitate Iesu maxima, quoniam maximus homo in ipso non aliter quam maxime esse potest. Et ita in Iesu, qui sic est
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nianza di quel singolarissimo predicatore della verità che fu Paolo, il quale, nel suo rapimento, ricevette un’illuminazione dall’alto483, in lui abbiamo ogni perfezione e «la redenzione e la remissione dei peccati, egli che è immagine di Dio invisibile, primogenito di ogni creatura, perché in lui furono fondate tutte le cose che sono nei cieli e nella terra, le cose visibili e invisibili, i troni, le dominazioni, i principati, le potestà; tutte le cose sono state create attraverso lui e in lui, egli è anteriore a tutti e in lui tutte le cose trovano consistenza. Egli è il capo del corpo della Chiesa, è principio, primogenito dei morti, così da avere il primato in tutte le cose; perché in lui tutta la pienezza si compiacque di abitare e tutte le cose in lui per sua virtù si riconciliano»484. Tali testimonianze, e molte altre offerte dai santi su di lui, attestano che egli è Dio e uomo; in lui l’umanità è unita al Verbo nella stessa divinità, in modo tale che essa non sussiste in stessa, ma nel Verbo485; l’umanità, infatti, non poteva sussistere in sommo grado e nella sua pienezza che nella persona divina del Figlio. E per poter concepire, al di sopra di ogni nostra comprensione intellettuale e, per così dire, nella dotta ignoranza, questa persona, che ha unito a sé l’uomo, eleviamoci con il nostro intelletto a considerare quanto segue: Dio è in tutte le cose mediante tutte le cose, e tutte le cose sono in Dio mediante tutte le cose, come abbiamo mostrato in precedenza in un certo luogo486. Di conseguenza, dato che queste due affermazioni devono essere considerate insieme e in maniera congiunta l’una con l’altra, per cui bisogna dire che «Dio è in tutte le cose, così come tutte le cose sono in Dio», e dato che, inoltre, l’essere divino è di un’eguaglianza e semplicità suprema487, allora Dio, in quanto è in tutte le cose, non è presente in esse secondo dei gradi, come se egli si comunicasse gradualmente e parzialmente. Le cose, invece, non possono esistere senza una diversità di gradi488; per questo, considerate secondo il loro essere, le cose sono in Dio con una diversità di gradi. Di conseguenza, dal momento che Dio è in tutte le cose come tutte le cose sono in lui, è evidente che Dio, senza alcun mutamento da parte sua, è nell’eguaglianza dell’essere di tutte le cose, in unità con l’umanità massima di Gesù, in quanto l’uomo massimo non può essere in Dio che in modo massimo489. E così in Gesù, che è l’eguaglianza dell’essere
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aequalitas omnia essendi, tamquam in Filio in divinis, qui est media persona, Pater aeternus et sanctus Spiritus existunt, et omnia ut in Verbo, et omnis creatura in ipsa humanitate summa et perfectissima universaliter omnia creabilia complicanti, ut sit omnis plenitudo ipsum inhabitans. 205 Manuducamur aliqualiter ad ista hoc exemplo: Sensualis cognitio est quaedam contracta cognitio, propter quod sensus non attingit nisi particularia. Intellectualis cognitio est universalis, propter quod respectu sensualis absoluta existit atque abstracta a contractione particulari. Contrahitur autem sensatio varie ad varios gradus, per quas quidem contractiones variae animalium species exoriuntur secundum gradus nobilitatis et perfectionis. Et quamvis ad maximum gradum simpliciter non ascendat, ut superius ostendimus, in specie tamen illa, quae actu suprema est in genere animalitatis, puta humana, ibi sensus tale animal efficit, quod ita est animal, ut et sit intellectus. Homo enim est suus intellectus, ubi contractio sensualis quodammodo in intellectuali natura suppositatur, intellectuali natura existente quoddam divinum separatum abstractum esse, sensuali vero remanente temporali et corruptibili secundum suam naturam. 206 Quare quadam licet remota similitudine ita in Iesu considerandum, ubi humanitas in divinitate suppositatur, quoniam aliter in sua plenitudine maxima esse non posset. Intellectus enim Iesu, cum sit perfectissimus penitus in actu existendo, non potest nisi in divino intellectu, qui solum est actu omnia, suppositari personaliter. Intellectus enim in omnibus hominibus possibiliter est omnia, crescens gradatim de possibilitate in actum, ut quanto sit maior, minor sit in potentia. Maximus autem, cum sit terminus potentiae omnis intellectualis naturae in actu existens pleniter, nequaquam existere potest, quin ita sit intellectus, quod et sit Deus, qui
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di tutte le cose, esistono il Padre eterno e lo Spirito eterno, come, in seno alla divinità, esistono nel Figlio, che è la seconda persona; e come nel Verbo esistono tutte le cose, così ogni creatura esiste nell’umanità somma e perfettissima di Gesù, la quale complica universalmente in sé tutte le cose che possono essere create, per cui in lui abita ogni pienezza. Avviciniamoci di più a queste cose, facendoci in qualche modo guidare per mano dal seguente esempio. La conoscenza sensibile è una sorta di conoscenza contratta, per il fatto che i sensi giungono a cogliere solo le singole cose particolari. La conoscenza intellettuale invece è universale, per il fatto che, rispetto alla conoscenza sensibile, è libera e separata dalla contrazione al singolo dato particolare. La sensazione, tuttavia, è contratta in vari gradi e secondo vari modi, e da questa varietà di contrazioni sorgono varie specie di animali, secondo il loro grado di nobiltà e di perfezione. E sebbene la contrazione non possa ascendere al grado massimo in quanto tale, come abbiamo mostrato in precedenza490, tuttavia in quella specie che, nel genere animale, è quella in atto suprema, ossia nella specie umana, la facoltà sensibile ha dato vita ad un animale tale da essere anche intelletto. L’uomo, infatti, è il suo intelletto, e in lui la contrazione dei sensi ha in qualche modo il suo supporto nella natura intellettuale491, dal momento che la natura intellettuale sussiste come una qualcosa di divino, di separato e astratto, mentre la natura sensibile, conformemente alla sua natura, resta temporale e corruttibile. Sulla base di questa similitudine, per quanto lontana, dobbiamo fare una considerazione analoga a proposito di Gesù, nel quale l’umanità ha il suo supporto nella divinità492, perché altrimenti non potrebbe essere massima in tutta la sua pienezza. L’intelletto di Gesù, essendo assolutamente perfetto ed esistente totalmente in atto, non può trovare il proprio supporto personale che nell’intelletto divino, il quale soltanto è in atto tutte le cose. In tutti gli uomini, infatti, l’intelletto è in potenza tutte le cose493 e si sviluppa gradualmente dalla potenza all’atto, per cui è tanto più in atto, quanto meno è in potenza. L’intelletto massimo, invece, essendo il limite ultimo della potenzialità di ogni natura intellettuale ed essendo pienamente in atto, non può in alcun modo esistere se non è un intelletto tale da essere anche Dio, il quale è tutto in tutto494.
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est omnia in omnibus. Quasi ut si polygonia circulo inscripta natura foret humana, et circulus divina: si ipsa polygonia maxima esse debet, qua maior esse non potest, nequaquam in finitis angulis per se subsisteret, sed in circulari figura, ita ut non haberet propriam subsistendi figuram, etiam intellectualiter ab ipsa circulari et aeterna figura separabilem. 207 Maximitas autem perfectionis humanae naturae in substantialibus et essentialibus attenditur, puta quoad intellectum, cui cetera corporalia serviunt. Et hinc maxime perfectus homo non debet esse in accidentalibus eminens nisi in respectu intellectus. Non enim requiritur, ut sit aut gigas aut gnanus aut illius vel illius magnitudinis, coloris, figurae et ceteris accidentalibus; sed hoc tantum est necessarium, quod ipsum corpus declinet ita ab extremis, ut sit aptissimum instrumentum intellectualis naturae, cui absque renitentia, murmuratione ac fatiga oboediat et obtemperet. Iesus noster, in quo omnes thesauri scientiae et sapientiae, etiam dum in mundo apparuit, absconditi fuerunt quasi lux in tenebris, ad hunc finem eminentissimae intellectualis naturae corpus aptissimum atque perfectissimum, ut etiam a sanctissimis testibus suae conversationis fertur, creditur habuisse. 208
CAPITULUM V
Quomodo Christus conceptus per Spiritum sanctum natus est ex Maria virgine. Amplius considerandum, quoniam humanitas perfectissima sursum suppositata, cum sit terminalis contracta praecisio, naturae illius penitus speciem non exit. Simile autem a simili generatur, et hinc secundum naturae proportionem procedit generatum a genitore. Terminus autem cum careat termino, caret finitatione et proportione. Quare homo maximus via naturae non est generabilis ne-
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Supponi, come esempio, che un poligono inscritto in un cerchio sia la natura umana e il cerchio sia la natura divina: in questo caso, se il poligono deve essere il poligono massimo, del quale non può esservi un poligono maggiore, allora esso non sussisterebbe in alcun modo per sé, con un numero finito di angoli, ma sussisterebbe nella figura circolare, di modo che non avrebbe la sua sussistenza in una propria figura, in una figura, cioè, che fosse, anche solo concettualmente, separabile dalla figura circolare ed eterna495. Ora, la massima perfezione della natura umana si osserva nell’ambito di ciò che è sostanziale ed essenziale, ossia nell’intelletto, a servizio del quale sono le altre proprietà corporee. Di conseguenza, l’uomo massimamente perfetto non deve eccellere nelle qualità accidentali, ma in quelle che riguardano il suo intelletto. Ad esempio, non si richiede che egli sia un gigante o un nano, di questa o quella grandezza, di un determinato colore o di una determinata figura, e così via per gli altri accidenti; è necessario soltanto che il suo corpo eviti gli estremi, in modo da poter essere uno strumento del tutto adatto alla sua natura intellettuale, alla quale deve sottomettersi ed obbedire senza resistenze, rifiuti o fatiche. Il nostro Gesù, nel quale, anche quando apparve nel mondo, erano nascosti tutti i tesori della scienza e della sapienza496, come una luce nascosta nelle tenebre497, si crede abbia avuto, al servizio della sua natura intellettuale eminentissima, un corpo assolutamente adatto e perfetto, come ci viene anche tramandato dai santissimi testimoni che vissero con lui498. CAPITOLO V
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In che modo Cristo, concepito in virtù dello Spirito santo, sia nato da Maria Vergine Bisogna ancora considerare il fatto che l’umanità perfettissima, che ha il suo fondamento in cielo, non sfugge totalmente alla natura della sua specie, essendone la precisione finale contratta. Ora, il simile si genera dal simile499, e pertanto il generato procede dal genitore secondo una proporzione naturale. Il termine ultimo, tuttavia, non avendo alcun termine, è sottratto anche ad ogni limitazione e ad ogni proporzione. Per questo motivo, l’uomo Massimo non
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que etiam omnino carere potest principio speciei, cuius ultima perfectio existit. Partim igitur secundum humanam procedit naturam, quia homo. Et quoniam est altissimum principiatum immediatissime principio unitum, tunc ipsum principium, a quo est immediatissime, est ut creans aut generans ut pater; et principium humanum est ut passivum, materiam receptibilem ministrans; quare a matre sine virili semine. 209 Omnis autem operatio ex spiritu et amore quodam procedit uniente activum passivo, ut quodam loco in superioribus ostensum reperitur. Et hinc maxima operatio supra omnem naturae proportionem, per quam creator unitur creaturae, ex maximo uniente amore procedens, non dubium a sancto Spiritu, qui absolute amor est, necessario existit. Per quem solum sine adminiculo agentis contracti infra latitudinem speciei concipere potuit mater Filium Dei Patris; ut sicut Deus Pater omnia Spiritu suo formavit, quae ex non exstantibus ab ipso in esse prodierunt, ita principalius hoc egit eodem sanctissimo Spiritu, quando perfectissime operatus est. 210 Quasi ut exemplo instruatur ignorantia nostra: Dum excellentissimus aliquis doctor verbum intellectuale ac mentale suum vult discipulis pandere, ut ostensa ipsis concepta veritate spiritualiter pascantur, agit, ut ipsum tale suum mentale verbum vocem induat, quoniam aliter ostensibile discipulis non est, si non induat sensibilem figuram. Non potest autem aliter hoc fieri nisi per spiritum naturalem doctoris, qui ex attracto aëre adaptat vocalem figuram mentali verbo convenientem, cui taliter ipsum verbum unit, ut vox ipsa in ipso verbo subsistat, ita quod audientes mediante voce verbum attingant. 211 Hac licet remotissima similitudine supra id, quod intelligi per nos potest, alleviamur parumper in nostra meditatione, quoniam
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è generabile per via naturale, e tuttavia non può neppure essere completamente privo del principio di quella specie di cui egli è la perfezione ultima. Di conseguenza, poiché è un uomo, egli procede in parte in conformità alla natura umana. E poiché è l’essere supremo derivato dal principio e unito al principio nel modo più immediato, è lo stesso principio, dal quale procede nel modo più immediato, che funge da creatore o da generatore, ossia da padre, mentre il principio umano è in certo qual modo passivo e fornisce la materia ricettiva; per questo motivo, egli è nato da una madre senza l’intervento del seme maschile. Ogni operazione, tuttavia, procede dallo spirito e da un certo amore che unisce l’attivo con il passivo, come ho mostrato in un passo in precedenza500. Di conseguenza, quell’operazione massima per la quale, al di sopra di ogni proporzione naturale, il creatore si unisce alla creatura, e che procede da un amore che unisce in modo massimo, deriva senza alcun dubbio dallo spirito santo, che è l’amore in senso assoluto501. In virtù soltanto dello spirito santo, e senza l’intervento di un agente contratto nell’ambito della specie, la madre ha potuto concepire il figlio di Dio padre; come mediante il suo spirito Dio padre ha formato tutte le cose che, per virtù sua, sono passate dal non-essere all’essere, così egli ha agito in maniera più eccelsa mediante il medesimo spirito santissimo quando ha compiuto la sua opera più perfetta. Per istruire la nostra ignoranza con un esempio502: quando un insegnante molto insigne vuole far conoscere ai suoi allievi il suo verbo intellettuale e mentale, affinché essi si nutrano spiritualmente della verità che egli ha concepito e che vuole loro manifestare, egli fa in modo di rivestire questo suo verbo mentale della voce, perché altrimenti, se non si rivestisse di una figura sensibile, esso non si potrebbe manifestare ai suoi allievi. Ciò, tuttavia, può essere fatto solo attraverso lo spirito naturale dell’insegnante, il quale, con l’aria inspirata, forma una figura di voce che sia adatta al suo verbo mentale; a questa figura egli unisce il suo verbo mentale, in modo tale che la sua voce abbia la sua sussistenza nel verbo mentale, cosicché gli ascoltatori, attraverso la voce, raggiungono il verbo stesso. Attraverso questa similitudine, per quanto essa sia lontanissima dalla verità, cerchiamo per un momento di sollevarci nella no-
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Pater aeternus immensae bonitatis nobis volens divitias gloriae suae et omnem scientiae et sapientiae plenitudinem ostendere Verbum aeternum, Filium suum, qui ista et plenitudo omnium existit, nostris infirmitatibus compatiens, quoniam aliter quam in sensibili et nobis simili forma percipere non poteramus, ipsum secundum nostram capacitatem manifestans, humana natura induit per Spiritum sanctum sibi consubstantialem. Qui quidem Spiritus quasi ut vox ex aere attracto per inspirationem de puritate fecunditatis virginalis sanguinis corpus ipsum animale contexuit, rationem adiciens, ut homo esset; Verbum Dei Patris adeo interne adunavit, ut centrum subsistentiae humanae naturae existeret. Et haec omnia non seriatim, ut in nobis conceptus temporaliter exprimitur, sed operatione momentanea supra omne tempus secundum voluntatem conformem infinitae potentiae peracta sunt. 212 Hanc autem matrem talem virtute plenam, materiam ministrantem, nemo dubitare debet cunctas virgines omni virtutis perfectione excessisse et inter omnes mulieres fecundas excellentiorem benedictionem habuisse. Ipsa enim, quae per omnia fuit ad tam excellentissimum unicum partum virginalem praeordinata, omnibus ex debito carere debuit, quae aut puritati aut vigorositati simul et unitati tam excellentissimi partus obesse potuissent. Si enim praeelectissima virgo non fuisset, quomodo ad partum virginalem sine virili semine apta fuisset? Si sanctissima et superbenedicta a Domino non fuisset, quomodo sacrarium sancti Spiritus, in quo Filio Dei corpus effingeret, facta fuisset? Si post partum virgo non remansisset, prius excellentissimo partui centrum maternae fecunditatis in sua suprema perfectione limpiditatis non communicasset, sed divisive ac diminute, non ut tanto filio unico et supremo debuisset. Si igitur virgo sanctissima se totam Deo obtulit, cui operatio-
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stra riflessione al di sopra di ciò che possiamo comprendere. Il Padre eterno, infatti, volendo, nella sua immensa bontà, manifestarci la ricchezza della sua gloria e tutta la pienezza della sua scienza e della sua sapienza503, mediante lo spirito santo, a lui consostanziale, ha rivestito della natura umana il Verbo eterno, il Figlio suo, che è questa pienezza ed è la pienezza di tutte le cose, perché ebbe compassione delle nostre debolezze504; poiché noi, infatti, non avremmo potuto percepirlo che in una forma visibile e in una figura simile alla nostra, il Padre manifestò il verbo in modo conforme alle nostre capacità. E come la voce viene formata con l’aria inspirata, così dalla purezza feconda del sangue di una vergine lo Spirito, attraverso la sua insufflazione, formò il corpo di un essere vivente e vi aggiunse la ragione in modo che fosse un uomo; ad esso congiunse internamente il Verbo di Dio padre, in modo tale che fosse il centro dell’esistenza della natura umana. E tutto questo fu compiuto non in una serie di momenti successivi, come avviene in noi la manifestazione temporale del pensiero, ma con un’operazione istantanea, al di là di ogni tempo, secondo una volontà conforme alla potenza infinita505. Nessuno può dubitare che una tale madre, che era così ricolma di virtù e che donò la materia [del corpo di Cristo], non superasse tutte le vergini nella perfezione di ogni virtù e che, fra tutte le donne fertili, non abbia ricevuto la più eccelsa delle benedizioni506. E una tale madre, che fu preordinata sotto tutti gli aspetti a questo parto verginale così eccelso ed unico, dovette necessariamente essere priva di tutto ciò che avrebbe potuto essere di ostacolo alla purezza, al vigore ed insieme all’unicità di un parto tanto eccelso. Se non fosse stata la vergine fra tutte la più eletta, in che modo, infatti, sarebbe stata adatta ad un parto verginale senza intervento di un seme maschile? Se non fosse stata santissima e benedetta in modo supremo dal Signore, come sarebbe potuta diventare il tempio dello Spirito santo, nel quale egli doveva formare il corpo del Figlio di Dio? Se non fosse rimasta vergine dopo il parto, allora anche prima non avrebbe conferito a quel parto così eccelso il centro della fecondità materna nella sua perfezione più alta e più pura, ma glielo avrebbe donato in modo diviso e diminuito, e quindi non come avrebbe dovuto ad un figlio tanto unico e supremo. Se, pertanto, la vergine santissima offrì tutta se stessa a Dio, in virtù del quale par-
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ne Spiritus sancti etiam omnem fecunditatis naturam penitus participavit, remansit in ipsa immaculata virginitas ante partum, in partu et post partum supra omnem naturalem communem generationem incorrupta. 213 Ex Patre igitur aeterno et matre temporali, virgine scilicet gloriosissima Maria, Deus et homo Iesus Christus natus est; ex Patre maximo et absolute plenissimo, ex matre plenissima virginali fecunditate, superna benedictione referta in temporis plenitudine. Non enim potuit esse homo ex matre virgine nisi temporaliter, neque ex Patre Deo nisi aeternaliter; sed ipsa temporalis nativitas requisivit in tempore plenitudinem perfectionis, sicut in matre plenitudinem fecunditatis. 214 Quando igitur venit plenitudo temporis, cum sine tempore homo nasci non posset, tunc natus est in tempore et loco ad hoc aptissimo, omnibus tamen creaturis occultissimo. Summae enim plenitudines incomparabiles sunt aliis cotidianis experientiis. Hinc nullo signo quaecumque ratio eas apprehendere potuit, quamvis quadam occultissima prophetica inspiratione quaedam signa obscura tradiderint obumbrata humanis similitudinibus, ex quibus rationabiliter incarnandum Verbum in temporis plenitudine praevidisse potuissent sapientes. Praecisionem vero loci vel temporis aut modi solus aeternus genitor praescivit, qui ordinavit, ut, dum medium silentium tenerent omnia, quod tunc in noctis discursu Filius ab arce superna in uterum virginalem descenderet et ordinato convenienti tempore in forma servi se mundo manifestaret. 215
CAPITULUM VI
Mysterium mortis Iesu Christi. Digressionem parvam ad expressionem intenti antemitti convenit, ut mysterium crucis clarius attingamus. Non dubium hominem ex sensu et intellectu atque ratione media, quae utrumque nectit,
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tecipò pienamente, per opera dello Spirito santo, anche di una fecondità del tutto naturale, allora ella conservò la sua immacolata verginità prima del parto, nel parto e dopo il parto, restando incorrotta al di sopra di ogni forma comune di generazione naturale507. È pertanto da un padre eterno e da una madre temporale, la gloriosissima vergine Maria, che è nato colui che è Dio e uomo, Gesù Cristo; da un padre massimo e assolutamente perfettissimo e da una madre perfettissima nella sua fecondità verginale, ricolma della benedizione divina, nella pienezza dei tempi. Per la madre vergine, infatti, egli non poté esistere come uomo che nel tempo, e per il padre Dio non poté essere che eterno; la sua nascita temporale, tuttavia, richiese che nel tempo vi fosse una pienezza di perfezione, come richiese che nella madre vi fosse una pienezza di fecondità508. Quando, pertanto, venne la pienezza del tempo509, non potendo un uomo nascere che nel tempo, egli nacque nel tempo e nel luogo più adatti alla sua nascita, per quanto completamente nascosti a tutte le creature. Le più alte primizie sono infatti incomparabili con le nostre esperienze quotidiane. Per questo motivo, la ragione di nessun uomo fu in grado, attraverso un qualche segno, di riconoscerle, sebbene certe ispirazioni profetiche alquanto occulte ne abbiano tramandato alcuni segni oscuri, celati in similitudini umane, dai quali i sapienti avrebbero potuto prevedere razionalmente l’incarnazione del verbo nella pienezza del tempo. Ma il luogo preciso e il tempo esatto dell’incarnazione, come anche il modo in cui si sarebbe realizzata, erano noti solo alla prescienza del genitore eterno, il quale stabilì che, quando tutto si fosse trovato in una condizione di relativo silenzio, nel corso della notte il figlio discendesse dalla volta celeste nel seno della vergine510, e nel tempo stabilito e opportuno si manifestasse al mondo sotto la forma di un servo. CAPITOLO VI
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Il mistero della morte di Gesù Cristo Per illustrare il mio intendimento, è opportuno premettere una breve discussione, in modo da poter trattare in maniera più chiara del mistero della croce. Non c’è alcun dubbio sul fatto che l’uomo è costituito dai sensi, dall’intelletto e dalla ragione, la quale è una
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existere. Ordo autem submittit sensum rationi, rationem vero intellectui. Intellectus de tempore et mundo non est, sed absolutus ab hiis; sensus de mundo sub tempore motibus subiectus existit; ratio quasi in horizonte est quoad intellectum, sed in auge quoad sensum, ut in ipsa coincidant, quae sunt infra et supra tempus. 216 Sensus incapax est supertemporalium et spiritualium existens animalis. Animal igitur non percipit ea, quae Dei sunt, cum Deus spiritus et plus quam spiritus existat. Et propter hoc sensualis cognitio in tenebris est ignorantiae aeternorum et movetur secundum carnem ad carnalia desideria per concupiscibilem potentiam et ad repellendum impediens per irascibilem. Ratio vero supraeminens in sua natura ex participabilitate intellectualis naturae leges quasdam continet, per quas ut rectrix passionum desiderii ipsas moderetur et ad aequum reducat, ne homo in sensibilibus finem ponens desiderio spirituali intellectus privetur. Et est potissima legum, ne quis faciat alteri, quod sibi fieri nollet; et quod aeterna temporalibus praeponantur et munda atque sancta caducis et immundis; et ad hoc cooperantur leges ex ipsa ratione elicitae a sanctissimis legislatoribus, secundum diversitatem loci et temporis pro remediis in rationem peccantium promulgatae. 217 Intellectus altius volans videt, etiamsi sensus rationi subiceretur per omnia, sibi connaturales passiones non insequendo, quod nihilominus homo per se in finem intellectualium et aeternorum affectuum pervenire non valeret. Nam cum homo ex semine Adam in carnalibus voluptatibus sit genitus, in quo ipsa animalitas secun-
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facoltà intermedia che connette fra di loro le altre due facoltà511. Ora, l’ordine vuole che i sensi siano subordinati alla ragione e che la ragione sia invece subordinata all’intelletto. L’intelletto non è legato al tempo e al mondo, ma è indipendente da essi; i sensi sono legati al mondo e sono soggetti al tempo e ai mutamenti che avvengono nel tempo512; per quanto riguarda la ragione, essa rispetto all’intelletto si trova all’orizzonte513, per così dire, mentre rispetto ai sensi sta allo zenith, in modo tale che nella ragione coincidono le cose che stanno nel tempo e quelle che sono al di sopra del tempo. I sensi, che appartengono alla nostra natura animale, sono incapaci di cogliere le realtà spirituali e sovratemporali 514. Ciò che appartiene alla nostra natura animale, pertanto, non percepisce le cose di Dio515, in quanto Dio è spirito e più che spirito. Per questo motivo, la conoscenza dei sensi si trova nelle tenebre dell’ignoranza circa le cose eterne e, seguendo la carne, si volge ai desideri carnali mediante la facoltà concupiscibile e respinge quanto è ad essi di impedimento mediante la facoltà irascibile516. La ragione, invece, è al di sopra dei sensi, e per il fatto di essere in grado di partecipare della natura intellettuale contiene nella sua natura certe leggi attraverso le quali essa riesce a governare le passioni dei desideri, a moderarle e a ricondurle al giusto mezzo, in modo tale che l’uomo non riponga il suo fine nelle cose sensibili e non si privi così del desiderio spirituale del suo intelletto. La più importante fra queste leggi è quella di non fare agli altri ciò che non vorresti venisse fatto a te517; poi c’è la legge secondo la quale si devono anteporre le cose eterne a quelle temporali, e le cose pure e sante a quelle caduche e impure. Ed è questo il fine al quale concorrono anche le leggi che i più santi legislatori hanno tratto dalla ragione e che essi, a seconda della diversità dei luoghi e dei tempi, hanno istituito come un aiuto per coloro che peccano contro la ragione. L’intelletto, tuttavia, volando più in alto della ragione, vede che, anche se i sensi fossero in tutto e per tutto soggetti alla ragione e non inseguissero quelle passioni che sono ad essi connaturali, cionondimeno l’uomo non riuscirebbe da se stesso a raggiungere il fine a cui è rivolto il suo desiderio delle realtà intellettuali ed eterne. Infatti, dal momento che, a partire dal seme di Adamo, l’uomo venne generato nei piaceri della carne518, in un atto nel quale,
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dum propagationem vincit spiritualitatem, tunc ipsa natura in radice originis carnalibus deliciis immersa, per quas homo in esse a patre prodiit, penitus impotens remanet ad transcendendum temporalia pro amplexu spiritualium. Quapropter, si pondus delectationum carnalium attrahit deorsum rationem et intellectum, ut consentiant illis motibus non resistendo, clarum est hominem ita deorsum tractum a Deo aversum fruitione optimi boni, quod est intellectualiter sursum et aeternum, penitus privari. Si vero ratio dominatur sensui, adhuc opus est, ut intellectus dominetur rationi, ut supra rationem fide formata mediatori adhaereat, ut sic per Deum Patrem attrahi possit ad gloriam. 218 Nemo umquam fuit ex se potens supra seipsum ac propriam suam naturam ita peccatis desiderii carnalis originaliter subditam posse ascendere supra suam radicem ad aeterna et caelestia, nisi qui de caelo descendit Christus Iesus. Hic est, qui et propria virtute ascendit, in quo ipsa humana natura non ex voluntate carnis, sed ex Deo nata nihil obstaculi habuit, quin et potenter ad Deum Patrem rediret. In Christo igitur ipsa humana natura per unionem ad divinam ad summam potentiam exaltata est et erepta de pondere temporalium et gravantium desideriorum. Voluit autem Christus dominus omnia humanae naturae facinora nos ad terrena attrahentia in suo humano corpore non propter se, cum peccatum non fecerit, sed propter nos penitus mortificare et mortificando purgare, ut omnes homines eiusdem humanitatis cum ipso omnem peccatorum suorum purgationem reperirent in ipso. Voluntaria et innocentissima, turpissima atque crudelissima hominis Christi crucis mors omnium carnalium desideriorum humanae naturae extinctio, satisfactio atque purgatio fuit. Quidquid humaniter contra caritatem pro-
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per assicurare la propagazione della specie, l’animalità prevale sulla spiritualità, la sua natura, che sin dalle radici della propria origine è immersa nelle gioie carnali, in virtù delle quali l’uomo è venuto all’essere ad opera del padre, resta del tutto incapace di trascendere le cose temporali per abbracciare le realtà spirituali. Di conseguenza, se il peso dei piaceri della carne attira verso il basso la ragione e l’intelletto, inducendoli ad acconsentire ai moti della passione e a non resistere ad essi, è chiaro che un uomo, che si sia fatto trarre così verso il basso e si sia volto lontano da Dio, si priva completamente del godimento del bene supremo, che, conformemente alla natura propria dell’intelletto, è situato in alto ed è eterno. Ma anche se la ragione domina i sensi, è ancora necessario che l’intelletto domini la ragione, in modo tale che, al di sopra della ragione e in virtù di una fede operante519, possa aderire al mediatore e possa così essere condotto alla gloria da Dio padre. Non c’è mai stato nessuno che con le sue forze sia stato in grado di elevarsi al di sopra di se stesso e della propria natura, che sin dall’origine è soggetta al peccato del desiderio carnale, e che abbia potuto ascendere al di sopra della propria radice verso le realtà eterne e celesti, se non colui che è disceso dal cielo, Gesù Cristo. Egli è stato l’unico che è asceso con le sue proprie forze e nel quale la stessa natura umana, nata non dalla volontà della carne ma da Dio520, non fu per nulla di ostacolo al suo potente ritorno a Dio padre. In Cristo, pertanto, la stessa natura umana, grazie alla sua unione con la natura divina, è stata innalzata ad un potere sommo ed è stata strappata al peso dei desideri temporali che la trascinano verso il basso. Ma Cristo il Signore ha voluto mortificare completamente tutti i mali della natura umana che ci attraggono verso le cose terrene nel proprio corpo di uomo; e fece questo non per sé, dato che egli non aveva commesso alcun peccato, ma per noi, e mortificandoli ce ne volle purificare, affinché tutti gli uomini, che condividono con lui la medesima umanità, trovassero in lui la purificazione completa dei propri peccati. La morte sulla croce dell’uomo Cristo, una morte volontaria e del tutto innocente, quanto mai vergognosa e crudele, è stata l’estinzione, la riparazione e la purificazione di tutti i desideri carnali della natura umana521. Qualunque cosa un uomo possa fare contro l’amore che si deve al prossi-
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ximi fieri potest, in plenitudine caritatis Christi, qua seipsum morti etiam dedit pro inimicis, habundanter exstat adimpletum. 219 Humanitas igitur in Christo Iesu omnes omnium hominum defectus adimplevit. Nam ipsa cum sit maxima, totam speciei potentiam amplectitur, ut sit cuiuslibet hominis talis essendi aequalitas, quod multo amplius quam frater et amicus specialissimus cuilibet coniunctus sit. Nam hoc agit maximitas humanae naturae, ut in quolibet homine sibi per formatam fidem adhaerenti Christus sit ipse idem homo unione perfectissima, cuiuslibet numero salvo. Per quam hoc verum est, quod ipsemet ait: «Quidquid uni minimo ex meis feceritis, mihi fecistis»; et e converso, quidquid Christus Iesus passione sua meruit, illi meruerunt, qui unum sunt cum ipso, salva differentia graduum meriti, secundum differentiam graduum unionis cuiusque cum ipso per fidem caritate formatam. Hinc in ipso circumcisi, in ipso baptizati, in ipso mortui, in ipso denuo per resurrectionem vivificati, in ipso Deo uniti et glorificati fideles existunt. 220 Non est igitur iustificatio nostra ex nobis, sed ex Christo. Qui cum sit omnis plenitudo, in ipso omnia consequimur, si ipsum habuerimus. Quem cum in hac vita per fidem formatam attingamus, non aliter quam ipsa fide iustificari poterimus, ut infra quodam loco extensius dicemus. Hoc est illud ineffabile crucis mysterium nostrae redemptionis, in quo ultra ea, quae tacta sunt, Christus ostendit, quomodo veritas et iustitia et virtutes divinae temporali vitae, ut aeterna caducis, praeferri debeant; ac quod in perfectissimo homine summa cons tantia atque fortitudo, caritas et humilitas esse debent, sicut mors Christi in cruce in maximo Iesu illas ac omnes alias virtutes maxime fuisse ostendit. Quanto igitur homo plus in ipsis immortalibus
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mo, trova abbondante compensazione nella pienezza dell’amore di Cristo, per il quale egli si consegnò alla morte anche per i propri nemici. L’umanità di Gesù Cristo ha pertanto compensato tutte le deficienze di tutti gli uomini. Essendo infatti la sua umanità massima, essa abbraccia tutte le possibilità della specie, in modo tale da costituire l’eguaglianza dell’essere rispetto ad ogni uomo, in un’unione che è molto più profonda di quella che lega ciascuno di noi ad un fratello o all’amico più intimo. Il fatto che la natura di Cristo sia massima comporta che, in ogni uomo, che aderisce a lui con una fede operosa, Cristo diventa quello stesso uomo522, mediante un’unione perfettissima, fatta salva l’individualità di ognuno. In virtù di questa unione, è vero quanto Gesù stesso dice: «Qualunque cosa abbiate fatto al più piccolo dei miei, l’avete fatta a me stesso»523; e, viceversa, tutti i meriti acquisiti da Gesù Cristo con la sua passione, li hanno acquisiti anche coloro che sono un’unica cosa con lui, fatta salva la differenza nei gradi di merito corrispondente al diverso grado di unione con lui che ciascuno avrà raggiunto mediante la fede operosa per la carità. In Gesù Cristo, pertanto, i fedeli sono circoncisi, in lui sono battezzati, in lui muoiono, in lui vengono di nuovo richiamati alla vita mediante la resurrezione, in lui sono uniti con Dio e glorificati524. La nostra giustificazione, pertanto, non viene da noi, ma da Cristo525. Dato che egli è ogni pienezza526, in lui conseguiamo tutto, se possederemo lui stesso. E dato che in questa vita giungiamo a lui attraverso una fede operosa, non potremo essere giustificati che per la stessa fede, come diremo più ampiamente in un altro luogo più avanti527. Questo è quel mistero ineffabile della croce della nostra redenzione528, nel quale, oltre a quanto abbiamo già detto, Cristo mostra che la verità, la giustizia e le virtù divine devono essere preferite alla vita temporale, così come ciò che è eterno dev’essere preferito a ciò che caduco; e che nell’uomo più perfetto devono trovarsi in modo sommo la costanza e la fortezza, la carità e l’umiltà, così come la morte di Cristo sulla croce ha mostrato che in Gesù, il massimo [uomo], queste e tutte le altre virtù erano presenti in modo massimo. Quanto più un uomo, pertanto, ascenderà a que-
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virtutibus ascenderit, tanto Christo similior fit. Coincidunt enim minima maximis, ut maxima humiliatio cum exaltatione, turpissima mors virtuosi cum gloriosa vita, et ita in ceteris, ut omnia ista nobis Christi vita, passio atque crucifixio manifestant. 221
CAPITULUM VII
De mysterio resurrectionis. Christus homo passibilis et mortalis non aliter ad gloriam Patris pervenire potuit, qui est ipsa immortalitas, quoniam absoluta vita, nisi mortale immortalitatem indueret. Quod fieri nequaquam potuit praeter mortem; quomodo enim mortale aliter induere posset immortalitatem, nisi spoliaretur mortalitate? Quomodo ab illa absolveretur, nisi soluto debito mortis? Propter quod ait ipsa Veritas stultos et tardi cordis eos esse, qui non intelligunt Christum oportere mori et ita in gloriam intrare. Quoniam autem in prioribus ostendimus Christum propter nos mortuum morte quidem crudelissima, dicendum consequenter: Quoniam aliter humanam naturam ad immortalitatis triumphum quam per mortis victoriam transduci non conveniebat, hinc mortem subiit, ut secum resurgeret humana natura ad vitam perpetuam, et animale mortale corpus fieret spirituale incorruptibile. Non potuit verus homo esse nisi mortalis, et non potuit ad immortalitatem mortalem naturam vehere nisi spoliata mortalitate per mortem. 222 Audi, quam pulchre nos instruit ipsa Veritas de hoc loquens, cum ait: «Nisi granum frumenti in terram cadens mortuum fuerit, ipsum solum manet; si vero mortuum fuerit, multum fructum affert.» Christus igitur si semper mortalis remansisset, etiamsi numquam mortuus fuisset, quomodo naturae humanae immortalitatem praestitisset mortalis homo? Etsi ipse mortuus non fuisset, solus remansisset mortalis sine morte. Oportebat ergo ipsum a
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ste virtù immortali, tanto più egli diventa simile a Cristo. Ciò che è minimo, infatti, coincide con ciò che è massimo: la massima umiliazione, ad esempio, coincide con l’esaltazione529, la morte più turpe del virtuoso con la vita gloriosa, e così via, come ci mostrano la vita, la passione e la crocefissione di Cristo. CAPITOLO VII
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Il mistero della risurrezione L’uomo Cristo, essendo mortale e soggetto a patimento, non poteva giungere alla gloria del padre, che è l’immortalità stessa in quanto è la vita assoluta, se non rivestendo ciò che era mortale di immortalità530. E questo non poteva realizzarsi in altro modo che mediante la morte. Ciò che è mortale, infatti, come avrebbe potuto rivestirsi di immortalità, se non fosse stato spogliato della sua mortalità? E come avrebbe potuto essere liberato della sua mortalità, se non avesse pagato il debito alla morte? È per questo motivo che la verità stessa chiama stolti e tardi di cuore coloro che non comprendono che Cristo doveva morire per entrare così nella gloria531. Poiché in precedenza abbiamo mostrato532 che Cristo è morto per noi ed è morto di una morte crudelissima, dobbiamo ora dire quanto segue: poiché la natura umana non poteva essere condotta al trionfo dell’immortalità se non passando attraverso la vittoria sulla morte, per questo Cristo si sottopose alla morte, affinché la natura umana risorgesse con lui alla vita eterna e il corpo animale e mortale diventasse spirituale e incorruttibile. Cristo non avrebbe potuto essere un uomo se non fosse stato mortale, e non avrebbe potuto elevare la natura mortale all’immortalità se non l’avesse spogliata della mortalità mediante la morte. Ascolta con quanta bellezza, parlando di questo mistero, la verità stessa ci istruisce, quando dice: «Se il chicco di grano caduto in terra non morirà, rimane solo; se invece morirà, produce molto frutto»533. Se Cristo, pertanto, fosse rimasto sempre mortale, anche se non fosse morto mai, come avrebbe potuto, in quanto uomo mortale, assicurare l’immortalità alla natura umana? Ed anche se non fosse mai morto, sarebbe pur sempre rimasto un uomo mortale privo di morte. Se doveva produrre molto frutto, era pertan-
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possibilitate moriendi per mortem liberari, si multum fructum afferre debuit, ut sic exaltatus ad se omnia traheret, quando eius potestas non tantum esset in mundo ac terra corruptibili, sed et in caelo incorruptibili. Hoc autem aliqualiter in nostra ignorantia attingere poterimus, si ea, quae saepe dicta sunt, menti habuerimus: 223 Ostendimus in antehabitis hominem Iesum maximum in se separatim a divinitate personam subsistendi habere non posse, quia maximus. Et ob hoc communicatio idiomatum admittitur, ut humana coincidant divinis, quoniam humanitas illa inseparabilis a divinitate propter supremam unionem, quasi per divinitatem induta et assumpta, seorsum personaliter subsistere nequit. Homo vero ex corpore et anima unitus est, quorum separatio mors est. Quia igitur ipsa maxima humanitas in divina suppositatur persona, non erat possibile aut animam aut corpus etiam post divisionem localem mortis tempore separari a persona divina, sine qua homo ille non subsistebat. 224 Non igitur mortuus fuit Christus, quasi persona eius defecisset, sed absque etiam locali divisione quoad centrum, in quo humanitas suppositabatur, remansit divinitati hypostatice unitus; et secundum naturam inferiorem, quae divisionem animae a corpore secundum suae naturae veritatem pati potuit, temporaliter et localiter divisio facta est, ut eodem loco et eodem tempore non essent simul mortis hora anima et corpus. Quare in corpore et anima non fuit corruptibilitas possibilis, cum unita essent aeternitati. Sed temporalis nativitas morti et separationi temporali subdita fuit, ita quod completo circulo reditionis ad solutionem de compositione temporali absolutoque amplius corpore ab hiis motibus
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to necessario che egli, passando attraverso la morte, venisse liberato dalla possibilità stessa di morire, in modo tale che, così elevato, egli attraesse a sé tutte le cose534, dal momento che il suo potere era presente non soltanto nel mondo e sulla terra corruttibile, ma anche nel cielo incorruttibile. Saremo tuttavia in grado di cogliere in qualche modo questa verità nella nostra ignoranza, se terremo a mente le cose che abbiamo spesso detto. In precedenza, abbiamo mostrato che Gesù, l’uomo massimo, non poteva avere in sé una persona capace di sussistere separatamente dalla divinità, proprio perché egli era l’uomo massimo. Per questo motivo, vi è una «comunicazione degli idiomi»535 relativi alle due nature [umana e divina], di modo che gli attributi umani coincidono con quelli divini; l’umanità di Gesù, infatti, che è inseparabile dalla divinità a motivo della sua suprema unione con essa, quasi come fosse stata indossata e assunta dalla divinità, non può sussistere come una persona separata536. L’uomo, tuttavia, è l’unione di un corpo e di un’anima, la cui separazione coincide con la morte. Di conseguenza, poiché l’umanità massima ha il suo fondamento nella persona divina, non era possibile che l’anima e il corpo, anche dopo la loro divisione spaziale al momento della morte di Gesù, si separassero dalla persona divina, senza la quale quell’uomo [Gesù] non aveva la possibilità di sussistere537. Cristo, pertanto, non morì, come se la sua persona fosse venuta meno, ma restò unito ipostaticamente alla divinità, senza che vi fosse neppure una separazione spaziale da quel centro nel quale la sua umanità aveva il suo fondamento. Tuttavia, relativamente alla sua natura inferiore, la quale, conformemente alla verità della sua natura, poteva essere soggetta alla divisione dell’anima dal corpo, vi fu una separazione temporale e spaziale, di modo che, nell’ora della morte, l’anima e il corpo di Cristo non si trovarono più insieme nello stesso luogo e nello stesso tempo. Per questo motivo, non è stato possibile che avvenisse una corruzione nel suo corpo e nella sua anima, in quanto erano uniti all’eternità. La nascita temporale, invece, fu soggetta alla morte e alla separazione nel tempo; in questo modo, una volta completato il circolo per il quale si ritorna alla separazione del composto che si è formato nel tempo, e una volta liberato completamente il corpo dai suoi mutamenti temporali, la
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temporalibus veritas humanitatis, quae supra tempus est, ut divinitati unita incorrupta remanens, prout eius requirebat veritas, veritatem corporis veritati animae adunaret; ut sic dimissa umbrosa imagine veritatis hominis, qui in tempore apparuit, verus homo ab omni temporali passione absolutus resurgeret; ut idem Iesus supra omnes temporales motus, amplius non moriturus, verissime resurgeret per unionem animae ad corpus supra omnem motum temporalem. Sine qua quidem unione veritas humanitatis incorruptibilis verissime absque confusione naturae divinae personae hypostatice unita non fuisset. 225 Adiuva ingenii parvitatem ac ignorantiam tuam exemplo Christi in frumenti grano, ubi numerus grani corrumpitur remanente essentia specifica sana, qua mediante natura multa grana resuscitat; quod si ipsum granum esset maximum atque perfectissimum, tale in terra optima atque fecundissima moriens, non tantum centesimum aut millesimum fructum afferre posset, sed tantum, quantum natura speciei in sua possibilitate amplecteretur. Hoc est quidem, quod ait Veritas, quomodo fructum multum afferret; multitudo enim finitas est sine numero. Intellige itaque acute: Humanitas enim Iesu eo ipso, quod ad hominem Christum contracta consideratur, eo ipso etiam divinitati unita simul intelligatur. Cui ut unita est, plurimum absoluta est; ut consideratur Christus verus homo ille, contracta est, ut per humanitatem homo sit. Et ita humanitas Iesu est ut medium inter pure absolutum et pure contractum. Secundum hoc itaque non fuit corruptibilis nisi secundum quid, et simpliciter incorruptibilis. Fuit igitur secundum temporalitatem, ad quam contracta fuit, corruptibilis, et secundum hoc, quod fuit absoluta a tempore et supra tempus et divinitati unita, incorruptibilis. 226 Veritas autem, ut est temporaliter contracta, est quasi signum et imago veritatis supertemporalis. Ita veritas corporis tempora-
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verità dell’umanità, che è al di sopra del tempo e che, essendo unita alla divinità, rimane incorrotta, riunì di nuovo, come richiedeva la sua verità, la verità del corpo con la verità dell’anima538; e così, abbandonata l’immagine umbratile della verità dell’uomo che era apparsa nel tempo, risorse il vero uomo, libero da ogni soggezione al tempo. In questo modo, l’identico Gesù, al di sopra di ogni mutamento temporale e non più soggetto alla morte, risorse nel modo più vero, in virtù di una tale unione dell’anima con il corpo che è al di sopra di ogni mutamento temporale. Senza questa unione, la verità dell’umanità incorruttibile non sarebbe rimasta unita ipostaticamente alla persona divina, nel modo più vero e senza alcuna confusione fra le nature. Aiuta la tua piccola mente e la tua ignoranza con l’esempio del chicco di grano fatto da Cristo539. In questo esempio, l’individualità numerica del chicco si corrompe, mentre resta intatta la sua essenza specifica, mediante la quale la natura fa rinascere molti chicchi; ora, se il chicco fosse massimo e perfettissimo, morendo sepolto in una terra ottima e fertilissima, produrrebbe un frutto non cento o mille volte di più, ma ne produrrebbe tanto quanto ne abbraccia, nella sua possibilità, la natura della specie. Ed è questo ciò che intende dire la verità, quando afferma che il chicco produce molto frutto; la moltitudine, infatti, è una quantità finita senza numero. Intendi dunque con acutezza: l’umanità di Gesù, proprio per il fatto che la si considera come contratta nell’uomo Cristo, dev’essere per ciò stesso intesa anche come unita alla divinità. In quanto è unita alla divinità, l’umanità di Gesù è del tutto assoluta; in quanto si considera Cristo come un vero uomo, è contratta, in modo tale che egli sia un uomo in virtù dell’umanità. E così l’umanità di Gesù è come un termine medio fra il puro assoluto e il puro contratto. Di conseguenza, essa fu corruttibile solo secondo un aspetto, mentre fu incorruttibile in senso assoluto. Fu corruttibile, pertanto, secondo la temporalità nella quale fu contratta, mentre fu incorruttibile per il fatto che essa fu libera dal tempo, al di sopra del tempo e unita alla divinità540. La verità, tuttavia, quale è contratta nel tempo, è in certo qual modo un segno e un’immagine della verità sovratemporale. In questo senso, la verità temporalmente contratta del corpo è una sorta
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liter contracta est quasi umbra veritatis corporis supertemporalis. Sic et veritas animae contracta est ut umbra animae a tempore absolutae; videtur enim potius sensus aut ratio quam intellectus, dum est in tempore, ubi sine phantasmatibus non apprehendit; et supra tempus elevata intellectus est ab hiis liber et absolutus. Et quoniam ipsa humanitas sursum fuit in incorruptibilitate divina radicata inseparabiliter, tunc completo motu temporali corruptibili non potuit resolutio fieri nisi versus radicem incorruptibilitatis. Quare post finem motus temporalis, qui mors fuit, sublatis hiis omnibus, quae temporaliter veritati naturae humanae accesserunt, resurrexit idem Iesus non in corpore gravi, corruptibili, umbroso, passibili et ceteris, quae temporalem compositionem consequuntur, sed in corpore vero, glorioso, impassibili, agili et immortali, ut veritas a conditionibus absoluta temporalibus requirebat. Et hanc quidem unionem necessario exposcebat ipsa veritas hypostaticae unionis humanae naturae et divinae. Quapropter Iesum benedictum a mortuis resurgere oportebat, ut ipsemet ait dicens: «Oportebat Christum sic pati et tertia die resurgere a mortuis.» 227
CAPITULUM VIII
Christus primitiae dormientium caelos ascendit. Ostensis hiis facile est videre Christum primogenitum ex mortuis esse. Nemo enim ante ipsum resurgere potuit, quando humana natura nondum in tempore ad maximum perveniens incorruptibilitati et immortalitati, uti in Christo, unita fuit. Omnes enim impotentes erant, quousque veniret ille, qui ait: «Potestatem habeo ponere animam meam et iterum sumere.» Induit igitur in Christo humana natura immortalitatem, qui et primitiae dormientium. Non est autem nisi una indivisibilis humanitas et omnium homi-
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di ombra della verità sovratemporale del corpo. Allo stesso modo, anche la verità contratta dell’anima è come un’ombra dell’anima che è libera dal tempo. Quando è nel tempo, dove non conosce senza immagini, l’anima sembra infatti essere i sensi o la ragione più che l’intelletto, mentre quando è elevata al di sopra del tempo è l’intelletto, il quale è libero e indipendente dalle immagini541. E poiché questa umanità aveva la sua radice in alto nell’incorruttibilità divina, dalla quale essa è inseparabile, allora, quando fu completato il suo movimento temporale e corruttibile, la sua dissoluzione non poté avvenire che nella direzione della radice della sua incorruttibilità. Per questo motivo, dopo la fine del suo movimento temporale, che fu la morte, rimosse tutte quelle cose che si erano aggiunte nel tempo alla verità della natura umana, il medesimo Gesù risorse non in un corpo pesante, corruttibile, tenebroso, soggetto alle passioni, e con tutte le altre caratteristiche che conseguono alla composizione temporale, ma nel vero corpo, glorioso, impassibile, agile e immortale, come richiedeva la verità libera dalle condizioni temporali. E questo tipo di unione [di anima e corpo] era richiesto necessariamente dalla verità dell’unione ipostatica della natura umana e della natura divina. Per questo motivo, era necessario che Gesù benedetto risorgesse dai morti, come egli stesso dice: «Era necessario che il Cristo patisse e il terzo giorno risorgesse dei morti»542. CAPITOLO VIII
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Cristo, primizia di coloro che dormono, ascese al cielo Dopo quanto abbiamo mostrato, è facile riconoscere come Cristo sia il primogenito fra i morti543. Prima di lui, infatti, nessuno poté risorgere, in quanto la natura umana non aveva ancora raggiunto nel corso del tempo il suo grado massimo e non era ancora stata unita all’incorruttibilità e all’immortalità, come avvenne con Cristo. Tutti furono a questo riguardo impotenti, fino a che giunse colui che disse: «Ho il potere di lasciare la mia vita e poi di riprenderla»544. In Cristo, che è anche la primizia di coloro che dormono545, la natura umana si è pertanto rivestita dell’immortalità. Non vi è tuttavia che un’unica umanità indivisibile e una sola es-
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num specifica essentia, per quam omnes particulares homines sunt homines inter se numeraliter distincti, ita ut eadem etiam humanitas sit Christi et omnium hominum, distinctione numerali individuorum inconfusa remanente. Hinc manifestum est omnium hominum, qui temporaliter ante aut post Christum fuerunt aut erunt, humanitatem in Christo immortalitatem induisse. Quapropter patet rationem hanc concludere: Christus homo resurrexit. Hinc omnes homines resurgent per ipsum post omnem temporalis corruptibilitatis motum, ut sint perpetuo incorruptibiles. 228 Et quamvis omnium hominum una sit humanitas, sunt tamen individuantia principia ipsam ad hoc vel illud suppositum contrahentia varia et diversa; ita quod in Iesu Christo erant solum perfectissima et potentissima et essentiae humanitatis propinquissima, quae divinitati unita fuit. In cuius virtute potens erat Christus propria virtute resurgere; quae quidem virtus sibi a divinitate advenit, propter quod Deus ipsum a mortuis dicitur suscitasse. Qui cum Deus et homo esset, propria virtute resurrexit, et nullus hominum praeter ipsum nisi in Christi virtute, qui et Deus est, poterit ut Christus resurgere. Est igitur Christus, per quem secundum humanitatis naturam immortalitatem nostra humana natura contraxit, et per quem etiam supra tempus in suam similitudinem resurgemus cessante motu, qui penitus sub motu nati sumus; hoc erit in fine saeculorum. Christus autem, qui solum ut a matre prodiit, temporaliter natus fuit, non totum temporis fluxum in resurrectione exspectavit, quia eius nativitatem tempus penitus non apprehendit. Adverte naturam immortalitatem in Christo induisse; propter quod omnes quidem, sive boni sive mali, resurgemus; sed non omnes immutabimur per gloriam transformantem nos in filios adoptionum per Christum, Dei filium. Resurgent igitur omnes per Christum, sed non omnes ut Christus et in ipso per unionem, nisi illi qui sunt Christi per fidem, spem et caritatem.
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senza specifica di tutti gli uomini, per la quale tutti i singoli uomini, che si distinguono fra loro per numero, sono uomini546; in questo modo, in Cristo e in tutti gli uomini vi è una medesima umanità, ferma restando la distinzione numerica fra gli individui. Da ciò risulta evidente che l’umanità di tutti gli uomini, sia quelli che nel tempo furono prima di Cristo, sia quelli che saranno dopo di lui, si è rivestita in Cristo dell’immortalità547. È chiaro, pertanto, che si può trarre logicamente questa conclusione: l’uomo Cristo è risorto; quindi, quando sarà cessato ogni movimento soggetto alla corruttibilità temporale, grazie a lui risorgeranno tutti gli uomini, per essere incorruttibili per sempre. E sebbene vi sia un’unica umanità per tutti gli uomini, i principi di individuazione che la contraggono a questo o a quel soggetto individuale sono tuttavia vari e diversi548; in questo senso, in Gesù Cristo vi erano solo principi [di individuazione] assolutamente perfetti e potenti, quelli più vicini all’essenza dell’umanità che era unita alla divinità. In forza di tale divinità, Gesù poté risorgere per forza propria; questa forza gli veniva certamente dalla divinità, ed è per questo che si dice che è stato Dio a risuscitarlo dei morti 549. Ed egli, essendo Dio e uomo, risorse per forza propria, e nessun uomo, tranne lui, potrà risorgere come Cristo se non in virtù della forza di Cristo, che è anche Dio. Cristo, pertanto, è colui mediante il quale la nostra natura umana ha contratto l’immortalità conformemente alla natura propria dell’umanità, ed è colui grazie al quale noi risorgeremo, al di là del tempo, a sua immagine, quando cesserà quel mutamento sotto la cui legge noi siamo nati. Questo avverrà alla fine dei tempi. Cristo, invece, che nacque nel tempo solo per l’aspetto per cui fu generato da una madre, per la sua resurrezione non attese la fine dell’intero corso del tempo, in quanto il tempo non aveva toccato del tutto la sua nascita. Ricorda che è la natura umana che, in Cristo, si è rivestita dell’immortalità. Per questo, «tutti», buoni e cattivi, «risorgeremo, ma non tutti saremo trasmutati» dalla gloria, che, per Cristo, il figlio di Dio, ci trasforma in figli adottivi 550. Tutti, pertanto, risorgeremo grazie a Cristo, ma non tutti risorgeremo come Cristo e in Cristo in virtù dell’unione con lui, ma soltanto coloro che sono di Cristo per la fede, la speranza e la carità.
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ni fallor, nullam perfectam religionem homines ad ultimum desideratissimum pacis finem ducentem esse, quae Christum non amplectitur mediatorem et salvatorem, Deum et hominem, viam, vitam et veritatem. Age quam absona est Sarracenorum credulitas, qui Christum maximum atque perfectissimum hominem de virgine natum et ad caelos vivum translatum affirmant, Deum negant. Obcaecati sunt profecto, quia asserunt impossibile. Verum luce clarius intellectum habenti apparere potest etiam ex taliter praemissis, nec hominem posse esse per omnia perfectissimum atque maximum, supra naturam ex virgine natum, qui simul Deus non sit. Sunt illi sine ratione crucis Christi persecutores, eius mysteria ignorantes, cuius etiam divinum redemptionis fructum non gustabunt nec exspectant ex lege sua Machometi, quae non aliud quam voluptatis desideria implere promittit; quae nos in Christi morte exstincta in nobis sperantes ad apprehensionem incorruptibilis gloriae anhelamus. 230 Fatentur pariter Iudaei cum istis Messiam maximum, perfectissimum et immortalem hominem, quem Deum negant eadem diabolica caecitate detenti. Qui etiam supremam beatitudinem fruitionis Dei, uti nos Christi servuli, sibi futuram non sperant, sicut nec consequentur. Et id, quod mirabilius iudico, est, quod tam ipsi Iudaei quam Sarraceni resurrectionem generalem credunt futuram, et possibilitatem per hominem, qui etiam Deus est, non admittunt. Nam etsi diceretur, quod cessante motu generationis et corruptionis perfectio universi absque resurrectione esse non posset, cum natura media humana sit pars una essentialis universi, sine qua universum non solum perfectum, sed nec universum esset, et quod propter hoc necessarium sit, si aliquando cessat motus, totum universum perire aut homines ad incorruptibilitatem resur-
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Vedi, se non erro, che una religione che non abbraccia Cristo come mediatore e salvatore, come Dio e come uomo, come la via, la verità e la vita551, non può essere una religione perfetta, in grado di condurre gli uomini al fine ultimo e da tutti sommamente desiderato della pace. Pensa a quanto sia incoerente la fede dei Saraceni, i quali riconoscono Cristo come un uomo massimo e assolutamente perfetto, nato da una vergine e asceso vivo al cielo, ma negano che egli sia Dio552. Certamente, essi sono stati accecati, in quanto affermano ciò che è impossibile. Già in base a quanto abbiamo detto in precedenza, infatti, a chiunque sia dotato di intelletto risulta evidente nel modo più chiaro che non può esservi un uomo assolutamente perfetto e massimo sotto tutti gli aspetti, nato in modo soprannaturale da una vergine, che non sia ad un tempo anche Dio. Essi sono diventati senza ragione persecutori della croce di Cristo, in quanto ne ignorano i misteri, e non gusteranno il frutto divino della sua redenzione, che essi del resto non si aspettano nemmeno in base alla loro legge di Maometto, la quale non promette altro che l’appagamento dei desideri legati ai piaceri sensibili553; noi, invece, che aneliamo al possesso di una gloria incorruttibile, speriamo che tali desideri siano in noi estinti mediante la morte di Cristo. Anche i Giudei, come i Saraceni, riconoscono il Messia come un uomo massimo, perfettissimo e immortale, ma, prigionieri della medesima cecità diabolica, negano che sia Dio554. Anche essi, a differenza di noi, poveri servi di Cristo, non sperano per sé la futura e suprema beatitudine della fruizione di Dio, e così non la conseguiranno555. Ma ciò che io giudico più stupefacente è il fatto che tanto i Giudei quanto i Saraceni credono che vi sarà una risurrezione generale, ma non ammettono quella che è la condizione della sua possibilità, ossia un uomo che sia anche Dio556. Supponiamo, infatti, che si dica quanto segue: una volta cessato il movimento della generazione e della corruzione, non può esservi una perfezione dell’universo senza la risurrezione, in quanto la natura umana, che occupa [nell’universo] una posizione mediana, è una parte essenziale dell’universo, e senza di essa l’universo non solo non sarebbe perfetto, ma non sarebbe neppure un universo; per questo motivo, nel momento in cui il movimento viene a cessare, è necessario o che l’intero universo perisca, o che gli uomini risorgano
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gere, in quibus omnium mediorum natura completa est, ita ut alia animalia non sit necesse resurgere, cum homo sit ipsorum perfectio; aut si resurrectio eapropter futura diceretur, ut totus homo retributionem condignam meritorum a Deo iusto recipiat: tamen adhuc super omnia necessarium est Christum Deum et hominem credi, per quem solum natura humana ad incorruptibilitatem potest pervenire. 231 Obcaecati itaque sunt omnes resurrectionem credentes et Christum medium possibilitatis ipsius defitentes, cum resurrectionis fides sit divinitatis et humanitatis Christi et ipsius mortis ac resurrectionis affirmatio, qui primogenitus est ex mortuis secundum praemissa. Resurrexit enim, ut ita intraret in gloriam per ascensionem ad caelos. Quem quidem ascensum supra omnem corruptibilitatis motum et influentiam caelorum arbitror intelligendum; nam cum secundum divinitatem sit ubique, ibi tamen proprius eius locus dicitur, ubi non est ulla umquam mutatio, passio, tristitia et cetera, quae temporalitati accidunt. Et hunc quidem locum aeterni gaudii et pacis supra caelos esse nominamus, licet loco nec comprehensibilis nec descriptibilis aut diffinibilis existat. 232 Ipse centrum atque circumferentia intellectualis naturae est et, cum intellectus omnia ambiat, supra omnia est; in sanctis tamen animabus rationabilibus et spiritibus intellectualibus, quae sunt caeli enarrantes gloriam eius, est requiescens quasi in templo suo. Sic igitur supra omnem locum et omne tempus ad incorruptibilem mansionem, supra omne id, quod dici potest, intelligimus Christum ascendisse, in hoc quod supra omnes caelos ascendit, ut adimpleret omnia; qui cum sit Deus, est omnia in omnibus, et ipse regnat in caelis illis intellectualibus, cum sit ipsa veritas, et non secundum locum potius in circumferentia quam centro sedens, cum sit centrum omnium rationabilium spirituum, ut vita eorum. Et
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all’incorruttibilità; negli uomini, infatti, trova la sua completezza la natura di tutti gli esseri che occupano [nell’universo] una posizione mediana, per cui non è necessario che risorgano gli altri animali, dal momento che l’uomo è la loro perfezione. Oppure, supponiamo che si dica che la resurrezione avverrà affinché l’uomo intero abbia dalla giustizia di Dio un premio commisurato ai suoi meriti: qualunque cosa si dica, resta tuttavia necessario credere, al di sopra di ogni cosa, che Cristo è Dio e uomo, in quanto è solo attraverso di lui che la natura umana può pervenire all’incorruttibilità557. E così, tutti coloro che credono nella risurrezione e negano che Cristo sia il mezzo che la rende possibile sono stati accecati, in quanto la fede nella risurrezione implica, ad un tempo, l’affermazione della divinità e dell’umanità di Cristo, della sua morte e risurrezione, egli che è il primogenito fra i morti, come abbiamo detto in precedenza. Cristo infatti risorse per entrare così nella gloria558 attraverso la sua ascesa al cielo. Io ritengo che con ciò si debba intendere che egli è asceso al di sopra di ogni moto di corruttibilità e al di sopra di ogni influsso dei cieli559. Anche se, infatti, in virtù della sua divinità egli è ovunque, si indica come luogo suo più proprio quello nel quale non vi sono mai mutamento, passioni, tristezza e tutte le altre cose che sono connesse alla temporalità. E noi diciamo che questo luogo della gioia e della pace eterna è al di sopra dei cieli, sebbene esso non sia né comprensibile, né descrivibile o definibile in senso spaziale. Cristo è il centro e la circonferenza della natura intellettuale560, e dal momento che l’intelletto abbraccia tutte le cose561, egli è al di sopra di tutto; il tempio, per così dire, nel quale egli tuttavia riposa sono le anime sante razionali e gli spiriti intellettuali, che sono i cieli che cantano la sua gloria562. In questo modo, per il fatto che egli è «asceso al di sopra di tutti i cieli per portare a compimento tutte le cose», comprendiamo che Cristo è asceso ad una dimora incorruttibile, al di sopra di ogni luogo e di ogni tempo e al di sopra di tutto ciò che può essere da noi espresso con le parole563. Essendo Dio, egli è tutto in tutto; essendo la verità stessa, regna in quei cieli intellettuali, e per quanto riguarda il luogo non siede alla circonferenza piuttosto che al centro, dal momento che egli è il centro di tutti gli spiriti razionali, in quanto è la loro vita. Ed è per questo che egli,
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propter hoc intra homines hoc regnum caelorum etiam esse ipse affirmat, qui est fons vitae animarum finisque earum. 233
CAPITULUM IX
Christus iudex est vivorum et mortuorum. Quis iudex iustior quam qui et ipsa iustitia? Christus enim, caput et principium omnis rationalis creaturae, est ipsa ratio maxima, a qua est omnis ratio. Ratio autem est iudicium discretivum faciens. Unde merito hic vivorum et mortuorum iudex est, qui cum omnibus rationabilibus creaturis humanam naturam rationabilem assumpsit manens Deus, qui est remunerator omnium. Iudicat autem supra omne tempus per se et in se omnia, quoniam complectitur omnes creaturas, cum sit maximus homo, in quo omnia, quia Deus. Ut Deus, est lux infinita, in quo non sunt tenebrae; quae quidem lux omnia illuminat, ita ut omnia in ipsa luce sint ipsi luci manifestissima. Haec enim infinita lux intellectualis supra omne tempus ita praesens sicut praeteritum, ita vivum sicut mortuum complicat, sicut lux corporalis hypostasis est omnium colorum. Christus autem est ut ignis purissimus, qui est inseparabilis a luce, et in se non subsistit, sed in luce; et est ignis ille spiritualis vitae et intellectus, qui ut omnia consumens, intra se receptans, omnia probat et iudicat quasi iudicium materialis ignis, cuncta examinans. 234 Iudicantur autem in Christo omnes rationales spiritus, quasi ignibile in igne, quorum aliud persistenter in ipso transformatur in similitudinem ignis – ut aurum optimum atque perfectissimum ita est aurum et adeo vehementer ignitum, ut appareat non plus aurum quam ignis –, et aliud non intantum participat de intensitate ignis, uti argentum depuratum aut aes aut ferrum; omnia tamen transformata in ignem videntur, licet quodlibet in gradu suo.
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che è la fonte della vita564 delle anime ed il loro fine, afferma che il regno dei cieli è anche in mezzo agli uomini565. CAPITOLO IX
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Cristo è giudice dei vivi e dei morti Quale giudice potrebbe essere più giusto di colui che è, ad un tempo, la giustizia stessa? Cristo, infatti, capo e principio di tutte le creature razionali, è la ragione massima stessa, dalla quale deriva ogni ragione. La ragione, tuttavia, giudica compiendo distinzioni566. Di conseguenza, giudice dei vivi e dei morti è a buon diritto colui che ha assunto, assieme a tutte le creature razionali, la natura umana razionale rimanendo tuttavia Dio, il quale è il remuneratore di tutti567. Al di sopra di ogni tempo, Cristo giudica tutte le cose mediante se stesso e in se stesso, poiché egli abbraccia tutte le creature, in quanto è l’uomo massimo nel quale, essendo egli Dio, sono presenti tutte le cose568. In quanto Dio, egli è luce infinita nella quale non vi sono tenebre569; questa luce, certamente, illumina tutte le cose, di modo che, in essa, tutte le cose sono pienamente manifeste alla luce stessa. Questa luce intellettuale infinita, infatti, complica in se stessa, al di sopra di ogni tempo, tanto il presente come il futuro, tanto i vivi come i morti, così come la luce corporea è l’ipostasi di tutti i colori 570. Cristo, invece, è come un fuoco purissimo che è inseparabile dalla luce e che non sussiste in se stesso, ma nella luce; è quel fuoco spirituale della vita e dell’intelletto, che, consumando tutte le cose571 e tutte accogliendole in sé, tutte le mette alla prova e le giudica, come fa il fuoco materiale, che giudica sottoponendo tutto al suo esame. Tutti gli spiriti razionali vengono giudicati in Cristo, come nel fuoco si verifica se qualcosa è combustibile572; di queste cose combustibili, alcune, se rimangono nel fuoco per lungo tempo, si trasformano diventando simili al fuoco, come accade con l’oro migliore e più puro, il quale, pur restando oro, si infuoca a tal punto da non sembrare più oro, ma fuoco; altre cose non partecipano nella stessa misura dell’intensità del fuoco, come l’argento puro, o il bronzo, o il ferro; tutte, tuttavia, appaiono trasformate nel fuoco, sebbene ciascuna secondo il proprio grado. E questo giudizio
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Et hoc iudicium est ignis tantum, non ignitorum, cum quodlibet ignitum in quolibet ignito ignem illum ardentissimum tantum apprehendat et non differentiam ignitorum; quasi uti nos, si fusum aurum et argentum atque cuprum in maximo igne conspiceremus, differentias metallorum, postquam in ignis formam transformata sunt, non apprehendimus. Ignis autem ipse si intellectualis foret, gradus perfectionis cuiusque sciret, et ad quantum secundum gradus ipsos capacitas intensitatis ignis in quolibet differenter se haberet. 235 Unde, uti quaedam ignibilia sunt in igne incorruptibiliter perseverantia, capabilia lucis et caloris, quae in similitudinem ignis sunt transformabilia propter sui puritatem, et hoc differenter secundum plus et minus, quaedam vero sunt, quae propter impuritatem suam, etiam si sint calefactibilia, non tamen in lucem trans formabilia: ita Christus iudex secundum unicum simplicissimum atque indiversum iudicium in uno momento omnibus iustissime et absque invidia quasi ordine naturae, non temporis, calorem creatae rationis communicat, ut recepto calore lumen intellectuale divinum desuper infundat; ut sit Deus omnia in omnibus et omnia per ipsum mediatorem in Deo, et aequales ipsi, quanto hoc secundum capacitatem cuiusque possibilius fuerit. Sed quod quaedam propter hoc, quia magis unita et pura sint, non tantum caloris, sed et lucis perceptibilia, et alia vix caloris, sed non lucis, accidit ex indispositione subiectorum. 236 Unde, cum lux illa infinita sit ipsa aeternitas atque veritas, necesse est, ut rationalis creatura, quae per ipsam illuminari desiderat, ad vera et aeterna se convertat supra ista mundana et corruptibilia. Contrario modo se habent corporalia et spiritualia. Virtus enim vegetativa corporalis est, quae convertit alimentum ab extrinseco receptum in naturam aliti; et non convertitur animal in panem, sed e converso. Spiritus autem intellectualis, cuius opera-
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appartiene solo al fuoco, non alle cose infuocate, in quanto ogni cosa infuocata riesce a cogliere in ogni altra cosa infuocata soltanto quel fuoco ardentissimo, ma non le differenze fra le singole cose infuocate; così anche noi, se guardassimo dell’oro, dell’argento e del rame fusi in un fuoco grandissimo, non coglieremmo le differenze dei metalli, una volta che essi si sono trasformati nella forma del fuoco. Se il fuoco stesso fosse tuttavia dotato di intelletto, allora esso conoscerebbe il grado di perfezione di ciascun metallo e, conformemente a tale grado, saprebbe quale sia in ciascuno di essi la capacità di recepire l’intensità del fuoco. Di conseguenza, ci sono alcune cose che possono restare nel fuoco senza corrompersi e che sono in grado di recepire luce e calore, e queste cose, in virtù della loro purezza, si possono trasformare diventando simili al fuoco, anche se in gradi diversi, alcune di più e altre di meno; ce ne sono invece altre che, a causa della loro impurità, per quanto siano infiammabili, non possono tuttavia trasformarsi in luce. In modo simile, Cristo giudice, sulla base di un unico giudizio semplicissimo e imparziale, in un solo istante comunica a tutti gli esseri, nel modo più giusto e senza invidia, secondo un ordine di natura, per così dire, e non di tempo, il calore della ragione creata, per poi infondere dall’alto, una volta ricevuto questo calore, la luce intellettuale divina, in modo tale che Dio sia tutto in tutti573, e tutte le cose, attraverso la mediazione di Cristo, siano in Dio e siano eguali a lui, nella misura in cui ciò sarà possibile, conformemente alla capacità di ciascuna. Che poi alcune cose, per il fatto di essere maggiormente unitarie e pure, siano in grado di recepire non solo il calore ma anche la luce, mentre altre recepiscono a mala pena il calore ma non la luce, questo dipende dalla diversa disposizione dei soggetti. Di conseguenza, dato che quella luce infinita è l’eternità e la verità stesse, è necessario che una creatura razionale, che desidera esserne illuminata, si volga alle realtà vere ed eterne, al di sopra di queste nostre cose mondane e corruttibili. Le cose corporee e quelle spirituali si comportano in modo contrario. La facoltà vegetativa, ad esempio, è corporea, ed essa trasforma il nutrimento ricevuto dall’esterno nella natura dell’essere che essa alimenta; non è l’animale che si trasforma in pane, ma avviene il contrario. Lo spirito intellettuale, invece, la cui attività è al di sopra del tempo e, per
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tio est supra tempus quasi in horizonte aeternitatis, quando se ad aeterna convertit, non potest ipsa in se convertere, cum sint aeterna et incorruptibilia. Sed nec ipse, cum sit incorruptibilis, ita se in ipsa convertit, ut desinat esse intellectualis substantia; sed convertitur in ipsa, ut absorbeatur in similitudinem aeternorum, secundum gradus tamen, ut magis ad ipsa et ferventius conversus magis et profundius ab aeternis perficiatur et abscondatur eius esse in ipso aeterno esse. Christus autem cum sit immortalis amplius et vivat et sit vita et veritas, qui se ad ipsum convertit, ad vitam se convertit et ad veritatem; et quanto hoc ardentius, tanto magis a mundanis et corruptibilibus se ad aeterna elevat, ut vita sua sit abscondita in Christo. Virtutes enim sunt aeternae, iustitia permanet in saeculum saeculi; ita et veritas. 237 Qui se ad virtutes convertit, ambulat in viis Christi, quae sunt viae puritatis et immortalitatis. Virtutes vero divinae illuminationes sunt. Quare qui se in hac vita per fidem ad Christum convertit, qui est virtus, dum de hac temporali vita absolvetur, in puritate spiritus reperietur, ut intrare possit ad gaudium aeternae apprehensionis. Conversio vero spiritus nostri est, quando secundum omnes suas potentias intellectuales ad ipsam purissimam aeternam veritatem se convertit per fidem, cui omnia postponit, et ipsam talem veritatem solam amandam eligit atque amat. Conversio enim per fidem certissimam ad veritatem, quae Christus est, est mundum istum deserere atque in victoria calcare. Ipsum autem ardentissime amare est per spiritualem motum in ipsum pergere, quia ipse non tantum amabilis, sed caritas ipsa. Dum enim spiritus pergit per gradus amoris ad ipsam caritatem, in ipsam caritatem non quidem temporaliter, sed supra omne tempus et omnem mundanum motum profundatur. 238 Sicut igitur omnis amans est in amore, ita omnes veritatem amantes in Christo; et sicut omnis amans est per amorem amans,
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così dire, nell’orizzonte dell’eternità574, quando si rivolge alle realtà eterne incorruttibili, non le può trasformare in se medesimo, in quanto esse sono eterne ed incorruttibili. Essendo tuttavia incorruttibile anche lo spirito intellettuale, neppure lui si trasforma in quelle realtà al punto di cessare di essere una sostanza intellettuale; viene piuttosto trasformato in esse, in modo tale da esserne assorbito575 e da diventare una similitudine delle realtà eterne; questo tuttavia avviene in gradi diversi, per cui con quanta più intensità e con quanto più fervore uno spirito intellettuale si volge alle realtà eterne, tanto di più e tanto più in profondità viene perfezionato da esse, e il suo essere si trova nascosto nell’essere eterno. Dal momento che, tuttavia, Cristo è immortale, e, di più, non solo vive, ma è la vita e la verità576, chi si volge a lui si volge alla vita e alla verità; e con quanto più ardore egli lo fa, tanto più si eleva dalle cose mondane corruttibili alle realtà eterne, di modo che la sua vita è ormai nascosta in Cristo577. Le virtù, infatti, sono eterne, la giustizia rimane nei secoli, e così anche la verità. Chi si rivolge alle virtù cammina nelle vie di Cristo, che sono le vie della purezza e dell’immortalità. Ora, le virtù sono illuminazioni divine578. Per questo, chi in questa vita mediante la fede si converte a Cristo, che è virtù, allora, quando verrà liberato da questa vita temporale, si ritroverà nella purezza dello spirito, in modo da poter entrare nella gioia della conoscenza eterna. La conversione del nostro spirito, tuttavia, avviene quando esso, con tutte le sue facoltà intellettuali, si converte, mediante la fede, alla purissima ed eterna verità, alla quale subordina ogni altra cosa e la sceglie e la ama come l’unica cosa degna di essere amata. Convertirsi alla verità, che è Cristo, mediante una fede saldissima, significa infatti abbandonare questo mondo e camminare così nella vittoria. Ma amare Cristo nel modo più ardente significa procedere verso di lui con un movimento spirituale, perché egli non è soltanto amabile, ma è l’amore stesso. Quando lo spirito, infatti, procede attraverso i gradi dell’amore verso l’amore stesso, allora esso s’immerge in profondità in questo amore, non in senso temporale, ma al di sopra di ogni tempo e di ogni moto mondano. Come ogni amante è nell’amore, così, dunque, tutti coloro che amano la verità sono in Cristo; e come ogni amante ama grazie
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ita omnes amantes veritatem per Christum sunt ipsam amantes. Hinc nemo novit veritatem, nisi spiritus Christi fuerit in illo. Et sicut impossibile est amantem esse sine amore, ita impossibile est quem Deum habere sine spiritu Christi, in quo spiritu tantum Deum adorare valemus. Propter quod increduli ad Christum non conversi, incapaces luminis gloriae transformationis, iam iudicati sunt ad tenebrositatem et umbram mortis, a vita aversi, quae Christus est; de cuius tantum plenitudine omnes in gloria satiantur per unionem. De qua infra, cum de ecclesia loquemur, ex eodem fundamento pro consolatione nostra nonnulla subiciam. 239
CAPITULUM X
De sententia iudicis. Neminem mortalium comprehendere iudicium illud ac eius iudicis sententiam manifestum est, quoniam, cum sit supra omne tempus et motum, non discussione comparativa vel praesumptiva ac prolatione vocali et signis talibus expeditur, quae moram et protractionem capiunt. Sed sicut in Verbo omnia creata sunt – quoniam dixit et facta sunt –, ita in eodem Verbo, quod et ratio dicitur, omnia iudicantur. Nec inter sententiam et executionem quidquam interest, sed hoc est, quod in momento fit, scilicet quod et resurrectio et apprehensio finis differenter glorificatio in translatione filiorum Dei et dampnatio in exclusione aversorum nullo etiam indivisibili temporis momento distinguuntur. 240 Intellectualis natura, quae supra tempus est et corruptioni temporali non subdita, ex sui natura intra se formas incorruptibiles complectens, ut puta mathematicas suo modo abstractas, et etiam naturales, quae in ipsa intellectuali absconduntur et transforman-
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all’amore, così tutti coloro che amano la verità la amano grazie a Cristo. Nessuno pertanto conosce la verità, se lo spirito di Cristo non sarà stato in lui. E come è impossibile essere un amante senza l’amore, così è impossibile che qualcuno possegga Dio senza lo spirito di Cristo, nel quale soltanto siamo in grado di adorare Dio. Per questo motivo, coloro che sono privi di fede e non si convertono a Cristo sono incapaci di accogliere la luce della gloria che trasforma579, e sono pertanto già condannati alle tenebre e all’ombra della morte, in quanto si sono allontanati dalla vita, che è Cristo580; è soltanto dalla sua pienezza che tutti possono venire saziati nella gloria, mediante l’unione a lui. Più avanti, quando parlerò della Chiesa, aggiungerò, a nostra consolazione, qualche altra considerazione a proposito di tale unione, sulla base del medesimo fondamento581. CAPITOLO X
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La sentenza del giudice È evidente che nessun mortale comprende quel giudizio e la sentenza di quel giudice, poiché, essendo al di sopra di ogni tempo e moto, essa non è basata su un’indagine comparativa o presuntiva, ne è pronunciata con parole o espressa con segni tali che comportino qualche ritardo o esigano una proroga. Piuttosto, come tutte le cose sono state create nel Verbo, perché «disse e furono fatte»582, così nel medesimo Verbo, che viene chiamato anche ragione, tutte le cose vengono giudicate. E fra la sentenza e la sua esecuzione non si frappone nessun intervallo di tempo, ma tutto avviene in un unico istante: la risurrezione e l’apprendimento del rispettivo fine di ciascuno, ossia la glorificazione583 di coloro che vengono trasferiti nella condizione di figli di Dio e la dannazione degli esclusi che sono allontanati da Dio, non sono separate da momenti di tempo diversi, nemmeno da un momento di tempo indivisibile. La natura intellettuale, che è al di sopra del tempo e non è soggetta alla corruzione temporale584, per sua natura contiene in se stessa le forme incorruttibili, come, ad esempio le forme matematiche, che sono a loro modo astratte, e anche le forme naturali, che sono presenti in modo nascosto nella natura intellettuale e vengono
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tur de facili, quae sunt nobis manuductiva signa incorruptibilitatis eius, quia locus incorruptibilium incorruptibilis, naturali motu ad veritatem movetur abstractissimam, quasi ad finem desideriorum suorum ac ad ultimum obiectum delectabilissimum. Et quoniam hoc tale obiectum est omnia, quia Deus, insatiabilis intellectus quousque attingat ipsum, immortalis et incorruptibilis est, cum non satietur nisi in obiecto aeterno. 241 Quod si intellectus absolutus ab hoc corpore, in quo opinionibus ex tempore subicitur, ad optatum finem non pertingit, sed potius, cum appetat veritatem, cadit in ignorantiam et cum ultimo desiderio non aliud desideret quam ipsam veritatem non in aenigmate aut signis, sed certitudinaliter facietenus apprehendere, tunc, cum ob aversionem ipsius a veritate in hora separationis et conversionem ad corruptibile cadat ad desideratum corruptibile, ad incertitudinem et confusionem in ipsum tenebrosum chaos merae possibilitatis, ubi nihil certi actu, recte ad intellectualem mortem descendisse dicitur. Est enim animae intellectuali intelligere esse, et intelligere desideratum est sibi vivere. Propter hoc, sicut ei est vita aeterna apprehendere ultimo desideratum stabile aeternum, ita est ei mors aeterna separari ab illo stabili desiderato et praecipitari in ipsum chaos confusionis, ubi igne perpetuo cruciatur modo suo, a nobis non intelligibili aliter quam ut cruciatur privatus vitali alimento et sanitate, et non illis tantum, sed et spe aliquando assequendi, ut sine exstinctione et fine semper moriatur agonizando. 242 Haec est vita aerumpnosa supra id, quod cogitari potest; quae ita est vita, ut sit mors; quae ita est esse, ut sit non esse; quae ita est intelligere, ut sit ignorare. Et quoniam in antehabitis probatum
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facilmente trasformate585. Queste forme [incorruttibili] sono per noi dei segni che ci guidano a comprendere l’incorruttibilità della natura intellettuale, in quanto l’intelletto è il luogo incorruttibile delle forme incorruttibili. Questa natura intellettuale si muove di moto naturale verso la verità del tutto astratta come verso il fine dei suoi desideri e l’oggetto ultimo e il più amato. E dato che un tale oggetto è tutte le cose, poiché è Dio, l’intelletto, che è insaziabile fino a che non lo raggiunge, è immortale ed incorruttibile, in quanto non può essere saziato che da un oggetto eterno586. Ma supponiamo che un intelletto, una volta liberato da questo corpo, nel quale è soggetto ad opinioni temporali, non raggiunga il fine agognato, ma piuttosto, pur aspirando alla verità, cada nell’ignoranza, quando invece il suo desiderio più profondo non sarebbe altro che quello di conoscere la verità stessa, non «in enigma» o nei segni, ma con certezza e «faccia a faccia»587. In questo caso, poiché nell’ora della separazione [dal corpo] si è allontanato dalla verità e si è rivolto verso ciò che è corruttibile, l’intelletto decade verso gli oggetti corruttibili del suo desiderio, verso l’incertezza e la confusione e nel caos tenebroso della mera possibilità, dove non c’è nessuna certezza in atto, e per questo si dice giustamente che l’intelletto è disceso verso una morte intellettuale588. Per l’anima intellettuale, infatti, conoscere significa essere, e conoscere l’oggetto del suo desiderio significa per essa vivere589. Per questo motivo, come per l’anima intellettuale la vita eterna consiste nel giungere infine a cogliere l’oggetto immutabile ed eterno del suo desiderio, così la morte eterna consiste per essa nell’essere separata da questo immutabile oggetto del suo desiderio e nell’essere precipitata nel caos della confusione, dove essa viene a suo modo tormentata dal fuoco senza fine590; una condizione, questa, che noi possiamo comprendere solo in analogia con il tormento di una persona che venga privata del suo nutrimento vitale e della salute, e non solo di questi beni, ma anche della speranza di poterli un giorno conseguire, in modo tale che la sua morte è una continua agonia, senza estinzione e senza fine. Questa è una vita di sofferenze che supera ogni nostra immaginazione; è una vita che è come la morte, è un essere che è come un non-essere, è un conoscere che è come un ignorare. Ora, in prece-
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est, quod supra omnem motum et tempus et quantitatem et cetera tempori subdita resurrectio hominum est, ita quod corruptibile in incorruptibile, animale in spirituale resolvitur, ut totus homo sit suus intellectus, qui est spiritus, et corpus verum sit in spiritu absorptum, ut non sit corpus in se, quasi in suis corporalibus quantificativis et temporalibus proportionibus, sed translatum in spiritum, quasi contrario modo ad hoc nostrum corpus, ubi non videtur intellectus, sed corpus, in quo ipse intellectus quasi incarceratus apparet, – ibi vero corpus est ita in spiritu, sicut hic spiritus in corpore, et propter hoc ut hic anima aggravatur per corpus, ita ibi corpus alleviatur per spiritum: hinc, ut gaudia spiritualia vitae intellectualis sunt maxima, quae et ipsum corpus glorificatum in spiritu participat, ita infernales tristitiae spiritualis mortis sunt maximae, quas et corpus in spiritu recipit. Et quoniam Deus noster, qui apprehensus est vita aeterna, est supra omnem intellectum comprehensibilis, tunc aeterna illa gaudia, omnem nostrum intellectum excedentia, maiora sunt quam ullo signo tradi possint. 243 Pariformiter et poenae dampnatorum supra omnes cogitabiles atque descriptibiles poenas existunt. Quare in omnibus illis musicalibus harmonicis signis gaudii, laetitiae, gloriae, quae ut signa cognita nobis cogitandi indicia vitae aeternae a patribus tradita reperiuntur, sunt remotissima quaedam signa sensibilia, per infinitum distanter ad ipsa intellectualia, nulla imaginatione perceptibilia. Ita et poenis infernalibus, quae aut igni elementali sulphureo ac pice et ceteris cruciatibus sensibilibus assimilantur, nullam comparationem habent ad igniles illas intellectuales aerumpnas, a quibus nos Iesus Christus, vita et salvatio nostra, praeservare dignetur, qui est in saecula benedictus. Amen.
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denza ho dimostrato591 che la risurrezione degli uomini avviene al di là di ogni mutamento, al di là del tempo, della quantità e di tutto ciò che è legato al tempo. Di conseguenza, ciò che è corruttibile si risolve nell’incorruttibile, l’animale nello spirituale, in modo tale che l’intero uomo è il suo intelletto, che è spirito, e il vero corpo viene assorbito nello spirito592. Il corpo, pertanto, non esiste più in se stesso, ossia nelle sue proporzioni corporee, quantitative e temporali, ma è trasformato in spirito; la sua condizione, pertanto, è contraria, per così dire, a quella in cui il nostro corpo si trova qui, dove non viene visto l’intelletto, ma il corpo, nel quale l’intelletto sembra essere come incarcerato593. Là, invece, è il corpo ad essere nello spirito, come qui lo spirito è nel corpo, e per questo come qui l’anima viene resa pesante dal corpo, così là il corpo viene reso leggero dallo spirito. Per tutti questi motivi, come le gioie spirituali della vita intellettuale sono le più grandi, e ad esse partecipa anche il corpo glorificato nello spirito, così le sofferenze infernali della morte spirituale sono le più grandi, e da esse è colpito anche il corpo [che è] nello spirito. E poiché il nostro Dio, che viene riconosciuto come la vita eterna, è comprensibile solo al di sopra di ogni capacità intellettiva, allora anche quelle gioie eterne, che superano ogni nostra capacità intellettiva, sono più grandi di quanto di esse è possibile comunicare con qualsiasi tipo di segno. In modo analogo, anche le pene dei dannati sono superiori a tutte le pene che noi possiamo concepire e descrivere. Per questo, in tutti i segni delle armonie musicali, con i quali esprimiamo la gioia, la letizia, la gloria, e che, in quanto segni a noi familiari, ci sono stati tramandati dai padri come delle indicazioni per rappresentarci la vita eterna, non vi sono che alcuni segni sensibili estremamente lontani, che sono infinitamente distanti da quelle realtà intellettuali che non riusciamo a cogliere con nessun tipo di immaginazione. Allo stesso modo, anche le pene dell’inferno, che vengono paragonate ad un fuoco fatto di zolfo, alla pece e ad altri tormenti sensibili, sono incomparabili rispetto a quelle infuocate tribolazioni intellettuali 594 dalle quali si degni di preservarci Gesù Cristo, vita e salvezza nostra, benedetto nei secoli. Amen.
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Mysteria fidei. Maiores nostri omnes concordanter asserunt fidem initium esse intellectus. In omni enim facultate quaedam praesupponuntur ut principia prima, quae sola fide apprehenduntur, ex quibus intelligentia tractandorum elicitur. Omnem enim ascendere volentem ad doctrinam credere necesse est hiis, sine quibus ascendere nequit. Ait enim Isaias: «Nisi credideritis, non intelligetis.» Fides igitur est in se complicans omne intelligibile. Intellectus autem est fidei explicatio. Dirigitur igitur intellectus per fidem, et fides per intellectum extenditur. Ubi igitur non est sana fides, nullus est verus intellectus. Error principiorum et fundamenti debilitas qualem conclusionem subinferant, manifestum est. Nulla autem perfectior fides quam ipsamet veritas, quae Iesus est. Quis non intelligit excellentissimum Dei donum esse rectam fidem? Apostolus Iohannes ait fidem incarnationis Verbi Dei nos in veritatem ducere, ut Dei filii efficiamur; et hanc in primordio simpliciter aperit, deinde multa Christi opera enarrat secundum ipsam fidem, ut intellectus illuminetur in fide. Quapropter hanc finaliter conclusionem subinfert dicens: «Haec quidem scripta sunt, ut credatis, quoniam Iesus est Dei Filius.» 245 Potest autem Christi sanissima fides, in simplicitate constanter firmata, gradibus ascensionum extendi et explicari secundum datam ignorantiae doctrinam. Maxima enim et profundissima Dei mysteria in mundo ambulantibus, quamquam sapientibus abscondita, parvulis et humilibus in fide Iesu revelantur, quoniam Iesus est, in quo omnes thesauri sapientiae et scientiarum absconditi sunt, sine quo nemo quidquam facere potest. Nam est Verbum et potentia, per quam Deus fecit et saecula, super omnia, quae in caelo
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I misteri della fede I nostri antichi sono stati tutti concordi nel sostenere che la fede è l’inizio della conoscenza595. In ogni disciplina, infatti, si presuppongono alcuni principi primi 596, che vengono appresi solo mediante la fede e dai quali si trae la conoscenza di ciò che dev’essere trattato in quella disciplina. Chiunque voglia ascendere ad una conoscenza scientifica deve credere a quei principi, senza i quali non è in grado di ascendere. Dice infatti Isaia: «Se non crederete, non riuscirete a comprendere»597. La fede, pertanto, complica in sé tutto ciò che è intelligibile. Il comprendere, invece, è l’esplicazione della fede598. Il comprendere viene quindi guidato dalla fede, e la fede viene estesa mediante la comprensione. Di conseguenza, dove non c’è una fede sana, lì non c’è neppure una vera comprensione. È noto che cosa comporti per la conclusione [di un ragionamento] partire da principi erronei e da un fondamento debole. Non c’è tuttavia una fede che sia più perfetta della verità stessa, che è Gesù599. Chi non comprende che una fede retta è il dono più eccelso di Dio?600 L’apostolo Giovanni dice che la fede nell’incarnazione del Verbo di Dio ci conduce alla verità, in modo che noi possiamo diventare figli di Dio601; nel prologo [del suo Vangelo] egli manifesta semplicemente questa fede, poi, conformemente ad essa, narra le molte opere compiute da Cristo, di modo che l’intelletto venga illuminato nella fede602. Pertanto, egli trae alla fine la seguente conclusione e dice: «Queste cose sono state scritte affinché crediate che Gesù è il figlio di Dio»603. Anche la fede più sana in Cristo, rafforzata nella costanza e nella semplicità, può tuttavia essere estesa e sviluppata in un’ascesa graduale, seguendo la dottrina dell’ignoranza che abbiamo esposto. I più grandi e più profondi misteri di Dio, infatti, mentre gli uomini sono «viatori» nel mondo604, sebbene siano nascosti ai sapienti, vengono rivelati ai piccoli e agli umili per la fede in Gesù605, poiché Gesù è colui nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e delle scienze606, e senza di lui nessuno può fare nulla. Egli è infatti il verbo e la potenza mediante la quale Dio ha creato anche i secoli, il solo altissimo che ha potere su tutte le cose che sono in
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et in terra sunt, potestatem habens solus altissimus. Qui cum in hoc mundo non sit cognoscibilis, ubi ratione ac opinione aut doctrina ducimur in symbolis per notiora ad incognitum, ibi tantum apprehenditur, ubi cessant persuasiones et accedit fides; per quam in simplicitate rapimur, ut supra omnem rationem et intelligentiam in tertio caelo simplicissimae intellectualitatis ipsum in corpore incorporaliter, quia in spiritu, et in mundo non mundialiter, sed cae lestialiter contemplemur incomprehensibiliter, ut et hoc videatur, ipsum scilicet comprehendi non posse propter excellentiae suae immensitatem. Et haec est illa docta ignorantia, per quam ipse beatissimus Paulus ascendens vidit se Christum, quem aliquando solum scivit, tunc ignorare, quando ad ipsum altius elevabatur. 246 Ducimur igitur nos Christifideles in docta ignorantia ad montem, qui Christus est, quem tangere cum natura animalitatis nos trae prohibiti sumus; et oculo intellectuali dum inspicere ipsum conamur, in caliginem incidimus, scientes intra ipsam caliginem montem esse, in quo solum beneplacitum est habitare omnibus intellectu vigentibus. Quem si cum maiori fidei constantia accesserimus, rapiemur ab oculis sensualiter ambulantium, ut auditu interiori voces et tonitrua et terribilia signa maiestatis eius percipiamus, de facili percipientes ipsum solum Dominum, cui oboediunt universa, pervenientes gradatim ad quaedam incorruptibilia vestigia pedum eius, quasi ad quosdam divinissimos characteres, ubi vocem non creaturarum mortalium, sed ipsius Dei in sanctis organis et signis prophetarum et sanctorum audientes clarius ipsum quasi per nubem rariorem intuemur. 247 Deinde ardentiori desiderio fideles continuo ascendentes ad intellectualitatem simplicem rapiuntur, omnia sensibilia transilientes, quasi de somno ad vigiliam, de auditu ad visum pergentes; ubi
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cielo e sulla terra. Dato che Dio non è conoscibile in questo mondo, nel quale la ragione, l’opinione o la dottrina ci conducono, con l’ausilio di simboli, dalle cose che ci sono più note a ciò che non conosciamo607, egli viene colto solo là dove cessa ogni argomentazione e ogni discorso ed inizia la fede. Mediante questa fede semplice veniamo rapiti, in modo tale che, essendo nel corpo in modo incorporeo, in quanto siamo nello spirito, ed essendo nel mondo in maniera non mondana ma celeste, nel terzo cielo, quello dell’intellettualità assolutamente semplice608, possiamo contemplare Cristo, in modo tuttavia incomprensibile. E in questo modo giungiamo a vedere anche questo, ossia che Dio, a motivo dell’immensità della sua eccellenza, non può essere compreso. In questo consiste quella dotta ignoranza, grazie alla quale il beatissimo Paolo, che prima aveva sostenuto di non sapere altro che Gesù Cristo, vide, ascendendo al terzo cielo, che di Cristo, ora che veniva elevato più in alto verso di lui, non aveva alcuna conoscenza609. Nella dotta ignoranza, pertanto, noi fedeli di Cristo veniamo condotti verso quel monte, che è Cristo stesso, e che ci è stato proibito di toccare con la natura della nostra animalità610; e mentre ci sforziamo di guardarlo con l’occhio dell’intelletto611, veniamo a trovarci nell’oscurità, pur sapendo che dentro quest’oscurità612 si trova quel monte solo nel quale desiderano abitare613 tutti coloro che sono dotati di intelletto. E se ci avvicineremo ad esso con maggiore costanza di fede, verremo allora rapiti via agli occhi di coloro che camminano nell’ambito dei sensi, in modo tale da percepire, con il nostro udito interiore, la voce, i tuoni e i segni terribili della sua maestà614; sentiremo così con facilità ch’egli solo è il Signore, al quale obbediscono tutte le cose, e giungeremo progressivamente fino a certe vestigia incorruttibili dei suoi passi, quasi a certi caratteri scritti divinissimi, e lì ascolteremo la voce non delle creature mortali ma di Dio stesso, espressa in sacri strumenti e nei segni dei profeti e dei santi, e lo vedremo intuitivamente con più chiarezza, come attraverso una nube fattasi più trasparente. A questo punto, i fedeli, continuando ad ascendere spinti da un desiderio sempre più ardente, vengono rapiti all’intellettualità semplice615, e superando tutto ciò che sensibile616 è come se passassero dal sonno alla veglia, dall’udire al vedere; là vengono viste cose
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ea videntur, quae revelari non possunt, quoniam supra omnem auditum sunt et vocis doctrinam. Nam si dici deberent ibi revelata, tunc non dicibilia dicerentur, non audibilia audirentur, sicut invisibile ibi videtur. Iesus enim in saecula benedictus, finis omnis intellectionis, quia veritas, et omnis sensus, quia vita, omnis denique esse finis, quia entitas, ac omnis creaturae perfectio, quia Deus et homo, ibi ut terminus omnis vocis incomprehensibiliter auditur. De ipso enim omnis vox prodiit et ad ipsum terminatur; quidquid veri in voce est, ab ipso est. Omnis vox ad doctrinam est; ad ipsum est igitur, qui ipsa sapientia est. «Omnia quaecumque scripta sunt, ad nostram doctrinam scripta sunt.» Voces in scripturis figurantur. «Verbo Domini caeli firmati sunt»; omnia igitur creata signa sunt Verbi Dei. Omnis vox corporalis verbi mentalis signum. Omnis mentalis verbi corruptibilis causa est Verbum incorruptibile, quod est ratio. Christus est ipsa incarnata ratio omnium rationum, quia Verbum caro factum est. Iesus igitur finis est omnium. 248 Talia quidem ascendenti ad Christum per fidem manifestantur gradatim. Cuius fidei divina efficacia inexplicabilis est; nam unit credentem cum Iesu, si magna fuerit, ut supra omnia sit, quae in unitate cum ipso Iesu non sunt. Hic enim, si integra est fides in virtute Iesu, cui unitur, supra naturam et motum potestatem habens etiam spiritibus malignis imperat; et mirabilia non ipse, sed in ipso et per ipsum Iesus operatur, ut sanctorum gesta exempla tradunt. Oportet autem perfectam Christi fidem esse purissimam, maximam, formatam caritate, quanto hoc fieri potest efficacius. Non enim patitur quidquam sibi commisceri, quoniam est fides purissimae veritatis potentis ad omnia. Saepissime in antehabitis replica-
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che non possono essere rivelate, in quanto sono al di sopra di ogni udito e di ogni insegnamento che si possa affidare alle parole. Se si dovesse infatti dire ciò che lì viene rivelato, allora si direbbe ciò che non è dicibile, si udrebbe ciò che non è udibile, così come lassù si vede ciò che è invisibile617. Infatti, Gesù, Benedetto nei secoli, che è il fine di ogni conoscenza intellettiva, perché è la verità, e di ogni percezione sensibile, perché è la vita, e che è inoltre il fine di ogni essere, perché è l’entità, e la perfezione di ogni creatura, perché è Dio e uomo, lì viene udito in modo incomprensibile in quanto egli è il termine ultimo di ogni parola. È da lui infatti che procede ogni parola ed è a lui che è diretta come suo termine ultimo; tutto ciò che vi è di vero in una parola, deriva da lui. Ogni parola è ordinata come suo fine ad un sapere che possa essere insegnato, ed è pertanto ordinata a lui che è la sapienza stessa. «Tutte le cose che sono state scritte, lo sono state per nostro insegnamento»618. Le parole vengono rappresentate nella scrittura. Dalla parola di Dio i cieli sono stati resi saldi619; tutte le cose create sono pertanto segni della parola di Dio. Ogni parola corporea è un segno di una parola mentale. La causa di ogni parola mentale è una parola incorruttibile, che ne è il fondamento razionale. Cristo è la ragione stessa incarnata di tutte le ragioni620, in quanto è la parola fatta carne621. Gesù, pertanto, è il fine tutte le cose. Queste verità si manifestano di grado in grado a colui che ascende a Cristo mediante la fede. E l’efficacia divina di questa fede è inesplicabile. Se sarà grande, essa unisce infatti il credente a Gesù al punto che gli si trova al di sopra di tutto ciò che non è in unità con Gesù stesso. Il credente, infatti, se possiede una fede integra nella forza di Gesù, al quale è unito, ha pieno potere sulla natura e su ogni movimento e comanda anche agli spiriti malvagi622; e opera miracoli, che non è lui a compiere, ma è Gesù a compiere in lui e attraverso di lui, come testimoniano gli esempi delle gesta dei santi623. È necessario, tuttavia, che la fede perfetta in Cristo sia del tutto pura, massima, formata nella carità624, con quanta più efficacia questo possa avvenire. Non sopporta infatti che ad essa venga mescolato qualcos’altro, in quanto si tratta della fede in una verità purissima che ha potere su tutte le cose. In precedenza abbiamo ri-
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tum reperitur minimum maximo coincidere. Ita quidem et in fide, quae simpliciter maxima in esse et posse; non potest in viatore esse, qui non sit et comprehensor simul, qualis Iesus fuit. Viatorem autem tantum etiam, quoad se, actu maximam Christi fidem habere volentem necesse est, ut fides apud ipsum ad tantum certitudinis indubitabilis gradum elevata sit, ut etiam minime sit fides, sed summa certitudo absque omni haesitatione in aliquo quocumque. 249 Haec est potens fides, quae ita est maxima quod et minima, ut omnia complectatur credibilia in eo, qui est veritas. Et si forte fides unius hominis ad gradum alterius non attingit propter impossibilitatem aequalitatis, sicut unum visibile in aequali gradu a pluribus videri nequit, hoc tamen necesse est, ut quisque, quantum in se est, actu maxime credat. Et tunc is, qui in comparatione aliorum vix ut granum sinapis fidem sortiretur, adhuc immensae virtutis illius fides est, ut etiam in montibus oboedientiam reperiret, cum ipse in virtute Verbi Dei, cum quo – quantum in se est – maxime per fidem unitur, imperet; cui nihil resistere potest. 250 Vide, quanta est potentia tui intellectualis spiritus in virtute Christi, si sibi super omnia adhaereat, ita ut per ipsum vegetetur, quasi in ipso per unionem – salvo numero suo – ut in vita sua suppositatus. Hoc autem cum non fiat nisi per conversionem intellectus, cui sensus oboediant, ad ipsum per fidem maximam, tunc hanc necesse est esse formatam per unientem caritatem; non enim maxima esse potest fides sine caritate. Nam si omnis vivens diligit vivere et omnis intelligens intelligere, quomodo potest Iesus vita ipsa immortalis credi ac veritas infinita, si non summe amatur? Per se enim vita amabilis est; et si maxime creditur esse Iesus vita ae-
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petuto molto spesso che il minimo e il massimo coincidono625. Lo stesso vale per quella fede che sia massima in senso assoluto, per quanto riguarda il suo essere e il suo potere; essa non può essere presente nell’uomo che è «in via»626 se egli non è ad un tempo giunto al pieno possesso [del suo fine], come fu nel caso di Gesù. È necessario, tuttavia, che anche l’uomo che è «in via» voglia avere, per quanto lo riguarda, una fede in Cristo che sia massima in atto, in modo tale che la fede venga in lui elevata ad un tale grado di certezza indubitabile da essere fede in senso minimo ed essere invece somma certezza, senza alcuna esitazione in nulla. Potente è quella fede che è così massima da essere anche minima, in modo tale che essa abbraccia in sé tutto ciò che si può credere riguardo a colui che è la verità. E sebbene la fede di un uomo non possa forse raggiungere lo stesso grado di fede di un altro, per il fatto che è impossibile che vi sia una precisa eguaglianza627 – così come un oggetto visibile non può essere visto in eguale misura da più persone –, è tuttavia necessario che ciascuno, per quanto sta in lui, creda in un modo che sia massimo in atto. Ed allora anche colui che, a paragone di altri, avesse avuto in sorte una fede grande appena quanto un granello di senape, avrebbe una fede dotata di una forza così immensa che troverebbe obbedienza anche presso le montagne628; e infatti comanda con la forza del Verbo di Dio, al quale, per quanto sta in lui, egli si trova unito in modo massimo mediante la fede, e al Verbo di Dio nulla può resistere629. Vedi quanto grande sia la potenza che il tuo spirito intellettuale possiede nella forza di Cristo, se aderisce a lui al di sopra di tutte le cose in modo da ricevere da lui il suo nutrimento vitale, come se, attraverso la sua unione con lui, fosse radicato in Cristo come nella sua stessa vita, fatta salva la sua distinta individualità. Poiché, tuttavia, questo si realizza solo se l’intelletto, a cui obbediscono i sensi, si converte a Cristo con una fede massima, è allora necessario che tale fede trovi il suo compimento nella carità che unisce; la fede, infatti, non può essere massima senza la carità. Se ogni essere vivente, infatti, ama vivere ed ogni essere dotato di intelletto ama intendere, come si può credere che Gesù è la vita stessa immortale e la verità infinita se non lo si ama in modo sommo? La vita, infatti, è amabile di per sé, e se si crede in modo massimo che Gesù è la vita eter-
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terna, non potest non amari. Non est enim viva fides, sed mortua et penitus non fides, absque caritate. Caritas autem forma est fidei, ei dans esse verum, immo est signum constantissimae fidei. Si igitur propter Christum omnia postponuntur, corpus et anima eius comparatione pro nihilo habentur, signum est maximae fidei. 251 Nec potest fides magna esse sine spe sancta fruitionis ipsius Iesu. Quomodo enim quis fidem certam haberet, si promissa sibi a Christo non speraret? Si non credit se habiturum aeternam vitam a Christo fidelibus promissam, quomodo credit Christo? Aut quomodo ipsum veritatem esse credit? Si in promissis spem indubiam non habet, quomodo eligeret pro Christo mortem, qui immortalitatem non speraret? Et quia credit, quod sperantes in eum non deserit, sed sempiternam eis beatitudinem praestat, hinc pro Christo omnia pati ob tantam mercedem retributionis pro modico fidelis habet. 252 Magna est profecto fidei vis, quae hominem Christiformem efficit, ut linquat sensibilia, exspoliet se contagiis carnis, ambulet in viis Dei cum timore, sequatur vestigia Christi cum laetitia et crucem voluntarie acceptet cum exultatione, ut sit in carne quasi spiritus, cui hic mundus propter Christum mors est et ab eo tolli, ut sit cum Christo, vita est. Quis, putas, hic spiritus est, in quo habitat Christus per fidem? Quale est hoc admirandum Dei donum, ut in hac peregrinatione constituti in carne fragili, ad illam potestatem in virtute fidei elevari valeamus supra omnia, quae Christus per unionem non sunt? Age, ut successive mortificata carne sensim per fidem gradatim ad unitatem cum Christo quis ascendat, ut in ipsum profunda unione, quantum hoc in via possibile est, absorbeatur. Omnia hic, quae visibilia et in mundo sunt, transiliens perfectionem completam naturae assequitur.
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na, non lo si può non amare. Una fede senza la carità, infatti, non è una fede viva, ma morta630, ed anzi non è affatto fede. La carità, tuttavia, è la forma della fede, ciò che conferisce ad essa il suo vero essere, ed anzi è il segno di una fede caratterizzata da una somma costanza. Se si è disposti, pertanto, a trascurare tutto per Cristo, se l’anima e il corpo vengono stimati a suo confronto un nulla, questo è allora il segno di una fede massima. La fede, inoltre, non può essere grande senza la santa speranza di poter giungere a fruire di Gesù stesso. Come potrebbe una persona avere una fede certa, se non sperasse nelle promesse fattegli da Cristo?631 Se non crede che avrà la vita eterna promessa da Cristo ai fedeli, in che senso allora crede in Cristo? In che modo crede che Cristo sia la verità, se non ha una speranza priva di dubbi nelle sue promesse? Se uno non sperasse nell’immortalità, come potrebbe scegliere di morire per Cristo? E poiché crede che Cristo non abbandonerà coloro che credono in lui, ma conferirà loro una beatitudine eterna, il fedele considera ogni sofferenza patita per Cristo come di poco conto rispetto ad una ricompensa così grande che gli verrà data in cambio632. Grande è di certo la forza della fede che rende l’uomo cristiforme, al punto che gli abbandona le cose sensibili, si spoglia di ogni contagio con la carne, cammina nelle vie di Dio con timore, segue le orme di Cristo con letizia e accetta volontariamente la croce con esultanza633, cosicché egli è nel corpo come uno spirito per il quale questo mondo è, a motivo di Cristo, la morte, mentre essere tolto dal mondo, per essere insieme con Cristo, è la vita. Chi è a tuo avviso questo spirito nel quale Cristo abita per la fede? Qual è questo dono stupendo di Dio per il quale noi, che in questo pellegrinaggio siamo posti in una carne fragile, attraverso la forza della fede siamo tuttavia in grado di elevarci fino ad avere quel potere su tutte le cose che non sono unite a Cristo? Che ognuno, allora, dopo aver mortificato a poco a poco la carne mediante la fede, ascenda di grado in grado all’unità con Cristo, in modo da essere assorbito in una profonda unione con lui, per quanto ciò è possibile in questa vita! In questo modo, oltrepassando tutte le cose visibili e tutto ciò che appartiene al mondo, ognuno consegue la completa perfezione della propria natura.
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haec est ipsa natura completa, quam in Christo, mortificata carne et peccato, transformati in eius imaginem consequi poterimus; et non illa phantastica magorum, qui hominem ad quandam naturam spirituum influentialium sibi connaturalium quibusdam operationibus mediante fide ascendere dicunt, ut in virtute spirituum talium, quibus per fidem uniuntur, plura et singularia mirabilia aut in igne aut in aqua aut scientiis harmonicis apparentiis transmutationum, manifestatione occultorum et similibus efficiant. Manifestum est enim in hiis omnibus seductionem esse et recessum a vita et veritate. Propter quod tales ad foedera et pacta unitatis cum malignis spiritibus taliter astringuntur, ut id, quod fide credunt, opere ostendant in thurificationibus et adorationibus Deo tantum debitis, quae spiritibus, quasi potentibus implere petita, et devocabilibus istis mediantibus magna cum observantia et veneratione impendunt. Consequuntur aliquando per fidem ipsa caduca petita, uniti sic spiritui, cui etiam a Christo aeternaliter divisi in suppliciis adhaerebunt. Benedictus Deus, qui per Filium suum de tenebris tantae ignorantiae nos redemit, ut sciamus omnia falsa et deceptoria, quae alio mediatore quam Christo, qui veritas est, et alia fide quam Iesu, qualitercumque perficiuntur! Quoniam non est nisi unus Dominus Iesus potens super omnia, nos omni benedictione adimplens, omnes nostros defectus solus faciens habundare.
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De ecclesia. Etsi de Christi ecclesia intellectus ex iam dictis haberi possit, subiungam tamen verbum breve, ut nihil operi desit.
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Questa è la natura completa che potremo raggiungere in Cristo, dopo aver mortificato la carne e il peccato ed essere stati trasformati a sua immagine634. E non si tratta di quella natura fantastica di cui parlano i maghi635, i quali sostengono che l’uomo, attraverso certe operazioni compiute mediante la fede, ascende ad una certa natura propria degli spiriti che gli sono connaturali e che esercitano su di lui il loro influsso, al punto che, grazie alla forza di tali spiriti, ai quali sono uniti per fede, questi maghi compiono molti miracoli singolari, nel fuoco o nell’acqua, o attraverso la conoscenza di certe armonie, producendo apparenze di trasmutazioni, facendo apparire cose nascoste, e così via. È evidente che tutto questo è frutto di un inganno e di un allontanamento dalla vita e dalla verità. Per questo, tali persone sono costrette a stringere alleanze e patti che le uniscono agli spiriti maligni, al punto che ciò che essi credono per fede lo mostrano anche con le loro opere, compiendo incensazioni e atti di adorazione che sono dovuti solo a Dio, e che essi invece offrono, con grande venerazione e obbedienza, a quegli spiriti, come se essi avessero il potere di esaudire le loro richieste e li si potesse con tali mezzi indurre ad intervenire. In forza della loro fede, talvolta riescono ad ottenere i beni caduchi che essi chiedono, uniti come sono a quello spirito al quale resteranno congiunti anche nel supplizio, eternamente separati da Cristo. Sia benedetto Dio, il quale, mediante suo Figlio, ci ha redenti dalle tenebre di un’ignoranza così grande, affinché potessimo riconoscere come false e ingannatrici tutte quelle cose che vengono compiute attraverso un mediatore diverso da Cristo, che è la verità, e con una fede diversa dalla fede in Gesù. Non c’è infatti che un solo Signore, Gesù, che ha il potere su tutte le cose, che ci colma di ogni benedizione e che è il solo che supplisce in abbondanza ad ogni nostro difetto.
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CAPITOLO XII
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La chiesa Sebbene da quanto è stato già detto sia possibile ricavare una conoscenza della Chiesa di Cristo, aggiungerò tuttavia alcune brevi parole su questo argomento, in modo che alla mia opera non manchi nulla.
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Quoniam fidem in diversis hominibus in gradu inaequalem esse recipereque ex hoc magis et minus necessarium est, hinc ad maximam fidem, qua nulla potentia maior esse possit, nemo devenire potest, sicut nec pariformiter ad caritatem maximam. Maxima enim fides, qua nulla potentia maior esse posset, si illa in viatore esset, illum et comprehensorem esse simul necesse esset; maximum enim in aliquo genere, sicut est supremus terminus illius, ita est initium altioris. Propter quod fides maxima simpliciter in nullo esse potest, qui non sit simul et comprehensor; ita et caritas simpliciter maxima non potest esse in amante, qui non sit et amatus simul. Propter quod nec fides nec caritas maxima simpliciter alteri quam Iesu Christo, qui viator et comprehensor, amans homo et amatus Deus fuit, competiit. Intra maximum autem omnia includuntur, quoniam ipsum omnia ambit. Hinc in fide Christi Iesu omnis vera fides et in caritate Christi omnis caritas vera includitur, gradibus tamen distinctis semper remanentibus. 255 Et quoniam illi gradus distincti sunt infra maximum et supra minimum, non potest quisquam, etiam si actu – quantum in se – fidem maximam habeat Christi, attingere ad ipsam maximam Chris ti fidem, per quam comprehendat Christum Deum et hominem. Nec tantum potest quis amare Christum, quod Christus non possit plus amari, cum Christus sit amor et caritas et propterea in infinitum amabilis. Quapropter nemo in hac vita aut futura ita Chris tum amare potest, ut ipse propterea sit Christus et homo. Omnes enim, qui Christo aut per fidem in hac vita et caritatem aut comprehensionem et fruitionem in alia uniuntur, remanente graduali differentia eo modo uniuntur, quo magis illa remanente differentia
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Dal momento che la fede presente nei diversi uomini è necessariamente di grado ineguale636, e pertanto ammette un di più e un di meno, nessuno può giungere alla fede massima, della quale nessun’altra sia dotata di maggiore potenza, così come nessuno può neppure pervenire all’amore massimo637. Se la fede massima, quella cioè che nessuna potenza potrebbe rendere maggiore, fosse presente nell’uomo «viatore», questi dovrebbe essere ad un tempo già «possessore» [in possesso del fine ultimo]638; come, infatti, la realtà massima nell’ambito di un determinato genere è il termine supremo di quelle genere, così è anche il grado iniziale del genere [immediatamente] più elevato. Per questo motivo, la fede massima in senso assoluto non può essere presente in nessuno che non sia ad un tempo anche «possessore» [in possesso del fine ultimo]. Allo stesso modo, anche l’amore massimo in senso assoluto non può essere presente in un amante che non sia ad un tempo anche l’amato. Per questo motivo, la fede massima in senso assoluto e l’amore massimo in senso assoluto non competono ad altri che a Gesù Cristo, il quale è stato sia «viatore», sia «possessore», sia amante, in quanto uomo, sia amato, in quanto Dio. Nel massimo, tuttavia, sono incluse tutte le cose, perché il massimo abbraccia tutto. Pertanto, nella fede di Gesù Cristo è inclusa ogni vera fede e nell’amore di Cristo è incluso ogni vero amore, sebbene i diversi gradi [di fede e di amore] restino sempre distinti639. E dal momento che questi gradi distinti stanno al di sotto del massimo e al di sopra del minimo, nessuno, anche se, per quanto sta in lui, abbia in Cristo una fede massima in atto, può raggiungere la stessa fede massima di Cristo, grazie alla quale possa comprendere Cristo come Dio e come uomo. E nessuno può amare Cristo così tanto, che non lo si possa amare ancora di più, dato che Cristo è amore e carità, e per questo è amabile all’infinito. Nessuno, pertanto, in questa vita o nella vita futura, può amare Cristo in modo tale da essere per questo egli stesso Cristo e uomo. Tutti coloro che, ferma restando la differenza dei loro rispettivi gradi, sono uniti a Cristo640, o mediante la fede e la carità, in questa vita, o mediante la comprensione e la fruizione, nell’altra vita, sono uniti a lui in modo tale che non potrebbero essergli uniti di più, continuando a conservare la propria differenza [di grado]; in questo modo, nessu-
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uniri non possent, ita ut in se nemo absque ipsa unione subsistat et per unionem a gradu suo non cadat. 256 Quare haec unio est ecclesia sive congregatio multorum in uno, quemadmodum multa membra in uno corpore et quodlibet in gradu suo; ubi unum non est aliud, et quodlibet in corpore uno, mediante quo cum quolibet unitur; ubi nullum sine corpore vitam et subsistentiam habere potest, licet in corpore unum non sit omnia nisi mediante corpore. Quapropter veritas fidei nostrae, dum hic peregrinamur, non potest nisi in spiritu Christi subsistere, remanente ordine credentium, ut sit diversitas in concordantia in uno Iesu. Et dum absolvimur ex hac militanti ecclesia, quando resurgemus, non aliter quam in Christo resurgere poterimus, ut sic etiam sit una triumphantium ecclesia, et quisque in ordine suo. Et tunc veritas carnis nostrae non erit in se, sed in veritate carnis Christi, et veritas corporis nostri in veritate corporis Christi, et veritas spiritus nostri in veritate spiritus Christi Iesu ut palmites in vite, ut sit una Christi humanitas in omnibus hominibus, et unus Christi spiritus in omnibus spiritibus; ita ut quodlibet in eo sit, ut sit unus Christus ex omnibus. Et tunc qui unum ex omnibus, qui Christi sunt, in hac vita recipit, Christum recipit, et quod uni ex minimis fit, Christo fit; sicut laedens manum Platonis Platonem laedit, et qui minimam pedicam offendit, totum hominem offendit, et qui in patria de minimo gaudet, de Christo gaudet et in quolibet videt Iesum, per quem Deum benedictum. Sic erit Deus noster per Filium suum omnia in omnibus, et quisque in Filio, et per ipsum cum Deo et omnibus, ut sit gaudium plenum absque omni invidia et defectu. 257 Et quoniam in nobis continue fides augeri potest, dum hic peregrinamur, similiter et caritas, quamvis actu quisque in gradu esse
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no può sussistere in se stesso senza questa unione a Cristo, e tuttavia nessuno per questa unione perde il proprio rispettivo grado. Questa unione, pertanto, è la Chiesa641, ossia la congregazione di molti in unità, in modo analogo a come le molte membra sono presenti in un unico corpo, ciascuna, tuttavia, con la propria funzione. Nel corpo, un membro non è l’altro, ma ogni membro è presente nell’unico corpo, mediante il quale è unito con tutte le altre membra; nessun membro può vivere e sussistere senza il corpo642, anche se, nel corpo, un membro è tutte le altre membra solo attraverso la mediazione del corpo. Per questo motivo, mentre siamo pellegrini in questo mondo, la verità della nostra fede può sussistere solo nello spirito di Cristo, pur rimanendo un ordine di grado fra i credenti, in modo tale che, nell’unico Gesù, vi sia una diversità nella concordanza643. E quando, nella risurrezione, verremo sciolti da questa chiesa militante, non potremo risorgere che in Cristo, in modo tale che anche allora vi sarà un’unica chiesa dei trionfanti, ed ognuno avrà in essa il proprio grado644. E in quel momento la verità della nostra carne non sarà in sé medesima, ma nella verità della carne di Cristo, la verità del nostro corpo sarà nella verità del corpo di Cristo, e la verità del nostro spirito nella verità dello spirito di Gesù Cristo, come i tralci nella vite645, in modo tale che in tutti gli uomini vi sarà l’unica umanità di Cristo e in tutti gli spiriti l’unico spirito di Cristo; in questo modo, ognuno sarà in lui, e vi sarà un solo Cristo a partire da tutti. E per questo, chi in questa vita accoglie uno solo fra tutti quelli che sono di Cristo, accoglie Cristo, e ciò che viene fatto ad uno dei più piccoli viene fatto a Cristo646; come colui che ferisce la mano di Platone ferisce Platone, e chi fa male anche alla parte più piccola di un dito fa male a tutto l’uomo; e chi in patria prova gioia per la cosa più piccola prova gioia per Cristo, e in ogni cosa vede Gesù, attraverso il quale vede Dio benedetto. Così, attraverso suo Figlio, il nostro Dio sarà tutto in tutti647, e ciascuno, nel Figlio e mediante il Figlio, sarà con Dio e con tutti, in modo tale che la gioia di ognuno sarà piena648, senza invidia e senza mancanza. E poiché, mentre siamo pellegrini in questo mondo, la fede può continuamente aumentare in noi, può aumentare egualmente anche l’amore. Per quanto uno possa aver raggiunto in atto un tale
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possit tali, quod in maiori secundum se actu ut tunc esse non possit; tamen, dum est in uno gradu, est in potentia ad alium, licet in infinitum progressio talis fieri non possit per commune fundamentum. Hinc nostram possibilitatem laborare debemus gratia Domini nostri Iesu Christi ad actum deduci, ut sic simus de virtute in virtutem ambulantes et de gradu ad gradum per ipsum, qui est fides et caritas. Sine quo ex nobis, quantum ex nobis, nihil possumus; sed omnia, quae possumus, in ipso possumus, qui solus potens est implere ea, quae nobis desunt, ut integrum et nobile membrum ipsius inveniamur in die resurrectionis. Et hanc gratiam augmenti fidei et caritatis, credendo et amando ex omnibus viribus, assidua oratione non dubium impetrare possumus, ad eius thronum cum fiducia accedentes, cum ipse piissimus sit et sancto desiderio neminem sinat defraudari. 258 Si ista, uti sunt, profunda mente meditatus fueris, admiranda dulcedine spiritus perfunderis, quoniam interno gustu inexpressibilem Dei bonitatem quasi in fumo aromaticissimo odorabis, quam tibi transiens ministrabit; de quo satiaberis, cum apparuerit gloria eius. Satiaberis, dico, absque fastidio, quoniam hic cibus immortalis est ipsa vita. Et sicut semper crescit desiderium vivendi, ita cibus vitae semper comeditur, absque hoc quod in naturam comedentis convertatur. Tunc enim fastidiosus cibus esset, qui gravaret et vitam immortalem praestare non posset, cum in se deficeret et in alitum converteretur. Desiderium autem nostrum intellectuale est intellectualiter vivere, hoc est continue plus in vitam et gaudium intrare. Et quoniam illa infinita est, continue in ipsam beati cum desiderio feruntur. Satiantur itaque quasi sitientes de fonte
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grado di fede e di amore che, per ciò che sta in lui, non potrebbe in quel momento raggiungere in atto un grado maggiore, tuttavia quando si trova in un grado egli dispone pur sempre in potenza della capacità di pervenire ad un altro grado, sebbene, per il noto principio, non vi possa essere una progressione all’infinito nei gradi649. Di conseguenza, dobbiamo adoperarci affinché le nostre potenzialità vengano condotte all’atto dalla grazia del nostro Signore Gesù Cristo, in modo da poter così passare di virtù in virtù e di grado in grado, grazie al suo aiuto, egli che è fede e amore. Senza di lui non possiamo far nulla da noi stessi650, per quanto sta in noi; piuttosto, tutto ciò che possiamo, lo possiamo in lui, che è il solo ad avere il potere di supplire alle nostre mancanze, cosicché, nel giorno della risurrezione, possiamo essere trovati quali membra integre e nobili del suo corpo. E credendo ed amando con tutte le nostre forze651, noi possiamo senza dubbio ottenere, con una preghiera costante, questa grazia di un aumento della nostra fede e del nostro amore, e possiamo così ascendere con fiducia al suo trono, perché egli, nella sua somma benevolenza, non permette che nessuno sia deluso nei suoi desideri santi. Se con la tua mente mediterai in profondità su queste cose, verrai allora inondato dalla meravigliosa dolcezza dello spirito, poiché percepirai, con il tuo senso interiore del gusto, come se fosse un incenso pieno di amore, il profumo della inesprimibile bontà di Dio, che egli ti offrirà al suo passaggio652; e te ne sazierai, quando apparirà la sua gloria653. Te ne sazierai, intendo dire, senza provarne sazietà, perché quel cibo immortale è la vita stessa. E come il desiderio di vivere cresce sempre, così il cibo di vita viene sempre consumato, senza che esso si trasformi nella natura di colui che lo consuma. Altrimenti, infatti, sarebbe un cibo che provocherebbe sazietà e fastidio, che renderebbe pesanti e non potrebbe conferire la vita immortale, in quanto verrebbe meno in se stesso e si trasformerebbe in colui che se ne nutre. Il nostro desiderio intellettuale, tuttavia, è di vivere intellettualmente, ossia di poter entrare continuamente sempre di più nella vita e nella gioia. E dal momento che quella vita è infinita, i beati sono condotti dal loro desiderio ad inoltrarsi continuamente sempre di più in essa. E così se ne saziano come assetati che bevano alla fonte della vita. E poiché questo bere
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vitae potantes; et quia ista potatio non transit in praeteritum, cum sit in aeternitate, semper sunt beati potantes et semper satiantur, et numquam biberunt aut saturati fuerunt. 259 Benedictus Deus, qui nobis dedit intellectum, qui in tempore satiabilis non est; cuius desiderium cum finem non capiat, seipsum supra corruptibile tempus immortalem apprehendit ex desiderio temporaliter insatiabili cognoscitque se vita desiderata intellectuali satiari non posse nisi in fruitione optimi maximi boni numquam deficientis, ubi fruitio non transit in praeteritum, quia appetitus in fruitione non decrescit. Quasi, ut corporali exemplo utamur, si quis esuriens ad mensam magni regis sederet, ubi sibi de desiderato cibo ministraretur, ita quod alium non appeteret, cuius cibi natura foret, quod satiando acueret appetitum, si hic cibus numquam deficeret, manifestum est comedentem semper continue satiari et appetere continue eundem cibum et semper desideriose ferri ad cibum. Semper itaque hic capax esset cibi, cuius virtus esset cibatum continue in cibum inflammato desiderio ferri. Haec est igitur capacitas naturae intellectualis, ut recipiendo in se vitam in ipsam convertatur secundum suam naturam convertibilem, sicut aer recipiendo in se radium solis in lumen convertitur. Propter hoc intellectus, cum sit naturae convertibilis ad intelligibile, non intelligit nisi universalia et incorruptibilia et permanentia, quoniam veritas incorruptibilis est eius obiectum, in quod intellectualiter fertur; quam quidem veritatem in aeternitate quieta pace in Christo Iesu apprehendit. 260 Haec est triumphantium ecclesia, in qua est Deus noster in saecula benedictus; ubi suprema unione Christus Iesus verus homo Dei Filio unitus est tanta unione, ut humanitas ipsa in ipsa divinitate tantum subsistat, in qua ita est unione ineffabili hypostatica,
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non finisce mai, in quanto si trova nell’ambito dell’eternità, i beati continuano sempre a bere e sono sempre sazi, ed è come se non avessero mai bevuto e non fossero mai pieni654. Sia benedetto Dio, il quale ci ha donato un intelletto che non può trovare sazietà nel tempo; e dato che il suo desiderio non conosce fine, l’intelletto comprende di essere al di sopra del tempo corruttibile e di essere immortale per il fatto di possedere un desiderio che nel tempo è insaziabile, e riconosce di non potersi saziare della vita intellettuale desiderata se non nella fruizione del bene massimo e ottimo, che non viene mai meno, la fruizione del quale non cessa mai, perché, nella fruizione, l’appetito non diminuisce. Per impiegare un esempio tratto dalla vita corporea, è come se un uomo affamato sedesse alla mensa di un grande re, dove gli viene servito il cibo desiderato, al punto che egli non ne desidera altro; ora, se la natura di quel cibo fosse tale che, nel saziare, esso stimolasse ad un tempo l’appetito, è allora evidente che, nel caso in cui questo cibo non venisse mai meno, colui che mangia verrebbe continuamente saziato e continuerebbe ad avere sempre appetito di quel cibo, verso il quale il suo desiderio continuerebbe sempre ad attirarlo. E così quest’uomo sarebbe capace di continuare sempre a mangiare quel cibo, il cui effetto sarebbe quello di infiammare il desiderio di colui che se ne nutre e di attirarlo così continuamente verso il cibo655. Questa è pertanto la capacità della natura intellettuale, la quale, ricevendo in sé la vita, si trasforma in essa, conformemente all’attitudine della sua natura a trasformarsi, così come l’aria, ricevendo in sé il raggio di sole, si trasforma in luce. Per questo motivo, dato che la natura dell’intelletto consiste nel volgersi all’intelligibile, esso non intende se non ciò che è universale, incorruttibile e permanente656, perché l’oggetto dell’intelletto è la verità incorruttibile, alla quale esso viene condotto secondo il modo proprio dell’intelletto; e questa verità esso la coglie nell’eternità, quando trova in Gesù Cristo la sua quiete e la sua pace. Questa è la chiesa dei trionfanti, nella quale viene benedetto nei secoli il nostro Dio, dove, con una suprema unione, il vero uomo Gesù Cristo è unito con il Figlio di Dio, in un’unione così grande che la sua umanità sussiste solo nella sua divinità, nella quale essa è presente mediante un’unione ipostatica ineffabile, in modo tale che
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quod remanente veritate naturae humanitatis non possit altius et simplicius uniri. Deinde omnis rationalis natura Christo Domino, remanente cuiuslibet personali veritate, si ad Christum in hac vita summa fide et spe atque caritate conversa fuerit, adeo unita existit, ut omnes, tam angeli quam homines, non nisi in Christo subsistant; per quem in Deo, veritate corporis cuiusque per spiritum absorpta et attracta; ut quilibet beatorum, servata veritate sui proprii esse, sit in Christo Iesu Christus, et per ipsum in Deo Deus, et quod Deus eo absoluto maximo remanente sit in Christo Iesu ipse Iesus, et in omnibus omnia per ipsum. 261 Nec potest ecclesia esse alio modo magis una. Nam ecclesia unitatem plurium, salva cuiusque personali veritate, dicit absque confusione naturarum et graduum. Quanto autem ecclesia magis est una, tanto maior. Ista igitur ecclesia est maxima, ecclesia aeternaliter triumphantium, quoniam maior ecclesiae unio possibilis non est. Hic igitur contemplare, quanta est haec unio, ubi unio maxima absoluta divina et unio in Iesu deitatis et humanitatis et unio ecclesiae triumphantium deitatis Iesu et beatorum reperitur. Nec unio absoluta est maior vel minor unione naturarum in Iesu vel beatorum in patria, quoniam est unio maxima, quae est unio omnium unionum, et id, quod est omnis unio, non recipiens magis nec minus, ex unitate et aequalitate procedens, ut in primo libro ostenditur. Nec unio naturarum in Christo est maior aut minor unitate ecclesiae triumphantium, quoniam, cum sit maxima unio naturarum, tunc in hoc non recipit magis et minus. 262 Unde omnia diversa, quae uniuntur, ab ipsa maxima unione naturarum Christi suam unitatem sortiuntur; per quam unio ecclesiae est id, quod est. Unio autem ecclesiae est maxima unio eccle-
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non potrebbe esservi un’unione più semplice e più elevata, nella quale venga ad un tempo conservata la verità [ossia la realtà] della natura dell’umanità657. Inoltre, ogni natura razionale, pur conservando la propria verità [realtà] personale, se in questa vita si sarà rivolta a Cristo con fede, speranza e carità somme, è unita a tal punto con Cristo il Signore, che tutte queste creature, tanto gli angeli quanto gli uomini, non sussistono che in Cristo, e attraverso lui in Dio, mentre la verità [realtà] del corpo di ciascuna creatura è attratta e assorbita dallo spirito; in questo modo, ciascuno dei beati, pur conservando la verità [realtà] del proprio essere, è Cristo in Cristo Gesù658 e, attraverso Cristo, è Dio in Dio, mentre Dio, pur rimanendo il massimo assoluto, è lo stesso Gesù in Cristo Gesù e, attraverso Gesù, è tutto in tutti. In nessun altro modo la chiesa può avere un’unità maggiore di questa. «Chiesa», infatti, significa un’unità di molti, nella quale venga conservata la verità personale di ciascuno, senza confusione fra le diverse nature e i diversi gradi. Quanto più la chiesa è una, tuttavia, tanto più essa è grande. Questa chiesa, ossia la chiesa dei trionfanti nell’eternità, è pertanto la chiesa massima, in quanto non vi può essere un’unione della chiesa maggiore di quella che si realizza in essa. Contempla qui, dunque, quanto grande sia questa unione, nella quale si trova l’unione divina e assolutamente massima, l’unione, in Gesù, dell’umanità e della divinità, e l’unione della divinità di Gesù e dei beati nella chiesa dei trionfanti659. E l’unione assoluta non è né maggiore, né minore dell’unione delle nature in Gesù, o dell’unione dei beati nella patria celeste, in quanto essa è l’unione massima, la quale è l’unione di tutte le unioni ed è tutto ciò che ogni unione è; essa non ammette né un di più, né un di meno, e procede dall’unità e dall’eguaglianza, come abbiamo mostrato nel primo libro660. E anche l’unione delle nature in Cristo non è né maggiore, né minore dell’unità della chiesa dei trionfanti, in quanto essa è l’unione massima delle nature e pertanto non ammette un di più e un di meno. Di conseguenza, tutte le diverse cose che sono unite ricevono la loro unità dalla stessa unione massima delle nature in Cristo, mediante la quale anche l’unione della chiesa è ciò che essa è. L’unione della chiesa, tuttavia, è la massima unione ecclesiale. Pertanto,
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siastica. Quare ipsa, cum sit maxima, coincidit sursum cum unione hypostatica naturarum in Christo. Et illa unio naturarum Iesu, cum sit maxima, coincidit cum unione absoluta, quae est Deus. Et ita unio ecclesiae, quae est suppositorum cum illa quae licet non videatur adeo una sicut hypostatica, quae est naturarum tantum, aut prima divina simplicissima, in qua nihil alietatis aut diversi existere potest, resolvitur tamen per Iesum in unionem divinam, a qua etiam ipsa initium habet. Et hoc profecto clarius videtur, si advertitur ad id, quod saepe superius reperitur. Unio enim absoluta Spiritus sanctus est. Unio autem maxima hypostatica cum ipsa unione absoluta coincidit; propter quod necessario unio naturarum in Christo per absolutam, quae Spiritus sanctus est, et in ipsa existit. Unio autem ecclesiastica coincidit cum hypostatica, ut praefertur. Propter quod in spiritu Iesu est unio triumphantium, qui in Spiritu sancto est. Ita ait ipsa Veritas in Iohanne: «Claritatem, quam dedisti mihi, dedi eis, ut sint unum, sicut nos unum sumus, ego in eis, et tu in me, ut sint consummati in unum»; ut sit ecclesia in aeterna quiete, adeo perfecta, quod perfectior esse non possit, in tam inexpressibili transformatione luminis gloriae, ut in omnibus non appareat nisi Deus. Ad quam tanto affectu cum triumpho aspiramus, ipsum Deum Patrem supplici corde exorantes, ut per Filium suum, Dominum nostrum Iesum Christum, et in ipso per Spiritum sanctum ipsam nobis sua immensa pietate largiri velit, eo aeternaliter fruituri, qui est in saecula benedictus.
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essendo massima, essa coincide lassù con l’unione ipostatica delle nature in Cristo. E poiché l’unione delle nature di Gesù è massima, essa coincide con l’unione assoluta, che è Dio. E così, l’unione della chiesa, che è l’unione di coloro che la formano, coincide con l’unione assoluta; infatti, sebbene l’unione della chiesa non sembri avere la stessa unità dell’unione ipostatica, che è un’unione soltanto fra nature, o della prima unione divina, assolutamente semplice, nella quale non può esservi alcuna alterità o differenza, tuttavia attraverso Gesù essa viene ricondotta all’unione divina, dalla quale trae anche la propria origine. E questo lo si vede certamente in modo più chiaro se si presta attenzione a quanto in precedenza abbiamo ripetuto più volte661. L’unione assoluta, infatti, è lo Spirito santo. Ora, la massima unione ipostatica coincide con la stessa unione assoluta. Quindi, necessariamente, l’unione delle nature in Cristo avviene in virtù di quell’unione assoluta che è lo Spirito santo e in essa sussiste. L’unione ecclesiale, tuttavia, coincide con l’unione ipostatica, come abbiamo detto662. L’unione dei trionfanti, pertanto, si compie nello spirito di Gesù, il quale [spirito] è nello Spirito santo. Così dice la verità stessa attraverso Giovanni: «Quella chiarezza che mi hai conferito l’ho conferita loro, affinché siano unità, come noi siamo unità, io in loro e tu in me, affinché siano perfetti in unità»663. In questo modo, la chiesa può essere così perfetta nella quiete eterna, da non poter essere più perfetta, e può trasformarsi in una tale inesprimibile luce della gloria, che in tutti non appare se non Dio. A questa gloria noi aspiriamo nel trionfo, con ogni nostro desiderio, e preghiamo con cuore supplichevole Dio padre perché, nella sua immensa bontà, egli ce la voglia elargire per suo Figlio, il nostro Signore Gesù Cristo, e in lui per lo Spirito santo, in modo da poter fruire eternamente di colui che è benedetto nei secoli.
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Epistola auctoris ad dominum Iulianum cardinalem.
Accipe nunc, pater metuende, quae iam dudum attingere variis doctrinarum viis concupivi, sed prius non potui, quousque in mari me ex Graecia redeunte, credo superno dono a patre luminum, a quo omne datum optimum, ad hoc ductus sum, ut incomprehensibilia incomprehensibiliter amplecterer in docta ignorantia, per transcensum veritatum incorruptibilium humaniter scibilium. Quam nunc in eo, qui veritas est, absolvi hiis libellis, qui ex eodem principio artari possunt vel extendi. 264 Debet autem in hiis profundis omnis nostri humani ingenii conatus esse, ut ad illam se elevet simplicitatem, ubi contradictoria coincidunt; in quo laborat prioris libelli conceptus. Secundus ex illo pauca de universo supra philosophorum communem viam elicit rara multis. Et nunc complevi finaliter tertium de Iesu superbenedicto libellum, ex eodem semper progrediens fundamento; et factus est mihi Iesus Dominus continue maior in intellectu et affectu per fidei crementum. Negare enim nemo potest Christi fidem habens, quod hac via in desiderio altius non inflammetur, ita ut post longas meditationes et ascensiones dulcissimum Iesum solum amandum videat et cum gaudio omnia linquens amplexetur ut vitam veram et gaudium sempiternum. Taliter intranti in Iesum omnia cedunt, et nihil ingerere possunt difficultatis quaecumque scripturae, neque hic mundus, quoniam in Iesum hic transformatur propter inhabitantem Christi spiritum in eo, qui est finis intellectualium desideriorum; quem tu, pater devotissime, supplici corde pro me miserrimo peccatore assidue exorare velis, ut pariter eo frui aeternaliter mereamur. Complevi in Cusa 1440, XII. februarii
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Lettera dell’Autore al signor Cardinale Giuliano Ricevi ora, reverendo padre, ciò che da lungo tempo ho desiderato ardentemente conseguire, percorrendo diverse vie dottrinali, ma che prima non ero riuscito a trovare, fino a quando, durante il mio ritorno in mare dalla Grecia, credo per un dono celeste del Padre dei lumi, dal quale proviene ogni dono ottimo, non giunsi al punto di abbracciare, nella dotta ignoranza, le cose incomprensibili in modo incomprensibile664, trascendendo quelle verità incorruttibili che sono umanamente conoscibili665. Ed ora, con l’aiuto di colui che è la verità, ho esposto questa dotta ignoranza in codesti [tre] libri, che, sulla base del medesimo principio666, possono essere ampliati o abbreviati. Nell’affrontare questi profondi argomenti, ogni sforzo della nostra mente umana deve tendere, tuttavia, ad elevarsi a quella semplicità dove i contraddittori coincidono; di questo si occupa la concezione esposta nel primo libro. Da questa concezione il secondo libro trae alcuni insegnamenti a proposito dell’universo, insegnamenti che vanno al di là della via comune percorsa dai filosofi e che a molti sembreranno insoliti667. Ed ora, procedendo sempre dal medesimo fondamento, ho infine completato il terzo libro dedicato a Gesù, sommamente benedetto; e attraverso la crescita della mia fede, il signore Gesù ha acquisito un posto sempre più grande nel mio cuore e nel mio affetto. Nessuno, infatti, può negare che, percorrendo questa via, egli non si senta sempre più infiammato nel suo desiderio, cosicché, dopo lunghe meditazioni e ascese, egli giunge a riconoscere che soltanto il dolcissimo Gesù è degno di amore, ed allora, abbandonando con gioia ogni cosa, lo abbraccia come la [sua] vera vita e la [sua] gioia eterna. A chi penetra in Gesù in questo modo tutto riesce, ed egli non trova nulla, in qualsiasi scritto o in questo mondo, che possa creargli delle difficoltà, perché si trasforma in Gesù668, grazie allo spirito di Cristo che abita in lui669 e che è il fine ultimo dei desideri intellettuali. Voglia tu, padre devotissimo, pregarlo, con assiduità e con cuore supplichevole, per me, misero peccatore, affinché possiamo meritare entrambi di fruire di lui nell’eternità.
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Finito a Kues, il 12 febbraio 1440670
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DE CONIECTURIS
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LE CONGETTURE
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Pars prima
Deo amabili reverendissimo patri domino Iuliano, sanctae Apostolicae Sedis dignissimo cardinali, praeceptori suo metuendo Nicolaus Cusanus Data nunc qualicumque opportunitate de coniecturis conceptum pandam, quem, quamvis communi humanarum adinventionum vitio atque specialioribus faeculentiis obtusioris ingenii adumbratum sciam, tibi tamen, patri optimo atque omnium litterarum eruditissimo, confidenter explicavi, ut paene divino lumine admirabilis resplendentiae probatissimi tui intellectus possibilem purgationem accipere queat. Scio enim hanc novam indagandarum artium formulam in ruditate sua occumbere non posse, si vir omnium clarissimus eam acceptatione dignam correctionis lima facere dignabitur. Praebe igitur tua ornatissima auctoritate intrantibus animum ad brevem plenissimamque viam altissima quaeque petendi.
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Prologus Quoniam autem in prioribus Doctae ignorantiae libellis multo quidem altius limpidiusque quam ego ipse nisu meo praecisionem veritatis inattingibilem intuitus es, consequens est omnem humanam veri positivam assertionem esse coniecturam. Non enim exhauribilis est adauctio apprehensionis veri. Hinc ipsam maximam humanitus inattingibilem scientiam dum actualis nostra nulla proportione respectet, infirmae apprehensionis incertus casus a
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Parte prima
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Niccolò da Cusa a Giuliano, caro a Dio, reverendissimo padre e signore, cardinale illustre della santa sede apostolica, maestro suo venerando Dal momento che mi si è presentata ora un’occasione favorevole per farlo, vorrei illustrare la mia concezione delle congetture1. So che essa è soggetta alle oscurità dovute ai difetti che caratterizzano in generale ogni scoperta dell’uomo e, più in particolare, a quelli di un’intelligenza poco acuta come la mia; tuttavia, l’ho esposta con fiducia a te, che sei un padre ottimo e un grandissimo conoscitore di tutte le branche del sapere, affinché io possa ricevere ogni chiarificazione possibile dalla luce quasi divina che irradia in modo mirabile dal tuo intelletto espertissimo. So infatti che questo nuovo metodo di ricerca nell’ambito delle arti può non cadere vittima della sua rozzezza, se un uomo, che è il più illustre di tutti, si degnerà, con la lima delle sue correzioni, di renderlo degno di essere accolto. Con la tua illustrissima autorità infondi dunque a coloro che si avviano lungo questa via breve ma ricchissima il coraggio di ricercare le verità più alte.
Prologo2
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Nei precedenti libri della Dotta ignoranza hai visto, in maniera anche più profonda e più chiara di quanto non abbia fatto io stesso con tutti i miei sforzi, che la precisione della verità è irraggiungibile3. Da ciò segue che ogni affermazione positiva dell’uomo riguardo al vero è una congettura4. La conoscenza del vero, infatti, può essere sempre accresciuta, in maniera inesauribile. Per questo motivo, dato che la conoscenza che noi acquisiamo di volta in volta in atto non ha alcuna proporzione con la conoscenza massima che è irraggiungibile per l’uomo5, il fatto che le nostre deboli capacità di apprendimento decadono dalla purezza della verità nell’incertez-
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veritatis puritate positiones nostras veri subinfert coniecturas. Cognoscitur igitur inattingibilis veritatis unitas alteritate coniecturali atque ipsa alteritatis coniectura in simplicissima veritatis unitate. Clarius post haec huius notitiam intuebimur. 3 Quoniam autem creata intelligentia finitae actualitatis in alio non nisi aliter exsistit, ita ut omnium coniecturantium differentia remaneat, non poterit nisi certissimum manere diversorum diversas eiusdem inapprehensibilis veri graduales, improportionabiles tamen ad invicem esse coniecturas, ita quidem, ut unius sensum, quamvis unus forte alio propinquius, nullus umquam indefectibiliter concipiat. Quapropter has ipsas, quas hic subinfero, adinventiones ex possibilitate ingenioli mei non parva meditatione elicitas meas accipito coniecturas, fortassis maioribus intellectualibus fulgoribus longe impares, quas etsi ego ob ineptitudinem traditionis a multis spernendas formidem, tamen ipsas quasi cibum non penitus incongruum ad transubstantiandum in clariores intellectualitates altioribus mentibus administro. Qui enim hic aliquid spiritalis alimoniae diligentiore masticatione atque crebra ruminatione elicere studuerit, acquiret consolatoriam refectionem, etiam si primo ista cruda atque novitate sua offensiva potius videantur. 4 Oportet autem quadam manuali inductione iuniores quosque, experimentali luce carentes, ad latentium ostensionem allicere, ut gradatim ad ignotiora erigantur. Hinc ego coniecturarum mearum secretum commodosius elucidando primo quadam rationali omnibus notissima progressione conceptui apodigmatica exemplaria configurabo, quibus noster discursus pergere queat ad generalem coniecturandi artem. Secundo loco floridas quasdam annota-
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za comporta che le affermazioni che noi facciamo intorno al vero siano soltanto delle congetture. L’unità della verità irraggiungibile viene pertanto conosciuta mediante l’alterità della congettura, e la congettura dell’alterità viene conosciuta nell’unità assolutamente semplice della verità6. Vedremo successivamente questo concetto in modo più chiaro. Un’intelligenza creata, che è dotata di un’attualità finita, non può che esistere in un modo in un individuo e in un altro modo in un altro individuo, per cui fra tutti coloro che formulano congetture vi è sempre una differenza; di conseguenza, sarà sempre assolutamente certo che, rispetto all’identità del vero che rimane irraggiungibile, le congetture di persone diverse saranno diverse per gradi e tuttavia resteranno senza proporzione fra loro, in modo tale che nessuno potrà mai comprendere perfettamente che cosa intenda un altro, sebbene qualcuno vi si possa avvicinare più di qualche altro. Per questo motivo, ti chiedo di accogliere solo come mie congetture le stesse scoperte che qui ti propongo7, tratte dalla capacità della mia piccola intelligenza, dopo una riflessione non breve. Tali congetture sono forse di gran lunga inferiori a quelle prodotte da intelletti più grandi e più splendidi, e sebbene tema che molte persone le possano disprezzare a causa dell’inadeguatezza con la quale sono presentate, le porgo tuttavia alle menti più elevate della mia come un cibo non del tutto inadatto a trasformarsi in concetti più luminosi. Chi si sforzerà di ricavarne un qualche nutrimento spirituale, masticandole accuratamente e ruminandole continuamente, ne guadagnerà conforto e sostentamento8, anche se inizialmente gli appariranno piuttosto rozze ed urtanti a causa della loro novità. Coloro che sono più giovani, tuttavia, essendo privi della luce dell’esperienza, hanno bisogno di una guida che li tragga quasi per mano9 a vedere le cose nascoste, in modo tale che essi possano elevarsi gradualmente a quelle che sono ancora più sconosciute. Per questo, al fine di rendere più chiaro e facile da comprendere il segreto delle mie congetture, mi servirò dapprima di una progressione numerica razionale, notissima a tutti10, e rappresenterò il mio pensiero mediante degli esempi dimostrativi, per mezzo dei quali il nostro discorso può giungere all’arte generale delle congetture. In secondo luogo, ne trarrò un florilegio di osservazioni e, aggiun-
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tiones eliciam, fructuosam applicatoriam praxim in gratissimis quibusdam resolutionibus adiciens, veri famelicas animas reficere curabo. 5
CAPITULUM I
Unde coniecturarum origo Coniecturas a mente nostra, uti realis mundus a divina infinita ratione, prodire oportet. Dum enim humana mens, alta dei similitudo, fecunditatem creatricis naturae, ut potest, participat, ex se ipsa, ut imagine omnipotentis formae, in realium entium similitudine rationalia exserit. Coniecturalis itaque mundi humana mens forma exstitit uti realis divina. Quapropter ut absoluta illa divina entitas est omne id quod est in quolibet quod est, ita et mentis humanae unitas est coniecturarum suarum entitas. Deus autem omnia propter se ipsum operatur, ut intellectuale sit principium pariter et finis omnium; ita quidem rationalis mundi explicatio, a nos tra complicante mente progrediens, propter ipsam est fabricatricem. Quanto enim ipsa se in explicato a se mundo subtilius contemplatur, tanto intra se ipsam uberius fecundatur, cum finis ipsius ratio sit infinita, in qua tantum se, uti est, intuebitur, quae sola est omnibus rationis mensura. Ad cuius assimilationem tanto propinquius erigimur, quanto magis mentem nostram profundaverimus, cuius ipsa unicum vitale centrum exsistit. Ob hanc causam naturali desiderio ad perficientes scientias aspiramus. 6 Ut autem ad apprehensionem intenti inducaris et mentem coniecturarum principium recipias, advertas quoniam, ut primum omnium rerum atque nostrae mentis principium unitrinum ostensum est, ut multitudinis, inaequalitatis atque divisionis rerum unum sit principium, a cuius unitate absoluta multitudo, aequali-
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gendo a loro illustrazione degli esempi applicativi che sono molto fruttuosi per compiere alcune analisi molto piacevoli, farò in modo di saziare le anime che hanno fame di verità11. CAPITOLO I
5
L’origine delle congetture Le congetture procedono dalla nostra mente come il mondo reale procede dalla ragione infinita di Dio. Infatti, dal momento che la mente umana, alta similitudine di Dio, partecipa, per quanto le è possibile, della fecondità della natura creatrice, essa trae da se stessa, quale immagine della forma onnipotente, gli enti di ragione a somiglianza degli enti reali12. La mente umana, pertanto, è la forma del mondo delle congetture, così come la mente divina è la forma del mondo reale13. Per questo motivo, come in ogni cosa esistente l’entità divina assoluta è tutto ciò che una cosa è14, così anche l’unità della mente dell’uomo è l’entità delle proprie congetture. Ora, Dio fa tutte le cose in vista di se stesso15, in modo tale che egli è, ad un tempo, il principio intellettuale e il fine di tutte le cose; analogamente, l’esplicazione del mondo razionale, che proviene dalla nostra mente che lo complica16, si attua in vista della mente stessa. Quanto più profondamente, infatti, la mente contempla se stessa nel mondo che ha esplicato da sé, tanto più diviene feconda e fertile in se stessa, perché la mente ha come fine la ragione infinita, solo nella quale la mente si vedrà intuitivamente per com’essa è veramente17, in quanto la ragione infinita è la sola misura di tutti gli esseri dotati di ragione. E noi ci eleviamo ad una somiglianza tanto più stretta con la ragione infinita, quanto più penetriamo in profondità all’interno della nostra mente, di cui la ragione infinita è l’unico centro di vita18. Questo è il motivo per il quale noi aspiriamo alle conoscenze che ci perfezionano in forza di un desiderio naturale. Per condurti a capire quanto intendo dire e a riconoscere come la mente sia il principio delle congetture, presta attenzione a quanto segue: come si è dimostrato che il principio primo di tutte le cose e della nostra mente è uni-trino19, in modo tale che vi sia un solo principio della molteplicità, della diseguaglianza e della divisione delle cose, e in modo tale che dalla sua unità assoluta flui-
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tate inaequalitas et conexione divisio effluat, ita mens nostra, quae non nisi intellectualem naturam creatricem concipit, se unitrinum facit principium rationalis suae fabricae. Sola enim ratio multitudinis, magnitudinis ac compositionis mensura est, ita ut ipsa sublata nihil horum subsistat, sicut entitate infinita negata omnium rerum entitates pariter constat esse negatas. Quapropter unitas mentis in se omnem complicat multitudinem eiusque aequalitas omnem magnitudinem, sicut et conexio compositionem. Mens igitur unitrinum principium primo ex vi complicativae unitatis multitudinem explicat, multitudo vero inaequalitatis atque magnitudinis generativa est. Quapropter in ipsa primordiali multitudine, ut in primo exemplari, magnitudines seu perfectiones integritatum varias et inaequales venatur, deinde ex utrisque ad compositionem progreditur. Est igitur mens nostra distinctivum, proportionativum atque compositivum principium. 7
CAPITULUM II
Symbolicum exemplar rerum numerum esse Rationalis fabricae naturale quoddam pullulans principium numerus est; mente enim carentes, uti bruta, non numerant. Nec est aliud numerus quam ratio explicata. Adeo enim numerus principium eorum, quae ratione attinguntur, esse probatur, quod eo sublato nihil omnium remansisse ratione convincitur. Nec est aliud rationem numerum explicare et illo in constituendis coniecturis uti, quam rationem se ipsa uti ac in sui naturali suprema similitudine cuncta fingere, uti deus, mens infinita, in verbo coaeterno rebus esse communicat. 8 Nec quidquam numero prius esse potest. Cuncta enim alia ab ipso ipsum necessario fuisse affirmant. Omnia enim simplicis-
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sca la molteplicità, dalla sua eguaglianza la diseguaglianza e dalla sua connessione la divisione, così la nostra mente, che concepisce come creatrice soltanto una natura intellettuale, si rende principio uni-trino della propria costruzione razionale. Soltanto la ragione, infatti, è la misura della molteplicità, della grandezza e della composizione, per cui nessuna di queste realtà può sussistere se viene tolta la ragione, così come, se viene negata l’entità infinita, risulta negato anche l’essere di tutte le cose20. Per questo motivo, l’unità della mente complica in sé ogni molteplicità, la sua eguaglianza ogni grandezza, così come la sua connessione complica in sé ogni composizione21. La mente, pertanto, in quanto principio unitrino, esplica, in primo luogo, la molteplicità, traendola dalla forza della propria unità complicante, mentre la molteplicità genera la diseguaglianza e la grandezza. Per questo motivo, la mente ricerca22 nella stessa molteplicità originaria, come nel [loro] primo esemplare, le grandezze, ovvero le varie e diseguali perfezioni delle cose nella loro interezza, e poi procede a combinarle insieme [molteplicità e grandezza] giungendo alla loro composizione. La nostra mente, pertanto, è un principio che distingue, istituisce proporzioni e compone23. CAPITOLO II
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Il numero è l’esemplare simbolico delle cose Della costruzione della ragione c’è un principio che germoglia quasi dalla sua natura, e questo è il numero24; coloro che sono privi di mente, infatti, come gli animali bruti, non numerano25. Il numero non è altro che la ragione esplicata26. Il numero risulta essere il principio delle cose che si giunge a cogliere con la ragione, a tal punto che, se lo si togliesse, la ragione ci dimostra che di esse non resterebbe nulla27. Inoltre, che la ragione esplichi il numero e se ne serva per costruire le congetture non significa altro che la ragione si serve di se stessa e forma tutte le cose secondo l’immagine naturale e più elevata di sé, proprio come Dio, che è mente infinita, comunica l’essere alle cose attraverso il suo verbo coeterno. Inoltre, nulla può esistere prima del numero. Tutte le cose che sono diverse dal numero attestano, infatti, che il numero c’era ne-
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simam unitatem exeuntia composita suo sunt modo. Nulla vero compositio absque numero intelligi potest. Nam partium pluralitas atque earum diversitas, simul et proportio componibilitatis ex ipso sunt. Neque alia res substantia, alia quantitas, alia albedo, alia nigredo, et ita de omnibus, absque alietate esset, quae ex numero est. Sed numerus «ex se ipso compositus» est; ternarius enim ex tribus combinatis compositus concipi debet. Alioquin ternarius non magis esset, quam si seorsum parietem, seorsum tectum fundamentaque domus fingeres et formam domus concipere velles. Oportet igitur non seorsum, sed composite simul ipsum imaginari, nec tunc aliud erit trium combinatio quam ternarius. «Ex se ipso» igitur «compositus» est. Oportet etiam primam oppositionem contractam ex se ipsa contractam esse, quod extra numerum impossibile est. Omnis igitur numerus, compositus ex oppositis differentibus atque ad invicem proportionabiliter se habentibus, taliter exsistit, quod illa sunt ipse. Par numerus impari opponitur, atque omnis numerus, sive par sive impar, ex pari et impari, hoc est ex se ipso exsistit. Quaternarius ex ternario impari et quaternario pari compositus est. Quod autem ex duobus binariis combinatus videtur, non ad quaternarii essentiam, sed quantitatem referri debet. 9 Quomodo autem concipi quidquam posset menti similius numero? Nonne unitas ternarii ternaria est, aequalitas ternarii ternaria est? Sic et ternarii conexio ternaria exstitit. Numeri igitur essentia primum mentis exemplar est. In ipso etenim triunitas seu unitrinitas, contracta in pluralitate, prioriter reperitur impressa. Symbolice etenim de rationalibus numeris nostrae mentis ad reales ineffabiles divinae mentis coniecturantes, dicimus «in animo condito-
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cessariamente già prima [di esse]. Infatti, tutte le cose che provengono dall’unità assolutamente semplice sono a loro modo composte; nessuna composizione, tuttavia, può essere concepita senza il numero. La pluralità delle parti e la loro diversità, infatti, nonché la proporzione in base alla quale esse sono componibili, derivano dal numero. La sostanza, poi, la quantità, il bianco, il nero, e così via, non sarebbero diversi fra loro se non esistesse l’alterità, la quale deriva dal numero28. Il numero, tuttavia, «è composto di se medesimo»29; il tre, ad esempio, lo si deve concepire come composto di tre unità combinate insieme. Se così non fosse, l’esistenza del tre non sarebbe più concepibile, perché sarebbe come se ci si volesse immaginare separatamente le pareti, il tetto e le fondamenta e si volesse tuttavia concepire la forma di una casa30. È necessario, pertanto, che ci rappresentiamo il numero tre come un insieme di unità non separate, ma composte insieme, e allora risulterà che la combinazione delle tre unità non è che il numero tre. Il numero tre, pertanto, «è composto di se medesimo». È necessario anche che la prima opposizione contratta sia contratta a partire da se stessa, il che al di fuori del numero è impossibile. Pertanto, ogni numero, che è composto di opposti che sono differenti e che stanno fra loro in un rapporto di reciproca proporzione, esiste in modo tale che questi opposti sono la realtà stessa del numero. Il numero pari si oppone al numero dispari, e ogni numero, pari o dispari che sia, esiste come composto del pari e del dispari31, ossia di se stesso. Il numero quattro è composto del tre, che è dispari, e del quattro, che è pari. Il fatto, invece, che esso sembri composto da due numeri due non deve ascriversi all’essenza del quattro, bensì alla sua quantità32. Come si potrebbe pensare qualcosa di più simile alla mente del numero? L’unità del tre non è forse trina, e non è forse trina l’uguaglianza del tre? Allo stesso modo, anche la connessione del tre è trina. L’essenza del numero, pertanto, è il primo esemplare della mente33. Nel numero, infatti, si trova impressa per la prima volta una tri-unità o una uni-trinità, che è contratta nella pluralità. Procedendo pertanto con le nostre congetture in maniera simbolica dai numeri razionali della nostra mente fino i numeri reali e ineffabili della mente divina, diciamo che «nell’animo del creatore il pri-
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ris primum rerum exemplar» ipsum numerum, uti similitudinarii mundi numerus a nostra ratione exsurgens. 10
CAPITULUM III
De naturali progressione Tanto te acutius numeri expedit contemplare naturam, quanto in eius similitudine cetera profundius indagare conaris. Primum autem progressioni eius incumbe et quaternario eam expleri probabis. Unum enim, duo, tria et quattuor simul iuncta denarium efficient, qui unitatis simplicis numeralem explicat virtutem. De ipso equidem denario, qui altera unitas est, pari quaternario progressu radicis quadrata attingitur explicatio: 10, 20, 30 et 40 simul iuncta centum sunt, qui denariae radicis exstat quadratura. Centenaria itidem unitas pari motu millenarium exserit: 100, 200, 300 et 400 simul iuncta mille sunt. Nec amplius hac via, quasi quid restet, proceditur, quamvis tam post denarium, ut in undenario, ubi post ipsum denarium ad unitatem fit regressio, quam post millenarium pariformiter repetitio non negetur. 11 Non sunt igitur naturali in fluxu plures quam decem numeri, qui quaterna progressione arcentur, nec ultra solidum denariae radicis millenarium fit repetitionis variatio. Cum hic progressione quaternaria, triniter repetita, denario exsurgat ordine, habes quaternarium, unitatis explicationem, universi numeri continere potentiam. Unitas enim generalis quattuor unitatibus distinguitur, quae ordine congruo figurantur: prima simplicissime, secunda habet ordinis tantum nihili figuram adiectam, ut alterae congruit unitati, tertia huius naturae duas adicit, quarta tres, ut 1, 10, 100,
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mo esemplare delle cose»34 è il numero, così come il numero che proviene dalla nostra mente è il primo esemplare del mondo delle similitudini35. CAPITOLO III
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La progressione naturale Bisogna che tu consideri la natura del numero in maniera tanto più acuta, quanto più ti sforzi di indagare a fondo le altre cose sulla base della similitudine che esse hanno con il numero36. Prima di tutto, occupati della progressione numerica37, e verificherai che essa giunge a compimento nel quattro. I numeri uno, due, tre e quattro, infatti, sommati insieme, daranno luogo al numero dieci38, il quale esplica la forza numerica dell’unità semplice. Proprio a partire dal numero dieci, che è la seconda unità, con un’analoga progressione in quattro momenti, si raggiunge l’esplicazione al quadrato della radice: dieci, venti, trenta e quaranta, sommati insieme fanno cento, che è il quadrato della radice dieci. Anche l’unità del cento, con lo stesso movimento, dà luogo al mille: cento, duecento, trecento e quattrocento sommati insieme fanno infatti mille. E per questa via non si può più procedere oltre, come se rimanesse ancora qualcosa, sebbene non si possa negare che, sia dopo il dieci, per esempio nel caso dell’undici, in cui si torna all’unità, sia dopo il mille, la serie [dei numeri] si ripeta39. Nella serie naturale dei numeri, pertanto, non vi sono più di dieci numeri, i quali sono racchiusi nell’ambito di una progressione di quattro momenti, e oltre il cubo della radice dieci, che è il mille, non vi è alcuna variazione nella ripetizione dei numeri. E dal momento che il mille nasce dalla successione del dieci mediante una progressione di quattro momenti, ripetuta tre volte, risulta che il quattro, che è un’esplicazione dell’unità, contiene la potenza di tutti numeri. L’unità, intesa come genere, si articola in quattro unità, le quali vengono rappresentate numericamente in un ordine appropriato: la prima, nella maniera più semplice, la seconda ha di aggiunto, nell’ordine dei numeri, soltanto uno zero, come si addice alla seconda unità, la terza vi aggiunge due zeri, la quarta tre, per cui abbiamo: uno, dieci, cento, mille. Tutto questo, per quanto
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1000. Quae omnia quamvis indubia cunctis, ad ocularem redegi formulam, proposito nostro congruentem.
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CAPITULUM IV
De quattuor unitatibus Mens ipsa omnia se ambire omniaque lustrare comprehendereque supponens, se in omnibus atque omnia in ipsa esse taliter concludit, ut extra ipsam ac quod eius obtutum aufugiat nihil esse posse affirmet. Contemplatur itaque in numerali similitudine sua a se ipsa elicita ut in imagine naturali et propria sui ipsius unitatem, quae est eius entitas. 13 Hanc ex numero quaternam venatur; nam est simplicissima, est alia radicalis, est tertia quadrata, est quarta solida. Ita quidem in initio numeri simplicissimam intuetur unitatem, post haec denariam, quae radix est aliarum, deinde centenariam, denariae quadratam, ultimo millenariam cubicam. Inter enim diversas atque oppositas unitates, simplicem et solidam, unicum praecisum medium cadere nequit, sed ad minus duo necessaria esse constat, quorum
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non vi siano dubbi per alcuno, l’ho riprodotto in uno schema visivo adatto al nostro intento.
CAPITOLO IV
Le quattro unità
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Poiché la mente, com’essa suppone, abbraccia tutte le cose e tutte le percorre e le comprende, da ciò essa inferisce di essere presente in tutte le cose e che tutte le cose siano presenti in lei, in modo tale che essa afferma che non vi può essere nulla che sia al di fuori di lei e che sfugga al suo sguardo41. In questo modo, la mente contempla la propria unità, che è la sua stessa entità, in quella sua similitudine che è il numero, che la mente ha tratto da se stessa42, e la contempla come in un’immagine che le è naturale e propria. Sulla base del numero, la mente va in cerca di questa unità in quattro momenti; vi è infatti un’unità assolutamente semplice, una seconda unità, che è quella della radice, una terza unità, che è quella del quadrato, e una quarta, che è quella del cubo. In modo analogo, all’inizio della serie numerica la mente coglie l’unità assolutamente semplice [ossia l’uno], dopo di questa l’unità del dieci, che è la radice delle altre, poi ancora l’unità del cento, che è il quadrato del dieci, infine coglie l’unità del mille, che è il cubo [del dieci]. Fra queste quattro unità, che sono diverse e opposte, vale a dire fra l’unità semplice e l’unità al cubo, non può esservi una sola unità come termine medio unico e preciso, ma è chiaro che ne servono almeno due43,
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alterum ad simplex, ut radicalis, alterum ad solidum, ut quadrata, unitates inclinantur. Nam impossibile est conexionem simplicem esse inaequalium. Sola etenim infinitae unitatis et aequalitatis conexio simplex esse potest. Contemplatur itaque mens ipsa universam suam entitatem in his quaterne distinctis unitatibus, ut aliam videat simplicissimam mentem prioriter ad cuncta ut creator se habentem, aliam egressam proxime ab illa, aliarum radicem, aliam ab hac radice egressam ad quartam inclinari, quae sua grossiori soliditate ulterius proficisci non sinit. 14 Has mentales unitates vocalibus signis figurat. Primam quidem altissimam simplicissimamque mentem deum nominat, aliam radicalem, nullam priorem sui habens radicem, intelligentiam appellat, tertiam quadratam, intelligentiae contractionem, animam vocat, finalem autem soliditatem grossam explicatam, non amplius complicantem, corpus esse coniecturatur. 15 Omnia autem in deo deus, in intelligentia intellectus, in anima anima, in corpore corpus. Quod aliud non est quam mentem omnia complecti vel divine vel intellectualiter vel animaliter aut corporaliter: divine quidem, hoc est prout res est veritas; intellectualiter, hoc est ut res non est veritas ipsa, sed vere; animaliter, hoc est ut res est verisimiliter; corporaliter vero etiam veri similitudinem exit et confusionem subintrat. 16 Prima unitas penitus exstitit absoluta; ultima vero, quantum possibile est, omnem absolutionem exiens, contracta est; secunda multum absoluta, parum contracta; tertia parum absoluta multumque contracta. Quapropter, sicut intelligentia non est penitus divina seu absoluta, ita nec rationalis anima penitus divinitatis
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delle quali una è la radice del dieci, che tende verso l’unità semplice, l’altra è il quadrato del dieci, che tende verso il cubo. È impossibile, infatti, che fra elementi diseguali vi sia una connessione semplice. Una connessione semplice, infatti, vi può essere solo fra l’unità infinita e la sua eguaglianza. La mente stessa, quindi, contempla tutto il proprio essere in queste quattro distinte unità, per cui essa vede, in primo luogo, che la prima unità è la mente assolutamente semplice, che è anteriore a tutte le cose e si rapporta ad esse come il creatore; vede che la seconda unità, che deriva subito dopo la prima è la radice delle altre [due unità], e vede che la terza unità, che deriva da tale radice, tende verso la quarta unità, la quale, a causa della sua solidità e grossezza, non permette di procedere oltre. La mente raffigura queste unità mentali mediante i segni costituiti dalle parole; in questo senso, chiama Dio la prima unità, ossia la mente suprema e assolutamente semplice; chiama intelligenza la seconda unità, che è radice e che non ha nessuna radice prima di sé; la terza unità, che è il quadrato ed è una contrazione dell’intelligenza, la chiama anima; l’ultima unità, che è esplicata nella grossezza del solido e che non complica nulla di ulteriore, congettura sia il corpo. Ora, in Dio tutte le cose sono Dio44, nell’intelligenza sono intelletto45, nell’anima sono anima, nel corpo sono corpo. Ciò non significa altro che la mente abbraccia tutte le cose o secondo il modo proprio di Dio, o secondo il modo proprio dell’intelletto, o secondo il modo proprio dell’anima, o secondo quello proprio del corpo46: nel modo proprio di Dio, nella misura in cui ciò che la mente abbraccia è la verità; nel modo proprio dell’intelletto, in quanto ciò che la mente abbraccia non è la verità stessa, ma è vero; nel modo proprio dell’anima, in quanto ciò che la mente abbraccia è verosimile, nel modo proprio del corpo, invece, quando ciò che la mente abbraccia si allontana anche dall’essere una somiglianza del vero e in essa s’insinua la confusione. La prima unità è del tutto assoluta; l’ultima, invece, che è al di fuori di ogni assolutezza, è contratta il più possibile; la seconda è molto assoluta e poco contratta, la terza è poco assoluta e molto contratta. Per questo motivo, come l’intelligenza non è del tutto divina o assoluta, così anche l’anima razionale non è del tutto priva
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exit participationem, ut admiranda in invicem progressione divina atque absoluta unitate gradatim in intelligentia et ratione descendente et contracta sensibili per rationem in intelligentiam ascendente mens omnia distinguat pariterque conectat. 17
CAPITULUM V
De prima unitate Amplius te attentiorem faciat dicendorum utilitas; magna enim atque occulta in lucem ducere temptabo. Primo illa divina unitas, si numerus rerum fingitur exemplar, omnia praevenire complicareque videtur. Ipsa enim, omnem praeveniens multitudinem, omnem etiam antevenit diversitatem, alietatem, oppositionem, inaequalitatem, divisionem atque alia omnia, quae multitudinem concomitantur. Unitas quidem nec binarius nec ternarius est atque ita deinceps, quamvis omnia ea sit, quae sunt ternarius, quaternarius et reliqui numeri. Si species rerum ut numeri distinguuntur, ipsa absoluta unitas nullius speciei est, nullius nominis, nulliusque figurae, quamvis omnia sit in omnibus. Ipsa est unitas omnis pluralitatis, unitas quidem pluralitatis generum, specierum, substantiarum, accidentium universarumque creaturarum, mensura una omnium mensurarum, aequalitas una omnium aequalium et inaequalium, conexio omnium unitorum et segregatorum, quemadmodum unitas omnem tam parem quam imparem numeros simplicitate sua complicat, explicat atque conectit. 18 Intuere mente profunda unitatis infinitam potentiam; maior enim est per infinitum omni dabili numero. Nullus enim est numerus quantumcumque magnus, in quo unitatis potentia quies cat. Cum itaque omni dabili numero per unitatis virtutem maior absque statu haberi possit, per solius unius potentiam inexhauribilem constat omnipotentem eam esse. Multa de hoc in iam ante
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di una partecipazione alla divinità. In questo modo, la mente distingue e ad un tempo connette tutte le cose mediante uno straordinario movimento di progressione reciproca, nel quale l’unità divina e assoluta discende gradualmente nell’intelligenza e nella ragione, e l’unità contratta sensibile ascende, attraverso la ragione, all’intelligenza47. CAPITOLO V
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La prima unità L’utilità delle cose che sto per dire ti renda ancora più attento; cercherò, infatti, di portare alla luce cose grandi e nascoste. In primo luogo, se ci rappresentiamo il numero come l’esemplare delle cose, allora risulta evidente che l’unità divina precede e complica tutte le cose48. L’unità divina, infatti, giacché viene prima di ogni molteplicità, precede anche ogni diversità, alterità, opposizione49, diseguaglianza, divisione, e tutte le altre caratteristiche che si accompagnano alla molteplicità. L’unità non è né il due, né il tre, né alcuno dei numeri che seguono, sebbene essa sia tutto ciò che il due, il tre e i restanti numeri sono. Se le specie delle cose si distinguono come i numeri50, allora l’unità assoluta non appartiene ad alcuna specie, non ha nessun nome e nessuna figura51, sebbene essa sia tutta in tutte le cose52. L’unità assoluta è l’unità di ogni pluralità, vale a dire è l’unità della pluralità dei generi, delle specie, delle sostanze, degli accidenti e di tutte le creature; è l’unica misura di tutte le misure53, l’unica eguaglianza di tutto ciò che è eguale e diseguale, l’unica connessione di tutto ciò che è unito e separato, così come l’unità numerica complica, esplica e connette nella sua semplicità ogni numero, pari o dispari che sia54. Con la parte più profonda della tua mente, cerca di cogliere intuitivamente la potenza infinita dell’unità55; essa, infatti, è infinitamente maggiore di ogni numero che possa darsi, dal momento che non vi è nessun numero, per quanto grande esso sia, in cui la potenza dell’unità si acquieti. Dal momento che, attraverso la forza dell’unità, è possibile ottenere, senza fine, un numero più grande di qualsiasi numero dato, è evidente che essa è onnipotente, in virtù della potenza inesauribile del solo uno. Hai ascoltato molte cose
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dictis audisti multaque dici semper posse ex his vides. Ea etenim, quae dici possent, numeri quidem sunt inexplicabilis unitatis numeralesve figurae invariabilis veritatis, quae tanto clarius intuebitur, quanto absolutius atque unitius concipitur. Qui enim absolutam et ipsam tantum concipit unitatem, ineffabilem eam videt. Cuius enim respectu potius unum quam aliud sortiretur nomen? Si cuncta alia separasti et ipsam solam inspicis, si aliud numquam aut fuisse aut esse aut fieri posse intelligis, si pluralitatem omnem abicis atque respectum et ipsam simplicissimam tantum unitatem subintras, ita ut eam non potius simplicem quam non simplicem, non potius unam quam non unam comprobes, arcana omnia penetrasti. Nulla ibi dubietas, nullum impedimentum. 19 Contemplare igitur mentis tuae unitatem per hanc absolutionem ab omni pluralitate, et videbis non esse eius vitam corruptibilem in sua unitate absoluta, in qua est omnia. Huius autem absolutae unitatis praecisissima est certitudo, etiam ut mens omnia in ipsa atque per ipsam agat. Omnis mens inquisitiva atque investigativa non nisi in eius lumine inquirit, nullaque esse potest quaestio, quae eam non supponat. Quaestio ‘an sit’ nonne entitatem, ‘quid sit’ quiditatem, ‘quare’ causam, ‘propter quid’ finem praesupponit? Id igitur, quod in omni dubio supponitur, certissimum esse necesse est. Unitas igitur absoluta, quia est entitas omnium entium, quiditas omnium quiditatum, causa omnium causarum, finis omnium finium, in dubium trahi nequit. Sed post ipsum dubiorum est pluralitas. 20 Adverte igitur, Iuliane pater, quam clara atque brevis est theologia, sermone inexplicabilis, quoniam ad omnem de deo formabilem quaestionem primum posse respondere vides quaestionem omnem de ipso ineptam. Omnis enim quaestio de quaesito oppo-
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al riguardo in ciò che abbiamo già detto in precedenza, e da queste considerazioni vedi che se ne possono sempre dire molte altre. Tutte le cose che possono essere dette, infatti, sono come numeri dell’unità inesplicabile, raffigurazioni numeriche della verità immutabile, la quale verrà accolta intuitivamente con tanta maggiore chiarezza, quanto più verrà concepita come assoluta e una. Infatti, colui che concepisce l’unità come assoluta e guarda ad essa sola, vede che è ineffabile. Rispetto a che cosa, infatti, potrebbe egli scegliere per essa un nome piuttosto che un altro? Se hai lasciato da parte tutte le altre cose e guardi soltanto all’unità, se comprendi che l’unità non è mai stata, né può essere o diventare altro da quello che è, se rimuovi ogni pluralità e ogni relazione e cerchi di penetrare soltanto nell’unità assolutamente semplice, così da trovare conferma che essa non è semplice piuttosto che non-semplice, che non è una piuttosto che non-una, allora puoi dire di essere penetrato in tutti i segreti. Lì non vi sarà più nessun dubbio, nessun impedimento. Grazie a questa separazione da ogni pluralità, contempla, dunque, l’unità della tua mente, e vedrai che, in quella sua unità assoluta, nella quale essa è tutte le cose, la sua vita non è corruttibile. La certezza di questa unità assoluta è precisissima, com’è anche certo che la mente compie ogni cosa in questa unità e attraverso questa unità. Ogni mente, che ricerca e indaga, non ricerca se non alla luce dell’unità assoluta, e non vi può essere alcuna questione che non la presupponga56. La questione «se qualcosa sia» non presuppone forse l’entità, la questione «che cosa sia» non presuppone forse la quiddità, la questione sul «perché» non presuppone forse la causa, la questione «per che cosa» non presuppone forse il fine57? Pertanto, ciò che in ogni dubbio risulta essere già presupposto, deve necessariamente essere assolutamente certo58. Di conseguenza, l’unità assoluta, poiché è l’entità di tutti gli enti, la quiddità di tutte le quiddità, la causa di tutte le cause, il fine di tutti fini, non può essere messa in dubbio. È solo dopo di essa che vi è la pluralità dei dubbi. Osserva, padre Giuliano, quanto chiara e breve sia la teologia59, la quale non può essere spiegata con le parole, in quanto, come vedi, ad ogni domanda che si possa formulare intorno a Dio si può rispondere, in primo luogo, che essa è posta in modo improprio. Ogni domanda, infatti, ammette che possa essere vera soltanto una
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sitorum alterum tantum verificari posse admittit, aut quid aliud de illo quaesito quam de aliis affirmandum negandumve exsistat. Haec quidem de absoluta unitate credere absurdissimum est, de qua nec alterum oppositorum aut potius unum quodcumque quam aliud affirmantur. Si vero affirmative quaesito satisfacere optas, absolutum praesuppositum repetas, ut, cum dicitur ‘an sit’, respondeatur entitatem, quae praesupponitur, ipsum esse. Ita quidem in quaestione ‘quid sit’ quiditatem respondeas, et ita deinceps. In quaestione ‘an deus sit homo’ entitas atque humanitas praesupponuntur. Quare dici poterit ipsum entitatem eam esse, per quam est humanitas. Ita in quaestione ‘an angelus sit’ eum entitatem absolutam angeleitatis asseratur. Et ita de singulis. 21 Quoniam autem omnis affirmatio negationi adversari creditur, haec iam dicta responsa praecisissima esse non posse ex hoc advertis quod primum per infinitum omnem praeit oppositionem, cui nihil convenire potest non ipsum. Non est igitur coniectura de ipso verissima, quae admittit affirmationem, cui opponitur negatio, aut quae negationem quasi veriorem affirmationi praefert. Quamvis verius videatur deum nihil omnium, quae aut concipi aut dici possunt, exsistere quam aliquid eorum, non tamen praecisionem attingit negatio, cui obviat affirmatio. Absolutior igitur veritatis exstitit conceptus, qui ambo abicit opposita, disiunctive simul et copulative. Non poterit enim infinitius responderi ‘an deus sit’ quam quod ipse nec est nec non est, atque quod ipse nec est et non est. Haec est una ad omnem quaestionem altior, simplicior, absolutior conformiorque responsio ad primam ipsam simplicissimam ineffabi-
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delle due possibilità opposte, oppure che ciò che si afferma o si nega a proposito di una questione sia diverso da quello che si può affermare o negare a proposito di un’altra questione. Ritenere che queste cose valgano per l’unità assoluta è quanto mai assurdo, perché intorno ad essa non si affermano né una delle due possibilità opposte, né una qualunque piuttosto che un’altra60. Ma se scegli di rispondere alla domanda in modo affermativo, allora devi rispondere ripetendo ciò che è presupposto [nella domanda] e che è assoluto, in modo tale che, quando si chiede «se Dio sia», si risponda che egli è quella stessa entità che viene presupposta nella domanda. Allo stesso modo, alla domanda che cosa Dio sia, si deve rispondere che egli è la quiddità, e così via. Nella questione «se Dio sia uomo» vengono presupposte l’entità e l’umanità61. Per questo motivo, si potrà rispondere dicendo che Dio è quell’entità per la quale è umanità. Così, alla domanda «se egli sia un angelo», si deve rispondere dicendo che Dio è l’entità assoluta dell’essere angelo. E lo stesso vale per ogni altra domanda. Poiché tuttavia si ritiene che ogni affermazione si opponga a una negazione, le risposte che abbiamo appena fornito non possono essere assolutamente precise; e di questo ti puoi rendere conto se consideri che ciò che è primo precede infinitamente ogni opposizione, e non può convenirgli nulla che non sia egli stesso. Per questo motivo, per quanto riguarda ciò che è primo non è del tutto vera una congettura che dia luogo a un’affermazione cui si opponga una negazione, o che preferisca la negazione come se fosse più vera dell’affermazione. Sebbene sembri più vero dire che Dio non è nessuna delle cose che si possono concepire o esprimere piuttosto che dire che egli è una di esse, tuttavia questa negazione, alla quale si oppone un’affermazione, non raggiunge la precisione. Più assoluto, pertanto, è quel concetto della verità che rifiuta entrambi gli opposti, sia che vengano intesi in modo disgiuntivo, sia che vengano intesi in modo copulativo62. Alla domanda «se Dio sia» si potrà infatti rispondere in maniera più conforme all’infinito dicendo che egli né è né non-è, e che egli neppure è e non-è. Questa è la sola risposta che si possa dare ad ogni domanda che riguarda la prima entità, assolutamente semplice e ineffabile, risposta che, rispetto ad ogni altra, è la più elevata, la più semplice, la più assolu-
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lem entitatem. Haec quidem subtilissima coniecturalis responsio est ad omnia quaesita aequa. Coniecturalis autem est, cum praecisissima ineffabilis inattingibilisque tam ratione maneat quam intellectu. 22
CAPITULUM VI
De secunda unitate Intellectualis est haec unitas. Cum autem omne non primum ab ipso absolutissimo descendens aliter quam versus alteritatem pergere intelligi nequeat, non erit haec unitas simplicissima ut prima, sed intellectualiter composita. Compositio vero ab uno et altero, hoc est ex oppositis, esse ratio dicit, nec tamen haec unitas aliter ex oppositis est quam simplicem convenit esse radicem. Non igitur ipsam opposita praeveniunt, ut sit ex ipsis quae praecesserunt, sed simul cum ipsis exoritur, sicut intellectualiter numerum componi necesse est. Copulantur igitur in eius simplicitate radicali opposita ipsa indivise atque irresolubiliter. Denaria enim unitas abs que radice est. Nam eam praeter primam nulla praecedit unitas, cuius multiplicatione exsurgat; ex sola prima ortum capit, quam omnis sequitur oppositio. Eius itaque initium nullis diversitatibus est involutum. Quapropter quidquid in subsequentibus in divisionem progreditur, in ipsa illa unitate radicali non disiungitur, uti differentiae oppositae, in speciebus divisae, in generali complicantur specierum radice. Conexio autem omni disiunctioni simplicior est atque prior. 23 Quapropter quaestiones, alterum oppositorum de ipsa entitate negabile supponentes atque alterum tantum affirmabile, impro-
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ta e quella che è più conforme al vero. Questa risposta congetturale, quanto mai acuta, è adatta per tutte le domande. Si tratta, nondimeno, di una risposta congetturale, perché la risposta assolutamente precisa rimane ineffabile e irraggiungibile tanto dalla ragione quanto dall’intelletto. CAPITOLO VI
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La seconda unità Questa [seconda] unità è l’unità d’intelletto63. Dal momento che tutto ciò che non è il principio discende dal principio del tutto assoluto e non lo si può intendere se non come qualcosa che procede verso l’alterità64, questa seconda unità non sarà totalmente semplice come la prima, ma sarà composta secondo il modo proprio dell’intelletto. Ma la ragione ci insegna che la composizione è il risultato deriva da una cosa e da un’altra, ossia da opposti; tuttavia questa [seconda] unità può essere formata da opposti solo in un modo che sia conforme al fatto che essa è una radice semplice65. Gli opposti, pertanto, non sono anteriori ad essa, di modo che essa sia formata da opposti che le erano precedenti; piuttosto, essa nasce insieme agli opposti, com’è necessario che accada per il numero, che è composto secondo il modo proprio dell’intelletto66. Di conseguenza, nella semplicità di quella radice che è propria di questa [seconda] unità, gli opposti sono congiunti in maniera indivisa e irresolubile67. L’unità del dieci, infatti, non ha radice. Eccetto la prima unità, non c’è nessun altra unità che la preceda e dalla cui moltiplicazione essa possa sorgere; essa ha la sua origine soltanto dalla prima unità, alla quale fa seguito ogni opposizione. E così il suo inizio non implica alcuna diversità. Per questo motivo, tutto ciò che, nei momenti successivi, va verso la divisione, in quella unità che costituisce la loro radice non è invece disgiunto, così come le differenze opposte, che risultano divise nelle specie, sono invece complicate in quella radice della specie che è il genere68. La connessione, tuttavia, è più semplice ed è anteriore rispetto ad ogni disgiunzione69. Da quanto detto puoi vedere come tutte le domande che presuppongono che, a proposito di questa seconda entità, si possa negare uno dei due opposti e si possa affermare solo l’altro sono for-
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prie moveri vides; omne enim de intelligentia qualitercumque affirmabile incompatibile non habet oppositum. Altius enim atque simplicius est intellectuale esse eo essendi modo, quod cum non esse est incompatibile. Unde intellectualis illa unitas radix quaedam complicativa oppositorum in eius explicatione incompatibilium exsistit. Ea enim opposita, quae in explicata eius rationalis unitatis quadratura incompatibilia sunt, in ipsa complicantur. Motus enim rationabiliter quieti incompatibiliter opponitur. Sed sicut infinitus motus coincidit cum quiete in primo, ita et proxima eius similitudine non se exterminant, sed compatiuntur. Nam motui intelligentiae non ita opponitur quies quod, dum movetur, pariter non quiescat; simplicior enim est hic motus intellectualis quam ratio mensurare queat. Similiter et de quiete et ceteris omnibus. 24 Acute igitur, quantum vales, haec concipe. Nam in ante expositis De docta ignorantia memor sum de deo me intellectualiter saepe locutum per contradictoriorum copulationem in unitate simplici. Iam autem in proxime praemissis divinaliter intentum explicavi. Improportionabiliter simplicior est negatio oppositorum disiunctive ac copulative quam eorum copulatio. Aliter autem divine secundum primae absolutae unitatis conceptum de deo, aliter secundum hanc intellectualem unitatem dicendum multoque adhuc bassius secundum rationem. Unitas autem ista, ad primam improportionabilis, oppositorum compositionem penitus non evadit, sed in ea opposita compatibilem concordantiam nondum exierunt. Unde
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mulate in modo improprio; tutto ciò che si può affermare riguardo all’intelligenza, infatti, non ha un opposto che sia incompatibile con essa70. L’essere dell’intelletto, infatti, è più elevato e più semplice di quel modo di essere che è incompatibile con il non-essere. Di conseguenza, l’unità dell’intelletto è una sorta di radice che complica gli opposti, i quali divengono poi incompatibili quando essa si esplica. Nell’unità dell’intelletto, infatti, sono complicati quegli opposti che, nella esplicazione del suo quadrato, ossia nell’unità della ragione, sono incompatibili71. Ad esempio, secondo il punto di vista della ragione il moto si oppone alla quiete ed è incompatibile con essa. Al contrario, invece, come nel primo [principio il moto infinito coincide con la quiete, così anche nella [seconda] unità, che ne è la similitudine più vicina, il moto e la quiete non si eliminano a vicenda, ma sono compatibili72. Al movimento dell’intelligenza, infatti, non si oppone la quiete, in modo tale che quando l’intelligenza si muove non possa essere al tempo stesso in quiete; questo movimento dell’intelligenza è in effetti più semplice di ciò che la ragione riesce a misurare. Lo stesso vale per quanto riguarda la quiete e tutte le altre caratteristiche. Cerca pertanto di concepire queste cose nella maniera più acuta che puoi; ricorda, infatti, che nella precedente esposizione della Dotta ignoranza ho spesso parlato di Dio secondo il modo proprio dell’intelletto, vale a dire mediante la copulazione dei contraddittori nell’unità semplice73. Nelle considerazioni che ho appena esposto, invece, ho spiegato il mio intendimento secondo il modo divino. La negazione degli opposti, sia che vengano pensati in modo disgiuntivo, sia che vengano pensati in modo copulativo, è senza proporzioni più semplice rispetto alla loro congiunzione. Il modo in cui dobbiamo parlare di Dio in maniera divina, conformemente cioè al concetto della prima unità assoluta, è diverso dal modo in cui ne possiamo parlare secondo il modo che è proprio di questa unità dell’intelletto, ed è diverso dal modo ancora più basso in cui ne possiamo parlare conformemente alla ragione74. Ora, questa unità dell’intelletto, che non ha alcuna proporzione con la prima unità, non sfugge completamente alla composizione degli opposti, ma in essa, tuttavia, gli opposti si trovano ancora in una concordanza per cui sono compatibili. Di conseguenza, dal momento che
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cum quaestiones omnes a ratione investigativa progredientes ab intelligentia omne id sint, quod sunt, non potest quaestio de intelligentia formari, in qua ipsa praesuppositive non resplendeat. Ratio enim de intelligentia investigans, quam nullo sensibili signo comprehendit, quomodo hanc incoharet inquisitionem sine incitativo lumine intelligentiae ipsam irradiantis? Habet se igitur intelligentia ad rationem quasi deus ipse ad intelligentiam. Si igitur coniecturaliter respondere ad motas de ipsa cupis quaestiones, ad praesuppositum adverte atque id ipsum responde. Dic igitur in quaestione ‘an sit intelligentia’ ipsam esse entitatem per rationem investigantem praesuppositam, a qua ratio ut a radice sua entitatem sumit. In quaestione ‘quid sit’ pariformiter dic eam praesuppositam intellectualem quiditatem esse, a qua rationis quiditas dependet. Ita de ceteris. Certa est igitur unitas radicalis, quamvis non sit ipsa certitudo, uti prima est, atque in omni ratione, ut in quadrato radix, exsis tit et praesupponitur. 25 Quod si ad intellectualem veritatem inquisitionem dirigere ins tituis, necesse est, ut intellectualibus fruaris terminis, qui nullum incompatibile habent oppositum, cum incompatibilitas de natura illius intellectualis unitatis esse nequeat. Unde usuales termini, qui rationis sunt entia, intelligentiam non attingunt. Intelligentia enim neque stat neque movetur neque quiescit neque in loco est, immo neque forma est neque substantia aut accidens eo modo, quo termini illi per rationem impositi significant. Sicut enim intellectus radix est rationis, ita quidem termini intellectuales radices sunt rationalium. Unde verbum intellectuale ratio est, in quo ut in imagine relucet. Radix igitur vocalium terminorum sermo est intellectualis. Constat tibi autem unitatem rationis simplicis complicare ratio-
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tutte le questioni che provengono dalla ragione che indaga traggono tutto ciò che esse sono dall’intelligenza, non è possibile formulare una questione relativa all’intelligenza nella quale l’intelligenza stessa non appaia già come presupposta75. La ragione, infatti, che compie la sua indagine sull’intelligenza e che non può coglierla attraverso nessun segno sensibile, come farebbe ad iniziare questa ricerca se non vi fosse incitata dalla luce dell’intelligenza che la illumina? L’intelligenza, pertanto, sta alla ragione quasi come Dio sta all’intelligenza. Se vuoi dunque rispondere in maniera congetturale alle questioni sollevate a proposito dell’intelligenza, presta attenzione a ciò che è presupposto in esse e rispondi riferendoti a tale presupposto. Alla domanda «se l’intelligenza sia», ad esempio, rispondi che essa è l’entità che la ragione che indaga presuppone e dalla quale la ragione stessa trae, come dalla propria radice, la sua entità. Alla domanda «che cosa l’intelligenza sia» rispondi, in modo analogo, che essa è l’essenza intellettiva che viene presupposta [dalla ragione] e dalla quale dipende l’essenza della ragione. Lo stesso vale per le altre questioni. L’unità della radice è quindi certa, sebbene non sia la certezza stessa come lo è la prima unità, ed essa esiste ed è presupposta in ogni ragione, così come la radice è presente ed è presupposta nel quadrato. Se poi hai intenzione di indirizzare la tua ricerca alla verità dell’intelletto, è necessario che tu faccio uso di termini che sono propri dell’intelletto, i quali non hanno nessun opposto che sia incompatibile con l’altro, dal momento che l’incompatibilità degli opposti non può appartenere alla natura dell’unità dell’intelletto76. Di conseguenza, i termini consueti, che sono enti di ragione, non giungono a cogliere l’intelligenza. Ad esempio, l’intelligenza non sta ferma né si muove, non è in quiete né in un luogo, ed anzi non è né forma, né sostanza o accidente, secondo il significato che è proprio di questi termini che sono assegnati dalla ragione. Come l’intelletto, infatti, è la radice della ragione, così i termini propri dell’intelletto sono le radici dei termini propri della ragione. Di conseguenza, la ragione è la parola dell’intelletto, nella quale l’intelletto risplende come in un’immagine. La radice dei termini che pronunciamo con la voce è pertanto il discorso dell’intelletto. Sai bene, tuttavia, che l’unità della ragione semplice complica i concet-
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nem motus et quietis, curvi et recti atque ceterorum oppositorum. Si igitur rationes oppositorum se in simplicitate absolutioris unitatis rationis compatiuntur et si ratio sermo est intelligentiae, manifestum tibi erit non in usualibus rationis terminis, sed in ipsamet rationis unitate complicationem oppositorum intellectualis unitatis relucere. Quapropter si quaeritur ‘an intelligentia sit quanta’, propinqua coniectura poterit responderi per rationem dicendo ipsam non aliter quantam quam ratio quanti ostendit. Non enim hic terminus ‘quantum’ intellectualis est, sed quanti ratio. Ita quidem ad quaestionem ‘an in loco sit’, dicendum eam in loco esse, ut loci ratio ostendit. Locus enim intelligentiae est ratio loci, quemadmodum quadratum radicis continentia exstitit. Ita equidem ipsa est substantia, hoc est quia de ipsa ratio substantiae effluit, et ita de reliquis. 26 Intelligentia igitur nihil horum est, quae dici aut nominari possunt, sed est principium rationis omnium, sicut deus intelligentiae. In istis meditari diligenti assiduitate, et dum profunda mente intraveris, difficilia apud plures tibi manifestabuntur cum dulcore intellectualis dulcedinis omnem sensibilem amoenitatem incomparabiliter excellentis. 27
capitulum vii
De tertia unitate Anima numerus intelligentiae, quam quadrate explicat, non incongrue concipitur, sicut ipsa intelligentia numerus est unitatis supersimplicis; unitas enim intelligentiae numeratur in anima, dum multipliciter contrahitur. Quoniam autem in ipsa anima unitas intelligentiae explicatur, in anima resplendet ipsa ut in propria ima-
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ti razionali del moto e della quiete, del curvo e del retto e degli altri opposti. Se, pertanto, i concetti razionali degli opposti sono tra loro compatibili nella semplicità che è propria dell’unità di una ragione più assoluta, e se la ragione è il discorso dell’intelligenza, allora ti risulterà evidente che la complicazione degli opposti operata dall’unità dell’intelletto non risplende nei termini consueti della ragione, bensì nell’unità stessa. Per questo motivo, nel caso in cui si chieda «se l’intelligenza abbia una quantità», si potrà rispondere formulando con la ragione una congettura abbastanza vicina al vero e dicendo che essa non ha altra quantità se non quella che viene indicata dal concetto razionale di quantità. Questo termine «quantità» non è infatti un termine proprio dell’intelletto, ma indica il concetto razionale di quantità. Allo stesso modo, alla domanda «se l’intelligenza sia in un luogo», si deve rispondere che essa è in un luogo nel senso indicato dal concetto razionale di luogo. Il luogo dell’intelligenza, infatti, è il concetto razionale di luogo, così con un numero al quadrato contiene la propria radice. In modo analogo, l’intelligenza è sostanza nel senso che da essa discende il concetto razionale di sostanza, e così via. L’intelligenza, pertanto, non è nessuna di quelle cose che si possono esprimere con le parole o designare con dei nomi, ma è il principio dei concetti razionali di tutte le cose, come Dio è il principio dell’intelligenza. Rifletti su queste cose con diligenza e assiduità e, quando vi sarai penetrato in profondità con la tua mente, ti si sveleranno cose che per i più sono difficili, insieme al gusto che è proprio della dolcezza intellettuale, la quale è incomparabilmente superiore ad ogni piacevolezza sensibile. CAPITOLO VII
La terza unità
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L’anima, che esplica l’intelligenza al quadrato78, viene concepita, in modo non improprio, come il numero dell’intelligenza, così come l’intelligenza è il numero dell’unità supersemplice; l’unità dell’intelligenza, infatti, viene numerata nell’anima, e così viene contratta in modi molteplici. Tuttavia, poiché nell’anima viene esplicata l’unità dell’intelligenza, quest’ultima risplende nell’anima
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gine. Deus lumen est intelligentiae, quia eius est unitas; ita quidem intelligentia animae lumen, quia eius unitas. Hoc attentius animadverte, quoniam sic et corporalis forma unitatis animae numerus exsistit, animae virtutem seu unitatem non in se, sed eius corporali explicatione sensibiliter intuemur. Sic et intelligentiam non in se, sed in anima, nec primam simplicissimam absolutissimamque unitatem in se uti est, sed in ipsa intuemur intelligentia ut in numero et signaculo. Deus igitur forma est intelligentiae, intelligentia animae, anima corporis. Omnia igitur corpora numerus cum sint animae merito unitatis, potentia eius tibi magna occurrit. Considera igitur rationem ipsam non ut cubici corporis radicem, sed medium, per quod intellectualis radix in corpus descendit; nam est instrumentum intellectus atque ita principium seu radix instrumentalis corporalium. Centenaria unitas animam figurat, millenaria corpus. Exsurgit autem mille ex ductu denarii in centenarium, hoc est ex multiplicatione intelligentiae per animam. 28 In omnibus igitur corporalibus cum anima ut radix reluceat instrumentalis, non erit tibi difficile ipsam in omnibus venari sensibilibus signis eius, quoniam in ipsis est forma ut sigilli in cera per intelligentiam impressa. Omne igitur, quod auditu percipitur, eius gestat characterem. Quaestiones igitur omnes, quae de ipsa moveri audis, ab ipsa signatas concipias; unde omnes animae rationem supponunt. Quaestio enim ‘an sit’ rationis est, ita et ceterae omnes. Non potest igitur dubitari ‘an sit’, cum sine ea dubia moveri non possint. Si quis quaesierit ‘an anima sit quanta’, dices eam non quantam corporaliter, sed quantam ut numerus est intelligentiae. Nam cum sit unitas sensibilium, omne diversum sensibiliter
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come nella propria immagine. Dio è il lume dell’intelligenza, perché è la sua unità; allo stesso modo, l’intelligenza il lume dell’anima, perché è la sua unità. Presta molta attenzione a questo: poiché anche la forma corporea è il numero dell’unità dell’anima79, noi con i sensi cogliamo la forza o l’unità dell’anima non in se stessa, ma nella sua esplicazione corporea. Allo stesso modo, anche l’intelligenza non la cogliamo in se stessa, ma nell’anima, e la prima unità del tutto semplice e assoluta la cogliamo non per com’essa è in se stessa, ma la cogliamo nell’intelligenza come in un numero e in un segno. Dio, pertanto, è la forma dell’intelligenza, l’intelligenza la forma dell’anima, l’anima la forma del corpo. Dal momento che tutti i corpi sono, a buon diritto, un numero dell’unità dell’anima, da ciò puoi scorgere quanto sia grande la sua potenza80. Considera, pertanto, la ragione [dell’anima] non come la radice del corpo che ne è il cubo81, bensì come il mezzo attraverso il quale la radice dell’intelletto discende nel corpo; la ragione [dell’anima], infatti, è lo strumento dell’intelletto, e in questo modo essa è la radice strumentale delle cose corporee. L’unità del cento raffigura l’anima, l’unità del mille il corpo. Il mille, tuttavia, nasce dalla moltiplicazione del dieci attraverso il cento, vale a dire dalla moltiplicazione dell’intelligenza mediante l’anima. Pertanto, dal momento che in tutte le cose corporee l’anima risplende come una radice strumentale82, non ti sarà difficile andarla a cercare in tutti i suoi segni sensibili, in quanto l’anima è una forma impressa sulle cose corporee dall’intelligenza, come la forma di un sigillo viene impressa sulla cera83. Tutto ciò che viene percepito con l’udito porta pertanto impresso il carattere dell’anima. Tutte le domande che odi rivolgere su di essa le devi pertanto concepire come segnate dal sigillo dell’anima stessa; tutte, pertanto, presuppongono la ragione dell’anima. Ad esempio, la domanda «se l’anima esista» è propria della ragione, e così tutte le altre. Non si può quindi dubitare «che essa esista», perché senza l’anima non è possibile sollevare alcun dubbio84. Se qualcuno ti chiederà se l’anima sia dotata di quantità, risponderai che l’anima non è dotata della quantità che è propria del corpo, bensì che è dotata di quantità nel senso che è il numero dell’intelligenza. Infatti, poiché l’anima è l’unità delle cose percepibili sensibilmente, tutto ciò che viene percepito
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in ipsa est unum. Sensibilis igitur seu corporalis quantitas seu qualitas, et ita de singulis sensibilibus, ita quidem se habent, quod eorum omnium unitas ratio animae exsistit, a cuius unitate progrediuntur. Diversa igitur, alia atque opposita sensibiliter, unam habent rationem, quae varie contracta varietatem sensibilium efficit. Iudicia igitur animae sunt ut numeri, quorum alter par est, alter impar, et numquam simul idem par et impar. Quapropter non iudicat anima in sua ratione opposita compatibilia, cum eius iudicium numerus sit eius. 29 Et si acutius consideraveris, omnis unitatis numerus ad suam se habet unitatem modo conformi. Nam unitatis omnis numerus denario perficitur, simplicissimae unitatis numerus simplici numero in denarium pergit. Quae igitur sunt in prima unitate ipsa unitas simplicissima, in eius explicatione numerali reperiuntur diversa atque differenter alia. Ita quidem intelligentiae, quae sunt numerus simplicissimae atque absolutae unitatis, intellectualiter quidem numeri naturam in ordine ad primum participant. Reperitur igitur intellectualis differentia, oppositio, alietas et si quid aliud numero convenit, sed haec unitas sunt in absoluta. Ita quidem quadratae diversitates, alietates, oppositiones in ratione sunt unitas intellectualis; atque cubicae oppositiones et alietates sensibiles ac corporales sunt unitas in ratione. Hac via progredere in inquisitionibus, si ad veriores volueris pertingere coniecturas. 30
CAPITULUM VIII
De ultima unitate Sensibilis corporalisve unitas est illa, quae millenario figuratur. Ipsa enim eapropter ultima exstitit, quoniam est unitatum explicatio, neque ipsa intra se complicans est, ut in numerum pergat, si-
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sensibilmente come diverso nell’anima è unità. La quantità sensibile o corporea, la qualità e tutte le altre caratteristiche sensibili esistono in modo tale che la loro unità è costituita dalla ragione dell’anima, dalla cui unità esse procedono. Pertanto, le cose che per i sensi sono diverse, altre e opposte fra di loro hanno un unico fondamento razionale, il quale, quando viene contratto in modi diversi, produce la varietà dei sensibili. I giudizi dell’anima, pertanto, sono come i numeri, dei quali uno è pari e l’altro dispari, ma che non sono mai pari e dispari contemporaneamente. Per questo motivo, dal momento che il giudizio dell’anima è il suo numero, nell’ambito della sua ragione l’anima non giudica compatibili fra loro gli opposti. Se considererai in modo più approfondito la questione, vedrai che il numero di ognuna delle quattro unità si comporta nello stesso modo in relazione alla sua unità. Il numero di ogni unità, infatti, giunge a compimento nel dieci85, e il numero dell’unità assolutamente semplice giunge al dieci attraverso un numero semplice. Pertanto, quelle cose che, nella prima unità, sono la stessa unità assolutamente semplice, nella sua esplicazione numerica si ritrovano come diverse e distinte le une dalle altre. Così, le intelligenze, che sono il numero dell’unità semplicissima e assoluta, partecipano della natura del numero secondo il modo proprio dell’intelletto e in base alla posizione che occupano rispetto alla prima unità. In questo ambito, pertanto, è reperibile una differenza intellettuale, un’opposizione intellettuale, un’alterità intellettuale e quant’altro conviene al numero, ma tutto questo nell’unità assoluta è unità. Allo stesso modo, le differenze, le alterità, le opposizioni dell’unità al quadrato che sono presenti nella ragione sono unità nell’intelletto; infine, le opposizioni, le alterità sensibili e corporee dell’unità al cubo sono unità nella ragione. Questa è la via lungo la quale devi procedere nelle tue ricerche, se vorrai giungere a congetture più vere. CAPITOLO VIII
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L’ultima unità L’unità sensibile o corporea è quella che viene raffigurata dal numero mille86. Per questo, è l’ultima unità, perché è l’esplicazione delle [tre] unità precedenti; essa non complica nulla in se stes-
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cut nec prima numerum sequitur, quae tota complicans est. Solida atque compositissima est haec sensibilis unitas, uti ipse millenarius. Et ut harum unitatum conceptum subintres, eas concipe differentes, quasi prima sit unitas simplicissimi puncti, secunda simplicis lineae, tertia simplicis superficiei, quarta simplicis corporis. Scies post haec clarius unitatem puncti simplicissimi omne id esse, quod in lineali, superficiali atque corporali exstat unitate; sed unitas lineae est id omne, quod in superficiali et corporali est, atque superficialis pariformiter est id omne, quod in corporali. Non sunt sensibiles et discretabiles tres priores unitates nisi per mentem ipsam, quae sola punctum seorsum, lineam et superficiem concipit; sensus vero corporeum tantum attingit. 31 Plane nunc ineptitudinem nostram valebis examinare, quando per sensibilia mensurare nitimur mentalia, quando cum corporali grossitie superficialem molimur effingere tenuitatem. Inepte quidem agimus, si lineae simplicitatem per corpus figurare nitimur, ineptissime autem, dum indivisibilem absolutissimum punctum corporea forma vestimus. Quapropter per has corporales, sensibiles formas qualescumque aut per has sensibiles litteratorias traditiones non nisi inepte adumbramus subtiles theologicas atque intelligentiales formas. 32 Sensus animae sentit sensibile, et non est sensibile unitate sensus non exsistente; sed haec sensatio est confusa atque grossa, ab omni semota discretione. Sensus enim sentit et non discernit. Omnis enim discretio a ratione est; nam ratio est unitas numeri sensibilis. Si igitur per sensum discernitur album a nigro, calidum a frigido, acutum ab obtuso, hoc sensibile ab illo, ex rationali hoc proprietate descendit. Quapropter sensus ut sic non negat, negare
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sa, per cui non conduce ad un numero ulteriore, così come anche la prima unità, complicando tutto in se stessa, non segue alcun numero. Questa unità sensibile ha la figura del solido ed è quanto mai composta, come lo è, per l’appunto, il numero mille. Per formarti un concetto più preciso di queste quattro unità, concepisci le loro differenze in questo modo: la prima unità è come l’unità del punto assolutamente semplice, la seconda come l’unità di una linea semplice, la terza è come l’unità di una superficie semplice, la quarta è come l’unità di un corpo semplice87. Saprai allora con più chiarezza che l’unità del punto assolutamente semplice è tutto ciò che esiste nell’unità della linea, della superficie e del corpo; l’unità della linea è invece tutto ciò che esiste nell’unità della superficie e del corpo, e, parimenti, l’unità della superficie è tutto ciò che esiste nell’unità del corpo. Le prime tre unità non sono percepibili e distinguibili che dalla mente, la quale è la sola in grado di concepire separatamente il punto, la linea e la superficie88; i sensi, invece, giungono a cogliere soltanto ciò che è corporeo. Sarai adesso in grado di valutare la nostra sconsideratezza, quando vedi che ci sforziamo di misurare le cose che possono essere colte soltanto dalla mente mediante quelle sensibili, oppure quando cerchiamo di raffigurarci la sottigliezza della superficie mediante la grossezza del corpo. Ci comportiamo in effetti in modo sconsiderato quando rivestiamo di una forma corporea il punto, che è indivisibile e del tutto assoluto. Per questo motivo, tuttavia, mediante queste forme corporee sensibili o attraverso quanto comunichiamo mediante queste lettere sensibili, non facciamo altro che rappresentare sconsideratamente in modo oscuro le forme sottili che attengono alla teologia e che sono proprie delle intelligenze. Il senso dell’anima percepisce il sensibile, e il sensibile non esiste se non esiste l’unità del senso; questa sensazione, però, è confusa e grossolana, lontana da ogni di distinzione. Il senso, infatti, percepisce ma non distingue. Ogni distinzione deriva dalla ragione89; la ragione, infatti, è l’unità del numero sensibile. Se, per mezzo dei sensi, pertanto, distinguiamo il bianco dal nero, il caldo dal freddo, l’acuto dall’ottuso, un sensibile da un altro, ciò dipende da una peculiarità che è propria della ragione. Per questo motivo, il senso come tale non nega neppure; negare, infatti, è un atto di discerni-
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enim discretionis est; tantum enim affirmat sensibile esse, sed non hoc aut illud. Ratio ergo sensu ut instrumento ad discernendum sensibilia utitur; sed ipsa est, quae in sensu sensibile discernit. 33 Adverte itaque, Iuliane pater, quomodo ab hac ipsa sensibilium regione omnis alienata est negatio atque non esse; a regione vero supremae unitatis omnis affirmatio procul est eliminata; in regionibus unitatum mediarum ambo permittuntur, complicative in ipsa secunda, explicative in tertia. In hac infima unitate verba tantum praesentis sunt temporis, in prima suprema nullius sunt temporis, in secunda vero complicative praesentis et non praesentis, in tertia autem explicative praesentis vel non praesentis. 34 Si igitur terminos unitatibus, de quibus tibi inquirendi propositum est, adaptaveris, veriores coniecturas efficies. Cum enim de deo quaereretur ‘an heri fuisset’, per hoc, quod verba a tempore sunt absoluta in divinis, facile quid respondendum concipies. Quando enim fuisse ambit esse et fieri et nullius est temporis, aeternitati convenit. Si autem de intelligentia haec quaestio formaretur, si fuisse praesens et non praesens complicat, aeterno ab aeternitate proxime cadente et progrediente convenire poterit. Ita de reliquis. Sic etiam si de unitate una quasi de alia loqueris, adaptare ad hoc dicendi modum, ut, cum de deo nos homines rationales loquimur, regulis rationis deum subicimus, ut alia de eo affirmemus, alia negemus et opposita contradictoria disiunctive applicemus. Et haec est paene omnium theologorum modernorum via, qui de deo rationabiliter loquuntur; multa enim hac via admittimus in schola rationis, quae scimus secundum regionem simplicis unitatis neganda.
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mento; il senso, invece, afferma soltanto che esiste qualcosa di sensibile, ma non che esso sia questo o quello. La ragione, pertanto, si serve del senso come di uno strumento per distinguere i sensibili; ma è la ragione che, nel senso, distingue il sensibile90. Osserva, padre Giuliano, come a questa regione dei sensibili91 siano estranei ogni negazione e ogni non-essere; dalla regione dell’unità suprema, al contrario, è eliminata del tutto ogni affermazione; nelle regioni delle [due] unità intermedie sono compatibili entrambe [sia le affermazioni che le negazioni], nel modo della complicazione, nella seconda, e nel modo dell’esplicazione, nella terza. In quest’ultima unità, che è la più bassa, i verbi sono soltanto al tempo presente, nella prima unità suprema sono senza tempo, nella seconda sono, in modo complicato, al tempo presente e non-presente, nella terza sono, in modo esplicato, al tempo presente o non-presente. Se adatterai pertanto i tuoi termini alle unità che ti proponi di indagare, formulerai delle congetture più vere. Se, ad esempio, a proposito di Dio ti venisse chiesto «se ieri egli sia esistito», sapresti facilmente che cosa rispondere, in quanto nell’ambito del divino le parole sono sciolte da ogni determinazione temporale. Infatti, dal momento che [nell’ambito del divino] l’essere-stato abbraccia sia all’essere che il divenire92 e non ha alcuna determinazione temporale, esso conviene all’eternità93. Se, invece, la stessa domanda fosse formulata riguardo all’intelligenza, allora, se l’essere-stato complica il presente e il non presente, esso potrebbe convenire a quell’eterno che procede dall’eternità e che si scosta di poco da essa94. Lo stesso vale per le altre questioni. Analogamente, se parli di un’unità nel modo in cui parli di un’altra, devi adattare il tuo modo di esprimerti a questa situazione. Ad esempio, quando noi uomini, che siamo degli esseri razionali, parliamo di Dio, lo sottoponiamo alle regole della ragione, per cui affermiamo di lui alcune cose, altre ne neghiamo e gli attribuiamo in maniera disgiuntiva quelle determinazioni che sono opposte e contraddittorie. Questa è la via seguita da quasi tutti i teologi moderni, i quali parlano di Dio in termini razionali95. Seguendo questa via, ammettiamo nella scuola della ragione molte cose che sappiamo debbono essere negate nella regione dell’unità semplice96.
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enim omnia in multitudinem magnitudinemque resolvit; multitudinis autem principium est unitas, magnitudinis trinitas, ut in figuris polygoniis trigonus. Via igitur rationis principium omnium est unum et trinum, non ut unitas et trinitas sunt plura, cum pluralitatis principium sit unitas, sed ut sunt unitas, quae trinitas. Intelligentia autem, vocabulorum rationalium ineptitudinem advertens, hos abicit terminos, deum supra eorum significata quasi ipsorum complicans concipit principium et, quia in ipso divinitatis radio videt suum conceptum deficere, affirmat ipsam super omnem complicationem et explicationem intelligi debere ipsumque uti est concipi non posse. Ita pariformiter de intelligentia agimus, dum de ipsa ratiocinando disputamus. Hac via dum sensibile ad rationem elevamus aut intelligentiam sive primam absolutissimam unitatem, de eo secundum illius regionis regulas loqui necesse est. Dum enim unitatem lapidis ab omni sensibili, rationali aut intellectuali pluralitate absolverimus et in simplicitatem infinitam redigerimus, non est amplius aliquid de eo affirmabile; neque enim tunc potius est lapis quam non lapis, sed est omnia. Ita de reliquis. Et hoc absque scrupulositate intelliges, si advertis absolutam unitatem lapidis non esse plus lapidis quam non lapidis, quodque omnium una est absoluta unitas quae est deus. Unde sicut absoluta unitas lapidis istius sensibilis et nominabilis est deus, sic eius intellectualis unitas est intelligentia. Quare patet quibus regulis tunc de eo coniecturandum exsistat. 36 Ego te etiam unum notare rogo, quomodo ipsa sensibilis unitas, cui non patet progrediendi ulterior via, in sursum regreditur; nam descendente ratione in sensum sensus redit in rationem. Et in hoc regressionis progressiones advertito; redit enim sensus in ra-
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La ragione, infatti, riconduce tutte le cose alla molteplicità e alla grandezza; il principio della molteplicità, tuttavia, è l’unità, e il principio della grandezza è la trinità, come il triangolo è il principio di tutti i poligoni97. Secondo la via della ragione, pertanto, il principio di tutte le cose è uno e trino, non nel senso che unità e trinità siano due cose, dal momento che il principio della pluralità è l’unità, ma nel senso che esse sono un’unità che è trinità98. L’intelligenza, tuttavia, avvertendo l’inadeguatezza delle parole proprie della ragione, abbandona questi termini e concepisce Dio al di sopra delle cose che questi termini designano, come il principio che le complica; inoltre, poiché nella luce irradiata della divinità l’intelligenza vede che i suoi concetti sono inadeguati, essa afferma che la divinità deve essere intesa al di sopra di ogni complicazione e di ogni esplicazione e che essa non può essere concepita così com’è in se stessa. Allo stesso modo agiamo a proposito dell’intelligenza, quando ne disquisiamo per mezzo della ragione. Ma quando, procedendo in questa maniera, eleviamo il sensibile al livello della ragione, dell’intelligenza o della prima unità del tutto assoluta, dobbiamo necessariamente parlarne secondo le regole che sono proprie di quella regione99. Ad esempio, quando separiamo l’unità di una pietra da ogni pluralità sensibile, razionale o intellettuale e la riconduciamo alla semplicità infinita, allora di essa non possiamo più dire nulla, giacché in quel momento essa non è più pietra che non-pietra, ma è tutte le cose100. Lo stesso vale per tutti gli altri casi. Lo comprenderai senza alcuna incertezza, se presti attenzione al fatto che l’unità assoluta della pietra non è l’unità della pietra più di quanto lo sia della non-pietra, perché è l’unità unica e assoluta di tutte le cose, ovvero è Dio101. Di conseguenza, come l’unità assoluta di questa pietra, che possiamo percepire sensibilmente e che possiamo designare con un nome, è Dio, così la sua unità intellettuale è l’intelligenza. È evidente, pertanto, in base a quali regole dobbiamo formulare le nostre congetture sulla pietra. Ti prego di considerare ancora una cosa, vale a dire come questa unità sensibile, che non ha aperta davanti a sé alcuna strada che le consenta di progredire ulteriormente, regredisca verso l’alto; quando, infatti, la ragione discende nel senso, il senso ritorna alla ragione102. E presta attenzione al fatto che, in questo processo di regres-
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tionem, ratio in intelligentiam, intelligentia in deum, ubi est initium et consummatio in perfecta circulatione. Numerus igitur sensibilis redit in suum unitatis initium, ut per ipsum in intelligentiam et per intelligentiam in deum finem finium pertingere queat. Finis sensibilium anima seu ratio. Deviat igitur sensibilis vita a via reditionis et finis, dum se ab unitate rationis alienat, ita ratio deviat ab unitate intelligentiae longius abiens, sic ipsa intelligentia, si ab unitate absoluta, quae veritas est, aliorsum declinaverit. Haec sic dicta sint ad praesens. 37
CAPITULUM IX
De unitate et alteritate Quantum ruditas dedit ingenioli, fundamenta quaedam coniec turarum mearum explicavi ex numerorum ordine. Nunc unum semper menti incorporandum, eadem radice contentum, adiciam. Omnem constat numerum ex unitate et alteritate constitui unitate in alteritatem progrediente atque alteritate in unitatem regrediente, ut ex mutuo in invicem progressu finitetur atque actu, uti est, subsistat. Neque potest esse quod unitas unius numeri cum unitate alterius omnem teneat aequalitatem, cum praecisio aequalitatis impossibilis sit in omni finito. Variabitur igitur in omni numero unitas atque alteritas; plus enim impar numerus de unitate quam par habere videtur propter indivisibilitatem unius in paria et possibilitatem alterius. Quapropter, cum quisque numerus sit unus ex unitate et alteritate, erunt numeri, in quibus vincit unitas alteritatem et in quibus alteritas unitatem absorbere videtur. 38 Radicales autem numeros simpliciores nemo dubitat quadratis atque solidis. Radicales enim simplices, ex nulla praeambulari ra-
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so, vi sono dei gradi progressivi: in un movimento circolare perfetto, il senso ritorna alla ragione, la ragione all’intelligenza, l’intelligenza a Dio, nel quale si trovano l’inizio e il compimento finale. Il numero sensibile, pertanto, ritorna all’inizio della sua unità, in modo tale da poter giungere, mediante questo inizio [razionale], all’intelligenza e, attraverso l’intelligenza, a Dio, che è il fine dei fini. Il fine degli enti sensibili è l’anima o ragione. Pertanto, quando la vita sensibile si estranea dall’unità della ragione, essa devia dalla strada del ritorno e del proprio fine; allo stesso modo, la ragione devia [dalla strada del ritorno] quando si allontana di molto dall’unità dell’intelligenza, e la stessa cosa fa l’intelligenza, se si volge altrove rispetto all’unità assoluta, che è la verità. Per il momento può essere sufficiente quanto abbiamo detto. CAPITOLO IX
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Unità e alterità Per quanto me lo ha permesso il mio piccolo ingegno, ho spiegato alcuni fondamenti delle mie congetture, partendo dall’ordinamento dei numeri. Ora aggiungerò un punto che va tenuto sempre a mente, un punto contenuto della stessa radice delle congetture103. Com’è noto, ogni numero è costituito dall’unità e dall’alterità104, da un’unità che progredisce nell’alterità e da un’alterità che regredisce nell’unità. In tal modo, in virtù di questo duplice e reciproco movimento, il numero risulta definito ed è in atto ciò che esso è. Ma l’unità di un numero non può essere del tutto eguale all’unità di un altro, in quanto la precisione dell’eguaglianza è impossibile nell’ambito del finito105. L’unità e l’alterità, pertanto, saranno presenti in modi diversi in ogni numero; un numero dispari, ad esempio, sembra avere più unità di un numero pari, perché il primo non può essere diviso in due numeri pari, mentre ciò è possibile per l’altro106. Per questo motivo, dal momento che l’unità di ciascun numero è costituita dall’unità e dall’alterità, vi saranno numeri nei quali l’unità prevale sull’alterità e altri nei quali l’alterità sembra assorbire l’unità. Nessuno dubita che i numeri che sono radici siano più semplici di quelli al quadrato o al cubo. È evidente, infatti, che i numeri radicali semplici107, i quali non procedono da nessun’altra radice pre-
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dice alia quam simplici unitate progredientes, multum unitatis parumque alteritatis habere constat. In illis enim alteritas nulla apparet aliorum omnium respectu, quorum radices exsistunt. Quod si quae alteritas in ipsis ob egressionem eorum a prima simplicissima unitate exsistit, ista in respectu infinitae simplicitatis primi tantum esse recte concipitur. In ipsis vero quadratis plus alteritatis esse necesse est, cum ex multiplicatione radicis exsurgant, multiplicatio autem ab unitatis simplicitate est excessio. Sed adhuc illos multum unitatis tenere vides propter complicationem cubici numeri ex ipsis prodeuntis. Cubus vero parum simplicis unitatis atque multum alietatis, divisibilitatis et multiplicitatis habet. 39 Hac exemplari traditione ipsum universum et cunctos mundos et quae in ipsis sunt ex unitate et alteritate in invicem progredientibus constitui coniectura, varie quidem atque diverse. Nam unitatem atque alteritatem supremi caeli simpliciores atque intellectuales et radicales esse audisti, medii vero mediocriter, infimi sensibiliter atque solide. Intellectuales enim numeri simplices sunt et sunt simplices essentiae numerorum rationalium atque sensibilium. Ex his rationales exoriuntur, qui proportionales exsistunt, sola enim ratio proportionum naturam attingit, deinde sensibilis solidior numerus. 40 Unitas autem numeri intellectualis, uti est trinitas, indivisibilis atque immultiplicabilis est. Non enim potest esse plus quam una trinitas. Rationes autem tripli plurificari et sensibili contractione multiplicari posse manifestissime constat. Trinitatem autem multo amplius complicativam quam tripli proportionem manifestum est. Complicat enim omne trinum ac triniter intelligibile aut numerabile, sine quo tripla proportio esse nequit. Cum igitur ad essentiam eius non concurrat tripla proportio, sed potius e converso am-
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cedente che non sia l’unità semplice, hanno molto dell’unità e poco dell’alterità108. Rispetto a tutti gli altri numeri, dei quali sono radici, infatti, in essi non sembra esservi alcuna alterità. Questo perché, anche se in essi vi è una qualche alterità a causa del fatto che si allontanano dalla prima unità assolutamente semplice da cui provengono, si pensa tuttavia giustamente che tale alterità vi sia solo in relazione all’infinita semplicità del primo principio. Nei numeri al quadrato, invece, l’alterità è necessariamente maggiore, perché nascono dalla moltiplicazione della loro radice, e la moltiplicazione comporta un allontanamento dalla semplicità dell’unità. Ciononostante, vedi che anche i numeri al quadrato conservano ancora molto dell’unità, in virtù del fatto che essi complicano il numero al cubo che proviene da loro. Il numero al cubo, invece, ha poco dell’unità semplice e molto di alterità, di divisibilità e di molteplicità. Servendoti di quest’esempio, puoi congetturare che lo stesso universo, tutti i mondi e tutti gli esseri che sono in essi109, siano costituiti di unità e di alterità, che si intrecciano l’un l’altra in modi vari e differenti. Hai sentito, infatti, che l’unità e l’alterità del cielo supremo110 sono più semplici e sono di natura intellettuale e sono come i numeri radice; quelle del cielo intermedio hanno natura intermedia, e quelle del cielo infimo sono di natura sensibile e solida. I numeri intellettuali, infatti, sono semplici e costituiscono le essenze semplici dei numeri razionali e dei numeri sensibili111. Da essi nascono i numeri razionali, che costituiscono le proporzioni, dal momento che soltanto la ragione giunge a cogliere la natura delle proporzioni; vi è, infine, il numero sensibile, che ha un carattere più solido. Ora, l’unità del numero intellettuale, in quanto è anche una trinità, è indivisibile e non moltiplicabile. Non vi può essere infatti più di una trinità112. È assolutamente evidente, invece, che i rapporti nei quali una cosa è il triplo di un’altra possono darsi una pluralità di volte113 e possono essere moltiplicati nella contrazione sensibile. È chiaro che la trinità intellettuale complica molto di più di quanto non faccia la proporzione nella quale una cosa è il triplo di un’altra114. Complica, infatti, tutto ciò che è trino e tutto ciò che è intelligibile e numerabile attraverso il tre, senza il quale non può esistere la proporzione nella quale una cosa è il triplo di un’altra. Pertanto, dal momento che la proporzione di rapporto tre non
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biat etiam omne trinum, sive triplum fuerit sive non, eius complicatio maxima est. Triplum etiam complicat numeros multos triplos et omne qualitercumque triplicabile, sed tres nihil complicat. Cum enim a, b, c numero et tres dico, numerum explico. In hac quidem aut alia tibi acceptiori similitudine aptiores terminos atque figuras fingito pro intrando hos diversorum mundorum diversos numeros, quos tamen in superiori mundo, cum scias intellectuales, sensibiliter ineffabiles cognoscis. 41 Cum ergo nunc ad hoc perveneris, ut omnia ex unitate et alteritate coniecturando videas, unitatem lucem quandam formalem atque primae unitatis similitudinem, alteritatem vero umbram atque recessum a primo simplicissimo atque grossitiem materialem concipito. Facque pyramidem lucis in tenebras et tenebrae pyramidem in lucem progredi, et omne inquisibile in figuram redigito, ut sensibili manuductione ad arcana coniecturam convertere possis. Et ut in exemplo allevieris, universum in eam figuram hic subtus conspice redactum.
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quoniam deus, qui est unitas, est quasi basis lucis; basis vero tenebrae est ut nihil. Inter deum autem et nihil coniecturamur omnem cadere creaturam. Unde supremus mundus in luce abun-
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concorre a formare l’essenza della trinità ma, al contrario è la trinità [intellettuale] che abbraccia ogni cosa che sia trina, si tratti o no del triplo, la sua capacità complicativa è massima. Il triplo complica molti numeri tripli e tutto ciò che può essere in qualche modo triplicato, ma il tre non complica nulla. Ad esempio, quando conto le tre lettere a, b, c, e dico che sono tre, esplico il numero [tre]. Con quest’esempio, o con qualsiasi altro ti sembri più adatto, immagina i termini e le figure idonee per accedere ai diversi numeri che sono propri dei diversi mondi, ben sapendo, tuttavia, che i numeri che sono propri del mondo superiore, data la loro natura intellettuale, non possono essere espressi in termini sensibili. Poiché sei ora giunto vedere, in forma congetturale, che tutte le cose sono costituite di unità e di alterità, concepisci l’unità come una certa luce formale e come la similitudine della prima unità, e concepisci invece l’alterità come un’ombra e come un allontanamento dal principio primo assolutamente semplice e come uno spessore materiale. Fai avanzare progressivamente la piramide della luce nelle tenebre e la piramide delle tenebre nella luce, e riconduci a questa figura tutto ciò che può essere oggetto di ricerca115, in modo tale che, grazie alla guida116 di questo procedimento sensibile, tu possa rivolgere le tue congetture verso quelle verità che sono nascoste. E per facilitarti con un esempio, osserva come l’universo venga rappresentato nella figura qui sotto riportata117.
Considera che Dio, che è l’unità, è come se fosse la base della luce; la base delle tenebre, invece, è come se fosse il nulla118. Fra Dio e il nulla congetturiamo che vi siano tutte le creature119. Di conseguenza, il mondo supremo è pieno di luce, come vedi ad
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dat, uti oculariter conspicis; non est tamen expers tenebrae, quamvis illa ob sui simplicitatem in luce censeatur absorberi. In infimo vero mundo tenebra regnat, quamvis non sit in ea nihil luminis; illud tamen in tenebra latitare potius quam eminere figura declarat. In medio vero mundo habitudo etiam exstitit media. Quod si ordinum atque chororum interstitia quaeris, per subdivisiones hoc age. 43 Admonitum te semper esse volo eorum saepe dictorum, ne hoc figurali signo ad phantasmata falsa ducaris, quoniam nec lux nec tenebra, ut in mundo vides sensibili, in aliis debes coniecturare. Hoc retento utere figura hac in omnibus inquirendis, quam P, quia paradigmatica est, in sequentibus nominabo. 44
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Explicatio Omnis vis mentis nostrae circa ipsius debet unitatis conceptum subtiliando versari, quoniam omnis cognoscibilium multitudo ab eius dependet notitia, quae est in omni scientia omne id quod scitur. Omnem autem multitudinem nominum eius numeros quos dam unitatis nominis eius attende. Nam ratio unitatis est indivisibilitas in se atque ab alio quolibet segregatio. Unde unitatem dicimus multis attributionibus virtutis eius appellari. Nam omne id, quod quandam dicit indivisibilitatem, discretionem atque conexionem, unitati convenit. Omnia autem talia per unitatem, opposita per alteritatem figura complicat. Indivisibilitatem igitur in divisibilitatem progredi non est aliud quam unitatem in alteritatem descendere; ita de incorruptibilitate in corruptibilitatem, immortalitate in mortalitatem, immutabilitate in mutabilitatem, immobilitate in mobilitatem, et ita de ceteris similibus. Et ita pari ratione de
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occhio; esso, tuttavia, non è privo di tenebra, sebbene la tenebra, data la semplicità di questo mondo, appaia assorbita nella luce. Nel mondo più basso, invece, regna la tenebra, sebbene anche in essa non vi sia una totale assenza di luce; la figura mostra, però, che nella tenebra questa luce, più che manifestarsi, resta nascosta. Nel mondo intermedio, fra luce e tenebra vi è una relazione di natura intermedia. Se cerchi altri ordini o cori che siano intermedi, fallo compiendo delle suddivisioni120. Desidero che tu tenga sempre a mente quanto abbiamo detto spesso, in modo che tu non sia indotto da questa figura a rappresentazioni false: non devi cioè congetturare che negli altri mondi vi siano luce e tenebra come quelle che vedi in questo mondo sensibile. Tenuta presente questa cosa, impiega pure in ogni tua ricerca questa figura, che d’ora in poi chiamerò P, perché è una figura paradigmatica. CAPITOLO X
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Spiegazione La nostra mente deve rivolgersi con tutte le sue forze al concetto dell’unità, per penetrare in esso in modo sempre più profondo121; la molteplicità di tutte le cose conoscibili, infatti, dipende dalla conoscenza dell’unità, la quale, in ogni conoscenza, costituisce tutto ciò che viene conosciuto. Considera, inoltre, che la molteplicità di tutti i nomi che le vengono attribuiti sono come numeri dell’unità del suo nome. L’essenza dell’unità, infatti, è il suo essere indivisa in se stessa e il suo essere separata da ogni altra cosa122. Per questo motivo, diciamo che l’unità viene chiamata con nomi che designano i molti attributi della sua forza. Tutto ciò, infatti, che significa una qualche indivisibilità, distinzione e connessione conviene all’unità123. Ora, la figura [precedente] complica tutte queste proprietà mediante l’unità e le proprietà opposte mediante l’alterità124. Che l’alterità, pertanto, proceda verso la divisibilità non significa altro che l’unità discende nell’alterità; la stessa cosa vale per la discesa dall’incorruttibilità alla corruttibilità, dall’immortalità alla mortalità, dall’immutabilità alla mutevolezza, e così via in modo simile. E per lo stesso motivo si deve pensare la stessa cosa anche riguardo
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forma in formabile, quoniam forma est discretiva, quare unitas, discretio in indiscretum seu continuum, speciale in confusum, lux in tenebras, simplex in grossum, spiritus in corpus, et similia horum concipito. Sic actus in potentiam, totum in partem, universale in particulare, species in individuum, amor in amabile, ars in artificiale, et ita quidem consequenter de omnibus conectentibus aut complicantibus ad complicata. Nec est possibile opposita reperiri, quorum unum non sit ut unitas alterius respectu. 45 Si igitur ad P figuram oculum direxeris, videbis per descensum unitatis in alteritatem et regressum alteritatis in unitatem, quomodo in supremo caelo omnia, quae alteritatis exsistunt, in ipsam unitatem pergunt; divisibilitas enim in indivisibilitatem, tenebra in lucem, grossum in subtile, compositum in simplex, mortale in immortalitatem, mutabile in immutabile, feminitas in masculinitatem, potentia in actum, imperfectum aut pars in totum, et ita deinceps. Contrarium in infimo mundo, ubi indivisibilitas in divisibilitatem degenerat; unitas enim formae indivisibilis sequitur naturam divisibilem, ut quaelibet pars aquae sit aqua, terrae terra. Stabilitas ibi est in instabilitate, immortalitas in mortalitate, actualitas in potentialitate, masculinitas in feminitate, atque ita de singulis. In medio vero mundo media est habitudo. 46 Quod si haec diligenti contriveris ingenio, maxima atque multis occultissima clarissima luce intueberis usque ad ipsa etiam naturae abditissima. Duceberis etiam in variationes terminorum unius atque alterius mundi, quomodo stabilitas in inferiori est in instabilitate et generaliter unitas in alteritate, quoniam haec est eius unitas, quae in alteritatem transivit, non esse unitatem sed alteritatem;
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alla forma che discende in ciò che può essere formato, in quanto la forma è ciò che distingue e per questo è unità; riguardo alla distinzione che discende in ciò che è indistinto o continuo, riguardo al determinato che discende in ciò che è confuso, riguardo alla luce che discende nelle tenebre, riguardo al semplice che discende in ciò che è composto125, riguardo allo spirito che discende nel corpo, e così via. Lo stesso vale per l’atto che discende nella potenza, per il tutto che discende nella parte, per l’universale che discende nel particolare, per la specie che discende nell’individuo, per l’amore che discende in ciò che è amabile, per l’arte che discende nell’artefatto, e lo stesso si dica per tutto ciò che connette o complica rispetto alle cose complicate. Non è possibile trovare cose opposte, delle quali l’una non sia come l’unità rispetto all’altra126. Se guardi alla figura P, pertanto, vedrai come, in virtù della discesa dell’unità nell’alterità e del ritorno della alterità nell’unità127, nel cielo supremo tutto ciò che è caratterizzato dall’alterità si volga all’unità; la divisibilità, infatti, si volge all’indivisibilità, la tenebra alla luce, il grosso al sottile, il composto al semplice, il mortale all’immortale, il mutevole all’immutabile, la femminilità alla mascolinità, la potenza all’atto, l’imperfetto o la parte al tutto, e così via. Il contrario si verifica nel mondo più basso, nel quale l’indivisibilità degenera nella divisibilità; l’unità della forma indivisibile, infatti, segue la natura divisibile, in modo tale che qualsiasi parte dell’acqua sia acqua e qualsiasi parte della terra sia terra128. Lì la stabilità è nell’instabilità, l’immortalità nella mortalità, l’attualità nella potenzialità, la mascolinità nella femminilità, e così per ogni cosa. Nel mondo intermedio, invece, [fra questi opposti] vi è un rapporto intermedio. Se rifletterai a fondo su tutto questo con la diligenza del tuo ingegno, vedrai in una luce chiarissima cose estremamente importanti che ai più restano completamente nascoste, giungendo fino ai massimi segreti della natura. E guardando al variare delle espressioni relative all’uno e all’altro mondo, verrai condotto anche a capire come, nel mondo inferiore, la stabilità risieda nell’instabilità e, parlando in maniera più generale, l’unità risieda nell’alterità, perché questa è l’unità propria del mondo inferiore, che è passata nell’alterità, ossia non essere unità, ma alterità; il contrario si veri-
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contrarium in supremo mundo, ubi haec est alteritas non esse alteritatem sed unitatem. Ostendit autem ibi P figura omnia in mundo dabilia in hoc differenter se habere; aliter quidem in uno absorpta est unitas in alteritate aut e converso, aliter in alio secundum plus atque minus. Propter quod ad maximum aut minimum simpliciter non devenietur. 47 Unde quanto unitas formalis minus in alteritatem transiit, tanto nobilior, quia unior. Forma animalis unior est quam vegetabilis; quare forma unius animalis non sequitur sectionem animalis, sicut aliquas sectiones vegetabilis concomitatur et plus mineralis et maxime elementorum. Vides etiam cur in divisione lapidis necessario ad non lapidem deveniri possit, et hoc tanto citius, quanto lapis perfectior – ita de omnibus – quodque necessarium sit, si in infinitum progressio fieri non debet, ut ad ea deveniatur, quae elementa dicuntur, de quibus subiungemus. 48 Oportet autem, ut cuiuslibet particularis inquirendi per P figuram unitatem in sua perfectione concipias et secundum eam lucis intensitatem atque tenebrae grossitiem parvam aut magnam imagineris, ut cuiusque aliorum omnium respectu, prout in universo cadit, singulariorem notitiam habere queas. Unitatum autem graduationes ex his coniectura quae audisti, ut illam maiorem affirmes, quae indivisibilior et plura unit. 49 Maior quidem est unitas totius omnes partes unientis quam partis unibilis. Quanto enim unitas minus in actu et plus in potentia, tanto alterabilior. Unitas enim uniens unitati unibili perfectior
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fica nel mondo supremo, nel quale l’alterità consiste nel non essere alterità, ma unità. La figura P ti mostra, tuttavia, come tutto ciò che può darsi in un mondo si comporti in modo diverso a seconda del mondo al quale appartiene129; in un mondo, infatti, l’unità è assorbita nell’alterità, o viceversa, mentre in un altro mondo ciò avviene in modo diverso, ove più ove meno. Questo è il motivo per il quale non si arriverà mai al massimo o al minimo in quanto tali. Di conseguenza, quanto meno l’unità di una forma passa nell’alterità, tanto più essa è nobile, perché è tanto più una. La forma che è propria dell’animale è più unitaria della forma che è propria del vegetale; per questo motivo, la forma di un animale non viene divisa se viene tagliato l’animale, mentre la forma del vegetale segue alcune parti in cui la pianta è stata sezionata130; e ciò si verifica ancora di più per la forma dei minerali e, in modo massimo, per la forma degli elementi. Vedi anche per quale motivo è necessario che, nella divisione di una pietra, si possa giungere a qualcosa che non è più pietra, il che avviene tanto più rapidamente quanto più la pietra è perfetta. Lo stesso vale per tutte le altre cose. E vedi anche che è necessario, se non si vuole ammettere un processo all’infinito, che si giunga a quelli che vengono chiamati elementi, dei quali parleremo più avanti131. Per quanto riguarda, tuttavia, l’unità di ogni ente particolare, che devi indagare mediante la figura P, è necessario che tu la concepisca secondo la perfezione che è propria di ciascun ente, ed è necessario che immagini che l’intensità della luce o lo spessore della tenebra che ogni ente possiede sia grande o piccolo a seconda di tale unità; in questo modo, puoi conseguire una conoscenza più precisa della singolarità di ogni ente, in relazione a ciascuno di tutti gli altri enti e secondo il posto che esso occupa nell’universo. Per quanto riguarda invece la graduazione delle unità, formula una congettura sulla base di quanto hai ascoltato132, in modo da poter affermare che è maggiore quell’unità che è più indivisibile e che unisce un maggior numero di elementi. Senza dubbio, l’unità di un tutto che unisce tutte le sue parti è maggiore di quella di una delle parti unibili133. Quanto meno, infatti, un’unità è in atto e quanto più è in potenza, tanto più essa è alterabile. L’unità che unisce è in effetti più perfetta dell’unità che
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est, et quanto in unitate alicuius plures unitatis condiciones concurrere vides, tanto perfectior. Unitas enim dicit rationem principii atque finis intra se unientis. Unitas igitur animae unitati corporis perfectior, quia unitatis corporis finis est animae unitas, a qua corporalis ut a quodam suo principio dependet; ablata enim anima perit et dissolvitur eius unitas. Videmus autem aliquas unitates plus esse in potentia unibilitatis, alias plus in actu, ut non perveniatur propterea in recipientibus magis et minus ad maximum aut minimum simpliciter. Neque ad determinatas ostensibiles unitates elementales infimas et minimas actu pertingimus, quamvis eas esse et ad invicem unibiles non nisi in continua unibilitate subsistentes ratio esse credat, in quibus unitas est in alteratione continua. Sic etiam ad actu maximas rationabiliter devenitur, ubi unibilitatis potentia est in actu perfecto nullam aliam unionem exspectando. 50 Adverte igitur quoniam solo intellectu supra rationem concipere te oportet, ut asseras progressione[m] in infinitum simul et ad maximum minimumve actu deveniri non posse. Non enim sciri potest, quae terra sit elementalis tantum, cum nulla non elementum ab alia omni terra non distincta sit dabilis. Ita quidem de aqua; nulla enim est aqua, quae specialiter ab alia in elementationis gradu non differat. Non est igitur minimum actu scibile neque maximum. Vide in quantitate. Nam si quocumque dato numero dabilis est maior, simul scitur nullum numerum infinitum atque nullum datum maximum. Sic etiam si omne quantum est in semper divisibilia divisibile, scitur neque ad infinitas posse partes deveniri neque ad minimam. Unde etsi sensus aliquam minimam putat, ratio
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può essere unita, e quante più sono le condizioni che vedi concorrere nell’unità di un ente, tanto più essa è perfetta. «Unità», infatti, designa l’idea di un principio e di un fine uniti fra loro134. L’unità dell’anima, pertanto, è più perfetta dell’unità del corpo, perché il fine dell’unità del corpo è l’unità dell’anima135, dalla quale l’unità del corpo dipende come dal suo principio; tolta l’anima, infatti, l’unità del corpo perisce e si dissolve136. Vediamo, tuttavia, che alcune unità sono più in potenza ad essere unite, mentre altre sono più in atto; per questo motivo, nelle cose che ammettono un più e un meno non si giunge mai al massimo o al minimo in quanto tali137. Anche a proposito degli elementi, non giungiamo a determinare e a mostrare delle unità che siano minime ed ultime in atto138, benché la ragione creda che esse esistano, che possano unirsi fra di loro e che sussistano soltanto in una continua possibilità di unione, in quanto in esse l’unità è nella alterazione continua. Allo stesso modo, per mezzo della ragione si giunge anche a delle unità che sono massime in atto, nelle quali la possibilità dell’unificazione è perfettamente in atto e non attende alcun’altra unione. Presta dunque attenzione al fatto che, per poter affermare che non è possibile procedere all’infinito e, nello stesso tempo, che non è possibile giungere al massimo e al minimo in atto, tu devi pensare con il solo intelletto, al di sopra della ragione139. Non possiamo, ad esempio, sapere quale terra sia soltanto allo stato di elemento, perché qualsiasi tipo di terra noi possiamo incontrare è distinta da ogni altra terra e non è un elemento. Lo stesso vale per l’acqua; non vi è infatti nessun tipo di acqua che non differisca per specie da altre acque, per quanto riguarda il grado di composizione del suo elemento140. Non possiamo pertanto conoscere nulla che sia il minimo in atto e il massimo in atto. Lo puoi osservare anche nell’ambito della quantità. Per esempio, se è vero che rispetto a qualsiasi numero dato se ne può dare uno maggiore, si sa pure che nessun numero è infinito141 e che nessun numero dato è il massimo. In modo simile, se è vero che ogni quantità è divisibile in parti che sono a loro volta sempre ulteriormente divisibili142, si sa anche che non si può giungere né ad un numero infinito di parti, né ad una parte che sia minima143. Di conseguenza, anche se il senso ritiene che una qualche parte sia la parte minima, ciononostante la ragio-
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tamen illam divisibilem et non minimam dicit; ita et intellectus attingit hoc divisibile esse, quod ratio minimum putat. Igitur omne dabile maius est minimo et minus maximo, absque eo quod hic processus currat in infinitum. 51 Haec sola illa negativa scientia, praecisionem scilicet inattingibilem, tibi subinfert. Nam quamvis rationi appareat necessario ibi ad maximum deveniri, ubi infinitus gradualis prohibetur ascensus, tamen intelligentia ipsa videt verius esse per abnegationem praecisionis nullum dabile esse praecise maximum de genere quidem maius recipientium. 52 Tanta est igitur vis simplicis intellectualis naturae, ut ambiat ea, quae ratio ut opposita disiungit. Ratio enim, quae numerum absque proportione non attingit atque maximum actu admittit, ex noto ad ignota se viam habere coniecturatur. Intellectus autem debilitatem rationis advertens has abicit coniecturas, affirmans eos numeros proportionales pariter et improportionales, ut omnium pariter et singulorum lateat praecisio, quae est deus benedictus. Ratio vero praecisio quidem sensus exstitit; unit enim ratio sua praecisione sensibiles numeros, atque ipsa sensibilia rationali prae cisione mensurantur. Sed haec non est vera simpliciter, sed rationaliter vera mensura. Rationalium vero praecisio intellectus est, qui est vera mensura. Summa autem praecisio intellectus est veritas ipsa, quae deus est. 53 Haec attentissime notato. Unitatem autem in alteritatem progredi est simul alteritatem regredi in unitatem, et hoc diligentissime adverte, si intellectualiter unitatem in alteritate intueri volueris. Nam animam esse in corpore est ita ipsam in corpus progredi, quod corporalis unitas ingreditur in ipsam. Ita de forma: quaelibet, quanto unior atque perfectior fuerit, tanto eam progredi est plus
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ne ci dice che quella parte è ancora divisibile e non è minima; allo stesso modo, anche l’intelletto giunge a cogliere come divisibile ciò che la ragione considera come un minimo. Tutto ciò che può esistere, dunque, è maggiore del minimo ed è minore del massimo, senza che questo processo prosegua sino all’infinito [ossia, sino a giungere all’infinitamente piccolo e all’infinitamente grande]. È solo la conoscenza negativa che ti suggerisce questo, ossia che la precisione è irraggiungibile. Infatti, sebbene alla nostra ragione sembri necessariamente vero che, là dove non è più possibile un’ascesa graduale infinita, si sia allora giunti ad un massimo, l’intelligenza, tuttavia, in virtù della [sua] negazione della precisione, vede che è più vero dire che, nell’ambito delle cose che ammettono il più, non può darsi nulla che sia un massimo in senso preciso144. La forza della natura semplice dell’intelletto è così grande che essa abbraccia le cose che la ragione separa come opposte145. La ragione, infatti, che non coglie alcun numero che non abbia proporzione146 e che ammette il massimo in atto, congettura di poter procedere dal noto all’ignoto. L’intelletto, invece, che riconosce la debolezza della ragione, respinge queste congetture e afferma che vi sono sia i numeri proporzionali che quelli non proporzionali, in modo tale che di tutte le cose e di ciascuna considerata singolarmente resta nascosta la precisione, quella precisione che è Dio benedetto147. La ragione, dal canto suo, è in qualche modo la precisione del senso; la ragione, infatti, con la precisione che le è propria unisce i numeri sensibili, e le cose sensibili vengono misurate dalla precisione della ragione. Questa, tuttavia, non è una misura vera in senso assoluto, ma è vera soltanto in senso razionale. La precisione degli enti razionali è invece l’intelletto, il quale è la loro vera misura. La precisione somma dell’intelletto, tuttavia, è la verità stessa, che è Dio148. Presta la massima attenzione a quanto segue. Il procedere dell’unità [nell’alterità] è, al tempo stesso, un ritornare dell’alterità [nell’unità]. Tienilo a mente con il masso scrupolo, se vuoi cogliere con l’intelletto l’unità nell’alterità. Che l’anima sia nel corpo, ad esempio, significa che essa penetra nel corpo in modo tale che l’unità corporea entra nell’anima149. Lo stesso dicasi della forma: quanto più una forma è unitaria e perfetta, tanto più il suo pro-
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alteritatem regredi. Simplici enim intellectu progressionem cum regressione copulatam concipito, si ad arcana illa curas pervenire, quae supra rationem, disiungentem progressionem a regressione, solo intellectu in unum opposita complicante verius attinguntur. Ad quae philosophantes atque theologi ratiocinantes hactenus sibi sua positione principii primi ingrediendi viam praecluserunt. 54
CAPITULUM XI
De participatione Quoniam unitatem unitatem esse est ipsam praecise atque, uti est, esse, satis tibi atque clarissime constat unitatem esse ipsam identitatem incommunicabilem, inexplicabilem atque, uti est, inattingibilem. Sicut enim omne ens in propria sua entitate est, uti est, ita in alia aliter. Hoc facile, si advertis, apprehendes. Circulus enim, ut ens rationis est, in sua propria rationali entitate, uti est, attingitur. Dum enim concipis figuram, a cuius centro ad circumferentiam omnes lineae sunt aequales, in hac quidem ratione circulum, uti ens est rationis, attingis, sed extra ipsam rationem propriam, uti sensibilis est, sicut in alio est, ita et aliter est. Non est igitur possibile circulum, uti in ratione est, extra rationem esse. Sensibilis igitur circulus in alteritate unitatem rationalis circuli participat. Quapropter praecisio illa, uti circulus est, incommunicabilis remanet. Nam non nisi in alteritate multiplicatur. Non est enim dabilis sensibilis circulus, ubi a centro lineae ad circumferentiam ductae praecise sint aequales, immo nulla alteri per omnia, uti est, aequalis dari poterit. Non est ergo circulus, qui videtur, adeo prae cisus, quin praecisior eo semper esse posset. Et quamvis, uti est,
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cedere nell’alterità è un ritorno dell’alterità nell’unità. Concepisci, con un atto semplice dell’intelletto, la processione come congiunta insieme con il ritorno, se ti preme di giungere a quelle verità nascoste che si colgono in modo più vero soltanto con l’intelletto, il quale complica gli opposti nell’unità, al di sopra della ragione, che separa la processione dal ritorno150. I filosofi e teologi che si sono basati solo sulla ragione si sono finora preclusi, con la loro posizione di un principio primo, ogni via di accesso a queste verità nascoste151. CAPITOLO XI
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La partecipazione «Essere unità» significa per l’unità essere precisamente ciò che essa è e come essa è; questo ti è sufficiente perché ti risulti evidente nel modo più chiaro che l’unità è la stessa identità152 incomunicabile, inesplicabile e, in se stessa, irraggiungibile. Allo stesso modo, anche ogni ente è così com’esso è nell’entità che gli è propria, mentre in un’altra entità esso è presente in un altro modo [rispetto a com’è in se stesso]153. Se fai attenzione, lo comprendi facilmente. Il cerchio, ad esempio, in quanto è un ente di ragione, lo si coglie per come esso è nell’entità razionale che gli è propria154. Quando concepisci una figura in cui tutte le linee che vanno dal centro alla circonferenza sono eguali, con questo concetto cogli il cerchio in quanto ente di ragione; al di fuori della sua realtà razionale, tuttavia, vale a dire come cerchio sensibile, il cerchio è presente in qualcosa di altro, per cui vi è anche presente in un altro modo [rispetto a come esso è in se stesso in quanto ente di ragione]155. Non è possibile, pertanto, che un cerchio esista al di fuori della ragione nello stesso modo in cui è nella ragione. Il cerchio sensibile, quindi, partecipa dell’unità del cerchio razionale nell’alterità. Questo è il motivo per il quale la precisione che caratterizza il cerchio per com’è in se stesso resta incomunicabile. Il cerchio razionale, infatti, si moltiplica solo nell’alterità. Non può darsi alcun cerchio sensibile nel quale le linee condotte dal centro alla circonferenza siano precisamente eguali156, ed anzi nessuna linea potrà essere eguale ad un’altra in tutto e per tutto. Nessun cerchio che noi vediamo, quindi, è così preciso che non se ne possa dare sempre uno più pre-
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non se aliter quam uti est, communicet, in alio tamen non potest nisi aliter participari. Non est igitur, uti est, imparticipabile suo defectu, sed quia in alio participatur, hinc et aliter. 55 Assis hic totus, ut ad coniecturarum varietatem subintres. Nullum enim intelligibile, uti est, te intelligere posse conspicis, si intellectum tuum aliam quandam rem esse admittis quam intelligibile ipsum; solum enim intelligibile ipsum in proprio suo intellectu, cuius ens exsistit, uti est, intelligitur, in aliis autem omnibus aliter. Non igitur attingitur aliquid, uti est, nisi in propria veritate, per quam est. In solo igitur divino intellectu, per quem omne ens exsis tit, veritas rerum omnium, uti est, attingitur, in aliis intellectibus aliter atque varie. Neque intellectus rei, uti est, in alio attingibilis est, sicut circulus, uti est in hoc sensibili pavimento, alibi nisi aliter fieri nequit. Identitas igitur inexplicabilis varie differenter in alteritate explicatur, atque ipsa varietas concordanter in unitate identitatis complicatur. Visio enim in variis videntibus differenter participatur, et visibilium varietas in unitate visus concordanter complicatur, sicut et videntium diversitas in unitate visionis absolutae concorditer continetur. Et quoniam divina ipsa mens omnium est absolutissima praecisio, ipsam omnes creatae mentes in alteritate variationis differenter participare contingit illa ipsa ineffabili mente imparticipabili perdurante, condicione participantium hoc agente. 56 Non sunt autem mentes ipsae in se divini luminis radium capientes, quasi participationem ipsam natura praevenerint, sed par-
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ciso. E sebbene il cerchio, in quanto tale, non si comunichi in un altro modo da come esso è in se stesso, in ciò che è altro, tuttavia, non può parteciparsi se non nell’alterità157. Il fatto che non sia partecipabile per come esso è in se stesso non è quindi dovuto ad una sua mancanza, ma è dovuto al fatto che di esso partecipa qualcosa che è altro [da esso], il quale, pertanto, ne partecipa con alterità. Prestami tutta la tua attenzione, in modo da poter penetrare nella varietà delle congetture. Tieni presente che non puoi comprendere nessun ente intelligibile per com’è in se stesso se riconosci che il tuo intelletto è qualcosa di altro da quell’intelligibile. L’intelligibile, infatti, viene inteso per come esso è solo nel suo proprio intelletto, ossia [nell’intelletto] dal quale ha l’essere158; in tutti gli altri intelletti, invece, viene inteso con alterità [in un altro modo rispetto a com’è in se stesso]. Non si giunge pertanto a cogliere una cosa per com’è in se stessa se non nella sua propria verità, grazie alla quale essa esiste. Soltanto nell’intelletto divino, pertanto, grazie al quale esiste ogni ente, si giunge a cogliere la verità di tutte le cose per com’essa è159; negli altri intelletti, invece, la si coglie con alterità e in modi differenti. Inoltre, la comprensione di una cosa per come essa è non è attingibile in qualcos’altro, così come il cerchio che è tracciato su questo pavimento sensibile non può essere riprodotto altrove se non con alterità [se non in un altro modo]160. L’identità inesplicabile, pertanto, viene esplicata nell’alterità in modi vari e differenti, e questa stessa varietà è complicata in modo concorde nell’unità dell’identità. I vari atti visivi, ad esempio, partecipano in modo differente della vista, e la varietà delle cose visibili è complicata in modo concorde nell’unità della vista, così come anche la diversità degli atti visivi è contenuta in modo concorde nell’unità della visione assoluta161. Ora, poiché la mente divina è la precisione del tutto assoluta di tutte le menti, succede che tutte le menti create partecipano di essa in modi differenti, secondo vari gradi di alterità, mentre la mente divina ineffabile resta in se stessa impartecipabile, in quanto è la condizione dei partecipanti che produce questo tipo di partecipazione [ossia la partecipazione secondo vari gradi di alterità]162. Le menti, tuttavia, non ricevono in se stesse il raggio della luce divina come se, con la loro natura, precedessero tale partecipazio-
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ticipatio intellectualis incommunicabilis ipsius actualissimae lucis earum quiditas exsistit. Actualitas igitur intelligentiae nostrae in participatione divini intellectus exsistit. Quoniam autem actualissima illa virtus non nisi in varietate alteritatis accipi potest, quae potius in quadam concurrentia potentiae concipitur, hinc participantes mentes in ipsa alteritate actualissimi intellectus quasi in actu illo, qui, ad divinum intellectum relatus, alteritas sive potentia exsistit, participare contingit. Potius igitur omnis nostra intelligentia ex participatione actualitatis divinae in potentiali varietate consistit. Posse enim intelligere actu veritatem ipsam, uti est, ita creatis convenit mentibus, sicut deo nostro proprium est actum illum esse varie in creatis ipsis mentibus in potentia participatum. Quanto igitur intelligentia deiformior, tanto eius potentia actui, uti est, propinquior; quanto vero ipsa fuerit obscurior, tanto distantior. Quapropter in propinqua, remota atque remotissima potentia varie differenter participatur. Nec est inaccessibilis illa summitas ita aggredienda, quasi in ipsam accedi non possit, nec aggressa credi debet actu apprehensa, sed potius, ut accedi possit semper quidem propinquius ipsa semper, uti est, inattingibili remanente. Tempus enim ad aevum ita pergit, cui numquam, quamvis accesserit continue, poterit adaequari. 57 Vides nunc assertiones positivas sapientum esse coniecturas. Nam dum tu, pater, clarissimis tuis oculis faciem pontificis summi, sanctissimi domini nostri Eugenii papae quarti, coram conspicis, de ipsa positivam assertionem concipis, quam praecisam secundum oculum affirmas. Dum autem ad radicem illam, unde discretio sensus emanat, te convertis – ad rationem dico –, intelligis sensum visus participare vim discretivam in alteritate organice contracta. Ob quam causam defectum casus a praecisione intue-
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ne163; piuttosto, è la partecipazione dell’intelletto a quella luce incomunicabile e pienamente in atto che costituisce la loro essenza. L’essere in atto della nostra intelligenza consiste pertanto nella sua partecipazione all’intelletto divino164. Tuttavia, questa forza pienamente in atto [dell’intelletto divino] non può essere ricevuta che nella varietà dell’alterità, la quale va intesa come una sorta di potenzialità che viene ad aggiungersi; per questo motivo, succede che le menti, che partecipano secondo vari gradi di alterità di quell’intelletto pienamente in atto, ne partecipano attraverso un atto che, paragonato all’intelletto divino, è alterità o potenzialità. Bisogna piuttosto dire, pertanto, che ogni intelligenza consiste nella partecipazione all’attualità divina secondo un diverso grado di potenzialità. Poter intendere in atto la verità com’è in se stessa conviene infatti alle menti create, così come è proprio del nostro Dio essere quell’atto di cui le menti create partecipano secondo gradi diversi di potenzialità. Di conseguenza, quanto più un’intelligenza è simile Dio, tanto più la sua potenzialità è vicina all’atto com’è in se stesso; quanto più, invece, essa è oscura, tanto più ne è lontana. Per questo motivo, la partecipazione [all’atto] avviene in modo vario e differente in una potenza che è vicina, in quella lontana e in quella lontanissima165. E a quella realtà suprema inaccessibile non ci si deve avvicinare come se non si potesse avere accesso ad essa, né, una volta avvicinata, si deve credere di averla compresa in atto; ci si deve piuttosto avvicinare ad essa in modo tale da potervisi avvicinare sempre di più, anche se essa resta pur sempre irraggiungibile per com’è in se stessa. Così il tempo si rivolge all’eternità, alla quale non potrà mai adeguarsi, sebbene le si avvicini continuamente. Ora vedi che cosa significhi dire che gli asserti positivi dei sapienti sono congetture. Per esempio, quando tu, padre, con i tuoi occhi limpidi guardi il volto del sommo pontefice, del santissimo nostro signore Eugenio IV, pensi di poter proferire un asserto positivo sul suo volto, che ritieni preciso in base a ciò che hai visto con i tuoi occhi. Ma non appena ti rivolgi a quella radice da cui emana la capacità di distinguere che è propria del senso, vale a dire la ragione, allora comprendi subito che il senso della vista partecipa della capacità di distinguere [propria della ragione] contratta nell’alterità dell’organo sensoriale. Di conseguenza, riconosci quale sia la
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ris, quoniam faciem ipsam non, uti est, sed in alteritate secundum angulum tui oculi, ab omnibus viventium oculis differentem, contemplaras. Coniectura igitur est positiva assertio, in alteritate veritatem, uti est, participans. Quemadmodum vero sensus in unitate rationis suam alteritatem experitur et assertiones sensibiles ab unitate praecisionis absolvendo coniecturas facit, ita ratio in radicali unitate sua, in ipso scilicet intelligentiae lumine, suam alteritatem et casum a praecisione in coniecturam invenit, sic et intelligentia ipsa, ut propinqua potentia, in unitate divina se suo quidem clarissimo modo gaudet coniectari. 58 Haec tenens participationis coniecturam hac via efficiat. Omne enim participabile, cum non nisi in alteritate participetur, in quaternitate participari necesse erit. Pergit enim unitas a se in alteritatem et quaternario subsistit. Omne, quod in alio participatur, nec maxime nec minime nec aequaliter poterit recipi. Ipsa etiam unitatis simplicitas, cum non, uti est simplex, sed aliter participetur, in quadam, ut ita dixerim, compositione aut casu ab ea ipsa simplicitate, hoc est in simplicitatis alteritate, participatur. Non igitur participatur simplicitas secundum partem, cum sit simplicitas, sed modo, quo participabile est simplex secundum se totum. Quoniam autem incommunicabilis est maxime, minime atque aequaliter ipsa unitatis simplicitas – ita enim, uti est, participaretur per coincidentiam, ut in Docta ignorantia aperitur –, hinc in quadam quaternitate a maximitate, minimitate atque aequalitate cadente participari necesse est. Non igitur participatur unitas, ut est complicans simplicitas nec ut est alterata explicatio, sed ut alterabilis eius participabilitas explicatoria quasi modus quidam virtutis ipsius complicativae imparticipabilis unitatis per quandam coincidentiam intelligitur.
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causa della mancanza e della caduta di precisione, ossia il fatto che avevi contemplato quel volto non com’è in se stesso, ma nell’alterità, ossia secondo l’angolo visuale del tuo occhio, che è diverso da quello dell’occhio di tutti gli altri esseri viventi. La congettura, pertanto, è un asserto positivo, che partecipa della verità, com’è in sé, nella alterità166. Come il senso esperisce la propria alterità nell’unità della ragione e formula le sue congetture svincolando gli asserti sulle realtà sensibili dall’unità della precisione [razionale], così anche la ragione trova in quella che è la radice della sua unità, ossia nel lume dell’intelligenza, la propria alterità e il motivo della [sua] caduta dalla precisione nelle congetture; allo stesso modo, anche l’intelligenza, che è la facoltà più vicina a Dio, si rallegra del fatto che, nell’unità divina, può formulare delle congetture secondo il modo d’essere che le è proprio, che è il più luminoso. Chi tiene a mente queste cose, può formulare una congettura circa la partecipazione. Dal momento che la partecipazione non avviene se non nell’alterità, tutto ciò di cui si può partecipare si parteciperà necessariamente in quattro gradi167. L’unità, infatti, a partire da se stessa procede nell’alterità e dà origine a quattro gradi. Tutto ciò che si partecipa in altro non potrà essere ricevuto né in modo massimo, né in modo minimo, né in modo eguale. Anche la semplicità dell’unità non si partecipa nella sua semplicità, bensì con alterità, per cui si partecipa in una sorta di composizione, per così dire, o di caduta da tale semplicità, ossia nell’alterità della semplicità. La semplicità, pertanto, non si partecipa come se si dividesse in parti, dato che è semplicità, bensì nel modo in cui può parteciparsi ciò che è semplice, ossia come se stesso e come un tutto168. Poiché, tuttavia, la semplicità dell’unità non può essere comunicata né in modo massimo, né in modo minimo – in questo caso, infatti, si parteciperebbe di essa così com’è in se stessa, nella coincidenza, come ho mostrato nella Dotta ignoranza169 –, è allora necessario che la partecipazione avvenga in quattro gradi, che si allontanano dal massimo, dal minimo e dall’eguaglianza. L’unità, pertanto, non si partecipa in quanto semplicità complicante, né in quanto esplicazione nell’alterità, ma in quanto la sua attitudine a parteciparsi nell’alterità e nell’esplicazione va intesa, in una specie di coincidenza, come un modo della stessa forza complicatissima propria dell’unità impartecipabile.
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enim secundum subiectam configurationem: a, unitas simplex, complicans, imparticipabilis est, uti est. Est et imparticipabilis in modo b aut c, scilicet maxime aut minime seu secundum gradum altiorem aut inferiorem virtutis eius. Est et imparticipabilis in modo d, e, f, hoc est maxime, minime aut aequaliter seu secundum gradum altiorem, inferiorem aut medium. Nec est participabilis ut in g, h, i, k, quasi in quattuor quibusdam simplicibus distinctis essendi modis, superiori scilicet, inferiori et duobus mediis, aut maxime aut minime aut magis maxime aut magis minime. Si enim ita distincte quidem quasi secundum quasdam virtutis eius partes participaretur, non eo perfectiori modo, quo ipsa totalitas simplicis unitatis eius participari posset, participaretur, sed defectuose. Non est igitur participabilis secundum aliquem ipsius distinctum gradum, cum simplicitas indistinctibilis sit. Nec est participabilis, ut quattuor illa sunt tria regressive, puta ut g, h, i, k censeantur a sua quaternaria alteritate retracta in ternariam d, e, f, nec ut adhuc magis unita censeantur in binaria b, c, sed ut in ipsa unitate a quasi quadrifaria virtus in unitate substantiae subsistens consideratur. Ibi enim tantum unitas imparticipabilis cum participabilitate coincidit, ita quidem, ut omnia quaecumque differenter participantia non nisi in alteritate quaternaria unitatem aliter imparticipabilem attingere queant. Haec in infra dicendis clariora fient. 60 Magna vis coniecturalis artis tibi hac via panditur, si hunc denarium explicatorium complicatorie notaveris. Ars enim brevissima
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Facendo riferimento alla figura che riporto qui di seguito, io dico, infatti, che a, l’unità semplice e complicante, è impartecipabile com’è in se stessa. È impartecipabile anche nel modo b o c, vale a dire nel modo massimo o minimo, oppure secondo un grado superiore o inferiore della sua forza. È impartecipabile anche nei modi d, e, f, vale a dire nel modo massimo, minimo o eguale, ovvero secondo un grado superiore, inferiore o intermedio. Non è partecipabile neppure come in g, h, i, k, ossia nei quattro modi di essere semplici e distinti, vale a dire quello superiore, quello inferiore e i due intermedi, ovvero in modo massimo, in modo minimo, in modo più vicino al massimo e in modo più vicino al minimo. Se l’unità, infatti, si partecipasse in questa maniera, ossia in maniera distinta, come se si trattasse di una divisione in parti della sua forza, essa non si parteciperebbe nel modo più perfetto in cui potrebbe avvenire la partecipazione della totalità della sua semplice unità, bensì in modo difettoso. Essa, dunque, non è partecipabile secondo un qualche suo grado distinto, dal momento che la semplicità è indistinguibile. Non è partecipabile neppure in quanto, procedendo in senso inverso, i quattro ultimi gradi diventano tre, in quanto, ad esempio, g, h, i, k sembrano ritrarsi dalla loro alterità quadruplice in quella triplice costituita da d, e, f, o in quanto essi appaiono ancora di più uniti nell’alterità duplice di b, c, ma in quanto a può essere considerata, nella sua stessa unità, come una potenza quadruplice, che sussiste nell’unità della sostanza. Soltanto lì, infatti, l’unità impartecipabile coincide con la partecipabilità, in modo tale che tutti gli enti, che partecipano dell’unità in modi rispettivamente differenti, possono coglierla solo nella quadruplice alterità, in quanto l’unità non è partecipabile in un altro modo. Queste cose saranno più chiare in ciò che dirò più avanti. Lungo questa via, ti si schiude il grande potere dell’arte delle congetture, se riuscirai a cogliere, secondo il modo della complica-
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est, qua veritas ipsa indagatur. Quae etsi tribus lineis scribi possit in suae unitatis simplicis complicatione, tamen sine alteritate modorum nec communicari poterit nec participari. Hinc de eiusdem reiteratione mihi ignoscere velis. 61
CAPITULUM XII
De tribus mundis Post haec taliter, quamvis ineptius, tradita mundum quendam supremum ex theophanico descensu divinae primae unitatis in denariam atque ex denariae unitatis regressione in primam constitui concipe, qui et tertium caelum, si libet, vocitetur. Alium pari descensu ex secundae unitatis in tertiam et ipsius tertiae ascensu in secundam constituas, qui et secundum caelum dici poterit. Tertium vero mundum per descensum tertiae unitatis in quartam et quartae reascensum in tertiam coniectura. 62 Universum igitur sic erit ex centraliori spiritualissimo mundo atque ex circumferentialiori grossissimo et ex medio. Centrum primi deus, centrum secundi intelligentia, centrum tertii ratio. Sensibilitas est quasi grossissima cortex tertii atque circumferentialis tantum. Primum centrum indivisibilis entitatis omnia in omnibus tenentis ubique centralis, sensibilitas semper extremitatem tenet. 63 Omnia sunt in primo mundo, omnia in secundo, omnia in tertio, in quolibet modo suo. Entitas omnis rei est centrum seu unitas illa absolutissima. Cum igitur haec sit ipsa veritas omnium et cuiuslibet, est omnis res vera in tertio caelo, ut a veritate sua immediatius impermixteque fluit, quasi pater in filiis. Est in secundo caelo,
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zione, il potere esplicativo del numero dieci170. L’arte con la quale si indaga la verità stessa è in effetti brevissima. Sebbene la si possa esporre in tre righe, data la complicazione della sua unità semplice, essa non potrebbe tuttavia né comunicarsi, né parteciparsi senza l’alterità dei modi. Ti prego pertanto di perdonarmi se farò ripetutamente menzione di questa alterità dei modi. CAPITOLO XII
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I tre mondi Dopo quanto ho appena detto, sebbene in modo insufficiente171, cerca di concepire un certo qual mondo supremo costituito dalla discesa teofanica172 della prima unità divina nell’unità del dieci e dal ritorno dell’unità del dieci nella prima unità; puoi chiamare questo mondo anche «terzo cielo», se ti piace173. Concepisci poi un altro mondo costituito dalla discesa della seconda unità [quella del dieci] nella terza e dall’ascesa della terza nella seconda; questo mondo lo si potrà chiamare «secondo cielo». Congettura invece un terzo mondo costituito dalla discesa della terza unità nella quarta e dal ritorno della quarta nella terza. In questo modo, l’universo sarà dunque costituito da un mondo del tutto spirituale, che è il mondo più centrale, da un mondo molto più periferico, che ha la massima grossezza, e da un mondo intermedio. Il centro del primo mondo è Dio, il centro del secondo è l’intelligenza, il centro del terzo è la ragione. La sensibilità è come se fosse la corteccia quanto mai grossa del terzo mondo ed è posta soltanto nella circonferenza esterna. Il primo centro è quello dell’entità indivisibile, che è presente in tutte le cose e tutte le tiene insieme; esso è centro ovunque, mentre la sensibilità occupa sempre la regione più esterna. Tutte le cose sono presenti nel primo mondo, tutte sono presenti nel secondo, tutte nel terzo, ma in ciascuno di questi mondi secondo il modo che è ad esso proprio. Il centro, ossia l’unità del tutto assoluta, è l’entità di ogni cosa. Essendo pertanto questa unità la verità di tutte le cose e di ciascuna in particolare, ogni cosa è vera nel terzo cielo, in quanto qui ogni cosa fluisce in modo immediato e senza mescolanza dalla sua propria verità, come un padre nei fi-
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ut in veri similitudine remotiori, quasi pater in nepotibus. Est in infimo caelo, ut in remotissima adumbratione, ubi in ultimis tantum signis occultatur, ut pater in distantissimis consanguineis ab eo descendentibus. Deus autem pater atque principium nostrum est, cuius verae filiationis imaginem in tertio tantum caelo tenemus, cuius centralis unitas est ipsa veritas. Ibi tantum ut filii veri veritatis regnum possidere poterimus. Unde illud est intellectuale caelum, ubi lucet veritas clare, uti est. Cuius quidem veritatis lumen in secundo rationali caelo, adumbratum rationibus, varietatem induit opinativam, in inferiori vero densissima grossitie confunditur. 64
CAPITULUM XIII
De ter trinis ter distinctionibus Arbitror non vana coniectura quemlibet ex iam dictis mundis universi in se numeri seriem continere, ut quisque suo modo sit perfectus, quamvis universi numeri primi atque supremi caeli in aliorum proportione simplicissimi atque formalissimi sint, ac si decem simplices digitales in mille sint gradatim extensi; numeri autem secundi caeli hac moderatione servata, magis grossi minusque lucidi et formales, quasi articulares denarii gradatim in millesimum usque festinent; infimi vero, multa tenebra adumbrati, materialiores, ut proportio unitatis eius sit ad primam ut centum ad unum et ad secundam ut centum ad decem. 65 Qua habitudine ponderata cuiuslibet iam ante ostensi mundi vides per trinas numerales progressiones orbem triniter distingui, ut sic in universo sint graduales novem unitates a prima simplicissima descendentes. Ad hoc autem, ut quaternaria perficiatur distinctio, quae sola complementum inquisitionum exsistit, coniectura-
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gli. Ogni cosa si trova poi nel secondo cielo come in una similitudine del vero alquanto remota, come il padre nei nipoti. Ed è nell’ultimo cielo come in un’ombra lontanissima, dove si trova nascosta in quelle che sono solo delle ultime tracce [della verità], come il padre nei consanguinei più lontani che discendono da lui. Ora, Dio è il nostro padre e il nostro principio, e noi possediamo l’immagine della sua vera filiazione soltanto nel terzo cielo, la cui unità centrale è la verità stessa. Lì soltanto, come figli del vero, potremo possedere il regno della verità. Questo, dunque, è il cielo intellettuale, nel quale la verità risplende con chiarezza, per come essa è. Nel secondo cielo, quello razionale, il lume di questa verità, oscurato dai concetti della ragione, si riveste della varietà delle opinioni, mentre nel cielo più basso esso è offuscato da una grossezza quanto mai densa. CAPITOLO XIII
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La distinzione alla terza potenza del tre Sulla base di una congettura non priva di utilità, ritengo che ciascuno dei tre mondi dell’universo174 contenga in sé la serie dei numeri, in maniera tale che ciascuno di essi possa essere a suo modo perfetto, anche se tutti i numeri del cielo primo e supremo sono, a paragone degli altri, i più semplici e i più formali, come se i primi dieci numeri semplici venissero estesi progressivamente fino a mille. I numeri del secondo cielo, pur conservando questa stessa proporzione, sono tuttavia più grossolani, meno luminosi e meno formali, come se i numeri divisibili per dieci175 avanzassero progressivamente fino al mille. I numeri del cielo più basso, oscurati da una grande tenebra, sono più materiali, di modo che la proporzione dell’unità di questo cielo rispetto alla prima unità176 è come di cento a uno, e rispetto la seconda unità177 è come di cento a dieci178. Se esamini questo rapporto per ciascuno dei mondi che abbiamo sopra descritto179, vedi allora che l’orbita di ogni mondo può distinguersi per mezzo di una progressione numerica di tre volte tre, cosicché nell’universo vi sono in questo modo nove unità che discendono per gradi dalla prima unità assolutamente semplice180. Per realizzare in modo compiuto la distinzione per quattro, che sola costituisce la completezza di ogni ricerca181, siamo costret-
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ri cogimur progressiones, qua una pergit unitas in aliam, quaterne disiunctim numerandas, ut sic in quolibet mundo ter trinas distinctiones finaliter annotemus, et sic in universo ad solidum ternarii pertingemus, ut subscripta tibi pandet figura.
66 Mysteria
pluribus occulta, magna certe, si, ut res postulat, oculo mentis figuram perspexeris, tibi nota fient. Decenario omnis comprehenditur numerus, quaternario omnis progressio perficitur; quater igitur 10 40 sunt. Hinc 40 circulos omnibus tam magnis quam parvis in unum collectis reperies. Unde
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ti a congetturare che le progressioni con le quali182 un’unità passa in un’altra debbano essere numerate separatamente in quattro momenti. In questo modo, in ciascun mondo rileviamo alla fine la presenza di distinzioni in numero di tre volte tre183, e così nell’universo, considerato nel suo complesso, raggiungiamo il tre al cubo, come dimostra la figura che è riportata qui sotto.
Se, come la cosa richiede, guarderai questa figura con l’occhio della mente, ti si renderanno noti misteri, certamente grandi, che sono nascosti ai più. Nel dieci è incluso ogni numero e nel quattro trova il suo compimento ogni serie numerica184; inoltre, quattro volte dieci fa quaranta. Pertanto, se sommi insieme tutti cerchi, sia quelli grandi che quelli piccoli, troverai che sono quaranta. Perciò, questa serie nu-
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haec progressio 1, 3, 9, 27, cum 40 efficiat, non incongrue laudatur. Nam ut 1, 2, 3, 4 universi numeri est ordinatissima progressio, qua nulla ordinatior dari potest – multiplicatio enim binarii quaternarium efficit, sicut additio unitatis ad ternarium; quaternarius igitur ordinatissime ex his procedit, et in quibuscumque quattuor aliis numeris talis reperiri nequit –, ita ad quaternarii denarium, scilicet 40, progressio nulla ordinatior illa, quae est 1, 3, 9, 27. Poteris hoc experiri in hoc, quod per subtractionem et additionem horum quattuor numerorum ad invicem omnes numeri singulariter usque in 40 attinguntur, sicut ex primae progressionis quattuor numerorum combinationibus omnes numeri usque in denarium exsurgunt, ut per te ipsum probare poteris utrobique. Nec sunt alii ordinatae progressionis quaternarii numeri dabiles praeter istos, qui numeros simul iuncti et quemlibet contentum per eorum ad invicem additionem aut subtractionem efficiant. 67 Deinde adverte unitatem simplicem, quae hoc loco deum figurat, quattuor circulos contingere, maximum scilicet universi, supremi mundi, supremi ordinis et supremi chori. Ita quidem gradatim lumen atque entitatem eius participant, primo universum, post hoc supremus mundus, deinde supremus ordo, ultimo et quarto loco supremus chorus. Vides consequenter chorum choro receptum lumen communicare, usque dum ad ultimum devenitur. Singularius etiam attendendum est quomodo id, quod in universo reperitur, reperitur et in quolibet mundo et ordine cuiusque, modo autem absolutiori et contractiori diverso. Nam denaria unitas intelligentiam figurans, centenaria animam, millenaria corpus, aliter in supremo mundo est, secundum scilicet illius mundi naturam altam, simplicem et nobilem, aliter in medio, aliter in infimo umbroso, atque in eodem supremo mundo differenter in supremo ordine et aliis subsequentibus. Nam infimum superioris cum supremo in-
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merica 1, 3, 9, 27, non è lodata senza motivo, in quanto la sua somma è quaranta. 1, 2, 3, 4, costituisce, infatti, la serie più ordinata di tutti i numeri185, della quale non se ne può dare una più ordinata: moltiplicando due per due si ottiene il quattro, come pure sommando l’uno al tre; il quattro, pertanto, procede nella maniera più ordinata da questi numeri, e non vi sono altri numeri nei quali sia possibile trovare una serie come questa; allo stesso modo, rispetto alla moltiplicazione per dieci del quattro, vale dire al quaranta, non vi è nessuna serie numerica più ordinata della serie 1, 3, 9, 27. Potrai verificarlo in questo modo: dalla sottrazione e dalla addizione di questi quattro numeri fra loro si ottengono tutti i numeri, uno per uno, fino al quaranta186, così come dalle combinazioni dei quattro numeri della prima serie risultano tutti numeri fino al dieci187; lo potrai provare da solo per entrambi i casi. E non si danno altri numeri, al di fuori di questi, che siano ordinati in una serie di quattro, e la cui addizione o sottrazione dia la loro somma e ogni altro numero in essa compreso. Osserva, poi, che l’unità semplice, che in questo caso rappresenta Dio, tocca quattro cerchi, ossia il cerchio massimo dell’universo, il cerchio del mondo supremo, quello dell’ordine supremo e quello del coro supremo. Allo stesso modo, questi quattro cerchi partecipano per gradi della luce e dell’essere di Dio: per primo l’universo, poi il mondo supremo, quindi l’ordine supremo, per ultimo, in quarto luogo, il coro supremo. Vedi che un coro comunica al coro successivo la luce ricevuta, fino a giungere all’ultimo coro. Occorre tener presente, in maniera più particolare, che tutto ciò che si trova nell’universo si trova anche in ciascun mondo e nell’ordine che gli è proprio, sebbene in modi diversi, più assoluti e più contratti. Ad esempio, l’unità del dieci, che rappresenta l’intelligenza, l’unità del cento, che rappresenta l’anima, e l’unità del mille, che rappresenta il corpo, sono presenti nel mondo supremo in un certo modo, ossia in conformità alla natura di quel mondo, che è elevato, semplice e nobile; in un altro modo sono presenti nel mondo intermedio, in un altro modo ancora nel mondo inferiore, pieno d’ombra; ed anche nello stesso mondo supremo sono presenti in modo differente, a seconda che siano nell’ordine supremo o in quelli successivi. Osserva, tuttavia, che, in tutti casi, il grado più basso di ciò che
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ferioris in omnibus coincidere conspicis. Simplicior enim est sensus superioris mundi quam intelligentia medii, perfectiorque est sensus superioris ordinis quam intellectus subsequentis. Age igitur novem denarias unitates atque novem centenarias et alias millenarias novem, quas in 27 minoribus circulis reperies, se ad invicem secundum progressionales habere numeros, initium semper ab ipsa absoluta capiendo unitate; et tunc experieris quomodo in quolibet mundo perficitur. Nam si primus denarius superioris mundi est ut 2, secundus ut 3 et tertius ut 4, perfecta est progressio; si in secundo mundo primus denarius est ut 20, secundus ut 30, tertius ut 40, perfecta est progressio; sic in tertio infimo primus denarius ut 200, secundus ut 300, tertius ut 400, perfecta est progressio. 68 Unde ita de aliis dum concipis unitatibus, videbis quomodo unitas intelligentiae inferioris mundi de natura superioris aut medii non est, sed ab eius cadit simplicitate secundum numerorum configuratam proportionem. Sicut aliter iudicat grammaticae schola quem intelligentem, aliter mathematicae et adhuc aliter theologorum, ita quidem secundum diversorum mundorum varia iudicia varie de his necessario iudicatur. Aliud quidem est iudicium inferioris mundi, dum se singulariter attendit, aliud dum eius habitudo ad superiores advertitur. 69 Qui igitur coniecturarum moderationem congrue distinguere cupit, haec eum notare necesse est, ut sciat distinguere et ipsa distincta iam singulariter, iam ad invicem respective considerare, ut secundum has habitudines nunc neget, tunc affirmet. Dum enim
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è superiore coincide con il grado più alto di ciò che è inferiore188. In effetti, il senso che si trova nel mondo superiore è più semplice dell’intelligenza che si trova nel mondo intermedio, e il senso che si trova in un ordine supremo è più perfetto dell’intelletto che si trova nell’ordine successivo. Fa in modo, pertanto, che le nove unità del dieci, le nove unità del cento e le nove unità del mille, che troverai nei ventisette cerchi più piccoli, si rapportino fra loro secondo la serie dei numeri, iniziando sempre dall’unità assoluta; ed allora constaterai come, in ciascun mondo, la serie sia perfettamente compiuta. Infatti, se la prima unità del dieci del mondo superiore è come il due, la seconda come il tre e la terza come il quattro, allora la loro serie è perfetta; se, nel secondo mondo, la prima unità del dieci è come il venti, la seconda come il trenta, la terza come il quaranta, la serie è perfetta; allo stesso modo, se nel terzo e ultimo mondo la prima unità del dieci è come il duecento, la seconda come il trecento, la terza come il quattrocento, la serie è perfetta. Se, pertanto, concepisci in modo simile le altre unità, vedrai che l’unità che è propria dell’intelligenza che si trova nel mondo inferiore non è della natura di quella che si trova nel mondo superiore o nel mondo intermedio, ma decade dalla loro rispettiva semplicità secondo una proporzione come quella rappresentata [nella figura sopra riportata] dai numeri. Come l’intelligenza di un allievo viene giudicata sulla base di un certo criterio in una scuola di grammatica, sulla base di un altro criterio in una scuola di matematica e sulla base di un altro criterio ancora in una scuola di teologia, così dobbiamo necessariamente giudicare in modo diverso queste realtà [ossia le diverse unità] a seconda dei vari criteri di giudizio che sono propri dei diversi mondi. Altro è in effetti il giudizio del mondo inferiore quando esso rivolge la sua attenzione unicamente a se stesso, e altro quando si prende in considerazione il suo rapporto con i mondi superiori. Chi desidera individuare in maniera adeguata la regola che guida le congetture, deve pertanto badare a quanto abbiamo detto, in modo da saper fare le giuste distinzioni e da saper considerare le cose che ha distinto ora nella loro singolarità, ora nei loro rapporti reciproci, cosicché, a seconda di questi rapporti, egli possa ora negare, ora affermare. Qualora si chiedesse, ad esempio, se la natura
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quaereretur an inferioris mundi natura intelligentiam habeat, vides dicendum esse intelligentiam contractam secundum eum mundum ibi reperiri, et non reperiri intelligentiam secundum habitudinem altioris mundi. Ita quidem de reliquis. Non enim unus mundus aut numerat aut loquitur aut quidquam agit ut alius – intelligentiae enim non numerantur ut lapides aut animalia nec loquuntur ut homines –, sed suis modis utitur quisque mundus.
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del mondo inferiore sia dotata di intelligenza, vedi che si dovrebbe dire che nel mondo inferiore si trova l’intelligenza contratta secondo la natura propria di quel mondo e che non vi si trova l’intelligenza secondo la condizione che le è propria in un mondo superiore. E così via. Un mondo, infatti, non numera, non parla e non fa qualsiasi altra cosa alla stessa maniera di un altro – le intelligenze, ad esempio, non vengono numerate189 come si contano le pietre e gli animali, e non parlano come gli uomini190; ciascun mondo, piuttosto, impiega i modi che gli sono propri.
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Pars secunda
Quamvis nunc prolixius, quam acutissimo ingenio tuo necesse sit, cuncta dixerim coniecturarum mearum fundamenta, opus tamen video etiam ob tardiores, qui forte aliquando haec visuri sunt, ut ipsam simplicitatem atque identitatem conceptus in varietate multarum alteritatum capabilem faciam, et hinc ea, quae dixi, in praxi partim explicare curabo, ubi, cum idem varie resplendere videbis, facile coniecturali arte ad cuncta duceberis. Cum autem omne nostrum studium in hoc ferventissimum sit, ut veri notitiam in nobis ipsis experiamur, hinc quasdam praemittam generalium notitiarum praeambulares enodationes, ut demum ad artem pervenire queas tui ipsius venandi peritiam, coniecturaliter quidem, cum praecisio omnis a nobis absconsa remaneat. 71
CAPITULUM I
Omnia autem participatione unius id sunt quod sunt. Ipsum vero, cuius participatio est omnium pariter et singulorum esse, in omnibus et in quolibet suo quidem modo resplendet. Quapropter non habes alia consideratione opus, nisi ut in diversitate rerum a te indagandarum identitatem inquiras aut in alteritate unitatem. Tunc enim quasi absolutae unitatis modos in alteritate contractorum entium intueberis. Omnes etiam figurae ad omnia inquirenda modo adhibito subservient.
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Parte seconda
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Prologo Sebbene abbia fin qui esposto tutti i fondamenti delle congetture, dilungandomi anche più di quanto fosse richiesto dalla grande acutezza del tuo ingegno, mi sembra tuttavia ancora necessario, per i più lenti che forse un giorno leggeranno queste pagine, fare in modo che la semplicità e l’identità di questa concezione possa essere colta nella varietà di molteplici alterità. Per questo motivo, cercherò ora di spiegare i principi che ho già esposto con l’ausilio, almeno in parte, di esempi pratici191; in questo modo, quando in questi esempi vedrai risplendere in modi diversi il medesimo principio, verrai facilmente condotto dall’arte delle congetture a tutte le cose. Dal momento che, tuttavia, il fine a cui è rivolto, con il massimo fervore, ogni nostro sforzo è quello di poter esperire in noi stessi la conoscenza del vero, premetterò alcune spiegazioni preliminari che riguardano la conoscenza in generale, in modo tale che, alla fine, tu possa giungere all’arte di ricercare la conoscenza di te stesso192, certo sempre in maniera congetturale, poiché ogni precisione ci rimane nascosta. CAPITOLO I
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La radice profonda di tutte le ricerche scientifiche Tutte le cose sono ciò che sono perché partecipano dell’uno193. E l’uno, la cui partecipazione costituisce l’essere di tutte le cose e di ciascuna singolarmente, risplende in tutte le cose e in ciascuna, nel modo, certo, che le è proprio. Per questo motivo, la sola cosa che è necessario tu prenda in considerazione consiste nel ricercare l’identità che è presente nella diversità delle cose che ti proponi di indagare, ovvero l’unità [che è presente] nell’alterità. Allora, infatti, potrai vedere nell’alterità degli enti contratti i «modi», per così dire, dell’unità assoluta. Anche tutte le figure [che abbiamo esposto in precedenza] serviranno, nel modo che ho già indicato, per essere impiegate in tutte le ricerche194.
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autem modi, ex entium diversitate exsurgens, ita concipiatur, quasi unitas absoluta modus quidam absolutae necessitatis exsistat, qui in alteritate rerum varie recipiatur, ut omne ens seu unitas omnis sit modus quidam necessitatis. Uti visio sensibilis est modus quidam necessitatis visionis illius, quae est absoluta necessitas, ita et visio rationalis est modus quidam, et visio intellectualis est modus quidam. Sed divina ipsa visio est modus varie participatus, qui est ipsa absoluta necessitas. Ad omnem autem visionem absoluta ipsa visio identice se habet. Quapropter in veritate cuius que indaganda idem est modus. 73 Sed quando diversitatem unius et alterius, quae ex alteritate participationis modi exsistit, rationabiliter servare proponis, unitate modi te varie uti debere non ambigis, ut sensibilem ipsam visionem sensibiliter, rationalem rationaliter, intellectualem intellectualiter in figuris inquiras. Serviet enim tibi P figura ad omnes et ad quamlibet: ad sensibilem, si unitatem sensibilem feceris lucem et alteritatem sensibilem umbram, ad rationalem, si lucem dixeris discursivam aut rationalem unitatem, ad intellectualem similiter serviet, quando unitatem intellectualem lucem feceris. Si etiam coniecturam participationis formare volueris, eodem agas modo, a visionem quam volueris supponendo. 74 Ita quidem in figura universi. Si enim circulum universi universorum visionem absolutam participantium supponas, plane omnes varietates intellectualis, rationalis atque sensibilis visionis intueberis. Si de intellectuali tantum tibi cura fuerit, circulum maiorem universarum intellectualium visionum faciens, quaerenda conspicies. Ita quidem de rationali rationabiliter et de sensibili sensibiliter. Hac arte uti de visione, ita generaliter de omnibus inquiras, sic
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Ora, la varietà dei modi, che risulta dalla diversità degli enti, va concepita come se l’unità assoluta fosse il modo della necessità195, [modo] che viene recepito in maniera varia nell’alterità delle cose, cosicché ogni ente od ogni unità è un certo determinato modo della necessità. Come la vista sensibile è un certo determinato modo della necessità di quella visione [assoluta] che è la necessità assoluta, così anche la visione razionale è un certo determinato modo di essa, e così pure la visione intellettuale. La visione divina, invece, è quel modo che viene partecipato in maniera diversa, e che è la necessità assoluta. Questa visione assoluta, tuttavia, si rapporta in maniera identica ad ogni visione196. Per questo motivo, nella vera natura di ogni tipo di visione che indaghiamo è presente un unico ed identico modo. Quando invece ti proponi di prestare attenzione con la ragione alla diversità che vi è fra una cosa e un’altra, diversità che deriva dall’alterità del modo di partecipazione, devi senza alcun dubbio impiegare l’unità del modo in maniere diverse, così da indagare, mediante le figure, la visione sensibile in maniera sensibile, la visione razionale in maniera razionale, la visione intellettuale in maniera intellettuale. La figura P, ad esempio, ti servirà per tutti modi della visione e per ciascuno: per la visione sensibile, se considererai l’unità dei sensi come la luce e l’alterità dei sensi come l’ombra; per la visione razionale, se chiamerai luce l’unità discorsiva o razionale; e ti servirà analogamente per la visione intellettuale, se considererai come luce l’unità dell’intelletto. Se vorrai formarti una congettura sulla partecipazione197, procedi nello stesso modo e poni come a la visione che intendi indagare. Lo stesso vale per la figura che rappresenta l’universo [la figura U]. Se supponi, infatti, che il cerchio dell’universo sia il cerchio di tutti coloro che partecipano della visione assoluta, allora coglierai chiaramente tutte le varietà di visione, intellettuale, razionale e sensibile. Se vorrai occuparti soltanto della visione intellettuale, considera il cerchio più grande come il cerchio di tutte le visioni intellettuali e vedrai ciò che cerchi. Lo stesso vale per la visione razionale, con il cerchio della ragione, e per la vista sensibile, con il cerchio della sensibilità. Mediante questa arte, come puoi fare ricerche sulla visione, così puoi farle in generale in ogni altro campo, e potrai così osservare
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ut in identitate diversitas et diversitate identitas observetur. Semper ad hoc attentissimus esto, ne te ineptorum vocabulorum seducat deceptio, sed illis utere convenientibus modis, ut ex paucis praemissis audisti, et fructum non parvum assequeris. 75 Oportet etiam, ut fundamentum istud inattingibilis praecisionis ad hoc indesinenter resolvas, ut, dum tibi aut sensibilis aut rationalis aut intellectualis occurrit praecisio, eam ut contractam taliter praecisam admittas, cuius alteritatem tunc tantum intueberis, quando in unitatem absolutiorem contractionis ascenderis. Nam etsi ratio tibi dicit duo et tria quinque esse praecise, eo quod hoc rationis iudicio negari nequeat, tamen, cum ad rationis unitatem, intellectum scilicet, aspexeris, ubi non maiorem esse numerum quinarium quam binarium aut ternarium neque alium parem, alium imparem neque alium magnum, alium parvum numerum reperies, cum ibi omnem numerum rationis in unitatem simplicissimam absolutum conspicias, non erit haec vera duo et tria esse quinque nisi in caelo rationis. Praecisio igitur non nisi contracte in ratione reperitur, rationabiliter scilicet, sicut in sensu sensibiliter. Ita quidem, dum uni asseris incompatibiliter aliud maxime opponi, veritatem praecisam rationis via affirmas, quae intellectualiter praecisione caret. Sic etiam, dum aliud asseris intelligere intelligentiae, aliud velle atque ita de ceteris, verum intellectualiter profers, non autem divine, ubi non est aliud intelligere et aliud velle. Non attingitur igitur praecisio nisi uti alia, quasi omnis praecisio in alteritate absolutam veritatem quae deus est ita participet sicut omne esse entitatem absolutam. 76 Adverte, quaeso, ad profundam omnium inquirendarum scientiarum radicem, quoniam omne id, quod rationis via praecisum
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nell’identità la differenza e nella differenza l’identità. Presta sempre la massima attenzione a non farti ingannare dall’inadeguatezza dei termini e utilizzali198, invece, in maniera conforme ai [rispettivi] modi, come hai sentito dire in queste brevi premesse, e ne trarrai non pochi frutti. Occorre anche che, in questi procedimenti, tu torni di continuo al principio fondamentale, secondo cui la precisione è irraggiungibile199; così, quando ti imbatti in una precisione, che sia sensibile, razionale o intellettuale, devi riconoscere che si tratta di una precisione contratta in quell’ambito, e il suo carattere di alterità lo coglierai solo quando ti sarai elevato ad un’unità più libera da quella contrazione. Ad esempio, la ragione ti dice che due più tre fa cinque in modo preciso, perché secondo il giudizio della ragione questo fatto non può essere negato; tuttavia, quando guarderai all’unità della ragione, vale a dire all’intelletto, dove il numero cinque non è maggiore del numero due o del numero tre, dove non c’è un numero che sia pari e un altro che sia dispari, né un numero che sia grande e un numero che sia piccolo, perché nell’ambito dell’intelletto ogni numero della ragione si risolve nell’unità semplicissima, allora l’affermazione che due più tre fa cinque non ti risulterà essere vera se non è nel cielo della ragione. Nell’ambito della ragione, pertanto, la precisione si trova solo in modo contratto, ossia secondo il modo proprio della ragione, così come nel senso si trova secondo il modo proprio del senso. Analogamente, quando affermi che ad una cosa se ne oppone in maniera assolutamente incompatibile un’altra 200, affermi una verità che è precisa secondo la via della ragione, ma che manca di precisione dal punto di vista dell’intelletto201. Allo stesso modo, anche quando affermi che altro è l’intendere dell’intelligenza altro il suo volere, e così via, dici qualcosa che è vero nel ambito dell’intelletto, ma non nell’ambito di Dio, dove l’intendere non è altro dal volere202. La precisione, pertanto, non viene raggiunta se non in quanto caratterizzata da un’alterità, come se della verità assoluta, che è Dio, ogni precisione partecipasse nell’alterità, così come ogni ente partecipa [nell’alterità] dell’entità assoluta 203. Ti prego di prestare attenzione alla radice profonda di tutte le ricerche scientifiche, ossia al fatto che tutto ciò che viene mostrato come preciso dalla via della ragione è tale per il fatto che è all’inter-
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ostenditur, ex eo tale est, quia de rationis caelo exsistit. Ita de sensu atque etiam intellectu. Nam cum ratio alteritas sit unitatis complicantis intelligentiae, non est intelligentia in ratione nisi in alterata participatione. Negat igitur ratio complicationem oppositorum et eorum inattingibilitatem affirmat, sicut sensus negat genericam multorum sensibilium unitatem rationalem. Visus enim nequit affirmare de natura sensibilium fore sonum aut dulce. Quapropter haec est radix omnium rationabilium assertionum, scilicet non esse oppositorum coincidentiam attingibilem. Hinc omnis numerus aut par aut impar, hinc ordo numeri, hinc progressio, hinc proportio. Hinc irrationalis est proportio diametri ad costam, quia paris et imparis coincidentiam esse oporteret. Hinc etiam diameter circuli ad circumferentiam improportionalis, quia ita differentium coincidentiam ratio non attingit. 77 Et ut brevissime multa dicam, nihil in mathematicis sciri poterit alia radice. Omne, quod demonstratur verum esse, ex eo est, quia, nisi foret, oppositorum coincidentia subinferretur, et hoc esset rationem exire. Sic omne id, quod ostenditur per rationem adipisci non posse, ex hoc est, quia eius scientia esset coincidentiae oppositorum illativa. Et quoniam in mathematicis istud relucet principium, rationabilissimae atque secundum rationem verissimae sunt eius ostensiones, in ipsisque ratio delectatur quasi in explicatione virtutis propriae, ubi se ipsam intuetur in alteritate intelligentiam participare. Hinc hae scientiae quibusdam absque doctore faciles sunt, qui habent rationem nec nimium in intelligentia absorptam nec in sensibilibus umbris contractam. 78 Et quoniam ipsa rationis alteritas est et sensus unitas, ipsam sensibiles alteritates complicare atque explicare manifestum est. Hinc discurrit a complicatione ad explicationem logice seu ratio-
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no del cielo della ragione. Lo stesso si può dire del senso e dell’intelletto. Infatti, poiché la ragione è l’alterità dell’unità complicante dell’intelligenza, l’intelligenza non è presente nella ragione se non attraverso una partecipazione caratterizzata dall’alterità. Per questo motivo, la ragione nega la complicazione degli opposti e afferma che essa è irraggiungibile, così come il senso nega l’unità razionale di molti enti sensibili nel genere. La vista, ad esempio, non è in grado di affermare che il suono o il dolce appartengono alla natura degli enti sensibili. Per questo motivo, la radice di tutti gli asserti razionali è questa, ossia che la coincidenza degli opposti non è raggiungibile. Di qui viene che ogni numero è o pari o dispari, di qui vengono l’ordine dei numeri, la serie numerica e la proporzione numerica. Di qui viene che il rapporto tra il diametro e il lato [di un quadrato] è un numero irrazionale, perché altrimenti comporterebbe la coincidenza del pari e del dispari204. Di qui viene anche che non vi è proporzione fra il diametro e la circonferenza del cerchio205, perché la ragione non giunge a cogliere la coincidenza di cose così differenti206. E per dire molte cose nella maniera più breve, in matematica non si può conoscere nulla a partire da un’altra radice, diversa da quella secondo la quale la coincidenza degli opposti non è raggiungibile. Tutto ciò che in matematica viene dimostrato come vero è vero perché, se non lo fosse, si avrebbe la coincidenza degli opposti, e questo significherebbe uscire dalla ragione. Allo stesso modo, tutto ciò che si dimostra come impossibile da essere raggiunto da parte della ragione è impossibile da raggiungere per il fatto che la sua conoscenza implicherebbe la coincidenza degli opposti. E poiché nella matematica risplende questo principio, le sue dimostrazioni appaiono come assolutamente ragionevoli e come le più vere secondo la ragione, la quale trae da esse un grande diletto, come se si trattasse dell’esplicazione del suo potere, e lì la ragione vede intuitivamente se stessa che partecipa dell’intelligenza nella alterità. Per questo motivo, ad alcune persone questo tipo di scienze risultano facili, anche senza la guida di un maestro, e queste sono le persone dotate di una ragione che non è né troppo assorbita dall’intelligenza, né troppo contratta nelle ombre dei sensi. Poiché la stessa alterità della ragione è anche l’unità dei sensi207, è evidente che la ragione complica ed esplica le alterità sensibili. La ragione, pertanto, nell’andare alla ricerca dell’identico nel-
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nabiliter inquirendo idem in diversitate. Idem enim est in conclusione syllogistica quod in praemissis, sed complicative in maiori, explicative in conclusione, medio quidem modo in minori. Hinc ubi conclusio est complicans, maior est explicans. In ratione igitur vis complicativa est, quia unitas sensibilium alteritatum, similiter et vis explicativa, quia alteritas intellectualis unitatis pariter et unitas sensibilium. Coincidentiam igitur complicationis et explicationis rationale caelum ambit. Quare illa rationalis complicatio explicatioque non sunt de his oppositis, quae solum in intellectuali unitate coincidunt. In divina enim complicatione omnia absque differentia coincidunt, in intellectuali contradictoria se compatiuntur, in rationali contraria, ut oppositae differentiae in genere. 79 Hinc adverte quomodo, dum numeras, in coincidentiam complicationis et explicationis ratio pergit; numerando enim unitatem explicas et pluralitatem in numeri alicuius unitatem complicas. Dum enim decem numerasti, notissimam complicantem unitatem denarie explicasti et pluralitatem ignotam in denariam unitatem complicasti. In ratione igitur oppositorum quaedam coincidentia est, quae in sensibilibus attingi nequit. Ad hanc autem contrariorum coincidentiam et rationis praecisionem cum sensus attingere nequeat, omnia sensibiliter, uti sunt, subsistunt. Quae si aliter essent, coincidentiam ipsam subinferrent. 80
CAPITULUM II
De eodem Attente incumbens praemissis fecundas habet coniecturas. Nam quando in explicatione rationalium adinventionum solum
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la diversità, passa discorsivamente dalla complicazione alla esplicazione, e lo fa o mediante un discorso logico o razionalmente. Ad esempio, ciò che si trova nella conclusione di un sillogismo è identico a ciò che è presente nelle premesse208, ma nella premessa maggiore si trova in forma complicata, nella conclusione in forma esplicata e nella premessa minore in forma intermedia. Se la conclusione, pertanto, ha carattere complicante, la premessa maggiore ha carattere esplicante. Nella ragione vi è quindi un potere di complicare, in quanto la ragione è l’unità delle alterità sensibili, e un potere di esplicare, in quanto essa è al tempo stesso l’alterità dell’unità dell’intelletto e l’unità dei sensibili. Il cielo della ragione, pertanto, abbraccia la coincidenza della complicazione e della esplicazione. Per questo motivo, la complicazione e l’esplicazione che sono proprie della ragione non riguardano quegli opposti che coincidono soltanto nell’unità dell’intelletto. Nella complicazione divina, infatti, tutte le cose coincidono senza differenza 209, nella complicazione intellettuale sono compatibili fra loro i contraddittori, nella complicazione razionale i contrari210, come nell’unità del genere sono fra loro compatibili differenze opposte211. Presta dunque attenzione al fatto che, quando numeri, la ragione tende alla coincidenza della complicazione e dell’esplicazione; numerando, infatti, esplichi l’unità e complichi la pluralità nell’unità di qualche numero. Ad esempio, quando hai contato dieci numeri, hai esplicato l’unità complicante del dieci, che è del tutto nota, e hai complicato nell’unità del dieci una pluralità che non è nota. Nella ragione, dunque, vi è una certa coincidenza degli opposti che non può essere raggiunta negli enti sensibili. Dal momento che i sensi non possono raggiungere questa coincidenza dei contrari e la precisione della ragione, tutte le cose sensibili sono tali quali sono. Se fossero in un altro modo, implicherebbero la coincidenza. CAPITOLO II
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Sullo stesso argomento Chi si dedica a considerare con attenzione quanto abbiamo detto ne trae alcune congetture feconde212. Ad esempio, quando scoprirà che la sola causa dell’esplicazione delle invenzioni della ra-
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causam rationem inveniet, dilatabit vires multiplicitatis eius in varia alteritate unitatis eius. Cum enim ratione apprehendis omnem triangulum habere tres angulos aequales duobus rectis et causam apprehensionis non aliam quam rationem ipsam aspexeris, ad profunditatem rationis viam habes. Hoc est enim a te ita capiendum. Ratio, quia ratio, ita iudicat, quia in rationali caelo ita esse necesse est. Nam triangulum non habere tres angulos duobus rectis prae cise aequales, si hoc verum est, vel est per coincidentiam unitatis et pluralitatis sive trinitatis et unitatis aut recti et non recti sive aliorum valde oppositorum, et tunc est locutio intellectualis mundi; aut quia non est dabilis rectus angulus praecise neque duo prae cise aequalia neque tria duobus aequalia, sic est locutio sensibilis mundi, qui cadit ab aequalitate rationali in alteritatem sensibilem. Unde ex hoc clarissime vides rationem in se ipsa rationabiliter vera complicare et non esse aliam apprehensionis causam nisi quia ratio et non intelligentia vel sensus. 81 Ita quidem dum dicitur omne quantum in semper divisibilia per partes dividi proportionales, ratio necessario admittit. Si enim verum non esset, coincidentiam contradictoriorum ratio admitteret, quod per rationem fieri posse impossibile iudicatur. Quapropter considera quod omnium rationabilium artium sola ratio se ipsa causa est, et omnium radicalem causam, quae per eam attinguntur, hanc solam esse conspicis. Si igitur a te quaeritur: cur omnium triangulorum duo latera simul iuncta tertio sunt maiora? aut: cur quadratum diametri quadrati est duplum ad quadratum costae? aut: cur quadratum lateris oppositi angulo recto est aequale duobus quadratis aliorum laterum? – et ita de omnibus – respondebis hoc esse eapropter rationis via necessarium, quia, si non, seque-
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gione è la ragione stessa, estenderà i poteri della sua molteplicità alle varie forme di alterità nelle quali l’unità della ragione si esplica. Ad esempio, quando apprendi, per mezzo della ragione, che ogni triangolo ha tre angoli uguali a due retti, e quando poi consideri che la causa del fatto che hai appreso questa conoscenza non è altro che la ragione stessa, allora hai accesso alla profondità della ragione. Questa conoscenza [di geometria] la devi infatti intendere in questo modo: la ragione giudica così perché è ragione, in quanto nel cielo razionale è necessario che sia così. Che un triangolo, infatti, non abbia tre angoli precisamente eguali a due retti 213, ciò, se è vero, dipende o dalla coincidenza dell’unità e della pluralità, ossia della trinità e dell’unità, o dalla coincidenza del retto e del non retto, o di altre caratteristiche completamente opposte, e il discorso allora appartiene al mondo dell’intelletto214; oppure dipende dal fatto che non può darsi un angolo che sia perfettamente retto, né due angoli che siano perfettamente eguali215 e neppure tre angoli che siano perfettamente eguali a due, e il discorso allora appartiene al mondo sensibile ed è un discorso che decade dall’eguaglianza propria della ragione nell’alterità propria dei sensi. Da ciò, pertanto, puoi vedere con estrema chiarezza che la ragione complica in se stessa quelle verità che sono conformi alla ragione e che non vi è altra causa della loro conoscenza se non il fatto che la ragione è ragione e non è intelligenza o senso. Allo stesso modo, quando si dice che tutto ciò che è dotato di quantità si divide in parti proporzionali che sono ulteriormente divisibili 216, la ragione lo ammette necessariamente. Se non fosse vero, infatti, la ragione ammetterebbe la coincidenza dei contraddittori, cosa che la ragione giudica impossibile. Considera, pertanto, che la sola ragione è, per se stessa, la causa di tutte le arti razionali, e allora vedrai che la causa ultima e fondamentale di tutto ciò che viene acquisito mediante la ragione è unicamente la ragione stessa. Se, pertanto, ti viene chiesto perché in tutti i triangoli la somma dei due lati è maggiore del terzo, o perché il quadrato costruito sul diametro di un quadrato è il doppio di un quadrato costruito sul lato, o perché il quadrato costruito sul lato opposto all’angolo retto è uguale alla somma di due quadrati costruiti sugli altri due lati, e così via, risponderai che per la ragione è neces-
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retur coincidentia contradictionis. Pariter, si diceretur: cur portio circuli ex chorda minori diametro et arcu est ad circulum improportionalis? respondebis quia alias contradictionis coincidentia sequeretur. Scire igitur ad hoc principium vitandae coincidentiae contradictionis omnia reducere est sufficientia omnium artium ratione investigabilium. 82 Temptavi ego aliquando affirmans diametri et circumferentiae circuli proportionem inattingibilem atque inadmissibilem propter iam dictam coincidentiam vitandam et statim quid geometrice affirmandum quidve negandum vidi. Nam in ipsis animorum conceptionibus atque in cunctis demonstrationibus Euclidis aut quorumcumque unicam hanc causam repperi in varietate figurarum. Quis non videt, si duo latera trianguli simul iuncta possent esse tertio aequalia, quod haec proportio attingeretur? Si enim omnis chorda minor est quam arcus, cui subtenditur, et chorda minoris arcus similior est arcui suo quam chorda maioris, manifestum est, si admitteretur duas chordas mediorum arcuum aequales fore chordae integri arcus, chordae et arcus coincidentiam subinferri. Pariformiter, si non omnis dabilis arcus per medium divisibilis foret, ad idem necessario deveniri oporteret. Sic igitur necessarium est omnis trianguli duo latera simul iuncta tertio maiora esse et omne quantum esse semper divisibile per proportionales partes, si coincidentia saepe dicta vitari debet. Ita de omnibus geometricis demonstrationibus facile comperieris. Temptabo hanc mathematicae radicem aliquando vita comite explicare, ut ipsam scientiam hac via ad sufficientiam quandam reducam. 83 Sic ergo, si harmoniae causas scrutaris, reperies alteritatem non aliter quam in unitate subsistere posse. Quoniam autem alteritas casus est ab unitate, harmonia est unitatis et alteritatis constrictio.
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sario che sia così, perché, altrimenti, ne seguirebbe la coincidenza dei contraddittori217. Allo stesso modo, se ti si chiedesse perché la porzione di cerchio, che risulta da una corda minore del diametro e dall’arco, non è proporzionale rispetto al cerchio, risponderai che è così, perché altrimenti ne seguirebbe la coincidenza dei contraddittori. Saper dunque ricondurre tutto a questo principio, al principio cioè per il quale dev’essere evitata la coincidenza dei contraddittori, è la condizione fondamentale per costituire tutte le arti che possono essere investigate con la ragione. Io stesso ho provato una volta a procedere in questo modo, affermando che la proporzione tra il diametro e la circonferenza del cerchio è irraggiungibile ed è inammissibile218, perché dev’essere evitata la coincidenza di cui abbiamo parlato, e subito ho visto che cosa si debba affermare e che cosa si debba negare in geometria. In tutte le nozioni comuni219 e in tutte le dimostrazioni di Euclide, infatti, o in quelle di qualunque altro, ho trovato che questa è l’unica causa presente nella varietà delle figure geometriche220. Chi non vede che, se la somma dei due lati di un triangolo potesse essere eguale al terzo, si raggiungerebbe la proporzione fra il diametro e la circonferenza del cerchio221? Se, infatti, ogni corda è minore dell’arco cui è sottesa, e la corda dell’arco minore è più simile al suo arco di quanto non lo sia la corda dell’arco maggiore, è evidente che, ammettendo che due corde di due archi intermedi siano uguali alla corda dell’intero arco, ne seguirebbe la coincidenza della corda e dell’arco222. Allo stesso modo, pertanto, se ogni corda che si può dare non fosse divisibile a metà, sarebbe necessario giungere alla stessa conclusione223. È necessario, pertanto, che in ogni triangolo la somma dei due lati sia maggiore del terzo e che ogni quantità sia sempre divisibile in parti proporzionali 224, se si deve evitare la coincidenza di cui si è parlato più volte. Scoprirai facilmente che lo stesso vale per tutte le dimostrazioni geometriche. Nel corso della mia vita, proverò un giorno a spiegare questa radice della matematica in modo da portare questa scienza, mediante un tale procedimento, ad una certa completezza225. Allo stesso modo, pertanto, se investigherai le cause dell’armonia, troverai che l’alterità non può sussistere che nell’unità. Ma poiché l’alterità è un decadere dall’unità, l’armonia è una congiunzio-
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Necesse est autem simplum unitatis per sui ipsius multiplicationem in duplum progredi. Simpli igitur et dupli constrictio per descensum simpli et ascensum dupli in unum necessario prima exstat harmonica constrictio; ita dupli et tripli secunda; et tripli et quadrupli tertia. Et quoniam unitas quaternario explicatur, hinc et omnis harmonia. In his igitur numeris 1, 2, 3, 4 atque eorum combinationibus omnis exstat harmonia. Causa igitur omnis harmoniae ex necessitate rationalis progressionis exsurgit. Cur autem semitonii praecisio rationem lateat, causa est, quoniam eam attingere nequit sine paris et imparis coincidentia. Vides sensibiles combinationes explicationes quasdam esse rationalis unitatis. Unde rationalis ipsa harmonica unitas dum in sensibilium combinatione propinque contrahitur, in ipsa ratio delectatur quasi in opificio proprio seu propinqua similitudine. Sed quia praecisio eius explicari nequit, unitas harmoniaca in varietate sensibilium varie explicatur, ut in variis varie explicetur, quae in nulla, uti est, praecise potest explicari. 84 Ita quidem rationalis discursus scientiae, quae dialectica dicitur, ad quandam ducitur rationis necessitatem. Dum enim complicativa unitas, quae est et universalitas, in alteritate explicatur, rationabiliter ex complicative noto explicative ignotum attingitur, alioquin intelligentia non esset in ratione rationabiliter, et unitas non esset in numero numeraliter seu in alteritate alterabiliter, et nihil omnium esset. Quapropter plura esse in uno genere generaliter et in una specie specialiter et in inferiori specie adhuc magis
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ne di unità e di alterità226. È necessario, tuttavia, che la singola unità, attraverso la sua moltiplicazione, giunga a duplicarsi. La congiunzione pertanto del singolo e del doppio, che avviene attraverso la discesa del singolo e l’ascesa del doppio all’uno, costituisce necessariamente il primo rapporto armonico; così, la congiunzione del doppio e del triplo il secondo, e la congiunzione del triplo e del quadruplo il terzo227. E poiché l’unità si esplica nei quattro numeri, la stessa cosa avviene anche per ogni armonia 228. Nei numeri 1, 2, 3, 4 e nelle loro combinazioni risiede, pertanto, ogni armonia. La causa di ogni armonia nasce, quindi, dalla necessità di questa progressione razionale. La causa invece per la quale alla ragione resta nascosta la precisione di un semitono229 risiede nel fatto che la ragione non è in grado di coglierla senza ammettere la coincidenza del pari e del dispari. Vedi che le combinazioni sensibili [o accordi] sono esplicazioni in qualche modo dell’unità razionale. Di conseguenza, quando questa unità armonica e razionale si contrae in una combinazione di elementi percepibile sensibilmente [di suoni], la ragione ne prova un diletto come se si trattasse di un suo prodotto o di una sua immagine a lei molto vicina. Poiché, tuttavia, l’unità armonica non può essere esplicata nella sua piena precisione, essa viene esplicata in modo vario in una varietà di elementi sensibili [di suoni], in maniera tale che quella unità armonica, che in nessun accordo sensibile può essere esplicata in maniera precisa per com’essa è, possa venire esplicata in modo vario in una varietà di accordi. Anche il discorso razionale della scienza, che si chiama dialettica, può essere ricondotto ad una certa necessità della ragione. Quando, infatti, l’unità complicatissima, che è anche l’universalità, viene esplicata nell’alterità, allora da ciò che è noto nella complicazione si giunge a cogliere, mediante un procedimento razionale, ciò che è ignoto nella esplicazione230. Se non fosse così, infatti, l’intelligenza non sarebbe presente nella ragione secondo il modo proprio della ragione, e l’unità non sarebbe presente nel numero secondo il modo proprio del numero, o nell’alterità secondo il modo proprio dell’alterità, e non esisterebbe nessuna di tutte le cose. Per questo motivo, secondo la via della ragione è necessario che una molteplicità di cose sia contenuta in un solo genere secondo il modo proprio del genere, in una sola specie secondo il modo proprio della spe-
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specialiter, et speciem esse in individuis individualiter et individua in specie universaliter necesse est rationis via. Ratio autem hanc unicam artem discursivam in quaternaria alteritate explicat. Quattuor enim dicit propositionum quantitates, quattuor modificationes, quattuor syllogisticas figuras, et ita de reliquis. Nec est aliud logica quam ars, in qua rationis vis explicatur. Naturaliter igitur ratione vigentes hac arte pollent. 85 Rhetor autem conceptum imprimere volens ratione utitur, ut audientium mentes immutet. Scit enim convenire receptioni, ut verbum ornetur convenienti proportione; atque, ut ratione animetur, quaternarium causarum facit atque in universorum circulum contrahit. Tres caelos respicit: in caelo supremo de causa secundum necessitatem iustitiae perorat, in secundo utilitatem desiderii sui ad ita deliberandum ostendit, in tertio infimo honestatem concurrere demonstrat; et ad hoc locos congruos invenit, ut clare et ordinatim a complicatione ad explicationem pergat. 86 Si tibi per ea coniecturarum ante dicta principia libuerit explicatiores tractatus componere, ad universorum figuram recurrito et ipsum maximum circulum rationem facito et artes rationales lucidissimas et clariores abstractioresque atque infimas magis adumbratas atque medias elicito. Si de mathematica inquiris, idem facito, ut aliam quandam intellectualem, aliam quasi sensibilem et mediam quasi rationalem constituas, ita de arithmetica, ita de geometria, ita de musica. Si de musica seorsum doctior esse volueris, fingito universorum circulum musicae rationem, et aliam quasi intellectualem abstractiorem musicam, aliam quasi sensibilem, aliam quasi rationalem intueberis. Miranda in his omnibus efficere pote-
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cie e in una specie inferiore secondo il modo ancora più specifico; ed è necessario che la specie sia presente negli individui secondo il modo proprio degli individui e che gli individui siano presenti nella specie secondo il modo proprio dell’universale. La ragione, tuttavia, esplica quest’unica arte discorsiva in un’alterità costituita da quattro momenti. La ragione parla infatti di quattro quantità delle proposizioni, di quattro modi, di quattro figure del sillogismo231 e così via. Inoltre, la logica non è altro che l’arte nella quale si esplica la forza della ragione. Per questo motivo, le persone che sono per natura dotate di forti capacità razionali eccellono in quest’arte. Anche il retore, infine, quando vuole imprimere un suo pensiero nella mente di coloro che lo ascoltano, si serve della ragione per modificare l’opinione degli ascoltatori. Sa, infatti, che, per potere essere recepito, un discorso dev’essere strutturato in modo idoneo e proporzionato, e per renderlo vivo mediante argomenti razionali si serve di quattro motivi e li contrae nel cerchio dell’universo [ossia nella figura U]. Egli guarda ai tre cieli: nel cielo supremo perora la sua causa secondo la necessità della giustizia, nel secondo mostra l’utilità del suo desiderio a deliberare in quel modo, e nel cielo più basso dimostra che anche l’onestà concorre al suo discorso232; e per fare questo, trova le forme retoriche adatte per procedere, in maniera chiara e ordinata, dalla complicazione all’esplicazione. Se, con l’ausilio dei principi dell’arte congetturale di cui abbiamo parlato, ti piacesse comporre dei trattati più dettagliati, ricorri alla figura dell’universo [alla figura U]; supponi che il cerchio massimo rappresenti la ragione e vedi di trarne quelle che sono le sue arti: le arti razionali, più limpide, chiare e astratte, le arti razionali, più basse e oscure, e le arti razionali intermedie. Se compi ricerche nel campo della matematica, fa’ la stessa cosa, in modo da costruire una matematica per così dire intellettuale, un’altra sensibile e una terza intermedia, razionale, e procedi così anche per quanto riguarda l’aritmetica, la geometria e la musica. Se volessi, in particolare, diventare più esperto di musica, immagina che il cerchio che rappresenta l’universo sia il principio razionale della musica, ed allora udrai una musica per così dire intellettuale più astratta, una musica per così dire sensibile e una musica per così dire razionale. In tutte queste discipline potrai ottenere risultati straordinari,
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ris, si in his sedula meditatione verseris. Ita quidem de logica sensibili, rationali et intellectuali, ita de rhetorica, ita de grammatica, si libet, agas. Mira quidem videbis, quoniam, etsi rationalis vis in omnibus artibus participetur, tamen si altiorem rationis partem applicueris arti rationali cuicumque, ipsa erit quasi intellectualis respectu eiusdem artis, quando inferiori rationis virtute animatur. Satis sit nunc ista sic tetigisse. Adiciam amplius alia quaedam generalia ex virtute artis nostrae proposito nostro congruentia. 87
CAPITULUM III
De differentia et concordantia Mens humana, rationis medio investigans, infinitum ab omni apprehensionis suae circulo eiciens, ait nullam rem dabilem ab alia quacumque per infinitum differre omnemque dabilem differentiam infinita minorem atque ipsam infinitam non plus differentiam quam concordantiam esse; sicque de ipsa concipit concordantia. Quodlibet igitur cum quolibet concordat atque differt, sed aequaliter praecise hoc impossibile est. Absoluta est enim haec praecisio ab universo. 88 Si igitur in sensibili mundo iuxta illius mundi naturam haec vera esse intelligis, patebit tibi omne sensibile cum quolibet universaliter quandam habere universalem concordantiam atque cum uno maiorem quam cum alio. Concordantiam autem unitatem concipito, differentiam vero alteritatem, et in ipsa P figura mutuam unius in aliam progressionem notato. Quanto igitur maior concordantia, tanto minor differentia, et e converso. Quaternaria autem concordantia in differentiam pergit. Et si has volueris progressiones
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se ti dedicherai a queste cose con un’assidua riflessione. Agisci allo stesso modo, se vuoi, a proposito della logica, distinguendo una logica sensibile, una razionale e una intellettuale, e anche a proposito della retorica e della grammatica. Vedrai cose straordinarie, perché, sebbene tutte le arti partecipino della facoltà della ragione, se in una qualsiasi arte razionale impiegherai la parte più elevata della ragione, allora quell’arte diventerà in qualche modo un’arte intellettuale, rispetto allo stato in cui essa si trova quando è animata dal potere più basso della ragione233. Quanto detto su questo argomento può essere per il momento sufficiente. Vorrei invece aggiungere ancora qualche altra considerazione generale, tratta dal potere della nostra arte e adatta al nostro scopo. CAPITOLO III
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Differenza e concordanza La mente umana, che, conducendo le sue ricerche per mezzo della ragione, allontana l’infinito dall’intera sfera della sua comprensione, afferma che non può esservi nessuna cosa che differisca da qualsiasi altra infinitamente, che qualsiasi differenza si possa dare è minore di una differenza infinita e che una differenza infinita non è più differenza che concordanza234; la mente pensa la stessa cosa della concordanza. Ogni cosa, pertanto, concorda e differisce da ogni altra235, ma è impossibile che vi siano concordanze e differenze precisamente uguali. Una tale precisione, infatti, è esclusa dall’universo236. Se pensi, pertanto, che queste cose siano vere nel mondo sensibile conformemente alla sua natura, sarà allora chiaro che ogni ente sensibile ha, in generale, una concordanza universale con ogni altro ente, una concordanza che è maggiore con un ente piuttosto che con un altro. Ora, concepisci la concordanza come l’unità e la differenza, invece, come l’alterità, e osserva come nella figura P vi sia una reciproca progressione dell’una nell’altra. Quanto maggiore sarà pertanto la concordanza, tanto minore sarà la differenza, e viceversa. La concordanza, tuttavia, procede verso la differenza attraverso quattro gradi. E se vorrai estendere questa serie fino
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usque ad cubum ternarii extendere, clarius distinctiones attinges. Omne igitur sensibile cum omni sensibili quandam habet universalissimam concordantiam et specialissimam differentiam. Atque inter haec duo quaedam mediant, quorum alterum ob sui generalitatem se trahit ad ipsum universale, alterum specialius se contrahit ad specialissimum. Quapropter unio omnium sensibilium universaliter est in quadam natura universali omnibus communi[s], unio alia non adeo universalis, sed generalis multis est, alia vero unio specialior est, ultima autem specialissima. Omne igitur sensibile, hoc aliquid singulariter exsistens, cum omni et nullo concordat, ab omni et nullo differt. 89 Atque ut haec coniectura tua in universorum intueatur figura, centrum circuli minimi cuiuscumque singulare aliquod fingito. Tale quidem, ut centrum est, ab omnibus differt; ut punctus est, intra ambitum universi, scilicet maioris circuli, contenti, cum universis intra ipsum orbem inclusis universalem habet convenientiam; generalem vero cum his, quae post hoc intra subsequentem maiorem clauduntur circulum; post haec autem specialiorem cum his, quos contractior includit; specialissimam vero cum his, quos contractissimus constringit circulus. Singularitas igitur omnia singularizat, specialitas specializat, generalitas generalizat, universalitas universalizat. Omnia enim universalia, generalia atque specialia in te Iuliano iulianizant, ut harmonia in luto lutinizat, in cithara citharizat, et ita de reliquis. Neque in alio hoc ut in te possibile est. Hoc autem, quod in te Iuliano est iulianizare, in hominibus cunctis est humanizare, in animalibus animalizare, et ita deinceps. Quod si ad discretiores concordantias pergere instituis, circulum contractissimum in universalem resolvito atque ita intueberis te universaliter cum universis convenire hominibus, generaliter vero cum his, quos quintum clima intercipit, specialius vero cum ad occasum declinantibus, specialissime autem cum Italicis. Adhuc hunc contrac-
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al cubo di tre237, coglierai le distinzioni in modo più chiaro. Ogni ente sensibile, pertanto, ha con ogni altro ente sensibile una qualche concordanza molto universale e una differenza molto specifica. Tra queste due vi sono due gradi intermedi, dei quali uno, per la sua generalità, si avvicina all’universale, l’altro, che è più specifico, si contrae in ciò che è del tutto specifico. Per questo motivo, l’unione di tutti gli enti sensibili, in senso universale, consiste in una certa natura universale comune a tutti gli enti238; un’altra unione non è così universale, bensì è generale ed è comune ad una molteplicità di enti, un’altra ancora è invece più specifica, mentre l’ultima è del tutto specifica239. Di conseguenza, ogni ente sensibile, che è un qualcosa di determinato nella sua singolarità, concorda con tutti gli altri enti e con nessuno, differisce da tutti e da nessuno. E per vedere questa tua congettura nella figura che rappresenta l’universo [la figura U], immagina che il singolare sia il centro di ciascuno dei cerchi più piccoli. In quanto centro, esso differisce da tutti gli altri centri; in quanto punto, che è all’interno dell’universo, ossia del cerchio più grande, esso ha una convenienza universale con tutti i punti inclusi all’interno dell’orbita dell’universo; ha una convenienza generica con quei punti che sono racchiusi nel cerchio più grande successivo al primo, ha una convenienza più specifica240 con quei punti che sono inclusi nel successivo cerchio più contratto, e ha invece una convenienza del tutto specifica con quei punti che sono racchiusi nel cerchio più contratto di tutti. La singolarità, dunque, rende singolari tutte le cose241, la specie le specifica, il genere le rende generali, l’universale le rende universali. Tutte le caratteristiche universali, generali e specifiche, in te, Giuliano, «giulianizzano», come l’armonia nel liuto «liutizza», nella cetra «cetrizza», e così via. E non è possibile che in un’altra persona siano come sono in te. Ciò che in te, Giuliano, è giulianizzare, in tutti uomini è umanizzare, negli animali è animalizzare, e così via. Se intendi poi giungere a concordanze più determinate, riconduci il cerchio più contratto a quello dell’universo242 e così vedrai che, in universale, convieni con tutti gli uomini, in generale con quelli che sono compresi nella quinta zona climatica243, in modo più specifico con gli abitanti dell’Occidente, in modo del tutto specifico con gli italiani. E riconduci a sua volta questo cerchio contrattissimo ad
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tissimum circulum in universalem resolvito et conspicies te universaliter cum Italicis convenire, generaliter cum Latinis, specialius cum Romanis, specialissime vero cum Caesarinis, unde ortum cepisti. Haec quidem omnia in singulis quibuscumque ex traditis principiis veriori coniectura per differentiae et concordantiae gradus attinges. Observato quod de sensibilibus in sensibili, rationalibus in rationali, intellectualibus in intellectuali datis regulis proportionaliter utaris. 90
CAPITULUM IV
De elementis Ex his et ante habitis satis atque manifeste concipis elementorum coniecturam. Si enim universorum universalis quaedam concordantia communem quandam omnibus primam universalissimamque dicit inesse naturam, hanc universaliter elementalem esse conicimus. Si vero in sensibili mundo omnia sensibilia in quadam communitate generalissima convenire natura ostensum est, eam elementum generale coniecturamur, atque ita de specialioribus atque specialissimis. Habito autem in omnibus, de quibus agendum est, debito respectu unitatem cuiuscumque regionis in continua alteritate eiusdem absorptam, ut non in se simpliciter subsistere queat propter parvitatem actus aut unitatis eius, elementum appello. Non est igitur elementatum in simplicia elementa resolubile, cum resolutio ad simplex pertingere nequeat careatque simplex ipsum elementum virtute actu subsistendi.
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un cerchio universale, e vedrai che in universale convieni con gli italiani, in generale con i latini, in modo più specifico con i romani, in modo del tutto specifico con quelli della famiglia dei Cesarini, da cui hai avuto origine. Sulla base dei principi che ti ho esposto, giungerai a cogliere questi aspetti in ogni singolo ente, qualunque esso sia, e lo farai con una congettura più vera, a seconda dei gradi di differenza e di concordanza. Bada di utilizzare le regole che ti ho dato244 in modo proporzionato ai rispettivi ambiti, in maniera sensibile per quanto riguarda gli enti sensibili, in maniera razionale per quanto riguarda gli enti razionali, in maniera intellettuale per quanto riguarda gli enti intellettuali. CAPITOLO IV
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Gli elementi A partire dalle considerazioni che abbiamo appena fatto e da quanto abbiamo detto in precedenza puoi formulare una congettura sufficientemente chiara a proposito degli elementi 245. Infatti, se quella certa qual concordanza universale di tutte le cose indica che in tutte le cose è insita una certa natura comune, prima e del tutto universale, allora possiamo congetturare che questa natura sia, in senso universale, quella degli elementi. Se, invece, si è dimostrato246 che, nel mondo sensibile, tutti i dati sensibili convengono in una qualche comunanza di natura del tutto generale, allora possiamo congetturare che tale natura sia un elemento generale, e lo stesso si dica per la comunanza più specifica e per quella del tutto specifica247. Ora, in tutte le regioni di cui trattiamo, ferma restando la rispettiva diversità di cui dobbiamo tener conto, io chiamo «elemento» quanto segue: l’unità di una regione, qualunque essa sia, che è assorbita nella continua alterità propria di quella regione, per cui, a causa della pochezza del suo atto o della sua unità, essa non può sussistere semplicemente in se stessa. Per questo motivo, ciò che è composto di elementi non è risolubile in elementi semplici, in quanto il procedimento di risoluzione non può giungere a ciò che è semplice248 e lo stesso elemento manca della forza per sussistere in atto.
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vero distinctionem ex ipsa generali discretiva figura elicito. Universitas enim elementorum est trina – quadrate, cubice. Alia enim sunt elementa magis intellectualia, alia magis rationalia, alia vero sensibilia. Ea enim, quae sensus primo iudicat elementa, ratio elementata convincit, atque illa, quae rationi videntur simplicia, intelligentia composita apprehendit. Refert igitur inter elementorum gradus quasi inter puncta, lineas atque superficies. Sensibilis hic mundus nihil superficiei simplicius attingit, rationalis vero simplicem lineam superficie anteponit, intellectualis autem indivisibilem punctum lineae praefert. Ita quidem alia videmus ut simplices litteras elementa, alia ut syllabas, alia ut dictiones, elementatum autem oratio est. Inter ipsas vero litteras differentias intuemur triniter distinctivas, ita et in syllabis et dictionibus. Quapropter attendito quomodo rationis iudicio omne sensibile dabile, quamvis unum alio ad elementi simplicitatem propinquius accedat, semper tamen elementatum permanet. Ita quidem intellectuali assertione ratio elementum purum non subintrat neque ipse intellectus simplicissimae divinitatis iudicio. 92 Quattuor autem prima fingit ratio elementa ad invicem circulariter resolubilia unibiliaque. Nam cum unitatis progressio in alteritatem quaternario subsistat, erit quaternarius unitatis descensus atque alteritatis reversio. Si enim elementa puncta quaedam concipimus ob irresolubilitatem in anteriora, facile ducemur, ut infallibili ascensione sciamus non posse ad solidi constitutionem trina sufficere elementa; ac quod post quaternarium combinatio cuiuslibet cum quolibet possibilis non est scimus ex eo, quod quaelibet, sive longa sive brevis fuerit, linea in semper divisibilem lineam secari atque ad punctum divisionem pertingere non posse ac eapropter non plura in una quam alia linea puncta potentia contineri. Im-
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La distinzione fra gli elementi la puoi ricavare dalla figura generale [la figura U] e dalle distinzioni che essa consente di fare. La totalità degli elementi, infatti, è triplice: secondo la radice di tre, secondo il quadrato di tre e secondo il cubo di tre249. Alcuni elementi sono più intellettuali, altri più razionali, altri invece sensibili. Quelle cose che i sensi, dapprima, giudicano come elementi, la ragione dimostra che sono composte di elementi, e quegli elementi che alla ragione appaiono semplici, l’intelletto li apprende come composti. Fra gli elementi, pertanto, vi è una gradazione analoga a quella che c’è fra i punti, le linee e le superfici. Questo mondo sensibile non arriva a niente di più semplice della superficie. Il mondo razionale, invece, prima della superficie pone come elemento semplice la linea, mentre il mondo intellettuale antepone alla linea il punto indivisibile250. Allo stesso modo, in alcuni casi consideriamo come elementi le semplici lettere, in altre le sillabe, in altri ancora le parole, mentre il composto è il discorso251. Ma anche fra le stesse lettere vediamo che vi sono distinzioni triplici252, così come fra le sillabe e le parole. Per questo motivo, tieni conto del fatto che, a giudizio della ragione, ogni cosa sensibile si possa dare resta sempre un composto di elementi, sebbene una si avvicini più di un’altra alla semplicità dell’elemento. Allo stesso modo, secondo quanto afferma l’intelletto, la ragione non giunge all’elemento puro, e secondo il giudizio della divinità assolutamente semplice non vi giunge neppure lo stesso intelletto. La ragione, tuttavia, si rappresenta quattro elementi primi 253 che possono unirsi e risolversi fra loro in modo circolare. Poiché la progressione dell’unità nell’alterità consiste in quattro momenti, consisterà in quattro momenti anche la discesa dell’unità e il ritorno dell’alterità. Se, infatti, concepiamo gli elementi in qualche modo come punti, in virtù del fatto che non possono essere risolti in qualcosa di anteriore, saremo condotti facilmente a sapere, in un’ascesa irrefutabile, che tre elementi non possono essere sufficienti per costruire un solido254; che, poi, al di là del quattro, non sia possibile la combinazione di ciascun elemento con qualsiasi altro, lo sappiamo dal fatto che qualsiasi linea, sia lunga che breve, si divide in una linea che, a sua volta, è ulteriormente divisibile e che la divisione non può giungere al punto255, e che, per questo motivo, in una linea non vi sono, in potenza, più punti di quanti non ve
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possibile igitur erit punctum a linea disiungi, cum nec lineae pars sit nec subsistentiae unitatem contineat; nec eadem poterit ratione linea simplex a superficie seorsum constitui neque etiam superficies a corpore evelli. Horum enim neutrum absque puncti segregatione a linea contingere posset. Inter duo autem puncta lineam cadere manifestum est. Duo igitur puncta linea continuantur in invicem, tria autem puncta superficie simpliciori, quae tribus clauditur lineis, quattuor vero puncta corpore in invicem mutua constrictione firmantur. Nec potest in quinario haec haberi conexio, ut quilibet punctus in quolibet innectatur, ut in omnibus poteris figuris experiri. Cum igitur prima superficies tribus indigeat punctis, quae in se tamen subsistere nequit, sufficiantque quattuor puncta quattuor superficiebus ad primam corporis soliditatem necessariis, convincitur quattuor elementa ad perfecti compositionem necessaria. Omne enim quaternarium punctorum egrediens non primum corpus solidum, sed ex primis compositum esse constat, sicuti quadrangularis superficies quattuor punctis indigens in triangulares resolubilis est. Ipsa autem triangularis prima, in aliam priorem inconducibilis, principium est multiangularium figurarum. 93 Ex quattuor igitur elementis non plures sex lineis elicies neque ex his plures quattuor superficiebus, uti haec omnia in pyramide triangulari oculariter dum voles intueberis, quae quattuor puncta, sex lineas quattuorque triangulares continet superficies. Quattuor sunt igitur prima elementa, ex quibus sex atque his mediantibus quattuor. Et haec omnia ad perfecti aut solidi actualiter subsistentis compositionem necessario concurrere conspicis, quemadmodum pyramis ipsa, quae prima est solidorum figura, patefacit. Quattuor primorum elementorum in elementatum primum progressio imperfectissimum tale eius regionis ens constituit, ut eius unitas in fluxibili atque continua mutabilitate versetur.
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ne siano in un’altra. Sarà pertanto impossibile disgiungere il punto dalla linea, in quanto il punto non è né una parte della linea, né contiene in sé l’unità che gli consente di sussistere256; per la stessa ragione, neppure la linea semplice può sussistere separatamente dalla superficie, né la superficie può essere svincolata dal corpo. Nessuna di queste due cose, infatti, potrebbe avvenire senza la separazione del punto dalla linea. Ora, è evidente che una linea passa fra due punti. Due punti, pertanto, sono congiunti fra loro da una linea, tre punti dalla superficie più semplice, quella, cioè, che è delimitata da tre linee257, quattro punti sono fissati l’uno all’altro in un legame reciproco da un corpo. Una connessione come questa, per la quale ogni punto è congiunto ad ogni altro, non può verificarsi con il cinque [con cinque punti], come potrai constatare in tutte le figure geometriche. Pertanto, poiché la prima fra le superfici ha bisogno di tre punti e tuttavia non può sussistere in se stessa, e poiché sono sufficienti quattro punti per formare le quattro superfici necessarie al primo fra i corpi solidi, risulta dimostrato che quattro sono gli elementi necessari a comporre qualcosa di compiuto. È evidente, infatti, che tutto ciò che oltrepassa i quattro punti non è il primo corpo solido, ma è un composto formato dei primi corpi solidi258, così come una superficie quadrangolare, che ha bisogno di quattro punti, è risolubile a superfici triangolari. La superficie triangolare, invece, che è prima e che non è riducibile a un’altra che la preceda, è principio delle figure poligonali. Dai quattro elementi, pertanto, non puoi trarre più di sei linee e da queste ultime non puoi trarre più di quattro superfici; tutto ciò, se vuoi, lo puoi vedere ad occhio nella piramide formata da quattro superfici triangolari, la quale contiene quattro punti, sei linee e quattro superfici triangolari. Quattro sono, dunque, gli elementi primi, dai quali derivano sei composti e, mediante questi, altri quattro. E vedi che tutto questo concorre necessariamente alla composizione di un corpo compiuto, ovvero il solido, che sussiste in atto, come dimostra la piramide stessa, che è la prima figura fra i solidi. La serie dei primi quattro elementi, che concorre alla formazione del primo composto, costituisce quello che, nella propria regione, è l’ente più imperfetto, a tal punto che la sua unità si trova in una condizione di incessante e continua mutabilità.
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autem elementa ipsa prima combinabilia ad invicem exsistere necesse est, ut eapropter ipsa inaequalia atque diversa esse alio uniuntur. Quodlibet igitur elementorum tria in se alia, quasi conus trigonae pyramis, poterit complicare, ut unitas unius elementorum aliorum sit actualitas atque sic cuiusque elementi proprium exsurgat elementatum. Quattuor igitur prima sunt elementata. In simpliciori enim, lucidiori atque unitiori elemento tria cetera constricta in sensibili regione ignis nomen habent, in grossiori vero atque tenebrosiori elemento cetera contracta terrae vocabulum tenent, in medio ad luciditatem accedenti aëris, in inferiori densiori aquae appellationem sortiuntur. Sunt autem haec, quae vulgo elementa dicuntur, haec quattuor primo elementata generalissima, specialiores intra se combinationes complicantia.
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CAPITULUM V
Quomodo elementum in elementato Ad hoc autem, ut in coniectura iuveris quomodo elementum in elementato exsistat, ad primam conspice figuram. Nam si universum ignem aut aërem, aquam aut terram maiorem circulum fingis, intueberis quomodo in eo aliorum trium elementorum circuli continentur ac etiam quomodo in aëre ipsius ignis alia tria insunt elementa, atque ita deinceps. Nec hic processus quaternarium exit. De universali igitur in speciale quaternario progressu devenitur. Unum igitur elementum universaliter in se tria, tria vero generaliter in se novem, novem autem specialiter in se viginti septem complicant. Ternarii igitur cubus explicatio est specialis unitatis cuiusque elementi. Species vero specialia sua ita complicat elementa, sicut specialis ipsa Latina lingua sua habet
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I primi elementi, tuttavia, devono necessariamente essere combinabili gli uni con gli altri, e per questo motivo essi sono, com’è evidente, diseguali e diversi fra loro; di conseguenza, quando uno degli elementi unisce gli altri sorge una cosa, mentre quando essi sono uniti in un altro elemento sorge una cosa diversa. Ciascun elemento, pertanto, potrà complicare in sé gli altri tre, come se fosse il vertice di una piramide triangolare, in modo tale che l’unità di uno degli elementi sia l’attualità degli altri e sorga così un composto proprio per ciascun elemento. Quattro, dunque, sono i primi composti. Quando tre elementi sono congiunti insieme in quello più semplice, più luminoso e più vicino all’unità, danno luogo al composto che, nella regione sensibile, si chiama «fuoco»; quando risultano contratti nell’elemento più denso e oscuro danno luogo al composto che si chiama «terra», e quando sono uniti all’elemento intermedio che si avvicina alla luce danno luogo al composto che si chiama «aria», mentre uniti all’elemento più basso e più denso danno luogo al composto che si chiama «acqua». Questi [composti] sono ciò che comunemente si chiamano elementi, e sono i primi quattro composti più generali, che complicano in se stessi combinazioni più specifiche. CAPITOLO V
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Come l’elemento è presente nel composto Per aiutarti a comprendere con una congettura come l’elemento sia presente nel composto, guarda alla prima figura259. Se immagini, infatti, che la totalità del fuoco o dell’aria, dell’acqua o della terra, sia come il cerchio più grande, vedrai in che modo in essa sono contenuti i cerchi degli altri elementi ed anche come nell’aria di questo fuoco siano presenti gli altri tre elementi, e così di seguito. Questo processo non va oltre il quattro. Dall’universale si giunge pertanto al particolare attraverso una serie di quattro momenti. Un elemento, quindi, complica gli altri tre in maniera universale, tre ne complicano in stessi nove in maniera generale, nove ne complicano in se stessi ventisette in maniera specifica260. Il cubo del tre, pertanto, è l’esplicazione delle unità specifiche di ciascun elemento. La specie, tuttavia, complica in sé i propri elementi specifici, così come la specie costituita dalla lingua latina possiede i propri
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specialia litterarum elementa. Unde uti oratio Latina est de universalissimis quibusdam litteris, generalibus, specialioribus atque ultimo specialissimis Latine contractis, quae, quamvis paucae sint, inevacuabilis tamen potentiae exsistunt, ita quidem omne hoc sensibile quasi oratio perfecta se habet. 96 Inevacuabilis igitur atque inexplicabilis est omnis speciei individualis explicatio. Ambit enim potentia virtutis unitatis eius numerum nullo umquam tempore finibilem, uti unitas Latinae linguae numerum indicibilium sermonum. Infinitatem enim cum unitate coincidere audisti. Quare ipsa individuorum infinitas est specifica unitas. Omne ergo, quod infinito minus est, et eius est virtute minus. Nullus igitur numerus tantus esse potest, quanta virtus specificae unitatis. Ascendit igitur elementorum universalitas in specialissima, uti punctus in corpus per medium lineae et superficiei seu litterae in orationem per medium syllabarum et dictionum, sicut potentia in actum, descenditque ipsum specialissime elementatum in universalissima elementa, sine quibus subsistere non potest, ut actus in potentiam. Est enim individuum quasi finis fluxus elementorum atque initium refluxus eorum, generalissimum vero quasi initium fluxus eorum finisque refluxus. Contrahit autem ipsa virtus specialissima generalitatem elementorum infra ambitum suae regionis atque semel contracta effluere facit, ut in generalitatem redeant. Hac similitudine mare ipsum universalis dicitur mater fluviorum; per meatus enim generales demum in fonte specialissime contrahitur, ubi rivus nascitur, ac deinde ad mare rivus ipse revertitur. Ita de universalibus elementis quasi de mari et specialissimis quasi de fonte quadam similitudine imaginandum. 97 Satis autem manifestum tibi est nullam scientiam attingere prae cisam elementorum compositionem, cum impossibile sit duo ae-
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elementi specifici che sono le sue lettere. Di conseguenza, come un discorso in latino è composto da alcune lettere del tutto universali, da lettere generali, da lettere più specifiche e, infine, da lettere del tutto specifiche261 contratte alla maniera latina, le quali, benché poche, sono tuttavia dotate di una potenzialità inesauribile, così ogni ente sensibile si comporta come se fosse un discorso in sé compiuto. L’esplicazione di ogni specie nell’individuo è pertanto inesauribile e interminabile262. La potenza che è propria della forza dell’unità della specie abbraccia infatti un numero di individui che nessun tempo può racchiudere, così come l’unità della lingua latina abbraccia un numero indicibile di discorsi. Hai sentito, infatti, che l’infinità coincide con l’unità 263. Pertanto, la stessa infinità degli individui costituisce l’unità della specie. Tutto ciò che è minore dell’infinito è minore anche della sua forza. Di conseguenza, nessun numero può essere tanto grande quanto la forza dell’unità della specie. L’universalità degli elementi, dunque, ascende a ciò che è del tutto specifico, come il punto ascende al corpo per mezzo della linea e della superficie, come le lettere ascendono al discorso per mezzo delle sillabe e delle parole264, e come la potenza ascende all’atto, mentre ciò che è composto in modo del tutto specifico discende negli elementi più universali, senza i quali non può sussistere, come l’atto discende nella potenza. L’individuo, infatti, è come la fine del fluire degli elementi e l’inizio del loro rifluire, mentre ciò che è del tutto generale è come l’inizio del loro fluire265 e la fine del loro rifluire. La forza del tutto specifica contrae la generalità degli elementi nell’ambito della propria regione, e, una volta contratti, fa sì che fluiscano in modo tale che ritornino nella generalità. Conformemente a questa similitudine, il mare viene chiamato la madre universale dei fiumi; attraverso il corso generale dei fiumi, infatti, il mare alla fine viene contratto in modo assolutamente specifico in una fonte, ove nasce un ruscello, che poi ritorna al mare. Allo stesso modo, ci si deve immaginare, con una similitudine, che gli elementi universali siano come il mare e che gli elementi del tutto specifici siano come la fonte. Ti risulta ora abbastanza chiaro che nessun tipo di conoscenza può giungere a cogliere la precisa composizione degli elementi, dal momento che è impossibile che due cose partecipino in maniera
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que elementorum participare naturam. Nec est proportio differentiae unius et alterius quovis modo scibilis. Quapropter cum scientia punctum non attingat, scientia graduum elementorum cum ignorantia currit, ut in confusiori atque generaliori scientia minor sit ignorantia, in singulariori vero praesumptione maior defectus. Ita vides scientiam medicinalem coniecturam evadere non posse, sicut nec omnem aliam mensuris incumbentem. 98
CAPITULUM VI
Explanatio Oportet antea saepius repetita non negligere, ut intellectualiter verum apprehendas. Nam unitatem imparticipabilem pariter et participabilem intelligito et dictorum capacitatem subintrabis. Unitas enim in sua praecisa simplicitate imparticipabilis est. Quoniam vero multitudo sine ipsius participatione non est, non quidem uti est, sed in alteritate participabilis est. Quapropter ipsa ratio unitatis participabilitatem in alteritate intuetur. Dum autem unitas in alteritatem progreditur, quaternario quiescit. Quaternarius igitur est participabilis unitas. Omne itaque unitatem participans ipsam in quaternario participare necesse est. Non est igitur unitas corporalis aliter quam in alteritate quaternaria participabilis, nec unitas exemplaris aliter quam in alteritate exemplari quaternaria, nec unitas coloris aliter quam in alteritate quaternaria. Ita de unitate veritatis, quae in quaternaria alteritate eius, quae similitudo seu explicatio dici potest, est tantum participabilis. Actualitas est unitas in alteritate tantum participabilis. Non igitur participatur actualitas nisi in potentia, quoniam ipsa eius est alteritas. Divinitas actualitas est absoluta, quae participatur in supremis creaturis in suprema potentia, quae est intelligere, in mediis media, quae
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uguale della natura degli elementi. Non è neppure possibile conoscere in alcun modo la differenza proporzionale fra un elemento e un altro267. Per questo motivo, dal momento che la conoscenza non giunge a cogliere il punto [geometrico], la conoscenza della graduazione degli elementi267 è accompagnata sempre dall’ignoranza, in modo tale che nel sapere più confuso e più generale l’ignoranza è minore, mentre nel sapere che presume di conoscere ciò che è più singolare le deficienze sono maggiori268. Vedi, allora, che la scienza medica non può sfuggire al carattere congetturale, così come ogni altra forma di conoscenza che si basa sulle misure. CAPITOLO VI
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Chiarimenti Perché tu possa cogliere il vero secondo il modo proprio dell’intelletto, è necessario che non trascuri quanto in precedenza ho ripetuto più volte269. Devi infatti intendere l’unità come impartecipabile e partecipabile al tempo stesso270, ed allora inizierai a comprendere la portata delle cose che ho detto. L’unità è in effetti impartecipabile nella sua precisa semplicità. Poiché, però, la molteplicità non esiste se non partecipa dell’unità271, essa è partecipabile, non per com’è in sé, bensì nell’alterità. Per questo motivo, la stessa ragione coglie la partecipabilità dell’unità nell’alterità. In questo suo procedere nell’alterità, l’unità, tuttavia, si ferma al quattro272. Il quattro, pertanto, costituisce l’unità di cui si può partecipare. È necessario, quindi, che tutto ciò che partecipa dell’unità vi partecipi nel quattro. L’unità del corpo, pertanto, non è partecipabile se non in una quadruplice alterità, l’unità dell’esemplare non è partecipabile se non in una quadruplice alterità dell’esemplare, e l’unità del colore non è anch’essa partecipabile se non in una quadruplice alterità. Lo stesso vale per l’unità della verità, la quale è partecipabile soltanto in quella sua quadruplice alterità che può essere definita similitudine o esplicazione. L’atto è un’unità partecipabile soltanto nell’alterità. Dell’atto, pertanto, non si partecipa che nella potenza [potenzialità], dal momento che quest’ultima è la sua alterità. La divinità è l’atto assoluto273, di cui le creature più elevate partecipano nella potenza più elevata, che è l’intendere, le creature interme-
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est vivere, in infimis infima, quae est esse. Nec unitas soni aut saporis aut odoris aut sensibilis cuiuscumque est aliter quam quaterne modo in prima parte explicato participabilis. Igitur explicatio unitatis in quaternariam resolvitur. 99 Et hinc quattuor omnium unitatum, quae participantur, elementa coniecturamur, quae in quolibet participante differenter reperiuntur. Omne enim dabile coloris unitatem participans ipsam in quaternaria alteritate participat. Ita de sapore, odore atque aliis omnibus. Non est igitur dabilis color nisi in alteritate quaterna. Quoniam autem non est in simplici unitate color dabilis, est omnis dabilis color quaterne a simplici egrediens. Ita quidem de elementis omnibus, quoniam nec complexio simplex nec quidquam omnium in simplicitate sua participabile est. 100 Unitas autem praecisio quaedam est, quae non est nisi in alteritate participabilis. Unde praecisio visus incommunicabilis est absque alteritate. Certitudo igitur, quae in visu est, nullo modo sine alteritate participabilis est. Neque igitur per figuram aut auditum aut sensum alium ipsa simplicitas certitudinis, uti in visu est, participabilis est. Caeco enim praecisio coloris per visum percepta nullo sermone communicari potest. Sic nec visio urbis Romanae aut formae cuiuscumque ei, qui non vidit, in sua praecisione communicabilis est. 101 Vides verum aliter quam in alteritate imparticipabile. Unum igitur verum nomen cuiusque imparticipabile atque, uti est, ineffabile esse necesse est. Effabilia igitur nomina in alteritate verum ipsum tantum intellectuale nomen in ratione participant seu causa, quia ratio ipsa intellectualis unitatis alteritas est. Secundum aliquam igitur causam rationemve homo hominem significat, puta materia-
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die nella potenza intermedia, che è il vivere, le creature più basse nella potenza più bassa, che è l’essere274. E anche l’unità del suono, del sapore, dell’odore o di qualunque altra cosa percepibile sensibilmente non è partecipabile se non in quattro momenti, come abbiamo spiegato nella prima parte275. Pertanto, l’esplicazione dell’unità si risolve in quattro gradi. Di conseguenza, possiamo congetturare che, in tutte le unità di cui si partecipa, vi sono quattro elementi, i quali si trovano in maniera diversa in ogni cosa che partecipa di tali unità. Ogni cosa che partecipa dell’unità del colore, infatti, ne partecipa in una quadruplice alterità276. Lo stesso vale per il sapore, per l’odore e per tutte le altre qualità percepibili sensibilmente. Non può darsi pertanto alcun colore se non in una quadruplice alterità. Dal momento che, tuttavia, il colore non può darsi nella sua semplice unità, ogni colore ci può essere dato solo se esce dalla sua semplice unità attraverso quattro gradi. Lo stesso vale per tutti gli elementi, in quanto essi non possono parteciparsi nella loro complessione semplice277, né è possibile che qualcuno di essi si partecipi nella sua semplicità. Ora, l’unità è una certa precisione di cui non si può partecipare se non nell’alterità. Di conseguenza, la precisione della vista è incomunicabile senza alterità. Pertanto, la certezza che è propria della vista non è partecipabile in alcun modo senza alterità. E la semplicità della certezza, quale è presente nella vista, non è partecipabile né mediante una figura, né mediante l’udito, né mediante un altro senso. Ad un cieco, ad esempio, non è possibile comunicare con nessun tipo di discorso quella precisione del colore che viene percepita dalla vista278. Allo stesso modo, non è possibile comunicare con precisione la vista della città di Roma, o di qualsiasi altra forma, ad uno che non l’abbia vista. Vedi allora che il vero non è partecipabile che nell’alterità. L’unico vero nome di ogni cosa è pertanto necessariamente impartecipabile ed è indicibile così com’è in se stesso279. I nomi che noi possiamo pronunciare partecipano di questo vero nome intellettuale nell’alterità, ossia mediante la ragione o causa, in quanto la ragione è essa stessa l’alterità dell’unità intellettuale. La parola «uomo» designa l’uomo in base ad una certa causa o ragione, ad esempio in base ad una causa materiale, perché l’uomo deriva dalla terra280; in questa causa,
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lem, quia ab humo; sed in hac ipsa causa tres alias causas elementales pro constitutione quaternarii suo quidem modo inesse necesse est, quamvis ista eminere videatur. Satis enim ex te ipso conspicis non sufficere rationem eam, quia ab humo est, hinc homo est. In quaterna igitur alteritate unitatis participatio ortum capit. 102 Omnem autem unitatem ita participabilem citra infinitum et supra dabilem numerum participari posse constat. Unitas enim faciei tuae, Iuliane, in alteritate similitudinis participabilis est supra omnem dabilem numerum, citra quidem infinitum. Non enim est dabilis oculorum numerus, quin in alteritate similitudinis ipsam possent participare, licet ad infinitum prohibeatur progressio. Ita de unitate vocis, quam vides in innumerabilibus auribus participari; ac ita quidem de omnibus. Venamur igitur ex multitudine participantium quamcumque unitatem eiusdem quaternariae alteritatis generalem elementationem. Quoniam multa unum differenter participare scimus, ipsam differentiam a quaternitate proficisci conspicimus. Omnia igitur colorata differre necesse est in colore; sed differentiae ad quattuor elementales resolvuntur colores, quos quisque color varie participat. Ita de sensibilibus cunctis atque omnibus naturalibus artificialibusque. Unitatis enim grammaticae artis participatio sine elementalibus alteritatibus fieri nequit. Omnis enim grammaticalis oratio unitatem artis in elementis participat. Habet igitur omnis ars sua elementa. Varietas etiam multitudinis artium nos admonet omnium artium quaternariam elementalem participationem investigare. Ita quidem varietas multitudinis sensibilium, rationabilium atque intelligibilium sensibilis naturae, rationalis atque intellectualis elementa esse quattuor manife-
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tuttavia, è necessario che siano presenti, secondo il modo che è loro proprio, anche le altre tre cause elementari281, in maniera tale da costituire la quadruplicità che è propria dell’uomo, sebbene la causa materiale sembri avere qui [nel caso della parola «uomo»] la preminenza. Vedi bene da te stesso che, per spiegare la ragione per la quale vi è un uomo, non basta dire che l’uomo viene dalla terra. La partecipazione all’unità, pertanto, ha inizio in una quadruplice alterità. È evidente che di ogni unità, che sia partecipatele nel modo in cui abbiamo detto, si può partecipare in una misura che sta al di sotto dell’infinito e al di sopra di ogni numero si possa dare. Ad esempio l’unità del tuo volto, Giuliano, è partecipabile nell’alterità della somiglianza per un numero di volte che è al di là di ogni numero si possa dare, ma è al di sotto dell’infinito. Il numero di occhi che possono partecipare del volto nell’alterità della somiglianza non è infatti determinabile, sebbene non sia possibile procedere all’infinito [ossia non possa esservi una serie infinita in atto]. Lo stesso vale per l’unità della tua voce, della quale vedi che partecipano innumerevoli orecchie, e per tutte le altre cose282. Pertanto, partendo dalla molteplicità di cose che partecipano di una certa unità, noi possiamo scovare la composizione generale degli elementi di tale unità nella sua quadruplice alterità. Poiché sappiamo che i molti partecipano dell’uno in maniera differente, possiamo vedere che tale differenza ha origine dalla quadruplicità. È necessario, pertanto, che tutte le cose colorate differiscano nel colore; le differenze, tuttavia, si riducono ai quattro colori fondamentali283, di cui ciascun colore partecipa in modo rispettivamente diverso. Lo stesso vale per tutte le cose sensibili, per tutte le cose naturali e per tutte quelle che appartengono ad un’arte. Ad esempio, la partecipazione all’unità dell’arte grammaticale non può avvenire senza l’alterità degli elementi. Ogni discorso che sia conforme alla grammatica, infatti, partecipa dell’unità dell’arte grammaticale attraverso i suoi elementi. Ogni arte, pertanto, ha i suoi elementi. Inoltre, la molteplicità e la varietà delle arti ci spinge ad indagare la partecipazione di tutte le arti ai quattro elementi. Allo stesso modo, la molteplicità e la varietà delle realtà sensibili, degli enti razionali e degli enti intelligibili ci mostra che vi sono quattro elementi di natura sensibile, quattro di natura razionale e quattro di natura intellettuale. Que-
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stat. Haec quidem cum his, quae praemissa sunt, generalitati artis coniecturalis quoad elementorum radicem sufficiant. 103 Dum autem ad particularitatem elementorum intrare proposueris, regulis utaris proportionabilibus ad regiones. Nam uti in sensibili mundo sensibilia elementa, ignem, aërem, aquam, terram esse coniecturaris, ita in rationali natura elementa concipito rationabilia, ut sit ratio quasi ignea, aërea, aquea et terrea, et quod omnis ratio unitatem rationis in his participet rationabilibus elementis. Ita quidem de regione intellectuali de elementis intellectualibus symbolice concipito. Atque ut tibi coniecturas efficere queas, elementa quasi quattuor unitates fingito, ut 1, 10, 100, 1000, unitates enim elementorum ipsius unius differre necesse est. Quomodo autem ipsum unum quaterna unitate participetur, in prioribus satis dictum est; participatur namque ipsa quasi in simplicitate simplicis unitatis et denariae et centenariae atque millenariae ab omnibus elementatis varie differenter, ut sic eorum quasi medio participabile simplex participetur. Vides nunc ex similitudine unitatum subtile et grossum atque duo media elementa in sensibili mundo sensibiliter, in rationali rationabiliter, in intellectuali intellectibiliter coniecturanda. 104 Assis hic totus, Iuliane, nam unitas ipsa absoluta, quae est et veritas superineffabilis, uti est, imparticipabilis remanet. Intelligentiae autem esse est intelligere, hoc est quidem veritatem participare. Non est autem ipsa, uti est, participabilis, sed remanet aeterna ipsa atque absolutissima infinitas, nec est in alteritate nostrae rationis participabilis, cum ratio nostra sit intelligentiae alteritas. In alteritate igitur intellectuali ipsam participamus super
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ste cose, unitamente a quanto abbiamo detto in precedenza, possono essere sufficienti per quanto riguarda l’arte generale delle congetture relativamente alla radice degli elementi. Quando vorrai tuttavia indagare in maniera più particolareggiata la specificità degli elementi, cerca di usare regole che siano corrispondenti alle diverse regioni284. Ad esempio, come congetturi che nel mondo sensibile vi sono elementi sensibili, quali il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra, così a proposito della natura razionale devi concepire la presenza in essa di elementi razionali, in modo tale che vi sia una ragione, per così dire, ignea, una aerea, una acquea e una terrea; e devi inoltre pensare che ogni regione partecipa dell’unità della ragione mediante questi elementi razionali. Anche per quanto riguarda la regione dell’intelletto, devi concepire, in maniera simbolica, la presenza in essa di elementi intellettuali. E per formulare le tue congetture, immagina che gli elementi siano come le quattro unità, vale a dire 1, 10, 100, 1000; le unità degli elementi dell’uno devono infatti necessariamente differenziarsi. In precedenza285, invece, abbiamo già detto in maniera esaustiva come l’uno stesso si partecipi attraverso una quadruplice unità; esso, infatti, si partecipa a tutti i composti in modo vario e differente, e si partecipa, per così dire, [1] nella semplicità dell’unità semplice, [2] nella semplicità dell’unità del dieci, poi [3] dell’unità del cento, e infine [4] dell’unità del mille, come se il semplice diventasse in tal modo partecipabile mediante i composti. Vedi allora che, a similitudine delle quattro unità, si devono congetturare quattro elementi, uno sottile, uno grosso e due intermedi 286, elementi che sono presenti in modo sensibile nel mondo dei sensi, in modo razionale nel mondo della ragione e in modo intelligibile nel mondo dell’intelletto. Presta adesso la massima attenzione, Giuliano; l’unità assoluta, infatti, che è anche la verità del tutto ineffabile, resta impartecipabile per come essa è. Ora, l’essere dell’intelligenza consiste nell’intendere, vale a dire nel partecipare della verità. La verità, tuttavia, non è partecipabile per com’è in sé, ma rimane in se stessa, nella sua infinità eterna e del tutto assoluta; essa, d’altra parte, non è partecipabile neppure nell’alterità della nostra ragione, in quanto la nostra ragione è l’alterità dell’intelligenza. Pertanto, noi partecipiamo della verità non per com’è in se stessa, ma nell’alterità dell’in-
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omnem rationem. Spirituales igitur intelligentiae quodam ineffabili modo veritatem ipsam absolutam in alteritate intellectuali mediante intellectualibus quaternis elementis varie differenter participant, sicut intelligentiae illius ita participantis unitas in varietate rationum mediantibus rationabilibus elementis participatur, atque ipsa unitas rationis in alteritate sensibilium sensibilibus elementis mediantibus varie participatur, ut ratio trigoni in variis sensibilibus triangulis. 105 Et quoniam participantia unitatem in alteritate ipsam varie participare necesse est, ita quidem quod alia ipsam unitatem perfectius atque propinquius, alia vero alteratius atque remotius participant, illa erit pulchra participatio, in qua unitatis ipsius virtus in ipsa alteritate unitius ac concordantius relucet; sicut color ipse visibilis visui gratior est, in quo varietas colorum in unitate relucet, et auditus gaudet audire varietatem vocum in unitate seu concordantia. Ita quidem de omni sensu, ratione atque intelligentia. Ineffabile igitur est hoc gaudium, ubi quis in varietate intelligibilium verorum ipsam unitatem veritatis infinitae attingit. Videt enim in alteritate intellectualiter visibilium unitatem omnis pulchritudinis, audit intellectualiter unitatem omnis harmoniae, gustat unitatem suavitatis omnis delectabilis, causarum et rationum omnium unitatem apprehendit et omnia in veritate, quam solum amat, intellectuali gaudio amplexatur. 106
CAPITULUM VII
De senario, septenario et denario Progressio supra se ipsam circulariter rediens senario numeratur. Sed ea, quae non redit supra se, sed in aliud pergit simile, post senarium est atque septenario numeratur. Duae vero sunt tunc progressiones necessariae, quae denario mensurantur. Vide ista se-
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telletto, al di sopra di ogni ragione. Le intelligenze spirituali, quindi, partecipano, in un certo qual modo indicibile, della verità assoluta nell’alterità dell’intelletto, e ne partecipano, in modo vario e diverso, attraverso la mediazione di quattro elementi intellettuali, così come l’unità di una tale intelligenza, che partecipa della verità, si partecipa nella varietà delle menti razionali attraverso la mediazione di elementi razionali; allo stesso modo, anche l’unità della ragione si partecipa in modo vario nell’alterità delle cose sensibili mediante elementi sensibili, come avviene, ad esempio, per l’essenza razionale del triangolo nella varietà dei triangoli sensibili. E dal momento che gli enti che partecipano dell’unità ne partecipano necessariamente in modo vario e nell’alterità, in maniera tale che alcuni ne partecipano in modo più perfetto e più da vicino, altri in modo più segnato dall’alterità e più da lontano, una bella partecipazione sarà quella nella quale la forza dell’unità risplende nell’alterità nella maniera più unitaria e concorde, così come è più gradito alla vista quel colore visibile nel quale una varietà di colori risplende in un’unità287. Allo stesso modo, anche l’udito prova piacere quando ascolta una varietà di voci raccolte in unità o in una concordanza armonica, e lo stesso vale per ogni senso, per la ragione e per l’intelligenza. Indicibile, pertanto, è la gioia 288 di chi giunge a cogliere l’unità della verità infinita nella varietà delle verità intelligibili. Nell’alterità di ciò che è visibile con l’intelletto, infatti, egli vede l’unità di ogni bellezza, ode intellettualmente l’unità di ogni armonia, gusta l’unità della soavità di ogni cosa dilettevole, apprende l’unità di tutte le cause e di tutti principi razionali e abbraccia, con una gioia intellettuale, tutte le cose nella verità, che è il solo oggetto del suo amore. CAPITOLO VII
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Il sei, il sette e il dieci Una serie che ritorna su se stessa in maniera circolare viene numerata con il sei. Quella serie che, invece, non ritorna su se stessa, ma avanza verso qualcosa di altro che sia simile ad essa, supera il sei ed è numerata con il sette. Ci sono poi due serie necessarie che vengono invece misurate dal dieci289. Considera queste se-
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riatim. Unitatem cum infinitate intellectualiter coincidere iam dudum vidisti. Unitas igitur absoluta cum absoluta coincidit infinitate, intellectualis cum intellectuali, rationalis cum rationali, sicut et unitas sensibilis cum sensibili infinitate. Unitas omnis imparticipabilis atque indivisibilis incorruptibilisque exsistit. Non est igitur absoluta unitas nisi in intellectuali alteritate participabilis, nec intellectualis nisi in rationali alteritate, neque rationalis nisi in ipsa sensibili. Non attingitur igitur deus, qui est absoluta unitas, nisi intellectualiter, nec intelligentia attingitur nisi rationabiliter, nec ratio nisi sensibiliter. Descendit itaque unitas absoluta in intellectualem infinitatem, ac rationalis unitas in sensibilem infinitatem, unitas vero sensibilis ascendit in rationalem infinitatem, unitas rationalis in intellectualem infinitatem, unitas intellectualis in absolutam superdivinam infinitatem. 107 Ratio in hoc senarium numerat. Principium enim ipsius fluxus et finis refluxus coincidunt in unitate absoluta, quae est infinitas absoluta, coinciduntque in unitate sensibili finis effluxus et principium refluxus duplicanturque media, quae simul sex sunt. Hanc circulationem in figura conspicito. Sit a unitas absoluta, b intellectualis, c rationalis, d sensibilis, e rationalis, f intellectualis. Sicut enim sex semidiametrales chordae circumferentiae subtensae supra se completive revertuntur, ita senario descensus ascensusque circulantur. Advertendum autem tibi est non esse aliud lucem descendere quam tenebram ascendere, si veritatem amplecti velis. Non enim aliud est deum esse in mundo quam mundum in deo, nec aliud est
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rie una per una. Hai visto, poc’anzi290, che, secondo l’intelletto, l’unità coincide con l’infinità. L’unità assoluta, pertanto, coincide con l’infinità assoluta 291, l’unità intellettuale con l’infinità dell’intelletto, l’unità razionale con l’infinità della ragione, l’unità sensibile con l’infinità del senso. Ciascuna unità è impartecipabile, indivisibile e incorruttibile. Dell’unità assoluta, pertanto, non si può partecipare che nell’alterità dell’intelletto, dell’unità dell’intelletto non si può partecipare che nell’alterità della ragione, e dell’unità della ragione non si può partecipare che nell’alterità del senso. Dio, pertanto, che è l’unità assoluta, non viene colto se non in modo intellettuale [secondo il modo proprio dell’intelletto], l’intelligenza non viene colta se non in modo razionale [secondo il modo proprio della ragione], la ragione non viene colta se non in modo sensibile [secondo il modo proprio dei sensi292. E così l’unità assoluta discende nell’infinità dell’intelletto293 e l’unità della ragione discende nell’infinità del senso, mentre l’unità del senso ascende all’infinità della ragione, l’unità della ragione ascende all’infinità dell’intelletto e l’unità dell’intelletto ascende all’infinità assoluta superdivina 294. In questo processo [di discesa e di ascesa], la ragione numera sei momenti. Infatti, il principio del flusso e la fine del riflusso coincidono nell’unità assoluta295, che è l’infinità assoluta, mentre nell’unità sensibile coincidono la fine del flusso e il principio del riflusso; i [due] momenti intermedi, inoltre, si duplicano296, per cui tutti insieme sono sei. Guarda questo movimento circolare nella seguente figura: Sia a l’unità assoluta, b l’unità dell’intelletto, c l’unità della ragione, d l’unità del senso, e l’unità della ragione, f l’unità dell’intelletto. Come le sei corde inscritte nella circonferenza ritornano su se stesse in modo completo297, così la discesa e l’ascesa compiono un movimento circolare in sei momenti. Se vuoi tuttavia abbracciare la verità, devi prestare attenzione al fatto che la discesa della luce non è altro che l’ascesa delle tenebre298. Che Dio sia nel mondo non è altra cosa dall’essere il mondo in Dio;
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actum in potentiam progredi quam potentiam ad actum devenire, nec aliud est punctum in corporalitatem ascendere quam corporalitatem in punctum descendere, nec aliud est tenebras in lucem se erigere quam lucem in tenebras descendere, sic nec aliud est potentiam materiae ad actum formae progredi quam formam actualem in potentialem descendere materiam. Intellectuali igitur acumine ascensum descensui copula, ut verius coniectureris. Senarii igitur perfectionalem circulationem hac intelligentia concipe, ut intueri valeas quomodo mensura perpetuitatis senario ascripta exsistat ac quomodo universalissimum in specialissimum pergere est specialissimum in universalissimum redire. 108 Septenarius vero progressionum numerus a senario exit, ut tempus atque successio a perpetuo, quem in naturis generabilium corruptibiliumque experieris. Nam dum ex semine arbor progreditur ex arboreque semen, septenarius utrumque amplectitur; semen enim primo in herbam, deinde in virgultum, postea ascendit in arborem; arbor descendit in ramum, in herbam et fructum seu semen. Hoc quidem semen ultimum aliud numero est quam primum. 109 Cum igitur finis in numero cum primo non coincidat coincidatque finis effluxus cum principio refluxus, recte septenarius exoritur atque exinde denarius. Nam si a est ut semen, d ut arbor, g ut aliud semen, k ut alia arbor, tunc a per b, c, in d progreditur, d vero in g per e, f progreditur et clauditur septenarius; g vero in k per h, i ascendit; sic denarius exstat adimpletus. Individualis contractio speciei in a, semine, in se ipsa corruptibilis, in specie vero incorruptibilis, in virtute speciei contracte in ips exsis tente se conservare studens, in speciem
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il procedere dell’atto nella potenza non è altro che il ritorno della potenza all’atto; l’ascesa del punto al corpo non è altro che la discesa del corpo al punto; l’elevarsi delle tenebre alla luce non è altro che un discendere della luce nelle tenebre; il passaggio dalla potenza della materia all’atto della forma non è altro che la discesa della forma che è in atto nella potenza della materia. Con l’acutezza dell’intelletto congiungi pertanto insieme l’ascesa e la discesa, in modo tale che potrai formulare congetture vere. Concepisci con l’intelligenza questo movimento circolare perfetto del sei, in modo da poter intuire come nel sei sia iscritta la misura del perpetuo299, e come il procedere di ciò che è del tutto universale in ciò che è del tutto specifico sia il ritornare di ciò che è del tutto specifico in ciò che è del tutto universale. La serie del numero sette esce da quella del sei, come il tempo e la successione escono dal perpetuo, e di questa serie potrai fare esperienza nelle nature delle cose generali e corruttibili. Ad esempio, nel procedere dell’albero dal seme e del seme dall’albero, il numero sette abbraccia entrambi i movimenti; il seme, infatti, prima ascende all’erba, poi al virgulto e poi all’albero; l’albero discende nel ramo, poi nell’erba, nel frutto o nel seme300. Quest’ultimo seme è numericamente diverso rispetto al primo. Poiché, pertanto, da un punto di vista numerico la fine non coincide con il principio, mentre la fine del flusso coincide con il principio del riflusso, ne viene esattamente il numero sette e di là, poi, il dieci. Se a rappresenta il seme, d l’albero, g un altro seme, k un altro albero, allora a procede in d attraverso b e c; d, da parte sua, procede in g attraverso e ed f, e il numero sette è raggiunto301; g, invece, ascende a k attraverso h e i, e così è realizzato il numero dieci. La contrazione individuale della specie in a, nel seme, è corruttibile in se stessa, ma è incorruttibile nella specie; essa si sforza di conservarsi per mezzo della forza della specie che è presente in modo contratto nel seme, e volendo risolversi nella specie si spoglia dell’individuazione del seme,
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se resolvere volens, individuationem exuit seminis, ut per speciei medium ex se simile elicere queat. 110 Quaternaria igitur progressione in arborem ascendit, quoniam sine eius medio se in specifica similitudine multiplicare non potest. Intendit igitur a g producere et, quoniam sine ascensu in d hoc perficere nequit, ascendit in d, ut sic ad intentum pertingat; d vero arbor exsistens, non nisi in simili arbore se conservare posse conspiciens, k intendit, k autem sine g attingere nequit; quare in g descendit, ut eius medio k attingere queat. Copulatur itaque in a duplex appetitus: naturalis, qui in g terminatur, accidentalis, qui in d finitur. In d vero pariformiter duplex copulatur appetitus: naturalis, qui in k finem capit, accidentalis, qui in g terminatur. Sic itaque in g naturalis est appetitus ab a sibi communicatus atque accidentalis a d sibi impressus. Ita conspicis quomodo unus appetitus stimulat atque ducit alium, ut sit continuatio generationis et corruptionis atque quod «generatio unius corruptio sit alterius». Notabis autem non nisi ex duobus seminibus atque duabus arboribus, quae sunt quattuor, te ad notitiam huius devenire posse. Simul igitur te in tuo intellectu complicare necesse est progressionem a, d, g, et d, g, k, ut coincidentias finis unius et principii alterius in indefectibilem successionem adducas. 111 Qua ex re advertas quomodo secundum praemissa unitas seminis, imparticipabilis in se, in alteritate, scilicet arborea, participabilitatem induit, unitas etiam arboris, imparticipabilis , in seminum alteritate participabilitatem induit. Unitas igitur, unitatis seminis huius species, est in hoc semine individualiter contracta. Quam quidem unitatem specificam a sua contractione individuali absolutam, in arbore receptam, cum sit virtus indeterminata, multa participare possunt semina. Specificatur itaque secundum virtutem seminis specificam generale nutrimentum atque secundum arboris, loci et circumstantiarum naturam pluralitas seminum eorumque perfectio.
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in modo da poter trarre da se stessa, attraverso la mediazione della specie, qualcosa che le sia simile. Con una serie di quattro momenti, pertanto, il seme ascende all’albero, poiché senza la mediazione dell’albero non può moltiplicarsi in un altro essere della sua stessa specie che sia simile ad esso. Il seme a ha come intento di produrre il seme g, e poiché non può farlo senza ascendere in d ascende in d per raggiungere il suo intento; d, d’altra parte, essendo un albero e vedendo che non può conservare se stesso se non in un albero simile a sé, ha come intento di raggiungere k, che però non può raggiungere senza toccare g; per questo motivo, discende in d, per poter raggiungere k con la sua mediazione. In questo modo, in a si congiungono insieme due appetiti: quello naturale, che termina in g, e quello accidentale, che finisce in d. Anche in d, però, si congiungono insieme due appetiti: quello naturale, che ha fine in k, e quello accidentale, che termina in g. Così, in g è presente un appetito naturale, che gli viene comunicato da a, e un appetito accidentale, che gli viene impresso da d. In questo modo, vedi come un appetito stimoli e guidi l’altro, in maniera tale che vi sia una continuità di generazione e corruzione e «la generazione di una cosa sia la corruzione dell’altra»302. Noterai, tuttavia, di non poter giungere a questa conoscenza se non a partire da due semi e due alberi, la cui somma è quattro. Pertanto, è necessario che tu complichi insieme, nel tuo intelletto, la serie a, d, g, e la serie d, g, k, in modo tale che, facendo coincidere la fine dell’una e il principio dell’altra, tu le riconduca ad un’unica successione continua. Di conseguenza, sulla base di quanto abbiamo detto vedi anche come l’unità del seme, che è in se stessa impartecipabile, si renda partecipabile nell’alterità, ossia nell’albero; anche l’unità dell’albero, che è in sé impartecipabile, si rende partecipabile nell’alterità dei semi. L’unità, ossia la specie alla quale appartiene l’unità di questo seme, è pertanto contratta in maniera individuale in questo seme. Di questa unità specifica, una volta che sia sciolta dalla sua contrazione individuale e sia accolta nell’albero, possono partecipare molti semi, in quanto è una potenza indeterminata. E così, il nutrimento generale si specifica secondo la forza specifica del seme, mentre la pluralità dei semi e le loro perfezioni si specificano secondo la natura dell’albero, del luogo e delle circostanze303.
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Dixi autem de semine et arbore. Tu vero universalitatem haurire stude, ut in mineralibus, vegetabilibus, animalibus atque omnibus sensibilibus secundum ista coniecturas facias, ac etiam in rationalibus intellectualibusque symbolice his utere. Nam de semine admirationis exoritur arbor rationalis, quae fructus admirationi similes parit, atque rationalis ipsa arbor per elicitam admirationem similem erigit rationis arborem. Ita quidem ex seminali demonstrationis principio intellectualis progreditur arbor, ex se principia seminalia exserens, per quae intellectualis iterum arbor ascendit. 112
CAPITULUM VIII
De individuorum differentia Satis tibi in sensibilibus semina individua, similiter et arbores esse constat, vides etiam in animalibus ipsis, quae ut arbores sunt, esse alia masculina, alia feminina; ita quidem et alia esse semina masculina, alia feminina necesse est. Species igitur si P figura fingitur, ubi lux descendens actualitas et umbra potentialitas signatur, tibi pandet in specie actualitatem absorbere potentialitatem atque e converso secundum illaque individua eius participare naturam. Adhuc cum ipsa actualitas, ut magis specificetur, in P figuram resolvitur, lux erit masculinitas actualitatis, tenebra eius feminitas; ita quidem de potentialitate. 113 Necesse est autem tam masculina quam feminina differre. Nullum enim reperibile est individuum masculinum in masculinitate cum quocumque praecise convenire, nec dabile est ipsum maxime masculinum. Absorpta est igitur in omni masculinitate feminitas differenter. Unde etiam in masculinis animalibus signa feminia, puta mamillarum indicia, apparere conspicimus. Ita quidem semi-
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Ho parlato di semi e di alberi. Ma tu sforzati di cogliere il significato generale di questo discorso, in modo tale che, sulla base di questi esempi, tu possa formulare congetture sui minerali, sui vegetali, sugli animali e su tutti gli enti sensibili; inoltre, usa questi esempi in maniera simbolica anche per ciò che riguarda l’ambito della ragione e quello dell’intelletto. Per esempio, dal seme della meraviglia304 nasce l’albero della ragione, che produce frutti simili di meraviglia, e l’albero della ragione, attraverso la meraviglia che esso suscita, fa nascere un altro albero della ragione simile a sé. In modo analogo, dal principio della dimostrazione procede come da un seme l’albero dell’intelletto, il quale trae a sua volta da sé altri principi o «semi», attraverso i quali si ascende ad un nuovo albero dell’intelletto. CAPITOLO VIII
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La differenza fra gli individui Sai bene che, nell’ambito delle realtà sensibili, i semi sono individui e così pure gli alberi; inoltre, anche fra gli animali, che sono come gli alberi305, vedi che alcuni sono maschi, altri femmine; è necessario, pertanto, che anche alcuni semi siano maschili e altri femminili306. Se la specie viene rappresentata nella figura P, nella quale la luce che discende indica l’atto e l’ombra sta per la potenza [la potenzialità], ti risulterà pertanto chiaro che, nella specie, l’atto assorbe la potenza [la potenzialità] e viceversa, e che a seconda di questo gli individui partecipano della natura della specie. Inoltre, se il processo di maggiore specificazione dell’atto è rappresentato nella figura P, allora la luce sarà la mascolinità dell’atto, la tenebra la sua femminilità; lo stesso si dica della potenza. È necessario, tuttavia, che vi siano delle differenze sia all’interno del genere maschile sia all’interno di quello femminile. Non è infatti possibile trovare nessun individuo maschio che convenga in modo preciso con un altro nella mascolinità307, né può darsi un individuo che sia maschio in senso massimo308. In ogni mascolinità, pertanto, risulta assorbita, in maniere differenti, la femminilità309. Ecco perché anche negli animali maschi vediamo apparire caratteristiche femminili, ad esempio tracce di mammelle. In modo analo-
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na contrario se habent modo. Absorbet igitur omne individuum sua singulari individuatione alia, ut in individuali tua masculinitate absorpta est feminitas. Sicut semen, a quo in actum prodiit masculum exsistens, seminis feminitatem evicit, sic suo modo feminitas masculinitatem absorbet. Masculum etiam semen in se contrahit femininum et sua potentia ambit actualem masculinitatem et feminitatem; contrarium de semine feminino. 114 Participare autem speciem haec individua varie scimus. Quaedam enim speciem perfectius in semine participant, quaedam in arbore. Quanto enim species ignobilior atque potentialior, tanto perfectius eius participant naturam ipsa semina. Quanto vero species ipsa nobilior atque perfectior, formalior actualiorque fuerit, tanto eius naturam plus arbores participant, et ubi arbores ipsae participant, tanto illa perfectius, quae masculinior, ac ubi semina perfectius participant, tanto illa perfectius, quae magis feminia. Unde pirus arbor nobilior est quam pirum, et leo masculus nobilior quam leonissa et semen leoninum. Contrarium vero in tritico, ubi semen melius quam palea, et sic de reliquis. Ubi enim arbor plus participat incorruptibilis speciei condicionem, scilicet quia ex se fructum producit, remanens in virtute alium producendi, plus participat arbor perfectionem speciei. Ubi vero semen incorruptibilis speciei naturam plus contrahit et cum eius productione arboris virtus deficit, quia tota in semen pergit, ut in granis tritici, siliginis, avenae et similium, perfectius est granum seu semen, et illud tunc nobilius, quod femininius. Nullum autem est reperibile semen adeo feminium atque taliter in potentia quod magis in potentia esse non possit, ita nec arbor adeo in actu perfecto quin magis esse possit.
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go, i semi si rapportano l’un l’altro come degli opposti [ossia come maschio e femmina]. Ogni individuo, pertanto, assorbe nella sua singolare individualità altre cose, così come nella tua individualità maschile risulta assorbita la femminilità. Come un seme dal quale sia venuto all’atto il maschio la componente maschile ha sopraffatto quella femminile presente nel seme, così anche la femminilità assorbe a suo modo la mascolinità. Il seme maschile contrae in sé il carattere femminile e nella sua potenza [potenzialità] abbraccia l’atto del maschio e della femmina; il contrario vale per il seme femminile310. Sappiamo che gli individui partecipano in modo vario della loro specie311. Alcuni, infatti, partecipano della specie in maniera più perfetta nel seme, altri nell’albero. Quanto più una specie manca di nobiltà ed è caratterizzata dalla potenza [potenzialità], tanto più sono i semi che partecipano perfettamente della sua natura. Al contrario, quanto più la specie sarà nobile e perfetta, caratterizzata dalla forma e dall’atto, tanto più sono gli alberi che partecipano della sua natura; e quando sono gli alberi a partecipare maggiormente della specie, tanto più perfetto è quell’albero che è più maschile; al contrario, quando sono i semi a partecipare maggiormente della specie, vi partecipano in maniera più perfetta i semi che sono maggiormente femminili. Ne segue che l’albero del pero è più nobile della pera e che il leone maschio più nobile della leonessa e del seme del leone. Il contrario accade invece nel grano, nel quale il seme è migliore della pula, e così via. In effetti, quando è l’albero che partecipa di più della condizione incorruttibile della specie, perché produce da sé il frutto e conserva in sé la capacità di produrne ancora un altro, l’albero partecipa di più della perfezione della specie. Quando, invece, è il seme a contrarre di più la natura incorruttibile della specie, e con la sua produzione si estingue la forza dell’albero perché essa passa tutta nel seme, come avviene nei chicchi di frumento, di segale, di avena e simili, allora ciò che esiste in maniera più perfetta è il chicco o seme, ed in questo caso è più nobile il seme che è più femminile. Non si può tuttavia trovare nessun seme che sia così femminile e talmente in potenza da non poter essere ancora di più in potenza, così come non c’è nessun albero che sia in atto in modo così perfetto che non possa es-
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Quare omne dabile individuum has differentias varie et differenter participat. Plus enim arbor seminis naturam participat in surculo et minus in trunco, et plus infans seminis naturam in infantia quam adulescentia participat. Arbor autem perfecta speciei naturam perfectius participans, ut ex potentia seminis in actum prodiit, ita et illius quidem seminis explicatam tenens naturam fructum in similitudine seminis producit. Et quoniam arbor quasi expansum canale est seminalis virtutis, tunc intra se digerit humidum atque secundum expansam specificat naturam. Specificat quidem perfecte, si virtus seminis perfecta fuerit atque perfecte expansa et si ipsum nutrimentum perfectum atque perfecte specificabile fuerit. 115 Quapropter utrumque attendi debere necesse est. Unde grana quaedam in pingui solo et propter nobile nutrimentum perfectiora se ipsis producere videmus grana, licet hoc successive fiat, quia in anno primo non adeo perfecta sicut in sequentibus. E converso optima grana in sterili agro ignobilem fructum producere conspicimus, non tamen adeo ignobilem, sicut alia minus nobilia grana; unde successive vergit nobile granum ad similitudinem ignobilis propter nutrimentum disproportionatum nobilitati suae. Ex diversitate igitur nutrimenti atque locorum individua variari necesse est. 116 Attende etiam quod, quamvis nutrimentum specificetur et in formali virtute speciei eius potentialitas absorbeatur, non potest tamen penitus atque omnino eius natura per omnia absorberi, uti vides, dum pirus inseritur pomo. Humidum enim in trunco arboris pomi pomificatum in ramo piri inserto pirificatur atque in pirum individuatur; non tamen est hoc pirum ab omni natura pomi alienum, licet in piro occultetur tantoque minor sit, quanto virtus sur-
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sercene un altro ancora più in atto. Per questo motivo, ogni possibile individuo partecipa di queste differenze in modo vario e differente. Ad esempio, l’albero partecipa della natura del seme più nel germoglio e meno nel tronco, il bambino partecipa della natura del seme più nell’infanzia che nell’adolescenza. L’albero compiutamente sviluppato, che partecipa della natura della specie in modo più perfetto, come giunge all’atto dalla potenza del seme, così, conservando in sé la natura esplicata del seme, produce il frutto a similitudine del seme. E poiché l’albero è una sorta di canale in cui si espande la forza del seme, esso distribuisce al suo interno l’umore e lo trasforma in modo specifico conformemente alla propria natura che lo espande. Certamente, questa trasformazione in senso specifico avviene in maniera perfetta se il potere del seme era perfetto, se è stato diffuso in modo perfetto, e se il nutrimento stesso è perfetto e perfettamente atto ad essere trasformato in modo specifico. Per questo motivo, è necessario tener conto di entrambe le cose. Vediamo che certi tipi di grano, seminati in un terreno fertile e grazie ad un eccellente nutrimento, producono grani più perfetti di loro, sebbene questo avvenga successivamente, perché durante il primo anno i grani prodotti non sono così perfetti come negli anni successivi. E viceversa, vediamo che tipi di grano ottimo, seminati in un campo sterile, producono frutti di bassa qualità, anche se non di qualità così bassa come quella dei frutti prodotti dai tipi di grano meno buoni; di conseguenza, nelle produzioni successive un tipo di grano di ottima qualità finisce per diventare simile ad uno di bassa qualità a causa del nutrimento non adatto alla sua ottima qualità. È necessario, pertanto, che gli individui varino a seconda della diversità del nutrimento e dei luoghi312. Tieni anche conto del fatto che, sebbene il nutrimento sia reso specifico e la sua potenzialità venga assorbita dalla forza formale della specie, la sua natura non può essere assorbita totalmente da tutti gli individui, come vedi che accade quando si innesta un pero in un melo. L’umore, infatti, che nel tronco dell’albero del melo è reso della natura del melo, nel ramo di pero innestato è reso della natura del pero e si individua in un pero; questo pero, nondimeno, non è del tutto estraneo alla natura del melo, benché nel pero essa sia nascosta e sia tanto più piccola quanto più grande è la forza del
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culi fortior, atque in sequentibus temporibus debilitata successive virtute specifica piri plus de pomi natura manifestatur. Ita quidem de loco: magis enim Almannus in Italia in primo quam in secundo anno almannizat; locus enim successive locatum characterizat secundum localis naturae fortitudinem. Haec quidem uti in sensibili mundo experimur sensibiliter, ita et in rationali rationabiliter, ut in moribus atque consuetudinibus rationabilibusque doctrinis, quae alimenta quaedam sunt, quae etiam in ipsa intellectuali intellectualiter attendere debes. 117
CAPITULUM IX
De differentiis modorum essendi Satis ex his quid intendam conicies atque, si velis, tam coniecturarum quam coniecturantium differentiam concipies arte quadam generali. Nam ut aliae sunt confusae sensibiles coniecturae, aliae verisimiles rationales, aliae verae intellectuales, ita quidem sunt coniecturantes differentes, ut quidam in confusa sensibilitate discurrant, quidam ex principiis ratiocinentur, quidam intellectualibus absolutionibus vacent. Habet enim ipsa coniecturalis unitas in coniecturabile pergens elementa sua quattuor, scilicet subtilitatem, grossitiem atque duo media. In subtilitate enim acutissima pergit coniectura quasi ignis sursum et modum essendi rerum in quadam absoluta unitate seu necessitate intuetur. Terree vero atque grosse coniecturando modum tenebrosum essendi in possibilitate fingit. Alios quidem duos efficit essendi modos, quorum unus absolutae necessitati accedit, et hic modus est, sine quo res vera intelligi nequit, et hic quidem modus est necessitatis secun-
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germoglio; negli anni successivi, tuttavia, indebolitasi progressivamente la forza specifica del pero, si manifesta maggiormente la natura del melo313. Lo stesso vale per i luoghi: un tedesco che vive in Italia si comporta come un tedesco più durante il primo anno che durante il secondo. Il luogo, infatti, caratterizza progressivamente chi vi abita, a seconda della forza della natura del luogo. Come nel mondo sensibile facciamo esperienza di questo fenomeno in maniera sensibile, così nel mondo razionale ne facciamo esperienza in maniera razionale, ossia nei costumi, nelle consuetudini e nelle dottrine razionali, le quali sono una sorta di alimento [razionale]; ed anche nell’ambito dell’intelletto devi tener conto, in maniera intellettuale, di queste cose. CAPITOLO IX
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Le differenze nei modi dell’essere Da quanto detto potrai congetturare abbastanza bene quale sia il mio intendimento, e, se vuoi, potrai comprendere, mediante l’impiego di una certa arte generale, le differenze che vi sono fra le congetture e fra coloro che le formulano. Infatti, come vi sono alcune congetture basate sui sensi che sono confuse, altre basate sulla ragione che sono verosimili, altre basate sull’intelletto che sono vere, anche coloro che formulano le congetture sono diversi: vi sono coloro che si muovono nella sfera confusa dei sensi, coloro che ragionano a partire da principi e coloro che si dedicano alle astrazioni dell’intelletto314. Anche l’unità delle congetture, infatti, quando si rivolge a ciò che può essere congetturato, ha i suoi quattro elementi, vale a dire la sottigliezza, la grossolanità e due elementi intermedi. La congettura che possiede un grado di sottigliezza estremamente acuto tende verso l’alto come il fuoco, e coglie intuitivamente il modo d’essere delle cose in una certa unità o necessità assoluta. Colui che formula congetture grossolane e simili alla terra, invece, si rappresenta un modo d’essere oscuro, nella sfera della possibilità. Il formulare congetture conduce poi alla comprensione degli altri due modi di essere, il primo dei quali si avvicina alla necessità assoluta, ed è il modo senza il quale una cosa non può essere intesa come vera, vale a dire il modo della necessità seconda o della de-
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dae seu consequentiae. Cum enim ponitur veritas humanitatis esse necessario, ad hanc ea sequuntur necessario, sine quibus esse nequit. Alius vero modus essendi possibilitati proximior atque supra ipsam atque infra iam dictum exoritur, habens necessitatis parum, possibilitatis multum, ut est actualis quidem essendi modus. 118 Haec in P figura conspicies, ubi unitas sit necessitas, alteritas possibilitas. Omnia in idem redeunt secundum ea, quae audisti. Varietates igitur modorum essendi coniecturans arte figurali facillime venatur, ita ut videat quomodo modus in modo capitur et absorbetur. Et varietatem hos modos essendi participantium distinguit et colligit, ut rem concipiat in possibilitate tenebrosa secundum hunc essendi modum et eandem in actu secundum alium essendi modum. Ita et modos coniecturandi atque coniecturantium hos modos participantium varietatem attingit. Modos etiam durationis, ut alius sit modus durationis modi essendi necessitatis absolutae, alius modus possibilitatis. Necessitatis enim absolutae est duratio infinita; quod enim necessarium simpliciter exstitit, aliter esse nequit. Non igitur pergit in alteritatem. Hinc est absoluta aeternitas. Possibilis vero essendi modus in alteritate est tantum. Actualis vero aliquid habet stabilitatis, multum possibilitatis, necessitatis secundae multum stabilitatis, parum alteritatis. Ita quidem modos essendi ipsius motus distinguit atque deinde hos et consimiles essendi modos contrahit, ut in sensibili mundo eos sensibiliter coniecturetur, in rationali rationaliter, in intellectuali intellectualiter. 119 Hosque essendi modos trium regionum ad invicem continuari coniecturatur, ut unum sit universum. Hinc summam sensibi-
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duzione. Quando, per esempio, si afferma che vi è necessariamente una vera natura dell’umanità, da ciò seguono necessariamente tutte quelle cose senza le quali tale vera natura non può esistere. Il secondo modo d’essere è invece più vicino alla possibilità, e nasce al di sopra di essa e al di sotto del modo di cui si è appena parlato; ha quindi poco della necessità e molto della possibilità, com’è il modo d’essere in atto delle cose315. Puoi osservare queste cose nella figura P, nella quale l’unità rappresenta la necessità e l’alterità la possibilità. Come hai già ascoltato, tutte le cose ritornano all’identico. Chi pertanto formula congetture mediante quest’arte figurativa scova in maniera estremamente facile la varietà dei modi di essere, e vede così come un modo sia compreso e assorbito in un altro. Egli, inoltre, distingue e raccoglie insieme la varietà delle cose che partecipano di questi modi di essere, e può così comprendere come la stessa cosa sia nelle tenebre della possibilità, secondo questo modo di essere, e sia in atto, secondo un altro modo di essere. In questa maniera, egli giunge anche a cogliere i modi di formulare le congetture e la varietà di coloro che le formulano partecipando di questi modi. Riconosce anche i modi della durata, vedendo che uno ha il modo della durata che è proprio del modo d’essere della necessità assoluta e un altro il modo della durata che è proprio del modo d’essere della possibilità. Della necessità assoluta, infatti, è propria la durata infinita; ciò che è necessario in senso assoluto, infatti, non può essere in altro modo [da come è]. Non si volge pertanto all’alterità. Quindi, è eternità assoluta316. Il modo d’essere del possibile, invece, è soltanto nell’alterità. Il modo d’essere in atto ha qualcosa della stabilità e molto della possibilità, mentre il modo d’essere della necessità seconda ha molto della stabilità e poco dell’alterità. Infine, distingue anche i modi d’essere del moto e poi contrae questi modi d’essere e quelli simili ad essi, in maniera tale da giungere ad una conoscenza congetturale su di essi, di carattere sensibile nel mondo sensibile, di carattere razionale nel mondo razionale e di carattere intellettuale nel mondo dell’intelletto. Egli congettura che questi modi d’essere delle tre regioni siano connessi gli uni con gli altri in maniera continua317, in modo tale che [cosicché] l’universo sia uno318. Di conseguenza, riconosce che
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lem necessitatem rationalem admittit possibilitatem summamque atque necessariam rationem intellectualem affirmat possibilitatem. Sic enim quattuor essendi modos in denarium resolvi videt, qui universus est numerus. 120
CAPITULUM X
De differentiis compositorum ex anima et corpore P figuram inspice atque unitatem animam, alteritatem vero corpus facito. Transit quidem corporalitas in spiritualitatem sursum, spiritus in corporalitatem deorsum. Quoniam autem spiritum descendere est corpus ascendere, hinc utrumque te iungere necesse est, ut differentiam corporum ita ex differentia animarum concipias, quod pariter earum animarum differentiam ex corpore conicias. Quod enim humana anima corpus suum a corporibus ceterorum differre facit animalium, est pariter ex eo, quod tale corpus differentem spiritum expostulat. Platonizare enim Platonis ab omnibus differt hominibus, atque haec differentia pariter ex unitate animae et alteritate corporis exsurgit. Quapropter illi, qui animarum dispositionem per sensibilia inquirunt, uti physiognomi, corpus intuentur atque ex eiusdem cum aliis hominibus atque animalibus differentiis et concordantiis spiritus venantur differentiam. Hinc etiam est quod «molles carne aptos mente» experimur. 121 Motus etiam animalium progressivus, secundum quem animalia a vegetabilibus differunt, non tantum ad corporis, sed ad animae etiam debet necessitatem referri. Nam non tantum animal locum mutat, ut necessarium nutrimentum colligat, sed et ideo etiam, ut animae operationes perficiat. Nec animal unum aliud vincit volatu, cursu industriaque eo tantum, quia his eget conservanda eius complexio, sed et quia haec et spiritus exquirit. Sic homo non est ma-
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la suprema necessità sensibile è la possibilità razionale ed afferma che la suprema necessità razionale è la possibilità intellettuale. In questa maniera, egli vede che i quattro modi di essere si risolvono nel dieci319, che è il numero universale320. CAPITOLO X
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Le differenze nei composti di anima e corpo Guarda alla figura P e considera che l’unità sia l’anima e l’alterità invece il corpo. La corporeità sale in alto passando alla spiritualità e lo spirito scende in basso passando alla corporeità. Poiché, tuttavia, il discendere dello spirito è l’ascendere del corpo321, è necessario che tu li congiunga insieme entrambi, in modo tale da comprendere le differenze fra i corpi a partire dalle differenze fra le anime e in modo da poter parimenti congetturare le differenze fra le anime a partire da quelle fra i corpi. Che l’anima umana, infatti, renda il proprio corpo differente dai corpi degli altri animali dipende anche dal fatto che un tale corpo esige, a sua volta, uno spirito differente. L’essere-Platone di Platone, ad esempio, lo rende diverso da tutti gli altri uomini, e questa differenza nasce, parimenti, dall’unità della sua anima e dall’alterità del suo corpo. Questo è il motivo per il quale coloro che, come i fisionomi322, indagano la disposizione delle anime mediante ciò che può essere percepito sensibilmente, osservano con attenzione il corpo, e, a partire dalle sue differenze e dalle sue concordanze con il corpo degli altri uomini e degli altri animali, cercano di scoprire la differenza fra gli spiriti. È da questo tipo di osservazione che sappiamo per esperienza che coloro che sono «molli nella carne sono agili di mente»323. Anche il movimento locale degli animali, per il quale essi si differenziano dalle piante, non dev’essere ricondotto solo alle necessità del corpo, ma anche a quelle della loro anima. Un animale, infatti, è dotato di moto locale non soltanto per procurarsi il nutrimento necessario, ma anche per compiere le operazioni che sono proprie della sua anima. E un animale supera un altro nel volo, nella corsa, nell’industriosità, non soltanto perché ne ha bisogno per conservare il proprio organismo, ma anche perché il suo spirito gli richiede queste capacità. Allo stesso modo, l’uomo non è dotato di una ra-
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iori datus ratione, ut ob corporis necessitatem seminare, plantare, mercari, aedificare, texere, coquere et cetera huiusmodi sciat, sed et opifex summus instituit hanc rationalem naturam in corpus descendere, ut corpus in rationalem ascenderet. Sensibile enim corpus rationi subest nec corpus ad ista necessitatur nisi propter spiritum. Sicut enim corpus propter suam necessitatem talem rationalem naturam expetere videtur, ita hic spiritus subtilis tale nobile corpus, quod his opus habet, expostulat. Non est aliter spiritus propter corpus, nisi quia corpus est propter spiritum; redit enim supra se spiritus. Differt igitur quodlibet sensibile animal a quolibet differentia conexa ex spiritus corporisque differentia procedente. 122 Omnem autem spiritum ab omni spiritu et omne corpus ab omni corpore differre necesse est. Non est autem differentia sine concordantia. Quapropter omnem spiritum concordare pariter et differre a quolibet necesse est. Nec potest aequaliter hoc esse. Cum alio plus concordat, cum alio vero minus, cum nullo vero maxime aut minime simpliciter. Spiritus igitur a spiritu quolibet cum ita differat quod semper minus per differentiam, quae semper minor esse posset, absque eo quod in infinitum progrederetur, differat, improportionali proportione ita differt, quod proportio spiritualis naturae unius et alterius proportionabilior semper esse posset, absque eo quod in infinitum progressio fieret. Praecisio igitur differentiae proportionis inattingibilis est. Concordat igitur spiritus cum spiritu concordanti differentia. 123 Unde spiritus tenebrosior cum spiritu lucidiori secundum P figuram se habet; nam unitas spiritus in alteritatem progreditur atque alteritas spiritualis in unitatem regreditur. In supremis vero
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gione superiore perché, in funzione delle necessità del suo corpo, egli impari a seminare, a piantare, a scambiare merci, a costruire, a tessere, a cucinare e a fare altre attività simili, ma perché il sommo artefice ha stabilito che questa natura razionale discendesse nel corpo in modo tale che il corpo potesse ascendere alla natura razionale324. Il corpo sensibile, infatti, è soggetto alla ragione ed è fatto per compiere queste attività, che gli sono necessarie, solo in vista dello spirito. Come il corpo [dell’uomo], infatti, per espletare le sue necessità, sembra richiedere questa natura razionale, così questo spirito sottile esige un tale corpo nobile [come quello dell’uomo] che abbia queste necessità. Lo spirito è in funzione del corpo325 per nessun altro motivo se non perché il corpo è in funzione dello spirito; lo spirito, infatti, ritorna su se stesso326. Ogni animale del mondo sensibile si differenzia dunque da ogni altro animale per una corrispettiva differenza, che proviene dalla differenza del suo spirito e del suo corpo. È necessario che ogni spirito differisca da ogni altro spirito e che ogni corpo differisca da ogni altro corpo327. Non vi è, tuttavia, nessuna differenza senza concordanza. Per questo motivo, è necessario che ogni spirito concordi e parimenti differisca da ogni altro. E questa concordanza e differenza fra di spiriti non può essere uguale. Ogni spirito concorda con uno di più, con un altro di meno, ma con nessuno in maniera assolutamente massima o minima. Uno spirito, pertanto, differisce da ogni altro in modo tale che potrebbe differire da esso sempre di meno, in quanto la differenza potrebbe essere sempre minore, senza che si vada per questo all’infinito; di conseguenza, ogni spirito differisce da ogni altro secondo una proporzione così incommensurabile328, che la proporzione che c’è fra la natura spirituale dell’uno e quella dell’altro potrebbe diventare una proporzione sempre più stretta, senza che per questo possa esservi un progresso all’infinito. Ne segue che la precisione nella differenza di proporzione è irraggiungibile. Uno spirito, pertanto, concorda con un altro spirito in virtù di una differenza concordante. Uno spirito più tenebroso, pertanto, si rapporta ad uno spirito più luminoso come mostra la figura P; l’unità dello spirito, infatti, procede nell’alterità e l’alterità ritorna nell’unità. Tuttavia, nel
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nobilissimis spiritibus alteritas tenebrosa sensibilis in intellectuali claritate absorbetur, in inferioribus vero spiritibus unitas spiritualis, quae intellectualis dici potest, in alteritate spirituali absorbetur. Unde vegetativus spiritus in sua tenebrositate occultat intellectualem, et eius quaedam signa apparent in brancis ad sustentandum, foliis et cortice ad fructum tutandum. Plura tamen signa intellectualia in animalibus experimur, ubi clarior est ipse spiritus. Nam in sensu, deinde magis in imaginatione, adhuc amplius in ratione clarius et propinquius signa experimur intellectualis vigoris. Adhuc inter ratiocinantia animalia clariora signa providentiae in hominibus quam aliis animalibus exsistunt; ex quibus ibi conicimus lucidiorem intelligentiam. Sic quidem in intelligentiis affirmamus sensibilem naturam occultari atque absorberi in luce intellectuali. Rationem autem animae mediam concipimus inter infimum et supremum eius atque eapropter plus participare naturam superiorem unitatis intellectualis in certis, in aliis vero plus inferiorem alteritatem. 124 Unde in inferiori mundo secundum illius mundi naturam omnia esse diximus, in medio vero medie atque in supremo supreme, eius scilicet naturae modo. Nam sensus, qui est in vegetabilibus, per quem sentiunt intensissima frigora et aestus excellentes, vegetativae est naturae, sensus in animalibus animalis naturae est, sensus in intelligentiis intellectualis. Ita quidem de ratione et intellectu. Subtilitas enim intellectualis in vegetabilibus, per quam brancas pro sui appensione adveniente gravitate praemittit, vegetabilis est naturae. Intellectualis vero subtilitas in animalibus, per quam venantur et pro futura necessitate quaesita observant,
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caso degli spiriti supremi, sommamente nobili, l’alterità della tenebra sensibile risulta assorbita nella chiarezza dell’intelletto, mentre nel caso degli spiriti infimi l’unità dello spirito, che può essere chiamata unità intellettuale, risulta assorbita nell’alterità dello spirito. Di conseguenza, lo spirito vegetativo ha nascosto nella sua tenebra uno spirito intellettuale, del quale, tuttavia, appaiono solo alcuni segni nei rami che servono a sostenere il frutto, nelle foglie e nella buccia che servono a proteggerlo. Un maggior numero di segni dell’intelletto lo rileviamo invece negli animali, nei quali lo spirito intellettuale risulta più visibile. Nei sensi, infatti, e poi di più nell’immaginazione e in maniera ancora più ampia nella ragione rileviamo in modo più chiaro ed evidente la presenza di segni di capacità intellettuali. Inoltre, fra gli animali dotati di ragione vi sono segni più chiari della provvidenza negli uomini che negli altri animali, e da questi segni congetturiamo la presenza negli uomini di un’intelligenza più luminosa. In modo simile, nel caso delle intelligenze [angeliche], affermiamo che la natura sensibile è nascosta e assorbita nella luce dell’intelletto. Pensiamo invece che la ragione che è propria dell’anima sia intermedia fra la sua facoltà inferiore e quella superiore e che, per questo motivo, in alcuni uomini essa partecipa maggiormente della natura superiore dell’unità dell’intelletto, mentre in altri partecipa maggiormente dell’alterità, che è inferiore. Per questo motivo, abbiamo detto che nel mondo inferiore tutto si trova in conformità alla natura proprio di quel mondo, nel mondo intermedio in un modo intermedio e nel mondo supremo in un modo supremo, ossia secondo il modo che è proprio della natura di quel mondo. Ad esempio, il senso che si trova nei vegetali, per mezzo del quale essi avvertono i freddi più intensi e i caldi più accentuati, è di natura vegetativa, il senso che si trova negli animali è di natura animale, il senso che si trova nelle intelligenze è di natura intellettuale. Lo stesso vale per la ragione e per l’intelletto. Nel caso dei vegetali, infatti, la sottigliezza dell’intelletto, grazie alla quale una pianta fa spuntare i rami per tenervi sospesi i frutti quando diventano pesanti329, è di natura vegetativa. Nel caso degli animali, la sottigliezza dell’intelletto, grazie alla quale essi vanno a caccia e conservano ciò che hanno raccolto per le necessità future,
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animalis est. In supremis vero intellectualis est sapientia, quae ad veritatem ipsam confert. Suo igitur modo quisque spiritus spiritualis naturae elementa participat, sicut corpus corporalis. Haec quidem in saepe dictis tibi manifestissima sunt, quoniam omnium una progressionum exsistit via. 125 Omnium autem animalium dum unitatem animam et corpus alteritatem feceris, ea, quae in corpore corporaliter conspicis et explicate, in anima ut in complicante virtute animaliter esse concipe, ut in eiusdem corporalis naturae explicatae unitatis virtute. Vides in tuo corpore caput, manus et pedes secundum gradus nobilitatis in officiis differre, ita in anima virtualiter intellectum caput, manus rationem, pedes sensus facito. Sicut enim corpus ambulat et vehitur pedibus corporaliter, ita et anima ipsa sensibus animaliter in sensibilia ipsa pergit et ratione quasi manibus utitur atque intellectu quasi virtute sensus uniente, ut intellectus in anima caput sit atque pars ipsa nobilior. Intellectus in ambitu intellectualis virtutis se uti oculus habet in capite. 126 Talibus quidem symbolicis venationibus de corporalis naturae explicatione ad animae potentiam ascende atque cuiusque animalis virtutem animae ita complicatam concipe contracte, uti explicatam corporis varietatem coniecturaris. Animam enim leonis caput intellectuale, pedes sensuales rationalesque manus virtualiter habere concipe secundum contractionem unitatis eius, quae est leoninitas, sicut haec in homine humaniter esse affirmamus, atque ita de singulis. 127 Corporum autem universam distinctionem ex figuris nostris ea ratione trahes, qua cuncta. Nam subtilitatem corporalem unitatem lucis atque grossitiem alteritatem si feceris, facile quaesita intuebe-
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è di natura animale330. Negli esseri supremi, invece, la sottigliezza intellettuale è una sapienza che si rapporta alla verità stessa. Ogni spirito, pertanto, partecipa, secondo il modo che gli è proprio, degli elementi della natura spirituale, così come ogni corpo partecipa degli elementi della natura corporea. Queste cose possono risultarti estremamente chiare da quanto ho ripetuto più volte, dal momento che vi è un unico metodo per tutte le progressioni. Per quanto riguarda invece tutti gli animali, se consideri la loro anima come unità e il corpo come alterità, tutte quelle proprietà che nel corpo osservi come dotate di natura corporea e in forma esplicata devi concepirle come presenti anche nell’anima, in maniera psichica e come complicate nella sua forza, ossia come complicate in quella forza che assicura l’unità alla natura corporea dispiegata. Vedi che nel tuo corpo la testa, le mani, i piedi differiscono nella funzione che svolgono in base al loro grado di nobiltà; in modo analogo, per quanto riguarda la tua anima considera l’intelletto come se fosse la testa, la ragione le mani, il senso i piedi331. Come il corpo, infatti, cammina e si sposta mediante i piedi in modo corporeo, così anche l’anima si volge in modo psichico alle cose sensibili e impiega la ragione come se fosse le sue mani e l’intelletto come la forza che unifica i sensi, cosicché nell’anima l’intelletto è come la testa ed è la sua parte più nobile. Nell’ambito della forza intellettiva, l’intelletto si comporta come l’occhio nella testa. Mediante queste cacce simboliche ascendi dall’esplicazione della natura corporea alla potenza dell’anima e concepisci la forza dell’anima di ogni animale come complicata e contratta, così come congetturi come esplicati i vari aspetti del suo corpo. Ad esempio, concepisci l’anima del leone come se fosse dotata di una testa intellettuale, di piedi sensibili e di mani razionali, in maniera conforme alla contrazione della sua unità che è la «leoninità», così come affermiamo che queste cose sono presenti nell’uomo in maniera conforme all’«umanità», e così via. Tutte le distinzioni fra i corpi ricavale dalle nostre figure, seguendo lo stesso ragionamento con il quale hai già ricavato tutto il resto. Se, infatti, considererai la sottigliezza corporea come l’unità della luce e la grossezza corporea come l’alterità332, coglierai facilmente la soluzione alla questione che stai indagando. Allo stes-
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ris. Ita quidem, si complexionum varietatem venari proponis, unitatem lucis bene harmonizatam, optime compactam atque unitam fingito, alteritatem vero alterabilem atque incompactam ac potius discordantiam quam concordantiam accipito. 128 Sic etiam, si corpus spirituale aut spiritum corporalem inquirere cupis, advertis inter lucidum ipsum spiritum in tenebrosum corpus descendentem atque regredientem corporalem grossitiem duo intercidere media conexionis, unum quidem spiritualius, aliud autem corporalius. Illud vero, quod spiritui propinquius est, corporis non exit omnem latitudinem, unde corpus spirituale dici poterit; aliud vero depressius, grossitie corporali propinquius, non omnem spiritus latitudinem exiens, spiritus corporalis appelletur. Atque ita considerabis tres gradus spiritus descendentis et tres ascendentis corporis, ex quibus suo modo universum atque omnia, quae in ipso sunt, exsistunt. Experimur enim in animalibus animam seu spiritualem quandam naturam esse. Experimur corporalem spiritum, arteriis inclusum, vehiculum conexionis animae. Experimur lucem quandam seu spiritum corporalem esse, per quem vis animae operatur in corpus et in sensibile, ut sic virtus animae his mediis corpori annectatur pro exercendis suis operationibus. Et haec quidem animae conexionis descensus est et corporis ascensus, quoniam ita subtiliatur, ut aptius spiritui uniatur. Omnia autem sensibilia ista participant suo modo, quae in uno sensibili reperiuntur clarius quidem atque obscurius, corruptibilius et incorruptibilius secundum differentias et concordantias generales specialesque.
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so modo, se ti proponi di condurre un’indagine sulla varietà delle complessioni corporee333, allora fai conto che l’unità della luce rappresenti una complessione ben armonizzata, compatta e unita nel modo migliore, e considera invece l’alterità come rappresentativa di una complessione alterabile e priva di compattezza, più discordante che accordata con se stessa. Allo stesso modo, se desideri fare delle ricerche sul corpo spirituale o sullo spirito corporeo, allora presta attenzione al fatto che fra lo spirito luminoso, che discende nel corpo tenebroso, e la grossezza corporea, che ritorna ad esso, vi sono due gradi di connessione intermedi, dei quali uno è più spirituale e l’altro più corporeo. Quello che è più vicino allo spirito non abbandona del tutto la dimensione del corpo e per questo può essere chiamato «corpo spirituale»; l’altro, invece, che sta più in basso ed è più vicino alla grossezza corporea, ma che non abbandona del tutto la dimensione dello spirito, lo si chiami «spirito corporeo». In questo modo, considererai tre gradi nella discesa dello spirito e tre gradi nell’ascesa del corpo, dei quali è costituito, al loro modo, l’universo e tutte le cose che sono in esso. Sappiamo per esperienza, infatti, che anche negli animali è presente un’anima o una certa natura spirituale. Abbiamo esperienza di uno spirito corporeo contenuto nelle arterie, che è il veicolo della connessione dell’anima [con il corpo]334. Per esperienza sappiamo anche che c’è una certa luce o un certo corpo spirituale335, attraverso il quale la forza dell’anima opera nel corpo e nel sensibile, in modo tale che, attraverso questi [due] intermediari, la forza dell’anima può congiungersi al corpo per esercitare le sue operazioni. E questa discesa dell’anima che si connette al corpo è anche un’ascesa del corpo, in quanto il corpo viene in questo modo reso più sottile e può così unirsi allo spirito in maniera più consona. Ma tutte le realtà sensibili partecipano, ciascuna a suo modo, di questi gradi, i quali, certamente, in una cosa si trovano in forma più chiara, in un’altra in forma più oscura, in maniera più corruttibile o in maniera più incorruttibile, a seconda delle differenze e delle concordanze generali e specifiche.
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De vita Vitam etiam quasi formae aut spiritus aut alterius cuiuscumque si in suis volueris differentiis intueri, primo ipsam ex unitate lucis et alteritate tenebrae in P figuram resolvito atque ita inspicies nobilem illam vitam, in cuius unitatis claritate omnis alteritas absorbetur, aliam autem intueberis, cuius unitas in alteritate fluxibilis atque instabilis tenebrae involvitur. Et si ipsam vitam in universali figura universum feceris, tres vitas – quadrate cubiceque – distingues. Unde incorruptibilem et alterabilem atque plus incorruptibilem plusque alterabilem et corruptibilem et horum subdistinctiones coniecturaliter hac via attinges. Quoniam autem inter ipsam vitam, ubi alteritatis victoria corruptibilitatem aut resolubilitatem unitatis inducit, et inter eam, ubi unitatis victoria incorruptibilitatem operatur, aequale medium cadere nequit, ut sit nec corruptibilis neque incorruptibilis et tamen de praefatarum differentiarum natura, ut saepissime diximus, hinc etiam, ut inferior vita superiori adunetur in unitate universi, superiorem inferiori coniungi necesse erit. Hoc igitur unum compositum exsistens ex vita unitate vincente atque ex ea, ubi alteritas vincit, secundum inferioris condicionem in alteritatem pergit atque corruptibilitati involvitur, secundum superioris vero naturam ad unitatem incorruptibilitatis accedit. Ex corruptibili igitur atque incorruptibili vita ipsum tale esse constat atque hoc differenter inter eam conexionem participantia. Non est igitur mors talium alia quam aliorum mortalium, nam propter fluxum alteritatis in dispersionem tendit. Stabilis igitur remanet unitas incorruptibilis vitae unitate alterabili a suae unitatis harmoniaca cadente radice. Intellectualis autem vita,
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La vita Se vorrai cogliere anche la vita nelle sue differenze, si tratti della vita di una forma o di uno spirito o di qualsiasi altra cosa, riconducila innanzitutto alla figura P sulla base dell’unità della luce e dell’alterità della tenebra [di cui ogni vita è composta]. In questo modo, vedrai quella vita nobile che assorbe ogni alterità nella chiarezza della sua unità, e vedrai un’altra vita la cui unità è invece avvolta nell’alterità di una tenebra fluttuante e instabile. Se invece considererai la vita nella figura universale [la figura U], allora distinguerai tre vite, tre al quadrato e tre al cubo336. Mediante questo procedimento giungerai a cogliere, in modo congetturale, una vita incorruttibile e un’altra corruttibile, una vita più vicina all’incorruttibile e un’altra più vicina all’alterità e al corruttibile, e le loro distinzioni interne. Tra la vita nella quale il predominio dell’alterità comporta la corruttibilità o la dissoluzione dell’unità e la vita nella quale il predominio dell’unità produce l’incorruttibilità non può esservi, come abbiamo detto più volte337, un grado che sia esattamente intermedio, tale, cioè, che vi sia una vita che non è né corruttibile, né incorruttibile, e che nondimeno appartenga alla natura delle differenze che abbiamo menzionato. Di conseguenza, affinché la vita inferiore sia unita alla superiore nell’unità dell’universo, sarà necessario che anche la vita superiore si congiunga all’inferiore. Quest’unico composto, formato dalla vita in cui prevale l’unità e da quella in cui prevale l’alterità, se segue la condizione del suo grado inferiore si dirige verso l’alterità ed è pertanto avvolto nella corruttibilità; se segue invece la natura del suo grado superiore, accede all’unità dell’ incorruttibilità. È evidente, pertanto, che tale composto è costituito da una vita corruttibile e da una vita incorruttibile, ma con delle differenze fra coloro che partecipano di questa connessione. La morte di questi composti, pertanto, non è diversa da quella degli altri mortali; a causa del fluire che è proprio dell’alterità, anche questo tipo di composto338 tende infatti alla dissoluzione. Pertanto, l’unità della sua vita incorruttibile rimane stabile anche quando la sua unità corruttibile si allontana da quella che è la radice armonica della sua unità. La vita dell’intelletto, in-
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ad incorruptibilem veritatem erecta sursum, ad corruptibilem alteritatem moveri nescit. 130 Infimus igitur specificus huius naturae gradus, parum in actu, paene quasi in potentia, quandam conexionis participabilitatem cum fluxibili vita possidet, non quidem ut fluxibili vitae vigorem stabilitatis praestet, sed potius ut eius etiam conexione per admirationem sensibilium rationabiliter moveatur atque in dormitanti potentia ad actum excitetur evigiletque. Nec est possibile hunc specificum gradum conexionis utriusque vitae multiplicare, ut huius conexionis plures sint species, licet hanc speciem individua varie participare necesse sit. Vita igitur irresolubilis est ipsa intellectualis vita, resolubilis vero est ipsa sensibilis; media vero, quae intellectuali propinquior est, rationalis nobilis atque intellectualis est, quae et sensus intellectualis dici potest; sensui vero accedens rationalis ignobilis seu imaginativa aut intellectus sensualis poterit appellari. Ratio igitur superior intellectum participans cum ratione inferiori sensualis naturae conectitur in specie ipsa humana. Tali quidem coniectura attingere ea poteris, quae circa vitam discursus venari poterit. 131
CAPITULUM XII
De natura et arte Natura unitas est, ars alteritas, quia naturae similitudo. Deus quidem secundum intellectualem loquelam natura pariter et ars exsistit absoluta, licet veritas sit ipsum nec artem nec naturam neque ambo esse. Praecisio autem cum inattingibilis sit, nos credi admonet nihil tantum aut natura aut ars dabile esse, omne enim utrumque suo participat modo. Intelligentiam enim facile, ut a ratione emanat divina, artem participare concipitur, ut autem a se artem exserit, naturam esse videmus. Ars enim imitatio quaedam na-
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vece, una volta che si è elevata alla vita incorruttibile, non è più in grado di muoversi verso l’alterità corruttibile. Il grado più basso e specifico di questa natura [incorruttibile]339, essendo poco in atto e quasi del tutto in potenza, possiede invece una certa attitudine a congiungersi con la vita mutevole; e possiede questa attitudine non allo scopo di conferire alla sua vita mutevole un vigore di stabilità, ma piuttosto perché, attraverso una tale connessione, la sua ragione possa essere mossa dallo stupore per le cose sensibili e possa così ricevere lo stimolo per risvegliarsi e per passare dal sonno della sua potenzialità all’atto340. Questo grado specifico, nel quale sono connessi entrambi i tipi di vita [corruttibile e incorruttibile], non è possibile moltiplicarlo, in modo da farne più specie, anche se è necessario che i singoli individui partecipino di questa specie in modi diversi. La vita che non può dissolversi, pertanto, è la vita dell’intelletto, mentre la vita che si dissolve è la vita dei sensi; per quanto riguarda la vita intermedia, invece, quella che è più vicina all’intelletto è una vita razionale, nobile e intellettuale, una vita che può essere chiamata anche «senso intellettuale»; la vita intermedia che è più vicina ai sensi è invece la vita meno nobile della ragione o la sua vita immaginativa, e la si potrebbe anche chiamare «intelletto sensibile»341. Nella specie umana, pertanto, la facoltà superiore della ragione, che partecipa dell’intelletto, è connessa con la facoltà inferiore della ragione, che è di natura sensibile. Mediante una tale congettura potrai giungere a cogliere quelle verità che sarà possibile ricercare attraverso una riflessione sulla vita. CAPITOLO XII
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La natura e l’arte La natura è unità, l’arte è alterità, perché l’arte è una similitudine della natura342. Dio, secondo il linguaggio proprio dell’intelletto, è al tempo stesso natura assoluta e arte assoluta343, sebbene in verità egli non sia né arte, né natura, né entrambe. È facile in effetti comprendere che l’intelligenza, in quanto emana dalla ragione divina, partecipa dell’arte; in quanto invece l’intelligenza trae da se stessa l’arte, vediamo che essa è natura. L’arte, infatti, è una certa
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turae exsistit. Alia enim sensibilia naturalia esse, alia artificialia manifestum est. Sed non est possibile sensibilia naturalia esse artis expertia, ita nec sensibilia artificialia natura carere possunt. Loquela enim ab arte procedit, cui natura innixa est, ut una sit naturalior loquela uni, alia vero minus naturalis. Ratiocinari etiam homini naturale est, sed non absque arte. Unde unum plus in arte valere ratiocinandi quam alium dubio caret. Sicut enim in loquela, quae absque arte haberi nequit, unitas naturalis rationis relucet, ut ex loquela quis qualis sit ratione et natura cognoscatur, sic et in ratione ars ratiocinantis manifestatur. 132 Si igitur naturae differentias investigare volueris atque artis et conexionis utriusque, ad saepe apertam figurarum manuductionem recurrito. Est enim natura ex unitate masculina et alteritate feminina. In masculinitate vero intellectuali absorpta est feminitas; unitive igitur intra se fecundatur. In vegetabili feminitate alteritas naturam in se masculam detinet; quare explicative fructificat. Natura vero animalium sexum distinguit: vir in muliere generat, mulier ad extra parit. Natura vero in intelligentiis intellectualem parit fructum, in animalibus animalem, in vegetabilibus vegetabilem. Oboedit natura sensibilis rationali, rationalis intellectuali, intellectualis divinae. Oboedit sensibiliter factibile arti rationali, rationalis intellectuali, intellectualis divinae. Sicut omnis natura in sensibili sensibiliter est contracta, ita et factibilitas in sensibili est sensibiliter contracta, in rationali rationabiliter. 133 Unitas naturae et artis sensibilis ratio est, per rationis unitatem specificatur sensibilis individuorum multitudo, sic et per rationis
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imitazione della natura. È evidente che alcune cose sensibili sono naturali e altre artificiali. Non è possibile, però, che le realtà sensibili che sono naturali siano prive del tutto di arte; allo stesso modo, le cose sensibili che sono artificiali non possono mancare di natura. Ad esempio, il linguaggio deriva dall’arte, alla quale è collegata la natura, in maniera tale che un modo di parlare può essere naturale per una persona, mentre un altro può essere per lei il meno naturale. Anche il ragionare è naturale per l’uomo, eppure non è privo di arte. Per questo, non vi è dubbio che una persona possa valere più di un’altra nell’arte del ragionare. Infatti, come nel linguaggio, che non può darsi senza l’arte, risplende l’unità della ragione naturale, per cui a partire dal linguaggio si può riconoscere quale sia la ragione e la natura di una persona, così anche l’arte di colui che ragiona si rende manifesta nel suo ragionamento. Se vuoi pertanto investigare sulle differenze fra la natura e l’arte e sulle loro connessioni, ricorri alla guida delle figure, guida che esse ti hanno già offerto più volte. La natura maschile, infatti, proviene dall’unità, mentre la natura femminile dall’alterità. Nell’intelletto, la natura femminile viene assorbita in quella maschile, per cui in questo caso la fecondazione avviene all’interno dell’intelletto, senza alcuna divisione. Nel mondo vegetale è l’alterità femminile che contiene in sé la natura maschile, e per questo motivo i vegetali producono i loro frutti esplicandoli all’esterno di se stessi 344. La natura distingue invece il sesso degli animali: l’uomo genera nella femmina e la femmina partorisce fuori di sé. Ora, nelle intelligenze la natura produce un frutto intellettuale, negli animali un frutto animale e nei vegetali un frutto vegetale. La natura sensibile obbedisce alla natura razionale, quella razionale alla natura intellettuale, e quella intellettuale alla natura divina. Ciò che si può fare con i sensi obbedisce all’arte della ragione, l’arte razionale obbedisce all’arte intellettuale, l’arte intellettuale all’arte divina. Come in ciò che è sensibile tutta la natura è contratta in maniera sensibile345, così anche la possibilità di fare è contratta in maniera sensibile in ciò che è sensibile, in maniera razionale in ciò che è razionale. L’unità della natura e dell’arte sensibile è la ragione; attraverso l’unità della ragione una molteplicità sensibile di individui viene ricondotta ad un’unica specie, così come, viceversa, attraverso l’uni-
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unitatem, quae in arte una, puta sutoriae, exstitit, innumera parantur calceamenta. Unitas igitur rationis in se complicat sensibilium omnium naturalium et artificialium multitudinem, ex se igitur exserit rationes naturalium et artificialium. Rationes vero artificialium ordinantur ad finem naturalium. Initium enim atque finis artificialium natura exstitit. Ars igitur rationalis, ut est loqui, texere, seminare, coquere, et ita de multis, ad finem sensibilis naturae ordinatur, sicut ars intelligentiae ad finem rationalis naturae. 134
CAPITULUM XIII
De natura intellectuali Natura autem universalis, ut universi circulus, in se primo tres regionum atque naturarum, intellectualium, rationalium atque sensitivarum, complicat orbes. Intellectualis vero in se tenebrositates alterabiles absorbens natura mascula, subtilis, unissima atque nobilissima est. Nec est intelligentiae natura quanta nec motus intellectualis generis quanti nisi intellectualiter seu virtualiter, cui non obsistit simplicitas, indivisibilitas et cetera, quae intellectualis sunt unitatis. Non enim est motus eius in alteritatem aliter, quam ut alteritas in unitatem absolutius pergat. Descendit enim unitas eius in rationale intelligibile, ut intelligibile ipsum in unitatem ascendat intellectus. Est enim principium atque finis rationalis intelligibilis, sicut eius principium finisque eius unitas est absoluta. Ad cuius unionem pergere est secundum naturam suam intellectualem sursum agere atque in hoc motu quiescere, uti ratio in ipsa quiescit intelligentia, ad quam non nisi per intelligentiae descensum et luminis sui participatam immissionem ascendere potest. Sic qui-
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tà della ragione presente in un’unica arte, ad esempio nell’arte del calzolaio, viene prodotta una molteplicità innumerevole di scarpe. L’unità della ragione, pertanto, complica in se stessa la molteplicità di tutte le cose sensibili, sia quelle naturali, sia quelle artificiali [prodotte da un’arte], e trae quindi da sé le ragioni degli enti naturali e delle cose artificiali. Le ragioni delle cose artificiali, tuttavia, sono ordinate come loro fine agli enti naturali. La natura, infatti, è l’inizio e il fine delle cose prodotte da un’arte. Le arti razionali, pertanto, come il parlare, il tessere, il cucinare e così via, sono ordinate come loro fine alla natura sensibile, così come l’arte dell’intelligenza è ordinata come suo fine alla natura razionale. CAPITOLO XIII
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La natura intellettuale La natura universale, intesa come cerchio dell’universo [nella figura U], complica innanzitutto in se stessa tre orbite: l’orbita della regione delle nature intellettuali, quella della regione delle nature razionali e quella della regione delle nature sensitive. La natura intellettuale, che assorbe in sé le tenebre dell’alterità, è maschile, sottile, assolutamente unitaria e sommamente nobile346. Inoltre, la natura dell’intelligenza non è caratterizzata dalla quantità e neppure il suo movimento è di genere quantitativo, se non in senso intellettuale e metaforico, per cui esso non è in contrasto con le caratteristiche che sono proprie dell’unità dell’intelletto, ossia con la semplicità, l’indivisibilità347, ecc. Il suo movimento nell’alterità, infatti, non consiste nient’altro che nel procedere dell’alterità verso l’unità nel modo più assoluto348. L’unità dell’intelletto, infatti, discende nell’intelligibile-razionale, affinché l’intelligibile stesso ascenda all’unità dell’intelletto. L’intelletto, infatti, è principio e fine dell’intelligibile-razionale, così come principio e fine dell’unità dell’intelletto è l’unità assoluta. Procedere verso l’unione con l’unità assoluta significa per l’intelletto muoversi verso l’alto, conformemente alla sua natura intellettuale, e significa un trovare quiete in questo movimento349, così come la ragione trova la sua quiete nell’intelligenza, alla quale essa non può ascendere se non grazie alla discesa dell’intelligenza e alla luce che l’intelligenza infonde in essa per
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dem nec naturae intellectus qualitatem rationalem, sed potius rationalem alteratam concipito similitudinem. Non enim habet accidens rationi aut sensui succumbens, nec est intelligibilis natura aliter quam intellectualiter locabilis, immo ita locabilis quod et locus. Et hoc quidem non est in loco esse per rationem aut sensum ostensibili, nec est propterea ubique et nullibi absolute ut deus, sed est ubique et nullibi contracte intellectualiter. Sicut humanitas ipsa specifice contracta est ubique in ea regione speciei atque nullibi, ita et anima nostra ubique atque nullibi est secundum contractionem corporis. Nam est in qualibet parte illius suae regionis et nullibi, in nulla enim parte corporis ut in loco est potius quam in alio. Sicut enim universalia sunt in intellectu atque eorum locus intellectus dicitur, ita quidem hoc intelligi necesse est secundum saepe resumptas regulas, intellectum scilicet esse in universalibus ita quod ipsa in eo, quasi ut praesidens in regno est ita quod regnum in ipso. 135 Non igitur est mobilis natura intelligentia de loco ad locum nisi eo modo, quo in loco esse potest. Intellectualiter igitur movetur ipsa natura intelligentialis in suo determinato sibi regno. Et hoc quidem movere est, cum quo quiescere concurrit, cum sit veritati obtemperare, quasi ut motus imperii praesidentis compatitur quietem in cathedra imperantis. Intelligentiae enim ut in centro suae contractionis aut regni quiescentes moventur, et nos hunc motum ut iudicantis concipimus. Iudex est enim rationum intelligentia et moveri dicitur, dum ob verius unam eligit aliamque abicit ac dum ratiocinantes illuminat aut inducit.
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partecipazione. Così, non devi concepire la ragione come se avesse una qualità propria della natura dell’intelletto, ma devi piuttosto concepirla come una similitudine razionale [della natura dell’intelletto] nell’alterità. L’intelletto, infatti, non ha accidenti che soggiacciano alla ragione o ai sensi, né è possibile attribuire alla natura intelligibile un luogo se non in senso intellettuale; ed anzi in questo senso essa è localizzabile in modo tale da essere il suo luogo. Ciò non significa che l’intelletto sia un luogo osservabile dalla ragione o dai sensi, e nemmeno che, per questo, l’intelletto sia ovunque e in nessun luogo in maniera assoluta come Dio350, ma significa che esso è ovunque e in nessun luogo in maniera contratta, secondo il modo proprio dell’intelletto. Come l’umanità, che è contratta secondo la specie, è presente ovunque e in nessun luogo nella regione della propria specie, così anche la nostra anima è presente ovunque e in nessun luogo conformemente alla contrazione del corpo. L’anima, infatti, è presente in ogni parte della sua regione [del corpo] e in nessuna, dal momento che in nessuna parte del corpo essa si trova come se fosse in un luogo piuttosto che in un altro351. Infatti, come gli universali sono nell’intelletto e l’intelletto viene chiamato il loro luogo, così è necessario intendere questa affermazione secondo le regole che abbiamo più volte ribadito, vale dire che l’intelletto è negli universali in modo tale che gli universali sono in esso, così come un sovrano è nel regno in maniera tale che il regno è in lui. L’intelligenza, pertanto, è una natura che non può muoversi da luogo a luogo, se non nel modo in cui può essere in un luogo l’intelligenza. La natura intellettiva352, pertanto, si muove in modo intellettuale nel regno che le è proprio e che le è assegnato. E questo è un muoversi che concorre al suo essere in quiete353, in quanto il movimento dell’intelligenza è un’obbedienza alla verità, come, per esempio, il movimento del comandare di un sovrano è compatibile con la quiete di chi comanda restando seduto sul suo trono. Le intelligenze, infatti, si muovono restando in quiete, come se fossero al centro della propria contrazione o del proprio regno, e possiamo concepire questo loro movimento come quello di una persona che giudica. L’intelligenza, infatti, è il giudice delle ragioni354, e si dice che essa «si muove» quando sceglie una ragione perché più vera e ne rifiuta un’altra, e quando illumina e guida coloro che ragionano.
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igitur ut virtutes universales rectricesque contractionum rationalium concipi debent, ac si in ipsis suis regionibus solis vices gerant; ut uti in hoc sensibili mundo ex solis sensibilis vigore oculi sensibiliter ad pulchri aut turpis iudicium pergunt, ita in rationali mundo intelligentia vigorem cognitionis veri apportat. Deus autem ipse infinitus sol intelligentiarum est, intelligentiae vero ut varia contractiora lumina rationum. Varie vero rationem inspicimus contractam in vegetabilibus et animalibus secundum diversa genera atque species, et ex hinc coniecturamur diversas rectrices intelligentias. 137 Non sunt intelligentiae numero rationis numerabiles quasi sensibilia ista, sed intellectualis numerus, indesignabilis atque infigurabilis per rationem, quasi lumen est rationis et numeri rationalis. Sicut enim nullo numero unitas numerabilis est, sed ipsa omnem numerum numerat, ita et intelligentia nulla ratione discretabilis, sed tantum ab ipsa absolutissima divinissimaque unitate. Ubi enim ad coincidentiam tendit numerari cum numerare, discretio cum indiscretione, rationi praeclusus est aditus. Varietatem autem intelligentiarum varie unissimam veritatem theophanice participantium cum mediationis diversitate, ut quaedam mediatius quasi intellectibiles atque ab omni potentia versus actum elevatissimi, aliae vero quasi intelligibiles atque magisterio proximiores, aliae vero rationabilibus potentiis magis accedentes, ut doctrinali elevatione opus habeant, in similitudine saepe dictorum ex figuris in coniecturam trahito. 138 Et si coniecturam fabricare optas etiam de his tenebrosioribus huius regionis spiritibus, quorum intelligentia in alteritate tenebrosa ignorantiae sopita cruciatur, qui potius servilibus occumbunt
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Le intelligenze devono pertanto essere concepite come forze universali, e come forze che reggono le nature razionali più contratte, come se, nelle loro regioni, esse esercitassero la parte del sole: come in questo mondo sensibile gli occhi si volgono a giudicare in maniera sensibile il bello e il brutto grazie alla forza del sole sensibile, così nel mondo della ragione l’intelligenza conferisce la forza per conoscere il vero. Dio stesso, tuttavia, è il sole infinito delle intelligenze, mentre le intelligenze sono come le diverse luci maggiormente contratte che illuminano le diverse menti razionali. Osserviamo, infatti, che la ragione si contrae in modi diversi nelle piante e negli animali, a seconda dei diversi generi e delle diverse specie, e da ciò congetturiamo che vi siano diverse intelligenze rettrici. Le intelligenze non si possono numerare mediante il numero che è proprio della ragione355, come se fossero enti sensibili. Vi è, però, un numero intellettuale che non si può designare né rappresentare con la ragione, in quanto è come il lume della ragione e del numero razionale. Infatti, come l’unità non è numerabile mediante nessun numero, ma è piuttosto l’unità che numera ogni numero, così anche le intelligenze non possono essere distinte [le une dalle altre] da nessuna ragione, ma soltanto dall’unità più assoluta e più divina. Dove, infatti, l’essere numerato tende a coincidere con il numerare e la distinzione con l’indistinzione, lì è precluso ogni accesso alla ragione. Ora, in analogia con quanto abbiamo detto più volte e sulla base delle nostre figure, formula congetture anche sulla varietà delle intelligenze, che, in modi diversi, partecipano teofanicamente della verità assolutamente una con una diversità di mediazione, per cui alcune intelligenze ne partecipano in modo più immediato e sono come degli spiriti intellettibili, elevati quanto mai al di sopra di ogni potenza verso l’atto, altre invece sono come degli spiriti intelligibili356 e assomigliano di più a chi dispone dell’arte di insegnare, altre ancora si avvicinano di più alle potenze razionali, di modo che hanno bisogno di un insegnamento che le elevi. Sulla base di quanto abbiamo detto ed utilizzando in modo idoneo le nostre figure simboliche, se lo desideri puoi formulare da te stesso una congettura anche sugli spiriti più tenebrosi di questa regione, quelli la cui intelligenza si trova nella tenebrosa alterità dell’ignoranza357 ed è assopita e tormentata. Questi spiriti soggiac-
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custodiis et sensibiliter submersae rationi suae obvolutae intelligentiae deceptoria ingerunt incitamenta, ut absorbeatur perpetuum in corruptibili, lux in tenebris, atque de istorum daemoniorum naturis differentibus, quomodo quidem in regione intellectuali hi quasi sensibiliores sint spiritus, in sensibilibus temptationibus degentes atque se inferioribus immiscentes, quomodoque adhuc alii medio loco quasi rationales sint intelligentiae, orbium et motuum rectrices, a superiorum, qui divinis illuminationibus propinquius inflammantur, non oberrantes imperio, per te ex praemissis moderatione symbolica perficies. 139 Volo autem te semper attentissimum esse, ut has praesidentiales spirituales administrationes, quas speciebus, nationibus, linguis, congregationibus, regnis ecclesiisque quasi a summo maximo universorum imperatore legati sollerter impendunt, non putes eos quasi nostri tantum causa assumpsisse, sed nostri quidem ac aliorum, quibus praesunt, ita hoc agunt causa, ut se finem constituant, ut ita angelici spiritus propter nos sint, quod nos propter ipsos. Dum enim regnicolis quibusdam regalem curam propter eos esse videtur, rex non minus ipsam in se reflectendo se suae curae et salutis populi finem constituit. Nec esset voluntaria populi oboedientia et principis diligentia, si et populus se subiectionis et rector se etiam laborum suorum non conicerent praemia hinc inde suscepturos. Quapropter rector naturalis in veritatis legibus incedens causas ipsas, quantum potest, in unum nectit, ut in populi salute suam quoque arbitretur. Haec summatim, quantum hoc loco datum est, de intellectualium spirituum natura dicta sufficiant.
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ciono ad una custodia servile ed inculcano nella ragione che si trova immersa nei sensi degli incitamenti ingannatori provenienti dalla loro intelligenza ottenebrata, per fare in modo che ciò che è perpetuo venga assorbito in ciò che è corruttibile, la luce nelle tenebre. Allo stesso modo, [sulla base di quanto abbiamo detto ed utilizzando in modo idoneo le nostre figure simboliche] se lo desideri puoi formulare da te stesso una congettura anche sulle diverse nature di questi demoni; ed allora vedrai come, nell’ambito della regione intellettuale, vi siano degli spiriti in qualche modo più sensoriali, che vivono in mezzo alle tentazioni dei sensi e si mescolano alle realtà più basse; vedrai poi come vi siano altri spiriti, collocati in una posizione intermedia, che sono come delle intelligenze razionali che reggono le sfere [celesti] e i loro movimenti358 e che non si lasciano deviare dal comando delle intelligenze superiori, le quali sono infiammate più da vicino dall’illuminazione divina. Voglio però che tu presti sempre la massima attenzione a questo: questi compiti di amministrazione e di governo spirituale che questi spiriti, a titolo quasi di delegati del supremo e massimo imperatore dell’universo359, svolgono con scrupolo nei confronti delle specie, delle nazioni, delle lingue, delle comunità, dei regni e delle chiese360, non devi pensare che essi li abbiano assunti solo a nostro vantaggio; piuttosto, essi svolgono questi compiti per noi e per gli altri ai quali presiedono per porre se stessi come fine, cosicché gli spiriti angelici esistono in vista di noi in modo tale che noi esistiamo in vista di loro. Ad esempio, sebbene agli abitanti di un regno sembri che le cure del loro re siano rivolte tutte a loro, il re le rivolge nondimeno a se stesso e si pone come fine sia delle sue cure sia della salvezza del suo popolo361. L’obbedienza del popolo e lo zelo del principe non sarebbero volontari se essi non presumessero di poter conseguire in questo modo dei premi, il popolo per la sua obbedienza e il principe per le sue fatiche. Per questo motivo, chi governa secondo natura, se procede secondo le leggi della verità, unisce insieme, nel modo migliore possibile, entrambi questi interessi, in modo da ritenere che la sua salvezza risieda nella salvezza del suo popolo. Per quanto concerne la natura degli spiriti intellettuali, possono essere sufficienti le brevi considerazioni che abbiamo fin qui fatto, per quanto ci è stato possibile in questo luogo.
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CAPITULUM XIV
De homine Hominem ex unitate lucis humanalis naturae atque alteritate tenebrae corporeae communi via concipito et in priorem figuram, ut distinctius ipsum explices, resolvito. Intueberis plane tres ipsius regiones, infimam, mediam atque supremam, atque ipsas ter triniter distinctas. Ignobiliores autem corporales partes, alias continue fluxibiles atque stabiliores et formaliores nobilissimasque gradatim coniecturaberis. Post haec pari ascensu spiritualiores corporis concipito naturas, quibus sensitiva virtus immixta est, hasque per gradus partire, ut ab obtusioribus ad subtiliores pertingere queas. Novenas etiam nobilis ipsius animae distinctiones adicito. Novem igitur trium ordinum corporales vides hominis differentias, quae in se sensitivum absorbent lumen, ut vegetatione contententur. Novem etiam mixtas conspicis, ubi virtus viget sensitiva, sensibili atque corporali permixta. Novem denique nobiliores differentias, ubi corporalis umbra in discretivum absorbetur spiritum. Corporalis autem natura gradatim sursum in sensitivam pergit, ita quidem quod ultimus eius ordo propinque cum ipsa coincidat sensitiva. Ita quidem ipsa sensitiva in discretivam nobilitatur. 141 Omnis autem sensatio obviatione exoritur. Unde ut quaedam sensationes obviatione contangentium causantur, ita gradatim quaedam ex distantioribus incitantur obiectis. Odoratus igitur, qui in suo perficitur organo, ob suam nobiliorem naturam etiam a remotis offenditur, ut sensatio exoriatur. Adhuc auditus ex remotiori. Visus autem omnes excellit sensus, ut ex distantioribus obiectis ad sensationem incitetur. Pergit autem imaginatio absolutio-
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L’uomo Seguendo il nostro procedimento usuale362, concepisci l’uomo come composto sia dall’unità della luce della natura umana, sia dall’alterità della tenebra corporea, e riconducilo alla nostra prima figura, in modo da poter spiegare la sua costituzione in maniera più distinta. Vedrai chiaramente che nell’uomo vi sono tre regioni, quella inferiore, quelle intermedia e quella suprema363, e vedrai che ciascuna di queste è distinta nove volte. Potrai congetturare che vi sono, ordinate per gradi, delle parti del corpo che sono meno nobili, altre che mutano continuamente ed altre che sono invece più stabili, maggiormente caratterizzate dalla forma ed estremamente nobili364. Poi, procedendo con un’ascesa analoga, concepisci le caratteristiche più spirituali del corpo, alle quali è mescolata la facoltà sensitiva, e suddividile in gradi, in modo che da quelle più ottuse tu possa giungere a quelle più sottili. Aggiungi anche le nove distinzioni dell’anima nobile365. Vedi, pertanto, che nel corpo umano vi sono, disposti in tre ordini, nove gradi differenti, i quali assorbono in se stessi la luce dei sensi366, in modo che essi si accontentino della vita vegetativa. Osservi anche che vi sono nove gradi misti, nei quali domina la facoltà sensitiva, mescolata alla natura sensibile corporea. Infine, vedi nove differenze più nobili, nelle quali l’ombra del corpo è assorbita dallo spirito discernente367. Ora, la natura del corpo procede per gradi verso l’alto, verso la facoltà sensitiva, in modo tale che l’ultimo grado del suo ordine giunge a coincidere da vicino con la facoltà sensitiva. Allo stesso modo, la facoltà sensitiva diventa più nobile nella facoltà del discernimento368. Ogni percezione, tuttavia, nasce dall’incontro con un ostacolo. Come alcune sensazioni, pertanto, sono causate dalla resistenza di qualcosa con cui si è in contatto, altre vengono stimolate da oggetti mano a mano più lontani370. L’olfatto, quindi, che trova il suo compimento nel proprio organo, data la sua natura più nobile, viene colpito anche da oggetti lontani perché ne sorga una sensazione. L’udito da oggetti più lontani ancora. La vista è superiore a tutti i sensi, per cui essa è stimolata a produrre la sensazione da oggetti ancora più distanti. L’immaginazione, invece, in virtù di una mag-
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ri libertate ultra ipsam contractionem sensuum in quantitate molis, temporum, figurae et loci et minus atque plus, quam sensitive apprehenditur, propinquius et remotius atque absens ambit, genus sensibilium non exiens. Ratio autem imaginationem supergreditur, ut videat antipodes cadere non posse potius quam nos, cum grave ad centrum moveatur, quod inter eos et nos mediat. Haec autem imaginatio non attingit. Ita quidem patet rationem supervehi imaginationi, verius irrestrictiusque ad cuncta pergere. Intellectus autem ad rationem se habet ut virtus unitatis ad finitum numerum, ut nihil eius virtutem penitus aufugere possit. 142 Mirabile est hoc dei opificium, in quo gradatim discretiva ipsa virtus a centro sensuum usque in supremam intellectualem naturam supervehitur per gradus quosdam organicosque rivulos, ubi continue ligamenta tenuissimi spiritus corporalis lucidificantur atque simplificantur propter victoriam virtutis animae, quousque in rationalis virtutis cellam pertingatur. Post quam quidem in supremum ipsum intellectualis virtutis ordinem, quasi per rivum in mare interminum, pervenitur, ubi chori quidem esse coniecturantur disciplinae, intelligentiae atque intellectualitatis simplicissimae. 143 Humanitatis igitur unitas cum humanaliter contracta exsistat, omnia secundum hanc contractionis naturam complicare videtur. Ambit enim virtus unitatis eius universa atque ipsa intra suae regionis terminos adeo coërcet, ut nihil omnium eius aufugiat potentiam. Quoniam omnia sensu aut ratione aut intellectu coniecturatur attingi atque has virtutes in sua unitate complicari dum conspicit, se ad omnia humaniter progredi posse supponit. Homo enim deus est, sed non absolute, quoniam homo; humanus est igitur deus. Homo etiam mundus est, sed non contracte omnia, quoniam homo. Est igitur homo microcosmos aut humanus quidem mun-
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giore libertà, va oltre la contrazione dei sensi, i quali sono limitati alla quantità della grandezza, del tempo, della figura e del luogo, ed abbraccia di più e ad un tempo di meno rispetto a quanto viene appreso con i sensi; abbraccia ciò che è vicino, ciò che è lontano e anche ciò che è assente, pur non uscendo dalla sfera del sensibile371. La ragione, tuttavia, supera l’immaginazione, cosicché essa vede che coloro che sono agli antipodi372 non possono cadere più di quanto non possiamo cadere noi, perché ciò che è pesante si muove verso il centro, il quale è in mezzo fra loro e noi. L’immaginazione, invece, non giunge a cogliere tutto ciò. È così evidente che la ragione è superiore all’immaginazione e che si volge a tutte le cose in modo più vero e con meno restrizioni. L’intelletto, poi, sta alla ragione come la forza dell’unità sta al numero finito, di modo che nulla può assolutamente sfuggire alla sua forza. Meravigliosa è quest’opera di Dio, nella quale, di grado in grado, la facoltà del discernimento viene trasportata dal centro dei sensi fino alla natura intellettuale suprema attraverso condotti organici, nei quali i legami prodotti da uno spirito corporeo sottilissimo373 vengono continuamente resi più chiari e semplici per la vittoria della facoltà dell’anima, fino a che essi non giungano nella cella374 della facoltà razionale. Dopo questo, la facoltà del discernimento perviene nell’ordine supremo della facoltà intellettuale – come si arriva attraverso un fiume al mare infinito –, dove si congettura vi siano i cori dell’apprendimento, dell’intelligenza e dell’intellettualità semplicissima. Poiché, pertanto, l’umanità è contratta in maniera umana, essa sembra complicare ogni cosa conformemente alla natura di questa contrazione. La forza della sua unità, infatti, abbraccia tutte le cose e le tiene racchiuse entro i limiti della sua regione, in modo tale che assolutamente nulla sfugga al suo potere. Poiché l’uomo congettura che tutte le cose vengano colte mediante i sensi o mediante la ragione o mediante l’intelletto375, e poiché osserva che queste facoltà sono complicate nella sua unità, egli suppone di poter giungere, in modo umano, a tutte le cose. L’uomo, infatti, è Dio, ma non in senso assoluto, dal momento che è uomo; è dunque un Dio umano376. L’uomo è anche mondo, ma non è contrattamente tutte le cose, dal momento che è uomo. L’uomo, pertanto, è un microcosmo o un
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dus. Regio igitur ipsa humanitatis deum atque universum mundum humanali sua potentia ambit. Potest igitur homo esse humanus deus atque, ut deus, humaniter potest esse humanus angelus, humana bestia, humanus leo aut ursus aut aliud quodcumque. Intra enim humanitatis potentiam omnia suo exsistunt modo. 144 In humanitate igitur omnia humaniter, uti in ipso universo universaliter, explicata sunt, quoniam humanus exsistit mundus. Omnia denique in ipsa complicata sunt humaniter, quoniam humanus est deus. Nam humanitas unitas est, quae est et infinitas humaniter contracta. Quoniam autem unitatis condicio est ex se explicare entia, cum sit entitas sua simplicitate entia complicans, hinc humanitatis exstat virtus omnia ex se explicare intra regionis suae circulum, omnia de potentia centri exserere. Est autem unitatis condicio, ut se finem explicationum constituat, cum sit infinitas. Non ergo activae creationis humanitatis alius exstat finis quam humanitas. Non enim pergit extra se, dum creat, sed dum eius explicat virtutem, ad se ipsam pertingit. Neque quidquam novi efficit, sed cuncta, quae explicando creat, in ipsa fuisse comperit. Universa enim in ipsa humaniter exsistere diximus. Sicut enim humanitatis virtus potens est humaniter ad cuncta progredi, ita universa in ipsam, nec est aliud ipsam admirabilem virtutem ad cuncta lustranda pergere quam universa in ipsa humaniter complicare. 145 Audisti autem, Iuliane pater, de unitrino absoluto principio creatore universorum quomodo ipse, quia unitas seu entitas est absoluta, in qua infinita aequalitas atque conexio, hinc omnipotens creator, at quia infinita est aequalitas, in qua unitas et conexio, hinc universorum rector, ordinator et gubernator, quia vero infinita co-
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mondo umano377. La regione dell’umanità, pertanto, abbraccia nella sua potenza umana l’universo mondo. L’uomo può quindi essere un Dio umano; e come può essere un Dio in modo umano, così egli può essere un angelo umano, una bestia umana, un leone umano, un orso umano378 o qualunque altro essere. All’interno del potere dell’umanità, infatti, esistono tutte le cose, ciascuna nel modo che le è proprio. Come nell’universo, pertanto, tutte le cose sono esplicate secondo il modo proprio dell’universo, così nell’umanità tutte le cose sono esplicate in modo umano379, perché l’uomo è un mondo umano. E infine, nell’umanità tutte le cose sono complicate in modo umano380, perché l’uomo è un Dio umano. L’umanità, infatti, è un’unità, che è anche un’infinità contratta in modo umano. Poiché, tuttavia, è proprio dell’unità esplicare da sé gli enti, in quanto l’unità è l’entità che complica nella sua semplicità tutti gli enti, anche all’umanità appartiene la forza di esplicare da se stessa tutte le cose entro il cerchio della sua regione, di trarre tutto dalla potenza del [suo] centro. Dell’unità, tuttavia, è anche proprio di porsi come fine delle esplicazioni, dal momento che l’unità è infinità. Di conseguenza, non vi è altro fine dell’attività creatrice dell’umanità che l’umanità stessa. Quando crea, infatti, l’umanità non procede oltre se stessa; al contrario, è proprio nell’esplicare la sua forza che essa giunge a se stessa. E l’umanità non produce neppure qualcosa di nuovo, ma tutte le cose che essa crea mediante l’esplicazione scopre che erano già in se stessa381. Abbiamo già detto, infatti, che, nell’umanità, esistono tutte le cose nel modo proprio dell’uomo. Infatti, come la forza dell’umanità può estendersi in modo umano a tutte le cose, così tutte le cose possono giungere ad essere nell’umanità, e il fatto che questa straordinaria forza dell’umanità si volga a tutte le cose e tutte le esamini non è altro che un complicare in se stessa tutte le cose in modo umano. Hai sentito parlare, padre Giuliano, del principio assoluto unitrino, creatore di tutte le cose. Hai sentito che questo principio, poiché è l’unità assoluta o l’entità assoluta, nella quale sono presenti l’infinita eguaglianza e l’infinita connessione382, è il creatore onnipotente; poiché è l’infinita eguaglianza, nella quale sono presenti l’unità e la connessione, è reggitore, ordinatore e sovrano di tut-
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nexio, in qua unitas et aequalitas, hinc universorum conservator. Ita quidem de ipsa humanitate contracte coniecturandum affirma. Est enim principium contractum creationis ordinis sui, gubernationis et conservationis, quoniam est unitas, in qua aequalitas et conexio, est aequalitas, in qua unitas et conexio, est conexio, in qua unitas et aequalitas, terminis in sua significatione intra humanitatis contractionem redactis. Quapropter in virtute humanitatis homo in superiori parte sensibili, puta phantastica, creat similitudines aut imagines sensibilium, quia unitas, in qua aequalitas et conexio. Ipsas vero creatas imagines ordinat atque locat, quia aequalitas, in qua unitas et conexio. Post haec ipsas conservat in memoria, quia conexio, in qua unitas et aequalitas. Ita quidem in regione intellectualium intellectualiter agit creando, ordinando et conservando, ac in ipsa rationali media pariformiter. Haec autem omnino ad se ipsum reflectit, ut se intelligere, gubernare et conservare possit et sic homo ad deiformitatem appropinquet, ubi cuncta aeterna pace quiescunt. 146
CAPITULUM XV
Quando autem universorum hominum concordantias et differentias coniecturis tuis aggredi proponis, attendere habes ad universorum figuram, faciendo humanam speciem sub illo maiori contrahi circulo. Tunc enim in ipsa humanitatis specie quosdam vides abstractiores contemplativos homines in quadam conversatione intellectualium et aeternorum principaliter quasi in supremo huma-
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te le cose383; poiché è la connessione infinita, nella quale sono presenti l’unità e l’eguaglianza, è colui che conserva tutte le cose. Ora, puoi affermare che si deve congetturare la stessa cosa dell’umanità, in maniera certamente contratta. L’umanità, infatti, è il principio contratto che crea il suo proprio ordine, lo governa e lo conserva, poiché essa è un’unità nella quale sono presenti l’eguaglianza e la connessione, è un’eguaglianza nella quale sono presenti l’unità e la connessione, ed è una connessione nella quali sono presenti l’unità e l’eguaglianza – termini, questi, che devono essere ricondotti al significato che essi rivestono all’interno dell’ambito contratto dell’umanità384. Per questo motivo, l’uomo, grazie alla forza che è propria dell’umanità, nella parte superiore della facoltà sensitiva, ossia nella facoltà immaginativa, crea similitudini o immagini delle cose sensibili, perché egli è un’unità nella quale sono presenti l’eguaglianza e la connessione. Ma l’uomo ordina e dispone queste immagini che ha creato, perché è un’eguaglianza nella quale sono presenti l’unità e la connessione. Dopo di ciò, le conserva nella sua memoria385, perché l’uomo è una connessione nella quale sono presenti l’unità e l’eguaglianza. In modo analogo, anche nella regione degli enti intellettuali l’uomo agisce in maniera intellettuale creando, ordinando e conservando, e lo stesso fa nella regione intermedia della ragione. Queste attività, tuttavia, l’uomo le rivolge riflessivamente su se stesso, in modo tale da poter comprendere, governare e conservare se stesso, ed è così che l’uomo si avvicina alla condizione di somiglianza con Dio, dove tutte le cose trovano la loro quiete, in una pace eterna. CAPITOLO XV
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Concordanze e differenze fra gli uomini Se ti proponi, con le tue congetture, di affrontare il tema delle concordanze e delle differenze fra gli uomini386, devi rivolgere la tua attenzione alla figura che rappresenta l’universo [la figura U], considerando che la specie umana sia contratta all’interno del cerchio più grande. Se procederai in questo modo, allora vedrai che nella specie umana vi sono alcuni uomini più portati all’astrazione e alla contemplazione, i quali sono dediti principalmente a ciò che è intellettuale ed eterno, ed è come se essi si trovassero nel cielo su-
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nitatis caelo versari, et hi sunt ut ipsius speciei intellectus circa veri speculationem vacantes. Sunt et alii, ut speciei ipsius ratio, qui inferioribus quasi sensibilibus praesunt. Primi sapientes sunt quasi lumina clarissima atque castissima, spiritualis incorruptibilis mundi effigiem ferentia, ultimi sensibiles quasi brutales, concupiscentiam atque voluptatem sequentes, medii a superioribus influentiam claritatis participant et inferioribus praesunt. In unitate itaque speciei has tres partes hominum multitudinem generaliter sub tota specie participare convenit. 147 Deinde vero in ipsa religionis aut contemplationis parte specialiores trinas intueris differentias, quoniam aliqua est hominum multitudo, quae eam alte atque nobiliter participat supra omnem rationem et sensum, alia vero, quae ipsam in rationalitatem quandam contrahit, infima ut in sensibilitatem. Et quoniam omnibus hominibus inest, uti hac via conspicis, a natura specifica religio quaedam altiorem immortalem finem promittens varie, ut habes in universo, a mundi huius inhabitatoribus participata, hinc primi abstractiores intellectualius ipsam religionem supra omnem rationem et sensum participantes vitam exspectant sua excellentia omnem rationis et sensus capacitatem supergredientem, alii vero ipsam felicitatem infra rationis metam redigentes in rerum cognitione et fruitione finem ponunt, tertii absurdissime in sensibilibus delectationibus. Adhuc primi triniter distinguuntur, ita et secundi et tertii. 148 Hac via generalissimam omnium hominum concordantiam et differentiam gradatim intuere, quoad religionem in caelo tertio,
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premo dell’umanità; costoro, che si dedicano alla contemplazione del vero387, sono come l’intelletto della specie umana. Vi sono poi altri uomini, che sono come la ragione della specie, i quali presiedono a coloro che si trovano nella regione più bassa, a livello per così dire dei sensi. I primi, i sapienti, sono come delle luci luminosissime e purissime che recano in se stesse l’immagine del mondo spirituale e incorruttibile; gli ultimi, che si trovano a livello dei sensi, sono come dei bruti e seguono la concupiscenza e il piacere; gli uomini che appartengono al gruppo intermedio partecipano dell’influsso della luce che proviene da coloro che sono più in alto e presiedono a coloro che sono più in basso388. Occorre pertanto che, all’interno dell’unità della specie, la molteplicità degli uomini partecipi, in linea generale, di queste tre categorie in cui si suddivide l’intera specie. Poi vedrai che anche all’interno dell’ambito della religione o della contemplazione vi sono tre differenze più specifiche389: vi è, infatti, una determinata molteplicità di uomini che partecipa della contemplazione in maniera elevata e nobile, al di sopra della ragione e di tutti i sensi; un’altra, invece, che la contrae in qualche modo nella razionalità, e una più bassa che la contrae quasi al livello della sensibilità. Come puoi vedere seguendo questo procedimento [sulla base cioè della figura U], in tutti gli uomini, in virtù della loro natura specifica, è insita una certa religione390, che promette loro un fine più elevato, immortale, e di essa partecipano in maniera diversa gli abitanti di questo mondo, come vedi dalla figura dell’universo. Di conseguenza, i primi, che sono più portati all’astrazione e che partecipano della religione in maniera più intellettuale, al di sopra di ogni forma di ragione e di tutti i sensi, attendono una vita che, per la sua eccellenza, oltrepassi ogni capacità della ragione e dei sensi; i secondi, invece, che riducono la felicità all’interno dei confini della ragione, pongono il proprio fine ultimo nella conoscenza delle cose e nella gioia che da essa deriva; i terzi, nella maniera più assurda, pongono il loro fine ultimo nei piaceri dei sensi. Il primo gruppo presenta ancora tre suddivisioni, lo stesso dicasi del secondo e del terzo. Procedendo in questo modo, vedi, articolate per gradi, le concordanze e le differenze più generali fra tutti gli uomini: quelle re-
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quoad praeessentiam in secundo, quoad subiectionem in infimo. Hae autem partes, quae a specie trahuntur, etsi in generalitate sua undique indesinenter persistant, capiunt tamen in specialitate sua mutationem, cum veritatis praecisio in coniectura tantum a nobis venari possit. In varia igitur alteritate unitas intellectualis illius religionis recipitur et in fluxibili multitudine rectorum secundi caeli fluxibiliter, ita et praesidentialis, quae et rationalis speciei unitas dicitur, in fluxibili multitudine sensibilium subiectorum in varia alteritate modi instabiliter persistit. 149 Adverte etiam quod, etsi aut religio aut regimen aliquamdiu stabile videatur in aliqua mundi huius natione, non tamen in ipsa sua praecisione. Fluvius enim Rhenus stabiliter diu fluere visus est, sed numquam in eodem statu permanens, iam turbulentior, iam clarior, iam in augmento, iam in diminutione. Ita etiam ut, quamvis verum sit dicere ipsum et maiorem et minorem fuisse et de maioritate in minoritatem sensim devenisse, tamen, uti nunc est, praecise numquam eum fuisse constat. Ita et religio intra spiritualitatem et temporalitatem instabiliter fluctuat. Ita et de regimine: inter maiorem minoremve oboedientiam pendule perseverat. 150 Potes etiam omnium huius mundi incolarum varietatem in complexione, figuris, vitiis et moribus, subtilitate et grossitie coniecturaliter venari constituendo universorum circulum incolarum horizontem septemtrionem, meridiem, orientem et occidentem intercipientem, in ipso meridiem altiorem et septemtrionem inferiorem, in medio medium mundi statuendo. Est igitur a septemtrione ad meridiem ascensus humanae speciei et de meridie versus septemtrionem descensus. Sic omnes homines in supremo caelo horizontem participantes in intellectu magis sunt vigentes, medii in
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lative alla religione, nel terzo cielo, quelle relative alla capacità di presiedere, nel secondo, quelle relative alla sottomissione, nel cielo più basso. Ora, sebbene queste suddivisioni, che si ricavano dalla specie, nella loro generalità siano sempre costanti in ogni luogo, nella loro specificità esse sono tuttavia suscettibili di cambiamenti, dato che noi possiamo ricercare la precisione della verità soltanto sotto forma di congettura. Per questo, l’unità intellettuale di quella religione [del terzo cielo] viene recepita nella mutevole moltitudine dei reggitori che fanno parte del secondo cielo in una varia alterità [di modi] e in maniera mutevole. Allo stesso modo, anche l’unità propria della capacità di presiedere, che viene chiamata anche unità della specie razionale, persiste in modo instabile e secondo una varia alterità di modi nella mutevole moltitudine degli uomini che le sono soggetti e che sono legati alla vita dei sensi. Considera anche che, sebbene una religione o un governo sembri per qualche tempo stabile presso una qualche nazione di questo mondo, non si tratta tuttavia di una stabilità precisa. Il fiume Reno, per esempio, è sempre apparso scorrere in un regime stabile, eppure non rimane mai nella stessa condizione, perché ora è più impetuoso, ora più limpido, ora le sue acque aumentano, ora diminuiscono. Così, anche se è vero dire che è lo stesso fiume che è stato più grande o più piccolo, che è passato gradualmente da una condizione di piena a una di magra, è evidente, tuttavia, che il Reno non è mai stato precisamente com’è ora. Così, anche la religione fluttua in modo instabile fra la spiritualità e la temporalità. Lo stesso vale per i governi: oscillano come un pendolo fra una situazione di maggiore o di minore obbedienza dei sudditi391. Puoi anche indagare, in maniera congetturale, la varietà di tutti gli abitanti di questo mondo, relativamente alla loro costituzione corporea, al loro aspetto, ai loro vizi e costumi, alla loro sottigliezza o grossezza, considerando il cerchio dell’universo come l’orizzonte degli abitanti, comprendente il nord, il sud, l’est e l’ovest, e ponendo il sud nel cerchio superiore, il nord nel cerchio inferiore e la parte mediana del mondo nel centro intermedio. Vi è pertanto un’ascesa della specie umana dal nord al sud, e una discesa dal sud al nord. Così, tutti gli uomini che partecipano dell’orizzonte nel cielo supremo sono più forti nell’intelletto, coloro che si trova-
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ratione, infimi in sensu. Magis igitur in septemtrionalibus istis regionibus intellectus possibilitati et sensibilitati immersus est, quasi sint homines sensibiles, in media intellectus in ratione viget, in tertia magis abstracte. Hinc etiam in Indianis atque Aegypti regionibus religio intellectualis atque abstractae mathematicae artes prae valuere, in Graecia et apud Afros et Romanos dialectica, rhetorica atque legales scientiae viguerunt, in aliis septemtrionalioribus sensibiles mechanicae artes. Omnes tamen regiones in his omnibus suo quodam modo peritos habere necesse est, ut sit una unius speciei natura in omnibus varie participata. 151 Sic quidem, cum ad corporales hominum dispositiones investigationem convertis, ad P figuram attendis. Si hominum colorem inquiris, septemtrionalem punctum unitatem lucis efficias, meridionalem vero tenebrae, et albae regionis septemtrionales esse prospicis, meridionales nigrae, medios autem vides medio se modo habere. 152 Si complexiones inquiris hac via, conspicis medios melius complexionatos, cum ibi extrema sint ad quandam unitatis combinationem magis harmonice atque concordanter redacta. In septemtrionalibus vero excessum conspicis frigoris atque humorum indigestorum. In meridionalibus defectum in his vides et in siccitate abundantiam. Caloremque in interioribus magis vigere per contractionem eius ad centrum in frigidioribus regionibus conspicis et plus in extremitatibus in calidioribus. 153 Nutrimenta et operimenta, habitationes et consuetudines, fortitudines corporales, infirmitates et defectus, varietates formarum et staturae secundum locorum differentiam ex his conicere poteris.
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no nella regione intermedia sono più forti nella ragione, coloro che si trovano nella regione inferiore sono più forti nei sensi. In queste regioni settentrionali, pertanto, l’intelletto è immerso di più nella sensibilità e nella possibilità, come se qui gli uomini si trovassero a livello dei sensi; nella regione intermedia, l’intelletto ha la sua forza nella ragione, nella terza più per se stesso. Per questo motivo, nelle regioni dell’India e dell’Egitto392 sono prevalse una religione intellettuale e le arti matematiche astratte; in Grecia, presso gli Africani e i Romani si sono sviluppate la dialettica, la retorica e le scienze giuridiche, nelle altre regioni più settentrionali le arti meccaniche, che sono legate ai sensi. È necessario, nondimeno, che tutte le regioni abbiano uomini che, a loro modo, siano esperti in tutte queste discipline, in maniera tale che vi sia un’unica natura di una specie unica, di cui tutti partecipano in maniera differente. Allo stesso modo, se passi ad indagare le disposizioni corporee degli uomini, presta attenzione alla figura P. Se ti occupi del colore della pelle degli uomini, considera il punto settentrionale come l’unità della luce e il punto meridionale, invece, come l’unità delle tenebre, e allora vedrai che i settentrionali appartengono alla regione bianca, i meridionali alla regione nera, mentre coloro che sono nella regione intermedia hanno caratteristiche intermedie393. Se indaghi, con questo procedimento, le costituzioni corporee degli uomini, osserverai che gli abitanti della regione intermedia sono meglio proporzionati, perché in questa regione le caratteristiche estreme sono ricondotte, in maniera più armoniosa e concorde, ad una certa combinazione unitaria. Nei settentrionali, invece, osserverai che vi è un eccesso di freddo e di umori non assimilati. Nei meridionali vedrai un difetto di queste qualità e un’abbondanza di elementi secchi. Osserverai inoltre che, nelle regioni più fredde, il calore è più forte all’interno del corpo, per il fatto che esso si contrae verso il centro, mentre nelle regioni più calde e più forte all’estremità [delle membra]394. Sulla base di queste caratteristiche, sarai in grado di formulare congetture su quali siano, secondo la differenza dei luoghi, gli alimenti e i vestiti, le abitazioni e le consuetudini, la robustezza del corpo, le malattie e i difetti, la varietà degli aspetti fisici e delle stature.
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si gentium vitia et virtutes coniecturaliter inquiris, ad idem respicis. Nam humanitas ipsa sub arctico polo ascendendi initium faciens versus antarcticum sub aequinoctiali ad altitudinem pervenit atque ad ascensus finem. Ascendit autem de hoc mundo ad alium. Pergit igitur quasi homo primo in ipsa crescente aetate, deinde in stante, deinde in decrescente. Quapropter habitudo hominum inferiorem gradum tenentium, tertiam primam ascensus mundi partem inhabitantium, ad alios est, ut est hominis habitudo in aetate ea, qua adhuc vires corporis de potentia ad actum exserit, intra scilicet infantilem et virilem aetates. Varie igitur vitia, quae huic tempori propria sunt, et similiter differenter huius aetatis virtutes hae septemtrionales regiones participant. Aliae enim ad virilitatem sunt propinquiores, aliae ad infantilem, aliae in his magis austerae gentes, magis masculae et dextrales, ut sunt orientaliores, aliae magis femininae, loquaces, leves, piae, inconstantes, ut occidentaliores. Ita quidem mediae gentes inter virilitatem et senectam vitia illius aetatis atque virtutes varie differenter, orientaliter et occidentaliter, participant. Meridionaliores vero inter senectam et decrepitam vitia virtutesque tenent. Tantum de his comparationibus dixisse sufficit, particularia distinctius ex his, si placet, inquirito.
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CAPITULUM XVI
De humana anima Primo ex saepe dictis universum ex unitate alteritateque concipito ipsumque unum in tres resolvito regiones, ut prior tibi pandit figura. Dic itaque primae regionis simplices ipsas fore intelligentias, ubi absorpta est tenebrositatis alteritas in lucis fulgore, infimaeque regionis eas concipito esse naturas, quae corporalitate sua
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Allo stesso modo, se ricerchi, in via congetturale, quali siano i vizi e le virtù dei diversi popoli, guarda alla stessa figura. Infatti l’umanità, inizia la sua ascesa dal polo artico e procede verso l’antartico, all’equatore raggiunge il suo punto più elevato è la fine della sua ascesa. Ascende, infatti, da questo mondo a un altro. Avanza come se fosse un uomo che si trovi dapprima nell’età dello sviluppo, poi nell’età della maturità e infine nell’età del declino395. Per questo motivo, la condizione degli uomini che occupano il grado inferiore, ossia di coloro che abitano il primo terzo dell’ordine ascensivo del mondo, è, rispetto agli altri uomini, come la condizione di un uomo che si trova in quell’età in cui è ancora in grado di far passare le forze del suo corpo dalla potenza all’atto, vale a dire nell’età compresa fra l’infanzia e la virilità. Queste regioni settentrionali, pertanto, partecipano in maniera varia e differente dei vizi che sono propri di questa età, così come partecipano in maniera varia anche delle sue virtù. Alcuni popoli, infatti, sono più vicini alla virilità, altri all’infanzia; alcuni sono più austeri, più mascolini e più nobili, come sono gli orientali, altri, come gli occidentali, più femminili, più volubili, più pii, più incostanti. I popoli intermedi, che si trovano fra la virilità e la vecchiaia, partecipano in modo differente dei vizi e delle virtù di quella età, alla maniera degli orientali e alla maniera degli occidentali. I meridionali, invece, hanno i vizi e le virtù propri di coloro che stanno fra l’età della vecchiaia e la decrepitezza. Quanto abbiamo detto a proposito di questi paragoni può essere sufficiente; partendo da essi, puoi condurre, se vuoi, delle ricerche più specifiche nei particolari. CAPITOLO XVI
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L’anima umana Conformemente a quanto abbiamo detto più volte396, concepisci anzitutto l’universo come composto di unità e di alterità, e suddividi l’unico universo in tre regioni, come ti mostra la prima figura397. Pensa, dunque, che alla prima regione appartengono le intelligenze semplici, nelle quali l’alterità delle tenebre è assorbita nello splendore della luce; alla regione più bassa appartengono quelle nature che hanno alterato la loro luce con la loro corporeità, men-
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lucem alterarunt, medias vero naturas animas, si placet, appellato. Animae enim medium tenent, ut sit descensus intelligentiae in inferiora per ipsas inferiorumque in superiora refluxus. Ostendit tibi autem prior paradigmatica figura extrema uniri, supremam animae scilicet naturam cum infima intellectualis atque eius infimam cum suprema corporalis coincidere. 156 Age igitur, si animarum differentias distinctius inquirere cupis, magnum circulum nunc universarum fingito animarum atque in huius universo trinas, radicales, quadratas cubicasque inspice partitiones. Intelligentiam autem huius universi unitatem simplicem concipe, uti deus universaliter omnium. Intueberis permanifeste intelligentiam quadam universali coniunctione, quae per maximum circulum figuratur, omnibus coniungi animabus, deinde generaliter primae regioni animarum, specialius vero supremo ordini, specialissime vero supremo choro, quae humana vocetur species. Omnis igitur anima unitatem intelligentiae in alteritate participat, aliae clarius, aliae vero obscurius, solum autem animae supremae cum ipsa specialissima unione vinciuntur. Et haec quidem est participatio ipsa, qua supremum inferioris in coincidentiam pergit cum ipso superioris infimo. Animalia vero clarius participare intelligentias quam vegetabilia per medium animae evenit. Habet autem animal ut genus species plures ab ipsa unitate generis ordinatim ut numeri progredientes, quarum haec nobilior altiorque exsistit, quae unitati propinquior. Anima igitur perfectioris speciei animalis in unitatem cum intellectuali pergens natura ipsa est in se virtualiter alias complicans omnium animarum vigores, quasi generis metallorum auri species perfectior suo valore alias omnes metallinas ambit species et in genere regnantium regalis auctoritas ceterorum ducum, comitum inferiorumque rectorum in se unit im-
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tre, se vuoi, puoi chiamare anime le nature intermedie. Le anime, infatti, occupano una posizione intermedia, in modo tale che attraverso di esse possa compiersi la discesa dell’intelligenza nelle realtà inferiori e il ritorno di queste alle realtà superiori398. La prima figura paradigmatica ti mostra, tuttavia, che gli estremi si uniscono, vale a dire che la natura più elevata dell’anima coincide con la più bassa dell’intelletto, e che la natura più bassa dell’anima coincide con la più elevata del corpo399. Se desideri poi indagare più distintamente le differenze che vi sono fra le anime, immagina che il cerchio grande sia il cerchio di tutte le anime e osserva che in questa totalità vi sono tre partizioni, che sono le radici, le potenze al quadrato e le potenze al cubo400. Concepisci invece l’intelligenza come l’unità semplice di questo universo, come Dio è, in senso universale, l’unità di tutte le cose. Vedrai nel modo più chiaro che l’intelligenza è congiunta a tutte le anime mediante una certa congiunzione universale che è raffigurata nel cerchio massimo, che essa è poi congiunta in maniera generale alla prima regione delle anime, in maniera più specifica all’ordine supremo delle anime e in maniera del tutto specifica al coro supremo delle anime, che è chiamato specie umana. Ogni anima, pertanto, partecipa dell’unità dell’intelligenza nell’alterità; alcune anime in una maniera più luminosa, altre in una maniera più oscura, mentre solo le anime supreme sono legate all’intelligenza con un’unione assolutamente specifica. E questa è la partecipazione mediante la quale il grado supremo di ciò che è inferiore tende a coincidere con il grado più basso di ciò che è superiore. Ora, attraverso la mediazione dell’anima avviene che gli animali partecipino delle intelligenze in modo più chiaro dei vegetali. Il genere animale, tuttavia, ha molte specie, che procedono dall’unità del genere per ordine, come i numeri; fra esse è più nobile e più elevata la specie che è più vicina all’unità. Pertanto, l’anima della specie animale più perfetta, che tende ad unirsi con la natura intellettuale, complica virtualmente in sé anche le altre forze di tutte le anime, così come nel genere dei metalli, ad esempio, l’oro, che per il suo valore è la specie più perfetta, abbraccia tutte le altre specie di metalli401, o come, nel genere dei governanti, l’autorità del re unisce in sé i poteri degli altri duchi, dei conti e dei signori di grado inferiore.
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peria. Sunt igitur omnium animalium species humanae animae virtutem unitam numeratim explicantes eiusque naturam varia differentia contrahentes, alia clariori ratione, alia tenebrosiore. Nulla tamen species ad aequalitatem praecisam attingere valet. 157 Ipsa autem humana anima cum sit infima intellectualis natura, intellectualiter in potentia est. Intellectualis autem potentia lumen est rationis. Concipito itaque animam humanam ut P figuram ex intellectuali unitate et sensuali alteritate. Descendente igitur lumine intelligentiae in umbram sensualem atque ascendente sensu in intellectum per gradus ternos medio loco duo exoriuntur, quae rationis nomen habere suppono. Superior autem huius rationis portio, quae intellectui prior reperitur, apprehensiva, inferior vero phantastica seu imaginativa, si placet, his aut aliis vocentur nominibus. Haec sunt quasi animae humanae quattuor elementa. Intellectus autem iste in nostra anima eapropter in sensum descendit, ut sensibile ascendat ad ipsum. Ascendit ad intellectum sensibile, ut intelligentia ad ipsum descendat. Hoc est enim intellectum descendere ad sensibile, quod sensibile ascendere ad intellectum. Visibile enim non attingitur per sensum visus absente intensione intellectualis vigoris. Hoc quidem experimur, dum circa alia intenti praetereuntem non discernimus. Sensus enim confuse capit sensibile in ipsum ascendens, sed non est sensatio formata atque discreta absque intellectu in nobis per medium rationis descendente. Nec nos attingimus sensibile ut tale absque sensu, caecus enim sensibilem colorem non attingit. Intellectus autem, qui secundum regionem intellectualem in potentia est, secundum inferiores regiones plus est in actu. Unde in sensibili mundo in actu est, nam in visu visibile, in auditu audibile actualiter apprehendit. In sensu autem sensus est, in imaginatione imaginatio, in ratione ratio. 158 Non enim est anima aliud quam nobilis quaedam atque simplex unita virtus. Quaelibet autem pars virtualis de toto verificatur. Vir-
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Le specie di tutti gli animali, pertanto, esplicano, come i numeri, la forza unitaria dell’anima umana, e ne contraggono la natura in varie differenze, alcune specie in maniera più luminosa, altre in maniera più oscura. Nessuna specie, tuttavia, è in grado di raggiungere l’eguaglianza precisa. L’anima umana, essendo la natura intellettuale più bassa, è in potenza per quanto riguarda l’intelletto402. La potenza intellettiva, tuttavia, è il lume della ragione. Concepisci pertanto l’anima umana in base alla figura P come composta dall’unità intellettuale e dall’alterità del senso. Dalla discesa del lume dell’intelligenza nell’ombra dei sensi e dall’ascesa dei sensi all’intelletto, che si compiono attraverso tre gradi, nascono nella regione intermedia due parti403, che suppongo abbiano il nome di «ragione». La parte suprema di questa ragione, che si trova più vicino all’intelletto, si può chiamare «apprensione», la parte inferiore «fantasia» o «immaginazione», o, se si vuole, si possono chiamare queste parti anche con altri nomi. Questi sono, per così dire, i quattro «elementi» dell’anima umana. Ora, questo intelletto, che si trova nella nostra anima, discende nei sensi affinché il sensibile ascenda all’intelletto. E il sensibile ascende all’intelletto, affinché l’intelligenza discenda in esso. La discesa dell’intelletto nel sensibile, infatti, è l’ascesa del sensibile all’intelletto404. Ciò che è visibile, ad esempio, non viene colto dal senso della vista se manca l’attenzione della forza intellettiva. Ne facciamo esperienza quando, avendo la nostra attenzione rivolta ad altre cose, non ci accorgiamo di uno che ci passi davanti. I sensi, infatti, colgono in modo confuso il sensibile405 che ascende ad essi, e senza la discesa in noi dell’intelletto attraverso la mediazione della ragione la percezione sensibile resta priva di forma e di distinzione406. Ma non possiamo neppure cogliere il sensibile in quanto tale senza i sensi; un cieco, ad esempio, non coglie il colore sensibile407. L’intelletto, invece, che in rapporto alla regione intellettuale è in potenza, è maggiormente in atto rispetto alle regioni inferiori. Nel mondo sensibile, pertanto, l’intelletto è in atto; nella vista, infatti, apprende in atto il visibile, e nell’udito l’udibile. Nei sensi, invece, l’intelletto è i sensi, nell’immaginazione è immaginazione, nella ragione è ragione408. L’anima non è altro che una certa forza unitaria, nobile e semplice. Ora, ogni parte di una forza si predica del tutto. Ad esem-
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tus enim sensitiva aut imaginativa animae nostrae cum sit in anima, anima est, ut virtus ducalis aut comitalis in rege regia est, sicut regalis in duce ducalis est. Anima etiam cum sit vivificatio corporis, ipsa in pede vivificatio pedis est, in manu vivificatio manus est. Et cum vivificatio animae sit anima, ipsa est unitas corporalis viventis alteritatis et ex hoc est in qualibet parte ut unitas in numero. Sicut enim virtus lapidem sursum proicientis lapidem gravem elevat, ita ut ea cessante deorsum festinet, ita animae virtus corpus movet, et non est aliud mori quam virtutem vivificantem deficere. Est igitur anima in visu visus, in auditu auditus. 159 Per hoc igitur quod intellectus in sensu in actu est, excitatur admiratione dormitans ratio, ut ad verisimile discurrat. Deinde intelligentia pulsatur, ut absolutius a dormitante potentia in cognitionem veri vigilantius erigatur. Sensata enim in phantasia depingit atque, dum eorum rationem inquirit, in actum intelligendi verique notitiam pergit. Unit enim alteritates sensatorum in phantasia, varietatem alteritatum phantasmatum unit in ratione, variam alteritatem rationum in sua unit intellectuali simplici unitate. Descendit unitas intellectus in alteritatem rationis, unitas rationis in alteritatem imaginationis, unitas imaginationis in alteritatem sensus. Complica igitur ascensum cum descensu intellectualiter, ut apprehendas. Non est enim intentio intellectus, ut fiat sensus, sed ut fiat intellectus perfectus et in actu; sed quoniam in actu aliter constitui nequit, fit sensus, ut sic hoc medio de potentia in actum pergere queat. Ita quidem supra se ipsum intellectus redit circulari «completa reditione», quasi nobilis, qui in potentia militiae exsistens, quam ob paupertatem ad actum deducere nequit, se ad
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pio, la facoltà percettiva o immaginativa della nostra anima, essendo nell’anima, è anima, così come il potere di un duca o di un conte nel re è potere regio, e il potere del re in un duca è potere ducale. Inoltre, dal momento che l’anima è ciò che vivifica il corpo409, nel piede l’anima è vivificazione del piede, nella mano è vivificazione della mano. E dal momento che ciò che vivifica l’anima è l’anima, essa è l’unità dell’alterità corporea del vivente, e per questo motivo è presente in ogni parte del corpo410, come l’unità è nel numero. Infatti, come la forza di una persona che lanci in alto una pietra fa salire la pietra che è pesante, di modo che, quando questa forza cessa, la pietra ricade rapidamente in basso, così la forza dell’anima muove il corpo, ed il morire non è altro che il venir meno della forza vivificante. L’anima, pertanto, nella vista è vista, nell’udito è udito. In virtù del fatto, pertanto, che l’intelletto è in atto nei sensi, la ragione che si trova in una condizione come di sonno, viene svegliata dallo stupore411, in modo tale che essa possa così dirigersi verso il verosimile. Poi, l’intelligenza viene spinta a separarsi ancora di più dal sonno della potenza [in cui si trova] e ad elevarsi più vigile alla conoscenza del vero. L’intelligenza, infatti, si rappresenta nella fantasia ciò che è stato percepito, e mentre ne indaga la forma si volge all’atto dell’intendere e alla conoscenza del vero412. Essa, infatti, unifica le alterità degli oggetti percepiti nella fantasia, unifica la varietà delle alterità dei fantasmi nella ragione ed unifica la varia alterità delle forme nella propria unità intellettuale semplice. L’unità dell’intelletto discende nell’alterità della ragione, l’unità della ragione nell’alterità dell’immaginazione, l’unità dell’immaginazione nell’alterità dei sensi. Per giungere all’apprensione [ossia, alla parte suprema della ragione: cfr. sopra, 157, 8-10], devi pertanto complicare l’ascesa con la discesa in maniera intellettuale. L’intenzione dell’intelletto413, infatti, non è di diventare senso, bensì di diventare un intelletto compiuto e in atto; poiché, però, non si può costituire in atto in altro modo, esso diviene senso per poter passare, per questo tramite, dalla potenza all’atto. In questa maniera, l’intelletto ritorna a sé, attraverso un «ritorno circolare completo», come un nobile che è cavaliere in potenza, ma che, non potendo portare all’atto tale potenza a causa della sua povertà, si arruola
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tempus subicit, ut sic ea acquirat, per quae se in actu militiae constituat. 160 Non indigent divites ipsae nobiliores intelligentiae sensibus, cum sint ut ardentes, inconsumptibiles et semper crescentes ignes, quae extrinseco excitativo vento per sensibile flabellum insufflando non egent, ut ardeant. In actu enim, quamvis differenter, exsistunt. Sed cum nostra intellectualis portio sit quasi scintillaris ignis inter viridia ligna absconsus, his indiget. Nec putas nos homines, qui sensu vigemus, aliquid attingere intelligentias latitans. Intellectualiter quidem hoc attingunt, quod nos per sensum sensibiliter. Dum enim quis Romanam loquitur linguam, ego auditu vocem, tu vero etiam in voce mentem attingis, intelligentia vero sine sermone mentem intuetur; ego enim irrationabiliter, tu vero rationabiliter, angelus intellectualiter. Verius igitur sic atque perfectius intuitione intellectuali quam per sensibilem auditum attingitur quaesitum. 161 Adverte etiam, ut intellectum ob suam perfectionem descendere et «reditione completa» ad se reverti audisti, ita de sensu concipe. Nam ob perfectionem vitae sensitivae sursum ad intellectum pergit. Conectuntur igitur duo appetitus, naturalis et accidentalis, qui mutua circulatione adimplentur. Quoniam autem perfectio intellectus est actu intelligere, posse enim intelligere dum ad actum pergit, perficitur, hinc intellectus, ex se intelligibile faciens quod in intellectum progreditur, est sui ipsius fecunditas. Nam intellectum in species sensibiles descendere est ascendere eas de condicionibus contrahentibus ad absolutiores simplicitates. Quanto igitur profundius in ipsis se immittit, tanto ipsae species magis absorbentur in eius luce, ut finaliter ipsa alteritas intelligibilis, resoluta in unitatem intellectus, ut in fine quiescat. Unitas igitur intellectus
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per un certo periodo di tempo per acquisire i mezzi con i quali potersi costituire come cavaliere in atto. Le intelligenze più nobili e più ricche414 non hanno bisogno dei sensi, poiché esse sono come fuochi ardenti che non si consumano e crescono sempre. Per ardere, non hanno bisogno dell’impulso di un vento esterno suscitato mediante un ventaglio sensibile415. Esse, infatti, sono in atto, anche se in modi differenti. Poiché, invece, la nostra parte intellettuale è come una scintilla di fuoco416 nascosta fra la legna verde, essa ha bisogno dei sensi. Non credere, tuttavia, che noi uomini, giacché siamo forti nei sensi, giungiamo a cogliere qualcosa che sfugga alle intelligenze. Esse, infatti, colgono intellettualmente ciò che noi, con i sensi, cogliamo sensibilmente. Ad esempio, quando qualcuno parla in dialetto romano io con l’udito sento la voce, tu, invece, ascoltando la voce ne afferri il significato, e un’intelligenza coglie intuitivamente senza aver bisogno delle parole. Io infatti sento [ciò che viene detto] senza l’ausilio della ragione, tu lo intendi con la ragione, l’angelo [lo intuisce] con l’intelletto. Quanto si cerca, pertanto, lo si coglie in maniera più vera e perfetta mediante l’intuizione intellettuale417, che non mediante il senso dell’udito. Presta attenzione anche a questo: come hai ascoltato che l’intelletto, per raggiungere la sua perfezione, discende e torna a se stesso compiendo «un ritorno completo», così devi pensare anche a proposito dei sensi. Per raggiungere la perfezione della vita sensitiva, i sensi si elevano all’intelletto. Si connettono pertanto fra loro due appetiti, uno naturale e uno accidentale418, che vengono soddisfatti mediante un reciproco movimento circolare. Ora, poiché la perfezione dell’intelletto consiste nell’intendere in atto – il poter intendere, infatti, è perfettamente compiuto quando giunge all’atto –, e poiché, quindi, è l’intelletto che rende da se stesso intelligibile ciò che giunge in esso, l’intelletto è la fecondità di se stesso. La discesa dell’intelletto nelle specie sensibili, infatti, è l’ascesa delle specie sensibili dalla loro condizione di contrazione ad un grado di semplicità che è più libero da tale condizione. Pertanto, quanto più profondamente l’intelletto si immette nelle specie, tanto più esse vengono assorbite nella sua luce, in modo tale che, alla fine, la stessa alterità intelligibile, essendo stata risolta nell’unità dell’intelletto, trova [qui] la sua quiete come nel suo fine. L’unità dell’intel-
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tanto plus perficitur, quanto de potentia in actum progreditur. Et quanto ignis potentior est in actu, tanto citius ignibile de potentia in actum pergere facit. Nec est aliud ignibile in ignem producere quam ignem se in ignibili profundare. Intellectus est in nobis quasi semen ignis intellectualis, in rationali ignibili ut materia collocatus. Unde uti color non est visibilis nisi in unitate lucis, quia color lucis est alteritas, alteritas autem non nisi in unitate attingibilis est, ita phantasmata non nisi in luce rationis intelligibilia sunt; phantasmata enim alteritates sunt unitatis rationis. Quanto igitur phantasmata sunt unitati rationis propinquiora, tanto magis intelligibilia, uti color magis visibilis, qui luci propinquior. Unde uti flamma, quia in lumine absorpta, per se visibilis est et in eius lumine alterationes lucis, puta colores, intuemur, ita quidem sunt conceptus in rationis lumine absorpti, ut per se intelligantur et alia obscuriora intelligibilia faciant, ut in per se notis constat principiis. Ratio igitur per se intellectui ingeritur, ut lux visui, et intellectus per se in rationem descendit, ut visus in lucem pergit; hoc est enim rationem per se intelligibilem esse, intellectum in ipsam descendere. Sicut autem unitas per se in numerum pergit, ita ratio in phantasmata; et uti numerus non nisi unitate attingitur, ita intellectus non nisi ratione mediante phantasmata apprehendit. 162 Adverte igitur quoniam unitas per se est inattingibilis. Alioquin praecisio, infinitum atque inattingibile, attingeretur ratione, quod est impossibile. Non igitur attingitur unitas nisi mediante alteritate, sicuti unitas speciei mediante alteritate individuorum atque generum unitas mediante specierum diversitate. Neque alteritas attingitur per se, ex eadem radice, unde non attingitur alteritas nisi mediante unitate. Non enim attingitur individuum nisi mediante
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letto, pertanto, tanto più giunge a compimento, quanto più passa dalla potenza all’atto. E quanto più potente è un fuoco in atto, tanto più rapidamente fa passare il combustibile dalla potenza all’atto. Trasformare il combustibile nel fuoco non significa altro che il fuoco si immerge in profondità nel combustibile. L’intelletto è presente in noi come un seme di fuoco intellettuale419 collocato nel combustibile della ragione, che ne costituisce, per così dire, la «materia». Di conseguenza, come il colore non è visibile se non nell’unità della luce420, poiché il colore è l’alterità della luce421 e l’alterità non la si può cogliere se non nell’unità, così i fantasmi non sono intelligibili se non nella luce della ragione; i fantasmi, infatti, sono le alterità dell’unità della ragione. Quanto più i fantasmi, pertanto, sono vicini all’unità della ragione, tanto più sono intelligibili, così come è più visibile il colore che è più vicino alla luce. Come la fiamma, quindi, essendo assorbita nella luce, risulta visibile di per sé, ed è nella sua luce che vediamo le alterazioni della luce, vale a dire i colori, così anche i concetti sono assorbiti nel lume della ragione, in modo tale che essi possono essere intesi di per sé e possono rendere intelligibili altre cose più oscure, com’è evidente che fanno i principi che sono noti di per sé422. La ragione, pertanto, penetra di per sé nell’intelletto, come la luce nella vista, e l’intelletto discende di per sé nella ragione, come la vista si rivolge alla luce; se un concetto della ragione, infatti, è intelligibile di per sé, è perché l’intelletto è disceso in esso. Come l’unità, tuttavia, si volge da sé a numero, così la ragione si volge ai fantasmi; e come il numero non viene colto se non nell’unità, così l’intelletto non apprende i fantasmi se non mediante la ragione. Considera allora per quale motivo l’unità è irraggiungibile in se stessa423. Se così non fosse, la precisione, l’infinito e l’irraggiungibile verrebbero colti con la ragione, il che è impossibile. L’unità, pertanto, non può essere raggiunta se non attraverso la mediazione dell’alterità, così come l’unità della specie non può essere raggiunta se non mediante gli individui, l’unità del genere mediante la diversità delle specie. Per lo stesso motivo di fondo, neppure l’alterità può essere raggiunta per se stessa, per cui non si giunge all’alterità se non attraverso la mediazione dell’unità. Non si giunge infatti all’individuo se non mediante la specie, alla specie se non median-
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specie, nec species nisi mediante genere, nec color nisi mediante luce, nec sonus nisi mediante aëre, cum sonus sit alteritas quieti aëris, nec sentitur dolor, qui alteritas est, nisi in unitate continui aut complexionis. Dum complexionis alteritate quacumque offenditur, disconvenientia in unitate sentitur. 163 Et quoniam intellectum constat unitatem esse rationis, quae ipsum in alteritate participat, hinc intellectus ante alteritatem exsistens nec tempori, quod ex ratione prodit, nec corruptibilitati subicitur, cum sit rationalis alteritatis absolutior unitas. Non est igitur eius natura corruptibilis, cum corruptibilis rationem praeveniat. Ubi vero unitas absorbet alteritatem, ibi immortalitas. Quare et altior illa rationalis natura, quae phantasmatum alteritatem in luce suae unitatis absorbet et in lumine immortalis intellectus occultatur, ita est immortalis sicut lumen inumbrabile. Sicut enim lumen ipsum, quantum in se est, non potest non esse visibile, ita ratio pura non potest non intelligi. Et haec est vita eius atque perfectio. Et in hoc differentiam rationis humanae atque bestiarum venari poteris. Cur ipsa humana in immortalitate vitae intellectualis, quae est semper intelligere, absorbetur? Quia semper per se est intelligibilis, uti lumen per se visibile. Non autem alteritates lucis, puta colores, per se visibiles sunt, sic nec alteritates rationis, quae in aliis animalium speciebus exsistunt; quare alterabiles et corruptibiles. 164 Quoniam autem homo diu caecus dum videre incipit, primo hoc in luce experitur, hinc lux est alteritas spiritus visivi, et non apprehendit visus unitatem suam nisi mediante alteritate. Lux igitur illa, quae se ingerit in oculum, mediante qua se videre apprehendit, est altera lux a luce visivi spiritus. Quando igitur fortitudo lucis visivi spiritus intra se absorbet lumen visibile, transit visibile in
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te il genere, al colore se non mediante la luce; il suono non viene colto se non mediante l’aria, poiché il suono è l’alterità della quiete dell’aria424, e anche il dolore, che è alterità, non viene avvertito se non nell’unità continua [che vi è tra i diversi organi] o nell’unità della complessione organica. Quando infatti l’unità continua si dissolve e si altera, o quando l’unità armonica della complessione organica viene colpita da una qualche alterità, allora nell’unità si avverte questa dissonanza425. E poiché è evidente che l’intelletto è l’unità della ragione, la quale partecipa di esso nell’alterità, ne consegue che l’intelletto, essendo anteriore all’alterità, non soggiace al tempo, che procede dalla ragione, né alla corruttibilità, in quanto l’intelletto è l’unità dell’alterità della ragione ed è [pertanto] più libero da tale alterità. La natura dell’intelletto, pertanto, non è corruttibile, perché l’intelletto precede la ragione426. Dove l’unità assorbe l’alterità, lì vi è l’immortalità. Per questo motivo, anche la natura razionale più elevata427, che assorbe l’alterità dei fantasmi nella luce della propria unità e che si nasconde nel lume dell’intelletto immortale, è altrettanto immortale quanto la luce è inoscurabile. Come la luce, infatti, non può, in quanto luce, non essere visibile, così la ragione pura non può non essere compresa. E questa è la sua vita e il suo compimento. Ed in ciò potrai individuare la differenza che c’è fra la ragione dell’uomo e quella delle bestie428. Perché la ragione umana viene assorbita nell’immortalità della vita dell’intelletto, che è un intendere sempre? Perché la ragione è di per sé sempre intelligibile429, come la luce è visibile di per sé. Le alterità della luce, ossia i colori, non sono invece visibili di per sé; in modo simile, le alterità della ragione che si trovano nelle altre specie di animali non sono di per sé intelligibili. Per questo motivo, tali specie sono alterabili e corruttibili. Ma quando un uomo, che è stato cieco per lungo tempo, comincia a vedere, egli fa esperienza di questo fatto anzitutto nella luce, per cui la luce è l’alterità dello spirito visivo430, e la vista non apprende la propria unità se non mediante l’alterità. Pertanto, quella luce che penetra nell’occhio, mediante la quale l’occhio apprende di vedere, è una luce diversa dalla luce dello spirito visivo. Quindi, quando la forza della luce dello spirito visivo assorbe in sé la luce
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visum; quando autem alteritas lucis visibilis sua fortitudine absorbet debilitatem visivi spiritus, transit unitas virtutis visivae in alteritatem et divisionem. 165 Ita quidem de virtute intellectuali et lumine rationis coniecturandum existimo. Nam ratio alteritas intellectualis unitatis est et, nisi fortis fuerit virtus eius, saepe in alteritate rationis absorbetur, ut opinionem verum existimet intellectum. Sic et phantasmatum alteritas saepe rationem absorbet, ut id quod imaginatur homo iudicet ratione ostensum. Ita et alteritas sensus unitatem virtutis phantasticae aliquando absorbet, ut id quod sensu attingit hoc esse iudicet quod imaginatur, uti infans, informem adhuc phantasticae habens virtutem, mulierem quam videt matrem iudicat, quam imaginatur. Ita quidem et aliis debilibus in hac virtute accidere solet. 166 Intellectus igitur, quae est rationis unitas, ea ipsa ratione mediante corpori iungitur; corporalis enim natura intellectualem non nisi in alteritate participare potest, a qua cum maxime distet, scalaribus mediis opus habet. Participat igitur corporalis natura intellectualem ipsam in alteritate lucis rationis per medium vegetativum atque sensuale. Ascendit autem sensibile per organa corporalia usque ad ipsam rationem, quae tenuissimo atque spiritualissimo spiritui cerebri adhaeret. Alteritas autem, quae in ratione recipitur, unitate ipsius rationis, quae alteritas est intellectus, mediante in intellectum ab omni organo liberum absumitur. Et quoniam hic rationis ascensus descensus est intellectus, ob hoc absolutus intellectus, dum in alteritate rationali venatur, veritates ipsas ut a phantasmatibus elevatas sursum amplectitur. 167 Quare, cum sic a sensibilibus ortum capiat, absolute verus esse nequit, sed secundum quid. Nam in ratione verus est secundum ra-
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visibile, allora la luce visibile passa nella vista; quando invece l’alterità della luce assorbe, con la propria forza, la debolezza dello spirito visivo, allora l’unità della facoltà visiva passa nell’alterità e nella divisione. Ritengo che si debbano formulare congetture simili per quanto riguarda la forza dell’intelletto e il lume della ragione. La ragione, infatti, è l’alterità dell’unità intellettuale, e quest’ultima, se la forza dell’intelletto non sarà forte, viene spesso assorbita nell’alterità della ragione, cosicché si finisce col considerare l’opinione come una vera conoscenza intellettiva. Allo stesso modo, anche l’alterità dei fantasmi spesso assorbe la ragione, con la conseguenza che l’uomo giudica dimostrato dalla ragione ciò che ha solo immaginato. Anche l’alterità dei sensi talvolta assorbe l’unità della facoltà della fantasia, di modo che si ritiene che ciò che si coglie con i sensi sia ciò che si immagina, come fa, ad esempio, il bambino, il quale, avendo una facoltà della fantasia ancora non formata, quando vede una donna ritiene che sia la madre che egli immagina. La stessa cosa accade di solito anche ad altri, se sono deboli in questa facoltà [dell’immaginazione]. L’intelletto, che è l’unità della ragione, si unisce pertanto al corpo mediante la ragione; la natura corporea, infatti, non può partecipare della natura intellettuale se non nell’alterità, e giacché è distante da essa in modo massimo ha bisogno di gradini intermedi. La natura corporea, pertanto, partecipa della natura intellettuale nell’alterità della luce della ragione, con la mediazione della facoltà vegetativa e di quella sensitiva431. Il sensibile, invece, ascende attraverso gli organi corporei fino alla ragione stessa, la quale è in contatto con il cervello mediante uno spirito estremamente sottile e immateriale432. Ma l’alterità che viene recepita dalla ragione, per mezzo dell’unità della ragione stessa, che è l’alterità dell’intelletto, viene assunta nell’intelletto, il quale è indipendente da ogni organo corporeo. E poiché quest’ascesa della ragione è una discesa dell’intelletto, l’intelletto assoluto [ossia indipendente da ogni organo corporeo], quando compie la sua caccia nell’ambito dell’alterità razionale, abbraccia quelle stesse verità come elevate al di sopra dei fantasmi. Prendendo così avvio dalle realtà sensibili, l’intelletto non può essere vero in senso assoluto, ma solo sotto un certo aspetto. Nel-
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tionem, in imaginatione secundum imaginationem, in sensu secundum sensum. Dum autem res abstractius extra omnem rationis alteritatem in sua simplici intellectuali natura intuetur, eas extra ipsa phantasmata in claritate veritatis amplectitur. Intellectus enim alteritas est infinitae unitatis. Quanto igitur ipse intellectus a sua alteritate se altius abstrahit, ut in unitatem simplicissimam plus ascendere queat, tanto perfectior altiorque exsistit. Nam cum omnis alteritas non nisi in unitate attingibilis sit, non potest intellectus se ipsum, qui alteritas est, cum non sit divinus absolutissimus intellectus, sed humanus, nisi in ipsa divinissima unitate, uti est, intueri. Non enim intellectus se ipsum aut aliquod intelligibile, uti est, attingere poterit nisi in veritate illa, quae est omnium unitas infinita, nec potest ipsam unitatem infinitam intueri nisi in intellectuali alteritate. In se ipso igitur intellectus intuetur unitatem illam non, uti est, sed uti humaniter intelligitur, et per ipsam, quam sic intelligit in alteritate, se elevat, ut absolutius in eam, uti est, pergat, de vero ad veritatem, aeternitatem et infinitatem. Et haec est ultima perfectio intellectus, quoniam per theophaniam in ipsum descendentem continue ascendit ad approximationem assimilationis divinae atque infinitae unitatis, quae est vita infinita atque veritas et quies intellectus. 168 Est autem ipse adeo subtilis naturae, ut quasi in puncto centrali indivisibili sphaeram intueatur. Dum est contractus in ratione, ipsam sphaeram intuetur in ratione illa, quae habet omnes lineas a centro ad circumferentiam esse aequales. Dum in phantasia ipsum intuetur, ipsam rotundam atque corpoream imaginatur. Sensus autem visus non sphaeram, sed partem eius tantum potest intueri, sed per rationem partem cum parte componentem attingitur. Unde
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la ragione, infatti, l’intelletto è vero in modo conforme alla ragione, nell’immaginazione in modo conforme all’immaginazione, nei sensi in modo conforme ai sensi. Quando tuttavia l’intelletto coglie intuitivamente le cose in maniera più astratta, al di là di ogni alterità della ragione, allora le abbraccia indipendentemente dai fantasmi nella chiarezza della verità433. L’intelletto, infatti, è l’alterità dell’unità infinita434. Di conseguenza, quanto più l’intelletto fa astrazione, in forma ancora più elevata, dalla propria alterità, in modo da ascendere maggiormente verso l’unità assolutamente semplice, tanto più esso è perfetto ed elevato. Dal momento che ogni alterità non è raggiungibile se non nell’unità, l’intelletto, che è alterità, in quanto non è l’intelletto divino del tutto assoluto, ma è un intelletto umano, può cogliere intuitivamente se stesso, per com’è in sé, solo nella stessa unità sommamente divina435. L’intelletto, infatti, non potrà giungere a cogliere se stesso o qualsiasi altro intelligibile, per com’è in se stesso, se non in quella verità che è l’unità infinita di tutte le cose; questa vita infinita, tuttavia, non può coglierla intuitivamente che nell’alterità dell’intelletto436. In se stesso, pertanto, l’intelletto coglie intuitivamente tale unità non come essa è in se stessa, ma come può essere intesa dal punto di vista dell’uomo; e attraverso questa unità, che intende così nell’alterità, l’intelletto si eleva per procedere in modo più assoluto verso l’unità com’è in sé, passando dal vero alla verità, all’eternità e all’infinità. In questo consiste la perfezione ultima dell’intelletto, nel fatto, cioè, che, attraverso una teofania437 che discende in lui, l’intelletto ascende continuamente, avvicinandosi alla somiglianza con l’unità divina infinita, la quale è la vita infinita, la verità e la quiete dell’intelletto. L’intelletto, tuttavia, è dotato di una natura così sottile, che in un punto centrale indivisibile riesce, per così dire, a cogliere intuitivamente l’intera sfera438. Quando l’intelletto è contratto nella ragione, coglie intuitivamente la stessa sfera in quel concetto razionale per il quale la sfera è la figura che ha uguali tutte le linee che vanno dal centro alla circonferenza. Quando la coglie intuitivamente nella fantasia, la immagina rotonda e corporea. Il senso della vista, invece, non è in grado di vedere tutta la sfera, ma ne vede solo una parte, mentre è per mezzo della ragione, che compone una parte
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sicut veritas intellectualis per rationem in sua praecisione est inattingibilis, ita veritas rationis est sensibiliter incontrahibilis. Semper enim defectum in alteritate esse necesse est. Unitas enim non aliter in alteritate quam cum casu a praecisione et aequalitate reperibilis est. Aliter enim non esset alteritas, si esset praecisa aequalitas. Quapropter nec ratio circuli est verus circulus intellectualis. Non enim ab eo circulus intellectualiter verus iudicatur, quia a centro eius ad circumferentiam lineae sunt aequales, sed haec rationalis diffinitio intellectualis circuli est, ad verum se habens circulum ut signum ad signatum et alteritas ad suam unitatem aut compositum ad simplex seu explicatio ad complicationem aut contractum ad absolutum. Circulus enim in contracto esse via rationis aliter esse nequit, in unitate autem sua absolutiori absque alteritate linearum et circumferentiae intelligibiliter exsistit. Sicut autem ratio in unitate intellectus a priori demonstrative discurrit, sic intellectualis nostra cognitio verior esse non posset, si in unitate absoluta, quae veritas est, alteritas omnis intueretur non ut alteritas, sed ut unitas, quanto hoc absolutius praecisiusque a divino munere concederetur. Praecisissime enim hoc solum per divinum ipsum intellectum, quae est ipsa praecisio absoluta, hoc fieri potest; ipse enim est solus omne, quod in omni intellectu intelligit et in omni intelligibili intelligitur. 169 Habet igitur haec intellectualis cognitio se in perfectione actuali ad alias ut corpus ad superficiem, lineam et punctum, sed in subtilitate ut punctus ad lineam, superficiem et corpus. Punctaliter qui-
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con un’altra, che si giunge a cogliere l’intera sfera. Di conseguenza, come la verità intellettuale non può essere colta dalla ragione nella sua precisione, così la verità della ragione non può essere contratta in maniera sensibile. È necessario, infatti, che nell’alterità vi sia sempre una mancanza439. L’unità non la si può in effetti trovare nell’alterità in altro modo che con una caduta dalla precisione e dall’eguaglianza. Altrimenti, infatti, se l’alterità fosse eguaglianza precisa, non sarebbe alterità. Per questo motivo, neppure il concetto razionale di cerchio descrive il vero cerchio intellettuale440. Dal punto di vista dell’intelletto, infatti, un cerchio non viene giudicato come un vero cerchio per il fatto che le linee che vanno dal suo centro alla sua circonferenza sono uguali. Questa, piuttosto, è la definizione razionale del cerchio intellettuale, la quale sta al vero cerchio come il segno sta alla cosa designata e come l’alterità sta alla propria unità, oppure come il composto sta al semplice, come l’esplicazione sta alla complicazione, o come ciò che è contratto sta a ciò che è assoluto. Secondo il procedimento della ragione, infatti, il cerchio, nel suo essere contratto, non può esistere in altro modo, ma, nella sua unità più assoluta [ossia libera dalla contrazione], il cerchio, dal punto di vista dell’intelletto, esiste senza l’alterità delle linee e della circonferenza. Ma come la ragione, che procede discorsivamente, nell’unità dell’intelletto può condurre anche dimostrazioni a priori, così la nostra conoscenza intellettuale non potrebbe essere più vera se riuscisse a cogliere intuitivamente nell’unità assoluta441, che è la verità, ogni alterità non come alterità, ma come unità, nel caso in cui questo modo di conoscere più assoluto e preciso ci fosse concesso per dono di Dio. Ciò [ossia la visione dell’alterità come unità] può infatti essere compiuto, in modo assolutamente preciso, solo dall’intelletto divino, che è la precisione assoluta; solo l’intelletto divino, infatti, è tutto ciò che intende in ogni intelletto ed è tutto ciò che viene inteso in ogni intelligibile. Questa conoscenza intellettuale, pertanto, per quanto riguarda la sua perfezione in atto, sta alle altre forme di conoscenza come un solido sta ad una superficie, ad una linea e ad un punto; per quanto riguarda invece la sua sottigliezza, essa sta alle altre forme di conoscenza come un punto sta ad una linea, ad una superficie e ad un solido. La conoscenza intellettuale, infatti, abbraccia il vero in
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dem atque subtiliter et perfecte simul amplectitur verum. Rationalis vero cognitio contractior et perfectior ut superficies, subtilis ut linea; imaginativa vero cognitio, contracta magis, perfecta ut linea, grossa ut superficies; sensitiva vero cognitio individualiter contractissima est, imperfectissima ut punctus, grossissima ut corpus. 170 Hae autem cognitiones variantur diversimode secundum varietatem organorum et spirituum virtutem deferentium et varietatem unitatis, per quam in alteritatem devenitur. Si enim medium diaphanum, per quod alteritas lucis in visum ascendit, est alteratum colore rubeo vel alio, huius coloris res visa apparet, quoniam ipsa non attingitur in unitate simplici, puta luce pura, sed in luce alterata in diaphano, puta beryllo aut vitro aut flamma vel radio colorato vel alterato. Ita intellectus phantasmata pura non attingit, nisi pura et libera fuerit ratio, cum ratio unitas sit alteritatis phantasmatum. Sed in corrupta et alterata ratione iudicium eius corruptum est, ut videmus, quando auctoritati ratio alligata est. Tunc enim alterata est et contracta a sua puritate, et secundum eam corruptum fit iudicium. Quare passionati recto carent iudicio, cum lumen rationis in ipsis sit contractum et alteratum, sicut gustus per humidum salivale corruptum iudicat corrupte dulce, scilicet amarum, et ita de reliquis. 171
CAPITULUM XVII
De sui cognitione Summariam tui ipsius coniecturalem cognitionem ex his facile elicies, ut nunc tibi ex superfluis pandam. Primo quidem, Iuliane pater, te hominem unum esse non dubitas, hominem vero a huma-
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modo puntuale e, ad un tempo, in maniera sottile e perfetta. La conoscenza della ragione, invece, è più contratta, è abbastanza perfetta come la superficie ed è sottile come la linea; la conoscenza immaginativa, poi, è più contratta ed è perfetta come la linea e grossa come la superficie; la conoscenza sensibile, infine, è la più contratta in senso individuale ed è imperfettissima e grossissima come il solido442. Queste forme di conoscenza variano in diversi modi a seconda dei diversi organi e della diversa forza degli spiriti conduttori e a seconda delle varie forme di unità attraverso le quali si perviene all’alterità. Ad esempio, se il mezzo diafano, attraverso il quale l’alterità della luce ascende alla vista, viene alterato dal colore rosso o da un altro colore, allora l’oggetto visto appare di quel colore perché non si giunge a coglierlo nell’unità semplice, vale a dire nella luce pura, ma lo si coglie in una luce che è stata alterata nel diafano, ad esempio attraverso degli occhiali443, o da un vetro, o da una fiamma, o da un raggio colorato e alterato. Allo stesso modo, l’intelletto non giunge a cogliere dei fantasmi puri, se la ragione non sarà stata pura e libera, dal momento che la ragione è l’unità dell’alterità dei fantasmi. Ma in una ragione corrotta e alterata anche il suo giudizio risulta corrotto, come vediamo che accade quando la ragione si lega ad una autorità. In questo caso, infatti, la ragione è alterata ed è contratta rispetto alla sua purezza, per cui anche il suo giudizio ne risulta di conseguenza corrotto. Per questo motivo, coloro che cedono alla passione mancano di un giudizio corretto, dal momento che in queste persone il lume della ragione è contratto e alterato, come accade al gusto che, corrotto dal liquido della saliva, giudica male il dolce, vale a dire lo percepisce amaro e così via. CAPITOLO XVII
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La conoscenza di sé Da quanto abbiamo fin qui detto puoi trarre facilmente una conoscenza congetturale di te stesso, per sommi capi, nel modo in cui ti dirò, sebbene sia superfluo che io lo faccia. Innanzitutto, padre Giuliano, tu non dubiti di essere un individuo che appartiene alla specie «uomo», e non hai alcun dubbio sul fatto che un individuo
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nitate dici ut ab albedine album non ambigis. Humanitatem autem unitatem quandam in alteritate participabilem clare conspicis, cum me quidem hominem atque alium a te atque singulis conspicis individuis. Humanitatem vero individualiter in alteritate contrahibilem alteritatem absolutioris esse unitatis in ipsius et leoninitatis et equinitatis alteritate advertis. 172 Absolutissimam igitur atque penitus incontrahibilem primam concipis unitatem seu entitatem, quae in alteritate varia incontrahibiliter participatur. Atque ut exemplo visibili iuveris, imagineris huius visibilis mundi simplicissimam unitatem incontrahibilem lucem esse, in cuius alteritate participationis visibilia omnia id sunt quod sunt. Color igitur huius lucis alterata exstat participatio. Sit igitur circulus universi coloris ambitus. Color autem non nisi contracte exsistere potest, quoniam eius unitas ab absoluta ipsa cadens in alteritate contrahitur. Tres igitur regiones contractionis coloris cum earum finalibus novenariis notato differentiis. Supremae regionis coloris contractio talis resultabit, in qua absolutioris lucis participatio in clara resplendentia umbrales alteritates occultat, infimae vero regionis condicio huic contrariabitur, in tenebra enim ingrediens lucis participatio absorbetur, media vero regio medio se habet modo. Intuere has regiones distinctius in ter trinis distinctionibus. 173 Ita quidem, Iuliane, pari passu si lucem divinitatem, colorem humanitatem, visibilem mundum universum ipsius feceris, te ipsum in figura inquire et an de suprema, media aut infima regione exsistas inspicito. Ego enim te ipsam arbitror humanitatem in suprema ipsa atque in ipsius supremae regionis nobili specie, in participatione clariori divinae lucis, contrahere. Hac enim patula qua-
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viene chiamato «uomo» in virtù dell’umanità, così come una cosa viene detta bianca in virtù della bianchezza. Ora, quando osservi che anch’io sono un uomo e sono diverso da te e da ciascuno degli altri individui, allora vedi chiaramente che l’umanità è una certa unità di cui si può partecipare nell’alterità444. Ti rendi tuttavia conto che l’umanità, sebbene possa essere contratta negli individui secondo gradi diversi di alterità, rispetto all’alterità che è propria della natura del leone o di quella del cavallo è l’alterità di un’unità più assoluta. Devi pertanto concepire la prima unità o la prima entità come del tutto assoluta e non suscettibile di contrazione; di tale unità tutte le cose partecipano secondo gradi diversi di alterità, senza tuttavia che essa possa essere contratta. Per aiutarti con un esempio tratto dalle cose visibili, immagina che la luce, che non è suscettibile di contrazione, sia l’unità semplicissima di questo mondo visibile, e che tutte le cose visibili siano ciò che sono in virtù del fatto che partecipano di tale luce nell’alterità. Il colore, pertanto, è una partecipazione di questa luce secondo un certo grado di alterità. Supponi allora che il cerchio dell’universo [figura U] sia l’ambito del colore. Il colore non può esistere se non in maniera contratta, poiché la sua unità, decadendo dall’unità assoluta, si contrae nell’alterità. Si notino, dunque, le tre regioni nelle quali il colore si contrae445, con le loro nove differenze finali. Nella regione suprema, la contrazione del colore sarà tale che la partecipazione della luce assoluta nasconderà nel suo splendore luminoso le ombre dell’alterità, mentre la condizione propria della regione infima condurrà ad una situazione opposta, ossia la partecipazione iniziale della luce verrà assorbita nella tenebra; la regione intermedia, infine, si comporta in maniera intermedia; e osserva come queste regioni si differenzino in una maniera più particolareggiata in nove distinzioni446. Allo stesso modo, Giuliano, se consideri che la luce sia la divinità, il colore l’umanità, il mondo visibile la totalità dell’umanità, potrai cercare te stesso nella figura e vedere se ti trovi nella regione suprema, in quella intermedia o in quella infima. Io ritengo che tu contragga l’umanità nella regione suprema e nella specie nobile di tale regione, grazie ad una partecipazione quanto mai limpida alla luce divina. Mediante questo agevole procedimento, ciascuno po-
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dam via aliorum hominum comparatione de se ipso coniecturam quisque facere poterit. Dum autem te in ordine humanitatem contrahentium participatione absolutissimae unitatis invenisti, adverte humanitatem tuam universum esse tuum ambire teque divinitatem in eius contractione participare. Divinitas autem est unitas infinita, aequalitas atque conexio, ita quidem quod in unitate sit aequalitas et conexio, in aequalitate unitas et conexio, in conexione unitas et aequalitas. 174 Finge igitur contractam tuam humanitatem, in qua divinitatem ipsam participas, circulum universorum atque ad regiones regionumque partitiones ordinatim inspicito, quomodo quidem in ipsa suprema tuae humanitatis natura divinitatem ipsam supreme participas, in infima vero infime, in media medio quidem modo. In nobiliori etenim natura ipsam secundum eius regionis condicionem participas, nam intellectualiter, in media rationaliter, in infima sensualiter, prout hae regiones in circulo contractae humanitatis tuae cadunt. Quoniam autem lumen divinitatis participare intellectualiter est unitatem participare, in qua aequalitas et conexio, hoc est autem esse intellectuale quod est intelligere, participas igitur divinitatem in lumine intelligentiae, ut te scias superno dono intelligentiam habere eamque esse tanto intellectualiter maiorem, quanto magis una fuerit, tali quidem unitate, in qua aequalitas et conexio. In unitate igitur est intelligentia magna, ita in aequalitate unitatis, ita et in conexione amborum, sed in ipsa unitate, in qua aequalitas et conexio, ibi quidem maxima. Participas equidem divinitatem intellectualiter in aequalitate, in qua unitas atque conexio, et hoc quidem lumen est iustitiae. Quanto igitur aequalitatem absolutam, in qua unitas et conexio, intellectualiter plus participas,
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trà formulare una congettura su se stesso paragonandosi con gli altri uomini. E una volta che hai trovato te stesso nella ambito di coloro che contraggono l’umanità attraverso una partecipazione all’unità del tutto assoluta, considera che la tua umanità abbraccia tutto il tuo essere e che tu, nella contrazione della tua umanità, partecipi della divinità. La divinità, tuttavia, è unità infinita, eguaglianza infinita e connessione infinita, e lo è, certamente, in modo tale che nell’unità vi sono eguaglianza e connessione, nell’eguaglianza vi sono unità e connessione, e nella connessione vi sono unità ed eguaglianza. Immagina, dunque, che la tua umanità contratta, nella quale partecipi della divinità, sia il centro dell’universo e guarda per ordine alle regioni e alle loro suddivisioni, osservando come nella natura suprema della tua umanità tu partecipi della divinità in maniera suprema, nella natura infima della tua umanità ne partecipi invece in maniera infima e nella natura intermedia ne partecipi in maniera intermedia. Nella tua natura più nobile, infatti, partecipi della divinità secondo la condizione di quella regione, vale a dire in maniera intellettuale, nella natura intermedia ne partecipi in maniera razionale, nella natura infima ne partecipi maniera sensibile, e tutto ciò secondo il modo in cui queste regioni sono incluse nel cerchio della tua umanità contratta. Ora, partecipare del lume della divinità in maniera intellettuale significa partecipare dell’unità, nella quale vi sono eguaglianza e connessione; l’essere dell’intelletto, tuttavia, consiste nell’intendere447. Di conseguenza, tu partecipi della divinità nel lume dell’intelligenza, perché tu sappia di avere l’intelligenza come un dono che viene dall’alto448 e perché tu sappia che l’intelligenza è tanto più grande, da un punto di vista intellettuale, quanto più sarà una, di un’unità tale da contenere in sé l’eguaglianza e la connessione. Nell’unità, pertanto, l’intelligenza è grande, come lo è nell’eguaglianza dell’unità e nella connessione di entrambe, ma quando si trova in quell’unità nella quale vi sono eguaglianza e connessione, allora essa è massima. Tu poi partecipi della divinità in maniera intellettuale nell’eguaglianza, nella quale vi sono unità e connessione, e questo è il lume della giustizia. Pertanto, quanto più partecipi in maniera intellettuale dell’eguaglianza assoluta, nella quale vi sono unità e connessione, tanto più di-
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tanto deiformior. Participas etiam ipsam divinitatem in conexione, in qua unitas et aequalitas, hoc est autem amoris lumen. Quanto igitur amorem ipsum, in quo unitas et aequalitas, plus participas intellectualiter, tanto secundum intellectualem atque altiorem tuae humanitatis naturam divinior eris. 175 Sis autem attentus in his omnibus, ut terminis secundum traditas regulas utaris. Dum enim de divinitate per terminos locutus sum, eos ad eius naturam transumas. Ita quidem dum de intellectuali regione tibi conceptum aperui, terminos eius regionis legibus constringas. Post hoc ad alias te pari forma regiones conferas, ut in rationali parte tua inspicere queas, quomodo ipsa ratio tua divinitatem ipsam suo participat modo. Ea enim, quae intellectus intellectualiter participat, illa quidem et ratio suo quidem modo, sic etiam sensus secundum suae condiciones naturae. 176 Vides nunc, Iuliane, quomodo unitas tua in contracta humanitate unitrinum lumen in tribus ipsis regionibus varie participat atque quomodo in ipsa suprema tuae naturae nobilitate unitatem seu entitatem supremam, quae est virtus intellectiva, atque aequalitatem supremam, quae est virtus aequalificandi seu iustificandi, atque etiam conexionem supremam, quae virtus est conectendi seu amandi, supreme participas, hoc est intellectualiter. Ita quidem hanc unitrinam virtutem mediocriter etiam in regione media participas. Quapropter virtutem rationabiliter essendi seu decernendi rationabiliterque aequalificandi seu iustificandi atque conectendi seu amandi te participare contracte conspicis, sic etiam secundum infimam ipsam regionem sensibiliter essendi seu sentiendi, sensibiliter aequalificandi seu iustificandi, sensibiliter conectendi seu amandi. Hae quidem participatae virtutes in tuae humanitatis virtute complicantur. Quoniam autem in participatione unita-
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venti simile a Dio. Partecipi della divinità anche nella connessione, nella quale vi sono unità ed eguaglianza, e questo è il lume dell’amore. Pertanto, quanto più partecipi in maniera intellettuale di questo amore, nel quale vi sono unità ed eguaglianza, tanto più sarai divino, conformemente alla natura intellettuale e più elevata della tua umanità. Fai attenzione, in tutto questo, ad utilizzare le espressioni secondo le regole che ti ho dato449. Ad esempio, quando ho parlato della divinità utilizzando determinate espressioni, tu devi intenderle in senso trascendente per poterle riferire alla natura divina450. Allo stesso modo, quando ti ho comunicato il mio pensiero riguardo alla regione dell’intelletto, devi mantenere le espressioni che ho usato all’interno delle leggi di tale regione. Successivamente, rivolgi nello stesso modo la tua attenzione alle altre regioni, e così puoi vedere, per quanto riguarda la tua parte razionale, come anche la tua ragione partecipi, nel modo che gli è proprio, della divinità. Delle cose di cui l’intelletto partecipa in maniera intellettuale partecipa infatti anche la ragione nel modo che le è proprio, e lo stesso fanno i sensi conformemente alle condizioni della loro natura. Ora vedi, Giuliano, come nelle tre regioni la tua unità, che è presente nella tua umanità contratta, partecipi in modo vario del lume uni-trino; vedi come, nella regione suprema e nobile della tua natura, tu partecipi in maniera suprema, ossia in maniera intellettuale, dell’unità o dell’entità suprema, che è il potere intellettivo, partecipi dell’eguaglianza suprema, che è il potere di eguagliare e di giustificare, e partecipi anche della connessione suprema, che è il potere di connettere o di amare451. In modo analogo, partecipi di questo potere uni-trino anche nella regione intermedia, in maniera intermedia. È per questo motivo che ti vedi partecipe, in maniera contratta, del potere di esistere in modo razionale ossia di discernere, del potere di eguagliare o di giustificare razionalmente e del potere di connettere o di amare; allo stesso modo, nella regione infima, partecipi del potere di esistere in modo sensibile, ossia di percepire, del potere di eguagliare o giustificare sensibilmente, di connettere o amare secondo i sensi. Questi poteri di cui partecipi sono complicati nel potere della tua umanità. Tuttavia, nel partecipare dell’unità o dell’entità si partecipa allo stesso tempo an-
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tis aut entitatis simul et aequalitas conexioque participatur, quae in ipsa unitate exsistunt, hinc in participata intellectus tui unitate exsistit virtus aequalitatis esse intellectus, hoc est intelligendi virtus, atque virtus conectendi amandive, quae ex intellectu eiusque intellectione procedit; amat enim intellectus intelligere suum. Intellectualis enim amor intellectum et ipsum intelligentem supponit. Suo quidem modo de ratione sensuque dicendum. 177 Habes ergo, Iuliane pater, te virtutem eam participare, quae in se gestat aequalitatis atque conexionis naturam, ut sic intellectus tuus divinum esse suo modo participans in eius aequalitate intelligere amplectique possit intellectum, ut non aliud sit tuum intelligere quam aequalitas participatae unitatis tui intellectus. In aequalitate igitur seu similitudine divini luminis intellectualiter participati te noscas intelligendi virtutem assecutum, ita quidem et ratiocinandi sentiendique. Quoniam autem tanto perfectius unitas ipsa participatur, quanto aequalitas conexioque in ipsa maior fuerit, hinc intelligere atque conectere sine perfectione unitatis intellectus nequeunt adaugeri. Inclinatur igitur intellectus ad intelligere et amare, ut perficiatur natura eius, ita ratio ad ratiocinari, sensus ad sentire. 178 Ex quo evenit quod intellectus sibi intellectuales artes, quae speculationes sunt, studet adinvenire pro nutritione, conservatione, perfectione ornatuve suo, quibus se iuvare possit. Ac uti has speculativas scientias exserit ex lumine participato intellectualiter, ita ratio ratiocinandi artes ex lumine rationabiliter participato elicit, et sensus sensibiles artes pro nutritione, conservatione, perfectione ornatuque sensibilis naturae ex sensibiliter participato trahit lumine. Nec ea quae saepe audisti neglegas, ut participationem di-
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che dell’eguaglianza e della connessione, che sono presenti nell’unità stessa; di conseguenza, nell’unità partecipata del tuo intelletto è presente anche il potere dell’eguaglianza che è propria dell’essere dell’intelletto, ossia il potere di intendere, e il potere di connettere o amare, che procede dall’intelletto e dal suo intendimento; l’intelletto, infatti, ama il proprio intendere. L’amore intellettuale, in effetti, presuppone sia ciò che è inteso sia ciò che intende. Si deve dire la stessa cosa della ragione e dei sensi, in maniera conforme alla loro natura. Questo è il modo in cui tu, padre Giuliano, partecipi di quel potere che contiene in sé la natura dell’eguaglianza e della connessione; e così il tuo intelletto, partecipando, nel modo che gli è proprio, del divino, può intendere e abbracciare ciò che viene da esso conosciuto in una eguaglianza con se stesso, in modo tale che il tuo intendere non è altro che l’eguaglianza dell’unità, di cui il tuo intelletto partecipa. Giungi allora a riconoscere che è nell’uguaglianza o nella similitudine del lume divino, di cui partecipi intellettualmente, che tu hai conseguito il potere di intendere, così come quello di ragionare e di percepire. Poiché, tuttavia, dell’unità si partecipa in maniera tanto più perfetta, quanto maggiori saranno in essa l’eguaglianza e la connessione, l’atto di intendere intellettivamente e di connettere non possono accrescersi senza un perfezionamento dell’unità dell’intelletto. L’intelletto, pertanto, ha l’inclinazione ad intendere e ad amare per portare ad un perfetto compimento la propria natura, e per lo stesso motivo la ragione ha l’inclinazione a ragionare e i sensi a percepire. Da ciò deriva il fatto che l’intelletto si adopera per scoprire le sue arti intellettuali, che sono le scienze speculative, di cui potersi giovare per nutrire, conservare, perfezionare e adornare se stesso. E come l’intelletto sviluppa queste scienze speculative452 a partire dal lume di cui partecipa in maniera intellettuale, così dal lume di cui partecipa in maniera razionale la ragione ricava le arti del ragionamento, e dal lume di cui partecipano in maniera sensibile i sensi traggono le arti sensibili, che servono per nutrire, conservare, perfezionare e adornare la natura sensibile. E non trascurare le cose che hai spesso ascoltato, in modo da concepire la partecipazione del lume divino nella ragione come posteriore all’intelletto e dovu-
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vini luminis in ratione post intellectum atque eius medio sic et in sensu per rationem concipias. 179 Vides autem, Iuliane pater, quomodo dei similitudo exsistis. Humanitas enim in te contracta unitrina est. Nam est unitas seu entitas individualiter quidem contracta, in qua aequalitas et conexio. Per entitatem enim humanitatis homo exsistis, ita quidem quod in ea ipsa entitate sit entitatis aequalitas, iustitia seu ordo atque conexio seu amor. Nam secundum aequalitatem unitatis omnia, quae in te sunt, iustissime ordinata sunt in ipsa unitate. Membra enim omnia iustitiam ordinemque aequalitatis unius tuae entitatis habere manifestum est, membra quidem corporalia ad corpus ipsum, corpus ad animam vitalem, vitalis ad sensibilem, sensibilis ad rationalem, rationalis ad intellectualem atque omnia ad unitatem humanitatis tuae. Et quomodo in ipsa unitate est iustitialis ille ordo, ita quidem et conexio amorosa in unitate. Conexio enim in ipsa entitate est, ut omnia sint unus homo. Postquam enim conexio ipsa in unitate esse desinit, unum tuum humanum esse similiter deficere necesse erit. 180 Nunc haec tibi in te ipso notissima sunt, quod nec contractum quodcumque esse aliter esse potest quam per unitatem, in qua aequalitas et conexio. In te ipso igitur ad omnium notitiam pergis, ut cuncta scias unitrinitatem absolutissimam varie participare. Ordinem etiam universorum in unitate ex te elicis, ut non aliter iustitiam videas nisi in eo ordine, qui est in unitate. Non est enim iniustum, immo aequissimum est caput tuum esse sursum atque in eo cerebrum, oculos, aures ceteraque gradatim atque pedes deorsum esse, quoniam sursum et deorsum totusque hic membrorum ordo ad unitatem resolutus non nisi aequissimus esse potest. Aequissimus igitur atque iustissimus est hic ordo, qui in unitate exsistit. Ille vero ordo, qui ad divisionem alteritatemque tendit, iniustissimus est divinitatique contrarius.
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ta alla sua mediazione, così come la partecipazione [del lume divino] nei sensi avviene per mezzo della ragione. Ora vedi, padre Giuliano, in che senso tu sia in una similitudine divina453. L’umanità, che è contratta in te, è infatti uni-trina. È in effetti unità o entità, che è stata contratta nella dimensione dell’individuo, nella quale vi sono eguaglianza e connessione. Sei un uomo in virtù dell’entità dell’umanità, e lo sei anche perché in questa entità è presente l’eguaglianza dell’entità, la giustizia o l’ordine, e la connessione o l’amore. Conformemente all’eguaglianza dell’unità, tutto ciò che è in te, infatti, è ordinato, in questa unità, nel modo più giusto. È evidente, ad esempio, che tutte le tue membra possiedono la giustizia e l’ordine che sono propri dell’eguaglianza del tuo essere unitario: le parti del corpo in relazione al corpo stesso, il corpo in relazione all’anima vegetativa, l’anima vegetativa in relazione l’anima sensitiva, l’anima razionale in relazione all’intelletto, e tutte queste cose in relazione all’unità della tua umanità. E come nell’unità c’è questo ordine della giustizia, così nell’unità c’è anche la connessione dell’amore. La connessione, infatti, è presente nell’entità stessa, in modo che tutte le membra costituiscano l’unità dell’uomo. Una volta che nell’unità viene a mancare la connessione, scomparirà necessariamente anche l’unità del tuo essere umano. Ora queste cose ti sono perfettamente note a partire da te stesso, ossia che nessun ente contratto può esistere se non in virtù di un’unità nella quale vi siano eguaglianza e connessione. Guardando in te stesso, giungi pertanto ad una conoscenza di tutte le cose, in modo tale da sapere che tutte partecipano in modi diversi dell’uni-trinità sommamente assoluta. Da te stesso ricavi anche la conoscenza del fatto che vi è un ordine di tutte le cose nell’unità, in modo tale da vedere che la giustizia esiste solo in quell’ordine che è presente nell’unità. Non è ingiusto, anzi è del tutto equo, che la testa sia in alto, e che in essa vi siano, disposti per ordine, il cervello, gli occhi, le orecchie e gli altri organi, e che i piedi siano in basso, poiché l’alto e il basso e tutto questo ordine delle membra, ricondotto all’unità, non può che essere il più equo. Quell’ordine che esiste nell’unità, pertanto, è del tutto equo e giusto. Quell’ordine che tende alla divisione e all’alterità è invece assolutamente ingiusto e contrario al divino.
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ex te ipso equidem hanc amoris conexionem firmissimam esse, quae est in unitate. Nam amorem conexionemve unitatem dicere vides. Unit enim amor amantem cum amabili. Non est autem amor seu naturalis conexio, qua caput corpori tuo unitur, alius amor quam ille, qui ex unitate atque aequalitate procedit. Conectuntur igitur a radice entitatis tuae et aequalitate ordinis ad ipsam unitatem. Vides igitur non esse amorem divinam conexionem participantem, qui est extra unum et ordinem ad unum. Nihil igitur universi diligendum est nisi in unitate atque ordine universi. Nullus homo amandus est nisi in unitate atque ordine humanitatis. Nec est homo generaliter diligendus nisi in unitate atque ordine animalitatis. Ita de singulis. 182 Ex te ipso igitur electiones deiformes intueri valebis. Nam conspicis deum, qui est infinita conexio, non ut contractum amabile aliquod diligendum, sed ut absolutissimum infinitum amorem. In eo igitur amore, quo deus diligitur, esse debet simplicissima unitas infinitaque iustitia. Necesse est igitur omnem amorem, quo deus amatur, minorem esse eo, quo amari potest. Cognoscis etiam hoc esse deum amare quod est amari a deo, cum deus sit caritas. Quanto igitur quis deum plus amaverit, tanto plus divinitatem participat. 183 Ita etiam ex divini luminis participatione hoc iustum atque aequum esse conspicis, quod in se unitatem conexionemque continet. Dum lex ab unitate atque conexione recedit, iusta esse nequit. Haec lex «quod tibi vis fieri, alteri fac» aequalitatem unitatis figurat. Si iustus esse velis, non aliud te agere necesse est quam quod ab ea aequalitate non recedas, in qua unitas est et conexio. Tunc quidem aequaliter in unitate amoreque feres adversa , paupertates et divitias, honores et vituperia, nec ad dextram aut sinistram evagabis, sed aequalitatis «medio tutissimus» eris. Nihil tibi grave adversumve evenire poterit, si id omne, quod sensibus adversum videtur, intelligis atque ita amplexaris in aequa-
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Da te stesso ricavi inoltre [la convinzione] che quella connessione che esiste nell’unità è la più salda. Vedi, infatti, che amore o connessione significano unità454. L’amore, in effetti, unisce l’amante a ciò che è amato. Tuttavia, l’amore, o la connessione naturale che unisce la testa al tuo corpo non è diverso dall’amore che procede dall’unità e dall’eguaglianza [dell’unità]. Le tue membra, pertanto, sono congiunte le une alle altre, in modo da formare una realtà unitaria, dalla radice del tuo essere e per il fatto che sono egualmente ordinate all’unità. Vedi allora che un amore che sia al di fuori di un’unità e dell’ordinamento ad un’unità non partecipa della connessione divina. Nulla di ciò che appartiene all’universo, pertanto, dev’essere amato se non nell’unità e nell’ordine dell’universo. Nessun uomo dev’essere amato se non nell’unità e nell’ordine dell’umanità. Ed inteso come genere, l’uomo non dev’essere amato se non nell’unità e nell’ordine dell’animalità. Lo stesso vale per ogni altra cosa. Partendo da una considerazione di te stesso, sarai pertanto in grado di vedere quali scelte ci rendano simili a Dio. Vedi infatti che Dio, il quale è connessione infinita, non va amato come un qualunque oggetto d’amore contratto, bensì come l’amore infinito e del tutto assoluto. Nell’amore con il quale si ama Dio deve pertanto esservi la più semplice unità e una giustizia infinita. Di necessità, quindi, ogni amore con il quale si ama Dio è minore dell’amore con il quale è possibile amarlo. Pertanto, quanto più si amerà Dio, tanto più si partecipa della divinità. In modo analogo, grazie alla partecipazione del lume divino, vedi anche che ciò che contiene in sé unità e connessione è giusto ed equo. Quando la legge si allontana dall’unità e dalla connessione, essa non può essere giusta. La legge che dice «fa’ agli altri ciò che vuoi venga fatto a te»455 rappresenta l’eguaglianza dell’unità. Se vuoi essere giusto, non devi far altro che non allontanarti dall’eguaglianza, nella quale vi sono unità e connessione. E allora, nell’unità e nell’amore affronterai egualmente gli eventi sfavorevoli e quelli favorevoli, la povertà e la ricchezza, gli onori e i disonori, e non sbanderai a destra o a sinistra, ma «starai sicurissimo nel mezzo»456 dell’eguaglianza. Non ti potrà accadere nulla di grave e nessun’avversità, se tutto ciò che ai sensi appare sfavorevole lo intendi e lo
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litate unitatis essendi atque amandi ferendum, cum hoc sit divinitatem nobiliter feliciterque participare. Vides autem in ea ipsa aequalitate iam dicta omnem moralem complicari virtutem nec virtutem esse posse, nisi in huius aequalitatis participatione exsistat. 184 Poteris multo me amplius participatum unitrinum divinitatis lumen in te contemplari, qui dudum vita aequali te a distrahentibus mundanis ad iustitiam colendam transtulisti, nec meas coniecturales has ineptias tibi pandere praesumpsissem, si eas te non scivissem per ipsam saepe dictam aequalitatis legem in unitate amoris suscepturum.
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accogli come qualcosa che va sopportato nell’eguaglianza dell’unità dell’essere e dell’amore, perché questo significa partecipare della divinità in maniera nobile e felice457. Vedi, d’altra parte, che nell’eguaglianza di cui abbiamo parlato è complicata ogni virtù morale, e che non può esservi alcuna virtù se non nella partecipazione a questa eguaglianza. Molto meglio di quanto non abbia fatto io, tu potrai contemplare in te stesso il lume uni-trino della divinità di cui partecipi, tu che, da molto tempo, ti sei distaccato dalle distrazioni del mondo e ti sei dedicato alla cura della giustizia, conducendo una vita equa; e non avrei avuto la presunzione di esporre a te queste modeste congetture, se non avessi saputo che tu le avresti accolte nell’unità dell’amore, in virtù di quella stessa legge dell’eguaglianza di cui abbiamo tanto spesso parlato.
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OPUSCOLI TEOLOGICI Il Dio nascosto – La ricerca di Dio – La filiazione di Dio – Il dono del Padre dei lumi – Congettura sugli ultimi giorni – Dialogo sulla genesi
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DE DEO ABSCONDITO Dialogus de deo abscondito duorum, quorum unus gentilis, alius Christianus
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IL DIO NASCOSTO Dialogo fra due interlocutori, un gentile e un cristiano1
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ait Gentilis: Video te devotissime prostratum et fundere amoris lacrimas, non quidem falsas sed cordiales. Quaero, quis es? Christianus: Christianus sum. Gentilis: Quid adoras? Christianus: Deum. Gentilis: Quis est deus quem adoras? Christianus: Ignoro. Gentilis: Quomodo tanto serio adoras quod ignoras? Christianus: Quia ignoro, adoro. 2 Gentilis: Mirum video hominem affici ad id quod ignorat. Christianus: Mirabilius est hominem affici ad id, quod se scire putat. Gentilis: Cur hoc? Christianus: Quia minus scit hoc, quod se scire putat, quam id, quod se scit ignorare. Gentilis: Declara, quaeso. Christianus: Quicumque se putat aliquid scire, cum nihil sciri possit, amens mihi videtur. Gentilis: Videtur mihi quod tu penitus ratione careas, qui dicis nihil sciri posse. 3 Christianus: Ego per scientiam intelligo apprehensionem veritatis. Qui dicit se scire, veritatem se dicit apprehendisse. Gentilis: Et idem ego credo. Christianus: Quomodo igitur potest veritas apprehendi nisi
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Gentile. Ti vedo in ginocchio con grandissima devozione e vedo che versi lacrime d’amore, niente affatto false, ma provenienti dal cuore. Ti chiedo, chi sei? Cristiano. Sono un cristiano. Gentile. Che cosa adori? Cristiano. Dio. Gentile. Chi è il Dio che adori? Cristiano. Lo ignoro. Gentile. Come fai ad adorare così profondamente ciò che ignori?2 Cristiano. Proprio perché ignoro, adoro3. Gentile. Mi sembra strano che un uomo senta affezione per ciò che ignora4. Cristiano. È più sorprendente che un uomo senta affezione per ciò che ritiene di sapere. Gentile. Perché? Cristiano. Perché sa meno ciò che ritiene di sapere di ciò che sa di ignorare5. Gentile. Spiegati, per favore. Cristiano. Dal momento che non si può sapere nulla, chiunque ritenga di sapere qualcosa mi sembra privo di senno. Gentile. Mi sembra che sia tu, che dici che non si può sapere nulla, ad essere del tutto privo di ragione. Cristiano. Io intendo per «conoscenza» l’apprensione della verità6. Chi dice di sapere, dice di aver appreso la verità. Gentile. Lo credo anche io. Cristiano. In che modo, dunque, la verità può essere appresa, se non per se stessa? Non la si potrebbe apprendere, pertanto,
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per se ipsam? Neque tunc apprehenditur, cum esset apprehendens prius et post apprehensum. Gentilis: Non intelligo istud, quod veritas non possit nisi per se ipsam apprehendi. Christianus: Putas quod aliter apprehensibilis sit et in alio? Gentilis: Puto. Christianus: Aperte erras. Nam extra veritatem non est veritas, extra circularitatem non est circulus, extra humanitatem non est homo. Non reperitur igitur veritas extra veritatem nec aliter nec in alio. 4 Gentilis: Quomodo ergo mihi notum est, quid homo, quid lapis, et ita de singulis quae scio? Christianus: Nihil horum scis, sed te putas scire. Si enim te interrogavero de quiditate eius, quod te putas scire, affirmabis quod ipsam veritatem hominis aut lapidis exprimere non poteris. Sed quod scis hominem non esse lapidem, hoc non evenit ex scientia, qua scis hominem et lapidem et differentiam, sed evenit ex accidenti, ex diversitate operationum et figurarum, quae dum discernis, diversa nomina imponis. Motus enim in ratione discretiva nomina imponit. 5 Gentilis: Estne una vel plures veritates? Christianus: Non est nisi una. Nam non est nisi una unitas, et coincidit veritas cum unitate, cum verum sit unam esse unitatem. Sicut igitur in numero non reperitur nisi unitas una, ita in multis nisi veritas una. Et hinc qui unitatem non attingit, numerum semper ignorabit, et qui veritatem in unitate non attingit, nihil vere scire potest. Et quamvis putat se vere scire, tamen verius sciri ipsum, quod se scire putat, de facili experitur. Verius enim videri potest visibile, quam per te videatur. Verius enim per acutiores oculos vide-
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nel caso in cui vi fosse prima colui che apprende e poi ciò che è appreso7. Gentile. Non capisco questa cosa, ossia che la verità non possa essere appresa, se non per se stessa. Cristiano. Ritieni forse che la si possa apprendere in qualche altro modo e in qualche cosa di altro [rispetto alla verità]? Gentile. Sì. Cristiano. È chiaro che sbagli. Al di fuori della verità, infatti, non v’è verità; al di fuori della circolarità, non v’è cerchio; al di fuori dell’umanità, non v’è uomo. La verità, pertanto, non si trova al di fuori della verità, né si trova in altro modo, né in qualche cosa di altro8. Gentile. Allora, in che modo so che cos’è l’uomo, che cos’è la pietra, e così via per tutte le cose di cui ho conoscenza? Cristiano. Non sai nulla di queste cose, ma ritieni di saperle9. Se ti interrogassi, infatti, riguardo alla quiddità di ciò che ritieni di conoscere, affermeresti di non poter esprimere la verità in sé dell’uomo o della pietra10. Ma il fatto che sai che l’uomo non è la pietra non dipende da una conoscenza, grazie alla quale sai che cos’è l’ uomo, che cos’è la pietra e qual è la loro differenza, bensì dipende da un accidente, ossia dalla diversità delle operazioni e delle figure, distinguendo le quali, attribuisci loro nomi diversi11. È un movimento nella nostra ragione discernente, infatti, che attribuisce i nomi [alle cose]12. Gentile. Vi è una sola verità o ve ne sono di più?13 Cristiano. Non ve n’è che una sola. Non vi è, infatti, che una sola unità14 e la verità coincide con l’unità15, poiché è vero che l’unità è una sola. Pertanto, come nel numero non si trova che una sola unità, così nei molti non si trova che una sola verità16. Ne segue, che chi non giunge a cogliere l’unità, non conoscerà mai il numero, e chi non giunge a cogliere la verità nell’unità non può conoscere nulla in modo vero. E sebbene costui ritenga di conoscere in modo vero, può fare facilmente esperienza del fatto che quanto egli ritiene di conoscere può essere conosciuto in modo più vero. Ciò che è visibile, infatti, può essere visto in modo più vero rispetto al modo in cui è visto da te. Per esempio, sarebbe visto in modo più vero da occhi
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retur. Non ergo a te videtur, uti visibile est in veritate. Ita de auditu et ceteris sensibus. Sed cum omne id quod scitur et non ea scientia, qua sciri potest, non scitur in veritate sed aliter et alio modo – aliter autem et in alio modo a modo, qui est ipsa veritas, non scitur veritas –, hinc amens est, qui se aliquid in veritate scire putat et veritatem ignorat. Nonne amens iudicaretur ille caecus, qui se putaret scire differentias colorum, quando colorem ignoraret? 6 Gentilis: Quis hominum igitur est sciens, si nihil sciri potest? Christianus: Hic censendus est sciens, qui scit se ignorantem. Et hic veneratur veritatem, qui scit sine illa se nihil apprehendere posse sive esse sive vivere sive intelligere. Gentilis: Hoc forte est, quod te in adorationem attraxit, desiderium scilicet essendi in veritate. Christianus: Hoc ipsum quod dicis. Colo enim deum, non quem tua gentilitas falso se scire putat et nominat, sed ipsum deum, qui est ipsa veritas ineffabilis. 7 Gentilis: Rogo te, frater, cum deum qui est veritas colas et nos non intendamus deum colere, qui non est deus in veritate, quae est differentia inter vos et nos? Christianus: Multae sunt. Sed in hoc una et maxima, quia nos veritatem ipsam absolutam, impermixtam, aeternam ineffabilemque colimus, vos vero non ipsam, uti est absoluta in se, sed uti est in operibus suis, colitis, non unitatem absolutam, sed unitatem in numero et multitudine, errantes, quoniam incommunicabilis est veritas quae deus est alteri. 8 Gentilis: Rogo te, frater, ad hoc ut me ducas, ut te de deo tuo intelligere queam. Responde mihi: quid scis de deo quem adoras? Christianus: Scio quod omne id quod scio non esse deum et quod omne id quod concipio non esse simile ei, sed quia exsuperat.
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più acuti. Pertanto, non è visto da te per come è visibile nella verità. Lo stesso vale per l’udito e per gli altri sensi. Ma, dal momento che tutto ciò che si conosce non si conosce con quel grado di conoscenza con il quale può esser conosciuto, non è conosciuto in modo vero, bensì diversamente e in altro modo. La verità, invece, non può essere conosciuta diversamente e in altro modo rispetto al modo che coincide con la verità stessa. Ne segue, che è privo di senno colui che ritiene di conoscere qualcosa nella verità e ignora la verità17. Non sarebbe forse giudicato privo di senno quel cieco, che ritenesse di conoscere le differenze dei colori, mentre ignora il colore? Gentile. Quale uomo dunque è sapiente, se non si può sapere nulla? Cristiano. È da considerarsi sapiente colui che sa di essere ignorante 18. E onora la verità colui che riconosce che, senza di essa, non può apprendere nulla, né l’essere, né il vivere, né l’intendere19. Gentile. Forse è questo che ti ha spinto ad adorare, il desiderio, cioè, di essere nella verità? Cristiano. È proprio come dici. Onoro infatti Dio, ma non quel Dio che i tuoi gentili ritengono falsamente di conoscere e al quale attribuiscono falsamente il nome di Dio, ma Dio stesso, che è la stessa verità ineffabile. Gentile. Dal momento che tu onori quel Dio che è la verità e anche noi non intendiamo onorare un Dio che non sia Dio in verità, ti chiedo, fratello: qual è la differenza tra voi e noi? Cristiano. Sono molte. Ma la prima e più importante risiede in questo, che noi onoriamo la stessa verità assoluta, non composta, eterna e ineffabile. Voi, invece, non onorate la verità stessa, per come è in sé e in senso assoluto, bensì per come è nelle sue opere; non onorate l’unità assoluta 20, bensì l’unità che è presente nel numero e nella molteplicità, e in ciò sbagliate, perché la verità, che è Dio, non è comunicabile a qualcosa di altro [da essa]21. Gentile. Ti chiedo, fratello, di guidarmi, in modo tale che io possa comprenderti riguardo al tuo Dio. Rispondimi: che cosa sai del Dio che adori? Cristiano. So che tutto ciò che conosco non è Dio e che tutto ciò che concepisco non è simile a lui, poiché Dio oltrepassa tutto ciò che io posso sapere o concepire22.
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Igitur nihil est deus. Christianus: Nihil non est, quia hoc ipsum nihil nomen habet nihili. Gentilis: Si non est nihil, est ergo aliquid. Christianus: Nec aliquid est. Nam aliquid non est omne. Deus autem non est potius aliquid quam omne. Gentilis: Mira affirmas deum quem adoras nec esse nihil nec esse aliquid, quae nulla ratio capit. Christianus: Deus est supra nihil et aliquid, quia sibi oboedit nihil, ut fiat aliquid. Et haec est omnipotentia eius, qua quidem potentia omne id, quod est aut non est, excedit, ut ita sibi oboediat id quod non est sicut id quod est. Facit enim non-esse ire in esse et esse ire in non-.esse. Nihil igitur est eorum, quae sub eo sunt et quae praevenit omnipotentia sua. Et ob hoc non potest potius dici hoc quam illud, cum ab ipso sint omnia. 10 Gentilis: Potestne nominari? Christianus: Parvum est, quod nominatur. Cuius magnitudo concipi nequit, ineffabilis remanet. Gentilis: Est autem ineffabilis? Christianus: Non est ineffabilis sed supra omnia effabilis, cum sit omnium nominabilium causa. Qui igitur aliis nomen dat, quomodo ipse sine nomine? Gentilis: Est igitur effabilis et ineffabilis. Christianus: Neque hoc. Nam non est radix contradictionis deus, sed est ipsa simplicitas ante omnem radicem. Hinc neque hoc dici debet quod sit effabilis et ineffabilis. Gentilis: Quid igitur dices de eo? Christianus: Quod neque nominatur neque non nominatur, neque nominatur et non nominatur, sed omnia, quae dici possunt disiunctive et copulative per consensum vel contradictionem, sibi non conveniunt propter excellentiam infinitatis eius, ut sit unum principium ante omnem cogitationem de eo formabilem.
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il dio nascosto, 9-10
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Gentile. Dunque, Dio è nulla. Cristiano. Non è nulla, perché lo stesso nulla ha il nome di «nulla». Gentile. Se non è nulla, allora è qualcosa. Cristiano. Non è neppure qualcosa. Il qualcosa, infatti, non è tutto. Dio, invece, non è qualcosa piuttosto che tutto. Gentile. Affermi cose assurde, che nessuna ragione coglie, ossia che il Dio che adori non è né nulla né qualcosa23. Cristiano. Dio è al di sopra del nulla e del qualcosa, poiché il nulla gli obbedisce in modo da diventare qualcosa24. E questa è la sua onnipotenza, per la quale egli è superiore a tutto ciò che è o non è, in modo tale che gli obbedisce sia ciò che non è, sia ciò che è. Infatti, Dio fa sì che il non-essere passi all’essere e l’essere al non-essere. Egli, pertanto, non è nessuna delle cose che sono sotto di lui, e che la sua onnipotenza precede. Per questo motivo, non si può dire che egli sia «questo» piuttosto che «quello», dal momento che tutte le cose derivano da lui. Gentile. Non può essere nominato? Cristiano. È di poco valore ciò che è nominato. Ciò, la cui grandezza non può essere concepita, rimane ineffabile. Gentile. E quindi è ineffabile? Cristiano. Non è ineffabile, ma è esprimibile al di sopra di tutte le cose, in quanto è la causa di tutte le cose che possono essere nominate. Come può essere senza nome colui che dà il nome a tutte le altre cose?25 Gentile. Dunque, è al tempo stesso dicibile e indicibile. Cristiano. Neanche questo. Dio, infatti, non è la radice della contraddizione, bensì è la stessa semplicità che precede ogni radice26. Pertanto, non si deve neppure dire che egli sia dicibile e indicibile. Gentile. Allora che cosa dirai di lui? Cristiano. Dirò che non viene né nominato né non nominato, e neppure che viene nominato e non nominato allo stesso tempo, ma che tutte le cose che possono essere dette, in modo disgiuntivo o copulativo27, per concordanza o per contraddizione, non gli si addicono a causa dell’eccellenza della sua infinità, cosicché egli è il principio unico, che precede ogni pensiero che si possa formulare su di lui.
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Sic igitur deo non conveniret esse. Christianus: Recte dicis. Gentilis: Est ergo nihil. Christianus: Non est nihil neque non est, neque est et non est, sed est fons et origo omnium principiorum essendi et non-essendi. Gentilis: Est deus fons principiorum essendi et non-essendi? Christianus: Non. Gentilis: Iam statim hoc dixisti. Christianus: Verum dixi, quando dixi, et nunc verum dico, quando nego. Quoniam si sunt quaecumque principia essendi et non-essendi, deus illa praevenit. Sed non-esse non habet principium non-essendi, sed essendi. Indiget enim non-esse principio, ut sit. Ita igitur est principium non-essendi, quia non-esse sine ipso non est. 12 Gentilis: Estne deus veritas? Christianus: Non, sed omnem praevenit veritatem. Gentilis: Est aliud a veritate? Christianus: Non. Quoniam alteritas ei convenire nequit. Sed est ante omne id, quod veritas per nos concipitur et nominatur, in infinitum excellenter. 13 Gentilis: Nonne nominatis deum deum? Christianus: Nominamus. Gentilis: Vel verum dicitis vel falsum? Christianus: Neque alterum neque ambo. Non enim dicimus verum quod hoc sit nomen eius nec dicimus falsum, quia hoc non est falsum quod sit nomen eius. Neque dicimus verum et falsum, cum eius simplicitas omnia tam nominabilia quam non-nominabilia antecedat. Gentilis: Cur nominatis ipsum deum, cuius nomen ignoratis? Christianus: Ob similitudinem perfectionis.
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il dio nascosto, 11-13
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Gentile. In questo modo, a Dio non sarebbe attribuibile l’essere. Cristiano. Dici bene. Gentile. Dunque, è nulla. Cristiano. Non è vero che Dio sia nulla, né è vero che non lo sia, e non è neppure vero che egli lo sia e non lo sia allo stesso tempo; Dio è piuttosto la fonte e l’origine di tutti i principi dell’essere e del non-essere. Gentile. Dio è la fonte dei principi dell’essere e del non-essere? Cristiano. No28. Gentile. Ma è quanto hai appena detto. Cristiano. Ho detto il vero, nel momento in cui l’ho detto, e dico il vero ora, nel momento in cui lo nego. Poiché se vi sono dei principi dell’essere e del non-essere, qualunque essi siano, Dio li precede. Ma il non-essere non ha un principio del suo non-essere, ma del suo essere. Il non-essere, infatti, necessita di un principio per essere se stesso. Vi è, dunque, un principio del non-essere, perché, senza di esso, non sarebbe. Gentile. Dio è verità?29 Cristiano. No, ma precede ogni verità. Gentile. È altro dalla verità? Cristiano. No. L’alterità, infatti, non gli può convenire. Ma egli precede e supera infinitamente tutto ciò che noi concepiamo e chiamiamo verità. Gentile. Ma non chiamate forse Dio, «Dio»? Cristiano. Lo chiamiamo così. Gentile. Dite il vero o il falso? Cristiano. Né l’una cosa, né l’altra, né entrambe. Non diciamo, infatti, che è vero che questo sia il suo nome, né diciamo che è falso, perché non è falso che questo sia il suo nome. E neppure diciamo che è vero e falso al tempo stesso, dal momento che la sua semplicità precede tutte le cose, sia quelle che possono essere nominate, sia quelle che non possono essere nominate. Gentile. Perché chiamate «Dio» colui di cui ignorate il nome? Cristiano. Per la somiglianza che questo nome ha con la [sua] perfezione30.
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Gentilis: Declara, quaeso. Deus dicitur a theoro, id est video. Nam ipse deus est in nostra regione ut visus in regione coloris. Color enim non aliter attingitur quam visu, et ad hoc, ut omnem colorem libere attingere possit, centrum visus sine colore est. In regione igitur coloris non reperitur visus, quia sine colore est. Unde secundum regionem coloris potius visus est nihil quam aliquid. Nam regio coloris extra suam regionem non attingit esse, sed affirmat omne quod est in sua regione esse. Ibi non reperit visum. Visus igitur sine colore exsistens innominabilis est in regione coloris, cum nullum nomen coloris sibi respondeat. Visus autem omni colori nomen dedit per discretionem. Unde a visu dependet omnis nominatio in regione coloris, sed eius nomen, a quo omne nomen, potius nihil esse quam aliquid deprehenditur. Eo igitur deus se habet ad omnia sicut visus ad visibilia. 15 Gentilis: Placet mihi id quod dixisti et plane intelligo in regione omnium creaturarum non reperiri deum nec nomen eius et quod deus potius aufugiat omnem conceptum quam affirmetur aliquid, cum in regione creaturarum non habens condicionem creaturae non reperiatur. Et in regione compositorum non reperitur noncompositum. Et omnia nomina quae nominantur sunt compositorum. Compositum autem ex se non est, sed ab eo, quod antecedit omne compositum. Et licet regio compositorum et omnia composita per ipsum sint id quod sunt, tamen cum non sit compositum, in regione compositorum est incognitum. Sit igitur deus, ab oculis omnium sapientum mundi absconditus, in saecula benedictus. 14 Christianus:
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il dio nascosto, 13-15
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Gentile. Spiegati, per favore. Cristiano. Il nome «Dio» viene da «theorô», che significa «vedo»31. Dio, infatti, nella nostra regione, è come la vista nella regione del colore. Il colore, infatti, non può essere colto che per mezzo della vista, e il centro della vista è senza colore proprio per questo, perché ogni colore possa essere colto senza impedimenti32. Nella regione del colore, pertanto, non è possibile trovare la vista, dato che essa è senza colore. Di conseguenza, rispetto alla regione del colore, la vista è nulla piuttosto che qualcosa. La regione del colore, infatti, non giunge a cogliere nessuna delle realtà che sono al di fuori della sua regione, ma afferma che esiste tutto ciò che si trova nella sua regione. E lì non si trova la vista. La vista, quindi, che esiste senza il colore, è innominabile nella regione del colore, dal momento che non le corrisponde il nome di nessun colore. È la vista, tuttavia, che, mediante la sua capacità di discernere, ha dato il nome ad ogni colore. Ogni nome che viene attribuito nella regione del colore dipende pertanto dalla vista, mentre il nome della vista, dalla quale deriva ogni nome, viene inteso come nulla piuttosto che come qualcosa. Dio sta a tutte le cose come la vista sta alle cose visibili. Gentile. Mi piace ciò che hai detto, e comprendo chiaramente che, nella regione di tutte le creature, non si trova né Dio, né il suo nome; comprendo anche che egli sfugge a ogni concetto e che non si può affermare alcunché al suo riguardo, dal momento che non è possibile trovare nella regione delle creature ciò che non ha la condizione propria della creatura. Nella regione dei composti, inoltre, non si trova il non-composto. E tutti i nomi che noi pronunciamo sono nomi di composti. Ciò che è composto, invece, non deriva da se stesso, ma da ciò che precede ogni composto. E sebbene la regione dei composti e tutti i composti siano ciò che sono in virtù di esso, tuttavia, non essendo composto, resta sconosciuto nella regione dei composti. Sia dunque benedetto nei secoli Dio, che è nascosto agli occhi di tutti i sapienti del mondo.
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De quaerendo deum
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LA RICERCA DI DIO
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tuo possetenus satisfacturus, frater in Christo merito venerande, nunc id, quod vulgo in Epiphaniis nisus sum explanare circa nominis dei rationem, breviter clare in scriptis repetere attemptabo, ut meditatio utriusque nostrum incitetur, et intellectuali ascensu sensim de luce in lucem transformetur interior homo, quousque in agnitionem claram per lumen gloriae intret in gaudium domini sui.
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I.
Primo quidem, frater optime, bene nosti Paulum, qui ad tertium caelum usque ad arcanorum conspectionem se raptum fatetur, dum his viris, qui Athenis tunc in nominatissimo studio philosophiae vacabant, veritatem praedicaret in Areopago, in themate praemisisse deum ignotum, cui aram gentiles ipsi consecraverant, velle ipsis evangelizare. Et dum ad huius rei explicationem pergeret, praemisit quomodo deus in uno homine omnes creasset et definitum tempus in hoc mundo essendi indulsisset, ut deum quaererent, si forte ipsum possent attrectare et invenire, adiciens, quamvis non longe absit a quoquam, quoniam in ipso sumus, vivimus et movemur. Deinde redarguens idolatriam subiungit in cogitatione hominis nihil simile divino esse posse. 18 Admiror ego, quotiens Actus apostolorum lego, hunc processum. Voluit enim patefacere Paulus philosophis ignotum deum, quem postea nullo intellectu humano concipi posse affirmat. In hoc igitur patefit deus, quia scitur ipsum omnem intellectum ad ipsius figurationem et conceptum minorem. Sed ipsum nominat deum seu theon graece. Si igitur homo ad hoc ingressus est
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Per soddisfare, nei limiti del possibile, il tuo desiderio, o venerando fratello mio in Cristo, tenterò ora di riportare per iscritto, in maniera concisa e chiara, ciò che, durante l’Epifania, mi sono sforzato di spiegare ai fedeli circa la ragione del nome di Dio1. E questo, affinché sia stimolata la meditazione di entrambi e, attraverso l’ascesa intellettuale, a poco a poco sia trasformato di luce in luce l’uomo interiore2, fino a che, nella conoscenza luminosa che avviene nel lume della gloria, non entri nella gioia del suo Signore3. I
Innanzitutto, fratello carissimo, sai bene che Paolo, il quale dice di essere stato rapito al terzo cielo fino alla visione delle cose arcane4, predicando la verità nell’Areopago a quegli uomini che, allora, ad Atene si dedicavano allo studio assai celebre della filosofia, premise nel suo discorso di voler annunciare loro il Dio ignoto, al quale gli stessi gentili avevano consacrato un altare. E procedendo a spiegare la cosa, iniziò col dire che Dio aveva creato in un solo uomo tutti gli uomini ed aveva concesso alla loro esistenza in questo mondo un lasso di tempo definito per ricercarlo, se mai fossero in grado di trovarlo e di coglierlo; ma aggiunse anche che Dio non è lontano da nessuno, poiché noi siamo, viviamo e ci muoviamo in lui. In seguito, mettendo in guardia dall’idolatria, soggiunse che nel pensiero dell’uomo non vi può essere nulla di simile al divino5. Ogni volta che leggo gli Atti degli apostoli, mi stupisco di questo modo di procedere [di Paolo]. Paolo, infatti, volle rendere manifesto ai filosofi il Dio ignoto, ma poi afferma che questo Dio non può essere concepito da nessun intelletto umano. È in questo, dunque, che Dio si rende manifesto, nel fatto, cioè, che ogni intelletto si riconosce troppo piccolo per poterselo raffigurare e per poterlo concepire. Eppure Paolo lo chiama «Dio» o, in greco, «theón»6.
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hunc mundum, ut deum quaerat et invento adhaereat et adhaerendo quiescat, et cum quaerere ipsum non possit homo et attrectare in hoc mundo sensibili et corporali, cum deus potius spiritus sit quam corpus et non possit in abstractione intellectuali attingi, cum nihil simile deo concipere queat, ut ait, quomodo igitur quaeri potest, ut inveniatur? Certe nisi hic mundus serviret quaerenti, in vanum missus esset homo ad mundum ob finem quaerendi eundem. Oportet igitur hunc mundum praestare adminiculum quaerenti et oportet scire quaerentem quod nec in mundo nec in omni eo, quod homo concipit, est quid simile ei. 19 Nunc videamus, an nobis nomen theos seu deus adminiculum praestet ad ista. Non est enim nomen ipsum theos nomen dei, qui excellit omnem conceptum. Id enim, quod concipi nequit, ineffabile remanet. Effari enim est conceptum intrinsecum ad extra fari vocalibus aut aliis figuralibus signis. Cuius igitur similitudo non concipitur, nomen ignoratur. Non est igitur theos nomen dei, nisi ut quaeritur ab homine in hoc mundo. Quaerens igitur deum attente consideret, quomodo in hoc nomine theos via quaedam quae rendi complicetur, in qua deus invenitur, ut possit attrectari. Theos dicitur a theoro, quod est video et curro. Currere igitur debet quaerens per visum, ut ad omnia videntem theon pertingere possit. Gerit igitur visio similitudinem viae, per quam quaerens incedere debet. Oportet igitur, ut naturam sensibilis visionis ante oculum visionis intellectualis dilatemus et scalam ascensus ex ea fabricemus. 20 Visio nostra ex quodam spiritu lucido et claro de summitate cerebri in organum oculi descendente et obiecto colorato in ipsum species similitudinis eius multiplicante concurrente luce extrinseca generatur. In regione igitur visibilium non nisi color reperitur. Vi-
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Ora, l’uomo è giunto in questo mondo per cercare Dio e, una volta che lo ha trovato, per unirsi a lui e per trovare la pace in questa unione; ma se l’uomo non può cercarlo e toccarlo come una cosa di questo mondo sensibile e corporeo, dal momento che Dio è spirito piuttosto che corpo, e se non può coglierlo nemmeno per mezzo dell’astrazione che opera l’intelletto7, dato che, come dice Paolo, non è possibile concepire nulla di simile a Dio, in che modo, allora, si può cercare Dio così da trovarlo? Certamente, se questo mondo non fosse di alcuna utilità per chi si appresta alla ricerca, l’uomo vi sarebbe stato mandato invano. È necessario, pertanto, che il mondo offra un sostegno a colui che cerca, ma è anche necessario che colui che cerca sappia che né in questo mondo, né in tutto ciò che l’uomo concepisce, vi è qualcosa di simile a Dio8. Ora vediamo se il nome «theós» o «Dio» ci offra un qualche aiuto per affrontare questi argomenti. Il nome «theós», infatti, non è il vero nome di Dio, che è al di sopra di ogni concetto. Ciò che non può essere concepito, infatti, rimane ineffabile. Esprimersi significa in effetti proferire esteriormente, mediante mezzi vocali o altri segni figurativi, ciò che si è concepito interiormente col pensiero9. Di conseguenza, il nome di colui di cui non si può concepire nulla di simile ci resta ignoto. «Theós», pertanto, è il nome di Dio solamente per l’uomo che lo ricerca in questo mondo. Colui che cerca Dio consideri attentamente come in questo nome «theós» sia complicata una certa via di ricerca, lungo la quale si trova Dio, così da poter arrivare a coglierlo. «Theós» deriva da «theorô», che significa vedo e corro10. Colui che ricerca deve quindi correre, mediante la vista, per potersi protendere fino al «theón», che vede ogni cosa. La visione contiene in sé una somiglianza con la via lungo la quale deve procedere colui che ricerca. Dobbiamo pertanto dispiegare, dinanzi all’occhio della visione intellettuale, la natura della visione sensibile e dobbiamo costruirci con essa una scala per la nostra ascesa. La nostra visione nasce da un certo spirito luminoso e chiaro, che scende dalla sommità del cervello nell’organo dell’occhio, e da un oggetto colorato che, con il concorso della luce esterna, riproduce nell’occhio le specie della sua propria immagine11. Nella regione delle cose visibili non si trova se non il colore. La vista, invece, non
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sus autem de regione visibilium non est, sed supra omnia visibilia constitutus. Non habet igitur visus colorem, quia non est de regione colorum, et ut possit videre omnem colorem, non est contractus ad aliquem et, ut iudicium suum sit verum et liberum, non plus habet de uno colore quam de alio et, ut potentia sua sit ad omnes colores, per nullum colorem est restrictus. Impermixtus est visus per colores, ut vera sit visio eius. 21 Experimento comprobamus per medium coloratum, vitrum aut lapidem transparentem aut aliud, visum decipi. Adeo igitur visus est purus absque omni macula visibilium, quod omnia visibilia in eius comparatione tenebra quaedam sunt et corporalis quodammodo spissitudo in comparatione ad spiritum visionis. 22 Sed dum visibilium mundum intuemur per intellectum et quaesiverimus, an notitia visus in eo reperiatur, omnis ille coloris mundus visum ignorabit, cum nihil non-coloratum attingat. Et si dixerimus visum esse et non esse coloratum, dum de hoc mundus visibilium figuram similitudinis facere voluerit, non reperiet in omni conceptu suo simile visui, cum suus conceptus sine colore esse non possit. Et cum infra ambitum regionis suae ipsum non reperiat neque simile et configurabile ei, non potest attingere ipsum, immo nec potest attingere visum esse aliquid, cum extra colorem non attingat aliquid, sed iudicet omne non-coloratum non esse aliquid. Nullum igitur nomen omnium nominum, quae nominari possunt in ea regione, visui convenit, nec enim albedinis nomen nec nigredinis nec omnium mixtorum colorum, quoniam nec albedinis et non-albedinis copulative nec nigredinis et non-nigredinis copulative. Sive igitur omnia nomina regionis singulariter notet disiunctive
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appartiene alla regione delle cose visibili, ma è posta al di sopra di tutte le cose che possono essere viste. La vista, quindi, non ha colore, poiché non appartiene alla regione di colori: affinché possa vedere ogni colore, essa non è contratta ad alcun colore; affinché il suo giudizio sia vero e libero, non possiede più di un colore che di un altro; affinché la sua potenza si estenda a tutti colori, non è limitata a nessuno di essi. La vista non è mescolata ai colori, affinché la sua visione sia vera12. Per esperienza sappiamo che la vista è tratta in inganno quando tra essa e l’oggetto si interpone un mezzo colorato, un vetro, ad esempio, o una pietra che lascia trasparire, o qualcos’altro. La vista, pertanto, è così pura e priva di ogni macchia proveniente dalle cose visibili, che tutte le cose visibili a suo confronto sono come una sorta di tenebra e, a confronto dello spirito che dà luogo alla visione, sono come una specie di densità corporea. Ma non appena guardiamo con l’intelletto al mondo delle cose visibili e ci chiediamo se sia possibile trovare in esso una conoscenza della vista, vediamo che tutto il mondo dei colori ignora la vista, dal momento che non giunge a cogliere nulla di non colorato13. E se dicessimo che la vista esiste, ma non è qualcosa di colorato, allora, nel momento in cui questo mondo delle cose visibili volesse raffigurarsi qualcosa di simile alla vista, non riuscirebbe a trovare in nessuno dei propri concetti qualcosa di simile alla vista, in quanto il concetto che esso si forma non può essere senza [un riferimento al] colore. E poiché nell’ambito della propria regione non riesce a trovare la vista, né qualcosa che sia simile o assimilabile ad essa, [il mondo delle cose visibili] non può giungere a cogliere la vista, ed anzi non è neppure in grado di cogliere che essa sia qualcosa: non riuscendo infatti a cogliere nulla al di fuori del colore, essa giudica che tutto ciò che non è colorato non esiste affatto14. Alla vista, pertanto, non si addice nessun nome tra tutti quelli che si possono pronunciare nella regione dei colori: non le si addice né il nome di bianco, né quello di nero, né il nome di tutti i colori misti, poiché alla vista non si addice né il nome di bianco e di non-bianco congiunti insieme, né il nome di nero e di non-nero congiunti insieme15. Pertanto, sia che indichi singolarmente e disgiuntivamente tutti i nomi della sua regione [la regione dei colori], sia che prenda
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sive contrariorum colorum nomina copulative sive omnium nominum nominabilium copulationem respiciat, nihil attingit de nomine et essentia visus. 23 Quod si dixerit quis, cum color non sit discretus et cognitus a se, sed a causa altiori, scilicet visu, et rogaverit omnia visibilia, an hoc verum sit et quomodo concipiant causam illam, respondebunt praepositum illum, qui dedit eis nomen, uti est visus, esse quid optimum atque pulcherrimum secundum omne id quod concipi potest. Et dum ad conceptum se parant eius optimi atque pulcherrimi, ad colorem redeunt, sine quo conceptum fabricare nequeunt. Quare dicunt ipsum pulchriorem esse quam colorem album quemcumque, quia non sit color albus in regione coloris adeo pulcher, quin possit esse pulchrior, et adeo lucidus et resplendens, quin possit esse lucidior. Unde visibilia omnia non assererent regem eorum aliquem colorem regionis, qui actu est inter visibilia regionis, sed dicerent ipsum esse ultimum potentiae pulchritudinis lucidissimi et perfectissimi coloris. 24 Talia, frater, atque plura similia verissima conspicis. Ascende igitur de visu ad auditum per consimilem habitudinem et ad gustum, odoratum atque tactum, deinde ad sensum communem, qui est positus super omnem sensum, sicut auditus super audibilia, gustus gustabilia, olfactus odorabilia, tactus tangibilia. 25 Deinde altius ad intellectum perge, qui est super omnia intelligibilia, quae sunt rationabilia. Rationabilia enim per intellectum apprehenduntur, sed non reperitur in regione rationabilium intellectus, cum intellectus sit ut oculus et rationabilia ut colores. Et si
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in considerazione congiuntamente i nomi dei colori contrari o consideri la congiunzione di tutti i nomi delle cose nominabili, il mondo delle cose visibili non giunge a cogliere nulla riguardo al nome e all’essenza della vista. Se qualcuno, dato che il colore viene distinto e conosciuto non a partire da se stesso, ma grazie ad una causa superiore, ossia grazie alla vista16, sostenesse quanto abbiamo appena detto e interrogasse tutte le cose visibili e chiedesse loro se questo sia vero e in che modo esse concepiscano quella causa [la vista], esse risponderebbero che ciò che è loro preposto17 e che ha dato loro il nome, come è appunto la vista, è la cosa migliore e più bella tra tutte quelle che esse riescono a concepire. E quando si apprestano a formulare un concetto a proposito di questa cosa ottima e bellissima, esse [le cose visibili] ritornano al colore, senza il quale non sono in grado di costruire alcun concetto. Perciò, dicono che la vista è più bella di qualunque colore bianco, perché, nella regione del colore, non c’è un colore che sia così bello che non ve ne possa essere uno più bello ancora, e che sia così luminoso e splendente che non ve ne possa essere uno più luminoso18. Tutte le cose visibili, pertanto, sosterrebbero che il loro re non può essere qualche colore che appartiene alla loro regione e che è presente in atto fra le cose visibili di tale regione, ma direbbero che il loro re [la vista] è il grado ultimo di tutta la bellezza possibile che è propria del colore più luminoso e perfetto. Tieni a mente, fratello, che tali cose, e molte altre simili, sono assolutamente vere. Mediante un procedimento analogo a quello che abbiamo appena descritto, innalzati pertanto dalla vista all’udito, al gusto, all’odorato e al tatto, e per ultimo al senso comune19, che presiede ad ogni senso, così come l’udito presiede alle cose che possono essere udite, il gusto alle cose che possono essere gustate, l’olfatto alle cose che possono essere odorate, il tatto alle cose che possono essere toccate. Poi volgiti più in alto verso l’intelletto, che presiede a tutte le cose che possono essere comprese dalla ragione20. Le cose che sono oggetto della ragione, infatti, vengono apprese mediante l’intelletto, ma l’intelletto non si trova nella regione delle cose che sono oggetto della ragione, in quanto l’intelletto è come l’occhio e le cose che sono oggetto della ragione sono come i colori. E, se vuoi, spin-
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vis, extende te in tua consideratione, ut bene apprehendas quomodo intellectus est ut visus liber, scilicet iudex verus et simplex omnium rationum, in quo non est permixtio specierum rationum, ut sit clarum iudicium intuitivum rationum in varietate regionis rationum. Iudicat enim intellectus hanc rationem necessariam, hanc possibilem, hanc contingentem, hanc impossibilem, hanc demonstrativam, hanc sophisticam et apparentem, hanc topicam, et ita de reliquis, uti visus iudicat hunc colorem album, hunc non album sed nigrum, hunc plus album quam nigrum, et ita de ceteris. Non attingitur in omni regione rationum intellectus, sed dum ipsum suum regem praepositum et iudicem voluerit figurare mundus seu universitas rationum ipsum terminum et ultimitatem perfectionis dicit esse. 26 Sed intellectuales naturae pariformiter non possunt negare regem sibi praeponi. Et uti visibiles naturae hunc regem sibi praepositum asserunt ultimitatem omnis visibilis perfectionis, sic intellectuales naturae, quae sunt naturae intuitivae veri, affirmant regem eorum esse ultimitatem omnis perfectionis intuitivae omnium et hunc nominant theon seu deum quasi speculationem seu intuitionem ipsam in suo complemento perfectionis omnia videndi. Nihil tamen in tota regione intellectualium virtutum reperitur, cui similis sit rex ipse, neque cadit in omni regione intellectuali conceptus similitudinis eius, sed est supra omne, quod concipitur et intelligitur, cuius nomen non est intelligibile, licet sit nomen omnia intelligibilia nominans et discernens. Et eius natura est intellectualem omnem sapientiam per infinitum altitudine, simplicitate, virtute, potentia, pulchritudine et bonitate antecedens, cum omne intellectualem naturam inhabitans sit eius comparatione umbra et vacuitas potentiae, grossities et parvitas sapientiae, et sic de infinitis similibus modis. 27 Poteris itaque currere in hac via, per quam invenitur deus super omnem visum, auditum, gustum, tactum, odoratum, affatum, sensum, rationem et intellectum. Invenitur quidem nullum horum, sed super omnia ipsum deum deorum esse et regem regum om-
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giti oltre nella tua riflessione, in modo tale da comprendere bene che l’intelletto è libero come la vista, ossia è un giudice vero e semplice di tutte le ragioni, e in esso non vi è mescolanza di specie razionali, affinché risulti chiaro il suo giudizio intuitivo sulle ragioni che sono presenti nella regione della ragione, con tutta la sua varietà 21. L’intelletto, infatti, giudica che questa ragione è necessaria, quest’altra è possibile, quest’altra è contingente, quest’altra è impossibile, quest’altra è dimostrativa, quest’altra è sofistica e ingannevole, quest’altra topica, e così via, proprio come la vista giudica che questo colore è bianco, quest’altro non è bianco ma nero, quest’altro più bianco che nero, e così via 22. In tutta la regione delle ragioni, tuttavia, non è possibile cogliere l’intelletto, e quando il mondo o la totalità delle ragioni vuole raffigurarsi il proprio re e giudice, allora afferma che esso è il termine e il fine ultimo della perfezione. Anche le nature intellettuali non possono negare che ad esse presieda un re. E come le nature visibili affermano che questo re, che è loro preposto, è il termine ultimo di ogni perfezione visibile, così le nature intellettuali, che sono le nature capaci di cogliere intuitivamente il vero, affermano che il loro re è il termine ultimo di ogni perfezione che intuisce tutte le cose, e lo chiamano «theón», ossia Dio, come se, nel suo essere il compimento della perfezione che è propria di chi vede tutte le cose, egli fosse la speculazione o l’intuizione stessa. Nell’intera regione delle potenze intellettuali non si trova nulla che sia simile a questo re, né è presente nell’intera regione dell’intelletto23 un concetto che gli assomigli; egli, piuttosto, è al di sopra di tutto ciò che viene concepito e compreso ed il suo nome non è intelligibile, sebbene sia il nome che denomina e distingue tutte le cose. E la sua natura è infinitamente superiore ad ogni sapienza intellettuale, per altezza, semplicità, forza, potenza, bellezza e bontà, dal momento che tutto ciò che possiede una natura intellettuale in confronto a lui è ombra e privazione di potenza, conoscenza grezza e inadeguata, e così via all’infinito24. Potrai pertanto correre su questa via, attraverso la quale si trova Dio, oltre ogni vista, udito, gusto, tatto, odorato, discorso, senso, ragione e intelletto. E in effetti si trova che egli non è nessuna di queste cose, ma è al di sopra di tutte, come il Dio degli dèi e il Re
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nium. Rex enim mundi intellectualis est rex regum et dominus dominantium in universo. Nam est rex intellectualis naturae, quae est regnum habens in rationali. Quae quidem rationalis regnat in sensuali, et sensualis in mundo sensibilium, cui reges praesunt visus, auditus, gustus, tactus, odoratus. Omnes isti reges sunt discernentes, speculantes seu theorizantes usque ad regem regum et dominum dominantium, qui est ipsa speculatio et ipse theos seu deus in sua potestate omnes reges habens, a quo habent omnes reges id quod habent, potentatum, pulchritudinem, entitatem, amoenitatem, laetitiam, vitam et omne bonum. 28 Unde in regno summi atque maximi regis omnis decor visibilium formarum, varietas colorum, proportio grata, resplendentia carbuncularis, graminea viriditas, fulgor auri et quidquid visum delectat, et in quo visus quasi in thesauro regni sui quiescendo delectatur, in curia magni regis pro nihilo habentur, cum sint de infimis stramentis curiae. Sic quidem vocum omnium concordans resonantia atque dulcis illa harmonia in regno auditus, omnium instrumentorum inenarrabilis varietas, melodiae illae aureorum organorum, sirenici philomenicique cantus et aliae omnes exquisitae divitiae regis regni auditus faeces quidem sunt pavimento adhaerentes in curia maximi atque optimi regis regum. Sic quidem omne dulce et stipticum et gustui gratum tantorum paradisiacorum pomorum et fructuum saporosissimorum et uvarum Engaddi, vini Cyprici, mellis Attici, frumenti et olei et omne, quod India et cunctus hic mundus, nemora et aquae, refectioni praestant et gustui offerunt, parvi momenti sunt in aula illius potentissimi principis orbis. Neque odores unguentorum, thuris et myrrhae et musci et omne redolens regnum odoratus inhabitans pretiosi aliquid habet in ipso magno regis altissimi palatio, minus adhuc omne id, quod lenitate sua tactum delectat. Regis enim tactus latum videtur atque per orbem extensum regnum, sed vix punctus quidem paene insensibilis est respectu regni principantis universo. Magnus vide-
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di tutti i re25. Il re del mondo intellettuale è infatti il Re dei re e il Signore dei signori nell’universo. È infatti il re della natura intellettuale, la quale regna sulla natura razionale. Quest’ultima regna sulla natura sensibile, e la natura sensibile regna sul mondo delle cose percepibili con i sensi, a cui presiedono i seguenti re: la vista, l’udito, il gusto, il tatto, l’odorato. Tutti questi re sono in grado di distinguere, di speculare, ossia di teorizzare, fino al Re dei re e al Signore dei signori, che è la speculazione stessa ed è egli stesso «theós», ovvero Dio, che ha in suo potere tutti i re e dal quale tutti i re hanno ciò che essi possiedono: sovranità, bellezza, entità, piacevolezza, letizia, vita e ogni bene. Di conseguenza, nel regno del re sommo e massimo, ogni bellezza delle forme visibili, ogni varietà dei colori, ogni gradevole proporzione, ogni brillantezza del carbonchio, ogni verde delle erbe, ogni rilucere dell’oro e tutto ciò che diletta la vista e del cui diletto la vista si appaga come se si trovasse nel tesoro del proprio regno, tutto questo non ha alcun valore presso la corte del grande re, dal momento che si tratta dello strame più vile della corte. Allo stesso modo, certamente, il risuonare concorde delle voci e quella dolce armonia che si trova nel regno dell’udito, la varietà inenarrabile degli strumenti, le melodie degli organi d’oro, i canti delle sirene e degli usignoli e tutte le altre meravigliose ricchezze del re del regno dell’udito sono la feccia26 attaccata al pavimento della corte del massimo e ottimo Re dei re. E ancora ogni sapore dolce e intenso, gradevole al gusto, di tanti frutti paradisiaci ed estremamente succulenti, dell’uva di Engaddi, del vino di Cipro27, del miele dell’Attica28, del frumento e dell’olio, e di tutto ciò che l’India e la terra intera, con i suoi boschi e le sue acque, assicurano al nutrimento e offrono al gusto, non sono che poca cosa nella sala di quel potentissimo principe del mondo29. Né i profumi degli unguenti, dell’incenso, della mirra e del muschio, e neppure tutte le fragranze che si trovano nel regno dell’odorato rappresentano qualcosa di prezioso nel grande palazzo dell’altissimo re, ed ancor meno tutto ciò che delizia il tatto con la sua morbidezza. Il regno del re del tatto, infatti, appare ampio ed esteso a tutto il mondo, ma è appena un punto, quasi impercettibile, rispetto al regno di colui che è il signore dell’universo. Sembra grande anche quel re che comanda
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tur rex ipse, qui his iam dictis regibus imperat et cuius ipsi vasalli sunt, qui est sensus communis in potentatu suo omnem iam dictorum complicans potestatem, sed est servus empticius et infimus quidem minister in regno regis omnia videntis et continentis. 29 Per incomparabilem altitudinem intellectualis natura regnum supra omnia iam dicta sortita est, a cuius virtute dependent regna omnia praenominata et praenarrata et quibus dominanter prae est. Sed intellectualis naturae reges de familia sunt maximi ducis et gaudent ascribi militiae eius neque aliud optant quam posse adipisci gradum quemcumque in aula dominatoris, in quo possint intui tione intellectuali refici ab eo, qui theos dicitur. Et omnia, quae in universis praenarratis regnis sunt, nihili curant, sicuti et nihil sunt in comparatione boni, quod cognoscunt in principe suo, in quo omnia sunt in complemento et in se divine et superoptime, quae in aliis regibus non solum imperfecte et extra se et in umbra seu imagine, sed distantia incomparabili et improportionali contracta reperiuntur. 30 Color igitur, qui in visibili regno per visum sentitur, non videt, sed tantum est visibilis. Non habet vitam et motum vitalem neque perfectionem habet scilicet stirpeae vegetationis aut subsistentis formae. Sed sensus, qui sunt in regno sensus communis, uti sunt sensus particulares, habent naturam intra se sensibilis mundi formam complicandi in vitalitate et cognitione sensibilis spiritus. Non est igitur minus in regno sensuum quam in regno sensibilium. Sed id omne, quod est in regno sensibilium explicate, est vigorosiori modo complicite et vitaliter atque perfectiori modo in regno sensuum. Quiescit enim sensibilium regnum in ipsis. Sic ea, quae de regno sensus sunt, multo clariori atque perfectiori modo sunt in re-
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sui re che abbiamo ora menzionato e del quale sono vassalli, vale a dire il senso comune, il quale complica nel suo potere tutto il potere di quelli30; ma questo re è soltanto un servo acquistato e un misero intendente nel regno del re che vede e abbraccia tutte le cose. La natura intellettuale ha ricevuto un regno che, per la sua incomparabile altezza, è al di sopra di tutte le cose di cui abbiamo appena parlato; dal suo potere dipendono tutti i regni che abbiamo nominato e descritto, sui quali la natura intellettuale presiede per esercitarvi la sua autorità. Ma i re della natura intellettuale fanno parte della famiglia del comandante supremo e gioiscono di essere arruolati nel suo esercito; essi non desiderano altro che conseguire un qualche grado alla corte del signore, ove possano essere ristorati, con l’intuizione intellettuale, da colui che si chiama «theós». E non si curano affatto di tutte quelle cose che si trovano nei regni di cui abbiamo parlato, dal momento che sono nulla in confronto al bene che conoscono nel proprio principio. In lui tutte le cose sono presenti nella loro compiutezza, così come sono in se stesse, in modo divino e superottimo31, mentre presso gli altri re esse si trovano non solo in maniera imperfetta, al di fuori di se stesse e in un’ombra o in un’immagine, ma anche contratte per la distanza incomparabile e priva di proporzione [che le separa dal loro re, ossia da Dio]. Il colore, pertanto, che nel regno delle cose visibili viene percepito attraverso la vista, non vede, ma è soltanto visibile32. Non possiede vita, né moto vitale, e non ha neppure la perfezione che è propria della vita vegetativa di una pianta o di una forma sussistente. I sensi, invece, che sono presenti nel regno del senso comune, in quanto sono dei sensi particolari, hanno una natura che complica in se stessa, nella vitalità e nella conoscenza dello spirito sensibile, la forma del mondo sensibile. Nel regno dei sensi, pertanto, non vi è nulla di meno di quello che vi è nel regno delle cose sensibili. Anzi, tutto ciò che nel regno delle cose sensibili è presente in maniera esplicata, nel regno dei sensi è contenuto in modo più vigoroso e perfetto, in maniera complicata e vitale. È nei sensi, infatti, che trova la sua pace il regno delle cose sensibili33. Allo stesso modo, le cose che appartengono al regno dei sensi sono contenute in maniera più chiara e perfetta nel regno in cui esse esistono intellettual-
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gno, ubi sunt intellectualiter. Color enim in esse intellectuali regni intellectualis incorruptibilem naturam habens differt perfectione a colore sensibilis mundi sicut perpetuum a corruptibili et vita intellectualis a morte et lux ab umbra. 31 Sed in regno cunctipotentis, ubi regnum est rex, ubi omnia, quae in omnibus regnis, rex ipse, ubi color non est color sensibilis aut intellectualis, sed divinalis, immo deus ipse, ubi omnia motu et vita carentia in sensibili mundo et omnia vitam vegetativam, sensitivam, rationalem aut intellectualem habentia sunt ipsa divina vita, quae est ipsa immortalitas, quam solus inhabitat deus, et in ipso omnia ipse, ibi est laetitia omnium gaudiorum, quae oculis, auribus, gustu, tactu, odoratu, sensu, vita, motu, ratione et intelligentia hauriuntur, laetitia infinita, divina et inexpressibilis, et quies omnis laetitiae et delectationis, quia ipse est theos deus, speculatio et cursus, qui omnia videt, in omnibus est, per omnia discurrit. Ad ipsum omnia respiciunt ut ad regem. Ad iussum suum omnia moventur et discurrunt, et omnis cursus ad finem quietis est ad ipsum. Igitur omne theos, qui est principium effluxus, medium in quo movemur et finis refluxus. Hac igitur via, frater mi, stude diligentissima speculatione quae rere deum, quoniam non potest non reperiri, si recte quaeritur, qui ubique est. Et tunc recte quaeritur secundum nomen suum in finem, ut secundum nomen suum sit et laus sua usque ad fines potentiae terreae naturae nostrae. 32
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Sed iam amplius ad secundam quaestionis particulam nos convertentes videamus, quonam modo ducemur ad scalarem ascen-
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mente34. Un colore, infatti, nel modo d’essere intellettuale che è proprio del regno intellettuale, possiede una natura incorruttibile, per cui si differenzia, in quanto a perfezione, dal colore del mondo sensibile, così come ciò che è perpetuo si differenzia da ciò che è corruttibile, la vita intellettuale dalla morte e la luce dalle tenebre. Ma nel regno dell’onnipotente, in cui il regno si identifica con il re, in cui tutte le cose che esistono in tutti gli altri regni sono lo stesso re, in cui il colore non è colore sensibile o intellettuale, ma divino, ed è anzi Dio stesso35, in cui tutte le cose che nel mondo sensibile sono prive di moto e di vita e tutte quelle che hanno vita vegetativa, sensitiva, razionale o intellettuale sono la stessa vita divina (che è l’immortalità stessa, dove abita solo quel Dio, nel quale tutte le cose sono Dio stesso36), lì vi è la letizia di tutte le gioie che si colgono con gli occhi, con le orecchie, il gusto, il tatto, l’olfatto, il sentire, la vita, il movimento, la ragione e l’intelligenza, una letizia infinita, divina e inesprimibile, e quiete di ogni letizia e di ogni piacere, poiché egli è «theós», Dio, speculazione e corsa37, che vede tutte le cose, che è presente in tutte le cose e che corre attraverso tutte le cose. A lui tutte le cose guardano come al loro re. Al suo comando tutte le cose si muovono e vanno qua e là, e ogni corsa che ha come fine la quiete è diretta a lui. Pertanto, tutto è «theós», che è il principio da cui tutto fluisce, il mezzo in cui ci muoviamo e il fine a cui tutto rifluisce38. Per questa via, dunque, sforzati, fratello mio, di ricercare Dio con una speculazione diligentissima, in quanto, se lo si ricerca correttamente, non può non essere trovato colui che è ovunque. E lo si ricerca correttamente se, in accordo con il suo nome, lo si ricerca al fine di lodarlo e di estendere la sua lode, conformemente al suo nome, fino ai limiti estremi della potenza della nostra natura terrena39. II
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Ma ora dedichiamoci alla seconda parte della nostra questione, e vediamo più diffusamente in che modo la teoria di cui abbiamo parlato ci possa condurre ad ascendere gradualmente, dal momento che non ci muoviamo verso qualcosa di completamente ignoto40.
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sum theoriae dictae, cum ad ignotum penitus non moveamur. Et ut id ipsum inquiramus, ad visum respiciamus. 33 Primo quidem ad hoc, ut visus deprehendat visibile discrete, lumen duplex concurrit. Nam non est spiritus visionis, qui nomen imponit coloribus, sed spiritus patris eius, qui in eo est. Spiritus enim, qui per opticas venas in oculum a cerebro descendit, offenditur obviatione speciei obiecti et confusa sensatio exoritur. Admiratur virtus animalis de sensatione et intendit, ut discernat. Non igitur discernit spiritus, qui in oculo est, sed in ipso spiritus altior operatur discretionem. Hoc quidem in nobis quotidiano experimento verum comperimur. Praetereuntes enim, quorum species in oculum multiplicatae sunt, saepe non deprehendimus, dum attenti ad alia non advertimus, et pluribus loquentibus nobis illum tantum intelligimus, ubi nostra est attentio. Hoc quidem nobis id verum ostendit quoniam lumine altiori, ipsius scilicet rationis, spiritus, qui in sensu est, attingit activitatis suae operationem. Cum igitur oculus dicit hoc esse rubeum, hoc esse blavium, non loquitur oculus, sed in ipso loquitur spiritus patris sui, hic scilicet spiritus animalis, cuius est hic oculus. 34 Neque adhuc propterea color visibilis est, etiam si assit attentio videre volentis; oportet enim quod alio lumine ipsum visibile illuminantis visibile fiat. In umbra enim et tenebris visibile non habet aptitudinem, ut videatur. Adaptatio eius fit per lumen, quod ipsum illuminat. Sicut igitur visibile non est aptum ut videatur nisi in lumine, quoniam per se non potest se ingerere in oculum, hinc opus habet, ut illuminetur, quoniam lumen illius est naturae, quod per se ingeritur in oculum. Tunc igitur visibile se ingerere potest in oculum, quando est in lumine, cuius vis est se ipsum ingerendi. Color autem in lumine non est ut in alio, sed ut in principio suo, quoniam non est color nisi terminus lucis in diaphano, ut in iride
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E, per indagare su questo punto, prendiamo di nuovo in considerazione la vista. Anzitutto, affinché la vista possa cogliere un oggetto visibile in modo distinto è necessario un duplice lume. Infatti, ciò che attribuisce il nome ai colori non è lo spirito della vista, bensì è lo spirito di suo padre, che è presente in esso41. Lo spirito, che attraverso le vene ottiche discende dal cervello nell’occhio, viene colpito dall’incontro con la specie dell’oggetto e da ciò nasce una sensazione confusa42. La facoltà della natura sensitiva è spinta ad interessarsi alla sensazione43 e si rivolge ad essa in modo da poterla distinguere. Chi distingue, pertanto, non è lo spirito che è nell’occhio, bensì è uno spirito più elevato che opera in esso la distinzione. Che ciò sia vero lo appuriamo in noi stessi con la nostra esperienza quotidiana: spesso, quando siamo attenti ad altre cose, non riconosciamo coloro che ci passano davanti, le cui specie sono pure riprodotte nel nostro occhio, e quando sono in molti a parlare intendiamo solo colui al quale è rivolta la nostra attenzione44. Ciò mostra che è vero che lo spirito che è presente nei sensi riesce a svolgere la sua attività grazie ad un lume più elevato, quello della ragione. Quando l’occhio, pertanto, dice che questa cosa è rossa, quest’altra è blu, non è l’occhio a parlare, bensì è lo spirito di suo padre che parla in esso, ossia lo spirito della facoltà sensitiva, al quale appartiene l’occhio. Inoltre, anche se c’è l’attenzione di colui che vuole vedere, il colore non risulta per questo ancora visibile; è necessario, infatti, che esso sia reso visibile da un altro lume, da qualcosa che illumini l’oggetto visibile. Nell’ombra e nella tenebra, infatti, l’oggetto visibile non ha l’attitudine ad essere visto. Esso viene reso atto alla vista dal lume che lo illumina. Poiché il visibile, pertanto, non è atto ad essere visto, se non nella luce, in quanto non può penetrare per se stesso nell’occhio45, è necessario che esso sia illuminato, dato che la luce ha una natura tale per cui penetra da sé nell’occhio. Ciò che è visibile, pertanto, può penetrare nell’occhio quando si trova nella luce, la quale ha la capacità di introdursi [nell’occhio]. Il colore, tuttavia, non si trova nella luce come in qualcosa di altro [da se stesso], ma come nel proprio principio, in quanto il colore non è che la terminazione della luce in un corpo diafano, come appuriamo guardando l’arcobaleno46. I diversi colori nascono infatti
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experimur. Secundum enim quod radius solis in nube aquosa aliter et aliter terminatur, alius et alius generatur color. Unde manifestum est colorem in suo principio, scilicet in luce, visibilem, quoniam lux extrinseca et spiritus visivus in claritate communicant. Hinc lux illa, quae illuminat visibile, ad comparem lucem se ingerit et adducit coloris speciem visui obiectam. 35 Ex his, frater, para tibi cursum quaerendi quomodo ignotus deus praestat omne id, per quod ad ipsum movemur. Nam etsi iam clare tibi constet spiritum animalis in spiritu oculi discernere et lumen facere visibile aptum, ut videatur, non tamen visus vel spiritum ipsum vel lumen deprehendit. Lumen enim non est de regione colorum, cum non sit coloratum. In omni igitur regione, ubi oculus principatur, non reperitur. Ignotum est igitur lumen oculo et tamen est delectabile visui. Sicut igitur ratio discretiva est, quae in oculo discernit visibilia, ita intellectualis spiritus est, qui in ratione intelligit, et divinus spiritus est, qui illuminat intellectum. Lumen autem discretivum animale in oculo, aure, lingua, naribus et nervo, in quo tactus viget, est lumen unum varie receptum in variis organis, ut secundum varietatem organorum varie discernat ea, quae sunt sensibilis mundi. Et lumen ipsum est principium, medium et finis sensuum, quoniam non sunt sensus nisi ad finem discretionis sensibilium neque sunt ab alio quam ab illo spiritu neque in alio moventur. In ipso etiam vivunt sensus omnes. Vita enim visus est videre et auris vita est audire, et quanto haec vita est perfectior, tanto est discretior. Visus enim, qui perfectius discernit visibile, perfectior est, ita de auditu. Vita igitur et perfectio, laetitia et quies et quidquid desiderant omnes sensus, in spiritu discretivo est, et ab ipso habent omne id quod habent, et dum inficiuntur
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dai diversi modi in cui un raggio di sole termina in una nube carica d’acqua. È evidente, quindi, che il colore risulta visibile quando è nel suo principio, ossia nella luce, dal momento che la luce esterna e lo spirito visivo comunicano fra loro nella luminosità. Di conseguenza, la luce che illumina l’oggetto visibile penetra nell’altra luce sua compagna e reca con sé la specie del colore, che viene così posta davanti alla vista. In base alle cose che abbiamo detto, puoi prepararti, fratello, una via per cercare come il Dio ignoto ci offra tutto quanto ci è necessario per muoverci verso di lui. Ti è ormai chiaro, infatti, che è lo spirito della facoltà sensitiva quello che opera la distinzione nello spirito dell’occhio, e che è la luce quella che rende un oggetto visibile atto ad essere visto; nonostante ciò, la vista non è in grado di cogliere né lo spirito della facoltà sensitiva, né la luce. Non essendo colorata, la luce, infatti, non appartiene alla regione dei colori. Essa, pertanto, non si trova in nessuna parte della regione in cui regna l’occhio. La luce, quindi, è ignota all’occhio, e tuttavia è piacevole alla vista. E come è la ragione discernente47 che nell’occhio distingue gli oggetti visibili, così è lo spirito intellettuale che intende nella ragione, ed è lo spirito divino che illumina l’intelletto48. Invece, il lume della facoltà sensitiva, che distingue nell’occhio, nell’orecchio, nella lingua, nelle narici, nelle terminazioni nervose alle quali è preposto il tatto, è un unico lume, che viene ricevuto in modi diversi nei diversi organi di senso, in modo tale che, a seconda della differenza degli organi, esso può distinguere in modi diversi le cose che appartengono al mondo sensibile. E questo lume è il principio, il mezzo e il fine dei sensi, poiché i sensi non esistono, se non allo scopo di distinguere gli enti sensibili, e non dipendono da altro, se non da quello spirito, né si muovono in altro. È in esso, inoltre, che tutti i sensi vivono. La vita della vista, infatti, consiste nel vedere, e la vita dell’udito consiste nell’udire, e quanto più questa vita è perfetta tanto più ciascun senso è in grado di distinguere. Ad esempio, la vista che distingue un oggetto visibile in un modo più perfetto è più perfetta, e lo stesso vale per l’udito. Pertanto, la vita e la perfezione, la gioia e la quiete, e ogni altra cosa che tutti i sensi desiderano si trovano nello spirito discernente, dal quale i sensi hanno tutto ciò che essi possiedono. Quando gli organi di
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organa, et deficit in ipsis vita in activitate, non deficit in spiritu discretivo, a quo eandem vitam sublata macula aut infirmitate recipiunt. 36 Pari quidem modo de intellectu id ipsum concipe, qui lumen est rationis discretivae, et ab illo te eleva in deum, qui lumen est intellectus. Et dum sic curris per id, quod in visu compertum est, comperies quomodo deus noster in saecula benedictus ita est omne id, quod est in quolibet quod est, sicut lumen discretivum in sensibus et intellectuale in rationibus ac quod ipse est, a quo creatura habet id quod est et vitam et motum, et in lumine ipsius est omnis cognitio nostra, ut nos non simus illi, qui cognoscimus, sed potius ipse in nobis. Et cum ad cognitionem ipsius ascendimus, quamquam ipse sit ignotus nobis, tamen non nisi in lumine suo, quod se ingerit in spiritum nostrum, movemur, ut in lumine suo ad ipsum pergamus. Sicut igitur ab ipso dependet esse, ita et cognosci. Quemadmodum a luce corporea dependet esse coloris, ita et ab ipsa luce dependet cognitio coloris, ut praemisimus. 37 Advertendum igitur, quoniam mirabilis deus in operibus suis creavit lucem, quae simplicitate sua excellit cetera corporalia, ut sit medium inter spiritualem naturam et corporalem, per quam corporalis hic mundus tamquam per suum simplex ascendat in spiritualem mundum. Defert enim figuras in visum, ut sic ad rationem et intellectum forma sensibilis mundi ascendat et per intellectum in deo finem attingat. Ita quidem et in esse prodiit mundus ipse, ut corporalis hic mundus participatione lucis hoc sit quod est, et tanto res corporales in genere corporeo perfectiores censeantur, quanto plus lucis participant, ut gradatim in elementis experimur. Sic quidem creatura, quae spiritum vitae habet, tanto est perfectior, quanto plus luminis vitae participat. Sic creatura vitae intellectualis tanto perfectior, quanto plus intellectualis luminis vitae participat. Deus autem est imparticipabilis et infinita lux lucens in omni-
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senso si ammalano e nella loro attività viene meno la vita, questa non viene meno nello spirito discernente, dal quale essi la ricevono di nuovo una volta eliminata l’imperfezione o la malattia. Pensa lo stesso, in un modo simile, dell’intelletto, che è il lume della ragione discernente49, e dall’intelletto elevati a Dio, che è il lume dell’intelletto. E quando procedi in questo modo, grazie a quanto hai appreso sulla vista, scoprirai che il Dio nostro, benedetto nei secoli, è tutto ciò che è in qualsiasi cosa che esiste50, così come il lume discernente lo è per i sensi e il lume intellettuale per le ragioni; scoprirai anche che egli è colui dal quale la creatura ha ciò che essa è, la vita e il movimento, e che ogni nostra conoscenza si compie nella sua luce, per cui non siamo noi a conoscere, ma è piuttosto lui che conosce in noi51. E quando ascendiamo alla conoscenza di Dio, sebbene egli ci sia ignoto, non ci muoviamo se non nella sua luce, la quale penetra nel nostro spirito per fare in modo che, attraverso una tale luce, noi possiamo procedere verso di lui. Come da Dio, dunque, dipende l’essere, così da Dio dipende anche il fatto che possa essere conosciuto52. Come dalla luce corporea dipende l’essere del colore, così dalla stessa luce dipende anche la conoscenza del colore, come abbiamo già detto in precedenza. Dobbiamo pertanto osservare che Dio, mirabile nelle sue opere, ha creato la luce, che per la sua semplicità è superiore a tutte le altre cose corporee, affinché essa sia il medio tra la natura spirituale e quella corporea, e attraverso essa questo mondo corporeo, come attraverso un suo mezzo semplice, ascenda al mondo spirituale53. La luce, infatti, trasmette le forme alla vista, in modo tale che la forma del mondo sensibile ascenda fino alla ragione e all’intelletto e, mediante l’intelletto, raggiunga il suo fine ultimo in Dio. È così, in effetti, che il mondo sensibile è giunto anche all’essere, per cui questo mondo corporeo è ciò che è perché partecipa della luce, e le cose corporee vengono ritenute tanto più perfette, nel loro genere corporeo, quanto più partecipano della luce, come sperimentiamo nella gradazione degli elementi54. E così, senza dubbio, la creatura che è dotata di spirito vitale è tanto più perfetta quanto più partecipa del lume della vita. Allo stesso modo, la creatura dotata di vita intellettuale è tanto più perfetta quanto più partecipa del lume della vita intellettuale. Dio, invece, è luce impartecipabile [per com’è
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bus, uti lux discretiva in sensibus. Varia autem imparticipabilis et impermiscibilis lucis terminatio variam ostendit creaturam, uti lucis corporalis terminatio varia in diaphano varium ostendit colorem, licet impermiscibilis remaneat lux ipsa. 38
III.
Ex his, frater, non ambigo clare pergere potes, ut apprehendas quod, sicut color non est visibilis nisi medio luminis, hoc est quidem dicere quod, sicut color non potest ascendere ad quietem et ad finem suum nisi in lumine principii sui, ita quidem nostra natura intellectualis non potest ad felicitatem quietis attingere nisi in lumine principii sui intellectualis. Et sicut visus non discernit, sed in eo discernit spiritus discretivus, ita in nostro intellectu illuminato divino lumine principii sui pro aptitudine, ut intrare possit, non nos intelligemus aut vita intellectuali vivemus per nos, sed in nobis vivet deus vita infinita. Et haec est illa felicitas aeterna, ubi in unitate strictissima ita in nobis vivit aeterna intellectualis vita omnem conceptum creaturarum viventium in inexpressibili laetitia praecellens, sicut in sensibus nostris perfectissimis vivit ratio discretiva et in ratione clarissima vivit intellectus. 39 Iam palam nobis est, quod ad ignotum deum attrahimur per motum luminis gratiae eius, qui aliter deprehendi nequit, nisi se ipsum ostendat. Et quaeri vult. Vult et quaerentibus lumen dare, sine quo ipsum quaerere nequeunt. Vult quaeri, vult et apprehendi, quia vult quaerentibus aperire et se ipsum manifestare. Quaeritur igitur cum desiderio apprehendendi et tunc quaeritur theorice cum cursu ducente currentem ad quietem motus, quando cum
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in se stessa] e infinita, che risplende in tutte le cose, come la luce discernente risplende nei sensi. Il vario modo in cui si rifrange [termina] la luce che è [in sé] impartecipabile e non mescolabile55 rende manifesta la varietà delle creature, così come il vario modo in cui si rifrange [termina] la luce corporea nel corpo diafano rende manifesta la varietà dei colori, sebbene la luce rimanga in se stessa, senza mescolarsi. III
Non ho dubbi, fratello, che, sulla base di quanto abbiamo detto della luce, potrai proseguire con chiarezza e giungere a comprendere che, come un colore non è visibile se non per mezzo della luce – il che equivale a dire che il colore non può ascendere alla sua quiete e al suo fine, se non nel lume del suo principio –, così, certamente, la nostra natura intellettuale non può raggiungere la felicità della quiete, se non nel lume del suo principio intellettuale56. E come non è la vista che distingue, ma è lo spirito discernente che distingue in essa, così nel nostro intelletto, illuminato dal lume divino del suo principio, conformemente alla sua capacità di accoglierlo, non saremo noi, per virtù nostra, ad intendere o a vivere di vita intellettuale, ma sarà Dio, che è vita infinita, che vivrà in noi 57. Ed è questa la felicità eterna, nella quale vive in noi, in un’unità strettissima, l’eterna vita intellettuale, che supera, per la sua gioia inesprimibile, ogni concetto che di essa si possono formare le creature viventi, così come nei nostri sensi più perfetti vive la ragione discernente, e nella ragione più illuminata vive l’intelletto58. È oramai evidente che al Dio ignoto siamo attratti dal movimento suscitato dalla luce della sua grazia; Dio, infatti, non può essere colto altrimenti, se non è lui stesso che si manifesta a noi. Inoltre, Dio vuole essere cercato59. E a coloro che lo cercano vuole anche dare quel lume senza il quale non possono cercarlo60. Vuole essere cercato e vuole anche essere afferrato, poiché vuole aprire a coloro che lo cercano e vuole manifestare se stesso. Dio va cercato, dunque, con il desiderio di afferrarlo, e lo si cerca attraverso la contemplazione, con quella corsa che conduce colui che corre alla quiete del moto, solo allorché lo si cerchi con il desiderio più gran-
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maximo desiderio quaeritur. Unde non aliter recte ambulatur ad sapientiam attingendam, nisi per desiderium maximum quaeratur. Et dum sic quaeritur, per rectam viam quaeritur, ubi indubie invenietur per ostensionem sui ipsius. Neque est alia via ulla data nobis quam illa neque alia in omni doctrina sanctorum, qui sapientiam attigerunt, nobis relicta est. 40 Propterea illi, qui superbi, qui praesumptuosi, qui sibi ipsi sunt sapientes, qui fuerunt in suo ingenio confidentes, qui se similes putabant esse altissimo in ascensu superbo, qui se erexerunt ad scientiam deorum, hi omnes erraverunt, quoniam hi tales praecluserunt sibi viam ad sapientiam, quando non putabant aliam esse quam illam, quam suo intellectu mensurabant, et defecerunt in vanitatibus suis et lignum scientiae amplexi sunt et lignum vitae non apprehenderunt. Non igitur fuit philosophorum finis, qui deum non honoraverunt, alius quam perire in vanitatibus suis. 41 Sed illi, qui viderunt non posse attingere sapientiam et vitam intellectualem perennem, nisi daretur dono gratiae, ac quod tanta foret bonitas dei cunctipotentis, quod exaudiret invocantes nomen eius, et salvi facti sunt, facti sunt igitur humiles se confitentes ignorantes et vitam suam ut desiderantes sapientiam aeternam instituerunt. Et haec est vita virtuosorum in desiderio alterius vitae pergentium, quae a sanctis commendatur. Neque alia est sanctorum prophetarum aut eorum, qui gratiam luminis divini in hac vita sortiti sunt, traditio, quam quod accedere volens ad vitam intellectualem et divinam sapientiam immortalem, primum credere habet, quoniam deus est et ipse dator omnium optimorum, in cuius timore est vivendum et amore pergendum, a quo cum omni humiliatione est vita ipsa immortalis petenda et omnia, quae ad ipsam ordinantur, ut assequi valeat, cum summa religione et sincerissimo cultu amplectenda. 42 Vides nunc, frater, quamcumque virtutem non iustificare nos, ut merito hoc excellentissimum donum assequamur, neque cultum neque legem neque disciplinam. Sed virtuositas vitae, observantia
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de. La via corretta, pertanto, per giungere alla sapienza è quella di cercare Dio con il desiderio più grande. E quando lo si cerca così, lo si cerca per quella retta via lungo la quale, senza dubbio, lo si troverà, perché egli stesso si manifesterà. Non c’è data altra via all’infuori di questa, né è altra la via che ci è stata indicata nella dottrina di tutti santi che giunsero alla sapienza. I superbi, pertanto, i presuntuosi, coloro che sono sapienti solo per se stessi, che hanno confidato nel proprio ingegno, che hanno ritenuto di essere simili all’altissimo con un moto smisurato di orgoglio, che hanno preteso di elevarsi alla scienza degli dèi, tutti costoro hanno sbagliato, giacché si sono preclusi la strada che conduce alla sapienza, ritenendo che non vi fosse altra sapienza che quella che essi potevano misurare con il proprio intelletto61; essi hanno mancato per vanità personale, sono rimasti aggrappati all’albero della conoscenza e non hanno abbracciato l’albero della vita62. La fine dei filosofi che non hanno onorato Dio non è stata altro, pertanto, che quella di morire nelle loro vanità. Al contrario, coloro che hanno visto che la sapienza e la perenne vita intellettuale non possono essere raggiunte, se non vengono donate dalla grazia, e che la bontà di Dio onnipotente sarebbe tanto grande da esaudire quanti invocano il suo nome, sono stati salvati63, si sono resi umili, professandosi ignoranti, e hanno basato la loro vita sul desiderio della sapienza eterna. Ed è questa la vita dei virtuosi, i quali procedono nel desiderio dell’altra vita, che c’è stata raccomandata dai santi. Ed anche i santi profeti e coloro che hanno ricevuto in questa vita la grazia del lume divino non ci hanno tramandato se non il seguente insegnamento: che chi vuole giungere alla vita intellettuale e alla divina sapienza immortale deve anzitutto credere che Dio esiste64 e che egli è colui che dona tutte le cose ottime65; che bisogna vivere nel suo timore e bisogna procedere nel suo amore, che a lui bisogna chiedere, in tutta umiltà, la vita immortale, abbracciando, con il massimo sentimento religioso e con culto sincerissimo, tutte le cose che sono disposte al fine di conseguirla. Ora vedi, o fratello, che nessuna virtù ci giustifica, in modo da poter conseguire, per nostro merito, questo dono eccellentissimo, né ci giustificano il culto, l’osservanza della legge o la dottrina66. Piuttosto, la condotta di vita virtuosa, l’osservanza dei doveri, le
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mandatorum, devotio sensibilis, mortificatio carnis, contemptus mundi et cetera huiusmodi concomitantur recte quaerentem divinam vitam et aeternam sapientiam. Quae si non assint quaerenti, non eum esse in via sed extra ipsam manifestum est. Signa autem, quibus quem non in devio sed in via esse, ex operibus concomitantibus recte pergentem haurire possumus. Qui enim summo desiderio appetit aeternam sapientiam apprehendere, nihil ei praeponit in amore, illam offendere timet, omnia eius comparatione nihil esse affirmat et ea ut nihil habet et spernit et, ut placeat sapientiae amatae, omne studium suum adaptat sciens non posse placere ei, si alteri corruptibili prudentiae mundi aut sensibili delectationi inhaeserit. Hinc omnia linquens expedite in fervore amoris festinat. Sicut cervus fontem aquarum desiderat, ita anima illa deum. Tunc quidem non ex operibus, quae fecerimus, meremur incomparabilem thesaurum gloriae, sed diligentes se diligit, quia caritas et amor est et donat se ipsum animae, ut eo optimo bono in aevum fruatur. 43 Vides nunc, frater, ad quid in hunc mundum intrasti, ut in exordio praemisimus, scilicet ut deum quaeras. Vides quod theos dicitur quaerentibus, quomodo ipsum quaerere potes via quadam. Quae per te ipsum si calcata fuerit, tua erit via tibique notior, in qua delectaberis ob suam amoenitatem et fecunditatem fructuum, quae circa ipsam reperientur. Exerceas te igitur multiplicatis actibus et theoricis ascensionibus et pascua invenies adaugentia et confortantia te in itinere et te dietim plus in desiderio inflammantia. Nam noster spiritus intellectualis virtutem ignis in se habet. Missus est a deo in terram non ad aliud, nisi ut ardeat et crescat in flammam. Tunc crescit, quando excitatur admiratione, quasi uti ventus insufflans in igne excitat potentiam ad actum, ut quidem apprehensione operum dei admiramur de aeterna sapientia incitamurque vento extrinseco operum et creaturarum tam variarum vir-
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devozioni negli atti, la mortificazione della carne, il disprezzo del mondo e altre cose di questo genere sono dei comportamenti che accompagnano rettamente colui che cerca la vita divina e la sapienza eterna. Se questi comportamenti non sono presenti in colui che cerca [la sapienza eterna], è evidente che egli non è sulla strada giusta, ma ne è al di fuori. Dalle opere che accompagnano colui che procede per la retta via possiamo dunque ricavare dei segni che attestano che costui è sulla strada giusta e non su quella sbagliata. Colui che aspira con il desiderio più grande a cogliere la sapienza eterna, infatti, non ama nulla più di essa, teme di offenderla, sostiene che tutte le cose siano nulla al suo cospetto, non ne tiene alcun conto e le disprezza67, e, per piacere alla sapienza amata, indirizza ad essa ogni suo sforzo, sapendo di non poterle piacere, se resterà attaccato alla saggezza propria del mondo corruttibile o al piacere dei sensi. Abbandona, pertanto, tutte le cose e si affretta verso di essa in un fervore pieno d’amore. Come il cervo desidera la sorgente dell’acqua, così quell’anima desidera Dio68. Non sarà quindi per le opere che abbiamo compiuto che meriteremo l’incomparabile tesoro della gloria69; Dio, piuttosto, ama coloro che lo amano, poiché egli è carità e amore70 e dona se stesso all’anima, affinché essa goda di quel bene ottimo in eterno. Ora vedi, fratello, quale sia il fine per il quale sei venuto al mondo, ovvero, come abbiamo detto all’inizio, per cercare Dio. Vedi che egli si chiama «theós» per quanti lo cercano e vedi come tu stesso lo puoi cercare per questa via. Se la percorrerai, sarà la tua strada e ti sarà sempre più familiare, godrai della sua bellezza e della fecondità e dei frutti che vi troverai. Esercitati, dunque, con ripetute azioni e con ripetute ascese contemplative e troverai il nutrimento che ti renderà più forte e ti conforterà lungo il cammino e che giorno dopo giorno ti infiammerà sempre più di desiderio. Il nostro spirito intellettuale, infatti, ha in sé la potenza del fuoco. È stato inviato da Dio sulla terra per ardere e accrescere la sua fiamma. Cresce quando è stimolato dalla meraviglia, che si comporta come il vento che soffia sul fuoco e muove la potenza all’atto71: così, nell’apprendere le opere di Dio, siamo colti da meraviglia di fronte alla sapienza eterna e siamo spinti dal vento esteriore delle opere e delle creature, tanto diverse per potenze e operazioni, in modo
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tutum et operationum, ut desiderium nostrum crescat in amorem creatoris et ad intuitionem sapientiae illius, quae omnia mirabiliter ordinavit. 44 Dum enim advertimus ad granum minimum sinapis et eius virtutem et potentiam eius oculo intellectus intuemur, vestigium reperimus, ut excitemur in admirationem dei nostri. Nam cum tam parvum sit corpore, vis tamen eius est sine termino. In eo granulo est arbor magna cum foliis et ramusculis et alia grana multa, in quibus similiter eadem est virtus supra omnem numerum. Ita quidem video in intellectu virtutem grani sinapis: si explicari actu deberet, non sufficere hunc sensibilem mundum, immo nec decem, immo nec mille, immo nec tot mundos, quot numerari possent. 45 Quis non admirabitur haec revolvens, dum addit intellectum hominis omnem hanc potestatem grani ambire et apprehendere hoc verum atque sic excellere in sua apprehensione capacitatem omnem omnis sensibilis mundi et non huius unius, sed infinitorum mundorum? Et ita ambit vis nostra intellectiva omnem naturam corporalem et mensurabilem. Quanta est igitur magnitudo in intellectu nostro. Si igitur punctalis magnitudo intellectualis spiritus ambit per infinitum capacior omnem possibilem magnitudinem sensibilem et corporalem, quam magnus est tunc dominus et quam laudabilis, cuius magnitudo per infinitum excellentior est magnitudine intellectuali. Et ob hoc, cum tantus sit, omnia comparatione eius nihil sunt et in ipso nihil possunt aliud esse quam ipse deus in saecula benedictus. Deinde quidem per similes ascensus de virtute grani milii ascendere poteris pariformiter de virtute omnium seminum vegetabilium et animalium, et nullius seminis virtus minor est virtute seminis sinapis, et infinita sunt semina talia. 46 O quantus est deus noster, qui est actus omnis potentiae, quoniam est finis omnis potentiae, non potentiae contractae ad granum sinapis aut milii aut grani frumenti aut Adae patris nostri aut
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tale che il nostro desiderio possa crescere nell’amore per il creatore, fino a pervenire alla visione di quella sapienza che ha ordinato mirabilmente tutte le cose. Se osserviamo con attenzione il più piccolo granello di senape72 e con l’occhio dell’intelletto intuiamo la sua forza e la sua potenza73, troviamo in esso una traccia che suscita in noi la meraviglia per il nostro Dio. Pur avendo un corpo così piccolo, il granello, infatti, possiede una forza illimitata74. In essa è contenuto un grande albero, con foglie e rami, e molti altri granelli, in ciascuno dei quali vi è, parimenti e al di là di ogni numero, la stessa forza. Allo stesso modo, vedo con l’intelletto che, se la forza di quel granello di senape dovesse esplicarsi in atto, non basterebbe a contenerla questo mondo sensibile, anzi non basterebbero neppure dieci o mille mondi, o tutti i mondi che si potrebbero numerare75. Chi, riflettendo su queste cose, non sarà colto da meraviglia, se considera poi che l’intelletto dell’uomo è in grado di abbracciare questo potere del granello e di comprendere questa verità e che, quindi, con la sua comprensione, supera ogni capacità di tutto il mondo sensibile, e non soltanto di questo mondo, ma di infiniti altri? E così la forza del nostro intelletto abbraccia ogni natura corporea e misurabile. Quanta grandezza c’è, dunque, nel nostro intelletto! Se la grandezza del nostro spirito intellettuale, che è come un punto, abbraccia, perché dotata di una capacità infinitamente maggiore, ogni possibile grandezza sensibile e corporea, quant’è grande, allora, e degno di lode il Signore, la cui grandezza è infinitamente superiore alla grandezza dell’intelletto! E per questo motivo, proprio perché egli è così grande, tutte le cose in confronto a lui sono nulla e in lui non possono essere altro che Dio stesso, benedetto nei secoli76. Poi, certamente, mediante procedimenti ascensivi analoghi a questo, potrai ascendere a Dio partendo dalla forza del granello di miglio, come pure dalla forza di tutti i semi delle piante e degli animali, dato che nessuno di questi semi ha una forza minore di quella del granello di senape, e di tali semi ve ne sono infiniti. O quant’è grande il nostro Dio, che è l’atto di ogni potenza77, in quanto è il fine di ogni potenza78, e non della [singola] potenza contratta nel granello di senape, o di miglio o di frumento, o nel seme
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aliorum et ita in infinitum. Sed quia in ipsis omnibus est virtus et potentia immensurabilis secundum genus suum contracta, tunc in deo absque contractione est potentia absoluta, quae est et actus infinitus. Quis non duceretur in stuporem admirationis dei virtutem sic quaerens? Quis non inflammaretur in ardorem maximum timendi et amandi cunctipotentem? Quis est qui, si ad minimae scintillae ignis potentiam respicit, de deo non admiretur super omne quod dici potest. Si potentia scintillae est tanta quod, cum sit in actu – quia educta est scintilla in potentia motu ferri de pyrite, ut sit actu –, [et] in eius potentia est omnia resolvere in suam naturam et ignem in potentia, ubicumque ille est in hoc mundo, etsi essent infiniti mundi, in actu ponere, o quanta est potentia dei nostri, qui est ignis ignem consumens. Et dum, frater, ad naturam et condiciones ignis, quae sunt viginti quattuor, advertis, quemadmodum ille divinorum altissimus contemplator Dionysius in Angelica fecit hierarchia, mirabilem viam habes deum quaerendi et inveniendi. Ibi vide et miraberis. 47
IV.
Deinde si ad sapientiam magistri nostri adhuc viam aliam quae ris, adverte. Nam oculo intellectus apprehendis in ligno parvo atque in hoc lapide minutissimo sive in aere aut auri massa vel grano sinapis aut milii omnes artificiales corporeas formas in potentia esse. In quolibet enim non dubitas circulum, triangulum, tetragonum, sphaeram, cubum et quidquid geometria nominat, inexsis tere formasque esse omnium animalium, omnium fructuum, omnium florum, frondium, arborum et formarum omnium similitudinem, quae in hoc mundo sunt et in infinitis mundis esse possent. 48 Si igitur artifex ille magnus esset, qui sciret educere de ligno parvo faciem aliquam aut regis aut reginae aut formicam vel came-
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del nostro padre Adamo, o di altre cose, e così all’infinito. Ma poiché in tutte queste cose vi è una forza e una potenza incommensurabile, contratta secondo il genere che è proprio di ciascuna79, in Dio vi è allora una potenza assoluta, libera da ogni contrazione, potenza che è anche atto infinito80. Chi, nel cercare in questo modo la forza di Dio, non sarebbe portato a provare meraviglia e ammirazione? Chi non si sentirebbe infiammato dalla fiamma più ardente del timore e dell’amore per l’onnipotente? E chi, se solo considera la potenza della più piccola scintilla di fuoco, non proverà meraviglia di fronte a Dio, che è al di sopra di tutto ciò che si possa dire? Se la potenza di una scintilla è così grande che, quando è in atto – la scintilla in potenza è tratta all’atto mediante il movimento del ferro sulla pietra focaia –, ha la capacità di trasformare nella propria natura tutte le cose e di porre in atto il fuoco in potenza, ovunque esso si trovi in questo mondo, anche se vi fossero infiniti mondi, quanto è grande allora la potenza del nostro Dio, che è fuoco che consuma il fuoco!81 E se presti attenzione, fratello, alla natura e alle condizioni del fuoco, che sono ventiquattro, come fece nella Gerarchia angelica Dionigi82, l’altissimo contemplatore delle cose divine, hai una via meravigliosa per cercare e trovare Dio. Leggi lo scritto di Dionigi e resterai meravigliato. IV
Se poi cerchi un’altra strada che conduca alla sapienza del nostro maestro, presta attenzione. Con l’occhio dell’intelletto apprendi che in un piccolo pezzo di legno, in questa piccolissima pietra83, oppure nel bronzo, in una quantità d’oro, in un granello di senape di miglio, vi sono in potenza tutte le forme corporee che possono essere prodotte dall’arte dell’uomo. Puoi essere in effetti certo che, in una qualsiasi di queste cose, vi sono il cerchio, il triangolo, il rettangolo, la sfera, il cubo e qualunque altra figura geometrica, come vi sono le forme di tutti gli animali, di tutti i frutti, di tutti i fiori, dei rami, degli alberi e l’immagine di tutte le forme che si trovano in questo mondo, o che potrebbero trovarsi in infiniti mondi. Se è grande, pertanto, quello scultore che è in grado di trarre da un piccolo pezzo di legno il volto di un re o di una regina, una for-
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lum, quanti magisterii est, qui omne id efficere potest actu, quod est in omni potentia? Deus igitur, qui potest omnia efficere in similitudine formarum omnium, quae in hoc mundo et in infinitis mundis esse possent, de quolibet minutissimo corpusculo, mirabilis subtilitatis exsistit. Sed adhuc mirabilioris potentiae et scientiae est, qui ipsum granum milii creavit et in ipso hanc virtutem collocavit. Et stupendi magisterii est illa sapientia, quae omnes formas possibiles in grano non in similitudine accidentali sed in veritate essentiali scit excitare. Et adhuc supra omnem intellectum inenarrabilis stupor est quod non solum scit de lapidibus excitare vivos homines, sed et de nihilo homines et vocare ea ad esse quae non sunt tamquam quae sunt. Et cum certum sit omnes artes creatas non attingere nisi aliquid in aliquo, aliquid scilicet similitudinis non absque defectu, in aliquo scilicet creato, ut in materia aeris statuam similem aliqualiter homini, quis est hic magister, qui non similitudinem cum defectu, sed essentiam veram sine aliqua materia ex qua in esse producit? Talibus quidem itineribus pergitur ad deum cum admiratione vehementi, et ardebit tunc spiritus desiderio inveniendi indeficienter et amore languebit, quousque salutare ultimum sibi ostendatur. 49
V.
Est denique adhuc via intra te quaerendi deum, quae est ablationis terminatorum. Nam dum artifex quaerit in massa ligni faciem regis, abicit omnia aliter terminata quam facies ipsa. Videt enim in ligno per fidei conceptum faciem, quam quaerit oculo praesentialiter intueri. Est enim oculo facies futura, quae menti in conceptu intellectuali per fidem praesens exsistit. Dum igitur deum con-
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mica o un cammello, quanto è grande la maestria di colui che può porre in atto tutto ciò che vi è in ogni potenza? Dio, dunque, che da un corpuscolo piccolissimo qualsiasi può produrre tutte le cose a somiglianza di tutte le forme che potrebbero esistere in questo e in infiniti mondi, è di una precisione straordinaria. Ma è ancora più straordinaria la potenza e la scienza di colui che ha creato lo stesso granello di miglio e vi ha posto questa forza. Ed è stupefacente la maestria di quella sapienza, che sa far nascere tutte le possibili forme che sono contenute in un granello, non in una somiglianza accidentale, ma nella loro vera essenza. E suscita uno stupore indicibile, che supera ogni capacità di comprensione dell’intelletto, il fatto che tale sapienza sappia non solo trarre uomini vivi dalle pietre, ma sappia creare dal nulla gli uomini e sappia chiamare all’essere sia le cose che non sono, sia quelle che sono. Infine, è certo che tutte le arti di cui dispongono le creature non arrivano a produrre se non qualcosa in qualcos’altro, ossia una qualche imitazione, non priva di difetti, in qualcosa di creato, come quando nella materia del bronzo viene prodotta una statua simile, per certi aspetti, ad un uomo; chi è allora quell’artista che produce all’essere non un’imitazione difettosa, bensì un’essenza vera e lo fa senza aver bisogno di trarla da alcuna materia? 84 Percorrendo tali vie ci si incammina verso Dio, accompagnati da un intenso stupore, e lo spirito allora arderà, senza mai stancarsi, dal desiderio di trovarlo e si struggerà d’amore fino al giorno in cui non gli si manifesti la sua ultima salvezza. V
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Vi è, infine, ancora una strada per cercare Dio, ed è dentro di te; consiste nel rimuovere ogni cosa che sia delimitata85. Quando, infatti, uno scultore cerca, nella massa del legno, il volto del re, egli rimuove tutto ciò che è delimitato da un contorno diverso da quello che è proprio di quel volto. Nel legno, infatti, egli vede già, concepito con l’occhio della fede, quel volto che, una volta realizzato, egli intende cogliere con l’occhio corporeo. Per l’occhio si tratta di un volto che esisterà nel futuro, ma alla mente esso è già presente per fede, in quanto concepito dall’intelletto. Pertanto, quando pen-
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cipis esse melius quam concipi possit, omnia abicis, quae terminantur et contracta sunt. Abicis corpus dicens deum non esse corpus, scilicet terminatum quantitate, loco, figura, situ. Abicis sensus, qui terminati sunt, non vides per montem, non in terra abscondita, non in solarem claritatem, et ita de auditu et ceteris sensibus. Omnes enim illi terminati sunt in potentia et virtute. Non sunt igitur deus. Abicis sensum communem, phantasiam et imaginationem, nam non excedunt naturam corporalem. Non enim imaginatio attingit non-corporeum. Abicis rationem, nam ipsa saepe deficit, non omnia attingit. Velles scire, cur hoc est homo, cur illud lapis, et omnium operum dei nullam rationem attingis. Parva est igitur virtus rationis, hinc deus non est ratio. Abicis intellectum, nam et ipse intellectus terminatus est in virtute, licet omnia ambiat. Quiditatem tamen in sua puritate rei cuiuscumque non potest perfecte attingere et, quidquid attingit, videt perfectiori modo attingibile. Non est igitur deus intellectus. Sed dum quaeris ultra, non reperis in te quidquam deo simile, sed affirmas deum supra haec omnia ut causam, principium atque lumen vitae animae tuae intellectivae. 50 Gaudebis eum repperisse ultra omnem tui intimitatem tamquam fontem boni, a quo tibi effluit omne id, quod habes. Ad ipsum te convertis intra te dietim profundius intrando, linquendo omnia, quae sunt ad extra, ut inveniaris in via illa, qua reperitur deus, ut eum post haec in veritate apprehendere queas. Quod tibi et mihi ipse concedat, qui se ipsum diligentibus eum largiter donat in saecula benedictus.
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si che Dio è migliore di quanto possa essere concepito86, allora devi rimuovere tutte le cose che sono delimitate e contratte. Rimuovi il corpo, dicendo che Dio non è corpo, ossia non è qualcosa di delimitato per quanto riguarda la quantità, il luogo, la figura, la posizione. Rimuovi i sensi, che sono anch’essi limitati: non riesci, infatti, a vedere attraverso una montagna, nelle viscere della terra, nella luminosità del sole, e lo stesso vale per l’udito e per gli altri sensi. Tutti sono, infatti, limitati per quanto riguarda la loro capacità e potenza. Perciò non sono Dio. Rimuovi il senso comune, la fantasia e l’immaginazione, poiché non vanno oltre la natura corporea: l’immaginazione, infatti, non giunge a cogliere ciò che non è corporeo. Rimuovi la ragione, poiché anch’essa è spesso manchevole e non giunge a cogliere tutte le cose. Vorresti sapere perché questo è un uomo, quella una pietra, ma non sei in grado di dare alcuna ragione di tutte le opere di Dio87. Piccola, quindi, è la capacità della ragione, per cui Dio non è ragione. Rimuovi l’intelletto, poiché anche l’intelletto è limitato nella sua capacità, sebbene abbracci tutte le cose. L’intelletto, infatti, non è in grado di cogliere perfettamente, nella sua purezza, l’essenza di nessuna cosa, e vede che tutto ciò che esso intende può essere inteso in un modo ancora più perfetto. Dio non è pertanto intelletto. E anche se cerchi oltre, non trovi in te alcuna cosa che sia simile a Dio, per cui Dio è al di sopra di tutte queste cose come causa, principio e lume della vita della tua anima intellettiva88. Proverai gioia nell’averlo trovato, oltre ogni tua profondità interiore89, come fonte del bene, dal quale fluisce a te tutto ciò che possiedi. Volgiti a lui, entrando ogni giorno più profondamente in te stesso e abbandonando tutte le cose che sono all’esterno, in modo tale da poterti trovare su quella strada per la quale lo si trova, per poterlo poi cogliere nella verità90. E lo conceda a me e a te colui che, benedetto nei secoli, dona generosamente se stesso a coloro che lo amano.
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Confratri Conrado de Wartberg canonico monasterii Meinfelt devoto sacerdoti etc. Nicolaus de Cusa praepositus ibidem Tandem me compulit studii tui ferventia, ut crebris monitis tuis aliquando respondeam. Sane a me flagitare videris, quid ego de filiatione dei coniciam, quae per ipsum altissimum Iohannem theologum a radio aeterno nobis dari publicatur, cum dicit: «Quotquot autem receperunt eum, dedit eis potestatem filios dei fieri, his qui credunt in nomine eius». Confrater merito colende, recipe eo pacto id quod occurrit, ut non putes me quidquam his adicere, quae in praeteritis meis legisti conceptibus. Nihil enim in intimis etiam remansit praecordiis, quod non illis ipsis mandaverim litteris meas generales qualescumque exprimentibus coniecturas. Forte tu id ipsum in dicendis experieris.
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I.
Ego autem, ut in summa dicam, non aliud filiationem dei quam deificationem, quae et theosis graece dicitur, aestimandum iudico. Theosim vero tu ipse nosti ultimitatem perfectionis exsistere, quae et notitia dei et verbi seu visio intuitiva vocitatur. Hanc enim ego theologi Iohannis sententiam esse arbitror quomodo logos seu ratio aeterna, quae fuit «in principio» deus «apud deum», lumen homini dedit rationale, cum ei spiritum tradidit ad sui similitudinem. Deinde declaravit variis admonitionibus videntium prophetarum atque ultimo per verbum, quod in mundo apparuit, lumen ipsum rationis esse vitam spiritus atque quod in ipso nostro spiritu rationali, si receperimus verbum ipsum divinum, oritur filiationis potestas in credentibus.
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Al confratello Corrado di Wartberg, canonico del monastero di Meinfelt, devoto sacerdote ecc. Niccolò Cusano prevosto del medesimo monastero1.
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Il fervore del tuo zelo mi ha spinto, alla fine, a rispondere alle tue frequenti sollecitazioni. Mi sembra che tu chieda con insistenza che cosa io pensi della filiazione di Dio, che Giovanni, il sommo teologo, proclama essere a noi data dalla luce eterna, quando dice: «A quanti però l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome»2. Confratello degno di riverenza, accogli ciò che ora mi viene in mente al riguardo, ma non credere che io aggiunga qualcosa a quanto hai già letto nelle mie precedenti riflessioni3. Non mi è rimasto nulla, infatti, nell’intimo dell’animo, che io non abbia affidato a quegli scritti che esprimono le mie congetture generali, quali che siano4. Forse, te ne renderai conto tu stesso in ciò che sto per dire. I
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Io, per dirla in breve, ritengo che la filiazione di Dio non sia altro che la deificazione, che in greco si chiama anche «theosis»5. Tu sai che la «theosis» corrisponde allo stato finale di perfezione, che viene chiamato anche cognizione di Dio e del Verbo, o visione intuitiva. Credo, infatti, che questa sia l’opinione del teologo Giovanni, ossia che il Logos o la Ragione eterna, la quale fu in principio Dio presso Dio, diede all’uomo il lume della ragione, quando gli conferì lo spirito a somiglianza di sé6. In seguito, annunziò, nei numerosi ammonimenti dei profeti veggenti, e infine mediante il Verbo apparso nel mondo7, che il lume della ragione è la vita dello spirito8 e che è proprio nel nostro spirito razionale che nasce, per i credenti, il potere della filiazione, se avremo accolto il Verbo divino.
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est superadmiranda divinae virtutis participatio, ut rationalis noster spiritus in sua vi intellectuali hanc habeat potestatem, quasi semen divinum sit intellectus ipse, cuius virtus in credente in tantum ascendere possit, ut pertingat ad theosim ipsam, ad ultimam scilicet intellectus perfectionem, hoc est ad ipsam apprehensionem veritatis, non uti ipsa veritas est obumbrata in figura et aenigmate et varia alteritate in hoc sensibili mundo sed ut in se ipsa intellectualiter visibilis. Et haec est sufficientia ipsa, quam ex deo habet virtus nostra intellectualis, quae ponitur per excitationem divini verbi in actu apud credentes. Qui enim non credit, nequaquam ascendet, sed se ipsum iudicavit ascendere non posse sibi ipsi viam praecludendo. Nihil enim sine fide attingitur, quae primo in itinere viatorem collocat. In tantum igitur nostra vis animae potest sursum ad perfectionem intellectus scandere, quantum ipsa credit. Non est igitur usque ad dei filiationem ascensus prohibitus, si fides adest. 54 Et cum filiatio ipsa sit ultimum omnis potentiae, non est vis nostra intellectualis citra ipsam theosim exhauribilis neque id ullo gradu attingit, quod est ultima perfectio eius, citra quietem illam filiationis lucis perpetuae ac vitae gaudii sempiterni. Arbitror autem hanc deificationem omnem exire modum intuitionis. Nam cum nihil in hoc mundo in cor hominis, mentem aut intellectum quantumcumque altum et elevatum intrare queat, quin intra modum contractum maneat, ut nec conceptus quisquam gaudii, lae titiae, veritatis, essentiae, virtutis, sui ipsius intuitionis aut alius quicumque modo restrictivo carere possit – qui quidem modus in unoquoque varius secundum huius mundi condicionem ad phantasmata retractus erit –, dum de hoc mundo absoluti fuerimus, ab his etiam obumbrantibus modis relevatus, sic scilicet ut felicitatem suam intellectus noster, ab his modis subtrahentibus liberatus, sua intellectuali luce divinam vitam nanciscatur, in qua, licet absque
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Ed è questa la partecipazione straordinaria alla potenza di Dio9: che il nostro spirito razionale abbia, nella sua forza intellettiva, un potere siffatto, come se l’intelletto fosse un seme divino10, la cui forza, nel credente, può ascendere così in alto da giungere fino alla stessa «theosis», alla perfezione finale dell’intelletto, ossia all’apprensione stessa della verità11, non per come essa è in questo mondo sensibile, dove la verità si trova adombrata in figure e enigmi12 e in vari gradi di alterità, bensì per come può essere vista in se stessa dall’intelletto13. Ed in ciò consiste la sufficienza che la nostra forza intellettuale riceve da Dio, la quale, nei credenti, viene suscitata all’atto per opera del Verbo divino. Chi non crede, infatti, non sarà mai capace di ascendere, ma si è condannato a non poter ascendere, essendosi preclusa da se stesso la via. Non si può infatti giungere a cogliere nulla senza la fede, che è ciò che pone il viatore sul giusto cammino14. La forza della nostra anima, dunque, in tanto può salire in alto, alla perfezione dell’intelletto, in quanto essa stessa crede. Se c’è la fede, non è allora impossibile l’ascesa fino alla filiazione di Dio15. E dal momento che la filiazione è il grado finale di ogni potenza, la nostra forza intellettuale non si esaurisce al di qua della «theosis», e non raggiunge la sua perfezione finale in nessuno dei gradi che sono al di qua di quella quiete che è data dalla filiazione della luce perpetua e della vita nella gioia eterna. Ritengo, tuttavia, che questa deificazione oltrepassi tutti modi della visione intuitiva. In questo mondo, infatti, nulla, per quanto profondo ed elevato esso sia, può avere accesso al cuore, alla mente o all’intelletto dell’uomo, senza restare contratto entro un modo16. Per questo motivo, nessuno dei nostri concetti di gioia, letizia, verità, essenza, forza, intuizione di sé, o qualunque altro concetto, può essere privo di un modo restrittivo; e tale modo, che è diverso in ogni realtà, a seconda della sua condizione nel mondo, ci ricondurrà sempre alle immagini sensibili della fantasia. Quando saremo sciolti da questo mondo, il nostro intelletto, pertanto, sarà libero anche da questi modi che lo offuscano, e così, libero da essi, che gli impedivano di accedere alla felicità, l’intelletto conseguirà, nella propria luce intellettuale, la vita divina, nella quale, senza più i simboli e le contrazioni del mondo sensibile, verrà elevato alla intuizione
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sensibilis mundi contractis aenigmatibus, ad intuitionem veritatis elevetur. Non erit tamen haec ipsa intuitio sine modo illius mundi. Nam ait theologus quomodo rationis lumen potestatem ipsam habet in omnibus recipientibus verbum et credentibus ad filiationem dei pertingendi. Igitur filiatio ipsa in multis filiis erit, a quibus variis participabitur modis. Multitudo enim unitatem varie participat in varia alteritate, cum omne exsistens in alio aliter esse necesse sit. Non igitur erit filiatio multorum sine modo, qui quidem modus adoptionis participatio forte dici poterit. Sed ipsa unigeniti filiatio sine modo in identitate naturae patris exsistens est ipsa superabsoluta filiatio, in qua et per quam omnes adoptionis filii filiationem adipiscentur. 55
II.
Nunc id optare videris, ut te qualicumque modo eo ducam, ubi videre queas, quid sit illud ineffabile gaudium filiationis. Quamvis non exspectes ipsum posse sufficienter exprimi, quod omnem mentem exsuperat, maxime cum coniecturis incumbentes aenigmatum modos transilire non valeamus, vereor praesumptuosa audacia notari peccator homo officium purgatissimarum mentium subeundo. Non tamen me sinit silere magnus tibi complacendi affectus. Accipe igitur brevissime, quid nunc conicio. 56 Non arbitror nos fieri sic filios dei, quod aliquid aliud tunc simus quam modo. Sed modo alio id tunc erimus, quod nunc suo modo sumus. Vis enim intellectualis, quae recipit lumen actuale divinum, per quod vivificata est, per fidem attrahit continuam influentiam eius, ut crescat in virum perfectum. Virilitas autem non est de mundo pueritiae, ubi adhuc homo crescit, sed de mundo
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della verità, anche se questa intuizione, tuttavia, non sarà priva del modo che è proprio di quel mondo17. Il teologo dice, infatti, che il lume della ragione ha precisamente il potere di far giungere alla filiazione di Dio tutti coloro che accolgono il Verbo e credono. La filiazione stessa, pertanto, sarà presente in molti figli, che ne parteciperanno in vari modi. La molteplicità, infatti, partecipa dell’unità in modi diversi18, secondo diversi gradi di alterità, in quanto tutto ciò che esiste in qualcos’altro esiste necessariamente in un altro modo [rispetto a come esso è in se stesso]. La filiazione di molti [figli], pertanto, non sarà senza un modo, il quale potrà forse essere definito partecipazione per adozione19. La filiazione dell’unigenito, invece, che è senza modo, in un’identità di natura con il padre, è la filiazione super-assoluta, nella quale e in virtù della quale tutti i figli adottivi otterranno la loro filiazione20. II
Mi sembra ora che tu desideri che io ti conduca in qualche modo là dove è possibile vedere che cosa sia la gioia ineffabile della filiazione21. Non ti aspetti certamente che io possa parlare in modo adeguato di ciò che va al di là di ogni capacità di comprensione, soprattutto perché, valendoci noi di congetture, non siamo in grado di andare oltre un modo di pensare per simboli 22. E inoltre temo che, affrontando un compito che è proprio delle menti più pure, un uomo peccatore possa essere tacciato di avere un’audacia che sfiora la presunzione. Il grande desiderio che ho di compiacerti, tuttavia, non mi consente di tacere. Ecco, dunque, in modo estremamente conciso, che cosa io congetturo a questo proposito. Non credo che diventeremo figli di Dio in modo tale da essere, allora, qualcosa di altro rispetto a ciò che siamo adesso23. Credo, piuttosto, che, allora, saremo in modo diverso ciò che adesso siamo. La forza intellettuale, infatti, che riceve il lume divino in atto, grazie al quale essa viene vivificata, attrae su di sé, mediante la fede, un’influenza continua di quel lume, in modo da crescere e diventare un uomo perfettamente compiuto24. La virilità, tuttavia, non appartiene all’età dell’infanzia, nella quale l’uomo continua ancora a crescere, ma appartiene all’età del pieno sviluppo. Il fanciul-
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perfectionis. Idem est puer qui et vir. Sed non apparet in puero, qui servis conumeratur, ipsa filiatio, sed in adulta aetate, ubi conregnat patri. Idem est ille, qui nunc in scholis est, ut proficiat, et ille, qui post hoc magisterium adipiscitur. Hic quidem studemus, ibi magistramur. Studemus autem eo modo, ut ait theologus, quia recipimus verbum rationis a magistro cui credimus, quia verax est magister et recte nos docet, confidimusque posse proficere et, quia recipimus verbum eius et credimus, docibiles deo erimus. Per hoc in nobis potestas exoritur posse ad ipsum magisterium pertingere quod est filiatio. 57 Docet pictor scholarem particulares plures formas stilo exarare, tunc demum transfertur de schola ad magisterium. Est autem magisterium transsumptio scientiae particularium in universalem artem, inter quae nulla cadit proportio. In hoc mundo studemus per medium sensuum, qui particularia tantum attingunt. Transferimur de mundo sensibili particularium ad universalem artem, quae est in mundo intellectuali. Universale enim est in intellectu et de regione intellectuali. In hoc mundo in variis particularibus obiectis ut in variis libris versatur studium nostrum. In mundo intellectuali non est nisi obiectum unum intellectus, scilicet veritas ipsa, in quo habet magisterium universale. Nam nihil in variis obiectis particularibus quaesivit medio sensuum intellectus in hoc mundo nisi vitam suam et cibum vitae scilicet veritatem, quae est vita intellectus. 58 Et hoc est magisterium, quod in studio huius mundi quaerit, scilicet intelligere veritatem, immo habere magisterium veritatis, immo esse magister veritatis, immo esse ars ipsa veritatis, sed non
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lo e colui che ora è un uomo sono lo stesso individuo. La caratteristica di essere figlio, nondimeno, non appare nel fanciullo, il quale viene annoverato ancora fra i servi 25, ma appare solo in età adulta, quando egli regna insieme al padre26. È lo stesso individuo colui che ora frequenta la scuola per imparare e colui che in seguito consegue il magistero. E studiamo anche nello stesso luogo in cui, poi, saremo, a nostra volta, maestri. Ma, come dice il teologo [Giovanni], noi studiamo in questo modo: accogliamo la parola che proviene dalla ragione di un maestro al quale crediamo, in quanto egli è un maestro veritiero ed è un maestro che ci insegna bene27, e confidiamo così di poter progredire; e poiché accogliamo la sua parola e crediamo in essa, saremo nella condizione di poter essere ammaestrati da Dio28. È così che nasce in noi quel «potere» [secondo l’espressione di Giovanni] per il quale possiamo pervenire a quel magistero che è la filiazione. Il pittore insegna al proprio allievo a tracciare con il pennello molte forme particolari, fino a che egli non passa, alla fine, dalla condizione di allievo a quella di maestro. La capacità di un maestro consiste nel trasformare la conoscenza dei particolari in un’arte universale29, la quale non è affatto comparabile alla prima30. In questo mondo [sensibile], lo studio che noi conduciamo avviene per mezzo dei sensi, i quali giungono a cogliere solo le cose particolari. Passiamo poi dal mondo sensibile delle cose particolari all’arte generale, che è presente nel mondo intellettuale. Ciò che è universale, infatti, è nell’intelletto e appartiene alla regione intellettuale31. Nel mondo sensibile, lo studio verte sui vari oggetti particolari, come se si trattasse di studiare su vari libri32. Nel mondo intellettuale, non vi è che un solo oggetto dell’intelletto, e cioè la verità stessa33, nella quale l’intelletto consegue un magistero universale34. In questo mondo [sensibile], infatti, l’intelletto non ha cercato altro, nei vari oggetti particolari e per mezzo dei sensi, che la propria vita e il cibo indispensabile per questa vita, ossia la verità, che è la vita dell’intelletto35. Ed è questo il magistero che l’intelletto cerca di conseguire nello studio di questo mondo sensibile: intendere la verità, anzi possedere il magistero della verità, anzi essere maestro della verità, anzi essere la stessa arte della verità36; ma [in questo mondo] l’intelletto
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reperit artem ipsam sed ea particularia, quae artis opera exsistunt. Transfertur autem de schola huius mundi ad regionem magisterii et efficitur magister seu ars operum huius mundi. Quietatur igitur studium vitae et perfectionis atque omnis motus intellectus, quando se comperit in ea regione esse, ubi est magister omnium operum operabilium, scilicet filius dei, verbum illud, per quod caeli formati sunt et omnis creatura, et se similem illi. Est enim tunc in ipso ipsa dei filiatio, quando in eo est ars illa; immo ipse est ars illa divina, in qua et per quam sunt omnia; immo ipse est deus et omnia modo illo, quo magisterium adeptus est. Quod attenta meditatione advertas. 59 Scientia namque universali sua acceptione omnia scibilia, deum scilicet et quidquid est, ambit. Doctus autem scriba, qui est magisterium universalis scientiae adeptus, habet thesaurum, de quo proferre potest nova et vetera. Intellectus igitur illius secundum modum magisterii ambit deum et omnia ita, ut nihil eum aufugiat aut extra ipsum sit, ut in ipso omnia sint ipse intellectus. Ita quidem in alio docto scriba est hoc ipsum suo modo atque ita in cunctis. Quapropter, quanto in hac schola huius sensibilis mundi diligentior quis fuerit in exercitatione intellectualis studii in lumine verbi magistri divini, tanto perfectius magisterium assequetur. 60 Unde, cum magisterium, quod quaerimus et in quo est vitae intellectualis felicitas, sit verorum et aeternorum, si spiritus noster intellectualis evadere debet in perfectum magistrum, ut in se ipso aeternaliter possideat delectabilissimam vitam intellectualem, oportet, ut studium eius non adhaereat umbris temporalibus sensibilis mundi, sed illis perfunctorie pro studio intellectuali utatur, prout pueri in scholis utuntur materialibus et sensibilibus scriptu-
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non riesce a trovare tale arte, bensì trova soltanto quelle cose particolari che sono i prodotti dell’arte. Passa, poi, dalla scuola di questo mondo alla regione del magistero, e diviene maestro, ossia diviene l’arte produttrice delle opere di questo mondo37. La ricerca della vita e della perfezione dell’intelletto e ogni suo moto trovano, dunque, la loro quiete38 allorché l’intelletto scopre di essere nella regione in cui si trova il maestro di tutte le opere che possono essere prodotte, ossia il figlio di Dio – il Verbo per mezzo del quale furono formati i cieli ed ogni creatura39 –, e scopre di essere simile a lui. La filiazione di Dio, infatti, si realizza nell’intelletto quando vi è presente quell’arte, anzi quando l’intelletto è esso stesso quell’arte divina, nella quale e per la quale esistono tutte le cose40, ed anzi quando l’intelletto diventa esso stesso Dio e tutte le cose, secondo il modo con il quale ha conseguito il magistero41. È un punto, questo, sul quale devi riflettere con grande attenzione. La conoscenza, infatti, data la sua capacità ricettiva universale, abbraccia tutto ciò che si può conoscere, ossia Dio e tutto ciò che è. Uno scrittore dotto, che abbia conseguito il magistero di tutta la conoscenza, possiede un tesoro dal quale può tirare fuori cose nuove e antiche42. Il suo intelletto, pertanto, abbraccia Dio e tutte le cose, secondo il modo del proprio magistero43, cosicché nulla gli sfugge o sta fuori di lui, e tutte le cose che sono nel suo intelletto sono l’intelletto stesso44. Allo stesso modo, in un altro scrittore dotto, vi sono pure tutte queste cose, ma secondo il modo che è proprio del suo magistero, e lo stesso vale per tutti45. Per tale ragione, nella scuola di questo mondo sensibile, quanto più un uomo sarà stato diligente nell’esercitare il suo intelletto alla luce del verbo del maestro divino, tanto più perfetto sarà il magistero che gli consegue. Di conseguenza, il magistero che ricerchiamo e nel quale risiede la felicità della vita intellettuale è il magistero che concerne ciò che è vero ed eterno; se il nostro spirito intellettuale deve pervenire ad un magistero perfetto, in modo tale da poter possedere in se stesso ed eternamente il piacere sommo della vita intellettiva, è necessario che il suo studio non resti attaccato alle ombre materiali del mondo sensibile, ma si serva di esse come strumento per lo studio intellettuale, come i fanciulli a scuola si servono delle lettere materiali
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ris. Nam in ipsis materialibus litterarum figuris non est studium eorum sed in ipso rationali eorum significato. Ita quidem vocalibus sermonibus quibus instruuntur ipsi intellectualiter non sensibiliter utuntur, ut per signa vocalia ad mentem magistri pertingant. Sed si qui in signis potius delectantur, ad magisterium philosophiae non pertingent, sed ut ignorantes in scriptores, pictores, prolocutores, cantores vel citharoedas degenerabunt. 61 Tali quadam similitudine admonemur nos, qui ad filiationem dei aspiramus, non inhaerere sensibilibus, quae sunt aenigmatica signa veri, sed ipsis ob infirmitatem nostram absque adhaesione coinquinationis ita uti, quasi per ipsa nobis loquatur magister veritatis et libri sint mentis eius expressionem continentes. Et tunc in sensibilibus contemplabimur intellectualia et ascendemus quadam improportionali comparatione de transitoriis et fluidis temporalibus, quorum esse est in instabili fluxu, ad aeterna, ubi rapta est omnis successio in fixam quietis permanentiam, et vacabimus circa speculationem verae, iustae et gaudiosae vitae separantes nos ab omni inquinamento deorsum se trahente, ut possimus cum ardenti desiderio studii circa ipsum eam ipsam vitam magistrali adeptione hinc absoluti introire. Hoc est gaudium domini, quod nemo tollere poterit, quando intellectuali gustu vitam incorruptibilem nos attigisse comprehendimus. Et haec est quidem ipsa summa delectatio, quasi dum gustamus sanissimo sensu cibum vitae, quem famelice appetimus. Comedit enim infecto palato infirmus saporosissimos cibos, sed quia vivacitas sensus non sentit suavitatem saporis, vivit in aerumna cum fatiga, tristitia et labore, et est illi poena cibum masticare. Qui vero purgato et sano palato esurit, delectabiliter et gaudiose cibatur. Tali quadam licet remotissima similitudine
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sensibili. Il loro studio, infatti, non consiste nell’apprendere le forme materiali delle lettere, ma il loro significato razionale. Lo stesso avviene con i discorsi orali con i quali gli alunni vengono istruiti; essi se ne servono in modo intellettuale e non sensibile, per giungere, attraverso quei segni orali, a cogliere il pensiero del maestro46. Quelli, invece, che si dilettano soprattutto dei segni non raggiungono il magistero della filosofia, ma, da ignoranti, decadranno nelle professioni di scrittore, pittore, oratore, cantore o citaredo. Noi, che aspiriamo alla filiazione di Dio, da una tale comparazione siamo ammoniti a non restare avvinti alle cose sensibili, le quali sono segni del vero espressi attraverso simboli; dobbiamo certamente servirci di esse, data la nostra debolezza, senza tuttavia quell’attaccamento che finirebbe per contaminarci47; dobbiamo usare delle cose sensibili come se, attraverso di esse, ci parli il maestro della verità e come se esse siano dei libri che contengono l’espressione della sua mente. Se faremo così, allora, nelle cose sensibili contempleremo le realtà intellettuali, ed ascenderemo, mediante una qualche comparazione senza proporzione, dalle cose temporali, transitorie e mutevoli, il cui essere è in un costante flusso, alle realtà eterne, nelle quali ogni successione temporale è rapita nella stabile permanenza della quiete. E potremo così dedicarci alla contemplazione della vita vera, giusta e gioiosa, distaccandoci da tutto ciò che ci contamina e ci trascina in basso, in modo tale da poter entrare, liberi del tutto da questo mondo ed avendo conseguito il magistero, in quella vita che abbiamo ardentemente desiderato nelle nostre ricerche. Questa è la gioia del Signore, che nessuno potrà sottrarci, nel momento in cui comprendiamo, con un gusto intellettuale, di aver raggiunto la vita incorruttibile. E questo è anche il piacere sommo, come quello che proviamo quando, con il senso del gusto in perfetta condizione, assaporiamo quel cibo della vita di cui siamo affamati e che desideriamo avidamente. Un malato, che ha il palato infetto, può anche mangiare cibi saporitissimi, ma, poiché il suo senso non ha il vigore naturale per avvertire la soavità del sapore, egli vive nell’affanno, con fatica, tristezza e tribolazione, e gli risulta penoso persino masticare il cibo. Chi ha fame, al contrario, ed ha un palato sano e libero da infezioni, mangia con piacere e gioia. Simile a questa, per quanto di una somiglianza re-
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gaudium est filiis dei absque intermissione, quando non solum intellectualis vita non corrumpitur annihilatione ob suam incorruptibilem naturam, sed et vivit intellectuali gustu, quo se vivere sentit vita vera intellectuali, quem pura veritas sempiterne reficit. 62
III.
Forte te pulsat saepe auditum deum incomprehensibilem ac quod filiatio, quae est apprehensio veritatis quae deus est, attingi nequeat. Arbitror te satis intellexisse veritatem in alio non nisi aliter posse comprehendi. Sed cum illi modi theophanici sint intellectuales, tunc deus, etsi non uti ipse est attingitur, intuebitur tamen sine omni aenigmatico phantasmate in puritate spiritus intellectualis, et haec ipsi intellectui clara est atque facialis visio. Hic quidem absolutae veritatis apparitionis modus cum sit ultima vitalis felicitas intellectus sic veritate fruentis, deus est, sine quo intellectus felix esse nequit. 63 Volo quidem, ut attendas quomodo quietatio omnis intellectualis motus est veritas obiectalis, extra quam quidem regionem veritatis nullum intellectuale vestigium reperitur, neque iudicio ipsius intellectus quidquam esse potest extra caelum veritatis. Sed si, uti in aliis nostris libellis enodavimus, subtilissime advertis, tunc veritas ipsa non est deus, ut in se triumphat, sed est modus quidem dei, quo intellectui in aeterna vita communicabilis exsistit. Nam deus in se triumphans nec est intelligibilis aut scibilis, nec est veritas nec vita, nec est, sed omne intelligibile antecedit ut unum simplicissimum principium. 64 Unde, cum omnem intellectum sic exsuperet, non reperitur sic in regione seu caelo intellectus neque potest per intellectum attingi extra ipsum caelum esse. Hinc deus cum non possit nisi negati-
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motissima, è la gioia ininterrotta di cui godranno i figli di Dio; la loro vita intellettuale, infatti, data la sua natura incorruttibile, non solo non si corrompe nell’annientamento, ma vive di quel gusto intellettuale grazie al quale l’intelletto avverte che sta vivendo la vera vita intellettuale e che viene continuamente ed eternamente ristorato dalla pura verità48. III
Sei forse turbato per aver sentito spesso che Dio è incomprensibile49, e che non è possibile raggiungere la filiazione, la quale è l’apprensione di quella verità che è Dio stesso50. Credo che tu abbia ben capito che, in ciò che è altro da essa, la verità non può essere compresa se non con alterità51. Poiché, tuttavia, i modi teofanici52 sono intellettuali, Dio, sebbene non possa essere colto per come è in se stesso, sarà tuttavia intuito nella purezza dello spirito intellettuale, senza alcuna immagine sensibile della fantasia53, e questa è per l’intelletto una visione chiara, «faccia a faccia»54. Questo modo di apparire55 della verità assoluta, essendo la felicità vitale ultima dell’intelletto, che così gode della verità, è Dio, senza il quale l’intelletto non può essere felice. Desidero che tu presti ben attenzione a questo: la verità oggettiva è ciò in cui si acquieta ogni moto intellettuale56, per cui, al di là di questa regione della verità, non c’è nessuna traccia dell’intelletto, e anche a giudizio dell’intelletto stesso non può esistere nulla al di fuori del cielo della verità57. Ma se, come abbiamo spiegato in altri nostri libri58, osservi in modo particolarmente acuto, vedrai che la stessa verità non è Dio, quale egli è nel trionfo della gloria, ma è piuttosto un modo di Dio, mediante il quale egli, nella vita eterna, si rende comunicabile all’intelletto. Dio, infatti, nel trionfo di sé, non è né intelligibile, né conoscibile, non è né verità, né vita, né essere, ma precede tutto ciò che è intelligibile come l’uno, principio semplicissimo59. Di conseguenza, poiché supera in tal modo ogni intelletto60, Dio non si trova nella regione o nel cielo dell’intelletto, né l’intelletto, d’altra parte, può coglierne l’essere al di fuori di tale cielo. Per questo motivo, dal momento che, al di fuori della regione dell’intellet-
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ve extra intellectualem regionem attingi, tunc via fruitionis in veritate esse et vitae in caelo ipso empyreo, scilicet altissimi raptus nostri spiritus, attingitur cum pace et quiete, quando satiatur spiritus in hac apparitione gloriae dei. Et in hoc est gaudium altissimum intellectuale, quando suum principium, medium et finem omnem altitudinem apprehensionis excellere cognoscens in proprio obiecto, scilicet in pura veritate, intuetur. Et hoc quidem est se ipsum in veritate apprehendere in tali quidem excellentia gloriae, ut nihil extra se esse posse intelligat sed omnia in ipso ipse. 65 Ut autem similitudine ducaris, te nequaquam ignorare scio formas aequales in rectis speculis, minores in curvis apparere. Sit igitur altissima resplendentia principii nostri dei gloriosi, in qua appareat deus ipse, quae sit veritatis speculum sine macula rectissimum atque interminum perfectissimumque, sintque omnes creaturae specula contractiora et differenter curva, intra quae intellectuales naturae sint viva, clariora atque rectiora specula, ac talia, cum sint viva et intellectualia atque libera, concipito, quod possint se ipsa incurvare, rectificare et mundare. 66 Dico igitur: claritas una specularis varie in istis universis resplendet specularibus reflexionibus et in prima rectissima speculari claritate omnia specula uti sunt resplendent, uti in materialibus speculis in circulo anteriori ad se versis videri potest. In omnibus autem aliis contractis et curvis omnia non uti ipsa sunt apparent, sed secundum recipientis speculi condicionem, scilicet cum diminutione ob recessum recipientis speculi a rectitudine. 67 Quando igitur aliquod intellectuale vivum speculum translatum fuerit ad speculum primum veritatis rectum, in quo veraciter omnia uti sunt absque defectu resplendent, tunc speculum ipsum veritatis cum omni receptione omnium speculorum se tran-
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to, Dio non può essere colto che per via negativa, nel cielo empireo, ossia nel cielo del rapimento più alto del nostro spirito61, egli viene colto attraverso la via della fruizione nella verità dell’essere e della vita, e viene colto con pace e quiete, dato che lo spirito si sazia di questa apparizione della gloria divina62. Ed in ciò consiste la gioia più grande, quando, cioè, nel proprio oggetto, ossia nella propria verità, l’intelletto intuisce il suo principio, mezzo e fine, riconoscendo così di oltrepassare ogni vetta della comprensione. E ciò per l’intelletto significa anche conoscere se stesso nella verità, in una tale eccellenza di gloria da intendere che nulla può essere al di fuori di se stesso, ma che tutte le cose sono in lui e sono lui stesso. Per guidarti con un paragone, so che non ignori che negli specchi piani le forme appaiono uguali a ciò che sono, mentre appaiono più piccole negli specchi curvi63. Supponi ora che vi sia il più alto splendore del nostro principio, il Dio glorioso, nel quale appaia Dio stesso, e che esso sia come lo specchio della verità, uno specchio senza macchia, assolutamente piano, senza limiti e perfettissimo; supponi, poi, che tutte le creature siano come degli specchi più contratti e curvi in modi diversi, e che, fra di esse, le nature intellettuali siano come degli specchi vivi, più limpidi e piani, tali, cioè, che, essendo vivi, intellettuali e liberi, essi possano da se stessi incurvarsi, rendersi piani e purificarsi64. Dico, allora: in tutti questi specchi risplende un’unica chiarezza, che in essi viene riflessa in modi diversi, e che nel primo specchio, quello sommamente piano e limpido, risplendono tutti gli specchi, così come essi sono, come si può osservare negli specchi materiali quando sono disposti in circolo e sono rivolti gli uni verso gli altri. In tutti gli altri specchi, che sono contratti e curvi, tutte le cose, invece, non appaiono così come esse sono in se stesse, bensì secondo la condizione che è propria dello specchio che le riceve65, vale a dire con una diminuzione di grandezza dovuta alla minor forma piana dello specchio ricevente. Quando, dunque, un qualche specchio intellettuale vivo66 viene portato davanti al primo specchio della verità, che è piano e nel quale tutte le cose risplendono così come sono veramente, senza alcun difetto67, allora lo specchio della verità, unitamente a tutto ciò che ha ricevuto da tutti gli altri specchi68, si riversa69 nel vivo spec-
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sfundit in intellectuale vivum speculum, et ipsum tale intellectuale in se recipit specularem illum radium speculi veritatis in se habentis omnium speculorum veritatem. Recipit autem suo modo in eodem vero momento aeternitatis vivum illud speculum quasi oculus vivus, cum receptione luminis resplendentiae primi speculi in eodem veritatis speculo se uti est intuetur et in se omnia suo quidem modo. Quanto enim simplicius, absolutius, clarius, mundius, rectius, iustius et verius fuerit, tanto in se gloriam dei atque omnia limpidius, gaudiosius veriusque intuebitur. In speculo igitur illo primo veritatis, quod et verbum, logos seu filius dei dici potest, adipiscitur intellectuale speculum filiationem, ut sit omnia in omnibus et omnia in ipso, et regnum eius sit possessio dei et omnium in vita gloriosa. 68 Tolle itaque, frater, contractiones quantificativas sensibilium speculorum et a loco et tempore et cunctis sensibilibus conceptum absolvas elevando te ipsum ad rationales speculares claritates, ubi in ratione clara mens nostra veritatem speculatur – inquirimus enim dubiorum latebras in claritate rationalis speculi et id verum scimus, quod ratio nobis ostendit –, transfer igitur praemissum paradigma in regionem intellectualem, ut propinquius te tali quali manuductione ad speculationem filiationis dei queas elevare. Poteris enim quadam intuitione occulta praegustare nihil aliud filiationem esse quam translationem illam de umbrosis vestigiis simulacrorum ad unionem cum ipsa infinita ratione, in qua et per quam spiritus vivit et se vivere intelligit, ita quidem, ut nihil extra ipsum vivere conspiciat atque solum ea omnia vivant, quae in ipso sunt ipse, tantaeque exuberantiae se vitam habere sciat, ut omnia in ipso aeternaliter vivant, ita quidem, ut non sint sibi vitam praestantia alia quaecumque sed ipse vita viventium. 69 Non enim erit deus alius ei ab eomet spiritu neque diversus neque distinctus neque alia divina ratio seu aliud dei verbum neque
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chio intellettuale, e questo specchio intellettuale accoglie in sé il raggio dello specchio della verità, il quale contiene in se stesso la verità di tutti gli specchi70. Questo vivo specchio intellettuale, tuttavia, come fosse un occhio vivo, accoglie tutto secondo il modo che gli è proprio e, in un unico momento dell’eternità, accogliendo il lume splendente del primo specchio, in questo specchio, che è specchio di verità, intuisce se stesso com’è in sé, ed insieme intuisce tutte le cose, sebbene sempre secondo il modo che gli è proprio. Quanto più lo specchio intellettuale sarà semplice, libero, limpido, chiaro, piano, giusto e vero, tanto più limpidamente, gioiosamente e con verità intuirà in se stesso la gloria di Dio e tutte le cose. In quel primo specchio della verità, che può essere chiamato anche Verbo, Logos o Figlio di Dio, lo specchio intellettuale consegue, dunque, la filiazione, in modo tale che esso è così tutto in tutto e tutte le cose sono in lui71, ed il suo regno consiste nel possesso di Dio e di tutte le cose nella vita gloriosa. E così, fratello, rimuovi la quantità, nella quale sono contratti gli specchi sensibili, e libera il tuo concetto dallo spazio, dal tempo e da ogni altro aspetto sensibile72, elevandoti alla chiarezza degli specchi razionali, là dove, nella chiara ragione, la nostra mente rispecchia la verità – indaghiamo infatti nei nascondigli del dubbio alla luce dello specchio razionale e sappiamo che è vero ciò che la ragione ci mostra; trasferisci, dunque, l’esempio degli specchi nella regione intellettuale, in modo tale che, guidato per mano da quest’esempio73, tu possa innalzarti più da vicino alla contemplazione della filiazione di Dio. Potrai allora, con una certa intuizione segreta, pregustare che la filiazione non è altro che il passaggio dalle oscure vestigia delle immagini all’unione con la stessa ragione infinita, nella quale e attraverso la quale lo spirito vive e sa di vivere74. Così, lo spirito vede che nulla vive al di fuori di sé e che vivono solamente tutte quelle cose che, in lui, sono lui stesso. Sa anche di possedere una tale sovrabbondanza di vita che tutte le cose vivono in lui eternamente, in modo tale che esse non ricevono la vita per l’intervento di qualche altra realtà, ma è lui stesso la vita dei viventi. Per lui, infatti, Dio non sarà altro da quello stesso spirito, né diverso, né distinto; e non sarà neppure qualcosa d’altro la ragione
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alius dei spiritus. Omnis enim alteritas et diversitas longe inferior est ipsa filiatione. Purissimus enim intellectus omne intelligibile intellectum esse facit, cum omne intelligibile in ipso intellectu sit intellectus ipse. Omne igitur verum per veritatem ipsam verum et intelligibile est. Veritas igitur sola est intelligibilitas omnis intelligibilis. Abstractus igitur atque mundissimus intellectus veritatem omnis intelligibilis intellectum esse facit, ut vita vivat intellectuali, quae est intelligere. Erit igitur intellectus, quando in eo veritas ipsa est intellectus, semper intelligens et vivens, neque aliud intelligit tunc a se, quando veritatem intelligit, quae in ipso est ipse. Extra enim intelligibile nihil intelligitur. Omne autem intelligibile in ipso intellectu intellectus est. Nihil igitur remanebit nisi ipse intellectus purus secundum ipsum, qui extra intelligibile nihil potest intelligere esse posse. Cum igitur hoc ita sit, non intelligit intellectus ille aliud intelligibile neque erit eius intelligere aliquid aliud, sed in unitate essentiae est ipse intelligens et id quod intelligitur atque actus ipse qui est intelligere. Non erit veritas aliud aliquid ab intellectu, neque vita qua vivit alia erit ab ipso vivente intellectu secundum omnem vim et naturam intellectualis vigoris, quae omnia secundum se ambit et omnia se facit, quando omnia in ipso ipse. 70 Filiatio igitur est ablatio omnis alteritatis et diversitatis et resolutio omnium in unum, quae est et transfusio unius in omnia. Et haec theosis ipsa. Nam, cum deus sit unum, in quo omnia uniter, qui est et transfusio unius in omnia, ut omnia id sint quod sunt, et in intellectuali intuitione coincidit esse unum in quo omnia et esse omnia in quo unum, tunc recte deificamur, quando ad hoc exaltamur, ut in uno simus ipsum in quo omnia et in omnibus unum.
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divina, né sarà altro il verbo di Dio, né sarà altro lo spirito di Dio. Ogni alterità e diversità, infatti, sono di gran lunga inferiori alla filiazione. L’intelletto purissimo75, infatti, fa sì che ogni intelligibile sia l’intelletto, dal momento che ogni intelligibile, nell’intelletto, è l’intelletto stesso. Tutto ciò che è vero, pertanto, è vero e intelligibile in virtù della verità stessa76. La sola verità, dunque, è l’intelligibilità di ogni intelligibile. L’intelletto astratto e purissimo fa sì che l’intelletto sia la verità di ogni intelligibile, in modo tale che l’intelletto viva di quella vita intellettuale che è l’intendere77. L’intelletto, pertanto, quando la verità stessa vi è presente come intelletto, sarà sempre nell’atto di intendere e di vivere, per cui quando intende la verità non intende qualcosa che sia altro da se stesso, in quanto nell’intelletto la verità è l’intelletto stesso. Non si intende nulla, infatti, se non ciò che è intelligibile. Ma ogni intelligibile, nell’intelletto, è intelletto. Per l’intelletto, il quale non può intendere che qualcosa possa esistere al di fuori dell’intelligibile, non rimarrà pertanto nulla che non sia lo stesso intelletto puro. Stando così le cose, l’intelletto non intende un intelligibile che sia altro da sé, e neppure il suo intendere sarà qualcosa di altro da sé, ma esso stesso sarà, nell’unità della sua essenza78, ciò che intende, ciò che viene inteso e l’atto stesso di intendere. La verità non sarà qualcosa di altro dall’intelletto, né la vita di cui l’intelletto vive sarà qualcosa di altro dall’intelletto stesso, il quale vive secondo tutta la forza e la natura del suo vigore intellettuale; e questa natura intellettuale abbraccia in sé tutte le cose e tutte le rende conformi a se stessa, dato che, nell’intelletto, tutte le cose sono l’intelletto stesso. La filiazione, pertanto, è la rimozione di ogni alterità e diversità e la risoluzione di tutte le cose nell’uno, che è anche l’effusione dell’uno in tutte le cose. E questa è la «theosis»79. Dio, infatti, è l’uno, nel quale tutte le cose sono contenute in modo unitario80, ed è anche l’effusione dell’uno in tutte le cose, in modo tale che ciascuna di esse sia ciò che è; inoltre, nell’intuizione intellettuale [di cui si è parlato sopra] coincidono l’essere uno, nel quale sono contenute tutte le cose, e l’essere tutte le cose, nel quale è presente l’uno. La nostra deificazione, di conseguenza, avviene proprio quando veniamo esaltati a tal punto da essere, nell’uno, l’uno stesso, nel quale sono tutte le cose e che è uno in tutte le cose81.
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putes has locutiones praecisas, quoniam ineffabilia locutionibus non attinguntur. Hinc profunda meditatione super omnes contrarietates, figuras, loca, tempora, imagines et contractiones, super alteritates, disiunctiones, coniunctiones, affirmationes et negationes opus est ut eleveris, quando per transcensum omnium proportionum, comparationum et ratiocinationum ad puram intellectualem vitam tu, filius vitae, in vitam transformaberis. Et hoc sit huius temporis de theosi qualiscumque, licet remota valde, coniectura, in qua, quae esse possit altissimae profunditatis eius descriptio, super rationem omnem ascendendum esse ad altius aliquid supra id, quod signis quibuscumque explicabile est, in puritate simplici, ut potes, conicias. Haec sic de hoc dicta sint.
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IV.
Quoniam autem te maxime optare non haesito, ut tibi conceptum viae pandam, qua in huius temporis fluxu ad studium ipsum filiationis pergendum esse conicio, hinc adhuc, prout occurrit, id ipsum explicare conabor. Dico autem resolutorias scholas de varia involutione nos relevare, si ad unum et modos unius respexerimus, non quidem quod unum ab omnibus considerationibus absolutum, quod est omnium principium, medium et finis, immo in omnibus omnia, in nihilo nihil, sit entibus intelligibilibus, rationalibus, sensibilibus quovismodo coordinatum, ut alias in De docta ignorantia explicavi, cum in ascensu vel descensu rerum ad maximum simpliciter deveniri nequeat, sed remanet super omnem ordinem et gradum superexaltatum, nihilo minus tamen illud ipsum unum, etsi inattingibile remaneat, est id ipsum unum, quod in omnibus attingibilibus attingitur. Unum igitur erit quod et om-
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Non ritenere, tuttavia, che queste parole siano precise, poiché non è possibile esprimere con le parole ciò che è ineffabile. È necessario, pertanto, che, attraverso una profonda meditazione, ti innalzi al di sopra di tutte le contrarietà, le figure, i luoghi, i tempi, le immagini e le contrazioni, al di sopra delle alterità, delle disgiunzioni e delle congiunzioni, delle affermazioni e delle negazioni, giacché, trascendendo tutte le proporzioni, le comparazioni e le argomentazioni razionali, ed elevandoti alla pura vita intellettuale, tu, figlio della vita, sarai trasformato in vita. È questa, dunque, la nostra congettura sulla «theosis», propria di chi vive in questo mondo, per quanto sia ben lontana dal vero; in questa congettura, quale che sia la descrizione dell’eccelsa profondità della «theosis» che offre, puoi vedere, in maniera congetturale, per quanto ti è possibile, che è necessario ascendere, nella pura semplicità [dell’intelletto], al di là di ogni ragione, verso qualcosa di più alto, che è al di sopra di tutto ciò che può essere espresso con i nostri segni, di qualsiasi genere essi siano. Queste sono le cose che potevamo dire su questo argomento.
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IV
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Sono certo, tuttavia, che tu desideri moltissimo che ti spieghi anche che cosa pensi a proposito della via per la quale congetturo che si debba procedere, durante il corso di questa vita terrena, nel nostro sforzo di tendere alla filiazione; cercherò dunque di spiegartela, per come mi viene in mente. Dico che le analisi delle scuole ci liberano da molti impacci82, se guardiamo all’uno e ai modi dell’uno83. Non intendo certamente sostenere che l’uno, libero da ogni qualificazione, sia in qualche modo coordinato agli enti intelligibili, razionali e sensibili – un tale uno è infatti il principio, il mezzo il fine di tutte le cose84, ed anzi è tutto in tutte le cose e nulla in nessuna85. Come ho già avuto modo di spiegare nella Dotta ignoranza, nell’ascendere e nel discendere tra gli enti non si può mai pervenire al massimo in quanto tale, il quale resta piuttosto superesaltato al di sopra di ogni ordine e grado86. Nondimeno, l’uno, sebbene rimanga inattingibile, è lo stesso uno che è attinto in tutte le cose che sono per noi attingibili. L’uno, pertanto, sarà anche ciò che tutte le
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nia, simul id ipsum inattingibile unum in omnibus attingitur, quasi si quis diceret monadem innumerabilem, quae tamen est omnis numerus, et in omni numero numeratur innumerabilis ipsa monas. Non enim aliud esse potest omnis numerus quam monas. Habet enim denarius omne id quod est a monade, sine qua nec denarius unus quidem numerus nec denarius foret. Quod enim est denarius, penitus ex monade habet neque est quid aliud a monade neque est quidquam recipiens a monade, quasi sibi praeter monadem esse aliquod convenire possit, sed omne id quod est monas est. Nec tamen denarius numerus monadem numerat, sed remanet denario innumerabilis sicut et cuilibet numero, cum super omnem numerum exaltetur innumerabilis ipsa monas. Et quia senarius non est septenarius, erunt hi duo numeri diversi, licet non sit alia monas senarii et alia monas septenarii. Non enim in ipsis nisi monas una in varietate reperitur. Monas igitur, quae est numeri principium, non est in numero reperibilis, sed in numero numeraliter est ipsa unitas et in monade innumerabiliter. Nulla est coordinatio seu proportio numeralis ad innumerabile, absoluti ad modaliter contractum. 73 Sic conicere te convenit unum illud, quod est omnium principium, ineffabile esse, cum sit omnium effabilium principium. Omnia igitur quae effari possunt ineffabile non exprimunt, sed omnis elocutio ineffabile fatur. Est enim ipsum unum, pater seu genitor verbi, id omne, quod in omni verbo verbatur, sic in omni signo signatur, et sic de reliquis. 74 Atque ut alio quodam te ducam exemplo: intellectus magistri per omnia inattingibilis est in regione rationali et sensibili. Hic intellectus ex plenitudine magisterii et virtutis seu bonitatis movetur, ut ad similitudinem sui uniat alios. Verbum mentale de se generat, quod quidem est simplex et perfectum magisterii verbum seu ars
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cose sono; l’uno è inattingibile ed è, ad un tempo, ciò che si attinge in tutte le cose. È come se si dicesse che la monade87 non è numerabile, e che, tuttavia, essa è ogni numero, e che, in ogni numero, viene numerata la stessa monade non numerabile. Ogni numero, infatti, non può essere altro che monade. Il dieci, per esempio, ha tutto ciò che è dalla monade, senza la quale non sarebbe né un numero in generale, né il dieci. Ciò che il numero dieci è, infatti, gli deriva interamente dalla monade; il dieci non è qualcosa di altro dalla monade, né riceve dalla monade qualcosa, come se gli potesse convenire una qualche forma di essere al di fuori della monade, ma, tutto ciò che il dieci è, è monade88. Il numero dieci, tuttavia, non assegna un numero alla monade, la quale resta innumerabile per il dieci, come per qualsiasi altro numero, in quanto, non essendo numerabile, si pone al di sopra di ogni numero. E poiché il sei non è il sette, questi due numeri saranno diversi, benché la monade del sei non sia diversa dalla monade del sette. In questi due numeri, infatti, non si trova che una sola monade, partecipata in modi diversi. Nel numero, pertanto, non è possibile trovare la monade, la quale è il principio del numero89; nel numero, tuttavia, è presente, in maniera numerica, quella stessa unità che, nella monade, è presente in maniera non numerica90. Non vi è alcuna coordinazione o proporzione tra ciò che è numerabile e ciò che non è numerabile, fra l’assoluto e ciò che è contratto secondo un modo91. Conviene pertanto che tu congetturi che quell’uno, che è il principio di tutte le cose, è ineffabile, in quanto è il principio di tutte le cose dicibili92. Tutte le cose che si possono dire, quindi, non esprimono l’ineffabile, e tuttavia ogni espressione indica l’ineffabile. E tutto ciò che viene pronunciato in ogni parola, rappresentato in ogni segno, e così via, è infatti lo stesso uno, il padre o genitore del Verbo. Per guidarti con un altro esempio: l’intelletto del maestro non può essere colto mediante nulla di ciò che si trova nella regione razionale e in quella sensibile93. Questo intelletto, per la pienezza del suo magistero e della sua forza o bontà, si muove per unire a sé gli altri intelletti e per renderli simili a se stesso. Genera allora da se stesso la parola [il verbo] mentale, che è la parola [il verbo] semplice e perfetta del magistero, ossia è la stessa arte perfetta del ma-
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ipsa perfecta magistri. Hanc artem inspirare vult mentibus discipulorum. Quoniam autem non potest nisi per sensibilia signa intrare in mentem, attrahit aërem et ex eo vocem format, quam varie informat et exprimit, ut sic mentes discipulorum elevet ad magisterii aequalitatem. Omnia autem verba magistri auctorem verborum, intellectum scilicet, nequaquam ostendere queunt nisi per mentalem conceptum seu verbum ipsum intellectuale, quod est imago intellectus. 75 In tali quidem expressione doctrinae magistri resplendet affectus magistri, qui relucet in pronuntiatione, et varie quidem secundum varios exprimendi modos. Ut verbum fructificet, resplendet affectus magistri conceptus in verborum significatione, resplendet et ipsum magisterium, unde emanat tam fecundus atque tam magistralis. Et neque omnes modi pronuntiationis attingunt affectum, cum tantus sit, quod sufficienter pronuntiari non possit, neque omnes modi orationum attingunt conceptum, qui est inexpressibilis fecunditatis, cum sit ars magisterii, neque oratio et pronuntiatio cum omnibus modis possibilibus exprimere possunt magisterium ipsum intellectuale, quamquam non aliud in omni oratione exsistat aut significetur quam sui ipsius manifestatio ad finem transformationis in simile magisterium. 76 Tali quadam similitudine principium nostrum unitrinum bonitate sua creavit sensibilem istum mundum ad finem intellectualium spirituum, materiam eius quasi vocem, in qua mentale verbum varie fecit resplendere, ut omnia sensibilia sint elocutionum variarum orationes a deo patre per filium verbum in spiritu universorum explicatae in finem, ut per sensibilia signa doctrina summi magisterii in humanas mentes se transfundat et ad simile magisterium perficienter transformet, ut sit totus iste sensibilis mundus sic ob intellectualem et homo finis sensibilium creaturarum et deus gloriosus principium, medium et finis omnis operationis suae.
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estro94. Egli vuole infondere quest’arte nelle menti dei discepoli95. Poiché, tuttavia, essa non può penetrare nella mente se non mediante dei segni sensibili, il maestro inspira l’aria e da questa forma la voce, che modula e proferisce in modi vari, per elevare così le menti dei discepoli all’uguaglianza del magistero. Tutte le parole del maestro, però, non possono mai rivelare il loro autore, ossia l’intelletto, se non attraverso un concetto mentale o una parola [verbo] intellettuale, la quale è l’immagine dell’intelletto96. In quest’espressione della dottrina del maestro risplende il suo affetto, che traspare nella maniera in cui egli pronuncia le sue parole, e ciò in modi diversi a seconda dei diversi modi di esprimersi. Affinché la sua parola [verbo] produca frutti, l’affetto del maestro e delle sue idee risplende nel significato delle parole, e vi risplende anche il suo magistero, dal quale emana la sua parola [verbo] così feconda di insegnamenti. Ma nessun modo di pronunciare le parole giunge a cogliere l’affetto, in quanto è così grande che non può essere pronunciato in maniera adeguata; nessun modo del discorso giunge a cogliere il concetto, che è di una fecondità inesprimibile, in quanto è l’arte del magistero; ed infine, né il discorso, né la sua pronuncia, con tutti loro possibili modi, sono in grado di esprimere il magistero intellettuale stesso, sebbene in ogni discorso non vi sia altro e in esso non venga espresso altro che la manifestazione di tale magistero, allo scopo di trasferire [le menti dei discepoli] ad un magistero simile97. In un modo in qualche misura simile, il nostro principio unitrino ha creato, in virtù della sua bontà, questo mondo sensibile in funzione degli spiriti intellettuali98; ha creato la materia di questo mondo come se fosse la voce, nella quale ha fatto risplendere in vari modi la propria parola [verbo] della mente. Tutte le cose, pertanto, sono come dei discorsi espressi in varie maniere ed esplicati da Dio padre attraverso la Parola [il Verbo], che è suo figlio, nello Spirito dell’universo; e questo allo scopo di trasfondere, mediante segni sensibili, la dottrina del sommo magistero nelle menti umane, per trasformarle ed elevarle ad un magistero simile al proprio. In questo modo, tutto questo mondo sensibile è in funzione di quello intellettuale, e l’uomo è il fine delle creature sensibili e Dio glorioso è il principio, il mezzo e il fine di ogni sua operazione99.
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igitur hoc studium ad filiationem dei tendentium, ut omne effabile ab ineffabili incoordinato et superexaltato cognoscat atque id ipsum ineffabile super omne intellectuale esse collocatum esseque ipsum principium, medium et finem omnis intelligibilis atque ipsum unum imparticipabiliter esse entitatis intelligibilis fontem et omne id quod est, sicut mentale verbum est fons vocalis et id omne quod est et significatur verbo vocali absque immixtione et partitione sui, cum mens per vocale verbum participari aut quovis modo attingi nequeat. Verbum autem intellectuale est ineffabilis verbi intellectualis receptio. Omne igitur verbum absolutum ab omni contractione sensibili intellectuale remanet. Intellectuale autem intellectualiter de ineffabili id habet quod est. Ineffabile autem per intellectum si nominatur, absoluto modo id fit, cum intellectualis modus absolutus sit in ordine ad sensibiles contractiones. 78 Ineffabilis igitur nec nominari nec attingi quovis modo potest. Nomen igitur absolutum sive entitas sive deitas sive bonitas sive veritas sive etiam virtus aut aliud quodcumque nequaquam deum nominat innominabilem, sed innominabilem ipsum deum variis intellectualibus modis exprimit. Hoc autem modo ineffabilis est effabilis, imparticipabilis participabilis, supra omnem modum modificabilis. Deus igitur est principium supra unum et modum, qui in uno et modo unius se participabilem exhibet. Quapropter conicio studium, quo in hoc mundo ascendere conamur ad filiationis adeptionem, in alio fortassis esse posse, ut in uno et modo unius nostra versetur speculatio. 79
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Atque ut contractius loquendo in exemplo quid velim degustes, applica unum et modum ad aliquid, quod in omnibus esse et vige-
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Lo sforzo di tutti coloro che tendono alla filiazione dev’essere allora rivolto a riconoscere che tutto ciò che è dicibile deriva dall’ineffabile, non-coordinato e superesaltato; che l’ineffabile è posto al di sopra di ogni essere intellettuale e che esso è il principio, il mezzo e il fine di ogni intelligibile. Che l’ineffabile è l’uno impartecipabile100, la fonte dell’entità intelligibile ed è tutto ciò che esso è, così come la parola [verbo] della mente è la fonte di quelle espresse con la voce e ne costituisce tutto l’essere e il significato, senza che vi sia mescolanza e divisione della parola mentale, in quanto la mente non può in alcun modo essere partecipata da parte della parola vocale, o essere colta da essa. La parola intellettuale, invece, è la ricezione, secondo il modo proprio dell’intelletto, della parola [verbo] ineffabile. Ogni parola intellettuale, pertanto, resta svincolata da ogni contrazione sensibile101. Ciò che essa è, invece, la parola intellettuale lo riceve, in maniera intellettuale, dalla parola [verbo] ineffabile. Se, poi, ciò che è ineffabile è nominato dall’intelletto, ciò avviene in modo assoluto, dal momento che il mondo intellettuale è a sua volta assoluto rispetto alle contrazioni sensibili. L’ineffabile, perciò, non può essere nominato, né colto in alcun modo. Un nome assoluto, come quello di «entità», di «deità», di «bontà», di «verità», di «forza», o qualsiasi altro nome di questo genere, non denomina mai Dio, che è [in sé] innominabile, ma parla piuttosto del Dio innominabile mediante vari modi intellettuali102. In questa maniera, l’ineffabile risulta dicibile, l’impartecipabile partecipabile, ciò che è al di sopra di ogni modo passibile di un modo. Dio, pertanto, è il principio che è al di sopra dell’uno e del modo, il quale, tuttavia, si rende partecipabile nell’uno e nei vari modi dell’uno. Per questo motivo, penso che la ricerca con la quale, in questo mondo, ci sforziamo di conseguire la filiazione, possa essere forse rivolta a qualcos’altro, per cui la nostra riflessione può ora soffermarsi sull’uno e sui modi dell’uno. V
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Ma perché tu possa apprezzare ciò che, con un linguaggio piuttosto conciso e mediante esempi, intendo dire, considera l’uno e il modo in relazione a qualcosa che, per esperienza, è presente in tut-
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re experieris. Experimur autem vim quandam omnibus inesse. Virtus igitur absolvatur per intellectum, ut vim consideres modo absoluto. Erit igitur vis absoluta coordinata quaedam maximitas in se habens omnes virtutis gradus et modos in altitudine universali et intellectualis simplicitatis unitate et modus quidem altissimus, quo superexcellens ipsa ineffabilis atque penitus inattingibilis causa omnis virtutis intellectualiter attingitur. Non est enim deus virtus sed dominus virtutum. 80 Deinde attendendum deum supra omne absolutum et contractum exsistentem per quamcumque altissimam absolutionem non attingi uti est, sed cum ipso modo absoluto. Eo quidem modo absoluto intellectuales naturae imparticipabilem intellectualiter participant, ut sint virtutes elevatae super omnem contractionem virtutis, prout ipsa virtus in sensibili mundo obumbratur. Absolutio autem virtutis modos habet. Sine modo enim non est absolutio ipsa participabilis. Absolutio itaque virtutis in modorum varietate varias participantes ostendit virtutes. Varii igitur sunt spiritus intellectuales in absolutionum variis modis virtutem participantes, ut omnes absoluti spiritus virtutem unam varie participantes non aliud sint quam virtus absoluta variis modis participata. 81 Iam conspicis, quanta est potentia spiritus, quoniam est virtus super omnem vim sensibilis mundi exaltata. In potentia igitur virtutis eius complicatur omnis virtus caelorum atque eorum, quae sub ipso sunt, ut omnis vis, quae in ipsis est, sit quaedam explicatio virtutis intellectualis spiritus. Participat autem sensibilis hic mundus unam ipsam virtutem sensibiliter, quam intellectualis intellectualiter, in varietate modorum. Contrahitur itaque ipsa absoluta
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te le cose e che vale per tutte. Ora, noi sappiamo per esperienza che in tutte le cose è insita una certa forza. Tramite l’intelletto separa tale forza dalle cose in cui si trova, così da considerare la forza in modo assoluto. Questa forza assoluta costituirà una certa grandezza massima, coordinata ad altre grandezze massime, che ha in sé tutti i gradi e i modi della forza in una superiore universalità e nell’unità che è propria della semplicità intellettuale, e sarà, inoltre, il modo più elevato nel quale si giunge a cogliere intellettualmente la stessa causa di ogni forza103, quella causa che è super-eccelsa, ineffabile e del tutto inattingibile. Dio, infatti, non è forza, ma è il signore delle forze104. Bisogna poi prestare attenzione al fatto che Dio, il quale è al di sopra di ogni cosa, sia essa assoluta o contratta, non viene mai colto per come egli è in se stesso, mediante nessuna assolutezza105, per quanto elevata essa sia, ma viene colto [solamente] tramite quel tipo di modo assoluto che impieghiamo. Grazie a tale modo assoluto, le nature intellettuali partecipano intellettualmente di ciò che è [in sé] impartecipabile, sì da essere delle forze che si elevano al di sopra di ogni forza contratta, come essa si presenta nel mondo sensibile, in cui la forza risulta oscurata. Ma anche la forza, considerata nella sua assolutezza, ha i suoi modi. Senza modo, infatti, l’assolutezza stessa non è partecipabile. L’assolutezza della forza, pertanto, manifesta varie forze che ne partecipano in una varietà di modi. Vi sono quindi vari spiriti intellettuali, che partecipano della forza secondo vari gradi di assolutezza, cosicché tutti gli spiriti assoluti, che partecipano secondo vari gradi dell’unica forza, non sono altro che quella stessa forza assoluta partecipata in vari modi. Vedi ora quanto è grande la potenza dello spirito, in quanto si tratta di una forza che è elevata al di sopra di ogni forza che appartiene al mondo sensibile. Nella potenza che è propria della forza dello spirito risulta infatti complicata ogni forza dei cieli106 e di tutte quelle cose che sono al di sotto dello spirito, per cui ogni forza che è presente in queste cose è una certa qual esplicazione della forza intellettuale dello spirito107. Questo mondo sensibile, infatti, partecipa, in modo sensibile, di quella stessa forza di cui il mondo intellettuale partecipa in modo intellettuale, secondo una varietà di modi. La stessa forza assoluta del mondo intellettuale, pertan-
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virtus intellectualis mundi in sensibili in variis participandi modis: caelestialiter in caelo, animaliter in animalibus, vitaliter in viventibus, vegetabiliter in vegetabilibus, mineraliter in mineralibus, et ita quidem de reliquis. 82 In omnibus igitur, si attendis, vim et eius reperis modum. Unum est igitur, quod in omnibus est omnia, quae id ipsum modo suo participant. Ita quidem de entitate, bonitate et veritate uti de virtute conicias. Nam entitas est hoc ipsum unum, quod omnia participant quae sunt, sic et bonitas et veritas. Unde legislator prudentissimus Moyses ait deum creasse universa et formasse hominem, quasi deus sit virtus creativa seu formativa, licet super ista sit omnia. Sed insinuare nititur quomodo participatione virtutis eius modo, quo participabilis est varie, cuncta in esse prodiere. Ita quidem ait deum vidisse omnia fuisse bona ostendens deum fontem bonitatis, a quo modo, quo participabilis est varie, varia bona exoriuntur. Non est igitur nisi unum, quod sine modo participari nequit. 83 Atque ut sufficientius id ipsum quod conicio tibi pandam: unum est, quod omnes theologizantes aut philosophantes in varietate modorum exprimere conantur. Unum est regnum caelorum, cuius et una est similitudo, quae non nisi in varietate modorum explicari potest, ut magister veritatis ostendit. Neque est aliud quod Zeno, aliud quod Parmenides aut Plato aut alii quicumque de veritate tradiderunt, sed unum omnes respicientes variis modis id ipsum expresserunt. Quamvis enim modi dicendi sint adversi et incompatibiles videantur, non tamen nisi id ipsum unum super omnem contrarietatem in attingibiliter collocatum modo quis que suo hic affirmative, hic negative, hic dubie nisi sunt explicare. Una est enim theologia affirmativa omnia de uno affirmans et ne-
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to, si contrae nel mondo sensibile secondo vari modi di partecipazione: secondo il modo celeste nel cielo, secondo il modo animale negli animali, secondo il modo vitale negli esseri viventi, secondo il modo vegetale nelle piante, secondo il modo minerale nei minerali, e così via per le restanti cose. Se presti pertanto attenzione, in tutte le cose trovi una forza e un suo modo. Uno, pertanto, e ciò che è tutto in tutte le cose, le quali ne partecipano ciascuna secondo il modo che le proprio. E quanto abbiamo detto della forza, lo puoi congetturare anche per quanto riguarda l’entità, la bontà e la verità. L’entità, infatti, è questo stesso uno di cui partecipano tutte le cose che sono, e così è della bontà e della verità. Per questo motivo, Mosè, legislatore quanto mai saggio, dice che Dio ha creato tutte le cose e ha formato l’uomo108, come se Dio fosse una forza creativa e formativa, sebbene egli sia al di sopra di tutte queste cose. Mosè, tuttavia, cerca così di far capire che tutte le cose sono giunte all’essere per la partecipazione alla potenza di Dio, nei diversi modi in cui essa risulta partecipabile. Analogamente, Mosè dice che Dio vide che tutte le cose erano buone109, indicando così in Dio la fonte della bontà, da cui scaturiscono tutti beni, secondo i diversi modi in cui essa risulta partecipabile. Non vi è dunque che l’uno, il quale non può tuttavia parteciparsi senza un modo. E per spiegarti in maniera più adeguata ciò che penso con la mia congettura, aggiungo che l’uno è ciò che tutti coloro che fanno teologia o filosofia si sforzano di esprimere in una varietà di modi110. Uno solo è il regno dei cieli ed una è anche la sua immagine, la quale non può essere esplicata che in una varietà di modi, come indica il maestro della verità111. E ciò che Zenone, Parmenide o Platone, o qualsiasi altro pensatore ci hanno tramandato circa la verità non è qualcosa di diverso, ma tutti hanno guardato all’uno e lo hanno espresso in modi diversi112. Sebbene, infatti, i loro modi di parlare siano contrari ed appaiano incompatibili, tuttavia ciò che essi si sono sforzati di spiegare, ciascuno a suo modo – chi in maniera affermativa, chi negativa, chi dubitativa –, non è altro che questo stesso uno, che è collocato, in maniera inattingibile, al di sopra di ogni contrarietà. Una, infatti, è la teologia affermativa, che dell’uno afferma tutte le cose, e la teologia negativa, che dello stesso uno nega
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gativa omnia de eodem negans et dubia neque negans neque affirmans et disiunctiva alterum affirmans alterum negans et copulativa opposita affirmative conectens aut negative ipsa opposita copulative penitus abiciens. Ita quidem omnes possibiles dicendi modi sub ipsa sunt theologia id ipsum ineffabile qualitercumque exprimere conantes. 84
VI.
Haec est igitur via studii eorum, qui ad theosim tendunt, in modorum quorumcumque diversitate ad unum ipsum advertere. Quando enim quicumque studiosus subtiliter considerando attendit quomodo ipsum unum omnium causa non potest non exprimi in omni expressione, sicut verbum non potest non eloqui in omni loquente, sive se dicat loqui sive se dicat non loqui, tunc sibi manifestum est virtutem ineffabilis omne dicibile ambire et nihil dici posse, in quo modo suo causa omnis dicentis et dicti non resplendeat. Nihil itaque reperiet vere theologizans scholaris, quod ipsum perturbet in omni varietate coniecturarum. Nec minus apud ipsum hic dicit, qui ait nihil penitus esse, quam ille qui ait omnia esse quae videntur. Nec verius hic dicit, qui ait deum omnia esse, quam ille, qui ait ipsum nihil esse aut non esse, cum sciat deum super omnem affirmationem et negationem ineffabilem, quidquid quis que dicat, et hoc ipsum, quod quisque de ipso dicit, non aliud esse quam modum quendam, quo de ineffabili loquens loquitur, sicut hae duae species homo et asinus genus animalitatis vario modo exprimunt, humana etenim species rationaliter, asinina irrationaliter. Secundum expressionem humanae speciei tunc rationalitas convenire videtur animalitati, secundum expressionem asininae irrationalitas. Qui autem ad genus ipsum intuetur, quomodo est ita supra istas differentias exaltatum, et quod sibi eapropter nulla convenit differentiarum, advertit expressionem speciei esse modum quen-
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tutte le cose, e la dubitativa, che non nega né afferma, e la disgiuntiva, che afferma una cosa e ne nega un’altra, e la copulativa, che congiunge affermativamente gli opposti o che congiunge negativamente questi stessi opposti respingendoli del tutto113. Così, tutti i possibili modi di dire sono propri della stessa teologia e cercano tutti di esprimere in qualche modo ciò che è ineffabile. VI
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Questa è dunque la strada lungo la quale si muove la ricerca di coloro che tendono alla «theosis»: guardare all’uno stesso nella diversità dei modi, qualunque essi siano. Chiunque ricerchi si rende infatti conto, se riflette con attenzione, che l’uno, causa di tutte le cose, non può non essere proferito in ogni nostra espressione, così come chi parla non può fare a meno di pronunciare parole, sia che dica di parlare, sia che dica di non parlare114. Gli risulta allora evidente che la forza dell’ineffabile abbraccia tutto ciò che è dicibile, e che non c’è nulla che possa essere detto in cui non risplenda, a suo modo, quella che è la causa sia di chi dice, sia di ciò che viene detto115. Chi veramente insegna teologia, pertanto, non troverà nulla che possa turbarlo in tutta la varietà delle congetture. A suo avviso, chi afferma che non esiste nulla non dice niente di meno di chi afferma che esistono tutte le cose che sembrano esistere. E chi afferma che Dio è tutte le cose non parla con maggiore verità di chi afferma che Dio è nulla o che non esiste affatto116. Qualunque cosa si possa infatti dire di Dio, il teologo sa che egli è ineffabile, al di sopra di ogni affermazione e negazione117, e sa che ciò che si dice di lui non è altro che un certo qual modo con il quale chi parla parla dell’ineffabile, così come queste due specie, uomo e asino, esprimono in modo diverso lo stesso genere animale, una specie, quella umana, in modo razionale, l’altra, quella asinina, in modo irrazionale. Secondo l’espressione della specie umana, all’animalità sembra allora convenire la razionalità, mentre secondo l’espressione della specie asinina sembra convenirle l’irrazionalità. Ma chi guarda il genere stesso, vedendo che è esaltato al di sopra di queste differenze, per cui ad esso non si confà nessuna di esse, si rende conto del fatto che ciò che la specie esprime è un certo modo che stabili-
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dam differentialem generis supra differentias exaltati. Ita quidem de asinina. Unde contrariae illae expressiones contrariorum modorum differentialium non impediunt intuentem ad unum genus superexaltatum. 85 Oportet deinde studentem non negligere quomodo in hac schola sensibilis mundi in modorum varietate quaeritur unum quod omnia, sed adepto magisterio in caelo intelligentiae purae in uno omnia sciuntur. Quomodo autem id ipsum fiat, ex praehabitis conicias. Nam nullo tunc ratiocinativo discursu ex sensibiliter receptis mens ipsa ad apprehensionem movetur, sed cum mens ipsa virtutem absolutam intellectualiter participet, ita quidem ut secundum naturae suae exuberantem virtutem notio quaedam sit omnium intelligibilium, quam quidem virtutis potentiam in actum per sensibilia incitamenta in hoc mundo studuit elevare. Dum post haec vis ipsa sit actuata ratiocinatione et a vivificatione corporis, cui se ipsam participabilem fecit, liberata, in se vivaci intellectu unitive redit, se comperit virtutem, quae et actualis rerum notio exsistit. 86 Sicut enim deus ipse est actualis rerum omnium essentia, ita et intellectus separatus et in se vivaciter et conversive unitus viva est dei similitudo. Unde, uti deus est ipsa rerum omnium essentia, ita et intellectus, dei similitudo, rerum omnium similitudo. Cognitio autem per similitudinem est. Intellectus autem cum sit intellectualis viva dei similitudo, omnia in se uno cognoscit, dum se cognoscit. Tunc autem se cognoscit, quando se in ipso deo uti est intuetur. Hoc autem tunc est, quando deus in ipso ipse. Nihil igitur aliud est omnia cognoscere quam se similitudinem dei videre, quae est filiatio. Una igitur simplici intuitione cognitiva omnia intuetur.
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sce le differenze del genere stesso, il quale è esaltato al di sopra delle differenze. È ciò che avviene, per esempio, riguardo alla specie asinina. Queste espressioni fra loro contrarie, relative a modi differenziali contrari, non sono di impedimento, perciò, per chi volge lo sguardo all’unico genere superesaltato. È necessario, poi, che chi aspira alla «theosis» non trascuri il fatto che in questa scuola del mondo sensibile, l’uno, che è tutte le cose, viene ricercato nella varietà dei modi, mentre, una volta conseguito il magistero nel cielo dell’intelligenza pura, tutte le cose vengono conosciute nell’uno. Puoi congetturare, sulla base di quanto abbiamo detto in precedenza, in che modo ciò avvenga. La mente, infatti, si muove ad apprendere non in virtù di un procedimento discorsivo della ragione che derivi dai dati recepiti attraverso i sensi, ma perché partecipa intellettualmente della forza assoluta, in modo tale da essere, conformemente all’esuberante forza della sua natura, una certa nozione di tutti gli intelligibili118; in questo mondo, invece, la mente si adoperava per portare all’atto la potenza della propria forza mediante lo stimolo proveniente dalle percezioni sensibili. Quando, dopo di ciò, la forza della mente si sia attuata mediante l’impiego della ragione e si sia liberata dalla funzione di vivificare il corpo, al quale si era resa partecipabile, essa ritorna in se stessa, nella prima unità dell’intelletto, e riconosce di essere una forza che è la nozione in atto di tutte le cose. Come Dio, infatti, è l’essenza in atto di tutte le cose, così anche l’intelletto, una volta che si sia separato dalle cose, sia ritornato in se stesso e si sia unito a se stesso in modo vivo, è una similitudine viva di Dio119. Come Dio, quindi, è la stessa essenza di tutte le cose120, così anche l’intelletto, che è una similitudine di Dio, è una similitudine di tutte le cose. Ora, la conoscenza avviene per similitudine121. Ma, essendo una similitudine intellettuale viva di Dio, l’intelletto, quando conosce se stesso, conosce in se stesso, nella propria unità, tutte le cose. E l’intelletto conosce se stesso quando si vede intuitivamente in Dio così com’è122. E questo avviene quando Dio, nell’intelletto, è l’intelletto stesso. Conoscere tutte le cose, pertanto, [per l’intelletto] non è nient’altro che vedere se stesso quale similitudine di Dio, e questa è la filiazione. L’intelletto coglie tutte le cose con un’unica, semplice cognizione intuitiva. Qui,
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Hic autem in varietate modorum unum ipsum inquirit. Quapropter vis ipsa intellectualis, quae se pro sua venatione in hoc mundo rationabiliter atque sensibiliter expandit, dum se transfert de hoc mundo, recolligit. Redibunt enim vires intellectuales participatae in organis sensuum et ratiocinationum ad centrum suum intellectuale, ut vivant vita intellectuali in unitate sui effluxus. 87 Iam tibi satis patere potest quomodo quidem secundum meam qualemcumque coniecturam intellectualis natura est rerum universitas intellectuali modo et, dum in scholis huius mundi versatur, quaerit potentiam ipsam in actu ponere et se particularibus formis assimilat. Tunc enim de virtute sua, qua rerum universitatem intellectualiter in potentia gerit, exserit huius et huius rei intellectum, quando se actu rei intellectae assimilat. Transfertur deinde haec potentia assimilativa sic in particularibus in actu posita penitus in actum et artem perfectam magisterii, quando in intelligibili caelo se scit omnium similitudinem, ut tunc sit actu ipse intellectus intellectualis rerum omnium universitas, quando est discretiva omnium notio. 88 Nec tamen intuetur tunc ipse intellectus quidquam extra intelligibile caelum quietis et vitae eius. Non enim temporalia temporaliter in instabili successione sed in indivisibili intuetur praesentia. Nam praesentia seu nunc ipsum omnis temporis complicativum non est de hoc sensibili mundo, cum per sensum attingi nequeat, sed de intellectuali. Sic quidem quanta nequaquam in extensa divisibili corporalitate intuetur, sed in indivisibili puncto, in quo est intellectualis omnis quantitatis continuae complicatio. Nec rerum alteritates in varietate numerorum intuetur sed in ipsa monade simplici intellectualiter omnem numerum complicanti. 89 Percipit igitur intellectus intellectualiter omnia supra omnem sensibilem, distrahentem et obumbrantem modum. Mundum quidem totum sensibilem non modo sensibili sed veriori, intellectua-
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invece, l’intelletto va alla ricerca dell’uno in una varietà di modi. La forza intellettuale, che, per condurre la sua caccia in questo mondo123, si dispiega in maniera razionale e sensibile, non appena trascende questo mondo si raccoglie pertanto di nuovo in se stessa. Le forze intellettuali, infatti, di cui partecipano gli organi dei sensi e della facoltà razionale, ritorneranno al proprio centro intellettuale, in modo da poter vivere di vita intellettuale nell’unità dalla quale sono scaturite. Può risultarti ormai abbastanza chiaro come, almeno secondo la mia congettura, la natura intellettuale sia la totalità unitaria delle cose in modo intellettuale, e come essa, quando è occupata nelle scuole di questo mondo, cerchi di porre in atto la propria potenza assimilandosi alle forme particolari. È dalla propria forza, infatti, nella quale possiede in potenza, intellettualmente, la totalità unitaria delle cose, che essa trae l’intellezione di questa o di quella cosa, allorché si assimila in atto alla cosa intesa124. Questa potenza assimilativa, posta così in atto nelle cose particolari, diventa poi completamente in atto e si tramuta nell’arte perfetta del magistero, quando nel cielo intelligibile conosce se stessa come similitudine di tutte le cose; in questo modo, l’intelletto è in atto la totalità unitaria di tutte le cose, quando diventa la nozione che le discerne tutte. In questo stato, tuttavia, l’intelletto non intuisce nulla al di fuori del cielo intelligibile della propria quiete e della propria vita. Intuisce, infatti, le cose temporali non in modo temporale, nella loro instabile successione, ma in una presenza indivisibile. Il presente, o l’istante, che complica ogni tempo, non appartiene in effetti del mondo sensibile, in quanto i sensi non sono in grado di coglierlo, ma è proprio del mondo intellettuale. Allo stesso modo, l’intelletto non intuisce la quantità nella corporeità, estesa e divisibile, bensì in un punto indivisibile, nel quale vi è la complicazione intellettuale di ogni quantità continua125. Esso intuisce anche le alterità delle cose non nella varietà dei numeri, bensì nella stessa monade semplice, che complica in sé intellettualmente ogni numero. L’intelletto, pertanto, intuisce tutte le cose intellettualmente al di sopra di ogni modo sensibile, che distrae e vela d’ombra. Non intuisce l’intero mondo sensibile in modo sensibile, bensì in un
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li scilicet, intuetur modo. Dicitur enim haec cognitio perfecta eapropter intuitio, quia ea paene est differentia inter eam ipsam illius mundi cognitionem et istius sensibilis, quae est inter notitiam, quae per visum et eam, quae per auditum recipitur. Quanto igitur illa, quae per visum generatur, certior et clarior est illa, quae de eadem re per auditum efficitur, tanto et amplius multum intuitiva cognitio alterius mundi eam excellit quae est huius, sicuti scire ‘propter quid’ potest intuitiva dici cognitio, cum in rationem rei sciens respiciat, et ‘quia est’ ex auditu. 90 Haec sic cursim de quaesito, ut tempus concessit, defectibiliter dicta grate, quaeso, recipias. Alio tempore, si quid excellentius deus ministraverit, non te latebit. Vale nunc, confrater praeamande, et tuis me fac orationibus participem, ut hinc translati filiationem dei adipiscamur in filio unigenito Iesu Christo semper benedicto.
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modo più vero, ossia in modo intellettuale. Questo è il motivo per il quale questa forma perfetta di conoscenza viene detta «intuizione», perché, cioè, la differenza che c’è fra la conoscenza che è propria del mondo intellettuale e quella che è propria del mondo sensibile è quasi come quella che c’è fra una notizia acquisita con la vista ed una acquisita con l’udito. Come, pertanto, la conoscenza che si ottiene mediante la vista è più chiara rispetto a quella che, a proposito di una medesima cosa, ci si forma con l’udito, così, e molto di più ancora, la conoscenza intuitiva che è propria del mondo intellettuale supera la conoscenza che è propria del mondo sensibile. Allo stesso modo, conoscere «perché qualcosa è» può definirsi conoscenza intuitiva, perché chi conosce guarda alla ragion d’essere della cosa, mentre il conoscere «che qualcosa è»126 corrisponde alla conoscenza acquisita con l’udito127. Accogli di buon grado, ti prego, i pensieri che ho espresso a proposito del nostro argomento, in maniera rapida e non senza imperfezioni, per come il tempo a nostra disposizione me l’ha permesso. In un altro momento, se Dio mi concederà qualcosa di più eccellente, non te ne terrò all’oscuro. Addio ora, fratello amatissimo, e ricordami nelle tue preghiere, in modo che, trapassati di qua, possiamo conseguire la filiazione di Dio nel Figlio unigenito, Gesù Cristo, sempre benedetto.
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IL DONO DEL PADRE DEI LUMI
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Etsi iam ante paternitati vestrae nota sit ingenii mei obscuritas, tamen exquirere in eo lumen faceta indagatione temptastis. Dum enim inter herbarum collectionem in mentem veniret apostolica lectio, qua Iacobus «omne datum optimum et omne donum perfectum desursum» esse «a patre luminum» insinuat, efflagitastis circa lectionis intellectum meam ut scriberem coniecturam. Scio, pater, id, quod a doctissimis theologis memoriae traditum est, vos fixe tenere, me autem perparum scripturarum lectitasse. Hinc recte erubescerem, si sinceritatem mentis vestrae ignorarem. Legite itaque accepta interpretatione quae sentio.
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Fuit, ut opinor, beatissimi apostoli intentio nos facili via ad omne desideratum perducere. Omnis enim intellectualis spiritus scire appetit. Nam intelligere vita est intellectus, atque hoc ipsum est esse eius desideratum. Non potest autem ad apprehensionem sapientiae ascendere ignorans suo lumine. Qui enim indigens est, eo indiget quo caret. Oportet igitur, ut indigens se indigentem cognoscat atque ut ad eum, a quo indigentia suppleri valeat, avide recurrat. Si enim sapientiam indigens ab eo postulaverit, cuius thesauri sunt plenitudo sapientiae et qui eos evacuando adauget cuiusque tenacitas est effusio largissima, non poterit sapientiam, quae se ipsam quaerentium mentibus infundit, non attingere. Hoc est enim sapientissimi Philonis altissimum documentum, qui dum sapientiam laudare niteretur, ipsam mentibus quaerentium illabi
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Sebbene a voi, Padre1, sia già nota da tempo l’oscurità del mio ingegno, avete tuttavia cercato di rinvenirvi benignamente una luce. Quando, infatti, durante la raccolta delle erbe, mi venne in mente quel passo apostolico in cui Giacomo indica che «ogni regalo ottimo ed ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre dei lumi»2, chiedeste con insistenza che io mettessi per iscritto una mia congettura sul modo in cui si dovesse intendere il passo. So bene, padre, che voi conoscete perfettamente ciò che è stato tramandato alla memoria dai teologi più dotti, mentre io ho letto ben poco dei loro scritti. Perciò, arrossirei giustamente di vergogna se non conoscessi la sincerità del vostro animo. Leggete, dunque, questi miei pensieri, dando loro una benevola interpretazione. I
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Ritengo che l’intento del beatissimo Apostolo sia stato quello di condurci, per una via agevole, a quello che è l’oggetto di ogni nostro desiderio. Ogni spirito intellettuale, infatti, desidera conoscere3. Intendere è infatti la vita dell’intelletto, ed è questo l’essere che esso desidera4. Colui che è ignorante, invece, non può ascendere con il proprio lume ad apprendere la sapienza. Colui che è nel bisogno, infatti, ha bisogno di ciò di cui è privo. È necessario, pertanto, che colui che è nel bisogno si riconosca bisognoso5 e che ricorra avidamente a chi è in grado di soddisfare il suo bisogno. Se, infatti, chi ha bisogno della sapienza la chiedesse a colui i cui tesori sono pienezza di sapienza6, a colui che li accresce nell’atto stesso in cui li svuota e la cui parsimonia consiste nel donare in maniera generosissima7, costui, allora, non potrebbe non ottenere quella sapienza che infonde se medesima nelle menti di coloro che la cercano8. Questa è l’altissima testimonianza del sapientissimo Filone, il quale, quando si adoperava per lodare la sapienza, mostrava che
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ostendit. Postulare autem est intenta fide quaerere spe indubia adipiscendi. Qui enim ardenti cursu pergit ad ipsam quam ignorat, ei ut mater honorificata obviabit. 93 A quo autem peti debeat sapientia, quae est lumen semitis et lucerna pedibus, ratio et vita animae, apostolus omnem errorem excludere volens ostendit dicens: «Omne datum optimum et omne donum perfectum desursum est». Nam si omne id quod est in tantum se bonum esse aestimat, ut non aliud quam id ipsum semper esse meliori quidem modo, quo hoc suae naturae patitur condicio, exoptet, tunc omnis vis illa, quae se esse cognoscit ab optimo, optime esse cognoscit. Cognoscit igitur esse suum, cuius nullam umquam ullo tempore vellet corruptionem aut mutationem in aliud esse extra speciem propriam, sibi datum non quidem ab alio aliquo, quod non est desursum super omnia in altitudine omnis optimitatis. Nam non credit intellectus humanus naturam suam sibi potuisse dari ab aliquo, cuius bonitas non sit altissima desursum super omne bonum, neque quiesceret aliquod ens in data natura, si a diminuto et creato bono data foret. Sed quia ab optimo maximo magistro, cui nemo altior, sortitum est esse suum, omne id quod est quiescit in specifica natura sua ut in optima ab optimo. Datum igitur naturale qualecumque in omni eo quod est est optimum iudicio omnium, quae sunt et quae in esse suo uti optimo quietantur. Desursum igitur est ab omnipotentia infinita, quae habet artem atque sapientiam talem, ut sit sufficientissima virtus formativa omnium. 94 Quoniam autem non omnis natura data gradum possibilis perfectionis speciei suae actu attingit, sed quaelibet individualis contractio speciei ab ultima perfectione activitatis potentiae – praeterquam in uno domino nostro Iesu Christo – abesse dinoscitur, tunc
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essa penetra nelle menti di coloro che la cercano9. Chiedere, infatti, significa cercare con fede intensa nella speranza sicura di ottenere. Chi si volge verso la sapienza che ignora, correndo ardentemente verso di essa, questa, come una madre da lui onorata, gli andrà incontro10. L’Apostolo, tuttavia, volendo evitare ogni errore, mostra a chi debba essere chiesta la sapienza, che è luce sul nostro cammino e lampada per i nostri passi11, ragione e vita dell’anima, quando dice: «Ogni regalo ottimo e ogni dono perfetto vengono dall’alto». Se tutto ciò che esiste, infatti, riconosce che il proprio essere è buono, al punto che non desidera essere altro che quello che è, nel modo migliore possibile consentito dalla sua natura, allora ogni forza che riconosce di derivare da ciò che è ottimo sa di esistere in modo ottimo12. Sa che il proprio essere – del quale non vorrebbe mai la corruzione o la trasformazione in un altro essere diverso da quello della propria specie – non ci è stato certamente dato se non da un essere che è al di sopra di tutte le cose, nell’altezza dove si trova tutto ciò che è ottimo. L’intelletto umano, infatti, non crede che la sua natura gli possa essere stata donata da qualcuno la cui bontà non sia altissima, non provenga dall’alto e non sia al di sopra di ogni bene; e nessun ente si acquieterebbe nella natura che gli è stata data, se questa gli fosse stata data da un bene creato di natura inferiore. Poiché ha tuttavia ricevuto il proprio essere da un maestro ottimo e massimo, del quale nessuno è superiore, tutto ciò che esiste riposa nella natura che è propria della sua specie come in una natura ottima che proviene dall’ottimo. Per questo motivo, qualsiasi dono naturale, presente in tutto ciò che esiste, è ottimo, e questo a giudizio di tutte le cose che esistono e che si acquietano nel proprio essere come nell’essere ottimo. Ogni dono naturale, pertanto, proviene «dall’alto», dalla Onnipotenza infinita, la quale possiede un’arte e una sapienza tali da essere, in modo assolutamente adeguato, la forza formativa di tutte le cose13. Tuttavia, non ogni natura data raggiunge in atto il grado di perfezione che è possibile per la sua specie; piuttosto, tranne che nel solo caso del nostro Signore Gesù Cristo14, si sa che ogni contrazione individuale della specie è lontana dalla perfezione ultima che è propria della attuazione della sua potenza. Per questo motivo, l’in-
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opus habet intellectus, cuius potentia ambit omne, quod non est creator eius, ad hoc, ut ad apprehensionem actuetur, dono gratiae creantis. Rationalis enim creatura discretivum in se habet rationis lumen, sed est ut oculus nocticoracis debile multum atque multis umbris obtenebratum in hoc sensibili corpore. Actuatur igitur afflatione spiritus divini verbi, et tenebrae eius illuminantur. Verbo enim doctoris illuminatur discipulus, quando vis ipsa rationalis discipuli dono illuminatae rationis magistri se per verbalem spiritum ingerentis ad actum passim educitur. Sed haec omnis actuans illuminatio, quae donum est desursum, descendit a patre omnium donorum, quae dona sunt lumina seu theophaniae. Salomon enim secundum naturam animae datum a deo optimum fuit consecutus. Non tamen erat anima eius secundum hoc datum melior anima hominis alterius, sed secundum donum illuminationis est sortitus animam, cuius vis intellectualis ad actualem apprehensionem super omnes Iudaeorum reges, qui eum praecesserant, ascenderat. Hoc autem donum sapientiae postulando desursum a patre luminum in ipsum descendit. Videmus quidem virtutem seminis datam a patre luminum, scilicet sole, non poni in actum, nisi donetur ab eodem. Non enim educitur de potentia seminis arbor nisi sole donante, cuius etiam est datum, ut vis illa semini insit. 95 Excludere itaque apostolus errores voluit tam eorum, qui deum causam mali affirmarunt, quam eorum, qui sua praesumptione se erexerunt, quasi aliquis homo ex se possit etiam pervenire ad apprehensionem sapientiae sine dono gratiae seu attractione patris. Quale fuit peccatum praesumptuosissimum rationalis separati spiritus Luciferi, qui sua vi ascendere nisus est ad similitudinem altissimi, atque rationalis incorporati spiritus parentum, qui fomento sensibilis esus ligni ad perfectionem scientiae deorum perve-
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telletto, la cui potenza è in grado di abbracciare ogni cosa, tranne che il proprio creatore, ha bisogno, per poter realizzare in atto la sua comprensione, del dono della grazia del creatore15. La creatura razionale, infatti, ha in sé il lume del discernimento razionale, ma, come l’occhio di una civetta16, è molto debole e, in questo corpo sensibile, è ottenebrato da molte ombre. Esso viene pertanto condotto all’atto dall’azione dello spirito del verbo divino e le sue tenebre vengono allora illuminate. Uno studente, infatti, viene illuminato dalla parola del maestro quando la sua forza razionale viene condotta all’atto dalla ragione illuminata del maestro, la quale penetra nella mente dello studente mediante lo spirito [il soffio] delle parole che egli proferisce. Ma l’illuminazione che conduce all’atto ogni cosa, e che è un dono che viene dall’alto, discende dal Padre di tutti doni, che sono lumi o teofanie17. Salomone, ad esempio, ottenne da Dio un dono ottimo, conformemente alla natura della sua anima. In virtù di quel dono, tuttavia, la sua anima non era migliore dell’anima di un altro uomo; piuttosto, fu in virtù del dono dell’illuminazione che egli conseguì un’anima la cui forza intellettuale ascese ad un apprensione superiore rispetto a quella di tutti i re di Giudea che lo avevano preceduto18. Avendo egli chiesto il dono della sapienza, esso discese in lui dall’alto, dal Padre dei lumi. Inoltre, vediamo che la forza di un seme, data dal Padre dei lumi, cioè dal sole, non passa all’atto se non per un dono che proviene dal sole stesso. Un albero, infatti, viene tratto fuori dalla forza del seme solo per un dono del sole, del quale è un dono anche il fatto che nel seme fosse insita quella forza. L’Apostolo, pertanto, ha voluto respingere gli errori sia di coloro che affermavano che Dio è causa del male19, sia di coloro che si erano insuperbiti per la propria presunzione, come se qualche uomo potesse da sé giungere ad afferrare la sapienza senza il dono della grazia o senza l’attrazione del Padre. Di questo genere fu il peccato di estrema presunzione compiuto dallo spirito razionale e immateriale di Lucifero20, che tentò, con la sua forza, di ascendere fino alla somiglianza con l’altissimo; e di questo genere fu anche il peccato compiuto dallo spirito razionale incarnato dei nostri progenitori, i quali, attraverso il nutrimento del cibo sensibile di un albero, speravano di giungere alla perfezione della scienza degli dèi 21.
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nire sperabant. Nam hic docemur neque hanc actualitatem a nobis neque ab inferiori sensibili vegetatione advenire posse, ut apprehendamus sapientiam, quae est lux viva et gloriosa quies desiderii nostri spiritus, sed a patre atque datore formarum, cuius solum est perficere. Aliorum etiam errores enervat, qui postposito patre luminum subsidia postularunt a Minerva, Apolline, Iove et ceteris diis, quoniam, cum omnium gentilium positio assereret non esse creatorem nisi unum deum deorum interminum, ab ipso solo ostendit omne perfectivum donum postulandum, non ab his quamvis ob suas virtutes deificatis. Nam eorum, qui nihil a se habent, quod non receperunt ab omnium patre, non esset donandi facultas, cum nihil quod suum sit habeant. Omne enim donum, cuiuscumque ministerio participetur, patris est, cuius est omne quod est, a quo descendere necesse est. 96 Postulant igitur omnes nostri intercessores, qui possessionem sapientiae adepti sunt, ut lumen donetur a patre luminum. Non donant ipsi, sed ille tantum qui est dator et donum. Hoc quidem videtur apostolus velle, qui ad assiduam orationem cum fide firmissima absque omni haesitatione nos allicit certitudine assequendi sperata, quoniam pater noster «dat affluenter et non improperat». Haec sic dicta sint de apostoli sententia. 97 II.
Nunc amplius admiremur mirabile lumen, quod latet in apostoli verbis et, ut id ipsum qualitercumque patescat, enucleare temptabo pro modulo verborum proprietatem. Ait enim: «Omne datum optimum» et reliqua. Videtur igitur omnem creaturam quodammodo deum esse. Solus enim deus est maxime bonus seu optimus. Datum igitur optimum si est creatura, quoniam omnis cre-
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Questi esempi ci insegnano che non è né grazie a noi stessi, né grazie alle forme di vita vegetativa e sensitiva, inferiori a noi, che noi possiamo giungere all’apprensione in atto della sapienza, che è una luce viva ed è la quiete gloriosa a cui aspira il desiderio del nostro spirito22; possiamo giungere all’apprensione in atto della sapienza solo grazie al Padre e datore delle forme23, soltanto al quale spetta di portare a compimento il nostro intelletto. L’Apostolo toglie forza anche agli errori di quegli altri che, accantonato il Padre dei lumi, chiesero aiuto a Minerva, ad Apollo, a Giove e agli altri dèi 24; infatti, dal momento che tutti i gentili sostengono che creatore è solamente l’unico infinito dio degli dèi25, l’Apostolo dimostra che a lui soltanto bisogna chiedere ogni dono che conferisce la perfezione, non a questi altri, che pure sono stati deificati per i loro poteri 26. Coloro che da se stessi non hanno nulla che non abbiano ricevuto dal Padre di tutte le cose, infatti, non hanno nemmeno la capacità di donare, in quanto non hanno nulla che sia proprio27. Ogni dono, infatti, qualunque sia il ministro per la mediazione del quale viene partecipato, è del Padre, cui appartiene tutto ciò che è, ed è dal padre che necessariamente discende. Tutti nostri «intercessori», che conseguirono il possesso della sapienza, chiedono che il lume venga donato dal Padre dei lumi. Non sono loro che donano, bensì soltanto colui che è datore e dono. Questo mi sembra che voglia dire l’Apostolo, il quale ci incita ad una preghiera costante, animata da una fede saldissima, priva di ogni esitazione, con la certezza di conseguire quanto speriamo, poiché il Padre nostro «dà con abbondanza e senza rinfacciare»28. Questo è quanto avevo da dire riguardo al pensiero dell’Apostolo. II
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Possiamo ora ammirare di più la luce meravigliosa che si cela nelle parole dell’Apostolo; per renderla in qualche modo manifesta cercherò di spiegare il vero significato delle sue parole, seguendone l’andamento. L’Apostolo, infatti, dice: «ogni dono ottimo», ecc. Sembra, pertanto, che ogni creatura sia, in un certo modo, Dio. Soltanto Dio, infatti, è massimamente buono, ossia ottimo29. Se ciò che viene donato in modo ottimo è la creatura, in quanto ogni cre-
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atura est bona valde, videtur deus datus esse. Nihil enim dare potest, quod potentiae suae non subicitur. Oportet enim in potentia datoris id esse quod datur. In potentia autem boni bonum est. Sed optimum non est nisi unum, simplex, impartibile, quia optimum. Non potest igitur dare nisi se ipsum. Optimum est sui ipsius diffusivum, sed non partialiter, cum optimum non possit esse nisi optimum. Est enim omne id quod esse potest. Quare suum esse est sua optimitas ac aeternitas. Communicat igitur se indiminute. Videtur igitur quod idem ipsum sit deus et creatura, secundum modum datoris deus, secundum modum dati creatura. Non erit igitur nisi unum, quod secundum modi diversitatem varia sortitur nomina. Erit igitur id ipsum aeternum secundum modum datoris et temporale secundum modum dati eritque id ipsum factor et factum, et ita de reliquis. 98 Indubie hic dicendi modus praecisione caret, sed intelligentiam veritatis inquiramus. Aiunt philosophi formam esse, quae dat esse rei. Hoc dictum praecisione caret. Nam non est res, cui forma det esse, cum nihil sit nisi per formam. Non est igitur res a forma esse capiens. Esset enim, antequam esset. Sed forma dat esse rei, hoc est: forma est ipsum esse in omni re quae est, ut esse datum rei sit forma ipsa dans esse. Deus autem est absoluta essendi forma, et hoc est apostolicum documentum hoc loco, quoniam omne esse omnium est datum a patre. Forma autem dat esse. Deus igitur est universalis essendi forma, quia dat omnibus esse. Sed quia forma dat esse rei cuicumque particulari, hoc est dicere, forma est ipsum esse rei, hinc deus, qui dat ipsum esse, recte dator formarum a plerisque nominatur. Non est igitur deus forma terrae, aquae, aëris aut aetheris aut alterius cuiuscumque, sed formae terrae aut aëris for-
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atura è molto buona30, allora sembra che ciò che viene donato sia Dio stesso31. Dio non può dare nulla che non soggiaccia alla sua potenza. È necessario, infatti, che ciò che viene dato sia [contenuto] nella potenza di colui che dà32. Ora, nella potenza del bene c’è il bene. Ma ciò che è ottimo, in quanto ottimo, non è che uno, semplice e indivisibile. Non può pertanto donare se non se stesso33. L’ottimo è diffusivo di se stesso, ma non parzialmente, dal momento che l’ottimo non può essere, se non ottimo34. Esso, infatti, è tutto ciò che può essere35. Per questo motivo, la sua natura ottima e la sua eternità sono il suo stesso essere. Esso, dunque, si comunica senza alcuna diminuzione. Sembra pertanto che Dio e la creatura siano la stessa realtà, la quale è Dio secondo il modo di colui che dà, ed è creatura secondo il modo di ciò che è dato. Non vi sarà quindi che un’unica realtà, la quale riceve nomi diversi a seconda della diversità del modo. La stessa cosa sarà dunque eterna, secondo il modo di colui che dà, e temporale, secondo il modo di ciò che dato, e sarà fattore e fatto, e così via36. Indubbiamente, questo modo di parlare è privo di precisione; cerchiamo invece di comprendere quale sia a questo proposito la verità. I filosofi dicono che è la forma a dare l’essere alla cosa37. Questo assunto è privo di precisione. Infatti, non vi è [prima] una cosa a cui la forma dia [poi] l’essere, in quanto non esiste nulla, se non in virtù della forma. Non vi è pertanto una cosa [già] esistente che prenda [poi] l’essere dalla forma. Se così fosse, essa sarebbe prima di essere. Che la forma dia l’essere alla cosa significa piuttosto questo: la forma è l’essere stesso in ogni cosa che è, in modo tale che l’essere che è dato alla cosa è la forma stessa che dà l’essere38. Dio, tuttavia, è la forma assoluta dell’essere39, e questo è l’insegnamento dell’Apostolo nel passo che stiamo commentando, ossia che tutto l’essere di tutte le cose è donato dal Padre. La forma dà l’essere. Dio, pertanto, è la forma universale dell’essere, poiché dà l’essere a tutte le cose40. Ma poiché la forma dà l’essere a qualsiasi cosa particolare, vale a dire la forma è lo stesso essere della cosa, per questo Dio, che dà l’essere stesso, viene giustamente chiamato dalla maggior parte degli autori «datore delle forme». Dio non è, dunque, la forma della terra, dell’acqua, dell’aria o dell’etere, o di qualsiasi altra cosa, bensì è la forma assoluta della
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ma absoluta. Non est igitur terra deus aut aliquid aliud, sed est terra, et aër est aër, et aether aether, et homo homo, quodlibet per formam suam. Nam forma cuiuslibet est descensus a forma universali, ut forma terrae sit forma sua et non alterius, et ita de reliquis. 99 Mirabili subtilitate hoc nobis apostolus exprimit per hoc quod ait: «datum optimum descendere», quasi diceret: dator formarum non aliud a se ipso donat, sed donum suum est optimum atque est ipsa sua optimitas absoluta atque universaliter maxima, sed non potest recipi ut datur, quia receptio dati fit descensive. Recipitur igitur infinitum finite et universale particulariter et absolutum contracte. Talis autem receptio, cum sit cadens a veritate se communicantis, ad similitudinem et imaginem vergit, ut non sit veritas datoris sed similitudo. Nam non potest in alio nisi aliter recipi. Facies enim tua aequalitatem superficialis dispositionis de se multiplicans recipitur in speculo varie, secundum quod speculum, quod est receptio, varium fuerit, in uno quidem clarius, quia specularis receptio clarior, in alio obscurius, sed in nullo umquam uti est facies ipsa. In alio enim aliter recipi necesse erit. Solum est speculum unum sine macula, scilicet deus ipse, in quo recipitur uti est, quia non est illud speculum aliud ab aliquo quod est, sed est id ipsum quod est in omni eo quod est, quia est universalis forma essendi. 100 Varia paradigmata nos ad huius iam dicti apprehensionem adiuvant. Nam lumen est forma quaedam universalis omnis esse visibilis, scilicet omnis coloris. Color enim est contracta receptio lucis, et non permiscetur lux rebus, sed recipitur descensive secundum gra-
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forma della terra, o dell’aria. La terra, pertanto, non è Dio o qualsiasi altra cosa, bensì è terra, e l’aria è aria, e l’etere etere e l’uomo uomo, ogni cosa in virtù della propria forma. La forma di ciascuna cosa, infatti, discende dalla forma universale, in modo tale che la forma della terra sia la forma propria della terra e non di un’altra cosa, e così via41. L’Apostolo ci rende noto tutto ciò con straordinaria acutezza attraverso queste parole: «Il dono ottimo discende»42. Ed è come se dicesse: il datore delle forme non dona altro che se stesso; il suo dono è ottimo ed è la sua stessa natura ottima assoluta e massima sotto ogni aspetto, la quale, tuttavia, non può essere ricevuta così come viene donata, poiché la ricezione di ciò che è donato avviene in modo discensivo. L’infinito, pertanto, viene ricevuto in modo finito, l’universale in modo particolare e l’assoluto in modo contratto43. Tale ricezione, tuttavia, poiché si allontana dalla verità di colui che comunica se stesso, si volge verso la somiglianza e l’immagine, in modo tale che essa non è la verità di colui che dona, ma è una sua somiglianza. Una cosa, infatti, non può essere ricevuta in qualcosa di altro [da essa] se non in un altro modo [rispetto a come essa è in se stessa]. Ad esempio, il tuo volto, quando in uno specchio riproduce da se stesso un’immagine che ha i suoi stessi lineamenti, viene ricevuto in maniera varia, a seconda della varietà degli specchi che lo ricevono: in uno specchio in modo più chiaro, perché la ricezione dello specchio è più chiara, in un altro in maniera più oscura, ma in nessuno specchio viene mai ricevuto così come esso è in se stesso. Sarà necessario, infatti, che in ciò che è altro esso venga ricevuto in un altro modo [rispetto a come è in se stesso]. Vi è un solo specchio che è senza macchia, vale a dire Dio stesso, nel quale il tuo volto viene ricevuto così com’è, poiché quello specchio non è altro rispetto a nessuna cosa che esiste, ma costituisce l’essere stesso in ogni cosa che esiste, in quanto è la forma universale dell’essere44. Molti esempi ci aiutano a comprendere quanto abbiamo appena detto. La luce, infatti, è una certa forma universale propria di tutto ciò che è visibile, ossia di ogni colore45. Il colore, infatti, è una ricezione contratta della luce, e la luce non si mescola alle cose, ma viene ricevuta in modo discensivo, secondo un qualche grado di di-
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dum aliquem descensionis. Terminatio lucis in perspicuo est color, secundum unum modum rubeus, secundum alium blavius, et omne esse coloris datur per lucem descendentem, ut lux sit omne id quod est in omnibus coloribus, cuius natura est se ipsam puriter diffundere ex bonitate sua. Et quamvis se ipsam puriter communicando donet, tamen ex varia receptione descensiva eius varietas colorum exsurgit. Nec est color lux, sed est lux sic recepta contracte tali quadam similitudine, ut se habet forma lucis ad formam colorum. Sic deus, lux infinita, ut forma universalis essendi se habet ad formas creaturarum. Sic forma substantialis Socratis est forma una, simplex, impartibilis, tota in toto et qualibet parte, per quam est Socrates et omne quod est Socratis. Quod enim manus Socratis est ipsius Socratis et non alterius, a forma habet Socratis. Sed quia manus ipsa recipit formam Socratis non in ea simplicitate et universalitate, qua est forma Socratis, sed in descensu particulari, scilicet ut membrum tale, non est manus Socratis Socrates. Ita de ceteris membris. 101 Anima nostra est vis discretiva universalis ad discernendum et est una et simplex, tota in toto et in omnibus organis, ut omnis vis discretiva in oculo sit data ab anima, quae se ipsam visui donat. Sed oculus non recipit animam nisi cum descensu, quia non recipit ipsam ut virtutem universalem discretivam. Propter hoc non discernit inter audibilia et gustabilia oculus, sed recipit contracte vim universalem, ut visibilia discernat. Non est oculus videns seu discernens anima, licet omne id, quod in ipso discernit, sit datum animae. Ita de auditu et ceteris. Forma substantialis universaliter dat esse substantiale. Hoc esse descensive recipitur, scilicet quantificative, qualificative, respective, active, passive, situaliter, habitualiter, localiter et temporaliter. Unitas enim simplex novem mo-
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scesa. Il colore è la terminazione della luce in un corpo trasparente46: quando vi termina in un modo abbiamo il rosso, quando vi termina in un altro modo abbiamo il blu, e tutto l’essere del colore è costituito da questa discesa della luce, per cui, in tutti i colori, la luce è ciò che ogni colore è47; la natura della luce, infatti, è di diffondere se stessa con purezza, in virtù della sua bontà. E sebbene doni se stessa con purezza, dai vari modi in cui essa viene ricevuta nasce la varietà dei colori. Il colore non è la luce, ma è luce ricevuta in maniera contratta. Mediante una tale paragone, [possiamo vedere che] come la forma della luce si rapporta alla forma dei colori, così Dio, che è luce infinita, si rapporta, in quanto forma universale dell’essere, alle forme delle creature. Così, la forma sostanziale di Socrate è una forma unica, semplice, indivisibile, che è presente come un tutto in tutto Socrate e in ciascuna delle sue parti48; è in virtù di tale forma che Socrate esiste ed è tutto ciò che egli è. Infatti, che la mano di Socrate sia di Socrate stesso e non di un’altra persona dipende dalla forma di Socrate. Ma, poiché la mano riceve la forma di Socrate non in quella semplicità e universalità nella quale consiste la forma di Socrate, bensì in una discesa particolare, vale a dire come quel determinato membro, la mano di Socrate non è Socrate. Lo stesso si dica riguardo alle altre membra. La nostra anima è una forza discernente universale, che ha la funzione di distinguere; essa è unica e semplice, presente come un tutto in tutto il corpo e in tutti gli organi, per cui la capacità discernente che è propria dell’occhio gli è data interamente dall’anima, che dona se stessa alla vista. L’occhio, tuttavia, non riceve l’anima se non in modo discensivo, perché non la riceve come una forza discernente universale. Per questo, l’occhio non distingue circa le cose che sono proprie dell’udito e del gusto, ma riceve la forza universale in modo contratto, in maniera tale da poter distinguere le cose che sono proprie della vista. E l’occhio che vede o distingue non è l’anima, sebbene tutto ciò che in esso distingue gli sia dato dall’anima. Lo stesso vale per l’udito e per gli altri sensi49. La forma sostanziale dà l’essere sostanziale in maniera universale. Questo essere è ricevuto in modo discensivo, vale a dire secondo la quantità, la qualità, la relazione, l’azione, la passione, la situazione, il possesso, il luogo e il tempo50. L’unità semplice, infat-
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dis recipitur, ut sic denario omnia numerentur. Sed quia per quantitatem non pure substantialiter sed descensive et contractione tali recipitur, non est quantitas substantia, licet omne esse quantitatis sit datum a substantia, ut omne id, quod est in quantitate, non sit aliud a substantia, et quantitas sit substantiae quantitas. Ita de ceteris accidentibus. 102 Ex his se noster poterit iuvare intellectus et apostolicam lectionem subintrare aliquantulum, ut videre queat quomodo deus est universalis essendi forma omnium formarum, quam formae specificae in descensu non universaliter et absolute, uti ipsa est et se dat, recipiunt sed contractione specifica. Angeleitas enim secundum descensum illum, qui angeleitas dicitur, universalem essendi formam recipit. Humanitas secundum illum descensum, qui humanitas dicitur, universalem essendi formam contrahit. Leoninitas secundum illum descensum absolutam formam participat. Et quamvis sic deus sit omnia in omnibus, non est tamen humanitas deus, licet posset sano intellectu Hermetis Trismegisti dictum admitti deum omnium rerum nominibus et res omnes dei nomine nominari, sic quod homo nominari possit deus humanatus, et hic mundus deus sensibilis, ut et Plato voluit. 103 Et quoniam ipse est finis operis sui, qui propter semet ipsum omnia operatus est, se dedit mundum sensibilem, ut sensibilis mundus sit propter ipsum, ut receptio ipsius descensiva, quae in sensibilem gradum divergit, bonitatem ipsius sensibiliter attingat, et luceat lux infinita sensibilibus sensibiliter, sic viventibus vitaliter, rationabilibus rationabiliter, intelligentibus intellectualiter. Et haec sic de hoc dicta sint.
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ti, è ricevuta in nove modi, cosicché con il dieci vengano numerate tutte le cose. Ma poiché, attraverso la quantità, la forma sostanziale viene ricevuta non in maniera pura e sostanziale, ma in maniera discensiva e con una certa contrazione, la quantità non è sostanza, sebbene tutto l’essere della quantità sia dato dalla sostanza; per questo motivo, tutto ciò che è nella quantità non è altro dalla sostanza, e la quantità è quantità della sostanza. Lo stesso vale per gli altri accidenti 51. Di questi esempi il nostro intelletto si potrà giovare per penetrare un poco nel significato del passo apostolico e per riuscire così a scorgere come Dio sia la forma universale dell’essere di tutte le forme52, che le forme specifiche ricevono non in maniera universale e assoluta, ossia come quella forma è in se stessa e come essa si dona, bensì in modo discensivo, ossia in una contrazione specifica. La natura angelica, ad esempio, riceve la forma universale dell’essere secondo quel modo discensivo che è detto natura angelica. L’umanità contrae la forma universale dell’essere secondo quel modo discensivo che è detto umanità. La natura leonina partecipa della forma assoluta secondo questo suo modo discensivo [che è detto natura leonina]53. E sebbene in tal modo Dio sia tutto in tutte le cose54, l’umanità, tuttavia, non è Dio, per quanto, se lo si intende bene, si possa accettare il detto di Ermete Trismegisto, secondo il quale Dio viene nominato con i nomi di tutte le cose e tutte le cose vengono nominate con il nome di Dio55, in modo tale che l’uomo può essere chiamato un «Dio umanato»56 e questo mondo un «Dio sensibile»57, come volle anche Platone. E dal momento che Dio, che ha fatto tutte le cose in vista di se stesso, è il fine della sua opera, egli ha dato se medesimo quale mondo sensibile, in modo tale che il mondo sensibile sia in vista di lui, che la sua ricezione discensiva, che si estende fino al grado sensibile, possa cogliere la bontà divina in modo sensibile, e la luce infinita possa risplendere per gli esseri sensibili in modo sensibile, per gli esseri viventi in modo conforme alla vita, per gli esseri razionali in modo razionale, per gli esseri intelligenti in modo intellettuale. Queste sono le cose che intendevo dire a proposito del nostro tema.
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Amplius adverto, quam caute apostolus exprimit omnem creaturam in datore aeternam atque ipsam aeternitatem esse. Omnipotentia enim datoris coincidit cum ipsa aeternitate, semper enim omnipotens potuit dare. Fuit igitur omne datum in aeternitate apud patrem, a quo, dum recipitur, descendit. Semper enim et aeternaliter dator dedit, sed non recipiebatur nisi in descensu ab aeternitate. Descensus autem talis est contractio aeternitatis in durationem initium habentem. 105 Hoc facile capitur, si consideratur quomodo ab aeterna ratione descendit pluralitas rerum. Sed pluralitas numerus est. Et hoc ipsum est creatoris creare, quod est rationis ratiocinari seu numerare. Numerus vero a ratione descendens principium habet, scilicet unitatem. Sed non habet finem, cum non sit dabilis numerus, ultra quem alius dabilis non exsistat. Numerus igitur est aeternitas principiata, et absoluta ratio aeternitas absoluta. Ratio enim causa est, et absoluta ratio se negat principiatam seu causatam, cum sit causa absoluta. Descendit igitur creatura de aeternitate, in qua semper fuit. 106 Sed quia data aeternitas non fuit nisi contracte recepta, hinc aeternitas sine principio principiative recepta exsistit. Mundus igitur non habet principium, ut in ipso aeternitas est omne esse eius. Sed quia non est recepta aeternitas nisi principiative in descensu mundi, tunc mundus non est aeternitas absoluta sed aeternitas principiative contracta. Aeternitas igitur mundi principiata est et aeternus mundus factus est, neque est alius mundus, qui apud patrem est aeternus, et alius, qui per descensum a patre est factus, sed idem ipse mundus sine principio et principiative per descensum in esse proprio suo receptus, qui et apud patrem non est transmutabilis sed perpetua stabilitate atque in summa claritate absque omni vicissitudine obumbrationis idem ipse qui et pater persistens. Sed ut in descensu a patre in esse proprio receptus est, transmutabi-
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Osserva, inoltre, con quanta cautela l’Apostolo dica che ogni creatura è eterna nel datore delle forme ed è la stessa eternità. L’onnipotenza del datore coincide, infatti, con la stessa eternità: da sempre l’onnipotente ha potuto dare58. Ogni dono, pertanto, è stato nell’eternità presso il Padre, dal quale discende quando viene ricevuto. Il datore ha dato sempre ed eternamente, ma il dato è stato ricevuto dall’eternità solo in modo discensivo. E tale discesa è una contrazione dell’eternità in quella durata che ha un inizio59. Ciò si comprende facilmente, se si considera che dalla ragione eterna discende la pluralità delle cose. Ma la pluralità è numero. E l’atto del creare è, per il creatore, quello che per la ragione è il calcolare o il numerare60. Il numero, che discende dalla ragione, ha un principio, ossia l’unità. Non ha però una fine, giacché non si può dare un numero oltre il quale non se ne possa dare un altro ancora. Il numero, quindi, è l’eternità principiata, e la ragione assoluta è l’eternità assoluta. La ragione, infatti, è causa, e la ragione assoluta nega di aver un principio o una causa, essendo causa assoluta. La creatura discende perciò dall’eternità, nella quale è sempre stata61. Ma poiché l’eternità donata non è stata ricevuta, se non in modo contratto, ne segue che l’eternità, che è senza principio, viene ricevuta in modo da avere un principio. Il mondo, pertanto, non ha un principio, poiché in esso l’eternità costituisce tutto il suo essere. Ma poiché, nella discesa del mondo, l’eternità non viene ricevuta se non in modo da avere un principio, allora il mondo non è l’eternità assoluta, bensì l’eternità contratta in modo da avere un principio. L’eternità del mondo, quindi, ha un principio, e il mondo eterno è stato creato, e non vi è un mondo che è eterno presso il Padre e un altro che è stato creato dal Padre con moto discensivo; si tratta piuttosto di uno stesso e identico mondo, che è senza principio [presso il Padre] e che, attraverso una discesa, viene ricevuto nell’essere suo proprio in modo da avere un principio62. Presso il Padre esso non è mutevole, ma sussiste sempre in una perpetua stabilità e in una perfetta chiarezza, senza alcuna vicenda di adombramento, come identico al Padre stesso. Ma, in quanto mondo che è stato ricevuto nell’essere suo proprio in un movimento di-
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lis est in vicissitudine obumbrationis instabiliter fluctuans, quasi mundus sit deus transmutabilis in vicissitudine obumbrationis, et mundus intransmutabilis et absque omni vicissitudine obumbrationis sit deus aeternus. 107 Hae sunt intelligibiles locutiones absque omnimoda praecisione, licet in modo communicandi intelligentiam, quae de deo et mundo concipitur, sint ad praecisionem accedentes. Praecisius tamen loquitur de ineffabili deo, qui ipsum super omnem affirmationem et negationem, super omnem positionem et abnegationem, super omnem oppositionem, transmutationem et intransmutationem inaccessibilem lucem intelligentiae inhabitare affirmat, ut de hoc alibi diffusius. Et quoniam sic loqui de deo ineffabili est loqui loquela, quae est super omnem loquelam et silentium, ubi silere est loqui, non est haec loquela de hoc mundo, sed est regni aeterni. Hinc ut in hoc mundo intelligentias communicamus, tunc apostolus deo patri convenire negat transmutationem et vicissitudinem obumbrationis, quia est aeternum lumen, in quo non sunt tenebrae ullae. 108 IV.
Nunc restat, ut ponderemus apostolicum dictum, ubi inquit deum esse patrem luminum. Non ait ipsum lumen esse sed patrem luminum nec dicit ipsum tenebram esse, quem patrem luminum affirmat. Sed ipse est fons luminum. Nos ea, quae ad nostram notitiam perveniunt, esse affirmamus; quae vero nullo modo nobis apparent, ea esse non apprehendimus. Sunt igitur omnia apparitiones sive lumina quaedam. Sed quia unus est pater et fons luminum, tunc omnia sunt apparitiones unius dei, qui, etsi sit unus, non potest tamen nisi in varietate apparere. Quomodo enim infinita virtus aliter quam in varietate apparere posset? 109 Habet doctor intellectum adeptum potentem et practicum, non potest ille apparere nisi in varietate multarum rationum. Descendunt igitur varia lumina rationalia syllogistica ab intellectu tali, qui
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scensivo dal Padre, esso è mutevole, fluttuante e instabile nella vicenda dell’adombramento, come se il mondo fosse un dio mutevole nell’alternanza dell’ombra e il mondo immutabile e privo di ogni vicenda di adombramento fosse il Dio eterno63. Queste sono espressioni comprensibili, che sono lontane da una piena precisione, e che, tuttavia, si avvicinano alla precisione nel loro modo di comunicare quanto possiamo concepire di Dio e del mondo. Del Dio ineffabile, tuttavia, parla con più precisione chi afferma che egli abita in una luce inaccessibile all’intelligenza, al di sopra di ogni affermazione e negazione, al di sopra di ogni posizione e rimozione, al di sopra di ogni opposizione, mutevolezza e immutabilità64, come abbiamo già detto più diffusamente altrove65. E poiché parlare così del Dio ineffabile significa parlarne con una parola che è al di sopra di ogni parola e silenzio, dove tacere è parlare, tale parola non è di questo mondo, bensì del regno eterno66. Per questo, conformemente al modo in cui comunichiamo le nostre conoscenze in questo mondo, l’Apostolo nega che a Dio padre convengano la mutevolezza e l’alternanza dell’ombra, poiché egli è un lume eterno in cui non vi è tenebra alcuna67. IV
Ci resta ora da esaminare il significato delle parole dell’Apostolo in cui sostiene che Dio è il Padre dei lumi. Non dice che Dio stesso è lume, bensì che è Padre dei lumi, né dice che è tenebra colui che egli afferma essere il Padre dei lumi. Ma egli è la fonte dei lumi. Noi affermiamo che esistono le cose che giungono alla nostra conoscenza; delle cose, invece, che non ci si manifestano in nessun modo non riusciamo ad apprendere l’esistenza. Tutte le cose sono, dunque, manifestazioni o, in qualche modo, lumi. Ma poiché uno solo è il Padre e la fonte dei lumi, tutte le cose sono manifestazioni dell’unico Dio, il quale, sebbene sia uno, non può tuttavia manifestarsi che nella varietà. In che modo potrebbe, infatti, manifestarsi una potenza infinita, se non nella varietà68? Il maestro ha un intelletto acquisito, potente e pratico, e questo intelletto non può manifestarsi che nella varietà di molti ragionamenti69. Diversi lumi, razionali, sillogistici, discendono pertanto da
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est pater luminum, ut sic se manifestet. Est unitas, simplex principium numeri, maximae et incomprehensibilis virtutis, cuius virtutis apparitio non nisi in varietate numerorum ab ea virtute descendentium ostenditur. Est puncti simplicissimi virtus incomprehensibilis, quae solum in quantitatibus ab ipso simplicissimo puncto descendentibus quasi luminibus variis notificatur. Est praesentialitas simplicissima virtus incomprehensibilis, quae solum in temporali successione deprehendi potest. Omnia autem secundum numerum in unitate, omnia secundum quantitatem in puncto, omnia secundum temporalem successionem in nunc praesentiae, et omnia secundum omne id, quod sunt aut erant aut esse possunt, in infinita virtute omnipotentiae. Absolute enim deus noster est infinita virtus penitus in actu, quae dum ex natura bonitatis se vult manifestare, facit a se varia lumina, quae theophaniae dicuntur, descendere. In quibus omnibus luminibus notas facit divitias luminis gloriae eius. 110 Sed haec generatio, quae sic «voluntarie» fit non habens causam nisi bonitatis eius, fit in «verbo veritatis». Verbum veritatis ratio seu ars est absoluta seu ratio, quae lumen dici potest omnis rationis. In hoc lumine, quod et verbum et filius primogenitus et suprema apparitio patris, omnes apparitiones descendentes pater luminum «voluntarie genuit», ut in summa virtute et unitionis fortitudine apparitionum complicarentur omnia apparentialia lumina, quasi in abstracta filiatione omnis filiatio qualitercumque explicabilis et in universalissima arte omne per artem quantumcumque explicabile et in absoluta ratione seu discretione omne lumen qualitercumque discernens. 111 Genuit autem nos in verbo illo aeternae artis et apparitionis, ut, dum lumen ostensionis eius, quod est verbum infinitum, in descensu recipimus, modo quo huiusmodi in descensu a nobis recipi potest, «simus initium aliquod creaturae eius». Receptio igitur
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un tale intelletto, il quale è il padre di questi lumi e che così in essi si manifesta. L’unità, che è il principio semplice del numero, è dotata di una forza massima e incomprensibile, ma la manifestazione della sua forza non si rivela se non nella varietà dei numeri che discendono da essa. La forza del punto semplicissimo è incomprensibile e si fa conoscere solo nelle quantità che, come se fossero vari lumi, discendono dal punto semplicissimo. L’istante semplicissimo è una forza incomprensibile, che può essere appresa soltanto nella successione temporale. Per quanto riguarda il numero, tutte le cose sono nell’unità, per quanto riguarda la quantità sono nel punto, per quanto riguarda la successione temporale sono nell’istante70, e per quanto riguarda tutto ciò che sono, erano o possono essere, tutte le cose sono nella forza infinita dell’onnipotenza. Il nostro Dio, infatti, è, in senso assoluto, forza infinita del tutto in atto, la quale, volendosi manifestare, data la bontà della sua natura, fa discendere da sé vari lumi, che vengono chiamati «teofanie». Ed in tutti questi lumi Dio fa conoscere le ricchezze del lume della sua gloria. Ma questa generazione, che avviene «volontariamente», in quanto ha non altra causa se non la bontà di Dio, avviene «nel Verbo della verità». Il Verbo della verità è la ragione o arte assoluta71, ossia è quella ragione che può essere detta il lume di ogni ragione. In questo lume, che è anche il Verbo, il Figlio primogenito e la manifestazione suprema del Padre, il Padre dei lumi «ha generato volontariamente»72 tutte le manifestazioni che discendono da lui, in modo tale che tutti i lumi che si manifestano fossero complicati nella potenza somma e nella forza in cui risultano unite tutte le manifestazioni, così come nel genere della filiazione risulta complicata ogni filiazione, in qualsiasi modo essa possa essere esplicata, e nell’arte più universale risulta complicato tutto ciò che può essere esplicato attraverso l’arte, e come nella ragione o discernimento assoluto risulta complicato ogni lume che è in grado di distinguere73. In quel Verbo, che è l’arte eterna e l’eterna manifestazione del Padre, Dio ha generato anche noi, in modo tale che, quando riceviamo in modo discensivo il lume della sua manifestazione, ossia il Verbo infinito, nel modo in cui può essere ricevuto da noi attraverso una tale discesa, «siamo come un inizio della sua creazione»74. La ricezione in modo discensivo della manifestazione del Padre nel
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ostensionis patris in verbo in descensu praestat initium creaturae. Per hoc enim sumus «initium aliquod creaturae eius», quia verbum veritatis, in quo nos genuit, nostro modo recipimus. Satis supra ostensum est receptionem in descensu facere, ut aeternale lumen atque universale fiat initium creaturae particularis, ut sic oriatur creatura habens primitiale aliquod initium in verbo veritatis. Sumus igitur nos genus dei, quia ipse nos genuit. Sed in uno filio, qui est verbum veritatis, nos omnes genuit, in quo nos fecit «initium aliquod» habere «creaturae eius». Sicut in humanitatis verbo seu ratione aut arte omnes homines sic generati sunt, ut recipiant per generationem humanitatis quod sint initium aliquod essendi homines particulares, sic in generatione universalis veritatis omne id quod vere est ita genitum est, ut sit initium aliquod creaturae generantis. Unde omnia, quaecumque sunt, in tantum sunt, in quantum vera sunt. Falsum enim non est. Quare in aeterna generatione veritatis ipsa aeternaliter genita sunt et ut sic sunt ipsa aeterna virtus veritatis. A qua ipsa recipiunt, dum apparent in successione temporali, quod sint «initium aliquod creaturae» generantis patris; ut arboris ramus, quem nunc initium cepisse video in arbore, prioriter fuit in semine genitus non ramus sed semen. In veritate enim rationis seminis fuit veritas rami. Veritas igitur seminis est veritas rami. Veritas igitur virtutis initium capit essendi aliquod, puta ramum, qui est quasi creatura seminis, ex cuius virtute prodit. Veritas igitur rami, quae in veritate seminis semper cum semine fuit genita, nunc apparet ostendens sua apparitione virtutem seminis patris sui. Sic plane videmus quomodo filius in divinis est ostensio vera patris secundum omnipotentiam absolutam et lumen infinitum. Sed omnis creatura est ostensio patris participans ostensio-
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Verbo dà dunque inizio alla creatura. Siamo, infatti, «come un inizio della sua creazione», perché abbiamo ricevuto, conformemente alla nostra condizione, il Verbo della verità nel quale il Padre ci ha generato. In precedenza, abbiamo mostrato a sufficienza che la ricezione in modo discensivo fa sì che il lume eterno e universale sia l’inizio di una creatura particolare perché sorga, così, una creatura la quale ha un primo inizio nel Verbo della verità. Siamo dunque genitura di Dio, poiché Dio stesso ci ha generato. Ma ci ha generato tutti nell’unico Figlio, che è il Verbo di verità, nel quale ha fatto sì che noi avessimo «un inizio della sua creazione». Come nel Verbo, ossia nella ragione o arte dell’umanità, sono stati generati tutti gli uomini, in modo tale che essi ricevano, attraverso la generazione dell’umanità, la capacità di essere un inizio dell’esistenza degli uomini particolari, così, nella generazione della verità universale, è stato generato tutto ciò che veramente è, in modo tale da essere un certo inizio della creazione di colui che genera. Tutte le cose, di conseguenza, che esistono in tanto sono, in quanto sono vere. Il falso, infatti, non è. Nella stessa generazione eterna della verità, perciò, sono state generate eternamente tutte le cose, le quali costituiscono così la stessa forza eterna della verità. Da essa ricevono, quando si manifestano nella successione temporale, il fatto di essere «come un inizio della creazione» del Padre che genera; allo stesso modo, il ramo di un albero, che ora vedo avere avuto un inizio nell’albero, è stato generato prima nel seme, non come ramo, ma come seme. La verità del ramo, infatti, era presente nella verità costituita dalla ragione del seme. La verità del seme, pertanto, è la verità del ramo. La verità della forza del seme, quindi, contiene la possibilità di iniziare ad essere una certa cosa, ad esempio un ramo, il quale è come una creatura del seme, dalla cui forza scaturisce. La verità del ramo, pertanto, che è stata da sempre nella verità del seme, generata insieme con il seme stesso, ora si manifesta [nel ramo che vedo], mostrando così, con il suo apparire, la forza del seme, suo padre75. Riusciamo così a vedere chiaramente, per quel che concerne la divinità, come il Figlio sia la manifestazione vera del Padre, conformemente alla sua onnipotenza assoluta e al suo lume infinito. Ma ogni creatura è una manifestazione del Padre che partecipa, in modo vario e contratto, della manifestazione
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nem filii varie et contracte; et aliae creaturae obscurius, aliae clarius ostendunt eum secundum varietatem theophaniarum seu apparitionum dei. 112 V.
Adhuc unum non omittendum subiungam de ipsis illuminationum donis. Nam dona ipsa varia sunt unius divini perficientis spiritus. Deus enim, qui est ipse purissimus actus, est et infinita perfectio. Non capitur in descensu uti est, sed potentialiter. Non enim capitur in descensu generationis perfectio hominis a patre, sed homo in potentia in semine patris, neque arbor recipitur in fructu descendente ab ea, sed arbor in potentia in semine. Sicut igitur pater in «verbo veritatis» generat omnia, ita in spiritu procedente a patre et filio perficiuntur cuncta. Replet enim spiritus, hoc est ad perfectum deducit, orbem terrarum et omnia, etiam quae vocis scientiam habent. Omnia sunt in patre paternaliter, in filio omnia filialiter, in spiritu sancto omnia perfectionaliter. In patre habent omnia essentiam, in filio potentiam, in spiritu sancto operationem. Deus pater est «omnia in omnibus», deus filius potest omnia in omnibus, deus spiritus «operatur omnia in omnibus». 113 Ab esse autem et posse procedit operari. Operatur autem spiritus perfectionem ipsius esse in entibus, perfectionem vitae in viventibus, perfectionem notitiae in intelligentibus. Haec omnia operatur unus spiritus, qui est deus benedictus, ut omnis creatura per perfectionem propinquius ascendat, quantum naturae suae patitur condicio, ad deificationem, hoc est ad quietis terminum. Quietatur autem esse umbrosum et corporeum in vitali, vitale in intellectuali, intellectuale in veritate, quae deus est, ut sic omnia entia corporea per medium eorum, quae vivunt, et illa per intellectualia refluant ad principium.
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del Figlio: alcune creature lo manifestano in maniera oscura, altre in maniera più luminosa, conformemente alla varietà delle teofanie o delle manifestazioni di Dio76. V
Aggiungerò una sola cosa che non deve essere tralasciata riguardo ai doni dell’illuminazione. I diversi doni, infatti, provengono da un unico spirito divino che comunica la perfezione. Dio, che è atto purissimo, è anche infinita perfezione77. Ciò che viene ricevuto in un modo discensivo, tuttavia, non viene ricevuto così com’è, bensì in potenza. Ad esempio, nella discesa che avviene nella generazione umana, ciò che viene ricevuto dal padre non è un uomo compiuto, bensì l’uomo in potenza nel seme del padre, e nel frutto che discende dall’albero non viene ricevuto l’albero, bensì l’albero in potenza nel seme. Come il Padre genera tutte le cose nel «Verbo della verità», così tutte le cose vengono portate a compimento nello Spirito che procede dal Padre e dal Figlio. Lo Spirito, infatti, riempie, ossia conduce a perfezione, la terra e tutte le cose78, anche quelle che possiedono la scienza della parola. Tutte le cose sono nel Padre secondo il modo del Padre, nel Figlio secondo il modo del Figlio, nello Spirito Santo in modo perfetto. Nel Padre tutte le cose hanno la propria essenza, nel Figlio la potenza, nello Spirito Santo l’operazione79. Dio padre è «tutto in tutto»80, Dio figlio può tutto in tutto, Dio spirito santo «opera tutto in tutto»81. Dall’essere e dal potere, del resto, procede l’operare. E lo spirito opera la perfezione dell’essere negli enti, la perfezione della vita negli esseri viventi, la perfezione della conoscenza negli esseri intelligenti. Un solo spirito, che è Dio benedetto, opera tutte queste cose82, affinché ogni creatura, mediante la perfezione ricevuta, ascenda, per quanto lo consente la condizione della sua natura, alla deificazione83, ossia a quel termine finale in cui trova la sua quiete84. L’esser oscuro e materiale trova la sua quiete nell’essere vivente, l’essere vivente nell’essere intellettuale, l’essere intellettuale nella verità, che è Dio; in questo modo, tutti gli enti corporei ritornano al principio per mezzo degli esseri che vivono, gli esseri che vivono per mezzo degli esseri che intendono85.
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Intellectualia autem sunt, per quae inferiora fluunt a deo et refluunt ad ipsum. Unde est natura ipsa intellectualis secundum receptionem in descensu varie graduata, sicut in numero ipse simplex numeralis descensus denario completur. Denarius autem descensus est initium compositi numeri et finis simplicis et est altera unitas. Decem igitur sunt gradus intellectualis naturae, et primus abstractior atque clarior multum in actu apprehendendi deum, ultimus immersus umbrae corporeae, qui et humanus dicitur, minime in actu sed in virtuali potentia multum. 115 Et quoniam intellectualis noster spiritus non attingit quietem, nisi eum sua intellectuali natura apprehendat, ad quem apprehendendum esse recepit intellectuale, tunc ut de virtute potentiae suae ad actum pergere queat, spiritus perficiens sibi multa lumina praestat. Omnia enim quaecumque creata sunt, lumina quaedam sunt ad actuandum virtutem intellectualem, ut in lumine sic sibi donato ad fontem luminum pergat. Videt homo varias creaturas esse, et in ipsa varietate illuminatur, ut ad essentiale lumen creaturarum pergat. 116 Nam dum videt aliam creaturam sine vitali motu esse, aliam vivere, aliam ratiocinari, statim illuminatur essentiam absolutam creaturarum non sic esse aut vivere aut ratiocinari. Si enim vita foret de essentia creaturae, non vivens creatura non esset. Si ratiocinari foret de essentia creaturae, lapis aut arbor creatura non foret. Nihil igitur omnium, quae apprehenduntur in varietate creaturarum, de essentia esse intelligit. Cum igitur omnis creatura sit aliquid contracte, essentia omnium non est aliquid, sed nihil omnium incontracte. Sic vides varietatem formarum. Essentia igitur nihil talium est.
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Gli esseri intellettuali, infatti, sono quelli per mezzo dei quali le cose più basse fluiscono da Dio e a lui ritornano. La stessa natura intellettuale, di conseguenza, assume vari gradi a seconda di come è ricevuta nel moto di discesa86, come avviene nei numeri, nei quali la discesa [successione] numerica trova il suo compimento nel dieci87. Ma la discesa che [dall’uno] si compie nel dieci è l’inizio del numero composto e la fine del numero semplice, e costituisce una seconda unità. I gradi della natura intellettuale, pertanto, sono dieci: il primo, più astratto e luminoso, si trova nella condizione di cogliere Dio in atto; l’ultimo, immerso nell’ombra del corpo e che viene detto anche grado umano, è pochissimo in atto ed è molto in potenza88. Il nostro spirito intellettuale non raggiunge la quiete se, con la sua natura intellettuale, non arriva a conoscere Dio, in quanto è in vista di questa conoscenza che esso ha ricevuto la sua natura intellettuale. Per questo motivo, affinché possa passare dalla capacità, che è propria della sua potenza, all’atto, lo spirito [divino] perfettivo gli fornisce molti lumi. Tutte le cose create, infatti, sono come dei lumi, che hanno la funzione di far passare all’atto la potenza intellettuale, in modo tale che essa, per mezzo del lume che le è stato donato, si volga alla fonte dei lumi. L’uomo vede che le creature sono varie e proprio questa varietà lo illumina, spingendolo a volgersi a quel lume che costituisce l’essenza delle creature. Quando un uomo, infatti, vede che una creatura ha l’essere senza il moto vitale, che un’altra vive e un’altra ancora ragiona, egli è subito illuminato e comprende che l’essenza assoluta delle creature non può né essere, né vivere, né ragionare come tali creature. Se infatti la vita appartenesse all’essenza della creatura, ciò che non vive non sarebbe una creatura. Se il ragionare appartenesse all’essenza della creatura, la pietra o l’albero non sarebbero creature. L’uomo comprende, pertanto, che niente di ciò che viene appreso nella varietà delle creature appartiene all’essenza delle creature stesse. Dal momento che ogni creatura è qualcosa di contratto, l’essenza di tutte le cose non è un qualcosa, ma è il nulla di tutte le cose in modo non contratto89. Puoi osservare la stessa cosa a proposito della varietà delle forme. Di conseguenza, l’essenza [delle creature] non è nessuna di queste forme.
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Aliquae sunt creaturae magnae, aliae parvae, aliae superius, aliae inferius, aliquae fuerunt, aliquae erunt, aliquae hic, aliquae alibi, et ita de omni nominabili varietate. Non est igitur essentia aut quanta aut magna aut parva aut in loco superius vel inferius aut in tempore praeterito vel futuro. Et ita de reliquis. Vides res multas in elementativo genere, multas in vegetativo, multas in sensitivo genere convenire, et genera illa esse varia. Non est igitur essentia aliquid eorum. Multas vides species diversas sub generibus, ut in genere animalitatis speciem humanam, leoninam, equinam, et ita de ceteris. Non est igitur essentia generis animalitatis aliqua species omnium, sed nulla species eorum. 118 Vides homines varios, alium fuisse, alium fieri, alium iuvenem, alium senem, alium Almanum, alium Gallicum, alium masculum, alium femellam, alium magnum, alium parvum, alium caecum, alium videntem, alium album, alium nigrum, et ita de omnibus aliis, quia in omnibus, quae sub consideratione cadere possunt, est varietas. Non est igitur omne sensibile, visibile, tangibile, et sic de aliis, de essentia hominis. Humanitas igitur nihil eorum est, quae in quocumque homine possunt apprehendi. Sed humanitas est essentia simplicissima, quae genericam essentiam specifice recipit, in qua sunt ut in simplici virtute omnia illa, quae in varietate homi num individualiter participantur. Humanitas igitur pater luminum hominum variorum est, et eadem essentia Platonis in humanitate est super omnem sensibilem et temporalem habitudinem et in Platone in habitudine sensibili et temporali. Et ita quidem de omnibus. Unde essentiae sensibilium sunt insensibiliter in speciebus, et essentiae specificae absque specificatione sunt in generibus, et essentiae genericae absque generalitate sunt in absoluta essentia, quae est deus benedictus.
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Alcune creature sono grandi, altre piccole, alcune sono più in alto, altre più in basso, alcune sono state, altre saranno, alcune sono qui, altre in altri luoghi, e così si dica di ogni differenza che possiamo nominare. L’essenza, pertanto, non è quantità, non è grande o piccola, non è in un luogo più alto o in uno più basso, non è in un tempo passato o in un tempo futuro, e così via. Vedi che molte cose convengono fra loro nel genere degli elementi, molte nel genere vegetale, molte nel genere degli enti dotati di sensazione, e vedi che questi generi sono vari. L’essenza, pertanto, non è nessuno di questi generi. Vedi, inoltre, che all’interno dei generi vi sono molte specie diverse, come nel genere animale vi è la specie umana, la specie leonina, la specie equina, ecc90. L’essenza del genere animale, pertanto, non è una qualche specie di queste, ma non è nessuna di esse. Vedi che gli esseri umani sono vari, uno è morto, un altro è nato, uno è giovane, un altro è vecchio, uno è tedesco, un altro francese, uno è maschio, un altro è femmina, uno è alto, un altro è basso, uno è cieco, un altro è vedente, uno è bianco, un altro è nero, e così si dica per tutto il resto, in quanto in tutte le caratteristiche che noi possiamo prendere in considerazione c’è varietà. Tutto ciò che può essere percepito con i sensi, con la vista, con il tatto e così via, dunque, non appartiene all’essenza dell’uomo. L’umanità non è nessuna di quelle cose che possono essere colte in un qualsiasi uomo. L’umanità, piuttosto, è un’essenza semplicissima che riceve in modo specifico l’essenza del genere, nella quale sono contenute, come in una potenza semplice, tutte quelle cose di cui poi i vari uomini partecipano individualmente. In rapporto ai vari uomini, pertanto, l’umanità è un padre dei lumi, e l’essenza [umana] di Platone si trova, nell’umanità, al di sopra di ogni condizione sensibile e temporale, mentre in Platone la stessa essenza esiste in una determinata condizione sensibile e temporale. E lo stesso vale per tutti gli uomini91. Le essenze degli enti sensibili, pertanto, sono contenute nelle specie in modo non sensibile; le essenze delle specie sono contenute nei generi senza la determinazione che è propria delle diverse specie, e le essenze dei generi sono contenute nell’essenza assoluta, che è Dio benedetto, senza la determinazione che è propria dei diversi generi92.
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Sunt et alia lumina, quae infunduntur per divinam illuminationem, quae ducunt intellectualem potentiam ad perfectionem, sicut est lumen fidei, per quod illuminatur intellectus, ut super rationem ascendat ad apprehensionem veritatis. Et quia hoc lumine ducitur, ut credat se posse attingere veritatem, quam tamen adiutorio rationis, quae est quasi instrumentum eius, attingere nequit, et sic infirmitatem seu caecitatem, ob quam baculo rationis innitebatur, quodam conatu sibi divinitus indito linquit et per se incedere posse in verbo fidei fortificatus ducitur indubia spe assequendi promissum ex stabili fide, quod amoroso cursu festinanter apprehendit. Et haec est illuminatio apostoli, qui absque haesitatione credentem et postulantem sapientiam consecuturum annuntiat. 120 Habet quidem virtus nostra intellectualis lucis divitias ineffabiles in potentia, quas nos habere, cum sint in potentia, ignoramus, quousque per lumen intellectuale in actu exsistens nobis pandantur, et modus eliciendi in actum ostendatur. Sicut in agello pauperis sunt divitiae multae in potentia, quas si sciverit ibi esse et modo debito quaesiverit, reperiet. Nam ibi est lana et panis et vinum et carnes et cetera, quae optat et non videt oculo. Sed ratio sibi lumen revelationis praebet, ut sciat illa ibi esse et quod per oviculam lanam, per vaccam lac, per vitem vinum, per frumentum panem eliciat. Et varii experti agricolae sibi lumen doctrinae ad bene excolendum agrum manifestant. In quorum lumine pergit fide et consequitur fructum vitae sensibilis. 121 Tali similitudine in potentia intellectualis agri sunt cuncta, quae vitam praestant intellectualem, dummodo recte colatur, et virtutes eius debitis exercitiis et modis exprimantur, et pro eius cultura variae nobis illuminationes traditae reperiuntur per eos, qui huic intellectuali culturae diligenter invigilarunt, sicut viri virtutibus de-
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Vi sono anche altri lumi, che vengono diffusi dall’illuminazione divina e che conducono a perfezione la potenza dell’intelletto. Per esempio, il lume della fede93, dal quale l’intelletto viene illuminato in modo tale che esso possa ascendere al di sopra della ragione fino all’apprensione della verità94. Da questo lume l’intelletto viene condotto a credere di poter giungere a cogliere quelle verità che non può invece cogliere con l’ausilio della ragione, che è come il suo proprio strumento, e così, con un impulso, che Dio gli ispira, abbandona la propria debolezza o cecità, a causa della quale doveva appoggiarsi al bastone della ragione; fortificato nella parola della fede, l’intelletto viene allora condotto a camminare da sé, con la speranza certa di conseguire ciò che la sua fede salda gli ha promesso [ossia la verità] e che esso, in questa sua corsa piena d’amore, giunge velocemente a cogliere. E questa è l’illuminazione di cui parla l’Apostolo, il quale annuncia che chi crede e chiede senza dubitare conseguirà la sapienza95. La nostra facoltà intellettuale possiede, in potenza, ricchezze ineffabili di luce, che noi ignoriamo di avere, dato che sono in potenza, finché il lume intellettuale che esiste in atto non ce le sveli e non ci mostri il modo di farle passare all’atto. Analogamente, anche nel campicello del povero vi sono in potenza molte ricchezze, che egli riuscirà a trovare se saprà che sono lì e se le cercherà nel modo giusto. Lì ci sono, infatti, lana, pane, vino, carne, ed altre cose che egli desidera, ma che non vede con i propri occhi. La ragione, tuttavia, gli fornisce un lume che gliele rivela, in modo tale che egli sa che lì vi sono quelle ricchezze, e che dalla pecorella può ricavare la lana, dalla mucca il latte, dalla vite il vino, dal frumento il pane. E vari contadini più esperti gli rivelano il lume della conoscenza, in modo tale che egli possa coltivare bene il suo campo. Procede con fiducia nel loro lume, e riesce così a raccogliere i frutti che sono propri della vita sensibile. In modo simile, nella potenza del campo intellettuale vi sono tutte quelle cose che forniscono la vita all’intelletto, purché questo campo venga coltivato correttamente e le sue virtù vengano espresse con i dovuti esercizi e modi. Per coltivare questo campo abbiamo molte svariate illuminazioni, che ci sono state tramandate da coloro che attesero con diligenza a questa coltivazione intellettua-
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diti umbras mundi huius linquentes et mentali luci incumbentes, per quos dator luminum nobis revelavit thesaurum absconditum et modum custodiendi agrum et leges et praecepta atque exstirpandi herbas noxias non facientes fructum vitae sed impedientes et mortificantes fecunditatem et excolendi atque plantandi arborem vitae in ipso, uti Moyses, prophetae, philosophi et viri apostolici. 122 Sed verbum omnium illorum lumen est receptum in descensu verbi absoluti et non fuit ipsum verbum, quod est ipsum lumen infinitum patris, quousque verbum ipsum absque contractione se sensibiliter in domino nostro Iesu Christo ostenderet. In hoc enim «verbo veritatis» geniti sumus filii lucis, quoniam divitias gloriae regni aeterni in nobis ac intra nos esse revelavit et intellectualem immortalitatem assequi docuit per mortificationem mundi sensibilis et se ipsum nobis manifestum fecit, ut in suo lumine, qui «verbum caro factum est» paternum lumen vitae nostrae apprehendamus, quoniam ipse est paternum lumen «illuminans omnem hominem» et adimplens lumine suo id, quod nobis deest ad assequendum quietis vitam delectabilissimam in ipso et per ipsum, qui est in saecula benedictus.
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le, come gli uomini che si consacrarono alle virtù ed abbandonarono questo mondo dedicandosi interamente alla luce della mente: attraverso di loro, il datore dei lumi ci ha rivelato il tesoro nascosto96, il modo di custodire il campo, leggi e precetti. Ci ha rivelato anche il modo di estirpare le piante nocive, che non danno il frutto della vita97, ma impediscono e isteriliscono la fecondità del terreno, e il modo di curare e piantare in esso l’albero della vita98. Uomini di questo genere furono Mosè, i profeti, i filosofi e gli apostoli. Il verbo [parola] di tutti costoro, tuttavia, fu un lume che venne ricevuto in modo discensivo dal Verbo assoluto, ma non fu il Verbo stesso, ossia il lume infinito del Padre, il quale si è manifestato sensibilmente, senza contrazione, solo nel nostro Signore Gesù Cristo. In questo «Verbo di verità», noi siamo stati generati come figli della luce99, poiché egli ci ha rivelato che le ricchezze della gloria100 del regno eterno sono dentro di noi e in mezzo a noi101, e ci ha insegnato a conseguire l’immortalità intellettuale102 morendo al mondo sensibile. Egli si è manifestato a noi, affinché nel suo lume, che è il «Verbo che si è fatto carne»103, potessimo apprendere il lume del Padre della nostra vita. Egli stesso, infatti, è il lume paterno che «illumina ogni uomo»104 e che, con la sua luce, supplisce a tutto ciò che ci manca per conseguire la vita dolcissima della quiete, in lui e per lui105, che è benedetto nei secoli106.
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Quamquam universus hic mundus a cunctipotentis voluntate dependeat, ita ut nemo hominum sensum domini noscere queat, cum nec ea quae in hominis sunt conceptu praeter hominis spiritum quisquam sciat, ac sic ad nos minime spectet temporis momenta, quae in patris maiestate posita sunt, diffinire, cum solum ibi omnia nobis futura intemporaliter sint praesentia, debeatque nos sanctimonia vitae et litterarum intelligentia prorsus patrum comparatione carentes maxime a futurorum curiali inquisitione retrahere eo, quod paene omnes, qui hactenus aliquid de temporum ratione scripserunt, fallaci quadam coniectura decepti sunt, tamen semota arrogantia pia atque aedificatoria investigatione ex sanctis litteris futura conicere, inquantum nostrae peregrinationi consolatoriam affert refectionem, non arbitror reprehensibile. Nitimur etenim omni diligentia incomprehensibilem veritatem in hac vita cognoscere, quamvis in hoc mundo non absque aenigmatica figura infinite distanter a se ipsa uti est ipsam inapprehensibilem sciamus. 124 Id autem, in quo Christianum quoad futurorum eventum quiescere convenit, arbitror unum solum esse. Non enim se Paulus ad tertium caelum raptus aliud inter sapientes scire aestimavit quam «Christum et hunc crucifixum», in quo aiebat omnia scitu possibilia quasi in thesauro sapientiae contineri. Unde si Christianorum tempora in eo quod Christiani aliquantulum praevidere cupimus, recte ad Christi peregrinationem convertimur. Sicut enim ipse nos docet, si Christianam vitam habere studemus, ab eo ipsam addiscere debemus, qui ait: «Discite a me, quia mitis sum et
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Tutto questo mondo dipende dalla volontà dell’onnipotente e nessun uomo può comprenderne il senso2, dal momento che nessuno, eccetto lo spirito dell’uomo, conosce neppure le cose che sono nella propria mente3. Allo stesso modo, non spetta affatto a noi determinare i momenti del tempo che si trovano nella maestà del Padre4, poiché soltanto lì tutto ciò che ci accadrà è come in un eterno presente. Inoltre noi, che in confronto ai Padri manchiamo della santità della vita e della comprensione delle Scritture, dovremmo rinunciare a un’indagine formale degli eventi futuri, poiché tutti coloro che fino ad ora hanno scritto qualcosa sul senso dei tempi sono stati ingannati da una qualche congettura fallace. Tuttavia, messa da parte l’arroganza, non ritengo riprovevole condurre, in maniera congetturale, un’indagine devota e tesa all’edificazione sugli eventi futuri a partire dalle Sacre Scritture, in quanto essa reca una consolazione che ridà forza al nostro pellegrinaggio in questo mondo5. Ci sforziamo infatti, con ogni zelo, di conoscere in questa vita la verità incomprensibile, sebbene sappiamo che non è possibile apprenderla in questo mondo, se non attraverso un’immagine simbolica6 che è infinitamente distante dalla verità per come è in se stessa. D’altra parte, ritengo che vi sia una sola cosa nella quale il cristiano debba trovar pace riguardo a ciò che avverrà in futuro. Paolo, infatti, rapito al terzo cielo7, non ha giudicato di sapere altro, rispetto ai sapienti, se non «Cristo e lui crocifisso»8, nel quale diceva che tutto ciò che è possibile sapere è contenuto come nello scrigno della sapienza9. Di conseguenza, se, come cristiani, desideriamo prevedere in qualche modo i tempi che si preparano ai cristiani, allora dobbiamo guardare giustamente alla vita terrena di Cristo. Come egli stesso ci ha insegnato, infatti, se desideriamo avere una vita cristiana, dobbiamo apprenderla da lui, che dice: «Impa-
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humilis corde». Sic et ipse exemplum nobis dedit, ut quemadmodum ipse fecit et nos, qui Christiani esse cupimus, similiter faciamus. Ipse etiam nos instruit, quomodo omnes fideles eius membra sunt, quando ait id sibi fieri, quod minimo fit suorum. Est igitur ecclesia corpus eius mysticum, quae in universalitate sua caput suum Christum, «qui caelos penetravit», peregrinando quemadmodum et ipse, ascendendo sequitur. Praecessit Christus ut exemplar, sequitur ecclesia ut imago veritatem. 125 Vidit Moyses in monte in ostensione veritatis, quod postea evanescente visione successive explicavit. Videtur homo depingendus brevi discursu «a pedis planta usque ad verticem», quem dum statuarius exsculpere satagit seriatim, temporis intervallo opus habet. Christus in hunc mundum puer intravit, crevit «sapientia et aetate», factus est vir docens veritatem et in ea ambulavit, quousque ob eius testimonium de mundo sublatus est. Dimisit semen scilicet ecclesiam, in qua remansit ut Adam in Eva sponsa de eius carne et osse virago facta, ut ipsam sui seminis ecclesiam sibi sponsam in domum patris per assumptionem traducendam enutriret. Quae ut puer renata est in hoc mundo, crevit in aetate et sapientia et mundi peregrinationem complevit. 126 Unde cum ad veritatem exemplarem inspicere necesse sit, Christi peregrinationem in ecclesia explicari recte coniectamus. Dicit autem Christus se filium hominis et sabbati esse atque in ipso compleri, quod de anno domini, qui est iubilaeus seu libertatis, per Isaiam fuit prophetatum. Tempus igitur Christi est tempus deo sanctificatum, sabbatum scilicet, in quo est quies operum dei, sic et temporis. Non veniet igitur tempus aliud requiei, cum deus uti in maximo atque ultimo complemento operum in Christo quiescat. Si igitur ad diem Christi inspicimus, dies eius est sabba-
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rate da me che sono mite e umile di cuore»10. Così, egli stesso ci ha dato l’esempio, affinché noi, che desideriamo essere cristiani, agiamo in modo analogo al suo. Ci ha anche insegnato che i fedeli sono sue membra11, quando dice che, qualsiasi cosa accada all’ultimo dei suoi, accade a lui stesso12. La Chiesa, pertanto, è il suo corpo mistico e, nel suo pellegrinaggio terreno, essa segue, nella sua universalità, il suo capo, Cristo, «che ha attraversato i cieli»13, ascendendo come lui14. Cristo è venuto prima come l’esemplare, la Chiesa segue Cristo, come l’immagine segue la verità. Quando sul monte gli è stata rivelata la verità, Mosè vide ciò che, in seguito, venuta meno la visione, ha spiegato attraverso vari passaggi. L’uomo appare come un essere che viene disegnato in breve tempo, «dalla pianta del piede fino alla testa»15; ma quando lo scultore si dà da fare per scolpirlo, lavora a più riprese e necessita di un certo tempo. Cristo venne in questo mondo come un bambino, crebbe «in sapienza e in età»16, divenne uomo adulto che insegnava la verità17, e in essa compì il suo cammino18, fino a che, a motivo della sua testimonianza, non è stato sottratto al mondo. E Cristo ha lasciato il suo seme, che è la Chiesa, nella quale egli è rimasto come Adamo nella sua sposa Eva, fatta donna dalla sua carne e dalle sue ossa. Vi è rimasto per nutrire la Chiesa, che è la sua sposa19, con il suo seme e per condurla fino alla casa del Padre20 per mezzo dell’assunzione. Essa è rinata come una fanciulla in questo mondo, è cresciuta in età e sapienza e non ha ancora completato il suo viaggio terreno. Di conseguenza, dal momento che è necessario guardare alla verità esemplare, giustamente congetturiamo che il cammino di Cristo sulla terra si esplichi nella Chiesa. Ora, Cristo dice di essere il figlio dell’uomo e il padrone del sabato21 e afferma che in lui si compie ciò che è stato profetizzato da Isaia sull’anno del Signore, che è l’anno del giubileo o della libertà 22. Il tempo di Cristo, pertanto, è il tempo consacrato a Dio, vale a dire il sabato, nel quale vi è il riposo delle opere di Dio23 e delle opere che si fanno nel corso normale del tempo. Non ci sarà altro tempo per il riposo, dal momento che Dio riposa in Cristo come nel massimo e ultimo compimento della sua opera. Pertanto, se guardiamo al giorno di Cristo24, il suo giorno è il sabato, se guardiamo all’an-
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ti, si ad annum Christi, annus eius est sabbati, qui domini est annus seu iubilaeus. 127 Omne enim tempus septenario revolvitur, septem scilicet diebus, septem annis et septies septem annis, qui sunt 49. Unde annus quinquagesimus est post laboriosam temporis revolutionem sabatissimus, in quo quiescit omnis servitus et redit in libertatem. Explicant autem annum unum domini 50 usuales. Unde cum ecclesia sit Christum explicatorie sequens, qui est magister et dominus, annos ipsius domini complicatorie iubilaeos ipsa explicat per quinquaginta, ut uni solari revolutioni Christi, solis iustitiae, una anni domini revolutio in peregrinatione ecclesiae correspondeat. Tali enim ratione conicimus plus quam quinque usque ad ecclesiae resurrectionem restare iubilaeos, et sic nos nunc annum XII iubilaei 28 agere, cum a Christi ascensione 1412 anni hoc tempore numerentur effluxi. 128 Erat autem Iohannes Baptista tunc in deserto baptizans et lavans in doctrinae verbo peccatorum sordes, ut pararet «domino plebem perfectam». In tali enim spiritu Eliae, in quo ipse «testimonium perhibuit» luci veritatis, scilicet Christo, surgere in proximo debere credimus eiusdem spiritus discipulos et in ipsis Eliam se verbo doctrinae ostensurum, qui digito ostendent mundo Christum et veritatem vitae et iustitiae. Et Christi corpus, scilicet ipsam ecclesiam, lavabunt, ita ut spiritus dei in ipsam quasi visibiliter ut super Christum descendat in specie columbinae simplicitatis. 129 Et tunc dabunt se sancti aliqui longae macerationi se a mundo separantes et temptatori victo redibunt verbum vitae seminaturi. Tunc et mira operabuntur in spiritu Christi. Etiam persecutionem patietur spiritus rigoris Eliae in prioribus ipsis praedicatoribus uti in Iohanne, quoniam illecebritas fornicaria huius mundi, quae fuit causa necis Iohannis, non patietur illos vivere. Sed auge-
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no di Cristo, il suo anno è l’anno del sabato, che è l’anno del Signore o il giubileo. Ogni tempo, infatti, si dispiega nel sette, ossia in sette giorni, in sette anni, e in sette volte sette anni, ossia in quarantanove anni. Perciò, il cinquantesimo anno è, dopo un faticoso dispiegamento del tempo, il più prossimo al sabato, nel quale ogni schiavo si riposa e torna in libertà25. Cinquanta anni ordinari esplicano, infatti, un solo anno del Signore. Di conseguenza, dato che la Chiesa compie il suo cammino seguendo Cristo, che è maestro e Signore26, essa esplica per cinquanta volte gli anni del Signore, che sono, in maniera complicata, anni giubilari. Per questo, ad un anno solare di Cristo, ossia del sole della giustizia 27, corrisponde il trascorrere di un anno del Signore nel cammino della Chiesa. In base a tale calcolo, infatti, possiamo congetturare che rimangano più di cinque giubilei fino alla resurrezione della Chiesa e che noi ora viviamo nel dodicesimo anno del ventottesimo giubileo, dal momento che si conta che siano passati 1412 anni dall’ascensione di Cristo. In quel tempo, Giovanni Battista si trovava nel deserto28, battezzava e lavava nella parola della dottrina le sporcizie dei peccatori, per preparare «al Signore un popolo perfetto»29. Crediamo, infatti, che nello spirito di Elia, nel quale egli stesso «ha offerto testimonianza»30 alla luce della verità, cioè a Cristo, debbano presto sorgere discepoli dotati dello stesso spirito, e crediamo che Elia si mostrerà nella parola dell’insegnamento di questi discepoli che indicheranno al mondo Cristo e la verità della vita e della giustizia. Ed essi laveranno il corpo di Cristo, ossia la stessa Chiesa31, in modo tale che lo spirito di Dio discenda su di essa visibilmente32, come discese su Cristo sotto il semplice aspetto di una colomba. E allora alcuni santi si dedicheranno ad una lunga mortificazione della carne, separandosi dal mondo, e, sconfitto il tentatore, ritorneranno a seminare la parola della vita. Allora compiranno miracoli nello spirito di Cristo. Inoltre, in questi primi predicatori, come nel caso di Giovanni [il Battista], lo spirito di fermezza di Elia soffrirà anche la persecuzione33, poiché la seduzione della lussuria di questo mondo34, che è stata anche la causa della morte di Giovanni, non sopporterà che essi vivano. Ciononostante, au-
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bitur continue numerus fidelium et dilatabitur luce doctrinae successive usque ad iubilaeum 34. Et fient in ipsa «signa et prodigia» explicatoria historiae vitae Christi in evangeliis tradita, et non erit habitatio in mundo expers notitiae Christi et fidei. 130 Post haec Antichristi satanicus spiritus persecutionem concitabit contra corpus Christi «quod est ecclesia». Et erit tribulatio ultima, qua numquam alia maior fuit, quae est explicatoria historiae passionis Christi. Et videbitur ipsa ecclesia extingui, quia sancti apostoli, satores verbi dei, eam deserent et fugient. Nec stabit Petri aut cuiuscumque apostoli successor. Omnes scandalum patientur. 131 Et quando sic oculis insipientum Christi corpus creditur ignominiose quasi per crucis mortem de mundo sublatum, resument sancti vires et revertentur ad cor, quia videbunt ecclesiam post sanctorum interemptionem gloriosiori fulgore resurgere post paucos dies. Et videntes infideles Antichristiani praevaluisse ecclesiam et se victos victori Christo cedent. Et ad ipsum revertentur omnes nationes, ut sit Christi hereditas in universo orbe unum ovile unius pastoris. Et flebit Petrus amare, quia fugit. Sic et ceteri apostoli, scilicet ecclesiae episcopi et sacerdotes. Et dabitur ipsis locus paenitentiae. Et reddet se ecclesia gloriosa resurrectione a pressura Antichristiana ostensibilem omnibus dubitantibus, ut omnes, qui dubii fuerunt de veritate vitae, quae est in Christo sponso ecclesiae, testes fiant gloriosae resurrectionis etiam in sanguine suo, si opus foret. 132 Et incipiet ecclesia in tranquillitate de aeterna pace meditari et amplexum sponsi appetere in gloria per transcensum mundi sensibilis. Sed mundi statim finis, ut reddatur sponsa absque omni ruga et macula digna sponso, qui est agnus sine macula. Et veniet tunc
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menterà continuamente il numero dei fedeli e sarà mano a mano accresciuto in virtù della luce del loro insegnamento, fino al trentaquattresimo giubileo. E nella Chiesa avverranno «segni e prodigi»35, che esplicano la storia della vita di Cristo e che sono tramandati nei Vangeli, e non vi sarà luogo al mondo privo della conoscenza di Cristo e della fede. Dopo questi avvenimenti, lo spirito satanico dell’Anticristo36 susciterà la persecuzione contro il corpo di Cristo «che è la Chiesa»37 e vi sarà un’ultima tribolazione38, della quale non ce ne è mai stata una maggiore e che è l’esplicazione della storia della passione di Cristo. E la stessa Chiesa sembrerà finire39, perché i santi apostoli, seminatori della parola di Dio, la abbandoneranno e fuggiranno. Non vi sarà nessun successore di Pietro o di qualsiasi apostolo. Tutti resteranno scandalizzati. E nel momento in cui gli occhi degli stolti40 crederanno che il corpo di Cristo sia stato strappato al mondo in modo vergognoso dalla morte in croce, i santi ritroveranno le forze e riprenderanno coraggio41, poiché vedranno che la Chiesa, in seguito all’uccisione dei santi, risorge dopo pochi giorni con un fulgore ancora più glorioso. E gli infedeli seguaci dell’Anticristo, vedendo che la Chiesa ha prevalso e vedendosi sconfitti, si consegneranno a Cristo vincitore. E tutte le genti torneranno a lui, in modo tale che in tutto il mondo il popolo di Cristo sia un unico gregge di un unico pastore42. E Pietro piangerà amaramente43, perché è fuggito. Così anche gli altri apostoli, ossia i vescovi e i sacerdoti della Chiesa. E sarà dato loro il modo di pentirsi. Inoltre, risollevandosi gloriosamente dall’oppressione dell’Anticristo, la Chiesa tornerà ad essere visibile a tutti coloro che dubitano, in modo che tutti quelli che sono stati incerti riguardo alla verità della vita, che è presente in Cristo, lo sposo della Chiesa44, siano testimoni della gloriosa resurrezione, anche mediante il proprio sangue, se sarà necessario. E la Chiesa in tranquillità comincerà a meditare sulla pace eterna e a desiderare di unirsi, nella gloria, allo sposo, trascendendo il mondo sensibile. Ma non verrà ancora la fine del mondo, affinché la sposa possa essere restituita allo sposo, che è l’agnello senza macchia45, priva di ogni ruga e di ogni macchia, degna di lui46. E verrà allora colui che giudicherà con il fuoco i vivi e i morti e il mon-
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iudicaturus «vivos et mortuos et saeculum per ignem». Et assumet «in gloriam suam» sponsam secum aeternaliter regnaturam. 133 Poterit quisque ex evangelicis descriptionibus particularius coniecturas istas explicare. Et hinc de hoc nunc satis sit. Hoc solum absque temerario iudicio, ut Christianus, coniciens, quod in his, quae Christus egit et circa Christum acta sunt post 28 annum usque in diem resurrectionis a morte, annum unum domini in iubilaeum extendendo poterit quisque verisimilius, quid futurum sit in ecclesia, praevidere, ut sic in 34 iubilaeo a resurrectione Christi resurrectionem ecclesiae depulso Antichristo speret dei pietate victoriose futuram. Et hoc erit post annum nativitatis 1700 ante annum 1734. Post illud autem tempus ascensio ecclesiae futura est Christo sponso ad iudicium veniente. Sed quando veniet, nemo sciet. Erit enim ille adventus ita omnibus ante incognitus quoad temporis praecisionem, sicut adventus eius in mundum fuit in temporis praecisione omnibus ignotus. 134 Tunc sancti scientes, quia «veniet et non tardabit», orabunt, ut veniat desideratus omnibus gentibus dicentes: quoniam vicisti domine et sedisti a dextris patris, donec pater ipse poneret inimicos tuos sub pedibus tuis et «terminos terrae possessionem tuam». Hinc nunc, domine, veni et transfer possessionem tuam in gloriam. Talia quidem dicent scientes post longanimitatem exspectationis appropinquare diem redemptionis. Qui veniet sine signo in nocte «tamquam fur», sicuti venit diluvium, uti fatetur ipse Christus. 135 Haec autem supputatio resurrectionis Christi in corpore suo «quod est ecclesia» multis rationibus aliorum considerationibus verior forte ex eo conicitur, quia Christus docuit in persecutione sua ecclesiam documentum suae persecutionis capere debere dicens: «Si me persecuti fuerint et vos persequentur», ac quod ipse,
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do47. Ed egli assumerà «nella sua gloria»48 la sposa, che regnerà con lui eternamente. Chiunque potrà spiegare queste congetture in modo più particolareggiato a partire dalle descrizioni dei Vangeli. Per quanto riguarda tale argomento, possono pertanto essere sufficienti le cose che abbiamo detto. Da cristiano, che non ha un’opinione avventata, vorrei formulare solo questa congettura per quanto concerne la narrazione delle cose che Cristo ha fatto e che sono state fatte intorno a lui dopo il ventottesimo anno fino al giorno della resurrezione dalla morte; calcolando un anno della vita del Signore come un anno giubilare, ognuno potrà prevedere, in modo molto verosimile, che cosa accadrà nella Chiesa. Così, si può sperare che la resurrezione vittoriosa della Chiesa avverrà, per la misericordia di Dio e una volta cacciato l’Anticristo, nel trentaquattresimo anno giubilare della risurrezione di Cristo. E ciò avverrà dopo 1700 anni dalla nascita del Signore e prima dell’anno 1734. Allora, infatti, vi sarà l’ascensione della Chiesa, con Cristo, lo sposo, che verrà a giudicare49. Ma nessuno saprà il momento in cui egli verrà50. Il momento preciso della sua venuta, infatti, sarà sconosciuto a tutti, così come rimase sconosciuto a tutti il momento preciso della sua discesa nel mondo. Allora i santi, che sanno che egli «verrà e non tarderà»51, pregheranno che venga colui che è desiderato da tutte le genti, dicendo: poiché hai vinto, Signore, e siedi alla destra del Padre, finché il Padre stesso non porrà i tuoi nemici sotto i tuoi piedi52 e non renderà «i confini della terra un tuo possesso», vieni ora, Signore, vieni e trasferisci il tuo possesso53 nella gloria. Pregheranno certamente con queste parole, sapendo che dopo una lunghissima attesa si avvicina il giorno della redenzione54. Egli verrà senza alcun segno, nella notte «come un ladro»55, proprio come è venuto il diluvio56, come dice lo stesso Cristo. Ma questo calcolo della resurrezione di Cristo nel proprio corpo, «che è la Chiesa», ricavato da molte considerazioni razionali di altre cose, lo si può forse desumere congetturalmente in maniera più vera dal fatto che Cristo ha insegnato che, nella sua persecuzione, la Chiesa avrebbe dovuto trovare una prova della persecuzione alla quale essa sarebbe andata soggetta, quando ha detto: «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi»57. Lo si può inoltre
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quamvis abire videretur post resurrectionem, in ecclesia remansurus et peregrinaturus esset usque ad consummationem saeculi, praedixitque oppressionem ecclesiae ante eius gloriosam resurrectionem, qua maior nulla fuit, in ultimis diebus venturam, sicut et in ultimis diebus carnis suae secum actum est, atque ad duo nos remisit, scilicet ad similitudinem diluvii atque ad dictum Danielis prophetae. 136 Unde cum Christus sit ipse secundus Adam, tunc uti post primum Adam venit in 34 iubilaeo secundum doctissimum atque sapientissimum Philonem, cui liber Sapientiae ascribitur, in libro Historiarum consumptio peccati per aquam diluvii in diebus Noe, ita conicimus, quod post secundum Adam in 34 iubilaeo veniet consumptio peccati per ignem spiritus domini. 137 Similiter Danieli apertum fuit, quomodo novissima maledictio futura foret, post quam sanctuarium mundificabitur et visio implebitur et hoc post 2300 dies ab hora egressionis verbi. Unde cum anno tertio Balthasar regis haec revelatio sibi facta sit primo anno Cyri regis Persarum, qui Christum secundum Hieronymum, Africanum et Iosephum circa 559 annos praecessit, tunc constat resurrectionem ecclesiae secundum numerum praefatum diem in annum resolvendo iuxta apertionem Ezechieli factam post annum Christi 1700 et ante 1750 futuram. Quod concordat praemissis. 138 Refert Philo in Historiis Moysen in ultimis deum interrogasse, quantum tempus transisset et quantum superesset. Cui deus respondit: Quattuor enim, semis transiit, duo semis supersunt. Et Moyses impletus est sensu et obiit. Unde deus secundum ista Moysi aperuit quattuor tempora, duo de illis transisse et duo superesse. Transiit igitur ab Adam usque in diluvium tempus unum.
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desumere dal fatto che egli disse che, per quanto lo si sarebbe visto andar via dopo la risurrezione, egli sarebbe rimasto nella Chiesa58 e avrebbe compiuto con essa il suo cammino fino alla fine dei tempi. Ed egli ha anche predetto che, prima della risurrezione della Chiesa nella gloria, la Chiesa avrebbe subito nei suoi ultimi giorni una persecuzione di cui non ce n’era stata una più grande, così com’era accaduto a Cristo negli ultimi giorni della sua vita nella carne. Ci ha rimandato, infine, a due cose, cioè all’immagine del diluvio e al detto del profeta Daniele59. Di conseguenza, dal momento che Cristo è il secondo Adamo60, allora, come al tempo di Noè la distruzione del peccato per mezzo dell’acqua del diluvio avvenne nel trentaquattresimo giubileo dopo il primo Adamo (secondo il Libro delle Storie del dottissimo e sapientissimo Filone61, al quale è attribuito il Libro della Sapienza), così possiamo congetturare che, nel trentaquattresimo giubileo dopo il secondo Adamo, verrà la distruzione del peccato attraverso il fuoco dello spirito del Signore62. In modo simile, a Daniele venne rivelato che si sarebbe realizzata l’ultima maledizione63, dopo la quale il tempio sarebbe stato purificato e la profezia si sarebbe compiuta, e questo sarebbe avvenuto dopo 2300 giorni da quando era stata proferita la parola64. Di conseguenza, dal momento che questa rivelazione gli è stata fatta nel terzo anno del re Baldassarre, durante il primo anno di Ciro, re dei Persiani – il quale anno, secondo Girolamo65, Africano e Giuseppe, ha preceduto la nascita di Cristo di circa 559 anni –, allora è chiaro che la resurrezione della Chiesa – secondo il numero suddetto, trasformando un giorno in un anno, in accordo con la rivelazione fatta ad Ezechiele66 – avverrà dopo 1700 anni dalla nascita di Cristo e prima dell’anno 1750. Ciò concorda con quanto abbiamo detto in precedenza. Filone riferisce nelle Storie che Mosè, al termine della sua vita, chiese a Dio quanto tempo fosse passato e quanto ne restasse. Dio gli rispose: quattro periodi di tempo, due sono passati, due ne rimangono. E Mosè, ricolmo di questa conoscenza, morì67. Perciò, secondo queste parole di Mosè, Dio ha rivelato quattro periodi di tempo, due dei quali erano passati e due dei quali restavano ancora. Un periodo di tempo, pertanto, è trascorso da Adamo fino al diluvio; un secon-
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Igitur secundum a diluvio ad ipsum, tertium ab ipso ad Christum, quartum de Christo ad finem. Incepit igitur ultima quarta in Christi resurrectione, et ob hoc sancti saepe hoc tempus novissimum et finem saeculorum nominant. 139 Et quamvis computationes annorum sint multum variae secundum Iudaicam veritatem, secundum 70 interpretes, secundum Iosephum et Philonem, tamen istud verius puto, quod scilicet tot anni iubilaei a Moysi morte usque in Christum fluxerunt, quot ab Adam usque ad dies illos Noe, et quod tot a diebus diluvii sub Noe usque ad mortem Moysi, atque quod et tot fluent a Christo usque ad complementum ultimi quaternarii annorum 34 iubilaeorum, ut sic Moyses mortuus sit secundum hanc divinam revelationem in medio temporis quaternarii duabus quaternarii partibus completis. 140 Multa alia de hac re scripta reperiuntur. Multi enim se in istis fatigarunt, quos varia consideratio ad varias duxit opiniones, ut quisque suo sensu abundet et nemo cum alio consentiat. Suntque iam effluxa plura tempora, quae docti etiam viri non putarunt futura, et transierunt sic plurimi et transibunt in varietate interpretationis prophetiae Danielis. Ego eorum scripta diligenter perquaesivi et nihil in illis de hac praemissa consideratione annotatum inveni. Quare ipsam ad preces devoti cuiusdam sacerdotis sub omni correctione scriptis mandavi aliud non asserens, nisi quod in dei «manu sunt omnes fines terrae», cuius licet consilium est ab oculis omnium quantumcumque sapientum absconditum. Tamen eius tanta est benignitas, quod nos vermiculos sinit de sibi tantum notis aenigmaticas facere coniecturas, quas, uti maiestati suae placet, aut aliquas suo dono aut sine eo vanas ostendit, ut ab eo solo sit omnis sapientia, qui est in saeculum benedictus.
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do dal diluvio fino allo stesso Mosè; un terzo periodo è stato quello che è trascorso da Mosè a Cristo, ed un quarto è quello che va da Cristo alla fine del mondo. Di conseguenza, il quarto ed ultimo periodo di tempo è iniziato con la risurrezione di Cristo68, ed è per questo che spesso i santi lo chiamano il tempo ultimo e la fine dei tempi. E benché i calcoli degli anni siano molto diversi, a seconda che ci si riferisca alla verità dei giudei, ai settanta traduttori della Scrittura, a Giuseppe e Filone, tuttavia ritengo più vero che dalla morte di Mosè fino a Cristo siano trascorsi tanti anni giubilari quanti ne sono trascorsi da Adamo fino ai giorni di Noè; che altrettanti anni giubilari siano passati dai giorni del diluvio avvenuto al tempo di Noè fino alla morte di Mosè; che altrettanti ne trascorreranno da Cristo fino al compimento dell’ultimo dei quattro periodi di tempo, che consta di trentaquattro anni giubilari. Così, secondo questa rivelazione divina, Mosè è morto alla metà dei quattro tempi, dopo che i primi due erano trascorsi. Riguardo a questo argomento si trovano molti altri scritti. Molti, infatti, si sono impegnati in tali questioni e la loro differente riflessione ha prodotto differenti opinioni, cosicché ciascuno è soddisfatto della propria interpretazione e nessuno è d’accordo con l’altro. Ormai, sono trascorsi moltissimi tempi, che neppure gli uomini dotti hanno pensato che sarebbero venuti, e ci sono state e ci saranno moltissime persone che proporranno diverse interpretazioni della profezia di Daniele. Da parte mia, ho analizzato attentamente gli scritti di questi autori e non vi ho trovato nulla riguardo al ragionamento che ho appena esposto. Perciò, dietro l’insistenza richiesta di un sacerdote devoto, l’ho messo per iscritto, perché fosse sottoposto ad ogni correzione opportuna; io non asserisco altro se non che «tutti i confini della terra sono nella mano»69 di Dio, la cui decisione è nascosta a tutti i sapienti70. La sua bontà è tanto grande, tuttavia, che sopporta che noi vermiciattoli facciamo, riguardo a cose note soltanto a lui, delle congetture sotto forma di simboli. Come piace alla sua maestà, egli rivela, con il suo dono, alcune di queste congetture, oppure, senza il suo dono, mostra che esse sono vane, per cui da lui solo, che è benedetto nei secoli71, deriva ogni sapienza72.
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Conradus: Saepe delectabilius reficimur variatis minus licet pretiosis ferculis. Hinc quamvis, Nicolae, ea ministrasti liberali traditione, quae ad indeficientem victum animae viam praestant, non sit propterea, quaeso, tibi molestum, si adhuc sapidius exigam nutrimentum. Nicolaus: Iam dudum me nosti, Conrade, quoniam infatigabili conatu ad incomprehensibile pergo et gaudeo aut quaestionibus stimulari aut obiectionibus violentari. Dicito igitur. Conradus: Multa sunt atque magna, quae simul se offerunt. Indulgebis, si praeter ordinem dixero. Nicolaus: Tui arbitrii est, fac ut libet. 142 Conradus: Primo nescio, si bene omnium sapientum conicio inquisitionem in uno terminari principio. Postquam enim ad fontem per lacus et fluminis ascensum devenitur, sistitur. Termini enim non est terminus neque principii est principium. Ubi autem est principii et termini coincidentia, ibi et medium coincidere necesse est. Hoc autem videtur esse ipsum idem, in quo omnia idem ipsum. De quo propheta David ait: «Initio tu terram fundasti et opera manuum tuarum sunt caeli. Ipsi peribunt, tu autem idem ipse es». Si recte conicio, dicito. Nicolaus: Immo rectissime, sed quid velis, exspecto. 143 Conradus: Admiror quomodo idem ipse est omnium causa, quae adeo sunt diversa et adversa. Tendit enim conatus inquisitionis ad genesim universorum, quem breviter atque faciliter, quantum fieri conceditur, a te audire summopere desidero.
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Corrado. Spesso ci rifocilliamo in modo più piacevole con piatti che siano assortiti, anche se meno ricercati1. Perciò, Nicola, sebbene ci hai servito, con la consueta generosità, quelle vivande che forniscono all’anima un pasto completo2, non infastidirti, per favore, se ti chiederò un nutrimento ancora più saporito. Nicola. Mi conosci ormai da molto tempo, Corrado, e sai che mi volgo all’incomprensibile con una tensione che non conosce stanchezza3 e provo un enorme piacere ad essere stimolato dalle domande o ad essere costretto a rispondere dalle obiezioni. Dimmi, dunque. Corrado. Sono molte e complesse le questioni che si presentano insieme. Abbi pazienza, se te le dirò senza un ordine preciso. Nicola. Dipende da te, fa’ come preferisci. Corrado. Innanzitutto, non so se penso bene dicendo che la ricerca di tutti i sapienti approda ad un unico principio4. Ogni ricerca, infatti, dopo essere giunta alla fonte, risalendo attraverso laghi e fiumi, si ferma5. Non vi è, infatti, un termine del termine né un principio del principio. Ma dove vi è coincidenza del principio e del termine, lì è necessario che anche il mezzo coincida6. Ora, questo [ossia la coincidenza di principio, termine e medio] sembra essere proprio l’identico, nel quale tutte le cose sono l’identico7. A riguardo, il profeta Davide dice: «In principio tu hai fondato la terra e i cieli sono opera delle tue mani. Essi periranno ma tu rimani l’identico»8. Dimmi, se formulo una congettura corretta. Nicola. Correttissima. Ma sto aspettando di sentire che cosa tu voglia sapere. Corrado. Mi stupisce che l’identico sia causa di tutte le cose, che sono così diverse e opposte9. Lo sforzo della [mia] ricerca tende, infatti, a pervenire alla genesi di tutte le cose, ed è su questo argomento che più che mai desidero ascoltare la tua opinione, brevemente e semplicemente, per quanto sia possibile.
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Nicolaus: Rem, quam omnes prisci gravissimam atque inexplicabilem deseruerunt, facili compendio quomodo ego, stolidissimus omnium, patefaciam? Conradus: Quamvis sciam ex tua doctrina nihil, uti est, attingibile aut expressibile, – nam de genesi divinus Moyses atque alii plerique varie locuti difficultatem per varietatem coniecturarum reliquerunt, – spero tamen aliquid tale posse audire, de quo reficiar. Nicolaus: Qui de genesi locuti sunt, idem dixerunt in variis modis, ut ais. Cur igitur admiraris quod idem est diversorum causa? Conradus: Quia idem videtur aptum natum esse facere idem. Nicolaus: Recte ais, et hinc est, quod omnia sunt ab ipso idem absoluto id quod sunt et modo quo sunt. Conradus: Nisi planius exponas, non capio. 144 Nicolaus: Primo nosti, Conrade, attenta consideratione scientem fieri. Conradus: Fateor nihil inter ignorantem et scientem differentiam fecisse quam attentam considerationem. Nicolaus: Attende igitur ad idem absolutum et statim videbis quoniam ipsum idem absolutum, quoniam idem, hinc aeternum. Non potest enim esse idem absolutum ab alio. Nam cum, ut ais, idem aptum natum sit facere idem, hinc et aliud aliud. Absolutum igitur idem ab alio quomodo esset? Conradus: Capio. Nicolaus: Hinc aeternum, simplex, interminum, infinitum, inalterabile, immultiplicabile, et ita de ceteris. Conradus: Quando attenta meditatione adverto, negare nequeo ista. Necesse est enim idem esse aeternum, quia a nullo alio esse potest idem. Interminum est igitur, quia aeternum. Sic infini-
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Nicola. Come potrò io, il più stolto di tutti, spiegare con una semplice e breve esposizione un argomento che tutti gli antichi hanno rinunciato a chiarire, in quanto difficilissimo e inesplicabile? Corrado. Sebbene io sappia dal tuo insegnamento che nulla si può cogliere o esprimere per come è in se stesso10 – ed infatti Mosè e molti altri che hanno parlato della genesi ci hanno lasciato delle difficoltà, per la diversità delle loro congetture –, spero tuttavia di poter udire da te qualcosa, da cui trarre nutrimento. Nicola. Coloro che hanno parlato della genesi si sono espressi in vari modi su un identico argomento, come dici tu11. Perché allora ti meravigli che l’identico sia causa dei diversi?12 Corrado. Perché mi sembra che l’identico sia per sua natura atto a produrre l’identico13. Nicola. Dici giustamente, ed è per questo che tutti gli enti derivano dall’identico assoluto quell’essere che essi sono e nel modo in cui sono14. Corrado. Se non ti spieghi più chiaramente, non capisco. Nicola. In primo luogo, tu sai, Corrado, che la conoscenza si acquisisce grazie ad un’attenta indagine. Corrado. Ammetto che la differenza tra chi è ignorante e chi possiede la conoscenza non dipende se non dall’attenta indagine che si è stati in grado di condurre15. Nicola. Osserva, dunque, l’identico assoluto e vedrai subito che l’identico assoluto, poiché è identico, è eterno. L’identico assoluto, infatti, non può dipendere da altro. Poiché, come dici tu, l’identico è per natura atto a produrre l’identico, allora anche l’altro è per natura atto a produrre l’altro. Di conseguenza, come potrebbe l’identico assoluto dipendere dall’altro? Corrado. Capisco. Nicola. Pertanto, l’identico assoluto è eterno, semplice, senza termine, infinito, inalterabile, non moltiplicabile, e così via. Corrado. Se mi volgo a considerare attentamente queste cose, non posso negare queste conclusioni. È necessario, infatti, che l’identico sia eterno, poiché l’identico non può derivare da nessun’altra cosa. È, dunque, senza termine, poiché è eterno. E così è infini-
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tum, inalterabile. Nam alterabilitas ab altero est. Idem autem per se dicit inalterabilitatem, sic et immultiplicabilitatem, quae sine alteratione esse non posset. Admitto plane istam assertionem, quae se ipsam veram ostendit. 145 Nicolaus: Volo etiam ut attendas quomodo deus alibi vocatur unus et idem. Nam qui virtutibus vocabulorum diligentius operam impertiti sunt, adhuc ipsi idem unum praetulerunt, quasi identitas sit minus uno. Omne enim idem unum est et non e converso. Illi etiam et ens et aeternum et quidquid non-unum post unum simplex considerarunt, ita Platonici maxime. Tu vero concipito idem absolute supra idem in vocabulo considerabile. Tale est, de quo propheta loquitur, quoniam est ipsum idem absolutum omni diversitati et oppositioni suprapositum, quoniam idem. Nulli igitur alteri est idem aut diversum ineffabile idem, in quo omnia idem. Universale et particulare in idem ipsum idem, unitas et infinitas in idem idem. Sic actus et potentia, sic essentia et esse. Immo esse et non-esse in idem absoluto idem ipsum esse necesse est. Conradus: Ista mihi, quando attente considero, patescunt. Idem enim dicunt plures, qui rem dicunt esse, similiter et idem, si dicant eam non esse. Unde absolutum idem tale intelligo, in quo oppositio, quae idem non patitur, inveniri nequit, ut omnia alia diversa, opposita, composita, contracta, generalia, specialia et cetera id genus idem absolutum longius sequantur. 146 Nicolaus: Bene capis, Conrade. Nam cum dicimus diversum esse diversum, affirmamus diversum esse sibi ipsi idem. Non enim potest diversum esse diversum nisi per idem absolutum, per quod omne quod est est idem sibi ipsi et alteri aliud. Sed omne, quod est
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to, inalterabile16. L’alterabilità, infatti, dipende dall’altro. L’identico, invece, indica di per sé l’inalterabilità e la non-moltiplicabilità , che non potrebbe essere senza alterazione. Accetto senza problemi questa asserzione, che si mostra essere vera. Nicola. Voglio anche che tu consideri che, talora, Dio è chiamato «uno e identico»17. Coloro che si sono occupati con molta diligenza della capacità espressiva delle parole, infatti, hanno preferito finora chiamarlo «uno» piuttosto che «identico»18, come se l’identità fosse meno dell’uno. Ogni identico, infatti, è uno e non viceversa19. Essi hanno considerato anche l’ente, l’eterno, e qualsiasi cosa sia non-uno come posteriore all’uno semplice20; hanno pensato così soprattutto i Platonici. Ma tu cerca di concepire l’identico in modo assoluto, al di sopra di quell’identico che può essere preso in considerazione attraverso la parola. Tale è l’identico di cui parla il profeta, poiché è l’identico stesso assoluto, posto al di sopra di ogni diversità e opposizione, poiché è l’identico21. L’identico ineffabile, nel quale tutte le cose sono l’identico22, non è quindi né identico, né diverso rispetto a nessun’altra cosa. Nell’identico, l’universale e il particolare sono l’identico stesso, così come l’unità e l’infinità nell’identico sono l’identico, e così anche l’atto e la potenza, l’essenza e l’essere. Anzi, è necessario che, nell’identico assoluto, l’essere e il non-essere siano lo stesso identico23. Corrado. Quando le considero con attenzione, queste cose mi appaiono evidenti. Infatti, quando più persone dicono che una cosa esiste, dicono l’identico, e dicono egualmente l’identico se dicono che non esiste. Di conseguenza, l’identico assoluto, nel quale non è possibile trovare alcuna opposizione, che l’identico non tollera, lo intendo come tale che tutte le altre cose, che sono diverse, opposte, composte, contratte, generali, specifiche, e le altre cose di questo genere, sono di gran lunga successive all’identico assoluto24. Nicola. Hai capito bene, Corrado. Quando diciamo, infatti, che il diverso è diverso, affermiamo che il diverso è identico a se stesso25. Il diverso, infatti, non può essere diverso se non in virtù dell’identico assoluto, grazie al quale tutto ciò che esiste è identico a se stesso e diverso [altro] dall’altro26. Ma, tutto ciò che è iden-
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sibi idem et alteri aliud, non est idem absolutum, quod alteri nec idem nec diversum. Nam idem alteri absoluto idem quomodo conveniret? Nec diversum. Quomodo enim diversitas posset convenire idem absoluto, quod est omnem diversitatem et alteritatem anteveniens? Conradus: Intelligo te velle nihil omnium entium esse, quod non sit idem sibi ipsi et alteri aliud et hinc nullum tale esse idem absolutum, licet cum nullo sibi ipsi idem et alteri diversum idem absolutum sit diversum. 147 Nicolaus: Recte concipis. Nam idem absolutum, quod et deum dicimus, non cadit in numero cum omni alio, ut deus et caelum sint plura aut duo aut alia et diversa, sicut nec caelum est idem absolutum ut caelum, quod est aliud a terra. Et quia idem absolutum est actu omnis formae formabilis forma, non potest forma esse extra idem. Quod enim res est idem sibi ipsi, forma agit, quod autem est alteri alia, est, quia non est idem absolutum, hoc est omnis formae forma. Est igitur idem absolutum principium, medium et finis omnis formae, et actus absolutus omnis potentiae idem incontractum, inalteratum, in quo universale non opponitur particulari, quia post ipsum sunt. Universale enim est sibi ipsi idem et particulari aliud. Sic et particulare. Superexaltatum igitur est idem absolutum omnibus intellectualibus universalibus et realibus particularibus exsistentiis. Conradus: Quando adverto negari non posse quodlibet esse idem sibi ipsi, video idem absolutum ab omnibus participari. Nam si idem absolutum foret ab omnibus aliud et diversum, non essent id quod sunt. Quomodo enim quodlibet esset idem sibi ipsi, si absolutum idem ab ipsis foret diversum et distinctum aut aliud? Sic si participans idem foret ipsum idem, quod participat, quomodo foret alteri, quod etiam sibi ipsi idem, diversum?
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tico a se stesso e diverso dall’altro, non è l’identico assoluto, il quale non è né identico all’altro, né diverso dall’altro27. In che modo, infatti, potrebbe convenire all’identico assoluto di essere identico all’altro? Né potrebbe convenirgli di essere diverso. In che modo, infatti, la diversità potrebbe convenire all’identico assoluto, che precede ogni diversità ed alterità? Corrado. Capisco che tu vuoi dire che non vi è nessuno, tra tutti gli enti, che non sia identico a se stesso e diverso [altro] dall’altro, per cui ritieni che l’identico assoluto non sia nessuna di queste realtà, benché l’identico assoluto non sia diverso da nessuna di quelle cose che sono identiche a se stesse e diverse dalle altre28. Nicola. Hai inteso bene. L’identico assoluto, infatti, che chiamiamo anche Dio, non è annoverato tra le altre cose29, come se Dio e il cielo costituissero una pluralità, o fossero due cose, o cose altre e diverse fra di loro30, così come l’identico assoluto non è neppure il cielo considerato in quanto cielo, il quale è diverso [altro] dalla terra. E poiché l’identico assoluto è in atto la forma di ogni forma formabile31, non può esistere alcuna forma al di fuori di esso. La forma, infatti, fa sì che una cosa sia identica a se stessa; al contrario, che una cosa sia diversa da un’altra deriva dal fatto che essa non è l’identico assoluto, ossia la forma di ogni forma. L’identico assoluto, pertanto, è principio, mezzo e fine di ogni forma; è anche l’atto assoluto di ogni potenza, l’identico non contratto, senza alterità, nel quale l’universale non si oppone al particolare, poiché entrambi sono dopo di lui. L’universale, infatti, è identico a se stesso e diverso dal particolare. Lo stesso dicasi per il particolare. L’identico assoluto, pertanto, è esaltato al di sopra di tutti gli universali che possono essere colti con l’intelletto e di tutte le cose particolari che esistono nel mondo sensibile. Corrado. Quando mi accorgo che non si può negare che qualsiasi cosa sia identica a se stessa, vedo che tutte le cose partecipano dell’identico assoluto. Se, infatti, l’identico assoluto fosse altro e diverso da tutte le cose, queste ultime non sarebbero ciò che sono. In che modo qualsiasi cosa sarebbe identica a se stessa, se l’identico assoluto fosse diverso, distinto o altro dalle cose stesse?32 Allo stesso modo, se ciò che partecipa dell’identico fosse l’identico stesso di cui partecipa, in che modo potrebbe allora essere diverso da un’altra cosa, che pure è identica a se stessa?
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Acute capis. Nec te moveat Platonicorum quamvis subtilis consideratio primum imparticipabiliter superexaltatum. Intellige enim absolutum unum in identitate, quam post ipsum primum absolutum unum esse aiunt, identice participari. Sufficiat enim tibi, qualicumque modo participetur, non esse omnia sibi idem nisi ab ipso, a quo omnia, qui est idem absolutum. Et quia iam ante pleraque talia saepe a me audisti, pro compendiosa facilitate haec sic nunc de absoluto idem dicta sint. Amplius temptabo praemissa explanare. Aiebas tu idem aptum natum facere idem. Ego hoc admittens elicui hinc omnia quamquam varia et diversa id esse quod sunt, etiam modo quo sunt. Admirabaris tu. Properabo te de ipsa admiratione facili compendio absolvere. Conradus: O quantum placebis, si effeceris modo per me apprehensibili, ut spondere videris. 149 Nicolaus: Iudicabis tu ipse me promissa adimplesse, et primum non haesitas idem identificare. Nam quomodo posset idem ex eo, quia idem, diversificare, cum diversitas in idem absoluto sit idem, post quod longe posterius est omnis diversitas? Non est igitur idem aptum natum nisi identificare et hoc est idem facere. Hinc omnis res, quia idem sibi ipsi, identificat, ut intellectus intelligit, visus videt, calor calefacit, et ita de omnibus. Et quia idem est immultiplicabile, hinc omnis identificatio reperitur in assimilatione. Vocat igitur idem non-idem in idem. Et quia idem est immultiplicabile et per non-idem inattingibile, non-idem surgit in conversione ad idem. Et sic reperitur in assimilatione, ut, cum absoluta entitas, quae est idem absolutum, vocat non-ens ad idem, tunc, quia
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Nicola. Hai compreso in modo acuto. E non farti persuadere dalla pur sottile concezione dei Platonici, secondo la quale il primo principio è superesaltato ed è impartecipabile33. Devi infatti comprendere che l’uno assoluto viene partecipato in maniera identica nell’identico, che essi considerano come un [secondo] uno posteriore al primo principio, ossia all’uno assoluto. Ti basti sapere che, in qualsiasi modo sia partecipato, tutte le cose sono identiche a se stesse solo in virtù del principio dal quale tutte derivano, che è l’identico assoluto. E poiché da me hai già ascoltato in precedenza molti discorsi simili a questo34, quanto ho ora detto a proposito dell’identico assoluto può essere sufficiente come una sorta di facile compendio [delle mie idee]. Cercherò invece di spiegare più diffusamente le cose che abbiamo detto all’inizio. Tu dicevi che l’identico è per natura atto a produrre l’identico. Io, ammettendo ciò, ne ho dedotto che, proprio per questo motivo, tutte le cose, quantunque varie e diverse, sono ciò che sono e sono nel modo in cui sono. Tu ti sei meravigliato. Ora farò in modo che ti liberi in fretta da questa meraviglia attraverso una semplice esposizione concisa. Corrado. O quanto mi farà piacere, se riuscirai a farlo in un modo che mi risulti comprensibile, come prometti ora! Nicola. Tu stesso giudicherai se avrò mantenuto la promessa; e, per prima cosa, non dubitare del fatto che l’identico identifichi. Come potrebbe infatti l’identico, dato che è identico, produrre la diversità, dal momento che, nell’identico assoluto, la diversità è l’identico stesso, mentre ogni diversità è di gran lunga posteriore ad esso? L’identico, pertanto, non è per natura atto che a identificare, e cioè a produrre ciò che è identico. Ne segue che ogni cosa, in quanto identica a se stessa, identifica, come fa, ad esempio, l’intelletto che comprende, la vista che vede, il calore che scalda, e così per tutte le altre cose. E poiché l’identico non è moltiplicabile, ogni identificazione consiste in una assimilazione. L’identico, pertanto, chiama il non-identico all’identico. E poiché l’identico non è moltiplicabile35 ed è inattingibile dal non-identico, è il non-identico che si eleva all’identico mediante una conversione. E ciò si verifica mediante un’assimilazione; quando l’entità assoluta, ad esempio, che è l’identico assoluto, chiama all’identico il non-ente, allora, poi-
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non-ens non potest attingere immultiplicabilem absolutam entitatem, reperitur non-ens surrexisse in conversione ad absolutam entitatem, hoc est in assimilatione ipsius idem. Assimilatio autem dicit quandam coincidentiam descensus ipsius idem ad non-idem et ascensus non-idem ad idem. Potest igitur creatio seu genesis dici ipsa assimilatio entitatis absolutae, quia ipsa, quia idem, identificando vocat nihil aut non-ens ad se. Hinc sancti creaturam dei dixerunt similitudinem ac imaginem. 150 Cum autem unitas, quae coincidit cum idem absoluto, sit immultiplicabilis, quia idem quae et unitas, ideo non-unum cum absolutam immultiplicabilem identitatem attingere nequeat, non potest nisi in pluralitate reperiri. Dum igitur ipsum idem absolutum, quod est et ens et unum et infinitum, ad se vocat non-idem, surgit assimilatio in multis ipsum idem varie participantibus. Pluralitas igitur, alteritas, varietas et diversitas et cetera talia surgunt ex eo, quia idem identificat. Hinc et ordo, qui est participatio ipsius idem in varietate, hinc harmonia, quae idem varie repraesentat. Consonant et conclamant omnia, quamquam varia, idem ipsum, et hic consonans clamor est assimilatio. 151 Sic igitur est cosmos seu pulchritudo, quae et mundus dicitur, exortus in clariori repraesentatione inattingibilis idem. Varietas enim eorum, quae sunt sibi ipsi idem et alteri aliud, inattingibile idem inattingibile ostendunt, cum tanto plus idem in ipsis resplendeat, quanto magis inattingibilitas in varietate imaginum explicatur. Coincidit enim inattingibilitas cum idem absoluto. Hinc patet recte me dixisse ex hoc omnia id esse quod sunt modo quo sunt, quia idem identificat. Haec igitur perfecta consequentia idem absolutum est. Igitur omnia sunt id quod sunt et modo quo sunt, ut omnium rerum nulla sit ratio aut causa, nisi quia idem identificat.
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ché il non-ente non può cogliere l’entità assoluta non moltiplicabile, si verifica che il non-ente si eleva all’entità assoluta mediante una conversione, e cioè mediante un’assimilazione dell’identico stesso. L’assimilazione, infatti, indica che vi è una certa coincidenza della discesa dell’identico al non-identico e dell’ascesa del non-identico all’identico. La creazione, quindi, o la genesi, può essere definita un’assimilazione della stessa entità assoluta, poiché essa, in quanto è l’identico, identificando chiama a sé il nulla o il non-ente. Per questo, i santi hanno detto che la creatura è un’immagine e una somiglianza di Dio36. L’unità, che coincide con l’identico assoluto, non è moltiplicabile, in quanto si tratta dell’identico che è anche unità; per questo, ciò che non è uno, dal momento che non può attingere l’identità assoluta non moltiplicabile, non può essere trovato, se non nella pluralità. Quando, dunque, lo stesso identico assoluto, che è anche ente, uno e infinito, chiama a sé il non-identico, ne viene fuori un’assimilazione che consiste di molti enti che partecipano dell’identico in modo vario. La pluralità, l’alterità, la varietà, la diversità e le altre caratteristiche simili, sorgono dal fatto che l’identico identifica. Da qui derivano anche l’ordine, che è una partecipazione dell’identico nella varietà, e l’armonia, che è una rappresentazione in vari modi dell’identico37. Tutte le cose, in quanto varie, cantano insieme e proclamano insieme l’identico stesso, e questa consonanza di voci è l’assimilazione. Di conseguenza, il «cosmos» o bellezza, che viene detto anche mondo, è sorto per rappresentare nel modo più chiaro l’identico inattingibile38. La varietà di quelle cose che sono identiche a se stesse e diverse dalle altre mostra l’identico inattingibile come inattingibile, perché l’identico risplende tanto più in esse, quanto più la sua inattingibilità si esplica in una varietà di immagini39. L’inattingibilità, infatti, coincide con l’identico assoluto. Risulta pertanto evidente che avevo ragione quando dicevo che tutte le cose sono ciò che sono e nel modo in cui lo sono, in virtù del fatto che l’identico identifica. Si può pertanto fare questa perfetta inferenza: l’identico assoluto esiste; di conseguenza, tutte le cose sono ciò che sono e nel modo in cui sono, in maniera tale che di tutte le cose non vi sia altra ragione o causa, se non l’identico che identifica. Tu vedi,
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Tu vero cum videas innumeras res hanc rationem absolutam participare, cum quaelibet res sit eadem sibi ipsi et aptitudinem habeat ad faciendum idem tanto perfectius quanto magis idem, et cum hoc etiam simul conspicias quamlibet rem alteri aliam, intelligis facile omnia esse id quod sunt, quia per idem absolutum ad inattingibile ipsum idem vocata talia in assimilatione ut sunt reperiuntur. 152 Poteris nunc perfectionem graduum entium, suarum virium et operationum, numerum, pondus et mensuram ad causam eandem sive idem ipsum modo, qui viribus ingenii dabitur, reducere atque scire quomodo generationes, corruptiones, alterationes et cetera huius generis ex eo sunt, quia idem identificat. Nam cum ad clariorem inattingibilitatem, quae cum idem absoluto coincidit, melius repraesentandam entia in assimilatione ipsius idem, quorum quodlibet est idem sibi ipsi et alteri valde oppositum, conveniat, ut sic infinitas seu inattingibilitas in maxima oppositione participantium, quanto clarius patitur condicio participantium, explicetur, hinc sunt oppositarum virium entitatem ipsam participantia. Illa autem, cum quodlibet sit idem sibi ipsi, nituntur identificare, sicut calidum calefacere, frigidum frigefacere. Sic cum calidum non-calidum ad sui identitatem vocat et frigidum non-frigidum ad suam vocat identitatem, oritur pugna, et ex hoc generatio et corruptio et quaeque talia temporalia, fluida, instabilia et varietas motuum. Iam vides unam omnium causam. Quod si tibi aliud videtur, plane quae dixi ra tione refellito. Gaudebo instrui. Ego enim cursim facili compendio sic ista, ut promissa explerem, perstrinxi forte ad pauciora respiciens, quae erroris causa saepe exsistit.
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tuttavia, che innumerevoli sono le cose che partecipano di questa ragione assoluta, in quanto ogni cosa è identica a se stessa e ha l’attitudine a produrre l’identico, tanto più perfettamente quanto più è identica; allo stesso tempo, vedi anche che ogni cosa è diversa dalle altre. Comprendi facilmente, perciò, che tutte le cose sono ciò che sono, perché, chiamate dall’identico assoluto allo stesso identico inattingibile, esse si costituiscono nel proprio essere rendendosi simili all’identico. Ora, nel modo in cui sarà concesso alle forze della tua intelligenza, potrai ricondurre ad un’unica causa, ovvero all’identico stesso, la perfezione dei gradi degli enti, delle loro forze e operazioni, il numero, il peso e la misura40. Potrai anche sapere che le generazioni, le corruzioni, le alterazioni e gli altri fenomeni di questo genere derivano dal fatto che l’identico identifica. Per rappresentare nel modo più chiaro quell’inattingibilità che coincide con l’identico assoluto, infatti, gli enti, ciascuno dei quali è identico a se stesso e fortemente opposto all’altro, convengono fra di loro in quanto si assimilano all’identico stesso; in questo modo, pertanto, l’infinità o l’inattingibilità dell’identico si esplica nella massima opposizione dei partecipanti, con la maggiore chiarezza possibile alla loro condizione; questo è il motivo per il quale cose che partecipano della stessa entità sono dotate di forze opposte. Ma queste cose, essendo identiche a se stesse, si sforzano di identificare, come fa il caldo che si sforza di riscaldare e il freddo di raffreddare. Così, quando il caldo chiama all’identità con sé il non-caldo e il freddo chiama all’identità con sé il non-freddo, ne nasce una lotta e da questa derivano la generazione e la corruzione, e tutti i fenomeni che soggiacciono al tempo, che sono mutevoli e instabili, come pure la varietà dei loro movimenti. Ormai puoi vedere che di tutti questi fatti vi è una sola causa. Se a te sembra diversamente, confuta con un’argomentazione ciò che ho detto apertamente. Sarò felice di ricevere un insegnamento. Io, infatti, per mantenere la promessa, ho sintetizzato queste cose in una semplice esposizione riassuntiva e veloce, guardando forse a troppo pochi aspetti, cosa che spesso è causa di errore.
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Conradus: Satisfecisti perabunde, nec occurrit quidquam obiciendum. Immo dum sic te discurrentem observarem, experimento didici unam et eandem inattingibilem doctae ignorantiae illuminationem in omnibus, quae et nunc et saepe ante locutus es, mihi in varietate modorum explicatoriorum clarius resplendere, ut traditiones tuae undique eandem redoleant artem, cuius sunt assimilationes, quando nihil nunc nisi idem ipsum, quod saepe alio modo audivi, apprehendi. 154 Idem enim absolutum est et maximum absolutum, quod est ineffabile et inattingibile, et sic ineffabile omnium dicibilium causa est et inattingibile omnium attingibilium. Et iam mihi notam fecisti infinitatem, quae cum idem absoluto inattingibili coincidit, in innumerabili multitudine particularium entium clarius resplendere. Quando enim omnem numerabilem numerum excedunt particularia entia, quorum quodlibet est idem sibi ipsi et alteri aliud, quae tamen inattingibilem infinitatem non attingunt, clarior facta est inattingibilitas absoluti infiniti. Et quia idem absolutum est in omnibus, quoniam quodlibet idem sibi ipsi, varia est omnium concordantia universalis, generica vel specifica; sic et differentia, sine qua concordantia propter inattingibile esse nequit. Sic video aeternum, quod cum idem absoluto est idem inattingibile, et hinc esse innumerabiles varietates durationum, quae omnem rationalem mensuram excedunt, ut sic inattingibilitas aeterni idem perfectius resplendeat. 155 Video satis aperte potuisse inquisitores genesis rerum defecisse, qui ista non considerarunt. Nam quidam ex eo, quia senserunt durationem mundi ratione immensurabilem, iudicarunt ipsum aeternum, cum aeternum sit idem absolutum, inattingibile omni du-
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Corrado. Mi hai soddisfatto pienamente e non mi viene in mente alcuna obiezione. Anzi, quando ti ho osservato mentre ragionavi, ho imparato con l’esperienza che, in tutti gli argomenti di cui hai parlato ora e spesso anche nel passato, vi è un’unica, identica e inattingibile luce che proviene dalla dotta ignoranza, e che mi illumina con più chiarezza attraverso i vari modi con i quali presenti le tue spiegazioni, cosicché i tuoi insegnamenti hanno il sapore di quella stessa arte di cui sono assimilazioni; anche ora, infatti, non ho appreso nient’altro che quella stessa identica cosa di cui ti ho ascoltato spesso parlare, anche se in modi diversi. L’identico assoluto, infatti, è anche il massimo assoluto, che è ineffabile e inattingibile. È così ineffabile da essere la causa di tutte le cose dicibili41, ed è così inattingibile da essere la causa di tutte le cose attingibili. Ed ora mi hai fatto conoscere che l’infinità, che coincide con l’identico assoluto inattingibile, risplende con più chiarezza nella molteplicità innumerabile degli enti particolari. Dal momento che, infatti, gli enti particolari, ciascuno dei quali è identico a se stesso e diverso dall’altro, superano ogni numero numerabile e tuttavia non raggiungono l’infinità irraggiungibile, allora emerge in modo più chiaro l’inattingibilità dell’infinito assoluto42. Inoltre, poiché l’identico assoluto è in tutte le cose, dato che ciascuna è identica a se stessa, vi è fra tutte le cose una varia concordanza, che è universale, secondo il genere o secondo la specie; allo stesso modo, varia è anche la differenza, senza la quale non può esservi neppure la concordanza, dato che [l’identico] è irraggiungibile43. Analogamente, vedo che l’eterno, che s’identifica con l’identico assoluto, è anch’esso inattingibile, ed è per questo motivo che vi è un’innumerevole varietà delle durate [temporali], le quali superano ogni capacità di misura della ragione, in modo tale che l’inattingibilità dell’identico eterno risplenda più perfettamente. Vedo chiaramente come abbiano potuto sbagliare coloro che, cercando la genesi delle cose, non hanno considerato quanto abbiamo appena detto. Alcuni, ad esempio, ritennero che il mondo fosse eterno per il fatto che la durata del mondo non è misurabile dalla ragione, mentre l’eterno è l’identico assoluto, inattingibile ad ogni
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ratione, cuius inattingibilitas in immensurabili duratione plus patescit. Hi mihi decepti videntur, quasi si oculus iudicaret aliquod corpus, participans sphaericam figuram in parte qua videtur, [non] esse perfectam sphaeram, quia videre nequit, quod non sit sphaera. Oculus enim unico contuitu sphaeram nequit intueri, sed sicut componente ratione iuvamur in apprehensibilitate sphaerae per visum, ita necesse est, ut alto intellectu iuvemur, qui nobis ostendat mensuram rationalem improportionabiliter infra aeternum deficere, ut non sequatur hoc esse aeternum, cuius duratio est ratione inapprehensibilis. Mensurae enim rationales, quae temporalia attingunt, non attingunt res a tempore absolutas, sicut auditus non attingit quidquam non-audibile, licet illa sint et ei inattingibilia. 156 Nicolaus: Optime infers et de hac re alias, quid senserim, audisti. Satis nunc sit, quod cognoscimus idem absolutum omnium causam quodque aeternitas absoluta sit inattingibilis per omnem varietatem immensurabilium durationum ac quod hanc inattingibilitatem aeterni cognoscimus lucescere in immensurabilitate durationum quodque Peripateticorum dictum mundum fuisse ab aeterno, prout ipsi aeternum per rationem mensurantem inattingibile asserunt, verum est, sed verius Platonicorum, qui ipsum genitum dicunt quique aeternum idem ipsum absolutum viderunt principium. Nec tamen negant Platonici immensurabilitatem durationis concurrere cum genitura, quod et nostri sancti clariori, quo fieri potuit, modo expresserunt mundum in principio seu initio factum. 157 Manifestum est quod principium seu initium mundi non est in alio, sed idem ipsum absolutum est principium, medium et finis mundi, et non fecit deus durationem mundi potius extra idem ab-
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durata particolare, la cui inattingibilità si manifesta in modo più chiaro nell’impossibilità di misurarne la durata. Mi sembra che essi si siano ingannati, come accadrebbe all’occhio se giudicasse che un corpo, che, in una sua parte visibile, partecipa della figura sferica, sia una sfera perfetta, mentre non è in grado di vedere ciò per cui un corpo non è una sfera [perfetta]. L’occhio, infatti, non riesce a cogliere la sfera con un solo sguardo; tuttavia, come per poter cogliere la sfera con la vista ci serviamo della ragione, che è in grado di comporre insieme le diverse parti della sfera44, così ci dobbiamo servire dell’intelletto, che è superiore alla ragione, perché ci mostri che le misure della ragione sono incomparabilmente inferiori rispetto all’eterno, in modo tale che non si concluda che una cosa è eterna per il semplice fatto che la sua durata non è misurabile dalla ragione. Le misure della ragione, infatti, che riescono a cogliere le realtà temporali, non colgono le cose che non hanno relazione con il tempo, così come l’udito non coglie le cose che non sono udibili, anche se esse esistono, sebbene non siano attingibili da parte sua. Nicola. Ragioni molto bene, ed hai già ascoltato altrove ciò che penso riguardo a questo argomento45. Per ora, ci basti sapere che l’identico assoluto è causa di tutte le cose, che l’eternità assoluta non è attingibile con nessuna delle svariate misure che ci risultano non misurabili. Sappiamo, d’altra parte, che questa inattingibilità dell’eterno risplende proprio nella non misurabilità delle durate particolari, e sappiamo che l’affermazione dei Peripatetici, secondo la quale il mondo esiste sin dall’eternità46, è vera per quanto riguarda il fatto che essi sostengono che non è possibile cogliere l’eterno mediante una misura razionale; sappiamo, tuttavia, che è più vera l’affermazione dei Platonici, i quali sostengono che il mondo è generato47 ed hanno visto che il suo principio è l’identico stesso, eterno e assoluto. I Platonici, tuttavia, non sostengono che il carattere non misurabile della durata sia incompatibile con il fatto che il mondo è stato generato, cosa, questa, che anche i nostri santi hanno espresso nel modo più chiaro possibile, dicendo che il mondo è stato fatto in principio o all’inizio48. È evidente che il principio o l’inizio del mondo non è in altro, ma che l’identico assoluto è il principio, il mezzo e il fine del mondo; inoltre, Dio non fece sì che, al di fuori dell’identico assoluto,
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solutum initium habere quam mundum, per mundum igitur et omnia quae in mundo sunt. Sicut non attingitur quidquam mundi uti est nisi solum in idem absoluto, ita nec duratio potest uti est aliqua mensura attingi. Quomodo enim attingeretur idem per aliud nisi aliter? Per mensuram durationis unius duratio alterius quomodo men surari posset, cum incommensurabiles sint et ignotae? Solum enim idem absolutum est adaequatissima mensura omnium qualitercumque mensurabilium 158 Conradus: Acquiescerem facile omnibus, nisi me liber Moysi de Genesi retraheret. Nam possumus ratione secundum ibi narrata bene milia annorum pervenit, elicere, licet in Plinio Historiarum naturae et aliis multis aliter scriptum legatur. Nicolaus: Ego Moysi scripturas admodum magni facio et eas verissimas scio, quando ad scribentis intentionem adverto. Nam deum mundum atque hominem ad sui imaginem et ipsum bonum valde creasse, et peccatum per hominem in genus humanum non per creantem intrasse, atque deum multis mediis hominem a via mala, quam a parentibus primis non a deo contraxit, revocasse prophetiis promissis et donis, atque quod ipsum revocatum legibus armavit ad resistendum corruptae inclinationi, quodque supra haec omnia addiderit eidem promissionem filiationis dei in filio suo, si crediderit et fecerit mandata, quando ad ipsum deum, cuius est deificare, adverto, nec ex eo, quia Christianus aut legi astrictus, sed quia aliud sentire ratio vetat, penitus et constantissime admitto et astruo. 159 Ubi vero Moyses modum, quo haec acta sunt omnia, humaniter exprimit, credo ipsum ad finem, ut verum modo quo verum per
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avesse inizio la durata del mondo piuttosto che il mondo, ma fece sì che la durata stessa avesse inizio mediante il mondo e mediante tutte le cose che vi sono. Come nessuna cosa del mondo può essere colta per come è in se stessa, se non nell’identico assoluto, così neppure la durata può essere colta per come è in se stessa mediante una qualche misura. Mediante ciò che è altro, infatti, come si potrebbe cogliere l’identico, se non in un altro modo [rispetto a come esso è in se stesso]? Come si potrebbe misurare la durata di una cosa mediante la durata di un’altra cosa, se le due misure sono incommensurabili e sconosciute l’una all’altra? Soltanto l’identico assoluto, infatti, è la misura perfettamente adeguata di qualsiasi cosa sia misurabile49. Corrado. Acconsentirei facilmente a tutto ciò, se non mi trattenesse il libro di Mosé sulla Genesi. Secondo quanto vi viene narrato, infatti, possiamo stabilire, facendo bene i calcoli, quale sia la misura della durata del mondo a partire dal suo inizio, ottenendo, come risultato, che il mondo non conta ancora settemila anni, sebbene nella Storia naturale di Plinio50 e in molte altre opere si leggano opinioni diverse. Nicola. Io tengo in gran conto il libro di Mosè e so che quanto vi si dice è verissimo, se guardo all’intenzione di chi scrive51. Se guardo a Dio, cui appartiene di deificare, credo infatti che Dio abbia creato il mondo e l’uomo a sua immagine52, che il creato sia buono, che il peccato sia entrato nel genere umano a causa dell’uomo e non del creatore, che Dio con molti mezzi – con profezie, promesse e doni – abbia richiamato l’uomo dalla strada del peccato, che egli aveva imboccato a causa dei suoi progenitori e non di Dio, che lo abbia poi dotato di leggi per resistere all’inclinazione corrotta54, e che, infine, oltre a tutto questo, gli abbia promesso la filiazione divina nel Figlio suo, se avesse creduto55 ed avesse eseguito i comandamenti: tutto questo lo ammetto pienamente e lo sostengo con fermezza, se guardo a Dio, cui è proprio di deificare, e lo ammetto non perché sono cristiano o perché sono costretto da una legge, ma perché la ragione mi impedisce di pensare altrimenti. Ma quando Mosè esprime, in termini umani, il modo in cui tutte queste cose furono fatte, credo ch’egli abbia usato, con finezza, certe espressioni con lo scopo di comunicare il vero secondo il
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hominem capi posset, eleganter expressisse. Sed usum scis modo humano ad finem, ut homines humaniter instruat, quibus post humanum modum adicit suo loco talia, ut intelligentes intelligant illa, quae modum exprimunt, inattingibilis divini modi fore humanam assimilationem. Nam quando aperuit deum nihil omnium esse, quae videri aut figurari aut insculpi possunt, atque quod ipse solum in vestigiis, quae sunt posteriora eius, visibilis sit per hominem, quodque ipse infinitae potentiae nihil agat per temporales moras, satis ostendit se creationis inexpressibilis modum humaniter configurasse. Unde sapientes, qui invisibilem deum omnia, ut voluit, simul aiunt creasse, non contradicunt intentioni legislatoris Moysi, sicut nec alii plerique, qui alios confinxerunt modos. Et ad hoc maxime facit, quia, cum de homine loqueretur, ipsum Adam appellat, quod est appellativum in suo significato hominem sive masculum sive feminam complicans. 160 Et ob praemissa atque alia multa, quae convenientius alibi tractari possunt, principium Geneseos prudentibus mandatur servari per Iudaeos, ne litteralis superficies novicios offendat. Prudentes autem atque in theologicis peritiores scientes divinos modos sine apprehensibili modo esse non offenduntur, si configuralis assimilatorius ad consuetudinem audientium contractus reperitur. Ipsi enim absolvunt eum a contractione illa, quantum eis possibile fuerit, ut intueantur tantum idem absolutum identificare. Hinc eosdem nec diversitas historiarum, rationum, temporis, nominum, hominum, adversitas fluxus fluviorum, qui ex medio paradisi narrantur effluere, et quaeque alia, etiamsi forent absurdiora, minime
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modo in cui il vero può essere colto dall’uomo. Ma tu sai che Mosè si è servito di un modo umano di esprimersi allo scopo di istruire gli uomini in termini umani; tuttavia, dopo essersi espresso in questo modo umano, Mosè aggiunge, a suo luogo, altre cose tali da consentire, a coloro che sono dotati di intelletto, d’intendere che le parole con le quali egli esprime il modo in cui furono create tutte le cose sono solo una assimilazione umana di un modo divino che è in sé inattingibile56. Ad esempio, quando dice apertamente che Dio non è nessuna di tutte le cose57 che si possono vedere, che possono essere raffigurate o scolpite, che egli è visibile dall’uomo solo nelle vestigia che sono inferiori a lui58, e che la sua potenza infinita non agisce affatto secondo i diversi periodi temporali, Mosè indica a sufficienza il fatto che prima aveva raffigurato in termini umani il modo inesprimibile in cui avviene la creazione. Di conseguenza, i sapienti che sostengono che il Dio invisibile ha creato tutte le cose simultaneamente con un atto di volontà59 non contraddicono perciò l’intenzione del legislatore Mosè, come non la contraddicono molti altri sapienti che si sono raffigurati la creazione in altre maniere. E con ciò si accorda molto bene il fatto che, quando parla dell’uomo, Mosè lo chiami Adamo, che è un appellativo che, nel suo significato, complica in sé l’uomo, inteso sia come maschio che come femmina60. Per i motivi che ho appena detto e per molte altre ragioni, che potrebbero esporsi in modo più conveniente in altro luogo, i Giudei hanno riservato ai soli saggi l’inizio del Genesi, in modo che la lettera del testo non offendesse i neofiti61. I saggi, infatti, e coloro che sono più esperti nelle questioni teologiche, sapendo che i modi divini non sono comprensibili, non si offendono se vi trovano espresso un modo [di parlare] raffigurativo e per similitudine, che risulta contratto in accordo con le abitudini di coloro che ascoltano. I saggi, infatti, per quanto è in loro potere, svincolano quel modo [di esprimersi] dalla sua contrazione, per potervi così cogliere intuitivamente solo che l’identico assoluto identifica. Essi non sono perciò affatto offesi dalla diversità delle storie, delle ragioni, del tempo, dei nomi degli uomini, dal fatto che i fiumi, che si racconta scorrano dal centro del paradiso, siano fatti fluire in direzioni contrarie62, e da ogni altra cosa, anche la più assurda63. Al
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offendunt, sed mysteria secretiora ex absurdioribus venantur, sicut in exercitatis maximis ingeniis sanctorum circa eam Geneseos partem reperire poteris, si Ambrosium De paradiso et eundem in Hexameron, Basilium, Augustinum, Hieronymum et tales lectitaveris. Quales omnes, licet discrepare in plerisque videantur, adverti uti prudentes in principali concurrere, licet modum non omnes ad litteram admittant ibidem narratum. Quorum omnium considerationem circa modum sic accepto, quasi sint sapientum varii conceptus inexpressibilis modi, non nisi me ad idem ipsum, quod quisque nisus est assimilatorie configurare, convertens et in eo quiescens. 161
III
Conradus: Placet valde ea a te audisse maxime de principio Geneseos. Nam, ut intelligo, erat intentio legislatoris una, quam affirmas verissimam prout omnes sapientes, sed historiam modi non negas, quia dicis modum humaniter propter audientes, ut fructum faceret, sic historice redactum, quamvis homo divinum modum nec concipere nec exprimere possit nisi varia assimilatione. 162 Sed quia propheta noster David, cuius verba, qui de idem absoluto locutus est, abunde explanasti, alibi dicit verbo domini caelos firmatos et spiritu oris eius omnem eius virtutem edoceri supplico, si haec assimilatio convenienter se habeat, maxime cum in radice videantur a configuratione Moysi non multum diversa. Nicolaus: Modum, quo cuncta sunt a primo, quisque conicere nisus est, sed ex prudentioribus philosophis habetur ita a deo purissimo intellectu penitus atque perfectissime in actu exsistente
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contrario, partendo dalle cose più assurde vanno a caccia dei misteri più segreti, come potrai riscontrare che fanno gli ingegni più grandi e più esperti dei santi che hanno trattato di questa parte del Genesi, se leggerai il De paradiso di Ambrogio64, il suo In Hexameron65, Basilio66, Agostino67, Girolamo68 e scrittori simili. Ho notato che tutti questi autori, sebbene sembrino essere in disaccordo su molte questioni, in quanto saggi concordano nell’essenziale, anche se non tutti prendono alla lettera il modo in cui la creazione viene narrata [nel Genesi]. Io accetto le opinioni di tutti questi autori circa il modo in cui è avvenuta la genesi delle cose, considerandole come le varie maniere in cui i sapienti hanno cercato di concepire il modo divino inesprimibile, non senza però rivolgermi da parte mia all’identico stesso, che ciascuno di loro si è sforzato di rappresentare con una similitudine, e in esso trovo pace. III
Corrado. Mi fa molto piacere aver ascoltato le cose che hai detto, soprattutto per quanto riguarda l’inizio del Genesi. Per come capisco, infatti, il legislatore aveva un’unica intenzione, che tu, come tutti i sapienti, consideri verissima; non neghi, tuttavia, la storicità del modo della narrazione, poiché dici che quel modo è stato redatto in maniera umana, storicamente, affinché gli ascoltatori ne traessero beneficio, sebbene l’uomo non possa né concepire storicamente, né esprimere il modo divino se non attraverso una varietà di similitudini. Ma poiché il nostro profeta Davide, il quale ha parlato dell’identico assoluto – e tu hai spiegato abbondantemente il significato delle sue parole – dice in altro luogo che i cieli furono fondati dalla parola del Signore e che il soffio della sua bocca ha fondato ogni loro virtù69, ti prego di chiarirmi se questa similitudine può considerarsi idonea, anche perché, nel suo nucleo fondamentale, essa non sembra molto diversa rispetto alla raffigurazione fornita da Mosè. Nicola. Ognuno si è sforzato di formulare una congettura riguardo al modo in cui tutte le cose derivano dal primo principio, ma i filosofi più saggi ritengono che le forme naturali delle cose
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formas naturales rerum imperio voluntatis oriri, sicut imperio architectonici, cui instrumenta oboediunt, forma domus. Unde, ut compendiosius dicam, per praemissa ostenditur omne agens, quia idem sibi ipsi, identificare. Igitur omne agens in agendo quadam similitudine creationem repraesentat. 163 Conradus: Non dubium. Sed clariori modo una quam alia actio. Hinc oro propinquiori assimilatione per te duci. Nicolaus: Perlibenter, quantum nunc occurrit. Vidisti, puto, vasa vitrificatoria arte fieri. Conradus: Vidi. Nicolaus: Satis illa te ducere poterit. Nam vitrifex materiam colligit. Deinde ipsam in fornace ministerio ignis adaptat. Post mediante canna ferrea, cui colligatur materia, ut recipiat per influxum artificis formam vasis concepti in mente magistri, vitrificator spiritum insufflat, qui subintrat ipsam materiam, et mediante spiritu movente materiam ad intentionem magistri fit vas vitreum per magistrum de materia, quae caruit omni forma vasis. Quae adeo est formans materiam, ut sit vas tale talis speciei, quod materia ipsa nunc stans sub forma caret possibilitate universali ad omnem formam vasis, quia universalis possibilitas est actu specificata. Sed quando magister de hoc vase huius speciei aliud alterius speciei efficere proponit, videns neque vas istud aut eius partes, cum sint partes eius, habere se possibiliter ad id quod intendit, cum quodlibet sit totum et perfectum et eius partes sint illius totius partes, facit vas aut eius pecias reverti ad primam materiam tollendo actualitatem formae qua stringebatur et, cum tunc sit materia per resolutionem ad fluxibilitatem et universalem possibilitatem reducta, iterum de ipsa vas aliud efficit.
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sorgano da Dio, che è un intelletto purissimo, completamente e perfettissimamente in atto, per un comando della sua volontà, così come la forma di una casa sorge dal comando dell’architetto, al quale obbediscono gli strumenti della costruzione70. Quindi, per riassumere: sulla base di quanto abbiamo detto in precedenza, si dimostra che ogni agente, in quanto identico a se stesso, identifica. Ogni agente, pertanto, nel momento in cui agisce, rappresenta, in una certa similitudine, l’atto della creazione. Corrado. Nessun dubbio. Ma un’azione la rappresenta in una maniera più chiara di un’altra. Ti prego pertanto di guidarmi con una similitudine più vicina. Nicola. Molto volentieri, per quanto ora mi venga in mente. Hai visto, credo, come faccia l’arte del vetraio a costruire i vasi. Corrado. L’ho visto. Nicola. Questa arte ti potrà guidare abbastanza bene. Il vetraio, infatti, assembla la materia. Poi la plasma con l’aiuto del fuoco che è nella fornace. In seguito, mediante una canna di ferro, che viene messa nella materia perché questa riceva dal soffio dell’artigiano la forma del vaso concepita nella mente del costruttore, il vetraio vi soffia e il soffio entra nella materia stessa. Attraverso tale soffio, che muove la materia secondo l’intenzione del costruttore, si forma un vaso di vetro da una materia che prima era priva di ogni forma di vaso. La forma informa la materia, in modo tale che quel tale vaso sia di quella tale specie, facendo sì che la stessa materia, che ora sta sotto una forma, perda la possibilità universale di diventare qualsiasi forma di vaso, in quanto questa sua possibilità universale è stata ora specificata in atto. Ma, nel momento in cui da questo vaso di questa specie il costruttore voglia farne un altro di un’altra specie, vede che né questo vaso, né le sue parti – poiché sono parti di esso –, hanno la possibilità di diventare ciò che egli intende fare, in quanto ogni vaso è un tutto compiuto71 e le sue parti sono parti di quel tutto; per questo motivo, egli fa in modo che il vaso, o le sue parti, siano ricondotte alla materia prima, rimuovendo l’essere in atto della forma, mediante il quale la materia era stata ristretta a quel vaso particolare, e, una volta che la materia sia stata in questo modo riportata e ricondotta alla flessibilità e alla possibilità universale, egli costruisce di nuovo da essa un altro vaso72.
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licet remota similitudine deus, licet non colligat ex aliquo quod non creavit possibilitatem rerum, omnia in esse producit. Si attendis, et calore solis ita utitur natura in sensibilibus formis sicut vitrificator igne, et agit natura uti spiritus vitrificatoris, et dirigitur natura a mente summi opificis sicut spiritus magistri a mente eius. Talia quaedam et alia multa elicere poteris. Conradus: Optime assimilasti genesim sensibilium et quasi in exemplato paradigmate intueor quomodo natura est principium motus, quomodo calor est instrumentum naturae, quomodo locus est ut fornax, quasi calor sit cultellus et locus vagina. Multa de natura, quae inest et in centro, ex hoc capio. Universaliorem, si potes, applica, quaeso, similitudinem.
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Nicolaus: Multa consideranti occurrere possunt satis apta paradigmata. Sed puto quod docere sit inter nobis notas operationes satis propinqua assimilatio universalis modi creationis. Hinc ipsam Moyses, David et ceteri prophetae tamquam propinque modum creationis figurantem assumpserunt. Doctor enim ad finem, ut ad identitatem magisterii non doctum discipulum vocet, silentium ad vocem in similitudinem sui conceptus vocat et surgit silentium in assimilatione conceptus magistri. Quae quidem assimilatio est verbum intellectuale, quod in rationali et illud in sensibili figuratur. Unde sensibile quoad eius vocalitatem surgit de silentio per gradus de confuso sono in discretam articularem vocem. Docente enim magistro remotius distantes sonum quendam confusum audiunt. Sonus igitur possibilitas seu vocis propinqua materia exsistit. Quapropter, dum de silentio vox
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In modo simile, anche se di una similitudine molto lontana, Dio produce all’essere tutte le cose, sebbene egli non debba raccogliere la possibilità delle cose da qualcosa che non ha creato. Se fai attenzione, anche la natura, per produrre le forme sensibili, si serve del calore del sole come il vetraio del fuoco; la natura agisce come il soffio del vetraio e viene diretta dalla mente del sommo artefice, come il soffio del costruttore è diretto dalla sua mente. Da tale similitudine si possono trarre queste e molte altre conclusioni. Corrado. Hai fornito una similitudine per comprendere la genesi degli enti sensibili; in questo esempio paradigmatico riesco quasi a cogliere intuitivamente che la natura è il principio del moto73, che il calore è lo strumento della natura, che il luogo è come una fornace (come se il calore fosse un coltello e il luogo una guaina). In questo modo riesco a capire molte cose della natura, che è al centro di questa similitudine. Se puoi, tuttavia, cerca di impiegare una similitudine più generale. IV
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Nicola. Molti sono gli esempi abbastanza appropriati che possono venire in mente a chi ragiona intorno a queste questioni. Ma ritengo che, tra le attività che conosciamo, l’insegnamento sia un paragone abbastanza vicino al modo in cui avviene la creazione dell’universo. Per questo motivo, Mosè, Davide e gli altri profeti l’hanno utilizzato, in quanto raffigura da vicino il modo in cui è avvenuta la creazione74. Un maestro, infatti, per poter chiamare al proprio magistero il discepolo non dotto, chiama il silenzio a divenire parola a somiglianza del proprio pensiero, e il silenzio si assimila al pensiero del maestro75. Questa assimilazione, certamente, è una parola intellettuale, che è raffigurata nella parola razionale, la quale è a sua volta raffigurata in quella sensibile. La parola sensibile, per quanto riguarda la sua espressione vocale, sorge dal silenzio, passando per gradi da un suono confuso a una voce distintamente articolata. Quando il maestro insegna, infatti, coloro che sono molto distanti sentono come un suono confuso. Il suono, dunque, è la possibilità o la materia prossima della voce. Quando dal silenzio viene
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vocatur, primo oritur sonus quasi vocis possibilitas, ut sic possibilitas quae sonus nec sit silentium nec vox formata sed formabilis. Deinde oriuntur elementa de confuso sono, post combinatio elementorum in syllabas, syllabarum in dictiones, dictionum in orationem. Et haec quidem eo ordine gradatim in vocatione silentii in verbum vocale exoriri constat, licet differentia prioritatis et posterioritatis non sane per auditum attingatur. 166 Est deinde verbum magistri sic prolatum in se tenens triplicem ordinem. Nam est ipsum tale verbum sensibile et sensibilibus tantum auribus attingitur per penitus vocabula ignorantes. Et hic modus est bestialitatis. Omnes enim bestiae cum homine ignorante vocabula non aliud quam vocem articulatam attingunt. Est deinde verbum ipsum rationale, quia per scientes vocabula attingitur. Unde, cum solum ratio vocabula capiat, sic attingitur per hominem tantum sermo magistri et non per bestias. Sed quia potest grammaticus tantum attingere sermonem et non mentem magistri, qui in sermone conceptum mathematicum vel theologicum nititur explicare, habes verbum magistri in alio ordine rationale exsistere. Deinde, quoniam mathematicus aut theologus mentem magistri in verbo eius intuetur, verbum intellectuale ex hoc elicis tertii ordinis, quod gerit proximam similitudinem mentis magistri. 167 Vides etiam quoad vocalitatem ipsius verbi quandam virtutem in magistro spirativam, ex qua varii motus linguae, labiorum et aliorum instrumentorum prodire necesse est, ut sit vocale verbum. Participant igitur motores, qui et Musae a poetis vocantur, arteriarum, linguae, labiorum, mandibulae varie spiritum proferentis, ut sint spiritus varie moventes instrumenta ad eandem intentionem proferentis. Sic propheta assimilat convenientissime creationem verbo et
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chiamata all’essere la voce, pertanto, sorge dapprima il suono, che è come la possibilità della voce, per cui questa possibilità che è il suono non è né il silenzio, né la voce formata, bensì è la voce formabile. Poi, dal suono confuso nascono gli elementi, poi dalla combinazione di elementi le sillabe, dalle combinazioni di sillabe le parole, dalle combinazioni di parole i discorsi. Ed è evidente che questo è l’ordine dei momenti attraverso i quali il silenzio passa per gradi quando viene chiamato a diventare parola pronunciata, per quanto l’udito non riesca a cogliere perfettamente la differenza tra i momenti che vengono prima e quelli che vengono dopo76. La parola del maestro, così proferita, contiene in sé un triplice ordine. Essa è una parola sensibile, ed è solo come tale che la colgono, con le orecchie sensibili, coloro che ignorano del tutto il significato delle parole. E questo è il modo tipico delle bestie. Tutte le bestie, assieme all’uomo che non conosce il significato delle parole, non afferrano altro che una voce articolata. La parola è poi razionale, in quanto viene colta da coloro che conoscono le parole. Per questo motivo, dal momento che soltanto la ragione comprende il significato delle parole, il discorso del maestro è colto soltanto dall’uomo e non dalle bestie. E poiché il grammatico può cogliere soltanto il discorso e non la mente del maestro, il quale nel discorso si sforza di spiegare i suoi concetti matematici o teologici, ecco allora che la parola del maestro esiste in un ordine che è diverso da quello razionale. Infine, poiché il matematico e il teologo riescono a intuire nella parola del maestro la sua mente, puoi ricavare da ciò il terzo grado della parola, ossia la parola intellettuale, la quale contiene una somiglianza molto vicina alla mente del maestro. Per quanto riguarda il carattere vocale della parola stessa, vedi che nel maestro vi è una certa capacità di espirare, dalla quale è necessario che procedano i movimenti della lingua, delle labbra e degli altri organi, affinché una parola sia proferita con la voce. I motori, chiamati anche Muse dai poeti, delle arterie, della lingua, delle labbra, della mandibola partecipano quindi in modo vario del soffio [spirito] di colui che parla, per cui essi sono spiriti che muovono in vario modo gli organi in accordo con l’intenzione di colui che parla. Così, il profeta, in maniera assolutamente appropriata, paragona la creazione alla parola e al soffio che promana dalla bocca. E
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spiritu oris. Forte haec est ipsius sancti Moysi intentio, qui configurat similiter creationis modum verbali expressioni. Ait enim: «Dixit deus: fiat lux, et facta est lux», ut facilitatem in creando compararet verbo dicto. 168 Et hinc maximi mysterii ineffabile dei nomen, quod Graeci, quia quattuor Hebraicis characteribus scribitur, Tetragrammaton appellant et Iehova profertur, forte quoniam est complicatio omnis vocalitatis, ineffabile dicitur, tamquam fons omnis effabilis verbi quasi ineffabilis in omni verbo effabili ut causa resplendeat. Videtur enim maximi profectus studium posse venari in hac configuratione ad effluxum entium a primo circa omnia, quae passim se consideranda in distinctione, ordine, motibus et aliis cunctis offerunt otiose et diligenter attendenti, nisi tibi aliud occurrat. Conradus: Nescio cui aliud videri possit quam quod maxime refert attendere sanctorum prophetarum simplices fecundissimas traditiones et philosophorum argutias. Nam magna facilitate hoc compendio similitudinis eo ductus sum, ut rerum ordinem pulcherrimum intuear, scilicet quomodo corporalia sint ob sensibilem discretionem et sensibilis discretio ob rationalem, rationalis ob intellectualem, intellectualis ob veram causam, quae est universorum creatrix. 169 Video enim apertissime in praemisso paradigmate omnem naturam servire intellectuali sicut eius assimilationes, ut ipsa sit signaculum verae et absolutae causae atque ut sic omne ens eius medio attingat fontem sui esse. Nam quid quaerit omnis sensibilis inquietatio nisi discretionem seu rationem? Quid quaerit omnis ratiocinatio nisi intellectum? Quid quaerit omnis intellectus nisi veram absolutam causam? Idem omnia quaerunt, quod est quid absolutum, cuius signaculum extra intellectualem regionem non reperitur. Non enim reperitur quiditas orationis docentis nisi in re-
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questa è forse anche l’intenzione del santo Mosè, il quale raffigura il modo in cui è avvenuta la creazione mediante quello dell’espressione verbale. Scrive infatti: «Dio disse: sia la luce, e la luce fu»77; in questo modo, egli paragona la facilità della creazione alla facilità con la quale viene pronunciata una parola. E quindi quel massimo mistero che è il nome ineffabile di Dio, che i Greci chiamano tetragramma, perché è scritto con quattro lettere ebraiche e che si pronuncia Jehova, viene detto ineffabile forse perché è complicazione di ogni parola che viene proferita con la voce, in quanto, quale fonte di ogni parola che può essere pronunciata, l’ineffabile risplende, in qualità di causa, in ogni parola che viene pronunciata78. Il fatto che in questa raffigurazione del flusso degli enti dal primo principio79 sia possibile, per chi si dedica alla ricerca con diligenza e cura, indagare tutte le cose che ci si presentano nelle loro distinzioni, secondo il loro ordine, i loro movimenti, ecc.80, mi sembra essere uno studio quanto mai proficuo, a meno che non ti prema qualcos’altro. Corrado. Non so a chi possa premere qualcos’altro che non sia l’occuparsi – cosa che quanto mai utile – degli insegnamenti semplici e assolutamente fecondi dei santi profeti e delle sottili argomentazioni dei filosofi. Questa concisa similitudine, infatti, mi guida con grande facilità a vedere l’ordine bellissimo delle cose, a vedere, cioè, come le cose corporee dipendano dalla distinzione sensibile, la distinzione sensibile dipenda da quella razionale, la distinzione razionale da quella intellettuale e la distinzione intellettuale dalla causa vera, che è creatrice di tutte le cose81. Nell’esempio che abbiamo appena impiegato, vedo, infatti, in maniera chiarissima che ogni natura è al servizio di quella intellettuale82, in quanto costituisce una sua similitudine, in modo tale che la stessa natura intellettuale sia un segno della causa vera e assoluta ed ogni ente raggiunga, così, grazie ad essa, la fonte del proprio essere. Che cosa cerca, del resto, ogni stimolo sensibile, se non la distinzione o la ragione?83 E che cosa cerca ogni ragionamento, se non l’intelletto? Che cosa cerca ogni intelletto, se non la vera causa assoluta? Tutte le cose cercano l’identico, che è un qualcosa di assoluto, il cui segno non si trova al di fuori della sfera dell’intelletto. Ad esempio, l’essenza del discorso di un insegnante si tro-
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gione intellectuali, in qua causa vera resplendet. Dicente mathematico omnem triangulum habere tres angulos aequales duobus rectis etiamsi ‘quia est’ discipulus capiat, quousque causam veram non concipit, non intelligit, patefacta causa quiditatem intellectus intuetur. Ita video in intellectu resplendere causam. 170 Solus igitur intellectus habet oculum ad intuendum quiditatem, quam intueri nequit nisi in causa vera, quae est fons omnis desiderii. Et cum omnia appetant esse, in omnibus est desiderium ab ipso fonte desiderii, in quo in idem coincidit esse et desiderium. Igitur omnium desiderium est secundum esse, ut rationabilia rationabiliter, sensibilia sensibiliter, et sic de aliis, esse appetant et hoc quidem optime. Omnia igitur optimum sed suo modo desiderant. Unum et idem est absolutum bonum, ad quod omnia vocata esse omnium desiderium ostendit. 171 Talia quidem laetanter te dicente hausi gaudens me hac aperta similitudine multa atque magna de genesi et natura elicere posse, sed quia non desunt sancti, qui mundum libro scripto configurant, oro, quid tibi videatur, exponas. Nicolaus: Nullum pictorem sperno, in quolibet idem intelligo. Mihi apta satis configuratio ad mundum scriptus liber videtur, cuius et lingua et characteres ignorantur, quasi Almano Graecus quidam Platonis liber praesentaretur, in quo Plato intellectus sui vires descripserit. Posset enim attente figuris incumbens Almanus ex differentia et concordantia characterum conicere aliqua elementa et ex combinationibus variis vocales, sed quiditatem ipsam in toto vel in parte nequaquam, nisi reveletur eidem.
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va solo nella sfera intellettuale, nella quale risplende la causa vera. Quando un matematico dice che ogni triangolo ha tre angoli uguali a due retti, l’allievo, anche se capisce «che» questa proposizione è vera, non la intende veramente fino a che non ne concepisce la vera causa; una volta che abbia scoperto la causa, l’intelletto coglie intuitivamente l’essenza. Così, vedo che la causa risplende nell’intelletto84. Soltanto l’intelletto possiede un occhio85 capace di cogliere intuitivamente l’essenza, che non può essere vista se non nella causa vera, che è la fonte di ogni desiderio. E dal momento che tutte le cose desiderano di essere, in tutte le cose vi è un desiderio che proviene dalla stessa fonte del desiderio, nella quale l’essere e il desiderio coincidono nell’identico. Il desiderio di ogni cosa, pertanto, è conforme al proprio essere, per cui gli enti razionali desiderano di essere in modo razionale, gli enti sensibili in maniera sensibile e così si dica degli altri, e ciascuno desidera di essere in modo ottimo. Tutte le cose, pertanto, desiderano l’ottimo, ma ciascuna nel modo che è ad essa proprio. Il bene assoluto è uno ed identico, e il desiderio che è presente in tutte le cose mostra che tutte sono state chiamate a lui86. Questo è quanto ho appreso con gioia dal tuo discorso, e sono felice di poter trarre dalla chiara similitudine che hai esposto molti insegnamenti importanti sulla genesi e sulla natura delle cose. Tuttavia, poiché vi sono santi che raffigurano il mondo come un libro scritto, ti prego di dirmi che cosa pensi a questo proposito. Nicola. Non disprezzo nessun pittore, e in ciò che viene rappresentato da ciascuno di essi cerco di riconoscere l’identico. L’immagine del libro scritto mi sembra sufficientemente appropriata al mondo87; un libro del quale ignoriamo la lingua e i caratteri, come se a un tedesco venisse mostrato un libro di Platone scritto in greco, nel quale Platone ci ha comunicato per iscritto la potenza del suo intelletto. Il tedesco, infatti, prestando particolare attenzione alla forma delle lettere, dalla differenza e dalla concordanza dei caratteri potrebbe congetturare alcuni elementi della lingua e, dalle loro varie combinazioni, le vocali, ma non potrebbe mai ricavarne l’essenza, né in tutto, né in parte, a meno che non gli venga spiegata.
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tale quid conicio mundum, ubi vis divina configurata latet. Cuius etsi diligenti investigatione per proportiones, differentias et concordantias et studiosum discursum ad ‘quia est’ elementorum et combinationum deveniri possit, nullum tamen nomen nec elementi nec vocalis nec combinationis proprium ex se inquisitor inveniet, sed inventis ratio discernens nomen appropriat. Quod Moyses pulchre exprimit, ubi Adam seu hominem nomina rebus imposuisse describit et in processu historiae causam nominum certam semper rationem insinuat. Hinc etiam varia reperiuntur nomina rerum secundum variam rationem et varia nomina unius ex varia rationis coniectura. Solum hoc nobis revelat liber ille, quia «magnus et excelsus» supra omne id, quod dici potest, ille, qui digito suo scripsit, atque quod «magnitudinis», prudentiae et potentiae «eius non est finis», quodque, nisi ipse revelet, nihil penitus sciri possit, atque quod, nisi intellectus conformetur ei, non intelliget, quia nisi idem absolutum videatur, non intelligentur configurationes similitudinis eius. Nemo potest imaginem Socratis cognoscere ex ea causam scientiae venando Socrate ignorato. 173 Dic, quaeso, si quis artis inventor alicuius, post quem nullus talis, puta pictoriae, cum non assit cui tradat, relinquere artem velit et inconfigurabilem pingendi artem, quia melius relinqui nequit, in libro depingat, nonne videbis varias figuras in libro, ex quibus mirabilem et incognitam artificis artem conicere poteris? Sed artem, quae est forma simplex omnium figurarum, quae ibi expressa est in omnibus et singulis, absoluta quiditas figurarum exsistens, quomo-
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Congetturo, pertanto, che si possa pensare qualcosa di simile a proposito del mondo, nel quale vi è raffigurata, in modo nascosto, la potenza divina. Mediante una scrupolosa indagine di questo mondo, ricercando le proporzioni [che sono in esso], le differenze e le concordanze [fra le diverse cose] e conducendo un’attenta analisi, è possibile giungere a conoscere che vi sono degli elementi [ultimi del mondo] e quali sono le loro combinazioni; tuttavia, un ricercatore non riuscirà mai da se stesso a trovare nessun nome che sia veramente proprio né di un elemento88, né di una vocale, né di una combinazione, ma è la sua ragione discernente quella che attribuisce un nome alle cose che egli trova. Mosè lo dice molto bene, quando descrive Adamo, ossia l’uomo, come colui che ha imposto i nomi alle cose89, e suggerisce, nel corso della narrazione, che c’è sempre una ragione che costituisce la causa dei nomi. Per questo motivo, vi sono vari nomi delle cose, a seconda della varietà delle ragioni, e i vari nomi che si hanno di una cosa dipendono dalla varietà delle congetture formulate dalla ragione. Il libro del mondo ci rivela soltanto questo, ossia che colui che lo ha scritto con il suo dito è «grande ed eccelso»90, al di sopra di tutto ciò che si può dire, che non vi è fine alla sua grandezza91, alla sua saggezza e potenza, e che non è possibile sapere nulla se egli non ce lo rivela; il nostro intelletto, infatti, se non si conforma a lui, non potrà intendere nulla, perché, se non si riesce a vedere l’identico assoluto, non si riuscirà ad intendere le realtà [del mondo] che sono state configurate a sua somiglianza. Se uno non conosce Socrate, non può neppure riconoscere l’immagine di Socrate, cercando di trarre da essa il principio della sua conoscenza. Pensa, ti prego, a un inventore di una qualsiasi arte, per esempio quella della pittura92, dopo il quale non vi sia nessun altro artista, perché non c’è nessuno a cui egli possa tramandare la sua arte; immagina, tuttavia, che egli voglia lasciare ai posteri la sua arte e che, non potendolo fare in modo migliore, dipinga in un libro l’indescrivibile arte della pittura. Non vedresti forse nel libro varie figure, dalle quali potresti trarre delle congetture circa l’arte meravigliosa e sconosciuta dell’artista? Ma l’arte stessa, che è la forma semplice di tutte le figure, e che lì è espressa in tutte le figure e in ciascuna di esse singolarmente, in quanto è la quiddità assolu-
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do attingere visu poteris, cum non sit visibilis sed solum intelligibilis? Quo quidem artis cares intellectu. Nonne deus pater est fons artis identificandi, quae est ars omnis artis complicativa et absoluta formalis quiditas omnium formabilium, qui et filius, verbum, potentia aut sapientia patris et aliis multis nominibus dicitur? Quomodo igitur ars ipsa essendi in omnibus, quae sunt explicata, potest concipi per non habentem intellectum artis, cum solus intellectus dei patris hanc habeat artem qui est ars ipsa? 174 Manifestum est igitur neque in parte neque in toto posse aliquid quiditatis per hominem attingi. Dum haec humana meditatio rimatur suas despicit venationes syllogisticas et ad revelatas propheticas illuminationes oboedienter se convertit et ita in cognitionem se despiciendo quasi penitus impotentem ad ea quae quaerit pergit. Sic cognitio ignorantiae humiliat et humiliando exaltat et doctum facit. Quod optime Moyses exprimit, ubi casum hominis in ignorantiam, quae est mors intellectus, describit evenisse, quia sua vi nisus fuit in scientia deo coaequari. Hoc forte te attendere utile erit. 175
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Conradus: Immo maxime, quia omnium summam hanc video. Et quia tot nunc tacta sunt, quae in prophetae verbis complicita me latebant, ne, quaeso, graveris his adicere, cur propheta dicat caelos verbo et virtutes spiritu formatos, cum sit idem absolutum, quod omnia identice agit. Nicolaus: Experientia didici auctoritatem maxime studio conferre. Qui enim recipit dictum aliquod quasi divina revelatione
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ta delle figure, in che modo potresti coglierla con la vista, dato che essa non è visibile, ma può essere costa solo con l’intelletto? Certamente, questa intelligenza dell’arte ti mancherebbe. Non è forse vero che Dio padre è la fonte dell’arte di identificare, che è l’arte che complica ogni arte, ed è l’assoluta quiddità formale di tutte le cose che possono ricevere una forma, e viene denominata anche Figlio, Verbo, Potenza o Sapienza del Padre e con molti altri nomi? In che modo, allora, quest’arte dell’essere, che è presente in tutte le cose che sono esplicate, può essere concepita da chi non ha un’intelligenza dell’arte, dato che soltanto l’intelletto di Dio padre, che è l’arte stessa, possiede quest’arte93? È evidente, allora, che, né in tutto, né in parte, l’uomo può giungere a cogliere qualcosa della quiddità94. Quando, nella sua meditazione, l’uomo esamina queste cose, egli allora disprezza le prede catturate per mezzo dei sillogismi e si volge, in piena obbedienza, alle verità luminose rivelate dai profeti; così, disprezzando se stesso, come del tutto impotente a conseguire la conoscenza, si protende alle cose che cerca95. In tal modo, la conoscenza della nostra ignoranza ci umilia e, umiliandoci, ci esalta e ci rende dotti. Mosè esprime tutto ciò perfettamente, quando descrive che la caduta dell’uomo nell’ignoranza, che è la morte dell’intelletto, è avvenuta perché l’uomo aveva tentato con le sue forze di rendersi uguale alla scienza di Dio. Forse ti sarà utile dedicarti a considerare questo punto96.
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Corrado. Anzi, mi sarà utilissimo, poiché vedo che in questo punto risiede la somma di tutto97. Finora sono stati trattati molti punti che erano contenuti implicitamente nelle parole del profeta e che mi erano nascosti; per questo, non ti dispiaccia, per favore, di spiegarmi per quale motivo il profeta dice che i cieli furono formati dalla parola98 e che le potenze furono invece formate dallo spirito, dal momento che si tratta dell’identico assoluto, il quale fa tutte le cose in modo identico. Nicola. Ho imparato per esperienza che l’autorità giova moltissimo allo studio. Se uno, infatti, accoglie una proposizione come
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propalatum et id quaerit omni conatu intellectualiter videre quod credit, qualecumque dictum illud fuerit, thesaurus undique latens se inapprehensibiliter ibi reperibilem ostendit. Hinc altissima fide ad altissima ducimur, ut alias in De dei filiatione audisti. 176 Ita quidem propheticam hanc expressionem quasi propinque figurantem genesim rerum recipio per fidem et pergo ipsam per intellectum in similitudine videre, qui tamen invisibilis exsistit. Ait propheta: «Verbo domini caeli firmati sunt et spiritu oris eius omnis virtus eorum.» Et ubi nos «domini» habemus, habet lingua originalis Hebraea nomen dei ineffabile, de quo pauca praemisi, quod Iehova pronuntiatur. Dicit igitur ex Iehova quasi ex patre verbi – cum sit omnis vocalitatis complicatio, sine quibus quidem vocalibus nullum verbum potest esse vocale – esse verbum, et ipsius et verbi esse spiritum, quia «spiritus oris eius», quasi os sit coincidentia principii proferentis et verbi ab utroque procedentis spiritus. 177 Et haec ipsa trinitas in ipso idem est absoluto, sine qua idem non haberet identificare. Idem igitur absolutum est trinum et unum, quod experimur in eo, quod identificat. Ita omne agens naturam ipsam trinam et unam participat, sine qua non esset agens. De quo late in primo Doctae ignorantiae libello videre potuisti, ubi nostrum parvulum intellectum, dei tamen donum optimum, explicuimus circa trinitatem, quam plerique alii assimilanter tractarunt et quisque modo suo excellenter. 178 Ad genesim autem redeuntes dicimus prophetam nobis insinuasse caelos et, quidquid caeli nomine, similitudine vel ratione venit in esse, prodiisse uti verbum domini et imperantis, quod in exsecutione non retardatur, cuius ratio est voluntas et voluntas ratio, quae dicit et facta sunt, mandat et creata sunt absque morae interventione. Deinde vocato caelo, ut sit, ei inspirat virtutem, ut ex-
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proferita dalla rivelazione divina e cerca, con ogni sforzo, di vedere con il suo intelletto ciò a cui crede99, quale che possa essere quella proposizione, allora in essa gli si manifesta, in maniera incomprensibile, un tesoro da scoprire – un tesoro che è nascosto ovunque. Di conseguenza, la fede più alta ci conduce alle verità più alte, come hai ascoltato un’altra volta nella Filiazione di Dio100. Così, accolgo per fede questa espressione del profeta, come se raffigurasse da vicino la genesi delle cose, e mi volgo a guardarla con l’intelletto e attraverso una similitudine, anche se resta tuttavia invisibile. Il profeta dice: «Dalla parola del Signore furono fondati i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro potenza»101. E dove noi abbiamo «del Signore», la lingua originale ebraica ha il nome ineffabile di Dio, sul quale prima ho detto alcune cose, che si pronuncia Jehova102. Il profeta, dunque, dice che da Jehova, come dal padre del verbo – in quanto [l’ineffabile nome di Dio] è la complicazione di ogni suono vocale, e senza le vocali non può essere proferita nessuna parola –, deriva il verbo, e che lo spirito è del padre e del verbo, in quanto «soffio della sua bocca», come se la bocca fosse la coincidenza del principio che proferisce e del verbo dello spirito, che procede dall’uno e dall’altro. E questa trinità sta nello stesso identico assoluto, e senza di essa l’identico non potrebbe identificare103. L’identico, pertanto, è uno e trino, cosa che sperimentiamo nel fatto che egli identifica. Allo stesso modo, ogni agente partecipa della stessa natura una e trina, senza la quale esso non sarebbe un agente. Questo argomento hai potuto vederlo ampiamente trattato nel primo libro della Dotta ignoranza104, dove ho esposto la mia piccola comprensione – che è tuttavia un dono ottimo di Dio – intorno alla trinità, di cui molti altri hanno trattato con similitudini, ciascuno a suo modo, in maniera eccellente. Tornando invece alla questione della genesi, diciamo che il profeta ci ha suggerito che i cieli, e tutto ciò che giunge all’essere con il nome, la similitudine o la ragione di «cielo», sono sorti dalla parola di un signore che comanda, una parola che non tarda ad essere seguita. La sua ragione è la sua volontà, e la sua volontà è ragione 105; essa parla e le cose sono già create, senza alcun indugio. Poi, chiamato il cielo all’esistenza, gli infonde la potenza, in modo tale
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trinsecum omnis rei sit vocatio eius de nihilo quasi caelum celans et claudens, et intrinsecum eius sit versio eius ad creatorem, quasi sit expressa creatura a deo. Unde in virtute rei relucet divina virtus quasi rei inspirata. Et secundum illam est expressio similitudinis creatoris virtuosior quam secundum eam extrinsecam habitudinem, qua de nihilo vocata exstitit, ut in animali plus virtutem vivificantem et sentientem a deo spiratam est affirmandum quam caelum animae, hoc est corpus, de nihilo vocatum, ut sic in omni creato consideremus, cum sit assimilatio, extrinsecum, scilicet vocationem de nihilo, et intrinsecum, scilicet participationem veri esse, quasi in essentia omnis creaturae sint haec tria, possibilitas per vocationem de nihilo, actualitas per participationem divinae virtutis et nexus horum. 179 Quod et Moyses eleganter exprimens dicit: «Formavit igitur deus hominem de limo terrae et inspiravit in faciem eius spiraculum vitae et factus est in animam viventem», ut hominem terrenum, qui et Adam quasi terrenus dicitur, exprimeret his modis secundum extrinsecum corpus de limo terrae seu elementorum natura vocatum et secundum intrinsecum vitalem virtutem ex inspiratione divini spiritus seu participatione divinae virtutis esse, ut sic ex illis homo vivus sit unus verus homo. 180 Posset non absurde nomine caeli intelligi modus quidam specificus claudens participatae virtutis motum sicut virtus syllogistica rationis, quae inter certos modos reperitur specifice discurrendo contracta, ut prima figura sit quasi regio, sphaera vel caelum illius modi et in illo caelo quasi universali modo primae figurae sunt orbes specifice differentes, qui sunt modi contractiores. Ita de aliis
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che ciò che è esterno ad ogni cosa è la sua chiamata dal nulla, come se fosse un cielo che cela e chiude, mentre ciò che è interno alle cose è il loro volgersi al creatore, come se la creatura fosse una parola pronunciata da Dio. Nella potenza di una cosa risplende, pertanto, la potenza divina, come se fosse infusa nella cosa. L’espressione della somiglianza nei confronti del creatore è più forte per questo elemento interno alla creatura che non per quel suo rapporto esterno per il quale essa è stata chiamata dal nulla. Ad esempio, per quanto riguarda un animale, bisogna affermare che la potenza vivificante e senziente, che è stata infusa in esso da Dio, è qualcosa che vale di più di quel «cielo» dell’anima che è il suo corpo, che è stato chiamato dal nulla. In modo analogo, possiamo considerare che in ogni cosa creata, in quanto è un’assimilazione, vi è qualcosa che è esterno, cioè la sua chiamata dal nulla, e qualcosa che è interno, ossia la sua partecipazione al vero essere, come se nell’essenza di ogni creatura vi fossero queste tre cose: la possibilità, per la chiamata dal nulla, l’attualità, per la partecipazione alla potenza divina, e il loro nesso106. Anche Mosè esprime in modo elegante tutto questo, quando dice: «Dio formò l’uomo dal fango della terra, egli ispirò in volto lo spirito di vita, e l’uomo divenne anima vivente»107. In questa maniera, Mosè ha inteso indicare che l’uomo terreno108, che viene chiamato anche Adamo, ossia fatto di terra, esiste in questi due modi: secondo quanto è a lui esterno, l’uomo è un corpo chiamato dal fango della terra, ossia dalla natura degli elementi; secondo quanto è a lui interno, l’uomo è una potenza vitale, che deriva dall’ispirazione dello spirito divino o dalla partecipazione alla potenza divina; e così, l’uomo vivente, fatto di tali elementi, è un uomo uno e vero. Con il nome «cielo» si potrebbe intendere, in maniera non assurda, un certo modo specifico che racchiude il movimento di una potenza partecipata, ad esempio, la capacità sillogistica della ragione, la quale, nei suoi procedimenti discorsivi, si trova contratta in maniera specifica nell’ambito di certi modi: la prima figura del sillogismo è come una regione, una sfera o un «cielo», e in quel cielo, che è come il modo universale della prima figura, vi sono vari pianeti che differiscono secondo la specie e che sono i modi più con-
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figuris, ut sic omnis species sit caelum intra ambitum suum continens invisibilem sibi inspiratam virtutem, quam caelum illud inhabitantes varie participant. Quae quidem participatio extra caelum suum esse nequit, sicut combinatio syllogismi ex tribus universalibus affirmativis non potest extra primam figuram esse. Hinc omnis creatura in caelo suo movetur et quiescit, ut de hoc alias audisti. 181 Conradus: Audivi prius et modo id quod expressisti, sed non plane capio hoc ultimum. Nam quod nos homines ratiocinando modis necessario utimur, ut ais, evenit, quia hoc exigit syllogistica ratio. Hinc specifici modi sic eveniunt ex combinationibus, et ex nobis ipsis in lumine rationis videmus non posse syllogisticas combinationes aliter utiliter fieri. Secus in deo, ubi voluntas est coincidens cum ratione, ut volitum sit rationale. 182 Nicolaus: Volui tibi dixisse hoc unum, scilicet caelum intelligi posse specificum, finitum, clausum aut celatum modum assimilationis ipsius idem. Adduxi non ineptum exemplum de syllogismi figuris. Replicas secus in syllogismi modis, qui in combinationibus certis sunt rationales, in aliis non, secus in deo cuius voluntas ratio. Respondeo id ipsum me voluisse, scilicet eo ipso, quia specialis est modus assimilationis ex deo, eo ipso rationalis. Nam cum idem identificet, modi reperibiles, qui certis celari possunt habitudinibus, in sua assimilatione idem repraesentando dicuntur speciales quasi ad specificum repraesentationis modum perducti. Non enim potest idem extra assimilationem, dum identificat, reperiri. 183 Et hinc, sicut harmonia habet speciales proportionales modos, in quibus potest reperiri, qui possunt varie participari, extra quos
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tratti. Lo stesso si può dire per quanto riguarda le altre figure del sillogismo, per cui ogni specie è un «cielo» che contiene all’interno del proprio ambito una potenza invisibile, che è stata infusa in esso, della quale partecipano in modi vari coloro che abitano quel cielo. Questa partecipazione non può ovviamente avvenire al di fuori del proprio cielo, così come la combinazione del sillogismo, formata dalle tre proposizioni universali affermative, non può avvenire al di fuori della prima figura. Di conseguenza, ogni creatura si muove all’interno del suo cielo e in esso trova pace, come hai ascoltato altrove riguardo a questo argomento109. Corrado. Ho ascoltato in precedenza ciò di cui hai appena parlato, ma non riesco a capire bene quest’ultimo punto. Che noi uomini, infatti, quando conduciamo ragionamenti, ci serviamo necessariamente dei modi, come tu dici, accade perché lo esige la ragione sillogistica. Si formano, così, dalle combinazioni delle proposizioni i modi specifici e vediamo da soli, con il lume della ragione, che i sillogismi non possono essere composti validamente in modo differente. Diversamente accade in Dio, dove la volontà coincide con la ragione, per cui ciò che è stato voluto dalla volontà è razionale. Nicola. Volevo dirti soltanto questo, e cioè che un «cielo» può essere inteso come un modo specifico, finito, limitato o nascosto, dell’assimilazione dell’identico stesso. E ho addotto come esempio quello, non incongruo, delle figure del sillogismo. Tu mi obietti che una cosa sono i modi del sillogismo, i quali sono razionali in determinate combinazioni e non in altre, altra cosa è Dio, la cui volontà è ragione. Ti rispondo dicendo che io volevo dire la stessa cosa, ossia che, proprio perché un modo speciale della similitudine deriva da Dio, esso è razionale. Dal momento che l’identico identifica, quando i modi che possiamo trovare nascosti in certi rapporti rappresentano, nella loro assimilazione, l’identico, allora essi vengono detti «speciali», come se fossero stati portati ad essere un modo specifico di rappresentazione. L’identico, infatti, dal momento che identifica, non può essere trovato al di fuori di una assimilazione110. Pertanto, come l’armonia ha modi speciali di proporzione, nei quali può essere rinvenuta e che possono essere partecipati in va-
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modos consonantiae seu harmoniae sentimus dissonantiam, sic de idem uti consonantia seu harmonia est opinandum, cum idem non sit ab illis absonum seu alienum. Et sicut harmonia speciales proportiones requirit, extra quas nequit reperiri, ita universaliter de idem absoluto, ut sic coincidat voluntas ipsius idem, qui non vult aliud, cum ratione ipsius, cum ratio ipsius idem aliud admittere nequeat. Sic igitur coincidit ratio cum voluntate in idem absoluto, sicut in natura et ratione harmoniae figuratur, ut species rerum sint species tales ut sunt, quae aliter esse nequeunt. A quibus si receditur, monstrum seu dissonantia se ipsam prodit et speciem propriam efficere nequit. Exire enim speciem, quae est assimilatio ipsius idem modo tali, est formam relucentiae pulchram ipsius idem, quod est absolute omnis pulchritudinis et boni fons, declinare. 184 Conradus: Nescio his in aliquo dissentire, quae me iudice rationabiliter sunt stabilita. Sed quia propheta noster David attribuit caelis virtutes et angelos, ait enim: «Laudate dominum de caelis, laudate eum in excelsis, laudate eum omnes angeli eius, laudate eum omnes virtutes eius», verbum unum dicito, an his caelis nunc dictis praesint angeli. Tunc enim, cum profundior nox nos vocet ad requiem, ab inquietando cessabo. 185 Nicolaus: Praeter institutum multa atque nunc ista introducis, quae altioris indaginis locum petunt. Ut autem absolvar, verbum unum dico, omnem scilicet omnium rationabilium specierum motum ad idem absolutum tendere. Spiritualem et rationalem quidem motum esse dicimus, quasi spiritus sit virtus spirata ex ore dei, per quam identificalis ille mo tus ministratur indeficienter, qui est ipsa vis dei sic participantia dirigens et movens ad idem.
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rie maniere, mentre al di fuori di questi modi della consonanza o dell’armonia avvertiamo la dissonanza, così, in modo analogo all’armonia e alla consonanza, dobbiamo pensare anche a proposito dell’identico, in quanto l’identico non è discordante da esse o ad esse estraneo. E come l’armonia richiede proporzioni speciali, al di fuori delle quali non può essere rinvenuta, così si può dire, in universale, dell’identico assoluto, per cui la sua volontà, che non vuole qualcosa di altro da sé, coincide con la sua ragione, dato che anche la ragione dell’identico non può ammettere ciò che è altro. Nell’identico assoluto, pertanto, la ragione coincide con la volontà, così come ci si raffigura nella natura e nella ragione dell’armonia, in modo tale che le specie delle cose sono quelle che sono e non possano essere altrimenti. Se c’è una deviazione da queste specie, allora nasce un mostro o qualcosa di dissonante111, che non può tuttavia produrre una propria specie. Uscire fuori dalla specie, infatti, che è una assimilazione dell’identico in quel determinato modo particolare, significa allontanarsi dalla bellezza della forma in cui risplende l’identico stesso, che è, in modo assoluto, la fonte di ogni bellezza e di ogni bene112. Corrado. Non sono in grado di dissentire in nulla su questi argomenti, che a mio avviso risultano stabiliti razionalmente. Il nostro profeta Davide, tuttavia, attribuisce ai cieli potenze e angeli, e infatti dice: «Lodate il Signore dai cieli, lodatelo nell’alto dei cieli, lodatelo, voi tutti, suoi angeli, lodatelo, voi tutte, sue potenze»113. Dimmi, allora, soltanto una cosa, se, cioè, gli angeli presiedano a questi cieli che vengono qui menzionati. E dopo, poiché la notte si va facendo più fonda e ci invita al riposo, smetterò di disturbarti. Nicola. Ora introduci molte questioni che vanno al di là di quanto ci eravamo proposti e che richiedono del tempo per poter essere esaminate in modo più approfondito. Per sciogliere il tuo dubbio, tuttavia, ti dico soltanto una cosa, e cioè che ogni movimento di tutte le specie razionali tende all’identico assoluto. Questo movimento, infatti, noi lo chiamiamo spirituale e razionale, come se lo spirito fosse una forza ispirata dalla bocca di Dio; attraverso questa forza viene somministrato in maniera continua quel movimento di identificazione che è la stessa forza di Dio, la quale dirige e muove all’identico le cose, che in questo modo ne partecipano.
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enim omnes leones, qui fuerunt et nunc sunt, leonizare videmus, sphaeram seu regionem aut caelum hanc specificam vim continenter ambiens et eam ab aliis specificantem et distinguentem concipimus atque caelestiali illi motui administratorium spiritum praeficimus, qui est quasi vis divina complicans omnem vim talem, quam explicat motus ille specificus, ut sic administratorius spiritus sit dei creatoris minister et in regno huius motus superintendens tali legationis fungens rectoratu. Quemadmodum doctor, qui et scholarum rector, per alium praeest submonitorem grammaticae scholae, per alium rhetoricae, per alium logicae, per alium mathematicae, ut sic grammatica sit specifici cuiusdam modi doctrinam doctoris, qui et rector omnium, participandi caelum, atque scholares grammatici sint ipsius caeli incolae rectoris omnium doctrinam secundum illum specificum modum incolatus sui, scilicet grammaticae, participantes et submonitoris intellectus rector et motor illius caeli et caelestialium in caelo. 187 Aut forte propinquiorem comparationem in te ipso reperies. Tuus etenim intellectus maxime est idem sibi ipsi, quia ipsius idem absoluti signaculum. Hic non nisi in ratione relucet. Variae enim rationes intellectum varie assimilant, aliae lucide et clare, quae ideo ostensivae seu demonstrativae dicuntur, aliae persuasive debiliter et umbrose, quae rhetoricae sunt, aliae mediocriter. Dum igitur intellectus identificando ad se mundum sensibilem vocare contendit, ut in sui assimilatione surgat, per rationem ipsum attrahere nititur. Et quia variae possunt esse specifice differentes discretiones seu rationes sensibilium, in quibus sensibilia ad assimilationem intellectus elevari possunt ut aut visibili modo vel audibili seu gustabili, odorabili vel tangibili, hinc caelum visus
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Quando, infatti, vediamo che tutti i leoni, che sono esistiti e che esistono adesso, si comportano da leoni, possiamo pensare a una sfera, a una regione o a un «cielo» che abbracci e contenga la forza di questa specie, rendendola una specie diversa e distinta dalle altre. Inoltre, mettiamo a capo del movimento di questo «cielo» uno spirito che vi presiede114, il quale è come una forza divina che complica in sé ogni forza che viene poi esplicata da quel movimento specifico. In questo modo, lo spirito che presiede al movimento di questo «cielo» è un ministro del Dio creatore e sovrintende al regno di questo movimento, fungendo da rettore di tale provincia. Allo stesso modo, un maestro, che sia anche rettore di scuole, presiede alla scuola di grammatica mediante un sovrintendente, alla scuola di retorica mediante un altro, alla scuola di logica mediante un altro, alla scuola di matematica mediante un altro ancora. In questo modo, la grammatica è un cielo che consiste in un certo modo di partecipare della dottrina del maestro, che è anche il rettore di tutte le scuole. E gli studenti di grammatica sono gli abitanti di questo cielo, che partecipano della dottrina del rettore secondo il modo specifico che è proprio della loro abitazione, ossia della grammatica, mentre l’intelletto del sovrintendente è anche rettore e motore di quel cielo e degli esseri celesti che vi si trovano. O forse potrai trovare in te stesso un paragone più stringente115. Il tuo intelletto, infatti, è massimamente identico a se stesso, in quanto è un segno dell’identico assoluto. Ma esso risplende soltanto nella ragione. I vari ragionamenti si rendono infatti simili all’intelletto in modi vari, alcuni in maniera trasparente e chiara, e sono quelli che vengono per questo chiamati ostensivi o dimostrativi, altri in maniera persuasiva, o in maniera più debole e oscura, e sono quelli che vengono chiamati retorici, altri ancora in maniera intermedia. Pertanto, quando l’intelletto, nell’identificare, cerca di chiamare a sé il mondo sensibile, perché si elevi e si assimili a lui, esso si sforza di attrarlo mediante la ragione. Ora, i modi di distinguere o le ragioni delle cose sensibili, attraverso i quali queste possono essere elevate ad una somiglianza con l’intelletto, possono essere vari e differenti in maniera specifica, come il modo della vista, dell’udito, del gusto, dell’odorato e del tatto; per questo motivo, nascono il cielo della vista, il cielo dell’udito e gli altri cieli, in modo
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exsurgit et caelum auditus et idem de aliis, ut sensibilis mundus visibili modo discernatur, hoc est ad assimilationem intellectus assurgat, quod fit per discretionem in visu visive exsistentem. Igitur caelum visus virtute visiva refertum spiritu proprio rationali et discretivo regitur et movetur, ut per hoc, quod spiritus oculo intente adest, visiva discretione fruatur, in qua intellectum participando delectabiliter vivat. Idem de ceteris sensibus concipito. Et quia haec materia et sufficientius explanari et aliud convenientius tempus exigit, hinc nunc satis sit de genesi sic interlocutum. Ad quietem nos dudum gallus vocavit. Vale.
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tale che il mondo venga distinto, ad esempio, mediante il modo visibile e si elevi, così, ad una somiglianza con l’intelletto, il che avviene, per l’appunto, mediante quel modo di distinguere che, nella vista, è di tipo visivo. Il cielo della vista, pertanto, ripieno di potenza visiva, è retto e mosso dal proprio spirito razionale discernente, in modo tale che, per la presenza attenta di questo spirito nell’occhio, la vista fruisce della distinzione visiva, nella quale vive con gioia partecipando dell’intelletto. Pensa la stessa cosa per quanto riguarda gli altri sensi. E poiché questo argomento richiede di essere spiegato in modo più adeguato e richiede un altro momento più adatto, per ora sia sufficiente quanto abbiamo detto sulla genesi. Il gallo ci ha appena chiamato al riposo. Sta’ bene.
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DIFESA DELLA DOTTA IGNORANZA 1
da parte di un discepolo ad un altro discepolo
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1 Rettulit
mihi aliquando communis praeceptor noster, magister Nicolaus de Cusa, nunc coetui cardinalium adiunctus, quantum valeas in coincidentiis, quas in libellis Doctae ignorantiae ad apostolicum legatum datis ac in aliis plerisque suis opusculis nobis patefecit, quoque studio ardeas, ut omnia colligas, quae passim in hiis rebus ab eodem emanant; quodque tu neminem peritorum te praeterire sinas, cum quo de hac re non conferas, multosque induxeris, qui hoc studium spreverant, ut inveterata consuetudine, qua Aristotelicae traditioni insudarunt, parum intercepta in has se conferant considerationes ea fide, quasi in ipsis magni aliquid lateat, quousque quodam interno gustu profundius alliciantur et eo pertingant, quod experiantur hanc rem tantum ab aliis viis differre quantum visus ab auditu; sicque de detractoribus plures attraxeris, ut tecum mentis oculo arcana quaeque modo, quo homini gradatim conceditur, speculentur. Unde, cum tantus sis, recte arbitratus sum ego, condiscipulus eiusdem, ut aliqua tibi nota fiant, quae non plene instructos avertere possent, ac scias talibus insultationibus facilius obviare. 2 Pervenit ad me hodie libellus quidam cuiusdam non tantum imprudentis sed et arrogantissimi viri, hominis, qui se magistrum in theologia nominat, vocabulo Iohannis Wenck, cui titulum Ignotae litteraturae inscripsit. In quo cum legerem graves invectivas et iniurias contra praeceptorem nostrum et eius Doctae ignorantiae
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Il nostro comune precettore, il maestro Nicolò da Cusa, ora aggregato al collegio cardinalizio2, una volta mi ha riferito quanto tu sia versato nelle coincidenze, che egli ci ha dischiuso nei libri della Dotta ignoranza, donati al legato apostolico, e in numerosi altri suoi scritti; e mi ha anche riferito con quanto zelo ti adoperi per raccogliere tutto ciò che egli qua e là va dicendo su questo argomento. Mi ha anche riferito che non c’è nessuna persona colta con la quale tu non ti metta a discutere di queste cose e che hai indotto molti, che avevano disprezzato questo tipo di indagine, a interrompere per un po’ quella inveterata consuetudine che li portava ad affaticarsi sulla tradizione aristotelica, e a dedicarsi a queste riflessioni con la fiducia che, in esse, si nasconda qualcosa di grande, fino a che un certo gusto interiore li attrae più in profondità ed essi giungono a rendersi conto personalmente che questa via [metodo] della coincidenza si differenzia dalle altre vie quanto il vedere si differenzia dall’udire. In questo modo, hai attirato anche molti detrattori, conducendoli, insieme con te, a scrutare, con l’occhio della loro mente, alcune verità misteriose, nel modo in cui questo, procedendo per gradi, è possibile all’uomo. Per questo motivo, dal momento che sei di così gran valore, io, condiscepolo dello stesso maestro, ho ritenuto opportuno renderti note alcune critiche che potrebbero sviare coloro che non sono pienamente istruiti su questi argomenti, in modo che tu sappia più facilmente opporti a tali attacchi. Oggi mi è giunto tra le mani un libro di un uomo non soltanto imprudente, ma anche estremamente arrogante, che si definisce maestro in teologia, il cui nome è Johannes Wenck3. Egli ha intitolato questo libro La letteratura sconosciuta4. Non appena vi ho letto pesanti invettive e ingiurie contro il nostro maestro e i suoi libri della Dotta ignoranza, con l’animo turbato da molta tristezza,
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libellos, cum animo multa displicentia conturbato praeceptorem adii, causam accessus et invectivarum continentiam declaravi. Subrisit parumper praeceptor et me amoroso quodam oculo respectans aiebat: «Non turberis, amice, sed gratias age creatori, qui tantum tibi luminis tribuit, quod hunc hominem sapientia antecedis quasi Socrates sciolos sui temporis.» Quaerebam ego, in quo Atheniensis Socrates praecellerat. Respondit: «Quia se scivit ignorantem; ceteri autem, qui se aliquid egregii scire gloriabantur, cum multa ignorarent, non se sciebant ignorantes. Ex Delphico oraculo testimonium sapientiae suae ob hoc sortitus est Socrates.» 3 Et ego: «Dic, quaeso, praeceptor, quae comparatio fuit scientiae Socratis ad ceteros.» Et ille: «Quasi scientia videntis ad scientiam caeci de solari claritate. Potest enim caecus aliquis multa audisse de solis claritate atque quod tanta sit, quod comprehendi nequeat, credens se per ea, quae sic audivit, scire aliqua de solis claritate, cuius tamen habet ignorantiam. Videns vero de solis claritate, quanta sit, interrogatus respondit se ignorare et huius ignorantiae scientiam habet, quia, cum lux solo visu attingatur, experitur solis claritatem visum excellere.» Sic plerosque, qui se scientiam theologiae habere iactant, caecis comparavit. «Versantur enim paene omnes, qui theologiae studio se conferunt, circa positivas quasdam traditiones et earum formas, et tunc se putant theologos esse, quando sic sciunt loqui uti alii, quos sibi constituerunt auctores; et non habent scientiam ignorantiae lucis illius inaccessibilis, ‹in quo non sunt ullae tenebrae.› Sed qui per doctam ignorantiam de auditu ad visum mentis tran-
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mi sono recato da lui e gli ho illustrato il motivo della mia visita e il contenuto delle invettive. Il maestro sorrise per un momento e poi, guardandomi con occhio pieno d’amore, mi ha detto: «Non essere turbato, amico, ma rendi grazie al creatore, che ti ha concesso tanto del suo lume da superare quest’uomo in sapienza, come Socrate superava i sapientucoli del suo tempo». Io gli ho chiesto in che cosa Socrate fosse stato superiore agli ateniesi. Egli mi rispose: «Fu superiore perché sapeva di essere ignorante; gli altri, invece, che si gloriavano di sapere qualcosa di importante, pur ignorando molte altre cose, non sapevano di essere ignoranti. Ed è per questo che Socrate ricevette dall’oracolo di Delfi un attestato della sua sapienza»5. Ed io: «Dimmi, per favore, maestro, com’era la sapienza di Socrate, in confronto a quella degli altri». Ed egli: «Come la conoscenza che può avere dello splendore del sole uno che vede in confronto a quella di un cieco. Un cieco, infatti, può aver udito molte cose riguardo allo splendore del sole, anche che un tale splendore è così grande che non è possibile comprenderlo, e può credere, sulla base delle cose che ha udito, di sapere qualcosa circa lo splendore del sole, di cui, invece, non ha alcuna conoscenza. Al contrario, se ad uno che vede si chiede quanto sia grande lo splendore del sole, egli risponde di non saperlo, e di questa sua ignoranza egli è consapevole; infatti, dal momento che la luce del sole viene percepita solo con la vista, egli sa per esperienza che lo splendore del sole supera la [sua] capacità visiva». Allo stesso modo, il nostro maestro paragonò ai ciechi molti di coloro che si vantano di avere una conoscenza della teologia. «Quasi tutti coloro che si dedicano allo studio della teologia, infatti, si occupano di alcune dottrine positive tramandate e delle loro forme, e ritengono di essere teologi una volta che sappiano parlare come fanno gli altri che essi hanno scelto come propri autori di riferimento, mentre non sanno di non avere alcuna conoscenza di quella luce inaccessibile6 nella quale non vi sono tenebre7. Invece, coloro che, mediante la dotta ignoranza, vengono condotti dal mero udire alla visione della mente si rallegrano di aver acquisi-
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sferuntur, illi certiori experimento scientiam ignorantiae se gaudent attigisse.» 4 Simile quid apud Philonem illum sapientissimum, cui per nonnul- los graves viros libri Sapientiae adscribuntur, Super quaestionibus in Genesim quaestione 51. dixit reperiri, ubi loquitur de puteo Isaac sic dicens: «Sicut puteum fodientes aquam requirunt, ita etiam disciplinam sectantes finem explorant, quod est impossibile hominibus revelari. Et quidam superbi mentientes solent affirmare se summos esse musicos, summos grammaticos, transivisse vero et philosophiae grumos et sapientiam totius disciplinae et virtutis metas. Astutus vero et non sui cultor vel sui laudator confitetur ex aperto, quan tum deest a fine; et iuratus tali foedere conscientiam commendat, quod nihil perfecte homo noscere poterit. Hic aliena loquitur, qui tot capitulis se aestimat tantum scire; finis enim scientiae Deo tantum reconditus est, quem etiam testem anima vocat, quoniam pura conscientia confitetur suam ignorantiam. Sola enim novit anima, quoniam nihil novit firmiter.» Haec ille. 5 Placuit mihi haec praeceptoris comparatio; sed obieci ex hoc theologiam veram non posse litteris commendari. Fatebatur plane omne id, quod aut scribitur aut auditur, longe inferius ea esse; quam tamen in Scripturis sacris dixit occultari. Est enim theologia de regno Dei; et hoc magister noster Christus occultatum in abscondito thesauro declaravit. Unde, cum ad hoc tendat omnis inquisitio et hoc sit scrutari Scripturas, scilicet id reperire, quod inventum absconditur et remanet occultum et inaccessibile, satis patere dixit hoc aliud non esse quam doctam ignorantiam.
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to, con un’esperienza più certa, una conoscenza della propria ignoranza». Disse che qualcosa di simile si trova anche in Filone, quell’autore sapientissimo al quale molti uomini autorevoli attribuiscono i libri della Sapienza; nella questione 51 delle sue Questioni sul Genesi8, parlando del pozzo di Isacco, Filone dice infatti così: «Come coloro che scavano un pozzo cercano l’acqua, così anche coloro che si dedicano ad una disciplina ne ricercano un termine ultimo, una cosa, questa, che è impossibile venga rivelata agli uomini. Ora, alcuni, pieni di superbia, sono soliti mentire sostenendo di essere dei grandissimi musicisti, dei grandissimi grammatici, di aver oltrepassato anche le vette più alte della filosofia, tutta la sapienza contenuta nella loro disciplina e le mete ultime della virtù. Chi è saggio, invece, e non è attratto dall’amor proprio o dal desiderio di lodi, confessa apertamente di essere ben lontano dall’aver raggiunto il termine ultimo del sapere, ed attesta, con questo giuramento a cui si è vincolato, di essere consapevole del fatto che l’uomo non potrà mai conoscere nulla in modo perfetto. Chi ritiene di poter esaurire il proprio sapere in un certo numero di capitoli dice una sciocchezza; il termine ultimo della conoscenza, infatti, è riservato solo a Dio, che l’anima chiama a testimone quando, con coscienza pura, confessa la propria ignoranza. L’anima, infatti, sa soltanto di non sapere nulla con certezza». Questo è quanto mi disse il nostro maestro. Io apprezzai molto il paragone addotto dal nostro maestro; gli obiettai, tuttavia, che la conclusione che si poteva ricavare da quanto aveva detto era che la vera teologia non può essere affidata alla parola scritta. Egli riconobbe apertamente che tutto ciò che viene scritto o viene ascoltato è di gran lunga inferiore rispetto alla vera teologia; aggiunse, tuttavia, che la vera teologia è nascosta nelle Sacre Scritture. La teologia, infatti, riguarda il regno di Dio, e il nostro maestro, Cristo, ha detto che questo regno sta occultato come un tesoro nascosto [in un campo]9. Di conseguenza, poiché scrutare le scritture significa trovare ciò che, una volta scoperto, si nasconde e resta occulto e inaccessibile, e poiché è a questo che tende ogni ricerca, risulta allora evidente – egli disse – che tutto questo [ossia trovare ciò che resta occulto] non è altro che la dotta ignoranza.
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«Iactant se enim», ut aiebat, «huius temporis plerique magistri, qui agrum habent Scripturarum, ubi audiverunt occultari thesaurum regni Dei, ex hoc se divites, ut is homo, qui Ignotam scripsit litteraturam. Sed qui vidit thesaurum manere absconditum ab oculis omnium sapientum, in hoc gloriatur, quia scit se pauperem; et in hoc se videt praefatis ditiorem, quia scit se pauperem, quod alii ignorant. Undeob scientiam paupertatis hic se humiliat, et ob praesumptionem divitiarum alius superbit, uti hic homo ignorans inflatus vanitate verbalisscientiae in suo exordio non veretur se promittere elucidationem aeternae sapientiae.» 6 Post quae ego, qui ad evacuandum scripta Ignotae litteraturae festinavi, interrogare coepi, quisnam hic olim abbas Mulbrunnensis, per quem Docta ignorantia ad adversarium delata fuisset. Respondit eum hominem acris ingenii et sanctae conversationis fuisse, qui Doctae ignorantiae libellos dilexit, maxime quia ab apostolico legato et plerisque magnis viris magni aliquid continere laudabantur, cui quidem legato abbas ipse singularissima affectione constringebatur. Sed adiecit se non putare, quod abbas ipse huic viro libellos obtulisset, sed potius alteri religioso, a quo ad istum pervenissent; adiungens abbatem in ea differentia, quae inter Apostolicam Sedem et Basiliensem congregationem per dietas agitabatur, partem veritatis Apostolicae Sedis sollicitasse, cui adversabatur iste Wenck. Ostendit autem mihi praeceptor verba adversarii in fine suae compilationis, ubi praeceptorem pseudo-apostolum nominat, ut viderem hominem ex passione locutum. Scis enim, amice optime, quod nemo cum tanta ferventia restitit Basiliensibus sicut praeceptor noster. Hinc ille Wenck, qui ab universis doctori-
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«La maggior parte dei maestri del nostro tempo», proseguì, «che possiedono come campo [di ricerca] le Scritture, dove hanno sentito dire che si nasconde il tesoro del regno di Dio, si vantano per questo di essere ricchi, come quest’uomo che ha scritto la Letteratura sconosciuta. Ma chi ha riconosciuto che quel tesoro resta nascosto agli occhi di tutti i sapienti, si gloria solo del fatto di sapere di essere povero; e si rende conto di essere più ricco degli altri proprio perché sa di essere povero, cosa che gli altri, invece, non sanno. Di conseguenza, per il fatto che conosce la propria povertà, costui si fa umile, mentre l’altro, per il fatto che presume di essere ricco, si insuperbisce, come accade, per l’appunto, a quest’uomo ignorante, il quale, gonfio della vanità di una conoscenza verbale10, non si vergogna, all’inizio del suo scritto, di promettere una spiegazione della sapienza eterna»11. Dopo aver udito queste parole, io, che avevo fretta che il maestro confutasse quanto era scritto nella Letteratura sconosciuta, iniziai col chiedergli chi mai fosse quel tale, una volta abate di Maulbronn12, che aveva consegnato al nostro avversario la Dotta ignoranza. Mi rispose che era un uomo di ingegno acuto e di costumi santi, che aveva amato i libri della Dotta ignoranza, soprattutto perché erano stati lodati dal legato apostolico e da numerosi altri uomini autorevoli, i quali ritenevano che essi contenessero qualcosa di importante; e al legato apostolico l’abate era stretto da un’amicizia del tutto particolare. Aggiunse, tuttavia, di non ritenere che fosse stato proprio l’abate a consegnare a quest’uomo [Wenck] i libri, ma, piuttosto, che egli li avesse dati ad un altro religioso, dal quale, poi, essi sarebbero giunti a Wenck. Affermò, inoltre, che nella disputa, che, attraverso una serie di diete, opponeva la Sede Apostolica al concilio di Basilea, l’abate aveva difeso alacremente il partito che appoggiava la verità sostenuta della Sede Apostolica, al quale, invece, si opponeva Wenck13. Il maestro mi mostrò anche le parole scritte dal suo avversario alla fine della sua compilazione, dove lo chiama «pseudo-apostolo»14, in modo che io mi rendessi conto di come quell’uomo avesse parlato mosso dalla passione. Tu sai, infatti, ottimo amico, che nessuno si è opposto con tanto ardore agli uomini di Basilea quanto il nostro maestro. Perciò, quel tale Wenck,
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bus Heidelbergensis studii abierat et partem dampnatam Basiliensium sumpsit, in qua fortassis pertinaciter persistit, veritatis defensorem ‘pseudo-apostolum’ nominare non erubuit. Curavit enim, ut eum ipsi abbati et cunctis odiosum et parvi momenti faceret; sed non praevaluit fraudulentia, quia veritas vicit. 7 Vidi autem, dum praeceptori legerem adversario Doctae ignorantiae libellos praesentatos, quomodo parumper ingemuit. Cuius causam dum diligentius sciscitarer, respondit: «Si quis graviores prisci temporis sapientes attendit, comperit magno studio praecavisse, ne mystica ad indoctorum manus pervenirent. Sic Hermetem Trismegistum Aesculapio atque Ariopagitam Dionysium Timotheo praecepisse legimus, quod et Christum nostrum docuisse scimus; inhibuit enim margaritam, quam regnum Dei figurat, ante porcos proici, in quibus non est intellectus. Sic Paulus ea, quae ab hoc mundo raptus in tertium intellectibile caelum vidit, dicit revelari non licere. Undique unica huius causa existit; nam ubi non capitur, ibi non solum non fert fructum vitae, sed vilipenditur et mortem inducit. Maxime autem cavendum monuerunt, ne secretum communicaretur ligatis mentibus per auctoritatem inveteratae consuetudinis. Nam tanta est vis longaevae observantiae, quod citius vita multorum evellitur quam consuetudo, – uti experimur in persecutione Iudaeorum, Sarracenorum et aliorum pertinacium haereticorum, qui opinionem usu temporis firmatam legem asserunt, quam vitae praeponunt. Unde, cum nunc Aristotelica secta praevaleat, quae haeresim putat esse oppositorum coincidentiam, in cuius admissione est initium ascensus in mysticam theologiam, in ea secta nutritis haec via penitus insipida
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che si era allontanato dalla posizione sostenuta da tutti i professori dell’Università di Heidelberg per aderire al partito condannato di quelli di Basilea, nel quale forse persiste ancora con ostinazione15, non si vergognò affatto di chiamare «pseudo-apostolo» un difensore della verità. Ed ha fatto di tutto per farlo apparire odioso e di scarso valore agli occhi dello stesso abate e di tutti; ma l’inganno non ha prevalso, poiché ha vinto la verità. Vidi, però, che il maestro, mentre gli leggevo il libro scritto dall’avversario della Dotta ignoranza, se ne usciva di tanto in tanto con qualche lamento. Quando gliene chiesi il motivo, mi rispose: «Se si guarda ai più illustri sapienti dell’antichità, si scopre che essi hanno preso ogni precauzione possibile per fare in modo che le cose mistiche non capitassero fra le mani degli indotti. Leggiamo che Ermete Trismegisto aveva ammonito in questo senso Asclepio16, e lo stesso fece Dionigi l’Areopagita con Timoteo17, e sappiamo che anche il nostro Cristo ha insegnato questa cosa18: proibì, infatti, che la perla, che simboleggia il regno di Dio, venisse gettata in pasto ai porci, che sono privi di intelletto. Allo stesso modo, anche Paolo dice che non è lecito rivelare le cose che egli vide quando fu rapito da questo mondo e venne elevato al terzo cielo intelligibile19. In tutti questi casi, vi è una sola ragione per una tale proibizione: dove una dottrina non viene compresa, infatti, non soltanto non porta un frutto di vita, ma viene anzi vilipesa e produce morte. Questi sapienti hanno ammonito soprattutto a fare attenzione a non comunicare una dottrina segreta a coloro che hanno la mente legata all’autorità di una consuetudine inveterata. La forza di quanto si è osservato per tanto tempo è in effetti così grande, che molte persone sono disposte più facilmente a farsi togliere la vita piuttosto che ad abbandonare una loro consuetudine, come sappiamo per esperienza dalla persecuzione dei giudei, dei saraceni e di altri eretici pertinaci, i quali hanno assegnato valore di legge a un’opinione che si è radicata nel corso del tempo, e la preferiscono alla vita. Oggi, tuttavia, prevale la setta aristotelica20, che considera un’eresia la coincidenza degli opposti, mentre la sua ammissione costituisce l’inizio dell’ascesa alla teologia mistica 21; per questo motivo, coloro che sono stati allevati in questa setta rifiutano del tutto la via [il metodo] della coincidenza, come se fosse un cibo per
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quasi propositi contraria ab eis procul pellitur, ut sit miraculo simile – sicuti sectae mutatio –reiecto Aristotele eos altius transilire.» 8 Dixit haec praeceptor, sed ad punctum cuncta nec cepi nec scripsi. Ego autem continuo admonui, ut me legentem Ignotam litteraturam ad eius confutationem animum erigeret; sed segnis atque tardior mihi visus est, quam optabam. Nam non est sibi visum scriptum illud tanti esse, quod aut legi aut reprehendi conveniat. Adduxit in testimonium non decere gravem virum attendere ad confutationem ignorantium illud, quod magnus Dionysius scribit undecimo capitulo De divinis nominibus, ubi ait Paulum, quia dicebat Deum se ignorare non posse, per Elymam magum, quasi negasset Deum omnipotentem, reprehensum; quem cum Dionysius reprehendere proponeret, dicebat se vehementer timere, ne ut amens rideretur, qui puerorum ludentium structuras et supra arenam fundatas et infirmas evertere moliretur; quem dixit imitatorem athletarum imperitorum, qui saepe imbecillos sibi adversarios esse suadentes contraque absentes ipsos fortiter adumbrata pugna dimicantes et aerem cassis ictibus constanter ferientes adversarios ipsos superasse arbitrantur seque victores bucinantur, cum neque illorum noverint vires. Hoc proprie aiebat propinquum esse proposito. Ego autem adieci eo non obstante Dionysium illius magi malam consequentiam refellisse; quod et fatebatur. 9 Sic vici mansuetudinem suam et ob nostrum saltim profectum passus est, ut cursim legerem. Et ubi exordium ex verbis David “Vacate et videte, quoniam ego sum Deus” legerem et continuarem hunc passum, quomodo Deus velit a nobis otium sequestrare et imperet nostram visionem in seipsum reflecti non stando in nuda
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loro insipido e una via contraria al loro fine, per cui che essi abbandonino Aristotele e possano così elevarsi più in alto, sarebbe qualcosa di simile ad un miracolo, come quello di uno che cambi setta». Queste sono le cose che disse il maestro, ma io non ho capito, né scritto tutto puntualmente. Subito dopo le sue parole, tuttavia, ho proposto che, mentre leggevo la Letteratura sconosciuta, egli provvedesse a confutarla; ma mi sembrò restio e più riluttante di quanto non pensassi. Quello scritto, infatti, non gli sembrava di valore tale da meritare di essere letto o criticato. A conferma del fatto che non si addice a un uomo serio dedicarsi alla confutazione di coloro che sono ignoranti, egli addusse quanto scrive il grande Dionigi nell’undicesimo capitolo de I nomi divini22. In questo capitolo Dionigi riferisce che Paolo era stato rimproverato dal mago Elimas per aver detto che Dio non può ignorare se stesso, come se, in questo modo, egli avesse negato l’onnipotenza di Dio; e Dionigi aggiunge che, quando si propose di ribattere al rimprovero del mago Elimas, temette moltissimo di essere deriso come uno sciocco che si metta a demolire le fragili costruzioni erette per gioco dai fanciulli sulla sabbia; e sostiene che costui si comporta come quegli atleti inesperti che spesso si convincono che i propri avversari siano degli inetti, e, mentre quelli sono assenti, combattono contro di loro dei finti duelli, e, percuotendo l’aria con colpi a vuoto, ritengono di averli sconfitti davvero e si proclamano vincitori, mentre non hanno mai nemmeno conosciuto la forza dei loro avversari. Il nostro maestro disse che quanto gli avevo proposto era qualcosa di simile alla situazione descritta da Dionigi. Io, però, aggiunsi che, nonostante questo, Dionigi aveva poi confutato la falsa conclusione del mago, e questo lo riconobbe anche il nostro maestro. Riuscì così a vincere la sua riluttanza, ed egli acconsentì che io procedessi ad una rapida lettura dello scritto di Wenck, pensando perlomeno al vantaggio che ne avremmo ricavato. Io lessi l’esordio, dove Wenck cita le parole di Davide: «Fermatevi e vedete che io sono Dio»23, e continuai a leggere il passo dove Wenck spiega come Dio intenda con ciò scuotere dall’ozio e comandi che la nostra visione sia rivolta verso di lui, senza fermarci a quella mera visione conoscitiva che ci fa insuperbire – dalla quale, egli dice, proviene
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visione scientiali nos inflante, a qua ait daemones Graeco vocabulo nuncupari, sed potius visionis vacantia tendendo in id, quod vere Deus est, sit omnis nostrae motionis satians requietio, quoniam ait “Ego sum Deus”, ubi ego singularizans omnem creaturam patenter a divinitate excludit, Deum ab omni distinguens creatura, quia ipse Deus creator non creatura; post quae in haec verba concludit: «Rectificatum est ex themate totum nostrae mentis negotiandi exercitium Ignotae litteraturae pernecessarium respectu conflictus eundi contra Doctam ignorantiam» – indicto silentio per manum aiebat modesta voce praeceptor: 10 «Non satis praemeditate haec praemisit pro clipeo, cum totum sit in sano intellectu Doctae ignorantiae consentaneum. Pauca videtur hic homo legisse et minus, quae legit, intellexisse. Nam mystica theologia ducit ad vacationem et silentium, ubi est visio, quae nobis conceditur, invisibilis Dei; scientia autem, quae est in exercitio ad confligendum, illa est, quae victoriam verborum exspectat et inflatur, et longe abest ab illa, quae ad Deum, qui est pax nostra, properat. Unde, cum confligere ex sua scientia proponat, qualis sit illa, occultare nequivit. Id enim, quod inflat et ad conflictum excitat, seipsum prodit: eam scilicet non esse scientiam, quae per vacationem in mentis visionem tendit, qualis est docta ignorantia. Putabat autem se novi aliquid aperuisse, quando daemonium ab inflante scientia Graece dictum asserit; sed non vidit fortassis Platonem aut Apuleium De deo Socratis aut Philonem, qui ait Moysen eos appellare angelos, quos Graeci daemones, licet ibi kalodaemones et kakodaemones distinguantur. 11 Ubi autem adicit prophetam per pronomen ‘ego’ singularizasse Deum et exclusisse et distinxisse ab omni creatura, in quo ait pro-
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il termine greco che serve per designare i demoni 24 –, ma tendendo, con lo sguardo libero da quel sapere, verso ciò che è veramente Dio, dove ogni nostra aspirazione può essere appagata e può trovare la sua pace. Infatti, dicendo «Io sono Dio», il pronome «io», espresso al singolare, esclude chiaramente ogni creatura dalla natura divina, distinguendo Dio da tutte le creature, perché Dio è il creatore e non una creatura. Dopo questo esordio, Wenck conclude con queste parole: «L’esercizio in cui ho impegnato la mia mente nel comporre la Letteratura sconosciuta – un esercizio assolutamente necessario per combattere contro la Dotta ignoranza – è guidato interamente da questo versetto»25. A questo punto, il maestro mi fece segno con la mano di tacere, e con voce calma disse: «Costui ha premesso queste parole come uno scudo per difendersi, senza aver tuttavia sufficientemente riflettuto su di esse, in quanto, per un intelletto sano, tutto questo è conforme alla Dotta ignoranza. Sembra che quest’uomo abbia letto poche cose e che ancor meno abbia capito le cose che ha letto. La teologia mistica, infatti, conduce alla libertà dell’animo e al silenzio, in cui si realizza quella visione del Dio invisibile che è a noi concessa. Il sapere che viene utilizzato per un fine polemico è invece proprio quel genere di sapere che attende la vittoria dalle parole, che ci fa insuperbire e che è lontano da quel sapere che ha premura di procedere verso Dio, che è la nostra pace»26. «Di conseguenza, dal momento che il nostro avversario si propone di utilizzare il suo sapere per combattere, egli non ha potuto nascondere che tipo di sapere esso fosse. Infatti, ciò che insuperbisce ed incita al conflitto si manifesta subito per quello che è: non è un sapere che tenda, attraverso la libertà dell’animo, alla visione della mente, come fa, invece, la dotta ignoranza. Egli, al contrario, riteneva di aver scoperto qualcosa di nuovo, dicendo che il termine che designa in greco il demonio deriva dal “sapere che rende superbi”; ma forse non ha letto Platone27, o lo scritto di Apuleio Il dio di Socrate28, o Filone29, il quale dice che Mosè chiama “angeli” quelli che i greci chiamano “demoni”, benché i greci distinguano fra “demoni buoni” e “demoni cattivi”». «Quando invece aggiunge che il profeta, per mezzo del pronome “io”, ha reso Dio singolare e lo ha così separato e distinto da
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positum suum solidari, pueriliter satis se fundare videtur. Nemo enim umquam adeo desipuit, ut Deum aliud affirmaret quam id, quo maius concipi nequit, qui est formans omnia. Unde nec Deus est hoc aut illud, nec caelum nec terra, sed dans esse omnibus, ut ipse sit proprie forma omnis formae, et omnis forma, quae non est Deus, non sit proprie forma, quia formata ab ipsa incontracta et absoluta forma. Quapropter absolutissimae et perfectissimae atque simplicissimae formae nullum esse abesse potest, quoniam dat omne esse. Et cum omne esse ab ipsa sit forma et extra eam esse nequeat, omne esse in ipsa est; omne autem esse in ipsa forma non potest aliud esse quam ipsa, cum ipsa sit infinita essendi forma, simplicissima et perfectissima. Hinc patet Deum nequaquam concipi debere habere esse, modo quo singulare diversum et distinctum aliquod esse concipitur, neque eo modo, quo universale esse concipitur aut genus aut species, sed ultra coincidentiam singularis et universalis absolutissima forma omnium generalium, specialium ac singularium aut quarumcumque formarum, quae concipi et dici possunt. Est enim principium, medium et finis omnium talium ipsa omnem conceptum excedens ineffabilis forma. 12 Si quis enim supra omnem disciplinam mathematicae, quae terminos et mensuras rebus ponit, et omnem pluralitatem et numerum ac proportionem harmonicam omnia intuetur sine mensura, numero et pondere, profecto ille in quadam simplicissima unitate omnia videt; et sic videre Deum est videre omnia Deum et Deum omnia, – quo modo scimus per doctam ignorantiam eum per nos videri non posse. Sed si quis videt omnia in numero, pondere et
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ogni creatura, sostenendo che su questo si fonda tutto il suo intento, mi sembra che egli cerchi di fondare la sua tesi in modo piuttosto puerile. Non c’è mai stato nessuno, infatti, così folle da non riconoscere che Dio, il quale è colui che forma tutte le cose, non può essere altro se non ciò di cui non si può concepire nulla di maggiore. Di conseguenza, Dio non è questo o quello, non è né il cielo, né la terra, ma è piuttosto colui che dà l’essere a tutte le cose, in modo tale che Dio è, in senso proprio, la forma di ogni forma, mentre ogni forma che non sia Dio non è in senso proprio una forma, in quanto essa è formata dalla Forma incontratta e assoluta30. Per questo motivo, a quella che è la Forma assolutissima, perfettissima e semplicissima non può mancare alcun essere, in quanto essa conferisce ogni tipo di essere. E poiché ogni essere deriva da questa Forma e non può sussistere al di fuori di essa, ogni essere è contenuto in essa; in quella Forma, tuttavia, ogni essere non può essere altro che quella Forma stessa, in quanto essa è la Forma dell’essere infinita, assolutamente semplice e perfetta. Da ciò risulta pertanto evidente che non è in alcun modo possibile concepire che Dio abbia l’essere nel modo in cui si concepisce l’esistenza di qualunque ente singolare, il quale è diverso e distinto [dagli altri]31, e neppure nel modo in cui si concepisce l’essere di ciò che è universale, sia esso un genere o una specie; Dio dev’essere piuttosto concepito al di là della coincidenza di singolare e universale, come la Forma assolutissima di tutte le forme generali, specifiche e singolari, e di qualunque altra forma si possa concepire e nominare. La Forma ineffabile, che supera tutto ciò che può essere concepito, è infatti il principio, il mezzo e il fine di tutte queste forme32». «Se uno, per esempio, al di sopra della conoscenza della matematica, la quale pone limiti e misure alle cose, e al di sopra di ogni pluralità, di ogni numero e di ogni proporzione armonica, coglie intuitivamente tutte le cose senza misura, numero e peso, egli, senza dubbio le vede in una certa unità assolutamente semplice. Così, vedere Dio significa vedere che tutte le cose sono Dio e che Dio è tutte le cose – un modo di vedere Dio, questo, che, in virtù della dotta ignoranza, sappiamo essere per noi impossibile. Se uno, tuttavia, vede che tutte le cose sussistono nel numero, nel peso e nella misura, egli sperimenta in se stesso che ciò che vede non può av-
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mensura, in se experitur sine differentia et concordantia hoc esse non posse. Quoniam autem de regno Dei non potest esse alteritas, ubi est simplicitas et pax, quae omnem sensum exsuperat, – quare nec singularitas eo modo, quo adversarius concipit, sed bene eo modo, quo de Dei singularitate loquitur Avicenna in Metaphysica sua de stabiliendo prophetam, ubi praecipit populo de hac singularitate non esse dicendum, quoniam eum potius averteret quam instrueret. Eo enim modo singularitas, quo eam occultari mandat, est singularitas singularitatum, et sic Deus dicitur singularis insingulariter sicut finis infinitus et interminus terminus et indistincta distinctio. 13 Qui enim in absolutam omnium singularium singularitatem mentis oculum inicit, hic satis videt universalitatem absolutam cum absoluta singularitate coincidere, sicut maximum absolutum cum minimo coincidit absoluto, in quo omnia unum. Unde, quando Avicenna in Dei singularitatem conatur ascendere per theologiam negativam, Deum ab omni singulari et universali absolvit; sed acutius ante ipsum divinus Plato in Parmenide tali modo in Deum conatus est viam pandere; quem adeo divinus Dionysius imitatus est, ut saepius Platonis verba seriatim posuisse reperiatur. Fateor tamen cum Avicenna ista adversario non congruere, qui de vulgo est et ad vulgares conceptus Deo improportionales propheticas altissimas visiones retorquet contra omnium sapientum et magni Dionysii doctrinam, qui decimo capitulo De divinis nominibus – in novissima Ambrosii Camaldulensis translatione, quam a sanctissimo domino nostro Papa Nicolao recepimus, – sic ait: “Itaque divina oportet ut intelligamus non humano more, sedtoti integre a nobisipsis excedentes atque prorsus in Deum transeuntes.” Ubi de hoc plura.
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venire senza una differenza e una concordanza [tra le cose]33. Ma, dal momento che non può esservi alcuna alterità nel regno di Dio, nel quale vi sono una semplicità e una pace che superano ogni comprensione34, allora [in Dio] non può esservi neppure la singolarità, nel modo in cui la concepisce il nostro avversario. Essa va piuttosto concepita nel modo in cui Avicenna parla della singolarità di Dio nella sua Metafisica, nel capitolo in cui si afferma la necessità di un profeta35, dove raccomanda di non parlare al popolo di questa singolarità, perché in questo modo lo si svierebbe invece che istruirlo. Infatti, la singolarità, intesa nel senso in cui ne parla Avicenna quando raccomanda che essa venga tenuta nascosta, è la singolarità delle singolarità36; ed è per questo che Dio viene detto singolare in modo non singolare, così come viene detto fine infinito, termine senza termine e distinzione indistinta. Infatti, chiunque fissa l’occhio della sua mente nella singolarità assoluta di tutte le singolarità vede chiaramente che l’universalità assoluta coincide con l’assoluta singolarità, così come il massimo assoluto coincide con il minimo assoluto37, nel quale [massimo-minimo] tutte le cose sono uno. Per questo motivo, quando Avicenna cerca di ascendere alla singolarità di Dio mediante la teologia negativa38, egli libera Dio da tutto ciò che è singolare e universale. Ma, prima di Avicenna, e in maniera più acuta, il divino Platone, nel Parmenide39, ha cercato di mostrare, in modo simile, quale sia la via che conduce a Dio; il divino Dionigi lo ha imitato a tal punto che è possibile constatare come in lui, molto spesso, si ritrovano testualmente le stesse parole di Platone40. Sono d’accordo, tuttavia, con Avicenna sul fatto che queste dottrine non si addicono al nostro avversario, il quale è un uomo del volgo e riduce le visioni più alte dei profeti a delle concezioni volgari che sono del tutto inadeguate in riferimento a Dio, e nel fare questo va contro quanto insegnano tutti i sapienti, incluso il grande Dionigi, il quale, nel decimo capitolo de I nomi divini – nella nuovissima traduzione di Ambrogio Camaldolese41, che abbiamo ricevuto in dono dal nostro santissimo signore, papa Nicolò42 – parla in questo modo: “Pertanto è necessario che intendiamo le cose divine non secondo il modo umano, ma in modo da uscire completamente da noi stessi e da trasferirci in Dio”43. E in quel capitolo dice molte altre cose su questo argomento.
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vides, amice, quam puerili atque debili fulciatur firmamento Ignota litteratura.» Cum sic ista seriatim praeceptor noster ad iam lecta replicasset, lectionem continuabam, ubi sequitur, qualiter praeceptor noster glorietur se Dei dono invenisse, quomodo ad incomprehensibilia per transcensum corruptibilium humanitus scibilium incomprehensibiliter ductus fuit. Post pleraque iniuriosa, quae animum praeceptoris non movebant, ait evangelium primae Corinthiarum 13. huic apertioni contradicere, ubi hic in speculo et aenigmate comprehensionem versari astruit. 15 Iubebat me praeceptor parum sistere et aiebat: «Ecce, quomodo varietas sensuum oritur, quando respectus variatur. Respexit hic vir ad speculum et aenigma, quasi Deus sit – uti est – incomprehensibilis. Veritas enim in imagine nequaquam, uti est, videri potest; cadit enim omnis imago eo, quia imago, a veritate sui exemplaris. Hinc visum est reprehensori incomprehensibilem non capi per transcensum incomprehensibiliter. Sed qui videt, quomodo imago est exemplaris imago, ille transiliendo imaginem ad incomprehensibilem veritatem incomprehensibiliter se convertit. Nam ille, qui omnem creaturam unius creatoris concipit imaginem, in se videt, quod, sicut imaginis esse penitus nihil perfectionis ex se habet, sic omnis sua perfectio est ab eo, cuius est imago; exemplar enim mensura et ratio est imaginis. Sic enim Deus relucet in creaturis sicut veritas in imagine. Qui igitur tantam videt rerum varietatem unius Dei esse imaginem, ille, dum linquit omnem omnium imaginum varietatem, incomprehensibiliter ad incomprehensibilem pergit. In stuporem enim ducitur, dum hoc infinitum esse ad-
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Puoi ora vedere, amico, su quale debole e puerile fondamento poggi la Letteratura sconosciuta». Dopo che il nostro maestro ebbe così replicato punto per punto a quanto gli avevo già letto, io continuai nella lettura del testo e lessi il passo successivo nel quale si dice che il nostro maestro si gloria di aver scoperto, per un dono di Dio, di essere stato condotto in modo incomprensibile all’incomprensibile, trascendendo quelle cose corruttibili che sono conoscibili dall’uomo. Dopo molte parole ingiuriose, che non toccarono affatto l’animo del maestro, Wenck dice che il testo evangelico della Prima lettera ai Corinzi44 contraddice apertamente questa «scoperta», in quanto Paolo, nel tredicesimo capitolo, sostiene che la comprensione di Dio avviene come «in specchio ed enigma»45. Il maestro allora mi ordinò di fermarmi un poco e disse: «Vedi in che modo possa nascere una diversità di significati quando varia la prospettiva dalla quale si considera una cosa. Quest’uomo ha preso in considerazione “lo specchio e l’enigma” [di cui parla Paolo] per mostrare che Dio è incomprensibile per come egli è in se stesso. In un’immagine, infatti, la verità non può mai essere vista per com’è in se stessa; ogni immagine, in effetti, per il fatto stesso di essere un’immagine, si allontana dalla verità [del suo esemplare]. Di conseguenza, al nostro critico è sembrato che l’incomprensibile non possa essere colto in maniera incomprensibile. Chi, tuttavia, si rende conto che un’immagine è l’immagine dell’esemplare, costui, andando oltre l’immagine, si volge in modo incomprensibile alla verità incomprensibile. Infatti, colui che concepisce ogni creatura come un’immagine dell’unico creatore vede in se stesso che l’essere dell’immagine, in quanto tale, non ha proprio nulla della perfezione e che ogni perfezione di un’immagine deriva da ciò di cui essa immagine, in quanto l’essere che è proprio di un’immagine non ha da se stesso alcuna perfezione; l’esemplare, infatti, è la misura e la ragion d’essere dell’immagine. Ed è in questo modo che Dio risplende nelle creature, come la verità, cioè, risplende nell’immagine. Chi, pertanto, riconosce che la varietà così grande delle cose è un’immagine dell’unico Dio, costui, se lascia da parte la varietà di tutte le immagini, si volge in maniera incomprensibile all’incomprensibile. Egli approda, infatti, ad una sorta di stupore, quando
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miratur, quod in omnibus comprehensibilibus est ut in speculo et aenigmate. Bene videt ille hanc formam nulla creatura comprehensibilem, cuius omnis creatura imago existit; nulla enim imago esse potest veritatis adaequata mensura, cum in eo, quod imago, deficiat. Non igitur comprehensibilis est veritas absoluta. 16 Si igitur quoquo modo ad ipsam accedi debet, oportet ut hoc quodam incomprehensibili intuitu quasi via momentanei raptus fiat, uti carneo oculo solis claritatem incomprehensibiliter momentanee intuemur, – non quod sol non sit maxime visibilis, cum lumen se oculis ingerat propria virtute, sed ob excellentissimam visibilitatem est comprehensibiliter invisibilis. Sic Deus, qui est veritas, quod est obiectum intellectus, est maxime intelligibilis et ob suam superexcelsam intelligibilitatem est inintelligibilis. Unde sola docta ignorantia seu comprehensibilis incomprehensibilitas verior via manet ad ipsum transcendendi.» Et ego: «Praecare praeceptor, quamvis nullo studio tibi advenerit consideratio, quam in Docta ignorantia aperuisti, sed Dei dono, tamen non dubium multos veterum sapientum quaesivisti, ut videres, si in omnibus idem reluceret. Hinc oro ut, si qua eorum, quae legisti, occurrunt, adicito.» 17 Et ipse: «Fateor, amice, non me Dionysium aut quemquam theologorum verorum tunc vidisse, quando desuper conceptum recepi; sed avido cursu me ad doctorum scripta contuli et nihil nisi revelatum varie figuratum inveni. Nam Dionysius ad Gaium ignorantiam perfectissimam scientiam affirmat et de scientia ignorationis multis in locis loquitur; et Augustinus ait Deum potius ignorantia quam scientia attingi. Ignorantia enim abicit, intelligentia colligit;
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scorge con meraviglia questo essere infinito che è presente in tutte le cose comprensibili come in uno specchio e “in enigma”. Ed egli vede chiaramente che questa forma, di cui ogni creatura è un’immagine, non è comprensibile da parte di nessuna creatura; nessuna immagine, infatti, può essere una misura adeguata della verità [dell’esemplare], in quanto il fatto di essere un’immagine la rende manchevole [rispetto alla verità]. La verità assoluta non è quindi comprensibile». «Pertanto, se si deve in qualche modo accedere alla verità assoluta, è necessario che ciò avvenga per una sorta di visione intuitiva, al di là di ogni comprensione, come attraverso un rapimento istantaneo, come quando con l’occhio corporeo cogliamo per un momento lo splendore del sole senza poterlo comprendere; e questo non perché il sole non sia massimamente visibile, dato che la sua luce penetra nei nostri occhi per forza propria, ma perché, a motivo della sua eccelsa visibilità, esso non è visibile secondo il modo della nostra comprensione. Così, Dio, che è la verità, la quale costituisce l’oggetto dell’intelletto, è intelligibile al massimo grado, e tuttavia, a motivo della sua sovraeccelsa intelligibilità, risulta inintelligibile. Di conseguenza, la via più vera per elevarsi a Dio resta solamente la dotta ignoranza, ossia l’incomprensibilità comprensibile»46. Ed io: «Carissimo maestro, so bene che alla concezione che hai esposto nella Dotta ignoranza tu non sei pervenuto attraverso lo studio, ma essa ti è aggiunta da un dono divino47; è indubbio, tuttavia, che tu hai esaminato molti sapienti antichi, per vedere se anche in tutti loro risplendesse lo stesso principio. Ti prego, pertanto, se ti vengono in mente alcune cose fra quelle che hai letto, esponile». Ed egli: «Ti confesso, amico, che, quando ricevetti questa idea dall’alto, io non avevo preso in considerazione né Dionigi, né alcuno fra i veri teologi. In seguito, tuttavia, mi sono dedicato con grande avidità agli scritti dei dotti e non vi ho trovato se non ciò che mi era stato rivelato, espresso in modi differenti. Dionigi, ad esempio, nella Lettera a Gaio, sostiene che l’ignoranza assolutamente perfetta costituisce la vera conoscenza, e in molti luoghi parla della conoscenza dell’ignoranza; anche Agostino dice che si giunge a cogliere Dio più con l’ignoranza che con la conoscenza48. L’ignoranza, infatti, rimuove, la comprensione raccoglie; la dotta ignoranza,
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docta vero ignorantia omnes modos, quibus accedi ad veritatem potest, unit. Ita eleganter dixit Algazel in sua Metaphysica de Deo, quod “quisquis scit per probationem necessariam impossibilitatem suam apprehendendi eum, est cognitor et apprehensor, quoniam apprehendit scire ipsum a nullo posse comprehendi. Quisquis autem non potest apprehendere et nescit necessario esse impossibile eum apprehendere per probationem praedictam, est ignorans Deum; et tales sunt omnes homines exceptis dignis et prophetis et sapientibus, qui sunt profundi in sapientia.” Haec ille. 18 Quomodo autem in nobis sit docta ignorantia, Aurelius Augustinus super octavo capitulo ad Romanos, exponens verbum Pauli “nescimus, quid oremus”, ait post alia: “Esse quidem, quod quaerimus, scimus; sed quale sit, non novimus. Quae, ut ita dicatur, docta ignorantia per spiritum, qui adiuvat infirmitatem nostram, in nobis est.” Et post pauca: “Et cum Paulus dicat, quomodo spiritus postulat gemitibus inenarrabilibus, designat rem, quae ignoratur, et ignorari et non omnino ignorari; cum gemitu enim non quaereretur, si omnino ignoraretur.” Haec ille. In nobis igitur est docta ignorantia, sine qua non quaereretur Deus. Scripsi alias libellum De quaerendo Deum; quem lege. Reperies enim ibi, quod, licet ubique sit et non absit a nobis – ut ait Paulus Atheniensibus, quando Dionysium convertit –, tamen tunc propius ad ipsum acceditur, quando plus fugisse reperitur; quanto enim ipsius inaccessibilis maior elongatio melius capitur, tanto propinquius inaccessibilitas attingitur.» 19 Et cum haec sic praeceptor dixisset, quamvis non satiarer talia audire, tamen plura dici oportere considerans non sinebam ipsum plebeios doctores adducere; aiebam enim proposito nostro egregios istos satisfacere cum hiis, qui in Docta ignorantia allegantur.
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invece, unisce in sé tutti i modi con i quali si può accedere alla verità. Ed Al Gazali, nella sua Metafisica49, elegantemente ha detto riguardo a Dio: “Chi riconosce, mediante una dimostrazione necessaria, la propria impossibilità di conoscerlo, costui lo conosce e lo apprende, in quanto è giunto a sapere che Dio non può essere compreso da nessuno. Chi, invece, non è in grado di apprenderlo e tuttavia non è giunto, mediante la dimostrazione di cui abbiamo detto, a sapere che è necessariamente impossibile comprendere Dio, costui non lo conosce; e tali sono tutti gli uomini tranne i giusti, i profeti e i saggi che sono penetrati a fondo nella sapienza”. Queste sono le cose che ha detto Al Gazali». «Il modo in cui la dotta ignoranza è presente in noi lo ha detto invece Aurelio Agostino, nel suo commento all’ottavo capitolo della Lettera ai Romani di Paolo; spiegando l’espressione di Paolo “non sappiamo che cosa domandare”50, Agostino, infatti, dopo altre cose dice: “Sappiamo che esiste ciò che cerchiamo; ma di che natura sia, non lo sappiamo. In noi c’è questa, cosiddetta, dotta ignoranza che aiuta, attraverso lo spirito, la nostra debolezza”. E poco dopo aggiunge: «E quando Paolo dice che lo spirito anela con gemiti inenarrabili, afferma che la cosa che è ignorata è ignorata e, al tempo stesso, non è ignorata del tutto; infatti, non sarebbe cercata con gemito, se fosse ignorata del tutto”. Questo è quanto ha detto Agostino»51. «In noi, pertanto, vi è una dotta ignoranza senza la quale non si cercherebbe Dio. Ho scritto una volta un libretto intitolato La ricerca di Dio. Leggilo; vi troverai, infatti, che, sebbene Dio sia ovunque e non sia lontano da noi – come ha detto Paolo agli ateniesi, allorché ha convertito Dionigi52 –, tuttavia ci avviciniamo maggiormente a lui proprio quando scopriamo che egli si è allontanato di più; infatti, quanto meglio cogliamo la grande distanza che ci separa dalla sua inaccessibilità, tanto più vicino riusciamo a giungere alla sua inaccessibilità». Dopo che il maestro ebbe parlato in questo modo, io, sebbene non fossi sazio di ascoltare gli argomenti che stava esponendo, considerando, tuttavia, che c’erano molte altre cose da dire, non gli permisi di citare altri dottori meno importanti; gli dissi, infatti, che, per il nostro scopo, erano sufficienti gli illustri autori che egli aveva già citato, insieme a tutti quelli che vengono menzionati nella
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Et cum acquiesceret et ego cursim continuarem et legerem, quomodo adversarius fatetur praeceptorem cautelam adhibuisse, ut omnem impugnationem evadat, quando admonet intentum suum versari in elevatione mentis ad simplicitatem illam, ubi est contradictoriorum coincidentia, risit praeceptor dicens: 20 «Ostendit se potius quadam invidia contra personam motum, quando fatetur cautelam additam, quae omnem impugnationem scripti excludit. Sed quando ait semen scientiae, quod in illo principio ‘quodlibet est vel non est’ complicatur, et omnem discursum tolli, non sane concipit. Non enim advertit doctam ignorantiam versari circa mentis oculum et intellectibilitatem; et hinc cessat ab omni ratiocinatione, qui ducitur ad visionem, et testimonium eius est de visu. “Quod enim vidit, attestatur”, uti Iohannes Baptista de Christo et Paulus de raptu suo loquitur. Opus autem habet discursu, qui per testimonium de auditu veritatem venatur, – sicuti communius ducimur per fidem, quae ex auditu est. Unde, si quis diceret: “Tu cum dicas testimonium de visu esse certius, quod sine omni argumento et discursu ostendit, igitur negas aliud esse testimonium de auditu et omnem ratiocinationem”, nequaquam bene diceret. 21 Logica igitur atque omnis philosophica inquisitio nondum ad visionem venit. Hinc, uti venaticus canis utitur in vestigiis per sensibile experimentum discursu sibi indito, ut demum ea via ad quaesitum attingat: sic quodlibet animal suo modo – et sapientissimus Philo eapropter omnibus animalibus dixit rationem inesse, uti bea-
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Dotta ignoranza. Dal momento che egli fu d’accordo, io continuai a leggere rapidamente fino al passo in cui il nostro avversario dichiara che il maestro ha usato una certa cautela per sfuggire alle critiche53, là dove indica che il suo intento è quello di elevare la mente a quella semplicità in cui risiede la coincidenza dei contraddittori54. Il maestro allora rise e disse: «Quando Wenck mi accusa di aver usato cautela per evitare ogni critica al mio scritto, egli mostra di essere mosso da una certa invidia nei miei confronti. In ogni caso, quando sostiene che io distruggo il seme da cui si sviluppa ogni conoscenza, che sarebbe contenuto nel famoso principio secondo cui “ogni cosa è o non è”55, e, con esso, la possibilità di ogni ragionamento discorsivo, mi sembra che egli non abbia compreso bene. Non si rende conto, infatti, che la dotta ignoranza concerne l’occhio della mente e la visione dell’intelletto; per questo motivo, chi è giunto alla visione abbandona ogni ragionamento discorsivo, in quanto la sua prova è data dalla vista. “Attesta, infatti, ciò che ha visto”, come dicono Giovanni Battista a proposito di Cristo56 e Paolo a proposito del suo rapimento57. Ha invece bisogno [di procedere con l’ausilio] della ragione discorsiva chi va a caccia della verità mediante la testimonianza che deriva dall’ascolto, come avviene, ad esempio, quando siamo guidati più comunemente dalla fede, la quale proviene dall’ascolto. Di conseguenza, non si esprimerebbe in modo corretto chi dicesse: “Tu sostieni che la testimonianza che deriva dalla vista è più certa, in quanto essa dimostra senza alcuna argomentazione e senza alcun procedimento discorsivo; quindi, neghi che vi sia un’altra testimonianza, quella che proviene dall’ascolto, ed in questo modo neghi la possibilità di ogni ragionamento discorsivo”». «Così, la logica ed ogni ricerca di natura filosofica non giungono alla visione. Anche il cane da caccia, quando segue le tracce per mezzo di quanto percepisce con i sensi, si serve di un procedimento discorsivo che gli è connaturale, per poter in questo modo giungere, alla fine, all’oggetto della sua ricerca; e alla stessa maniera si comporta ogni animale, ciascuno secondo un proprio modo. Questo è il motivo per il quale il sapientissimo Filone ha detto che in tutti gli animali è insita la ragione, come riferisce il beato Giro-
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tissimus recitat Hieronymus in De illustribus viris –, sic homo logica. Nam, ut ait Algazel, “logica nobis naturaliter indita est; nam est vis rationis”. Rationabilia vero animalia ratiocinantur. Ratiocinatio quaerit et discurrit. Discursus est necessario terminatus interterminos a quo et ad quem, et illa adversa sibi dicimus contradictoria. Unde rationi discurrenti termini oppositi et disiuncti sunt. Quare in regione rationis extrema sunt disiuncta, ut in ratione circuli, quae est, quod lineae a centro ad circumferentiam sint aequales, centrum non potest coincidere cum circumferentia. Sed in regione intellectus, qui vidit in unitate numerum complicari et in puncto lineam et in centro circulum, coincidentia unitatis et pluralitatis, puncti et lineae, centri et circuli attingitur visu mentis sine discursu, uti in libellis De coniecturis videre potuisti, ubi etiam super coincidentiam contradictoriorum Deum esse declaravi, cum sit oppositorum oppositio secundum Dionysium. 22 Fuit aliquando Henricus de Mechlinia, ut scribit in Speculo divinorum, ad hoc ductus, ut in intellectualibus conspiceret unitatis et pluralitatis coincidentiam, de qua plurimum admiratur. Sed, ut saepe audisti, qui videt, quomodo intelligere est motus et quies pariter ipsius intellectus, uti de Deo Augustinus fatetur in Confessionibus, de aliis contradictoriis se facilius expedit.» Admonuit deinde praeceptor, cum haec dixisset, ut attenderem doctam ignorantiam sic aliquem ad visum elevare quasi alta turris. «Videt enim ibi constitutus id, quod discursu vario vestigialiter quaeritur per in agro vagantem; et quantum quaerens accedit et elongatur a quaesito, ipse intuetur. Docta enim ignorantia de alta regione intellectus existens sic iudicat de ratiocinativo discursu.»
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lamo nella sua opera Gli uomini illustri58. In modo analogo, l’uomo si serve della logica. Come dice Al Gazali, infatti, “la logica ci è naturalmente innata; essa costituisce, infatti, la forza della ragione”59. Gli animali dotati di ragione, in effetti, ragionano. E il ragionamento consiste nel ricercare e nel procedere discorsivamente. Il procedimento della ragione discorsiva è necessariamente delimitato tra un termine iniziale e un termine finale, e quei termini che sono tra loro opposti li chiamiamo “contraddittori”. Per questo motivo, nella regione della ragione i termini sono disgiunti; così, ad esempio, nella definizione razionale del cerchio, secondo la quale tutte le linee tracciate dal centro alla circonferenza sono uguali, il centro non può coincidere con la circonferenza. Invece, nella regione dell’intelletto, il quale vede che il numero è complicato nell’unità, la linea nel punto, e il cerchio nel centro, si giunge a cogliere con una visione della mente, senza alcun procedimento discorsivo, la coincidenza dell’unità e della pluralità, del punto e della linea, del centro e del cerchio, come hai potuto leggere nei libri delle Congetture60, nei quali ho sostenuto che Dio è anche al di sopra della coincidenza dei contraddittori61, dal momento che egli è l’opposizione degli opposti, secondo quanto dice Dionigi62». «Enrico di Malines scrive nel suo Specchio delle cose divine di essere giunto una volta ad intravvedere la coincidenza dell’unità e della pluralità nel caso delle realtà intellettuali, e di ciò si stupì moltissimo63. Ma, come mi hai spesso sentito dire, se uno si rende conto del fatto che il comprendere è al tempo stesso un movimento e una quiete dell’intelletto, come Agostino dice a proposito di Dio nelle Confessioni64, costui si trae d’impaccio più facilmente anche riguardo agli altri contraddittori». Dopo aver detto queste cose, il maestro mi invitò a considerare il fatto che la dotta ignoranza eleva una persona conducendola ad avere una visione come quella che si potrebbe avere da un’alta torre. «Chi si è posizionato lassù, infatti, vede, con un atto intuitivo, ciò che chi vaga per la pianura va ricercando con i diversi procedimenti della ragione discorsiva, e vede quanto costui si avvicini o si allontani dall’oggetto della sua ricerca. In modo simile, la dotta ignoranza, che si trova nell’alta regione dell’intelletto, esercita il suo giudizio sulla ragione discorsiva»65.
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taliter recensi tis per praeceptorem – quae te puto aliquotiens ab eo in summa audivisse – aiebam ego: «Non videtur impugnator intellexisse, quid volueris per coincidentiam contradictoriorum. Nam, ut audisti, tibi – licet falso – adscribit, quod asseras creaturam cum creatore coincidere, et hanc partem impugnat.» Ad quae ille: «Dixi, quomodo animalis homo non percipit ea, quae sunt de regno Dei, et si passio eum non vicisset, non falsificasset scripta. Statuit autem, ut videtur, quomodo omnino impugnare vellet scripta illa; et pro suo desiderio tam in sensu quam verbis falsarius reperitur. “Mos est pertinacissimorum haereticorum detruncare scripturas”, aiunt sextae synodi Patres. Nam tale quid ex libellis Doctae ignorantiae veritatis amator haberi negat neque quidquam eorum, quae elicit, admitteret modo, quo elicit. Nam dicere imaginem coincidere cum exemplari et causatum cum sua causa potius est insensati hominis quam errantis. Per hoc enim, quod omnia sunt in Deo ut causata in causa, non sequitur causatum esse causam, – licet in causa non sint nisi causa, sicut de unitate et numero saepe audisti. Nam numerus non est unitas, quamvis omnis numerus in unitate sit complicitus sicut causatum in causa; sed id, quod intelligimus numerum, est explicatio virtutis unitatis. Sic numerus in unitate non est nisi unitas. 24 Arbitror autem te satis concepisse, quid in ea re sentiam, ex hiis, quae in libello De dato lumine impigre lectitasti. Oportet enim, qui scribentis in re aliqua mentem investigat, ut omnia scripta legat attente et in unam concordantem sententiam resolvat. Facile est enim ex truncatis scripturis aliquid reperiri, quod in se vide-
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Dopo che il nostro maestro ebbe trattato di questi argomenti – che credo tu abbia ascoltato più volte da lui, nel loro contenuto essenziale –, io aggiunsi: «Il nostro avversario non sembra aver capito che cosa tu hai voluto intendere con la coincidenza dei contraddittori. Come hai ascoltato, infatti, ti attribuisce falsamente di sostenere che la creatura coincide con il creatore e combatte questa concezione66». A questo egli rispose: «Ho detto che “l’uomo naturale non comprende le cose del regno di Dio”, e se la passione non avesse travolto il nostro avversario, egli non avrebbe falsificato i miei scritti. A quanto pare, invece, egli è partito col proposito di trovare il modo per combattere completamente la mia opera, e quindi, seguendo questo suo desiderio, si rende un falsificatore sia del senso che della lettera dei miei scritti. “È costume degli eretici più pertinaci mutilare le Scritture”, dicono i Padri del sesto concilio67. Uno che ami la verità, infatti, non può non negare che dai libri della Dotta ignoranza derivi una tesi come quella che mi attribuisce Wenck, e non ammetterebbe neppure le altre affermazioni che il nostro avversario ricava da essi, nel modo in cui egli le ricava. Dire, infatti, che l’immagine coincide con l’esemplare e che il causato coincide con la sua causa è proprio di un uomo che ha perso il senno più che di un uomo che commette un errore. Dal fatto che tutte le cose siano in Dio, come le cose causate sono nella causa, non segue che il causato sia la causa, anche se nella causa esso non è che la causa stessa, come mi hai spesso sentito dire a proposito dell’unità e del numero68. Il numero, infatti, non è l’unità, sebbene ogni numero sia complicato nell’unità, come il causato è complicato nella causa; ma ciò che intendiamo per “numero” è l’esplicazione della forza dell’unità. Così, nell’unità il numero non è che unità». «Ritengo che tu abbia compreso a sufficienza quale sia il mio pensiero su questo argomento in base a quanto hai letto con diligenza nel libretto Il dono del Padre dei lumi69. Chi esamina l’opinione di un autore su un certo argomento deve infatti leggere tutti i suoi scritti e deve ricondurre le sue affermazioni [su quell’argomento] ad un’unica concezione coerente. È facile infatti ricavare da scritti frammentari qualche cosa che, considerato isolatamen-
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tur dissonum; sed collatum ad integritatem voluminis est concordans, – uti venenosa animalia, quando separatim ab universo conspiciuntur, nihil pulchritudinis aut bonitatis habere videntur, sed ad universum collata, cuius sunt membra, suam habere pulchritudinem et bonitatem reperiuntur, cum universum, quod est totaliter pulchrum, ex partium pulchra componatur harmonia. Recitat in simili sanctus Thomas Contra gentiles quosdam ex dictis magni Dionysii occasionem recepisse, ut dicerent omnia esse Deum, quia ait in Caelesti hierarchia Deum esse omnium esse; si illi omnia eiusdem Ariopagitae opuscula legissent, utique in De divinis nominibus repperissent sic Deum esse omnium esse quod tamen nullum omnium, cum causatum numquam possit in aequalitatem suae causae elevari. 25 Neque puto hoc aliter quam in docta percipi posse ignorantia. Sicut enim Deus ita est ubique quod nullibi – cum nulli loco desit, qui in nullo loco est –, ut sit in omni loco illocaliter sicut magnus sine quantitate: ita est etiam Deus ipse omnis locus illocaliter et omne tempus intemporaliter et omne ens non-enter. Et ob hoc non est aliquid entium sicut non est aliquis locus vel aliquod tempus, quamvis omnia sit in omnibus, – quasi monas est omnia in omnibus numeris, quia ea sublata nequit numerus esse, qui solum per ipsam esse potest; et quia monas est omnis numerus, non tamen numeraliter, sed complicite, ideo non est aliquis numerus; nam nec binarius nec ternarius.» 26 Ad quae cum ego subiungerem, ut missis superfluis citius evacuaret adversarii phantasmata, quod faciliter fieri posse adiunxi, cum sic in falso fundentur supposito, praecepit, ut ego saltim faciliora convellerem et sibi, quoad fieri posset, in arduis versari indulgerem.
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te, sembra dissonante, ma che risulta coerente se lo si inserisce nel contesto complessivo dell’opera; è come con certi animali velenosi che, osservati separatamente rispetto all’universo, non sembrano avere alcuna bellezza o bontà, ma, inseriti nell’universo, del quale sono membra, mostrano di avere la loro bellezza e bontà, in quanto l’universo, che è bello nella sua totalità, è composto da una bella armonia di parti. Afferma qualcosa di simile San Tommaso, nella Somma contro i gentili, ossia che alcuni hanno tratto occasione da quanto detto dal grande Dionigi per sostenere che tutte le cose sono Dio70, giacché nella Gerarchia celeste Dionigi dice che Dio è l’essere di tutte le cose71; se quelli avessero letto tutti gli scritti dell’Areopagita, avrebbero trovato, soprattutto ne I nomi divini, che per lui Dio è l’essere di tutte le cose in modo tale da non essere nessuna di esse, in quanto il causato non può mai essere elevato fino all’uguaglianza con la propria causa72. E ritengo che questo lo si possa comprendere solo mediante la dotta ignoranza. Ad esempio, Dio è presente ovunque in modo tale da non essere in nessun luogo, in quanto non è assente da nessun luogo chi non è presente [in modo particolare] in alcun luogo; pertanto, Dio è presente in ogni luogo in modo non spaziale73, così come egli è grande senza avere alcuna quantità. Analogamente, Dio è ogni luogo in modo non spaziale, è ogni tempo in modo non temporale, è ogni ente non secondo il modo che è proprio dell’ente. E per questo Dio non è nessuno degli enti, così come non è un qualche luogo o un qualche tempo, sebbene egli sia tutto in tutto, così come la monade è tutta in tutti i numeri, in quanto, se la si toglie, cessa di esistere il numero, il quale può esistere solo grazie ad essa74. E poiché la monade è ogni numero, non secondo il modo proprio dei numeri, ma secondo il modo della complicazione, essa non è nessuno dei singoli numeri. Per esempio, non è né il due, né il tre». Di fronte a queste parole, io suggerii al maestro di mettere da parte gli aspetti superflui e di respingere più velocemente le fantasie del nostro avversario, il che, aggiunsi, si poteva fare facilmente, essendo fondate su un presupposto così falso. Il maestro mi ordinò quindi di tralasciare le questioni più facili e di permettergli di esaminare, per quanto possibile, quelle più difficili.
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Tunc textum adversarii ad manus habens legi ibi, ubi ait non recte dici scire esse ignorare, cum habitus et privatio distinguantur. Statim interrupta lectura aiebat praeceptor: «Miror hominem, qui se magni aliquid esse putat, cur hoc sic scriptum in libellis Doctae ignorantiae affirmet. Nam etsi rubrum primi capituli inquisitorie dicat ‘Quomodo scire sit ignorare’, tamen ob hoc non affirmat scire esse ignorare, nisi modo quo declaratur ibidem; qui est scilicet, quod se sciat ignorare. De qua scientia ignorationis in eo capitulo clarissima scribitur apertio, prout etiam supra de hoc actum est sufficienter; quam magnus Dionysius in principio libri De divinis nominibus supremam divi namque esse ait, adiungens eam scientiam, qua ipsum supersubstantiale nescitur, sermonem omnem ac sensum vincere et Deo adscribendam esse.» 27 Legi post hoc, quomodo hanc partem, qua linqui sensibilia mandantur in docta ignorantia, ut ad incomprehensibile perveniatur, ex eo reprehendit, quasi hoc sit contra ea, quae Sapientiae tertio decimo capitulo leguntur, scilicet a magnitudine speciei creaturae cognoscibiliter posse creatorem videri. Quod nihil obesse proposito aiebam. Nam cum non sit proportio creaturae ad creatorem, nihil eorum, quae creata sunt, speciem gerit, per quam creator attingi possit. Sed a magnitudine speciei et decoris creatorum ad infinite et incomprehensibiliter pulchrum erigimur sicut ab artificiato ad magisterium, licet artificiatum nihil proportionale habeat ad magisterium; adiciendo, quomodo adversarius sua erubescentia merito confundi debuit, quando subsumpsit praeceptorem doctae ignorantiae repudiasse creaturas, quasi ad Dei cognitionem non proficiant, cum reperiat in ultimo capitulo primi libri Doctae ignorantiae sufficientissime declaratum omnem
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Allora, prendendo in mano il testo del nostro avversario, lessi il passo dove egli afferma che non è corretto dire che il sapere è ignorare, in quanto il possesso e la privazione sono cose distinte75. Il maestro interruppe subito la mia lettura e disse: «Mi meraviglio che un uomo, che si ritiene grande, affermi che io abbia scritto così nei libri della Dotta ignoranza. Benché, infatti, il titolo del primo capitolo reciti, in forma interrogativa, “in che modo il sapere sia ignorare”, non si sostiene tuttavia per questo che sapere significhi ignorare, se non nel modo in cui viene spiegato in quel capitolo, ossia che sa chi sa di ignorare. In quel capitolo si trova una spiegazione molto chiara a proposito di questa conoscenza della propria ignoranza, di cui avevo parlato a sufficienza anche in precedenza76. Il grande Dionigi, all’inizio del libro I nomi divini, dice che questa conoscenza è suprema e divina, ed aggiunge che una conoscenza, per la quale si sa che non si può conoscere il principio sovra-sostanziale, supera ogni discorso e ogni significato e dev’essere attribuita a Dio77». Lessi poi il passo nel quale il nostro avversario critica quella parte della Dotta ignoranza che prescrive di abbandonare gli enti sensibili per poter giungere all’incomprensibile78; il nostro avversario la critica perché ciò sarebbe in contraddizione con le parole che si leggono nel tredicesimo capitolo della Sapienza79, ossia che è possibile conoscere e contemplare il creatore a partire dalla grandezza e dalla bellezza delle creature. Io sostenni che ciò non si oppone affatto a quanto si è detto. Dal momento che, infatti, non vi è proporzione fra la creatura e il creatore, nessuna cosa creata possiede in sé una bellezza attraverso la quale sia possibile giungere al creatore. Tuttavia, dalla grandezza, dalla bellezza e dal decoro delle cose create siamo innalzati al bello infinito e incomprensibile, così come da un’opera siamo rinviati all’artista che l’ha prodotta, sebbene l’opera prodotta non abbia alcuna proporzione con l’artista. Aggiunsi che l’avversario avrebbe dovuto certamente riempirsi di vergogna per aver attribuito al maestro della dotta ignoranza il proposito di trascurare le creature come non utili alla conoscenza di Dio80, mentre nell’ultimo capitolo del primo libro della Dotta ignoranza81 è spiegato in maniera del tutto esaustiva che ogni culto di Dio si fonda necessariamente
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Dei culturam in affirmativis positionibus necessario fundari, licet docta ignorantia sibi iudicium veri retineat. Ex quo conclusi, quod hominis istius quisque perversum animum facile deprehendit et ruditatem intelligentiae, quando ait: 28 «Sic ergo scriba Doctae ignorantiae intrans caliginem tenebrarum, linquens omnem speciem et decorem creaturarum, evanescit in cogitationibus; et non valens Deum intueri, sicuti est, quia adhuc viator, ipsum nequaquam glorificat, sed in tenebris suis eans culmen divinae laudis, ad quod omnis psalmodia perducitur, derelinquit. Quod fore nefandissimum et incredulum quis fidelium ignorat?», addens, quomodo «ad hunc errorem eum paucitas instructionis logicae induxit, qua putavit in sua ignorantia adaequatam et praecisam ad Deum proportionem tamquam medium Deum venandi et noscendi se repperisse.» Ad quae ego: «Ecce mendacis et arrogantis hominis verba, qui omni theologia caret.» 29 Praeceptor laudatis, quae dixi, subiunxit potius parcendum esse deliro quam contra ipsum insultandum. «Nam id, quod improperat, quaeritur in docta ignorantia, uti Dionysius noster, cuius hodie festa agimus, in Mystica theologia sic cum Moyse in caliginem ascendendum instruit. Tunc enim reperitur Deus, quando omnia linquuntur; et haec tenebra est lux in Domino. Et in illa tam docta ignorantia acceditur propius ad ipsum, uti omnes sapientes et ante et post Dionysium conati sunt. Unde aiebat primus Graecus commentator Dionysii: “Videtur potius ad nihil quam ad aliquid ascendere, qui ad Deum pertingere cupit, quia non reperitur Deus nisi per eum, qui omnia linquit.” Et talis videtur per adversarium evanescere, quando omnia linquit, qui secundum primos theologos tunc primum rapi potest cum Moyse ad locum, ubi stetit Deus invisibilis. Vocat autem Dionysius caliginem divinum radium, dicens eos – de quorum numero est adversarius –, qui visibilibus affixi nihil super ea, quae obtutibus et sensibus patent, su-
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su degli enunciati affermativi, per quanto la dotta ignoranza riservi a sé il giudizio su ciò che è vero. Dal che conclusi che chiunque poteva cogliere facilmente la perversità d’animo di quest’uomo e la rozzezza della sua intelligenza, come quando dice: «Così, dunque, lo scrittore della Dotta ignoranza, entrando nella caligine delle tenebre, abbandonando ogni forma e bellezza delle creature, svanisce nei propri pensieri; e non essendo in grado di cogliere Dio, com’è in sé, poiché ancora è “in via”, non può nemmeno glorificarlo, ma, addentrandosi nelle sue tenebre, perde la possibilità di giungere a quel vertice della lode di Dio al quale conduce ogni canto dei salmi. Chi tra i fedeli non sa che ciò è quanto mai nefasto ed empio?». Ed aggiunge: «A questo errore lo ha condotto la poca competenza nella logica, per cui ha ritenuto di aver trovato nella sua concezione dell’ignoranza una misura proporzionale adeguata ed esatta a Dio e un mezzo per ricercarlo e per conoscerlo82». A queste accuse io replicai: «Ecco le parole di un uomo mendace e arrogante, che non conosce nulla di teologia». Il maestro lodò le mie parole ed aggiunse che si deve perdonare il folle piuttosto che insultarlo. «Quanto egli mi rimprovera è in realtà proprio quello che si cerca di fare con la dotta ignoranza, seguendo l’insegnamento del nostro Dionigi, di cui oggi celebriamo la festa83, il quale, nella Teologia mistica, ci mostra come si debba ascendere nella caligine insieme a Mosè84. Dio, infatti lo si trova quando si è abbandonato tutto e questa tenebra è luce nel Signore85. Ed è proprio in questa ignoranza così dotta che ci si avvicina di più a Dio, come hanno cercato di fare tutti i sapienti, sia prima, sia dopo Dionigi. Per questo, il primo commentatore greco di Dionigi diceva: “Chi desidera giungere fino a Dio sembra debba ascendere verso il nulla piuttosto che verso un qualcosa, in quanto Dio non viene trovato se non da chi abbandona tutte le cose”86. Eppure al nostro avversario sembra che costui si perda nel nulla per il fatto che abbandona tutte le cose, mentre, secondo i primi teologi, è proprio allora che egli può essere rapito, insieme a Mosè, fino al luogo nel quale sta il Dio invisibile. Ora, Dionigi chiama questa caligine “raggio divino” e dice che coloro – nel novero dei quali vi è anche il nostro avversario – che restano fermi alle cose visibili, e ritengono che non vi sia nulla di sovra-sostanziale al di sopra di ciò che ri-
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persubstantialiter esse arbitrantur, putare scientia sua illum assequi, qui posuit tenebras latibulum; praecipiens Timotheo, ut caveat, ne talium rudium aliquis audiat haec mystica.» 30 Et mihi tunc iniunxit pietate sua praeceptor noster, ut, si fieri posset, caritative admoneam adversarium, cum sit istarum altarum intellectionum incapax, ut ori suo silentium indicat et id, quod capere nequit, admiretur potius quam mordeat, neque credat studio aliquo quemquam ad haec mystica ascendere posse, cui Deus non dederit. «Sed si se gratiam assequi sperat, ut de caecitate ad lumen transferatur, legat cum intellectu Mysticam theologiam iam dictam, Maximum monachum, Hugonem de Sancto Victore, Robertum Lincolniensem, Iohannem Scotigenam, abbatem Vercellensem et ceteros moderniores commentatores illius libelli; et indubie se hactenus caecum fuisse reperiet.» 31 Et ego patientiam praeceptoris admirans subintuli: «Im patienter fero, quod te comparat ignoranti logicam, uti Averrois Avicennam.» Ad quae ipse: «Non te offendat istud. Nam etsi omnium sim ignorantissimus, sufficiat saltim mihi, quod huius ignorantiae scientiam habeam, quam adversarius non habet, licet desipiat. Legitur beatissimum Ambrosium letaniis addidisse: “A dialecticis libera nos, Domine.” Nam garrula logica sacratissimae theologiae potius obest quam conferat.» Et ego: «Cum tu, praeceptor, nisus sis ostendere Deum sciri non posse, uti est – in quo est radix doctae ignorantiae –, cur tibi mendacium imponit adaequatae praecisionis?» Ad quae praeceptor: «Nunc sic, tunc aliter dicit, quia non legit Doctae ignorantiae libellos, nisi ut, si posset, bene dicta confutaret. Hinc nihil intellexit eorum, quae legit. Sic actum est, ut reprehendendo non-scriptum quasi scriptum seipsum potius con-
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sulta accessibile alla vista e ai nostri sensi, sono convinti di poter raggiungere con il loro sapere colui il quale ha posto invece le tenebre come proprio nascondiglio. E a Timoteo Dionigi raccomanda di fare attenzione a che nessuno di tali uomini rozzi ascolti queste dottrine mistiche87». E il maestro mi consigliò allora, in grazia della sua bontà, di suggerire all’avversario, se possibile in modo caritatevole, che, non essendo egli in grado di capire delle concezioni così alte, facesse almeno tacere la sua bocca ed ammirasse, invece di denigrare, ciò che non riesce a comprendere, senza credere che chiunque, con un po’ di applicazione, possa elevarsi a questa contemplazione mistica, se Dio non gliel’ha donata. «Ma se spera di conseguire la grazia di essere elevato dalla cecità alla luce, legga con intelligenza la Teologia mistica di Dionigi, il monaco Massimo88, Ugo di San Vittore89, Roberto di Lincoln90, Giovanni Scoto91, l’abate di Vercelli92 ed altri commentatori più moderni di quel libro e, senza dubbio, si accorgerà di essere stato finora un cieco». Al che io, pur ammirando la pazienza del maestro, aggiunsi: «Non riesco a sopportare il fatto che egli ti paragoni a uno che non conosce la logica, come fece Averroè con Avicenna93». A queste parole egli rispose: «Non ti indignare per questo. Infatti, sebbene io sia il più ignorante fra tutti, mi basta per lo meno avere conoscenza di questa ignoranza, cosa che il mio avversario non ha, benché vaneggi. Si legge che il beatissimo Ambrogio alle altre litanie abbia aggiunto questa: “Liberaci dai dialettici, Signore”94. Una logica garrula è di ostacolo, piuttosto che di aiuto, alla santissima teologia». Ed io: «Dal momento che tu, maestro, ti sei sforzato di mostrare che Dio non può essere compreso per come è in se stesso, e in ciò consiste la radice della dotta ignoranza, perché il nostro avversario ti attribuisce quella menzogna relativa alla precisione adeguata?» Il maestro rispose: «In un punto dice così, in un altro dice diversamente, perché egli ha letto i libri della Docta ignoranza al solo scopo di vedere se poteva confutare le cose giuste che vi sono contenute. Per questo motivo, non ha capito nulla di ciò che ha letto. È accaduto, dunque, che, per voler criticare il non-scritto come se fosse stato scritto, egli ha finito per confondere se stesso piutto-
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funderet quam doctam sacram ignorantiam laederet, quae a nullo sperni potest, qui eam apprehendit. Nihil enim apertius in omnibus meis opusculis reperitur quam huius contrarium, in quod impingit. Undique enim, si voluisset, me hoc tantum sentire, quod praecisio, uti est, omnibus inaccessibilis manet, comperisset, – licet solam doctam ignorantiam fatear omnem modum Deum contemplandi incomparabiliter praecellere, quemadmodum omnes sancti id ipsum fatentur.» 32 Continuavi ego lecturam, ubi dicit adversarius: «Venio nunc specialius ad eius dicta per conclusiones et correlaria. Prima conclusio: Omnia cum Deo coincidunt. Patet, quia est maximum absolutum non admittens excedens et excessum, ergo nihil sibi oppositum; et per consequens ob defectum discretionis ipse est universitas rerum, et nullum nomen potest ei proprie convenire, cum impositio nominis sit a determinata qualitate eius, cui nomen imponitur; cui alludit magister Eckardus.» Subiungit episcopum Argentinensem condempnasse eos, qui dicebant Deum esse omnia formaliter et se esse Deum sine distinctione per naturam. Deinde contra probationem dicit absurdissimum esse, quod sequeretur, si nulla esset distinctio nec relationis oppositio indivinis; sublata enim tunc foret Trinitas, et cetera. 33 Ad quae praeceptor: «Nonne falsarius iste potius ridendus quam confutandus esset? Cur non dicit locum, ubi in libellis Doctae ignorantiae haec conclusio reperitur?» Et ego: «Quia nusquam reperitur, dicere non potuit. Legi enim ego quam diligenter et non memini umquam repperisse, quod omnia cum Deo coincidunt. Repperi bene in secundo Doctae ignorantiae creaturam non esse Deum nec nihil; neque capio, quid ve-
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sto che colpire la sacra ignoranza, la quale non può essere disprezzata da nessuno che l’abbia compresa. In tutti i miei libri, infatti, non vi è nulla che sia più chiaramente contrario a ciò contro cui egli si scaglia. Se l’avesse voluto, avrebbe potuto constatare che io ho ovunque sostenuto questa opinione, ossia che la precisione, in quanto tale, resta inaccessibile a tutti95, anche se io riconosco che solo la dotta ignoranza supera in modo incomparabile ogni maniera di contemplare Dio, cosa, questa, che viene riconosciuta da tutti i santi». Io continuai a leggere ad alta voce, e lessi il passo in cui l’avversario dice: «Giungo ora a certe sue affermazioni più particolari, che formulerò sotto forma di conclusioni e corollari. Prima conclusione: tutte le cose coincidono con Dio. Ciò risulta evidente dal fatto che egli è il massimo assoluto che non ammette il più e il meno, per cui nulla gli è opposto. Di conseguenza, mancando di ogni distinzione, Dio è la totalità delle cose, e nessun nome gli può convenire in senso proprio, dal momento che l’attribuzione di un nome dipende dalla determinata qualità della cosa a cui il nome viene attribuito; a ciò allude Meister Eckhart96». Il nostro avversario aggiunge anche che il vescovo di Strasburgo ha condannato coloro che asserivano che Dio è formalmente tutte le cose e che sostenevano di essere essi stessi Dio senza distinzione di natura. Poi, contro l’argomentazione che viene addotta a sostegno di questa tesi, egli afferma: «Se non vi fosse alcuna distinzione né opposizione fra le relazioni di Dio, ne seguirebbe qualcosa di completamente assurdo; in questo caso, infatti, verrebbe eliminata la [dottrina della] Trinità, ecc.97». A queste parole il maestro rispose: «Non è forse costui un falsificatore, che dev’essere deriso piuttosto che confutato? Perché non dice qual è il passo della Dotta ignoranza in cui si trova questa conclusione?». Ed io: «Non ha potuto dirlo, perché non si trova da nessuna parte. Io ho letto i libri della Dotta ignoranza con grande attenzione e non ricordo di aver trovato mai l’affermazione che tutte le cose coincidano con Dio. Nel secondo libro ho invece trovato, correttamente, che la creatura non è Dio, né nulla98; e non capisco che cosa
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lit adversarius dicere, neque forte ipse se intelligit. Nam omnia attributa divina coincidere in Deo et totam theologiam esse in circulo positam, sic quod iustitia in Deo est bonitas et e converso – ita de reliquis –, necessarium comperi et ita legi; et in hoc concordant omnes sancti, qui ad infinitam Dei simplicitatem respexerunt.» 34 «Cum hoc tamen stat superbenedicta Trinitas. Infinita enim simplicitas admittit ita Deum unum esse quod est trinus, ita trinum quod est unus, sicut clarius illud in libellis Doctae ignorantiae explicatur. Legitur consimiliter Coelestinum Papam in professione fidei sic dixisse: “Profitemur nos credere indivisibilem sanctam Trinitatem, hoc est Patrem et Filium et Spiritum sanctum, ita unum ut trinum et ita trinum ut unum.” Ecce, quomodo penitus nullum habet intellectum in theologicis, qui ad coincidentiam unitatis et trinitatis non respicit; nec ex hoc sequitur Patrem esse Filium vel Spiritum sanctum. Et non potest hoc pervenire ad hominem durae cervicis, quomodo scilicet in coincidentia summae simplicitatis et indivisibilitatis atque unitatis et trinitatis alia sit persona Patris, alia Filii, alia Spiritus sancti; et obsunt ei vocabula, quorum significata theologiae non conveniunt. 35 Cum enim dicitur Patrem unam esse personam et Filium alteram et Spiritum sanctum tertiam, non potest alteritas significatum suum tenere, cum sit haec dictio imposita, ut significet alteritatem ab unitate divisam et distinctam; et ita non est alteritas sine numero. Talis autem alteritas nequaquam indivisibili Trinitati convenire potest. Unde ait commentator Boethii De Trinitate, vir facile omnium, quos legerim, ingenio clarissimus: “Ex quo in divinis non est numerus, ubi trinitas est unitas – ubi, ut Augustinus ait, si incipis numerare, incipis errare –, tunc proprie non est differentia in
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voglia dire il nostro avversario, ma probabilmente non lo sa neppure lui. Ciò che io ho appreso è che è necessario riconoscere che tutti gli attributi divini coincidono in Dio e che tutta la teologia è disposta in circolo99, in modo tale che in Dio la giustizia è la sua bontà e viceversa, e lo stesso vale per tutti gli altri attributi. Questo è quanto ho letto nei libri della Dotta ignoranza, ma su questa concezione concordano tutti i santi, che hanno guardato all’infinita semplicità di Dio». «Tuttavia, la santissima Trinità è del tutto compatibile con questa dottrina [della semplicità divina]. L’infinita semplicità, infatti, consente di dire che Dio è uno, in modo tale da essere trino, e che è trino, in modo tale da essere uno, come viene spiegato più chiaramente nei libri della Dotta ignoranza. In modo simile, si può leggere che papa Celestino, nella sua professione di fede, si è espresso in questa maniera: “Professiamo di credere nella santa e indivisibile Trinità, ossia nel Padre, nel Figlio e nello Spirito santo, perché Dio è così uno come trino”100. Ecco perché non capisce nulla di teologia chi non presta attenzione alla coincidenza dell’unità e della trinità. Ma un uomo di dura cervice [come il nostro avversario] non può giungere a comprendere che, nella coincidenza della suprema semplicità e indivisibilità, dell’unità e della trinità, la persona del Padre, quella del Figlio e quella dello Spirito santo siano distinte l’una dall’altra. Gli sono di ostacolo le parole, il cui significato comune non è appropriato alla teologia». «Ad esempio, quando diciamo che il Padre è una persona, il Figlio è un’altra persona e lo Spirito santo è una terza persona, l’alterità non può mantenere qui il suo significato ordinario, in quanto questo termine viene impiegato [in senso ordinario] per designare un’alterità che è divisa e distinta dall’unità, per cui [intesa in questo senso] non vi può essere alterità senza numero. Ora, una tale alterità non può in alcun modo convenire alla Trinità indivisibile. Questo è il motivo per il quale un commentatore del libro di Boezio Sulla trinità – il commentatore, certamente, dall’ingegno più lucido di tutti quelli che ho letto – dice: “Dal momento che non vi è alcun numero in Dio, nel quale la trinità è unità – nel quale, come dice Agostino, se cominci a numerare, cominci ad errare –, allora in Dio non vi è, propriamente, alcuna differenza”101». Egli dice “propriamente” per
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divinis.” Dicit ‘proprie’ secundum impositionem vocabuli; et hoc melius intelligitur quam dici possit, licet numquam adeo perfecte intelligatur, quin perfectius sit intelligibile. Necesse est, ut se elevet quisque supra omnes modos imaginabiles et intelligibiles, qui ad divinum modum scandere cupit. Nam ille modus, qui est omnis modi modus, non attingitur nisi supra omnem modum, cum nihil simile ei cadere possit in mentem nostram, ut Paulus Actuum XVII. Elegantissime dixit. Quis enim modum concipere possit discretum indiscrete, ut ait Athanasius, “neque confundentes personas neque substantiam separantes”? Sunt enim omnes similitudines, quas sancti ponunt, etiam divinissimus Dionysius, penitus improportionales et omnibus non habentibus doctam ignorantiam – huius scilicet scientiam, quod sunt penitus improportionales, – potius inutiles quam utiles. De hiis tamen, modo quo Deus dedit, libro primo Doctae ignorantiae satis scriptum reperitur, licet improportionabiliter minus quam dici possit.» 36 Et ego non sinens indiscussum relinqui id, quod de magistro Eckardo adversarius allegavit, interrogabam, an praeceptor aliquid de eo audisset. Qui ait se multa eius expositoria opera hincinde in librariis vidisse super plerisque libris Bibliae et sermones multos, disputata multa, atque etiam plures legisse articulos ex scriptis suis super Iohannem extractos, ab aliis notatos et refutatos, vidisseque Moguntiae breve scriptum eiusdem apud magistrum Iohannem Guldenschaf, ubi respondet illis, qui eum nisi fuerunt reprehendere, declarando se atque, quod reprehensores eum non intellexerunt, ostendendo. Aiebat tamen praeceptor se numquam legisse ipsum sensisse creaturam esse creatorem, laudans ingenium et studium ipsius; sed optavit, quod libri sui amoverentur de locis publicis, quia vulgus non est aptus ad ea, quae praeter consuetudinem aliorum doctorum ipse saepe intermiscet, licet per intelligentes multa subtilia et utilia in ipsis reperiantur. 37 Et cum consequenter correlarium, quod adversarius ponit, legerem, – quomodo “in maximitate absoluta omnia id sunt, quod
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indicare il significato proprio e comune della parola; questo punto [a proposito di Dio], infatti, lo si intende meglio di quanto lo si possa esprimere, sebbene non possa mai essere inteso così perfettamente da non poter essere inteso in un modo ancora più perfetto. Chi desidera ascendere al modo divino è necessario che si elevi al di sopra di tutti i modi immaginabili ed intelligibili. Il modo divino, infatti, che è il modo di ogni modo, non può essere colto se non elevandoci al di sopra di ogni modo, in quanto la nostra mente non è in grado di concepire nulla che gli sia simile, come ha detto Paolo, in maniera estremamente elegante, nel diciassettesimo capitolo degli Atti degli apostoli102. Chi è infatti in grado di concepire un modo che è distinto senza-distinzione, come dice Atanasio quando sostiene che “non si devono confondere le persone, né si deve separare la sostanza”103? Su questo argomento ho scritto a sufficienza nel primo libro della Dotta ignoranza, così come Dio me lo ha permesso, e tuttavia in maniera incomparabilmente minore rispetto a quanto si potrebbe dire a questo proposito104». Da parte mia, non sopportando che rimanesse fuori dalla discussione quanto il nostro avversario aveva riferito riguardo a Meister Eckhart, chiesi al maestro se avesse sentito dire qualcosa su di lui. Mi rispose di aver visto presso vari librai molte opere esegetiche di Eckhart su numerosi libri della Bibbia, molti sermoni e molte questioni disputate, e di aver letto anche molti articoli tratti dai suoi scritti sul Vangelo di Giovanni, annotati e confutati da altri; mi disse, inoltre, di aver visto a Magonza, presso il maestro Giovanni Guldenschaf105, un breve scritto nel quale Eckhart risponde a coloro che avevano cercato di criticarlo, spiegando la propria concezione e mostrando che i suoi critici non lo avevano compreso. Il maestro, tuttavia, mi disse di non aver mai letto in Eckhart che la creatura sia il creatore, e ne lodò l’ingegno e lo zelo. Si augurava, tuttavia, che i suoi libri venissero portati via dai luoghi pubblici, in quanto la gente comune non è in grado di capire le affermazioni che spesso Eckhart inserisce nelle sue opere e che vanno al di là delle affermazioni consuete degli altri dottori, sebbene le persone intelligenti possono trovare in esse molte cose acute ed utili. Lessi poi il corollario, che il nostro avversario fa seguire alla sua prima conclusione, ossia che «nella massimità assoluta tutte le cose
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sunt, quia est entitas absoluta, sine qua nihil est”; addendo Eckardum similiter dicere esse esse Deum, inferendo per hoc tolli subsistentias rerum in proprio genere, – aiebat praeceptor: «Posset dici adversario illud, quod dixit Augustinus in Confessionibus, dum laudaret Deum tamquam venam omnis esse, subiungendo: “Quid ad me, si non intelligis?” Nam cum creatorem nominemus Deum et dicimus eum esse, ad coincidentiam nos elevantes dicimus Deum cum esse coincidere. Moyses nominat eum formatorem: “Formavit igitur Deus hominem”, et cetera. Si igitur ipse est formarum forma, ipse dat esse, licet forma terrae det terrae esse et forma ignis igni. Forma vero, quae dat esse, Deus est, qui format omnem formam. Unde, sicut imago habet formam, quae dat ei esse hoc, per quod est imago, et forma imaginis est forma formata et id, quod est veritatis, non habet nisi ex forma, quae est veritas et exemplar: sic omnis creatura in Deo est id, quod est. Nam ibi est omnis creatura, quae est imago Dei, in sua veritate. Per hoc tamen non tolluntur subsistentiae rerum in suis propriis formis; et si hic homo veritatem amaret, addere debuisset correlarium contrarium ex hiis, quae legere potuit multum diffuse, clare et expresse in Docta ignorantia. 38 Similiter etiam, quando allegat magistrum Eckardum; nam Eckardus circa principium Genesis, ubi praemittit de esse, postquam probavit Deum esse ipsum esse et qui dat esse et formas particulares hoc et hoc esse: subiungit per hoc non tolli subsistentias rerum in proprio esse, sed potius fundari, probando hoc per tria similia, scilicet ma teriam, partes totius et humanitatem Christi. Non enim tollitur materia et penitus in nihil vertitur per hoc, quod omne esse totius est a forma, nec pars per hoc, quod partis esse est
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sono ciò che esse sono, in quanto la massimità assoluta è l’entità assoluta, senza la quale non esiste nulla»; a ciò egli aggiunge che anche Eckhart dice che Dio è l’essere, e [Wenck] ne deduce che, in questo modo, viene eliminata la sussistenza delle [singole] cose nel loro proprio genere106. Al che il maestro rispose: «Si potrebbe rispondere al nostro avversario quanto ha detto Agostino nelle Confessioni107, quando ha lodato Dio come fonte di tutto l’essere, aggiungendo: “Che posso farci se non capisci?” Infatti, dal momento che designamo Dio come “creatore” e lo chiamiamo “essere”, elevandoci alla coincidenza diciamo che Dio coincide con l’essere. Mosè lo chiama “formatore”: “Poi Dio formò l’uomo”108, eccetera. Se, dunque, Dio è la forma delle forme, egli è colui che dà l’essere, sebbene sia la forma della terra che conferisce l’essere alla terra e sia la forma del fuoco che conferisce l’essere al fuoco. La forma che dà l’essere, tuttavia, è Dio, il quale forma ogni forma109. Di conseguenza, come un’immagine ha una forma che le conferisce quell’essere [determinato] in virtù del quale essa è un’immagine, e come la forma che è propria dell’immagine è una forma formata, mentre ciò che essa ha di verità lo riceve solo da quella forma che è la sua verità ed il suo esemplare, così è in Dio che ogni creatura è ciò che essa è. In Dio, infatti, ogni creatura, che è un’immagine di Dio, è nella propria verità. In questo modo, tuttavia, non viene eliminata la sussistenza delle cose nelle proprie forme particolari, e quest’uomo, se amasse la verità, sulla base di quanto ha potuto leggere in modo estremamente chiaro, esplicito e diffuso nella Dotta ignoranza, avrebbe dovuto aggiungere un corollario contrario rispetto a quello che egli ha scritto». «Qualcosa di simile si dica riguardo al punto in cui egli cita Meister Eckhart; all’inizio del suo commento al Genesi, in cui tratta in primo luogo dell’essere, dopo aver dimostrato che Dio è l’essere stesso ed è colui che dà l’essere e che fa sì che anche le forme particolari siano questo o quell’essere, Eckhart, infatti, aggiunge che, in questo modo, non viene eliminata l’esistenza delle cose nel proprio essere, ma viene piuttosto fondata, e lo dimostra attraverso tre esempi simili, ossia la materia, le parti di un tutto e l’umanità di Cristo. La materia, infatti, non viene eliminata e non è ridotta completamente a nulla per il fatto che l’intero essere del tutto deri-
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penitus ab esse totius; nec per hoc, quod dicimus in Christo unicum esse personale hypostaticum ipsius Verbi, negamus Christum fuisse verum hominem cum aliis hominibus, addendo ibidem ad hoc rationes.» 39 Legi deinceps aliud correlarium, quomodo “maximitas absoluta habet in se omnia et est in omnibus”, adiciendo, quomodo adversarius ait universalizantes omnia essentialiter deificari in huiusmodi praecisa abstractione. Ad quae praeceptor: «Nescio, quid velit per ‘universalizantes’. Hoc notum est ex Paulo apostolo et omnibus sapientibus Deum esse in omnibus et omnia in ipso. Per hoc tamen nemo ponit compositionem in Deo, quia omnia in Deo Deus; nam non est terra in Deo terra, sed Deus; ita de singulis. Unde penitus nihil intelligit hic homo inferendo hoc repugnare simplicitati divinae. Nam sicut simplicitati unitatis non repugnat omnem numerum in ea complicari, sic simplicitati causae omnia causata. 40 Et cum dicat infinitam perfectionem non posse plus perfici, fateor», aiebat praeceptor; «ob hoc omnis perfectio omnium perfectorum est in ipso Deo ipse, qui est omnium absoluta perfectio omnes complicans omnium perfectiones. Si enim esset dabilis aliqua perfectio, quae non complicaretur in divina, illa posset esse maior et non esset infinita.» Vide, amice et condiscipule praecare, quomodo praeceptor noster ex ratione adversarii contra ipsum concludit! 41 Post haec legi praeceptori secundam conclusionem, quam traxit adversarius, scilicet praecisionem incomprehensibilem, et admirationem eius, quomodo videtur in docta ignorantia, si est incomprehensibilis.
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va dalla forma, né la parte è ridotta a nulla per il fatto che il suo essere dipende completamente dall’essere del tutto; allo stesso modo, quando diciamo che in Cristo vi è l’unico essere personale ipostatico del Verbo stesso, con ciò non neghiamo che Cristo sia stato un vero uomo accanto agli altri uomini; ed Eckhart adduce anche altre argomentazioni a sostegno di questa tesi110». Lessi poi un altro corollario, ossia che «la massimità assoluta ha in sé tutte le cose ed è in tutte le cose», ed aggiunsi che l’avversario sostiene che coloro i quali «universalizzano» si rappresentano, attraverso questa loro precisa astrazione, tutte le cose come per essenza divine111. A queste parole il maestro rispose: «Non so che cosa egli intenda dire con “coloro che universalizzano”. Sappiamo dall’apostolo Paolo e da tutti i sapienti che Dio è in tutte le cose e che tutte le cose sono in Dio112. Tuttavia, nessuno [che sostiene questa tesi] afferma che vi sia composizione in Dio, in quanto tutte le cose, in Dio, sono Dio; la terra, ad esempio, in Dio non è terra, ma è Dio, e lo stesso vale per ogni altra cosa. Quest’uomo, pertanto, mostra di non capire nulla, se conclude che ciò è incompatibile con la semplicità divina113. Infatti, come non è incompatibile con la semplicità dell’unità il fatto che in essa siano complicati tutti i numeri, così non è incompatibile con la semplicità della causa il fatto che in essa sia complicato tutto ciò che è causato». «E quando dice che la perfezione infinita non può essere resa più perfetta, lo accetto», disse il nostro precettore. «Per questo ogni perfezione di tutte le cose perfette è, in Dio, Dio stesso, il quale è la perfezione assoluta di tutte le cose e complica in sé tutte le perfezioni di tutte le cose. Se, infatti, vi fosse una qualche perfezione non complicata nella perfezione divina, quest’ultima potrebbe essere maggiore e non sarebbe infinita». Vedi, amico e condiscepolo carissimo, come il nostro maestro dall’argomentazione dell’avversario ricavi un’argomentazione contro di lui! Dopo queste parole, lessi al maestro la seconda conclusione tratta dal nostro avversario a proposito della tesi secondo cui la precisione è incomprensibile, e riferì che egli si chiedeva con stupore come fosse possibile giungere a vedere la precisione nella dotta ignoranza, se essa è incomprensibile114.
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Tunc praeceptor adiunxit: «Non mirum, si admiratur, quia nihil mirabilius homini quam docta ignorantia, videre scilicet praecisionem videri non posse, – ut supra et satis de hoc dictum est. Ubi ait hoc fundamentum annullare scientiam divinorum, verum dicit: Quia non est scientia, qua quis credit se scire, quod sciri nequit, ibi scire est scire se non posse scire. Dixit correlarium verum, scilicet omnem similitudinem claudicare. Sed cum admiratur, quomodo dato simili semper in infinitum similius dari possit in habentibus terminos magnitudinis suae, consideret divisionem lineae finitae, ubi ad indivisibilem punctum non pertingitur, licet per partium partes ad ipsum accedere videamur. – Correlarium aliud similiter est verum, scilicet quod per similitudinem non attingitur veritas.» 42 Consequenter legi tertiam conclusionem, quam ex Docta ignorantia traxisse se asserit, scilicet quod quidditas est inattingibilis. Dixit praeceptor: «Licet etiam intelligibilis, ut opponit: tamen actu numquam intelligitur, sicut Deus est summe intelligibilis et sol summe visibilis. Nec sequitur ex coincidentia etiam oppositorum in maximo hoc ‘venenum erroris et perfidiae’, scilicet destructio seminis scientiarum, primi principii, ut impugnator elicit. Nam illud principium est quoad rationem discurrentem primum, sed nequaquam quoad intellectum videntem, – ut supra de hoc. Neque est verum, si Deus est omne, quod est, quod propterea non creaverit omnia de nihilo. Nam cum Deus solum sit complicatio omnis esse cuiuscumque existentis, hinc creando explicavit caelum et terram; immo, quia Deus est omnia complicite modo in-
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Allora il maestro ha affermato: «Non c’è da stupirsi del fatto che egli si stupisca, perché nulla, nell’uomo, desta più stupore della dotta ignoranza, la quale consiste nel vedere che la precisione non può essere vista, come si è già detto a sufficienza poc’anzi. Quando dice che questo fondamento annulla la conoscenza delle cose divine115, dice il vero, poiché la conoscenza con la quale uno crede di conoscere ciò che non si può conoscere non è una conoscenza; in questo caso, conoscere significa sapere che non si può conoscere». «Il nostro avversario ha enunciato un corollario vero, ossia che ogni somiglianza è imperfetta116. Ma, dal momento che si stupisce del fatto che, nell’ambito delle cose che hanno dei limiti alla loro grandezza, data una cosa simile se ne può dare sempre, all’infinito, una che sia più simile, consideri la divisione della linea finita, in cui non si giunge mai ad un punto indivisibile, anche se sembra che possiamo avvicinarci ad esso dividendo via via le parti in parti. Anche l’altro corollario è vero, ossia che mediante la similitudine non si raggiunge mai la verità117». Subito dopo, lessi la terza conclusione, che il nostro avversario ritiene di aver ricavato dalla Dotta ignoranza, ossia che la quiddità delle cose è inattingibile118. Ed il nostro precettore disse: «Sebbene [la quiddità] sia intelligibile, come egli obietta, essa, tuttavia, non viene mai intesa in atto, come avviene nel caso di Dio, che è sommamente intelligibile, e nel caso del sole, che è sommamente visibile. Né dalla coincidenza degli opposti nel massimo segue, come vuole il nostro oppositore, quel “veleno di errore e di perfidia” che sarebbe la distruzione del seme delle scienze, ossia del primo principio. Quel principio, infatti, è il primo principio per quanto riguarda la ragione discorsiva, ma non lo è affatto per quanto concerne la visione [intuitiva] dell’intelletto, come abbiamo detto a questo proposito in precedenza»119. «E non è neppure vero che, se Dio è tutto ciò che è, egli non ha per questo creato tutte le cose dal nulla120. Infatti, dal momento che soltanto Dio è la complicazione di tutto l’essere di ogni cosa che esiste, è lui che, nel creare, ha esplicato il cielo e la terra; ed anzi, proprio perché Dio è tutte le cose nel modo proprio della complicazione e in maniera intellettuale e divina, egli è colui che tutte le esplica,
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tellectualiter divino, hinc et omnium explicator, creator, factor et quidquid circa hoc dici potest; sic arguit magnus Dionysius. 43 Et si fuerunt Begardi, qui sic dicebant, ut scribit, scilicet se esse Deum per naturam, merito fuerunt condempnati, prout etiam Almericus fuit per Innocentium Tertium condempnatus in concilio generali, de quo in capitulo ‘Dampnamus de summa Trinitate’; qui non habuit sanum intellectum, quomodo Deus est omnia complicite; de cuius erro ribus Iohannes Andreas aliqua recitat in Novella. Accidit autem hoc viris parvi intellectus, ut in errores incidant, quando altiora sine docta ignorantia perquirunt; et fiunt ab infinitate lucis summe intelligibilis in oculo mentis caeci et suae caecitatis scientiam non habentes credunt se videre et quasi videntes indurantur in assertionibus, sicut Iudaei per litteram non habentes spiritum ducuntur in mortem. Sunt alii, qui illos videntes sapientes putant ignorantes et errantes, quando in eis legunt eis insolita, et maxime, quando reperiunt eos tunc se doctos credere, quando cognoscunt se ignorantes. Unde recte admonent omnes sancti, quod illis debilibus mentis oculis lux intellectualis subtrahatur. Sunt autem illis nequaquam libri sancti Dionysii, Marii Victorini ad Candidum Arrianum, Clavis physicae Theodori, Iohannis Scotigenae περὶ φύσεως, Tomi David de Dynanto, Commentaria fratris Iohannis de Mossbach in Propositiones Proculi et consimiles libri ostendendi.» 44 Et cum consequenter iterum legerem quartam conclusionem, et praeceptor audiret, quomodo adversarius in ea dicit ex Docta ignorantia haberi unam esse naturam imaginis et exemplaris, exclamavit praeceptor dicens: «Absit, absit! Ecce detestandum facinus inverecundi falsarii!» Et arrepto codice Doctae ignorantiae libro primo capitulo undecimo legit: «Hoc autem, quod spiritualia per se a nobis inattingibilia symbolice investigentur, radicem habet ab hiis, quae superius dicta
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è il creatore e il fattore di tutte, e qualsiasi altra cosa si possa dire a questo riguardo. Questo è quanto ha sostenuto il grande Dionigi121». «E se ci sono stati dei Begardi che, come scrive il nostro avversario, dicevano di essere Dio per natura, essi sono stati giustamente condannati, come è stato condannato anche Amalrico122 da Innocenzo III in un concilio generale (riguardo a ciò si può leggere il capitolo “Condanniamo [gli errori] relativi alla somma Trinità”)123. Amalrico non ha compreso in modo corretto che Dio è tutte le cose nel modo proprio della complicazione; alcuni dei suoi errori sono citati da Giovanni d’Andrea nella Novella124. Agli uomini che sono invece dotati di poco intelletto accade di cadere in errore quando indagano questioni molto elevate senza l’ausilio della dotta ignoranza. L’infinità della luce sommamente intelligibile che colpisce il l’occhio della loro mente li rende ciechi, ed essi, non avendo consapevolezza della loro cecità, credono di vedere e, comportandosi come se vedessero, si ostinano nelle loro affermazioni come accade ai giudei, i quali, non possedendo lo spirito, sono condotti a morire dalla lettera125. Vi sono altri che considerano ignoranti e immersi nell’errore quei sapienti che sono invece dotati di una vista acuta, quando vi leggono cose per loro insolite e soprattutto quando trovano che essi si considerano dotti, mentre, in realtà, ciò che essi conoscono è il fatto di essere ignoranti. Per questo motivo, tutti i santi ammoniscono giustamente che vengano privati della luce intellettuale coloro il cui occhio mentale è debole. A tali persone non si devono mai mostrare i libri del santo Dionigi, l’Epistola all’ariano Candido di Mario Vittorino126, la Chiave della fisica di Teodoro127, la Divisione della natura di Giovanni Scoto128, le Divisioni di David di Dinant129, i commentari di fratello Giovanni di Mossbach alle Proposizioni di Proclo130 e libri simili». Lessi poi la quarta conclusione, e, dopo aver ascoltato come in essa il nostro avversario sostenga che dalla Dotta ignoranza si ricava [la tesi] che una sola è la natura dell’immagine e dell’esemplare131, il nostro maestro esclamò: «Non sia mai detto! Ecco il misfatto detestabile di un mendace senza vergogna!» E, presa una copia della Dotta ignoranza, lesse dal capitolo undicesimo del primo libro: «Il fatto, tuttavia, che le realtà spirituali, che di per sé sono a noi inaccessibili, possano venire in-
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sunt, quoniam omnia ad se invicem quandam, nobis tamen occultam et incomprehensibilem habent proportionem, ut ex omnibus unum exsurgat universum et omnia in uno maximo sint ipsum maximum. Et quamvis omnis imago accedere videatur ad similitudinem exemplaris, tamen praeter maximam imaginem, quae est hoc ipsum quod exemplar in unitate naturae, non est imago adeo similis aut aequalis exemplari, quin per infinitum similior et aequalior esse possit, uti iam illa ex superioribus patefacta sunt.» Haec ibi. 45 «Ecce,» aiebat praeceptor, «quomodo id, quod secundum Paulum de unigenito Filio, qui est imago consubstantialis Patri, excipitur, ille falsarius asserit de omni imagine diminuta positum.» Ad quae ego concitatissimus adieci: «Eat nunc mendax truncator librorum et abscondat se. Non enim est dignus luce, qui in lucem offendit, quod censeo esse peccatum in Spiritum sanctum.» Et cum cursim sequentia legerem, ostendit mihi praeceptor, quomodo adversarius usus est falsitate et truncatione et mendacio atque perversa interpretatione in omnibus, quae sequuntur. Et ubi de Socrate aliqua dicere nititur, quae ignorat, «Videat» ait praeceptor, «libellum Platonis De apologia Socratis, ubi in iudicio se excusat, et reperiet phantasias suas ab omni veritate vacuas.» Et ego: «Mirandum est de profectae aetatis cano homine, qui se sciolum putat, quod ita pueriles ineptias scribat, maxime quando interpretatur doctam ignorantiam ‘abstractam vitam’.» 46 Et cum interrogarem, an aliquid dicendum occurreret contra impugnationem, quam adversarius in quinta conclusione contra hoc facit, quod maximum est actu omne possibile, aiebat, quod cum carente intellectu supervacue contenditur. «Nam cum Deus
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dagate in maniera simbolica, ha il suo fondamento in quanto abbiamo detto in precedenza, ossia nel fatto che tutte le cose stanno fra loro in una certa proporzione, per quanto a noi nascosta ed incomprensibile, in modo tale che da tutte scaturisce un unico universo e che tutte nell’uno massimo sono l’uno stesso. E sebbene ogni immagine sembri avvicinarsi all’esemplare come una sua similitudine, tuttavia, ad eccezione dell’immagine massima, che è identica all’esemplare nell’unità della natura, non c’è nessuna immagine che sia così simile o eguale al suo esemplare da non poter essere ancora più simile ed eguale, all’infinito, come abbiamo già chiarito in precedenza»132. Questo è quanto è scritto in quel passo. «Ecco», disse il maestro, «come quel falsario fa passare ciò che, seguendo Paolo133, viene attribuito esclusivamente al Figlio unigenito, che è l’immagine consostanziale del Padre, come qualcosa che è stato detto di tutte le immagini inferiori». Ed io, concitatissimo, aggiunsi: «Vada ora a nascondersi, questo mendace mutilatore di libri. Non è, infatti, degno della luce colui che offende la luce, cosa che ritengo essere un peccato contro lo Spirito santo». E mentre leggevo velocemente il seguito, il maestro mi mostrava come l’avversario si servisse della falsificazione, della mutilazione dei passi, della menzogna e di un’interpretazione tendenziosa in tutte le affermazioni successive. E a proposito del passo in cui il nostro avversario cerca di dire su Socrate alcune cose134, di cui non sa nulla, il nostro precettore disse: «Legga il libro di Platone intitolato l’Apologia di Socrate, dove Socrate si difende davanti al tribunale135, e scoprirà che le sue sono fantasie, prive di ogni verità». Ed io: «È sorprendente che un uomo canuto, di età ormai avanzata, che si ritiene sapiente, scriva delle sciocchezze così puerili, specialmente quando interpreta la dotta ignoranza come una “vita astratta”136». E quando chiesi al nostro maestro se gli venisse in mente qualcosa da dire contro l’accusa che il nostro avversario, nella quinta conclusione, muove nei confronti della concezione secondo cui il massimo è in atto ogni possibile137, egli rispose che è inutile combattere con un uomo che è privo di intelletto. «Infatti, dal momen-
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sit purissimus infinitus actus, tunc est absolute omne absolute possibile; et in coincidentia illa latet omnis theologia apprehensibilis. Neque intelligit adversarius, quid sit theologia, neque quid impugnet, neque quid allegat. Nam cum habeatur in Docta ignorantia, quomodo “Deus non istud quidem est et aliud non est, sed est omnia et nihil omnium” – quae sunt verba sancti Dionysii –, dicit hoc contradictionem in se habere ‘esse omnia et nihil omnium’ et non intelligit, quomodo est complicative omnia et nihil omnium explicative. Et cum non habeat aliquid de intellectu, ridet, quando legit ponderosissima verba, nesciens illa esse sanctorum et per eum, qui doctam ignorantiam explanavit, adducta, ut secundum doctrinam sancti Dionysii non exiret terminos sanctorum. 47 Uti etiam sunt illa, quae in tertio correlario quintae conclusionis et in sequenti de mensura ponuntur. Nam capere nequit, quomodo infinitum est adaequatissima mensura finitorum, licet finitum sit ad ipsum infinitum penitus improportionale. Neque capere potest exemplum de infinita linea, quod impugnat de falsitate, – licet supervacue, cum impossibilitas essendi lineam infinitam actu sit multipliciter in Docta ignorantia ostensum; iuvat tamen se intellectus per positionem lineae infinitae, ut intret ad simpliciter infinitum, quod est ipsa absoluta essendi necessitas.» Subiunxit Augustinum Deum mensuram sic attigisse: «“Deus est in omnibus non per partes, sed totus in omnibus, sive illa sint magna sive parva. In omnibus igitur cum sit aequaliter, ipse est omnis mensurae mensura aequalissima.” Per hoc tamen non negat, quin magnitudinis eius non sit finis, quae est magnitudo absoluta.» 48 Ubi vero in sexta conclusione Parmenidem impugnat, non illum tantum, sed omnes doctos et sanctos theologos impugnare ni-
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to che Dio è atto infinito, del tutto puro, egli è, in modo assoluto, tutto ciò che è assolutamente possibile, e in questa coincidenza si nasconde tutta la teologia che noi possiamo apprendere. Ma il nostro avversario non sa che cosa sia la teologia, e non capisce neppure che cosa egli stia combattendo o sostenendo. Ad esempio, poiché nella Dotta ignoranza è scritto che “Dio non è codesta cosa sì e quell’altra no, ma è tutte le cose e non è nessuna di esse” – e sono parole del santo Dionigi138 –, egli dice che l’espressione “è tutte le cose e non è nessuna di esse” implica una contraddizione139, e non capisce che Dio è tutte le cose nel modo proprio della complicazione e non è nessuna di esse secondo il modo proprio dell’esplicazione. E poiché [il nostro avversario] non ha un benché minimo intelletto, egli ride quando legge queste parole di grandissimo valore, non sapendo che esse sono state pronunciate da santi e che sono state riportate da colui che ha impiegato la dotta ignoranza proprio per evitare di oltrepassare i limiti fissati dai santi, conformemente all’insegnamento del santo Dionigi140». «Lo stesso vale per le cose che vengono dette riguardo alla misura nel terzo corollario della quinta conclusione e in quello successivo141. Il nostro avversario, infatti, non è in grado di capire che l’infinito è la misura assolutamente adeguata degli enti finiti, sebbene il finito non abbia alcuna proporzione rispetto all’infinito stesso. E non è neppure in grado di capire l’esempio della linea infinita, che egli taccia di falsità142, sebbene del tutto inutilmente, giacché l’impossibilità che esista una linea infinita in atto è mostrata più volte nella Dotta ignoranza143; l’intelletto, tuttavia, si serve dell’ipotesi di una linea infinita come di un esempio per poter pervenire all’infinito puro e semplice, che è la necessità assoluta dell’essere». Il nostro maestro aggiunse poi che Agostino giunse a concepire Dio come misura in questo modo: «“Dio è in tutte le cose senza essere diviso in parti, ma è tutto intero in tutte le cose, grandi o piccole che siano. Pertanto, essendo in tutte in maniera uguale, egli è la misura più uguale di ogni misura”144. Con ciò, tuttavia, Agostino non nega che la grandezza di Dio, che è la grandezza assoluta, sia senza fine». «Ma quando nella sesta conclusione [Wenck] attacca Parmenide145, in questo modo egli cerca di attaccare non solo questo filoso-
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titur, quos nequaquam intelligit; de quo supra. Et modo suo falsissime dicit post hoc ex Docta ignorantia haberi: «Quia omnia, quae conveniunt Deo, sunt Deus, ideo neque Pater est neque Filius, et cetera.» Bene habetur, quomodo secundum considerationem infinitatis Deus neque Pater est neque Filius, quia per negationem est consideratio de Deo secundum infinitatem; et ideo omnia tunc negantur, prout etiam sanctus Dionysius in fine Mysticae theologiae per eadem verba hoc idem determinat. 49 Ubi providentiam impugnat, penitus se ignorantem ostendit. Nam capitulum illud, licet sit clarissime positum, est inattingibile per talem sensibilem consideratorem, qualem se esse adversarius ostendit. Et quia in conclusionibus sequentibus falsarius procedit modo addendo, quae non repperit, tunc affirmando non affirmatum, taedio affectus praeceptor voluit se ad utiliora studia convertere. Sic artabar velocius transcurrere adversarii invectivam. 50 Postquam autem raptim legi ex Ignota litteratura conclusiones, quas se ex Docta ignorantia extraxisse scribit, praeceptor arrepto codice Doctae ignorantiae legit secundum et tertium capitulum secundi libri et ad oculum ostendit septimam conclusionem cum correlariis perverse extractam. Nam nihil aliud in illis capitulis ex intentione tractatur, quam quod creaturae esse sit ab esse absoluto, modo quo dici aut intelligi nequit; et alia non est assertio, licet tangantur modi dicendi diversi. Ubi vero adversarius impugnat Deum absolutam omnium quidditatem, aiebat praeceptor: «Nihil penitus intelligit homo ille. Nam Deus est quidditas omnium quidditatum et absoluta omnium quidditas sicut absoluta entitas entium et absoluta vita viventium. Ita dicit Ecclesia in oratione: “Deus vita viventium” et reliqua. Nec hoc dicere est confundere aut destruere quidditates rerum, sed construere, ut intelligunt sapientes.» 51 Et ad alias conclusiones nihil dicere curavit praeceptor et sprevit ruditatem adversarii. Rogavi tamen, ut aliqua diceret ad hoc,
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fo, ma anche tutti i dotti e santi teologi, dei quali non capisce nulla. Ma di questo ho già parlato in precedenza. Nel suo solito modo, ossia nella maniera più falsa, egli dice poi che dalla Dotta ignoranza si ricava quanto segue: “Poiché tutte le cose, che convengono a Dio, sono Dio, allora Dio non è Padre, né Figlio ecc.”146 È giusto invece dire che, se si considera la sua infinità, Dio non è né Padre, né Figlio, perché la considerazione di Dio secondo la sua infinità avviene per negazione; così, in questo caso, si negano [di Dio] tutte le cose, come spiega anche il santo Dionigi con le stesse parole al termine della Teologia mistica147». «Anche dove combatte la [dottrina della] provvidenza di Dio [esposta nella Dotta ignoranza]148, Wenck si dimostra del tutto ignorante. Quel capitolo [della Dotta ignoranza], infatti, sebbene sia scritto in maniera chiarissima, non può essere compreso da un osservatore legato al sensibile, quale dimostra di essere il nostro avversario». Ma dopo che io ebbi letto rapidamente le conclusioni della Letteratura sconosciuta, che Wenck scrive di aver tratto dalla Dotta ignoranza, il maestro prese di nuovo il volume della Dotta ignoranza e lesse il secondo e il terzo capitolo del secondo libro, e dimostrò chiaramente che la settima conclusione, con i suoi corollari, vi era stata ricavata in modo perverso149. In quei capitoli, infatti, non si tratta volutamente di nient’altro che del fatto che l’essere della creatura deriva dall’essere assoluto, in un modo che non può essere né espresso, né compreso; e in essi non vi è altra asserzione, sebbene vi vengano esposti i vari modi di dire questa cosa. Ma dove l’avversario attacca la tesi secondo la quale Dio è la quiddità assoluta di tutte le cose150, il maestro disse: «Quest’uomo non capisce assolutamente nulla. Dio, infatti, è la quiddità di tutte le quiddità e la quiddità assoluta di tutte le cose, così come è l’entità assoluta degli enti e la vita assoluta dei viventi. È quanto la Chiesa dice nella preghiera: “Dio, vita dei viventi” ecc. Ed affermare questo non significa né confondere, né distruggere le quiddità delle cose, ma significa piuttosto fondarle, come comprendono bene i sapienti». Per quanto riguarda le altre conclusioni, il maestro non si curò di dire nulla, disprezzando la rozzezza dell’avversario. Io lo pregai
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quod adversarius impolluto ore ipsum miserum, pauperem, caecum et nudum intellectu iniuriose despicit. Ad quae praeceptor: «Omnia, quae de caecitate intellectus dicit, plane fateor.» Sed aiebat se excellere adversarium in hoc, quod se caecum sciebat. Et ubi impingit Iesum dehonorari, aiebat praeceptor: «Non est haec Doctae ignorantiae intentio, ut Iesus dehonoretur, sed ut maior fiat in intellectu et affectu.» Sed adversarium loqui ostendit, quasi quis diceret, quod, si quis exaltatur in maxime publicam personam, ut sit rex regum et dominus dominantium, uti Christus exaltatur, – quod per hoc dehonoretur; et hoc dictum quisque dementis esse non ambigit. 52 Applicatis igitur adversarii scriptis ad textum Doctae ignorantiae et ostenso, quod impugnator false elicuit assertas conclusiones et nihil ex omnibus intellexit aut saltim intelligere voluit omnia perverse interpretando, dixit praeceptor: «Quae de Iesu scripta sunt in Docta ignorantia, secundum Scripturas sanctas modo convenienti ad finem, ut Christus in nobis crescat, scripta sunt. Ad ea enim, quae Iohannes evangelista et apostolus Paulus et Hierotheus et Dionysius et Leo Papa, Ambrosius in Epistolis ad Herennium et Fulgentius atque ceteri altissimi intellectus sancti nobis de Christo reliquerunt, nititur Docta ignorantia suo modo nos ducere, licet ipsa et omnes deficiant, qui se ad describendum illud mysterium umquam contulerunt.» 53 Et ad me amoroso vultu conversus aiebat: «Amice, optime nosti, quomodo hii, qui sensibilia transilientes per altitudinem fidei Christo et veritati coniuncti ab ignorantibus huius mundi contemptui
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tuttavia di dire qualcosa riguardo al fatto che l’avversario, senza alcuna vergogna, lo denigra definendolo, in modo ingiurioso, misero, povero, cieco e privo di intelletto151. Al che il nostro precettore rispose: «Riconosco senza problemi ciò che dice a proposito della cecità del mio intelletto». Disse, però, di essere superiore all’avversario proprio per il fatto di sapere di essere cieco. E a proposito del passo in cui Wenck accusa il nostro maestro di disonorare [con il suo scritto] Gesù152, egli disse: «L’intento della Dotta ignoranza non è di disonorare Gesù, ma è di fare in modo che egli venga onorato ancora di più nel nostro intelletto e nel nostro affetto». Il maestro mi fece osservare che l’avversario parla come uno che dicesse che, se si eleva una persona alla massima carica pubblica, come re dei re e come signore dei signori, come viene appunto elevato Cristo, ciò significa disonorarla. Ora, nessuno dubita che una simile affermazione sia propria di chi è privo di senno». Dopo aver messo a confronto quanto aveva scritto l’avversario con il testo della Dotta ignoranza, e dopo aver dimostrato che l’accusatore ne aveva tratto in modo falso le conclusioni che egli aveva esposto e che egli non aveva capito nulla, o, quantomeno, non aveva voluto capire nulla, avendo interpretato tutte le dottrine [della Dotta ignoranza] in modo contrario al loro significato, il maestro disse: «Ciò che è stato scritto su Gesù nella Dotta ignoranza è stato scritto in accordo con le Sacre Scritture, in un modo appropriato al fine che Cristo cresca in noi. La Dotta ignoranza si sforza, infatti, di condurci, a suo modo, a quegli insegnamenti su Cristo che ci sono stati tramandati dall’evangelista Giovanni, dall’apostolo Paolo, da Ieroteo, da Dionigi, da papa Leone153, da Ambrogio nelle Lettere ad Erennio154, da Fulgenzio155 e dagli altri santi di altissimo intelletto, anche se il nostro libro e tutti coloro che si sono impegnati a descrivere questo mistero risultino manchevoli rispetto allo scopo che si sono proposti». Poi, rivoltosi a me con espressione amorevole, disse: «Amico, sai perfettamente che coloro i quali, grazie all’altezza della loro fede, hanno trasceso le realtà sensibili e si sono congiunti a Cri-
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habiti sunt, quia testante maximo Dionysio De divinis nominibus capitulo decimo “is, qui veritati coniunctus est, novit, quam bene habeat, etiam si plures illum corripiant quasi amentem et extra se factum”, et quod per mortem contestati sunt principales duces veritatis hanc solum esse unicam et simplicem divinam notionem.» Hinc maximo animi affectu admonuit, ut non tepescerem in studii ferventia, quousque ad simplicitatem intelligentiae elevarer ad melius cognoscendum incognoscibilem Deum, qui “in omnibus et ab omnibus per scientiam et ignorantiam agnoscitur,” ut in eodem capitulo Dionysius attestatur, et Iesum benedictum, qui est solus altissimus, perfectio et plenitudo omnium; quodque eo studio omnem conatum mentis ad hoc – quanto acutius concederetur – conferrem, ut me semper nihil dignum intelligere viderem; promittens numquam quemquam sophistarum me turbare posse, si tanti secreti ineffabilis gratiae divinam dulcedinem qualitercumque degustarem. 54 «Nam cum omni motu non quaeratur nisi pax, et haec pax, quae exsuperat omnem sensum, sit pax nostra, scilicet vita vitae nostrae, ex qua et in qua vivendo indicibili delectatione quiescimus, cum Paulo omnis dicet apprehensor: Quis me separabit ab hac veritate vitae? Non mors, quia moriendo vivo. Nihil igitur tunc te separabit, quando omnium terribilium terribilissimum te non terrebit. Ridebis omnes caecos, quando tibi eum ostendere promittent, quem non vident, et inhaerebis eius amplexibus, quem diliget anima tua ex omnibus viribus suis. Cui gloria in saecula.» 55 Ecce, condiscipule praeamate, quae ex pectore praeceptoris pro defensione Doctae ignorantiae recollegi; licet plura e memoria exciderint, ea tibi legenda atque, ubi opus videris, communicanda transmitto, ut in tua ferventia crescat admirabile semen, quo ad divina videnda elevamur, uti iam dudum audivi per Italiam ex hoc
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sto e alla verità vengono disprezzati dagli ignoranti di questo mondo, perché, come attesta il grande Dionigi nel decimo capitolo de I nomi divini, “chi è unito alla verità sa quanto questo sia bene, anche se i più lo deridono come se fosse un pazzo fuori di sé”156. E [Dionigi dice] che i principali maestri della verità testimoniano, con la loro stessa morte, che soltanto questa è l’unica, semplice conoscenza di Dio». Mi esortò, quindi, con il più grande affetto, a non raffreddare il mio ardore per lo studio, per potermi così elevare alla semplicità dell’intelligenza, al fine di conoscere meglio il Dio inconoscibile (il quale «è riconosciuto in tutte le cose e separatamente da tutte le cose, è conosciuto mediante la scienza come mediante l’ignoranza», come testimonia Dionigi in quel medesimo capitolo)157, e Gesù benedetto, che solo è «l’altissimo»158, la perfezione e la pienezza di tutte le cose. E mi esortò a concentrare, in quello studio, per quanto mi fosse concesso, tutti gli sforzi della mia mente a rendermi conto di non essere mai degno di intendere nulla. E mi assicurò che mai nessuno dei sofisti mi avrebbe potuto turbare, se fossi in qualche modo riuscito a gustare la dolcezza divina contenuta in un così grande segreto di ineffabile grazia.» «Infatti, con ogni nostro movimento non cerchiamo se non la pace, e la nostra pace sia quella che supera tutti i sensi, ossia quella che è la vita della nostra vita, vivendo della la quale e nella quale, possiamo trovare il riposo di una gioia indescrivibile. Pertanto, tutti coloro che la conseguono, diranno con Paolo159: “Chi mi separerà da questa verità della vita? Non la morte, perché morendo vivo”. Nulla, dunque, te ne separerà, dal momento che neppure la cosa più terribile fra tutte le cose terribili riuscirà a spaventarti. Riderai allora di tutti i ciechi, quando ti prometteranno di mostrarti colui che non vedono, e resterai stretto nell’abbraccio di colui che la tua anima amerà con tutte le sue forze. A Lui gloria nei secoli”». Ecco, condiscepolo amatissimo, le parole che ho raccolto dall’animo del nostro maestro in difesa della Dotta ignoranza; sebbene molte cose siano sfuggite alla mia memoria, ti consegno queste parole perché tu le legga e, se lo riterrai opportuno, le renda note ad altri, in modo tale che, nel tuo fervore, cresca quel seme meraviglioso grazie al quale siamo innalzati a vedere le cose divine. E ho
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semine per tuam sollicitam culturam in studiosis ingeniis recepto magnum fructum affuturum. Vincet enim indubie haec speculatio omnes omnium philosophorum ratiocinandi modos, licet difficile sit consueta relinquere. Et quantum profeceris, me continue participem facere non pigriteris; nam hoc solo quasi divino quodam pabulo gaudiose reficior, hic – prout concedere dignatur Deus – in docta ignorantia aspirans continue ad fruitionem vitae illius, quam nunc sic a remotis conspicio et propius dietim accedere contendo. Et ut eam divino dono hinc absoluti assequamur, concedat Deus tantopere desideratus in aeternum benedictus
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sentito dire già da qualche tempo che in Italia questo seme, accolto, grazie al tuo sollecito impegno, dagli ingegni più zelanti, darà un grande frutto. Senza dubbio, infatti, questo tipo di speculazione vincerà tutti i modi di ragionare di tutti i filosofi, sebbene sia difficile abbandonare le vie consuete. E non esitare a farmi partecipe continuamente dei progressi che farai; trovo infatti ristoro e gioia soltanto in questo nutrimento quasi divino, io che qui, per quanto Dio si degna di concedermelo, aspiro continuamente, nella dotta ignoranza, di giungere alla fruizione di quella vita che ora scorgo così da lontano e a cui cerco di avvicinarmi ogni giorno di più. E Dio, che amiamo così tanto e che è benedetto in eterno, ci conceda, per suo dono, di poter conseguire questa vita, una volta liberati da questo mondo.
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dialoghi dell’idiota La sapienza – La mente Gli esperimenti con la bilancia
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Liber primus
Convenit pauper quidam idiota ditissimum oratorem in foro Romano, quem facete subridens sic allocutus est: Miror de fastu tuo, quod, cum continua lectione defatigeris innumerabiles libros lectitando, nondum ad humilitatem ductus sis; hoc certe ex eo, quia «scientia» «huius mundi», in qua te ceteros praecellere putas, «stultitia» quaedam «est apud deum» et hinc «inflat». Vera autem scientia humiliat. Optarem, ut ad illam te conferres, quoniam ibi est thesaurus laetitiae. Orator: Quae est haec praesumptio tua, pauper idiota et penitus ignorans, ut sic parvifacias studium litterarum, sine quo nemo proficit? 2 Idiota: Non est, magne orator, praesumptio, quae me silere non sinit, sed caritas. Nam video te deditum ad quaerendum sapientiam multo casso labore, a quo te revocare si possem, ita ut et tu errorem perpenderes, puto contrito laqueo te evasisse gauderes. Traxit te opinio auctoritatis, ut sis quasi equus natura liber, sed arte capistro alligatus praesepi, ubi non aliud comedit nisi quod sibi ministratur. Pascitur enim intellectus tuus auctoritati scribentium constrictus pabulo alieno et non naturali. Orator: Si non in libris sapientum est sapientiae pabulum, ubi tunc est? 3 Idiota: Non dico ibi non esse, sed dico naturale ibi non reperiri. Qui enim primo se ad scribendum de sapientia contulerunt,
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Libro primo
Un idiota, uomo povero, incontrò nel foro romano un oratore molto ricco1 e, sorridendogli con gentilezza, gli si rivolse in questo modo: «Sono sorpreso della tua superbia, perché, pur avendo speso tanta fatica nel leggere continuamente gli innumerevoli libri che hai studiato, non sei ancora giunto all’umiltà; ciò è dovuto certamente al fatto che la conoscenza di questo mondo, nella quale tu ritieni di essere superiore agli altri, agli occhi di Dio è una sorta di stoltezza, ed è essa che rende orgogliosi2. La vera conoscenza, invece, rende umili3. Desidererei che ti dedicassi a questa vera conoscenza, perché in essa si trova il tesoro della letizia4. Oratore. Quale presunzione è mai questa che spinge te, un povero idiota del tutto ignorante, a stimare così poco lo studio del sapere contenuto nei libri, senza il quale nessuno può compiere alcun progresso? Idiota. O grande oratore, non è la presunzione che non mi consente di tacere, bensì la carità. Ti vedo infatti dedito alla ricerca della sapienza con una fatica enorme, ma inutile, e se potessi distoglierti da essa, in modo che anche tu valutassi il tuo errore, penso che saresti felice di essere sfuggito ad un laccio che ti logora. La stima dell’autorità ti ha indotto ad essere come un cavallo, che per natura è libero, ma che dall’arte umana viene legato con un capestro alla greppia, dove non mangia se non ciò che gli viene servito. Il tuo intelletto, infatti, vincolato all’autorità dei libri scritti, si nutre di un cibo estraneo e non di quello che gli è conforme per natura5. Oratore. Se il cibo della sapienza non si trova nei libri dei sapienti, dove si trova allora? Idiota. Non dico che lì non vi sia, ma sostengo che lì non è possibile trovare il cibo naturale. Coloro, infatti, che si sono dedicati per primi a scrivere sulla sapienza non hanno ricavato i mez-
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non de librorum pabulo, qui nondum erant, incrementa receperunt, sed naturali alimento «in virum perfectum» perducebantur. Et hi ceteros, qui ex libris se putant profecisse, longe sapientia antecedunt. Orator: Quamvis forte sine litterarum studio aliqua sciri possint, tamen res difficiles et grandes nequaquam, cum scientiae creverint per additamenta. Idiota: Hoc est quod aiebam, scilicet te duci auctoritate et decipi. Scripsit aliquis verbum illud, cui credis. Ego autem tibi dico, quod «sapientia foris» clamat «in plateis», et est clamor eius, quoniam ipsa habitat «in altissimis». 4 Orator: Ut audio, cum sis idiota, sapere te putas. Idiota: Haec est fortassis inter te et me differentia: Tu te scientem putas, cum non sis, hinc superbis. Ego vero idiotam me esse cognosco, hinc humilior. In hoc forte doctior exsisto. Orator: Quomodo ductus esse potes ad scientiam ignorantiae tuae, cum sis idiota? Idiota: Non ex tuis, sed ex dei libris. Orator: Qui sunt illi? Idiota: Quos suo digito scripsit. Orator: Ubi reperiuntur? Idiota: Ubique. Orator: Igitur et in hoc foro? Idiota: Immo. Et iam dixi, quod sapientia clamat «in plateis». Orator: Optarem audire quomodo. Idiota: Si te absque curiosa inquisitione affectum conspicerem, magna tibi panderem. Orator: Potesne hoc brevi tempore efficere, ut quid velis degustem? Idiota: Possum.
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zi per svilupparsi dal cibo contenuto nei libri, che non c’erano ancora, ma sono stati condotti ad una perfetta umanità6 per mezzo di un alimento naturale. E costoro superano di gran lunga in sapienza quegli altri, che ritengono di aver fatto grandi progressi grazie ai libri. Oratore. Sebbene sia forse possibile giungere a conoscere alcune cose senza lo studio del sapere contenuto nei libri, ciò non è tuttavia affatto possibile per quanto concerne le questioni difficili e più importanti, dal momento che le varie scienze sono cresciute per aggiunte successive. Idiota. Questo è quello che stavo dicendo, ossia che ti fai guidare dall’autorità e vieni tratto in inganno. Quella frase l’ha scritta qualcuno e tu ci credi. Ma io ti dico che la sapienza grida all’aperto, nelle piazze7, e il suo grido proclama che essa abita nell’altisssimo8. Oratore. Da quanto sento, ti ritieni un sapiente, pur essendo un idiota. Idiota. Forse la differenza tra te e me è questa: tu ritieni di essere un sapiente, mentre non lo sei, ed è per questo che sei superbo9. Io, invece, so di essere un idiota, ed è per questo che sono più umile. In questo, forse, sono più dotto [di te]10. Oratore. Come puoi essere giunto alla conoscenza della tua ignoranza, dato che sei un idiota? Idiota. Non grazie ai tuoi libri, ma grazie ai libri di Dio. Oratore. E quali sono questi libri? Idiota. Quelli che Dio ha scritto con il suo dito11. Oratore. Dove si trovano? Idiota. Ovunque. Oratore. Quindi anche in questo foro? Idiota. Certo. Ho già detto che la sapienza grida nelle piazze. Oratore. Mi piacerebbe ascoltare come. Idiota. Se vedessi che non sei motivato da una vana curiosità, ti rivelerei grandi cose. Oratore. Non puoi in poco tempo farmi almeno assaporare ciò che intendi dire? Idiota. Sì, posso.
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Orator: Contrahamus igitur nos in hanc tonsoris proximam quaeso apothecam, ut sedentes quietius loquaris. 5 Placuit idiotae. Et intrantes locum aspectum in forum vertentes sic exorditus est Idiota sermonem: Quoniam tibi dixi sapientiam clamare «in plateis», et clamor eius est ipsam «in altissimis» habitare, hoc tibi ostendere sic conabor. Et primum velim dicas: Quid hic fieri conspicis in foro? Orator: Video ibi numerari pecunias, in alio angulo ponderari merces, ex opposito mensurari oleum et alia. Idiota: Haec sunt opera rationis illius, per quam homines bestias antecellunt; nam numerare, ponderare et mensurare bruta nequeunt. Attende nunc, orator, per quae, in quo et ex quo haec fiant, et dicito mihi. Orator: Per discretionem. Idiota: Recte dicis. Per quae autem discretio? Nonne per unum numeratur? Orator: Quomodo? Idiota: Nonne unum est unum semel, et duo est unum bis, et tria unum ter, et sic deinceps? Orator: Ita est. Idiota: Per unum igitur fit omnis numerus? Orator: Ita videtur. 6 Idiota: Sicut igitur unum est principium numeri, ita est pondus minimum principium ponderandi et mensura minima principium mensurandi. Vocetur igitur pondus illud uncia et mensura petitum. Nonne sicut per unum numeratur, ita per unciam ponderatur et per petitum mensuratur? Sic etiam ex uno est numeratio,
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Oratore. Ritiriamoci allora in questa vicina bottega di barbiere, in modo che, una volta seduti, tu possa parlare con più tranquillità. La proposta piacque all’idiota. Entrarono nella bottega e, tenendosi rivolti verso il foro, l’idiota iniziò il suo discorso in questo modo: Idiota. Poiché ti ho detto che la sapienza grida nelle piazze e che il suo grido proclama che essa abita nell’altissimo, voglio cercare di mostrarti che è così. Ma, in primo luogo, vorrei che mi dicessi che cosa osservi che viene fatto qui nel foro. Oratore. Là vedo che si conta del denaro, in un altro angolo che si pesano delle merci, e nell’angolo opposto che si misurano l’olio e altri prodotti. Idiota. Queste sono operazioni di quella ragione grazie alla quale gli uomini sono superiori alle bestie12; i bruti, infatti, non sono in grado di contare, di pesare e di misurare13. Adesso, oratore, fai attenzione e dimmi: mediante che cosa, in che cosa e a partire da che cosa14 vengono compiute queste operazioni? Oratore. Mediante la distinzione15. Idiota. Dici bene. Ma mediante che cosa viene realizzata la distinzione? Non si conta forse mediante l’uno?16 Oratore. In che modo? Idiota. Il numero uno non è forse l’uno preso una volta, e il numero due l’uno preso due volte, e il numero tre l’uno preso tre volte, e così di seguito?17 Oratore. Sì, è così. Idiota. Ogni numero, pertanto, viene costruito mediante l’uno. Oratore. Così sembra. Idiota. Come l’uno, pertanto, è il principio del numero, così il peso minimo è il principio del pesare e la misura minima è il principio del misurare18. È per questo che quel peso minimo viene chiamato «oncia» e quella misura minima viene chiamata «piccolo»19. Come numeriamo mediante l’uno, così non pesiamo forse mediante l’«oncia» e non misuriamo mediante il «piccolo»? Allo stesso modo, la numerazione viene compiuta a partire dall’uno, il
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ex uncia ponderatio, ex petito mensuratio. Ita et in uno est numeratio, in uncia ponderatio, in petito mensuratio. Nonne haec sic se habent? Orator: Immo. Idiota: Per quid autem attingitur unitas, per quid uncia, per quid petitum? Orator: Nescio. Scio tamen, quod unitas non attingitur numero, quia numerus est post unum, sic nec uncia pondere nec petitum mensura. Idiota: Optime ais, orator. Sicut enim simplex prius est natura composito, ita compositum natura posterius; unde compositum non potest mensurare simplex, sed e converso. Ex quo habes, quomodo illud, per quod, ex quo et in quo omne numerabile numeratur, non est numero attingibile, et id, per quod, ex quo et in quo omne ponderabile ponderatur, non est pondere attingibile. Similiter et id, per quod, ex quo et in quo omne mensurabile mensuratur, non est mensura attingibile. Orator: Hoc clare conspicio. 7 Idiota: Hunc clamorem sapientiae in plateis transfer in altissima, ubi sapientia habitat, et multo delectabiliora reperies quam in omnibus ornatissimis voluminibus tuis. Orator: Nisi quid per hoc velis exponas, non intelligo. Idiota: Nisi ex affectu oraveris, prohibitus sum, ne faciam, nam secreta sapientiae non sunt omnibus passim aperienda. Orator: Multum desidero te audire, et ex paucis inflammor. Ea enim, quae iam praemisisti, aliquid magni futurum annuntiant. Rogo igitur, ut incepta prosequaris.
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pesare a partire dall’«oncia» e il misurare a partire dal «piccolo». E così il numerare risiede nell’uno, il pesare nell’«oncia» e il misurare nel «piccolo». Le cose non stanno forse in questo modo? Oratore. Certo. Idiota. Ora, per mezzo di che cosa cogliamo invece l’unità, per mezzo di che cosa l’«oncia», e per mezzo di che cosa il «piccolo»? Oratore. Non lo so. So però che l’unità non la si coglie mediante il numero, perché il numero è successivo all’uno20; così neanche l’«oncia» la si coglie mediante il peso, né il «piccolo» mediante la misura. Idiota. Dici benissimo, oratore. Infatti, come il semplice precede per natura il composto, così il composto è per natura posteriore al semplice; di conseguenza, il composto non può misurare il semplice, ma avviene piuttosto il contrario. Da ciò puoi comprendere come ciò mediante cui, a partire da cui e in cui viene numerato tutto ciò che è numerabile non è qualcosa che si possa cogliere per mezzo del numero, e come ciò mediante cui, a partire da cui e in cui viene pesato tutto ciò che può essere pesato non è qualcosa che si possa cogliere per mezzo del peso. Allo stesso modo, anche ciò mediante cui, a partire da cui e in cui viene misurato tutto ciò che può essere misurato non è qualcosa che si possa cogliere per mezzo della misura. Oratore. Questo lo vedo chiaramente. Idiota. Questo è il modo in cui la sapienza grida nelle piazze; trasferisci21 ora queste sue grida nell’altissimo, dove la sapienza abita, e troverai delle cose di gran lunga più dilettevoli di quelle che puoi trovare in tutti i tuoi libri raffinatissimi. Oratore. Se non mi spieghi ciò che intendi dire con queste parole, io non riesco a comprendere. Idiota. Se la tua richiesta non nascesse da un reale desiderio, mi sarebbe proibito farlo, perché i segreti della sapienza non possono essere svelati a tutti indistintamente22. Oratore. Ho un grande desiderio di ascoltarti, e il poco che ho udito mi ha appassionato. Le cose che hai già detto, infatti, fanno presagire un seguito importante. Ti prego, pertanto, di continuare ciò che hai iniziato.
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Idiota: Nescio, si liceat tanta secreta detegere et tam altam profunditatem facilem ostendere. Tamen nequeo me continere, quin tibi complaceam. Ecce frater: Summa sapientia est haec, ut scias quomodo in similitudine iam dicta attingitur inattingibile inattingibiliter. Orator: Mira dicis et absona. 8 Idiota: Haec est causa, cur occulta non debent communicari omnibus: quia eis absona videntur, quando panduntur. Admiraris me dixisse sibi contradicentia. Audies et gustabis veritatem. Dico autem, quod, sicut iam ante de unitate, uncia et petito dixi, ita de omnibus quoad omnium principium dicendum. Nam omnium principium est, per quod, in quo et ex quo omne principiabile principiatur, et tamen per nullum principiatum attingibile. Ipsum est, per quod, in quo et ex quo omne intelligibile intelligitur, et tamen intellectu inattingibile. Est similiter per quod, ex quo et in quo omne fabile fatur, et tamen fatu inattingibile. Sic est per quod, ex quo et in quo omne terminabile terminatur et omne finibile finitur, et tamen termino interminabile et fine infinibile. Tales facere poteris innumerabiles similes verissimas propositiones et omnia tua oratoria volumina illis implere et alia sine numero illis addere, ut videas quomodo sapientia in altissimis habitat. 9 Altissimum enim est, quod altius esse non potest. Sola infinitas est illa altitudo. Unde sapientia, quam omnes homines, cum natura scire desiderent, cum tanto mentis affectu quaerunt, non aliter scitur quam quod ipsa est omni scientia altior et inscibilis et omni loquela ineffabilis et omni intellectu inintelligibilis et omni mensura immensurabilis et omni fine infinibilis et omni termino inter-
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Idiota. Non so se sia lecito svelare segreti così grandi e mostrare come facile una verità di una profondità così elevata 23. Non posso tuttavia trattenermi dal compiacerti. Ecco, o fratello, la somma sapienza consiste in questo: sapere in che modo, grazie agli esempi che ti ho appena indicato, l’inattingibile lo si attinga in maniera inattingibile24. Oratore. Dici cose strane e senza senso. Idiota. Questo è il motivo per cui le cose nascoste non devono essere comunicate a tutti, perché sembrano loro insensate quando vengono svelate25. Ti stupisci del fatto che ho detto cose che si contraddicono l’un l’altra. Ascolterai la verità e ne assaporerari il gusto. Ora, ciò che io sostengo è questo: quello che poco fa ho detto a proposito dell’unità, dell’«oncia» e del «piccolo», lo si deve dire a proposito di tutte le cose in rapporto al loro principio. Il principio di tutte le cose, infatti, è ciò mediante cui, in cui e a partire da cui ha il suo principio tutto ciò che può avere un principio26, ed è ciò che, tuttavia, non può essere attinto per mezzo di nessun principio. Esso è ciò mediante cui, in cui e a partire da cui viene inteso tutto ciò che è intelligibile, e tuttavia non è attingibile con l’intelletto. Analogamente, esso è ciò mediante cui, a partire da cui e in cui viene detto tutto ciò che è dicibile, e tuttavia non è attingibile con la parola. Allo stesso modo, esso è ciò mediante cui, a paritire da cui e in cui viene determinato tutto ciò che è determinabile e viene delimitato tutto ciò che è delimitabile, ma non è determinabile con un termine e non è delimitabile con un limite. Di proposizioni assolutamente vere simili a queste ne potrai comporre innumerevoli, e di esse potrai riempire tutti i tuoi volumi di retorica, e a questi volumi potrai aggiungerne altri senza numero, cosicché potrai vedere in che modo la sapienza abita nell’altissimo. Ora, altisssimo è ciò che non può essere più alto. Solo dell’infinità è propria una tale altezza. Della sapienza, che tutti gli uomini ricercano con un così grande affetto della mente27, in quanto tutti desiderano per natura conoscere28, non si può quindi sapere altro che questo: che essa è al di sopra di ogni conoscenza ed è quindi inconoscibile, che non può essere espressa con nessun discorso29, non è intelligibile da nessun intelletto, non è misurabile da nessuna misura, non è delimitabile da nessun limite e non è de-
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minabilis, et omni proportione improportionabilis et omni comparatione incomparabilis et omni figuratione infigurabilis et omni formatione informabilis et in omni motione immobilis et in omni imaginatione inimaginabilis et in omni sensatione insensibilis et in omni attractione inattractabilis et in omni gustu ingustabilis et in omni auditu inaudibilis et in omni visu invisibilis et in omni apprehensione inapprehensibilis et in omni affirmatione inaffirmabilis et in omni negatione innegabilis et in omni dubitatione indubitabilis et in omni opinione inopinabilis. Et quia in omni eloquio est inexpressibilis, harum locutionum non potest finis cogitari, cum in omni cogitatione sit incogitabilis, per quam, in qua et ex qua omnia. 10 Orator: Haec indubie altiora sunt quam a te audire sperabam. Non cesses, quaeso, me illo ducere, ubi aliquid talium altissimarum theoriarum tecum quam suaviter degustem. Nam video te non satiari semper de illa sapientia loqui. Maxima autem, ut puto, dulcedo hoc agit, quam nisi interno gustu saperes, non te tantum alliceret. Idiota: Sapientia est, quae sapit, qua nihil dulcius intellectui. Neque censendi sunt quovismodo sapientes, qui verbo tantum et non gustu loquuntur. Illi autem cum gustu de sapientia loquuntur, qui eam ita sciunt omnia, quod nihil omnium. Per sapientiam enim et ex ipsa et in ipsa est omne internum sapere. Ipsa autem, quia in altissimis habitat, non est omni sapore gustabilis. Ingustabiliter ergo gustatur, cum sit altior omni gustabili, sensibili, rationali et intellectuali. Hoc est autem ingustabiliter et a remotis gustare, quasi sicut odor quidam dici potest praegustatio ingustabilis. Sicut enim
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terminabile da nessun termine, non è proporzionabile da nessuna proporzione, non è comparabile mediante alcuna comparazione, non è raffigurabile mediante alcuna raffigurazione, non è formabile mediante alcuna formazione30; essa è ciò che è immobile in ogni movimento, ciò che non è rappresentabile in un’immagine in ogni immaginazione, ciò che non è percepibile in ogni percezione, ciò che non è attraibile in ogni attrazione, ciò che non è gustabile in ogni gusto, ciò che non è udibile in ogni udito, ciò che non è visibile in ogni vista, ciò che non può essere appreso in ogni apprensione, ciò che non può essere affermato in ogni affermazione, ciò che non può essere negato in ogni negazione, ciò che è indubitabile in ogni dubbio, ciò che è inopinabile in ogni opinione. E poiché la sapienza è inesprimibile in ogni discorso, non si può pensare una fine di questi discorsi, dal momento che la sapienza è impensabile in ogni pensiero31, essa mediante la quale, nella quale e dalla quale sono tutte le cose. Oratore. Queste cose sono certamente più elevate di quelle che speravo di ascoltare da te. Non smettere, ti prego, di guidarmi là dove io, insieme con te, possa gustare, in tutta la loro soavità, qualcosa di queste elevatissime dottrine speculative. Vedo infatti che non sei mai sazio di parlare di questa sapienza. E ritengo che ciò dipenda dalla sua grandissima dolcezza, la quale, tuttavia, non ti attrarrebbe così tanto se tu non ne sentissi il sapore con un gusto interiore. Idiota. È la sapienza che ha sapore32, e non c’è nulla che per l’intelletto sia più dolce di essa. E non vanno in alcun modo considerati come sapienti coloro che ne parlano solo con la parola e non con il gusto. Della sapienza, tuttavia, parlano con il gusto coloro che sanno che essa è tutte le cose, in modo tale da essere nulla di tutto33. È mediante la sapienza, infatti, ed è a partire dalla sapienza e nella sapienza che si assaporano tutte le cose interiormente. In se stessa, tuttavia, dal momento che abita nell’altissimo, la sapienza non può essere gustata in nessun sapore. La si gusta, pertanto, in modo ingustabile, dal momento che essa è al di sopra di tutto ciò che si può gustare con i sensi, con la ragione e con l’intelletto. Si tratta, tuttavia, di un gustare in modo ingustabile e da lontano, così come a proposito di un odore si può parlare di una «pregusta-
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odor ab odorabili multiplicatus in alio receptus nos allicit ad cursum, ut in odore unguentorum ad unguentum curratur, ita aeterna et infinita sapientia cum in omnibus reluceat, nos allicit ex quadam praegustatione effectuum, ut mirabili desiderio ad ipsam feramur. 11 Cum enim ipsa sit vita spiritualis intellectus, qui in se habet quandam connaturatam praegustationem, per quam tanto studio inquirit fontem vitae suae, quem sine praegustatione non quaereret nec se repperisse sciret, si reperiret, hinc ad eam ut ad propriam vitam suam movetur. Et dulce est omni spiritui ad vitae principium quamvis inaccessibile continue ascendere. Nam hoc est continue felicius vivere: ad vitam ascendere. Et quando eo ducitur vitam suam quaerens, ut eam infinitam vitam videat, tunc tanto plus gaudet, quanto suam vitam immortaliorem conspicit. Et sic evenit, ut inaccessibilitas sive incomprehensibilitas infinitatis vitae suae sit sua desideratissima comprehensio. Quasi si quis haberet thesaurum vitae suae et ad hoc pertingeret, quod illum suum thesaurum sciret innumerabilem, imponderabilem et immensurabilem, haec scientia incomprehensibilitatis est gaudiosa et optatissima comprehensio, non quidem ut ad comprehendentem refertur, sed ad ipsum amorosissimum vitae thesaurum. Quasi si quis amet aliquid quia amabile, hic gaudet in amabili infinitas et inexpressibiles amoris causas reperiri. Et haec est gaudiosissima comprehensio amantis, quando incomprehensibilem amabilitatem amati comprehendit. Nequaquam enim tantum gauderet se amare secundum aliquod comprehensibile amatum sicut quando sibi constat amati amabilitatem esse penitus immensurabilem, infinibilem, intermi-
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zione» ingustabile. Come un odore, infatti, propagato da un oggetto odorante e recepito in qualcos’altro, ci attira e ci spinge a correre, in modo tale che, seguendo l’odore dei profumi, corriamo verso il profumo, così la sapienza eterna e infinita34: dal momento che risplende in tutte le cose35, la sapienza ci attrae per mezzo di una certa pregustazione dei suoi effetti, in modo tale che noi siamo spinti verso di essa da uno straordinario desiderio36. La sapienza, infatti, è la vita spirituale dell’intelletto37, il quale ne ha in sé una certa pregustazione innata38, grazie alla quale l’intelletto va alla ricerca della fonte della sua vita39 con grandissimo zelo; e se non ne avesse in sé una pregustazione, l’intelletto non la cercherebbe, né saprebbe di averla trovata, nel caso in cui la trovasse40. È in questo modo che l’intelletto viene mosso verso la sapienza come verso la sua propria vita. E per ogni essere spirituale è dolce ascendere continuamente verso il principio della vita, sebbene esso resti inaccessibile. Ascendere verso la vita, infatti, significa progredire continuamente in una vita sempre più felice41. E quando l’intelletto, che è alla ricerca della propria vita, viene condotto fino al punto in cui vede che quella vita è infinita, allora la sua gioia è tanto più grande, quanto più vicina all’immortalità scorge la propria vita. E così accade che l’inaccessibilità o l’incomprendibilità dell’infinità della sua vita diventa per l’intelletto la comprensione assolutamente più desiderata. È come se uno avesse un tesoro42 costituito dalla sua vita e giungesse un giorno a sapere che quel suo tesoro è innumerabile, imponderabile, non misurabile: questa conoscenza dell’incomprensibilità è la comprensione più gioiosa ed è la più desiderata, non in relazione a colui che comprende, ma in relazione allo stesso tesoro amatissimo della vita. È come se uno ama qualcosa perché è degno di amore: costui gode nello scoprire che, nell’oggetto del suo amore, ci sono motivi infiniti ed inesprimibili per amarlo. Ed è questa la comprensione assolutamente più gioiosa da parte di un amante, quella che egli raggiunge quando comprende l’incomprensibile amabilità dell’amato. Nell’amare l’amato in base a qualcosa che di esso è comprensibile, l’amante, infatti, non proverebbe mai tanta gioia quanta quella che egli prova quando constata che l’amabilità dell’amato è del tutto non misurabile, non finibile, non terminabile e incomprensi-
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nabilem ac incomprehensibilem. Haec est gaudiosissima incomprehensibilitatis comprehensibilitas. 12 Orator: Intelligo forte, tu iudicabis. Nam haec videtur tua intentio, quod principium nostrum, per quod, in quo et ex quo «sumus et movemur», tunc gustatur a nobis ut principium, medium et finis, quando eius vitalis suavitas ingustabiliter gustatur per affectum et incomprehensibiliter comprehenditur per intellectum ac quod, qui ipsum gustabiliter gustare et comprehensibiliter comprehendere nititur, ille penitus est sine gustu et intellectu. Idiota: Optime cepisti, orator. Ob hoc qui non aliud sapientiam putant quam id, quod est intellectu comprehensibile, et non aliud felicitatem quam eam, quae attingibilis est per eos, hi longe sunt a vera sapientia aeterna et infinita, sed conversi sunt ad finibilem quandam quietem, ubi putant laetitiam vitae esse, sed non est. Hinc se deceptos comperientes in cruciatu sunt, quia ubi felicitatem esse putabant, ad quam se omni conatu convertebant, ibi aerumnam reperient et mortem. Sapientia enim infinita est indeficiens vitae pabulum, de quo aeternaliter vivit spiritus noster, qui non nisi sapientiam et veritatem amare potest. 13 Omnis enim intellectus appetit esse. Suum esse est vivere, suum vivere est intelligere, suum intelligere est pasci sapientia et veritate. Unde intellectus, qui non est degustans claram sapientiam, hic est ut oculus in tenebris. Est enim oculus, sed non videt, quia non est in luce. Et quia caret vita delectabili, quae consistit in videre, tunc est in aerumna et cruciatu, et hoc est mors potius quam vita. Sic intellectus ad omne aliud quam ad aeternae sapientiae pabulum conversus se extra vitam quasi in tenebris ignorantiae involutum potius mortuum quam vivum reperiet. Et hic est cruciatus interminabilis, intellectuale esse habere et numquam intelligere. Sola enim aeterna sapientia est, in qua omnis intellectus intelligere potest.
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bile. Questa comprensibilità dell’incomprensibilità è la comprensione assolutamente più gioiosa. Oratore. Forse comprendo, giudicherai tu. Mi sembra che tu intenda dire questo: che il nostro principio, per il quale, nel quale, dal quale «siamo e ci muoviamo»43, viene da noi gustato come principio, mezzo e fine44 quando la sua vivificante soavità viene gustata in maniera non gustabile mediante l’affetto e viene compresa in maniera incomprensibile mediante l’intelletto45, e che chi si sforza di gustare il principio in modo gustabile e di comprenderlo in modo comprensibile, costui è completamente privo di gusto e di intelletto. Idiota. Hai capito benissimo, oratore. Per questo motivo, coloro che ritengono che la sapienza non sia altro che ciò che è comprensibile all’intelletto, e che la felicità non sia altro che la felicità che essi possono raggiungere, sono lontani dalla vera sapienza, che è eterna e infinita: essi sono piuttosto rivolti ad una qualche quiete finita, dove ritengono si trovi la gioia della vita, ma dove non c’è. È per questo che, quando scoprono di essersi ingannati, si tormentano, perché, dove ritenevano vi fosse quella felicità a cui si erano rivolti con ogni loro sforzo, lì troveranno tribolazione e morte. La sapienza infinita, infatti, è il nutrimento inesauribile della nostra vita46, del quale vive eternamente il nostro spirito, che non può amare se non la sapienza e la verità. Ogni intelletto, infatti, desidera essere47. Per l’intelletto essere significa vivere, vivere significa intendere48, intendere significa nutrirsi della sapienza e della verità. Per questo, un intelletto che non assapora il gusto della sapienza con il suo splendore è come un occhio che si trova nelle tenebre. È in effetti un occhio, ma non vede, perché non si trova nella luce. E poiché è privo di quella vita che gli procura piacere e che consiste per esso nel vedere49, l’occhio si trova nella tribolazione e nel tormento, e questa è morte più che vita. Allo stesso modo, un intelletto, che si sia rivolto a tutto tranne che al nutrimento della sapienza eterna, scoprirà di essere al di fuori della vita, come se fosse avvolto nelle tenebre dell’ignoranza, e di essere morto piuttosto che vivo. Ed è questo il tormento senza fine: possedere un essere intellettuale e non poter mai intendere. Solo la sapienza eterna, infatti, è quella nella quale ogni intelletto può intendere.
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Pulchra atque rara narras. Nunc age, quaeso, quomodo elevari queam ad aliqualem gustum aeternae sapientiae. Idiota: Aeterna sapientia in omni gustabili gustatur. Ipsa est delectatio in omni delectabili. Ipsa est pulchritudo in omni pulchro. Ipsa est appetitio in omni appetibili. Sic de cunctis desiderabilibus dicito. Quomodo tunc potest non gustari? Nonne vita est tibi gaudiosa, quando est secundum desiderium tuum? Orator: Immo nihil plus. 15 Idiota: Cum ergo hoc desiderium tuum non sit nisi per aeternam sapientiam, ex qua et in qua est, et haec vita felix, quam desideras, similiter non sit nisi ab eadem aeterna sapientia, in qua est et extra quam esse nequit, hinc non aliud in omni desiderio intellectualis vitae desideras quam sapientiam aeternam, quae est desiderii tui complementum, principium, medium et finis. Si igitur est tibi dulce hoc desiderium immortalis vitae, ut aeternaliter feliciter vivas, quandam in te praegustationem experiris aeternae sapientiae. Nihil enim penitus incognitum appetitur. Sunt enim poma apud Indos, quorum praegustationem cum non habeamus, ea non appetimus. Sed cum sine nutrimento vivere non possimus, appetimus nutrimentum. Habemus autem nutrimenti quandam praegustationem, ut vivamus sensibiliter. Et hinc puer quandam habet lactis praegustationem in sua natura, quare dum esurit ad lac movetur. 16 Ex quibus enim sumus, ex illis nutrimur. Sic intellectus habet vitam suam ab aeterna sapientia et huius habet aliqualem praegustationem. Unde in omni pascentia, quae sibi ut vivat necessaria est, non movetur, nisi ut inde pascatur, a quo habet hoc intellectuale esse. Si igitur in omni desiderio vitae intellectualis attenderes, a quo est intellectus, per quod movetur et ad quod, in te comperires dulcedinem sapientiae aeternae illam esse, quae tibi facit desi-
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Oratore. Racconti cose belle e inconsuete. Ora, ti prego, spiegami come posso elevarmi fino a giungere a gustare in qualche modo la sapienza eterna. Idiota. La sapienza eterna la si gusta in ogni cosa gustabile. Essa è il piacere che è presente in ogni cosa piacevole, è la bellezza che è presente in ogni cosa bella, è il desiderio che è presente in ogni cosa desiderabile. E la stessa cosa puoi dirla di tutto ciò che è desiderabile. Come si può allora non gustarla? La vita non ti risulta forse gioiosa quando è conforme ai tuoi desideri? Oratore. Certo, e non c’è niente di più gioioso. Idiota. Pertanto, dal momento che questo tuo desiderio non esiste se non in virtù della sapienza eterna, dalla quale esso deriva e nella quale esso sussiste, e poiché anche questa vita felice che desideri non proviene se non dalla medesima sapienza eterna, nella quale essa è presente e fuori della quale non può sussistere, in ogni desiderio della tua vita intellettuale tu non desideri altro che la sapienza eterna, la quale è il compimento del tuo desiderio e di esso è il principio, il mezzo e il fine50. Se, dunque, questo desiderio di una vita immortale, ossia di poter vivere per sempre nella felicità, è per te qualcosa di dolce, allora stai sperimentando in te stesso una certa pregustazione della sapienza eterna. Infatti, non si desidera nulla che sia del tutto sconosciuto51. Ad esempio, presso gli abitanti dell’India ci sono dei frutti dei quali, non avendone noi una pregustazione, non abbiamo alcun desiderio. Poiché, invece, non possiamo vivere senza nutrirci, desideriamo il nutrimento. E, affinché possiamo vivere nel mondo sensibile, del nutrimento abbiamo anche una certa pregustazione. Il bambino, pertanto, ha nella sua natura una certa pregustazione del latte, per cui, quando ha fame, tende ad esso. Noi, infatti, ci nutriamo delle cose grazie alle quali esistiamo52. Così, l’intelletto ha la sua vita dalla sapienza eterna e di essa ha una certa pregustazione. Di conseguenza, in tutti i cibi di cui ha bisogno per vivere, l’intelletto non si muove se non per cibarsi di ciò da cui deriva il suo essere intellettuale. Se, pertanto, in ogni desiderio della vita intellettuale tu prestassi attenzione a ciò da cui proviene l’intelletto, a ciò da cui esso è mosso e a ciò verso cui si muove, allora scopriresti in te che la dolcezza della sapienza eter-
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derium tuum ita dulce et delectabile, ut inenarrabili affectu feraris ad eius comprehensionem tamquam ad immortalitatem vitae tuae. Quasi ad ferrum et magnetem attendas: Habet enim ferrum in magnete quoddam sui effluxus principium, et dum magnes per sui praesentiam excitat ferrum grave et ponderosum, ferrum mirabili desiderio fertur etiam supra motum naturae, quo secundum gravitatem deorsum tendere debet, et sursum movetur se suo principio uniendo. Nisi enim in ferro esset quaedam praegustatio naturalis ipsius magnetis, non moveretur plus ad magnetem quam ad alium lapidem. Et nisi in lapide esset maior inclinatio ad ferrum quam ad cuprum, non esset illa attractio. 17 Habet igitur spiritus noster intellectualis ab aeterna sapientia principium sic intellectualiter essendi, quod esse est conformius sapientiae quam aliud non intellectuale. Hinc irradiatio seu immissio in sanctam animam est motus desideriosus in excitatione. Qui enim quaerit motu intellectuali sapientiam, hic interne tactus ad praegustatam dulcedinem sui oblitus rapitur in corpore quasi extra corpus. Omnium sensibilium pondus eum tenere nequit, quousque se uniat attrahenti sapientiae. Ex stupida admiratione sensum relinquens insanire facit animam, ut cuncta praeter eam penitus nihili faciat. Et illis dulce est hunc mundum et hanc vitam posse linquere, ut expeditius ferri possint in immortalitatis sapientiam. Haec praegustatio facit sanctis omne apparens delectabile abominabile et omnia corporalia tormenta propter ipsam citius adipiscendam aequissimo animo ferre. Haec nos instruit hunc nostrum spiritum ad ipsam conversum numquam deficere posse. Si enim hoc corpus nostrum spiritum omni sensibili ligamento tenere ne-
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na è quella che ti rende il tuo desiderio così dolce e piacevole da spingerti con un affetto indescrivibile verso la sua comprensione, così come sei spinto verso l’immortalità della tua vita. Considera, ad esempio, il ferro e una calamita53: il ferro, infatti, ha nella calamita un principio che la porta quasi ad uscire fuori da sé, e non appena la calamita, con la sua sola presenza, stimola il ferro, che è grave e pesante, il ferro viene spinto con uno straordinario desiderio anche al di là del suo moto naturale – per il quale esso, conformemente alla sua pesantezza, dovrebbe tendere verso il basso –, e si muove verso l’alto, giungendo ad unirsi al proprio principio. Se nel ferro, infatti, non vi fosse una certa qual pregustazione naturale della calamita, esso non si muoverebbe verso la calamita più che verso un’altra pietra. E se nella pietra non vi fosse una maggiore inclinazione verso il ferro piuttosto che verso il rame, non ci sarebbe quella attrazione. Il nostro spirito intellettuale, quindi, ha dalla sapienza il principio del proprio essere intellettuale, e lo ha in modo tale che il suo essere è più conforme alla sapienza di quanto lo sia quello di qualsiasi altro essere non intellettuale. Per questo, l’irradiazione e l’immissione della sapienza in un’anima santa è un movimento che suscita in lei un desiderio di uscire fuori da sé54. Infatti, colui che ricerca la sapienza attraverso un movimento intellettuale, toccato interiormente, dimentico di sé, viene rapito quasi fuori dal corpo55, pur trovandosi egli in un corpo, verso quella dolcezza che aveva pregustato. Il peso di tutte le cose sensibili non riesce a trattenerlo dall’unirsi alla sapienza che lo attrae; abbandonati i sensi, egli fa sì che l’anima diventi folle per lo stupore che la sbalordisce, in modo tale che essa stima tutto come un nulla, tranne la sapienza. Ed è dolce per questi uomini poter abbandonare questo mondo e questa vita, in modo da poter essere condotti più speditamente verso la sapienza immortale. Questa pregustazione fa sì che tutto ciò che appare dilettevole risulti per i santi abominevole, e fa loro sopportare tutte le sofferenze fisiche con una grandissima forza d’animo pur di poter conseguire più velocemente la sapienza. Questa pregustazione ci insegna che questo nostro spirito, che è rivolto verso la sapienza, non può mai venir meno. Se, in effetti, questo corpo, con tutti i suoi vincoli sensibili, non è in grado di impedire che il nostro spiri-
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quit, quin avidissime ad ipsam corporeo dimisso officio feratur, nequaquam deficiente corpore deficere potest. 18 Haec enim eius assimilatio, quae spiritui nostro naturaliter inest, per quam non quietatur nisi in ipsa sapientia, est quasi viva imago eius. Non enim quietatur imago nisi in eo, cuius est imago, a quo habet principium, medium et finem. Viva autem imago per vitam ex se motum exserit ad exemplar, in quo solum quiescit. Vita enim imaginis non potest in se quiescere, cum sit vita vitae veritatis et non sua. Hinc movetur ad exemplar ut ad veritatem sui esse. Si igitur exemplar est aeternum et imago habet vitam, in qua praegustat suum exemplar et sic desideriose ad ipsum movetur, et cum motus ille vitalis non possit quiescere nisi in infinita vita, quae est aeterna sapientia, hinc non potest cessare spiritualis ille motus, qui numquam infinitam vitam infinite attingit. Semper enim gaudiosissimo desiderio movetur, ut attingat quod numquam de delectabilitate attactus fastiditur. Est enim sapientia cibus saporosissimus, qui satiando desiderium sumendi non diminuit, ut in aeterna cibatione numquam cesset delectari. 19 Orator: Indubie te optime dixisse teneo. Sed valde referre video inter gustum sapientiae et ea, quae de gustu proferri possunt. Idiota: Bene dicis, et placet a te hoc verbum audisse. Sicut enim omnis sapientia de gustu rei numquam gustatae vacua et sterilis est, quousque sensus gustus attingat, ita de hac sapientia, quam nemo gustat per auditum, sed solum ille, qui eam accipit in interno gustu. Ille perhibet testimonium non de his, quae audivit, sed in se ipso experimentaliter gustavit. Scire multas amoris de-
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to venga tratto, ardentissimamente, verso la sapienza, una volta che abbia lasciato le funzioni legate al corpo, allora il nostro spirito non può affatto venir meno quando viene meno il corpo56. Questa somiglianza con la sapienza, che è insita per natura nel nostro spirito e per la quale esso non trova la sua quiete se non nella sapienza stessa, è quasi come un’immagine vivente della sapienza57. L’immagine, infatti, non trova la sua quiete se non in ciò di cui è immagine e da cui essa ha il suo principio, il mezzo e il fine. Un’immagine vivente, tuttavia, attraverso la sua vita produce da sé un movimento verso il suo esemplare, solo nel quale essa trova la sua quiete. Infatti, la vita dell’immagine non può trovare in se stessa la sua quiete, in quanto questa vita non è propria dell’immagine, ma vive della vita della verità [dell’esemplare]58. È per questo che essa si muove verso l’esemplare come verso la verità del proprio essere. Se, quindi, l’esemplare è eterno e l’immagine ha una vita nella quale pregusta il proprio esemplare e, spinta dal desiderio, si muove verso di esso, dal momento che questo moto vitale non può trovare la sua quiete se non nella vita infinita, che è la sapienza eterna, allora questo moto spirituale, che non raggiunge mai all’infinito la vita infinita, non può cessare. Lo spirito, infatti, è mosso sempre da un desiderio colmo di gioia per raggiungere ciò di cui, una volta che ne ha provato il diletto, non sarà mai sazio di godere. La sapienza, infatti, è un cibo saporitissimo, che, mentre sazia, non fa diminuire il desiderio di prenderne ancora, in modo tale che, alla mensa eterna, non cesserà mai il diletto59. Oratore. Riconosco, senza alcun dubbio, che ti sei espresso molto bene. Tuttavia, vedo che vi è una grande differenza tra il gusto effettivo della sapienza e le cose che si possono dire a proposito del gusto. Idiota. Hai ragione, e mi fa piacere aver ascoltato da te queste parole. Infatti, come qualsiasi conoscenza possiamo avere a proposito del gusto di una cosa che non abbiamo mai gustato è vuota e sterile fino a che il senso del gusto non ne provi effettivamente il sapore, così si deve dire a proposito di questa sapienza che nessuno gusta per mezzo dell’udito, ma che viene gustata solo da chi l’accoglie nel senso interiore del gusto; questi, infatti, offre testimonianza non di ciò che ha udito, ma di ciò che ha gustato per esperienza
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scriptiones, quas sancti nobis reliquerunt, sine amoris gustu vacuitas quaedam est. Quapropter ad quaerentem aeternam sapientiam non sufficit scire ea, quae de ipsa leguntur, sed necesse est, quod postquam intellectu repperit ubi est, quod eam suam faciat. Quasi qui invenit agrum, in quo est thesaurus, non potest gaudere de thesauro in alieno agro non suo exsistente; quare vendit omnia et emit agrum illum, ut in suo agro habeat thesaurum. 20 Unde oportet omnia sua vendere et dare. Non vult enim aeterna sapientia haberi nisi ibi, ubi habens nihil de suo tenuit, ut eam haberet. Id autem, quod de nostro habemus, vitia sunt, de aeterna vero sapientia non nisi bona. Quapropter spiritus sapientiae non habitat «in corpore subdito peccatis» neque «in malivola anima», sed in agro suo puro et sapientiali munda imagine quasi «in templo sancto suo». Ubi enim aeterna habitat sapientia, ibi est ager dominicus fructum ferens immortalem. Est enim ager virtutum, quem sapientia colit, ex quo nascuntur fructus spiritus, qui sunt iustitia, pax, fortitudo, temperantia, castitas, patientia et ceteri tales. 21 Orator: Abunde haec explanasti. Sed nunc te oro: Nonne deus est omnium principium? Idiota: Quis haesitat? Orator: Estne aliud sapientia aeterna quam deus? Idiota: Absit quod aliud, sed est deus. Orator: Nonne deus verbo cuncta formavit? Idiota: Formavit. Orator: Est verbum deus? Idiota: Est. Orator: Sic est et sapientia? 22 Idiota: Non est aliud dicere deum omnia in sapientia fecisse quam deum omnia verbo creasse. Considera autem, quomodo
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in se stesso60. Conoscere le molte descrizioni dell’amore che hanno lasciato i santi, senza avere sperimentato il gusto dell’amore, è una cosa vana. Per questo motivo, per chi ricerca la sapienza eterna non è sufficiente avere una conoscenza delle cose che si leggono su di essa; è necessario, piuttosto, che, dopo aver scoperto con l’intelletto dove essa si trova, egli la faccia propria. È come uno che ha trovato un campo in cui è sepolto un tesoro61. Non può godere del tesoro fino a che esso si trova in un campo che non è suo, ma che appartiene a qualcun altro; per questo, egli vende tutto ed acquista quel campo, per possedere il tesoro in un campo proprio. Bisogna quindi vendere e donare tutto ciò che è nostro. La sapienza eterna, infatti, non vuole essere posseduta se non là dove chi la possiede, per poterla possedere, non conserva nulla di suo. D’altronde, ciò che abbiamo di nostro sono i vizi, mentre dalla sapienza eterna non abbiamo che cose buone. Per questo, lo spirito della sapienza non abita «in un corpo soggetto al peccato» e neanche in «un’anima che vuole il male», ma in un suo campo puro e in un’immagine della sapienza che sia monda, come se si trovasse «nel suo tempio santo»62. Dove abita infatti la sapienza, lì si trova il campo del Signore che produce un frutto immortale. Quello che la sapienza coltiva è in effetti il campo delle virtù, dal quale nascono i frutti dello spirito, che sono la giustizia, la pace, la fortezza, la temperanza, la castità, la pazienza, e frutti simili a questi63. Oratore. Hai spiegato questo argomento ampiamente. Ma ora ti chiedo: Dio non è forse il principio di tutte le cose? Idiota. Chi ne dubita? Oratore. E la sapienza eterna non è qualcosa di altro da Dio? Idiota. Non può essere affatto qualcosa di altro, ma è Dio. Oratore. Dio non ha forse formato tutte le cose mediante il Verbo?64 Idiota. Sì. Oratore. Il Verbo è Dio? Idiota. Lo è. Oratore. Ed è quindi anche la sapienza? Idiota. Dire che Dio ha fatto tutte le cose nella sapienza non è altro dal dire che Dio ha creato tutte le cose mediante il Verbo65.
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omne, quod est, potuit esse et potuit sic esse et est. Deus autem, qui tradit sibi actualitatem essendi, est, apud quem est omnipotentia, per quam res de non-esse ad esse potuit produci. Et est deus pater, qui dici potest unitas seu entitas, quia necessitat esse, quod erat nihil, ex omnipotentia sua. Deus etiam tradit sibi tale esse, ut sit hoc, puta caelum, et non aliud, neque plus neque minus. Et hic deus est verbum, sapientia seu filius patris et potest dici unitatis seu entitatis aequalitas. Est deinde esse et sic esse unitum, ut sit. Et hoc habet a deo, qui est conexio omnia conectens, et est deus spiritus sanctus. Spiritus enim est uniens et nectens in nobis et universo omnia. Unde sicut unitatem nihil gignit, sed est primum principium nequaquam principiatum, sic patrem nihil gignit, qui est aeternus. Aequalitas autem ab unitate procedit, sic filius a patre. Et nexus procedit ab unitate et sua aequalitate. Unde omnis res, ut habeat esse et tale esse, in quo est, opus habet unitrino principio, deo scilicet trino et uno. De quo longior sermo fieri posset, si tempus concederet. 23 Sapientia igitur, quae est ipsa essendi aequalitas, verbum seu ratio rerum est. Est enim ut infinita intellectualis forma, forma enim dat formatum esse rei. Unde infinita forma est actualitas omnium formabilium formarum ac omnium talium praecisissima aequalitas. Sicut enim infinitus circulus, si foret, omnium figurarum figurabilium verum exemplar foret et cuiuslibet figurae essendi aequalitas – foret enim triangulus, hexagonus, decagonus et ita deinceps – et omnium mensura adaequatissima licet simplicissima figura, sic infinita sapientia est simplicitas omnes formas complicans et omnium adaequatissima mensura. Quasi in perfectissima omnipo-
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Ma considera come tutto ciò che è ha potuto essere, ha potuto essere così come è, ed è. Ora, Dio, che conferisce ad ogni cosa l’attualità dell’essere, è colui presso il quale si trova quella onnipotenza grazie a cui una cosa ha potuto essere condotta dal non-essere all’essere. Ed in questo senso Dio è Dio-Padre, il quale può essere chiamato unità o entità66, in quanto, con la sua onnipotenza, costringe ad essere ciò che era nulla. Dio, inoltre, conferisce ad ogni cosa anche il suo essere determinato, in modo tale che essa sia questa cosa, ad esempio cielo e non qualcos’altro, e neppure qualcosa di più o di meno di quello che essa è. Ed in questo senso Dio è il Verbo, la Sapienza e il Figlio del Padre, e può essere chiamato uguaglianza dell’unità o dell’entità. Ed infine, affinché la cosa esista, c’è l’unione dell’essere e dell’essere determinato della cosa. E tale unione ogni cosa la ha da Dio, che è la connessione che connette tutte le cose, ed in questo senso Dio è lo Spirito Santo67. Lo Spirito, infatti, è ciò che, in noi e nell’universo, unisce e connette tutte le cose. Di conseguenza, come nulla genera l’unità, la quale è piuttosto un principio primo, che non è in alcun modo principiato, così nulla genera il Padre, che è eterno. L’uguaglianza, invece, procede dall’unità, e così il Figlio procede dal Padre. E il nesso procede dall’unità e dall’uguaglianza-dell’unità. Di conseguenza, ogni cosa, per avere l’essere e quell’essere determinato nel quale essa sussiste, ha bisogno di un principio unitrino, ossia ha bisogno di Dio come trino e uno68. Su questo argomento si potrebbe fare un discorso più lungo, se avessimo tempo. Pertanto, la sapienza, che è la stessa uguaglianza dell’essere, è il Verbo o il Pricipio razionale delle cose. Essa, infatti, è come una forma intellettuale infinita; è la forma, in effetti, che dà ad una cosa il suo essere formato69. Di conseguenza, la forma infinita è l’attualità di tutte le forme formabili ed è l’uguaglianza precisissima di tutte. Ad esempio, se ci fosse un cerchio infinito, esso sarebbe il vero esemplare di tutte le figure che si possono raffigurare e sarebbe l’uguaglianza dell’essere di qualsiasi figura – sarebbe infatti triangolo, esagono, decagono ecc. –, e sarebbe la misura assolutamente adeguata di tutte le figure, pur essendo una figura semplicissima70. Allo stesso modo, la sapienza infinita è la semplicità che complica tutte le forme ed è la misura assolutamente adeguata di tutte71.
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tentis artis idea omne per artem formabile simplicissima forma ars ipsa exsistat, ita quod, si respicis ad humanam formam, reperis formam artis divinae eius praecisissimum exemplar, quasi aliud penitus nihil foret quam humanae formae exemplar. Sic ad formam caeli si respicis et te ad formam artis divinae convertis, penitus ipsam non aliud concipere poteris quam huius formae caeli exemplar, et ita de omnibus formis formatis vel formabilibus, ut ars seu sapientia dei patris sit simplicissima forma et tamen infinitarum formabilium formarum quamquam variabilium unicum aequalissimum exemplar. 24 O quam admiranda est illa forma, cuius infinitatem simplicissimam omnes formabiles formae nequeunt explicare! Et qui se elevat altissimo intellectu super omnem oppositionem, ille solum hoc verissimum intuetur. Ac si quis attenderet vim naturalem, quae est in unitate, illam vim videret, si actu eam esse conciperet, quasi esse quoddam formale solo intellectu de longe visibile. Et quia foret vis unitatis simplicissima, ipsa foret quaedam simplicissima infinitas. Deinde si hic ad formam numerorum se converteret dualitatem aut denaritatem considerando et reverteretur tunc ad vim actualem unitatis, ipse videret formam illam, quae ponitur esse vis actualis unitatis, praecisissimum exemplar dualitatis, sic etiam denaritatis et alterius cuiuscumque numeri numerabilis. Hoc enim ageret infinitas formae illius, quae vis dicitur unitatis, quod, dum ad dualitatem respicis, forma illa non potest esse nec maior nec minor forma dualitatis, cuius est praecisissimum exemplar. 25 Sic vides unicam et simplicissimam dei sapientiam, quia est infinita, esse omnium formarum formabilium verissimum exemplar. Et hoc est suum attingere, quo omnia attingit, omnia finit, omnia disponit. Est enim in omnibus formis ut veritas in imagine et exem-
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Ad esempio, nell’idea perfettissima dell’arte dell’onnipotente, tutto ciò che può essere formato mediante l’arte esiste in una forma semplicissima, come identico all’arte stessa; di conseguenza, se consideri una forma umana, scoprirai che la forma dell’arte divina è il suo esemplare precisissimo, come se essa non fosse assolutamente nient’altro che l’esemplare della forma umana. In modo analogo, se consideri la forma del cielo e ti volgi poi alla forma dell’arte divina, non potrai affatto concepire quest’ultima come qualcosa di altro rispetto all’esemplare di questa forma del cielo, e lo stesso vale per tutte le forme formate o formabili, di modo che l’arte o sapienza di Dio Padre è la forma semplicissima e, cionondimeno, l’esemplare unico e assolutamente uguale di tutte le infinite forme formabili, per quanto varie esse siano. Quanto è degna di ammirazione questa forma, di cui tutte le forme formabili non riescono ad esplicare l’infinita semplicità. Questa somma verità riesce ad intuirla solo chi, mediante l’intelletto più alto72, si eleva al di sopra di ogni opposizione. E se uno prestasse attenzione alla forza naturale che è presente nell’unità e concepisse quella forza come presente in atto, egli la vedrebbe come una specie di essere formale, visibile da lontano soltanto dall’intelletto. E poiché la forza dell’unità sarebbe assolutamente semplice, essa sarebbe una specie di infinità assolutamente semplice. Se in seguito costui si rivolgesse alla forma dei numeri, prendendo in considerazione la dualità o la decina, e ritornasse poi di nuovo alla forza in atto dell’unità, egli vedrebbe che quella forma, che abbiamo convenuto essere la forza in atto dell’unità, è l’esemplare assolutamente preciso della dualità, come pure della decina e di ogni altro numero numerabile. Infatti, l’infinità di quella forma, che viene chiamata, come abbiamo visto, forza dell’unità, sarebbe tale per cui, appena guardi la dualità, quella forma non può essere né maggiore, né minore della forma della dualità, di cui essa è l’esemplare precisissimo. In questo modo, vedi che l’unica e semplicissima sapienza di Dio, dal momento che è infinita, è l’esemplare verissimo di tutte le forme formabili. E questo è il modo in cui essa si estende a tutte le cose, dona un limite a tutte e tutte le ordina73. La sapienza, infatti, è presente in tutte le forme come la verità è presente nell’immagi-
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plar in exemplato et forma in figura et praecisio in assimilatione. Et licet se omnibus communicet liberalissime, cum sit infinite bona, tamen a nullo capi potest uti est. Identitas enim infinita non potest in alio recipi, cum in alio aliter recipiatur. Et cum non possit in aliquo nisi aliter recipi, tunc recipitur meliori modo quo potest. Sed immultiplicabilis infinitas in varia receptione melius explicatur, magna enim diversitas immultiplicabilitatem melius exprimit. Ex quo evenit, ut sapientia in variis formis varie recepta hoc efficiat, ut quaelibet ad identitatem vocata modo quo potest sapientiam participet, ut quaedam eandem participent in quodam spiritu valde distanti a prima forma, qui vix esse elementale tribuit, alia in magis formato, qui esse minerale tribuit, alia adhuc in nobiliori gradu, qui vitam praebet vegetabilem, adhuc alia in altiori, qui sensibilem, post hoc qui imaginabilem, deinde qui rationalem, post qui intellectualem. 26 Et hic gradus est altissimus, proxima scilicet sapientiae imago. Et hic solus est gradus habens aptitudinem se ad sapientiae gustum elevandi, quia in illis intellectualibus naturis imago sapientiae est viva vita intellectuali, cuius vitae vis est ex se vitalem motum exserere. Qui motus est per intelligere ad proprium suum obiectum, quod est veritas absoluta, quae est aeterna sapientia, pergere. Pergere autem illud cum sit intelligere, tunc est et gustare intellectualiter. Apprehendere enim per intellectum est quiditatem quadam degustatione gratissima modo quo potest attingere. Sicut
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ne, l’esemplare nell’esemplato, e come una forma è presente in una figura e la precisione è presente nella somiglianza. E sebbene essa, essendo infinitamente buona, si comunichi a tutti con totale generosità74, da nessuno, tuttavia, può essere accolta così come essa è. L’identità infinita, infatti, non può essere recepita in ciò che è altro [da essa], perché in ciò che è altro essa viene recepita in un altro modo [rispetto a come è in se stessa]75. E dal momento che in ciò che è altro [da essa] l’identità infinita non può essere recepita se non in un altro modo [rispetto a come è in se stessa], essa viene allora recepita nel modo migliore in cui può essere recepita. Ora, l’infinità non moltiplicabile si esplica meglio quando viene recepita in modo vario, in quanto una grande diversità esprime meglio ciò che è in sé non moltiplicabile76. Ne consegue che la sapienza, che nelle diverse forme viene recepita in modi rispettivamente diversi, fa sì che ogni forma, che viene chiamata all’identità77, partecipi della sapienza nel modo in cui le è possibile, per cui alcune ne partecipano per mezzo di un certo qual spirito che è molto distante dalla prima forma e che conferisce loro appena il modo d’essere degli elementi, altre per mezzo di uno spirito che partecipa maggiormente della forma e che conferisce loro l’essere minerale; altre partecipano della sapienza ad un livello più nobile che fornisce loro la vita vegetativa, altre ancora ad un livello più elevato che fornisce loro la vita sensibile, poi vi sono quelle che ricevono la vita immaginativa, poi quella razionale ed infine la vita intellettuale. E questo è il grado più elevato, ovvero è l’immagine della sapienza che è a questa più vicina78. E solo questo è il grado che ha la capacità di elevarsi al gusto della sapienza, perché nelle nature dotate di intelletto l’immagine della sapienza è un’immagine viva, dotata di vita intellettuale, e la forza di questa vita consiste nello sviluppare da sé un movimento vitale79. E questo movimento consiste nel procedere, mediante l’intendere, verso quello che è l’oggetto proprio dell’intelletto80, ossia verso la verità assoluta, la quale è la sapienza eterna. Ora, dal momento che questo procedere è un intendere mediante l’intelletto, esso è anche un gustare intellettualmente. Apprendere con l’intelletto, infatti, significa giungere a cogliere la quiddità con una sorta di gusto gradevolissimo, nel modo migliore in cui questo è possibile. Infatti, come attraverso il gusto
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enim sensibili gustu, qui non pertingit ad rei quiditatem, in extrinsecis a quiditate quaedam grata suavitas per sensum percipitur, sic per intellectum intellectualis suavitas in quiditate degustatur, quae est imago suavitatis sapientiae aeternae, quae est quiditatum quiditas, et est comparatio suavitatis unius ad aliam improportionalis. 27 Sic nunc pro hoc brevi tempore haec sic dicta sufficiant, ut scias sapientiam esse non in arte oratoria aut in voluminibus magnis, sed in separatione ab istis sensibilibus ac in conversione ad simplicissimam et infinitam formam et illam recipere in templo purgato ab omni vitio et fervido amore ei inhaerere, quousque gustare eam queas et videre, quam suavis sit illa, quae est omnis suavitas. Qua degustata vilescent tibi omnia, quae nunc tibi magna videntur, et humiliaberis, ut nihil arrogantiae in te remaneat neque aliud quodcumque vitium, quoniam castissimo et purissimo corde semel degustatae sapientiae indissolubiliter adhaerebis, etiam potius hunc mundum et cuncta, quae non sunt ipsa, quam ipsam deserendo. Et cum indicibili laetitia vives, morieris et post mortem in ipsa amorosissimo amplexu aeternaliter requiesces, quod tibi et mihi concedat ipsa dei sapientia semper benedicta. Amen.
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sensibile, che non raggiunge la quiddità della cosa, percepiamo con i sensi una certa gradevole soavità nelle proprietà esterne alla quiddità, così, mediante l’intelletto, gustiamo nella quiddità una soavità intellettuale81, che è l’immagine della soavità della sapienza eterna, la quale è la quiddità delle quiddità82, anche se un confronto tra l’una e l’altra soavità è senza paragone. Così, dato il poco tempo che abbiamo a disposizione, le cose che abbiamo detto possono per il momento essere sufficienti per farti capire che la sapienza non è contenuta nell’arte oratoria o in grossi volume; la si trova piuttosto separandosi da queste cose sensibili e rivolgendosi alla forma infinita e semplicissima, ricevendola poi in un tempio purificato da ogni vizio ed aderendo ad essa con un amore ardente83, fino a che tu sia in grado di gustarla e di vedere quanto sia soave quella sapienza nella quale risiede ogni soavità. Una volta che l’avrai gustata, tutte le cose che ora ti sembrano importanti perderanno per te di valore e diventerai umile, in modo tale che non resterà in te più alcuna traccia di superbia, né alcun altro vizio, perché aderirai in maniera indissolubile e con un cuore assolutamente puro e casto a quella sapienza di cui hai assaporato una volta il gusto, preferendo persino abbandonare questo mondo e tutto ciò che non è la sapienza piuttosto che la sapienza stessa. E vivrai con indicibile letizia e poi morirai, e dopo la morte troverai per sempre in essa la tua quiete, stretto in un abbraccio colmo del più grande amore. Che la sapienza di Dio, sempre benedetto, conceda tutto questo a me e a te. Così sia.
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Liber secundus
Accidit oratorem Romanum post verba, quae audivit ab idiota de sapientia, in summa admiratione suspensum adisse ipsum idiotam, quem circa templum Aeternitatis latitantem inveniens sic allocutus est: O vir desideratissime, adiuva impotentiam meam, ut in difficilibus, quae mentem transcendunt, quadam facilitate depascar, alioquin parum proderit tot altas a te audisse theorias. Idiota: Nulla est facilior difficultas quam divina speculari, ubi delectatio coincidit in difficultate. Sed quid optas dicito. Orator: Ut mihi dicas: Ex quo deus est maior quam concipi possit, quomodo de ipso facere debeam conceptum? Idiota: Sicut de conceptu. Orator: Explana. Idiota: Audisti, quomodo in omni conceptu concipitur inconceptibilis. Accedit igitur conceptus de conceptu ad inconceptibilem. 29 Orator: Quomodo tunc faciam praecisiorem conceptum? Idiota: Concipe praecisionem, nam deus est ipsa absoluta praecisio. Orator: Quid tunc per me agendum est, quando de deo rectum conceptum facere propono? Idiota: Tunc te ad rectitudinem ipsam convertas.
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Libro secondo
Accadde che l’oratore romano, dopo le parole che aveva ascoltato dall’idiota a proposito della sapienza, preso dalla più grande ammirazione, andasse di nuovo in cerca dell’idiota, e avendolo trovato ritirato in disparte nei pressi del tempio dell’Eternità84 gli si rivolse così: Oratore. O uomo, di cui ho sentito così a lungo la mancanza, vieni in soccorso della mia debolezza, in modo che io possa nutrirmi con una certa facilità delle cose difficili che sono al di sopra delle capacità della mia mente; altrimenti, aver ascoltato da te tante dottrine profonde, mi sarà di poca utilità. Idiota. Non c’è nessuna difficoltà che sia più facile di quella che s’incontra nell’indagine sulle cose divine85, dove il diletto coincide con la difficoltà. Ma dimmi quello che desideri sapere. Oratore. Vorrei che mi spiegassi questo: dato che Dio è più grande di quanto lo si possa concepire86, come posso formarmene un concetto? Idiota. Così come ti formi un concetto del concetto87. Oratore. Spiegati. Idiota. Hai ascoltato che in ogni concetto viene concepito ciò che è concettualmente inconcepibile88. Il concetto, pertanto, si avvicina a ciò che è concettualmente inconcepibile a partire dal concetto. Oratore. In che modo, allora, posso formarmi un concetto più preciso di Dio? Idiota. Pensa il concetto della precisione; Dio, infatti, è la stessa precisione assoluta89. Oratore. Che cosa devo fare, allora, se mi propongo di formarmi di Dio un concetto retto? Idiota. In questo caso, rivolgi la tua attenzione alla rettitudine stessa.
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Orator: Et quando verum de deo conceptum facere nitor, quid tunc agendum? Idiota: Ad veritatem ipsam inspicias. Orator: Quid, si iustum conceptum facere proposuero? Idiota: Ad iustitiam te convertas. Orator: Et quando quaesivero, quomodo bonum attingam de deo conceptum, quid tunc agam? Idiota: Ad bonitatem mentis oculos attolle. Orator: Miror, quo me in omnibus remittas. Idiota: Vide, quam facilis est difficultas in divinis, ut inquisitori semper se ipsam offerat modo, quo inquiritur. Orator: Nihil indubie mirabilius. Idiota: Omnis quaestio de deo praesupponit quaesitum, et id est respondendum, quod in omni quaestione de deo quaesitio praesupponit, nam deus in omni terminorum significatione significatur, licet sit insignificabilis. 30 Orator: Declara quaeso, quia nimis admiror, ut vix quae dicis aure percipiam. Idiota: Nonne quaestio an sit praesupponit entitatem? Orator: Immo. Idiota: Cum ergo a te quaesitum fuerit, an sit deus, hoc quod praesupponitur dicito, scilicet eum esse, quia est entitas in quaestione praesupposita. Sic si quis quaesiverit quid est deus, cum haec quaestio praesupponat quiditatem esse, respondebis deum esse ipsam quiditatem absolutam. Ita quidem in omnibus. Neque in hoc cadit haesitatio. Nam deus est ipsa absoluta praesuppositio omnium, quae qualitercumque praesupponuntur, sicut in omni effectu praesupponitur causa. Vide igitur, orator, quam facilis est theologica difficultas.
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Oratore. E se cerco di formarmi di Dio un concetto vero, che cosa devo fare? Idiota. Guarda alla verità stessa. Oratore. E che cosa dovrò fare quando mi proporrò di formarmi un concetto giusto di Dio? Idiota. Rivolgi la tua attenzione alla giustizia. Oratore. E quando cercherò come pervenire ad un concetto buono di Dio, che cosa dovrò fare? Idiota. Solleva gli occhi della mente90 verso la bontà. Oratore. Sono stupito del fatto che, in tutte le tue risposte, mi rimandi a quanto ho detto nelle mie domande. Idiota. Vedi quanto sia facile la difficoltà nelle cose divine91, al punto che, a chi pone la domanda, la risposta si offre già nel modo stesso in cui viene posta la domanda. Oratore. Senza dubbio, non c’è nulla di più sorprendente. Idiota. Ogni domanda su Dio presuppone ciò che viene domandato92, e la risposta che dev’essere data ad ogni domanda su Dio consiste in ciò che la domanda presuppone. Dio, infatti, viene significato nel significato di tutti i termini, sebbene egli sia insignificabile. Oratore. Spiegati, ti prego, perché sono talmente sorpreso, che sento a malapena con le orecchie quello che stai dicendo. Idiota. La domanda «se qualcosa è»93 non presuppone forse l’essere? Oratore. Sicuramente. Idiota. Di conseguenza, quando ti verrà chiesto «se Dio è», rispondi ciò che viene presupposto [nella domanda], ossia che Egli è, in quanto l’essere è ciò che viene presupposto nella domanda. Allo stesso modo, se qualcuno ti domanderà «che cos’è Dio», allora, dato che questa domanda presuppone che vi sia la quiddità, risponderai che Dio è la stessa quiddità assoluta94. Lo stesso vale in tutti gli altri casi. E riguardo a questo non può esservi il minimo dubbio. Dio, infatti, è il presupposto assoluto di tutte le cose che vengono presupposte, in qualsiasi modo esse lo siano, come in ogni effetto è presupposta una causa. Vedi, allora, oratore, quanto sia facile la difficoltà in ambito teologico95.
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Orator: Certe ista facilitas est maxima et stupenda. Idiota: Immo dico tibi, quod deus est ipsa infinita facilitas et nequaquam convenit deo, quod sit ipsa infinita difficultas. Oportet enim, uti parum post audies de curvo et recto, quod difficultas transeat in facilitatem, si deo infinito debet convenire. 31 Orator: Si id, quod in omni quaestione praesupponitur, est in theologicis ad quaestionem responsio, tunc nulla est de deo propria quaestio, quando in ea coincidit responsio. Idiota: Optime infers. Et adice quod, cum deus sit infinita rectitudo et necessitas absoluta, hinc dubia quaestio eum non attingit, sed omnis dubitatio in deo est certitudo. Unde sic et omnis de deo ad quaestionem responsio non est propria et praecisa responsio, cum praecisio non sit nisi una et infinita, quae est deus. Omnis enim responsio participat de absoluta responsione, quae est infinite praecisa. Sed id, quod dixi tibi, quomodo in quaestionibus theologicis praesuppositum est responsio, intelligendum est modo, quo est quaestio. Et sic capias hanc esse sufficientiam, quoniam, cum de deo nec quaestio nec ad quaestionem responsio praecisionem attingere possit, tunc modo, quo ad praecisionem accedit quaestio, eo modo praesuppositi responsio. Et haec est «sufficientia nostra», quam «ex deo» habemus, scientes inattingibilem praecisionem non posse per nos attingi nisi modo aliquo absolutae praecisionis modum participante. Inter quos modos varios et multiplices unicum praecisionis modum participantes iam dictus modus plus accedit ad facilitatem absolutam et est sufficientia nostra, quia alium, qui sit simul facilior et verior, attingere nequimus. 32 Orator: Quis non stuperet haec audiens? Nam cum deus sit ipsa incomprehensibilitas absoluta, tu dicis tanto comprehensionem ad ipsum plus accedere, quanto modus eius plus participat facilitate.
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Oratore. Certamente, questa facilità è massima e stupefacente. Idiota. Anzi, ti dico che Dio è la stessa facilità infinita, e che a Lui non si addice affatto di essere la difficoltà infinita. Infatti, come ascolterai tra poco a proposito del curvo e del retto, è necessario che la difficoltà si trasformi in facilità, se deve addirsi al Dio infinito. Oratore. Se, nelle questioni teologiche, ciò che è presupposto in ogni domanda rappresenta la risposta alla domanda, allora intorno a Dio non c’è in senso proprio alcuna domanda, dal momento che la risposta coincide con la domanda. Idiota. La tua conclusione è perfetta. Ma aggiungi che, essendo Dio rettitudine infinita e necessità assoluta96, non c’è nessuna domanda dubitativa che possa riguardarlo; piuttosto, in Dio ogni dubbio è certezza97. Per questo, anche ogni risposta ad una domanda su Dio non è una risposta appropriata e precisa, dal momento che non c’è se non una sola ed infinita precisione, che è Dio. Infatti, ogni risposta partecipa della risposta assoluta, che è infinitamente precisa. Ma ciò che ti ho detto, ossia che nelle questioni teologiche il presupposto è la risposta, va inteso nel senso che la risposta dipende dal modo in cui viene posta la domanda. E così comprendi che questo è ciò che per noi è sufficiente: infatti, dal momento che né la domanda intorno a Dio, né la risposta alla domanda possono raggiungere la precisione, allora la risposta che viene data ricorrendo a ciò che è presupposto [nella domanda] si avvicina alla precisione nella stesso modo in cui vi si avvicina la domanda. E questa è «la nostra sufficienza» che riceviamo «da Dio»98, sapere cioè che non possiamo raggiungere la precisione irraggiungibile se non in un qualche modo che partecipi di un modo della precisione assoluta. Tra questi vari e molteplici modi che partecipano dell’unico modo della precisione, il modo di cui abbiamo appena parlato è quello che si avvicina di più alla facilità assoluta, ed è quello che è per noi sufficiente, dal momento che non possiamo raggiungerne un altro che sia al contempo più facile e più vero. Oratore. Chi non resterebbe stupito nell’ascoltare queste cose? Infatti, dal momento che Dio è la stessa incomprensibilità assoluta99, tu dici che la nostra comprensione si avvicina tanto di più a Lui, quanto più il nostro modo di comprendere partecipa della facilità.
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Idiota: Qui mecum intuetur absolutam facilitatem coincidere cum absoluta incomprehensibilitate, non potest nisi id ipsum mecum affirmare. Unde constanter assero, quod, quanto modus universalis ad omnes quaestiones de deo formabiles fuerit facilior, tanto verior et convenientior, prout deo convenit positio. Orator: Explana istud. Idiota: Hoc est prout de deo admittimus aliqua affirmative dici posse. Nam in theologia, quae omnia negat de deo, aliter dicendum, quia ibi verior responsio est ad omnem quaestionem negatio. Sed eo modo non ducimur ad cognitionem quid deus sit, sed quid non sit. Est deinde consideratio de deo, uti sibi nec positio nec ablatio convenit, sed prout est supra omnem positionem et ablationem. Et tunc responsio est negans affirmationem et negationem et copulationem. Ut, cum quaereretur an deus sit, secundum positionem respondendum ex praesupposito, scilicet eum esse et hoc ipsam absolutam praesuppositam entitatem. Secundum ablationem vero respondendum eum non esse, cum illa via ineffabili nihil conveniat omnium, quae dici possunt. Sed secundum quod est supra omnem positionem et ablationem respondendum eum nec esse, absolutam scilicet entitatem, nec non esse nec utrumque simul, sed supra. Nunc puto intelligis id, quod volo. 33 Orator: Intelligo nunc te dicere velle, quod in theologia sermocinali, scilicet ubi de deo locutiones admittimus et vis vocabuli penitus non excluditur, ibi sufficientiam difficilium in facilitatem modi de deo propositiones veriores formandi redegisti. Idiota: Bene cepisti. Nam si tibi de deo conceptum, quem habeo, pandere debeo, necesse est, quod locutio mea, si tibi servire debet, talis sit, cuius vocabula sint significativa, ut sic te duce-
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Idiota. Chi riconosce con me che la facilità assoluta coincide con l’assoluta incomprensibilità non può non dire con me la stessa cosa. Pertanto, sostengo con fermezza che, quanto più facile sarà il modo comune con cui vengono poste tutte le domande che possiamo formulare intorno a Dio, tanto più esso sarà vero ed appropriato, per quel tanto che un’affermazione può essere appropriata in riferimento a Dio. Oratore. Spiega questo punto. Idiota. Cio vale nella misura in cui ammettiamo che di Dio sia possibile dire qualcosa in modo affermativo. Infatti, nella teologia che nega di Dio ogni cosa bisogna parlare diversamente, perché lì la risposta più vera ad ogni domanda è la negazione100. In questo modo, tuttavia, non siamo condotti alla conoscenza di ciò che Dio è, bensì di ciò che Egli non è101. C’è poi un modo di considerare Dio secondo il quale a Dio non si addice né l’affermazione, né la negazione, in quanto si ritiene che Egli sia piuttosto al di sopra di ogni attribuzione e negazione102; in questo caso, la risposta consiste nel negare l’affermazione, la negazione e la combinazione dell’una e dell’altra103. Così, ad esempio, se venisse posta la domanda «se Dio è», secondo la via affermativa la risposta dovrebbe essere tratta da ciò che è presupposto nella domanda, per cui bisognerebbe rispondere che Dio è e che è lo stesso essere assoluto presupposto. Secondo la via negativa, invece, bisognerebbe rispondere che Dio non è, dal momento che, secondo questa via, niente di ciò che può essere detto si addice a colui che è ineffabile. Ma secondo la via per la quale Dio è al di sopra di ogni affermazione e negazione, bisognerebbe rispondere che Dio né è, ossia né è l’essere assoluto, né non lo è, né è e non-è insieme, ma è piuttosto al di sopra dell’essere e del non-essere. Credo che ora comprendi ciò che voglio dire. Oratore. Ora comprendo che tu vuoi dire questo: che, nella teologia discorsiva104, ossia là dove ammettiamo il discorso intorno a Dio e dove il valore della parola105 non viene del tutto escluso, hai ridotto quello che è sufficiente a proposito delle cose difficili alla facilità nel modo di formare proposizioni più vere intorno a Dio. Idiota. Hai capito bene. In effetti, se devo spiegarti il concetto che ho di Dio, è necessario che il mio discorso, se deve esserti di aiuto, sia tale che i suoi vocaboli siano per te dotati di significa-
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re queam in vi vocabuli, quae est nobis communiter nota, ad quaesitum. Deus est autem qui quaeritur. Unde haec est sermocinalis theologia, qua nitor te ad deum per vim vocabuli ducere modo quo possum faciliori et veriori. 34 Orator: Revertamur nunc quaeso ad ea, quae superiori loco a te praemissa sunt, et ex ordine explana. Primo loco aiebas conceptum de conceptu, cum deus sit conceptionum conceptus, esse de deo conceptum. Nonne mens est quae concipit? Idiota: Sine mente non fit conceptus. Orator: Concipere igitur cum sit mentis, tunc concipere absolutum conceptum non est nisi artem absolutae mentis concipere. Idiota: Prosequere, quia in via es. Orator: Sed ars absolutae mentis non est nisi forma omnium formabilium. Sic video, quomodo conceptus de conceptu non est nisi conceptus ideae divinae artis. Si verum dico, responde. Idiota: Immo optime. Nam absolutus conceptus aliud esse nequit quam idealis forma omnium, quae concipi possunt, quae est omnium formabilium aequalitas. 35 Orator: Hic conceptus, ut puto, dei verbum seu ratio dicitur. Idiota: Qualitercumque a doctis dicatur, in eo conceptu sunt omnia, sicut illa, quae sine ratione praevia non prodeunt in esse, dicimus in ratione prioriter exsistere. Omnia autem, quae esse conspicimus, rationem sui esse habent, ut sint modo quo sunt et non aliter. Qui igitur in simplicitatem absolutae rationis in se omnia prioriter complicantis intuetur profunda mente, hic facit conceptum de per se seu absoluto conceptu. Et hoc erat primum, quod praemisi.
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to, in modo tale che, attraverso il senso delle parole che sono note in comune ad entrambi, io possa condurti verso ciò che viene ricercato. Ora, ciò che viene ricercato è Dio. Questa, quindi, è la teologia discorsiva, con la quale io mi sforzo di condurti a Dio attraverso il significato delle parole, nel modo più facile e più vero di cui sono capace. Oratore. Ritorniamo ora, ti prego, alle cose che hai esposto all’inizio, e spiegale per ordine. In primo luogo, hai sostenuto che, essendo Dio il concetto di tutto ciò che viene concepito, il concetto del concetto è il concetto di Dio106. Ma non è forse la mente che concepisce concetti? Idiota. Senza la mente non vi è concetto. Oratore. Pertanto, poiché è proprio della mente concepire concetti, concepire il concetto assoluto non è altro che concepire l’arte della mente assoluta. Idiota. Và avanti, perché sei sulla buona strada. Oratore. Ora, l’arte della mente assoluta non è se non la forma di tutte le cose che possono ricevere una forma107. Così vedo che il concetto del concetto non è se non il concetto dell’idea dell’arte divina108. Dimmi se affermo il vero. Idiota. Sì e molto bene. Infatti, il concetto assoluto non può essere altro che la forma ideale di tutto ciò che può essere concepito. Questa forma è l’uguaglianza di tutte le cose che possono ricevere una forma109. Oratore. Questo concetto, credo, viene chiamato Verbo o Ragione di Dio110. Idiota. In qualsiasi modo venga chiamato dai dotti, in quel concetto sono contenute tutte le cose, così come di quelle cose che non giungono all’essere senza che vi sia prima una ragione diciamo che esistono anteriormente nella ragione. Ora, tutte le cose che vediamo esistere, per essere nel modo in cui sono e non diversamente, hanno una ragione del loro essere. Se uno, dunque, con la profondità della sua mente111 guarda intuitivamente alla semplicità della ragione assoluta, che complica in sé anteriormente tutte le cose112, costui si forma un concetto del concetto assoluto, o del concetto per sé113. Questo era il primo punto che avevo esposto.
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Orator: Satis de hoc. Nunc adice, quomodo conceptus absolutae praecisionis sit praecisior de deo conceptus. 36 Idiota: Non vacat mihi nunc tempus, ut per singula idem repetere queam, neque tibi video sic esse opportunum, cum ex uno ad omnia tibi aditus pateat, sed suscipe quam breviter: Praecisio, rectitudo, veritas, iustitia et bonitas, de quibus audisti, idem sunt. Nec credas me dicere velle modo, quo tota theologia est in circulo posita, ut unum de attributis de alio verificetur, sicut dicimus ex necessitate simplicitatis dei infinitae dei magnitudinem esse dei potentiam et e converso et dei potentiam esse dei virtutem et ita de cunctis essentiae dei per nos attributis. Sed haec, de quibus nunc sermo, experimur in nostro communi sermone coincidere. Quando enim audimus aliquem rem uti est exprimere, unus dicit exprimentem praecise expressisse, alius recte, alius vere, alius iuste et alius bene. Ita quidem in cotidiano experimur sermone. 37 Neque ille, qui ait aliquem praecise ac recte dixisse, vult aliud dicere quam alter, qui eum ait vere ac iuste aut bene dixisse. Et hoc in te ipso sic esse comperis, quando attendis, quomodo ille, qui nec plus nec minus dixit quam dicere debuit, omnia illa attigit. Nam praecisum non est aliud nisi quod nec plus nec minus. Sic nec rectum nec verum nec iustum nec bonum plus aut minus admittunt. Quomodo enim foret praecisum aut rectum aut verum aut iustum aut etiam bonum, quod minus praeciso, recto, vero, iusto et bono foret? Et si minus praeciso non est praecisum et minus recto non est rectum et minus vero non est verum et minus iusto non est iustum et minus bono non est bonum, manifestum est, quomodo id,
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Oratore. Su questo punto hai detto abbastanza. Adesso spiegami anche in che modo il concetto della precisione assoluta sia un concetto più preciso di Dio. Idiota. Ora non ho tempo per ripetere lo stesso argomento caso per caso, né mi sembra che questo ti sia utile, dal momento che, partendo da un esempio qualsiasi, ti si apre l’accesso a tutti gli altri. Mi limito a riprendere brevemente il discorso. La precisione, la rettitudine, la verità, la giustizia e la bontà, di cui hai inteso parlare, sono la stessa cosa. Non credere, tuttavia, che io intenda questo nello stesso senso in cui diciamo che tutta la teologia è disposta in circolo114, in modo tale che gli attributi divini vengono predicati con verità l’uno dell’altro. Così, ad esempio, diciamo che, a motivo della necessaria ed infinita semplicità di Dio, la grandezza di Dio è la potenza di Dio e viceversa, e che la potenza di Dio è la forza di Dio, e così via per tutti gli altri predicati che attribuiamo all’essenza di Dio. Le cose invece di cui stiamo parlando ora sono quelle di cui sperimentiamo la coincidenza nel nostro discorso comune. Ad esempio, quando ascoltiamo qualcuno che descrive una cosa per quello che essa è, uno dice che egli l’ha descritta «precisamente», un altro che l’ha descritta «correttamente», un altro «veramente», un altro «giustamente» e un altro «bene». Di questo facciamo esperienza nei nostri discorsi quotidiani. E colui che dice che qualcuno si è espresso in modo preciso e corretto non intende dire niente di diverso da quello che intende l’altro quando dice che quella persona si è espressa in modo vero e giusto, o bene. E che sia così, te ne rendi conto da te stesso, quando noti che colui che non ha detto né di più, né di meno di quello che doveva dire ha raggiunto tutte quelle qualità. Ciò che è preciso, infatti, non è altro se non ciò che non è né di più, né di meno; allo stesso modo, neppure ciò che è corretto, ciò che è vero, ciò che è giusto, ciò che è buono ammettono un di più o un di meno115. Come potrebbe infatti qualcosa essere precisa o corretta o vera o giusta o anche buona, se essa fosse meno del preciso, meno del corretto, meno del vero, meno del buono? E se ciò che è meno del preciso non è preciso, ciò che è meno del retto non è retto, ciò che è meno del vero non è vero, ciò che è meno del giusto non è giusto, ciò che è meno del buono non è buono, è evidente allora che anche
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quod plus recipit, non est de illis. Praecisio enim, quae plus recipit, puta quae praecisior esse potest, non est praecisio absoluta. Ita de recto, vero, iusto et bono. 38 Orator: In his igitur, quae recipiunt magis et minus, non est de deo conceptus formandus. Idiota: Optime infers. Nam cum deus sit infinitus, recipientia magis et minus sibi minus assimilantur. Quapropter in illis non ascenditur aut descenditur in infinitum, ut in numero et divisione continui experimur. Orator: Igitur in hoc mundo non est nec praecisio nec rectitudo nec veritas nec iustitia nec bonitas, cum experiamur unum esse alio praecisius, ut una pictura praecisior est alia. Sic de rectitudine, nam unum est rectius alio et unum verius alio et unum iustius alio et unum melius alio. Idiota: Bene concipis. Nam illa ut sunt absoluta a magis et minus non sunt de hoc mundo. Nihil enim reperibile est adeo praecisum, quod non possit esse praecisius, et nihil ita rectum, quod non possit esse rectius, aut ita verum, quod non possit esse verius, aut ita iustum, quod non possit esse iustius, aut ita bonum, quod non possit esse melius. Praecisio igitur aut rectitudo aut veritas aut iustitia aut bonitas in hoc mundo reperibiles sunt quaedam participationes talium absolutorum et imagines, quarum illa sunt exemplaria. Plura dico exemplaria, dum ad variarum rerum varias rationes referimus, unum vero sunt exemplar, quia in absoluto coincidunt. 39 Orator: Audire te in hoc valde desidero, quomodo unum est absolutum exemplar tantarum varietatum rerum universarum. Idiota: Qui parum in his theologicis speculationibus versatus est, difficillimum istud opinatur, sed mihi nihil facilius delectabi-
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ciò che ammette un di più non appartiene a quel genere di cose. Una precisione, infatti, che ammette un di più, che può, ad esempio, essere più precisa, non è la precisione assoluta. Lo stesso vale per il retto, il vero, il giusto e il buono. Oratore. Non possiamo pertanto formarci alcun concetto di Dio facendo riferimento a queste cose che ammettono un di più e un di meno. Idiota. La tua conclusione è perfetta. Infatti, essendo Dio infinito, le cose che ammettono un di più e un di meno sono quelle meno simili a Lui. Per questo motivo, tra queste cose non c’è alcuna ascesa o discesa che giunga all’infinito, come sperimentiamo nel caso dei numeri e della divisione del continuo116. Oratore. In questo mondo, pertanto, non c’è né precisione, nè rettitudine, né verità, né giustizia, né bontà, dal momento che sperimentiamo che una cosa è più precisa di un’altra, come un ritratto è più preciso di un altro117. Lo stesso vale per quanto concerne la rettitudine; una cosa, infatti, è più retta di un’altra, una è più vera di un’altra, una è più giusta di un’altra ed una è migliore di un’altra. Idiota. Il tuo ragionamento è corretto. Infatti, le cose che sono svincolate dal più e dal meno non sono di questo mondo. In effetti, nulla di ciò che possiamo trovare qui è talmente preciso da non poter essere più preciso ed è così retto da non poter essere più retto, o è così vero da non poter essere più vero, o così giusto da non poter essere più giusto, o così buono da non poter essere più buono. La precisione, pertanto, o la rettitudine o la verità o la giustizia o la bontà che possiamo trovare in questo mondo sono delle partecipazioni a tali assoluti e sono delle immagini, delle quali quegli assoluti sono gli esemplari. Parlo di esemplari al plurale in quanto stiamo facendo riferimento ai diversi principi razionali delle diverse cose, ma in realtà essi sono un unico esemplare in quanto nell’assoluto coincidono118. Oratore. Ho un grande desiderio di ascoltarti su questo punto, su come, cioé, possa esserci un solo esemplare assoluto119 per una così ampia varietà di cose che vediamo nell’universo. Idiota. Chi non è molto versato in queste speculazioni teologiche considera tale questione estremamente difficile, mentre a me
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liusque esse videtur. Complicat enim absolutum exemplar, quod non est nisi absoluta praecisio, rectitudo, veritas, iustitia seu bonitas, omnia exemplabilia, quorum omnium est praecisio, rectitudo, veritas, iustitia et bonitas, multo quidem perfectius, quam facies tua omnes imagines eius formabiles, quarum omnium est praecisio et rectitudo atque veritas. Omnes enim depingibiles figurae faciei tuae in tantum sunt praecisae, rectae et verae, in quantum sunt figuram vivae faciei tuae participantes et imitantes. Et licet non sit possibile unam uti aliam depingi sine differentia, cum praecisio non sit de hoc mundo et aliud aliter exsistere necesse sit, omnium tamen illarum varietatum non est nisi unum exemplar. 40 Orator: Verum dicis quoad unitatem exemplaris, non tamen quoad aequalitatem. Nam facies mea licet sit mensura veritatis picturarum, quia ex intuitione faciei iudicatur ima go an parum vel multum deficiat in figura, tamen non est verum, quod facies mea sit omnium adaequatissima mensura omni modo mensurae, quia semper est vel maior vel minor. Idiota: Verum dicis de facie tua, quae cum sit quanta et naturae eius, quod recipit magis et minus, non potest esse praecisio, sic nec adaequata alterius mensura. In mundo enim praecisione carente adaequata mensura ac similitudo est impossibilis. Secus igitur, si concipis exemplar absolutum. Illud enim nec est magnum nec parvum. Nam de ratione exemplaris ista esse nequeunt. Formica enim quando depingitur, non minus est exemplar quam mons depingendus et e converso. Quapropter absolutum exemplar, quod
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sembra che non vi sia nulla di più facile e che procuri maggiore diletto. L’esemplare assoluto, infatti, che non è se non precisione assoluta, rettitudine assoluta, verità assoluta, giustizia assoluta e bontà assoluta, complica in sé tutte le cose che possono essere formate ad immagine dei diversi esemplari120; di tutte queste cose esso è la precisione, la rettitudine, la verità, la giustizia e la bontà, e tutte le complica in sé in un modo molto più perfetto di quanto il tuo volto complichi tutte le immagini che si possono formare di esso, delle quali il tuo volto è precisione, rettitudine e verità. Infatti, tutti i ritratti che si possono dipingere del tuo volto in tanto sono precisi, retti e veri, in quanto partecipano e imitano la forma del tuo volto vivo. E sebbene non sia possibile che un ritratto venga dipinto esattamente come un altro, senza alcuna differenza, in quanto la precisione non è di questo mondo e in quanto è necessario che una cosa diversa da un’altra esista in modo diverso, tuttavia di tutti i diversi ritratti del tuo volto non c’è che un unico esemplare. Oratore. Dici il vero per quanto riguarda l’unicità dell’esemplare, ma non per quanto concerne l’uguaglianza. Infatti, sebbene il mio volto sia la misura della verità dei ritratti che di esso vengono dipinti, in quanto è a partire dal volto che guardiamo che giudichiamo se un’immagine si allontana di poco o di molto dal suo aspetto reale, non è tuttavia vero che il mio volto sia la misura più adeguata di tutte le sue immagini secondo ogni modalità di misurazione, perché esso è sempre o maggiore, o minore121. Idiota. Quello che dici del tuo volto è vero; avendo una determinata dimensione ed appartenendo alla natura di ciò che ammette il più e il meno, esso non può essere la precisione e non può quindi neppure essere la misura adeguata di qualcos’altro122. In questo mondo, nel quale non c’è alcuna precisione, una misura adeguata e una somiglianza adeguata sono infatti impossibili. Le cose stanno diversamente se concepisci l’esemplare assoluto. Quest’ultimo, infatti, non è né grande, né piccolo. Il grande e il piccolo non possono in effetti essere delle proprietà che appartengono all’essenza dell’esemplare. Ad esempio, quando si dipinge una formica, quest’ultima non è meno esemplare di quanto lo sia una montagna che vogliamo dipingere, e viceversa. Per questo motivo, l’esemplare assoluto, che, essendo la precisione e la veri-
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nec magis nec minus recipit, cum sit praecisio et veritas, non potest esse nec maius nec minus exemplato. Id enim, quod non potest esse minus, minimum dicimus, et hoc est maxime parvum. Id, quod non potest esse maius, maximum dicimus, et hoc est maxime magnum. 41 Absolve igitur maximitatem a maxime parvo et maxime magno, ut ipsam maximitatem intuearis in se, non in parvo aut magno contractam, et videbis absolutam maximitatem sic ante magnum et parvum, ita quod non potest esse maior aut minor, sed est maximum, in quo coincidit minimum. Quare hoc tale maximum ut est absolutum exemplar non potest esse cuicumque dabili exemplato maius aut minus. Id autem, quod non est nec maius nec minus, vocamus aequale. Est igitur absolutum exemplar aequalitas, praecisio, mensura seu iustitia, quod idem est et veritas et bonitas, quae est perfectio omnium exemplabilium. 42 Orator: Adhuc me quaeso instrue, quomodo rectitudini absolutae conveniat infinitas. Idiota: Libenter. Tu nosti quod, quanto circulus aliquis fuerit maior, tanto et eius diameter maior. Orator: Fateor. Idiota: Et quamvis circulus, qui recipit magis et minus, non possit esse maximus simpliciter aut infinitus, concipiamus tamen circulum fore infinitum: nonne tunc eius diameter erit linea infinita? Orator: Necesse est. Idiota: Et circumferentia cum sit infinita, erit diameter. Duo enim infinita esse nequeunt, cum unumquodque per additamentum alterius posset esse maius. Et non posset esse curva ipsa circumferentia, nam impossibile foret eam nec maiorem nec minorem fore diametro, si foret curva, cum una sit omnium circulorum curvarum circumferentiarum habitudo diametri ad circumferentiam, quae est habitudo plus quam tripla. Si igitur circumferentia est ae-
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tà, non ammette nè il più né il meno, non può essere né maggiore, né minore rispetto all’immagine che lo esemplifica. Ciò che non può essere minore lo chiamiamo il minimo, e cioè il massimamente piccolo. Ciò che non può essere maggiore lo chiamiamo il massimo, e cioè il massimamente grande. Svincola pertanto la massimità da ciò che è massimamente grande e da ciò che è massimamente piccolo, in modo da poter cogliere la massimità in se stessa, non contratta nel piccolo o nel grande; in questo modo, vedrai la massimità assoluta anteriormente al grande e al piccolo, cosicché essa non può essere maggiore o minore, ma è il massimo, con il quale coincide il minimo123. Per questo, un tale massimo, in quanto esemplare assoluto, non può essere maggiore o minore di qualsiasi esemplificazione se ne possa dare. Ora, ciò che non è né maggiore, né minore, lo chiamiamo uguale124. L’esemplare assoluto, pertanto, è l’uguaglianza, la precisione, la misura o la giustizia, ed è anche, il che è la stessa cosa, la verità e la bontà, la quale è la perfezione di tutte le possibili immagini dell’esemplare. Oratore. Insegnami ancora, ti prego, in che modo alla rettitudine assoluta si addica l’infinità. Idiota. Volentieri. Sai che quanto più un cerchio è grande tanto più è grande il suo diametro. Oratore. Sì. Idiota. E sebbene il cerchio, che ammette il più e il meno, non possa essere il massimo in senso assoluto o infinito, facciamo tuttavia l’ipotesi che possa esservi un cerchio infinito: in questo caso, il suo diametro non sarà una linea infinita?125 Oratore. Necessariamente. Idiota. E la circonferenza, essendo infinita, sarà il diametro: non vi possono infatti essere due infiniti126, perché, altrimenti, ognuno dei due, aggiungendo l’altro, potrebbe essere maggiore. Inoltre, la stessa circonferenza non potrebbe essere una curva; infatti, se fosse una curva, sarebbe impossibile che essa non fosse nè maggiore, né minore del diametro, in quanto nelle circonferenze curve di tutti i cerchi c’è un unico rapporto del diametro con la circonferenza, e questo rapporto è più del triplo. Pertanto, se la cir-
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qualis diametro, erit ipsa diameter et linea recta. Ob hoc etiam vides, quomodo arcus circuli magni similior est rectae lineae quam arcus circuli parvi. Unde infiniti circuli circumferentia foret ex hoc recta, ex quo tibi constat curvitatem, quae recipit magis et minus, non reperiri in infinito, sed solam rectitudinem. 43 Orator: Valde placent quae dicis, quoniam faciliter me ad quaesitum elevant. Prosequere quaeso, quomodo rectitudo infinita sit exemplar. Idiota: Per te ipsum hoc clarissime conspicis, quod infinita rectitudo se habet ad omnia sicut infinita linea, si foret, ad figuras. Nam si infinita rectitudo, quae est necessario absoluta, ad lineam contracta reperitur necessario omnium figurabilium figurarum complicatio, praecisio, rectitudo, veritas, mensura et perfectio, tunc absoluta rectitudo absolute penitus et incontracte ad lineam aut aliud quodcumque considerata est similiter absolute omnium exemplar, praecisio, veritas, mensura et perfectio. Orator: Nihil dubii haec omnia habent. Solum ostende, quomodo infinita linea est omnium figurarum praecisio. Dixisti enim pridie circulum infinitum esse omnium figurarum exemplar, et non cepi. Hinc nunc de hoc volens clarius informari ad te accessi. Modo ais lineam infinitam esse praecisionem, quod minus capio. 44 Idiota: Audisti, quomodo linea infinita est circulus. Sic et triangulus, quadrangulus, pentagonus, sic omnes figurae infinitae cum linea infinita coincidunt. Hinc linea infinita est omnium figurarum exemplar, quae de lineis fieri possunt, quoniam infinita linea est actus infinitus seu forma omnium formabilium figurarum. Et quando ad triangulum respexeris et te ad infinitam lineam elevaveris, reperies ipsam huius trianguli adaequatissimum exemplar hoc modo: Considera triangulum infinitum. Hic triangulus infinitus non est nec maior nec minor designato, nam latera infiniti trian-
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conferenza è uguale al diametro, essa sarà il diametro e sarà una linea retta. Di conseguenza, vedi anche che l’arco di un cerchio grande è più simile alla linea retta di quanto lo sia l’arco di un cerchio piccolo. La circonferenza di un cerchio infinito sarebbe quindi una retta. Da ciò può risultarti evidente che, nell’infinito, non può esserci la curvità, che ammette il più e il meno, ma può esserci solo la rettitudine127. Oratore. Mi piacciono molto le cose che dici, perché mi elevano facilmente verso l’oggetto della nostra ricerca. Ti prego di proseguire e di spiegarmi in che modo la rettitudine infinita sia un esemplare. Idiota. Vedi da te stesso in maniera chiarissima che la rettitudine infinita si rapporta a tutte le cose come una linea infinita, se ci fosse, si rapporterebbe a tutte le figure. Infatti, se la rettitudine infinita, che è necessariamente assoluta, fosse contratta in una linea, essa sarebbe necessariamente la complicazione, la precisione, la rettitudine, la verità, la misura e la perfezione di tutte le figure che si possono raffigurare; allora, la rettitudine assoluta, considerata in maniera del tutto assoluta e non contratta in una linea o in qualsiasi altra cosa, è parimenti e in maniera assoluta l’esemplare, la precisione, la verità, la misura e la perfezione di tutte le cose. Oratore. Su tutto questo non c’è nessun dubbio. Mostrami soltanto in che modo la linea infinita sia la precisione di tutte le figure. L’altro giorno, infatti, hai detto che il cerchio infinito è l’esemplare di tutte le figure, ed io non l’ho capito128. Ed è per questo che sono venuto oggi da te, perché volevo avere delle informazioni più chiare su questo punto. Ma ora dici che la linea infinita è la precisione [di tutte le figure], e questo lo capisco ancora meno. Idiota. Hai ascoltato come un cerchio sia una linea infinita. Allo stesso modo, anche un triangolo, un quadrato, un pentagono e tutte le figure infinite coincidono con la linea infinita129. È per questo che la linea infinita è l’esemplare di tutte le figure geometriche che si possono costruire con le linee. E se prendi in considerazione un triangolo [finito] e ti elevi alla linea infinita, scoprirai che essa è l’esemplare assolutamente più adeguato di questo triangolo. Procedi in questo modo: considera un triangolo infinito130. Questo triangolo infinito non è né maggiore, né minore del triangolo [fi-
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guli sunt infinita. Latus autem infinitum cum sit maximum, in quo coincidit minimum, non est nec maius nec minus lateri signato. Sic infiniti trianguli latera non sunt nec maiora nec minora lateribus dati trianguli; sic nec totus triangulus nec maior nec minor signato. Quare infinitus triangulus est praecisio et forma absoluta finiti. Sed tria latera infiniti trianguli necessario forent linea una infinita, cum non possint esse plures lineae infinitae. Sic eveniret lineam infinitam fore praecisissimum exemplar dati trigoni. Et sicut de trigono dixi, ita pariformiter de omnibus figuris. 45 Orator: O miranda facilitas difficilium! Video nunc positionem infinitatis lineae omnia ista clarissime sequi, scilicet ipsam fore exemplar, praecisionem, rectitudinem, veritatem, mensuram seu iustitiam, bonitatem seu perfectionem omnium figurabilium figurarum per lineam. Et conspicio in simplicitate rectitudinis eius omnia figurabilia esse complicite, verissime et formalissime atque praecisissime, sine omni confusione, sine omni defectu in infinitum perfectius quam figurari possint. 46 Idiota: Benedictus deus, qui me imperitissimo homine tamquam qualicumque instrumento usus est, ut tibi oculos mentis aperiret ad intuendum ipsum mira facilitate modo, quo ipse se tibi visibilem praestitit. Nam quando te de rectitudine ad lineam contracta transfers ad absolutam infinitam rectitudinem, tunc in ipsa rectitudine intueberis omne formabile complicari et omnium rerum species, sicut de figuris praemisi, et quomodo ipsa rectitudo est exemplar, praecisio, veritas, mensura seu iustitia, bonitas seu perfectio omnium, quae sunt aut esse possunt, et actualitas praecisa et inconfusa omnium exsistentium et fieri possibilium, ita quod ad quamcumque speciem aut exsistens oculos convertis, si men-
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nito] disegnato, in quanto i lati del triangolo infinito sono infiniti. Ma il lato infinito, essendo il massimo con il quale coincide il minimo, non è né maggiore, né minore del lato disegnato. Così, i lati del triangolo infinito non sono né maggiori, né minori dei lati del triangolo dato; allo stesso modo, neppure l’intero triangolo è maggiore o minore del triangolo disegnato. Pertanto, un triangolo infinito è la precisione assoluta e la forma assoluta di un triangolo finito. Ora, i tre lati del triangolo infinito sarebbero necessariamente un’unica linea infinita, dal momento che non possono esserci più linee infinite. Risulterebbe così che la linea infinita sarebbe l’esemplare precisissimo del triangolo dato. E ciò che ho detto del triangolo lo si deve dire parimenti di tutte le figure geometriche. Oratore. O meravigliosa facilità delle cose difficili!131 Ora vedo che, dal fatto che abbiamo supposto l’esistenza di una linea infinita, consegue, nel modo più chiaro, tutto ciò che abbiamo detto, ossia che tale linea sarebbe l’esemplare, la precisione, la rettitudine, la verità, la misura o la giustizia, la bontà o la perfezione di tutte le figure che si possono tracciare mediante una linea. E mi accorgo che, nella semplicità della sua rettitudine, sono contenute, nel modo della complicazione, tutte le possibili figure e vi sono contenute nella maniera più vera, più formale e più precisa, senza alcuna confusione, senza alcun difetto, in un modo infinitamente più perfetto rispetto a come le si possa raffigurare. Idiota. Sia benedetto Dio, che si è servito di me, il più ignorante degli uomini, come di un mero strumento, perché egli potesse aprirti gli occhi della mente132 e tu potessi coglierlo intuitivamente con quella straordinaria facilità con la quale egli stesso ti si è reso visibile. Infatti, se volgi la tua attenzione dalla rettitudine contratta in una linea alla rettitudine assoluta ed infinita133, allora intuirai che, nella rettitudine infinita, è complicato tutto ciò che può ricevere una forma e sono complicate le specie di tutte le cose, così come abbiamo già detto in precedenza a proposito delle figure geometriche. E intuirai che la rettitudine infinita è l’esemplare, la precisione, la verità, la misura o la giustizia, la bontà o la perfezione di tutte le cose che sono o che possono essere, ed è l’attualità precisa e non confusa di tutte le cose che esistono e che possono essere fatte134. Così, a qualunque specie o cosa esistente tu rivolgi i tuoi
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tem ad infinitam rectitudinem elevaveris, reperies ipsam praecisissimam eius veritatem exemplarem neque deficientem. Ut cum videas hominem, qui est rectus et verus homo, quod non est aliud nisi quod rectitudo, veritas, mensura et perfectio sic contracta et terminata est homo, et rectitudinem eius, quae est finita, consideraveris et elevaveris te ad infinitam rectitudinem, statim intueberis, quomodo rectitudo absoluta et infinita non potest esse nec maior nec minor rectitudine illa ad hominem contracta, qua homo est rectus et verus homo, sed est praecisio eius verissima, iustissima et optima. Ita veritas infinita finitae veritatis est praecisio et absolute infinitum omnis finiti praecisio, mensura, veritas et perfectio. Quare sicut de homine dictum est, ita de omnibus concipe. 47 Sic nunc habes id, quod in aeterna sapientia contemplari conceditur, ut intuearis omnia in simplicissima rectitudine verissime, praecisissime, inconfuse et perfectissime, licet medio aenigmatico, sine quo in hoc mundo dei visio esse nequit, quousque concesserit deus, ut absque aenigmate nobis visibilis reddatur. Et haec est facilitas difficilium sapientiae, quam pro tua ferventia et devotione deus in dies tibi et mihi clariorem quaeso faciat, quousque nos in gloriosam fruitionem veritatis transferat aeternaliter remansuros. Amen.
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occhi, se eleverai la tua mente fino alla rettitudine infinita, scoprirai che essa ne è il vero esemplare, assolutamente preciso e indefettibile. Così, ad esempio, se vedi un uomo che è retto e vero, e questo non significa altro se non che la rettitudine, la verità, la misura e la perfezione contratte e delimitate in quel modo sono l’uomo, e se, dopo aver considerato la sua rettitudine, che è finita, ti sarai elevato alla rettitudine infinita, allora intuirai subito che la rettitudine assoluta e infinita non può essere né più grande, né più piccola di quella rettitudine che è contratta nell’uomo e per la quale l’uomo è retto e vero, ma ne è la precisione assolutamente vera, giusta e ottima. Allo stesso modo, la verità infinita è la precisione della verità finita e ciò che è in senso assoluto infinito è la precisione, la misura, la verità e la perfezione di tutto ciò che è finito135. Per tale motivo, quello che abbiamo detto a proposito dell’uomo lo devi concepire per tutte le cose. In questo modo, ora possiedi ciò che ci è concesso di contemplare nella sapienza eterna, in modo tale che tu possa cogliere intuitivamente tutte le cose nella rettitudine semplicissima, e possa farlo nella maniera più vera, precisa e senza confusione, anche se per mezzo di un’immagine enigmatica, senza la quale non può esservi alcuna visione di Dio in questo mondo, fino a che Dio non ci conceda di rendersi visibile senza enigmi136. E questa è la facilità delle cose difficili della sapienza, e prego Dio che, per il tuo fervore e la tua devozione137, la renda ogni giorno più chiara a te e a me, fino a che egli ci conduca a fruire138 della verità nella gloria, dove resteremo per sempre. Così sia.
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CAPITULUM I
Quomodo philosophus ad idiotam, ut proficeret de mentis natura, accessit; quomodo mens sit per se mens, ex officio anima, et dicta sit a mensurando. Multis ob iubilaeum Romam mira devotione accurrentibus auditum est philosophum omnium, qui nunc vitam agunt, praecipuum in ponte reperiri, transeuntes admirari. Quem orator quidam sciendi avidissimus sollicite quaerens ac ex faciei pallore, toga talari et ceteris cogitabundi viri gravitatem praesignantibus cognoscens blande salutans inquirit, quae eum causa eo loci fixum teneat. Philosophus: Admiratio, inquit. Orator: Admiratio stimulus videtur esse omnium quamcumque rem scire quaerentium. Hinc opinor, cum praecipuus habearis inter doctos, maximam eam esse admirationem, quae te adeo sollicitum teneat. Philosophus: Bene ais, amice. Nam cum ex universis paene climatibus magna cum pressura innumerabiles populos transire conspiciam, admiror omnium fidem unam in tanta corporum diversitate. Cum enim nullus alteri similis esse possit, una tamen omnium fides est, quae eos tanta devotione de finibus orbis advexit. 52 Orator: Certe dei donum esse necesse est idiotas clarius fide attingere quam philosophos ratione. Nam tu nosti, quanta inquisi-
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CAPITOLO I
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Come un filosofo si sia rivolto ad un idiota per conoscere meglio la natura della mente. Come la mente è mente se la si considera per se stessa, è anima se la si considera in riferimento alla sua funzio-ne, e come venga chiamata «mente» dal «misurare». In occasione del giubileo, quando molte persone accorrevano a roma con una straordinaria devozione, si sparse la voce che un fi-losofo, il più celebre tra tutti coloro che vivono oggi, si trovasse su un ponte ad osservare i passanti1. Un oratore, assai avido di sapere, che lo stava cercando con sollecitudine, avendolo riconosciuto dal pallore del viso, dalla lunga veste che scendeva fino alle caviglie e da tutte le altre caratteristiche che indicano la dignità di un uomo dedito al pensiero, lo salutò cortesemente e gli chiese che cosa lo te-nesse immobile in quel luogo. filoSofo. Lo stupore2. oratore. Lo stupore sembra essere uno stimolo per tutti colo-ro che cercano di conoscere qualcosa. Per questo, dato che tu hai fama di essere il più eminente tra i dotti, suppongo che lo stupo-re, che ti trattiene qui con così tanta attenzione, sia davvero mol-to grande. filoSofo. Dici bene, amico! Infatti, vedendo passare, accalcate le une alle altre3, masse innumerevoli di persone che provengono da quasi tutte le regioni del mondo, resto meravigliato dal fatto che tutti abbiano un’unica fede, che è presente in una così grande diversità di individui. Sebbene nessuno, infatti, possa essere simi-le a un altro, la fede di tutti questi individui è tuttavia una sola, ed è essa che, con così profonda devozione, li ha condotti qui sin dai confini della terra. oratore. Certamente, il fatto che gli idioti con la fede attin-gano la verità più chiaramente di quanto facciano i filosofi con la
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tione opus habet mentis immortalitatem ratione pertractans, quam tamen nemo ex his omnibus sola fide pro indubitata non habet, cum omnium cura et labor ad hoc tendat, ut animae post mortem nullo peccato obtenebratae in lucidam atque desideratissimam vitam rapiantur. Philosophus: Magnam rem et veram narras, amice. Ego enim omni tempore mundum peragrando sapientes adii, ut de mentis immortalitate certior fierem, cum apud Delphos praecepta sit cognitio, ut ipsa se mens cognoscat coniunctamque cum divina mente se sentiat; sed hactenus nondum quaesitum adeo perfecte ac lucida ratione attigi quemadmodum hic ignorans populus fide. 53 Orator: Si fas est, dicito: Quid te impulit Romam advenire, qui Peripateticus videris? An putas aliquem, a quo proficias, reperire? Philosophus: Audiveram ex templo Menti per T. Attilium Crassum in Capitolio dedicato multas sapientum de mente scripturas hoc loco reperiri. Adveni fortassis frustra, nisi tu, qui mihi bonus civis et sciens videris, auxilium praestes. Orator: Templum Menti dedicasse Crassum illum certum est. Sed an de mente in eo templo libri et qui fuerint, nemo post tot Romanas clades scire poterit. Verum ne doleas frustra advenisse, hominem idiotam meo iudicio admirandum, de qua re volueris, audies. Philosophus: Oro quantocius hoc fieri. 54 Orator: Sequere.
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ragione, dev’essere un dono di Dio. Tu sai, infatti, di quanta fatica e ricerca abbia bisogno chi esamina con la ragione la questione dell’immortalità della mente, mentre non c’è nessuna fra tutte queste persone che, in virtù della sola fede, non ritenga indubitabile che la mente sia immortale, dal momento che tutte le loro preoccupazioni e tutti i loro sforzi sono rivolti a fare in modo che le loro anime, dopo la morte, senza essere ottenebrate dal peccato, vengano condotte a quella vita luminosa che esse hanno tanto a lungo desiderato. Filosofo. Fai un’osservazione importante e vera, amico. Infatti, nel corso dei viaggi che faccio di continuo per il mondo ho consultato uomini sapienti per acquisire delle informazioni più certe sull’immortalità della mente4, dal momento che a Delfi la conoscenza ci è stata prescritta affinché la mente possa conoscere se stessa5 e possa così rendersi conto di essere congiunta con la mente divina; fino ad ora, tuttavia, non ho ancora trovato ciò di cui sono andato alla ricerca in maniera così perfetta e razionalmente evidente come l’ha trovato questo popolo ignorante con la fede. Oratore. Se mi è lecito chiedertelo, dimmi: che cosa ti ha spinto a venire a Roma, tu che sembri essere un peripatetico? Ti aspetti forse di trovare qualcuno dal quale trarre qualche giovamento? Filosofo. Avevo sentito dire che qui a Roma sono stati scoperti molti scritti sulla mente composti da uomini sapienti e provenienti dal tempio che, sul Campidoglio, Tullio Attilio Crasso aveva dedicato alla Mente6. Ma può darsi che io sia venuto inutilmente, a meno che tu, che mi sembri essere un buon cittadino e un uomo colto, non mi offra un aiuto. Oratore. Che quel Crasso abbia dedicato un tempio alla Mente, è certo. Ma se in quel tempio ci fossero dei libri che trattavano della mente e quali eventualmente essi fossero, nessuno, dopo tutte le devastazioni che ci sono state a Roma, potrebbe saperlo. Ma, per non farti rammaricare di essere venuto inutilmente, ti farò ascoltare, sull’argomento che vorrai, un idiota che è, a mio avviso, straordinario. Filosofo. Ti prego, ascoltiamolo quanto prima. Oratore. Seguimi.
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Et cum prope templum Aeternitatis in subterraneum quendam locellum descenderent, idiotam ex ligno coclear exprimentem alloquitur orator: Erubeo, idiota, inquit, te per hunc maximum philosophum his rusticis operibus implicatum reperiri; non putabit a te se theorias aliquas auditurum. Idiota: Ego in his exercitiis libenter versor, quae et mentem et corpus indesinenter pascunt. Credo, si hic, quem adducis, philosophus est, non me spernet, quia arti cocleariae operam do. Philosophus: Optime ais. Nam et Plato intercise pinxisse legitur, quod nequaquam fecisse creditur, nisi quia speculationi non adversabatur. Orator: Ob hoc fortassis erant Platoni de arte pingendi familiaria exempla, per quae res grandes faciles reddidit. 55 Idiota: Immo in hac mea arte id, quod volo, symbolice inquiro et mentem depasco, commuto coclearia et corpus reficio; ita quidem omnia mihi necessaria, quantum sufficit, attingo. Philosophus: Est mea consuetudo, cum hominem fama sapientem accedo, de his, quae me angunt, in primis sollicitum esse et scripturas in medium conferre et inquirere earundem intellectum. Sed cum tu sis idiota, ignoro, quomodo te ad dicendum excitem, ut, quam habeas de mente intelligentiam, experiar. Idiota: Arbitror neminem facilius me cogi posse, ut dicat quae sentit. Nam cum me ignorantem fatear idiotam, nihil respondere pertimesco. Litterati philosophi ac famam scientiae habentes merito cadere formidantes gravius deliberant. Tu igitur, quid a me velis, plane si dixeris, nude recipies.
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E dopo che furono entrati in una specie di piccolo locale sotterraneo, situato nei pressi del tempio dell’Eternità7, l’oratore si rivolse ad un idiota che stava intagliando un cucchiaio da un pezzo di legno8. «Mi vergogno, idiota – esclamò – che tu ti faccia trovare da questo grandissimo filosofo mentre sei impegnato in lavori così rozzi; egli riterrà di non poter ascoltare da te nessuna dottrina speculativa». Idiota. Io mi occupo volentieri di queste attività, che nutrono costantemente sia il corpo che la mente. Se costui che porti con te è un filosofo, credo che non mi disprezzerà solo perché mi dedico all’arte dei cucchiai. Filosofo. Hai perfettamente ragione. Infatti, si legge che anche Platone dipingesse di tanto in tanto, cosa che, c’è da credere, egli non avrebbe mai fatto se fosse stata nociva all’attività speculativa9. Oratore. È forse per questo motivo che a Platone erano familiari gli esempi tratti dall’arte della pittura, mediante i quali egli ha reso facili questioni complesse ed elevate. Idiota. Sì, ma non solo; nell’arte che esercito io conduco ricerche, in maniera simbolica10, sugli argomenti che voglio e nutro così la mia mente, vendo cucchiai e dò ristoro al mio corpo. In questo modo, ottengo in maniera sufficiente tutto ciò di cui ho bisogno. Filosofo. Quando incontro qualcuno che ha fama di essere sapiente, è mia abitudine occuparmi anzitutto delle questioni che mi assillano, far riferimento a degli scritti ed interrogarlo circa la loro interpretazione. Ma, dal momento che sei un idiota, non so come io possa sollecitarti ad esprimere la tua opinione, in modo da poter scoprire quale concezione tu abbia della mente. Idiota. Ritengo che non vi sia nessuno che possa essere costretto più facilmente di me a dire ciò che pensa. Infatti, dal momento che ammetto apertamente di essere un idiota ignorante, non ho alcun timore a rispondere. I filosofi letterati e quelli che sono rinomati per la loro scienza, avendo giustamente paura di sbagliare, [prima di rispondere] riflettono con più ponderazione. Pertanto, se mi dici chiaramente che cosa desideri da me, riceverai una risposta schietta.
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Paucis exprimere nequeo. Si placet, consedentes passim loquamur. Idiota: Placet, inquam. Et positis in trigono scabellis ipsisque tribus ex ordine locatis Orator aiebat: Vides, philosophe, viri huius simplicitatem, qui nihil horum in usu habet, quae ad recipiendum tanti ponderis virum decentia petit. Fac in his experimentum, quae magis, ut aiebas, te angunt. Nihil enim de his, quae sciverit, te latebit. Experieris, puto, te non vacue adductum. Philosophus: Adhuc omnia placent. Ad rem descendam. Tu interim taciturnus sis quaeso, nec te prolixior turbet collocutio. Orator: Experieris me continuationis sollicitatorem potius quam fastidientem. 57 Philosophus: Dic igitur, idiota – ita tu tibi nomen esse ais –, si quam de mente habes coniecturam. Idiota: Puto neminem esse aut fuisse hominem perfectum, qui non de mente aliqualem saltem fecerit conceptum. Habeo quidem et ego: mentem esse, ex qua omnium rerum terminus et mensura. Mentem quidem a mensurando dici conicio. Philosophus: Putasne aliud mentem, aliud animam? Idiota: Puto certe. Nam alia est mens in se subsistens, alia in corpore. Mens in se subsistens aut infinita est aut infiniti imago. Harum autem, quae sunt infiniti imago, cum non sint maximae et absolutae seu infinitae in se subsistentes, posse aliquas animare humanum corpus admitto, atque tunc ex officio easdem animas esse concedo. Philosophus: Concedis igitur eandem esse mentem et hominis animam: mentem per se, animam ex officio?
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Filosofo. Non sono in grado di spiegarmi con poche parole. Se ti va, sediamoci e parliamo distesamente. Idiota. D’accordo. E dopo che erano stati disposti gli sgabelli a triangolo e tutti e tre si erano seduti in ordine, prese la parola l’oratore. Oratore. Vedi, filosofo, la semplicità di quest’uomo, che non ha alcuna consuetudine con quanto le convenienze in genere richiedono per accogliere un uomo del tuo rango. Mettilo alla prova su quelle questioni che, come hai detto, ti assillano di più. Egli non ti nasconderà nulla di ciò che sa, e scoprirai, credo, di non essere stato condotto qui inutilmente. Filosofo. Finora sono pienamente soddisfatto. Ma veniamo al dunque. Nel frattempo, tu resta in silenzio, per favore, e non annoiarti se la nostra conversazione si protrarrà un po’ a lungo. Oratore. Vedrai che, più che essere infastidito dalla vostra conversazione, vi solleciterò io stesso a proseguirla. Filosofo. Dunque, idiota – tu stesso affermi che questo è il tuo nome – dimmi se possiedi una qualche tua congettura sulla mente. Idiota. Io credo che non c’è, né c’è mai stato nessun uomo maturo11 che non si sia fatto almeno una qualche idea della mente. Anch’io ovviamente ne possiedo una, ed è questa: la mente è ciò da cui derivano il limite e la misura di tutte le cose. Io congetturo, in effetti, che il termine «mente» derivi da «misurare»12. Filosofo. Non credi che la mente sia qualcosa di diverso dall’anima? Idiota. Certo, lo credo. Infatti, una cosa è la mente così come essa sussiste in se stessa, un’altra cosa è la mente così come essa sussiste nel corpo. La mente che sussiste in se stessa o è infinita, o è un’immagine dell’infinito. Tuttavia, tra le menti che sono un’immagine dell’infinito, dato che non sono massime o assolute, ossia non sono infinite e non sussistono in se stesse, ammetto che alcune possano animare un corpo umano, ed in questo senso convengo che, in considerazione della loro funzione, le si possa chiamare «anime»13. Filosofo. Ammetti, quindi, che la mente e l’anima dell’uomo sono la medesima realtà, la quale è per se stessa mente ed è anima per la sua funzione?
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Idiota: Concedo, uti una est vis sensitiva et visiva oculi in animali. 58
CAPITULUM II
Quomodo est vocabulum naturale et aliud impositum secundum illud citra praecisionem; et quomodo est principium simplex, quod est ars artium; et quomodo complicatur ars aeterna philosophorum. Philosophus: Aiebas mentem a mensurando dici. Hanc partem neminem legi tenuisse inter varias verbi derivationes. Primum oro, ut causam dicti aperias. Idiota: Si de vi vocabuli diligentius scrutandum est, arbitror vim illam, quae in nobis est, omnium rerum exemplaria notionaliter complicantem, quam mentem appello, nequaquam proprie nominari. Quemadmodum enim ratio humana quiditatem operum dei non attingit, sic nec vocabulum. Sunt enim vocabula motu rationis imposita. Nominamus enim unam rem vocabulo uno et per certam rationem et eandem alio per aliam, et una lingua habet propriora, alia prietas vocabulorum recipiat magis et minus, vocabulum praecisum ignorari. 59 Philosophus: Ad alta properas, idiota! Nam secundum illa, quae dicere videris, ob hoc vocabula sunt minus propria, quia ad placitum opinaris instituta, prout cuique imponenti ex rationis motu occurrebat. Idiota: Volo, ut me profundius intelligas. Nam etsi fatear omne vocabulum eo ipso unitum, quo forma materiae advenit, et verum
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Idiota. Lo ammetto, così come nell’animale la facoltà sensitiva e la facoltà visiva dell’anima sono un’unica facoltà. CAPITOLO II
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Come vi sia un nome naturale e un altro che viene attribuito alle cose in conformità con il primo, senza tuttavia raggiungere la precisione. Come vi sia un principio semplice, che è l’arte delle arti, e come in esso sia complicata l’arte eterna dei filosofi. Filosofo. Hai detto che il termine «mente» deriva da «misurare». Tra le diverse etimologie del termine «mente», non ho mai letto nessuno che abbia sostenuto quella che tu proponi. In primo luogo, ti prego di chiarire il motivo della tua affermazione. Idiota. Se dobbiamo indagare in modo più accurato la questione relativa al significato dei nomi, allora ritengo che quella facoltà che è presente in noi e che complica concettualmente gli esemplari di tutte le cose e che io chiamo mente14, non possa mai essere designata con un nome appropriato. Come la ragione umana, infatti, non giunge a cogliere la quiddità delle opere di Dio, così non vi giunge neppure un nome. I nomi, infatti, vengono attribuiti alle cose mediante un movimento della ragione15: per una certa ragione, infatti, designiamo una cosa con un nome, e per un’altra ragione designamo la medesima cosa con un altro nome. Inoltre, una lingua dispone di vocaboli più appropriati per descrivere una determinata cosa, un’altra ha vocaboli più rozzi e distanti da quella cosa. In questo modo, dal momento che l’appropriatezza dei vocaboli ammette il più e il meno, vedo che noi ignoriamo il nome preciso di una cosa16. Filosofo. Corri rapidamente verso cose elevate, idiota! Infatti, secondo quello che tu sembri dire, i nomi sono meno appropriati per il fatto che ritieni che essi siano stati istituiti arbitrariamente, a seconda di come a ciascuno sia capitato di attribuirli alle cose sulla base di un movimento della sua ragione. Idiota. Voglio che tu mi comprenda più a fondo. Io ammetto che ogni nome è unito ad una cosa proprio in virtù del fatto che la forma sopraggiunge alla materia; inoltre, è vero che è la forma a de-
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sit formam adducere vocabulum, ut sic vocabula sint non ex impositione, sed ab aeterno, et impositio sit libera, tamen non arbitror aliud quam congruum nomen imponi, licet illud non sit praecisum. Philosophus: Fac te quaeso planiorem, ut quod velis capiam. Idiota: Perlibenter. Et nunc me ad hanc artem cocleariam converto. Et primum volo scias me absque haesitatione asserere omnes humanas artes imagines quasdam esse infinitae et divinae artis. Nescio, si tibi id ipsum videatur. 60 Philosophus: Tu alta exigis, neque fas est ad illa passim respondere. Idiota: Miror, si umquam philosophum legeris, qui hoc ignoraverit, cum de se pateat. Manifestum est enim nullam humanam artem perfectionis praecisionem attigisse omnemque finitam esse et terminatam. Terminatur enim ars una in suis terminis, alia in aliis suis, et quaelibet est alia ab aliis, et nulla omnes complicat. Philosophus: Quid ex hoc inferes? Idiota: Artem omnem humanam finitam. Philosophus: Quis haesitat? Idiota: Impossibile est autem plura esse infinita realiter distincta. Philosophus: Et hoc ipsum fateor, quoniam alterum foret in altero finitum. 61 Idiota: Si igitur hoc sic est, nonne solum absolutum principium est infinitum, quia ante principium non est principium, ut de se patet, ne principium sit principiatum? Hinc aeternitas est ipsa sola infinitas seu principium absolutum. Philosophus: Admitto. Idiota: Est igitur sola et unica absoluta aeternitas ipsa infinitas, quae est sine principio. Quare omne finitum principiatum ab infinito principio. Philosophus: Negare nequeo.
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terminare il nome, per cui, in questo senso, i nomi non sorgono per il fatto che noi li attribuiamo alle cose, ma esistono dall’eternità, e noi siamo liberi di attribuirli alle cose17. Tuttavia, ritengo che qualsiasi nome venga attribuito a una cosa è un nome appropriato, per quanto non sia preciso. Filosofo. Esprimiti più chiaramente, ti prego, in modo che io possa capire che cosa intendi dire. Idiota. Volentieri. E ora mi rivolgo a questa arte di intagliare cucchiai. E anzitutto voglio che tu sappia che io sostengo senza alcun dubbio che tutte le arti sono delle immagini dell’infinita arte divina. Non so se tu sei della stessa opinione. Filosofo. Mi poni questioni profonde, alle quali non è possibile rispondere senza rifletterci. Idiota. Mi stupirei se tu avessi mai letto di un filosofo che abbia ignorato questa cosa, dal momento che è evidente di per sé. Infatti, è chiaro che nessuna arte umana ha mai raggiunto la perfetta precisione e che ogni arte umana è finita e limitata. Un’arte, infatti, è limitata nei propri limiti, un’altra in altri che sono ad essa propri, e ciascuna è diversa dalle altre, e nessuna le complica tutte. Filosofo. Quale conclusione trai da questo? Idiota. Che ogni arte umana è finita. Filosofo. Chi ne dubita? Idiota. Ora, è impossibile che esistano più infiniti che siano realmente distinti18. Filosofo. Questo lo ammetto anche io, perché, altrimenti, l’uno troverebbe il suo limite nell’altro. Idiota. Se le cose stanno così, non è allora forse vero che solo il principio assoluto è infinito, dal momento che, com’è da sé evidente, prima del principio non c’è alcun principio, per cui il principio non può derivare da un altro principio? Di conseguenza, l’eternità è la sola medesima infinità, ovvero il principio assoluto19. Filosofo. Lo ammetto. Idiota. La sola e unica eternità assoluta è pertanto l’infinità stessa, che è senza principio. Di conseguenza, tutto ciò che è finito ha il suo principio nel principio infinito da cui deriva20. Filosofo. Non posso negarlo.
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Idiota: Omnis ergo ars finita ab arte infinita. Sicque necesse erit infinitam artem omnium artium exemplar esse, principium, medium, finem, metrum, mensuram, veritatem, praecisionem et perfectionem. 62 Philosophus: Prosequere ad quae properas, quia nemo his dissentire potest. Idiota: Applicabo igitur ex hac coclearia arte symbolica paradigmata, ut sensibiliora fiant quae dixero. Philosophus: Rogo sic agas. Video enim te viam tenere ad ea, ad quae anhelo. Idiota sumpto cocleari ad manum aiebat: Coclear extra mentis nostrae ideam aliud non habet exemplar. Nam etsi statuarius aut pictor trahat exemplaria a rebus, quas figurare satagit, non tamen ego, qui ex lignis coclearia et scutellas et ollas ex luto educo. Non enim in hoc imitor figuram cuiuscumque rei naturalis. Tales enim formae cocleares, scutellares et ollares sola humana arte perficiuntur. Unde ars mea est magis perfectoria quam imitatoria figurarum creatarum et in hoc infinitae arti similior. Philosophus: Placet id ipsum. 63 Idiota: Esto igitur, quod artem explicare et formam coclearitatis, per quam coclear constituitur, sensibilem facere velim. Quae cum in sua natura nullo sensu sit attingibilis, quia nec alba nec nigra aut alterius coloris vel vocis vel odoris vel gustus vel tactus, conabor tamen eam modo, quo fieri potest, sensibilem facere. Unde materiam, puta lignum, per instrumentorum meorum, quae applico, varium motum dolo et cavo, quousque in eo proportio debita oriatur, in qua forma coclearitatis convenienter resplendeat. Sic vides formam coclearitatis simplicem et insensibilem in figurali pro-
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Idiota. Di conseguenza, ogni arte finita deriva dall’arte infinita. Sarà quindi necessario che l’arte infinita sia l’esemplare di tutte le arti e che di tutte sia principio, mezzo, limite, metro, misura, verità, precisione e perfezione. Filosofo. Prosegui verso ciò a cui vuoi arrivare, perché sulle cose che hai fin qui detto nessuno può dissentire. Idiota. Trarrò allora da questa arte di intagliare cucchiai degli esempi simbolici, che impiegherò per rendere più chiaramente percettibile ciò che dirò. Filosofo. Procedi in questo modo, ti prego. Vedo infatti che hai imboccato la strada che conduce a ciò che io desidero conoscere. Preso in mano un cucchiaio, l’idiota disse: «Un cucchiaio non ha altro esemplare tranne l’idea che se ne forma la nostra mente. In effetti, mentre uno scultore o un pittore traggono i loro esemplari dalle cose che cercano di rappresentare, non è quello che faccio io, che ricavo cucchiai dal legno e scodelle e tegami dalla creta. Nel fare questo, infatti, io non imito la figura di nessun oggetto naturale. Forme come quelle dei cucchiai, dei tegami e delle scodelle vengono infatti realizzate solamente dall’arte umana. La mia arte, pertanto, consiste nel realizzare più che nell’imitare figure create, ed in questo è più simile all’arte infinita»21. Filosofo. Sono d’accordo anche su questo. Idiota. Supponiamo, dunque, che io voglia sviluppare la mia arte e rendere percepibile sensibilmente la forma-cucchiaio, grazie alla quale un cucchiaio viene costituito come cucchiaio. Sebbene, infatti, la forma-cucchiaio, considerata nella sua natura, non la si possa cogliere con nessuno dei sensi, dal momento che essa non è né bianca, né nera o di una altro colore, e non ha né un suono, né un odore, né un gusto, né qualità accessibili al tatto, cercherò, tuttavia, per quanto possibile, di fare in modo che essa possa essere percepita sensibilmente. Prendo, quindi, una materia, ad esempio un pezzo di legno, e, attraverso diversi movimenti degli strumenti che io adopero, lo incido e lo scavo fino a che non sorga nel legno la proporzione dovuta, nella quale risplende convenientemente la forma-cucchiaio22. In questo modo, vedi che, nella figura ben pro-
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portione huius ligni quasi in imagine eius resplendere. Unde veritas et praecisio coclearitatis, quae est immultiplicabilis et incommunicabilis, nequaquam potest per quaecumque etiam instrumenta et quemcumque hominem perfecte sensibilis fieri, et in omnibus coclearibus non nisi ipsa simplicissima forma varie relucet, magis in uno et minus in alio et in nullo praecise. 64 Et quamvis lignum recipiat nomen ab adventu formae, ut orta proportione, in qua coclearitas resplendet, ‘coclear’ nominetur, ut sic nomen sit formae unitum, tamen impositio nominis fit ad beneplacitum, cum aliud imponi posset. Sic etsi ad beneplacitum, tamen non aliud et penitus diversum a naturali nomine formae unito; sed vocabulum naturale post formae adventum in omnibus variis nominibus per quascumque nationes varie impositis relucet. Impositio igitur vocabuli fit motu rationis. Nam motus rationis est circa res, quae sub sensu cadunt, quarum discretionem, concordantiam et differentiam ratio facit, ut nihil sit in ratione, quod prius non fuit in sensu. Sic igitur vocabula imponit et movetur ratio ad dandum hoc nomen uni et aliud alteri rei. Verum cum non reperiatur forma in sua veritate in his, circa quae ratio versatur, hinc ratio in coniectura et opinione occumbit. 65 Unde genera et species, ut sub vocabulo cadunt, sunt entia rationis, quae sibi ratio fecit ex concordantia et differentia sensibilium. Quare, cum sint posterius natura rebus sensibilibus, quarum sunt similitudines, tunc sensibilibus destructis remanere nequeunt. Quicumque igitur putat nihil in intellectu cadere posse, quod non
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porzionata che ha assunto questo pezzo di legno, risplende, quasi come in una sua immagine, la forma-cucchiaio, che è semplice e che non può essere percepita con i sensi. Per questo, la vera natura e la precisione della forma-cucchiaio, che non può essere né moltiplicata, né comunicata, non può mai essere resa percepibile sensibilmente in modo compiuto mediante nessuno strumento e da nessun uomo. E in tutti i cucchiai non risplende se non la forma stessa assolutamente semplice, la quale risplende in modo diverso nei diversi cucchiai, più in uno e meno in un altro, ma in nessuno in modo preciso. Ora, il legno riceve un nome dalla forma che si aggiunge ad esso, per cui, sorta la proporzione nella quale risplende la formacucchiaio, il legno viene designato con il nome di «cucchiaio», cosicché il nome risulta in questo modo unito alla forma 23. Nonostante questo, l’attribuzione del nome, tuttavia, viene fatta arbitrariamente, in quanto si potrebbe attribuire anche un altro nome. Ma per quanto l’attribuzione possa essere fatta arbitrariamente, il nome che viene attribuito non è tuttavia qualcosa di altro o di completamente diverso dal nome naturale che è unito alla forma; piuttosto, con il sopraggiungere della forma, il nome naturale risplende in tutti i diversi nomi che vengono attribuiti in modi diversi dai diversi popoli. L’attribuzione di un nome avviene dunque per un movimento della ragione24. Il movimento della ragione, infatti, concerne le cose che cadono sotto i sensi e che la ragione distingue, accorda e differenzia, in modo tale che nella ragione non c’è nulla che non sia stato prima nei sensi 25. È in questo modo, dunque, che la ragione attribuisce i nomi alle cose ed è mossa a dare questo nome ad una cosa e quest’altro ad un’altra. Tuttavia, dal momento che nelle cose di cui si occupa la ragione la forma non è presente nella sua vera natura, la ragione è costretta a ricorrere alla congettura e all’opinione26. Pertanto, i generi e le specie, in quanto cadono sotto un nome, sono degli enti di ragione che la ragione si è formata sulla base della concordanza e della differenza delle cose sensibili 27. Essendo pertanto posteriori alle cose sensibili, di cui sono immagini, questi enti di ragione non possono sussistere se vengono eliminate le cose sensibili. Di conseguenza, chiunque ritiene che non c’è nulla che
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cadat in ratione, ille etiam putat nihil posse esse in intellectu, quod prius non fuit in sensu. Et hic necessario dicere habet rem nihil esse nisi ut sub vocabulo cadit, et huius studium est in omni inquisitione quid nominis profundare. Et haec inquisitio grata est homini, quia motu rationis discurrit. Hic negaret formas in se et in sua veritate separatas esse aliter quam ut sunt entia rationis, et exemplaria ac ideas nihili faceret. Qui vero in mentis intelligentia aliquid esse admittunt, quod non fuit in sensu nec in ratione, puta exemplarem et incommunicabilem veritatem formarum, quae in sensibilibus relucent, hi dicunt exemplaria natura praecedere sensibilia sicut veritas imaginem. 66 Et ordinem dant talem, ut primo ordine naturae sit humanitas in se et ex se, scilicet absque praeiacenti materia, deinde homo per humanitatem, et quod ibi cadat sub vocabulo, deinde species in ratione. Unde destructis omnibus hominibus humanitas, ut est species, quae sub vocabulo cadit et est ens rationis, quod ratio venata est ex similitudine hominum, subsistere nequit, nam ab hominibus dependebat, qui non sunt. Sed propter hoc non desinit esse humanitas, per quam fuerunt homines, quae quidem humanitas non cadit sub vocabulo speciei, prout vocabula motu rationis sunt imposita, sed est veritas speciei illius sub vocabulo cadentis. Unde imagine destructa manet in se veritas. Et hi omnes negant rem non aliud esse quam ut cadit sub vocabulo. Eo enim modo, ut sub vocabulo cadit, de rebus fit logica et rationalis consideratio, quare
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possa cadere sotto l’intelletto che non cada anche sotto la ragione ritiene anche che nulla può essere nell’intelletto che non sia stato prima nei sensi. E una tale persona deve necessariamente dire che una cosa è nulla se non cade sotto un nome, per cui in ogni ricerca il suo sforzo consiste nell’approfondire il significato dei nomi. E per quest’uomo tale tipo di ricerca è piacevole, in quanto in essa egli procede discorsivamente, secondo il movimento che è proprio della ragione. Costui negherebbe che le forme, considerate in se stesse e nella loro vera natura, siano separate se non nel senso in cui lo sono gli enti di ragione, e non terrebbe in alcun conto di esemplari e di idee28. Coloro che invece ammettono che nell’intelligenza della mente c’è qualcosa che non è stato né nei sensi, né nella ragione, come, ad esempio, la verità esemplare e incomunicabile delle forme che risplendono nelle cose sensibili, costoro sostengono che gli esemplari precedono per natura le cose sensibili come la verità precede l’immagine29. Ed essi stabiliscono il seguente ordine: per prima, nell’ordine di natura, c’è l’umanità, considerata in se stessa e per se stessa, ossia separata da qualsiasi materia preesistente, poi, a partire dall’umanità, viene l’uomo e tutto ciò che rientra sotto questo nome, e poi viene la specie che è presente nella ragione. Di conseguenza, se venissero eliminati tutti gli uomini, non potrebbe sussistere neppure l’umanità, in quanto essa è una specie che cade sotto un nome ed è un ente di ragione che la ragione ha tratto dalla somiglianza tra gli uomini, per cui essa dipendeva dagli uomini, che ora non ci sono più. Non smetterebbe tuttavia per questo di esserci quell’umanità grazie alla quale essi furono degli uomini; intesa in questo secondo significato, l’umanità non cade sotto il nome impiegato per designare la specie, nel senso che i nomi vengo attribuiti da un movimento della ragione, mentre essa è la verità di quella specie che cade sotto il nome. Di conseguenza, una volta eliminata l’immagine, la verità [l’esemplare] continua ad esistere in se stessa. Inoltre, tutti costoro di cui stiamo parlando negano che la cosa non sia altro che ciò che cade sotto un nome. Nella misura in cui cade sotto un nome, una cosa viene in effetti fatta oggetto di una considerazione logica e razionale. È per questo che anche costo-
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illam logice inquirunt, profundant et laudant. Sed ibi non quiescunt, quia ratio seu logica circa imagines formarum tantum versatur, sed res ultra vim vocabuli theologice intueri conantur et ad exemplaria et ideas se convertunt. Arbitror non posse plures inquisitionum modos dari. Si tu, qui es philosophus, alias legisti, scire potes. Ego sic conicio. Philosophus: Mirabiliter omnes omnium tangis philosophorum sectas, Peripateticorum et Academicorum. 67 Idiota: Hae omnes et quotquot cogitari possent modorum differentiae facillime resolvuntur et concordantur, quando mens se ad infinitatem elevat. Nam sicut orator hic praesens tibi latius ex his, quae a me habet, explanabit, tunc infinita forma est solum una et simplicissima, quae in omnibus rebus resplendet tamquam omnium et singulorum formabilium adaequatissimum exemplar. Unde verissimum erit non esse multa separata exemplaria ac multas rerum ideas. Quam quidem infinitam formam nulla ratio attingere potest. Hinc per omnia vocabula rationis motu imposita ineffabilis non comprehenditur. Unde res, ut sub vocabulo cadit, imago est ineffabilis exempli sui proprii et adaequati. 68 Unum est igitur verbum ineffabile, quod est praecisum nomen omnium rerum, ut motu rationis sub vocabulo cadunt. Quod quidem ineffabile nomen in omnibus nominibus suo modo relucet, quia infinita nominabilitas omnium nominum et infinita vocabilitas omnium voce expressibilium, ut sic omne nomen sit imago praecisi nominis. Et nihil aliud omnes conati sunt dicere, licet forte id, quod dixerunt, melius et clarius dici posset. Omnes enim neces-
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ro indagano le cose da un punto di vista logico, si dedicano ad un tale tipo di indagine e la elogiano, ma non si fermano ad essa, in quanto la ragione e la logica si occupano solo delle immagini delle forme. Essi si sforzano piuttosto di cogliere le cose da un punto di vista teologico, andando oltre il significato dei nomi e volgono la loro attenzione agli esemplari e alle idee. Io ritengo che, oltre questi, non possano esserci altri modi di ricerca. Ma tu, che sei filosofo, se ne hai incontrati altri nelle tue letture, li puoi conoscere. Da parte mia, formulo delle congetture, nel modo che ho appena fatto. Filosofo. Hai trattato di tutte le correnti filosofiche, quella dei Peripatetici e quella degli Accademici. Idiota. Tutte queste differenze presenti nei diversi modi di condurre la ricerca, e tutte quelle che si potrebbero concepire oltre a queste, si risolvono molto facilmente e giungono a concordare quando la mente si eleva all’infinito30. Infatti, come l’oratore che è qui presente ti spiegherà più diffusamente sulla base delle cose che ha ascoltato da me, c’è solamente un’unica Forma infinita31, assolutamente semplice, la quale risplende in tutte le cose come l’esemplare adeguatissimo di tutte le cose che possono ricevere una forma e di ciascuna di esse, considerata singolarmente. È pertanto assolutamente vero che non c’è una molteplicità di esemplari separati e una molteplicità di idee delle cose32. Tuttavia, nessuna ragione può raggiungere questa Forma infinita. Di conseguenza, essendo ineffabile, essa non viene compresa attraverso nessuno dei nomi che vengono attribuiti mediante il movimento della ragione. Pertanto, in quanto una cosa cade sotto un nome, essa è un’immagine dell’esemplare ineffabile che le è proprio e adeguato. Vi è pertanto un’unica Parola [Verbo] ineffabile, che è il nome preciso di tutte quelle cose che, in virtù del movimento della ragione, cadono sotto un nome. E questo nome ineffabile risplende a suo modo in tutti i nomi, in quanto esso è la nominabilità infinita di tutti i nomi ed è l’esprimibilità infinita di tutto ciò che può essere espresso con il linguaggio, in modo tale che ogni nome è per questo un’immagine del nome preciso33. E tutti i filosofi non si sono sforzati di dire nient’altro che questo, anche se quello che essi hanno detto poteva forse essere detto meglio e in modo più chiaro. Tutti,
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sario concordarunt unam esse infinitam virtutem, quam deum dicimus, in qua necessario omnia complicantur. Neque ille aliud dicere voluit, qui aiebat humanitatem, ut non cadit sub vocabulo, esse praecisionem veritatis, quam ineffabilem illam infinitam formam. Quam, dum ad humanam formam respicimus, eius praecisum exemplar nominamus, ut sic ineffabilis, dum ad eius imagines intuemur, omnium nominibus nominetur et unum simplicissimum exemplar secundum exemplatorum specificas differentias per rationem nostram formatas plura esse exemplaria videatur. 69
CAPITULUM III
Quomodo intelligantur et concordentur philosophi; et de nomine dei et praecisione; ac quomodo uno praeciso nomine cognito omnia cognoscuntur; et de sufficientia scibilium; et quomodo differunt conceptus dei et noster. Philosophus: Mirabiliter Trismegisti dictum dilucidasti, qui aiebat deum omnium rerum nominibus ac omnes res dei nomine nominari. Idiota: Complica nominari et nominare in coincidentiam altissimo intellectu, et omnia patebunt. Nam deus est cuiuscumque rei praecisio. Unde si de una re praecisa scientia haberetur, omnium rerum scientia necessario haberetur. Sic si praecisum nomen unius rei sciretur, tunc et omnium rerum nomina scirentur, quia praecisio citra deum non est. Hinc qui praecisionem unam attingeret, deum attingeret, qui est veritas omnium scibilium. 70 Orator: Declara quaeso de praecisione nominis. Idiota: Tu nosti, orator, quomodo nos exserimus ex vi mentis mathematicales figuras. Unde dum triangularitatem visibilem face-
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infatti, sono stati necessariamente concordi nel sostenere l’esistenza di un’unica potenza infinita, che noi chiamiamo Dio, nella quale sono necessariamente complicate tutte le cose. Ed anche colui che affermava che l’umanità, in quanto non cade sotto un nome [proprio], è la precisione della verità, non ha voluto parlare di altro che di quella Forma infinita e ineffabile. E quando la consideriamo in rapporto alla forma umana, allora chiamiamo questa Forma infinita «l’esemplare preciso della forma umana», in modo tale che la Forma ineffabile, quando guardiamo alle sue immagini, può essere nominata con i nomi di tutte le cose, e l’esemplare unico, che è perfettamente semplice, sembra essere una molteplicità di esemplari a seconda delle differenze specifiche degli esemplati formulate dalla nostra ragione. CAPITOLO III
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Come debbano venire intesi i filosofi e come tra loro concordino. A proposito del nome di Dio e sulla precisione. Come, una volta conosciuto un nome preciso, vengano conosciuti tutti. Sul fatto che questo nome è sufficiente per conoscere. In che modo differiscano il concetto di Dio e il nostro. Filosofo. Hai illustrato in modo splendido il detto di Trismegisto, il quale diceva che Dio viene nominato con i nomi di tutte le cose e tutte le cose con il nome di Dio34. Idiota. Con un atto altissimo dell’intelletto complica, nella loro coincidenza, il nominare e l’essere nominato, e tutto ti risulterà chiaro. Dio, infatti, è la precisione di qualsiasi cosa35. Per questo, se si avesse la conoscenza precisa di una sola cosa, si avrebbe necessariamente la conoscenza di tutte le cose36. Allo stesso modo, se si conoscesse il nome preciso di una cosa, si conoscerebbero allora anche i nomi di tutte le cose, perché non c’è precisione se non in Dio. Chi, pertanto, raggiungesse anche una sola precisione, raggiungerebbe Dio, che è la verità di tutto ciò che è conoscibile. Oratore. Spiega, ti prego, che cos’è la precisione del nome. I diota. Tu sai, oratore, che noi traiamo le figure matematiche dalla forza della mente37. Se, quindi, voglio rendere visibile
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re voluero, figuram facio, in qua tres angulos constituo, ut tunc in figura sic habituata et proportionata triangularitas reluceat, cum qua unitum est vocabulum, quod ponatur esse ‘trigonus’. Dico igitur: Si ‘trigonus’ est praecisum vocabulum figurae triangularis, tunc scio praecisa vocabula omnium polygoniarum. Scio enim tunc, quod figurae quadrangularis vocabulum esse debet ‘tetragonus’ et quinquangularis ‘pentagonus’ et ita deinceps. Et ex notitia nominis unius cognosco figuram nominatam et omnes nominabiles polygonias et differentias et concordantias earundem et quidquid circa hoc sciri potest. Pariformiter aio, quod, si scirem praecisum nomen unius operis dei, omnia nomina omnium dei operum et quidquid sciri posset non ignorarem. Et cum verbum dei sit praecisio omnis nominis nominabilis, solum in verbo omnia et quodlibet sciri posse constat. Orator: Palpabiliter more tuo explanasti. 71 Philosophus: Miram doctrinam tradidisti, idiota, omnes philosophos concordandi. Nam dum adverto, non possum nisi tecum consentire non voluisse omnes philosophos aliud dicere quam id ipsum, quod dixisti per hoc, quod nemo omnium negare potuit deum infinitum, in quo solo dicto omnia, quae dixisti, complicantur. Mirabilis est haec sufficientia omnium scibilium et quomodocumque tradi possibilium. Amplius ad mentis tractatum descende et dicito: Esto, quod «mens» a «mensura» dicatur, ut ratio mensurationis sit causa nominis: quid mentem esse velis? 72 Idiota: Scis, quomodo simplicitas divina omnium rerum est complicativa. Mens est huius complicantis simplicitatis imago. Unde si hanc divinam simplicitatem infinitam mentem vocitaveris, erit ipsa nostrae mentis exemplar. Si mentem divinam universitatem veritatis rerum dixeris, nostram dices universitatem assimila-
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la triangolarità, costruisco una figura nella quale pongo tre angoli, in modo tale che nella figura così disposta e proporzionata risplenda la triangolarità, alla quale viene unito un nome, ad esempio «triangolo». Ciò che io dico, dunque, è questo: se «triangolo» è il nome preciso della figura triangolare, allora conosco i nomi precisi di tutti i poligoni. In questo caso, infatti, so che il nome di una figura quadrangolare deve essere «tetragono», e quello di una figura con cinque angoli «pentagono», e così di seguito. E, a partire dalla conoscenza di un unico nome, conosco la figura nominata e tutti i poligoni nominabili, le loro differenze e concordanze e tutto ciò che si può sapere su questo argomento. Allo stesso modo, sostengo che, se conoscessi il nome preciso di una sola opera di Dio, non potrei ignorare i nomi di tutte le opere di Dio e tutto ciò che si potrebbe sapere di esse. E poiché la Parola [Verbo] di Dio è la precisione di tutti i nomi nominabili, è certo che solo nella Parola [Verbo] si possono conoscere tutte le cose e ciascuna di esse. Oratore. Hai dato una spiegazione concreta, com’è tua abitudine. Filosofo. Ci hai esposto, caro idiota, una dottrina straordinaria, che può mettere d’accordo tutti i filosofi 38. Infatti, quando vi rifletto, non posso che convenire con te sul fatto che i filosofi non hanno voluto dire niente di diverso da quello che hai appena detto tu, in quanto nessuno di essi ha potuto negare che Dio sia infinito, e in questa sola affermazione è già complicato tutto quello che hai detto. È straordinario che basti sapere questo per avere una conoscenza di tutto ciò che è conoscibile e di tutto ciò che è in qualche modo insegnabile. Soffermati ora più diffusamente ad esaminare la questione della mente, e dimmi: ammesso che il termine «mente» derivi da «misura», in modo tale che il motivo di questo nome risieda nella nozione di misurazione, che cosa intendi tu per mente? Idiota. Sai che la semplicità divina complica tutte le cose39. La mente è l’immagine di questa semplicità che complica tutto. Se, pertanto, chiamerai questa semplicità divina «mente infinita», questa mente sarà l’esemplare della nostra mente. Se dirai che la mente divina è la «totalità unitaria della verità delle cose», allora
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tionis rerum, ut sit notionum universitas. Conceptio divinae mentis est rerum productio; conceptio nostrae mentis est rerum notio. Si mens divina est absoluta entitas, tunc eius conceptio est entium creatio, et nostrae mentis conceptio est entium assimilatio. Quae enim divinae menti ut infinitae conveniunt veritati, nostrae conveniunt menti ut propinquae eius imagini. Si omnia sunt in mente divina ut in sua praecisa et propria veritate, omnia sunt in mente nostra ut in imagine seu similitudine propriae veritatis, hoc est notionaliter; similitudine enim fit cognitio. 73 Omnia in deo sunt, sed ibi rerum exemplaria; omnia in nostra mente, sed ibi rerum similitudines. Sicut deus est entitas absoluta, quae est omnium entium complicatio, sic mens nostra est illius entitatis infinitae imago, quae est omnium imaginum complicatio, quasi ignoti regis prima imago est omnium aliarum secundum ipsam depingibilium exemplar. Nam dei notitia seu facies non nisi in natura mentali, cuius veritas est obiectum, descendit, et non ulterius nisi per mentem, ut mens sit imago dei et omnium dei imaginum post ipsum exemplar. Unde quantum omnes res post simplicem mentem de mente participant, tantum et de dei imagine, ut mens sit per se dei imago et omnia post mentem non nisi per mentem.
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dirai che la nostra mente è la «totalità unitaria dell’assimilazione delle cose», nel senso che essa è la totalità unitaria delle nozioni delle cose40. Il concepire della mente divina dà luogo alla produzione delle cose, il concepire della nostra mente dà luogo alla nozione delle cose. Se la mente divina è l’entità assoluta, il suo concepire è un creare gli enti, mentre il concepire della nostra mente è un’assimilazione degli enti41. Ciò che si addice alla mente divina in quanto verità infinita, si addice alla nostra mente in quanto immagine più prossima della mente divina42. Se tutte le cose sono presenti nella mente divina come nella loro precisa e propria verità, tutte le cose sono allora presenti nella nostra mente come nell’immagine o nella somiglianza della loro propria verità, ossia sono presenti concettualmente; la conoscenza, infatti, si realizza attraverso la somiglianza43. Tutte le cose sono presenti in Dio, ma lì vi sono in quanto esemplari delle cose, tutte le cose sono presenti nella nostra mente, ma qui vi sono in quanto immagini delle cose. Come Dio è l’entità assoluta, che complica in sé tutti gli enti, così la nostra mente è un’immagine dell’entità assoluta che complica in sé tutte le [altre] immagini44, come se la prima immagine45 di un re ignoto fosse l’esemplare di tutte le altre immagini che possono essere dipinte in base ad essa. Infatti, la conoscenza di Dio, o il suo volto, non discende se non in una natura dotata di mente, la quale ha come oggetto la verità, mentre più in basso discende solo attraverso la mente, in modo tale che la mente è sia un’immagine di Dio, sia un esemplare per tutte le immagini di Dio che sono ad essa successive. Di conseguenza, quanto più tutte le cose che sono successive alla mente semplice partecipano della mente, tanto più partecipano anche dell’immagine di Dio, in modo tale che la mente è di per sé immagine di Dio, mentre tutto ciò che è successivo alla mente lo è solo attraverso la mente.
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Quomodo mens nostra non est explicatio, sed imago complicationis aeternae, sed quae post mentem sunt, non sunt imago; et quomodo est sine notionibus, habens tamen iudicium concreatum; et cur est corpus sibi necessarium. Philosophus: Videris ex multa mentis tuae plenitudine dicere velle mentem infinitam esse vim formativam absolutam, sic mentem finitam vim conformativam seu configurativam. Idiota: Volo quidem hoc modo. Nam quod dicendum est, convenienter exprimi nequit. Hinc multiplicatio sermonum perutilis est. Attende aliam esse imaginem, aliam explicationem. Nam aequalitas est unitatis imago. Ex unitate enim semel oritur aequalitas, unde unitatis imago est aequalitas. Et non est aequalitas unitatis explicatio, sed pluralitas. Complicationis igitur unitatis aequalitas est imago, non explicatio. Sic volo mentem esse imaginem divinae mentis simplicissimam inter omnes imagines divinae complicationis. Et ita mens est imago complicationis divinae prima omnes imagines complicationis sua simplicitate et virtute complicantis. Sicut enim deus est complicationum complicatio, sic mens, quae est dei imago, est imago complicationis complicationum. Post imagines sunt pluralitates rerum divinam complicationem explicantes, sicut numerus est explicativus unitatis et motus quietis et tempus aeternitatis et compositio simplicitatis et tempus praesentiae et magnitudo puncti et inaequalitas aequalitatis et diversitas identitatis et ita de singulis. 75 Ex hoc elice admirandam mentis nostrae virtutem. Nam in vi eius complicatur vis assimilativa complicationis puncti, per quam in se reperit potentiam, qua se omni magnitudini assimilat. Sic
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Come la nostra mente non sia l’esplicazione, ma l’immagine della complicazione eterna, mentre le cose, che vengono dopo la mente, non sono un’immagine. Come la mente sia priva di nozioni innate, ma possieda una facoltà di giudizio innata. Perché un corpo è necessario per una mente. Filosofo. Quello che mi sembra tu voglia dire, traendolo dalla grande ricchezza della tua mente, è che la mente infinita è la forza formatrice assoluta, e che, in modo analogo, la mente finita è una forza conformatrice e configuratrice46. Idiota. È questo che voglio dire, ma nel modo seguente. Ciò che dev’essere detto, infatti, non può mai essere espresso in maniera adeguata, per cui è molto utile moltiplicare i discorsi. Presta attenzione al fatto che una cosa è un’immagine, altra cosa è un’esplicazione47. Ad esempio, l’uguaglianza è l’immagine dell’unità; l’uguaglianza, infatti, nasce dall’unità presa una volta sola. L’uguaglianza, pertanto, è l’immagine dell’unità, mentre l’esplicazione dell’unità non è l’uguaglianza, bensì la pluralità. L’uguaglianza, quindi, è un’immagine della complicazione dell’unità, non una esplicazione. In modo simile, intendo dire che, tra tutte le immagini della complicazione divina, la mente è l’immagine più semplice della complicazione divina. E così, la mente è la prima immagine della complicazione divina, la quale complica, nella sua semplicità e nella sua forza, tutte le immagini della complicazione48. Come Dio, infatti, è la complicazione delle complicazioni, così la mente, che è un’immagine di Dio, è un’immagine della complicazione delle complicazioni49. Dopo queste immagini [le menti], viene la pluralità delle cose, che esplicano la complicazione divina, così come il numero esplica l’unità, il movimento la quiete, il tempo l’eternità, la composizione la semplicità, il tempo il presente, la grandezza il punto, la disuguaglianza l’uguaglianza, la diversità l’identità50, e così via. Da ciò puoi capire la straordinaria forza della nostra mente. Nella sua forza, infatti, è complicata la forza assimilativa della complicazione del punto, grazie alla quale la mente scopre in se stessa una potenza che le consente di assimilarsi ad ogni grandez-
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etiam ob vim assimilativam complicationis unitatis habet potentiam, qua se potest omni multitudini assimilare, et ita per vim assimilativam complicationis nunc seu praesentiae omni tempori et quietis omni motui et simplicitatis omni compositioni et identitatis omni diversitati et aequalitatis omni inaequalitati et nexus omni disiunctioni. Et per imaginem absolutae complicationis, quae est mens infinita, vim habet, qua se potest assimilare omni explicationi. Et talia multa per te vides dici posse, quae mens nostra habet, quia est imago infinitae simplicitatis omnia complicantis. 76 Philosophus: Videtur, quod sola mens sit dei imago. Idiota: Proprie ita est, quoniam omnia, quae post mentem sunt, non sunt dei imago nisi inquantum in ipsis mens ipsa relucet, sicut plus relucet in perfectis animalibus quam imperfectis et plus in sensibilibus quam vegetabilibus et plus in vegetabilibus quam mineralibus. Unde creaturae mente carentes sunt potius divinae simplicitatis explicationes quam imagines, licet secundum relucentiam mentalis imaginis in explicando de imagine varie participent. 77 Philosophus: Aiebat Aristoteles menti seu animae nostrae nullam notionem fore concreatam, quia eam tabulae rasae assimilavit. Plato vero aiebat notiones sibi concreatas, sed ob corporis molem animam oblitam. Quid tu in hoc verum censes? Idiota: Indubie mens nostra in hoc corpus a deo posita est ad sui profectum. Oportet igitur ipsam a deo habere omne id, sine quo profectum acquirere nequit. Non est igitur credendum animae
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za. E così, sempre in virtù della forza assimilativa della complicazione dell’unità, la mente possiede anche il potere con cui può assimilarsi ad ogni molteplicità; allo stesso modo, grazie alla forza assimilativa della complicazione dell’istante e del presente, ha il potere con cui può assimilarsi ad ogni tempo, grazie alla forza complicativa della quiete ad ogni movimento51, grazie alla forza complicativa della semplicità ad ogni composizione, grazie alla forza complicativa dell’identità ad ogni diversità, grazie alla forza complicativa dell’uguaglianza ad ogni disuguaglianza e grazie alla forza complicativa del nesso a tutto ciò che è separato. E grazie al fatto di essere l’immagine della complicazione assoluta, che è la mente infinita, la nostra mente possiede la forza con cui può assimilarsi a ogni esplicazione52. E vedi da te che possiamo nominare molte altre proprietà simili a queste che la mente possiede per il fatto di essere è un’immagine della semplicità infinita che complica tutte le cose. Filosofo. Sembra che soltanto la mente sia un’immagine di Dio. Idiota. Parlando in senso proprio è così, perché tutte le cose che vengono dopo la mente non sono un’immagine di Dio se non in quanto in esse risplende la mente stessa; ed essa risplende di più negli animali più evoluti che in quelli meno evoluti, di più negli esseri dotati dei sensi che nei vegetali, e di più nei vegetali che nei minerali. Di conseguenza, le creature che sono prive della mente sono delle esplicazioni della semplicità divina, più che delle immagini, sebbene anche esse partecipino, in modo rispettivamente differente, dell’immagine, a seconda di come l’immagine della mente risplende nella loro esplicazione. Filosofo. Aristotele sosteneva che la nostra mente o la nostra anima non ha alcuna nozione innata, in quanto egli assimilava la mente ad una «tavola rasa»53. Platone, al contrario, sosteneva che l’anima ha delle nozioni innate, ma che essa le ha dimenticate a causa della pesantezza del corpo54. Su questo punto, quale delle due posizioni tu consideri vera?55 Idiota. Indubbiamente, Dio ha posto la mente in questo corpo perché essa potesse fare dei progressi56. È necessario, pertanto, che la mente abbia da Dio tutto ciò senza cui essa non è in grado di progredire57. Non bisogna quindi credere che le anime abbiano posse-
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fuisse notiones concreatas, quas in corpore perdidit, sed quia opus habet corpore, ut vis concreata ad actum pergat. Sicuti vis visiva animae non potest in operationem suam, ut actu videat, nisi excitetur ab obiecto, et non potest excitari nisi per obstaculum specierum multiplicatarum per medium organi et sic opus habet oculo, sic vis mentis, quae est vis comprehensiva rerum et notionalis, non potest in suas operationes, nisi excitetur a sensibilibus, et non potest excitari nisi mediantibus phantasmatibus sensibilibus. Opus ergo habet corpore organico, tali scilicet, sine quo excitatio fieri non posset. In hoc igitur Aristoteles videtur bene opinari animae non esse notiones ab initio concreatas, quas incorporando perdiderit. Verum quoniam non potest proficere, si omni caret iudicio, sicut surdus numquam proficeret, ut fieret citharoedus, postquam nullum de harmonia apud se iudicium haberet, per quod iudicare posset an profecerit, quare mens nostra habet sibi concreatum iudicium, sine quo proficere nequiret. Haec vis iudiciaria est menti naturaliter concreata, per quam iudicat per se de rationibus, an sint debiles, fortes aut concludentes. Quam vim si Plato notionem nominavit concreatam, non penitus erravit. 78 Philosophus: O quam clara est tua traditio, cui quisque audiens cogitur assentire! Indubie haec sunt diligenter attendenda. Nam clare experimur spiritum in mente nostra loquentem et iudicantem hoc bonum, hoc iustum, hoc verum, et nos reprehendentem, si declinamus a iusto. Quam loquelam et quod iudicium nequaquam didicit, sed sibi connatum est.
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duto delle nozioni innate che hanno poi dimenticato nel corpo, ma piuttosto che l’anima ha bisogno del corpo affinché la facoltà che è in lei innata passi all’atto58. Accade come con la facoltà visiva dell’anima: questa non può svolgere la sua funzione di vedere in atto se non riceve uno stimolo da un oggetto, e non può ricevere questo stimolo se non dall’ostacolo che incontra nelle forme [dell’oggetto] che le vengono trasmesse, in maniera moltiplicata, attraverso la mediazione dell’organo, per cui essa ha bisogno dell’occhio59. In modo simile, la facoltà della mente, che è una facoltà concettuale volta alla comprensione delle cose, non può svolgere le sue operazioni se non riceve uno stimolo dalle cose sensibili60, e non può ricevere questo stimolo senza la mediazione delle immagini sensibili che le vengono trasmesse dalla fantasia61. La mente, pertanto, ha bisogno di un corpo dotato di organi, tale, cioè, che, senza di esso, la recezione degli stimoli sensibili sarebbe impossibile. In questo senso, sembra che Aristotele abbia avuto ragione nel ritenere che le anime non abbiano mai avuto originariamente delle nozioni innate, che avrebbero poi dimenticato una volta entrate nel corpo. Ma, dal momento che la mente non può fare alcun progresso [nella conoscenza] se è priva di una facoltà di giudizio, così come un uomo sordo non riuscirebbe mai a fare dei progressi fino a diventare un citaredo62, in quanto non avrebbe in sé nessuna facoltà con cui giudicare l’armonia e che gli consenta di valutare i propri progressi, per questo motivo la nostra mente possiede una facoltà di giudizio innata, senza la quale essa non riuscirebbe affatto a progredire. La mente ha, per natura, questa facoltà innata di giudizio, che le consente di giudicare da se stessa se i suoi ragionamenti sono deboli, forti o concludenti. Se con «nozioni innate» Platone ha inteso questa facoltà, allora non ha del tutto sbagliato63. Filosofo. Quanto è chiara la tua esposizione! Chiunque la ascolti è costretto ad assentire. Senza dubbio, dobbiamo prestare una grande attenzione a queste cose; noi, infatti, sappiamo per esperienza ed in modo chiaro che nella nostra mente c’è uno spirito che parla e giudica che questo è buono, questo è giusto, questo è vero, e che ci rimprovera se ci allontaniamo dal giusto. Si tratta di un linguaggio e di un giudizio che la mente non ha mai appreso, ma che è piuttosto qualcosa di innato in lei64.
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Idiota: Experimur ex hoc mentem esse vim illam, quae licet careat omni notionali forma, potest tamen excitata se ipsam omni formae assimilare et omnium rerum notiones facere, similis quodammodo sano visui in tenebris, qui numquam fuit in luce; hic caret omni notione actuali visibilium, sed dum in lucem venit et excitatur, se assimilat visibili, ut notionem faciat. 79 Orator: Aiebat Plato tunc ab intellectu iudicium requiri, quando sensus contraria simul ministrat. Idiota: Subtiliter dixit. Nam cum tactus simul durum et molle seu grave et leve confuse offerat, contrarium in contrario, recurritur ad intellectum, ut de quiditate utriusque, si confuse sentitum plura discreta sint, iudicet. Sic cum visus magnum et parvum confuse praesentat, nonne opus est iudicio discretivo intellectus, quid magnum quidve parvum? Ubi vero sensus per se sufficeret, ad iudicium intellectus minime recurreretur, ut in visione digiti contrarium non habentis, quod simul accedat. 80
CAPITULUM V
Quomodo mens est viva substantia et in corpore creata et de modo quomodo; et an ratio sit in brutis; et quo-modo mens viva descriptio aeternae sapientiae. Philosophus: Omnes paene Peripatetici aiunt intellectum, quem tu mentem dicere videris, fore potentiam quandam animae et intelligere accidens, tu vero aliter. Idiota: Mens est viva substantia, quam in nobis interne loqui et iudicare experimur et quae omni vi alia ex omnibus viribus spi-
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Idiota. Impariamo in questo modo per esperienza che la nostra mente è quella forza che, malgrado sia priva di ogni forma concettuale, quando viene stimolata può tuttavia assimilarsi ad ogni forma e produrre i concetti di tutte le cose. La situazione della mente è in un certo senso simile a quella di una vista sana che si trovi al buio e che non sia mai stata alla luce: essa è priva di ogni nozione in atto delle cose visibili, ma, non appena viene condotta alla luce e ne riceve lo stimolo, essa si assimila a ciò che è visibile in modo da averne una nozione. Oratore. Platone diceva che si richiede un giudizio da parte dell’intelletto quando i sensi trasmettono contemporaneamente dei dati contrari65. Idiota. Platone ha fatto un’osservazione acuta. Infatti, quando il tatto ci presenta, in maniera confusa, qualcosa come ad un tempo dura e molle, pesante e leggera, e quindi un contrario insieme ad un altro, allora si ricorre all’intelletto perché giudichi l’essenza dei due contrari e stabilisca se ciò che è stato percepito in maniera confusa sia costituito da più cose distinte66. Allo stesso modo, quando la vista presenta, in maniera confusa, qualcosa come grande e piccolo, non bisogna forse ricorrere al giudizio dell’intelletto che distingue ciò che è grande e ciò che è piccolo? Dove invece i sensi fossero per se stessi sufficienti, non si ricorrerebbe affatto al giudizio dell’intelletto, come quando vediamo un dito che non ha delle proprietà contrarie che si presentino contemporaneamente. CAPITOLO V
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Come la mente sia una sostanza viva e creata in un corpo. In che modo essa sia presente nel corpo, e se anche nei bruti vi sia la ragione. Come la mente sia una trascrizione vivente della sapienza eterna. Filosofo. Quasi tutti i Peripatetici dicono che l’intelletto, che tu sembri chiamare mente, è una determinata facoltà dell’anima67 e che l’atto intellettivo è un [suo] accidente. Tu invece sostieni qualcosa di diverso. Idiota. La mente è una sostanza viva68, la quale, come sappiamo per esperienza, parla e giudica dentro di noi, e tra tutte le fa-
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ritualibus, quas in nobis experimur, infinitae substantiae et absolutae formae plus assimilatur. Cuius officium in hoc corpore est corpus vivificare, et ex hoc «anima» dicitur. Unde mens est forma substantialis sive vis in se omnia suo modo complicans, vim animativam, per quam corpus animat vivificando vita vegetativa et sensitiva, et vim ratiocinativam et intellectualem et intellectibilem complicans. 81 Philosophus: Visne mentem, quam et animam fateris intellectivam, ante corpus fuisse, prout Pythagoras et Platonici, et postea incorporatam? Idiota: Natura, non tempore. Nam, ut audisti, eam visui in tenebris comparavi. Visus autem nequaquam actu fuit ante oculum nisi natura tantum. Unde quia mens est quoddam divinum semen sua vi complicans omnium rerum exemplaria notionaliter, tunc a deo, a quo hanc vim habet, eo ipso, quod esse recepit, est simul et in convenienti terra locatum, ubi fructum facere possit et ex se rerum universitatem notionaliter explicare; alioquin haec vis seminalis frustra data sibi foret, si non fuisset sibi addita opportunitas in actum prorumpendi. 82 Philosophus: Ponderose loqueris. Sed quomodo hoc in nobis factum sit, audire summopere cupio. Idiota: Divini modi sunt praecisione inattingibiles; coniecturas tamen de ipsis facimus, alius obscuriores, alius clariores. Ego autem arbitror hanc similitudinem, quam dicam, tibi sufficere. Nosti enim visum de sua propria natura non discernere, sed in globo quodam et confuse sentire obstaculum, quod sibi obviat intra sphaeram motus sui, scilicet oculum, quod quidem obstaculum generatur ex multiplicatione specierum obiecti in oculum. Unde si adest visio in oculo sine discretione, ut in infantibus, ubi deest usus
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coltà spirituali di cui facciamo in noi esperienza essa è quella che più di ogni altra è simile alla sostanza infinita e alla forma assoluta. La sua funzione in questo corpo è quella di rendere il corpo vivo, e a motivo di questa sua funzione si chiama «anima»69. La mente, pertanto, è una forma sostanziale o una forza che complica tutto in se stessa a suo modo: complica in se stessa la facoltà animativa, attraverso la quale anima il corpo vivificandolo di una vita vegetativa e sensitiva, come pure la facoltà razionale, la facoltà intellettiva e quella intelligibile70. Filosofo. Credi che la mente, che tu riconosci essere anche un’anima intellettiva, sia esistita prima del corpo, come hanno detto Pitagora e i Platonici, e che essa sia entrata in un corpo successivamente?71 Idiota. Sì, secondo natura, non secondo il tempo72. Infatti, come hai sentito, ho paragonato la mente alla vista che si trova al buio; ora, la vista non è mai stata in atto prima dell’occhio, se non soltanto per natura. Per questo, dal momento che la mente è una specie di seme divino, che, nella sua forza, complica concettualmente gli esemplari di tutte le cose73, Dio, dal quale essa ha ricevuto questa forza nel momento stesso in cui ha ricevuto da Lui l’essere, l’ha collocata in un terreno adatto, dove essa possa dar frutto e possa esplicare da se stessa, in maniera concettuale, l’insieme di tutte le cose; altrimenti, questa forza seminale sarebbe stata donata invano alla mente, se ad essa non fosse stata offerta in aggiunta anche l’opportunità di passare all’atto. Filosofo. Stai dicendo cose dense di contenuto. Ma ciò che desidero soprattutto ascoltare è in che modo questo sia avvenuto in noi. Idiota. I modi dell’agire divino non possono essere compresi con precisione74; tuttavia, possiamo formulare su di essi delle congetture, alcune più oscure, altre più chiare. Da parte mia, credo che la similitudine che ora ti esporrò potrà esserti sufficiente. Sai che la vista, per sua propria natura, non è in grado di discernere, ma percepisce, in maniera confusa e, per così dire, globale, un ostacolo che le si fa incontro nella sfera della sua operazione, cioè nell’occhio; ostacolo che sorge dal moltiplicarsi delle specie dell’oggetto nell’occhio. Se un occhio, pertanto, vede senza discernere,
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discretionis, tunc ita advenit mens animae sensibili sicut discretio visui, per quam discernit inter colores. Et sicut haec discretio visiva in brutis perfectis animalibus ut canibus suum dominum visu discernentibus reperitur et a deo data est visui tamquam perfectio et forma visus, sic naturae humanae ultra discretionem illam, quae in brutis reperitur, data est altior vis se habens ad discretionem animalem sicut illa ad vim sensibilem, ut mens sit forma discretionis animalis et eius perfectio. 83 Philosophus: Optime et pulchre. Sed videris ad opinionem sapientis Philonis accedere, qui animalibus rationem inesse dicebat. Idiota: Experimur discretivum discursum in brutis, sine quo eorum natura bene subsistere non posset. Unde discursus eorum quia caret forma, scilicet intellectu seu mente, est confusus; caret enim iudicio et scientia. Et quia omnis discretio ex ratione est, hinc Philo non absurde sic dixisse videtur. 84 Philosophus: Declara quaeso, quomodo mens est forma rationis discurrentis. Idiota: Iam dixi, quod, sicut visus videt et nescit quid videat sine discretione, quae ipsum informat et dilucidat et perficit, sic ratio syllogizat et nescit quid syllogizet sine mente, sed mens informat, dilucidat et perficit ratiocinationem, ut sciat quid syllogizet. Ac si idiota vim vocabulorum ignorans librum aliquem legat, lectio ex vi rationis procedit. Legit enim discurrendo per differentias litterarum, quas componit et dividit, et hoc est opus rationis, sed ignorat quid legat. Et sit alius, qui legat et sciat et intelligat id quod legit. Haec est quaedam similitudo rationis confusae et ratio-
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come nel caso degli infanti ai quali manca l’uso del discernimento, allora, come nella vista interviene il discernimento, per mezzo del quale essa distingue i colori, così nell’anima sensitiva interviene la mente75. Ora, questa capacità di discernimento visivo la si trova negli animali più evoluti, come nei cani, i quali sono in grado di distinguere con la vista il loro padrone, ed è stata data da Dio alla vista come perfezionamento e forma della vista stessa. In modo simile, alla natura umana, oltre quella facoltà di discernimento che si trova negli animali, è stata data una facoltà più elevata, la quale sta alla facoltà di discernimento che è propria degli animali come quest’ultima sta alla facoltà sensitiva, cosicché la mente è la forma e la perfezione della facoltà di discernimento propria degli animali76. Filosofo. Una risposta eccellente e bella. Mi sembra, tuttavia, che ti accosti all’opinione del saggio Filone77, il quale sosteneva che gli animali sono dotati di ragione. Idiota. Sappiamo per esperienza che nei bruti c’è una capacità di discernere discorsivamente senza la quale la loro natura non potrebbe sussistere bene. Essendo, tuttavia, privo di forma, ossia di intelletto o di mente, il loro discernimento discorsivo è confuso. Esso, infatti, manca di giudizio e di conoscenza78. Dal momento, tuttavia, che ogni capacità di discernere proviene dalla ragione79, non sembra che Filone abbia sostenuto un’opinione assurda. Filosofo. Spiegami, ti prego, in che senso la mente è la forma della ragione discorsiva. Idiota. Ho già detto che, come la vista vede, ma, senza il discernimento che le dà forma, la rischiara e la perfeziona, non sa ciò che vede, così la ragione conduce le sue argomentazioni deduttive, ma, senza la mente, non sa che cosa argomenta80; è la mente che dà una forma, rischiara e perfeziona il ragionamento, in modo tale che la ragione sappia che cosa essa argomenta81. È come se un idiota, che non conosca il significato delle parole, leggesse un libro; la lettura procederebbe grazie alla forza della ragione. Egli legge, infatti, percorrendo le diverse lettere che egli compone e divide, e questa è un’attività propria della ragione, anche se egli ignora ciò che sta leggendo. Supponiamo, invece, che ci sia un’altra persona che legga e sappia ed intenda ciò che legge82. Ecco questo può essere un esempio per illustrare la differenza tra una ragione confusa e una
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nis formatae per mentem. Mens enim de rationibus iudicium habet discretivum, quae ratio bona, quae sophistica. Ita mens est forma discretiva rationum sicut ratio forma discretiva sensuum et imaginationum. 85 Philosophus: Unde habet mens iudicium illud, quoniam de omnibus iudicium facere videtur? Idiota: Habet ex eo, quia est imago exemplaris omnium. Deus enim est omnium exemplar. Unde cum omnium exemplar in mente ut veritas in imagine reluceat, in se habet ad quod respicit, secundum quod iudicium de exterioribus facit. Ac si lex scripta foret viva, illa, quia viva, in se iudicanda legeret. Unde mens est viva descriptio aeternae et infinitae sapientiae. Sed in nostris mentibus ab initio vita illa similis est dormienti, quousque admiratione, quae ex sensibilibus oritur, excitetur, ut moveatur. Tunc motu vitae suae intellectivae in se descriptum reperit, quod quaerit. Intelligas autem descriptionem hanc resplendentiam esse exemplaris omnium modo, quo in sua imagine veritas resplendet. Ac si acuties simplicissima et indivisibilis anguli lapidis diamantis politissimi, in qua omnium rerum formae resplenderent, viva foret, illa se intuendo omnium rerum similitudines reperiret, per quas de omnibus notiones facere posset. 86 Philosophus: Mirabiliter loqueris et delectabilissima profers. Multum exemplum acutiei diamantis placet. Nam quanto angulus ille fuerit acutior et simplicior, tanto clarius omnia in eo resplendent. Idiota: Qui vim specularem in se considerat, videt, quomodo est ante omnem quantitatem. Quod si illam vivam concipit vita in-
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ragione che ha ricevuto una forma dalla mente. La mente esercita un giudizio sulle conclusioni della ragione e discerne quale conclusione è buona e quale è sofistica. Così, la mente è la forma che discerne le conclusioni della ragione, come la ragione è la forma che discerne i dati delle percezioni sensibili e i contenuti della facoltà immaginativa. Filosofo. Da dove ha la mente questa capacità di giudicare, dal momento che sembra che essa eserciti un giudizio su tutte le cose?83 Idiota. Ce l’ha per il fatto che la mente è un’immagine dell’esemplare di tutte le cose. Dio, infatti, è l’esemplare di tutte le cose. Di conseguenza, dal momento che l’esemplare di tutte le cose risplende nella mente come la verità risplende nella sua immagine, la mente possiede in se stessa ciò a cui guarda e sulla cui base giudica gli oggetti esterni. È come se una legge scritta fosse viva: essendo viva, essa leggerebbe in se stessa i giudizi che deve formulare84. La nostra mente, pertanto, è una trascrizione viva della sapienza eterna e infinita. Nelle nostre menti, tuttavia, questa vita assomiglia all’inizio ad uno che dorme85, fino a che essa non viene stimolata e messa in movimento dallo stupore che nasce dalle cose sensibili. Da questo momento in poi, in virtù del movimento della sua vita intellettuale, la mente trova trascritto in se stessa ciò che essa cerca. Devi tuttavia intendere questa trascrizione come un riflesso dell’esemplare di tutte le cose86, così come la verità risplende nella propria immagine. È come se vi fosse una punta semplicissima e indivisibile di un angolo di un diamante levigatissimo ed in essa risplendessero le forme di tutte le cose87: se fosse viva, guardando dentro se stessa, quella punta troverebbe le immagini di tutte le cose, per mezzo delle quali potrebbe formarsi i concetti di tutte le cose. Filosofo. Parli in maniera straordinaria ed esponi cose molto piacevoli. Apprezzo molto l’esempio della punta di diamante, perché quanto più quell’angolo è acuto e semplice, tanto più chiaramente risplendono in esso tutte le cose. Idiota. Chi considera la forza riflettente in se stessa vede che essa è anteriore ad ogni quantità. Se egli poi concepisce questa forza come viva e dotata di una vita intellettuale nella quale risplen-
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tellectuali, in qua reluceat omnium exemplar, de mente admissibilem facit coniecturam. Philosophus: Vellem audire, an hanc artem tuam in mentis creatione paradigmatice posses applicare. Idiota: Possem etenim. Et pulchro quodam cocleari ad manum recepto aiebat: Volui facere coclear speculare. Quaesivi lignum valde unitum et nobile super omnia. Applicui instrumenta, quorum motu elicui convenientem proportionem, in qua forma coclearis perfecte resplenderet. Post haec perpolivi coclearis superficiem adeo, quod induxi in resplendentiam formae coclearis formam specularem, ut vides. Nam cum sit perpulchrum coclear, est tamen cum hoc coclear speculare. 87 Habes enim in eo omnia genera speculorum, scilicet concavum, convexum, rectum et columnare: in base manubrii rectum, in manubrio columnare, in concavitate coclearis concavum, in convexitate convexum. Unde forma specularis non habuit temporale esse ante coclear, sed ad perfectionem coclearis addita est per me formae primae coclearis, ut eam perficeret, ut nunc forma specularis in se contineat formam coclearis. Et forma specularis est independens a cocleari. Non est enim de essentia speculi, quod sit coclear. Quare si rumperentur proportiones, sine quibus forma coclearis esse nequit, puta si manubrium separaretur, desineret esse coclear, sed ob hoc forma specularis non desineret esse. Ita quidem deus per motum caeli de apta materia proportionem eduxit, in qua resplenderet animalitas perfectiori modo, cui deinde addidit mentem quasi vivum speculum modo quo dixi.
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de l’esemplare di tutte le cose, allora si forma una congettura plausibile sulla mente. Filosofo. Mi piacerebbe ascoltare se puoi utilizzare questa tua arte come esempio per illustrare la creazione della mente. Idiota. Posso senz’altro. E, preso in mano un bel cucchiaio, l’idiota disse: «Ho voluto fare un cucchiaio che riflettesse come uno specchio; sono andato in cerca di un legno che fosse particolarmente compatto e che avesse una qualità superiore rispetto a tutti gli altri. Ho utilizzato i miei attrezzi e, mediante i loro movimenti88, ho ottenuto una proporzione appropriata in cui potesse risplendere perfettamente la forma89 del cucchiaio. Fatto questo, ho levigato la superficie del legno fino a far comparire nella forma risplendente del cucchiaio la forma riflettente di uno specchio, come vedi. Infatti, sebbene questo sia un cucchiaio molto bello, oltre a questo, tuttavia, è anche un cucchiaio che riflette come uno specchio. In questo cucchiaio, infatti, hai tutti i generi di specchio, ossia quello concavo, quello convesso, quello dritto e quello a colonna: quello dritto alla base del manico, quello a forma di colonna nel manico, quello concavo nella parte concava del cucchiaio e quello convesso nella parte convessa. La forma riflettente, pertanto, non è esistita nel tempo prima del cucchiaio, ma sono stato io che, per rendere il cucchiaio perfetto, l’ho aggiunta alla prima forma del cucchiaio perché la perfezionasse, in modo tale che ora la forma riflettente contiene in sé la forma del cucchiaio. Inoltre, la forma riflettente non dipende dal cucchiaio. All’essenza del riflettere, infatti, non appartiene il fatto di essere un cucchiaio. Per questo motivo, se si distruggessero le proporzioni, senza le quali non potrebbe esserci la forma del cucchiaio, se si togliesse, ad esempio, il manico, cesserebbe di esistere il cucchiaio, ma con ciò non cesserebbe di esistere la forma riflettente. Allo stesso modo, Dio, attraverso il moto dei cieli90, fece emergere, da una natura adatta, una proporzione in cui l’animalità potesse risplendere in un modo più perfetto. All’animalità egli aggiunse poi la mente, quasi come uno specchio vivente91, nel modo in cui ho spiegato.
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Quomodo symbolice loquendo sapientes numerum rerum exemplar dixerunt et de mirabili natura eius; et quomodo est a mente et essentiarum incorruptibilitate; et quomodo mens est harmonia, numerus se movens, compositio ex eodem et diverso. Philosophus: Apte applicasti. Et quando ‘unum’ dicis, intellectum aperis quomodo fit rerum productio ac quomodo proportio est locus orbis seu regio formae et locus proportionis materia. Et videris multum Pythagoricus, qui ex numero omnia esse asserunt. Idiota: Nescio, an Pythagoricus vel alius sim. Hoc scio, quod nullius auctoritas me ducit, etiamsi me movere tentet. Arbitror autem viros Pythagoricos, qui ut ais per numerum de omnibus philosophantur, graves et acutos. Non quod credam eos voluisse de numero loqui, prout est mathematicus et ex nostra mente procedit – nam illum non esse alicuius rei principium de se constat –, sed symbolice ac rationabiliter locuti sunt de numero, qui ex divina mente procedit, cuius mathematicus est imago. Sicut enim mens nostra se habet ad infinitam aeternam mentem, ita numerus nostrae mentis ad numerum illum. Et damus illi numero nomen nostrum sicut menti illi nomen mentis nostrae, et delectabiliter multum versamur in numero quasi in nostro proprio opere. 89 Philosophus: Explana quaeso motiva, quae quem movere possunt ad dicendum rerum principia numeros. Idiota: Non potest esse nisi unum infinitum principium, et hoc solum est infinite simplex. Primum autem principiatum non potest esse infinite simplex, ut de se patet. Neque potest esse compositum ex aliis ipsum componentibus; tunc enim non foret primum prin-
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Come i sapienti, parlando in modo simbolico, abbiano detto che il numero è l’esemplare di tutte le cose. Sulla natura straordinaria del numero. Come il numero derivi dalla mente e dalla incorruttibilità delle essenze. Come la mente sia armonia, numero che muove se stesso, composizione dell’identico e del diverso. filoSofo. Hai impiegato in modo appropriato la tua arte. E quando dici che l’intelletto è «uno» mostri come avvenga la produzione delle cose e come la proporzione sia il luogo, l’ambito o la regione della forma, e la materia sia il luogo della proporzione92. E mi sembri molto vicino ai Pitagorici, i quali sostenevano che tutte le cose derivano dal numero93. idiota. Non so se io sia pitagorico o altro. Quello che so è che non mi guida l’autorità di nessuno, anche quando cerca di influenzarmi. ritengo, tuttavia, che i Pitagorici, che, come dici, hanno filosofato su tutte le cose mediante il numero, siano stati uomini di grande valore e acuti94. Non che io creda che essi abbiano voluto parlare del numero inteso come numero matematico e come numero che procede dalla nostra mente, perché è immediatamente evidente che questo tipo di numero non è il principio di nessuna cosa; essi hanno piuttosto parlato, in maniera simbolica e razionale, del numero che procede dalla mente divina, di cui il numero matematico è un’immagine95. Infatti, come la nostra mente sta alla mente eterna e infinita, così il numero che procede dalla nostra mente sta al numero che procede dalla mente divina; e a quest’ultimo diamo il nome con cui designiamo il nostro numero, come alla mente divina diamo il nome della nostra mente, e noi proviamo un grande piacere nell’occuparci dei numeri, come se ci occupassimo di una nostra propria opera96. filoSofo. Illustra, ti prego, le motivazioni che possono portare qualcuno a sostenere che i numeri sono i principi delle cose. idiota. Può esserci un solo principio infinito ed esso solo è infinitamente semplice97. Ora, la prima realtà che deriva dal principio non può essere assolutamente semplice, com’è immediatamente evidente. Essa non può tuttavia essere neppure un composto costituito da altre cose che la compongano. In questo caso, in-
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cipiatum, sed componentia ipsum natura praecederent. Oportet igitur admittere, quod primum principiatum sic sit compositum, quod tamen non sit ex aliis, sed ex se ipso compositum. Et non capit mens nostra aliquid tale esse posse, nisi sit numerus vel ut numerus nostrae mentis. 90 Nam numerus est compositus et ex se ipso compositus – ex numero enim pari et impari est omnis numerus compositus –: sic numerus est ex numero compositus. Si dixeris ternarium ex tribus unitatibus compositum, loqueris quasi si quis diceret parietes et tectum separate facere domum. Si enim parietes sunt separate et similiter et tectum, non componitur ex ipsis domus. Sic nec tres unitates separatae constituunt ternarium. Quare si unitates consideras prout constituunt ternarium, eas unitas consideras. Et quid tunc aliud est tres unitates unitae quam ternarius? Ita ex se ipso est compositus. Sic de omnibus numeris. 91 Immo dum in numero non nisi unitatem conspicio, video numeri incompositam compositionem et simplicitatis et compositionis sive unitatis et multitudinis coincidentiam. Immo si adhuc acutius intueor, video numen compositam unitatem, ut in unitatibus harmonicis diapason, diapente ac diatessaron. Harmonica enim habitudo unitas est, quae sine numero intelligi nequit. Adhuc ex habitudine semitonii et medietatis duplae, quae est costae quadrati ad diametrum, numerum simpliciorem intueor quam nostrae mentis ratio attingere queat, nam habitudo sine numero non intelligitur, et tamen numerum illum oporteret esse pariter parem et imparem; de quo longus sermo et delectabilis valde haberi posset, si ad alia non festinaremus. 92 Habemus igitur, quomodo primum principiatum est, cuius typum gerit numerus. Neque ad quiditatem eius aliter ac propius
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fatti, essa non sarebbe la prima realtà che deriva dal principio, ma le cose che la compongono sarebbero ad essa anteriori per natura. Bisogna allora ammettere che la prima realtà che deriva dal principio sia sì un composto, ma tale da non essere composto da altre cose, ma solo da se stesso. E la nostra mente non concepisce nulla che possa essere così se non il numero o qualcosa di analogo al numero che procede dalla nostra mente98. Il numero, infatti, è composto ed è composto da se stesso, perché ogni numero è composto dal numero pari e dal numero dispari, per cui il numero è composto dal numero99. Se dicessi che il numero tre è un composto di tre unità, ti esprimeresti come uno che dicesse che le pareti e il tetto, presi separatamente, formano una casa. Se, infatti, le pareti sono separate, e così anche il tetto, allora la casa non risulta affatto composta di questi elementi. Allo stesso modo, neppure tre unità separate costituiscono il numero tre100. Pertanto, se consideri le unità in quanto costituiscono il numero tre, le consideri come unite. E che cosa sono allora tre unità unite se non il numero tre? In questo modo, il numero tre è composto da se stesso. Ciò vale per tutti i numeri. In effetti, quando nel numero non scorgo se non l’unità, vedo che la composizione del numero è una composizione non-composta e che in esso coincidono la semplicità e la composizione, ossia l’unità e la molteplicità101. Se poi vado con lo sguardo ancora più in profondità, allora vedo l’unità composta del numero, come nel caso delle unità armoniche di ottava, di quinta e di quarta. Il rapporto armonico, infatti, è un’unità che non può essere compresa senza il numero102. Inoltre, dal rapporto del semitono con due mezzi doppi – questo rapporto è quello che il lato di un quadrato ha con la diagonale – intuisco un numero più semplice di qualsiasi numero a cui la ragione della nostra mente sia in grado di giungere. Infatti, questo rapporto non lo si comprende senza il numero, e tuttavia bisognerebbe che tale numero fosse al contempo pari e dispari. Su questo argomento potremmo discutere a lungo e molto piacevolmente, se non avessimo fretta di passare ad altri punti. Sappiamo, quindi, che la prima realtà che deriva dal principio è quella di cui il numero ci mostra il tipo. E non possiamo avvicinarci maggiormente e in maniera diversa alla sua essenza, perché l’es-
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accedere possumus, cum praecisio quiditatis cuiuscumque rei sit per nos inattingibilis aliter quam in aenigmate vel figura. Primum enim principiatum vocamus symbolice numerum, quia numerus est subiectum proportionis; non enim potest esse proportio sine numero. Et proportio est locus formae; sine enim proportione apta et congrua formae forma resplendere nequit, uti dixi proportione apta cocleari rupta non posse formam manere, quia non habet locum. Est enim proportio quasi aptitudo superficiei specularis ad resplendentiam imaginis, qua non stante desinit repraesentatio. Ecce quomodo unitas exemplaris infinita non potest resplendere nisi in proportione apta, quae proportio est in numero. Agit enim mens aeterna quasi ut musicus, qui suum conceptum vult sensibilem facere. Recipit enim pluralitatem vocum et illas redigit in proportionem congruentem harmoniae, ut in illa proportione harmonia dulciter et perfecte resplendeat, quando ibi est ut in loco suo, et variatur harmoniae resplendentia ex varietate proportionis harmoniae congruentis, et desinit harmonia aptitudine proportionis desinente. Ex mente igitur numerus et omnia. 93 Philosophus: Nonne sine nostrae mentis consideratione est rerum pluralitas? Idiota: Est, sed a mente aeterna. Unde sicut quoad deum rerum pluralitas est a mente divina, ita quoad nos rerum pluralitas est a nostra mente. Nam sola mens numerat; sublata mente numerus discretus non est. Mens enim ex eo, quia unum et idem singulariter intelligit et singillatim, et hoc ipsum consideramus – dicimus esse unum ex hoc, quod unum singulariter et hoc semel intelligit –, veraciter est unitatis aequalitas. Sed quando unum singulariter et multiplicando intelligit, res plures esse diiudicamus binarium
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senza precisa di qualsiasi cosa non è per noi attingibile103, se non attraverso un simbolo o un’immagine. Infatti, la prima realtà che deriva dal principio la chiamiamo simbolicamente «numero», perché il numero è il soggetto della proporzione; non può esserci infatti una proporzione senza numero. E la proporzione è il luogo della forma, perché, senza una proporzione che sia adatta e idonea ad una forma, la forma non può risplendere104 – così come ho detto che, se viene distrutta la proporzione adatta al cucchiaio, la forma [del cucchiaio] non può permanere, perché essa non ha più il suo luogo. La proporzione, infatti, è quasi come l’attitudine che ha la superficie di uno specchio a far risplendere in sé un’immagine; e se questa attitudine viene meno, scompare anche l’immagine riflessa. Con questo esempio puoi vedere come l’unità infinita dell’esemplare non può risplendere se non in una proporzione adatta, una proporzione che risiede nel numero. La mente eterna, infatti, agisce quasi come un musicista che voglia rendere percepibile sensibilmente ciò che egli ha concepito105. Il musicista prende una pluralità di toni e li riconduce ad una proporzione che sia in accordo con l’armonia, in modo tale che in quella proporzione l’armonia risplenda in maniera dolce e perfetta; lì, infatti, l’armonia risplende come nel suo luogo proprio, e il risplendere dell’armonia varia con il variare della proporzione che corrisponde all’armonia, e l’armonia cessa quando cessa l’attitudine per la proporzione. È dunque dalla mente che derivano il numero e tutte le cose. Filosofo. Ma, allora, la pluralità delle cose non esiste senza la considerazione della nostra mente? Idiota. Esiste, ma deriva dalla mente eterna. Pertanto, come rispetto a Dio la pluralità delle cose proviene dalla mente divina, così rispetto a noi la pluralità delle cose proviene dalla nostra mente. Infatti, soltanto la mente numera106; se viene tolta la mente, non c’è più alcun numero che sia distinto. La mente è veramente l’uguaglianza dell’unità, per il fatto che essa conosce ciò che è uno ed identico in maniera singolare e separatamente, ed è così che lo consideriamo noi: diciamo infatti che qualcosa è «uno» per il fatto che la mente conosce le cose singolarmente e una per volta. Ma quando la mente intende l’uno singolarmente e lo moltiplica, allora giudichiamo che le cose sono più di una e parliamo di due cose, in quan-
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dicendo, quia mens unum et idem singulariter bis sive geminando intelligit. Ita de reliquis. 94 Philosophus: Nonne ternarius ex binario et unitate constituitur et numerum dicimus collectionem singularium? Quomodo tunc ex mente tu dicis eum esse? Idiota: Illi modi dicendi debent ad intelligendi modum referri, quia non est aliud colligere quam unum et idem commune circa eadem multiplicare. Unde cum videas sine mentis multitudine binarium vel ternarium nihil esse, satis attendis numerum ex mente esse. Philosophus: Quomodo pluralitas rerum est numerus divinae mentis? Idiota: Ex eo enim, quod mens divina unum sic intelligit et aliud aliter, orta est rerum pluralitas. Unde si acute respicis, reperies pluralitatem rerum non esse nisi modum intelligendi divinae mentis. Sic irreprehensibiliter posse dici conicio primum rerum exemplar in animo conditoris numerum esse. Hoc ostendit delectatio et pulchritudo, quae omnibus rebus inest, quae in proportione consistit, proportio vero in numero. Hinc numerus praecipuum vestigium ducens in sapientiam. 95 Philosophus: Illud primo Pythagorici, deinde Platonici dixerunt, quos et Severinus Boethius imitatur. Idiota: Pariformiter dico exemplar conceptionum nostrae mentis numerum esse. Sine numero enim nihil facere potest; neque assimilatio neque notio neque discretio neque mensuratio fieret numero non exsistente. Res enim non possunt aliae et aliae et discretae sine numero intelligi. Nam quod alia res est substantia et alia quantitas et ita de aliis, sine numero non intelligitur. Unde cum numerus sit modus intelligendi, nihil sine eo intelligi potest. Numerus enim nostrae mentis cum sit imago numeri divini, qui est re-
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to la mente intende l’uno e l’identico due volte singolarmente, ossia raddoppiandolo. E lo stesso vale per gli altri numeri. Filosofo. Il tre non è forse costituito dal due e dall’unità? E non chiamiamo numero una collezione di singole unità? Come fai allora a dire che il numero proviene dalla mente? Idiota. Questi modi di dire devono essere ricondotti ad un modo di comprendere, perché fare una collezione di più unità non è altro che moltiplicare un’unica e medesima cosa che è comune ad esse. Per cui, quando vedi che, senza la moltiplicazione fatta dalla mente, il «due» o il «tre» non sono nulla, ti rendi sufficientemente conto del fatto che il numero proviene dalla mente. Filosofo. In che modo la pluralità delle cose è un numero che deriva dalla mente divina? Idiota La pluralità delle cose è nata dal fatto che la mente divina intende una cosa in un modo e un’altra in un altro modo107. Se osservi pertanto con attenzione, scoprirai che la pluralità delle cose non è se non un modo di intendere della mente divina. E così congetturo che si possa dire, senza timore di sbagliare, che il numero è il primo esemplare delle cose nella mente del creatore108. Lo mostrano il diletto e la bellezza che sono presenti in tutte le cose e che consistono nella proporzione109. La bellezza consiste nella proporzione, mentre la proporzione consiste, a sua volta, nel numero. Il numero, quindi, è la traccia principale che conduce alla sapienza. Filosofo. I Pitagorici sono stati i primi a dire questa cosa, poi i Platonici, i quali vennero imitati anche da Severino Boezio110. Idiota. Allo stesso modo, dico che il numero è l’esemplare delle concezioni della nostra mente. Senza il numero, infatti, la nostra mente non può fare nulla; se il numero non esistesse, non ci sarebbero né l’assimilazione, né la conoscenza concettuale, né la distinzione, né la misurazione. Senza il numero, infatti, non è possibile intendere le cose come diverse e distinte le une dalle altre. Ad esempio, il fatto che la sostanza sia una cosa, la quantità un’altra, e così di seguito per le altre categorie, non lo comprendiamo senza il numero111. Pertanto, poiché il numero è un modo di intendere, non possiamo intendere nulla senza di esso. Essendo infatti un’immagine del numero divino, che è l’esemplare delle cose, il
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rum exemplar, est exemplar notionum. Et sicut ante omnem pluralitatem est unitas, et haec est unitas uniens mens increata, in qua omnia unum, post unum pluralitas, explicatio virtutis illius unitatis, quae virtus est rerum entitas, essendi aequalitas et entitatis aequalitatisque conexio et haec trinitas benedicta, sic in nostra mente est illius trinitatis divinae imago. Nam mens nostra similiter est unitas uniens ante omnem pluralitatem per mentem conceptibilem, et post illam unitatem unientem omnem pluralitatem est pluralitas, quae est pluralitatis rerum imago sicut mens nostra divinae mentis imago. Et explicat pluralitas virtutem unitatis mentis, quae virtus est imago entitatis, aequalitatis et conexionis. 96 Philosophus: Video te ex numero mira attingere. Aie igitur, quoniam divinus Dionysius asserit essentias rerum incorruptibiles, an hoc numero ostendere possis? Idiota: Quando attendis ex multitudine unitatis numerum constitui ac quod alteritas sequitur multiplicationem contingenter et advertis compositionem numeri ex unitate et alteritate, ex eodem et diverso, ex pari et impari, ex dividuo et individuo, ac quod quiditas rerum omnium exorta est, ut sit numerus divinae mentis, tunc aliqualiter attingis, quomodo essentiae rerum sunt incorruptibiles uti unitas, ex qua numerus, quae est entitas, et quomodo res sunt sic et sic ex alteritate, quae non est de essentia numeri, sed contingenter unitatis multiplicationem sequens. Ita quidem alteritas de nullius rei essentia est. Pertinet enim ad interitum alteritas, quia divisio est, ex qua corruptio. Hinc de essentia rei non est. Conspicis etiam, quomodo non est aliud numerus quam res nume-
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numero della nostra mente è l’esemplare dei concetti. Inoltre, l’unità è anteriore ad ogni pluralità112, e questa unità unificante è la mente increata, nella quale tutto è uno; dopo l’uno c’è la pluralità, che è l’esplicazione della forza di quell’unità, la quale forza è l’entità delle cose, l’uguaglianza dell’essere e la connessione dell’entità e dell’uguaglianza, e questa è la benedetta Trinità113. In modo analogo, nella nostra mente c’è un’immagine di questa Trinità divina. La nostra mente, infatti, è anch’essa un’unità unificante, che è anteriore ad ogni pluralità concepibile dalla mente, e dopo questa unità che unifica ogni pluralità c’è la pluralità che è un’immagine della pluralità delle cose, così come la nostra mente è un’immagine della mente divina. E la pluralità esplica la forza dell’unità della nostra mente, forza che è un’immagine dell’entità, dell’uguaglianza e della connessione. Filosofo. Vedo che giungi a cose straordinarie a partire dal numero. Ma, allora, dal momento che il divino Dionigi sostiene che le essenze delle cose sono incorruttibili114, dimmi se puoi spiegare anche questa tesi facendo ricorso al numero. Idiota. Quando poni mente al fatto che il numero è costituito da una molteplicità di unità e che l’alterità è una conseguenza contingente della moltiplicazione115, e quando consideri inoltre che la composizione del numero è formata dall’unità e dall’alterità, dall’identico e dal diverso, dal pari e dal dispari, dal divisibile e dall’indivisibile116, e che l’essenza di tutte le cose ha avuto origine in un modo tale per cui essa è un numero che deriva dalla mente divina, allora giungi in qualche maniera a cogliere come le essenze delle cose siano incorruttibili, come lo è, ad esempio, l’unità da cui proviene il numero e che è l’entità117 di ogni numero, e come le cose siano rispettivamente in questo o in quel modo a causa dell’alterità, la quale non appartiene all’essenza del numero, ma è una conseguenza che deriva in modo contingente dalla moltiplicazione dell’unità. In maniera simile, in effetti, l’alterità non appartiene all’essenza di nessuna cosa118. L’alterità attiene infatti alla distruzione, in quanto essa significa divisione, e dalla divisione proviene la corruzione. L’alterità, pertanto, non appartiene all’essenza delle cose. Vedi anche che il numero non è qualcosa di diverso dalle cose numerate. Da ciò comprendi che il numero non è qualco-
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ratae. Ex quo habes inter mentem divinam et res non mediare numerum, qui habeat actuale esse, sed numerus rerum res sunt. 97
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Quomodo mens a se exserit rerum formas via assimilationis et possibilitatem absolutam seu materiam attingit. Philosophus: Dic, oro: Putasne mentem nostram esse harmoniam aut numerum se moventem aut compositionem ex eodem et diverso vel ex dividua et individua essentia vel entelechiam? Nam talibus dicendi modis Platonici et Peripatetici utuntur. Idiota: Credo omnes, qui de mente locuti sunt, talia vel alia dixisse potuisse, moti ex his, quae in vi mentis experiebantur. De omni enim harmonia iudicium in mente reperiebant mentemque ex se notiones fabricare et sic se movere, quasi vivus numerus discretivus per se ad faciendum discretiones procederet, et iterum in hoc collective ac distributive procedere aut secundum modum simplicitatis ac necessitatis absolutae vel possibilitatis absolutae vel necessitatis complexionis vel determinatae vel possibilitatis determinatae aut ob aptitudinem perennis motus. Ob has aut similes varias experientias talia ac alia de mente aut anima dixisse rationabiliter credendum. Nam mentem esse ex eodem et diverso est eam esse ex unitate et alteritate eo modo, quo numerus compositus est ex eodem quantum ad commune et diverso quantum ad singularia, qui sunt modi intelligendi mentis. 98 Philosophus: Continua exponendo animam numerum se moventem. Idiota: Faciam ut potero. Arbitror omnes non posse dissentire mentem esse vivum quendam divinum numerum optime ad
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sa che media tra la mente divina e le cose, come se esso avesse un proprio essere in atto, ma il numero delle cose sono le cose stesse. CAPITOLO VII
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Come la mente tragga da se stessa le forme delle cose mediante l’assimilazione, e come giunga a cogliere la possibilità assoluta o materia. Filosofo. Ti prego, dimmi: non ritieni che la nostra mente sia un’armonia, o un numero che muove se stesso, o un composto costituito dall’identico e dal diverso o dall’essenza divisibile e da quella indivisibile, o una entelechia? Queste, infatti, sono le espressioni di cui si servono i Platonici e i Peripatetici119. Idiota. Credo che tutti coloro che hanno parlato della mente hanno potuto dire queste o altre cose indotti da ciò che essi hanno sperimentato nella forza della mente. Essi hanno infatti trovato nella mente una capacità di giudicare ogni forma di armonia, e hanno scoperto che la mente si forma da se stessa i concetti e che, nel fare questo, essa si muove come si muoverebbe un numero vivente120 e capace di distinguere che procedesse da se stesso a fare distinzioni; inoltre, essi hanno scoperto, che, nel fare ciò, la mente procede istituendo connessioni e compiendo divisioni o secondo il modo della semplicità e della necessità assoluta, o secondo il modo della possibilità assoluta, o secondo il modo della necessità del complesso, ossia della necessità determinata, o secondo il modo della possibilità determinata, o sulla base della sua attitudine al moto continuo121. È ragionevole ritenere che essi abbiano detto queste ed altre cose a proposito della mente o dell’anima a motivo di tali esperienze e di altre simili. Dire, infatti, che la mente è costituita dall’identico e dal diverso significa dire che essa è costituita dall’unità e dall’alterità, così come il numero è composto dall’identico, per quanto si riferisce a ciò che è comune, e dal diverso, per quanto si riferisce alle singole unità. Questi sono i modi di intendere della mente. Filosofo. Continua spiegando in che senso l’anima sia un numero che muove se stesso. Idiota. Lo farò per come potrò. Ritengo che tutti convengano sul fatto che la mente sia una specie di numero divino e viven-
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aptitudinem resplendentiae divinae harmoniae proportionatum ac omnem sensibilem, rationalem et intellectualem harmoniam complicantem et quidquid circa hoc pulchrius dici potest, adeo quod omnis numerus et omnis proportio et omnis harmonia, quae a nostra mente procedunt, ita parum ad mentem nostram accedunt sicut mens nostra ad mentem infinitam. Nam mens etsi sit numerus divinus, est tamen ita numerus, quod est unitas simplex ex sua vi numerum suum exserens. Unde quae est proportio operum dei ad deum, illa operum mentis nostrae ad mentem ipsam. 99 Philosophus: Voluerunt plerique mentem nostram esse naturae divinae et menti divinae propinquissime coniunctam. Idiota: Non puto aliud illos voluisse quam dixi, licet alium dicendi modum haberent. Inter enim divinam mentem et nostram interest quod inter facere et videre. Divina mens concipiendo creat, nostra concipiendo assimilat notiones seu intellectuales faciendo visiones. Divina mens est vis entificativa, nostra mens est vis assimilativa. Orator: Video philosopho tempus non sufficere, ideo longo silentio me repressi. Audivi plura et semper gratissima, sed audire vellem: Quomodo mens ex se exserit rerum formas via assimilationis? 100 Idiota: Mens est adeo assimilativa, quod in visu se assimilat visibilibus, in auditu audibilibus, in gustu gustabilibus, in odoratu odorabilibus, in tactu tangibilibus et in sensu sensibilibus, in imaginatione imaginabilibus, in ratione rationabilibus. Habet enim se imaginatio in absentia sensibilium ut sensus aliquis absque discretione sensibilium. Nam conformat se absentibus sensibilibus con-
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te, perfettamente proporzionato in modo da essere adatto a riflettere l’armonia divina, e che essa sia un numero che complica ogni armonia sensibile, razionale e intellettuale, e tutto ciò che di più bello si può dire a questo riguardo. E la nostra mente è un tale numero divino e vivente al punto che qualsiasi numero, qualsiasi proporzione e qualsiasi armonia che procedono dalla nostra mente si avvicinano così poco ad essa, quanto poco la nostra mente si avvicina alla mente divina. Infatti, benché sia un numero divino, la mente è tuttavia un numero nel senso che è un’unità semplice, che trae dalla sua forza i suoi numeri122. Pertanto, lo stesso rapporto che c’è tra le opere di Dio e Dio c’è anche tra le opere della nostra mente e la mente123. Filosofo. Molti hanno voluto sostenere che la nostra mente è congiunta molto strettamente alla natura divina e alla mente divina124. Idiota. Non ritengo che essi abbiano voluto dire qualcosa di diverso da quello che ho detto io, anche se si sono espressi in un modo diverso. Infatti, tra la mente divina e la nostra c’è la stessa differenza che c’è tra il fare e il vedere. La mente divina, quando concepisce, crea125, la nostra, quando pensa, ossia quando forma concetti e realizza visioni intellettuali, assimila. La mente divina è una forza entificatrice, la nostra mente è una forza assimilatrice126. Oratore. Mi rendo conto che il filosofo non ha molto tempo, e per questo sono rimasto a lungo in silenzio. Ho ascoltato diverse cose, che ho sempre apprezzato moltissimo, ma vorrei ascoltarti su un punto: come può la mente trarre da se stessa le forme delle cose mediante l’assimilazione? Idiota. La mente ha una tale capacità di assimilazione che, nella vista, si assimila alle cose visibili, nell’udito alle cose udibili, nel gusto alle cose gustabili, nell’odorato alle odorabili, nel tatto alle cose che si possono toccare, e nei sensi la mente si assimila alle cose percepibili sensibilmente, nella facoltà immaginativa alle cose di cui possiamo formarci un’immagine, nella ragione alle cose che sono conoscibili razionalmente127. Ad esempio, la facoltà immaginativa, in assenza di cose percepibili, è come un organo di senso che sia privo della capacità di discernere tra i dati sensibili; l’immaginazione, infatti, si conforma agli oggetti sensibili che non sono
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fuse absque hoc, quod statum a statu discernat. Sed in ratione cum discretione status a statu se rebus conformat. In illis omnibus locis vehitur in spiritu arteriarum mens nostra, quae excitata per obstaculum specierum ab obiectis ad spiritum multiplicatarum se assimilat rebus per species, ut per assimilationem iudicium faciat de obiecto. Unde spiritus ille subtilis arteriarum, qui est mente animatus, per mentem ad similitudinem speciei, quae obstaculum praestitit motui, spiritui sic conformatur sicut cera flexibilis per hominem mentis usum ac artem habentem configuratur rei praesentialiter artifici praesentatae. Nam omnes configurationes sive in arte statuaria aut pictoria aut fabrili absque mente fieri nequeunt; sed mens est, quae omnia terminat. 101 Unde si conciperetur cera mente informata, tunc mens intus exsistens configuraret ceram omni figurae sibi praesentatae, sicut nunc mens artificis ab extrinseco applicata facere nititur. Sic de luto et omnibus flexibilibus. Sic in nostro corpore mens facit secundum variam flexibilitatem spirituum arteriarum in organis varias configurationes subtiles et grossas, et unus spiritus non est configurabilis ad id, ad quod alius. Quia spiritus in nervo optico non est offendibilis per species sonorum, sed solum per species colorum, ideo configurabilis est speciebus colorum et non sonorum. Ita de aliis. 102 Et est alius spiritus ad omnes sensibiles species configurabilis, qui est in organo imaginativae, sed grosso et indiscreto modo. Et alius in organo ratiocinativae est ad omnia sensibilia discrete et lucide configurabilis. Et hae omnes configurationes sunt assimila-
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più presenti in modo confuso, senza discernere uno stato dall’altro. Congiunta invece con la ragione, l’immaginazione si assimila alle cose discernendo uno stato dall’altro128. In tutti questi ambiti, la nostra mente viene veicolata attraverso lo spirito delle arterie129. Quando la nostra mente riceve uno stimolo dall’ostacolo che incontra nelle specie provenienti dagli oggetti e trasmesse in maniera moltiplicata allo spirito delle arterie, essa si assimila agli oggetti per mezzo di queste specie130, in modo da poter formulare, attraverso tale assimilazione, un giudizio sull’oggetto. Di conseguenza, questo spirito sottile delle arterie, che è animato dalla mente, viene reso dalla mente conforme all’immagine della specie che ha fatto da ostacolo al suo movimento, così come da un uomo, che abbia l’uso della mente e l’abilità artistica corrispondente, un pezzo di cera malleabile viene reso conforme alla figura dell’oggetto che l’artefice ha presente direttamente di fronte a sé. Senza la mente, non può essere realizzato nessun tipo di configurazione, né nella scultura, né nella pittura, né nell’arte del fabbro, ed è la mente che determina tutte le cose131. Se si potesse pertanto concepire una cera132 che avesse come principio che la informa una mente, allora quest’ultima, trovandosi all’interno della cera, la configurerebbe secondo ogni figura che le venisse presentata, come ora cerca di fare la mente dell’artista che agisce dall’esterno. Lo stesso vale per la creta e per tutto ciò che è malleabile. In modo simile, la mente, che è presente nel nostro corpo, produce configurazioni diverse, sottili o grossolane, a seconda della diversa malleabilità dello spirito delle arterie presente negli organi di senso, ed uno spirito non è configurabile a ciò a cui è configurabile un altro. Lo spirito che è presente nel nervo ottico, infatti, non può essere affetto dalle forme dei suoni, ma solo dalle forme dei colori, per cui è configurabile alle forme dei colori, ma non a quelle dei suoni. Lo stesso vale per gli altri casi133. C’è poi un altro spirito, che è presente nell’organo dell’immaginazione, il quale può essere configurato a tutte le specie sensibili, per quanto in modo grossolano e indistinto, e ce n’è un altro, che si trova nell’organo della ragione, il quale può essere configurato a tutte le cose sensibili in maniera chiara e distinta134. E tutte queste configurazioni sono assimilazioni delle cose sensibili, dal momen-
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tiones sensibilium, cum fiant medio corporalium spirituum, licet subtilium. Unde cum mens has faciat assimilationes, ut notiones habeat sensibilium, et sic est immersa spiritui corporali, tunc agit ut anima animans corpus, per quam animationem constituitur animal. Hinc anima brutorum consimiles licet confusiores suo modo facit assimilationes, ut suo modo notiones assequatur. Sed nostra vis mentis ex illis talibus notionibus sic per assimilationem elicitis facit mechanicas artes et physicas ac logicas coniecturas et res attingit modo, quo in possibilitate essendi seu materia concipiuntur, et modo, quo possibilitas essendi est per formam determinata. Unde cum per has assimilationes non attingat nisi sensibilium notiones, ubi formae rerum non sunt verae, sed obumbratae variabilitate materiae, tunc omnes notiones tales sunt potius coniecturae quam veritates. Sic itaque dico, quod notiones, quae per rationales assimilationes attinguntur, sunt incertae, quia sunt secundum imagines potius formarum quam veritates. 103 Post haec mens nostra, non ut immersa corpori, quod animat, sed ut est mens per se, unibilis tamen corpori, dum respicit ad suam immutabilitatem, facit assimilationes formarum non ut sunt immersae materiae, sed ut sunt in se et per se, et immutabiles concipit rerum quiditates utens se ipsa pro instrumento sine spiritu aliquo organico, sicut dum concipit circulum esse figuram, a cuius centro omnes lineae ad circumferentiam ductae sunt aequales, quo modo essendi circulus extra mentem in materia esse nequit. Impossibile est enim duas dari lineas in materia aequales, minus est possibile talem circulum posse figurari. Unde circulus in mente
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to che avvengono attraverso la mediazione degli spiriti corporei, per quanto sottili essi siano135. Di conseguenza, quando la mente, per avere nozioni delle cose sensibili, compie queste assimilazioni e si trova così immersa nello spirito corporeo, essa agisce allora in quanto anima che anima il corpo, ed è attraverso quest’animazione che viene costituito l’animale. L’anima dei bruti, pertanto, compie a suo modo delle assimilazioni simili alle nostre, anche se più confuse, in maniera tale che anch’essa acquisisce a suo modo delle nozioni. A partire tuttavia da questo tipo di nozioni, che vengono ricavate in questo modo attraverso l’assimilazione, la forza della nostra mente sviluppa le arti meccaniche e le conoscenze congetturali sia nell’ambito della fisica, sia nell’ambito della logica, e coglie le cose nel modo in cui esse possono essere comprese nella possibilità dell’essere o materia e nel modo in cui la possibilità dell’essere è determinata dalla forma. Pertanto, dal momento che, attraverso queste assimilazioni, la mente non acquisisce se non le nozioni delle cose sensibili, dove le forme delle cose non sono vere, ma sono rese oscure dalla mutevolezza della materia136 ne consegue che tutte le nozioni di questo genere sono delle congetture, più che delle verità137. Io dunque sostengo che le nozioni che acquisiamo attraverso le assimilazioni compiute dalla ragione sono prive di certezza, in quanto esse corrispondono alle immagini delle forme, più che alle vere forme stesse. Dopo di ciò, la nostra mente, non in quanto immersa in un corpo che essa anima, ma come mente che sussiste per sé e che è tuttavia in grado di unirsi ad un corpo, quando guarda alla propria immutabilità produce assimilazioni delle forme, ma non delle forme quali sono immerse nella materia, ma quali sono in se stesse e per se stesse, e concepisce le essenze immutabili delle cose utilizzando come strumento se stessa, senza ricorrere ad alcuno spirito organico138, come quando, ad esempio, concepisce che il cerchio è una figura nella quale tutte le linee che vengono condotte dal centro alla circonferenza sono uguali, un modo d’essere, questo, che nessun cerchio può avere al di fuori della mente, nella materia139. È infatti impossibile che nella materia si diano delle linee uguali140, ed è ancora meno possibile che un cerchio come questo possa essere raffigurato. Il cerchio presente nella mente è pertanto l’esemplare e la
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est exemplar et mensura veritatis circuli in pavimento. Sic dicimus veritatem rerum in mente esse in necessitate complexionis, scilicet modo, quo exigit veritas rei, ut de circulo dictum est. 104 Et quia mens ut in se et a materia abstracta has facit assimilationes, tunc se assimilat formis abstractis. Et secundum hanc vim exserit scientias certas mathematicales et comperit virtutem suam esse se rebus, prout in necessitate complexionis sunt, assimilandi et notiones faciendi. Et incitatur ad has assimilationes abstractivas per phantasmata seu imagines formarum, quas per assimilationes factas in organis deprehendit, sicut excitatur quis ex pulchritudine imaginis, ut inquirat pulchritudinem exemplaris. Et in hac assimilatione se habet mens, ac si flexibilitas absoluta a cera, luto, metallo et omnibus flexibilibus foret viva vita mentali, ut ipsa per se ipsam se omnibus figuris, ut in se et non in materia subsistunt, assimilare possit. Talis enim in vi suae flexibilitatis vivae, hoc est in se, notiones omnium, quoniam omnibus se conformare posset, esse conspiceret. 105 Et quia adhuc hoc modo mens non satiatur, quia non intuetur praecisam omnium veritatem, sed intuetur veritatem in necessitate quadam determinata cuilibet, prout una est sic, alia sic, et quaelibet ex suis partibus composita, et videt, quod hic modus essendi non est ipsa veritas, sed participatio veritatis, ut unum sic sit vere et aliud aliter vere, quae quidem alteritas nequaquam convenire potest veritati in se in sua infinita et absoluta praecisione considerata. Unde mens respiciendo ad suam simplicitatem, ut scilicet est non solum abstracta a materia, sed ut est materiae incommunicabilis seu modo formae inunibilis, tunc hac simplicitate utitur ut instru-
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misura della verità del cerchio che viene tracciato su un pavimento. Così diciamo che, nella mente, la verità delle cose è presente come nella necessità del complesso141, ossia nel modo in cui esige la verità della cosa, come abbiamo detto a proposito del cerchio. E poiché è la mente, per se stessa e separata dalla materia, che compie queste assimilazioni, essa si assimila alle forme separate. E, in base a questa sua capacità, la mente produce le scienze matematiche142, che sono certe, e si rende conto che la sua forza consiste nell’assimilarsi alle cose così come esse esistono nella necessità del complesso e di formarsene delle nozioni. E la mente viene stimolata a compiere queste assimilazioni delle forme separate dai fantasmi o dalle immagini delle forme che essa trova negli organi di senso, dove tali immagini sono state anch’esse ottenute mediante l’assimilazione, come qualcuno che dalla bellezza di un’immagine venga stimolato a ricercare la bellezza dell’esemplare. E in questa assimilazione la mente si comporta come se vi fosse una malleabilità assoluta, svincolata cioè dalla cera, dalla creta, dal metallo e da ogni sostrato materiale malleabile, ed essa fosse viva e dotata di una vita mentale143, in modo da potersi assimilare da se stessa a tutte le figure, quali sussistono in se stesse e non nella materia. Una mente di questo genere, dal momento che potrebbe conformarsi a tutte le cose, si accorgerebbe che, nella forza della sua vivente malleabilità, ossia in se stessa, sono contenute le nozioni di tutte le figure. Ma neppure in questo modo la mente è ancora soddisfatta, perché essa non intuisce la verità precisa di tutte le cose144, ma intuisce la verità in una specie di necessità che è determinata per ogni singola cosa, in quanto una cosa è in un modo, un’altra in un altro, e ciascuna è composta di parti che sono sue proprie; e la mente vede anche che questo modo di essere non è la verità stessa, ma è una partecipazione alla verità, per cui una cosa è vera in un modo, un’altra è vera in un altro modo, mentre questa alterità non può in alcuna maniera spettare alla verità considerata in se stessa, ossia nella sua assoluta e infinita precisione. Di conseguenza, quando la mente guarda alla propria semplicità, come ad una semplicità, cioè, che non solo è separata dalla materia, ma che non è comunicabile alla materia, ovvero non può unirsi ad essa così come vi si unisce la forma, allora essa utilizza tale semplicità come uno stru-
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mento, ut non solum abstracte extra materiam, sed in simplicitate materiae incommunicabili se omnibus assimilet. Et hoc modo in simplicitate sua omnia intuetur, sicut si in puncto omnem magnitudinem et in centro circulum, et ibi omnia intuetur absque omni compositione partium et non ut unum est hoc et aliud illud, sed ut omnia unum et unum omnia. 106 Et haec est intuitio veritatis absolutae. Quasi si quis in proxime dicto modo videret, quomodo in omnibus entibus est entitas varie participata, et post hoc modo, de quo nunc agitur, supra participationem et varietatem omnem ipsam entitatem absolutam simpliciter intueretur, talis profecto supra determinatam complexionis necessitatem videret omnia, quae vidit in varietate, absque illa in absoluta necessitate simplicissime, sine numero et magnitudine ac omni alteritate. Utitur autem hoc altissimo modo mens se ipsa, ut ipsa est dei imago, et deus, qui est omnia, in ea relucet, scilicet quando ut viva imago dei ad exemplar suum se omni conatu assimilando convertit. Et hoc modo intuetur omnia unum et se illius unius assimilationem, per quam notiones facit de uno quod omnia. Et sic facit theologicas speculationes, ubi tamquam in fine omnium notionum quam suaviter ut in delectabilissima veritate vitae suae quiescit, de quo modo numquam satis dici posset. Haec autem nunc sic dixerim cursorie et rustice. Tu vero decora limatione pulchrius ea poteris adaptare, ut reddantur legentibus gratiora. 107 Orator: Non nisi hoc audire quam avide exspectavi, quod sic luculentissime explanasti, et veritatem quaerentibus quam ornata videbuntur.
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mento145 per assimilarsi a tutte le cose, e non solo separatamente dalla materia e al di fuori di essa, ma secondo quella stessa semplicità che non è comunicabile alla materia. E in questo modo, nella semplicità che le è propria la mente intuisce tutte le cose, come se in un punto essa intuisse ogni grandezza, e in un centro ogni cerchio146; e nella sua semplicità la mente intuisce tutte le cose senza alcuna composizione di parti147, e non in quanto una cosa è questo e un’altra quest’altro, ma in quanto tutte le cose sono una sola e una sola è tutte. E questa è l’intuizione della verità assoluta. È come se uno vedesse, nella maniera che abbiamo descritto prima, come tutti gli enti partecipino in modo diverso dell’essere e, dopo di ciò, intuisse, nella maniera di cui stiamo trattando ora, ossia in modo semplice e al di sopra di ogni partecipazione e diversità, l’essere assoluto stesso148. Una tale persona vedrebbe certamente tutte le cose al di sopra della necessità determinata del complesso, e tutto ciò che prima vedeva nella diversità lo vedrebbe senza tale diversità, in termini cioè di necessità assoluta, in maniera semplicissima, senza numero e grandezza e senza alcuna alterità. Ora, in questo modo supremo di conoscere la mente utilizza se stessa in quanto è un’immagine di Dio; e Dio, che è tutte le cose, risplende in essa quando la mente, quale immagine vivente di Dio, si rivolge al suo esemplare e cerca con ogni sforzo di assimilarsi ad esso149. In questo modo, la mente intuisce tutte le cose come qualcosa di uno, e intuisce se stessa come un’assimilazione di questo uno, un’assimilazione grazie alla quale la mente si forma delle nozioni su questo uno che è tutto. Ed è in questo modo che la mente compie le sue speculazioni teologiche150, nelle quali, giunta, per così dire, al fine ultimo di tutte le sue nozioni, trova la sua quiete nel modo più soave, in quanto si trova nella verità più dilettevole della sua vita151. Su questo modo di essere della mente non si potrebbe mai dire abbastanza. Queste cose per ora le ho dette di corsa e in modo grossolano. Tu potrai invece renderle più belle raffinandone lo stile152, in modo che risultino più gradite ai lettori. Oratore. Speravo ardentemente di ascoltare proprio quello che hai spiegato magnificamente, e a coloro che ricercano la verità le tue spiegazioni appariranno quanto mai eccellenti.
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Philosophus: Expone quaeso, quomodo mens possibilitatem indeterminatam, quam materiam vocamus, attingit. Idiota: Per adulterinam quandam rationem, contrario quodam modo, quo de necessitate complexionis ad necessitatem transilit absolutam. Nam dum videt, quomodo omnia corpora per corporeitatem habent formatum esse, sublata corporeitate in quadam indeterminata possibilitate omnia, quae prius vidit, videt. Et quae prius vidit in corporeitate distincta et determinata actu exsistentia, nunc videt confusa, indeterminata, possibiliter. Et hic est modus universitatis, quo modo in possibilitate omnia videntur. Non tamen est modus essendi, quia posse esse non est. 108
Capitulum VIII
Quomodo an idem sit menti concipere, intelligere, notiones et assimilationes facere; et quomodo fiant sensationes secundum physicos. Philosophus: Satis de hoc. Ne propositum egrediamur, expone, si concipere mentis est intelligere. Idiota: Dixi mentem concipiendi virtutem. Unde excitata se movet concipiendo, quousque intelligat. Quare intellectus est mentis motus perfectus. Philosophus: Quando dicitur concipere? Idiota: Quando rerum facit similitudines sive mavis dicere notiones seu genera, differentias, species, proprium et accidens. Unde deus vim concipiendi creavit in anima, mens autem ea iam dicta facit. Unum tamen et idem est vis mentis et conceptio et similitudo et notio et genus et species. Et quamvis non dicamus idem
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Filosofo. Ora esponi, ti prego, in che modo la mente giunga a cogliere la possibilità indeterminata, che chiamiamo materia. Idiota. Attraverso una specie di ragionamento spurio153, e in un modo contrario, per così dire, a quello con il quale la mente passa dalla necessità del complesso alla necessità assoluta. Infatti, quando la mente vede che tutti i corpi hanno un essere che è formato dalla corporeità, una volta che essa rimuove la corporeità vede tutte le cose che vedeva prima in termini di una certa possibilità indeterminata154. E le cose che prima vedeva nella corporeità come esistenti in atto, distinte e determinate, adesso le vede in maniera confusa, indeterminata, come possibili ad esistere. E questo è un modo che riguarda la totalità delle cose, per cui tutte le cose vengono viste in termini di possibilità155. Non si tratta, tuttavia, di un modo d’essere, in quanto il poter-essere non è. CAPITOLO VIII
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Se per la mente sia la stessa cosa concepire, intendere, produrre nozioni e assimilazioni. Come avvengano le sensazioni secondo i fisici. Filosofo. Su questo argomento hai detto abbastanza. Per non allontanarci dal nostro tema, spiegaci se il concepire della mente coincide con l’intendere. Idiota. Ho detto156 che la mente è una forza capace di concepire. Per questo, quando riceve uno stimolo, la mente si muove e concepisce, fino a che non giunge ad intendere. L’intellezione, pertanto, è il movimento della mente giunto al suo compimento157. Filosofo. Quando si dice che la mente concepisce? Idiota Quando produce immagini mentali delle cose, o, se preferisci, nozioni, o quando distingue generi, differenze, specie, il proprio e l’accidente. Dio, pertanto, con la creazione ha posto nell’anima la capacità di concepire, mentre la mente fa le cose che abbiamo menzionato. Tuttavia, la capacità della mente, il concepire, l’immagine mentale, la nozione, il genere e la specie sono un’unica e medesima cosa. E sebbene non diciamo che l’intendere e il concepire siano la stessa cosa, tuttavia ciò che viene inteso viene
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intelligere et concipere, tamen quidquid intelligitur, et concipitur, et e converso. Sed actuale intelligitur et non concipitur. 109 Philosophus: Quomodo ais? Idiota: Concipere non est nisi modo materiae vel formae vel alio modo comprehendere. Actuale vero dicitur intelligi, i. e. proprietas eius mente comprehenditur. Dicitur etiam mens intelligere ex quo movetur, et initium motus potius passio dicitur, perfectio motus intellectus. Sed ut idem est dispositio et habitus, dispositio dum tendit ad perfectionem et post perfectionem habitus, ita unum et idem passio mentis et intellectus. Philosophus: Tamen intellectus non videtur dicere perfectionem. Idiota: Bene ais. Proprie mens dicitur intelligere, quando movetur, licet non dicatur intellectus nisi post perfectionem. Philosophus: Sunt igitur illa omnia unum et idem: vis concipiendi, conceptio, similitudo, notio, passio et intellectus. Idiota: Sunt sic idem, quod vis concipiendi non est aliquid eorum, quia dicitur vis ab aptitudine, quam habet a creatione, conceptio ab imitatione, quia imitatur materiam vel formam, scilicet eo quod modo materiae vel formae vel compositi comprehendit. Ex eo autem, quod conceptio dicitur, ex eo etiam similitudo seu notio rei. Et haec vocabula veraciter de se praedicantur, et quodlibet dicitur intellectus. 110 Philosophus: Miror, quomodo conceptio possit dici intellectus. Idiota: Quamvis conceptio dicatur ab imitatione et intellectus a perfectione, tamen hoc facit perfectio, quod intellectus dicatur
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anche concepito e viceversa. Ciò che esiste in atto, tuttavia, viene inteso e non [semplicemente] concepito. Filosofo. Che cosa intendi dire? Idiota. Concepire non è altro che comprendere secondo il modo della materia o della forma, o secondo un altro modo. Di ciò che è in atto, invece, si dice che viene inteso, ossia con la mente ne vengono comprese le proprietà. Si dice inoltre che la mente intende per il fatto che si muove, e l’inizio del movimento lo si chiama di preferenza passione158, mentre il compimento del movimento della mente lo si chiama intellezione. Ma come la disposizione e l’abito sono la stessa cosa – si ha la disposizione quando si tende ad un compimento e l’abito dopo che si è raggiunto il compimento –, così sono un’unica e medesima cosa il patire della mente e l’intellezione. Filosofo. Non mi sembra, tuttavia, che «intellezione» significhi «compimento». Idiota. Hai ragione: in senso proprio, si dice che la mente intende quando si muove159, anche se si parla di intellezione solo dopo che il movimento della mente ha raggiunto il suo compimento. Filosofo. Sono allora un’unica e medesima cosa tutte queste funzioni della mente: la capacità di concepire, il concepire, l’immagine mentale, la nozione, la passione e l’intellezione. Idiota. Sono la medesima cosa, in modo tale, tuttavia, che la capacità di concepire non è nessuna di esse in particolare, in quanto si chiama «capacità» a motivo dell’attitudine che ha ricevuto dalla creazione e «concepire» a motivo dell’imitazione, per il fatto, cioè, che imita la materia o la forma, nel senso, cioè, che essa comprende secondo il modo della materia o della forma o del composto. Per lo stesso motivo per il quale la si chiama «concepire», la si chiama tuttavia anche immagine [mentale] o nozione di una cosa. E tutti questi nomi si predicano con verità l’uno dell’altro e ciascuno di essi indica l’intellezione. Filosofo. Sono stupito del fatto che il «concepire» lo si possa chiamare «intellezione». Idiota. Benché il concepire si chiami così perché è un’imitazione e l’intellezione si chiami così perché essa costituisce un compimento, il compimento, tuttavia, fa sì che il concepire venga chiama-
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conceptio. Tunc enim mens concipit, cum ad perfectionem ducitur intellectus. Philosophus: Vis forte etiam admittere passionem mentis vocari intellectum? Idiota: Volo, nam motus mentis est intellectus, cuius initium est passio. Philosophus: Igitur et conceptio passio? Idiota: Non sequitur, ut per te vides. Similiter quamvis genera et species sint intellectus, non tamen propterea sunt passiones animae; transit enim passio animae manentibus generibus et speciebus. 111 Philosophus: Satis de hoc. Cum varii varie loquantur, de istis sufficiat mihi te audivisse. Sed dicito: Quomodo nominas vim illam mentis, qua omnia in necessitate complexionis intuetur, et aliam, qua in necessitate absoluta? Idiota: Ego, qui sum idiota, non multum ad verba attendo, puto tamen, quod convenienter vis illa disciplina dici possit, qua mens ad suam immutabilitatem respiciendo rerum formas extra materiam considerat, eo quia per disciplinam doctrinamque ad hanc formae devenitur considerationem. Sed vis illa, qua mens intuendo ad suam simplicitatem omnia absque compositione in simplicitate intuetur, intelligentia dici potest. Philosophus: Legi per aliquos vim, quam tu doctrinam, intelligentiam, et illam, quam tu intelligentiam, illi intellectibilitatem nominari. Idiota: Non displicet, quia et sic convenienter vocari possunt. 112 Orator: Optarem te, philosophe, audire, quomodo physici opinentur sensationes fieri. In hoc te idiota peritiorem puto, qui et gaudebit, si feceris.
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to intellezione. La mente, infatti, concepisce quando viene condotta al compimento proprio dell’intellezione. Filosofo. Vuoi forse sostenere che anche il patire della mente si chiama intellezione? Idiota. Sì. Infatti, l’intellezione è un movimento della mente, il cui inizio è un patire. Filosofo. Allora anche il concepire è un patire. Idiota. No, come vedi da te stesso. In modo simile, i generi e le specie, sebbene siano delle intellezioni, non sono tuttavia per questo delle passioni dell’anima; infatti, una passione dell’anima passa, mentre i generi e le specie permangono. Filosofo. Su questo argomento è stato detto abbastanza. Dal momento che i diversi filosofi ne parlano ciascuno in modo diverso, per me è sufficiente averti ascoltato. Ma, dimmi: come chiami quella facoltà della mente mediante la quale essa intuisce tutte le cose nella necessità del complesso, e quell’altra mediante la quale le intuisce nella necessità assoluta? I diota. Io, che sono un idiota, non presto molta attenzione alle parole; ciononostante, ritengo che si possa convenientemente chiamare «disciplina» quella facoltà mediante la quale la mente, quando guarda alla propria immutabilità, considera le forme delle cose al di fuori della materia, e questo perché è attraverso la disciplina e la dottrina che la mente giunge a considerare in questo modo le forme160. Possiamo invece chiamare «intelligenza» quella facoltà mediante la quale la mente, intuendo la propria semplicità, intuisce tutte le cose nella semplicità, senza alcuna composizione161. Filosofo. Ho letto che alcuni chiamano «intelligenza» quella facoltà che tu chiami «dottrina» e chiamano «intelligibilità»162 quella facoltà che tu chiami «intelligenza». Idiota. Ciò non mi dispiace, perché le si può chiamare convenientemente anche così. Oratore. Da te, filosofo, vorrei invece ascoltare come i fisici ritengono che avvengano le sensazioni163. Su questo argomento penso che tu sia più competente dell’idiota, il quale sarà anche lui felice di ascoltarti.
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Philosophus: Gauderem aliquid accepti posse recitare. Unde id, quod petis, sic se habet: Dicunt physici, quod anima est immixta spiritui tenuissimo per arterias diffuso, ita quod spiritus ille vehiculum sit animae, illius vero spiritus vehiculum sanguis. Est ergo arteria quaedam illo spiritu plena, quae ad oculos dirigitur, ita ut arteria illa prope oculos bifida fiat et illo spiritu plena ad oculorum orbes, in qua parte pupilla est, proveniat. Est itaque spiritus ille eatenus per arteriam illam diffusus instrumentum animae, per quod videndi sensum exerceat. Duae arteriae ad aures diriguntur illo spiritu plenae, similiter ad nares, eodem modo ad palatum arteriae quaedam diriguntur. Diffunditur etiam spiritus ille per medullas usque ad extremitatem articulorum. Spiritus ergo ille, qui ad oculos dirigitur, est agillimus. 113 Cum ergo aliquod exterius obstaculum invenit, repercutitur spiritus ille, et excitatur anima ad perpendendum illud, quod obstat. Sic in auribus voce repercutitur spiritus, et excitatur anima ad comprehendendum. Et sicut auditus fit in aëre tenuissimo, ita quoque odoratus in aëre spisso vel potius fumoso, qui, cum nares subintrat, ex sua fumositate spiritum retardat, ut anima excitetur ad illius fumositatis odorem comprehendendum. Pariformiter cum humidum spongiosum palatum subintrat, tardatur spiritus, et excitatur anima ad gustandum. Utitur etiam spiritu per medullas diffuso anima pro instrumento tactus. Cum enim aliquod solidum obstat corpori, offenditur et quodammodo retardatur spiritus, et inde tactus. Circa oculos utitur ignea vi, circa aures utitur vi aetherea vel potius aërea pura, circa nares vi spissa aërea et fumosa, circa palatum vi aquea, circa medullas vi terrea, et hoc secundum quattuor elementorum ordinem, ut, sicut oculi altiores sunt auribus, sic spiritus, qui ad oculos dirigitur, altior est et superior, ut quodammodo igneus dicatur, ut sit in homine sensuum dispositio facta ad similitudinem ordinis sive dispositionis quattuor elemen-
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Filosofo. Sarei felice di potervi riferire qualcosa di ciò che ho appreso. La risposta alla questione che mi poni è dunque la seguente: i fisici dicono che l’anima è mescolata ad uno spirito sottilissimo, che è diffuso attraverso le arterie, di modo che questo spirito è il veicolo dell’anima, mentre il sangue è il veicolo di questo spirito164. C’è dunque un’arteria, che è piena di questo spirito, ed è quella che è diretta agli occhi; vicino agli occhi essa si divide poi in due, e ciascuna di queste due arterie, piena di quello spirito, raggiunge i globi oculari, nella parte dove c’è la pupilla165. È pertanto tale spirito, diffuso fin là attraverso questa arteria, lo strumento dell’anima, tramite il quale essa esercita il senso della vista. Due arterie, piene di questo spirito, sono dirette alle orecchie e altre due alle narici; allo stesso modo, alcune arterie sono dirette al palato. Questo spirito si diffonde anche attraverso le midolla fino all’estremità delle articolazioni. Lo spirito, poi, che è diretto agli occhi, è agilissimo. Quando, pertanto, incontra un qualche ostacolo esterno, questo spirito viene ripercosso indietro e l’anima riceve uno stimolo che la spinge a considerare ciò che fa da ostacolo. Così nelle orecchie lo spirito viene ripercosso dalla voce e l’anima viene stimolata ad udire. Inoltre, come l’udito si produce in un’aria molto rarefatta, così l’odorato si produce in un’aria densa, o, meglio, fumosa, la quale, quando penetra nelle narici, rallenta, con la sua fumosità, lo spirito, cosicché l’anima viene stimolata a percepire l’odore di quella fumosità. Parimenti, quando nel palato spugnoso penetra qualcosa di umido, lo spirito viene rallentato e l’anima viene stimolata al gusto. L’anima utilizza anche lo spirito diffuso nelle midolla come strumento del tatto. Infatti, quando qualcosa di solido presenta un ostacolo al corpo, lo spirito vi urta contro e viene in qualche modo rallentato, e da ciò nasce il tatto. Per quanto concerne gli occhi, l’anima usa una forza ignea, per le orecchie una forza eterea, o, meglio, di aria pura, per le narici una forza di aria densa e fumosa, per il palato usa una forza acquea, per le midolla una forza terrea, e tutto questo secondo l’ordine dei quattro elementi, di modo che, come gli occhi si trovano più in alto rispetto alle orecchie166, così anche lo spirito che si dirige agli occhi è più elevato e nobile, tanto che lo si chiama in un certo senso igneo. Nell’uomo, pertanto, la disposizione dei sensi è fatta a somiglianza dell’ordine e della disposizio-
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torum. Hinc velocior visus quam auditus. Unde fit, ut prius coruscationem videamus, quam tonitrua audiamus, licet simul fiant. Facit etiam oculorum adeo fortis radiorum directio subtilis et acuta, ut aër ei cedat nec aliquid ei obsistere possit, nisi grossum sit terreum vel aqueum. 114 Cum ergo spiritus ille instrumentum sit sensuum – oculi, nares et cetera quasi fenestrae sunt et viae, per quas spiritus ille ad sentiendum exitum habet – patet, quod nihil sentitur nisi per obstaculum. Unde fit, ut aliqua re obstante spiritus ille, qui sentiendi instrumentum est, tardetur et anima quasi tarda rem illam, quae obstat, confuse per sensus ipsos comprehendat. Sensus enim, quantum in se est, nihil terminat. Quod enim, cum aliquid videmus, terminum in ipso ponimus, illud quidem imaginationis est, quae adiuncta est sensui, non sensus. Est autem in prima parte capitis, in cellula phantastica, spiritus quidam multo tenuior et agilior spiritui per arterias diffuso, quo cum anima utitur pro instrumento, subtilior fit, ut etiam re absentata formam comprehendat in materia. Quae vis animae imaginatio dicitur, quoniam per eam anima rei absentatae imaginem sibi conformat. Et per hoc a sensu differt, qui solum re praesente formam comprehendit in materia, imaginatio vero re absentata, confuse tamen, ut statum non discernat, sed multos status simul confuse comprehendat. 115 Est vero in media parte capitis, in illa scilicet cellula, quae rationalis dicitur, spiritus tenuissimus magisque tenuis quam in phantastica, et cum anima illo spiritu pro instrumento utitur, adhuc fit subtilior, ut etiam statum a statu discernat, vel statum vel formatum. Nec tamen rerum comprehendit veritatem, quoniam formas
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ne dei quattro elementi. La vista, quindi, è più rapida rispetto all’udito e per questo accade che vediamo prima il lampo e poi udiamo i tuoni, anche se i due fenomeni si verificano nello stesso momento167. La direzione sottile, acuta e molto forte dei raggi visivi fa sì che anche l’aria ceda loro e che nessuna cosa possa ostacolarli, a meno che non si tratti di una massa di terra o di acqua. Dal momento, pertanto, che questo spirito è lo strumento dei sensi – gli occhi, le narici e gli altri sensi sono come delle finestre e delle strade attraverso le quali questo spirito esce per arrivare a sentire168 –, è evidente che non si può sentire nulla se non per mezzo di un ostacolo. Per questo accade che, quando c’è qualcosa che l’ostacola, quello spirito, che è lo strumento per sentire, viene rallentato e l’anima, come se fosse anch’essa rallentata, percepisce in maniera confusa, mediante i sensi, la cosa che la ostacola. Il senso, infatti, per quanto è in esso, non determina nulla169. Il fatto, ad esempio, che, quando vediamo qualcosa, riusciamo a determinarla, è dovuto non al senso, ma all’immaginazione, che è congiunta ad esso. Nella parte anteriore della testa, nella cella dove ha sede la facoltà immaginativa170, c’è uno spirito, infatti, che è molto più tenue ed agile dello spirito che è diffuso attraverso le arterie, e quando l’anima lo usa come strumento esso diventa ancora più sottile, tanto che l’anima può cogliere la forma insita nella materia anche quando una cosa è assente. Questa capacità dell’anima viene chiamata «immaginazione», perché, tramite essa, l’anima si forma l’immagine di una cosa che è assente. Ed è per questo che l’immaginazione differisce dal senso: il senso coglie la forma insita nella materia solo quando la cosa è presente, mentre l’immaginazione la coglie anche quando la cosa è assente, per quanto in maniera confusa, per cui non distingue il singolo stato, ma coglie in modo confuso più stati insieme. Nella parte centrale della testa, ossia in quella cella che viene chiamata «razionale», c’è invece uno spirito sottilissimo, più sottile di quello presente nella cella della facoltà immaginativa, e, quando l’anima utilizza come strumento questo spirito, esso diventa ancora più sottile, in modo tale che l’anima distingue anche uno stato dall’altro, sia che si tratti di uno stato o di qualcosa dotato di una forma. Ciononostante, l’anima non coglie la verità delle cose, in
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comprehendit materiae admixtas, materia vero confundit formam, ut veritas circa eam comprehendi non possit. Haec autem vis animae ratio appellatur. Cum his tribus modis anima corporeo utitur instrumento, per se ipsam anima comprehendit, quando se ipsam recipit, ita ut se ipsa utatur pro instrumento, ut a te audivimus. Orator: Physici, qui haec post experientiam nobis manifesta fecerunt, laudandi sunt certe, quia pulchra et placida. Idiota: Et hic sapientiae amator laudes et gratias meretur maximas. 116
Capitulum IX
Quomodo mens omnia mensurat faciendo punctum, lineam et superficiem; et quomodo est punctus unus et complicatio ac perfectio lineae; et de natura complicationis; et quomodo facit adaequatas mensuras variarum rerum; et unde stimuletur ad faciendum. Philosophus: Video noctem accedere. Velis igitur, idiota, ad multa, quae restant, properare et exponere, quomodo mens omnia mensurat, ut a principio asseruisti. Idiota: Mens facit punctum terminum esse lineae et lineam terminum superficiei et superficiem corporis, facit numerum, unde multitudo et magnitudo a mente sunt, et hinc omnia mensurat. Philosophus: Explana, quomodo mens facit punctum. Idiota: Nam punctus est iunctura lineae ad lineam vel lineae terminus. Cum ergo lineam cogitaveris, poterit mens iuncturam duarum medietatum eius secum considerare. Quod si fecerit, erit linea tripunctalis propter duos eius terminos et iuncturam duarum
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quanto essa coglie le forme mescolate alla materia, e la materia rende confusa la forma, di modo che non è possibile coglierne la vera natura. Ora, questa capacità dell’anima si chiama «ragione»171. L’anima utilizza lo strumento corporeo in questi tre modi; ma l’anima conosce anche attraverso se stessa, quando si volge a sé, in modo da utilizzare come strumento se stessa, come abbiamo ascoltato da te, o idiota172. Oratore. I fisici, che ci hanno chiarito queste cose sulla base della loro esperienza, sono certamente da lodare, perché si tratta di cose belle e soddisfacenti. Idiota. E questo nostro amante della sapienza merita grandissime lodi e ringraziamenti vivissimi. CAPITOLO IX
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Come la mente misuri tutte le cose costruendo il punto, la linea e la superficie. Come vi sia un punto solo, che è la complicazione e la perfezione della linea. Sulla natura della complicazione. Come la mente faccia misure adeguate delle diverse cose e da che cosa venga stimolata a farlo. Filosofo. Vedo che si avvicina la notte. Vuoi, allora, caro idiota, affrettarti a passare ai molti altri argomenti che restano da trattare, ed esporre in che modo la mente misuri tutte le cose, come hai affermato sin dall’inizio?173 Idiota. La mente costruisce il punto come termine della linea, e la linea come termine della superficie, e la superficie come termine del corpo. Essa costruisce anche il numero, per cui la molteplicità e la grandezza dipendono dalla mente, la quale, pertanto, misura tutte le cose174. Filosofo. Spiega in che modo la mente costruisca il punto. Idiota. Il punto è il luogo di congiunzione di una linea con un’altra, o è il termine estremo di una linea. Pertanto, quando pensi ad una linea, la tua mente potrà considerare in se stessa la congiunzione delle sue due metà. Se farà questo, allora la linea sarà di tre punti, perché sarà formata dai due punti che costituiscono i termini estremi della linea e dal punto di congiunzione delle sue due
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medietatum, quam sibi mens proposuit. Nec sunt diversa punctorum genera terminus lineae atque iunctura, nam duarum medietatum iunctura terminus est ideoque linearum. Et si unicuique medietati mens proprium terminum tribuat, quadripunctalis linea erit. Ita per quotcumque partes praeexcogitata linea dividatur a mente, quot illarum partium termini fuerint, tot punctorum praecogitata linea esse iudicabitur. 117 Philosophus: Quomodo facit lineam? Idiota: Considerando longitudinem sine latitudine, et superficiem considerando latitudinem sine soliditate, licet sic actu nec punctus nec linea nec superficies esse possit, cum sola soliditas extra mentem actu exsistat. Sic omnis rei mensura vel terminus ex mente est. Et ligna et lapides certam mensuram et terminos habent praeter mentem nostram, sed ex mente increata, a qua rerum omnis terminus descendit. Philosophus: Arbitraris punctum esse indivisibilem? Idiota: Arbitror punctum terminalem indivisibilem, quia termini non est terminus. Si divisibilis foret, non foret terminus, quia haberet terminum. Sic non est quantus, et ex punctis non potest quantitas constitui, quia ex non-quantis composita esse nequit. 118 Philosophus: Concordas cum Boethio dicente: Si punctum puncto addas, nihil magis facis, quam si nihil nihilo iungas. Idiota: Quare si duarum linearum terminos iungas, lineam quidem maiorem efficies, sed nullam constituet quantitatem terminorum coniunctio. Philosophus: Dicisne plura puncta? Idiota: Neque plura puncta neque plures unitates. Sed cum
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metà, che la mente ha preso in considerazione. Ora, il punto che costituisce il termine estremo di una linea e il punto di congiunzione delle sue due metà non sono generi di punti diversi, in quanto il punto di congiunzione delle due metà è anche il punto che costitui sce il termine estremo di entrambe le linee. E se poi la mente attribuisce a ciascuna metà un termine estremo proprio, la linea avrà allora quattro punti. Pertanto, qualunque sia il numero di parti in cui la linea pensata viene divisa dalla mente, quanti saranno i termini estremi di quelle parti, tanti saranno, nel nostro giudizio, i punti di cui è composta quella linea pensata. Filosofo. In che modo la mente costruisce la linea? Idiota. Considerando la lunghezza senza la larghezza; e la mente costruisce la superficie considerando la larghezza senza lo spessore175, sebbene né un punto, né una linea, né una superficie possano esistere in atto in questo modo176, dal momento che, fuori della mente, esiste in atto solo ciò che è dotato di spessore. In questo senso, la misura e il termine di ogni cosa provengono dalla mente. E legni e pietre hanno certamente una loro determinata misura e termini loro propri, che sono indipendenti dalla nostra mente, ma che derivano tuttavia dalla mente increata, dalla quale discende ogni termine delle cose177. Filosofo. Ritieni che il punto sia indivisibile? Idiota. Ritengo che il punto terminale sia indivisibile178, perché non c’è un termine del termine: se fosse divisibile, non sarebbe un termine, perché avrebbe un termine. Allo stesso modo, il punto non ha alcuna quantità, e la quantità non può essere costituita da punti, perché non può essere composta da ciò che non ha quantità. Filosofo. Sei d’accordo con Boezio, il quale sostiene che «se aggiungi un punto ad un punto non fai nulla di più di quello che faresti congiungendo il nulla al nulla»179. Idiota. Per questo, se congiungi i termini estremi di due linee, otterrai certamente come risultato una linea più lunga, ma la congiunzione dei termini estremi non costituisce alcuna quantità. Filosofo. Vuoi forse dire che i punti sono molti? Idiota. Non c’è una molteplicità di punti, né una molteplicità di unità. Piuttosto, dal momento che il punto è il termine di una li-
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punctus sit lineae terminus, ubique in linea reperiri potest. Nec tamen in ea est nisi unus punctus, qui extensus linea est. Philosophus: Nihil ergo in veritate reperitur in linea nisi punctus? Idiota: Verum est. Sed propter variabilitatem materiae, quae subest, quaedam ibi est extensio, sicut cum non sit nisi una unitas, ex pluribus tamen unitatibus dicitur numerus constare propter alteritatem subiectorum unitati. Linea itaque est puncti evolutio et superficies lineae et soliditas superficiei. Unde si tollis punctum, deficit omnis magnitudo, si tollis unitatem, deficit omnis multitudo. 119 Philosophus: Quomodo intelligis lineam puncti evolutionem? Idiota: Evolutionem id est explicationem, quod non est aliud quam punctum in atomis pluribus ita quod in singulis coniunctis et continuatis esse. Est enim unus et idem punctus in omnibus atomis sicut una et eadem albedo in omnibus albis. Philosophus: Quomodo intelligis atomum? Idiota: Secundum mentis considerationem continuum dividitur in semper divisibile et multitudo crescit in infinitum, sed actu dividendo ad partem actu indivisibilem devenitur, quam atomum appello. Est enim atomus quantitas ob sui parvitatem actu indivisibilis. Sic etiam mentis consideratione multitudo non habet finem, quae tamen actu terminata est. Rerum namque omnium multitudo sub determinato quodam numero cadit licet nobis incognito. 120 Philosophus: Estne punctus lineae perfectio, cum sit eius terminus? Idiota: Est eius perfectio et totalitas, quae lineam in se complicat. Punctare enim est rem ipsam terminare; ubi autem terminatur,
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nea, lo si può trovare ovunque nella linea. Ciononostante, nella linea non c’è che un solo punto, il quale, esteso, forma la linea180. Filosofo. Nella linea, dunque, non si trova in effetti nulla se non il punto? Idiota. È proprio così. Tuttavia, a causa della variabilità della materia che serve da sostrato, vi è nella linea anche una certa estensione; allo stesso modo, benché non vi sia che una sola unità, si dice che il numero consiste di una molteplicità di unità a causa dell’alterità di ciò che fa da sostrato all’unità. La linea, pertanto, è lo sviluppo del punto, la superficie della linea, e il solido della superficie. Di conseguenza, se togli il punto, scompare ogni grandezza, se togli l’unità, scompare ogni molteplicità. Filosofo. Che cosa intendi dire affermando che la linea è lo sviluppo del punto? Idiota. Sviluppo vuol dire esplicazione, e questo non significa altro che il punto è presente in una molteplicità di atomi, in modo tale che esso si trova in ciascuno dei singoli atomi che sono congiunti e in continuità gli uni con gli altri. In tutti gli atomi, infatti, c’è un unico ed identico punto, così come c’è un’unica ed identica bianchezza in tutte le cose bianche. Filosofo. Che cosa intendi per «atomo»? Idiota. Secondo il modo di considerare della mente, il continuo si divide in parti che sono sempre ulteriormente divisibili, e la loro molteplicità cresce all’infinito; nel dividere in atto, tuttavia, si giunge ad una parte che è indivisibile in atto, parte che io chiamo «atomo». Un atomo, infatti, è una quantità che, a motivo della sua piccolezza, è indivisibile in atto181. Così, secondo il modo di considerare della mente, anche la molteplicità non ha fine; essa, tuttavia, è terminata in atto. La molteplicità di tutte le cose, infatti, rientra sotto un certo numero determinato, sebbene questo numero sia a noi sconosciuto182. Filosofo. E il punto non è forse il perfetto compimento della linea, dato che ne è il termine? Idiota. È il suo perfetto compimento e la sua totalità, che complica in sé la linea. Porre un punto significa infatti fissare un termine ad una cosa. Ma dove una cosa ha il suo termine, lì essa ha il suo
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ibidem perficitur. Perfectio vero eius est ipsius totalitas. Unde punctus est terminus lineae et eius totalitas ac perfectio, quae ipsam lineam in se complicat, sicut linea punctum explicat. Cum enim perfectionem totalem lineae in geometricis dico esse ex a puncto in b, tunc ante protractionem lineae de a ad b per puncta a b totalitatem lineae designavi, scilicet quod linea non debet ultra protrahi. Unde quod est actu vel intellectu rei totalitatem ab hoc in hoc includere, hoc est lineam in puncto complicare. Explicare autem est de a in b particulatim lineam trahere. Sic linea explicat complicationem puncti. 121 Philosophus: Putabam punctum complicationem lineae sicut unitatem numeri, quia nihil in linea reperitur nisi punctus ubique sicut in numero nihil nisi unitas. Idiota: Non male considerasti. Idem est in diversitate modi dicendi, et modo, quo dixisti, in omnibus complicationibus utere. Nam motus est explicatio quietis, quia nihil reperitur in motu nisi quies. Sic nunc explicatur per tempus, quia nihil reperitur in tempore nisi nunc. Ita de aliis. 122 Philosophus: Quomodo ais in motu non nisi quietem reperiri? Idiota: Cum movere sit de uno statu in alium cadere, quia, quamdiu res se habet in uno statu, non movetur, sic nihil reperitur in motu nisi quies. Motus enim est discessio ab uno. Unde moveri est ab uno et hoc est ad aliud unum. Sic de quiete in quietem transire est movere, ut non sit aliud movere nisi ordinata quies sive quietes seriatim ordinatae. Multum proficit, qui ad complicationes et earum explicationes attente advertit, maxime quomodo omnes complicationes sunt imagines complicationis simplicitatis infinitae et non explicationes eius, sed imagines, et sunt in necessitate com-
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perfetto compimento183. E il perfetto compimento di una cosa è la sua totalità. Il punto, pertanto, è il termine della linea ed è la sua totalità e il suo perfetto compimento, il quale complica in sé la linea, così come la linea esplica il punto184. Quando infatti in geometria dico che la totalità compiuta di una linea va dal punto A al punto B, con i punti A e B ho designato la totalità della linea prima ancora di tracciarla da A a B, ho indicato, cioè, che la linea non deve essere protratta oltre questi punti. Pertanto, includere la totalità di una cosa, che esista in atto o nell’intelletto, tra un punto e un altro, significa complicare la linea nel punto. Esplicare invece il punto significa tracciare la linea parte dopo parte, dal punto A al punto B. Così la linea esplica la complicazione del punto. Filosofo. Pensavo che il punto fosse la complicazione della linea come l’unità lo è del numero, dal momento che in ogni parte della linea non si trova nient’altro che il numero, così come nel numero non si trova nient’altro che l’unità. Idiota. La tua osservazione non è sbagliata. Si tratta della stessa cosa espressa in modi diversi, e il modo in cui l’hai espressa tu lo puoi utilizzare per tutti i tipi di complicazione. Il movimento, infatti, è l’esplicazione della quiete, perché nel movimento non si trova altro che la quiete. Così, l’ora viene esplicata attraverso il tempo, perché nel tempo non si trova altro che l’ora, e così via185. Filosofo. In che senso dici che nel movimento non si trova altro che la quiete? Idiota. Muoversi significa passare da uno stato ad un altro186, perché una cosa, finché si trova in uno stato, non si muove; così nel movimento non si trova altro che la quiete. Il movimento, infatti, è l’allontanamento da uno stato. Muoversi, pertanto, significa allontanarsi da uno stato, e questo vuol dire passare ad un altro stato. Muoversi significa quindi passare da uno stato di quiete ad un altro stato di quiete, di modo che il movimento non è che una quiete ordinata, o una serie ordinata di stati di quiete che si succedono l’un l’altro. Chi presta grande attenzione alle complicazioni e alle loro esplicazioni fa molti progressi, e li fa soprattutto chi presta attenzione al fatto che tutte le complicazioni sono immagini della complicazione della semplicità infinita; esse non sono sue esplicazioni, ma sue immagini, ed esistono nella necessità del complesso. E
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plexionis. Et mens prima imago complicationis simplicitatis infinitae vim harum complicationum sua vi complectens est locus seu regio necessitatis complexionis, quia quae vere sunt, abstracta sunt a variabilitate materiae et non sunt materialiter, sed mentaliter; de quo superflue dictum aestimo. 123 Orator: Nequaquam superflue, etiamsi repetite. Nam utile est saepe dici quod numquam potest satis dici. Philosophus: Admiror, cum mens, ut ais, idiota, a mensura dicatur, cur ad rerum mensuram tam avide feratur. Idiota: Ut sui ipsius mensuram attingat. Nam mens est viva mensura, quae mensurando alia sui capacitatem attingit. Omnia enim agit, ut se cognoscat. Sed sui mensuram in omnibus quaerens non invenit, nisi ubi sunt omnia unum. Ibi est veritas praecisionis eius, quia ibi exemplar suum adaequatum. 124 Philosophus: Quomodo mens tam variarum rerum se mensuram facere potest adaequatam? Idiota: Modo, quo absoluta facies omnium facierum se faceret mensuram. Quando enim attendis mentem esse absolutam quandam mensuram, quae non potest esse maior nec minor, cum sit incontracta ad quantum, et cum hoc attendis illam mensuram esse vivam, ut per se ipsam mensuret, quasi si circinus vivus per se mensuraret, tunc attingis, quomodo se facit notionem, mensuram seu exemplar, ut se in omnibus attingat. 125 Philosophus: Intelligo simile in circino nullius determinatae quantitatis in eo, quod circinus, et tamen extenditur et contrahitur, ut assimiletur determinatis. Sed an se assimilet modis essendi, dicito. Idiota: Immo omnibus. Conformat enim se possibilitati, ut omnia possibiliter mensuret; sic necessitati absolutae, ut omnia
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la mente, che è la prima immagine della complicazione della semplicità infinita e che abbraccia nella sua forza la forza di queste altre complicazioni187, è il luogo o l’ambito della necessità del complesso, perché ciò che è vero è separato dalla variabilità della materia ed esiste non in maniera materiale, ma mentale. Su questo argomento credo di aver detto anche troppo. Oratore. Ciò che viene detto su questo argomento non è mai troppo, anche se viene ripetuto. È utile infatti ripetere spesso ciò che non si può mai dire a sufficienza. Filosofo. Mi chiedo perché la mente, che, come tu dici, o idiota, viene chiamata così dal «misurare», si volga con così tanta avidità a misurare le cose. Idiota. Lo fa per poter giungere a cogliere la misura di se stessa. La mente, infatti, è una misura vivente, che giunge a cogliere la sua capacità misurando le altre cose. Tutto ciò che essa fa, infatti, lo fa per conoscere se stessa188; ma la misura di se stessa, che la mente ricerca in tutte le cose, essa non la trova se non là dove tutte le cose sono un’unità. Lì, infatti, risiede la verità della sua precisione, perché lì risiede il suo esemplare adeguato. Filosofo. Come può la mente porsi come misura adeguata di cose che sono così diverse? Idiota. Nel modo in cui un volto assoluto si porrebbe come misura di tutti i volti189. Se consideri che la mente è una specie di misura assoluta190, che non può essere né più grande, né più piccola, in quanto non è contratta nella quantità, e se consideri, inoltre, che essa è una misura vivente, per cui misura mediante se stessa, quasi come se un compasso vivente misurasse mediante se stesso, allora capisci in che modo la mente si ponga come nozione, misura o esemplare per cogliere se stessa in tutte le cose. Filosofo. Comprendo il paragone con un compasso, il quale non ha una quantità determinata, nel senso che la mente è come un compasso, e tuttavia si estende e si contrae per assimilarsi alle singole quantità determinate. Ma dimmi se la mente si assimila ai [diversi] modi dell’essere. Idiota. Sì, a tutti. Si conforma infatti alla possibilità, per misurare tutte le cose rispetto alla loro possibilità; allo stesso modo,
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unice et simpliciter ut deus mensuret; sic necessitati complexionis, ut omnia in proprio esse mensuret; atque possibilitati determinatae, ut omnia, quemadmodum exsistunt, mensuret. Mensurat etiam symbolice comparationis modo, ut quando utitur numero et figuris geometricis et ad similitudinem talium se transfert. Unde subtiliter intuenti mens est viva et incontracta infinitae aequalitatis similitudo. 126
Capitulum X
Quomodo comprehensio veritatis est in multitudine et magnitudine. Philosophus: Non te taedeat sermonem in noctem protrahere, mi amicissime, ut adhuc tua praesentia frui valeam, necessitor enim cras abire. Et exponas dictum Boethii utique doctissimi viri, quid velit dicere, quando ait comprehensionem veritatis omnium rerum esse in multitudine et magnitudine. Idiota: Opinor, quod multitudinem ad discretionem rettulit, magnitudinem ad integritatem. Nam rei veritatem recte comprehendit, qui eam ab omnibus aliis rebus discernit et ipsius etiam rei integritatem attingit, ultra quam vel infra integrum esse rei non progreditur. Disciplina namque in geometria trianguli integritatem determinat, ita quod nec ultra sit nec infra, in astronomia determinat motuum integritatem et quid per singula. Per disciplinam magnitudinis habetur terminus integritatis rerum et mensura sicut per numeri disciplinam rerum discretio. Numerus quidem ad confusionem communium discernendam valet, similiter ad colligendum rerum communionem, magnitudo vero ad comprehendendum integritatis esse rerum terminum et mensuram.
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si conforma alla necessità assoluta, per misurare tutte le cose nella loro unità e semplicità, come fa Dio; alla necessità della complesso, per misurare tutte le cose nel loro proprio essere, e alla possibilità determinata, per misurare tutte le cose secondo il modo in cui ciascuna di esse esiste. La mente misura anche in maniera simbolica191, secondo il modo della comparazione, come quando si serve del numero e delle figure geometriche e si trasforma in un’immagine di tali cose. Per chi sa vedere a fondo e con perspicacia, la mente è dunque un’immagine vivente192 e non contratta dell’uguaglianza infinita. CAPITOLO X
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Come la comprensione della verità risieda nella molteplicità e nella grandezza. Filosofo. Spero non ti dispiaccia, mio caro amico, se prolunghiamo questo colloquio fino a questa sera, in modo che io possa ancora godere della tua presenza, visto che domani devo partire. Spiegami che cosa intende dire Boezio, uomo senz’altro dottissimo, quando sostiene che la comprensione della verità di tutte le cose risiede nella molteplicità e nella grandezza193. Idiota. Ritengo che egli abbia usato il termine «molteplicità» per indicare l’essere distinto di una cosa e il termine «grandezza» per indicare la sua completezza194. Infatti, comprende correttamente la verità di una cosa chi la distingue da tutte le altre cose e la coglie anche nella sua completezza, al di sopra o al di sotto della quale l’essere della cosa non può andare, se vuole essere completo. In geometria, ad esempio, la scienza determina la completezza del triangolo in modo tale che un triangolo non può essere né qualcosa di più, né qualcosa di meno, in astronomia la scienza determina la completezza dei moti e le proprietà di ciascuno di essi. Con la scienza della grandezza si ottiene il limite della completezza delle cose e la misura, così come, attraverso la scienza del numero, si ottiene la loro distinzione195. Il numero serve in effetti a distinguere le proprietà comuni che sono tra loro confuse e, parimenti, ad unificare le cose in ciò che esse hanno di comune, mentre la grandezza serve a comprendere il limite e la misura della completezza dell’essere delle cose.
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nihil ergo scitur, nisi omnia sciantur. Idiota: Verum dicis. Nam non scitur pars nisi toto scito; totum enim mensurat partem. Quando enim coclear per partes ex ligno exscindo, partem adaptando ad totum respicio, ut coclear bene proportionatum eliciam. Sic totum coclear, quod mente concepi, est exemplar, ad quod respicio, dum partem fingo. Et tunc possum perfectum coclear efficere, quando quaelibet pars proportionem suam in ordine ad totum reservat. Similiter pars ad partem comparata suam integritatem debet observare. Unde necesse erit, ut ad scientiam unius praecedat scientia totius et partium eius. Quare deus, qui est exemplar universitatis, si ignoratur, nihil de universitate, et si universitas ignoratur, nihil de eius partibus sciri posse manifestum. Ita scientiam cuiuslibet praecedit scientia dei et omnium. Philosophus: Adde quaeso, cur dicat sine quadruvio nulli recte philosophandum. Idiota: Ob ea iam dicta. Nam quia in arithmetica et musica continetur virtus numerorum, unde rerum habetur discretio, in geometria vero et astronomia magnitudinis continetur disciplina, unde tota comprehensio integritatis rerum emanat, ideo nulli sine quadruvio philosophandum. 128 Philosophus: Miror, si voluit omne id, quod est, esse magnitudinem vel multitudinem. Idiota: Nequaquam puto, sed quod omne, quod est, cadit sub magnitudine vel multitudine, quoniam demonstratio omnium rerum fit vel secundum vim unius vel alterius. Magnitudo terminat, multitudo discernit. Unde diffinitio, quae totum esse terminat et
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Filosofo. Se la grandezza distingue la completezza di una cosa da tutte le altre, allora non si conosce nulla se non si conoscono tutte le cose. Idiota. Dici il vero. Non si conosce infatti la parte se non si conosce il tutto, perché è il tutto che misura la parte196. Quando, infatti, da un pezzo di legno ricavo, parte dopo parte, un cucchiaio, nel modellare la singola parte guardo al tutto, in modo da produrre un cucchiaio ben proporzionato. Così, il cucchiaio nella sua totalità, che ho concepito nella mia mente, è l’esemplare al quale io guardo mentre scolpisco una parte. E posso allora fare un cucchiaio perfetto quando ciascuna parte conserva la sua proporzione in ordine al tutto. In modo analogo, una parte nel rapporto con un’altra deve mantenere la propria completezza. Per quanto riguarda pertanto la conoscenza della singola cosa, sarà pertanto necessario che essa sia preceduta dalla conoscenza del tutto e delle sue parti. Per questo, se non si conosce Dio, che è l’esemplare della totalità del reale, non si conosce nulla della totalità, e se non si conosce la totalità, è chiaro che non si può sapere nulla delle sue parti. La conoscenza di Dio e di tutte le cose, pertanto, precede la conoscenza di qualsiasi cosa particolare197. Filosofo. Dimmi ancora, ti prego, per quale motivo Boezio sostiene che, senza le discipline del quadrivio, nessuno può filosofare in maniera corretta198. Idiota. Per il motivo che ho già detto. Infatti, dal momento che nell’aritmetica e nella musica è contenuta la forza dei numeri, dalla quale si ottiene la distinzione delle cose, e nella geometria e nell’astronomia è invece contenuta la scienza della grandezza, dalla quale proviene la comprensione della completezza delle cose, ne consegue che nessuno può filosofare senza le discipline del quadrivio. Filosofo. Mi chiedo se egli abbia voluto dire che tutto ciò che esiste sia grandezza o molteplicità. Idiota. Non credo che egli abbia voluto dire questo, ma piuttosto che tutto ciò che esiste è caratterizzato da grandezza o da molteplicità, dal momento che la spiegazione di tutte le cose avviene secondo la forza dell’una o dell’altra199. La grandezza delimita, la molteplicità distingue. La definizione, pertanto, che delimita e in-
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includit, vim habet magnitudinis et ad eam pertinet, et diffinitionum demonstratio fit necessario secundum vim magnitudinis, divisio vero et divisionum demonstratio secundum vim multitudinis. Fiunt etiam syllogismorum demonstrationes secundum vim magnitudinis et multitudinis. Quod enim ex duabus tertia concluditur, multitudinis est; quod autem ex universalibus et particularibus, magnitudinis est. Posset etiam otiosior nobis applicare, quomodo ex vi multitudinis quantitates et qualitates et cetera praedicamenta descendunt, quae rerum notitiam faciunt. Nam quemadmodum hoc fiat, difficulter cognoscitur. 129
Capitulum XI
Quomodo omnia in deo sunt in trinitate, similiter et in mente nostra; et quomodo mens nostra est ex comprehendendi modis composita. Philosophus: Tetigisti superius de trinitate dei et trinitate mentis. Oro declares, quomodo omnia in deo sunt in trinitate, similiter et in mente nostra. Idiota: Vos philosophi asseritis decem genera generalissima omnia complecti. Philosophus: Ita est profecto. Idiota: Nonne dum ea, ut actu sunt, consideras, divisa esse conspicis? Philosophus: Immo. Idiota: Sed dum ea ante incohationem essendi consideras sine divisione, quid tunc aliud esse possunt quam aeternitas? Nam ante omnem divisionem conexio. Illa igitur ante omnem divisionem unita et conexa esse necesse est. Conexio autem ante omnem divisionem aeternitas est simplicissima, quae deus est. Adhuc dico: Cum deus non possit negari perfectus et perfectum sit, cui nihil deest, hinc rerum universitas in perfectione, quae deus est. Sed per-
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clude tutto l’essere del definito, possiede la forza della grandezza e ad essa fa riferimento, e la spiegazione delle definizioni avviene necessariamente secondo la forza della grandezza, mentre la divisione e la spiegazione delle divisioni avvengono necessariamente secondo la forza della molteplicità200. Anche le dimostrazioni dei sillogismi avvengono secondo la forza della grandezza e della molteplicità201. Che da due proposizioni se ne deduca una terza, è dovuto infatti alla molteplicità, che invece la conclusione derivi da proposizioni universali e particolari è dovuto alla grandezza. E se uno avesse più tempo di quello che abbiamo noi adesso, potrebbe anche dimostrare come dalla forza della molteplicità discendano le quantità, le qualità e le altre categorie che ci forniscono la conoscenza delle cose. Comprendere come ciò avvenga, infatti, non è affatto facile. CAPITOLO XI
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Come tutte le cose in Dio siano nella Trinità e, in modo simile, anche nella nostra mente. Come la nostra mente sia composta da diversi modi di comprendere. Filosofo. Hai accennato in precedenza202 alla trinità di Dio e alla trinità della mente. Spiegami, ti prego, in che modo tutte le cose in Dio siano nella trinità e similmente anche nella nostra mente. Idiota. Voi filosofi sostenete che i dieci generi generalissimi abbracciano tutte le cose203. Filosofo. È così, certamente. Idiota. Quando consideri questi generi, così come esistono in atto, non vedi forse che sono divisi? Filosofo Sì. Idiota. Ma quando li consideri prima che inizino ad essere e senza divisione, che cos’altro possono allora essere se non l’eternità?204 Prima di ogni divisione, infatti, c’è la connessione205. È necessario, pertanto, che, prima di ogni loro divisione, quei generi siano uniti e connessi. Ma la connessione che precede ogni divisione è l’eternità semplicissima, che è Dio206. Aggiungo inoltre questo: poiché non si può negare che Dio sia perfetto, e poiché perfetto è ciò a cui nulla manca 207, ne consegue che nella perfezione, che è
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fectio summa exigit, quod sit simplex et una absque alteritate et diversitate; hinc omnia in deo unum. 130 Philosophus: Aperta et delectabilis ostensio est, quam facis; sed adice, quomodo in trinitate. Idiota: Alibi de hoc agendum foret, ut clarius dici posset. Nunc tamen, quia statui omnia, quae exigis, pro posse adimplere, sic recipito: Habes omnia ab aeterno in deo deum esse. Considera igitur rerum universitatem in tempore. Et cum impossibile non fiat, nonne vides eam ab aeterno fieri potuisse? Philosophus: Mens assentit. Idiota: Igitur omnia in posse fieri mentaliter vides. Philosophus: Recte ais. Idiota: Et si fieri potuerunt, erat necessario posse facere, antequam essent. Philosophus: Ita erat. Idiota: Sic ante rerum universitatem temporalem vides omnia in posse facere. Philosophus: Video. 131 Idiota: Nonne, ut in esse prodiret rerum universitas, quam vides oculo mentis in absoluto posse fieri et in absoluto posse facere, necesse erat nexus ipsius utriusque, scilicet posse fieri et posse facere? Alias quod potuit fieri per potentem facere numquam fuisset factum. Philosophus: Optime ais. Idiota: Vides igitur ante omnem rerum temporalem exsistentiam omnia in nexu procedente de posse fieri absoluto et posse facere absoluto. Sed illa tria absoluta sunt ante omne tempus simplex aeternitas. Hinc omnia conspicis in simplici aeternitate triniter. Philosophus: Sufficientissime.
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Dio, è contenuta la totalità delle cose. Ma la somma perfezione esige di essere semplice ed una, senza alcuna alterità e diversità: quindi, in Dio tutte le cose sono un’unità208. Filosofo. La spiegazione che esponi è chiara e apprezzabile, ma aggiungi anche in che modo tutte le cose sono nella trinità. Idiota. Su questo sarebbe meglio discutere in un altro momento, perché se ne potrebbe parlare con maggiore chiarezza. Tuttavia, poiché mi sono riproposto di soddisfare, per quanto posso, tutte le tue richieste209, accetta per ora questa risposta. Sai che tutte le cose, sin da tutta l’eternità, in Dio sono Dio210. Considera poi la totalità delle cose nel tempo. E dal momento che ciò che è impossibile non si realizza 211, non vedi allora che, sin dall’eternità questa totalità delle cose ha potuto essere fatta? Filosofo. La mente assente. Idiota. Pertanto, vedi mentalmente tutte le cose nel poter-essere-fatte. Filosofo. Giusto. Idiota. E se tutte le cose poterono essere fatte, era necessario che, prima che esse esistessero, vi fosse il poter-fare212. Filosofo. È così. Idiota. In questo modo, prima della totalità delle cose che esistono nel tempo, tu vedi tutte le cose nel poter-fare. Filosofo. Sì. Idiota. Ma affinché giungesse all’essere la totalità delle cose, che, con l’occhio della mente213, vedi nell’assoluto poter-essere-fatto e nell’assoluto poter-fare, non era forse necessario il nesso dell’uno e dell’altro, ovvero del poter-essere-fatto e del poter-fare?214 Altrimenti, ciò che poteva essere fatto dal poter-fare non sarebbe mai stato fatto. Filosofo. Dici molto bene. Idiota. Pertanto, prima di ogni loro esistenza temporale, vedi tutte le cose nel nesso che procede dal poter-essere-fatto assoluto e dal poter-fare assoluto. Ma questi tre assoluti sono, prima di ogni tempo, la semplice eternità. Tutte le cose, quindi, le vedi presenti trinitariamente nella semplice eternità215. Filosofo. Una spiegazione più che sufficiente.
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Idiota: Attende igitur, quomodo absolutum posse fieri et absolutum posse facere et absolutus nexus non sunt nisi unum infinite absolutum et una deitas. Et ordine prius est posse fieri quam posse facere. Nam omne facere praesupponit fieri posse, et posse facere id, quod habet, scilicet posse facere, habet de posse fieri. Et de utroque nexus. Unde cum ordo dicat posse fieri praecedere, sibi attribuitur unitas, cui inest praecedere, et posse facere attribuitur aequalitas unitatem praesupponens, a quibus nexus. Et haec nunc, si placet, de hoc sufficiant. 132 Philosophus: Solum unum adice: si deus intelligit ut trinus et unus. Idiota: Mens aeterna omnia in unitate, unitatis aequalitate et utriusque nexu intelligit. Quomodo deus intelligeret etiam in aeternitate sine omni successione absque entitate et entitatis aequalitate atque nexu utriusque, quae sunt trinitas in unitate? Non quod deus aliquid praemittat modo materiae et cum successione intelligat sicut nos, sed intelligere eius cum sit eius essentia, est necessario in trinitate. Philosophus: Si sic est suo modo in nostra mente, subiungito. Idiota: Omnia principiata in se similitudinem principii habere atque ideo in omnibus trinitatem in unitate substantiae in similitudine verae trinitatis et unitatis substantiae principii aeterni reperiri certum teneo. In omnibus igitur, quae principiata sunt, posse fieri, quod descendit a virtute infinita unitatis seu entitatis absolutae, posse facere, quod descendit a virtute absolutae aequalitatis, et compositionem utriusque, quae descendit a nexu absoluto, reperiri necesse est. 133 Unde mens nostra, imago mentis aeternae, in mente ipsa aeterna ut similitudo in veritate sui ipsius mensuram venare conten-
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Idiota. Presta allora attenzione al fatto che il poter-essere-fatto assoluto, il poter-fare assoluto e il nesso assoluto non sono se non un unico e infinito assoluto e un’unica divinità. E per quanto concerne l’ordine [di successione], viene prima il poter-essere-fatto che il poter-fare. Ogni fare, infatti, presuppone il poter-essere-fatto, e il poter-fare possiede ciò che ha, ossia il poter-fare, dal poter-esserefatto. E da entrambi procede il nesso. Pertanto, dal momento che l’ordine [di successione] stabilisce la precedenza del poter-esserefatto, ad esso viene attribuita l’unità, della quale è proprio il precedere, e al poter-fare viene attribuita l’uguaglianza, la quale presuppone l’unità; e dall’unità e dall’uguaglianza procede il nesso. E, se sei d’accordo, su questo argomento possono per ora essere sufficienti queste spiegazioni. Filosofo. Aggiungi soltanto una cosa: se Dio intende in quanto trino e uno. Idiota. La mente eterna intende tutte le cose nell’unità, nell’uguaglianza dell’unità e nel nesso di entrambe216. Come potrebbe Dio intendere, anche nell’eternità dove non c’è alcuna successione, senza l’essere, l’uguaglianza dell’essere e il nesso dell’uno e dell’altra, che sono una trinità nell’unità? Non che Dio debba presupporre qualcosa come una specie di materia 217, né che egli intenda le cose l’una dopo l’altra, in successione, come facciamo noi; piuttosto, dal momento che il suo intendere è la sua stessa essenza218, esso si realizza necessariamente in modo trino. Filosofo. Aggiungi ancora una cosa: se ciò avviene, a suo modo, anche nella nostra mente. Idiota. Ritengo certo che tutto ciò che deriva da un principio ha in se stesso una somiglianza con il principio da cui deriva, e che, pertanto, in tutte le cose si trova una trinità nell’unità della sostanza, a somiglianza della vera trinità e della vera unità della sostanza del principio eterno219. In tutte le cose che derivano dal principio [eterno] si ritrova pertanto necessariamente il poter-essere-fatto, che discende dalla forza infinita dell’unità o dell’essere assoluto, il poter-fare, che discende dalla forza dell’uguaglianza assoluta, e la congiunzione di entrambi, che discende dal nesso assoluto. È per questo che la nostra mente, che è l’immagine della mente eterna, cerca in ogni modo di scovare la misura di se stessa nel-
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dit. Est enim ipsa mens nostra, ut est similitudo divinae, uti vis alta consideranda, in qua posse assimilari et posse assimilare et nexus utriusque in essentia unum sunt et idem. Unde non potest mens nostra, nisi sit una in trinitate, quicquam intelligere, quemadmodum nec mens divina. Primo enim, dum se movet ut intelligat, aliquid in similitudine posse fieri seu materiae praemittit, cui aliud in similitudine posse facere seu formae adiungit, et tunc in similitudine compositi ab utroque intelligit. Dum autem modo materiae comprehendit, genera facit, dum modo formae comprehendit, facit differentias, dum modo compositi, species facit vel individua. Sic etiam dum modo propriae passionis intelligit, facit propria, dum modo advenientis intelligit, facit accidentia. Nihil autem intelligit, nisi praemisso aliquo modo materiae et alio modo advenientis formae modo compositi illa nectat. In hac autem successione, qua dixi aliqua praemitti modo materiae et formae, vides mentem nostram in similitudine aeternae mentis intelligere. Aeterna enim mens sine successione simul omnia et omni modo intelligendi intelligit. Sed successio est descensus ab aeternitate, cuius est imago vel similitudo. Intelligit igitur in successione, dum est unita corpori, quod successioni subicitur. Hoc etiam attente considerandum, quod omnia, ut in mente nostra sunt, sunt similiter in materia, sunt et in forma, sunt et in composito. 134 Philosophus: Delectabilissima sunt quae dicis. Id autem, quod ultimo attendendum monuisti, clarius oro exprimito. Idiota: Libenter. Hanc naturam, quae est animal, inspicito. Nam eam mens comprehendit aliquando ut genus est, tunc enim
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la stessa mente eterna, come la somiglianza la ricerca in quella che è la sua verità220. Infatti, la nostra mente, in quanto somiglianza della mente divina, dev’essere considerata come una forza superiore, nella quale il poter-essere assimilato e il poter-assimilare e il nesso di entrambi sono, nella loro essenza, un’unica e medesima cosa. Di conseguenza, la nostra mente non potrebbe intendere nulla se non fosse una nella trinità, così come la mente divina. Infatti, quando si muove ad intendere, la mente in primo luogo premette qualcosa a somiglianza del poter-essere-fatto o materia, a cui aggiunge qualcos’altro a somiglianza del poter-fare o forma, ed infine intende a somiglianza del composto di entrambi. Ora, quando la mente comprende secondo il modo della materia, essa stabilisce i generi, quando comprende secondo il modo della forma stabilisce le differenze, e quando comprende secondo il modo del composto costruisce le specie e gli individui. Così, anche quando intende secondo il modo di una propria impressione che essa riceve, la mente stabilisce il proprio, quando invece intende secondo il modo di qualcosa che sopraggiunge, essa stabilisce gli accidenti. Tuttavia, la mente non intende nulla se, dopo aver premesso qualcosa secondo il modo della materia e qualcos’altro secondo il modo della forma che si aggiunge alla materia, essa non connette l’una e l’altra secondo il modo del composto. Ma, in questa successione, nella quale, come ho detto, qualcosa viene premesso secondo il modo della materia e secondo il modo della forma, vedi che la nostra mente intende a somiglianza della mente eterna. La mente eterna, infatti, intende, tutte le cose simultaneamente, senza successione, e secondo ogni modo di intendere221. La successione, tuttavia, deriva discensivamente dall’eternità, di cui è immagine o somiglianza222. La nostra mente, pertanto, intende in successione quando è unita ad un corpo, che è soggetto alla successione. Bisogna considerare attentamente anche questo, ossia che tutto ciò che è presente nella nostra mente è presente in modo simile nella materia, nella forma e nel composto. Filosofo. Ciò che dici è stupendo. Ti prego, tuttavia, di esporre più chiaramente ciò su cui, da ultimo, mi hai raccomandato di prestare attenzione. Idiota. Volentieri. Considera questa natura, che è quella di un animale. Una volta la mente la comprende come genere, ed allo-
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quasi confuse et informiter animalis naturam considerat materiae modo; aliquando ut significatur per nomen ‘animalitas’, et tunc modo formae; aliquando modo compositi ex illo genere et differentiis ei advenientibus, et tunc, ut in mente est, dicitur esse in conexione, ita ut illa materia et illa forma vel potius illa similitudo materiae et illa similitudo formae et illud modo compositi consideratum sit una et eadem notio unaque et eadem substantia. Sicut dum animal ut materiam considero, humanitatem vero ut formam ei advenientem et conexionem utriusque, dico illam materiam, illam formam et conexionem unam esse substantiam. Aut dum colorem quasi materiam considero, albedinem quasi formam ei advenientem et conexionem utriusque, dico illam materiam, illam formam et conexionem illius materiae et illius formae unum et idem accidens esse. Pariformiter in omnibus. 135 Neque te moveat, quod, cum mens faciat decem genera generalissima prima principia, quod tunc illa generalissima nullum genus commune habent, quod ut materia eis praemitti possit, quoniam mens potest aliquid modo materiae et idem modo advenientis formae, quae tali materiae adveniat, atque idem modo compositi considerare, ut dum considerat possibilitatem essendi substantiam vel aliquod aliud de decem – nam rationabiliter dici posset materiam esse possibilitatem essendi substantiam aut accidens –, et considerat mens idem ut formam advenientem ei, ut est materia, ut sit compositum, quod est substantia vel aliud ex decem, ita quod illa tria unum et idem sint generalissimum. In illa igitur rerum univer-
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ra considera la natura dell’animale in maniera, per così dire, indistinta e informe, secondo il modo della materia; un’altra volta, la considera in quanto essa viene designata con il nome di «animalità», ed allora la considera secondo il modo della forma; un’altra volta ancora considera la natura dell’animale come qualcosa che consiste di quel genere e delle differenze che si aggiungono ad esso, ed in questo caso si dice che quella natura, così come essa è nella mente, è nella connessione, in modo tale che quella materia e quella forma, o, meglio, quella similitudine della materia e quella similitudine della forma, e quella natura considerata come un composto sono un’unica e medesima nozione e un’unica e medesima sostanza. Ad esempio, quando considero l’animale come materia, l’umanità invece come forma che si aggiunge alla materia e la connessione dell’una e dell’altra, allora dico che quella materia, quella forma e la loro connessione sono un’unica sostanza. Oppure, quando considero il colore come se fosse la materia, la bianchezza come se fosse la forma che si aggiunge alla materia, e la connessione dell’una e dell’altra, allora dico che quella materia, quella forma e la connessione di quella materia e di quella forma sono un unico e medesimo accidente. Lo stesso vale per tutti gli altri casi. E non lasciarti disturbare dal fatto che, quando la mente stabilisce i dieci generi generalissimi come primi principi223, questi generi generalissimi non hanno un genere comune che possa fungere loro da materia e che possa essere loro premesso. La mente, infatti, può considerare una cosa secondo il modo della materia, può considerare la medesima cosa secondo il modo della forma che si aggiunge a tale materia, e può considerare questa stessa cosa secondo il modo del composto. È quanto avviene, ad esempio, quando la mente considera la possibilità di essere sostanza, o la possibilità di essere qualcun altro dei dieci generi – si potrebbe infatti dire a ragione che la materia è la possibilità di essere una sostanza, o accidente –, e considera la medesima cosa come forma che si aggiunge ad essa in quanto materia, in modo tale che quella cosa, si tratti di una sostanza o di un altro dei dieci generi, sia un composto, cosicché questi tre [modi d’essere] sono un unico e medesimo genere generalissimo. In questa totalità delle cose che è presente nella men-
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sitate, quae in mente est, omnia sunt in trinitate et in unitate trinitatis ad similitudinem ut sunt in mente aeterna. 136 Philosophus: Non habent ergo decem generalissima hos essendi modos extra mentis considerationem? Idiota: Decem illa generalissima non in se, sed ut in mente sunt, modo formae vel compositi intelliguntur, in suis tamen inferioribus habere istos essendi modos considerantur. Neque, si recte attendis, in se extra mentem modo formae et compositi esse possunt. Praesertim id ipsum experieris, quando attendis, quomodo qualitas, quantum in se est, accidens dici nequit, sed in suis inferioribus. Sic quoque specialis status, ut in mente est, modo materiae forsitan non considerari posse dicetur, cum sit idem status specialis et individualis alio et alio modo consideratus. Dicemus ergo, quod forsan in se materiae modo non intelligitur, sed in suis superioribus. 137 Philosophus: Contentor. Sed vellem, ut et mihi ostenderes, quomodo ea, quae actu sunt, triniter sunt iuxta antedicta. Idiota: Facile erit tibi videre, si attendis omnia, ut actu sunt, in materia, forma et conexione esse. Hoc ipsum enim, id est humanitas, illa scilicet natura, ut est possibilitas essendi hominem, materia est, sicut enim humanitas est, forma est, ut autem homo est, ex utroque compositum conexumque est, ita videlicet, ut unum et idem sit possibilitas essendi hominem, forma et compositum ex utroque, rei ut una sit substantia. Similiter et haec natura, quae albedinis vocabulo designatur, ut est possibilitas essendi albedinem, materia est, illa eadem aliter forma est, eadem quoque compositum est ex utroque, ita tamen, quod ut illa materia, illa forma et illud compositum ex utroque eadem sit qualitatis natura.
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te, tutte le cose, pertanto, sono nella trinità e nell’unità della trinità, a somiglianza di come sono nella mente eterna. Filosofo. I dieci generi generalissimi non posseggono dunque questi loro modi di essere indipendentemente dalla considerazione della mente? Idiota. Quei dieci generi generalissimi vengono intesi secondo il modo della forma o del composto non in se stessi, ma in quanto sono nella mente, e si ritiene, tuttavia, che essi abbiano quei modi di essere nelle cose che sono al di sotto di essi. E se fai bene attenzione, vedrai che, in se stessi, fuori dalla mente, essi non possono esistere secondo il modo della forma e del composto. Di ciò ti renderai subito conto se presti attenzione al fatto che la qualità può essere chiamata accidente non se la si considera in se stessa, ma se la si considera nelle cose che sono al di sotto di essa. Allo stesso modo, diremo che la specie, quale è presente nella mente, non può forse essere considerata secondo il modo della materia, dal momento che, nella mente, la specie e l’individuo hanno lo stesso «status» considerato in modi rispettivamente diversi. Diremo, pertanto, che, in se stessa, la specie non può essere intesa secondo il modo della materia, ma la si può intendere così in rapporto con ciò che è al di sopra di essa. Filosofo. Sono soddisfatto. Vorrei tuttavia che mi mostrassi, conformemente a quanto hai detto in precedenza, in che modo ciò che esiste in atto esiste in modo trinitario224. Idiota. Te ne renderai conto facilmente se consideri che tutto ciò che esiste in atto è caratterizzato dalla materia, dalla forma e dalla loro connessione. L’umanità, ad esempio, ossia la natura umana, in quanto costituisce la possibilità-di-essere uomo, è materia, in quanto umanità è forma, in quanto invece individuo umano è un composto e una connessione dell’una e dell’altra, cosicché c’è un’unica sostanza della cosa. In modo simile, anche questa natura che viene designata con il termine «bianco» è materia in quanto possibilità-di-essere bianco; ma, sotto un altro aspetto, la medesima natura è una forma, e la stessa natura è anche un composto dell’una e dell’altra, in modo tale, tuttavia, che quella materia, quella forma e quel composto dell’una e dell’altra sono la medesima natura della qualità.
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138 Philosophus:
Si in materia esse est esse possibiliter, et cum possibile esse non sit, quomodo ergo omnia, quae ut actu sunt, in materia sunt? Idiota: Non te turbet istud, quod sine repugnantia intelligendum concipias. Nam non recipio esse actu, ut repugnet ei, quod est esse in materia; sed sic intelligendum est, quod omnia ut actu sunt, id est hic et in his rebus sunt, in materia quidem sunt. Verbi gratia in cera haec possibilitas est essendi candelam, in cupro pelvim. Philosophus: Adde verbum unum quaeso: Unde dicitur trinitas individua una? Idiota: In deo ab unitate uniente, quae est vera substantia, in aliis ab unitate naturae, quae est quasi quaedam imago unitatis unientis, quae proprie est substantia. 139 Philosophus: Cum dicitur: unitas est una, aequalitas est una, unde hoc? Idiota: Ab unitate substantiae. Philosophus: Quando autem nostri dicunt theologi unitatem pro patre et aequalitatem pro filio et nexum pro spiritu sancto capientes, quomodo pater est unus, filius est unus, unde hoc? Idiota: A singularitate personae. Sunt enim tres singulares personae in una divina substantia, ut alio tempore, quantum concedebatur, diligenter tractavimus. 140 Philosophus: Ad finem, ut quae supra dixisti intelligam, dicito, an velis mentem nostram ex illis comprehendendi modis compositam esse. Tunc, cum mens nostra substantia sit, erunt modi illi partes eius substantiales. Hoc si sic censes, dicito. Idiota: Voluit Plato mentem ex individua et dividua substantia componi, ut supra dixisti, hoc ex comprehendendi modo su-
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Filosofo. Se essere nella materia significa essere secondo il modo della possibilità, allora, dal momento che ciò che è possibile non è, come fa ad esistere nella materia tutto ciò che esiste in atto? Idiota. Non lasciarti turbare da questo, che puoi concepire senza doverlo intendere in modo contraddittorio. Infatti, io non considero l’essere-in-atto in modo tale che esso sia in contraddizione con quello che è l’essere-nella-materia; ciò che io dico va piuttosto inteso nel senso che tutto ciò che esiste in atto, ossia che esiste qui e in queste cose, esiste anche nella materia. Ad esempio, nella cera questa possibilità è la possibilità di essere una candela, nel rame è la possibilità di essere una bacinella. Filosofo. Ti prego di aggiungere una parola su questo: in base a che cosa si dice che la trinità è una e indivisibile? Idiota. Nel caso di Dio, in base all’unità uniente225, che è la vera sostanza, nel caso delle altre cose in base all’unità della natura, che è in un certo qual modo un’immagine dell’unità uniente, la sola che è sostanza in senso proprio. Filosofo. Quando diciamo che l’unità è una, che l’uguaglianza è una, in base a che cosa lo diciamo? Idiota. In base all’unità della sostanza. Filosofo. Ma quando i nostri teologi, introducendo «unità» in luogo di «Padre», «uguaglianza» in luogo di «Figlio» e «nesso» in luogo di «Spirito Santo», dicono che il Padre è uno, il Figlio è uno, sulla base di che cosa lo dicono? Idiota. Sulla base della singolarità della persona; sono infatti tre persone singolari in un’unica sostanza divina, come ho mostrato in un’altra occasione, quando ho trattato di questo argomento in maniera precisa, per quanto mi è stato possibile226. Filosofo Da ultimo, perché possa comprendere quello che hai detto in precedenza, dimmi se pensi che la nostra mente sia composta da questi modi di comprendere. Perché, se è così, essendo la nostra mente una sostanza227, quei modi saranno le parti sostanziali della mente. Dimmi se questa è la tua opinione. Idiota. Platone ha sostenuto che la nostra mente è composta, come tu hai detto prima, della sostanza divisibile e di quella indivisibile228, ed egli ha desunto questa concezione dal modo di com-
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mens. Nam dum modo formae intelligit, tunc individue comprehendit; res enim formaliter intellecta individue comprehenditur. Unde etiam ‘humanitates’ dicere veraciter non possumus, sed bene ‘homines’ dicimus, quia res modo materiae aut modo compositi intellecta dividue intelligitur. Est autem mens nostra vis comprehendendi et totum virtuale ex omnibus comprehendendi virtutibus compositum. Quilibet igitur modus, cum pars eius sit substantialis, de tota mente verificatur. Quemadmodum autem modi comprehendendi sint substantiales partes virtutis, quae mens dicitur, difficulter dici posse arbitror. Nam cum mens sic vel sic intelligat, tunc virtutes eius intelligendi, quae sunt partes eius, accidentia esse nequeunt. Quomodo autem sint partes substantiales atque mens ipsa, difficillimum est dictu et cognitu. 141 Philosophus: Adiuva me parum in hoc difficili, optime idiota. Idiota: Mens virtualiter constat ex virtute intelligendi, ratiocinandi, imaginandi et sentiendi, ita quod ipsa tota dicatur vis intelligendi, vis ratiocinandi, vis imaginandi et vis sentiendi. Unde ex his tamquam suis constat elementis, et mens omnia in omnibus attingit suo modo. Et quia ut omnia sunt actu, sunt in sensu quasi in globo et indiscrete, et illa in ratione discrete, hinc est expressissima similitudo inter modum essendi omnium ut sunt actu et ut sunt in mente. Nam vis sentiendi in nobis est vis mentis et hinc mens, sicut quaelibet pars lineae linea. Magnitudo enim in se extra mate-
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prendere della mente. Infatti, quando la mente intende secondo il modo della forma, essa allora conosce in maniera indivisa, perché una cosa che viene intesa secondo la forma viene compresa in maniera indivisa. E questa è anche la ragione per la quale non possiamo dire in senso vero e proprio le «umanità», ma diciamo correttamente gli «uomini»229, perché una cosa, che viene intesa secondo il modo della materia o secondo il modo del composto, viene intesa in maniera divisa. Ora, la nostra mente è una forza capace di comprendere, ed è un intero di forze composto da tutte le forze [facoltà] del comprendere230. Pertanto, dal momento che ogni modo di comprendere è una parte sostanziale della mente, ogni modo viene predicato con verità dell’intera mente231. In che maniera, tuttavia, quei modi di comprendere siano delle parti sostanziali di quella forza [facoltà] che chiamiamo mente, credo che lo si possa spiegare con difficoltà. Infatti, dal momento che la mente intende ora in un modo ora in un altro, le facoltà che essa possiede per intendere e che sono sue parti, non possono essere degli accidenti. Ma è estremamente difficile sapere e dire in che maniera esse siano delle parti sostanziali e siano la mente stessa. Filosofo. Aiutami ancora un po’, o ottimo idiota, in questa difficile questione. Idiota. Per quanto concerne le sue facoltà, la mente è costituita dalla facoltà dell’intelletto, dalla facoltà della ragione discorsiva, dalla facoltà immaginativa e dalla facoltà sensitiva, e ne è costituita in un modo tale per cui l’intera mente viene detta facoltà di intendere intellettivamente, facoltà di ragionare discorsivamente, facoltà di immaginare e facoltà di percepire. La mente, pertanto, è costituita da queste facoltà come se fossero suoi «elementi» [costitutivi], e in ognuna di esse la mente coglie tutto secondo il modo che è proprio di ciascuna [facoltà]. E poiché tutte le cose che esistono in atto sono presenti nei sensi in maniera, per così dire, globale e indistinta e nella ragione in maniera distinta, vi è pertanto una somiglianza molto esplicita tra il modo d’essere di tutte le cose come esse esistono in atto e come sono presenti nella mente. In effetti, in noi la facoltà sensitiva è una facoltà della mente ed è pertanto mente, così come ogni parte di una linea è linea. La grandezza, infatti, considerata in se stessa e separatamente dalla materia, è un esempio adatto
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riam considerata congruum exemplum est eius, quod petisti. Quaelibet enim pars eius de toto verificatur. Hinc eiusdem entitatis est, cuius totum. Philosophus: Cum mens sit una, unde habet has comprehendendi virtutes? Idiota: Ab unitate habet. Nam quod communiter modo materiae aut compositi intelligit, habet quia unitas uniens, quod singulariter, similiter ab unitate, quae est singularitas, quod formaliter, ab unitate, quae est immutabilitas. Unde quod dividue intelligit, ab unitate habet; divisio enim ab unitate descendit. 142
Capitulum XII
Quomodo non sit unus intellectus in omnibus hominibus; et quomodo numerus separatarum mentium per nos innumerabilis est deo cognitus. Philosophus: Adhuc de paucis opto quid sentias audire. Aiunt quidam Peripatetici unum esse intellectum in omnibus hominibus, alii, ut quidam Platonici, non esse unam intellectivam animam, sed quod animae nostrae sint eiusdem substantiae cum anima mundi, quam dicunt esse omnium animarum nostrarum complexivam. Sed differre dicunt animas nostras numero, quia habent diversum operandi modum, dicunt tamen eas in animam mundi post mortem resolvi. Quid tibi in hoc occurrit, dicito. Idiota: Ego mentem intellectum esse affirmo, ut supra audisti; mentem autem unam esse in omnibus hominibus non capio. Nam cum mens habeat officium, ob quod anima dicitur, tunc exigit convenientem habitudinem corporis adaequate sibi proportionati, quae sicut in uno corpore reperitur, nequaquam in alio est re-
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per illustrare ciò che mi hai chiesto. Ogni parte della grandezza si predica con verità dell’intera grandezza. Pertanto, ogni parte è della stessa entità del tutto. Filosofo. Dal momento che la mente è una, da dove ha queste sue facoltà di comprendere? Idiota. Le ha dall’unità. Il fatto di intendere in maniera generale secondo il modo della materia o del composto le è proprio perché la mente è un’unità uniente, il fatto di intendere in modo singolare le viene ugualmente dall’unità che è singolarità, e il fatto di intendere secondo il modo della forma le viene dall’unità che è immutabilità. Pertanto, anche il fatto di intendere in maniera divisa la mente lo riceve dall’unità; la divisione discende, infatti, dall’unità232. CAPITOLO XII
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Come non ci sia un unico intelletto in tutti gli uomini. Come il numero delle menti separate, che è per noi innumerabile, sia noto a Dio. Filosofo. Vorrei ascoltare ancora da te che cosa pensi a proposito di un piccolo numero di questioni. Certi Peripatetici dicono che c’è un unico intelletto in tutti gli uomini 233; altri, come alcuni Platonici, dicono che l’anima intellettiva non è unica, ma sostengono che le nostre anime sono della stessa sostanza dell’Anima del mondo, la quale, essi dicono, include in sé tutte le nostre anime234. Essi, tuttavia, affermano che le nostre anime si differenziano per numero, in quanto hanno un modo rispettivamente diverso di operare, anche se, dopo la morte, esse, a loro avviso, si risolvono nell’Anima del mondo. Dimmi che cosa pensi a questo proposito. Idiota. Come hai ascoltato prima235, io sostengo che la mente è l’intelletto; tuttavia, non capisco come possa esserci un’unica mente in tutti gli uomini236. La mente, infatti, avendo una funzione per la quale viene chiamata «anima», esige anche un rapporto idoneo con un corpo che sia adeguatamente proporzionato ad essa; e il rapporto che si trova in un corpo non lo si può trovare tale e quale in un
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peribilis. Sicut igitur identitas proportionis est immultiplicabilis, ita nec identitas mentis, quae sine adaequata proportione corpus animare nequit. Sicut enim visus oculi tui non posset esse visus cuiuscumque alterius, etiam si a tuo oculo separaretur et alterius oculo iungeretur, quia proportionem suam, quam in oculo tuo reperit, in alterius oculo reperire nequiret, sic nec discretio, quae est in visu tuo, posset esse discretio in visu alterius. Ita nec intellectus discretionis illius posset esse intellectus discretionis alterius. 143 Unde hoc nequaquam possibile arbitror, unum esse intellectum in omnibus hominibus. Verum quia numerus sublatus videtur, quando tollitur variabilitas materiae, ut ex superioribus patet, et mentis natura extra corpus sit ab omni varietate materiae absoluta, ideo forte Platonici dixerunt animas nostras in unam animam communem nostrarum complexivam resolvi. Sed hanc resolutionem non puto veram. Nam quamvis nos sublata varietate materiae non capiamus multiplicationem numeri, propter hoc tamen non desinit rerum pluralitas, quae est divinae mentis numerus. Unde numerus substantiarum separatarum non plus est nobis numerus quam non-numerus, quia adeo a nobis est innumerabilis, quod neque est par neque impar neque magnus neque parvus neque in aliquo convenit cum numero per nos numerabili. Quasi si quis audiret vocem maximam, quam emisit maximus hominum exercitus, quam exercitum emisisse ignoraret, manifestum est in voce, quam audit, cuiuslibet hominis vocem esse differentem et distinctam, tamen audiens non habet iudicium de numero, quare iudicat vocem unam esse, quia modum attingendi numerum non habet. Vel si in una camera multae ardeant candelae et camera de omnibus illuminetur, manet lumen cuiuslibet candelae distinctum a lumine alte-
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altro. Pertanto, come non può essere moltiplicata l’identità di una proporzione237, così non può esserlo neppure l’identità della mente, la quale, senza un’adeguata proporzione, non può animare un corpo. Come, infatti, la vista del tuo occhio non potrebbe essere la vista dell’occhio di qualcun altro, anche se venisse separata dal tuo occhio e aggiunta all’occhio dell’altro, perché nell’occhio di un altro non potrebbe trovare quella sua peculiare proporzione che trova nel tuo occhio, così neppure la capacità di distinguere che è presente nella tua vista potrebbe essere la capacità di distinguere che è presente nella vista di un altro. Così, neppure la tua capacità di intendere questa distinzione potrebbe essere la capacità di intendere che ne ha un altro. Non ritengo pertanto in alcun modo possibile che in tutti gli uomini vi sia un unico intelletto. Poiché, tuttavia, il numero sembra venir meno quando viene meno la variabilità della materia, come risulta evidente da quanto è stato detto in precedenza 238, e poiché la natura della mente, al di fuori del corpo, è libera da ogni variabilità della materia, per questo, forse, alcuni Platonici hanno detto che le nostre anime si risolvono in un’unica anima comune, che le include tutte. Non ritengo, tuttavia, che questa [concezione della] risoluzione [delle nostre anime in un’unica anima comune] sia vera. Infatti, sebbene una volta tolta la variabilità della materia, noi non riusciamo a cogliere la molteplicità derivante dal numero, non viene tuttavia per questo meno la pluralità delle cose, che è un numero nella mente divina. Per questo, il numero delle sostanze separate per noi non è un numero più che un non-numero, perché per noi è talmente innumerabile da non essere né pari, né dispari, né grande, né piccolo, e da non avere nulla in comune con un numero che noi possiamo numerare239. È come se una persona udisse un grido immenso emesso da un esercito immenso di uomini, ma ignorasse che esso proviene da quell’esercito: è evidente che, nel grido che quella persona sente, la voce di ciascun uomo è diversa e distinta, e tuttavia colui che sente quel grido non può giudicare quale sia il numero delle voci; è per questo che quella persona giudica che la voce è una sola, perché non ha modo di coglierne il numero. Oppure, se in una stanza ardono molte candele240 e la stanza viene illuminata da tutte, il lume di una candela resta distinto dal lume
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rius. Et hoc experimur, quando successive eportantur, quia minuitur illuminatio, quando quaelibet eportata secum suam illuminationem educit. 144 Esto igitur, quod candelae ardentes in camera illuminatione remanente exstinguantur et quod quis intret illuminatam cameram: hic etsi videat claritatem camerae, tamen distinctionem et discretionem luminum nequaquam attingere potest. Immo non posset ille attingere luminum pluralitatem ibi esse, nisi scientiam haberet ibi esse lumina candelarum exstinctarum. Et si hoc assecutus esset, scilicet ibi esse pluralitatem, tamen numero discernere unum lumen ab alio numquam posset. Talia exempla in aliis sensibus adducere poteris, ex quibus te iuvare poteris, quomodo cum scientia pluralitatis stat quoad nos impossibilitas discretionis numeri. Qui autem attendit, quomodo naturae abstractae ab omni varietate materiae per nos qualitercumque intelligibilis quoad deum, qui solus est infinite absolutus et simpliciter, non sunt abstractae ab omni mutatione, quin ab eo mutari et interimi possint ipsi soli deo secundum naturam immortalitatem inhabitante, ille videt omnem creaturam numerum divinae mentis aufugere non posse. 145
Capitulum XIII
Quomodo id, quod Plato dicebat animam mundi et Aristoteles naturam, sit deus, qui operatur omnia in omnibus; et quomodo mentem creet in nobis. Philosophus: Satis de hoc. Quid ais de anima mundi? Idiota: Tempus non patitur omnia discuti. Puto, quod animam mundi vocavit Plato id, quod Aristoteles naturam. Ego autem nec animam illam nec naturam aliud esse conicio quam deum omnia in omnibus operantem, quem dicimus spiritum universorum.
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delle altre. E di questo facciamo esperienza nel momento in cui le candele vengono tolte una dopo l’altra, perché l’illuminazione diminuisce, in quanto ciascuna candela che viene tolta porta via con sé il proprio lume. Supponiamo allora che le candele accese vengano spente, ma che nella stanza resti ancora l’illuminazione, e supponiamo che qualcuno entri nella stanza illuminata: costui, anche se vede il chiarore della stanza, non potrebbe tuttavia mai cogliere la distinzione e la separazione dei lumi; anzi, egli non potrebbe sapere che lì c’è una pluralità di lumi, se non sapesse che lì ci sono i lumi delle candele spente. E anche se sapesse questo, ossia che lì [in quella stanza] c’è una pluralità di lumi, non potrebbe tuttavia mai distinguere numericamente un lume dall’altro. Potrai tu stesso addurre altri esempi di questo genere riguardo agli altri sensi, e di questi esempi ti potrai giovare per comprendere come l’impossibilità di fare una distinzione numerica stia per noi insieme con una conoscenza della pluralità. D’altra parte, chi presta attenzione al fatto che le nature che sono separate da ogni variabilità della materia – il che è per noi in qualche modo intelligibile – rispetto a Dio, che è il solo assoluto in senso proprio e infinito, non sono separate da ogni mutamento al punto da non poter essere mutate e distrutte da Dio, dal momento che solo in Dio abita per natura l’immortalità, costui vede che nessuna creatura può sfuggire al numero della mente divina. CAPITOLO XIII
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Come ciò che Platone chiamava anima del mondo e Aristotele natura sia Dio che opera tutto in tutte le cose. Come Dio crei in noi la mente. Filosofo. Su questo argomento abbiamo detto abbastanza. Che cosa dici riguardo all’anima del mondo?241 Idiota. Il tempo non ci consente di discutere di tutto. Ritengo che Platone abbia chiamato anima del mondo ciò che Aristotele ha chiamato natura242. Quanto a me, invece, congetturo che sia l’anima del mondo, sia la natura non siano altro che Dio, che opera tutto in tutte le cose243, e che noi chiamiamo spirito di tutte le cose244.
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Philosophus: Plato dixit animam illam exemplaria rerum indelebiliter continere et omnia movere, Aristoteles naturam aiebat sagacem omnia moventem. 146 Idiota: Forte Plato voluit animam mundi esse ut animam servi scientis mentem domini sui et exsequentem voluntatem eius. Et hanc scientiam vocavit notiones seu exemplaria, quae nulla oblivione obmittuntur, ut divinae providentiae non deficeret exsecutio. Et id, quod Plato scientiam animae mundi appellavit, Aristoteles sagacitatem naturae esse voluit, quae habet sagacitatem exsequendi imperium dei. Ob hoc tribuerunt necessitatem complexionis illi animae seu naturae, quia necessitatur determinate sic agere, ut absoluta necessitas imperat. Sed non est nisi modus intelligendi, quando scilicet mens nostra concipit deum quasi artem architectonicam, cui ars alia exsecutorialis subsit, ut conceptus divinus in esse prodeat. Sed cum voluntati omnipotenti omnia necessario oboediant, tunc voluntas dei alio exsecutore opus non habet. Nam velle cum exsequi in omnipotentia coincidunt. Quasi ut dum vitrificator vitrum facit. Nam insufflat spiritum, qui exsequitur voluntatem eius, in quo spiritu est verbum seu conceptus et potentia; nisi enim potentia et conceptus vitrificatoris forent in spiritu, quem emittit, non oriretur vitrum tale. 147 Concipe igitur absolutam artem creativam per se subsistentem, ut ars sit artifex et magisterium magister. Haec ars habet in sua essentia necessario omnipotentiam, ut ei nihil resistere possit, sapientiam, ut sciat quid agat, et nexum omnipotentiae cum sapientia, ut quid velit fiat. Nexus ille in se habens sapientiam et omnipotentiam spiritus est quasi voluntas seu desiderium. Impossibilium enim et penitus ignotorum non est voluntas seu desiderium. Sic in perfectissima voluntate inest sapientia et omnipotentia et a simili-
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Filosofo. Platone ha detto che quell’anima contiene, in modo indelebile, gli esemplari delle cose e che essa muove tutto245; Aristotele affermava che la natura è sagace e che muove tutte le cose246. Idiota. Forse Platone ha inteso dire che l’anima del mondo è come l’anima di un servo che conosce la mente del suo padrone ed esegue la sua volontà; ed egli ha chiamato questa conoscenza «nozioni» o «esemplari», i quali non sono sottoposti ad alcuna dimenticanza affinché non venga meno l’esecuzione della provvidenza divina 247. E ciò che Platone ha chiamato conoscenza dell’anima del mondo Aristotele ha voluto che fosse la sagacia della natura, la quale possiede la sagacità di eseguire il comando di Dio. Ed è per questo che entrambi hanno attribuito la necessità del complesso a quell’anima o natura, perché essa è necessitata ad agire in un determinato modo, così come comanda la necessità assoluta 248. Ma questo non è che un nostro modo di intendere, quando cioè la nostra mente concepisce Dio come se fosse un’arte architettonica a cui è sottoposta un’altra arte esecutrice in modo tale che il concetto divino possa passare all’essere. Ma dal momento che tutte le cose obbediscono necessariamente alla volontà onnipotente, la volontà di Dio non ha bisogno di nessun altro esecutore. Nell’onnipotenza, infatti, il volere coincide con l’eseguire249. È come quando un vetraio fa un vetro250: egli vi soffia dentro dell’aria che esegue la sua volontà, e in quest’aria ci sono sia la sua parola o concetto, sia la sua potenza; infatti, se la potenza e il concetto del vetraio non fossero nell’aria che egli emette, quel tal vetro non nascerebbe. Concepisci allora l’arte creatrice assoluta, che sussiste per se stessa251, in modo tale che l’arte coincida con l’artista e il magistero con il maestro. Una tale arte possiede necessariamente nella sua essenza l’onnipotenza, affinché nulla le possa resistere, la sapienza, affinché sappia ciò che fa, e il nesso dell’onnipotenza con la sapienza, affinché accada ciò che essa vuole. Questo nesso, che possiede in se stesso la sapienza e l’onnipotenza, è lo spirito, che è, per così dire, una volontà e un desiderio252. Delle cose impossibili e del tutto sconosciute, infatti, non c’è volontà o desiderio253. Così, nella volontà perfettissima sono presenti la sapienza e l’onnipotenza, ed essa viene chiamata «spirito» per una specie di similitudine, per il
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tudine quadam spiritus dicitur, eo quia motus sine spiritu non est, adeo quod et id, quod in vento motionem facit et in omnibus aliis, spiritum appellemus. Per motum autem omnes artifices efficiunt quod volunt. Quapropter vis artis creativae, quae est ars absoluta et infinita seu deus benedictus, omnia efficit in spiritu seu voluntate, in qua est sapientia filii et omnipotentia patris, ut opus eius sit unius indivisae trinitatis. Hunc nexum, spiritum seu voluntatem ignorarunt Platonici, qui hunc spiritum non viderunt deum, sed a deo principiatum et animam mundum – ut anima nostra intellectiva nostrum corpus – animantem putarunt. Neque eum spiritum viderunt Peripatetici, qui hanc vim naturam rebus immersam, a qua est motus et quies, posuerunt, cum tamen sit deus absolutus in saecula benedictus. 148 Orator: O quantum exhilaratus sum tam lucidam audiens explanationem! Sed quaeso, ut iterum aliquo exemplo nos iuves ad concipiendum mentis nostrae creationem in hoc nostro corpore. Idiota: Audivisti iam ante de hoc. Sed quia varietas exemplorum inexpressibile clarius facit, ecce: Nosti mentem nostram vim quandam esse habens imaginem artis divinae iam dictae. Unde omnia, quae absolutae arti verissime insunt, menti nostrae vere ut imagini insunt. Unde mens est creata ab arte creatrice, quasi ars illa se ipsam creare vellet et, quia immultiplicabilis est infinita ars, quod tunc eius surgat imago, sicut si pictor se ipsum depingere vellet et, quia ipse non est multiplicabilis, tunc se depingendo oriretur eius imago. 149 Et quia imago numquam quantumcumque perfecta, si perfectior et conformior esse nequit exemplari, adeo perfecta est sicut quaecumque imperfecta imago, quae potentiam habet se semper plus et plus sine limitatione inaccessibili exemplari conformandi –
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fatto, cioè, che non c’è movimento senza spirito, al punto che noi chiamiamo «spirito» ciò che, nel vento e in tutte le cose, produce movimento254. Ora, è mediante il movimento che tutti gli artefici realizzano ciò che vogliono. È per questo che la forza dell’arte creatrice, che è l’arte assoluta e infinita o il Dio benedetto, realizza tutte le cose nello spirito o nella volontà, nella quale ci sono la sapienza del Figlio e l’onnipotenza del Padre255, in modo tale che l’opera di Dio è l’opera dell’unica Trinità indivisa256. I Platonici hanno ignorato questo nesso, questo spirito o volontà; essi non hanno riconosciuto che questo spirito è Dio, ma hanno piuttosto ritenuto che esso derivasse da Dio come suo principio e che fosse un’anima che anima il mondo, così come la nostra anima intellettiva anima il nostro corpo. E neanche i Peripatetici hanno riconosciuto questo spirito257; essi hanno sostenuto che questa forza è una natura immersa nelle cose, dalla quale provengono il movimento e la quiete, mentre essa è Dio assoluto, che è benedetto nei secoli. Quanto sono stato contento di aver ascoltato una spiegazione così chiara! Ma ti chiedo di aiutarci ancora con un altro esempio a concepire la creazione della nostra mente in questo nostro corpo. Idiota. Su questo argomento hai già ascoltato qualcosa in precedenza 258. Poiché, tuttavia, la diversità degli esempi rende più chiaro ciò che è inesprimibile, te ne faccio un altro: sai che la nostra mente è una certa forza che possiede un’immagine di quell’arte divina di cui ho già parlato259. Di conseguenza, tutto ciò che è presente nell’arte assoluta in modo assolutamente vero è presente in modo vero nella nostra mente, che ne è l’immagine. La nostra mente, pertanto, è stata creata dall’arte creatrice come se quest’arte avesse voluto creare se stessa, e, dal momento che l’arte infinita non è moltiplicabile, ciò che sorge è una sua immagine; è come se un pittore volesse dipingere se stesso: dal momento che egli non è in se stesso moltiplicabile, dipingendo se stesso farebbe nascere una sua immagine260. Ed un’immagine, per quanto perfetta essa sia, se non è in grado di diventare più perfetta e più conforme al suo esemplare non è mai così perfetta come lo è una qualsiasi immagine meno perfetta che abbia tuttavia la capacità di conformarsi sempre di più e senza limiti al suo esemplare inaccessibile. In questo, infatti, essa imi-
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in hoc enim infinitatem imaginis modo quo potest imitatur, quasi si pictor duas imagines faceret, quarum una mortua videretur actu sibi similior, alia autem minus similis viva, scilicet talis, quae se ipsam ex obiecto eius ad motum incitata conformiorem semper facere posset, nemo haesitat secundam perfectiorem quasi artem pictoris magis imitantem – sic omnis mens, etiam et nostra, quamvis infra omnes sit creata, a deo habet, ut modo quo potest sit artis infinitae perfecta et viva imago. Quare est trina et una habens potentiam, sapientiam et utriusque nexum modo tali, ut perfecta artis imago, scilicet quod excitata possit se semper plus et plus exemplari conformare. Sic mens nostra etsi in principio creationis non habeat actualem resplendentiam artis creatricis in trinitate et unitate, habet tamen vim illam concreatam, per quam excitata se actualitati divinae artis conformiorem facere potest. Unde in unitate essentiae eius est potentia, sapientia et voluntas. Et coincidunt in essentia magister et magisterium ut in imagine viva artis infinitae, quae excitata se actualitati divinae semper sine termino conformiorem facere potest praecisione infinitae artis inaccessibili semper remanente. 150 Orator: Mirabiliter et planissime. Sed oro: Quomodo mens creando infunditur? Idiota: Alias de hoc audisti. Nunc iterum recipe alio exemplo id ipsum. Et accepto vitro et pendule inter pollicem et digitum ipsum suspendente tetigit vitrum et sonum recepit sonoque aliqualiter continuato fissum est vitrum et cessavit sonus. Et aiebat: In vitro pendulo vis aliqua orta fuit per meam potentiam, quae vitrum movit, unde sonus ortus est. Et rupta proportione vitri, in qua sonus et per consequens motus residebat, cessavit ibi motus, similiter motu cessante sonus. Quod si virtus illa, quia
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ta, per quanto può, l’infinito, nel modo proprio dell’immagine. È come se un pittore facesse due immagini, delle quali una morta, ma che sembri effettivamente più simile a lui, e l’altra meno simile a lui ma viva, ossia tale che, stimolata dal suo esemplare a muoversi, sia capace di rendersi sempre più conforme ad esso: nessuno dubiterebbe che la seconda immagine è più perfetta, in quanto imita maggiormente l’arte del pittore. Allo stesso modo, ogni mente, anche la nostra, per quanto sia stata creata inferiore rispetto a tutte le altre, ha da Dio il fatto di essere, per quanto essa può, un’immagine vivente e perfetta dell’arte infinita 261. Per questo, la mente è trina ed una, e possiede la potenza, la sapienza e il nesso dell’una e dell’altra, in modo da essere un’immagine perfetta dell’arte, tale, cioè, che, una volta stimolata, essa può rendersi sempre più e più conforme al suo esemplare262. In questo modo, la nostra mente, sebbene appena creata non abbia in atto lo splendore dell’arte creatrice in termini di trinità e di unità, possiede tuttavia quella forza innata mediante la quale, una volta che viene stimolata, essa può rendersi più conforme all’attualità dell’arte divina. Per questo, nell’unità dell’essenza della mente ci sono la potenza, la sapienza e la volontà. E nell’essenza il maestro e il magistero coincidono, come avviene nell’immagine vivente dell’arte infinita, che, una volta stimolata, ha la capacità di rendersi senza fine sempre più conforme all’attualità divina, per quanto la precisione dell’arte infinita resti sempre inaccessibile263. Oratore. Hai parlato in modo stupendo e chiarissimo. Ma ti chiedo: come viene infusa la mente al momento della creazione?264 Idiota. Mi hai ascoltato altre volte su questo argomento265. Ora te lo espongo di nuovo ricorrendo ad un altro esempio. Prese un bicchiere di vetro, e tenendolo sospeso tra il pollice e l’indice, lo colpì e si sentì un suono che si protrasse per qualche tempo, dopo di che il bicchiere si spezzò e il suono cessò266. E l’idiota disse: nel bicchiere di vetro che io tenevo sospeso era sorta, grazie alla mia potenza, una certa forza che aveva messo il vetro in movimento, e da ciò è nato il suono. Ma, una volta rotta la proporzione del bicchiere [di vetro] nella quale risiedeva il suono e di conseguenza il movimento, è cessato il movimento e, una volta cessato il movimento, è cessato anche il suono267. Ma supponi che
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non dependebat a vitro, ob hoc non cessaret, sed sine vitro subsisteret, exemplum haberes, quomodo vis illa creatur in nobis, quae motum et harmoniam facit et cessat illam facere per rupturam proportionis, licet ob hoc non cesset esse. Sicut si ego tibi artem citharizandi in data cithara trado, cum ars a cithara data non dependeat, licet in cithara sit tibi tradita, tunc cithara rupta ob hoc ars citharizandi non est rupta, etiam si nulla cithara tibi apta sit in mundo reperibilis. 151
Capitulum XIV
Quomodo mens de galaxia dicitur descendere per planetas ad corpus et reverti; et de notionibus spirituum separatorum indelebilibus et nostris delebilibus. Philosophus: Ad res raras et a sensu remotas aptissima atque pulcherrima adducis exempla. Et quia solis occasus accedit, qui nos non sinet amplius commorari, dic oro, quid sibi velint philosophi, qui aiunt animas descendere de galaxia per planetas ad corpora et sic reverti ad galaxiam, et cur Aristoteles volens exprimere vim animae nostrae a ratione incipit dicens animam de ratione ad doctrinam, de doctrina ad intellectibilitatem ascendere, Plato vero contrario modo ait ponens intellectibilitatem elementum et quod degenerando intellectibilitas fiat doctrina seu intelligentia et intelligentia degenerando fiat ratio. 152 Idiota: Ignoro scripturas. Sed forte primi, qui de descensu et ascensu animarum dixerunt, idem dicere voluerunt quod Plato et Aristoteles. Nam Plato ad creatoris imaginem respiciens, quae maxime est in intellectibilitate, ubi se mens simplicitati divinae conformat, ibi elementum posuit et substantiam mentis posuit, quam post mortem remanere voluit. Illa ordine naturae praecedit intel-
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quella forza, dato che non dipendeva dal vetro, non cessasse, ma continuasse a sussistere senza il vetro, avresti allora un esempio di come è stata creata in noi quella forza che produce il movimento e l’armonia, e che smette di produrli quando si rompe la proporzione, anche se essa non cessa per questo di esistere. È come se io ti insegnassi l’arte di suonare la cetra su una determinata cetra: dal momento che l’arte non dipende da quella determinata cetra, sebbene io te l’abbia insegnata su quella cetra, se la cetra dovesse rompersi non si romperebbe per questo l’arte del suonare la cetra, anche se non si potesse più trovare nel mondo una cetra che sia adatta per te. CAPITOLO XIV
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Perché si dice che la mente discende dalla via lattea, attraverso i pianeti, fino al corpo e ritorni indietro. Sulle nozioni indelebili degli spiriti separati e sulle nostre corruttibili. Filosofo. Presenti esempi bellissimi e molto adatti ad illustrare questioni che sono poco comuni e distanti dai sensi. E poiché si avvicina il tramonto, che non ci consentirà di attardarci a lungo, ti prego di spiegarmi che cosa intendono dire quei filosofi che affermano che le anime discendono dalla via lattea e giungono nei nostri corpi passando attraverso i pianeti per poi tornare di nuovo indietro alla via lattea268. E perché Aristotele, volendo esprimere la forza della nostra anima, incomincia dalla ragione e dice che l’anima ascende dalla ragione alla dottrina, e dalla dottrina all’intelligibilità? Platone, invece, si esprime in senso contrario, sostenendo che l’intelligibilità è il primo elemento e che, quando degenera, essa diventa dottrina o intelligenza, e che l’intelligenza, degenerando, diventa ragione269. Idiota. Non conosco i loro scritti. Ma forse i primi che hai menzionato, quelli che hanno parlato di una discesa e di un’ascesa delle anime, hanno voluto dire la stessa cosa che hanno detto Platone e Aristotele. Platone, infatti, ha considerato l’immagine del creatore, che è presente soprattutto nella intelligibilità, ed è qui, dove la mente si conforma alla semplicità divina, che egli ha posto il primo elemento e la sostanza della mente, che egli ha ritenuto permanesse dopo la morte. Nell’ordine della natura, que-
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ligentiam, sed degenerat in intelligentiam, quando recedit de divina simplicitate, in qua omnia unum, et vult in se intueri omnia ut quodlibet habet esse ab alio distinctum et proprium. Deinde adhuc plus degenerat mens, quando motu rationis comprehendit res non in se, sed ut forma est in variabili materia, ubi non potest tenere veritatem, sed vergit in imaginem. 153 Aristoteles autem, qui omnia consideravit ut sub vocabulo cadunt, quae motu rationis sunt imposita, facit elementum rationem, et rationem forte dicit per disciplinam, quae fit per vocabula, ad intelligentiam ascendere, postea altissime ad intellectibilitatem. Unde ponit elementum rationem ad ascensum intellectus, Plato vero intellectibilitatem ad descensum eius. Ita inter eos non videtur differentia nisi in modo considerationis. Philosophus: Hoc sic sit. Dic: Cum omnes philosophi dicant omnem intellectum fore de substantia et accidente, quomodo hoc est verum de deo et materia prima? Idiota: Intellectus de deo est inflexus de intellectu huius nominis ‘ens’, quia ens non-enter, hoc est imparticipabiliter intellectum est deus. Et ille est idem ei, qui de eo habetur, quod est substantia et accidens, sed alio modo, hoc est inflexe consideratus. Unde intellectus de deo est complexivus omnium intellectuum de substantia et accidente, sed est simplex et unus. Intellectus vero de materia prima est flexio quaedam ab intellectu, qui habetur de corpore. Si enim corpus incorporee, hoc est absque omnibus formis corporeis intelligis, illud idem, quod ‘corpus’ significat, intel-
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sta intelligibilità precede l’intelligenza, ma degenera in intelligenza quando si allontana dalla semplicità divina, nella quale tutte le cose sono un’unità, e vuole cogliere tutte le cose in se stessa, secondo il modo d’essere che ciascuna di esse ha come proprio e come distinto da quello delle altre. Poi la mente degenera ulteriormente quando, mediante il movimento della ragione, comprende le cose non in se stessa, ma secondo la forma che è presente nella materia mutevole, dove la mente non può attenersi alla verità, ma si rivolge verso un’immagine. Aristotele, invece, che ha considerato tutte le cose in quanto cadono sotto un nome270, pone come primo elemento la ragione, [dal momento che] i nomi sono imposti dal movimento della ragione271; e forse egli intende dire che la ragione ascende all’intelligenza per mezzo della disciplina, la quale si costituisce mediante i nomi, e da qui ascende ancora più in alto fino all’intelligenza272. Pertanto, Aristotele pone la ragione come primo elemento per l’ascesa dell’intelletto, mentre Platone pone l’intellegibilità quale primo elemento per la sua discesa273. Tra Platone e Aristotele, pertanto, non sembra esserci alcuna differenza, se non nella maniera di considerare le cose. Filosofo. Ammettiamo che sia così. Ma dimmi: dal momento che tutti i filosofi sostengono che ogni conoscenza intellettiva si riferisce alla sostanza e all’accidente, in che modo questo può essere vero per quanto concerne la conoscenza di Dio e della materia prima? Idiota. La conoscenza che abbiamo di Dio è una variazione della conoscenza che abbiamo di ciò che viene indicato con il termine «essere», perché Dio è l’essere inteso non al modo dell’ente, ossia inteso come impartecipabile274. E questa conoscenza è la stessa che si ha a proposito della sostanza e dell’accidente, ma considerata in un’altra maniera, ossia con quella variazione. Di conseguenza, la conoscenza di Dio include tutte le altre conoscenze intorno alla sostanza e all’accidente, ma è semplice e unitaria. La conoscenza della materia prima, invece, è, in qualche modo, una variazione della conoscenza che abbiamo del corpo. Infatti, se intendi il corpo in modo incorporeo, ossia separatamente da ogni forma corporea, allora intendi quella stessa cosa che è designata con il termine «corpo»,
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ligis, sed alio modo, quia incorporee; qui procul dubio est intellectus materiae. 154 Philosophus: Putasne mentes caelestes secundum gradus intellectuales creatas et notiones habere indelebiles? Idiota: Puto alios angelos intellectibiles, ut sunt de supremo ordine, alios intelligentiales ut de secundo ordine, alios rationales ut de tertio, ac quod in quolibet ordine sint tot gradus similiter, ut sic sint novem gradus seu chori, et quod mentes nostrae sint sic infra primum gradum talium spirituum et supra omnem gradum corporalis naturae quasi nexus universitatis entium, ut sint terminus perfectionis inferioris naturae et initium superioris. Arbitror etiam notiones spirituum beatorum extra corpus exsistentium in quiete habere notiones invariabiles et indelebiles oblivione ob praesentiam veritatis obiectaliter se indesinenter offerentis. Et hoc est meritum spirituum, qui fruitionem exemplaris rerum meruerunt. 155 Nostrae autem mentes ob sui informitatem obliviscuntur saepe eorum, quae sciverunt, aptitudine concreata permanente ad denuo sciendum. Nam etsi sine corpore excitari ad progressum intellectualem non possint, tamen ob incuriam, aversiones ab obiecto, setractiones ad varia et diversa et corporeas molestias notiones perdunt. Notiones enim, quas hic in hoc mundo variabili et instabili acquirimus secundum condiciones variabilis mundi, non sunt confirmatae. Sunt enim ut notiones scholarium et discipulorum proficere incipientium et nondum ad magisterium perductorum. Sed notiones istae hic acquisitae, quando mens pergit de mundo variabili ad invariabilem, similiter ad invariabile magisterium transferuntur. Quando enim particulares notiones transeunt in perfectum
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ma in un’altra maniera, in quanto la intendi in modo incorporeo; e questa è senza dubbio la conoscenza che abbiamo della materia. Filosofo. Ritieni che le menti celesti siano state create secondo gradi diversi di intelligenza e che posseggano nozioni indelebili? Idiota. Ritengo che alcuni angeli siano esseri intelligibili, e appartengono all’ordine più elevato, che altri siano intelligenti, e appartengono al secondo ordine, altri razionali, e appartengono al terzo ordine, e che in ogni ordine vi siano, similmente, altrettanti gradi, in modo tale che vi sono nove gradi o cori275. Ritengo, inoltre, che le nostre menti siano al di sotto del primo grado di tali spiriti, ma siano al di sopra di tutti i gradi della natura corporea, quasi come se fossero il nesso della totalità degli enti, in modo tale da essere il termine ultimo della perfezione della natura inferiore e l’inizio della perfezione della natura superiore276. E credo anche che le nozioni degli spiriti beati, che esistono in pace fuori dalla condizione corporea, siano invariabili e indelebili, non soggette all’oblio, e questo a motivo della presenza della verità, che si offre come un oggetto senza mai venir meno; e questa condizione è la ricompensa per quegli spiriti che hanno meritato di godere dell’esemplare delle cose. Le nostre menti, invece, a causa dell’imperfezione della loro forma, dimenticano frequentemente le cose che hanno conosciuto, benché permanga l’attitudine a conoscere di nuovo che è in esse innata277. Infatti, sebbene senza il corpo le nostre menti non possano ricevere quegli stimoli che consentono loro di progredire intellettualmente278, nel corpo, tuttavia, esse perdono le loro conoscenze per negligenza, perché non prestano più attenzione all’oggetto, perché sono attratte da cose varie e diverse, per disturbi fisici. Le nozioni che acquisiamo qui, in questo mondo mutevole e instabile e in conformità con le condizioni proprie di un mondo mutevole, non hanno stabilità. Esse sono come le nozioni degli studenti e dei discepoli che hanno iniziato a fare dei progressi, ma che non sono ancora giunti a possedere la materia come il maestro. Ma quando la mente procede da questo mondo mutevole verso il mondo immutabile, quelle nozioni che essa ha acquisito qui vengono anch’esse trasformate in un magistero immutabile. Quando, infatti, le nozioni particolari trapassano nel magistero perfetto, allora, inserite
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magisterium, desinunt esse variabiles in magisterio universali, quae erant particulariter fluidae et instabiles. Sic sumus in hoc mundo docibiles, in alio magistri. 156
Capitulum XV
Quomodo mens nostra sit immortalis et incorruptibilis. Philosophus: Restat nunc, ut de immortalitate mentis nostrae quae sentis dicas, ut, quantum fieri potuit pro hac die, de hoc instructior factus me in multis gaudeam profecisse. Idiota: Qui elementum descensus intellectus ponunt intellectibilitatem, mentem ponunt nequaquam dependere a corpore. Qui elementum ascensus intellectus rationem ponunt et finem intellectibilitatem, mentem nequaquam cum corpore interire admittunt. Ego autem nequaquam haesito gustum sapientiae habentes immortalitatem mentis negare non posse, uti de hoc alias oratori quae tunc occurrerunt patefeci. Sic qui attendit intuitionem mentis attingere invariabile et per mentem formas a variabilitate abstrahi et in invariabilem regionem necessitatis complexionis reponi, ille non potest haesitare mentis naturam ab omni variabilitate absolutam esse. Ad se enim attrahit, quod a variabilitate abstrahit. Nam veritas invariabilis figurarum geometricarum non in pavimentis, sed mente reperitur. Et dum anima per organa inquirit, id, quod invenit, variabile est, dum per se inquirit, id, quod invenit, stabile, clarum, limpidum et fixum exsistit. Non igitur est de natura variabilium, quae sensu attingit, sed invariabilium, quae in se invenit.
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nel magistero universale, quelle nozioni che prima, nella loro particolarità, erano fluide e instabili, cessano di essere mutevoli. Così, in questo mondo noi siamo degli studenti, nell’altro siamo dei maestri279. CAPITOLO XV
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Come la nostra mente sia immortale e incorruttibile. Filosofo. Resta ora che tu mi dica che cosa pensi a proposito dell’immortalità della nostra mente, in modo tale che, reso più istruito anche su questo argomento, possa rallegrarmi di aver fatto progressi su molte questioni, nella misura in cui ciò è stato possibile nell’arco di una sola giornata280. Idiota. Coloro che pongono l’intelligibilità come primo elemento da cui ha inizio la discesa sostengono con ciò che la mente non dipende in alcun modo dal corpo. Coloro che pongono la ragione come primo elemento dell’ascesa dell’intelletto e pongono come suo fine ultimo l’intelligibilità ammettono con ciò che la mente non può in alcun modo perire con il corpo. Quanto a me, non ho alcun dubbio sul fatto che coloro che hanno il gusto della sapienza non possono negare l’immortalità della mente, ed in un’altra occasione ho illustrato all’oratore che cosa pensassi a questo proposito281. Chi infatti considera che l’intuizione della mente coglie ciò che non è soggetto a variazione e che, attraverso la mente, le forme vengono separate, con l’astrazione, dalla variabilità [della materia] e riposte nella regione invariabile della necessità del complesso, costui non può dubitare del fatto che la natura della mente sia libera da ogni variabilità. La mente, infatti, attrae a sé ciò che essa astrae da ogni variabilità. Ad esempio, la verità invariabile delle figure geometriche non la si rinviene nelle figure tracciate sul pavimento, ma nella mente. Ora, quando l’anima compie le sue ricerche mediante gli organi di senso, ciò che essa trova è variabile, quando compie le sue ricerche mediante se stessa, ciò che essa trova è stabile, chiaro, limpido e saldo. La mente, pertanto, non appartiene alla natura delle cose variabili che essa coglie con i sensi, ma alla natura delle cose invariabili che essa trova in se stessa 282.
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Sic ex numero potest immortalitatis eius ostensio convenienter venari. Nam cum sit numerus vivus, scilicet numerus numerans, et omnis numerus in se incorruptibilis, licet in variabili materia consideratus variabilis videatur, mentis nostrae numerus non potest concipi corruptibilis. Quomodo tunc auctor numeri corruptibilis videri posset? Neque aliquis numerus potest mentis numerandi virtutem evacuare. Unde, cum motus caeli per mentem numeretur et tempus sit mensura motus, tempus mentis virtutem non evacuabit, sed manebit ut omnium mensurabilium terminus, mensura et determinatio. Ostendunt instrumenta motuum caelestium, quae a mente humana procedunt, motum non plus mensurare mentem quam mens motum. Unde mens motu suo intellectivo omnem successivum motum videtur complicare. Mens ex se exserit motum ratiocinativum; sic est forma movendi. Unde, si quid dissolvitur, per motum hoc fit. Quomodo ergo forma movendi per motum dissolveretur? Mens cum sit vita intellectualis se ipsam movens, hoc est vitam, quae est eius intelligere, exserens, quomodo non semper vivit? Motus se ipsum movens quomodo deficit? Habet enim vitam sibi compaginatam, per quam est semper vivens, sicut sphaera semper rotunda per sibi compaginatum circulum. Si illa est mentis compositio quae numeri ex se ipso compositi, quomodo in nonmentem resolubilis? 158 Sic si mens est coincidentia unitatis et alteritatis ut numerus, quomodo divisibilis, cum divisibilitas in ea sit cum indivisibili unitate coincidens? Si mens complicat idem et diversum, cum intelli-
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Allo stesso modo, una dimostrazione dell’immortalità della mente la si può ricercare opportunamente partendo dal numero. Infatti, dal momento che la mente è un numero vivente, ossia un numero che numera, e dal momento che ogni numero è in se stesso incorruttibile, per quanto appaia variabile quando lo si considera nella materia che è variabile, il numero della nostra mente non può essere concepito come corruttibile. In che modo, allora, potrebbe essere corruttibile [la mente che è] l’autore del numero?283 Inoltre, nessun numero può esaurire la capacità di numerare della mente. Di conseguenza, dal momento che il movimento del cielo viene numerato dalla mente, e dal momento che il tempo è la misura del movimento, il tempo non esaurirà la capacità della mente, la quale, piuttosto, resterà quale termine, misura e determinazione di tutto ciò che è misurabile. Gli strumenti di misurazione dei moti celesti, strumenti che sono prodotti dalla mente umana, attestano come non sia il movimento che misura la mente, ma sia piuttosto la mente che misura il movimento284. Di conseguenza, con il suo movimento intellettivo, la mente sembra complicare ogni movimento di successione. La mente trae da se stessa il movimento razionale, per cui essa è la forma del movimento. Ora, se qualcosa si dissolve, ciò avviene mediante il movimento. Come potrebbe pertanto dissolversi mediante il movimento ciò che è la forma stessa del movimento? Dal momento che la mente è una vita intellettuale che muove se stessa, ossia che trae da sé quella vita che consiste nel suo intendere, come può essa non vivere per sempre? Come potrebbe cessare il movimento che muove se stesso? La mente, infatti, ha una vita che è ad essa intimamente congiunta in virtù della quale essa vive sempre, così come una sfera è sempre rotonda in virtù del cerchio che è ad essa intimamente congiunto285. Se la composizione della mente è come quella del numero che è composto di se stesso, come potrebbe essa dissolversi in non-mente? Allo stesso modo, se la mente è una coincidenza di unità e di alterità, come il numero, come potrebbe allora essere divisibile, dal momento che la divisibilità coincide in essa con l’unità indivisibile? Se la mente complica l’identico e il diverso, dato che intende dividendo e unificando, come potrebbe essere distrutta? Se il nume-
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gat divisive et unitive, quomodo destruetur? Si numerus est modus intelligendi mentis et in eius numerare coincidat explicatio cum complicatione, quomodo deficiet? Virtus enim, quae explicando complicat, minor fieri nequit. Mentem autem hoc agere patet, nam qui numerat, explicat vim unitatis et complicat numerum in unitatem. Denarius enim est unitas ex decem complicata. Sic qui numerat, explicat et complicat. Mens est imago aeternitatis, tempus vero explicatio, explicatio autem semper minor imagine complicationis aeternitatis. Qui attendit ad iudicium mentis sibi concreatum, per quod de omnibus rationibus iudicat, ac quod rationes ex mente sunt, videt nullam rationem ad mentis mensuram attingere. Manet igitur mens nostra omni ratione immensurabilis, infinibilis et interminabilis, quam sola mens increata mensurat, terminat atque finit sicut veritas suam et ex se, in se et per se creatam vivam imaginem. Quomodo periret imago, quae est relucentia incorruptibilis veritatis, nisi veritate communicatam relucentiam abolente? 159 Sicut igitur impossibile est, quod infinita veritas communicatam relucentiam subtrahat, cum sit absoluta bonitas, ita est impossibile, quod eius imago, quae non est nisi communicata relucentia eius, umquam deficiat, sicut postquam per solis relucentiam coepit esse dies, numquam sole lucente dies deficiet. Connata religio, quae hunc innumerabilem populum in hoc anno Romam et te philosophum in vehementem admirationem adduxit, quae semper in mundo in modorum diversitate apparuit, nobis esse naturaliter inditam nostrae mentis immortalitatem ostendit, ut ita nobis nota sit nostrae mentis immortalitas ex communi omnium indubitata assertione sicut nostrae naturae huma-
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ro è il modo d’intendere della mente, e se nel suo numerare l’esplicazione coincide con la complicazione, in che modo essa potrebbe venir meno? Una forza, infatti, che, nell’esplicare, complica, non può diventare più piccola286. Ma è evidente che la mente agisce proprio in questo modo, perché chi numera esplica la forza dell’unità e complica il numero nell’unità. Il numero dieci, infatti, è l’unità complicata di dieci unità. Chi numera, pertanto, esplica e complica. La mente è un’immagine dell’eternità, mentre il tempo ne è una esplicazione; l’esplicazione, tuttavia, è sempre inferiore rispetto ad un’immagine della complicazione dell’eternità. Chi presta attenzione alla facoltà di giudizio della mente, che è in essa innata e mediante la quale la mente giudica dei contenuti della ragione, e chi osserva, inoltre, che questi contenuti della ragione derivano dalla mente, vede che nessun contenuto della ragione giunge mai a cogliere la misura della mente. Per la ragione, pertanto, la nostra mente resta sempre non misurabile, non definibile e non determinabile. Solo la mente increata misura, delimita e definisce la nostra mente287, come fa la verità nei confronti della sua immagine vivente, che la verità crea da se stessa, in se stessa e attraverso se stessa. Come potrebbe perire un’immagine, che è lo splendore della verità incorruttibile, se non per il fatto che la verità abolisce lo splendore che essa comunica? Pertanto, com’è impossibile che la verità infinita, essendo la bontà assoluta, sottragga lo splendore che essa ha comunicato, così è impossibile che venga mai meno la sua immagine, la quale non è se non il suo splendore comunicato; è come il giorno, che, dopo che ha iniziato a sorgere in virtù dello splendore del sole, non verrà mai meno finché il sole splende288. La religione, che è innata in noi e che ha condotto quest’anno a Roma questa folle innumerevole di persone, cosa che ha suscitato in te, filosofo, una forte meraviglia, religione che si è sempre manifestata nel mondo in una diversità di modi, attesta che l’immortalità della nostra mente è insita per natura in noi, in modo tale che l’immortalità della nostra mente ci è nota a partire dal comune ed indubitato assenso di tutti289, come ci è nota l’umanità della nostra natura. La conoscenza che abbiamo del fatto che siamo degli esseri umani non è infatti più certa di quella che abbiamo di possedere
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nitas. Non enim habemus certiorem scientiam nos esse homines quam mentes habere immortales, cum utriusque scientia sit communis omnium hominum assertio. 160 Haec sic cursim dicta ab idiota grate recipito. Quod si non sint talia, quae sponsione oratoris audire exspectasti, aliqua tamen sunt, quae tibi fortassis ad altiora qualecumque adminiculum afferre poterunt. Orator: Interfui huic sancto et mihi dulcissimo colloquio multum mentem tuam de mente profunde disserentem admirans, indubio nunc experimento certissimum habens mentem vim omnia mensurantem exsistere, gratias tibi agens, optime idiota, tum mei parte, tum istius advenae philosophi, quem adduxi, qui spero consolatus abibit. Philosophus: Non me puto feliciorem diem hactenus hac ista vixisse. Nescio quid eveniet. Tibi oratori atque tibi idiotae, viro admodum theorico, immortales ago gratias orans nostras mentes ad aeternae mentis fruitionem hoc diuturno colloquio miro desiderio incitatas feliciter perduci. Amen.
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una mente immortale, in quanto la conoscenza di entrambe le cose costituisce un’affermazione comune di tutti gli uomini. Accogli con benevolenza queste cose dette così, rapidamente, da un idiota. E se non sono state quelle che, vista la premessa dell’oratore, ti aspettavi di ascoltare, ce ne sono tuttavia alcune che potranno forse esserti di un qualche aiuto per innalzarti a cose più elevate. Oratore. Ho partecipato a questo colloquio santo e per me dolcissimo, ammirando grandemente la capacità della tua mente di discutere in modo profondo del tema della mente. E ora, in seguito a questa esperienza indubitabile, so con assoluta certezza che la mente è una forza che misura tutte le cose. Ti ringrazio, ottimo idiota, sia da parte mia, sia da parte di questo filosofo straniero che ho portato con me e che, spero, se ne andrà confortato. Filosofo. Credo di non aver vissuto finora un giorno più felice di questo. Non so quale ne sarà l’esito. Ringrazio infinitamente te, oratore, e te, idiota, uomo eccezionalmente speculativo, e prego che le nostre menti, stimolate, attraverso il lungo colloquio di oggi, da uno straordinario desiderio, siano guidate felicemente al godimento della mente eterna. Così sia.
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Frequentabat consortium idiotae orator ille Romanus, ut aliquando viri illius conceptus, qui sibi grati erant, audiret. Dumque orator laudaret stateram quasi iustitiae trutinam atque reipublicae pernecessarium instrumentum, idiota respondit: Idiota. Quamquam nihil in hoc mundo praecisionem attingere queat, tamen iudicium staterae verius experimur et hinc undique acceptum. Sed dicito quaeso, cum non sit possibile in eadem magnitudine esse idem pondus in diversis diversam habentibus originem: an ne quisquam experimentales ponderum conscripserit differentias? Orator. Neque legi neque audivi. Idiota. Utinam quisquam nobis hanc consignationem praesentaret! supra multa volumina caripenderem. Orator. Si tibi animus daret, ut faceres, puto per neminem melius fieret. Idiota. Quisque volens faceret, cum sit facile, sed mihi deest opportunitas. 162 Orator. Dicito utilitatem et modum! Videbo, si aut ego aut alius efficere queat. Idiota. Per ponderum differentiam arbitror ad rerum secreta verius pertingi et multa sciri posse verisimiliori coniectura. Orator. Optime dicis. Nam propheta quidam ait pondus et stateram iudicium Domini illius esse, qui omnia creavit in numero,
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L’oratore romano era solito frequentare l’idiota per ascoltare, quando se ne presentava l’occasione, le sue idee, che egli trovava interessanti. Un giorno, mentre l’oratore lodava la bilancia come emblema della giustizia1 e come strumento necessario per lo stato, l’idiota rispose: Idiota. Sebbene non vi sia nulla in questo mondo che sia in grado di raggiungere la precisione2, sappiamo tuttavia per esperienza che il giudizio della bilancia è quello più accurato, e per questo viene accettato da tutti. Tuttavia, dal momento che non è possibile che cose della stessa grandezza ma che hanno un’origine diversa abbiano un peso identico, ti prego di dirmi se c’è qualcuno che abbia scritto a proposito delle differenze che si possono sperimentare nei pesi. Oratore. Non ho mai letto, né ascoltato nulla del genere. Idiota. Magari qualcuno ci fornisse questo catalogo dei pesi! Lo apprezzerei più di molti libri. Oratore. Se tu avessi intenzione di redigerlo, nessuno lo farebbe meglio di te. Idiota. Chiunque, volendo, potrebbe redigerlo, dal momento che si tratta di una cosa facile, ma a me ne manca l’opportunità. Oratore. Spiegami in che cosa consiste la sua utilità e qual è il modo per farlo! Vedrò, poi, se io o qualcun altro, riusciamo a realizzarlo. Idiota. Ritengo che, attraverso la considerazione delle differenze di peso, possiamo giungere a cogliere con maggiore verità gli aspetti nascosti delle cose e possiamo conoscere molte cose mediante congetture più plausibili3. Oratore. Dici benissimo. Infatti, un profeta4 afferma che il peso e la bilancia costituiscono il giudizio di quel Signore che ha creato tutte le cose nel numero, nel peso e nella misura, e che ha
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pondere et mensura et fontes aquarum libravit et molem terrae appendit, ut Sapiens scribit. Idiota. Si igitur mensura aquae unius fontis non est eiusdem ponderis, cuius est similis mensura alterius, iudicium diversitatis naturae unius et alterius melius statera quam alio attingitur instrumento. Orator. Bene dicis. Admonet Vitruvius de architectura scribens locum habitationis eligendum habentem leviores et magis aëreas aquas, et graves atque terreas habentem declinandum. 163 Idiota. Sicut igitur eiusdem fontis aquae videntur eiusdem ponderis et naturae, sic diversorum diversi ponderis. Orator. ‘Videntur’ ais, quasi aliud sit in veritate. Idiota. Fateor ex tempore pondus variari, licet aliquando imperceptibiliter. Nam indubie aliud est pondus aquae uno tempore, aliud alio; sic et aliud pondus aquae circa fontem, aliud in distantia a fonte. Sed hae differentiae vix perceptibiles saepe pro nullis habentur. Orator. Arbitraris sic in omnibus esse, uti dixisti in aqua? Idiota. Arbitror certe. Nam nequaquam est eiusdem ponderis identitas magnitudinis quorumcumque diversorum. Unde cum aliud sit pondus sanguinis et urinae hominis sani et infirmi, iuvenis et senis, Alemanni et Afri, nonne maxime conferret medico habere has omnes differentias annotatas? Orator. Maxime certe, immo per pondera consignata se admirabilem constitueret.
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equilibrato le sorgenti delle acque e ha pesato la massa della terra, come scrive il Sapiente5. Idiota. Se, dunque, la quantità di acqua che proviene da una sorgente non ha lo stesso peso di una quantità simile di acqua che proviene da un’altra sorgente, allora il giudizio sulla diversità di natura tra l’un tipo di acqua e l’altro lo si ottiene meglio con la bilancia che con qualsiasi altro strumento. Oratore. Dici bene. Vitruvio, nel suo libro sull’architettura, raccomanda di scegliere come luogo per l’abitazione quello che ha le acque più leggere e di colore più simile al cielo e di evitare quello che ha acque pesanti e di colore simile alla terra6. Idiota. Pertanto, come le acque che provengono da una stessa sorgente sembrano avere lo stesso peso e la stessa natura, così quelle che provengono da sorgenti diverse sembrano avere un peso diverso. Oratore. Dici «sembrano», come se in verità le cose stessero in un altro modo. Idiota. Ammetto che il peso varia in funzione del tempo, anche se a volte in maniera impercettibile. Infatti, senza dubbio, il peso che l’acqua ha in un determinato momento è diverso da quello che essa ha in un altro momento. Allo stesso modo, il peso che l’acqua ha vicino alla sorgente è diverso dal peso che essa ha lontano dalla sorgente. Ma di queste differenze, che sono appena percettibili, spesso non si tiene alcun conto. Oratore. Ritieni che in tutti i casi la situazione sia la stessa di quella che tu hai indicato a proposito dell’acqua? Idiota. Lo ritengo con certezza. Infatti, cose che hanno identica grandezza, ma che sono diverse, non hanno mai lo stesso peso. Di conseguenza, dal momento che il peso del sangue e il peso dell’urina sono diversi in un uomo sano e in un uomo malato, in un giovane e in un anziano, in un tedesco e in un africano, non sarebbe estremamente utile per un medico avere un catalogo in cui fossero annotate tutte queste differenze? Oratore. Sarebbe di certo estremamente utile, ed anzi un medico che avesse un tale catalogo dei pesi si renderebbe degno di ammirazione.
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Idiota. Arbitror enim medicum verius iudicium ex pondere urinae pariter et colore simul facere posse quam ex fallaci colore. Orator. Certissime. 164 Idiota. Sic etiam, cum herbarum radices, stipes, folia, fructus, semina et succus suum habeant pondus, si omnium herbarum pondera consignata forent cum varietate locorum, naturam omnium medicus attingeret melius in pondere et sapore quam fallaci gustu. Orator. Optime dicis. Idiota. Sciret deinde ex collatione ponderum herbarum ad pondus sanguinis vel urinae dosim applicationis ex concordantia et differentia medicaminis attingere, et praenostica admiranda facere; et sic staticis experimentis omne scibile praecisiori coniectura accederet. Orator. Mirandum multum, quod in ponderum signatura hactenus desides fuerunt tot laboriosi investigatores. Idiota. Nonne putas, si aquam ex stricto foramine clepsedrae fluere in pelvim permitteres, quousque sani adolescentis pulsum centies sentires, et similiter ageres in adolescente infirmo, inter aquas illas ponderis cadere differentiam? Orator. Quis dubitat? 165 Idiota. Ex pondere igitur aquarum ad diversitatem pulsuum in iuvene, sene, sano et infirmo perveniretur et ita ad morbi veriorem notitiam, cum aliud pondus in una infirmitate, aliud in alia necessario eveniret. Unde perfectius fieret iudicium ex experimentali
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Idiota. In effetti, ritengo che se un medico tiene conto, insieme al colore dell’urina, anche del suo peso, egli possa formarsi un giudizio più vero di quello basato sul solo colore, che può trarre in inganno7. Oratore. Ne sono assolutamente certo. Idiota. Allo stesso modo, inoltre, dato che le radici delle erbe, il fusto, i frutti, i semi e il succo hanno ciascuno un proprio peso, se si annotassero i pesi di tutte le erbe, insieme ai diversi luoghi in cui crescono, il medico giungerebbe a conoscere meglio la natura di tutte le erbe in base al loro peso e al loro sapore, piuttosto che sulla base del solo gusto, che può trarre in inganno. Oratore. Dici benissimo. Idiota. Confrontando poi i pesi delle erbe con il peso del sangue e dell’urina, sulla base del loro accordo o della loro differenza il medico saprebbe come giungere alla dose corretta di medicamento da applicare e saprebbe fare delle prognosi mirabili; in questo modo, mediante gli esperimenti fatti con la bilancia, egli si avvicinerebbe a tutto ciò che è conoscibile con delle congetture più precise. Oratore. È alquanto sorprendente che tanti diligenti ricercatori siano stati finora così pigri nel tener nota dei pesi. Idiota. Se attraverso lo stretto foro di una clessidra lasci scorrere dell’acqua in una bacinella8 fino a contare cento battiti del polso di un ragazzo sano, e se facessi lo stesso con un ragazzo malato, non credi che ci sarebbe una differenza di peso tra le due quantità di acqua? Oratore. Chi può dubitarne? Idiota. Pertanto, sulla base del peso delle quantità di acqua potremmo stabilire la differenza di pulsazioni nel caso di un giovane, di un anziano, di una persona sana e di una malata, e potremmo così giungere ad una conoscenza più vera della malattia, in quanto risulterebbe che ad una malattia corrisponde un certo peso e ad un’altra malattia, necessariamente, un altro peso. Di conseguenza, sulla base delle differenze che si sono sperimentate nelle pulsazioni e sulla base del peso dell’urina si potrebbe formulare un giudizio molto più accurato di quello che viene formulato solamente sul-
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pulsuum tali differentia et pondere urinae quam tactu venae et colore urinae tantum. Orator. Optime ais. Idiota. Adhuc: si spiritum seu anhelitum per inspirationem et expirationem iam dicta ponderum aquae habitudine attingeret, nonne adhuc praecisius iudicium faceret? Orator. Faceret certe. 166 Idiota. Si enim fluente aqua ex clepsedra centum numeraret expirationes in puero et similiter in sene, non est possibile aquas eiusdem ponderis evenire. Sic dico in aliis diversis aetatibus et complexionibus. Unde, quando medico constaret pondus expirationis sani aut pueri aut adolescentis et similiter aegrotantis varia infirmitate, indubie tali experimento ad notitiam sanitatis et casus ab ipsa atque ad dosim remediorum citius perveniret. Orator. Immo etiam ad coniecturas periodi. Idiota. Bene dicis. Si enim reperiret in sano adolescente pondus senis et decrepiti, coniceret illum citius moriturum, et tales faceret admirabiles coniecturas. Adhuc: si in febribus per similem modum paroxysmos calidos et frigidos per ponderum aquae differentiam annotaret, nonne morbi efficaciam ac remedii opportunitatem verius pertingere posset? Orator. Indubie posset! Experiretur enim victoriam unius qualitatis super aliam, caloris super frigus aut e converso, et secundum repertam habitudinem medelas applicaret. 167 Idiota. Adhuc dico in variis nationibus et regionibus et temporibus ista variari in identitate aetatis. Unde varietatem ponde-
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la base delle pulsazioni sentite tastando la vena e sulla base del colore dell’urina. Oratore. Dici benissimo. Idiota. Inoltre, se il medico misurasse il respiro, durante l’inspirazione e l’espirazione, mediante il rapporto tra i rispettivi pesi dell’acqua, come abbiamo detto, egli non si formerebbe un giudizio ancora più preciso? Oratore. Certamente. Idiota. Se, infatti, mentre scorre l’acqua dalla clessidra, egli contasse cento espirazioni in un bambino e similmente in un anziano, non sarebbe possibile che il peso delle due quantità di acqua risulti essere identico. Lo stesso vale nel caso di altre età e per condizioni fisiche diverse. Di conseguenza, se un medico conoscesse il peso dell’acqua raccolta durante l’espirazione di un bambino e di un adolescente, a seconda che sia sano o malato, e, ugualmente, nel caso di un ammalato, a seconda del tipo di malattia, mediante un tale procedimento egli giungerebbe senza dubbio più rapidamente ad una conoscenza della salute e delle sue cadute e ad una conoscenza della corretta dose di medicina da somministrare. Oratore. Anzi, giungerebbe anche a delle congetture più precise circa il decorso di una malattia. Idiota. Dici bene. Infatti, se in un ragazzo sano il medico trovasse il peso [di acqua] caratteristico di una persona anziana e decrepita, egli congetturerebbe che quel ragazzo sia sul punto di morire, e farebbe in questo modo delle congetture straordinarie. Inoltre: se durante gli stati febbrili il medico annotasse in modo simile i picchi di caldo e di freddo sulla base delle differenze di peso dell’acqua, egli non potrebbe giungere a conoscere in modo più veridico la gravità di una malattia e quale sia il rimedio opportuno? Oratore. Senza dubbio. Infatti, accerterebbe, mediante i suoi esperimenti, il predominio di una qualità sull’altra, del caldo sul freddo o viceversa, e, a seconda del tipo di rapporto che ha accertato, somministrerebbe la cura conseguente. Idiota. Aggiungo, inoltre, che, anche quando l’età dei pazienti è la stessa, questi dati variano a seconda dei vari popoli, delle diverse regioni e dei diversi periodi di tempo9. Di conseguenza, per
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rum secundum omnia designari quamvis difficile, tamen utilissimum foret. Orator. Sic est ut ais. Idiota. Videtur autem, quod pondus omnium rerum considerandum foret uti medium diversitatis ponderum eius in diversis climatibus, ut, si pondus hominis in comparatione ad aliud animal considerandum foret, tunc homo est considerandus non ut septentrionem aut meridiem, ubi hincinde est excessus, sed potius ut clima medium inhabitans. Orator. Optime ais. Veteres clima illud diarhodon appellarunt; nam ab oriente ad occasum per Rhodum insulam tendit. Sed quaeso, si totius hominis pondus in comparatione ad aliud aliquod animal quaereres, quomodo procederes? Idiota. Hominem in libra ponerem, cui simile pondus appenderem in alia parte. Deinde hominem in aquam mitterem, et iterum extra aquam ab alia parte aequale appenderem, et diversitatem ponderum annotarem, faceremque itidem cum animali dato, et ex varia diversitate ponderum quaesitum annotarem. Post hoc attenderem ad ponderum hominis et animalis diversitatem extra aquam; et secundum hoc moderarem inventum et conscriberem. 168 Orator. Hanc moderationem non capio. Idiota. Ostendam tibi, inquit. Et accepto ligno levi, cuius pondus ut tria, et aquae eiusdem magnitudinis ut quinque, ipsum in duas divisit inaequales partes, quarum una habuit duplam magnitudinem, alia simplam; ambas in cuppam altam posuit et cum fuste tenuit ac aquam superfudit; et fuste retracta ascenderunt ligna ad aquae superficiem, et maius lignum citius quam minus. Ecce, aiebat, tu vides diversitatem motus in identitate proportionis ex eo evenire, quia in levibus lignis in maiori est plus levitatis.
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quanto sia difficile, sarebbe tuttavia utilissimo tener nota della varietà dei pesi in base a tutti questi elementi variabili. Oratore. Le cose stanno proprio come dici tu. Idiota. Ora, sembra che il peso di ogni cosa dovrebbe essere considerato come la media dei pesi che quella cosa ha nelle diverse latitudini. Ad esempio, se si dovesse considerare il peso di un uomo comparandolo al peso di un altro animale, allora si dovrebbe prendere in considerazione non l’uomo del nord o del sud, dove c’è un estremo in un senso o in un altro, ma piuttosto quello che abita in una zona climatica intermedia. Oratore. Dici benissimo. Gli antichi chiamarono questa zona climatica intermedia «Diarhodon»; infatti, essa si estende da oriente ad occidente passando attraverso l’isola di Rodi. Ma, se cercassi di calcolare il peso complessivo di un uomo comparandolo a quello di un altro animale, come procederesti? Idiota. Collocherei l’uomo su un piatto della bilancia, e sull’altro piatto aggiungerei un peso uguale al suo. Poi, immergerei l’uomo in acqua e, ancora una volta, aggiungerei un peso uguale al suo sull’altro piatto della bilancia fuori dell’acqua ed annoterei le differenze di peso. Farei la stessa cosa con l’animale dato, e dalle varie differenze di peso otterrei il risultato che ricercavo10 e lo annoterei. Dopo di questo, osserverei la differenza di peso tra l’uomo e l’animale fuori dell’acqua, e sulla base di questa misura aggiusterei il dato che avevo trovato e mi annoterei il nuovo risultato. Oratore. Non capisco il significato di questo «aggiustamento». «Te lo mostro», disse l’idiota. E preso un pezzo di legno leggero, il cui peso era tre quinti quello di una medesima quantità di acqua, lo divise in due parti non uguali, di cui una aveva una grandezza doppia dell’altra. Pose entrambe le parti in un’alta botte, le mantenne ferme con un bastone e vi versò sopra dell’acqua: e quando ritirò il bastone, i legni salirono alla superficie dell’acqua, il pezzo di legno più grande più velocemente del pezzo di legno più piccolo. «Ecco», disse l’idiota, «puoi vedere che, pur essendoci un’identica proporzione di peso tra il legno e l’acqua, si verifica una diversità di movimento per il fatto che, nel caso dei legni, che sono leggeri, c’è più leggerezza nel legno più grande.
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Orator. Video et placet multum. Idiota. Sic dico moderationem fieri debere. Si enim homo ob magnitudinem super animal plus gravitatis haberet, citius in aqua quam animal eiusdem proportionis descenderet. Quare tunc oporteret moderationem repertae differentiae diminuendo proportionaliter fieri secundum excessum. 169 Orator. Intelligo nunc. Sed dicito: quomodo resistit aqua, ne descendat lignum? Idiota. Ut maior gravedo minori. Quare, si lignum rotundum in ceram presseris et extraxeris locum aqua implendo, et huius aquae pondus similiter et ligni notaveris, comperies, si pondus ligni excedit pondus aquae, lignum descendere, si non, natare et super aquam partem proportionalem ligni manere secundum excessum ponderis aquae super pondus ligni. Orator. Cur dicis de rotundo ligno? Idiota. Si fuerit latae figurae, de aqua plus occupabit et elevatius natabit. Hinc naves in aquis paucae profunditatis esse debent latioris fundi. 170 Orator. Continua inceptum, an aliter pondera animalium attingi possint? Idiota. Possent puto. Nam si tinam usque ad summum aqua impleres ipsamque in aliam locares, deinde hominis pondus extra aquam caperes, post hoc ipsum in tinam illam descendere faceres, et aquam quae efflueret colligeres et ponderares: et pariformiter in alio aut homine aut animali aut alia re quacumque procedendo ex diversitate ponderum subtili ratione quaesitum attingeres. Orator. Subtiliter multum audivi, inquit orator, aliquando hoc ingenio metallorum differentiam repertam, atque nonnullos annotasse, quantum fusio unciae cerae colligit auri, argenti, cupri et ita de omnibus metallis.
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Oratore. Lo vedo, e lo apprezzo molto. Idiota. È in questo senso che dico che deve essere fatto un aggiustamento. Infatti, se un uomo, a causa della sua grandezza, fosse più pesante di un animale, allora sprofonderebbe nell’acqua più velocemente di un animale che avesse un’identica proporzione di peso con l’acqua. In questo caso, pertanto, bisognerebbe operare un aggiustamento della differenza che è stata rinvenuta, diminuendola in maniera proporzionale alla grandezza eccedente. Oratore. Ora comprendo. Ma dimmi: come fa l’acqua ad esercitare una resistenza in modo tale che il legno non sprofondi? Idiota. Come fa un corpo più pesante nei confronti di un corpo meno pesante. Pertanto, se tu imprimi un pezzo di legno rotondo nella cera e, dopo averlo estratto, riempi l’impronta con l’acqua ed annoti sia il peso dell’acqua, sia quello del legno, osserverai che, se il peso del legno è maggiore del peso dell’acqua, allora il legno sprofonda, se invece non è maggiore, il legno galleggia, e al di fuori dell’acqua resta una parte di legno proporzionale al peso in più che l’acqua ha rispetto al peso del legno. Oratore. Perché parli di un pezzo di legno rotondo? Idiota. Se il legno avesse una forma piatta, occuperebbe un volume di acqua maggiore e galleggerebbe più in alto. È per questo motivo che, in acque poco profonde, le navi devono avere un fondo più piatto. Oratore. Prosegui il discorso che avevi iniziato, e dimmi: è possibile determinare il peso degli animali in qualche altro modo? Idiota. Credo di sì. Si potrebbe ad esempio riempire una tinozza d’acqua fino all’orlo e collocarla in un’altra tinozza; poi pesare un uomo fuori dall’acqua e farlo scendere nella prima tinozza e raccogliere e misurare l’acqua che si è riversata fuori: procedendo allo stesso modo con un altro uomo o con un animale o con qualsiasi altra cosa, otterresti il risultato che cercavi, misurando, con un calcolo accurato, la differenza dei pesi. Oratore. Ho sentito, disse l’oratore, che, talvolta, mediante questa tecnica, sono state scoperte con grande accuratezza le differenze tra i metalli, e che alcuni hanno calcolato la quantità di oro, di argento, di rame, e così per tutti gli altri metalli, che può essere raccolta fondendo un’oncia di cera.
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Laudandus est ille, qui per fusionem magnitudinem intelligit. Vidit enim, si aurum tantum loci occuparet, quantum uncia cerae, quod tunc eius pondus tale foret. Ita de aliis metallis. Nam certissimum est aliud esse pondus auri, aliud argenti et ceterorum in aequalitate magnitudinis; et aliud cuiuslibet pondus in aëre, aliud in aqua, aliud in oleo aut alio liquore. Unde, si quis pondera illa omnia signata teneret, ille profecto sciret, quantum unum metallum est gravius alteri in aëre et quantum in aqua. Hinc, data quacumque massa, per ponderum eius diversitatem in aëre et aqua scire posset, cuius metalli massa foret et cuius mixturae. Et sicut dictum est de aëre et aqua, ita etiam de oleo dici posset aut alio quocumque humore, in quo experientia facta fuisset. Orator. Sic absque massae fusione et metallorum separatione mixtura attingeretur, et ingenium istud in monetis utile foret ad sciendum, quantum cupri immixtum sit auro aut argento. Idiota. Bene dicis. Valeret etiam plurimum ad sophistica alchimica opera cognoscenda, quantum a veritate deficerent. 172 Orator. Si quis igitur librum ponderum conscribere proponeret, illum etiam varietatem metalli cuiuslibet annotare oporteret, ut videtur; nam alterius ponderis est aurum Ungaricum, alterius aurum obrison. Ita de singulis metallis. Idiota. Ex praemissis constat: uti in fontibus ita et mineris diversitatem ponderis reperiri. Aurum tamen ubicumque reperiatur, semper est ponderosius quam aliud metallum. Unde species illa auri intra quandam ponderis latitudinem variari reperitur. Ita de reliquis. Orator. An ex habitudine ponderum metallorum naturarum venari possit habitudo?
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Idiota. Chi, attraverso la fusione dei metalli, ne intende la grandezza è degno di lode. Egli, infatti, riconosce che, se l’oro occupasse lo stesso spazio di un’oncia di cera, esso avrebbe un determinato peso. E lo stesso vale per gli altri metalli. Infatti, è assolutamente certo che, a parità di grandezza, il peso dell’oro, quello dell’argento e degli altri metalli è diverso, e che il peso che ciascuno di essi ha nell’aria è diverso da quello che essi hanno nell’acqua, nell’olio o in un altro liquido. Pertanto, se uno disponesse di una lista di tutti questi pesi, egli saprebbe con certezza quanto un metallo è più pesante di un altro nell’aria e quanto è più pesante nell’acqua. Di conseguenza, data una qualsiasi massa [di metallo], egli, grazie alla diversità di peso che essa ha nell’aria e nell’acqua, sarebbe in grado di sapere di quale metallo è composta e quale ne è la lega. E quello che è stato detto a proposito dell’aria e dell’acqua lo si potrebbe dire anche dell’olio o di qualsiasi altro liquido nel quale venisse fatto l’esperimento. Oratore. In questo modo, si potrebbe stabilire di che cosa è composta una lega anche senza fondere la massa e separare i singoli metalli, una tecnica, questa, che sarebbe utile nel caso delle monete, per sapere quanto rame sia mescolato nell’oro e nell’argento. Idiota. Dici bene. Ed essa servirebbe molto anche per conoscere quanto i prodotti adulterati degli alchimisti si allontanino dalla verità. Oratore. Se qualcuno, pertanto, si proponesse di redigere un libro dei pesi, egli dovrebbe, come sembra, annotare anche la varietà di ogni singolo metallo; l’oro ungherese, infatti, ha un certo peso, e l’oro puro ne ha un altro11, e lo stesso vale per ciascun metallo. Idiota. Da quanto abbiamo detto risulta che, come si rileva una diversità di peso nelle sorgenti d’acqua, così la si rileva anche nei minerali. L’oro, tuttavia, ovunque venga tratto è sempre più pesante di qualsiasi altro metallo. Per questo, si rileva che le diverse specie di oro variano all’interno di una determinata scala di peso. E lo stesso vale anche per gli altri metalli. Oratore. A partire dal rapporto tra i pesi dei metalli si può forse scoprire il rapporto tra le loro nature?
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Idiota. Plumbum est auro similius in pondere, sed in perfectione nequaquam. Unde non ad unum pondus tantum attendendum censeo, sed ad singula pondera. Nam ad pondera ignis fusionis tam auri quam plumbi si quis attendit, minus reperit plumbum ad aurum accedere quam aliud metallum; et si quis ad pondera ignis in ferri fusione attendit, sibi occurrit ferrum plus accedere ad aurum quam aliud metallum, licet quoad pondus gravedinis minus. Unde omnia pondera attendi debent, non gravitas tantum, et tunc comperimus argentum auro propinquius. 173 Orator. Vitruvius ait de pondere naturae auri, quod solum in argento vivo submergitur, cuiuscumque etiam parvae gravedinis fuerit, aliis metallis supranatantibus, cuiuscumque magnae molis existant. Idiota. Argentum vivum cum omnibus metallis coniungibile est propter commune, quod est in ipso et illis. Sed magis amorose auro adhaeret, sicut minime perfectum suae propriae naturae perfectissimae. Hinc qui alchimicis vacant argentum vivum in igne domare student, quousque non solum non fugiat ab igne, sed omnia metalla, quibus iungitur, secum fixa teneat, et non solum hoc, sed et in pondus auri stringat remanente fluxibili et malleabili humiditate, atque tingat colore fixo et permanente. Orator. Putas eos posse efficere quod proponunt? Idiota. Praecisio manet inattingibilis, sed quantum profecerint, statera ostendit, sine qua nihil certi efficere poterint: iudicio enim ignis et staterae huius rei inquisitio permittitur. 174 Orator. Possent similiter lapides omnes pretiosi ponderari? Idiota. Non dubium uno ingenio omnia fieri posse. Nam aliud
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Idiota. Il piombo è il metallo più simile all’oro per quanto riguarda il peso, ma non per la perfezione. Per questo, penso che non si debba prendere in considerazione un unico peso, bensì singoli tipi di peso. Infatti, se uno considera il peso del fuoco che fonde l’oro e il peso del fuoco che fonde il piombo, trova che il piombo si avvicina all’oro meno degli altri metalli. E se uno considera il peso del fuoco durante la fusione del ferro, si rende conto del fatto che il ferro si avvicina all’oro più di ogni altro metallo, anche se vi si avvicina di meno per quanto riguarda il peso di gravità. Di conseguenza, devono essere presi in considerazione tutti i tipi di peso, non solo quello di gravità, ed allora scopriremo che il metallo che si avvicina di più all’oro è l’argento. Oratore. A proposito del peso della natura dell’oro, Vitruvio12 sostiene che l’oro è il solo metallo che, per quanto piccolo sia il suo peso di gravità, va a fondo nel mercurio, mentre gli altri metalli galleggiano, per quanto grande sia la loro massa. Idiota. Il mercurio lo si può combinare con tutti i metalli perché vi è in esso e in loro un elemento comune. Tuttavia, il mercurio aderisce più amorosamente all’oro, come ciò che è meno perfetto aderisce a ciò che per sua natura è più perfetto. Per questo motivo, coloro che si dedicano all’alchimia13 cercano di temperare il mercurio nel fuoco fino a che esso non solo non fugga dal fuoco, ma tenga fissi a sé tutti i metalli con i quali viene combinato, e fino a che, inoltre, esso non si avvicini al peso dell’oro, pur conservando la sua fluidità, malleabilità ed umidità, e non si tinga, in maniera fissa e permanente, del colore dell’oro. Oratore. Pensi che gli alchimisti possano realizzare quello che si propongono? Idiota. La precisione resta irraggiungibile, ma quanti progressi essi abbiano fatto lo mostra la bilancia, senza la quale gli alchimisti non potrebbero realizzare nulla di certo: una ricerca di questo genere, infatti, è resa possibile grazie alla tecnica del fuoco e della bilancia. Oratore. Si potrebbero pesare in modo simile anche tutte le pietre preziose? Idiota. Non c’è alcun dubbio che le pietre preziose potrebbero essere tutte pesate mediante un’unica tecnica. Infatti, il peso di
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est pondus diamantis in ordine ad aequalem magnitudinem plumbi et aliud saphiri similiter in ordine ad aequalitatem magnitudinis plumbi. Et ex diversitate scitur habitudo ponderum utriusque, et ita de omnibus lapidibus. Unde perutile foret pondera ista via statici experimenti conscripta habere cum suis differentiis originum, ut, si quae sophisticationes in berillo aut cristallo colorato fierent, deprehendi possent. Orator. Etiam aliud est pondus lapidis in aëre, aliud in aqua, aliud in oleo. Pulchrum foret istas diversitates haberi, ut sine habitudine ad plumbum vel aliud tertium differentia ponderum sciretur. Idiota. Optime dicis. 175 Orator. Dicito, si tibi occurrit virtutes lapidum aliquo ingenio ponderari posse? Idiota. Puto, quod virtus magnetis ponderaretur, si posito in libra ferro in una parte et magnete in alia usque ad aequilibram, deinde amoto magnete tanti ponderis alio gravi in locum posito, magnes supra ferrum teneretur, ita quod ferrum in bilancza sursum ad magnetem moveretur, quo moto extra aequalitatem in alia parte pondus aggravaretur, quousque ferrum ad aequalitatem rediret magnete immoto remanente: puto, quod per pondus retrahens virtus magnetis proportionabiliter ponderata dici posset. Similiter etiam virtus diamantis venaretur ex hoc, quod magnetem prohibere dicitur ne ferrum attrahat, et aliae aliorum lapidum virtutes suo modo, atque etiam ex diversitate magnitudinis corporum, cum in maiore corpore sit maior virtus. 176 Orator. Nonne etiam experiri posset artifex, quantum argenti vivi et quantum sulphuris contineat quodlibet metallum et similiter lapides?
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un diamante in rapporto ad un’eguale quantità di piombo è diverso dal peso di uno zaffiro in rapporto alla medesima quantità di piombo. E da questa differenza si conosce il rapporto tra il piombo e il rispettivo peso delle due pietre, e ciò vale per tutte le altre pietre. Sarebbe pertanto molto utile avere un registro nel quale, insieme alle diverse origini delle pietre, fossero scritti tutti questi pesi ottenuti mediante gli esperimenti fatti con la bilancia, in modo tale da poter scoprire le eventuali sofisticazioni che venissero fatte in un berillo o in un cristallo colorato. Oratore. Inoltre, il peso che una pietra ha nell’aria è diverso da quello che essa ha nell’acqua e da quello che ha nell’olio. Sarebbe bello se queste differenze fossero note, in modo da poter conoscere la differenza dei pesi senza dover ricorrere al rapporto con il piombo o con un altro metallo. Idiota. Dici benissimo. Oratore. Dimmi se ritieni che vi sia qualche tecnica con la quale si possono pesare le proprietà delle pietre. Idiota. Penso che si potrebbe pesare la forza di un magnete. Si ponga sul piatto della bilancia un pezzo di ferro e sull’altro piatto un magnete in modo tale che i due piatti siano in equilibrio, e si tolga poi il magnete e si metta al suo posto un altro oggetto di peso uguale; si tenga il magnete sopra il ferro, in modo tale che il pezzo di ferro posto sulla bilancia si sollevi verso il magnete; con un tale movimento, il peso dell’altro piatto della bilancia aumenta e fa perdere l’equilibrio, fino a che [aggiungendo altro peso] il ferro non riporti in equilibrio la bilancia, mentre il magnete rimane immobile. Penso che, sottraendo il peso [necessario a ristabilire l’equilibrio], si possa dire che la forza del magnete risulti pesata in maniera proporzionale. In modo simile, anche la proprietà di un diamante la si potrebbe accertare dal fatto che si dice che esso impedisca al magnete di attrarre il ferro, e così pure si potrebbero accertare le proprietà delle altre pietre, secondo il modo proprio di ciascuna, tenendo anche conto della differenza di grandezza degli oggetti, dal momento che in un oggetto più grande vi è una forza più grande. Oratore. Un artigiano non potrebbe scoprire con un esperimento quanto mercurio e quanto zolfo è contenuto in ciascun metallo ed anche nelle pietre?
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Idiota. Posset certe ex concordantia et differentia ponderum omnia talia propinque investigare. Et similiter elementa argenti vivi ex diversitate ponderis sui in aëre, in aqua et in oleo comparata ad aquam et oleum, et cineres eiusdem magnitudinis ponderatos; sic et de sulphure. Ita et per hoc ad omnium metallorum et lapidum elementa et pondus elementorum coniectura veriore pertingere posset. Orator. Pulchra sunt ista; nonne et ita in herbis et lignis et carnibus et animalibus et humoribus? Idiota. In omnibus puto. Nam ponderato ligno et, illo exusto, cineribus ponderatis scitur quantum aquae fuit in ligno: solum enim aqua et terra pondus grave habent. Scitur similiter ex diversitate ponderis ligni in aëre, aqua ac oleo quantum aqua illa, quae in ligno est, gravior aut levior est aqua fontis pura et sic quantum aëris; ita ex diversitate ponderum cinerum quantum ignis. Et venantur sic elementa veriore coniectura, licet praecisio sit semper inattingibilis. Et uti de ligno dictum est, ita de herbis, carnibus et aliis. 177 Orator. Nullum purum dabile dicitur elementum: quomodo hoc experimur per stateram? Idiota. Si quis positis centum libris terrae in testa colligeret ex herbis aut seminibus in terram proiectis prius ponderatis, successive centum libras et iterum terram ponderaret, in pauco ipsam in pondere reperiret diminutam. Ex quo haberet collectas herbas pondus ex aqua potius habere. Aquae igitur in terra ingrossatae terrestreitatem attraxerunt, et opera solis in herbam sunt condensatae. Si herbae illae incinerentur, nonne per coniecturam ex pon-
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Idiota. Certamente, sulla base della concordanza e della differenza dei pesi, egli potrebbe condurre un’indagine accurata su tutte queste cose. Ed allo stesso modo potrebbe farlo per gli elementi del mercurio, considerando il diverso peso che esso ha nell’aria, nell’acqua e nell’olio e comparandolo con il peso della stessa quantità di acqua, di olio e di cenere; lo stesso vale per lo zolfo. In questo modo, si potrebbe giungere, sulla base di una congettura più accurata, agli elementi di tutti i metalli e delle pietre, come pure al peso di tali elementi. Oratore. Si tratta di cose belle; e non si potrebbe procedere nello stesso modo anche con le erbe, i legni, le carni, gli animali e gli umori? Idiota. Con tutte le cose, penso. Ad esempio, se si pesa un pezzo di legno e, poi, dopo averlo bruciato, se ne pesano le ceneri, si può sapere quanta acqua era contenuta nel legno: solo l’acqua e la terra, infatti, hanno un peso grave. Allo stesso modo, dalle differenze di peso di un pezzo di legno nell’aria, nell’acqua e nell’olio giungiamo a sapere quanto l’acqua contenuta nel legno sia più pesante o più leggera dell’acqua pura di fonte, come pure la quantità di aria presente in esso; allo stesso modo, dal diverso peso delle ceneri si sa quanto fuoco c’era nel legno. Procedendo in questo modo, gli elementi vengono accertati sulla base di una congettura più accurata, per quanto la precisione resti sempre irraggiungibile. E quello che abbiamo appena detto del legno, vale anche per le erbe, le carni e le altre cose. Oratore. Si dice che non è possibile osservare nessun elemento allo stato puro: come si può sperimentare questo mediante la bilancia? Idiota. Supponiamo che uno metta cento libbre di terra in un vaso e semini in quella terra delle erbe e dei semi, che egli ha precedentemente pesato; se dopo un po’ di tempo ne raccogliesse cento libbre e pesasse di nuovo la terra, scoprirebbe che il suo peso è diminuito di poco. Da questo fatto egli saprebbe che il peso delle erbe che ha raccolto dipende principalmente dall’acqua. Pertanto, le acque, ingrossate nella terra, hanno attratto ciò che è terroso e, sotto l’azione del sole, si sono condensate nell’erba. Se si bruciassero quelle erbe, non potresti forse giungere a stabilire, mediante una conget-
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derum omnium diversitate attingeres, quantum terrae plus centum libris reperires, et illam aquam attulisse manifestum est? Convertuntur elementa unum in aliud per partes, uti experimur vitro in nive posito aërem in vitro in aquam condensari, quam in vitro fluidam reperimus. Sic experimur certam aquam in lapides verti, uti aqua in glaciem, et virtutem indurativam ac lapidificativam certis fontibus inesse, qui imposita indurant in lapidem. Ita dicitur aquam quandam Ungariae reperiri, quae ob virtutem vitrioli, quae in ea est, vertit ferrum in cuprum. Ex talibus enim virtutibus constat aquas non esse pure elementales, sed elementatas. Et delectabile multum foret omnium talium aquarum variarum virtutum habere pondera, ut ex diversitate ponderum in aëre et oleo ad coniecturas virtutum appropinquaremus. 178 Orator. Sic et de terra? Idiota. Immo et de terra, quoniam una est ferax, alia sterilis, et in una reperiuntur lapides et minerae, quae non reperiuntur in alia. Terrarum igitur diversarum varia pondera in aqua, aëre et oleo scire multum utile foret ad secretam naturam perquirendam. Ita et ex vinorum, cerae, oleorum, gummarum, albuminum, squillarum, porrorum, alleorum et omnium talium ponderum varietate virtutes, quae varie illis insunt, aliqualiter venari posse arbitror. Orator. In maximo volumine ista vix conscriberentur. Idiota. Experimentalis scientia latas deposcit scripturas. Quanto enim plures fuerint, tanto infallibilius de experimentis ad artem, quae ex ipsis elicitur, posset deveniri. 179 Orator. Forte ad aëris pondus etiam aliquando per coniecturas subtiles ascenderetur?
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tura basata sulla diversità di tutti i pesi, quanta terra troveresti in più rispetto alle cento libbre, e non è allora evidente che questo peso in più della terra è stato prodotto dall’acqua?14 Gli elementi si trasformano, in parte, l’uno nell’altro, come sperimentiamo quando mettiamo un bicchiere nella neve: l’aria, che è presente nel bicchiere allo stato fluido, si condensa in acqua. Allo stesso modo, sperimentiamo che un certo tipo di acqua si trasforma in pietra, così come l’acqua si trasforma in ghiaccio, e che certe fonti hanno la capacità di indurire e di pietrificare, per cui rendono le cose che vi vengono immerse dure come la pietra. Allo stesso modo, si dice che, in Ungheria, vi sia un certo tipo di acqua che trasforma il ferro in rame, grazie alla proprietà del solfato che essa contiene. Da una considerazione di queste proprietà delle acque risulta pertanto evidente che esse non sono elementi allo stato puro, ma sono composte di elementi. E sarebbe molto bello conoscere i pesi delle diverse proprietà di tutte queste acque, in modo da poter fare delle congetture più precise su tali proprietà sulla base del diverso peso che esse hanno nell’aria e nell’olio. Oratore. È così anche per la terra? Idiota. Sì, anche per la terra, perché un tipo di terra è fertile, un altro è improduttivo, in uno si trovano pietre e minerali che non si trovano in un altro. Pertanto, per indagare accuratamente la natura segreta di un tipo di terra, sarebbe molto utile conoscere i diversi pesi che i differenti tipi di terra hanno nell’acqua, nell’aria e nell’olio. Allo stesso modo, penso che, sulla base della varietà dei pesi dei vini, della cera, degli olii, delle gomme, degli albumi, dei crostacei, dei porri, degli agli e di tutte le cose di questo genere, possiamo in qualche modo scoprire le proprietà che sono variamente presenti in esse. Oratore. Tutto ciò potrebbe essere a malapena scritto in un volume enorme. Idiota. La scienza sperimentale esige un’ampia raccolta di dati messi per iscritto. Quanto più numerosi sono i dati che sono stati trascritti, con tanta maggiore sicurezza, infatti, si potrà passare dagli esperimenti all’arte che da essi si ricava. Oratore. Un giorno potremmo forse giungere, con delle congetture accurate, anche a determinare il peso dell’aria?
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Idiota. Si quis in libra magna parte una appenderet multam lanam et siccam atque adustam, et alia parte lapides usque ad aequilibram, in loco et aëre temperato, experiretur aëre ad humiditatem declinante pondus lanae crescere et aëre ad siccitatem tendente decrescere. Unde hic tali differentia aërem ponderaret atque verisimiles coniecturas de temporum mutatione faceret. Sic si quis solis vigorem varium attingere cuperet in variis climatibus, hic si de fertilioribus agris tam unius quam alterius climatis mille grana aut tritici aut ordei ponderaret, ex diversitate ponderum experiretur varium solis vigorem. Numero enim atque agro aeque fertili existente quoad locum quemlibet differentia non nisi ex sole esse poterit. Sic etiam differentia venari posset vigoris solis in loco montium et vallium, in eadem linea orientis et occasus. 180 Orator. Nonne si quis ex alta turri lapidem cadere sineret, fluente ex stricto foramine aqua in pelvim aquam interim effluxam ponderando, et similiter ligno aequalis magnitudinis cadente idem fecerit: ex diversitate ponderum aquae, ligni et lapidis posset ad aëris pondus devenire? Idiota. Si quis in diversis aequalibus turribus et diversis temporibus hoc faceret, posset tandem ad coniecturam pertingere. Citius tamen ad aëris pondus pertingeret per figurarum varietatem in aequalitate gravedinis, ut, si libram plumbi in figura sphaerica de turri cadere sinerem, aquam ex clepsedra colligendo, et deinde libram similis plumbi in figura lata emitterem, similiter aquam colligendo: ex diversitate ponderum aquarum pondus aëris attingeretur. Experimur enim aves extensis alis fixius manere, quia plus de
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Idiota. Se, in un luogo dal clima temperato, uno collocasse su un piatto di una grande bilancia molta lana secca e bruciata e sull’altro piatto delle pietre fino a porre la bilancia in equilibrio, egli osserverebbe che, quando l’aria diventa più umida, il peso della lana aumenta, e quando, invece, l’aria tende ad essere secca, il peso della lana diminuisce. Di conseguenza, sulla base di una tale differenza, egli potrebbe determinare il peso dell’aria e potrebbe formulare delle congetture verosimili sul mutamento del tempo. Allo stesso modo, se uno desiderasse determinare la diversa intensità della forza del sole nelle diverse regioni climatiche, egli potrebbe pesare mille grani di frumento o di orzo raccolti nei campi più fertili dell’una e dell’altra regione climatica e, sulla base della differenza dei loro pesi, determinerebbe in maniera sperimentale la diversa intensità della forza del sole. Posto, infatti, che ogni campo, in qualunque regione si trovi, sia ugualmente fertile, e che il numero dei grani raccolti sia uguale, la differenza di peso non potrà dipendere che dal sole. Allo stesso modo, si potrebbe anche scoprire la diversa intensità della forza del sole in luoghi di montagna e di pianura che siano alla medesima latitudine. Oratore. Supponiamo che uno facesse cadere una pietra dall’alto di una torre mentre fa scorrere dell’acqua in una bacinella attraverso uno stretto foro; pesando l’acqua che fuoriesce durante il tempo della caduta della pietra e facendo lo stesso con la caduta di un pezzo di legno di uguale grandezza, non potrebbe egli forse giungere a stabilire il peso dell’aria in base alla diversità di peso dell’acqua, del legno e della pietra? Idiota. Se lo facesse da diverse torri di uguale altezza e in diversi momenti, egli potrebbe alla lunga arrivare ad una congettura. Tuttavia, egli potrebbe arrivare più rapidamente a determinare il peso dell’aria considerando cose che hanno lo stesso peso, ma forme diverse. Ad esempio, se egli lasciasse cadere da una torre una libbra di piombo di figura sferica e raccogliesse nel frattempo l’acqua da una clessidra, e poi lanciasse una libra di piombo simile, ma con una figura piana, e raccogliesse egualmente l’acqua, egli potrebbe allora determinare il peso dell’aria a partire dalla differenza di peso dell’acqua. Sappiamo infatti per esperienza che gli uccelli rimangono più fermi nell’aria quando le loro ali sono distese, per-
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aëre occupant, sicut et in aqua citius descendit grave compactum in sphaeram quam in quadrum extensum. Et sicut tali ingenio aëris pondus, ita et aquae venari posset atque e converso figurarum varia capacitas. 181 Orator. Audivi quodam ingenio maris profunditatem venari. Idiota. Cum plumbo fieret formato ad instar lunae octo dierum, ita tamen, quod cornu unum sit ponderosius et aliud levius, et in leviori pomum aut aliud leve tali ingenio appendatur, quod plumbo in fundum pomum trahente et primo cum ponderosiori parte terram tangente et se sic successive inclinante pomum de cornu liberatum sursum revertatur, habita scientia per simile plumbum et pomum in alia aqua notae profunditatis. Nam ex diversitate ponderis aquae ex clepsedra a tempore proiectionis plumbi et reversionis pomi in diversis aquis scitur quaesitum. 182 Orator. Credo tali et aliis modis profunditatem aquarum investigari posse. Sed dicito: nonne etiam velocitas motus navis conici sic poterit? Idiota. Ut quo modo? Orator. Scilicet per proiectionem pomi in aquam ex prora et fluxum aquae ex clepsedra, quousque pomum ad puppim pervenerit, atque comparatione ponderum aquae uno et alio tempore. Idiota. Immo illo aut alio modo, scilicet per ballistrationem et accessum navis ad sagittam citius et tardius cum aqua clepsedrae. Orator. Etiam vis arcuum et ballistarum videtur proportiona-
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ché le ali occupano più aria; allo stesso modo, anche nell’acqua un oggetto pesante scende più rapidamente quando è compatto e di figura sferica che non quando è esteso e a forma di cubo. E come, per mezzo di una tale tecnica, è possibile scoprire il peso dell’aria, si potrebbe allo stesso modo scoprire il peso dell’acqua, e, viceversa, le rispettive capacità delle diverse figure. Oratore. Ho sentito dire che c’è una certa tecnica con la quale si può scoprire la profondità del mare. Idiota. Lo si potrebbe fare utilizzando un pezzo di piombo forgiato a forma di una falce di luna di otto giorni, con un corno, tuttavia, che sia più pesante e l’altro più leggero. All’estremità più leggera viene appeso un frutto o qualche altra cosa leggera, facendo in modo che, quando il piombo trascina a fondo il frutto e tocca terra con la parte più pesante, esso subito dopo s’inclina e il frutto, che era legato all’estremità più leggera, si libera dal corno e ritorna in superficie. Sarebbe tuttavia necessario aver fatto questo esperimento con un piombo e un frutto simili in un’altra acqua di cui sia nota la profondità. Si può infatti ottenere la risposta cercata calcolando la differenza di peso dell’acqua della clessidra dal momento dell’immersione del piombo al momento della riemersione del frutto nelle diverse acque. Oratore. Credo che, in questo e in altri modi, si possa determinare la profondità delle acque. Ma dimmi: non si potrebbe in questa maniera congetturare anche la velocità del movimento di una nave? Idiota. In che modo? Oratore. Gettando cioè un frutto in acqua dalla prua e facendo scorrere l’acqua di una clessidra fino a che il frutto non abbia raggiunto la poppa, e poi comparando il peso dell’acqua in tempi diversi. Idiota. Certo, si può procedere in questo modo, oppure in un altro, ossia scoccando con la balestra una freccia e calcolando con l’acqua della clessidra l’avvicinarsi della nave alla freccia, se è più rapido o più lento. Oratore. Sembra che sia possibile calcolare, in maniera proporzionale, la forza degli archi e delle balestre facendo scorrere
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biliter inquiri posse per fluxum aquae ex clepsedra ab eo puncto temporis, quo sagitta diametraliter sursum mittitur et revertitur ad terram, ita quod in diversis ballistis aequalis sit sagitta. Idiota. Vis ballistarum, bombardarum, immo et ventorum, sic et cursuum hominum et animalium atque virium, et quidquid simile dici potest, coniecturaliter ex staticis experimentis atque fluxu aquae ex clepsedra poterit investigari. 183 Orator. Quomodo fortitudo hominis scietur? Idiota. Videbis, quantum ponderis in bilancza una positi homo per attractionem alterius vacuae bilanczae ad aequalitatem levare possit. Deinde huius hominis pondus de pondere elevato defalcabis. Quod superest ex gravedine rei, fortitudini hominis proportionatur. Orator. Sic etiam spiritus hominis ponderari possit. Idiota. Aliud est pondus hominis attrahentis et tenentis anhelitum, aliud expirantis, et aliud vivi et aliud mortui, et sic in omnibus animalibus. Unde pulchrum esset has differentias habere annotatas in diversis animalibus et diversis hominibus et diversis hominum aetatibus, ut ad pondus spirituum vitalium coniectura ascendere posset. 184 Orator. Nonne calor et frigus et siccitas et humiditas temporis posset tali modo venari? Idiota. Posset certe! Nam si notaveris pondus aquae tempore gelu ante congelationem et post, varium reperies. Glacies enim cum videas supra aquam natare, scis eas aqua leviores. Unde secundum frigoris intensitatem maior est ponderis variatio. Sic etiam, si tempore caloris aquam exposueris aëri, pondus secundum tempus variatur. Aut si lignum viride ponderaveris et post tempus aliquod eius pondus mutatum reppereris, cognosces ex hoc frigoris et caloris excessum; sic et humiditatis et siccitatis.
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l’acqua da una clessidra dal momento in cui la freccia viene scagliata in alto diametralmente al suolo fino al momento in cui essa ricade a terra, a condizione, tuttavia, che la freccia utilizzata dalle diverse balestre sia uguale. Idiota. Per mezzo degli esperimenti fatti con la bilancia e mediante lo scorrere dell’acqua da una clessidra sarà possibile calcolare, in maniera congetturale, la forza delle balestre, dei cannoni ed anche quella dei venti, come pure la velocità di uomini e di animali e le loro forze, e qualunque altra cosa simile si possa menzionare. Oratore. In che modo si può conoscere la forza di un uomo? Idiota. Dovrai vedere quanto peso, posto sul piatto di una bilancia, un uomo è in grado di sollevare, spingendo sull’altro piatto vuoto fino a portare la bilancia in equilibrio. Dovrai poi sottrarre il peso dell’uomo dal peso che egli ha sollevato, e ciò che resta corrisponde alla forza di quell’uomo. Oratore. In questo modo si potrebbe pesare anche il respiro di un uomo? Idiota. Il peso di un uomo è diverso quando inspira e trattiene il respiro e quando espira, ed è diverso il peso di un uomo quando è vivo e quando è morto, e lo stesso vale per tutti gli animali. Per questo, sarebbe bello avere annotate tutte queste differenze riguardo ai diversi animali, ai diversi uomini e alle diverse età degli uomini, in modo tale da poter giungere a determinare, in maniera congetturale, il peso degli spiriti vitali. Oratore. In questo modo si potrebbe forse calcolare anche il caldo e il freddo, la siccità e l’umidità del tempo? Idiota. Certo! Infatti, se durante la stagione fredda annoterai il peso dell’acqua prima che essa congeli e dopo che è congelata, scoprirai che il suo peso è diverso. E, in effetti, quando vedi il ghiaccio galleggiare sull’acqua, sai che è più leggero dell’acqua. Per cui, la variazione del peso è maggiore a seconda dell’intensità del freddo. Allo stesso modo, se durante la stagione calda esporrai l’acqua all’aria, scoprirai che il peso varia a seconda del tempo. Oppure, se peserai un legno verde e, dopo qualche tempo, troverai che il suo peso è cambiato, conoscerai da ciò l’aumento del freddo e del caldo, come pure dell’umidità e della siccità.
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Orator. Nonne et tempus diei ponderari sic possit? Idiota. Si aquam ex clepsedra ab ortu ad ortum solis ceperis et ponderaveris et iterum fluere alia die ab ortu feceris, ex proportione ponderis effluxae aquae ad primum pondus horam et tempus diei scire poteris. 185 Orator. Forte et temporis anni? Idiota. Immo, si per annum ab ortu ad occasum per clepsedram omnium dierum notam signaveris, poteris semper et diem mensis et horam diei coniecturaliter statera attingere, licet diebus illis, quando parva est brevitatis earundem variatio, minus certe quam aliis. Orator. Video tali ingenio usque ad motum corporum caelestium pertingi posse, uti Nemroth fecisse et Hipparchum scripsisse fertur. Idiota. Recte ais, licet tunc opus sit diligenti ratiocinatione. Nam si quis in linea meridionali stella fixa notata ex clepsedra aquam usque ad stellae reditum colligeret faceretque similiter de sole ab ortu ad ortum, hic motum solis ad orientem ex diversitate minoritatis ponderis aquae, motus stellae de linea meridiana usque ad reditum ad eandem, et motus solis de ortu ad ortum reperiret. Nam quantum minor foret, tantum in comparatione ad pondus totius motus foret in ordine ad circulum aequinoctialem, non zodiacum, qui super polos mundi non est descriptus, sed suos. Sic si quis per eandem stellam experiri vellet, quantum sol motus foret in quindecim diebus, hoc eodem modo ex varia distantia ortus solis in ordine ad situm stellae in linea meridiana facere posset, puta: si hodie distantia situs stellae in linea ab ortu solis in clepsedra re-
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Oratore. Non si potrebbe pesare in questo modo anche la lunghezza della giornata? Idiota. Se raccogli l’acqua fatta scorrere da una clessidra dal sorgere del sole all’alba successiva e la pesi, e se, poi, un altro giorno, fai scorrere l’acqua a partire dall’alba, allora potrai sapere l’ora e la lunghezza della giornata comparando il peso dell’acqua che è defluita con il peso di quella del primo giorno. Oratore. Forse anche le stagioni dell’anno? Idiota. Certamente. Se, durante il corso di un anno, prenderai nota con la clessidra di tutti giorni dall’alba al tramonto, sarai sempre in grado di stabilire con la bilancia, in maniera congetturale, sia il giorno del mese, sia l’ora del giorno, anche se, per quei giorni che hanno una differenza di durata minima, potrai farlo con una precisione minore rispetto a quella che puoi raggiungere per gli altri giorni. Oratore. Vedo che, con questa tecnica, si può giungere fino a misurare il movimento dei corpi celesti, come si dice abbia fatto Nemroth e come si dice ne abbia scritto Ipparco15. Idiota. Ciò che dici è giusto, anche se, in questo caso, c’è bisogno di un calcolo scrupoloso. Per esempio, se uno, avendo osservato il passaggio di una stella fissa al meridiano, raccogliesse l’acqua di una clessidra fino al momento in cui quella stella ritorna al medesimo punto, e se facesse la stessa cosa con il sole da un’alba all’alba successiva, allora potrebbe stabilire il movimento del sole verso est sulla base della differenza che c’è nel minor peso dell’acqua raccolta durante il movimento della stella dal suo passaggio al meridiano fino al suo ritorno nel medesimo punto e durante il movimento del sole da un’alba all’altra. Infatti, quanto minore sarà la differenza di peso [dell’acqua raccolta], tanto minore sarà, rispetto a tutto il peso, il movimento [del sole], questo, tuttavia, in relazione all’equatore celeste e non allo zodiaco, il quale non si trova descritto sopra i poli del mondo, ma sopra poli propri. Allo stesso modo, se, facendo riferimento alla medesima stella, uno volesse scoprire quanto il sole si muove in quindici giorni, egli potrebbe farlo con il medesimo procedimento, considerando le varie distanze della levata del sole in rapporto alla posizione della stella sul meridiano: se oggi, ad esempio, si accerta con la clessidra che la distanza della po-
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peritur in proportione aliqua ad pondus aquae totius revolutionis stellae, et iterum in quindecim diebus alia proportio ex diversitate motus reperiretur et semper in aequinoctiali. 186 Orator. Potestne per hanc viam motus in zodiaco reperiri? Idiota. Potest certe per motum solis de meridie ad meridiem, et de oriente ad orientem, et de oriente ad occasum. Ex illis enim differentiis declinatio zodiaci ab aequinoctiali attingeretur. Orator. Quid de varietate motus, qui ex eccentrico dicitur evenire? Idiota. Et ille quidem reperietur, quando per annum inaequalitas in zodiaco in aequalibus diebus reperietur. Non enim in aequali dierum numero sol de aequinoctiali per aestatem motus ad aequinoctialem redit, sicut in hieme, ubi citius; nam non tot diebus inveniretur de libra ad arietem, sicut de ariete ad libram peragrasse. Ex qua differentia pateret excentricus sive parvus circulus differentiae motus. 187 Orator. Quid de magnitudine corporis solis? Idiota. Ex pondere aquae fluentis clepsedrae ab initio ortus solis in aequinoctiali, quousque totus sit super horizontem, in habitudine ad aquam revolutionis stellae scitur propinqua habitudo magnitudinis corporis solis ad sphaeram suam. Potest tamen alia via eius quantitas venari in eclipsibus solaribus. Orator. Quomodo? Idiota. Motum lunae experimur modo quo solis. Deinde ex eclipsi et motu eius per umbram terrae venamur magnitudinem lu-
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sizione di una stella, nel meridiano, dalla levata del sole sta in una certa proporzione con il peso dell’acqua corrispondente ad una rivoluzione completa di quella stella, e che, dopo quindici giorni, sta in un’altra proporzione, allora, a partire da questa differenza, si potrebbe accertare il movimento fatto dal sole, sempre rispetto all’equatore celeste. Oratore. Si può per questa via accertare anche il movimento dello zodiaco? Idiota. Lo si può, certo, calcolando il movimento del sole da un meridiano ad un altro, e da oriente ad oriente e da oriente ad occidente. Sulla base di queste differenze, infatti, si potrebbe accertare l’inclinazione dello zodiaco rispetto al circolo dell’equinozio. Oratore. E come si può spiegare della diversità di moto che si dice derivi da un’orbita eccentrica? Idiota. Anche questo moto lo si potrà calcolare, allorché si sarà accertato, nel corso dell’anno, l’ineguaglianza nello zodiaco nei due periodi equinoziali. In estate, infatti, il sole non ritorna da un equinozio all’altro in un numero di giorni uguale a quello che esso impiega d’inverno, quando vi ritorna più rapidamente; si troverebbe, infatti, che ad andare dalla bilancia all’ariete non impiega lo stesso numero di giorni che impiega ad andare dall’ariete alla bilancia. Da questa differenza risulterebbe evidente l’orbita eccentrica, ossia il piccolo circolo corrispondente alla differenza di moto. Oratore. E come si può determinare la grandezza del sole? Idiota. Lo si può fare, considerando il peso dell’acqua che scorre dalla clessidra dal momento in cui il sole inizia a sorgere nel circolo dell’equinozio fino al momento in cui si trova tutto sopra l’orizzonte, e mettendo tale peso in rapporto con il peso dell’acqua relativo alla rivoluzione di una stella: in questo modo si viene a conoscere, approssimativamente, il rapporto che c’è tra la grandezza del corpo del sole e la sua sfera. La grandezza del sole la si può tuttavia scoprire anche in altro modo, in occasione delle eclissi solari. Oratore. Come? Idiota. Iniziamo a calcolare il moto della luna nello stesso modo in cui calcoliamo quello del sole. Poi, a partire dal momento in cui la luna si eclissa e dal suo moto calcolato per mezzo dell’om-
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nae in ordine ad terrae umbram variam. Ex quibus mediam conicimus proportionem esse magnitudinis eius ad terram. Deinde ex motu lunae et eclipsatione solis venamur solis a terra distantiam et magnitudinem subtili ingenio, coniecturaliter tamen. Orator. Per ea quae narrasti videtur, quod omnes motuum diversitates atque eclipses luminarium, immo omnium planetarum progressiones, stationes, retrogradationes, directiones eccentricitatesque attingere posses eodem et unico ingenio staterae et clepsedrae. Idiota. Ita et tu facies, si subtiliter differentias colligere satagis. 188 Orator. Quid de iudiciis astrorum? Idiota. Puto et ex varietate ponderum aquae unius et alterius anni et certis aliis differentiis ponderum lignorum et herbarum atque granorum frumenti posse conicere futuram fertilitatem aut caristiam ex praeteritis experimentis citius quam ex motu astrorum. Nam si in Martio pondus reperitur in certo gradu aquae et aëris atque lignorum ex terra, sequitur fertilitas: si secus, sterilitas aut mediocritas. Sic de bellis, peste et similibus omnibus communibus. Et haec radix est, ubi de his secundis stellis iudicium stellarum venamur, uti ex medullarum in animalibus, piscibus, cancris, arboribus et iuncis lunae aetatem et per fluxum maris eius situm venamur. 189 Orator. Audivi ex Nili inundatione et defectu Aegyptios anni dispositionem praevidere. Idiota. Nulla est regio, quin, si quis adverteret, consimilia iudicia reperiret, quemadmodum ex pinguedine piscium et reptilium
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bra della terra, scopriamo la grandezza della luna in rapporto alle variazioni dell’ombra della terra. Da qui congetturiamo che la sua grandezza è la metà di quella della terra. Quindi, per mezzo di una tecnica accurata, per quanto congetturale, sulla base del movimento della luna e dell’eclissi del sole scopriamo sia la distanza del sole dalla terra, sia la grandezza del sole. Oratore. Da quello che hai detto sembra che, mediante l’unica e medesima tecnica della bilancia e della clessidra [ad acqua], tu sia in grado di cogliere tutti i diversi moti e le diverse eclissi delle stelle, ed anzi le progressioni e le posizioni di tutti i pianeti, i loro ritardi, le loro traiettorie e i loro movimenti eccentrici. Idiota. Anche tu saresti in grado di farlo, se ti preoccupassi di raccogliere accuratamente una tabella delle differenze [di peso]. Oratore. Che ne pensi delle previsioni tratte dagli astri? Idiota. Anche in questo caso, penso che, a partire dalla variazione di peso dell’acqua da un anno all’altro e da certe differenze di peso dei legni, delle erbe e dei grani di frumento sia possibile congetturare, sulla base delle esperienze passate, la futura fertilità o carestia in maniera più rapida di quanto sia possibile farlo sulla base del movimento degli astri. In effetti, se a marzo si constata che nella terra è presente un certo grado di peso dell’acqua, dell’aria e dei legni, se ne deduce la fertilità; se diversamente, la sterilità o una produzione mediocre. Si può dire la stessa cosa a proposito delle guerre, delle pestilenze e di tutti gli altri eventi comuni simili a questi. E questa è la base sulla quale formuliamo delle previsioni astrologiche, a partire dalla posizione favorevole delle stelle, così come dall’osservazione delle midolla negli animali, nei pesci, nei granchi, negli alberi e nei giunchi, arguiamo le fasi della luna e dal flusso del mare la sua posizione. Oratore. Ho sentito dire che gli Egiziani prevedono quale sarà l’andamento dell’anno in base alle inondazioni del Nilo e alle sue magre. Idiota. Non c’è nessuna regione nella quale, se uno vi prestasse attenzione, non troverebbe delle previsioni simili, così come, ad esempio, all’inizio dell’inverno, dalla grassezza dei pesci e dei rettili congetturiamo che ci sarà un lungo periodo di grande freddo,
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in principio hiemis frigus magnum et duraturum conicimus, contra quod natura sagax in animalibus praevidit. Orator. Quid de quaestionibus, quae fiunt astrologis, an ne tuo ingenio reperiri posset aequa ad omnes responsio? Idiota. Etsi non aequa semper, posset tamen puto fieri aliqua. Quomodo autem coniectura fieri posset ad interrogata, inquisitione magna indiget. Nec est conveniens modus libris inscribi, licet fortassis respondens pondus responsionis non possit colligere nisi ex pondere interrogationis. Incitatio enim quaestionem moventis ad interrogandum ex praevisione aliqua futuri eventus mota esse videtur, licet unde motus sit non videat, sicut qui in oculo aliquid sentit quod non videt, investigat ab alio, ut videat quid desit. 190 Orator. Arbitror te dicere velle: quemadmodum in rota Pythagorica ex varia combinatione nominis interrogantis matris, horae diei ac luminis lunae traditur modus responsa venandi, aut sicut vates ex sortibus aut lectione casuali librorum Sibyllinorum aut psalterii aut domibus caeli vel geomanticis figuris aut avium garritu seu flammae ignis flexione aut relatione tertii aut aliquo alio casuali interventu iudicium sumendum. Idiota. Fuerunt, qui ex collocutione, quam cum interrogante habebant, in referendis novis de patriae dispositione venabantur indirecte responsionem, quasi spiritus impulsivus se in colloquiis longioribus manifestaret. Si enim ad tristia vergebant colloquia, talis putabatur rei eventus, si ad laeta, laetus. Ego autem ad faciem, vestes, motum oculorum, formam verborum atque ponderum, sor-
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contro il quale la sagace natura ha previdentemente provveduto in quegli animali. Oratore. E circa le domande che vengono poste agli astrologi, sarebbe possibile con la tua tecnica trovare una risposta adeguata per tutte? Idiota. Anche se non sempre adeguata, penso, tuttavia, che una risposta la si possa dare. Ci sarebbe tuttavia bisogno di una lunga indagine per vedere in che modo si potrebbe formulare una congettura su tali interrogazioni16 poste agli astrologi. E questo modo non lo si può descrivere convenientemente nei libri, sebbene, forse, colui che risponde non possa calibrare il peso della risposta se non a partire dal peso della domanda. Sembra, in effetti, che la motivazione che spinge colui che pone la questione ad interrogare sia dovuta alla previsione di qualche evento futuro, sebbene egli non veda da dove provenga la sua motivazione, come un uomo che sente nel suo occhio qualcosa che non vede e si rivolge ad un altro per poter vedere ciò che gli sfugge. Oratore. Credo che tu voglia dire che ciò avviene come capita con la ruota pitagorica17, dove il metodo per dare i responsi deriva da una diversa combinazione del nome della madre dell’interrogante, dell’ora del giorno e della luce della luna, o come fanno gli indovini, che traggono le loro previsioni dalle sorti o dalla lettura casuale dei libri delle Sibille o del salterio, o dalle configurazioni dei corpi celesti, o dalle figure geomantiche, o dal verso degli uccelli, o dai guizzi della fiamma del fuoco, o dalla relazione con un terzo elemento, o da qualche altro evento casuale. Idiota. Ci furono alcuni che traevano il responso indirettamente, da una conversazione che essi avevano con l’interrogante, al quale chiedevano notizie sulle vicende recenti relative alla situazione della sua patria, come se lo spirito che li ispirava potesse manifestarsi solo in colloqui molto lunghi. Se tali colloqui, infatti, tendevano alla tristezza, allora essi profetizzavano un evento triste, se invece tendevano alla letizia un evento lieto. Da parte mia, invece, supponevo che si potessero fare delle congetture prestando attenzione all’aspetto del volto di colui che mi interrogava, alle sue vesti, al movimento dei suoi occhi, alla forma e al tono delle sue parole, all’esito delle vicende che gli erano occorse e che in-
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tem rerum, quas iubeo interrogantem, iteratis ad me deferri vicibus attendens coniecturas formari posse coniciebam, praecisiores tamen ab illo, cui quid verius inpraemeditate incidit, in quo praesagus quidam spiritus loqui videtur. Arbitror tamen, nec in illa re artem possibilem nec habentem iudicium communicare posse nec sapientem circa ista vacare debere. 191 Orator. Optime ais. Refert enim Sanctus Augustinus hominem bibulum suo tempore fuisse, cui mentium patebant cogitationes et fures detegebat et alia abscondita patefecit miro modo, licet levissimus foret et minime sapiens. Idiota. Scio me saepe multa praedixisse, uti spiritus dedit, et causam penitus ignorabam. Tandem visum est mihi gravi viro non licere absque causa loqui, et amplius silui. 192 Orator. Postquam satis de his astrorum motibus dictum videtur, de musicis etiam adicito! Idiota. Ad musicam statica experimenta utilissima sunt. Nam ex diversitate ponderum campanarum duarum tonum consonantium scitur, in qua harmonica proportione tonus consistat. Sic de fistularum pondere ac aquarum fistulas implentium scitur proportio: diapason, diapente ac diatessaron atque omnium harmoniarum qualitercumque formabilium. Similiter ex pondere malleorum, ex quorum casu super incudem aliqua oritur harmonia, ac guttarum de rupe in stagnum stillantium varias notas facientium et tibiarum ac omnium instrumentorum musicalium ratio praecisius statera attingitur. 193 Orator. Sic et vocum et cantilenarum. Idiota. Immo generaliter omnes harmonicae concordantiae per pondera subtilissime investigantur. Immo pondus rei est pro-
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vitavo l’interrogante a ripetermi più volte; congetture più precise, tuttavia, supponevo che si potessero trarre da colui al quale capita di dire qualcosa senza premeditazione, e nel quale sembra allora parlare una sorta di spirito divinatore. Ora invece ritengo che, in questo ambito, non sia possibile alcuna arte, che non si possa comunicare alcuna previsione e che un uomo saggio non dovrebbe occuparsi di tali cose. Oratore. Dici benissimo. Sant’Agostino, infatti, racconta che, al suo tempo, c’era un uomo dedito al bere che leggeva nei pensieri degli altri, e smascherava i ladri e svelava in modo stupefacente altre cose nascoste, malgrado fosse un uomo di pochissimo valore e privo del tutto di saggezza18. Idiota. So di aver fatto spesso molte previsioni, come me le dettava lo spirito, e ne ignoravo del tutto la ragione. Alla fine, tuttavia, mi è sembrato che non fosse lecito ad un uomo serio parlare senza ragione, e da allora sono rimasto in silenzio. Oratore. Ora che abbiamo detto abbastanza, mi sembra, su questi moti degli astri, aggiungi qualcosa anche a proposito della musica. Idiota. Gli esperimenti con la bilancia sono estremamente utili in ambito musicale. Ad esempio, dalla differenza tra i pesi di due campane che suonano sullo stesso tono si può conoscere di quale proporzione armonica consista il tono musicale. Allo stesso modo, a partire dal peso delle canne di un organo e dell’acqua che le riempie, si conoscono le proporzioni dell’ottava, della quinta, della quarta, e poi tutte le armonie che si possono in qualsiasi modo formare. Similmente, in base al peso dei martelli, che cadendo su un’incudine producono una certa armonia, al peso delle gocce, che cadendo una ad una da una roccia in uno stagno dando luogo a varie note, al peso dei flauti e di tutti gli altri strumenti musicali, si può giungere a cogliere il fondamento dell’armonia musicale in modo più preciso per mezzo della bilancia19. Oratore. Lo stesso vale anche per le voci e per i canti. Idiota. Certo, e in generale tutti gli accordi armonici possono essere indagati in maniera estremamente accurata mediante i pesi. In effetti, il peso di una cosa è, in senso proprio, una proporzio-
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prie harmonica proportio ex varia combinatione exorta. Immo amicitiae et inimicitiae animalium et hominum eiusdem speciei ac mores, et quidquid tale ex harmonicis concordantiis et ex contrariis dissonantiis ponderatur. Sic et sanitas hominis harmonia ponderatur atque infirmitas; immo levitas et gravitas, prudentia et simplicitas et multa talia, si subtiliter advertis. 194 Orator. Quid censes de geometria? Idiota. Arbitror proportiones propinquas circuli et quadrati et alia omnia, quae ad differentiam capacitatis figurarum spectant, aptius per pondera quam aliter experiri posse. Nam si feceris vas columnare notae diametri et altitudinis et aliud cubicum eiusdem diametri et altitudinis et utrumque aqua impleveris et ponderaveris, nota tibi erit ex diversitate ponderum inscripti quadrati ad circulum, cui inscribitur proportio, et per hoc propinqua coniectura circuli quadratura, et quidquid circa hoc scire cupis. Sic si duas receperis laminas penitus aequales, et unam in orbem flexeris vas columnare efficiendo, et aliam in quadratum vas cubicum constituendo, et aqua vasa ipsa impleveris: scies ex differentia ponderum differentiam capacitatis circuli et quadrati aequalis peripheriae. Ita si plures tales laminas habueris, poteris in trigono, pentagono, hexagono et ita deinceps capacitatis differentias investigare. Similiter pondere pervenire poteris ad artem capacitatum vasorum qualiumcumque figurarum ac ad instrumenta mensurandi et ponderandi: quomodo staterae fiant, quomodo una libra elevet mille per distantiam a centro et varium descensum rectiorem et curviorem, ac quomodo omnia subtilia navium ingenia ac machinarum fieri
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ne armonica sorta da una combinazione di cose diverse. Persino le amicizie e le inimicizie degli animali della stessa specie e degli uomini, il loro costume e qualsiasi altra cosa di questo tipo vengono ponderate sulla base delle concordanze armoniche e delle dissonanze contrarie. Allo stesso modo, anche la salute e la malattia dell’uomo vengono pesate in termini di armonia, come pure, se vi presti molta attenzione, la sua leggerezza e la sua serietà, la sua prudenza e la sua semplicità, e molte altre cose di questo genere. Oratore. Che cosa pensi della geometria? Idiota. Ritengo che le proporzioni più approssimate tra un cerchio e un quadrato, e tutte le altre cose che riguardano la diversa capacità dei volumi, si possano misurare sperimentalmente con i pesi in maniera più idonea che in qualsiasi altro modo. Ad esempio, se costruisci un vaso cilindrico di un diametro e di un’altezza noti, e poi un altro vaso a forma di cubo con lo stesso diametro e la stessa altezza, e riempi entrambi i vasi di acqua e li pesi, allora, sulla base della differenza tra i pesi, conoscerai la proporzione tra un quadrato iscritto e un cerchio in cui esso è iscritto; e in questo modo potrai conoscere, con una congettura approssimata, la quadratura del cerchio e qualsiasi altra cosa che desideri sapere a questo riguardo. Allo stesso modo, se prendi due lamine di metallo del tutto uguali, e ne pieghi una circolarmente formando un vaso cilindrico e pieghi l’altra a forma di quadrato costruendo un vaso cubico e riempi con acqua i due vasi, allora dalla differenza tra i loro pesi saprai qual è la differenza tra la capacità di un cerchio e quella di un quadrato che hanno un perimetro uguale. Così, se di queste lamine di metallo ne hai più di una, potrai esaminare le differenze di capacità di un triangolo, di un pentagono, di un esagono, e così via. In modo analogo, per mezzo dei pesi, sarai in grado di acquisire l’arte di calcolare la capacità dei vasi di qualsiasi forma e potrai conoscere come funzionano gli strumenti per misurare e per pesare: come si costruiscano le bilance, come una libbra possa sollevarne mille in funzione della sua distanza dal centro della bilancia, come si calcoli la differenza di velocità di caduta di un corpo in rapporto al suo arco di discesa, se è più retto o più curvo, in che modo, infine, debbano essere costruiti tutti gli strumenti di precisione delle navi e delle macchine. Ritengo, pertanto, che questi
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debeant. Unde arbitror hanc staticam experientiam ad omnia geometrica perutilem esse. 195 Orator. Satis nunc explanasti causas, cur rerum pondera optas per stateram capi et seriatim et multipliciter conscribi. Indeque videtur librum illum utilissimum futurum ac apud magnos sollicitandum esse, ut in diversis provinciis consignentur et comportentur in unum, ut ad multa nobis abscondita facilius perducamur. Egoque non cessabo undique ut fiat promovere. Idiota. Si me amas, diligens esto et vale!
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esperimenti con la bilancia siano estremamente utili in tutte le cose che attengono alla geometria. Oratore. A questo punto hai spiegato a sufficienza le ragioni per le quali desideri che vengano misurati con la bilancia i pesi delle cose e che vengano tutti registrati per iscritto in maniera sistematica. Da quanto hai detto, si vede in effetti che un libro di questo genere sarebbe della più grande utilità e che bisognerebbe sollecitare i grandi di questo mondo affinché lo facciano comporre nei diversi paesi e poi lo raccolgano in un unico volume, in modo tale che potremo giungere con più facilità a scoprire molte cose che ci restano ora nascoste. E da parte mia, ovunque andrò, non mi stancherò di farne promuovere la composizione20. Idiota. Se mi vuoi bene, sii diligente in questo compito. Addio.
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Trattato sulla visione di Dio [traduzione e note di Pietro Secchi]
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Ad Abbatem et fratres in Tegernsee
Pandam nunc quae vobis dilectissimis fratribus ante promiseram circa facilitatem mysticae theologiae. Arbitror enim vos, quos scio zelo dei duci, dignos, quibus hic thesaurus aperiatur utique pretiosus valde et maxime fecundus, orans imprimis mihi dari verbum supernum et sermonem omnipotentem, qui solum se ipsum pandere potest, ut pro captu vestro enarrare queam mirabilia, quae supra omnem sensibilem, rationalem et intellectualem visum revelantur. Conabor autem simplicissimo atque communissimo modo vos experimentaliter in sacratissimam obscuritatem manuducere, ubi dum eritis inaccessibilem lucem adesse sentientes, quisque ex se temptabit modo, quo sibi a deo concedetur, continue propius accedere et hic praegustare quodam suavissimo libamine cenam illam aeternae felicitatis, ad quam vocati sumus in verbo vitae per evangelium Christi semper benedicti. 2
Praefatio
Si vos humaniter ad divina vehere contendo, similitudine quadam hoc fieri oportet. Sed inter humana opera non repperi imagine omnia videntis proposito nostro convenientiorem, ita quod facies subtili arte pictoria ita se habeat, quasi cuncta circumspiciat. Harum etsi multae reperiantur optime pictae uti illa sagittarii in foro Norimbergensi et Bruxellis Rogeri maximi pictoris in pretiosissima tabula, quae in praetorio habetur, et Confluentiae in capel-
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All’Abate e ai monaci di Tegernsee
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Vi mostrerò ora, amatissimi fratelli, ciò che vi avevo promesso in precedenza1 riguardo alla facilità della teologia mistica 2. Ritengo, infatti che voi, che so che siete guidati da un amore ardente per Dio, siate degni che vi sia svelato questo tesoro quanto mai prezioso e fecondo3. Prego innanzitutto il Verbo celeste e la Parola onnipotente, che sola può manifestare se stessa, che mi conceda di raccontare, in proporzione alla vostra capacità di comprenderle, le meraviglie che si rivelano oltre ogni vista sensibile, razionale e intellettuale4. Mi sforzerò, d’altra parte, in un modo quanto mai semplice e comune, servendomi di un esperimento, di condurvi per mano5 nella santissima oscurità6. Quando sarete lì, e avvertirete la presenza della luce inaccessibile7, ognuno di voi cercherà – con le proprie forze e nel modo in cui gli sarà concesso da Dio – di avvicinarsi sempre di più ad essa e di pregustare, come attraverso una certa dolcissima primizia, quella cena della felicità eterna8, alla quale siamo chiamati nel Verbo della vita9 dal vangelo di Cristo sempre benedetto. PREFAZIONE
2
Se voglio condurvi alle cose divine con i mezzi propri dell’uomo, è necessario che io lo faccia impiegando una qualche similitudine10. Ora, tra le opere dell’uomo, non ho trovato un’immagine più adatta al nostro scopo dell’immagine di un onniveggente, di una persona, cioè, il cui volto, in virtù di una fine arte pittorica, è dipinto in modo tale che esso sembra osservare tutto ciò che lo circonda. Di immagini di questo tipo se ne trovano molte, dipinte benissimo, ad esempio quella dell’arciere nel foro di Norimberga, quella conservata nel palazzo comunale a Bruxelles, dipinta dal grandissimo pittore Ruggero11 su una tavola preziosissima, quella della Veronica nella mia cappella di Coblenza, quella dell’angelo
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la mea Veronicae et Brixinae in castro angeli arma ecclesiae tenentis, et multae aliae undique, ne tamen deficiatis in praxi, quae sensibilem talem exigit figuram, quam habere potui, caritati vestrae mitto tabellam figuram cuncta videntis tenentem, quam eiconam dei appello. 3 Hanc aliquo in loco, puta in septentrionali muro, affigetis circumstabitisque vos fratres parum distanter ab ipsa intuebitisque ipsam, et quisque vestrum experietur, ex quocumque loco eandem inspexerit, se quasi solum per eam videri, videbiturque fratri, qui in oriente positus fuerit, faciem illam orientaliter respicere, et qui in meridie meridionaliter, et qui in occidente occidentaliter. Primum igitur admirabimini, quomodo hoc fieri possit, quod omnes et singulos simul respiciat. Nam imaginatio stantis in oriente nequaquam capit visum eiconae ad aliam plagam versum, scilicet occasum vel meridiem. Deinde frater, qui fuit in oriente, se locet in occasu, et experietur visum in eo figi in occasu quemadmodum prius in oriente. Et quoniam scit eiconam fixam et immutatam, admirabitur mutationem immutabilis visus. Et si figendo obtutum in eiconam ambulabit de occasu ad orientem, comperiet continue visum eiconae secum pergere; et si de oriente revertetur ad occasum, similiter eum non deseret. Et admirabitur, quomodo immobiliter moveatur, neque poterit imaginatio capere, quod cum aliquo alio sibi contrario motu obviante similiter moveatur. Et dum hoc experiri volens fecerit confratrem intuendo eiconam transire de oriente ad occasum, quando ipse de occasu pergit ad orientem, et interrogaverit obviantem, si continue secum visus eiconae volvatur, et audierit similiter opposito modo
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che impugna gli emblemi della Chiesa nel castello di Bressanone, e molte altre altrove. Tuttavia, perché anche voi possiate farne diretta esperienza, è necessario che abbiate una di queste figure sensibili, per cui affido al vostro amore un quadretto, che mi sono procurato, sul quale è rappresentata una figura che vede tutte le cose, che chiamo «icona di Dio». Affiggetelo in qualche luogo, per esempio sulla parete settentrionale del convento; e voi fratelli disponetevi intorno ad esso, a poca distanza, e guardatelo. Ciascuno di voi avrà l’impressione che, da qualsiasi luogo egli lo guardi, quel volto abbia gli occhi rivolti soltanto su di lui. E al fratello, che è posizionato ad oriente, sembrerà che quel volto guardi verso oriente, mentre a quello che è posizionato al meridione, che guardi verso il meridione, e a quello che è posizionato a occidente, che guardi verso occidente. In primo luogo, dunque, vi chiederete con meraviglia come sia possibile che quel volto guardi al tempo stesso tutti insieme e ognuno singolarmente. Il fratello che si trova ad oriente, infatti, non riesce a cogliere con la sua immaginazione che lo sguardo dell’icona è rivolto anche da un’altra parte, ossia a settentrione o a meridione. Se, poi, il fratello che era a oriente si posizionerà a occidente, egli si accorgerà che quello sguardo è rivolto ora verso di lui che si trova a occidente, nello stesso modo in cui prima era rivolto a oriente. E poiché sa che l’icona è fissa e non si è spostata, si meraviglierà del mutamento avvenuto in uno sguardo che è immutabile. Inoltre, se, tenendo fisso lo sguardo sull’icona, il fratello camminerà da occidente a oriente, scoprirà che lo sguardo dell’icona lo accompagna di continuo; ed egualmente, se tornerà da oriente a occidente, lo sguardo dell’icona non lo abbandonerà. E si meraviglierà del fatto che quello sguardo si muova, pur restando immobile. La sua immaginazione, poi, non riuscirà neppure a cogliere il fatto che quello sguardo si muova in modo simile accompagnando anche un’altra persona che gli venga incontro nella direzione contraria12. Se volesse fare esperienza di questo fenomeno, egli potrebbe chiedere ad un suo confratello di spostarsi da oriente ad occidente, continuando a tener fisso lo sguardo sull’icona, mentre egli cammina da occidente ad oriente; se, quando lo incrocia, gli chiedesse se lo sguardo dell’icona lo abbia continuamente accompagnato,
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moveri, credet ei, et nisi crederet, non caperet hoc possibile. Et ita revelatione relatoris perveniet, ut sciat faciem illam omnes etiam contrariis motibus incedentes non deserere. 4 Experietur igitur immobilem faciem moveri ita orientaliter, quod et move tur simul occidentaliter, et ita septentrionaliter, quod et meridionaliter, et ita ad unum locum quod etiam ad omnia simul, et ita ad unum respicere motum, quod ad omnes simul. Et dum attenderit, quomodo visus ille nullum deserit, videt, quod ita diligenter curam agit cuiuslibet quasi de solo eo, qui experitur se videri, et nullo alio curet, adeo quod etiam concipi nequeat per unum, quem respicit, quod curam alterius agat. Videbit etiam, quod ita habet diligentissimam curam minimae creaturae quasi maximae et totius universi. Ex hac tali sensibili apparentia vos fratres amantissimos per quandam praxim devotionis in mysticam propono elevare theologiam praemittendo tria ad hoc opportuna. 5
Capitulum I
Quod perfectio apparentiae verificatur de deo perfectissimo Primo loco praesupponendum esse censeo nihil posse apparere circa visum eiconae dei, quin verius sit in vero visu dei. Deus etenim, qui est summitas ipsa omnis perfectionis et maior quam cogitari possit, theos ob hoc dicitur, quia omnia intuetur. Quare, si visus pictus apparere potest in imagine simul omnia et singula in-
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egli si sentirebbe dire che lo sguardo si è mosso parimenti in direzioni opposte, ed allora crederebbe a suo fratello; e se non gli credesse, non riuscirebbe a capire come ciò sia possibile13. E così, sarà grazie a quanto gli rivela il suo interlocutore che egli giungerà a sapere che quel volto non abbandona tutti coloro che sono in cammino, anche se si muovono in direzioni opposte. Egli, pertanto, avrà la prova del fatto che quel volto immobile si muove verso oriente, in modo tale da muoversi, al tempo stesso, anche verso occidente; e che si muove verso settentrione, in modo tale da muoversi anche verso meridione; che si muove verso un unico luogo, in modo tale da muoversi, allo stesso tempo, anche verso tutti gli altri luoghi, e che rivolge il suo sguardo ad un movimento in modo tale da guardare, nello stesso tempo, a tutti gli altri. E mentre si rende conto del fatto che quello sguardo non abbandona nessuno, egli vede che esso si prende cura in maniera così premurosa di ciascuno, come se si preoccupasse solo di colui che s’accorge di essere guardato e di nessun altro; e questa impressione è così forte che colui al quale è rivolto lo sguardo di quel volto non riesce neppure a concepire che esso abbia cura anche di un altro. E [nel riflettere su tutto questo] vedrà anche che quel volto si prende cura nel modo più premuroso possibile della creatura più piccola, come se fosse la più grande, e dell’intero universo. Sulla base di questo fenomeno che ci appare in maniera sensibile, mi propongo di elevare voi, fratelli amatissimi, attraverso un esercizio di devozione, alla teologia mistica, premettendo tre cose utili allo scopo. CAPITOLO I
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Quanto appare nello sguardo dell’icona si verifica in modo perfetto in Dio perfettissimo In primo luogo, ritengo che si debba premettere quanto segue: nulla può apparire nel fenomeno della visione dell’icona di Dio che non si realizzi, in modo più vero, nella vera visione di Dio14. Dio, infatti, che è la pienezza di ogni perfezione ed è più grande di quanto lo si possa pensare15, viene detto «theós» per il fatto che egli guarda tutte le cose16. Per questo motivo, se lo sguardo dipinto nell’immagine può apparire tale che esso guarda simultaneamente a tutte le cose
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spiciens, cum hoc sit perfectionis visus, non poterit veritati minus convenire veraciter quam eiconae seu apparentiae apparenter. Si enim visus unus est acutior alio in nobis et unus vix propinqua, alius vero distantiora discernit, et alius tarde, alius citius attingit obiectum, nihil haesitationis est absolutum visum, a quo omnis visus videntium, excellere omnem acutiem, omnem celeritatem et virtutem omnem omnium videntium actu et qui videntes fieri possunt. 6 Si enim inspexero ad abstractum visum, quem mente absolvi ab omnibus oculis et organis, atque consideravero, quomodo ille visus abstractus in contracto esse suo, prout videntes per ipsum visum vident, est ad tempus et plagas mundi, ad obiecta singularia et ceteras condiciones tales contractus, ac quod abstractus visus ab his est condicionibus similiter abstractus et absolutus, bene capio de essentia visus non esse, ut plus unum quam aliud respiciat obiectum, licet comitetur visum in contracto esse, quod, dum respicit unum, non possit respicere aliud aut absolute omnia. Deus autem, ut est verus incontractus visus, non est minor, quam de abstracto visu per intellectum concipi potest, sed improportionabiliter perfectior. Quare apparentia visus eiconae minus potest accedere ad summitatem excellentiae visus absoluti quam conceptus. Id igitur, quod in imagine illa apparet, excellenter in visu esse absoluto non est haesitandum. 7
Capitulum II
Visus absolutus complectitur omnes modos Advertas post haec visum variari in videntibus ex varietate contractionis eius; nam sequitur visus noster organi et animi passio-
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e a ciascuna di esse singolarmente, allora, dato che questa capacità è propria di una vista perfetta, a colui che è la verità non potrà non convenire, in modo vero, quanto conviene, in modo apparente, all’icona o all’apparenza. Se, infatti, la vista di una persona è più acuta di quella di un’altra, se una vista mette a fuoco a stento le cose vicine mentre un’altra quelle lontane, se uno vede gli oggetti con più lentezza, un altro con più rapidità, non vi è allora alcun dubbio che la vista assoluta, dalla quale proviene la vista di tutti coloro che vedono, sia superiore ad ogni acutezza, ad ogni rapidità e capacità di tutti coloro che vedono in atto e di tutti coloro che possono acquisire la vista. In effetti, se esamino la vista astrattamente, separandola cioè mentalmente da ogni occhio ed organo visivo, e considero come, nel suo essere contratto, ossia nel modo in cui si realizza la funzione visiva in coloro che vedono, la vista sia contratta secondo il tempo e le regioni del mondo, secondo i singoli oggetti ed altre condizioni simili, e come, invece, la vista concepita astrattamente sia svincolata e libera da tutte queste condizioni, allora comprendo bene che all’essenza della vista non appartiene il fatto di dover guardare un oggetto piuttosto che un altro, sebbene ciò caratterizzi la vista nel suo modo d’essere contratto, la quale, nel momento in cui guarda una cosa, non puo’ guardarne un’altra, né può rivolgere, in senso assoluto, il suo sguardo a tutte le cose. Dio invece, essendo la vista vera e incontratta, non è da meno della vista che può essere concepita astrattamente dall’intelletto, ma è una vista incomparabilmente più perfetta. Di conseguenza, quanto appare nel fenomeno dello sguardo dell’icona ci consente di avvicinarci alla superiore eccellenza della vista assoluta meno di quanto ci consenta di farlo ciò che viene pensato nel concetto. Pertanto, ciò che appare in quell’immagine deve indubbiamente essere presente, in maniera eccelsa, nella vista assoluta. CAPITOLO II
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La vista assoluta abbraccia tutti i modi di vedere Considera, poi, che, in coloro che vedono, la vista varia a seconda della diversità delle sue contrazioni17. La nostra vista, infatti, è condizionata dalle modificazioni dell’organo [dell’occhio] e dal-
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nes. Unde iam videt aliquis amorose et laete, post dolorose et iracunde, iam pueriliter, post viriliter, deinde seriose et seniliter. Visus autem absolutus ab omni contractione simul et semel omnes et singulos videndi modos complectitur quasi adaequatissima visuum omnium mensura et exemplar verissimum; sine enim absoluto visu non potest esse visus contractus. Complectitur autem in se omnes videndi modos et ita omnes quod singulos, et manet ab omni varietate penitus absolutus. Sunt enim in absoluto visu omnes contractionum modi videndi incontracte. Omnis enim contractio est in absoluto, quia absoluta visio est contractio contractionum; contractio enim est incontrahibilis. Coincidit igitur simplicissima contractio cum absoluto. Sine autem contractione nihil contrahitur. Sic absoluta visio in omni visu est, quia per ipsam est omnis contracta visio et sine ea penitus esse nequit. 8
Capitulum III
Quae de deo dicuntur, realiter non differunt Consequenter attendas omnia, quae de deo dicuntur, realiter ob summam dei simplicitatem non posse differre, licet nos secundum alias et alias rationes alia et alia vocabula deo attribuamus. Deus autem cum sit ratio absoluta omnium formabilium rationum, in se omnium rationes complicat. Unde quamvis deo visum, auditum, gustum, odoratum, tactum, sensum, rationem et intellectum et talia attribuamus secundum alias et alias cuiuslibet vocabuli significationum rationes, tamen in ipso videre non est aliud ab audire et gustare et odorare et tangere et sentire et intelligere. Et ita tota theologia in circulo posita dicitur, quia unum attributorum affirmatur de alio et habere dei est esse eius et movere est sta-
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le passioni dell’anima18. Per questo motivo, una persona vede [una determinata cosa] prima con amore e gioia, poi con dolore e ira, prima da bambino, poi da adulto, e infine, in modo serioso e da persona anziana. La vista che è libera da ogni contrazione, invece, abbraccia insieme e in una sola volta tutti i modi di vedere, in quanto è la loro misura assolutamente adeguata19 e il loro esemplare verissimo. Senza la vista assoluta, infatti, non può esservi la vista contratta. La vista assoluta, tuttavia, abbraccia in sé tutti i modi di vedere, e li abbraccia tutti in maniera da abbracciare ognuno di essi singolarmente, pur restando del tutto svincolata da ogni loro varietà. Nella vista assoluta, infatti, tutti i modi di vedere che sono propri delle varie viste contratte sono presenti in modo non contratto. Nell’assoluto, in effetti, è presente ogni contrazione della vista, in quanto la vista assoluta è la contrazione delle contrazioni20. Ed essa è una contrazione incontraibile. Pertanto, la contrazione semplicissima coincide con l’assoluto. Senza la contrazione, tuttavia, non può esservi nulla di contratto. Per questo motivo, la vista assoluta è presente in ogni vista, in quanto ogni vista contratta esiste grazie ad essa e senza di essa non può affatto esistere. CAPITOLO III
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Le cose che si predicano di Dio non differiscono fra loro realmente Rispetto a quanto si è detto, considera che, data la somma semplicità di Dio, tutte le cose che si predicano di lui non possono differire realmente fra loro, sebbene noi attribuiamo a Dio nomi diversi sulla base delle diverse ragioni [delle cose]21. Dio, invece, essendo la ragione [forma] assoluta di tutte le ragioni [forme] formabili, complica in sé le ragioni di tutte le cose22. Di conseguenza, sebbene noi attribuiamo a Dio la vista, l’udito, l’olfatto, il tatto, i sensi, la ragione, l’intelletto ed altre facoltà simili, secondo il diverso significato con cui intendiamo ciascuno di questi termini, in Dio, tuttavia, il vedere non è qualcosa di diverso dall’udire, dal gustare, dall’odorare, dal sentire o dall’intendere. Questo è il motivo per il quale si dice che tutta la teologia è posta in circolo23, perché ogni attributo può essere predicato dell’altro. E in Dio l’avere coincide con il suo essere, il suo muoversi è il suo permanere immobi-
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re et currere est quiescere et ita de reliquis attributis. Sic licet nos alia ratione attribuamus ei movere et alia stare, tamen quia ipse est absoluta ratio, in qua omnis alteritas est unitas et omnis diversitas identitas, tunc rationum diversitas, quae non est identitas ipsa, prout nos diversitatem concipimus, in deo esse nequit. 9
Capitulum IV
Quod visio dei providentia, gratia et vita dicitur aeterna Accede nunc tu, frater contemplator, ad dei eiconam, et primum te loces ad orientem, deinde ad meridiem ac ultimo ad occasum; et quia visus eiconae te aeque undique respicit et non deserit, quocumque pergas, in te excitabitur speculatio provocaberisque et dices: Domine, nunc in hac tua imagine providentiam tuam quadam sensibili experientia intueor. Nam si me non deseris, qui sum vilissimus omnium, nusquam cuiquam deeris. Sic quidem ades omnibus et singulis, sicut ipsis omnibus et singulis adest esse, sine quo non possunt esse. Ita enim tu absolutum esse omnium ades cunctis, quasi non sit tibi cura de quoquam alio. Et ob hoc evenit, quod nulla res est, quae esse suum non praeferat cunctis et modum essendi suum omnibus aliorum essendi modis, et ita esse suum tuetur, quod omnium aliorum esse potius sinat in perditionem ire quam suum. Ita enim tu, domine, intueris quodlibet, quod est, ut non possit concipi per omne id, quod est, te aliam curam habere, quam ut id solum sit meliori modo, quo esse potest, atque quod omnia alia, quae sunt, ad hoc solum sint, ut serviant ad id, quod illud sit optime, quod tu respicis. Nequaquam, domine, me concipere sinis quacumque imaginatione, quod tu, domine, aliud a me plus me diligas, cum me solum visus tuus non deserat. 10 Et quoniam ibi oculus ubi amor, tunc te me diligere experior, quia oculi tui sunt super me servulum tuum attentissimi. Domi-
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le, il suo correre è il suo stare in quiete24, e lo stesso vale per tutti gli altri attributi. E così, sebbene attribuiamo a Dio il muoversi sulla base di una certa ragione [forma], e gli attribuiamo il permanere immobile sulla base di un’altra ragione [forma], tuttavia, essendo egli ragione [forma] assoluta nella quale ogni alterità è unità e ogni diversità è identità, in Dio non può esservi una tale diversità di ragioni [forme]; questa diversità, infatti, così come la concepiamo noi, non è l’identità. CAPITOLO IV
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La visione di Dio si dice provvidenza, grazia e vita eterna Ed ora, fratello, che sei dedito alla contemplazione, avvicinati all’icona di Dio e posizionati prima a oriente, poi a meridione e infine a occidente. E poiché lo sguardo dell’icona ti guarda nello stesso modo ovunque tu sia e non ti abbandona ovunque tu vada, la tua riflessione riceve da ciò uno stimolo25 che la spinge a pensare, ed allora dirai: Signore, ora in questa tua immagine, mediante una sorta di esperienza sensibile, intuisco la tua provvidenza. Ed invero tu sei presente a tutti e a ciascuno, così come a tutti e a ciascuno è presente l’essere, senza il quale nessuna cosa può esistere. E in effetti, tu, che sei l’essere assoluto di tutte le cose26 sei presente ad ognuna di esse, come se non ti prendessi cura di nessun’altra. E per questo non vi è nessuna cosa che non preferisca il proprio essere a quello di tutte le altre e il proprio modo di essere a tutti i modi di essere delle altre27. Ed ogni cosa difende a tal punto il proprio essere che sarebbe disposta a lasciar corrompere l’essere di tutte le altre piuttosto che il proprio. Tu, infatti, Signore, guardi ad ogni cosa che esiste in un modo tale per cui tutte le altre cose non possono non pensare che tu abbia cura solo per quella cosa, per farla esistere, cioè, nel modo migliore possibile, e che tutte le altre cose esistano solo a questo scopo, ossia per far sì che quella creatura alla quale tu rivolgi il tuo sguardo esista nel modo migliore. E tu, Signore, non mi permetti mai neppure di immaginare che tu ami qualche altra cosa più di me, perché soltanto me il tuo sguardo non abbandona. E dal momento che dove si posa il tuo occhio, lì è presente il tuo amore, io sento che tu mi ami, perché i tuoi occhi sono sem-
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ne, videre tuum est amare; et sicut visus tuus adeo attente me prospicit, quod numquam se a me avertit, sic et amor tuus. Et quoniam amor tuus semper mecum est et non est aliud amor tuus, domine, quam tu ipse, qui amas me, hinc tu semper mecum es, domine. Non me deseris, domine, undique me custodis, quia curam mei agis diligentissimam. Esse tuum, domine, non derelinquit esse meum. In tantum enim sum, in quantum tu mecum es; et cum videre tuum sit esse tuum, ideo ego sum, quia tu me respicis, et si a me vultum tuum subtraxeris, nequaquam subsistam. Sed scio, quod visus tuus est bonitas illa maxima, quae se ipsam non potest non communicare omni capaci. Tu igitur numquam me poteris derelinquere, quamdiu ego tui capax fuero. Ad me igitur spectat, ut, quantum possum, efficiar continue plus capax tui. Scio autem, quod capacitas, quae unionem praestat, non est nisi similitudo, incapacitas autem ex dissimilitudine. Si igitur ego me reddidero omni possibili modo bonitati tuae similem, secundum gradus similitudinis ero capax veritatis. 11 Dedisti mihi, domine, esse et id ipsum tale, quod se potest gratiae et bonitatis tuae continue magis capax reddere. Et haec vis, quam a te habeo, in qua virtutis omnipotentiae tuae vivam imaginem teneo, est libera voluntas, per quam possum aut ampliare aut restringere capacitatem gratiae tuae; ampliare quidem per conformitatem, quando nitor esse bonus, quia tu bonus, quando nitor esse iustus, quia tu iustus, quando nitor esse misericors, quia tu misericors, quando non nisi omnis conatus meus est ad te conversus, quia omnis conatus tuus est ad me conversus, quando solum ad te attentissime respicio et numquam oculos mentis a, quia tu me continua visione amplecteris, quando amorem meum ad te solum converto, quia tu, qui caritas es, ad me solum es conversus. Et quid est, domine, vita mea nisi amplexus ille, quo tua dulcedo dilectionis me adeo amorose amplectitur? Diligo supreme vitam meam, quia tu es dulcedo vitae meae.
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pre fissi su di me, tuo povero servo. Signore, il tuo vedere è amare, e come il tuo sguardo mi guarda con tanta attenzione che non si distoglie mai da me, così fa il tuo amore. E poiché il tuo amore è sempre con me, e il tuo amore, o Signore, non è altro da te che mi ami, tu, allora, o Signore, sei sempre con me. Non mi abbandoni, o Signore: mi proteggi ovunque, perché ti prendi cura di me con la massima premura. Il tuo essere, Signore, non abbandona il mio essere. In tanto io sono, infatti, in quanto tu sei con me. E dato che il tuo vedere è il tuo essere, io sono per il fatto che tu mi guardi28. E se distogliessi da me il tuo volto, non sussisterei più. Ma io so che il tuo sguardo è quella bontà massima che non può non comunicare se stessa29 a tutto ciò che è in grado di riceverla. Tu, pertanto, non potrai mai abbandonarmi finché io sarò capace di accoglierti. Spetta a me, dunque, per quanto mi è possibile, rendermi sempre più capace di accoglierti. So, d’altra parte, che la capacità che assicura l’unione consiste solamente nella somiglianza, mentre l’incapacità dipende dalla dissomiglianza30. Se, pertanto, mi sarò reso simile in ogni modo possibile alla tua bontà, allora sarò anche capace di accogliere la verità, conformemente al grado di somiglianza che avrò raggiunto. Mi hai dato l’essere, Signore, e un essere tale che può rendersi sempre più capace di accogliere la tua grazia e la tua bontà. E questa facoltà che ho da te, in virtù della quale posseggo un’immagine viva31 della forza della tua onnipotenza, è la volontà libera32, con la quale posso ampliare o restringere la capacità di accogliere la tua grazia. E la amplio rendendomi conforme a te, quando mi sforzo di essere buono perché tu sei buono, giusto perché tu sei giusto, misericordioso perché tu sei misericordioso; quando ogni mio sforzo non è rivolto che a te, perché ogni tuo sforzo è rivolto a me, quando guardo con la massima attenzione soltanto a te, senza distogliere mai da te gli occhi della mia mente, perché tu mi abbracci con uno sguardo continuo, quando rivolgo il mio amore soltanto verso di te, perché tu, che sei carità, sei rivolto soltanto verso di me33. E che cos’è, Signore, la mia vita se non quell’abbraccio con il quale la dolcezza del tuo amore mi abbraccia tanto amorosamente?34 E se amo in modo supremo la mia vita è perché tu sei la dolcezza della mia vita.
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nunc in speculo, in eicona, in aenigmate vitam aeternam, quia non est nisi visio beata, qua quidem visione tu me amorosissime usque ad intima animae meae numquam videre dimittis. Et non est videre tuum nisi vivificare, nisi dulcissimum amorem tui continue immittere, me ad tui amorem per immissionem amoris inflammare et inflammando pascere et pascendo desideria ignire et igniendo rore laetitiae potare et potando fontem vitae immittere et immittendo augere et perennare et tuam immortalitatem communicare, caelestis et altissimi atque maximi regni gloriam immarcescibilem condonare, hereditatis illius, quae solius filii est, participem facere et aeternae felicitatis possessorem constituere, ubi est hortus deliciarum omnium, quae desiderari poterunt, quo nihil melius non solum per omnem hominem aut angelum excogitari, sed nec omni essendi modo esse potest. Nam est ipsa absoluta maximitas omnis desiderii rationalis, quae maior esse nequit.
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CAPITULUM V
Quod videre sit gustare, quaerere, misereri et operari O quam magna multitudo dulcedinis tuae, quam abscondisti timentibus te; nam est thesaurus inexplicabilis gaudiosissimae laetitiae. Gustare enim ipsam dulcedinem tuam est apprehendere experimentali contactu suavitatem omnium delectabilium in suo principio, est rationem omnium desiderabilium attingere in tua sapientia. Videre igitur rationem absolutam, quae est omnium ratio, non est aliud quam mente te deum gustare, quoniam es ipsa suavitas esse, vitae et intellectus. Quid aliud, domine, est videre tuum, quando me pietatis oculo respicis, quam a me videri? Videndo me das te a me videri, qui es deus absconditus. Nemo te videre potest,
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E la vita eterna ora la contemplo [come] in uno specchio, attraverso un’immagine, «in enigma»35, poiché la vita eterna non è se non lo sguardo beato con il quale tu non smetti mai di guardarmi con il massimo amore fino ai recessi della mia anima. E il tuo vedere non è se non un vivificare, un infondere continuamente il tuo amore dolcissimo, e, in virtù di questa infusione del tuo amore, un infiammarmi d’amore per te; e infiammandomi alimenti in me la tua fiamma, e alimentando in me la tua fiamma mi fai ardere di desiderio per te, e facendomi ardere mi abbeveri con la rugiada della gioia, e facendomi bere infondi in me la fonte della vita36, e infondendo in me la fonte della tua vita la fai crescere e la rendi perenne, mi comunichi la tua immortalità, mi doni la gloria incorruttibile del tuo regno celeste, sommo e massimo, mi rendi partecipe di quell’eredità che è propria solo di un figlio37, mi costituisci nel possesso della felicità eterna38, dove si trova il giardino di tutte le delizie che si potranno desiderare, quel bene rispetto al quale non solo nessun uomo o nessun angelo può pensare nulla di migliore, ma rispetto al quale non può esistere nessun modo d’essere che sia migliore. Quel bene, infatti, è il grado massimo e assoluto di ogni desiderio razionale, un grado che non può essere maggiore. CAPITOLO V
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Il vedere di Dio è il suo gustare, cercare, avere misericordia e operare O quanto è grande il numero delle tue dolcezze, che hai tenuto in serbo per coloro che ti temono39! È infatti un tesoro senza fine di letizia gioiosissima40. Gustare la tua dolcezza, infatti, significa apprendere, nel loro principio e mediante un contatto d’esperienza41, la soavità di tutte le cose dilettevoli, e significa giungere a cogliere, nella tua sapienza, la ragione di tutte le cose desiderabili. Pertanto, vedere la ragione assoluta, che è la ragione di tutte le cose, non è altro che gustare, con la mente, te, o Dio, perché tu sei la soavità stessa dell’essere, della vita e dell’intelletto42. Che altro è il tuo vedere, Signore, quando mi guardi con occhio misericordioso, se non un essere visto da me?43 Guardando me, tu, che sei un Dio nascosto44, offri te stesso alla mia vista. Nessuno ti può vedere, se non sei
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nisi in quantum tu das, ut videaris. Nec est aliud te videre, quam quod tu videas videntem te. 14 Video in hac imagine tua, quam pronus es, domine, ut faciem tuam ostendas omnibus quaerentibus te. Nam numquam claudis oculos, numquam aliorsum vertis. Et licet ego me a te avertam, quando ad aliud me penitus converto, tu tamen ob hoc non mutas oculos nec visum. Si me non respicis oculo gratiae, causa est mea, quia divisus sum a te per aversionem et conversionem ad aliud, quod tibi praefero. Non tamen adhuc avertis te penitus, sed misericordia tua sequitur me, an aliquando velim reverti ad te, ut sim capax gratiae tuae. Quod enim me non respicis, est quia te non respicio, sed respuo et contemno. O pietas infinita, quam infelix est omnis peccator, qui te venam vitae derelinquit et quaerit te non in te sed in eo, quod in se nihil est et nihil mansisset, si tu non vocasses ipsum de nihilo. Quam fatuus est, qui te quaerit, qui es bonitas, et dum te quaerit, a te recedit et oculos avertit. Quaerit igitur omnis quaerens non nisi bonum, et omnis, qui quaerit bonum et a te recedit, ab eo recedit, quod quaerit. 15 Omnis igitur peccator a te errat et longius abit. Quando autem ad te revertitur, sine mora tu ei occurris, et antequam te respiciat, tu paterno affectu in eum oculos misericordiae inicis. Nec est aliud tuum misereri quam tuum videre. Subsequitur igitur omnem hominem misericordia tua, quamdiu vivit, quocumque pergat, sicut nec visus tuus quemquam deserit. Quamdiu igitur homo vivit, non cessas eum subsequi et dulci atque interna motione incitare, ut ab errore cesset et convertatur ad te, ut feliciter vivat. Tu, domine, es socius peregrinationis meae; quocumque pergo, oculi tui super me sunt semper. Videre autem tuum est movere tuum. Moveris igitur mecum et non cessas umquam a motu, quamdiu moveor. Si quiesco, et tu mecum es, si ascendero, ascendis, si descendero, descendis, quocumque me verto, ades, nec me deseris in tempore tribulationis. Quotiens te invoco, prope es; nam invocare te est me con-
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trattato sulla visione di dio, v 13-15
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tu stesso che ti dai a vedere45. E vedere te non significa altro se non che tu vedi colui che ti vede. In questa tua icona, Signore, vedo quanto tu sia propenso a mostrare il tuo volto a tutti coloro che ti cercano46. E infatti non chiudi mai gli occhi e non li rivolgi mai altrove. E sebbene io mi distolga da te, quando mi volgo completamente a qualcos’altro, tu non muti tuttavia per questo i tuoi occhi, né la direzione del tuo sguardo. Se tu non mi guardi con l’occhio della grazia, è a causa mia, perché sono io che mi sono separato da te per volgermi a qualcos’altro, che preferisco a te47. Ciononostante, tu non ti separi ancora completamente da me, ma la tua misericordia mi segue48, se mai io voglia ritornare a te e rendermi capace di accogliere la tua grazia. Se tu non mi guardi, infatti, è perché sono io che non guardo te, ma ti respingo e ti disprezzo. O misericordia infinita, quanto è infelice ogni peccatore che abbandona te, sorgente della vita, e ti cerca non in te, ma in quelle cose che in se stesse sono nulla e sarebbero rimaste nulla, se dal nulla tu non le avessi chiamate all’essere49. Quanto è stolto colui che cerca te, che sei la bontà, e mentre ti cerca si allontana da te, distogliendo da te i suoi occhi. Chiunque cerca, infatti, non cerca che il bene50, e chi cerca il bene e si allontana da te si allontana da ciò che cerca. Ogni peccatore, pertanto, si allontana da te e lì si smarrisce. Ma quando ritorna a te, tu, senza indugio, gli vai incontro e, prima ancora che egli ti guardi, con affetto paterno, fissi su di lui i tuoi occhi di misericordia. E la tua misericordia non è altro che il tuo stesso vedere. Pertanto, ovunque un uomo vada, la tua misericordia, finché egli vive, lo segue51, così come il tuo sguardo non abbandona nessuno. Fintantoché un uomo vive, tu non cessi di seguirlo e di sollecitarlo52, con dolci ammonimenti interiori, ad allontanarsi dall’errore e a rivolgersi a te, in modo da poter vivere felicemente53. Tu, Signore, sei il compagno del mio viaggio in questo mondo54, e ovunque io vada i tuoi occhi sono sempre su di me. Ma il tuo vedere è il tuo muoverti. Ti muovi, quindi, con me e non smetti mai di muoverti, fintantoché io mi muovo. Se mi fermo, anche tu sei con me; se salgo in alto, sali in alto; se scendo in basso, scendi in basso: ovunque mi volga, tu sei presente. E non mi abbandoni neppure nel momento della tribolazione55. Ogni volta che ti invoco, tu sei
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vertere ad te. Non potes illi deesse, qui se ad te convertit, nec potest quis ad te converti, nisi adsis prius. Ades, antequam ad te convertar. Nisi enim adesses et sollicitares me, te penitus ignorarem; et ad te, quem ignorarem, quo modo converterer? 16 Tu igitur es deus meus, qui omnia vides, et videre tuum est operari. Omnia igitur operaris. Non nobis igitur, domine, non nobis, sed nomini tuo magno, quod est theos, gloriam cano sempiternam. Nihil enim habeo, quod tu non das, nec tenerem id, quod dedisti, nisi tu ipse conservares. Tu igitur ministras mihi omnia. Tu es dominus potens et pius, qui omnia donas; tu es minister, qui omnia ministras; tu es provisor et curam habens atque conservator. Et haec omnia uno simplicissimo intuitu tuo operaris, qui es in saecula benedictus. 17
CAPITULUM VI
De faciali visione Quanto ego, domine deus meus, diutius intueor vultum tuum, tanto mihi apparet, quod acutius in me inicias aciem oculorum tuorum. Agit autem intuitus tuus, ut considerem, quomodo haec imago faciei tuae eapropter est sic sensibiliter depicta, quia depingi non potuit facies sine colore nec color sine quantitate exsistit. Sed video non oculis carneis, qui hanc eiconam tuam inspiciunt, sed mentalibus et intellectualibus oculis veritatem faciei tuae invisibilem, quae in umbra hic contracta significatur. Quae quidem facies tua vera est ab omni contractione absoluta. Neque enim ipsa est quanta neque qualis neque temporalis neque localis. Ipsa enim est absoluta forma, quae et facies facierum. 18 Quando igitur attendo, quomodo facies illa est veritas et mensura adaequatissima omnium facierum, ducor in stuporem. Non est enim facies illa, quae est veritas omnium facierum, quanta, quare nec maior nec minor quacumque facie, ideo aequalis omnibus
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trattato sulla visione di dio, v 15 - vi 18
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vicino. Invocarti, infatti, significa rivolgermi a te, né qualcuno può rivolgersi a te se prima tu non sei presente. Tu sei presente prima ancora che io mi rivolga a te. Se tu non fossi presente, infatti, e non mi sollecitassi, ti ignorerei del tutto; e se ti ignorassi, in che modo potrei rivolgermi a te?56 Dio mio, tu sei colui che vede tutto, e il tuo vedere è operare. Pertanto, tu operi tutte le cose. Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo grande nome, che è «theós»57, canto gloria eterna. Non ho nulla che non mi sia stato donato da te58, né sarei in grado di tenere ciò che tu mi hai donato, se tu stesso non me lo conservassi. Sei tu, dunque, che mi elargisci ogni cosa, sei tu il Signore potente e pietoso che dona ogni cosa59, sei tu che amministri tutte le cose, sei tu che provvedi ad esse, te ne prendi cura e le conservi60. Tutte queste opere le compi con un solo, semplicissimo tuo sguardo, tu che sei benedetto nei secoli. CAPITOLO VI
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La visione del volto di Dio Quanto più a lungo, signore Dio mio, fisso il tuo volto, tanto più acutamente mi sembra che lo sguardo acuto dei tuoi occhi sia rivolto su di me. Ora, il tuo sguardo mi spinge a riflettere sul fatto che questa immagine del tuo volto è stata dipinta in questo modo sensibile perché un volto non poteva essere dipinto senza il colore, e il colore non esiste senza quantità. Ma la verità invisibile del tuo volto io non la vedo con i miei occhi corporei, con i quali guardo l’icona, ma con gli occhi della mia mente e del mio intelletto. Nell’icona, questa verità è rappresentata in maniera contratta, nell’ombra che è propria di un’immagine. Ma il tuo vero volto è libero da ogni contrazione. E infatti esso non ha quantità, né qualità, ne è collocato in un tempo o in un luogo61. Esso è la forma assoluta, che è anche il volto di tutti volti. Pertanto, quando rifletto sul fatto che quel volto è la verità e la misura assolutamente più adeguata di tutti i volti, rimango sbalordito62. Quel volto, che è la verità di tutti i volti, non ha infatti quantità; per questo motivo, non è maggiore, né minore di qualsiasi altro volto; ed è quindi uguale a tutti i volti e a ciascuno di essi, in
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et singulis, quia nec maior nec minor. Nec tamen est aequalis cuiquam, quia non est quanta, sed absoluta et superexaltata. Est igitur veritas, quae est aequalitas, ab omni quantitate absoluta. Sic igitur deprehendo vultum tuum, domine, antecedere omnem faciem formabilem et esse exemplar ac veritatem omnium facierum et omnes facies esse imagines faciei tuae incontrahibilis et imparticipabilis. Omnis igitur facies, quae in tuam potest intueri faciem, nihil videt aliud aut diversum a se, quia videt veritatem suam. Veritas autem exemplaris non potest esse alia et diversa, sed illa accidunt imagini ex eo, quia non est ipsum exemplar. 19 Sicut igitur, dum hanc faciem pictam orientaliter inspicio, similiter apparet, quod sic ipsa me respiciat, et dum occidentaliter aut meridionaliter, ipsa pariformiter, sic, qualitercumque faciem meam muto, videtur facies ad me conversa. Ita est facies tua ad omnes facies te intuentes conversa. Visus tuus, domine, est facies tua. Qui igitur amorosa facie te intuetur, non reperiet nisi faciem tuam se amorose intuentem, et quanto studebit te amorosius inspicere, tanto reperiet similiter faciem tuam amorosiorem; qui te indignanter inspicit, reperiet similiter faciem tuam talem; qui te laete intuetur, sic reperiet laetam tuam faciem, quemadmodum est ipsius te videntis. Sicut enim oculus iste carneus per vitrum rubeum intuens omnia, quae videt, rubea iudicat et, si per vitrum viride, omnia viridia, sic quisque oculus mentis obvolutus contractione et passione iudicat te, qui es mentis obiectum, secundum naturam contractionis et passionis. Homo non potest iudicare nisi humaniter. Quando enim homo tibi faciem attribuit, extra humanam speciem illam non quaerit, quia iudicium suum est infra naturam humanam contractum et huius contractionis passionem in iudicando non exit. Sic, si leo faciem tibi attribueret, non nisi leoninam iudicaret, et bos bovinam et aquila aquilinam. O domine, quam admirabilis est facies
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quanto non è né maggiore, né minore63. E tuttavia non è uguale a nessun volto, poiché non ha quantità, ma è assoluto e superesaltato. Esso, pertanto, è la verità, o l’eguaglianza, che è libera da ogni quantità. In questo modo, giungo a comprendere che il tuo volto, Signore, precede ogni volto che può essere formato ed è l’esemplare e la verità di tutti i volti, e che tutti i volti sono immagini del tuo volto, che non può essere contratto ed [è in se stesso] impartecipabile. Di conseguenza, ogni volto, che può guardare il tuo volto, non vede niente che sia altro o diverso da se stesso, poiché [nel tuo volto] vede la propria verità. La verità dell’esemplare, tuttavia, non può essere altra o diversa, ma tali caratteristiche appartengono all’immagine, per il fatto che essa non è l’esemplare. Come quando guardo questo volto dipinto da oriente sembra che anch’esso mi guardi da oriente, e lo stesso accade se lo guardo da occidente o da meridione, così sembra che quel volto dipinto sia rivolto verso di me da qualsiasi parte io giri il mio volto. In modo simile, il tuo volto è rivolto verso tutti i volti che ti guardano. La tua vista, Signore, è il tuo volto. Di conseguenza, chi ti guarda con un volto pieno d’amore, troverà che anche il tuo volto lo guarda parimenti amorosamente. E quanto più si sforzerà di guardarti con amore, tanto più troverà il tuo volto amorevole. Chi ti guarda con un viso indignato, troverà il tuo volto parimenti indignato; chi ti guarda con gioia troverà il tuo volto tanto gioioso quanto lo è il suo. Come questo nostro occhio corporeo, infatti, se guarda attraverso una lente rossa giudica rosse tutte le cose che vede, e se guarda attraverso una lente verde le giudica verdi, così anche ogni occhio della mente, velato dalla contrazione e dalla passione, giudica te, che sei l’oggetto della mente64, secondo la natura della contrazione e della passione che lo caratterizzano. L’uomo non può giudicare, se non umanamente65. Quando l’uomo, infatti, ti attribuisce un volto, non lo può cercare al di fuori della specie umana, perché il suo giudizio è contratto nell’ambito della natura umana e, nel giudicare, non può uscire dall’affezione che è propria di questa contrazione. Analogamente, se un leone ti attribuisse un volto, riterrebbe che il tuo volto sia quello di un leone, e un bue riterrebbe che sia quello di un bue e un’aquila quello di un’aquila66. O Signore, quanto è ammirevole il tuo volto! Se un giovane lo volesse con-
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tua, quam si iuvenis concipere vellet, iuvenilem fingeret et vir virilem et senex senilem. 20 Quis hoc unicum exemplar verissimum et adaequatissimum omnium facierum ita omnium quod et singulorum et ita perfectissime cuiuslibet quasi nullius alterius concipere posset? Oporteret illum omnium formabilium facierum formas transilire et omnes figuras. Et quomodo conciperet faciem, quando transcenderet omnes facies et omnes omnium facierum similitudines et figuras et omnes con ceptus, qui de facie fieri possunt, et omnem omnium facierum colorem et ornatum et pulchritudinem? Qui igitur ad videndum faciem tuam pergit, quamdiu aliquid concipit, longe a facie tua abest. Omnis enim conceptus de facie minor est facie tua, domine, et omnis pulchritudo, quae concipi potest, minor est pulchritudine faciei tuae. Omnes facies pulchritudinem habent et non sunt ipsa pulchritudo. Tua autem facies, domine, habet pulchritudinem, et hoc habere est esse. Est igitur ipsa pulchritudo absoluta, quae est forma dans esse omni formae pulchrae. O facies decora nimis, cuius pulchritudinem admirari non sufficiunt omnia, quibus datur ipsam intueri. 21 In omnibus faciebus videtur facies facierum velate et in aenigmate. Revelate autem non videtur, quamdiu super omnes facies non intratur in quoddam secretum et occultum silentium, ubi nihil est de scientia et conceptu faciei. Haec enim caligo, nebula, tenebra seu ignorantia, in quam faciem tuam quaerens subintrat, quando omnem scientiam et conceptum transilit, est, infra quam non potest facies tua nisi velate reperiri. Ipsa autem caligo revelat ibi esse faciem supra omnia velamenta. Sicuti dum oculus noster lucem solis, quae est facies eius, quaerit videre, primo ipsam velate respicit in stellis et coloribus et omnibus lucem eius participanti-
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cepire, se lo raffigurerebbe come quello di un giovane, e un uomo maturo se lo raffigurerebbe come quello di un uomo maturo, e un vecchio come quello di un vecchio. Chi riuscirebbe a concepire quest’unico esemplare di tutti volti, un esemplare verissimo e assolutamente adeguato di tutti volti e di ciascuno di essi singolarmente considerato, e di ciascuno in modo così perfetto come se non fosse l’esemplare di nessun altro volto? Per concepire un tale volto, bisognerebbe andare oltre tutte le forme e tutte le raffigurazioni di tutti i volti che si possono formare. E come si potrebbe concepire un volto, una volta che si sono trascesi tutti i volti, tutte le immagini e le raffigurazioni di tutti i volti, tutti i concetti che ci possiamo formare di un volto, tutto il colore, l’ornamento e la bellezza che sono propri di tutti i volti? Pertanto, chi intende guardare il tuo volto, finché concepisce qualcosa [di determinato], resta molto lontano dal tuo volto. Ogni concetto che noi ci possiamo formare di un volto, infatti, è minore rispetto al tuo volto, Signore, ed ogni bellezza che noi possiamo concepire è minore della bellezza del tuo volto67. Tutti i volti hanno una bellezza, ma non sono la bellezza stessa. Al contrario, il tuo volto, Signore, ha bellezza, e questo avere coincide con il tuo essere68. Il tuo volto, pertanto, è la bellezza assoluta, la quale è la forma che dà l’essere ad ogni forma bella69. O volto straordinariamente bello, tutte le cose alle quali è concesso di contemplarti non bastano ad ammirare la tua bellezza! In tutti i volti il volto dei volti viene visto in modo velato e per mezzo del simbolo. Ma non lo si vede in maniera rivelata [senza veli] finché colui che lo cerca non vada oltre tutti volti e non entri70 in una sorta di silenzio segreto ed occulto71, nel quale non vi è alcuna conoscenza o concetto del volto. È in questa caligine, infatti, in questa nebbia, tenebra o ignoranza72, che entra colui che cerca il tuo volto quando ha oltrepassato ogni forma di conoscenza e ogni concetto, e al di sotto di essa il tuo volto non può essere trovato se non in maniera velata. Ed è proprio la caligine che rivela che lì si trova il tuo volto, al di sopra di ogni velo73. Una cosa simile accade quando il nostro occhio cerca di vedere la luce del sole, che possiamo considerare come il volto del sole74: inizialmente la vede in maniera velata, nelle stelle, nei colori ed in tutto ciò che parteci-
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bus; quando autem revelate intueri ipsam contendit, omnem visibilem lucem transilit, quia omnis talis minor est illa, quam quaerit; sed quia quaerit videre lucem, quam videre non potest, hoc scit quod quamdiu aliquid videt, non esse id, quod quaerit. Oportet igitur omnem visibilem lucem transilire. Qui igitur transilire debet omnem lucem, necesse est quod id, quod subintrat, careat visibili luce; et ita est oculo tenebra. Et cum est in tenebra illa, quae est caligo, tunc, si scit se in caligine esse, scit se ad faciem solis accessisse. Oritur enim ex excellentia lucis solis illa caligo in oculo. Quanto igitur scit caliginem maiorem, tanto verius attingit in caligine invisibilem lucem. Video, domine, sic et non aliter inaccessibilem lucem et pulchritudinem et splendorem faciei tuae revelate accedi posse. 22
CAPITULUM VII
Quis fructus facialis visionis et quomodo habebitur Tanta est dulcedo illa, qua nunc, domine, pascis animam meam, ut se qualitercumque iuvet cum his, quae experitur in hoc mundo, et per eas, quas tu inspiras, similitudines gratissimas. Nam cum tu sis vis illa, domine, seu principium, ex quo omnia, et facies tua sit vis illa et principium, ex quo omnes facies id sunt, quod sunt, tunc me converto ad hanc arborem nucum magnam et excelsam, cuius quaero videre principium, et video ipsam oculo sensibili magnam, extensam, coloratam, oneratam ramis, foliis et nucibus. Video deinde oculo mentis arborem illam fuisse in semine, non modo quo eam hic inspicio, sed virtualiter. Attente adverto illius seminis admirabilem virtutem, in qua arbor tota ista et omnes nuces et omnis vis seminis nucum et omnes arbores in virtute seminum nucum fuerunt. Et video, quomodo vis illa non est ullo umquam tempore
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pa della sua luce75; quando, però, cerca di vederla senza veli, il nostro occhio oltrepassa ogni luce visibile, perché ogni luce di quel tipo è minore rispetto a quella luce che esso cerca. Ma, dal momento che ciò che cerca di vedere è una luce che non può vedere, il nostro occhio sa che, finché vede qualcosa, questo qualcosa non è ciò che esso cerca. Esso deve pertanto superare tutto ciò che è visibile. Ma, chi deve superare ogni luce entra necessariamente in un luogo che è privo di luce sensibile e che, di conseguenza, per l’occhio è tenebra. Ora, se quando in quella tenebra, che è una caligine, egli sa di essere nella caligine, allora sa di essere giunto innanzi al volto del sole. Quella caligine, infatti, nasce nel suo occhio proprio a causa dell’eccellenza della luce del sole. Pertanto, quanto maggiore egli sa essere la caligine, con tanta maggiore verità giunge a cogliere, nella caligine, la luce indicibile76. Vedo, Signore, che è solo in questo modo, e in nessun altro, che è possibile accedere rivelatamente alla luce inaccessibile77 del tuo volto, alla sua bellezza e al suo splendore. CAPITOLO VII
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Quale sia il frutto della visione del volto [di Dio] e in che modo sarà conseguito Così grande è la dolcezza con la quale ora, Signore, nutri la mia anima78, che essa può avvalersi in qualche modo delle cose di cui fa esperienza in questo mondo e di quelle graditissime similitudini che tu le ispiri79! Ad esempio, poiché tu sei, Signore, quella forza, o principio, dal quale derivano tutte le cose, e il tuo volto è la forza e il principio per il quale tutti i volti sono ciò che sono, allora mi volgo a quest’albero di noci, grande e altissimo, e cerco di vedere quale sia il suo principio. Vedo con l’occhio sensibile che è grande, ampio, colorato e carico di rami, foglie e noci. Poi, con l’occhio della mia mente vedo che quest’albero è esistito prima nel seme80, non nel modo in cui lo vedo qui, bensì in potenza. Considero attentamente la meravigliosa forza di quel seme, in cui erano presenti quest’albero intero, tutte le sue noci, tutta la forza seminale delle noci, e tutti gli alberi che sono contenuti [in potenza] nella forza seminale delle noci. E vedo che, in nessun tempo, questa forza può
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motu caeli ad plenum explicabilis, sed vis illa seminis, quamquam inexplicabilis, est tamen contracta, quia non nisi in hac specie nucum virtutem habet; quare licet in semine videam arborem, non tamen nisi in contracta virtute. Considero deinde, domine, omnem omnium arborum diversarum specierum seminariam virtutem contractam ad cuiuslibet speciem, et in ipsis seminibus video arbores in virtute. 23 Si igitur omnium virtutum seminum talium virtutem volo videre absolutam, quae sit virtus quae et principium dans virtutem omnibus seminibus, necesse est me transilire omnem seminalem virtutem, quae sciri et concipi potest, et subintrare ignorantiam illam, in qua nihil penitus maneat virtutis aut vigoris seminalis. Et tunc in caligine reperio stupidissimam virtutem nulla virtute, quae cogitari potest, accessibilem, quae est principium dans esse omni virtuti seminali et non seminali. Quae quidem virtus absoluta et superexaltata cum det cuilibet virtuti seminali virtutem talem, in qua complicat virtualiter arborem cum omnibus, quae ad arborem sensibilem requiruntur et esse arboris consequuntur, tunc principium illud et causa in se habet complicite et absolute ut causa, quidquid dat effectui. Et sic video virtutem illam esse faciem seu exemplar omnis speciei arboreae et cuiuslibet arboris, ubi video arborem illam nucum non ut in contracta virtute sua seminali, sed ut in causa et conditrice illius virtutis seminalis. 24 Et ideo video arborem illam quandam explicationem virtutis seminalis et semen quandam explicationem omnipotentis virtutis. Et video quod, sicut arbor in semine non est arbor sed vis seminis et vis illa seminis est, ex qua explicatur arbor, ita quod nihil est reperibile in arbore, quod non procedat ex virtute seminis, ita virtus seminalis in causa sua, quae est virtus virtutum, non est virtus seminalis sed virtus absoluta. Et ita arbor est in te deo meo tu ipse,
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mai essere esplicata pienamente attraverso il movimento dei cieli. Tuttavia, la forza del seme, sebbene non sia mai [pienamente] esplicabile, è pur sempre contratta, in quanto il seme ha forza solo in riferimento alla specie cui appartiene l’albero di noci. Di conseguenza, anche se nel seme vedo l’albero, lo vedo tuttavia solo in una forza che è contratta. Prendo poi in considerazione, Signore, la forza dei semi di tutte le diverse specie di alberi, una forza che è contratta secondo ciascuna specie, ed in questi semi vedo in potenza i rispettivi alberi. Se, pertanto, voglio vedere la forza assoluta81 di tutte le forze di tali semi – quella forza, cioè, che costituisce il principio di tutti i semi e che conferisce a ciascuno di essi la propria forza –, devo necessariamente oltrepassare ogni tipo di forza seminale che io posso conoscere o concepire, e devo entrare in quell’ignoranza nella quale non rimane assolutamente più nulla che riguardi la forza o il vigore dei semi. E allora, in questa caligine trovo una forza assolutamente stupefacente, alla quale non si può accedere con nessun tipo di forza che noi possiamo pensare, e che è il principio che dà l’essere a ogni forza, sia seminale, sia non seminale. È questa forza assoluta e superesaltata che conferisce ad ogni forza seminale quella forza nella quale risulta complicato l’albero, insieme a tutto ciò che è richiesto ad un albero sensibile e che consegue all’essere di un albero. Di conseguenza, questo principio e questa causa ha in sé, in maniera complicata e assoluta, in quanto causa, tutto ciò che viene conferito all’effetto82. In questo modo, vedo che questa forza è il volto, o l’esemplare, di ogni specie di albero e di qualsiasi albero particolare, ed in essa vedo questo albero di noci non come esso è presente nella forza contratta del suo seme, ma come esso è presente nella causa creatrice di quella forza seminale. E così vedo anche che quest’albero è una certa esplicazione della forza del seme e che il seme è una certa esplicazione della forza dell’onnipotente. Vedo inoltre che, l’albero, nel seme, non è albero, ma forza seminale, e che quella del seme è la forza dalla quale si esplica l’albero, in modo tale che nell’albero non c’è nulla che non proceda dalla forza del seme. Analogamente, vedo che la forza del seme, nella sua causa, che è la forza delle forze, non è la forza del seme, ma è la forza assoluta83. E così in te, mio Dio, l’albero
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deus meus, et in te est veritas et exemplar sui ipsius. Similiter et semen arboris in te est veritas et exemplar sui ipsius, et arboris et seminis tu, deus, es veritas et exemplar. Et vis illa seminis, quae est contracta, est vis naturae speciei, quae est ad speciem contracta, et ei inest tamquam contractum principium. Sed tu, deus meus, es vis absoluta et ob hoc natura naturarum omnium. O deus, quorsum me perduxisti, ut videam faciem tuam absolutam esse faciem naturalem omnis naturae, esse faciem, quae est absoluta entitas omnis esse, esse artem et scientiam omnis scibilis. 25 Qui igitur faciem tuam videre meretur, omnia aperte videt et nihil sibi manet occultum. Omnia hic scit. Omnia habet, domine, qui te habet, omnia habet, qui te videt. Nemo enim te videt, nisi qui te habet. Nemo potest te accedere, quia inaccessibilis. Nemo igitur te capiet, nisi tu te dones ei. Quomodo habebo te, domine, qui non sum dignus, ut compaream in conspectu tuo? Quomodo ad te perveniet oratio mea, qui es omni modo inaccessibilis? Quomodo petam te? Nam quid absurdius quam petere, ut tu te dones mihi, qui es omnia in omnibus? Et quomodo dabis tu te mihi, si non pariter dederis mihi caelum et terram et omnia, quae in eis sunt? Immo quomodo dabis tu te mihi, si etiam me ipsum non dederis mihi? Et cum sic in silentio contemplationis quiesco, tu, domine, intra praecordia mea respondes dicens: Sis tu tuus et ego ero tuus. O domine, suavitas omnis dulcedinis, posuisti in libertate mea, ut sim, si voluero, mei ipsius. Hinc nisi sim mei ipsius, tu non es meus. Necessitares enim libertatem, cum tu non possis esse meus, nisi et ego sim mei ipsius. Et quia hoc posuisti in libertate mea, non me necessitas, sed exspectas, ut ego eligam mei ipsius esse. 26 Per me igitur stat, non per te, domine, qui non contrahis bonitatem tuam maximam, sed largissime effundis in omnes capaces. Tu autem, domine, es bonitas tua. Quomodo autem ero mei ipsius, nisi tu, domine, docueris me? Hoc autem tu me doces, ut sensus
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è te stesso, Dio mio, ed in te è la verità e l’esemplare di se stesso. In modo simile, anche il seme dell’albero, in te, è la verità e l’esemplare di se stesso; tu, infatti, Dio, sei la verità e l’esemplare sia dell’albero, sia del seme. E la forza del seme, che è contratta, è la forza di una natura specifica, che è contratta nella specie ed è presente in essa come un principio contratto. Tu, invece, Dio mio, sei la forza assoluta e, quindi, la natura di tutte le nature. O Dio, fino a dove mi hai condotto per farmi vedere che il tuo volto assoluto84 è il volto naturale di ogni natura, il volto che è l’entità assoluta di ogni ente, l’arte e la conoscenza di tutto ciò che si può conoscere85! Di conseguenza, chi è degno di vedere il tuo volto vede tutte le cose con chiarezza e nulla gli resta nascosto. Colui che possiede te, Signore, conosce ogni cosa, possiede ogni cosa. Chi vede te possiede ogni cosa; nessuno, infatti, può vederti, se non ti possiede. Nessuno può avere accesso a te, perché tu sei inaccessibile. Nessuno, pertanto, ti coglierà, se non sei tu che ti doni a lui. In che modo, allora, ti possiederò, Signore, io che non sono degno di comparire al tuo cospetto? In che modo la mia preghiera giungerà a te, che sei del tutto inaccessibile? In che modo potrò chiedere di avere te? Che cosa c’è infatti di più assurdo del chiedere a te, che sei tutto in tutto, di donarti a me? E come potrai donarti a me, senza darmi, al tempo stesso, il cielo, la terra e tutto ciò che vi è contenuto? Anzi, come potrai donarti a me, se non avrai donato anche me a me stesso? E mentre vado quietamente riflettendo su queste cose, nel silenzio della mia contemplazione, tu, Signore, nell’intimità del mio cuore mi rispondi dicendo: «Sii tuo ed io sarò tuo»86. O Signore, dolcezza di ogni dolcezza, hai rimesso alla mia libertà la decisione di essere di me stesso, se lo vorrò. Pertanto, se io non sono di me stesso, tu non sei mio. Altrimenti, costringeresti la mia libertà, poiché tu non puoi essere mio, se anche io non sono di me stesso. E poiché hai rimesso questa scelta alla mia libertà, non mi costringi, ma aspetti che io decida di essere di me stesso. Dipende da me, quindi, non da te, Signore, che non limiti la tua immensa bontà, ma la doni senza risparmio87 a tutti coloro che sono capaci di riceverla. Ma tu, Signore, sei la tua stessa bontà. Come potrò, allora, essere di me stesso, se tu, Signore, non me lo insegnerai? Tu mi insegni che i sensi devono obbedire alla ragione
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oboediat rationi et ratio dominetur. Quando igitur sensus servit rationi, sum mei ipsius. Sed non habet ratio, unde dirigatur, nisi per te, domine, qui es verbum et ratio rationum. Unde nunc video, si audiero verbum tuum, quod in me loqui non cessat et continue lucet in ratione, ero mei ipsius, liber et non servus peccati, et tu eris meus et dabis mihi videre faciem tuam, et tunc salvus ero. Benedictus sis igitur, deus, in donis tuis, qui solus potens es consolari animam meam et erigere, ut speret te ipsum assequi et te frui uti suo proprio dono et omnium desiderabilium thesauro infinito. 27
CAPITULUM VIII
Quomodo visio dei est amare, causare, legere et in se omnia habere Non quiescit cor meum, domine, quia amor tuus ipsum inflammavit desiderio tali, quod non nisi in te solo quiescere potest. Incepi orare dominicam orationem, et tu inspirasti mihi, ut attenderem, quomodo tu es pater noster. Amare tuum est videre tuum. Paternitas tua est visio, quae nos omnes amplectitur paterne; dicimus enim: pater noster. Es enim universalis pater pariter et singularis; quisque enim dicit, quia tu es pater noster. Paternus amor omnes et singulos filios comprehendit; ita enim diligit omnes pater quod singulos, quia ita omnium pater quod singulorum; ita unumquemque filium diligit, quod quisque filiorum se omnibus praeferri concipit. 28 Si igitur tu es pater et noster pater, nos igitur tui filii. Praevenit autem paterna dilectio filialem. Quamdiu nos tui filii te ut filii intuemur, tu non cessas nos paterne respicere. Eris igitur provisor noster paternus curam de nobis habens paternam. Visio tua providentia est. Quod si nos filii tui abdicamus te patrem, desinimus esse filii nec sumus tunc liberi filii in nostra potestate, sed imus in
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trattato sulla visione di dio, vii 26 - viii 28
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e la ragione deve governare. Quando i sensi sono sottoposti alla ragione, io sono di me stesso. Ma la ragione non sa dove dirigersi, se non grazie a te, Signore, che sei il Verbo e la Ragione delle ragioni. Perciò, ora vedo che, se avrò ascoltato la tua parola, che non cessa mai di parlare in me e risplende continuamente nella mia ragione, io sarò di me stesso, libero e non schiavo del peccato88, e tu sarai mio e mi concederai di vedere il tuo volto, e allora sarò salvo. Che tu sia benedetto, Dio, nei tuoi doni, tu che sei il solo che può dare conforto e incoraggiare la mia anima, in modo tale che essa possa sperare di giungere a te e di fruire di te, suo dono e tesoro infinito89, ricco di tutto ciò che si può desiderare. CAPITOLO VIII
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Il vedere di Dio significa amare, causare, leggere e avere in sé tutte le cose Non ha pace il mio cuore, Signore, perché il tuo amore lo ha infiammato90 di un desiderio così grande che soltanto in te può trovar pace91. Ho cominciato a recitare la preghiera del Signore e tu mi hai ispirato a considerare il modo in cui sei nostro padre. Il tuo amare è il tuo vedere. Il tuo essere padre è la visione che ci abbraccia tutti paternamente; diciamo, infatti, «Padre nostro». Sei padre di tutti e di ciascuno singolarmente; ciascuno, infatti, dice che tu sei nostro padre. Il tuo amore paterno abbraccia tutti i figli insieme e ciascuno singolarmente. Il padre, infatti, ama tutti i figli in modo tale da amare ciascuno di essi, in quanto egli è il padre di tutti come lo è di ciascuno; ed ama ognuno dei suoi figli in una maniera tale per cui ogni figlio pensa di essere preferito a tutti gli altri. Se, dunque, tu sei padre e sei nostro padre, noi siamo tuoi figli. L’amore paterno, tuttavia, precede quello filiale. Finché noi, che siamo tuoi figli, ti guardiamo come figli, tu non cessi di guardarci come un padre. Sarai, pertanto, il padre che provvede a noi, che si prende cura di noi in modo paterno. La tua visione è provvidenza. Ma se noi, che siamo tuoi figli, rinunciamo a te come padre, cessiamo di essere tuoi figli, e allora non siamo più dei figli liberi, che sono padroni di se stessi, ma andiamo in una regione lon-
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regionem longinquam separantes nos a te et tunc subimus servitutem gravem sub principe, qui tibi deo adversatur. Sed tu, pater, qui ob concessam nobis libertatem, quia filii tui sumus, qui es ipsa libertas, quamquam sinas nos abire et libertatem et substantiam optimam consumere secundum sensuum corrupta desideria, tamen non penitus nos deseris, sed continue sollicitando ades et in nobis loqueris et nos revocas, ut ad te redeamus, paratus semper respicere nos priori paterno oculo, si reversi et ad te conversi fuerimus. O pie deus, respice in me, qui compunctus de misero servitio lubricae foeditatis porcorum, ubi fame defeci, nunc revertor, ut in domo tua qualitercumque pasci queam. 29 Pasce me visu tuo, domine, et doce, quomodo visus tuus videt omnem visum videntem et omne visibile et omnem actum visionis et omnem virtutem videntem et omnem virtutem visibilem et omne ex ipsis exsurgens videre, quia videre tuum est causare; omnia vides, qui omnia causas. Doce me, domine, quomodo unico intuitu omnia simul et singulariter discernas. Cum aperio librum ad legendum, video confuse totam chartam; et si volo discernere singulas litteras, syllabas et dictiones, necesse est, ut me singulariter ad singula seriatim convertam; et non possum nisi successive unam post aliam litteram legere et unam dictionem post aliam et passum post passum. Sed tu, domine, simul totam chartam respicis et legis sine mora temporis; et si duo nostrum legunt idem, unus citius, alius tardius, cum utroque legis et videris in tempore legere, quia legis cum legentibus, et supra tempus omnia vides et legis simul; videre enim tuum est legere tuum. Omnes libros scriptos et qui scribi possunt simul et semel supra moram temporis ab aeterno vidisti et legisti simul et cum hoc cum omnibus legentibus eosdem legis seriatim. Nec aliud legis in aeternitate et aliud in tempore cum legentibus, sed idem eodem te modo habens, quia non es mutabilis, cum
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trattato sulla visione di dio, viii 28-29
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tana, separandoci da te; e qui subiamo una pesante schiavitù, sotto il dominio di un principe che si oppone a te, Dio. Ma tu, padre, sebbene permetta, per la libertà che ci hai concesso, in quanto siamo figli tuoi che sei la libertà stessa92, che ce ne andiamo a consumare la nostra libertà e tutte le nostre migliori sostanze seguendo i desideri corrotti dei sensi, non ci abbandoni del tutto, ma, con continue sollecitazioni, sei presente, parli in noi e ci richiami a tornare da te, sempre pronto a guardarci con l’occhio paterno di prima, se torniamo indietro e ci rivolgiamo a te. O Dio pietoso, guarda a me, che, pentito del misero servizio reso tra la viscida sporcizia dei porci, dove morii quasi di fame, ora ritorno per potermi nutrire un po’ nella tua casa. Nutrimi con il tuo sguardo, Signore, e insegnami come il tuo sguardo veda ogni vista che vede, ogni cosa visibile e ogni atto di visione, e come esso veda ogni potenza di vedere, ogni potenza di essere visto e ogni vedere che scaturisce da entrambi. Poiché il tuo vedere è causare93, tu, che sei la causa di tutto, vedi tutto. Insegnami, Signore, come con un unico sguardo tu sappia cogliere distintamente tutte le cose insieme e ciascuna singolarmente. Quando io apro un libro per leggerlo, vedo tutta la pagina in modo confuso; e se voglio distinguere le singole lettere, le sillabe e le parole, devo rivolgermi a ciascuna di esse, guardandole una dopo l’altra; e non posso leggere se non una lettera dopo l’altra, una parola dopo l’altra e un brano dopo l’altro. Tu, invece, Signore, guardi contemporaneamente tutta la pagina e leggi senza intervalli di tempo; e se due di noi leggono la stessa cosa, uno più velocemente e l’altro più lentamente, tu leggi insieme ad entrambi e sembri leggere nel tempo, perché leggi insieme a noi che leggiamo. Ma tu vedi e leggi simultaneamente tutte le cose al di fuori del tempo; il tuo vedere, infatti, è il tuo stesso leggere. Tutti i libri che sono stati scritti e tutti quelli che possono essere scritti tu li hai visti sin dall’eternità, e li hai letti simultaneamente, tutti insieme e in una sola volta, senza alcun intervallo di tempo; eppure, leggi anche in successione, insieme a coloro che leggono quegli stessi libri. E tu non leggi una cosa nell’eternità e un’altra nel tempo insieme a coloro che leggono, ma leggi la stessa cosa, in quanto sei sempre lo stesso, dato che, essendo tu l’eternità immobile, non sei soggetto
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sis fixa aeternitas. Aeternitas autem, quia non deserit tempus, cum tempore moveri videtur, licet motus in aeternitate sit quies. 30 Domine, tu vides et habes oculos. Es igitur oculus, quia habere tuum est esse; ob hoc in te ipso omnia specularis. Nam si in me visus esset oculus sicut in te deo meo, tunc in me omnia viderem, cum oculus sit specularis et speculum quantumcumque parvum in se figurative recipiat montem magnum et cuncta, quae in eius montis superficie exsistunt; et sic omnium species sunt in oculo speculari. Tamen quia visus noster non videt per medium oculi specularis nisi id particulariter, ad quod se convertit, quia vis eius non potest nisi particulariter determinari per obiectum, ideo non videt omnia, quae in speculo oculi capiuntur. Sed visus tuus, cum sit oculus seu speculum vivum, in se omnia videt, immo quia causa omnium visibilium, hinc omnia in causa et ratione omnium, hoc est in se ipso, complectitur et videt. Oculus tuus, domine, sine flexione ad omnia pergit. Quod enim oculus noster se ad obiectum flectit, ex eo est, quia visus noster per angulum quantum videt. Angulus autem oculi tui, deus, non est quantus sed est infinitus, qui est et circulus, immo et sphaera infinita, quia visus est oculus sphaericitatis et perfectionis infinitae. Omnia igitur in circuitu et sursum et deorsum simul videt. 31 O quam admirandus est visus tuus, qui est theos, deus, omnibus ipsum perscrutantibus. Quam pulcher et amabilis est omnibus te diligentibus. Quam terribilis est omnibus, qui dereliquerunt te, domine deus meus. Visu enim vivificas, domine, omnem spiritum et laetificas omnem beatum et fugas omnem maestitiam. Respice igitur in me misericorditer, et salva facta est anima mea.
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trattato sulla visione di dio, viii 29-31
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a mutamento94. Poiché, tuttavia, l’eternità non abbandona il tempo, essa sembra muoversi insieme con il tempo, sebbene nell’eternità il moto sia quiete. Signore, tu vedi e hai occhi. Pertanto, sei occhio, perché il tuo avere è essere; per questo motivo, in te stesso contempli tutte le cose. Infatti, se anche in me la vista fosse occhio, come lo è in te, Dio mio, allora vedrei in me tutte le cose, poiché l’occhio è come uno specchio, e lo specchio, per quanto piccolo, accoglie in sé, sotto forma di immagine riflessa, anche una grande montagna e tutte le cose che si trovano sulla sua superficie. In modo analogo, anche nello specchio dell’occhio vi sono le specie di tutte le cose. Tuttavia, attraverso lo specchio dell’occhio, la nostra vista vede solo il particolare a cui essa è rivolta, in quanto la nostra facoltà visiva può essere determinata dall’oggetto soltanto in un modo particolare; per questo motivo, la nostra vista non vede tutto ciò che viene accolto nello specchio dell’occhio. La tua vista, invece, essendo occhio, ossia uno specchio vivo95, vede in se stessa tutte le cose; anzi, essendo la causa di tutte le cose visibili, la tua vista abbraccia e vede tutte le cose in quella che è la causa e la ragione di tutte le cose, ossia in se stessa. Il tuo occhio, Signore, si volge a tutte le cose senza aver bisogno di muoversi per orientarsi verso di esse. Il motivo per il quale, infatti, il nostro occhio ha bisogno di muoversi per orientarsi verso un oggetto risiede nel fatto che la nostra vista vede a partire da un angolo [visuale] di una determinata quantità96. L’angolo del tuo occhio, invece, o Dio, non ha quantità, ma è infinito97, ed è un cerchio, o meglio una sfera infinita, perché la tua vista è un occhio dotato di una sfericità e di una perfezione infinite. La tua vista, pertanto, vede simultaneamente tutte le cose, all’intorno, in alto e in basso. Quanto è meravigliosa, Dio, la tua vista, che è «theós», per tutti coloro che la contemplano. Quanto è bella e degna d’amore per tutti coloro che ti amano. Quanto è terribile per coloro che ti hanno abbandonato, signore Dio mio. Con la tua vista, Signore, vivifichi ogni spirito, e dai gioia a ogni beato e scacci ogni tristezza. Guarda, allora, verso di me pieno di misericordia, e la mia anima sarà salvata.
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CAPITULUM IX
Quomodo est universalis pariter et particularis et quae via ad visionem dei Admiror, domine, postquam tu simul omnes et singulos respicis, uti haec etiam picta figurat imago, quam intueor, quomodo coincidat in virtute tua visiva universale cum singulari. Sed attendo, quod propterea non capit imaginatio mea, quomodo hoc fiat, quia quaero in virtute visiva mea visionem tuam; quae cum non sit ad organum sensibile contracta sicut mea, ideo decipior in iudicio. Visus tuus, domine, est essentia tua. Si igitur ad humanitatem, quae est simplex et una in omnibus hominibus, respexero, reperio ipsam in omnibus et singulis hominibus; et quamvis in se non sit nec orientalis nec occidentalis nec meridionalis nec septentrionalis, tamen in hominibus orientalibus est in oriente et in occidentalibus in occidente. Et sic, quamvis de essentia humanitatis non sit motus nec quies, movetur tamen cum moventibus hominibus et quiescit cum quiescentibus et stat cum stantibus simul et semel pro eodem nunc, quia non deserit homines humanitas, sive moveantur sive non moveantur, sive dormiant sive quiescant. 33 Unde haec natura humanitatis, quae est contracta et non reperitur extra homines, si illa sic se habet, quod non plus uni homini adest quam alteri et ita perfecte uni quasi nulli alteri, multo altius humanitas incontracta, quae est exemplar et idea istius contractae naturae et quae est ut forma et veritas istius formae humanitatis contractae; nam humanitatem contractam in individuis numquam deserere potest; est enim forma dans esse ipsi naturae formali. Non igitur sine ipsa esse potest specifica forma, cum per se non habeat esse; est enim ab illa, quae per se est, ante quam non est alia. For-
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trattato sulla visione di dio, ix 32-33
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CAPITOLO IX
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Come la visione di Dio sia universale e particolare al tempo stesso, e quale sia la via che conduce ad essa Dal momento che tu, Signore, guardi tutti e, ad un tempo, ciascuno singolarmente, come mostra anche questa immagine dipinta che osservo, mi chiedo con meraviglia come sia possibile che nella tua forza visiva l’universale coincida con il particolare98. Ma, se presto attenzione, mi rendo conto del fatto che la mia immaginazione non riesce a comprendere in che modo ciò possa avvenire perché io cerco di spiegare la tua visione facendo riferimento alla mia facoltà visiva; in questo modo, tuttavia, il mio giudizio è tratto in inganno, in quanto la tua visione non è contratta in un organo sensibile come lo è la mia. La tua vista, Signore, è la tua essenza. Se mi volgo, pertanto, a considerare l’umanità, che è semplice e unica in tutti gli uomini99, la trovo in tutti gli uomini e in ciascuno di essi; e sebbene, in se stessa, non sia né orientale, né occidentale, né meridionale, né settentrionale, tuttavia negli uomini orientali essa è ad oriente e negli uomini occidentali ad occidente. E così, sebbene all’essenza dell’umanità non appartengano né il movimento, né la quiete, essa, tuttavia, si muove con gli uomini che si muovono, riposa con gli uomini che riposano e sta ferma con coloro che restano nello stesso luogo; e ciò avviene contemporaneamente ed in una sola volta nel medesimo istante, in quanto l’umanità non abbandona gli uomini, sia che si muovano sia che non si muovano, sia che dormano sia che riposino. Questa natura dell’umanità, pertanto, che è contratta e non si trova al di fuori degli uomini100, è tale da non essere presente più in un uomo che in un altro, ed in uno è presente in maniera così perfetta come se non fosse presente in nessun altro. Se è così, ciò vale, allora, in maniera molto più elevata per quanto riguarda l’umanità incontratta, la quale è l’esemplare e l’idea della natura contratta, ed è la forma e la verità di questa forma dell’umanità contratta. L’umanità incontratta, infatti, non può mai abbandonare l’umanità contratta nei singoli individui, in quanto è la forma che dà l’essere alla stessa forma della natura dell’uomo. Senza di essa, non può esistere la forma che è propria di una specie, in quanto una tale forma non ha l’essere da se stessa, ma deriva da quella forma che esi-
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ma igitur illa, quae dat esse speciei, est absoluta forma; et tu es illa, deus, qui es formator caeli et terrae et omnium. 34 Quando igitur respicio ad humanitatem contractam et per illam ad absolutam, scilicet videndo in contracto absolutum ut in effectu causam et in imagine veritatem et exemplar, occurris tu mihi, deus meus, quasi exemplar omnium hominum et homo per se, hoc est absolutus. Quando autem similiter in cunctis speciebus me ad formam formarum converto, in omnibus tu mihi ut idea et exemplar occurris. Et quia tu es absolutum exemplar et simplicissimum, non es compositus ex pluribus exemplaribus, sed es unum exemplar simplicissimum infinitum, ita quod omnium et singulorum, quae formari possunt, es verissimum et adaequatissimum exemplar. Es igitur essentia essentiarum dans contractis essentiis, ut id sint, quod sunt. Extra igitur te, domine, nihil esse potest. 35 Si igitur essentia tua penetrat omnia, igitur et visus tuus, qui est essentia tua. Sicut igitur nihil omnium, quae sunt, potest fugere ab esse suo proprio, ita nec ab essentia tua, quae dat esse essentiae omnibus, quare nec visum tuum. Omnia igitur et singula simul tu, domine, vides et cum omnibus, quae moventur, moveris et cum stantibus stas. Et quia reperiuntur, qui aliis stantibus moventur, tunc tu, domine, stas simul et moveris, progrederis simul et quiescis. Si enim moveri reperitur simul tempore cum quiescere in diversis contracte et nihil extra te esse potest nec motus extra te est nec quies, omnibus illis simul et semel et cuilibet totus ades, domine. Nec tamen moveris nec quiescis, quia es superexaltatus et absolutus ab omnibus illis, quae concipi aut nominari possunt. Stas igitur et progrederis et neque stas neque progrederis simul. Facies
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trattato sulla visione di dio, ix 33-35
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ste per sé e prima della quale non vi è alcun’altra forma. Pertanto, la forma che conferisce l’essere alla specie è la forma assoluta101 e tu, Dio, sei questa forma, in quanto sei colui che forma il cielo, la terra e tutte le cose. Pertanto, quando guardo all’umanità contratta e, per mezzo di essa, all’umanità assoluta, vedendo cioè nel contratto l’assoluto, come nell’effetto si vede la causa e nell’immagine la verità e l’esemplare102, mi appari tu, Dio mio, quale esemplare di tutti gli uomini e uomo per sé, ossia assoluto. Allo stesso modo, quando passo a considerare tutte le specie e mi rivolgo alla forma delle forme103, in tutte le specie mi appari tu quale idea ed esemplare. E poiché tu sei l’esemplare assoluto e semplicissimo104, non sei composto di molti esemplari, ma sei l’unico esemplare, semplicissimo e infinito, di tutte le cose che possono ricevere una forma e di ciascuna singolarmente, un esemplare verissimo e assolutamente adeguato105. Di conseguenza, tu sei l’essenza delle essenze106, che conferisce alle essenze contratte di essere ciò che esse sono. Al di fuori di te, pertanto, Signore, non può esistere nulla107. Se, dunque, la tua essenza penetra tutte le cose, lo stesso fa allora la tua vista, che è la tua essenza. Pertanto, come nessuna delle cose che esistono può sfuggire al proprio essere, così non può sfuggire alla tua essenza, che dà l’essere all’essenza di ogni cosa. Nessuna cosa, perciò, può sfuggire alla tua vista. Tu, Signore, vedi contemporaneamente tutte le cose e ciascuna, ti muovi insieme a tutte quelle che si muovono e stai fermo insieme a quelle che stanno ferme108. E poiché vi sono alcune cose che si muovono, mentre altre stanno ferme, tu, Signore, stai fermo e, ad un tempo, ti muovi, cammini e riposi contemporaneamente109. Infatti, se in cose diverse troviamo, in maniera contratta e nello stesso tempo, il muoversi e lo star fermi, e se nulla può esistere al di fuori di te, allora neppure il movimento e la quiete possono esistere al di fuori di te. Tu, Signore, sei presente contemporaneamente e in una sola volta in tutte queste cose, e sei presente come un tutto in ciascuna di esse. Ciononostante, tu, Signore, non ti muovi, né stai in quiete, in quanto tu sei superesaltato e svincolato da tutte le cose che possono essere concepite o nominate. Pertanto, stai fermo e ti muovi e, al tempo stesso, non stai fermo né ti muovi. Questo volto dipinto mi mo-
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haec depicta mihi ostendit id ipsum. Nam si moveor, apparet visus eius moveri, quia me non deserit. Si me movente alius, qui faciem intuetur, stat, similiter eum visus non deserit, sed stat cum stante. Tamen proprie non potest faciei absolutae ab his respectibus convenire, quod stet et moveatur, quia est supra omnem stationem et motum in simplicissima et absolutissima infinitate. Post quam quidem infinitatem est motus et quies et oppositio et quicquid dici aut concipi potest. 36 Unde experior, quomodo necesse est me intrare caliginem et admittere coincidentiam oppositorum super omnem capacitatem rationis et quaerere ibi veritatem, ubi occurrit impossibilitas; et supra illam, omnem etiam intellectualem altissimum ascensum, quando pervenero ad id, quod omni intellectui est incognitum et quod omnis intellectus iudicat remotissimum a veritate, ibi es tu, deus meus, qui es absoluta necessitas. Et quanto impossibilitas illa caliginosa cognoscitur magis obscura et impossibilis, tanto verius necessitas relucet et minus velate adest et appropinquat. 37 Quapropter tibi gratias ago, deus meus, quia patefacis mihi, quod non est via alia ad te accedendi nisi illa, quae omnibus hominibus, etiam doctissimis philosophis, videtur penitus inaccessibilis et impossibilis, quoniam tu mihi ostendisti te non posse alibi videri quam ubi impossibilitas occurrit et obviat. Et animasti me, domine, qui es cibus grandium, ut vim mihi ipsi faciam, quia impossibilitas coincidet cum necessitate. Et repperi locum in quo revelate reperieris, cinctum contradictoriorum coincidentia. Et iste est murus paradisi, in quo habitas, cuius portam custodit spiritus altissimus rationis, qui nisi vincatur, non patebit ingressus. Ultra igitur coincidentiam contradictoriorum videri poteris et nequaquam citra. Si igitur impossibilitas est necessitas in visu tuo, domine, nihil est, quod visus tuus non videat.
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stra esattamente la stessa cosa. Se mi muovo, infatti, sembra che il suo sguardo si muova, dato che non mi abbandona. Se, mentre mi muovo, un altro che guardi quel volto sta fermo, lo sguardo del volto non abbandona neppure lui, ma resta fermo con colui che sta fermo. Al volto assoluto, che è svincolato da queste condizioni, non può tuttavia convenire lo star fermo o il muoversi, in quanto esso, nella sua semplicissima e assolutissima infinità, è al di sopra di ogni stasi e di ogni movimento. Il movimento e la quiete e la loro opposizione, e qualsiasi altra cosa possa essere detta o concepita, sono posteriori a questa infinità. Di conseguenza, ho qui la prova del fatto che è necessario che io entri nella caligine110, che ammetta, al di sopra di ogni capacità della ragione, la coincidenza degli opposti111, e che io ricerchi la verità là dove incontro l’impossibilità; e quando, al di sopra di ogni capacità della ragione e al di sopra anche di ogni più alta ascesa intellettuale112, sarò giunto a ciò che è sconosciuto a ogni intelletto e che ogni intelletto giudica lontanissimo dalla verità, lì stai tu, Dio mio, che sei la necessità assoluta. E quanto più si riconosce che quella impossibilità caliginosa è oscura e impossibile, con tanta più verità risplende la necessità, e tanto meno velatamente essa si fa presente e si avvicina. Per questo, ti rendo grazie, Dio mio, perché mi indichi con chiarezza che non vi è altra via d’accesso a te, se non quella che a tutti gli uomini, anche ai filosofi più dotti, sembra del tutto inaccessibile e impossibile. Mi hai mostrato, infatti, che non posso vederti in nessun altro luogo, se non là dove mi si mostra e mi si fa incontro l’impossibilità. E tu, Signore, che sei il cibo dei grandi, mi hai dato coraggio per far forza su di me, perché l’impossibilità coinciderà con la necessità113. E ho scoperto un luogo nel quale sarà possibile trovarti in maniera rivelata [senza veli], un luogo cinto dalla coincidenza dei contraddittori, ed è questo [ossia, la coincidenza degli contraddittori] il muro del paradiso, nel quale tu abiti, la cui porta è custodita dallo spirito più alto della ragione, che bisogna vincere se si vuole che l’ingresso si apra. Tu, pertanto, potrai essere visto al di là della coincidenza dei contraddittori, ma mai al di qua114. Se, dunque, o Signore, nella tua vista l’impossibilità è necessità, allora non vi è nulla che la tua vista non veda.
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CAPITULUM X
Quomodo videtur deus ultra coincidentiam contradictoriorum et quomodo videre est esse Sto coram imagine faciei tuae, deus meus, quam oculis sensibilibus respicio, et nitor oculis interioribus intueri veritatem, quae in pictura signatur. Et occurrit mihi, domine, quod visus tuus loquatur; nam non est aliud loqui tuum quam videre tuum, cum non differant realiter in te, qui es ipsa simplicitas absoluta; tunc clare experior, quod tu simul omnia vides et singula, quia ego simul et semel, dum praedico, ecclesiae loquor congregatae et singulis in ecclesia exsistentibus; unum verbum loquor et in illo unico singulis loquor. Id quod mihi est ecclesia, hoc tibi, domine, est totus hic mundus et singulae creaturae, quae sunt aut esse possunt. Sic igitur singulis loqueris et ea, quibus loqueris, vides. 39 Domine, qui es summa consolatio in te sperantium, inspiras, ut te laudem ex me. Nam dedisti mihi faciem unam, sicut voluisti, et illa per omnes, quibus praedico, singulariter et simul videtur. Videtur itaque facies mea unica per singulos et sermo simplex meus integre a singulis auditur. Ego autem non possum simul omnes loquentes discrete audire, sed unum post unum, neque omnes simul discrete videre, sed unum post unum. Sed si in me esset tanta vis, quod audiri cum audire coincideret, sic et videri et videre, sic et loqui et audire uti in te, domine, qui es summa virtus, tunc omnes et singulos simul audirem et viderem et sicut singulis simul loquerer, ita etiam in eodem tunc, quando loquerer, omnium et singulorum responsa viderem et audirem. 40 Unde in ostio coincidentiae oppositorum, quod angelus custodit in ingressu paradisi constitutus, te, domine, videre incipio.
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trattato sulla visione di dio, x 38-40
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CAPITOLO X
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Dio è visto al di là della coincidenza dei contraddittori, e il suo vedere è il suo essere Sono di fronte all’immagine del tuo volto, Dio mio, che guardo con i miei occhi sensibili, mentre con gli occhi interiori mi sforzo di cogliere la verità115 che è rappresentata nel dipinto. E mi sovviene, Signore, che la tua vista parla; il tuo parlare, infatti, non è altro che il tuo vedere, in quanto le due cose non differiscono realmente in te, che sei la stessa semplicità assoluta116. In ciò faccio una chiara esperienza del fatto che tu vedi tutte le cose e, contemporaneamente, ciascuna di esse singolarmente117, perché anche io, quando predico, parlo contemporaneamente e in una sola volta a tutta la chiesa raccolta insieme e a ciascuno dei singoli fedeli che sono presenti in chiesa. Faccio un unico discorso, ma in quell’unico discorso parlo ad ogni singolo fedele. Quel che per me è la chiesa, Signore, per te è la totalità del mondo e ciascuna delle singole creature che esistono o che possono esistere. È così, dunque, che tu parli alle singole creature, e vedi coloro ai quali parli. Signore, che sei la più grande consolazione di coloro che sperano in te, ispirami in modo che io sappia trarre da me un motivo per lodarti. Mi hai dato, infatti, un solo volto, così come hai voluto, ed esso viene visto da tutti coloro ai quali predico e, contemporaneamente, da ciascuno di essi singolarmente. E così, il mio volto unico viene visto da ciascuno dei singoli fedeli e il mio semplice sermone è udito nella sua interezza da ognuno di essi. Io invece non posso udire distintamente tutti quelli che parlano insieme, ma posso udirli solo uno dopo l’altro, così come non posso vederli distintamente tutti insieme, ma li vedo uno dopo l’altro. Se in me, tuttavia, vi fosse una forza così grande che l’essere udito coincidesse con l’udire, come pure l’essere visto con il vedere e il parlare con l’udire, come avviene in te, Signore, che sei forza somma, allora udirei e vedrei tutti e, contemporaneamente, ciascuno singolarmente. E come parlerei contemporaneamente a ciascuno, così, nello stesso momento in cui parlo, vedrei e udirei le risposte di tutti e di ciascuno singolarmente. Stando sulla porta della coincidenza degli opposti, custodita dall’angelo posto all’ingresso del paradiso118, comincio pertanto
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Nam ibi es, ubi loqui, videre, audire, gustare, tangere, ratiocinari, scire et intelligere sunt idem et ubi videre coincidit cum videri et audire cum audiri et gustare cum gustari et tangere cum tangi et loqui cum audire et creare cum loqui. Si ego viderem, sicut visibilis sum, non essem creatura, et si tu, deus, non videres, sicut visibilis es, non esses deus omnipotens. Ab omnibus creaturis es visibilis et omnes vides; in eo enim, quod omnes vides, videris ab omnibus. Aliter enim esse non possunt creaturae, quia visione tua sunt; quod si te non viderent videntem, a te non caperent esse. Esse creaturae est videre tuum pariter et videri. Loqueris verbo tuo omnibus, quae sunt, et vocas ad esse, quae non sunt. Vocas igitur, ut te audiant, et quando audiunt te, tunc sunt. Quando igitur loqueris, omnibus loqueris, et omnia te audiunt, quibus loqueris. Loqueris terrae et vocas eam ad humanam naturam, et audit te terra et hoc audire eius est fieri hominem. Loqueris nihilo, quasi sit aliquid, et vocas nihil ad aliquid, et audit te nihil, quia fit aliquid, quod fuit nihil. 41 O vis infinita, concipere tuum est loqui. Concipis caelum, et est, uti concipis. Concipis terram, et est, ut concipis. Dum concipis, vides et loqueris et operaris et quidquid dici potest. Sed admirabilis es, deus meus. Semel loqueris, semel concipis. Quomodo ergo non sunt omnia simul, sed successive multa? Quomodo tot sunt diversa ex unico conceptu? Tu me in limine ostii constitutum illustras, quia conceptus tuus est ipsa aeternitas simplicissima. Nihil est autem possibile fieri post aeternitatem simplicissimam. Ambit igitur infinita duratio, quae est ipsa aeternitas, omnem successionem. Omne igitur, quod nobis in successione apparet, nequaquam est post tuum conceptum, qui est aeternitas. Unicus enim conceptus tuus, qui est et verbum tuum, omnia et sin-
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a vederti, o Signore. Infatti, tu sei lì dove il parlare, il vedere, l’udire, il gustare, il toccare, il ragionare, il sapere e l’intendere sono un’unica ed identica cosa, e dove il vedere coincide con l’essere visto, l’udire con l’essere udito, il gustare con l’essere gustato, il toccare con l’essere toccato, il parlare con l’ascoltare e il creare con il parlare. Se fossi capace di vedere così come sono visibile agli altri, non sarei una creatura. E se tu, o Dio, non fossi capace di vedere come risulti visibile, non saresti Dio onnipotente. Tu sei visibile da tutte le creature e tutte le vedi. In effetti, è proprio per il fatto che le vedi tutte che tu sei visto da tutte. Le creature non possono esistere in altro modo, perché esistono in virtù della tua visione; se non vedessero te che le vedi, non riceverebbero l’essere da te. L’essere della creatura è il tuo vedere119 e, parimenti il tuo essere visto. Con la tua parola parli a tutte le cose che esistono, e chiami all’essere quelle che non esistono. Le chiami perché ti ascoltino e, quando ti ascoltano, esse sono120. Quando parli, pertanto, parli a tutte le cose, e tutte le cose alle quali parli ti ascoltano. Parli alla terra e la chiami a formare la natura umana121, e la terra ti ascolta e questo suo ascoltarti significa diventare uomo. Parli al nulla, come se fosse qualcosa, e chiami il nulla ad essere qualcosa, e il nulla ti ascolta, perché ciò che era nulla diventa qualcosa. O potenza infinita, il tuo concepire è il tuo parlare. Concepisci il cielo, e il cielo esiste così come lo concepisci. Concepisci la terra, e la terra esiste così come la concepisci. Mentre concepisci, vedi, parli, operi e compi qualsiasi altra azione che possa essere detta. Eppure, sei straordinario, Dio mio. Parli una sola volta, e concepisci una sola volta. Come mai allora le cose non sono tutte insieme contemporaneamente, si succedono una dopo l’altra e sono molteplici? Com’è possibile che da un unico concetto derivino tante cose così diverse le une dalle altre? A me, che sono sulla soglia della porta122, tu spieghi che ciò avviene perché il tuo concetto è la stessa eternità semplicissima123. Ora, posteriormente all’eternità semplicissima, non è possibile che venga fatto nulla. La durata infinita, che è la stessa eternità, abbraccia pertanto ogni successione temporale124. Tutto ciò che a noi appare come inserito in una successione non è quindi mai posteriore al tuo concetto, che è l’eternità. Il tuo unico concetto, infatti, che è anche il tuo Verbo, complica
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gula complicat. Verbum tuum aeternum non potest esse multiplex nec diversum nec variabile nec mutabile, quia simplex aeternitas. Sic video, domine, post tuum conceptum nihil esse, sed sunt omnia, quia concipis. Concipis autem in aeternitate. Successio autem in aeternitate est sine successione ipsa aeternitas, ipsum tuum verbum, domine deus; rem aliquam, quae nobis temporaliter apparet, non prius concepisti, quam est. In aeternitate enim, in qua concipis, omnis successio temporalis in eodem nunc aeternitatis coincidit. Nihil igitur praeteritum vel futurum, ubi futurum et praeteritum coincidunt cum praesenti. 42 Sed quod res in hoc mundo secundum prius et posterius exsistunt, est, quia tu prius res tales, ut essent, non concepisti; si enim prius concepisses, prius fuissent. Sed in cuius conceptu potest cadere prius et posterius, ut prius unum concipiat et postea aliud, ille non est omnipotens conceptus, sicut ille oculus, qui prius unum videt et postea aliud, non est omnipotens. Ita, quia tu es deus omnipotens, es intra murum in paradiso. Murus autem est coincidentia illa, ubi posterius coincidit cum priore, ubi finis coincidit cum principio, ubi alpha et o sunt idem. Semper igitur res sunt, quia tu dicis, ut sint, et non sunt prius, quia non dicis prius. Et quando ego lego Adam ante tot annos fuisse et hodie talem natum, videtur impossibile, quod Adam tunc fuit, quia tunc voluisti, et similiter hodie natus, quia nunc voluisti, et quod tamen non prius voluisti Adam esse quam hodie natum. Sed illud, quod videtur impossibile, est ipsa necessitas. Nam nunc et tunc sunt post verbum tuum et ideo accedenti ad te occurrunt in muro, qui circumdat locum, ubi habitas in coincidentia. Coincidit enim nunc et tunc in circulo muri paradisi. Tu vero, deus meus, ultra nunc et tunc exsistis et loqueris, qui es aeternitas absoluta.
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in se stesso tutte le cose e ciascuna di esse singolarmente125. Il tuo Verbo eterno non può essere molteplice, né differenziato, né variabile, né mutevole, in quanto è l’eternità semplice. In questo modo, vedo, Signore, che non vi è nulla che sia posteriore al tuo concetto, ma che tutte le cose sono in quanto tu le concepisci. E tu le concepisci nell’eternità. Ma, nell’eternità, la successione è l’eternità stessa, senza successione, ossia è il tuo stesso Verbo, signore Iddio. Una cosa qualsiasi, che a noi appare nel tempo, tu non l’hai prima concepita e poi portata nell’essere. Nell’eternità in cui tu la concepisci, infatti, ogni successione temporale coincide con lo stesso «istante» dell’eternità. Non vi può pertanto essere nulla di passato o di futuro, là dove il futuro e il passato coincidono con il presente126. Tuttavia, che le cose in questo mondo esistano secondo un prima e un poi, dipende dal fatto che tu non le hai concepite prima che esistessero; se le avessi concepite prima, infatti, esse sarebbero esistite prima. Ma colui che ha un concetto nel quale possono esservi un prima e un poi, per cui concepisce prima una cosa e poi un’altra, costui non ha un concetto onnipotente, così come non è onnipotente un occhio che vede prima una cosa e poi un’altra. Così, dato che tu sei Dio onnipotente, sei all’interno del muro del paradiso. Ora, il muro rappresenta quella coincidenza nella quale il «poi» coincide con il «prima», la fine con l’inizio, e dove l’alfa e l’omega sono identici127. Pertanto, le cose esistono sempre perché tu le chiami all’essere128, ma non esistono «prima» perché tu non le chiami prima. E quando leggo che Adamo è esistito tanti anni fa e che oggi è nato quel tale uomo, mi sembra impossibile che Adamo sia esisto allora perché tu allora hai voluto che esistesse, e allo stesso modo che oggi sia nata questa persona perché tu ora hai voluto che esistesse, e che tuttavia tu non abbia voluto l’esistenza di Adamo prima dell’esistenza della persona che è nata oggi. Ma ciò che mi sembra impossibile è la necessità stessa. Infatti, l’«ora» e l’«allora» sono posteriori al tuo Verbo. E così, a chi si avvicina a te, l’«ora» e l’«allora» appaiono, sul muro che circonda il luogo in cui abiti, nella loro coincidenza. E in effetti, sul muro che circonda il paradiso l’«ora» e l’«allora» coincidono. Tu, invece, Dio mio, che sei l’eternità assoluta, esisti e parli al di là dell’«ora» e dell’«allora».
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CAPITULUM XI
Quomodo videtur in deo successio sine successione Experior bonitatem tuam, deus meus, quae me miserum peccatorem non solum non spernit, sed quodam desiderio dulciter pascit. Inspirasti similitudinem mihi gratam circa unitatem verbi mentalis seu conceptus tui et varietatem eiusdem in successive apparentibus. Nam simplex conceptus horologii perfectissimi me ducit, ut sapidius rapiar ad visionem conceptus et verbi tui. Conceptus enim simplex horologii complicat omnem successionem temporalem. Et esto, quod horologium sit conceptus. Tunc licet prius audiamus sonum sextae horae quam septimae, non tamen auditur septima, nisi quando iubet conceptus, neque sexta est prius in conceptu quam septima aut octava, sed in unico conceptu horologii nulla hora est prior aut posterior alia, quamvis horologium numquam horam sonet, nisi quando conceptus iubet, et verum est dicere, quando audimus sextam sonare, quod tunc sex sonat, quia conceptus magistri sic vult. 44 Et quia horologium in conceptu dei est conceptus, tunc aliquantulum videtur, quomodo successio in horologio est: sine successione in verbo seu conceptu et quod in simplicissimo illo conceptu complicantur omnes motus et soni et quidquid in successione experimur, et quod omne illud, quod successive eveniet, non exit quo vis modo conceptum, sed est explicatio conceptus, ita quod conceptus dat esse cuilibet et quod propterea nihil prius fuit quam eveniat, quia prius non fuit conceptum ut esset. Sit igitur conceptus horologii quasi ipsa aeternitas; tunc motus in horologio est successio. Complicat igitur aeternitas successionem et explicat. Nam conceptus horologii, qui est aeternitas, complicat pariter et explicat omnia.
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CAPITOLO XI
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In Dio si vede la successione senza successione Faccio esperienza della tua bontà, Dio mio, che non soltanto non disprezza me, misero peccatore129, ma mi nutre dolcemente di un certo desiderio130. Mi hai ispirato un esempio gradito riguardo all’unità della tua parola mentale131 o del tuo concetto e alla sua differenziazione nelle cose che appaiono una dopo l’altra. Il semplice concetto di un orologio perfettissimo, infatti, mi offre una guida, in modo tale che io posso essere rapito ad una visione più intensa del tuo concetto e della tua parola. Il semplice concetto di un orologio complica ogni successione temporale. Supponiamo che questo orologio sia il concetto. Allora, sebbene ascoltiamo il suono della sesta ora prima di quello della settima, il suono della settima ora non viene udito se non nel momento in cui lo ordina il concetto. E nel concetto la sesta ora non viene prima della settima o dell’ottava; al contrario, nell’unico concetto dell’orologio nessuna ora precede o è successiva a un’altra, sebbene l’orologio non possa suonare mai un’ora se non quando il concetto glielo ordina. E quando sentiamo suonare la sesta ora, è vero dire che in quel momento suonano le sei, perché il concetto in base al quale l’artigiano ha costruito l’orologio vuole così. Ora, poiché nel concetto di Dio l’orologio è il concetto stesso, riusciamo in qualche modo a vedere che la successione delle ore che caratterizza l’orologio è senza successione nel verbo o nel concetto; che in quel concetto semplicissimo sono complicati tutti i moti, i suoni e tutto ciò di cui abbiamo esperienza nella successione delle ore132; che tutto ciò che accade secondo la successione non sfugge in alcun modo al concetto, ma è un’esplicazione del concetto, in modo che il concetto dà l’essere ad ogni cosa che avviene nella successione; che, per questo motivo, nessuna cosa è esistita prima di avvenire perché non è stata concepita prima che esistesse. Supponiamo, dunque, che il concetto dell’orologio sia l’eternità, e che, pertanto, il movimento presente nell’orologio sia la successione. L’eternità, quindi, complica la successione e la esplica. Infatti, il concetto dell’orologio, che è l’eternità, al tempo stesso complica ed esplica tutte le cose.
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sis, domine deus meus, qui me lacte similitudinum pascis et nutris, quousque solidiorem tribuas cibum. Deduc me, domine deus, per has semitas ad te, quia nisi duxeris, subsistere in via nequeo propter fragilitatem naturae corruptibilis et futtilis vasis, quod circumfero. Redeo iterum confisus adiutorio tuo, domine, ut te ultra murum coincidentiae complicationis et explicationis reperiam. Et cum per hoc ostium verbi et conceptus tui intro et exeo simul, pascua reperio dulcissima. Cum te reperio virtutem complicantem omnia, intro, cum te reperio virtutem explicantem, exeo, cum te reperio virtutem complicantem pariter et explicantem, intro pariter et exeo. 46 Intro de creaturis ad te creatorem, de effectibus ad causam; exeo de te creatore, de causa ad effectus. Intro et exeo simul, quando video, quomodo exire est intrare et intrare exire simul, sicut qui numerat, explicat pariter et complicat, explicat virtutem unitatis et complicat numerum in unitatem. Exire enim creaturae a te est creaturam intrare, et explicare est complicare. Et quando video te deum in paradiso, quem hic murus coincidentiae oppositorum cingit, video te nec complicare nec explicare disiunctive vel copulative. Disiunctio enim pariter et coniunctio est murus coincidentiae, ultra quem exsistis absolutus ab omni eo, quod aut dici aut cogitari potest. 47
CAPITULUM XII
Quod ubi invisibilis videtur, increatus creatur Apparuisti mihi, domine, aliquando ut invisibilis ab omni creatura, quia es deus absconditus infinitus. Infinitas autem est incomprehensibilis omni modo comprehendendi. Apparuisti deinde mihi ut ab omnibus visibilis, quia in tantum res est, in quantum tu eam vides, et ipsa non esset actu, nisi te videret. Visio enim praestat esse, quia est essentia tua. Sic, deus meus, es invisibilis pariter
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Che tu sia benedetto, signore Dio mio, che mi alimenti e mi nutri con il latte degli esempi, fino al momento in cui non mi elargirai un cibo più sostanzioso133. Conducimi a te, signore Dio, per questi sentieri, perché, se non sarai tu a condurmi, io non potrò mantenermi lungo la via, data la fragilità della mia natura corruttibile e del vaso di creta134 che porto in giro. Confidando nel tuo aiuto, mi volgo ora di nuovo per trovarti oltre il muro della coincidenza della complicazione e dell’esplicazione. E quando entro ed esco contemporaneamente dalla porta della tua parola e del tuo concetto, trovo pascoli dolcissimi. Quando scopro che tu sei la forza che complica ogni cosa, entro; quando scopro che sei la forza che esplica, esco; quando scopro che sei, al tempo stesso, la forza che complica ed esplica, entro ed esco contemporaneamente. Entro, quando passo dalle creature a te, che sei il creatore, [ossia] quando passo dagli effetti alla causa; esco, quando passo da te, che sei il creatore, alle creature, [ossia] dalla causa agli effetti135. Entro ed esco contemporaneamente, quando vedo che uscire è, ad un tempo, entrare ed entrare è uscire136, come colui che conta complica ed esplica al tempo stesso137: esplica la forza dell’unità e complica il numero nell’unità. L’uscire della creatura da te, infatti, è il suo entrare nel creato e l’esplicare è il complicare. E quando vedo te, Dio, nel paradiso, che è cinto da questo muro della coincidenza degli opposti, vedo che tu non complichi, né esplichi, in maniera disgiuntiva o copulativa. La disgiunzione come la congiunzione costituiscono, infatti, il muro della coincidenza, oltre il quale tu risiedi, libero da tutto ciò che può essere detto o pensato.
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CAPITOLO XII
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Dove si vede l’invisibile, l’increato è creato Mi sei apparso, talvolta, Signore, come invisibile da ogni creatura, poiché sei un Dio nascosto138 e infinito. E l’infinità non può essere compresa mediante nessun modo di comprendere. Ma poi mi sei apparso come visibile da parte di tutte le creature, perché una cosa esiste in quanto tu la vedi, ed essa non esisterebbe in atto se non ti vedesse. La visione, infatti, conferisce l’essere, poiché essa costituisce la tua essenza. Così, Dio mio, tu sei al tempo stesso vi-
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et visibilis. Invisibilis es, uti tu es, visibilis es, uti creatura est, quae in tantum est, in quantum te videt. Tu igitur, deus meus invisibilis, ab omnibus videris et in omni visu videris; per omnem videntem in omni visibili et omni actu visionis videris, qui es invisibilis et absolutus ab omni tali et superexaltatus in infinitum. 48 Oportet igitur me, domine, murum illum invisibilis visionis transilire, ubi tu reperieris. Est autem murus omnia et nihil simul. Tu enim, qui occurris, quasi sis omnia et nihil omnium simul, habitas intra murum illum excelsum, quem nullum ingenium sua virtute scandere potest. Occurris mihi aliquando, ut cogitem te videre in te omnia quasi speculum vivum, in quo omnia relucent. Et quia videre tuum est scire, tunc occurrit mihi te non videre in te omnia uti speculum vivum, quia sic scientia tua oriretur a rebus. Deinde occurris mihi, ut videas in te omnia quasi virtus se intuendo, uti virtus seminis arboris, si se intueretur, in se arborem videret in virtute, quia virtus seminis est arbor virtualiter. Et post hoc occurrit mihi, quod non videas te et in te omnia uti virtus; nam videre arborem in potentia virtutis refert a visione, qua arbor videtur in actu. Et tunc reperio, quomodo virtus tua infinita est ultra specularem et seminalem et coincidentiam radiationis et reflexionis causae et causati pariter, et quod illa absoluta virtus est visio absoluta, quae est ipsa perfectio et est super omnes videndi modos. Omnes enim modi, qui perfectionem visionis explanant, sine modo sunt visio tua, quae est essentia tua, deus meus. 49 Sed sine, domine piissime, ut adhuc vilis factura loquatur ad te. Si videre tuum est creare tuum et non vides aliud a te, sed tu ipse es obiectum tui ipsius, es enim videns et visibile atque videre, quomo-
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sibile e invisibile: invisibile, per come sei in te stesso, visibile, per quanto riguarda la creatura, la quale è in quanto ti vede. Perciò, Dio mio, tu, che sei invisibile, sei visto da tutte le creature139. E in ogni sguardo sei visto da ogni persona che vede; sei visto in ogni cosa visibile ed in ogni atto della visione, tu che sei invisibile, libero da ogni cosa di questo genere, e superesaltato all’infinito. È necessario, dunque, Signore, che io oltrepassi quel muro della visione invisibile, al di là del quale tu potrai essere trovato. Il muro è al tempo stesso tutte le cose e nessuna. Tu, che ti presenti alla mia vista come se fossi al tempo stesso tutto e niente di tutto140, abiti infatti al di là di quel muro altissimo che nessuna intelligenza può scalare con le sue forze. Talvolta ti presenti a me facendomi pensare che tu vedi tutte le cose in te stesso, come uno specchio vivo nel quale risplendano tutte le cose141. Ma poiché il tuo vedere è conoscere, allora mi sovviene che tu non vedi tutte le cose come uno specchio vivo, poiché in tal modo la tua conoscenza nascerebbe dalle cose. In seguito, mi viene in mente che tu vedi ogni cosa in te stesso, come fa una forza che vede intuitivamente se stessa. Per esempio, se la forza del seme di un albero vedesse intuitivamente se stessa, vedrebbe in sé un albero in potenza, poiché la forza del seme è potenzialmente un albero. Ma poi mi viene in mente che tu non vedi te stesso, ed in te stesso tutte le cose, come farebbe una forza; infatti, vedere un albero in potenza, come lo si vede nella forza di un seme, è diverso dalla visione con la quale l’albero viene visto in atto. E allora trovo che la tua forza infinita è al di là di quella dello specchio e del seme ed è al di là della coincidenza dell’irradiazione e della riflessione [dei raggi], e, parimenti, della causa e del causato. Trovo, altresì, che la tua forza assoluta è una visione assoluta, la quale è la perfezione stessa ed è al di sopra di tutti i modi di vedere142. La tua visione, infatti, che è la tua essenza, Dio mio, e che è senza alcun modo, è costituita da tutti i modi che dispiegano la perfezione della visione. Concedi, Signore santissimo, che la tua povera creatura parli ancora con te. Il tuo vedere è il tuo creare143, e tu non vedi qualcosa di altro da te, ma sei tu stesso l’oggetto della tua visione, in quanto tu sei colui che vede, ciò che viene visto e l’atto del vedere144. Se è così, com’è possibile, allora, che tu crei delle cose che sono diver-
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do tunc creas res alias a te? Videris enim creare te ipsum, sicut vides te ipsum. Sed consolaris me, vita spiritus mei, quoniam etsi occurrat murus absurditatis, qui est coincidentiae ipsius creare cum creari, quasi impossibile sit, quod creare coincidat cum creari – videtur enim, quod hoc admittere sit affirmare rem esse, antequam sit; quando enim creat, est, et non est, quia creatur – tamen non obstat. Creare enim tuum est esse tuum. Nec est aliud creare pariter et creari quam esse tuum omnibus communicare, ut sis omnia in omnibus et ab omnibus tamen maneas absolutus. Vocare enim ad esse, quae non sunt, est communicare esse nihilo. Sic vocare est creare, communicare est creari. Et ultra hanc coincidentiam creare cum creari es tu, deus absolutus et infinitus, neque creans neque creabilis, licet omnia id sint, quod sunt, quia tu es. 50 O altitudo divitiarum, quam incomprehensibilis es! Quamdiu concipio creatorem creantem, adhuc sum citra murum paradisi. Sic quamdiu concipio creatorem creabilem, nondum intravi, sed sum in muro. Sed absolutam cum te video infinitatem, cui nec nomen creatoris creantis nec creatoris creabilis competit, tunc revelate te inspicere incipio et intrare hortum deliciarum, quia nequaquam es aliquid tale, quod dici aut concipi potest, sed in infinitum super omnia talia absolute superexaltatus. Non es igitur creator, sed plus quam creator in infinitum, licet sine te nihil fiat aut fieri possit. Tibi laus et gloria per saecula infinita. 51
CAPITULUM XIII
Quod deus videtur absoluta infinitas Domine deus, adiutor te quaerentium, video te in horto paradisi et nescio, quid video, quia nihil visibilium video. Et hoc scio solum, quia scio me nescire, quid video, et numquam scire posse. Et nescio te nominare, quia nescio, quid sis. Et si quis mihi dixerit,
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se da te? Sembra, infatti, che tu crei te stesso145, così come vedi te stesso. Ma tu mi conforti, vita del mio spirito, perché, sebbene mi si ponga dinnanzi il muro dell’assurdità, che è il muro della coincidenza del creare con l’essere creato, come se fosse impossibile che il creare coincida con l’essere creato (sembra infatti che ammettere ciò significhi affermare che una cosa è prima di essere: quando crea, infatti, è e, ad un tempo, non è, in quanto è creata), questo muro non costituisce un ostacolo. Il tuo creare, infatti, è il tuo essere. Inoltre, il tuo creare e, parimenti, l’essere creato non sono altro che il comunicare il tuo essere a tutte le cose, in modo tale che tu sei tutto in tutto e rimani tuttavia separato da tutto. Chiamare all’essere le cose che non sono significa comunicare l’essere al nulla. Così, chiamare è creare, comunicare è essere creato. Ma tu, Dio, che sei assoluto e infinito, sei oltre questa coincidenza del creare con l’essere creato, non sei né creante, né creabile, sebbene tutte le cose siano ciò che sono perché tu sei. O profondità delle ricchezze, come sei incomprensibile146! Finché ti concepisco come un creatore che crea, sono ancora al di qua del muro del paradiso. Allo stesso modo, finché ti concepisco come un creatore creabile, non sono ancora entrato, ma sono sul muro. Ma quando vedo che tu sei l’infinità assoluta, alla quale non conviene né il nome di creatore che crea, né il nome di creatore creabile, allora inizio a vederti senza veli e ad entrare nel giardino delle delizie, poiché tu non sei nulla che possa essere detto o concepito, ma sei infinitamente al di sopra di tutte queste cose, superesaltato147 in modo assoluto. Non sei, dunque, creatore, ma sei infinitamente più che creatore, sebbene senza di te nulla è fatto o possa essere fatto. A te lode e gloria nei secoli infiniti. CAPITOLO XIII
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Dio appare come infinità assoluta Signore Dio, che vieni in aiuto di coloro che ti cercano148, ti vedo nel giardino del paradiso e non so che cosa vedo, perché non vedo nessuna delle cose visibili. E so soltanto questo, che so di non sapere che cosa vedo e che non potrò mai saperlo. E non so darti un nome, perché non so che cosa tu sia. E se qualcuno mi dices-
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quod nomineris hoc vel illo nomine, eo ipso, quod nominat, scio, quod non est nomen tuum. Terminus enim omnis modi significandi nominum est murus, ultra quem te video. Et si quis expresserit conceptum aliquem, quomodo concipi possis, scio illum conceptum non esse conceptum tuum. Omnis enim conceptus terminatur in muro paradisi. Et si quis expresserit aliquam similitudinem et dixerit secundum illam te concipiendum, scio similiter illam similitudinem non esse tuam. Sic si intellectum tui quis enarraverit volens modum dare, ut intelligaris, hic longe adhuc a te abest; separaris enim per altissimum murum ab omnibus his. Separat enim murus omnia, quae dici aut cogitari possunt, a te, quia tu es ab his omnibus absolutus, quae cadere possunt in conceptum cuiuscumque. 52 Unde, dum altissime elevor, infinitatem te video; ob hoc inaccessibilis, incomprehensibilis, innominabilis, immultiplicabilis et invisibilis. Et ideo oportet ad te accedentem super omnem terminum et finem et finitum ascendere. Sed quomodo ad te perveniet, qui es finis, ad quem tendit, si ultra finem ascendere debet? Qui ultra finem ascendit, nonne hic subintrat in indeterminatum et confusum et ita quoad intellectum ignorantiam et obscuritatem, quae sunt confusionis intellectualis? Oportet igitur intellectum ignorantem fieri et in umbra constitui, si te videre velit. Sed quid est, deus meus, intellectus in ignorantia? Nonne docta ignorantia? Non igitur accedi potes, deus, qui es infinitas, nisi per illum, cuius intellectus est in ignorantia, qui scilicet scit se ignorantem tui. Quomodo potest intellectus te capere, qui es infinitas? Scit se intellectus ignorantem et te capi non posse, quia infinitas. Intelligere enim infinitatem est comprehendere incomprehensibile. Scit intellectus se ignorantem te, quia scit te sciri non posse, nisi sciatur non scibile et videatur non visibile et accedatur non accessbile. 53 Tu, deus meus, es ipsa infinitas absoluta, quam video esse finem infinitum, sed capere nequeo, quomodo finis sit finis sine fine. Tu,
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se che ti chiami con questo o quel nome, allora, per il fatto stesso che vieni designato con un nome, saprei che quello non è il tuo nome149. Infatti, il limite che caratterizza ogni modo di designare che è proprio dei nomi costituisce il muro oltre il quale ti vedo. E se qualcuno formulasse un concetto con il quale pensa di poterti concepire, io so che quel concetto non è il tuo. Ogni concetto, infatti, raggiunge il suo termine ultimo nel muro del paradiso. E se qualcuno formulasse un qualche paragone e dicesse che tu devi essere concepito in quel modo, io saprei ugualmente che quel paragone non è adatto a te. Analogamente, se uno esponesse ciò che ha compreso di te, volendo così fornire un modo per comprenderti, costui sarebbe ancora molto lontano da te. Da tutti questi modi di intendere, infatti, ti separa un muro altissimo. Questo muro ti separa da te tutte le cose che possono essere dette o pensate, poiché tu sei libero da tutto ciò che può rientrare sotto qualsiasi tipo di concetto. Perciò, quando mi elevo a tanta altezza, vedo che tu sei l’infinità e che, di conseguenza, sei inaccessibile, incomprensibile, innominabile, non moltiplicabile e invisibile. E così è necessario che colui che si avvicina a te ascenda al di sopra di ogni termine, di ogni fine e di ogni cosa limitata. Ma come giungerà a te, che sei il fine al quale tende, se deve elevarsi al di sopra del fine? Chi si eleva al di sopra del fine non entra forse nell’indeterminato e nel confuso e, riguardo all’intelletto, nell’ignoranza e nell’oscurità, che sono segno di confusione intellettuale? È necessario, pertanto, che l’intelletto si faccia ignorante e si situi nell’ombra, se ti vuole vedere150. Ma che cos’è, Dio mio, l’intelletto nell’ignoranza? Non è forse la dotta ignoranza151? Dunque, non può accedere a te, Dio, che sei l’infinità, se non colui il cui intelletto è ignoranza, ossia colui il cui intelletto sa che non ti conosce. In che modo l’intelletto può cogliere te, che sei l’infinità? L’intelletto sa di non conoscerti, e sa che non ti può cogliere, perché sei l’infinità. Intendere l’infinità, infatti, significa comprendere l’incomprensibile152. L’intelletto sa che non ti conosce, perché sa che tu puoi essere conosciuto solo se viene conosciuto l’inconoscibile, viene visto l’invisibile, viene raggiunto l’irraggiungibile. Tu, Dio mio, sei la stessa infinità assoluta, che io vedo essere un fine infinito. Ma non sono in grado di comprendere come un fine
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deus, es tui ipsius finis, quia es, quidquid habes. Si habes finem, es finis. Es igitur finis infinitus, quia tui ipsius finis, quia finis tuus est essentia tua. Essentia finis non terminatur seu finitur in alio a fine, sed in se. Finis igitur, qui est sui ipsius finis, est infinitus et omnis finis, qui non est sui ipsius finis, est finis finitus. Tu, domine, quia es finis omnia finiens, ideo es finis, cuius non est finis, et sic finis sine fine seu infinitus, quod aufugit omnem rationem; implicat enim contradictionem. Quando igitur assero esse infinitum, admitto tenebram lucem, ignorantiam scientiam, impossibile necessarium. Et quia admittimus finem finiti esse, necessario infinitum admittimus seu finem ultimum sive finem sine fine. Sed non possumus non admittere entia finita, ita non possumus non admittere infinitum. Admittimus igitur coincidentiam contradictoriorum, super quam est infinitum. Coincidentia autem illa est contradictio sine contradictione, sicut finis sine fine. 54 Et tu mihi dicis, domine, quod sicut alteritas in unitate est sine alteritate, quia unitas, sic contradictio in infinitate est sine contradictione, quia infinitas. Infinitas est ipsa simplicitas, contradictio sine alteratione non est. Alteritas autem in simplicitate sine alteratione est, quia ipsa simplicitas. Omnia enim, quae dicuntur de absoluta simplicitate, coincidunt cum ipsa, quia ibi habere est esse. Oppositio oppositorum est oppositio sine oppositione, sicut finis finitorum est finis sine fine. Es igitur tu, deus, oppositio oppositorum, quia es infinitus, et quia es infinitus, es ipsa infinitas. In infinitate est oppositio oppositorum sine oppositione. Domine deus meus, fortitudo fragilium, video te ipsam infinitatem esse. Ideo nihil est tibi alterum vel diversum vel adversum. Infinitas enim non compatitur secum alteritatem, quia, cum sit infinitas, nihil est extra eam. Omnia enim includit et omnia ambit infinitas absoluta. Ideo,
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possa essere un fine senza fine. Tu, Dio, sei il fine di te stesso, perché sei tutto ciò che hai. Se hai un fine, sei un fine. Sei allora un fine infinito, perché sei il fine di te stesso, perché il tuo fine è la tua essenza. L’essenza del fine non ha il suo termine o il suo fine in qualcosa di altro dal fine, ma in se stessa. Il fine, che è fine di se stesso, è pertanto infinito, mentre ogni fine, che non è fine di se stesso, è un fine finito. Tu, Signore, poiché sei il fine che delimita ogni cosa, sei il fine del quale non c’è fine, e pertanto sei un fine senza fine, ossia infinito. Ciò sfugge ad ogni ragione, dato che implica contraddizione. Pertanto, quando affermo che esiste l’infinito, ammetto che la tenebra è luce, che l’ignoranza è conoscenza, che l’impossibile è necessario. E poiché ammettiamo che c’è un fine di ciò che è finito, necessariamente ammettiamo l’infinito, ossia un fine ultimo infinito o un fine senza fine. Non possiamo, tuttavia, non ammettere che vi siano enti finiti, per cui non possiamo non ammettere che esista l’infinito. Di conseguenza, ammettiamo la coincidenza dei contraddittori, oltre la quale sta l’infinito. Questa coincidenza è una contraddizione senza contraddizione, così come è un fine senza fine. E tu mi dici, Signore, che, come nell’unità l’alterità è presente senza alterità, perché [nell’unità l’alterità] è unità, così nell’infinità la contraddizione è presente senza contraddizione, perché [nell’infinità la contraddizione] è infinità. L’infinità è la stessa semplicità, mentre la contraddizione non esiste senza una qualche alterità. Ma nella semplicità l’alterità è presente senza alterità, perché [nella semplicità l’alterità] è la stessa semplicità. Tutto ciò che si predica dell’assoluta semplicità, infatti, coincide con essa, in quanto nell’assoluta semplicità l’avere è essere. L’opposizione degli opposti è un’opposizione senza opposizione, così come il fine delle cose finite è un fine senza fine. Dunque, tu, o Dio, sei l’opposizione degli opposti, perché sei infinito, e poiché sei infinito153, sei l’infinità stessa. Nell’infinità, l’opposizione degli opposti è senza opposizione. Signore Dio mio, fortezza dei deboli, vedo che tu sei l’infinità stessa. Per questo, nulla è altro rispetto a te, diverso da te o contrario a te. L’infinità, infatti, non tollera in sé l’alterità, poiché, essendo infinità, non c’è nulla che sia al di fuori di essa. L’infinità assoluta, in effetti, include in sé ogni cosa e abbraccia ogni cosa. Per-
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quando foret infinitas et aliud extra ipsam, non foret infinitas neque aliud. Infinitas enim non potest esse nec maior nec minor. 55 Nihil igitur est extra eam. Nisi enim omne esse includeret in se infinitas, non esset infinitas; quod si non foret infinitas, neque tunc foret finis neque tunc aliud neque diversum, quae sine alteritate finium et terminorum non possunt esse. Sublato igitur infinito nihil manet. Est igitur infinitas et complicat omnia et nihil esse potest extra eam. Hinc nihil ei alterum vel diversum. Infinitas igitur sic omnia est, quod nullum omnium. Infinitati nullum nomen convenire potest. Omne enim nomen potest habere contrarium. Infinitati autem innominabili nihil potest esse contrarium. Neque infinitas est totum, cui pars opponitur, neque esse potest pars. Neque est magna infinitas neque parva neque quidquam omnium, quae sive in caelo sive in terra nominari possunt. Supra omnia illa est infinitas. 56 Infinitas nulli est maior nec minor nec aequalis. Sed, dum infinitatem considero non esse maiorem vel minorem cuicumque dabili, dico ipsam esse mensuram omnium, cum nec sit maior nec minor. Et sic concipio eam aequalitatem essendi. Talis autem aequalitas est infinitas. Et ita non est aequalitas modo, quo aequalitati opponitur inaequale, sed ibi inaequalitas est aequalitas. Inaequalitas enim in infinitate est sine inaequalitate, quia infinitas; sic et aequalitas est infinitas in infinitate. Infinita aequalitas est finis sine fine. Unde licet non sit nec maior nec minor, non tamen propterea est aequalitas modo, quo capitur aequalitas contracta, sed est infinita aequalitas, quae non capit magis nec minus. Et ita non est magis aequalis uni quam alteri, sed ita aequalis uni quod omnibus, ita omnibus quod nulli omnium. Infinitum enim non est contrahibi-
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tanto, se vi fosse l’infinità e qualcosa di altro al di fuori di essa, non vi sarebbe né l’infinità, né qualcos’altro. L’infinità, infatti, non può essere né maggiore, né minore. Non vi è niente, pertanto, che sia al di fuori di essa. Se l’infinità non includesse in sé ogni essere, non sarebbe infinità; e se non esistesse l’infinità, non esisterebbe neppure il fine, e in questo caso non ci sarebbe neppure ciò che è altro e diverso, in quanto ciò che è altro e diverso non può esistere senza l’alterità dei fini e dei termini. Se viene pertanto tolta l’infinità non rimane nulla. Di conseguenza, vi è l’infinita ed essa complica in sé tutte le cose, e al di fuori di essa non può esistere nulla. Quindi, non vi è nulla che sia altro o diverso da essa. L’infinità, pertanto, è tutto in modo tale da essere nulla di tutto154. Nessun nome può convenire all’infinità. Ogni nome, infatti, può avere un contrario155. Ma all’infinità innominabile nulla può essere contrario. E l’infinità non è neppure un tutto al quale si opponga la parte, né essa può essere una parte. L’infinità non è né grande, né piccola, e non è una qualsiasi di tutte le cose che si possono nominare in cielo o in terra. L’infinità è al di sopra di tutte. L’infinità non è né maggiore, né minore, né uguale a nessuna cosa. Tuttavia, quando considero che l’infinità non è maggiore o minore di qualsiasi cosa che possa darsi, dico che essa è la misura di tutte le cose, dal momento che non è maggiore, né minore. E così la concepisco come l’uguaglianza dell’essere. Tale uguaglianza, del resto, è l’infinità. Non è dunque un’uguaglianza allo stesso modo dell’uguaglianza cui si oppone l’ineguale, ma, in essa, l’ineguaglianza è uguaglianza. Nell’infinità, infatti, l’ineguaglianza è presente senza ineguaglianza, in quanto [nell’infinità l’ineguaglianza] è infinità. Analogamente, anche l’uguaglianza, nell’infinità, è infinità. L’uguaglianza infinita è un fine senza fine. Perciò, sebbene non sia né maggiore, né minore, essa, tuttavia, non è quell’uguaglianza che noi concepiamo a proposito dell’uguaglianza contratta, ma è un’uguaglianza infinita che non ammette il più e il meno. Pertanto, non è più uguale rispetto ad una cosa che rispetto ad un’altra, ma è uguale ad una in modo tale da essere uguale a tutte, ed è uguale a tutte in modo tale da non essere uguale a nessuna di esse. L’infinito, infatti, non è contraibile, ma rimane assolu-
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le, sed manet absolutum. Si esset contrahibile ab infinitate, non esset infinitum. Non est igitur contrahibile ad aequalitatem finiti, licet non sit alicui inaequale. Inaequalitas enim quomodo conveniret infinito, cui non convenit nec magis nec minus? Infinitum ergo nec est dato quocumque aut maius aut minus aut inaequale; nec propter hoc est aequale finito, quia est supra omne finitum per infinitum. Et quia per infinitum est supra omne finitum, hoc est per se ipsum, tunc infinitum est absolutum penitus et incontrahibile. 57 O quam excelsus es, domine, supra omnia et cum hoc humilis, quia in omnibus. Si infinitas esset contrahibilis ad aliquod nominabile, ut est linea aut superficies aut species, ad se attraheret id, ad quod contraheretur; et ita implicat infinitum esse contrahibile, quia non contraheretur, sed attraheret. Si enim dixero infinitum contrahi ad lineam, ut cum dico infinitam lineam, tunc linea attrahitur in infinitum; desinit enim linea esse linea, quando non habet quantitatem et finem. Infinita linea non est linea, sed linea in infinitate est infinitas. Et sicut nihil addi potest infinito, ita infinitum non potest ad aliquid contrahi, ut sit aliud quam infinitum. Infinita bonitas non est bonitas, sed infinitas. Infinita quantitas non est quantitas, sed infinitas. Et ita de omnibus. Tu es deus magnus, cuius magnitudinis non est finis. Et ideo video te immensurabilem omnium mensuram, sicut infinitum omnium finem. Es igitur, domine, quia infinitus, sine principio et fine, es principium sine principio et finis sine fine, es principium sine fine principium, et neque principium neque finis, sed supra principium et finem ipsa absoluta infinitas semper benedicta.
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to. Se fosse contraibile, uscendo fuori dalla sua infinità, non sarebbe infinito. L’infinito, pertanto, non è contraibile ad un’uguaglianza con il finito, sebbene esso non sia disuguale rispetto a nessuna cosa. Come potrebbe infatti l’ineguaglianza convenire all’infinito, al quale non convengono né il più, né il meno? L’infinito, dunque, non è né maggiore, né minore, né disuguale rispetto a qualche cosa data, ma esso non è per questo uguale al finito, in quanto è infinitamente al di sopra di ogni finito. E poiché è infinitamente al di sopra di ogni finito, ossia esiste per sé, allora l’infinito è del tutto assoluto e non contraibile. O quanto sei eccelso, Signore, tu che sei al di sopra di tutte le cose, e al tempo stesso quanto sei umile, perché sei in tutte! Se l’infinità fosse contraibile in qualcosa di nominabile, come una linea, una superficie o una specie, allora essa attrarrebbe a sé ciò in cui verrebbe contratta. E così, che l’infinito sia contraibile implica una contraddizione, in quanto l’infinito non verrebbe contratto, ma attrarrebbe. Ad esempio, se dico che l’infinito viene contratto in una linea, come quando parlo di una «linea infinita», allora in questo caso la linea viene attratta nell’infinito; la linea, infatti, cessa di essere una linea nel momento in cui non ha più una quantità e un fine. Una linea infinita non è una linea, ma, nell’infinità, una linea è l’infinità stessa. E come nulla può essere aggiunto all’infinito, così l’infinito non può essere contratto in alcuna cosa, in modo da essere qualcosa di altro dall’infinito. La bontà infinita non è bontà, ma infinità. La quantità infinita non è quantità, ma infinità. E così via. Tu, Dio, sei grande di una un grandezza di cui non c’è fine. E pertanto vedo che sei una misura non-misurabile, così come sei il fine infinito di tutte le cose. In quanto infinito, sei dunque, Signore, senza principio e fine. Sei principio senza principio e fine senza fine. Sei principio senza fine e fine senza principio, sei principio in modo tale da essere fine, e sei fine in modo tale da essere principio. E non sei né principio, né fine, ma, al di sopra di ogni principio e di ogni fine, sei l’infinità assoluta stessa, sempre benedetta.
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Quomodo deus omnia complicat sine alteritate Video, domine, ex infinitate misericordiae tuae te infinitatem omnia ambientem. Non est igitur extra te quidquam. Omnia autem in te non sunt aliud a te. Doces me, domine, quomodo alteritas, quae in te non est, etiam in se non est nec esse potest. Nec facit alteritas, quae in te non est, unam creaturam esse alteram ab alia, quamvis una non sit alia. Caelum enim non est terra, licet verum sit caelum esse caelum et terram terram. Si igitur quaesiero alteritatem, quae neque in te neque extra te est, ubi reperiam? Et si non est, quomodo terra est alia creatura quam caelum? Nam sine alteritate non potest hoc concipi. Sed loqueris in me, domine, et dicis alteritatis non esse positivum principium, et ita non est. Nam quomodo alteritas esset sine principio, nisi ipsa foret principium et infinitas? Non est autem principium essendi alteritas. Alteritas enim dicitur a non esse. Quod enim unum non est aliud, hinc dicitur alterum. Alteritas igitur non potest esse principium essendi, quia dicitur a non esse, neque habet principium essendi, cum sit a non esse. Non est igitur alteritas aliquid. Sed quod caelum non est terra, est, quia caelum non est infinitas ipsa, quae omne esse ambit. 59 Unde quia infinitas est infinitas absoluta, inde evenit unum non posse esse aliud, sicut essentia Socratis ambit omne esse Socraticum, in quo simplici esse Socratico nulla est alteritas seu diversitas. Nam omnium, quae sunt in Socrate, est esse Socratis unitas individualis, ita quod in eo unico esse complicatur omnium, quae in Socrate sunt, esse in ipsa scilicet individuali simplicitate, ubi nihil reperiatur alterum seu diversum, sed in illo esse unico omnia, quae esse habent Socraticum, sunt et complicantur et extra illud nec sunt nec esse possunt, licet cum hoc in eo esse simplicissimo oculus
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CAPITOLO XIV
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Dio complica tutte le cose senza alterità Vedo, Signore, dall’infinità della tua misericordia, che tu sei l’infinità che abbraccia tutte le cose. Non c’è nulla, pertanto, che sia al di fuori di te. Ma in te tutte le cose non sono altro da te. Tu mi insegni, Signore, che l’alterità, che non è presente in te, non è, né può essere, neppure in se stessa. Inoltre, non è l’alterità, che non è presente in te, a far sì che una creatura sia diversa da un’altra, sebbene una creatura non sia l’altra. Per esempio, il cielo non è la terra, anche se è vero che il cielo è cielo e la terra terra. Se, dunque, cercherò l’alterità, che non è presente in te, né fuori di te, dove la troverò? E se non esiste, in che modo la terra è una creatura diversa dal cielo? Senza alterità, infatti, ciò [questa differenza] non può essere concepito. Ma tu parli in me, Signore, e mi dici che non c’è un principio positivo dell’alterità, e in questo senso l’alterità non esiste. Come potrebbe infatti esistere l’alterità senza un principio, a meno che non fosse essa stessa principio e infinità? Ma l’alterità non è il principio dell’essere. L’alterità, infatti, viene chiamata così dal nonessere. È per il fatto che una cosa non è un’altra che si dice, in effetti, che essa è «altra». L’alterità, pertanto, non può essere un principio dell’essere, dato che la si chiama così dal non-essere. E non ha neppure un principio del suo essere, dal momento che deriva dal non-essere. L’alterità non è, dunque, un qualcosa156. La ragione per cui il cielo non è la terra è che il cielo non è l’infinità stessa, che abbraccia ogni essere. Di conseguenza, poiché l’infinità è l’infinità assoluta, ne viene che una cosa non può essere un’altra cosa; analogamente, l’essenza di Socrate abbraccia tutto l’essere socratico, e in quel semplice essere socratico non vi è nessuna alterità o differenza. L’essere di Socrate, infatti, è l’unità individuale di tutto ciò che è presente in Socrate, in modo tale che l’essere di tutte le cose che sono presenti in Socrate risulta complicato in quest’unico essere, ossia nella stessa semplicità individuale, in cui non si trova nulla di altro o di diverso. Ma tutte le cose che hanno l’essere socratico sono e sono complicate in quell’unico essere e, al di fuori di esso, non sono né possono essere, sebbene, in quell’essere semplicissimo, l’occhio
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non sit auris et caput non sit cor et visus non sit auditus et sensus non sit ratio. Neque hoc evenit ex aliquo principio alteritatis, sed posito simplicissimo esse Socratico evenit caput non esse pedes, quia caput non est ipsum simplicissimum esse Socraticum; hinc esse eius non ambit omne esse Socraticum. Et ita video te, domine, illustrante, quod, quia esse simplex Socraticum est incommunicabile penitus et incontrahibile ad esse cuiuscumque membri, inde esse unius membri non est esse alterius, sed esse illud simplex Socraticum est esse omnium membrorum Socratis, in quo omnis essendi varietas et alteritas, quae membris evenit, est simplex unitas, sicut pluralitas formarum partium in forma totius sunt unitas. 60 Sic se habet aliqualiter, deus, tuum esse, quod est esse infinitatis absolute, ad omnia, quae sunt; sed absolute dico ut absoluta essendi forma omnium formarum contractarum. Unde manus Socratis, quando separatur a Socrate, licet post abscisionem non sit amplius manus Socratis, manet tamen adhuc in aliquo esse cadaveris. Hoc ex eo est, quia forma Socratis, quae dat esse, non dat simpliciter esse, sed esse contractum, scilicet Socraticum, a quo esse manus est separabilis, et quod nihilominus sub alia forma maneat, sed si semel separaretur manus ab esse incontracto penitus, quod est infinitum et absolutum, totaliter desineret esse, quia ab omni esse foret separata. Gratias tibi ago, domine deus meus, qui te mihi quantum capere possum, largiter ostendis, quomodo tu es ipsa infinitas esse omnium complicans simplicissima virtute, quae non foret infinita nisi infinite unita. Virtus enim unita fortior. Quae igitur virtus ita est unita, quod magis uniri nequit, est infinita et omnipotens. Tu es deus omnipotens, quia absoluta simplicitas, quae est infinitas absoluta.
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non sia l’orecchio, la testa non sia il cuore, la vista non sia l’udito, il senso non sia la ragione. E queste differenze non derivano da un qualche principio di alterità; piuttosto, posto l’essere semplicissimo di Socrate, ne segue che la testa non è il piede, perché la testa non è lo stesso essere semplicissimo di Socrate, per cui il suo essere non abbraccia tutto l’essere di Socrate. E così, grazie a te che mi illumini, vedo che il semplice essere di Socrate è del tutto incomunicabile e non contraibile nell’essere di ciascun membro, per cui vedo che l’essere di un membro non è l’essere di un altro. Nondimeno, quel semplice essere di Socrate costituisce l’essere di tutte le sue membra, ed in esso tutta la varietà ed alterità di essere che appartiene alle singole membra è un’unità semplice, così come nella forma di un tutto la pluralità di forme che costituiscono le parti è un’unità. In modo analogo, o Dio, il tuo essere, che costituisce l’infinità in senso assoluto, si rapporta a tutte le cose che sono. Dicendo «in senso assoluto» intendo che il tuo essere è la forma assoluta dell’essere di tutte le forme contratte. Pertanto, se la mano di Socrate viene separata da Socrate, essa, sebbene dopo l’amputazione non sia più la mano di Socrate, continua in qualche modo a sussistere come essere di un cadavere. Ciò accade perché la forma di Socrate, che gli dà l’essere, non gli conferisce l’essere in quanto tale, ma un essere contratto, vale a dire l’essere proprio di Socrate, dal quale l’essere della mano è separabile e può nondimeno continuare a sussistere sotto un’altra forma. Se invece la mano venisse separata anche una volta sola dall’essere totalmente incontratto, che è infinito e assoluto, cesserebbe del tutto di essere, poiché sarebbe separata da tutto l’essere. Ti rendo grazie, signore Dio mio, che ti mostri a me generosamente, per quel tanto che io posso capirti, come la stessa infinità che complica l’essere di tutte le cose con una forza semplicissima, la quale non sarebbe infinita, se non fosse infinitamente unita. Una forza unita, infatti, è più forte. Quella forza che è così unita da non poter essere unita di più, è pertanto infinita e onnipotente. Tu, Dio, sei onnipotente, poiché sei la semplicità assoluta, che è l’infinità assoluta.
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Quomodo actualis infinitas est unitas, in qua figura est veritas Sustine adhuc servulum utique insipientem, nisi quantum concesseris, ut loquatur ad te deum suum. Video in hac picta facie figuram infinitatis. Nam visus est interminatus ad obiectum vel locum et ita infinitus; non enim plus est conversus ad unum quam alium, qui intuetur eam, et quamvis visus eius sit in se infinitus, videtur tamen per quemlibet respicientem terminari, quia ita quemlibet respicit determinate, qui intuetur eam, quasi solum eum et nihil aliud. Videris igitur mihi, domine, quasi posse esse absolutum et infinitum, formabile et terminabile per omnem formam; dicimus enim potentiam materiae formabilem esse infinitam, quia numquam penitus finietur. Sed respondes in me, lux infinita, absolutam potentiam esse ipsam infinitatem, quae est ultra murum coincidentiae, ubi posse fieri coincidit cum posse facere, ubi potentia coincidit cum actu. Materia prima etsi sit in potentia ad infinitas formas, non tamen actu illas habere potest, sed per unam terminatur potentia, qua sublata terminatur per aliam. 62 Si igitur posse esse materiae coincideret cum actu, ipsa esset sic potentia quod actus, et sicut fuit in potentia ad infinitas formas, ita actu esset infinities formata. Infinitas autem actu est sine alteritate et non potest esse infinitas, quin sit unitas. Non possunt igitur esse infinitae formae actu, sed actualis infinitas est unitas. Tu igitur, deus, qui es ipsa infinitas, es ipse unus deus, in quo video omne posse esse esse actu. Nam absolutum posse ab omni potentia contracta ad materiam primam seu quamcumque passivam potentiam est absolutum esse. Quidquid enim in infinito esse est, est ipsum esse infinitum simplicissimum. Ita posse esse omnia in infinito esse est ipsum infinitum esse. Similiter et actu esse omnia in infinito esse est ipsum infinitum esse. Quare posse esse absolutum et actu esse absolutum in te deo meo non sunt nisi tu, deus meus infinitus.
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L’infinità in atto è un’unità, nella quale l’immagine è verità Sostieni ancora il tuo umile servo, che non sa nulla, se non per quanto tu, che sei il suo Dio, gli conceda di parlarti. In questo volto dipinto, vedo un’immagine dell’infinità. Lo sguardo, infatti, non è limitato ad un oggetto o a un luogo e perciò è infinito. Non è infatti rivolto più ad uno che a un altro osservatore. E sebbene lo sguardo di questo volto sia in se stesso infinito, sembra tuttavia essere limitato da parte di ciascuno di coloro che lo guardano, in quanto guarda qualsiasi osservatore in modo così determinato che pare guardare solo lui e nessun altro. Mi sembra allora, Signore, che tu sia come un poter-essere assoluto e infinito, che risulta formabile e delimitabile da ogni forma; diciamo, infatti, che la potenza della materia che può assumere una forma è infinita, poiché non sarà mai delimitata del tutto. Ma tu rispondi in me, luce infinita, che la potenza assoluta è la stessa infinità, la quale sta oltre il muro della coincidenza, dove il poter-essere-fatto coincide con il poter-fare, dove la potenza coincide con l’atto157. La materia prima, sebbene sia in potenza infinite forme, non può tuttavia averle in sé in atto; al contrario, la potenzialità della materia è determinata da una sola forma e, tolta tale forma, viene determinata da un’altra. Pertanto, se il poter-essere della materia coincidesse con l’atto, la materia sarebbe tanto potenza quanto atto, e, come fu in potenza infinite forme, così sarebbe formata in atto da un’infinità di forme158. L’infinità in atto, tuttavia, è senza alterità, e non può esistere infinità senza essere anche unità. Non possono esservi, di conseguenza, infinite forme in atto, in quanto l’infinità in atto è unità. Tu, Dio, che sei l’infinità stessa, sei lo stesso Dio uno, nel quale vedo che ogni poter-essere è in atto159. Infatti, il potere che è svincolato da ogni potenza contratta nella materia prima, o in qualunque potenza passiva, è l’essere assoluto. Qualsiasi cosa esista nell’essere infinito è lo stesso essere infinito semplicissimo. Così, nell’essere infinito il poter-essere tutte le cose è lo stesso essere infinito. Allo stesso modo, nell’essere infinito anche l’essere in atto tutte le cose è lo stesso essere infinito. Perciò, il poter-essere assoluto e l’essere in atto assoluto, in te, Dio mio, non sono se non te, Dio mio
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Omne posse esse tu es, deus meus. Posse esse materiae primae non est posse absolutum; ideo non potest cum actu absoluto converti. Quare materia prima non est actu, quod esse potest, sicut tu, deus. Posse esse materiae primae est materiale et ita contractum et non absolutum. Sic et posse esse sensibile vel rationale contractum est. Sed penitus incontractum posse cum absoluto simpliciter, hoc est infinito, coincidit. 63 Quando igitur tu, deus meus, occurris mihi quasi prima materia formabilis, quia recipis formam cuiuslibet te intuentis, tunc me elevas, ut videam, quomodo intuens te non dat tibi formam, sed in te intuetur se, quia a te recipit id, quod est. Et ita id, quod videris ab intuente recipere, hoc donas, quasi sis speculum aeternitatis vivum, quod est forma formarum. In quod speculum dum quis respicit, videt formam suam in forma formarum, quae est speculum, et iudicat formam, quam videt in speculo illo, esse figuram formae suae, quia sic est in speculo materiali polito, licet contrarium illius sit verum, quia id, quod videt in illo aeternitatis speculo, non est figura, sed veritas, cuius ipse videns est figura. Figura igitur in te, deus meus, est veritas et exemplar omnium et singulorum, quae sunt aut esse possunt. 64 O deus omni menti admirandus, videris aliquando, quasi sis umbra, qui es lux. Nam dum video, quomodo ad mutationem meam videtur visus eiconae tuae mutatus et facies tua videtur mutata, quia ego mutatus, occurris mihi quasi sis umbra, quae sequitur mutationem ambulantis; sed quia ego sum viva umbra et tu veritas, iudico ex mutatione umbrae veritatem mutatam. Es igitur, deus meus, sic umbra, quod veritas. Sic es imago mea et cuiuslibet, quod exemplar. Domine deus, illustrator cordium, facies mea vera est facies, quia tu eam mihi dedisti, qui es veritas. Est et facies mea imago, quia non est ipsa veritas, sed veritatis absolutae ima-
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infinito. Tu sei ogni poter-essere, Dio mio. Il poter-essere della materia prima non è il potere assoluto, e dunque non può convertirsi con l’atto assoluto. La materia prima, pertanto, non è in atto ciò che essa può essere, come sei invece tu, Dio. Il poter-essere della materia prima è materiale, e quindi è contratto e non assoluto. Allo stesso modo, il poter-essere sensibile o razionale è contratto. Il potere del tutto incontratto, invece, coincide con l’assoluto puro e semplice, ossia con l’infinito. Quando tu, pertanto, Dio mio, ti presenti a me come fossi materia prima che può essere formata, poiché ricevi la forma di chiunque ti guardi, mi elevi a vedere che non è colui che ti guarda che conferisce a te una forma; piuttosto, in te, egli contempla se stesso, in quanto è da te che riceve ciò che è. E così sei tu che doni ciò che sembri ricevere da colui che ti guarda, come se fossi uno specchio vivo dell’eternità, che è la forma delle forme160. Quando qualcuno guarda in questo specchio, vede la propria forma nella forma delle forme, che è lo specchio. E ritiene che la forma che vede in quello specchio sia l’immagine della sua forma, perché questo è quello che accade in uno specchio materiale levigato. In realtà, è vero il contrario, perché ciò che egli vede nello specchio dell’eternità non è l’immagine, bensì la verità, della quale colui che guarda è l’immagine. Pertanto, l’immagine in te, Dio mio, è la verità e l’esemplare di tutte le cose che esistono e che possono esistere e di ciascuna di esse. O Dio, degno di ammirazione da parte di tutti, talvolta sembri essere come un’ombra, tu che sei luce. Quando vedo, infatti, che, appena io mi sposto, anche lo sguardo della tua icona sembra spostarsi e che il tuo volto sembra mutare per il fatto che io muto, mi sembra quasi che tu sia come l’ombra che segue lo spostamento di chi cammina. Ma, poiché io sono un’ombra viva e tu sei la verità, osservando il mutamento dell’ombra penso che anche la verità sia mutata. Pertanto, tu, o Dio mio, sei ombra in modo tale da essere verità, sei la mia immagine e l’immagine di chiunque altro in modo tale da esserne l’esemplare. Signore Dio, che illumini i cuori, il mio volto è un vero volto, perché me lo hai dato tu, che sei la verità. Il mio volto è anche un’immagine, perché non è la verità stessa, ma è un’immagine della verità assoluta. Nel mio modo di concepire,
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go. Complico igitur in conceptu meo veritatem et imaginem faciei meae, et video in ea coincidere imaginem cum veritate faciali, ita quod quantum imago, in tantum vera. Et tunc ostendis mihi, domine, quomodo ad mutationem faciei meae facies tua est pariter mutata et immutata; mutata, quia non deserit veritatem faciei meae, immutata, quia non sequitur mutationem imaginis. 65 Unde sicut facies tua non deserit faciei meae veritatem, sic etiam non sequitur mutationem alterabilis imaginis. Absoluta enim veritas est inalterabilitas. Veritas faciei meae est mutabilis, quia sic veritas quod imago, tua autem immutabilis, quia sic imago quod veritas. Veritatem faciei meae absoluta veritas deserere non potest. Si enim desereret eam absoluta veritas, non posset subsistere ipsa facies mea, quae est veritas mutabilis. Sic videris tu, deus, propter bonitatem tuam infinitam mutabilis, quia non deseris creaturas mutabiles; sed quia es absoluta bonitas, non es mutabilis, quia non sequeris mutabilitatem. O altitudo profundissima, deus meus, qui non deseris et simul non sequeris creaturas. O inexplicabilis pietas, offers te intuenti te, quasi recipias ab eo esse, et conformas te ei, ut eo plus te diligat, quo appares magis similis ei. Non enim possumus odire nos ipsos. Hinc diligimus id, quod esse nostrum participat et comitatur, et similitudinem nostram amplectimur, quia praesentamur nos in imagine, in qua nos ipsos amamus. 66 Ostendis te, deus, quasi creaturam nostram ex infinitae bonitatis tuae humilitate, ut sic nos trahas ad te. Trahis enim nos ad te omni possibili trahendi modo, quo libera rationalis creatura trahi potest. Et coincidit in te, deus, creari cum creare. Similitudo enim, quae videtur creari a me, est veritas, quae creat me, ut sic saltem capiam, quantum tibi astringi debeam, cum in te amari coincidat cum amare. Si ego enim me in te similitudine mea diligere debeo, et tunc maxime ad hoc constringor, quando video te me diligere ut
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pertanto, complico la verità e l’immagine del mio volto, e vedo che in esso coincidono l’immagine e la verità del volto, di modo che il mio volto è vero nella misura in cui è un’immagine161. E allora, Signore, mi mostri che, rispetto al mutamento del mio volto, il tuo volto è al tempo stesso mutato e immutato: mutato, perché non abbandona la verità del mio volto; immutato, perché non segue il mutamento dell’immagine. Perciò, come il tuo volto non abbandona la verità del mio volto, così non segue neppure il mutamento dell’immagine, la quale è alterabile. La verità assoluta, infatti, è inalterabile. La verità del mio volto è mutevole, perché è verità in modo tale da essere immagine; la verità del tuo volto, invece, è immutabile, perché è immagine in modo tale da essere verità. La verità assoluta non può abbandonare la verità del mio volto. Se, infatti, la verità assoluta l’abbandonasse, allora il mio stesso volto, che è una verità mutevole, non potrebbe sussistere. Così, tu, o Dio, sembri mutevole per la tua bontà infinita, perché non abbandoni le creature mutevoli; ma, dal momento che sei bontà assoluta, non sei mutevole, perché non segui la mutevolezza [delle creature]. O somma altezza, Dio mio, che non abbandoni le creature e al tempo stesso non le segui! O pietà inesplicabile, offri te stesso a colui che ti guarda, come se ricevessi l’essere da lui, e ti conformi a lui, affinché egli possa amarti tanto più, quanto più tu appari simile a lui. Non possiamo, infatti, odiare noi stessi. Per questo, amiamo ciò che condivide il nostro essere e l’accompagna, ed abbracciamo ciò che è simile a noi, in quanto veniamo mostrati a noi stessi in un’immagine, nella quale possiamo amare noi stessi. Per la tua infinita bontà che non rifugge le cose più umili, ti manifesti, o Dio, come se fossi una nostra creatura, in modo da poterci attrarre a te. Ci attrai infatti a te con tutti i modi possibili in cui può essere attratta una creatura razionale e libera. E in te l’essere creato coincide con il creare. La somiglianza, che sembra essere creata da me, infatti, è la verità che mi crea, cosicché io possa almeno capire quanto debba unirmi strettamente a te, dato che in te l’essere amato coincide con l’amare. Se, infatti, devo amare me stesso in te, che sembri essere una mia somiglianza, sono allora costretto a fare questo al massimo grado quando vedo che tu mi ami
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creaturam et imaginem tuam. Quomodo pater non potest diligere filium, qui sic est filius quod pater? Et si multum est diligibilis, qui est aestimatione filius et cognitione pater, nonne tu maxime, qui aestimatione excedis filium et cognitione patrem? Tu, deus, voluisti filialem dilectionem in aestimatione constitui et vis similior filio aestimari et intimior patre cognosci, quia es amor complicans tam filialem quam paternalem dilectionem. Sis ergo dulcissimus amor meus, deus meus, in aeternum benedictus. 67
CAPITULUM XVI
Quod nisi deus esset infinitus, non foret finis desiderii Non cessat ignis ab ardore neque amor desiderii, qui fertur ad te, deus, qui es forma omnis desiderabilis et veritas illa, quae in omni desiderio desideratur. Unde, quia coepi ex tuo mellifluo dono degustare incomprehensibilem suavitatem tuam, quae tanto mihi fit gratior, quanto infinitior apparet, video, quod ob hoc tu, deus, es omnibus creaturis incognitus, ut habeant in hac sacratissima ignorantia maiorem quietem quasi in thesauro innumerabili et inexhauribili. Multo enim maiori gaudio perfunditur ille, qui reperit thesaurum talem, quem scit penitus innumerabilem et infinitum, quam qui reperit numerabilem et finitum. Hinc haec sacratissima ignorantia magnitudinis tuae est pascentia intellectus mei desiderabilissima, maxime quando talem reperio thesaurum in meo agro, ita quod thesaurus sit meus. 68 O fons divitiarum, vis comprehendi possessione mea et manere incomprehensibilis et infinitus, quia es thesaurus deliciarum, quarum nullus potest finem appetere. Quomodo appetitus posset appetere non esse? Sive enim appetat esse sive appetat non esse voluntas, ipse appetitus quiescere nequit, sed fertur in infinitum. Descendis, domine, ut comprehendaris, et manes innumerabilis et in-
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come una tua creatura e una tua immagine. Come può un padre non amare un figlio, che è figlio in modo tale da essere padre? E se è molto degno d’amore colui che viene considerato come figlio ed è conosciuto come padre, non sei forse degno del massimo amore tu, che sei considerato ben più di un figlio e conosciuto ben più di un padre? Tu, Dio, hai voluto essere considerato amore filiale e vuoi essere reputato più simile di un figlio e conosciuto come più intimo di un padre, perché sei l’amore che complica in sé tanto l’amore filiale, quanto quello paterno. Sii dunque benedetto in eterno, dolcissimo amore mio, Dio mio. CAPITOLO XVI
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Se Dio non fosse infinito, non sarebbe il fine del desiderio Il fuoco non cessa di ardere né cessa l’amore che infiamma il mio desiderio che è diretto a te, Dio, che sei la forma di ogni cosa desiderabile e sei quella verità che è desiderata da ogni desiderio. Pertanto, poiché, grazie al tuo dono dolce come il miele, ho iniziato ad assaporare162 la tua dolcezza incomprensibile, la quale mi riesce tanto più gradita quanto più mi appare infinita, vedo che tu, o Dio, sei sconosciuto a tutte le creature proprio perché esse possano godere, in questa santissima ignoranza, di una quiete maggiore, come se si trovassero in presenza di un tesoro incalcolabile ed inesauribile. Chi trova un tesoro che sa essere del tutto incalcolabile e infinito è infatti ricolmo di una gioia molto maggiore rispetto a quella che prova chi ne trova uno che si può calcolare e che è finito163. Ne segue che questa santissima ignoranza164 della tua grandezza è il nutrimento più desiderato del mio intelletto, soprattutto se un simile tesoro lo trovo nel mio campo, in modo tale che esso è il mio tesoro. O fonte di ricchezze! Vuoi essere compreso nel mio possesso e tuttavia rimanere inafferrabile e infinito, poiché sei un tesoro delle delizie di cui nessuno può desiderare la fine. In che modo il desiderio potrebbe desiderare di non essere? Infatti, sia che la volontà desideri di essere, sia che desideri di non essere, lo stesso desiderio non può in ogni caso acquietarsi, ma è condotto all’infinito165. Discendi in noi, Signore, per essere compreso, e rimani tuttavia incal-
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finitus. Et nisi maneres infinitus, non esses finis desiderii. Es igitur infinitus, ut sis finis omnis desiderii. Desiderium enim intellectuale non fertur in id, quod potest esse maius et desiderabilius, sed in id, quod non potest maius esse nec desiderabilius. Omne autem citra infinitum potest esse maius. Finis igitur desiderii est infinitus. Tu igitur, deus, es ipsa infinitas, quam solum in omni desiderio desidero. Ad cuius quidem infinitatis scientiam non possum propius accedere, quam quod scio eam esse infinitam. 69 Quanto igitur te deum meum comprehendo magis incomprehensibilem, de tanto plus attingo te, quia plus attingo finem desiderii mei. Igitur quidquid mihi occurrit, quod te comprehensibilem ostendere nititur, hoc abicio, quia seducit. Desiderium meum, in quo tu reluces, me ad te ducit, quia omne, quod finitum et comprehensibile, abicit; in his enim quiescere nequit, quia per te ducitur ad te. Tu autem es principium sine principio et finis sine fine. Ducitur igitur desiderium per principium aeternum, a quo habet, quod est desiderium, ad finem sine fine, et hic est infinitus. Quod igitur ego homuncio non contentarer de te deo meo, si scirem te comprehensibilem, est, quia ducor per te ad te incomprehensibilem et infinitum. 70 Video te, domine deus meus, in raptu quodam mentali, quoniam si visus non satiatur visu nec auris auditu, tunc minus intellectus intellectu. Non igitur id, quod satiat intellectum seu est finis eius, est id, quod intelligit, neque id satiare potest, quod penitus non intelligit, sed solum illud, quod non intelligendo intelligit. Intelligibile enim, quod cognoscit, non satiat nec intelligibile satiat, quod penitus non cognoscit, sed intelligibile, quod cognoscit adeo intelligibile, quod numquam possit ad plenum intelligi, hoc solum satiare potest, sicut habentem insaturabilem famem non satiat cibus brevis, quem deglutire potest, nec cibus, qui ad eum non pervenit, sed solum ille cibus, qui ad eum pervenit et, licet continue
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colabile e infinito. E se non rimanessi infinito, non saresti il fine del desiderio. Sei quindi infinito, per essere il fine di ogni desiderio. Il desiderio intellettuale, infatti, non viene attratto verso ciò che può essere maggiore e più desiderabile, ma verso ciò che non può essere maggiore né più desiderabile. Ma tutto ciò che è al di sotto dell’infinito può essere maggiore. Pertanto, il fine del desiderio è infinito. Tu, Dio, sei l’infinità stessa, ed essa sola che io desidero in ogni desiderio; ed il modo in cui posso avvicinarmi di più alla conoscenza della tua infinità consiste nel sapere che essa è infinita Quanto più, pertanto, comprendo che tu sei incomprensibile, tanto più colgo di te, poiché colgo di più il fine del mio desiderio. Respingo allora qualsiasi pensiero mi venga in mente, che tenti di mostrarmi che tu sei comprensibile, perché m’inganna. Il mio desiderio, nel quale tu risplendi, mi conduce a te, poiché rigetta tutto ciò che è finito e comprensibile. Il mio desiderio, infatti, non può trovare quiete in tali cose, perché sei tu stesso che lo conduci a te. Ma tu sei principio senza principio e fine senza fine. Il mio desiderio, pertanto, viene condotto dal principio eterno, dal quale ha il suo stesso essere un desiderio, al fine senza fine. E questo fine è infinito166. Che io, un piccolo uomo insignificante, non mi potrei accontentarmi di te, Dio mio, se sapessi che sei comprensibile, dipende dal fatto che sei tu stesso che mi conduci a te, che sei incomprensibile e infinito. Ti vedo, Signore Dio mio, in una sorta di rapimento della mente167, poiché se lo sguardo non si sazia di ciò che vede, né l’orecchio di ciò che ode, allora neppure l’intelletto si sazia di ciò che intende. Ciò che sazia l’intelletto, pertanto, o ciò che costituisce il suo fine, non è ciò che esso intende168; dall’altro lato, non può neppure saziarlo ciò che esso non intende, ma può saziarlo soltanto ciò che l’intelletto intende, non intendendo. Un intelligibile che viene conosciuto dall’intelletto non è in grado di saziarlo, né lo sazia un intelligibile che esso non conosce affatto; ciò che può saziare l’intelletto è solamente quell’intelligibile che esso conosce come talmente intelligibile da non poter mai essere inteso pienamente. Allo stesso modo, colui che ha una fame insaziabile non può essere saziato da quel poco di cibo che egli può mangiare, né da un cibo che non gli arrivi a portata di mano, ma soltanto da un cibo che arrivi
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deglutiatur, tamen numquam ad plenum potest deglutiri, quoniam talis est, quod deglutiendo non imminuitur, quia infinitus. 71
CAPITULUM XVII
Quod deus non nisi unitrinus videri perfecte potest Ostendisti, domine, te mihi adeo amabilem, quod magis amabilis esse nequis; es enim infinite amabilis, deus meus. Numquam igitur poteris a quoquam amari, sicut amabilis es, nisi ab infinito amante. Nisi enim esset infinite amans, non esses infinite amabilis. Amabilitas enim tua, quae est posse in infinitum amari, est, quia est posse in infinitum amare. A posse in infinitum amare et posse in infinitum amari oritur amoris nexus infinitus ipsius infiniti amantis et infiniti amabilis. Non est autem infinitum multiplicabile. Tu igitur, deus meus, qui es amor, es amor amans et amor amabilis et amoris amantis et amabilis nexus. Video in te deo meo amorem amantem, et ex eo, quia video in te amorem amantem, video in te amorem amabilem, et quia in te video amorem amantem et amorem amabilem, video utriusque amoris nexum. Et hoc non est aliud quam illud, quod video in absoluta unitate tua, in qua video unitatem unientem, unitatem unibilem et utriusque unionem. 72 Quidquid autem in te video, hoc es tu, deus meus. Tu es igitur amor ille infinitus, qui sine amante et amabili et utriusque nexu non potest per me naturalis et perfectus amor videri. Quomodo enim possum concipere perfectissimum et naturalissimum amorem sine amante et amabili et unione utriusque? Quod enim amor sit amans et amabilis et nexus utriusque, experior in contracto amore esse de essentia perfecti amoris. Id autem, quod est de essentia perfecti amoris contracti, non potest deesse absoluto amori, a quo habet contractus amor, quidquid perfectionis habet. Quanto autem amor simplicior, tanto perfectior. Tu autem, deus meus, es amor perfec-
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fino a lui e che, per quanto egli ne mangi continuamente, non può tuttavia mai essere consumato completamente, in quanto si tratta di un cibo che, essendo infinito, non diminuisce mai per quanto se ne mangi169. CAPITOLO XVII
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Dio non può essere visto in maniera perfetta se non come unitrino Ti sei manifestato a me così amabile, Signore, da non poter essere più amabile. Sei, infatti, infinitamente amabile, Dio mio. Nessuno, pertanto, può amarti per quanto tu sei amabile, a meno che non sia un amante dotato di un amore infinito. Se non vi fosse qualcuno che amasse infinitamente, tu, infatti, non saresti infinitamente amabile. La tua amabilità, che è il poter-essere-amato all’infinito, esiste, infatti, perché vi è un poter-amare all’infinito. Dal poteramare all’infinito e dal poter-essere-amato all’infinito nasce il nesso infinito dell’amore tra l’infinito amante e l’infinito amabile. L’infinito, tuttavia, non è moltiplicabile. Tu, pertanto, Dio mio, che sei l’amore, sei l’amore amante, l’amore amabile e il nesso dell’amore amante e dell’amore amabile170. Vedo in te, Dio mio, l’amore amante, e per il fatto che vedo in te l’amore amante, vedo in te l’amore amabile, e per il fatto che vedo in te l’amore amante e l’amore amabile, vedo il nesso dell’uno e dell’altro amore. E questo non è altro da quel che vedo considerando la tua unità assoluta, nella quale vedo l’unità uniente, l’unità unibile e l’unione dell’una e dell’altra. Ma tutto ciò che io vedo in te sei tu, Dio mio. Pertanto, tu sei quell’amore infinito che io non posso vedere come un amore naturale e perfetto senza l’amante, l’amabile e il nesso dell’uno dell’altro. Come posso concepire, infatti, un amore sommamente naturale e perfetto senza l’amante, l’amabile e l’unione dell’uno e dell’altro171? Nel caso dell’amore contratto, infatti, io sperimento che appartiene all’essenza di un amore perfetto il fatto che l’amore sia amante e amabile e il nesso di entrambi. Ma ciò che appartiene all’essenza dell’amore contratto perfetto non può mancare all’amore assoluto, dal quale l’amore contratto ha tutto ciò che esso possiede di perfezione. Ora, l’amore quanto più è semplice, tanto più è perfetto. Ma tu, Dio mio, sei l’amore più perfetto e più sempli-
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tissimus et simplicissimus. Tu igitur es ipsa essentia perfectissima et simplicissima et naturalissima amoris. Hinc in te amore non est aliud amans et aliud amabile et aliud utriusque nexus, sed idem tu ipse, deus meus. Quia igitur in te coincidit amabile cum amante et amari cum amare, tunc nexus coincidentiae est nexus essentialis; nihil enim in te est, quod non sit ipsa essentia tua. 73 Illa igitur, quae occurrunt mihi tria esse, scilicet amans, amabilis et nexus, sunt ipsa simplicissima essentia absoluta. Non sunt igitur tria sed unum. Illa essentia tua, deus meus, quae occurrit mihi esse simplicissima et unissima, non est naturalissima et perfectissima sine tribus praenominatis. Est igitur essentia trina, et tamen non sunt tria in ea, quia simplicissima. Pluralitas igitur trium praenominatorum est ita pluralitas quod unitas, et unitas est ita unitas quod pluralitas. Pluralitas trium est pluralitas sine numero plurali. Nam pluralis numerus non potest esse simplex unitas, quia est numerus pluralis. Non igitur est trium numeralis distinctio, quia illa est essentialis. Numerus enim a numero essentialiter distinguitur. Et quia unitas est trina, non est unitas numeri singularis. Unitas enim numeri singularis non est trina. 74 O admirabilissimus deus, qui neque es numeri singularis neque numeri pluralis, sed supra omnem pluralitatem et singularitatem unitrinus et triunus. Video igitur in muro paradisi, ubi es, deus meus, pluralitatem coincidere cum singularitate et te ultra habitare quam remote. Doce me, domine, quomodo possim concipere id possibile, quod video necessarium. Occurrit enim mihi impossibilitas, quod trium pluralitas, sine quibus concipere te nequeo perfectum et naturalem amorem, sit pluralitas sine numero, quasi quis dicat unum, unum, unum; dicit ter unum, non dicit tria sed unum, et hoc unum ter. Non potest autem dicere unum ter sine tribus, licet non dicat tria. Nam cum dicit unum ter, replicat idem et non
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ce. Tu, pertanto, sei la stessa essenza in assoluto più perfetta, più semplice e più naturale dell’amore. Di conseguenza, in te, che sei l’amore, l’amante non è una cosa, l’amabile un’altra e il nesso di entrambi un’altra ancora, ma sono quell’identico che sei tu, Dio mio. Pertanto, poiché in te l’amabile coincide con l’amante e l’essere amato coincide con l’amare, allora il nesso di questa coincidenza è un nesso essenziale. Niente, infatti, è presente in te che non sia la tua stessa essenza. Pertanto, quelle cose che mi appaiono come tre cose distinte, ossia l’amante, l’amabile e il nesso, sono la stessa, semplicissima, essenza assoluta. Non sono dunque tre, ma uno. La tua essenza, Dio mio, che mi appare semplicissima e assolutamente una, non è naturalissima e perfettissima senza quelle tre cose. La tua essenza, pertanto, è trina, e tuttavia in essa non vi sono tre cose, in quanto è assolutamente semplice. La pluralità dei tre termini di cui abbiamo parlato è pertanto una pluralità tale da essere un’unità, e l’unità è un’unità tale da essere una pluralità. La pluralità dei tre è una pluralità senza numero plurale. Il numero plurale, infatti, non può essere un’unità semplice, in quanto è numero plurale. Non vi è, pertanto, una distinzione numerica fra i tre, in quanto la distinzione numerica è una distinzione essenziale (un numero, infatti, si distingue da un altro numero in modo essenziale). E poiché l’unità è trina, non si tratta dell’unità che è propria di un singolo numero; l’unità di un singolo numero, infatti, non è trina. O Dio mirabile, che non sei né singolare di numero, né plurale di numero, ma sei al di sopra di ogni pluralità e singolarità, unitrino e triuno. Vedo, pertanto, che nel muro del paradiso, dove sei tu, Dio mio, la pluralità coincide con la singolarità, e vedo che tu abiti molto oltre quel muro. Insegnami, o Signore, come io possa concepire possibile ciò che vedo essere necessario. Mi sembra infatti impossibile che la pluralità dei tre, senza i quali non ti posso concepire come amore perfetto e naturale, sia una pluralità senza numero – come se uno dicesse, «uno, uno, uno»; dice tre volte «uno», non dice «tre», ma «uno», e questo uno tre volte. Tuttavia, non può dire «uno» tre volte senza il tre, anche se non dice «tre». Infatti, quando dice «uno» tre volte, infatti, ripete la stessa cosa e non numera. Numerare, infatti, significa alterare l’unità, mentre ripetere tre vol-
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numerat. Numerare enim est unum alterare, sed unum et idem triniter replicare est plurificare sine numero. 75 Unde pluralitas, quae in te deo meo per me videtur, est alteritas sine alteritate, quia est alteritas quae identitas. Quando enim video amantem non esse amabilem et nexum non esse nec amantem nec amabilem, non sic video amantem non esse amabilem, quasi amans sit unum et amabilis aliud, sed video distinctionem amantis et amabilis intra murum coincidentiae unitatis et alteritatis esse. Unde distinctio illa, quae est intra murum coincidentiae, ubi distinctum et indistinctum coincidunt, praevenit omnem alteritatem et diversitatem, quae intelligi potest. Claudit enim murus potentiam omnis intellectus, licet oculus ultra in paradisum respiciat, id autem, quod videt, nec dicere nec intelligere potest. Est enim amor secretus suus et thesaurus absconditus, qui inventus manet absconditus. Reperitur enim intra murum coincidentiae absconditi et manifesti. 76 Sed non possum retrahi a suavitate visionis, quin adhuc aliquo modo mihi ipsi referam revelationem distinctionis amantis, amabilis et nexus. Nam dulcissima degustatio eius aliqualiter videtur praegustabilis in figura. Tu enim sic das, domine, quod in me video amorem, quia video me amantem. Et quia video me amare me ipsum, video me amabilem, et naturalissimum nexum me esse video utriusque. Ego sum amans, ego sum amabilis, ego sum nexus. Unus est igitur amor, sine quo non posset aliquod trium esse. Ego unus sum, qui sum amans, et ille idem, qui sum amabilis, et ille idem, qui sum nexus exsurgens ex amore, quo me amo. Ego sum unus et non sum tria. 77 Esto igitur, quod amor meus sit essentia mea uti in te deo meo. Tunc in unitate essentiae meae esset trium praedictorum unitas et in trinitate trium praedictorum essentiae unitas, essentque cuncta in mea essentia contracte modo, quo in te video veraciter et absolute exsistere. Deinde amor amans non foret amor amabilis
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te un’unica ed identica cosa significa rendere [quella cosa] plurale senza impiegare il numero. Perciò, la pluralità che vedo in te, Dio mio, è alterità senza alterità, poiché è un’alterità che è identità. Quando vedo, infatti, che l’amante non è l’amabile e che il nesso non è né l’uno né l’altro, non vedo che l’amante non è l’amabile nel senso che l’amante sia una cosa e l’amabile un’altra, ma vedo che la distinzione tra l’amante e l’amabile è all’interno del muro della coincidenza dell’unità e dell’alterità. Di conseguenza, questa distinzione, che è all’interno del muro della coincidenza, dove il distinto e l’indistinto coincidono, precede ogni forma di alterità e di diversità che noi possiamo intendere. Il muro, infatti, chiude al di fuori di sé la potenza di ogni intelletto, sebbene l’occhio possa guardare al di là del muro, nel paradiso. Ciò che l’occhio vede, tuttavia, l’intelletto non può esprimerlo, né può intenderlo. Si tratta del suo amore segreto e del suo tesoro nascosto, che, pur trovato, resta nascosto172. Viene infatti trovato al di là del muro della coincidenza del nascosto e del manifesto. Ma non posso distogliermi dalla soavità di questa visione, senza riferire in qualche modo a me stesso quanto mi viene rivelato circa la distinzione tra amante, amabile e nesso. Mi sembra infatti che si possa in qualche modo pregustare il sapore dolcissimo di questa rivelazione mediante una sua raffigurazione [che trovo] in me. Tu, infatti, Signore, mi fai vedere in me l’amore, perché vedo che io sono amante. E dal momento che vedo che io amo me stesso, vedo che io sono amabile, e vedo che io sono il nesso più naturale di entrambi. Io sono amante, io sono amabile, io sono il nesso. Uno è dunque l’amore, senza il quale non potrebbe esistere nessuna di queste tre cose. Io, che sono amante, sono uno, e sono quello stesso io che è amabile, e sono quello stesso io che è il nesso che nasce dall’amore con il quale amo me stesso. Io sono uno e non sono tre. Supponiamo, dunque, che il mio amore costituisca la mia essenza, come avviene in te, Dio mio. In questo caso, nell’unità della mia essenza vi sarebbe l’unità dei tre elementi di cui abbiamo parlato e, nella trinità di questi tre elementi, vi sarebbe l’unità della mia essenza, e nella mia essenza vi sarebbe, in maniera contratta, tutto ciò che vedo esistere in te in modo vero e assoluto. Vedo poi che in
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nec nexus. Et hoc experior hac praxi. Nam per amorem amantem, quem ad rem aliam extra me extendo quasi ad amabile extrinsecum essentiae meae, sequitur nexus, quo illi rei astringor, quantum ex me est. Quae res mihi non iungitur eo nexu, quia me non amat. Unde licet eam amem, ita quod amor meus amans se extendat super ipsam, tamen non trahit secum amor amans meus amorem amabilem meum. Non enim fio amabilis sibi. De me enim non curat, licet ipsam valde amem, sicut filius aliquando de matre non curat, quae ipsum tenerrime diligit. 78 Et ita experior amorem amantem non esse amorem amabilem nec nexum, sed distingui video amantem ab amabili et nexu. Quae quidem distinctio non est in essentia amoris, quia non possum amare sive me sive rem aliam a me sine amore. Sic amor est de essentia trium; et sic video trium praedictorum simplicissimam essentiam, licet inter se distinguantur. Expressi, domine, aliqualem praegustationem naturae tuae in similitudine. Sed parce, misericors, quia nitor infigurabilem gustum dulcedinis tuae figurare. Si enim dulcedo pomi incogniti manet omni pictura et figura infigurabilis et omni verbo inexpressibilis, quis sum ego miser peccator, qui nitor te inostensibilem ostendere et te invisibilem visibilem figurare et illam infinitam et penitus inexpressibilem dulcedinem tuam sapidam facere praesumo, quam numquam adhuc gustare merui, et per ea, quae exprimo, eam potius parvam quam magnam facio. 79 Sed tanta est bonitas tua, deus meus, quod etiam sinis caecos de lumine loqui et eius laudes praeconisare, de quo nihil sciunt nec scire possunt, nisi eis reveletur. Revelatio autem gustum non attingit. Auris fidei non attingit dulcedinem degustabilem. Hoc autem tu, deus, revelasti mihi, quia nec auris audivit nec in cor hominis descendit infinitas dulcedinis tuae, quam praeparasti diligentibus te. Revelavit nobis hoc Paulus magnus apostolus tuus, qui ul-
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me l’amore amante non sarebbe amore amabile, né il nesso, e ciò lo provo con questo esempio. Dall’amore amante, che io estendo ad un’altra cosa al di fuori di me, ossia ad un oggetto amabile estraneo alla mia essenza, deriva il nesso con il quale io sono avvinto a quella cosa, per quanto dipende da me. Questa cosa, tuttavia, non è legata a me con quel nesso, perché non mi ama. Di conseguenza, sebbene io la ami, per cui il mio amore amante si estende su di essa, il mio amore amante, tuttavia, non porta con sé il mio amore amabile. Per essa, infatti, io non divento amabile. Non si cura di me, sebbene la ami intensamente, così come il figlio talvolta non si cura della madre, che lo ama nella maniera più tenera. Sperimento in questo modo che l’amore amante non è l’amore amabile, né il nesso, ma vedo che l’amante è distinto dall’amabile e dal nesso. Questa distinzione, certamente, non appartiene nell’essenza dell’amore, perché non io posso amare né me stesso, né una cosa diversa da me, senza l’amore. Così, l’amore è costituito per essenza da tre elementi e vedo che l’essenza di questi tre elementi è semplicissima, sebbene si distinguano fra loro. Ho così illustrato con un esempio, Signore, quella che può essere una certa pregustazione della tua natura. Ma perdonami, o Signore misericordioso, se mi sforzo di rappresentare il sapore irrappresentabile della tua dolcezza. Se, infatti, la dolcezza di un frutto sconosciuto non può essere rappresentata da nessun quadro o immagine, e non può essere espressa da nessuna parola, chi sono io, misero peccatore, per cercare di rendere manifesto te che non sei manifestabile e di rappresentare come visibile te che sei invisibile, e per pretendere di attribuire un sapore alla tua dolcezza, che è infinita e del tutto inesprimibile? Finora non ho mai meritato di assaporarla, e, attraverso le parole che pronuncio, la rendo piccola piuttosto che grande. La tua bontà, tuttavia, è così grande, Dio mio, che permetti anche ai ciechi di parlare della luce e di cantare le lodi di colui del quale non sanno nulla, né possono sapere nulla, se non viene loro rivelato. Ma la rivelazione non riesce a cogliere il sapore. L’orecchio della fede non coglie la dolcezza, che è qualcosa che va assaporato173. Invece tu, Dio, mi hai rivelato che né orecchio ha udito, né è discesa nel cuore dell’uomo l’infinità della tua dolcezza, che tu hai preparato per coloro che ti amano. Ci ha rivelato questo Paolo, il
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tra murum coincidentiae raptus est in paradisum, ubi solum revelate potes videri, qui es fons deliciarum. Conatus sum me subicere raptui confisus de infinita bonitate tua, ut viderem te invisibilem et visionem revelatam irrevelabilem. Quo autem perveni, tu scis, ego autem nescio, et sufficit mihi gratia tua, qua me certum reddis te incomprehensibilem esse, et erigis in spem firmam, quod ad fruitionem tui te duce perveniam. 80
CAPITULUM XVIII
Quod nisi deus trinus esset, non esset felicitas Utinam, domine, aperirent oculos mentis omnes, qui eos tuo dono sunt assecuti, et mecum viderent, quomodo tu, deus zelotes, quia amor amans, nihil odire potes! In te enim deo amabili omnia amabilia complicanti omne amabile amas, ut sic viderent mecum, quo foedere aut nexu sis omnibus unitus. Diligis tu, deus amans, ita omnia quod singula; expandis amorem tuum ad omnes. Multi autem te non diligunt, qui tibi praeferunt aliud a te. Si autem amor amabilis non esset distinctus ab amore amante, esses omnibus adeo amabilis, quod nihil praeter te amare possent et omnes rationales spiritus necessitarentur ad tui amorem. Sed tam nobilis es, deus meus, ut velis in libertate esse rationalium animarum te diligere vel non. Quapropter ad amare tuum non sequitur, quod ameris. Tu igitur, deus meus, amoris nexu omnibus unitus es, quia expandis amorem tuum super omnem creaturam tuam; sed non omnis rationalis spiritus est unitus tibi, quia amorem suum non in tuam amabilitatem proicit, sed in aliud, cui unitur et nectitur. Desponsasti omnem animam rationalem amore tuo amante, sed non omnis sponsa te sponsum amat, sed saepissime alium, cui adhaeret. Sed quomodo posset attingere finem suum sponsa tua, deus meus, anima humana, nisi tu fores diligibilis, ut sic te diligibilem diligendo ad nexum ac unionem felicissimam pertingere posset?
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tuo grande apostolo, che è stato rapito nel paradiso174 al di là del muro della coincidenza, dove solo si può vedere senza veli te, che sei la fonte delle delizie. Mi sono sforzato di dispormi al rapimento, confidando nella tua bontà infinita, per vedere te che sei invisibile ed avere, senza veli, una visione che è irrivelabile. Tu sai, non io, a che punto io sia arrivato175, e a me basta la tua grazia, con la quale mi dai la certezza che sei incomprensibile e mi elevi alla ferma speranza di poter pervenire, grazie alla tua guida, alla fruizione di te. CAPITOLO XVIII
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Se Dio non fosse trino, non vi sarebbe felicità Potessero aprire, Signore, gli occhi della mente tutti coloro che li hanno ricevuti in dono da te, e potessero vedere insieme a me che tu, o Dio geloso, non puoi odiare nulla176, perché sei amore amante! In te stesso, infatti, Dio, che sei amabile e complichi tutte le cose amabili, ami tutto ciò che è amabile. Così, si può vedere con quale vincolo o nesso tu sia unito ad ogni cosa. Tu ami, o Dio amante, tutte le cose insieme così come ami ognuna di esse singolarmente, ed elargisci a tutti il tuo amore. Vi sono invece molti che non ti amano e che preferiscono a te qualcosa di altro da te. Ma se l’amore amante non fosse distinto dall’amore amabile, tu saresti così amabile per tutti che non si potrebbe amare che te, e tutti gli spiriti razionali sarebbero necessariamente costretti ad amarti. Ma tu sei così nobile, Dio mio, da volere che amarti o non amarti spetti alla libertà delle anime razionali. Al tuo amore, pertanto, non si accompagna necessariamente il fatto che tu venga amato. Tu, Dio mio, sei unito con un nesso d’amore a tutti, perché riversi il tuo amore su ogni tua creatura. Tuttavia, non tutti gli spiriti razionali sono uniti a te, perché qualcuno dirige il suo amore non alla tua amabilità, ma a qualcos’altro, cui si unisce e si lega. Tu hai sposato ogni anima razionale con il tuo amore amante. Ciononostante, non ogni sposa ama te come sposo, bensì spessissimo ama un altro al quale si congiunge. Ma l’anima umana, che è la tua sposa, Dio mio, come potrebbe raggiungere il suo fine se tu non fossi amabile, in modo tale che, amando te che sei amabile, essa possa pervenire a quel nesso e a quell’unione che la rendono felicissima?
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igitur negare potest te deum trinum, quando videt, quod neque tu nobilis neque naturalis et perfectus deus esses nec spiritus liberi arbitrii esse nec ipse ad tui fruitionem et felicitatem suam pertingere posset, si non fores trinus et unus. Nam quia es intellectus intelligens et intellectus intelligibilis et utriusque nexus, tunc intellectus creatus in te deo suo intelligibili unionem tui et felicitatem assequi potest. Sic cum sis amor amabilis, potest creata voluntas amans in te deo suo amabili unionem et felicitatem assequi. Qui enim recipit te deum lucem receptibilem rationalem, ad talem usque tui unionem pervenire poterit, ut sit tibi unitus ut filius patri. Video, domine, te illustrante naturam rationalem non posse unionem tui assequi, nisi quia amabilis et intelligibilis. Unde natura humana non est unibilis tibi deo amanti, sic enim non es obiectum eius, sed est tibi unibilis ut deo suo amabili, cum amabile sit amantis obiectum. Sic pariformiter intelligibile est obiectum intellectus; dicimus autem hoc veritatem quod obiectum. Quare tu, deus meus, quoniam es veritas intelligibilis, tibi uniri potest intellectus creatus. 82 Et sic video humanam rationalem naturam tuae divinae naturae intelligibili et amabili tantum unibilem et quod homo te deum receptibilem capiens transit in nexum, qui ob sui strictitudinem filiationis nomen sortiri potest; nexu enim filiationis non cognoscimus strictiorem. Quod si hic nexus unionis est maximus, quo maior esse nequit – hoc evenire necesse erit, quia tu, deus amabilis, plus diligi non potes ab homine – tunc nexus ille usque ad perfectissimam filiationem pervenit, ut filiatio illa sit perfectio complicans omnem possibilem filiationem, per quam omnes filii ultimam felicitatem et perfectionem assequuntur. In quo altissimo filio filiatio est ut ars in magistro aut lux in sole, in aliis vero ut ars in discipulis aut lux in stellis.
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Chi può negare che tu sia un Dio trino, quando si vede che, se tu non fossi trino e uno, non saresti un Dio nobile, naturale e perfetto, né esisterebbe lo spirito del libero arbitrio, né tale spirito potrebbe giungere alla fruizione di te e alla sua felicità? È proprio perché tu sei intelletto che intende, intelletto intelligibile e nesso di entrambi, che l’intelletto creato può conseguire in te, suo Dio intelligibile, l’unione con te e la felicità. Analogamente, dal momento che tu sei amore amabile, la volontà creata che ama può conseguire in te, suo Dio amabile, l’unione e la felicità. Infatti, colui che accoglie te, Dio, che sei luce razionale atta ad essere ricevuta, potrà pervenire a una tale unione con te da essere unito a te come un figlio è unito al padre. Vedo, Signore, grazie al fatto che tu mi illumini, che una natura razionale non può conseguire l’unione con te se non perché tu sei amabile e intelligibile. Perciò, la natura umana non può unirsi a te, in quanto Dio amante, perché sotto questo aspetto, non sei il suo oggetto; può unirsi invece a te, in quanto Dio amabile, poiché l’amabile è oggetto dell’amante. Allo stesso modo, l’intelligibile è l’oggetto dell’intelletto. Ora, noi chiamiamo ciò che è oggetto dell’intelletto «verità». Pertanto, l’intelletto creato può unirsi a te, Dio mio, perché tu sei verità intelligibile. E in questo modo vedo che la natura umana razionale può unirsi alla tua natura divina solo in quanto essa è intelligibile, e vedo che un uomo che accoglie te, o Dio, che puoi essere accolto, consegue un nesso che è così stretto da poter essere chiamato «filiazione». Non conosciamo, infatti, un nesso più stretto della filiazione. Se questo nesso di unione è il nesso massimo di cui non ce ne può essere uno maggiore (e sarà necessariamente così, perché tu, Dio amabile, non puoi essere amato di più dall’uomo), allora tale nesso giunge fino alla filiazione più perfetta, in modo tale che questa filiazione è la perfezione che complica in sé ogni possibile filiazione e che consente a tutti i figli di conseguire la felicità e la perfezione ultima. In questo figlio altissimo [Gesù], la filiazione è come l’arte nel maestro o la luce nel sole; negli altri figli, invece, è come l’arte nei discepoli o la luce nelle stelle.
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CAPITULUM XIX
Quomodo Ihesus unio dei et hominis Ago ineffabiles gratias tibi deo, vitae et luci animae meae. Nam video nunc fidem, quam revelatione apostolorum tenet catholica ecclesia, quomodo scilicet tu deus amans de te deum generas amabilem, atque quod tu, deus genitus amabilis es absolutus mediator; per te enim est omne id, quod est et esse potest. Tu enim deus volens seu amans in te deo amabili complicas omnia. Omne enim, quod tu deus volens vis aut concipis, est in te deo amabili complicatum. Non enim esse potest quidquam, nisi illud velis esse. Omnia igitur in conceptu tuo amabili causam seu rationem habent essendi, neque est alia rerum omnium causa, nisi quia sic tibi placet. Nihil placet amanti ut amanti nisi amabile. Tu igitur deus amabilis es filius dei amantis patris. In te enim est omnis complacentia patris. Ita omne esse creabile complicatur in te deo amabili. Tu igitur deus amans, cum ex te sit amabilis deus uti filius a patre, in hoc quod es deus pater amans dei amabilis filii tui, es pater ipso. Et unio tui et tui conceptus est actus et operatio exsurgens, in qua est omnium actus et explicatio. 84 Sicut igitur ex te deo amante generatur deus amabilis, quae generatio est conceptio, ita procedit ex te deo amante et conceptu tuo amabili a te genito actus tuus et tui conceptus, qui est nexus nectens et deus uniens te et conceptum tuum, quemadmodum amare unit amantem et amabile in amore. Et hic nexus spiritus nominatur. Spiritus enim est ut motus procedens a movente et mobili. Unde motus est explicatio conceptus moventis. Explicantur igitur omnia in te deo spiritu sancto, sicut concipiuntur in te deo filio. Video igitur, quia tu, deus, sic me illustras, quomodo omnia in te deo filio dei patris sunt ut in ratione, conceptu, causa seu exem-
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CAPITOLO XIX
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Gesù è l’unione di Dio e dell’uomo Ti ringrazio infinitamente, Dio, vita e luce dell’anima mia. Vedo ora, infatti, la fede che professa la chiesa cattolica, grazie alla rivelazione degli apostoli, ossia che tu, Dio amante, generi da te stesso il Dio amabile, e che tu, Dio amabile generato, sei il mediatore assoluto. Attraverso di te, infatti, esiste tutto ciò che è e che può essere. Tu, Dio volente o amante, complichi tutte le cose in te, Dio amabile. Tutto ciò che tu, Dio volente, vuoi o concepisci, è complicata in te, Dio amabile. Non può infatti esistere nessuna cosa se tu non vuoi che esista. Tutte le cose, pertanto, hanno la loro causa o ragion d’essere nel tuo concetto amabile. Non vi è altra causa di tutte le cose, se non che a te piace che esistano. E all’amante, in quanto amante, non piace se non ciò che è amabile. Tu, dunque, Dio amabile, sei figlio del Dio padre amante. In te risiede tutta la compiacenza del padre. Così, ogni ente che può essere creato è complicato in te, Dio amabile177. Pertanto, dal momento che da te, Dio amante, nasce il Dio amabile, come un figlio nasce dal padre, allora, per il fatto che tu, Dio amante, sei padre del figlio tuo, del Dio amabile, sei padre di tutte le cose che sono. Il figlio tuo, infatti, è il tuo concetto, e in lui sono tutte le cose178. E l’unione di te e del tuo concetto fa sorgere un atto e un’operazione, nelle quali risiedono l’atto e l’esplicazione di tutte le cose. Come da te, Dio amante, è generato il Dio amabile – questa generazione è un concepire –, così da te, Dio amante, e dal tuo concetto amabile, che è generato da te, procede l’atto tuo e del tuo concetto, il quale è il nesso connettente, è Dio che unisce te e il tuo concetto, nello stesso modo in cui l’atto d’amore unisce l’amante e l’amabile nell’amore. Questo nesso si chiama spirito. Lo spirito, infatti, è come un movimento che procede da ciò che muove e da ciò che può essere mosso. Di conseguenza, il movimento è l’esplicazione del concetto di ciò che muove. Tutte le cose, pertanto, sono esplicate in te, Dio spirito santo, così come sono concepite in te, Dio figlio. Vedo, dunque, poiché così tu, Dio, mi illumini, che tutte le cose in te, Dio figlio di Dio padre, sono come nel loro principio razionale, nel loro concetto, nella loro causa o nel loro esem-
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plari, et quomodo filius est medium omnium, quia ratio. Mediante enim ratione et sapientia tu deus pater omnia operaris. Et spiritus seu motus ponit conceptum rationis in effectu, sicut experimur arcam in mente artificis poni mediante virtute motiva, quae inest manibus, in effectu. 85 Video deinde, deus meus, filium tuum esse medium unionis omnium, ut cuncta in te mediante filio tuo quiescant. Et video Ihesum benedictum hominis filium filio tuo unitum altissime, et quod filius hominis non potuit tibi deo patri uniri nisi mediante filio tuo mediatore absoluto. Quis non altissime rapitur haec attentius prospiciens? Aperis enim tu, deus meus, mihi misero tale occultum, ut intuear hominem non posse te patrem intelligere nisi in filio tuo, qui est intelligibilis et mediator, et quod te intelligere est tibi uniri. Potest igitur homo tibi uniri per filium tuum, qui est medium unionis. Et natura humana altissime tibi unita, in quocumque homine hoc fuerit, non potest plus medio uniri quam unita est; sine enim medio tibi uniri nequit. Unitur igitur medio maxime, non tamen fit medium. Unde quamvis non possit fieri medium, cum sine medio non possit tibi uniri, sic tamen iungitur medio absoluto, quod inter ipsam et filium tuum, qui est medium absolutum, nihil mediare potest. Si enim aliquid mediare posset inter naturam humanam et medium absolutum, tunc tibi altissime non uniretur. 86 O Ihesu bone, video in te naturam humanam altissime iungi deo patri per unionem altissimam, qua iungitur deo filio mediatore absoluto. Filiatio igitur humana, quia tu filius hominis, filiationi divinae in te, Ihesu, altissime unita est, ut merito dicaris filius dei et hominis, quoniam in te nihil mediat inter filium hominis et filium
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plare, e vedo che il figlio è il mezzo attraverso il quale vengono tutte le cose, perché è il principio razionale [di tutte le cose]. Tu, Dio padre, infatti, fai tutto per mezzo della ragione e della sapienza. E lo spirito o movimento realizza ciò che la ragione concepisce, così come sappiamo per esperienza che una cassa che è nella mente del costruttore viene realizzata per mezzo della forza del movimento che è presente nelle sue mani. Vedo inoltre, Dio mio, che il figlio tuo è il mezzo che unisce tutte le cose, in modo tale che tutte le cose possano trovare quiete in te mediante il figlio tuo. Vedo che Gesù benedetto, figlio dell’uomo, è stato unito al figlio tuo nel modo più alto, e vedo che il figlio dell’uomo non ha potuto essere unito a te, Dio padre, se non mediante il figlio tuo, che è il mediatore assoluto. Chi non si sente rapito in cielo, quando contempla con attenzione queste verità? Tu, infatti, Dio mio, riveli a me misero un simile segreto, affinché io possa riconoscere che l’uomo non può intendere te, padre, se non nel figlio tuo, che è intelligibile e mediatore179, e che intendere te significa essere unito a te. L’uomo, pertanto, può unirsi a te attraverso il figlio tuo, che è il mezzo attraverso il quale avviene questa unione. E la natura umana, che è la natura unita a te nel modo più alto, in qualunque uomo avvenga questa unione, non può essere unita al mezzo più di quanto sia unita. Senza un mezzo, infatti, non può unirsi a te. Si unisce, pertanto, mediante un mezzo massimo, senza, tuttavia, diventare mezzo. Quindi, sebbene la natura umana non possa diventare il mezzo, in quanto non può unirsi a te senza un mezzo, essa è nondimeno così unita al mezzo assoluto, che tra essa e il figlio tuo, che è il mezzo assoluto, non può esservi nulla che faccia da mediatore. Se vi fosse qualcosa che potesse mediare tra la natura umana e il mezzo assoluto, allora la natura umana non sarebbe unita a te nel modo più alto. O Gesù buono, vedo che in te la natura umana è congiunta a Dio padre mediante la forma più alta di unione, quella, cioè, con la quale è congiunta a Dio figlio, che è il mediatore assoluto. In te, Gesù, pertanto, la filiazione umana, per la quale tu sei figlio dell’uomo, è unita nel modo più alto alla filiazione divina, per cui giustamente sei detto «figlio di Dio e dell’uomo», perché non c’è nulla in te che possa mediare fra il figlio dell’uomo e il figlio di
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dei. In filiatione absoluta, quae est filius dei, omnis complicatur filiatio, cui filiatio humana tua, Ihesu, est supreme unita. Subsistit igitur humana filiatio tua in divina non solum complicite, sed ut attractum in attrahente et unitum in uniente et substantiatum in substantiate. Non est igitur possibilis separatio filii hominis a filio dei in te, Ihesu. Nam separabilitas evenit ex hoc, quod unio potuit esse maior. Ubi autem unio non potest esse maior, nihil mediare potest. Separatio igitur non habebit ibi locum, ubi nihil mediare potest inter unita. Ubi autem unitum non subsistit in uniente, unio non est altissima. Maior est unio, ubi unitum subsistit in uniente, quam ubi unitum separatim subsistit. Separatio enim est remotio ab unione maxima. Sic video in te Ihesu meo, quomodo filiatio humana, qua es filius hominis, subsistit in filiatione divina, qua es filius dei, sicut in maxima unione unitum in uniente. Tibi gloria, deus, in saecula. 87
CAPITULUM XX
Quomodo intelligitur Ihesus copulatio divinae et humanae naturae Ostendis mihi, lux indeficiens, maximam unionem, qua natura humana in Ihesu meo est tuae divinae naturae unita, non esse quo vis modo infinitae unioni similem. Unio enim, qua unione tu, deus pater, es unitus deo filio tuo, est deus spiritus sanctus; et ideo est infinita unio. Pertingit enim in identitatem absolutam et essentialem. Non sic, ubi natura humana unitur divinae. Nam humana natura non potest transire in unionem cum divina essentialem, sicut finitum non potest infinito infinite uniri; transiret enim in identitatem infiniti et sic desineret esse finitum, quando de eo verificaretur infinitum. Quapropter haec unio, qua natura humana est naturae
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Dio180. Nella filiazione assoluta, che è quella del figlio di Dio, è complicata ogni filiazione, e ad essa, o Gesù, è unita in modo massimo la tua filiazione umana. La tua filiazione umana, dunque, sussiste in quella divina, non soltanto in maniera complicata, bensì come ciò che viene attratto sussiste in ciò che attrae, ciò che viene unito in ciò che unisce e ciò che riceve la sostanza in ciò che la conferisce. In te, Gesù, non è pertanto possibile una separazione del figlio dell’uomo dal figlio di Dio. La possibilità di essere separato, infatti, deriva dal fatto che l’unione può essere maggiore. Dove l’unione non può essere maggiore, nulla può mediare. Dove, pertanto, non c’è nulla che possa fungere da mediatore fra le cose che risultano unite, non potrà verificarsi alcuna separazione. Dove, invece, l’unito non sussiste in ciò che unisce, l’unione non è la più alta. L’unione è maggiore dove l’unito sussiste in ciò che unisce, piuttosto che dove l’unito sussiste separatamente. La separazione, infatti, è un allontanarsi dall’unione massima. In questo modo, in te, Gesù mio, vedo che la filiazione umana, per la quale sei figlio dell’uomo, sussiste nella filiazione divina, per la quale sei figlio di Dio, così come nell’unione massima l’unito sussiste in ciò che unisce. Gloria a te, o Dio, nei secoli. CAPITOLO XX
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Come si deve intendere in Gesù l’unione della natura umana e della natura divina Tu mi mostri, o luce inesauribile, che l’unione massima, per la quale in Gesù mio la natura umana è unita alla tua natura divina, non è in nessun modo simile all’unione infinita. Infatti, l’unione grazie alla quale tu, Dio Padre, sei unito a Dio, tuo figlio, è Dio, spirito santo; e questa è un’unione infinita. Essa giunge, infatti, ad un’identità assoluta ed essenziale. Ma non accade lo stesso dove la natura umana è unita alla divina. La natura umana, infatti, non può trasformarsi in un’unione essenziale con la natura divina, così come il finito non può essere unito all’infinito infinitamente. In questo caso, infatti, il finito diventerebbe identico all’infinito, e così cesserebbe di essere finito, nel momento in cui si predicasse di esso l’infinito. Perciò, questa unione, mediante la quale la natura
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divinae unita, non est nisi attractio naturae humanae ad divinam in altissimo gradu, ita quod natura ipsa humana ut talis elevatius attrahi nequit. Maxima igitur est unio eius naturae humanae ut humanae ad divinam, quia maior esse nequit, sed non est simpliciter maxima et infinita, ut est unio divina. 88 Video igitur ex benignitate gratiae tuae in te, Ihesu, filio hominis filium dei et in te filio dei patrem. In te autem filio hominis filium dei video, quia ita es filius hominis quod filius dei, et in natura attracta finita video naturam attrahentem infinitam. Video in filio absoluto patrem absolutum; filius enim non potest ut filius videri, nisi pater videatur. Video in te, Ihesu, filiationem divinam, quae est veritas omnis filiationis, et pariter altissimam humanam filiationem, quae est propinquissima imago absolutae filiationis. Sicut igitur imago, inter quam et exemplar non potest mediare perfectior imago, propinquissime subsistit in veritate, cuius est imago, sic video naturam tuam humanam in divina natura subsistentem. Omnia igitur in natura humana tua video, quae et video in divina, sed humaniter illa esse video in natura humana, quae sunt ipsa divina veritas in natura divina. Quae humaniter video esse in te, Ihesu, similitudo sunt divinae naturae. Sed similitudo est sine medio iuncta exemplari, ita quod magis similis nec esse nec cogitari potest in natura humana seu rationali. 89 Video spiritum rationalem humanum spiritui divino, qui est absoluta ratio, strictissime unitum, et sic intellectum humanum intellectui divino et omnia in intellectu tuo, Ihesu. Intelligis enim omnia, Ihesu, ut deus, et hoc intelligere est esse omnia. Intelligis omnia ut homo, et hoc intelligere est esse similitudinem omnium. Non enim res intelligitur per hominem nisi in similitudine. Lapis non est in intellectu humano ut in causa vel ratione propria eius, sed ut
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umana è unita alla natura divina, è solamente l’attrazione, nel grado assolutamente più elevato, della natura umana verso quella divina, di modo che la natura umana, in quanto tale, non può essere attratta in maniera più elevata. L’unione della natura umana, in quanto umana, con quella divina è massima, in quanto non può esservene una maggiore, ma non è infinita e massima in senso assoluto, come è l’unione divina. Per la bontà della tua grazia, in te Gesù, figlio dell’uomo, vedo il figlio di Dio; e in te, figlio di Dio, vedo il padre181. Vedo in te, figlio dell’uomo, il figlio di Dio, perché tu sei figlio dell’uomo in modo tale da essere figlio di Dio. E nella natura finita che viene attratta vedo la natura infinita che attrae. Nel figlio assoluto vedo il padre assoluto. Non si può infatti vedere un figlio, in quanto figlio, se non si vede il padre. In te, Gesù, vedo la filiazione divina, che è la verità di ogni filiazione, ed allo stesso tempo vedo la più alta filiazione umana, che è l’immagine più vicina alla filiazione assoluta. Pertanto, come un’immagine, che non abbia fra sé e il suo esemplare un’immagine più perfetta che funga da mediatrice, sussiste nella maniera più prossima nella verità di cui è immagine, così vedo che la tua natura umana sussiste nella natura divina; tuttavia, le cose che, nella natura divina, sono la stessa verità divina, vedo che, nella natura umana, sono in modo umano. Ciò che in te, Gesù, vedo in modo umano è un’immagine della natura divina. Tale immagine, tuttavia, è congiunta al suo esemplare senza la mediazione di alcun mezzo, in maniera tale che, per quanto riguarda la natura umana o razionale, non può esservi, né può essere pensata, un’immagine più simile di questa. Vedo che [nella tua natura umana] lo spirito razionale dell’uomo è unito nel modo più stretto allo spirito divino, che è ragione assoluta, e, in maniera analoga, vedo anche che il tuo intelletto umano è unito all’intelletto divino, e nel tuo intelletto, o Gesù, tutte le cose. Tu, infatti, Gesù intendi tutte le cose, in quanto sei Dio, e questo tuo intendere è un essere tutte le cose; tu intendi tutte le cose come uomo, e questo intendere è un essere immagine di tutte le cose. Una cosa, infatti, viene intesa dall’uomo solo per mezzo di un’immagine. Una pietra non è presente nell’intelletto umano come è presente nella sua causa o nel suo principio razionale, ma
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in specie et similitudine. Est igitur in te, Ihesu, unitum intelligere humanum ipsi intelligere divino sicut perfectissima imago veritati exemplari, ac si in mente artificis considerarem formam arcae idealem et speciem arcae perfectissimae per magistrum ipsum secundum ideam factae; quomodo tunc forma idealis est veritas speciei et unita ei ut veritas imagini in uno magistro, ita in te, Ihesu, magistro magistrorum video absolutam ideam rerum omnium pariter et speciem similitudinariam earundem altissime uniri. Video, Ihesu bone, te intra murum paradisi, quoniam intellectus tuus est veritas pariter et imago et tu es deus pariter et creatura, infinitus pariter et finitus. Et non est possibile, quod citra murum videaris. Es enim copulatio divinae creatricis naturae et humanae creatae naturae. 90 Hoc autem inter tuum humanum intellectum et alterius cuiuslibet hominis interesse video, quia nemo hominum scit omnia, quae per hominem sciri possunt, quia nullius hominis intellectus est ita coniunctus exemplari rerum omnium ut similitudo veritati, quin possit propinquius coniungi et magis in actu constitui. Et ideo non tot intelligit, quin plura intelligere posset per accessum ad exemplar rerum, a quo habet actualitatem omne actu exsistens. Tuus autem intellectus actu omnia per hominem intelligibilia intelligit, quia in te natura humana est perfectissima et exemplari suo coniunctissima. Ob quam quidem unionem intellectus tuus humanus omnem creatum excedit intellectum in perfectione intelligendi. Omnes igitur rationales spiritus longe sunt infra te, quorum omnium tu, Ihesu, magister et lux exsistis. Et tu es perfectio et plenitudo omnium, et per te ad absolutam veritatem tamquam per mediatorem accedunt. Tu enim es via ad veritatem pariter et ipsa veritas. Tu es via ad vitam intellectus pariter et vita ipsa. Tu es odor cibi laetitiae pariter et gustus laetificans. Sis igitur, dulcissime Ihesu, semper benedictus.
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come è nella sua specie o immagine. In te, Gesù, l’intendere umano è unito allo stesso intendere divino, così come l’immagine più perfetta è unita alla verità, ovvero al suo esemplare; è come se considerassi la forma ideale di una cassa quale è presente nella mente di un artigiano e poi l’immagine di una casa perfettissima prodotta grazie alla maestria dell’artigiano secondo quella idea; in maniera analoga, come la forma ideale è la verità della specie ed è unita ad essa, in un unico maestro, così in te, Gesù, sono unite, nel modo più elevato, l’idea assoluta di tutte le cose e le specie o immagini di queste cose. Ti vedo, buon Gesù, all’interno del muro del paradiso, perché il tuo intelletto è al tempo stesso verità e immagine; e tu sei al tempo stesso Dio e creatura, infinito e finito. E non è possibile che tu sia visto al di qua del muro. Sei, infatti, l’unione della natura divina creatrice e della natura umana creata. Vedo, nondimeno, che tra il tuo intelletto umano e quello di qualsiasi altro uomo vi è questa differenza: che nessun uomo sa tutte le cose che possono essere sapute dall’uomo, in quanto l’intelletto di nessun uomo è congiunto all’esemplare di tutte le cose – come un’immagine è congiunta alla sua verità – in un modo tale da non poter essere congiunto ad essa in maniera più stretta e da non poter realizzarsi in atto in un grado maggiore. Per questo motivo, l’uomo non intende così tante cose da non poterne intendere di più, come accadrebbe se avesse accesso all’esemplare delle cose, dal quale ogni cosa che esiste in atto ha il suo essere in atto. Invece, il tuo intelletto [Gesù] intende in atto tutto ciò che può essere inteso dall’uomo, perché in te la natura umana è perfettissima ed è congiunta in modo massimo al suo esemplare. In virtù di questa unione, il tuo intelletto umano supera, nella perfezione del comprendere, ogni intelletto creato. Tutti gli spiriti razionali, pertanto, sono di gran lunga inferiori a te, Gesù, che sei il maestro e la luce di tutti loro. Sei la perfezione e la pienezza di tutti; grazie a te, che sei il mediatore, essi accedono alla verità assoluta. Tu, infatti, sei, ad un tempo, la via che conduce alla verità e la verità stessa182. Sei, ad un tempo, la via che conduce alla vita dell’intelletto e la vita stessa. Sei il profumo del cibo della gioia e, ad un tempo, il gusto che dà gioia. Per questo, che tu sia, Gesù, sempre benedetto.
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CAPITULUM XXI
Quod sine Ihesu non sit possibilis felicitas Ihesu, finis universi, in quo quiescit tamquam in ultimitate perfectionis omnis creatura, tu es omnibus huius mundi sapientibus penitus ignotus, quia de te contradictoria verissima affirmamus, cum sis creator pariter et creatura, attrahens pariter et attractum, finitum pariter et infinitum; stultitiam asserunt id credere possibile. Fugiunt igitur nomen tuum et lucem tuam, qua nos illuminasti, non capiunt. Sed cum se putent sapientes, stulti et ignorantes et caeci manent in aeternum. Si autem crederent, quia tu es Christus, deus et homo, et verba evangelii ut tanti magistri reciperent et tractarent, clarissime tandem conspicerent omnia in comparatione illius lucis in simplicitate verborum tuorum ibi occultatae penitus esse densissima tenebra et ignorantia. Solum igitur parvuli creduli hanc consequuntur gratiosissimam et vivificam revelationem. Est enim in tuo sacratissimo evangelio, qui cibus est caelestis, uti in manna omnis dulcedo desiderii abscondita, quae non potest degustari nisi per credentem et manducantem. Si quis vero credit et accipit, experitur verissime, quia tu de caelo descendisti et solus es magister veritatis. 92 O Ihesu bone, tu es arbor vitae in paradiso deliciarum. Nemo enim poterit cibari vita desiderabili nisi ex fructu tuo. Es cibus prohibitus, Ihesu, omnibus filiis Adae, qui de paradiso expulsi in terra, in qua laborant, quaerunt, unde vivant. Oportet igitur omnem hominem exuere veterem praesumptionis hominem et induere novum humilitatis hominem, qui secundum te est, si intra paradisum deliciarum vitae cibum sperat degustare. Una est natura novi et veteris hominis, sed est in veteri Adam animalis, in te novo Adam spiritualis, quia in te, Ihesu, est unita deo, qui spiri-
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trattato sulla visione di dio, xxi 91-92
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CAPITOLO XXI
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Senza Gesù non è possibile la felicità Gesù, fine ultimo dell’universo, nel quale ogni creatura trova la sua pace, come nella sua perfezione più alta, tu sei completamente sconosciuto a tutti i sapienti di questo mondo183, poiché di te affermiamo, in modo del tutto vero, cose contraddittorie, in quanto tu sei, al tempo stesso, creatore e creatura, ciò che attrae e ciò che è attratto, finito e infinito. Essi, invece, sostengono che credere che ciò sia possibile sia una follia. E così fuggono il tuo nome e non accolgono la tua luce, con la quale ci hai illuminato184. Ma, sebbene si reputino sapienti, essi restano stolti, ignoranti e ciechi in eterno185. Se, al contrario, credessero che tu sei il Cristo, Dio e uomo, e accogliessero e considerassero le parole del vangelo come le parole di un maestro così grande, essi scoprirebbero finalmente nel modo più chiaro che tutte le cose, in confronto alla luce nascosta nella semplicità delle tue parole, sono profondissima tenebra e ignoranza186. Soltanto coloro che credono con la semplicità dei bambini, pertanto, conseguono questa rivelazione piena di grazia e di vita187. Nel tuo santissimo vangelo, infatti, che è cibo celeste, è nascosta, come nella manna188, ogni dolcezza desiderata, la quale non può essere assaporata se non da colui che crede e se ne ciba. Ma se uno crede e accoglie la tua parola189, egli scopre nel modo più vero che tu sei disceso dal cielo e che sei il solo maestro di verità. O Gesù buono, tu sei l’albero della vita nel paradiso delle delizie. Nessuno, infatti, potrà nutrirsi della vita che desidera se non si nutre del tuo frutto. Sei il cibo proibito, Gesù, a tutti i figli di Adamo, che sono stati cacciati dal paradiso e sono stati gettati sulla terra, dove faticano per cercare i mezzi per vivere190. È necessario, pertanto, che ogni uomo si spogli del vecchio uomo della presunzione e si rivesta dell’uomo nuovo dell’umiltà191, che è conforme a te, se vuole sperare di assaporare il cibo della vita che si trova all’interno del paradiso delle delizie. Una sola è la natura dell’uomo nuovo e dell’uomo vecchio192, ma nel vecchio Adamo questa natura è carnale, mentre in te, nuovo Adamo, è spirituale193, poiché in te, Gesù, è unita a Dio, che è spirito194. Occorre perciò che
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tus est. Oportet igitur omnem hominem sicut per communem naturam humanam ipsius et tui ita et in uno spiritu tibi, Ihesu, uniri, ut sic in sua natura tibi, Ihesu, communi accedere possit ad deum patrem, qui est in paradiso. Videre igitur deum patrem et te Ihesum filium eius est esse in paradiso et gloria sempiterna, quia extra paradisum constitutus non potest talem habere visionem, cum nec deus pater nec tu, Ihesu, sis extra paradisum reperibilis. Omnis homo igitur felicitatem assecutus est, qui tibi, Ihesu, ut membrum capiti suo unitus est. 93 Nemo potest venire ad patrem nisi per patrem attractus. Tuam, Ihesu, humanitatem per filium suum pater attraxit et per te, Ihesu, omnes attrahit pater homines. Sicut igitur humanitas tua, Ihesu, est filio dei patris unita tamquam medio, per quod pater ipsam attraxit, ita cuiuslibet hominis humanitas tibi, Ihesu, tamquam unico medio, per quod pater omnes attrahit homines, est unita. Es igitur, Ihesu, sine quo impossibile est quemquam felicitatem assequi. Es, Ihesu, revelatio patris. Nam pater est omnibus hominibus invisibilis et tibi filio eius solum visibilis et illi post te, qui per te et tua revelatione ipsum videre merebitur. Tu es igitur uniens omnem felicem, et omnis felix in te subsistit sicut unitum in uniente. Nullus sapientum huius mundi felicitatem veram capere potest, quando te ignorat. Nemo felicem videre potest nisi tecum, Ihesu, intra paradisum. De felice verificantur contra dictoria sicut de te, Ihesu, cum tibi in rationali natura et uno spiritu sit unitus. Subsistit enim omnis spiritus felicis in tuo sicut unificatus in unificante. Videt omnis spiritus felix invisibilem deum et unitur in te, Ihesu, inaccessibili et immortali deo. Et sic finitum in te unitur infinito et inunibili et capitur incomprehensibilis fruitione aeterna, quae est felicitas gaudiosissima numquam consumptibilis. Miserere, Ihesu, miserere, et da mihi revelate videre te, et salva facta est anima mea.
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trattato sulla visione di dio, xxi 92-93
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ogni uomo, come è unito a te dalla natura umana che è comune a se stesso e a te, così sia unito a te, Gesù, in un solo spirito, affinché, nella sua natura, che è comune anche a te, possa aver accesso a Dio padre, che è in paradiso. Ne segue che vedere Dio padre e vedere te, Gesù, suo figlio, significa essere in paradiso e nella gloria eterna, poiché colui che si trova al di fuori del paradiso non può avere una tale visione, dal momento che né Dio padre, né tu, Gesù, potete essere trovati al di fuori del paradiso195. Pertanto, consegue la felicità ogni uomo che è unito a te, Gesù, come un membro del corpo è unito alla sua testa. Nessuno può venire al padre, se il padre non lo attrae196. Il padre ha attratto la tua umanità, Gesù, attraverso suo figlio, e attraverso te, Gesù, attrae tutti gli uomini. Come la tua umanità, Gesù, è unita al figlio di Dio padre, come al mezzo attraverso il quale il padre l’ha attratta, così l’umanità di ogni uomo è unita a te, Gesù, quale unico mezzo attraverso cui il padre attrae tutti gli uomini. Sei colui senza il quale è impossibile conseguire una qualsivoglia felicità, Gesù. Tu, Gesù, sei la rivelazione del padre197. Il padre, infatti, è invisibile a tutti gli uomini ed è visibile soltanto a te, che sei suo figlio198, e a chi, dopo di te, meriterà di vederlo attraverso te e la tua rivelazione199. Tu, dunque, sei colui che unisce ogni persona che è felice e ogni persona felice sussiste in te come ciò che è unito sussiste in ciò che unisce. Nessuno dei sapienti di questo mondo200 può cogliere la vera felicità, se ti ignora. Nessuno può vedere una persona felice, se è non insieme a te, Gesù, all’interno del paradiso. Di colui che è felice si predicano cose contraddittorie, come di te, Gesù, dal momento che è unito a te nella natura razionale e in un solo spirito. Ogni spirito felice sussiste nel tuo, come colui che è vivificato in colui che vivifica. Ogni spirito felice vede il Dio invisibile ed è unito in te, Gesù, al Dio inaccessibile e immortale. E così, in te, il finito è unito all’infinito e a ciò che non è unibile, e l’incomprensibile viene colto con una fruizione eterna, la quale è una felicità piena di gioia e inesauribile. Abbi pietà, Gesù, abbi pietà201, e concedimi di vederti senza veli e la mia anima sarà salva202.
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CAPITULUM XXII
Quomodo Ihesus videat et operatus sit Non potest oculus mentis satiari videndo te Ihesum, quia es complementum omnis mentalis pulchritudinis; et in hac eicona conicio mirabilem valde ac stupidum visum tuum, Ihesu superbenedicte. Nam tu, Ihesu, dum in hoc sensibili mundo ambulares, carneis nobis similibus oculis utebaris. Cum illis enim non secus quam nos homines unum et unum videbas. Erat enim in oculis tuis spiritus quidam, qui erat organi forma quasi sensibilis anima in corpore animalis; in eo spiritu erat vis nobilis discretiva, per quam videbas, domine, distincte et discrete hoc coloratum sic et aliud aliter; atque altius ex figuris faciei et oculorum hominum, quos videbas, verus eras iudex passionum animae, irae, laetitiae et tristitiae; atque adhuc subtilius ex paucis signis comprehendebas id, quod in hominis mente latebat. Nihil enim in mente concipitur, quod non in facie et maxime in oculis aliquo modo non signetur, cum sit cordis nuntius. 95 Multo enim in his omnibus iudiciis verius attingebas interiora animae quam quisque creatus spiritus. Ex uno enim aliquo licet parvo valde signo totum videbas hominis conceptum, uti intelligentes ex paucis verbis omnem longum praevident explicandum sermonem praeconceptum, et bene docti, dum parvo tempore iniciunt oculos in librum, totum, ac si legissent, recitant scriptoris intentum. Excellebas, Ihesu, in hoc visionis genere omnes omnium hominum praeteritorum, praesentium et futurorum perfectiones, velocitates et acuties. Et haec visio humana erat, quae sine carnali oculo non perficiebatur; fuit tamen stupenda et admirabilis. Nam si homines reperiuntur, qui longa et subtili discussione mentem scribentis sub tunc
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CAPITOLO XXII
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Gesù vede e opera L’occhio della mente non è mai sazio di contemplarti, o Gesù, in quanto tu sei il compimento di ogni bellezza della mente; e guardando questa icona, congetturo quale possa essere la bellezza meravigliosa e straordinaria del tuo volto, Gesù quanto mai benedetto. Infatti, quando camminavi in questo mondo sensibile, utilizzavi gli occhi corporei che sono simili ai nostri. Con quelli vedevi una cosa distinta dall’altra, come facciamo noi uomini. Nei tuoi occhi vi era infatti un certo spirito, che era la forma dell’organo, come l’anima sensitiva è presente nel corpo di un animale. In quello spirito era contenuta la nobile capacità di distinguere203, in virtù della quale tu, o Signore, vedevi, in maniera distinta e separata, una cosa di un colore e un’altra cosa di un altro colore. E poi, in maniera ancora più profonda, dalle espressioni del volto e dagli occhi degli uomini, che guardavi, ti formavi un vero giudizio sulle passioni dell’anima, sull’ira, la gioia e la tristezza. E in maniera ancora più acuta, da pochi segni esteriori riuscivi a comprendere ciò che si nascondeva nella mente di un uomo204. Tutto ciò che viene concepito nella mente, infatti, appare in qualche modo nel volto e soprattutto negli occhi, essendo il volto il messaggero del cuore. In tutti questi tuoi giudizi, riuscivi a cogliere i recessi dell’anima in modo molto più veritiero di quanto riesca a fare qualsiasi spirito creato. Da un qualsiasi segno esteriore, per quanto piccolissimo, vedevi tutti i pensieri di un uomo, come fanno le persone, le quali da poche parole sanno prevedere tutto il discorso che ha in mente colui che parla e che da esse dovrà svilupparsi, e come fanno coloro che sono bene istruiti, i quali, non appena gettano per breve tempo gli occhi su un libro, sanno esporre l’intento dello scrittore, come se avessero letto tutto. In questo tipo di visione, tu, Gesù, superavi tutta la perfezione, la rapidità e l’acutezza di tutti gli uomini del passato, del presente e del futuro. E questo era un modo di vedere umano, che non poteva compiersi senza l’occhio corporeo; nonostante ciò, fu una visione stupenda e meravigliosa. Se, infatti, si trovano uomini che, attraverso una lunga e sottile analisi, riescono a cogliere l’intenzione di una persona che
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noviter fictis characteribus et invisis signis legunt, tu, Ihesu, sub omni signo et figura omnia videbas. 96 Si aliquando homo repertus legitur, qui cogitationem interrogantis eum vidit ex quibuscumque oculi signis, etiam si metrum aliquod mente cantabat, melius omnibus tu, Ihesu, ex omni nutu oculorum omnem conceptum deprehendebas. Vidi ego mulierem surdam, quae ex motu labiorum filiae suae, quem vidit, omnia, ac si audisset, intellexit. Si hoc ex consuetudine longa sic possibile est in surdis, mutis et religiosis, qui per signa sibi loquuntur, perfectius tu, Ihesu, qui omne scibile actu sciebas quasi magister magistrorum, in minimis et nobis invisibilibus mutationibus et signis verum de corde et eius conceptu faciebas iudicium. 97 Sed erat huic tuae humanae perfectissimae licet finitae visioni ad organum contractae absoluta et infinita visio unita; per quam quidem visionem omnia pariter et singula ut deus videbas tam absentia quam praesentia, tam praeterita quam futura. Videbas igitur, Ihesu, oculo humano accidentia visibilia, sed visu divino absoluto rerum substantiam. Nemo umquam in carne constitutus praeter te, Ihesu, substantiam vidit aut rerum quiditatem. Tu solus animam et spiritum et quidquid in homine erat vidisti verissime. Nam sicut vis intellectiva in homine unita est virtuti animali visivae, ut homo non solum videat ut animal, sed etiam discernat et iudicet ut homo, ita visus absolutas unitas est in te, Ihesu, virtuti humanae intellectuali, quae est discretio in visu animali. Vis visiva animalis in homine non in se, sed in anima rationali tamquam in forma totius subsistit. Sic vis visiva intellectualis non in se in te, Ihesu, sed in virtute visiva absoluta subsistit. 98 O admirabilis visus tuus, Ihe su dulcissime! Experimur aliquotiens, quomodo praetereuntem in oculo deprehendimus, sed quia non fuimus intenti, ut discerneremus, quis esset, nescimus interrogati nomen noti praetereuntis, licet sciamus aliquem praeterisse.
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scriva con caratteri di sua invenzione o con segni mai visti prima, tu, Gesù, vedevi ogni cosa sotto qualsiasi tipo di segno e di figura! Se talvolta si legge che c’è stato qualche uomo che, da certi cenni degli occhi, era in grado di discernere il pensiero di chi lo interrogava, anche se questi stava cantando dentro di sé un qualche verso, tu, Gesù, intuivi tutti i pensieri di una persona da ogni movimento dei suoi occhi meglio di tutti gli altri. Io ho visto una donna sorda, che, guardando il movimento della labbra di sua figlia, capiva ogni cosa come se avesse sentito. Se ciò è possibile, grazie a una lunga familiarità, tra i sordi, tra i muti, e tra i religiosi, che comunicano fra loro con segni, in maniera ancora più perfetta tu, Gesù, che, come maestro dei maestri, conoscevi in atto tutto ciò che è conoscibile, eri in grado di giudicare con verità il cuore e il pensiero degli uomini sulla base di cambiamenti minimi e di segni per noi invisibili. Ma a questo tuo modo di vedere umano e quanto mai perfetto, benché finito e contratto in un organo corporeo, era unito un modo di vedere assoluto [non contratto] e infinito; grazie ad esso, tu, come Dio, vedevi tutte le cose e ciascuna di esse singolarmente, tanto le cose assenti quanto le presenti, tanto le passate quanto le future. Con l’occhio umano, pertanto, tu, Gesù, vedevi gli accidenti che sono visibili, ma con il tuo sguardo divino assoluto, la sostanza delle cose. Nessun uomo fatto di carne ed ossa ha mai visto la sostanza o la quiddità delle cose, tranne tu, Gesù. Soltanto tu hai visto nel modo più vero l’anima, lo spirito e qualsiasi cosa è nell’uomo. Infatti, come nell’uomo la facoltà intellettiva è unita alla facoltà visiva, che è propria anche degli animali, per cui l’uomo non soltanto vede come un animale, ma discerne e giudica come un uomo, così in te, Gesù, la vista assoluta è unita alla facoltà intellettuale umana, la quale, nella vista propria anche agli animali, è la facoltà che opera il discernimento. Nell’uomo, la facoltà visiva animale sussiste non in se stessa, ma nell’anima razionale, che è la forma di tutto l’organismo. Analogamente, in te, Gesù, la facoltà visiva intellettuale non sussiste in se stessa, ma nella facoltà visiva assoluta 205. Meravigliosa è la tua vista, Gesù dolcissimo! Talvolta facciamo questa esperienza: con l’occhio inquadriamo un passante, ma non avendo prestato attenzione a vedere chi fosse, se ci viene chiesto il nome del passante, non lo sappiamo, sebbene sappiamo che è pas-
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Vidimus igitur illum animaliter, sed non vidimus humaniter, quia vim discretivam non applicavimus. Ex quo comperimus naturas virium; etsi sint unitae in una forma hominis, manent tamen distinctae et distinctas habent operationes. Sic in te uno, Ihesu, video simili quodam modo humanam intellectualem naturam divinae naturae unitam, et quod pariformiter ut homo operatus es plurima atque ut deus mirabilia multa supra hominem. Video, Ihesu piissime, intellectualem naturam esse in respectu sensibilis absolutam et nequaquam uti sensibilis finitam et ad organum alligatam, quemadmodum vis visiva sensibilis est oculo alligata, sed improportionabiliter absolutior est vis divina supra intellectualem. Nam intellectus humanus ut ponatur in actu, opus habet phantasmatibus, et phantasmata sine sensibus haberi nequeunt et sensus sine corpore non subsistunt. Ob hoc vis humani intellectus est contracta et parva, indigens praenarratis. Divinus vero intellectus est ipsa necessitas non dependens neque indigens aliquo, sed omnia eo indigent, sine quo non possunt esse. 99 Attentius considero, quomodo alia est vis discursiva, quae ratiocinando discurrit et quaerit, alia, quae iudicat et intelligit. Videmus enim canem discurrere et quaerere dominum suum et discernere illum et audire vocationem eius. Hic quidem discursus est in natura animalitatis in gradu specificae perfectionis caninae. Adhuc alia reperiuntur animalia lucidioris discursus secundum perfectiorem speciem. Et hic discursus in homine proxime accedit ad virtutem intellectualem, ut sit supremitas perfectionis sensibilis virtutis et infimum intellectualis. Habet igitur vis animalis sensibilis multos gradus perfectionis et innumerabiles sub intellectuali, prout species animalium nobis patefaciunt. Nulla enim species est, quin gra-
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sato qualcuno206. Lo abbiamo visto, dunque, come fanno gli animali, ma non lo abbiamo visto come fanno gli uomini, poiché non abbiamo utilizzato la facoltà discernente. Da ciò appuriamo che le nature di queste facoltà, sebbene siano unite in una sola forma umana, rimangono tuttavia distinte e compiono operazioni diverse. Così, vedo che in te, Gesù, che sei uno, la natura umana intellettuale è unita in modo simile alla natura divina, e vedo anche che, come uomo, hai compiuto molte cose e, come Dio, hai compiuto molte cose straordinarie che sono al di sopra di ogni capacità umana207. Vedo, Gesù santissimo, che, in confronto a quella sensibile, la natura intellettuale è libera dagli organi corporei e non è affatto limitata o circoscritta ad essi, come avviene nella natura sensibile, nella quale la facoltà visiva sensibile, ad esempio, è circoscritta all’occhio. Ma la facoltà divina è incomparabilmente più libera rispetto a quella intellettuale ed è incomparabilmente al di sopra di essa. L’intelletto umano, infatti, per passare all’atto ha bisogno dei fantasmi, e i fantasmi non si possono avere senza i sensi, e i sensi non esistono senza il corpo. Per questo, la forza dell’intelletto umano è contratta e piccola, avendo bisogno di quanto abbiamo detto. L’intelletto divino, invece, è la stessa necessità, che non dipende da nulla e non ha bisogno di nulla; sono le cose, invece, che hanno tutte bisogno di lui, senza il quale esse non possono esistere. Considero ora, in maniera più specifica, come la facoltà discorsiva, ossia la facoltà che, mediante il ragionamento, ricerca e opera inferenze, sia diversa dalla facoltà che giudica e intende. Vediamo infatti che anche un cane opera inferenze, va alla ricerca del suo padrone, lo riconosce e risponde quando questi lo chiama. Nella natura animale, questa capacità di operare inferenze è presente nel suo grado più alto nella specie canina. Si trovano anche altri animali che hanno una capacità di operare inferenze più fine, in conformità con la loro specie più perfetta. E nell’uomo questa facoltà [discorsiva] di operare inferenze si avvicina alla facoltà intellettuale, in modo tale da essere il grado più alto di perfezione della facoltà sensibile e il più basso di quella intellettuale. La facoltà sensibile animale ha dunque molti, ed anzi innumerevoli gradi di perfezione al di sotto della facoltà intellettuale, come mostrano le molte specie di animali. Non vi è, infatti, nessuna specie che non abbia in sorte
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dum perfectionis proprium sibi non sortiatur. Est etiam quisque graduum latitudinem habens, intra quam videmus individua speciei varie speciem participare. Intellectualis vero natura pariformiter sub divina gradus habet innumerabiles. Unde sicut in intellectuali complicantur omnes gradus sensibilis perfectionis, sic in divina omnes gradus intellectualis perfectionis, sic et sensibilis et omnium. 100 Ita in te Ihesu meo video perfectionem omnem. Nam cum sis homo perfectissimus, in te video intellectum virtuti rationali seu discursivae, quae est supremitas sensitivae, uniri. Et sic video intellectum in ratione quasi in loco suo ut locatum in loco, quasi candela in camera, quae illuminat cameram et omnes parietes et totum aedificium, secundum tamen gradus distantiae plus et minus. Video deinde intellectui in sua supremitate uniri divinum verbum atque intellectum ipsum locum esse, ubi verbum capitur, uti in nobis experimur intellectum locum esse, ubi verbum magistri capitur, quasi lux solis iungatur candelae praelibatae; illuminat enim verbum dei intellectum sicut lumen solis hunc mundum. In te igitur Ihesu meo video vitam sensibilem illuminatam lumine intellectuali, vitam intellectualem lumen illuminans atque illuminatum et vitam divinam illuminantem tantum. Nam et fontem luminis in lumine illo intellectuali video, verbum scilicet dei, quod est veritas illuminans omnem intellectum. Tu igitur solus altissimus omnium creaturarum, quia ita creatura, quod creator benedictus. 101
CAPITULUM XXIII
Quomodo Ihesus mortuus fuit unione cum vita manente O Ihesu, mentis sapidissimus cibus, quando intra paradisi murum te intueor, admirabilis mihi occurris. Verbum enim dei es humanatum et homo es deificatus, non es tamen quasi compositus ex
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un proprio grado di perfezione. E ciascuna specie ha una gamma di gradi, all’interno della quale vediamo che gli individui di una specie partecipano di essa in modi differenti. Analogamente, la natura intellettuale ha innumerevoli gradi [di perfezione] al di sotto della natura divina. Di conseguenza, come nella natura intellettuale sono complicati tutti i gradi della perfezione sensibile, così nella natura divina sono complicati tutti i gradi della perfezione intellettuale, e quindi anche tutti i gradi della perfezione sensibile e della perfezione di tutte le cose. E così, in te, Gesù mio, vedo ogni perfezione. Dal momento che tu sei uomo perfettissimo, vedo che in te l’intelletto è unito alla facoltà razionale o alla facoltà discorsiva, che è il grado più alto della facoltà sensitiva. E in questo modo vedo che l’intelletto è presente nella ragione come nel suo luogo proprio, e che esso è collocato in questo luogo come una candela in una stanza, che illumina la stanza, tutte le pareti e tutto l’edificio, secondo il grado di maggiore o minore distanza da essi. Vedo poi che all’intelletto, nel suo grado più alto, è unito il Verbo divino e che l’intelletto stesso è il luogo nel quale viene accolto il Verbo (come anche in noi l’intelletto è il luogo in cui viene accolto il verbo di un insegnante), come se la luce del sole fosse congiunta alla candela di cui abbiamo parlato. Il verbo di Dio, infatti, illumina l’intelletto, come il sole illumina questo mondo. In te, dunque, Gesù mio, vedo che la vita sensibile è illuminata dal lume intellettuale, che la vita intellettuale è un lume che illumina ed è illuminato al tempo stesso, e che la vita divina è un lume che illumina soltanto. In quel lume intellettuale, infatti, vedo la fonte della luce, ossia il verbo di Dio, che è la verità che illumina ogni intelletto208. Tu solo, benedetto, sei la più alta di tutte le creature, poiché sei creatura e creatore. CAPITOLO XXIII
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Gesù è morto pur rimanendo unito alla vita O Gesù, saporitissimo cibo della mente, quando ti scorgo all’interno del muro del paradiso, mi appari meraviglioso. Sei, infatti, il verbo di Dio che ha assunto l’umanità e sei uomo deificato. Non sei tuttavia come un composto di Dio e dell’uomo. Tra gli elementi di
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deo et homine. Inter componentia proportio est necessaria, sine qua non potest esse compositio. Finiti ad infinitum nulla est proportio. Neque es coincidentia creaturae et creatoris modo, quo coincidentia facit unum esse aliud; nam natura humana non est divina aut e converso. Divina enim natura non est mutabilis aut alterabilis in aliam naturam, cum sit ipsa aeternitas; neque natura quaecumque propter unionem ad divinam transit in aliam naturam, sicut cum imago unitur suae veritati. Ipsa enim non potest dici tunc alterari, sed potius recedere ab alteritate, quia unitur veritati suae propriae, quae est ipsa inalterabilitas. 102 Neque, Ihesu dulcissime, dici potes copula media inter naturam divinam et humanam, cum inter illas non possit poni quaedam media natura participans utramque; natura enim divina non est participabilis, quia penitus absolute simplicissima; nec tunc tu, Ihesu benedicte, fores vel deus vel homo. Sed video te, domine Ihesu, super omnem intellectum unum suppositum, quia unus Christus es, modo quo video unam tuam humanam animam. In qua uti in cuiuslibet hominis anima video corruptibilem sensibilem fuisse naturam et in intellectuali incorruptibili natura subsistere; neque anima illa composita fuit ex corruptibili et incorruptibili neque coincidit sensibilis cum intellectuali. Video autem animam intellectualem uniri corpori per virtutem sensibilem vivificantem corpus. Et quando anima intellectiva cessaret a vivificatione corporis, sine eo quod a corpore separaretur, tunc homo ille mortuus foret, quia vita cessaret, nec tamen a vita esset corpus separatum, cum intellectus sit vita eius; sicut cum homo, qui intente inquisivit medio visus discernere venientem et tamen aliis considerationibus raptus, cessat postea attentio circa illam inquisitionem oculis non minus in ipsum coniectis, tunc non separatur oculus ab anima, licet ab attentione discretiva animae separatus exsistat. Quod si raptus ille non
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un composto deve esservi una proporzione, senza la quale non può esservi alcuna composizione. Tra il finito e l’infinito non vi è alcuna proporzione209. E tu non sei neppure la coincidenza di creatura e creatore, nel senso per cui la coincidenza fa sì che una cosa sia l’altra. La natura umana, infatti, non è la divina, e viceversa. La natura divina, infatti, non può mutarsi o corrompersi in un’altra natura, essendo essa l’eternità stessa. Né una natura qualsiasi, in virtù dell’unione con la natura divina, si trasforma in un’altra natura, come avviene quando un’immagine si unisce alla sua verità. In questo caso, infatti, non si può dire che la natura stessa si corrompa, ma si deve piuttosto dire che essa si allontana dall’alterità, in quanto si unisce alla propria verità, che è la stessa inalterabilità. E non si può dire, Gesù dolcissimo, che tu sia la copula 210 che media tra la natura divina e la natura umana, dal momento che fra esse non può essere posta una qualche natura intermedia che partecipi di entrambe. La natura divina, infatti, non è partecipabile, perché è semplicissima, in maniera assoluta. Inoltre, in questo caso, tu, Gesù benedetto, non saresti né Dio, né uomo. Vedo, invece, al di sopra di ogni comprensione, che tu, Signore Gesù, sei un’unica persona211, perché sei un solo Cristo, così come vedo che la tua anima è una e che in essa, come nell’anima di ogni uomo, c’è stata una natura sensibile e corruttibile, che sussisteva nella natura intellettuale incorruttibile. E la tua anima non era composta di una parte corruttibile e di un’altra incorruttibile, né la sua natura sensibile coincideva con la natura intellettuale. Vedo, al contrario, che l’anima intellettuale è unita al corpo mediante la facoltà sensibile che vivifica il corpo. E nel momento in cui l’anima intellettiva smettesse di vivificare il corpo, senza per questo separarsi da esso, allora l’uomo sarebbe morto, perché cesserebbe la sua vita; il corpo, tuttavia, non sarebbe separato dalla vita, poiché la sua vita è costituita dall’intelletto212. La stessa cosa accade quando un uomo cerca attentamente di distinguere con lo sguardo una persona che gli si fa incontro e, tuttavia, distolto da altri pensieri, smette di prestare attenzione a quella persona, pur avendo gli occhi ancora rivolti verso di essa; in questo caso, l’occhio non è separato dall’anima, sebbene sia separato dall’attenzione, grazie alla quale l’anima è in grado di operare il discernimento. Se la persona che viene distolta non sol-
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solum cessaret a vivificatione discretiva, sed etiam a vivificatione sensitiva, oculus ille mortuus foret, quia non vivificaretur, nec tamen propterea esset a forma intellectiva separatus, quae est forma dans esse, sicut manus arida manet unita formae, quae unit corpus totum. 103 Reperiuntur homines, qui sciunt retrahere spiritum vivificantem et apparent mortui et non sentientes, ut beatus recitat Augustinus. Eo enim casu intellectualis natura unita maneret corpori, quod quidem corpus non esset sub alia forma quam prius, immo haberet eandem formam et maneret idem corpus, neque vis vivificandi desineret esse, sed maneret in unione cum intellectuali natura, licet actu non extenderet se in corpus. Video hominem illum veraciter mortuum, quia caret vita vivificante, mors enim est carentia vitae vivificantis, et tamen non foret corpus illud mortuum a vita sua, quae est anima eius, separatum. 104 Eo modo, Ihesu clementissime, intueor absolutam vitam, quae deus est, humano intellectui tuo et per illum corpori tuo inseparabiliter unitam. Nam unio illa talis est, quod maior esse nequit. Separabilis igitur unio multo inferior est unioni, quae maior esse nequit. Numquam igitur fuit verum neque erit umquam divinam naturam ab humana tua separatam, ita nec ab anima nec a corpore, quae sunt, sine quibus natura humana non potest esse, quamvis verissimum sit animam tuam desisse corpus vivificare et te veraciter mortem subisse et tamen numquam a veritate vitae separatum. 105 Si sacerdos ille, de quo meminit Augustinus, aliqualem habuit potestatem tollere vivificationem de corpore attrahendo eam in animam, quasi candela cameram illuminans foret viva et attraheret radios, per quos cameram illuminavit, ad centrum lucis suae, sine eo quod separaretur a camera, et hoc attrahere non est nisi desinere influere, quid mirum, si tu, Ihesu, potestatem habuisti, cum
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tanto smettesse di infondere nell’occhio la vivificazione dovuta alla facoltà discernente, ma smettesse di infondervi anche quella che è propria della facoltà sensitiva, allora l’occhio sarebbe morto, in quanto non sarebbe più vivificato; non per questo, tuttavia, sarebbe separato dalla forma intellettiva, la quale è la forma che conferisce l’essere, così come una mano in cui non scorre più sangue resta unita alla forma che conferisce unità a tutto il corpo. Si trovano uomini che sono in grado di trattenere lo spirito che li vivifica e appaiono morti e privi di sensazione, come racconta il beato Agostino213. In questo caso, infatti, la natura intellettuale rimarrebbe unita al corpo, che certamente non sarebbe un corpo di forma diversa dalla precedente, anzi, avrebbe sempre la stessa forma e sarebbe sempre lo stesso corpo. E neppure la forza che vivifica smetterebbe di esistere, bensì rimarrebbe unita alla natura intellettuale, pur non diffondendosi in atto nel corpo. Vedrei quell’uomo come veramente morto, in quanto privo della vita che lo vivifica (la morte, infatti, è la mancanza della vita che vivifica), e tuttavia quel corpo morto non sarebbe separato dalla sua vita, che è la sua anima. In questo modo, Gesù clementissimo, vedo che la vita assoluta, che è Dio, è unita in modo inseparabile al tuo intelletto umano e, per mezzo di esso, al tuo corpo. Questa unione, infatti, è tale che non può essere maggiore. E un’unione che può essere separata è molto inferiore rispetto ad un’unione che non può essere maggiore. Pertanto, non si è mai verificato, né mai si verificherà che la tua natura divina sia separata dalla natura umana, e neppure dall’anima e dal corpo, senza i quali la natura umana non può esistere, sebbene sia verissimo che la tua anima ha cessato di vivificare il corpo e che tu sei morto davvero, senza essere mai stato separato dalla vera vita. Quel sacerdote, di cui fa menzione Agostino, ha avuto un certo potere di ritrarre la forza vivificante dal corpo riversandola nell’anima, come se una candela che illumina una stanza fosse viva e ritraesse verso il centro della propria luce i raggi con i quali illuminava la stanza, senza per questo separarsi dalla stanza (e questo ritrarsi non significa altro che la candela smette di irradiare la sua luce). Se è così, che cosa vi è di incredibile nel fatto che tu, Gesù, essendo
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sis lux viva liberrima, vivificantem animam ponendi et tollendi, et quando tollere voluisti, passus es mortem, et quando ponere voluisti, propria virtute resurrexisti. Dicitur autem intellectualis natura humana anima, quando vi vificat seu animat corpus, et dicitur anima tolli, quando cessat intellectus humanus vivificare. Quando enim intellectus ab officio vivificandi cessat et quoad hoc se separat a corpore, propterea simpliciter non est separatus. 106 Haec inspiras, Ihesu, ut te mihi indignissimo, quantum capere possum, ostendas et in te contempler humanam naturam mortalem induisse immortalitatem, ut omnes homines eiusdem humanae naturae in te resurrectionem et divinam vitam assequi possint. Quid igitur dulcius, quid iucundius quam hoc cognoscere, quoniam in te, Ihesu, omnia in nostra natura reperimus, qui solus omnia potes et das liberalissime et non improperas? O pietas et misericordia inexpressibilis! Tu, deus, qui es ipsa bonitas, non potuisti satisfacere infinitae clementiae et largitati tuae, nisi te nobis donares. Nec hoc convenientius et nobis recipientibus possibilius fieri potuit, quam quod nostram assumeres naturam, qui tuam accedere non potuimus. Ita venisti ad nos et nominaris Ihesus salvator semper benedictus. 107
Capitulum XXXV
Quomodo Ihesus sit verbum vitae Contemplor tuo dono utique optimo atque maximo te Ihesum meum praedicantem verba vitae et largiter divinum semen in corda audientium seminantem. Et video eos abire, qui non perceperunt ea, quae spiritus sunt, sed manentes video discipulos, qui iam gustare ceperunt dulcedinem doctrinae animam vivificantis. Pro quibus omnibus princeps ille atque summus omnium apostolorum Petrus confessus est, quomodo tu, Ihesu, haberes verba vitae, et vi-
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luce viva assolutamente libera, hai avuto il potere di immettere e di ritrarre l’anima che vivifica il corpo214? Quando hai voluto ritrarla, sei andato incontro alla morte; quando invece hai voluto immetterla, sei risorto con la tua stessa forza. Ora, quando la natura vivifica o anima il corpo, essa viene chiamata «anima»; e quando l’intelletto umano cessa di vivificare il corpo, si dice che l’anima si è ritratta. Quando, infatti, l’intelletto cessa dal suo compito di vivificare, esso si separa per questo aspetto dal corpo, ma non è per questo separato in senso assoluto. Mi ispiri questi pensieri, Gesù, per manifestarti a me, che sono il più indegno degli uomini, in modo tale che, per quel poco che ti posso capire, io contempli come in te la natura umana mortale si sia rivestita d’immortalità215, affinché tutti gli individui, che appartengono alla stessa natura umana, possano conseguire in te la resurrezione e la vita divina. Che cosa c’è di più dolce e di più gioioso che sapere che in te, Gesù, troviamo tutto quello che è presente nella nostra natura, tu che solo puoi tutte le cose e le doni con somma liberalità e sollecitudine216? O pietà e misericordia inesprimibili! Tu, Dio, che sei la bontà stessa, non hai potuto soddisfare la tua infinita misericordia e generosità se non donando te stesso a noi. E non poteva esservi dono più adatto e più appropriato a noi, che l’accogliamo, dell’assunzione della nostra natura da parte tua, dal momento che noi non potevamo avere accesso alla tua natura. Così sei venuto a noi, e ti chiami Gesù salvatore sempre benedetto. CAPITOLO XXIV
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Gesù è parola di vita In virtù del tuo dono, che è certamente ottimo e massimo, ti contemplo, Gesù mio, che predichi parole di vita217 e semini generosamente il seme divino nei cuori di coloro che ti ascoltano218. E vedo che si allontanano219 coloro che non hanno percepito le cose dello spirito220, mentre vedo che i discepoli che ti restano accanto hanno cominciato già ad assaporare la dolcezza di un insegnamento che vivifica l’anima 221. Per conto di tutti loro, il primo e più importante fra tutti gli apostoli, Pietro, ha rivelato che tu avevi parole di vita e si è meravigliato del fatto che coloro che cercavano la vita
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tam quaerentes admiratus est a te abire. Paulus a te, Ihesu, verba vitae in raptu audivit et tunc neque persecutio neque gladius neque fames corporis eum a te separare potuit. Nemo omnium umquam te deserere potuit, qui verba vitae gustavit. 108 Quis potest ursum separare a melle, postquam dulcedinem eius degustavit? Quanta est dulcedo veritatis, quae vitam praestat delectabilissimam ultra omnem corporalem dulcedinem. Absoluta enim dulcedo est, unde manat omne, quod omni gustu appetitur. Quid fortius amore, ex quo omne amabile habet, quod ametur? Si contracti amoris nexus aliquando tantus est, quod timor mortis eum rumpere nequit, qualis tunc est nexus gustati illius amoris, a quo omnis amor? Nihil miror ego crudelitatem poenarum pro nihilo habitam ab his militibus tuis, Ihesu, quibus te vitam praegustabilem praebuisti. 109 O Ihesu, amor meus, seminasti semen vitae in agro credentium et testimonio sanguinis irrigasti. Morte corporali ostendisti veritatem esse vitam spiritus rationalis. Crevit semen in terra bona et fecit fructum. Ostende mihi, domine, quomodo anima mea est spiraculum vitae quoad corpus, in quod vitam spirat et influit, et non est vita quoad te deum, sed quasi potentia ad vitam. Et quia non potes non concedere, quae petuntur, si attentissima fide petantur, influis mihi in puero esse animam, quae habet vim vegetativam in actu; crescit enim puer. Habet et vim sensitivam in actu; sentit enim puer. Habet et vim imaginativam, sed nondum in actu. Habet et vim ratiocinativam, cuius actus est adhuc distantior. Habet et vim intellectivam, sed in remotiori potentia. Ita animam unam experimur quoad potentias inferiores esse in actu prius et postea quoad superiores, ut prius sit animalis homo quam spiritualis.
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si allontanassero da te222. Paolo, quando è stato rapito al terzo cielo223, ha udito da te, Gesù, parole di vita e allora né la persecuzione, né la spada, né la mancanza di cibo hanno potuto più separarlo da te224. Nessuno di tutti coloro che hanno assaporato le parole di vita ha mai potuto abbandonarti. Chi può tenere lontano l’orso dal miele, dopo che ne ha assaporato la dolcezza? Quanto è grande la dolcezza della verità, che dona la vita più gioiosa, al di là di ogni dolcezza materiale! È infatti dolcezza assoluta, da cui emana tutto ciò che è desiderato da ogni senso del gusto. Che cosa c’è di più forte di quell’amore dal quale ogni cosa amabile riceve ciò per cui essa viene amata? Se talvolta il legame di un amore contratto è così grande che neppure il timore della morte può spezzarlo, quanto sarà grande allora il legame di colui che ha assaporato quell’amore dal quale deriva ogni amore? Non mi meraviglio affatto che la crudeltà delle pene sia stata stimata nulla dai tuoi soldati, ai quali hai donato te stesso come un assaggio di tale vita. O Gesù, amore mio, hai seminato il seme della vita nel campo dei credenti 225 e lo hai irrigato con la testimonianza del tuo sangue. Hai mostrato con la morte del corpo che la verità è la vita dello spirito razionale. Il seme è cresciuto nella terra buona e ha fruttificato226. Mostrami, Signore, come la mia anima sia un piccolo soffio di vita227 rispetto al corpo, nel quale inspira e infonde la vita, e mostrami come rispetto a te, che sei Dio, essa non sia vita, ma abbia la vita come in potenza. E poiché tu non puoi non concedere ciò che viene chiesto228, se lo si chiede con la fede più sincera, tu mi suggerisci che nel fanciullo vi è un’anima che ha la facoltà vegetativa in atto: il fanciullo, infatti, cresce. Ha anche una facoltà sensitiva in atto: il fanciullo, infatti, sente. Ha una facoltà immaginativa, ma non ancora in atto. Ha una facoltà razionale, che è ancora più distante dall’essere in atto. Ha, infine, una facoltà intellettiva, ma in una condizione di potenzialità estremamente lontana dall’atto. Così, sappiamo per esperienza che l’anima, che è una, è in atto prima per quanto riguarda le facoltà inferiori e poi per quanto riguarda quelle superiori, di modo che l’uomo è prima animale e poi spirituale.
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experimur vim quandam mineralem, quae et spiritus dici potest, in visceribus terrae esse, et illum in potentia esse, ut fiat minera lapidis, aut in potentia esse, ut fiat minera salis et aluminis aut ut fiat minera metalli, et varios esse tales spiritus secundum varietatem lapidum, salium et metallorum, unum tamen esse spiritum minerae auri, qui ex influentia solari seu caeli continue plus et plus depuratus tandem figitur in aurum tale, quod non est per aliquod elementum corruptibile, et in eo plurimum caelestis incorruptibilis lucis resplendet; multum enim corporali luci solis assimilatur. Sic quidem de spiritu vegetabili et sensibili experimur. Nam spiritus sensibilis in homine multum se conformat virtuti caelesti motivae et influentiali et sub caeli influentia capit successive augmentum, usque quo ponatur in perfecto actu. Educitur autem de potentia corporis. Ideo cessat perfectio eius deficiente perfectione corporis, a qua dependet. 111 Est deinde spiritus intellectualis, qui in actu perfectionis non dependet a corpore, sed unitur ei mediante virtute sensitiva. Hic spiritus, quia non dependet a corpore, non subest influentiae corporum caelestium nec dependet a spiritu sensibili. Sic non dependet a virtute motiva caeli; sed sicut motores orbium caelestium subsunt primo motori, sic et hic motor, qui est intellectus. Sed quia unitus est corpori per medium sensitivae, tunc sine sensibus non perficitur. Omne enim, quod ad eum pervenit de mundo sensibili, per medium sensuum ad ipsum pergit. Unde nihil tale potest esse in intellectu, quod prius non fuit in sensu. Quanto autem sensus fuerit purior et perfectior et imaginatio clarior et discursus melior, tanto intellectus in suis intellectualibus operationibus minus impeditus promptior exsistit. 112 Pascitur autem intellectus per verbum vitae, sub cuius influentia constituitur sicut motores orbium, differenter tamen, uti etiam spiritus, qui subsunt influentiis caeli, differenter perficiuntur. Et
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Allo stesso modo, sappiamo per esperienza che nelle viscere della terra è presente una certa forza minerale, che può anche essere chiamata spirito, il quale è in potenza una miniera di pietra, di sale, mentre c’è un altro spirito che è in potenza una miniera di metallo, e sappiamo che tali spiriti sono vari a seconda della varietà delle pietre, dei sali e dei metalli. Sappiamo, tuttavia, che uno solo è lo spirito della miniera dell’oro, il quale, continuamente e progressivamente purificato dall’influenza del sole o del cielo, alla fine si trasforma nell’oro, che non è corruttibile da alcun elemento. In esso risplende moltissimo la luce celeste incorruttibile. L’oro, infatti, si assimila molto alla luce corporea del sole. Qualcosa di simile lo constatiamo per quanto riguarda lo spirito vegetativo e lo spirito sensitivo. Nell’uomo, infatti, lo spirito sensitivo si conforma alla forza del cielo che lo muove e lo influenza, e sotto l’influenza del cielo cresce progressivamente fino a giungere perfettamente in atto. Tuttavia, viene tratto fuori dalla potenza del corpo, e di conseguenza la sua perfezione finisce quando viene a mancare la perfezione del corpo dalla quale dipende. Vi è poi lo spirito intellettuale, che, per quanto alla sua perfezione in atto, non dipende dal corpo, ma è unito al corpo attraverso la facoltà sensitiva. Questo spirito, non dipendendo dal corpo, non soggiace all’influenza dei corpi celesti229, né dipende dallo spirito sensitivo. Allo stesso modo, non dipende dalla forza motrice dei cieli; anche questo motore, che è l’intelletto, soggiace, tuttavia, come i motori delle sfere celesti, al primo motore. Tuttavia, poiché è unito al corpo per mezzo della facoltà sensitiva, l’intelletto non può raggiungere la sua perfezione senza i sensi. Tutto ciò che giunge ad esso, infatti, vi giunge dal mondo sensibile attraverso i sensi. Di conseguenza, non vi può essere nulla nell’intelletto che non sia stato prima nei sensi230. Quanto più i sensi sono stati puri e perfetti, quanto più l’immaginazione è stata chiara e quanto migliore è stato il procedimento della ragione discorsiva, tanto più l’intelletto è più rapido e meno impedito nelle sue operazioni intellettuali. Ma l’intelletto è nutrito dalla parola di vita, alla cui influenza è sottoposto, come lo sono i motori delle sfere. L’intelletto, tuttavia, vi sottostà 231 in maniera differente, come in maniera differente vengono condotti alla perfezione gli spiriti che soggiacciono alle
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non perficitur nisi per accidens a sensibili spiritu, sicut imago non perficit, licet excitet ad inquirendum veritatem exemplaris, vel ut imago crucifixi non influit devotionem, sed excitat memoriam, ut influatur devotio. Et quoniam non necessitatur per influentiam caeli spiritus intellectualis, sed est penitus liber, tunc nisi se influentiae verbi dei per fidem subiciat, non perficitur, sicut discipulus liber, qui sui iuris est, nisi se verbo magistri subiciat per fidem, non perficitur; oportet enim, quod confidat et audiat magistrum. Perficitur autem intellectus per verbum dei et crescit et fit continue capacior et aptior atque verbo similior. Et haec perfectio, quae venit sic a verbo, a quo habuit esse, non est perfectio corruptibilis, sed est deiformis, sicut perfectio auri non est corruptibilis sed caelestiformis. 113 Oportet autem omnem intellectum per fidem verbo dei se subicere et attentissime internam illam summi magistri doctrinam audire, et audiendo, quid in eo loquatur dominus, perficietur. Quapropter tu, Ihesu magister unice, praedicasti fidem esse omni accedenti ad vitae fontem necessariam et secundum gradum fidei adesse influxum virtutis divinae ostendisti. Duo tantum docuisti, Christe salvator, fidem et dilectionem. Per fidem accedit intellectus ad verbum, per dilectionem unitur ei. Quantum accedit, tantum in virtute augetur, et quantum diligit, tantum figitur in luce eius. Verbum autem dei intra ipsum est, et non est opus, ut quaerat extra se, quia intus reperiet et accedere poterit per fidem. Et ut propius accedere possit, poterit precibus obtinere. Nam verbum adaugebit fidem per communicationem luminis sui. 114 Tibi, Ihesu, gratias ago, quoniam ad hoc tuo lumine perveni. In
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influenze del cielo. Inoltre, l’intelletto è perfezionato dallo spirito sensibile solo in modo accidentale, così come un’immagine non conduce alla perfezione, ma serve solo come stimolo per cercare la verità dell’esemplare. Per esempio, l’immagine del crocifisso non suscita la devozione, ma stimola solamente la memoria, in modo che possa essere suscitata la devozione. E poiché lo spirito intellettuale non viene necessitato dall’influenza del cielo ma è del tutto libero, non viene condotto alla perfezione se non si dispone a ricevere l’influenza della parola di Dio attraverso la fede. Allo stesso modo, un allievo libero, che non è soggetto ad alcuna giurisdizione, non si perfeziona se non si dispone a ricevere la parola del maestro con la fiducia che ripone in lui; è necessario, infatti, che confidi nel maestro e lo ascolti. Ora, l’intelletto viene perfezionato dalla parola di Dio, cresce e diventa progressivamente più capace di riceverla, più adatto e più simile ad essa. E questa perfezione, che proviene in questo modo dalla parola, dalla quale ha avuto l’essere, non è una perfezione corruttibile, ma è deiforme, come la perfezione dell’oro non è corruttibile, ma è celestiforme. È necessario, tuttavia, che ogni intelletto si sottometta, con fede, alla parola di Dio e che ascolti nella maniera più attenta dentro di sé l’insegnamento del sommo maestro; e così, ascoltando ciò che il Signore dice in lui, esso verrà perfezionato232. Per questo tu, o Gesù, unico maestro, hai predicato che la fede è necessaria 233 per chiunque voglia accostarsi alla fonte della vita. E hai mostrato che l’influsso della forza divina si realizza a seconda del grado di fede che una persona possiede234. Due sole sono le cose che hai insegnato, o Cristo salvatore: la fede e l’amore. Mediante fede, l’intelletto ha accesso al Verbo; mediante l’amore si unisce a lui. Quanto più si avvicina a lui, tanto più cresce in forza, e quanto più ama, tanto più si congiunge alla sua luce. Ma il verbo di Dio è all’interno dell’intelletto e non è necessario che l’intelletto lo cerchi al di fuori di sé, perché lo troverà nel suo intimo235, e potrà accostarsi a lui mediante la fede. E attraverso la preghiera potrà ottenere di avvicinarsi maggiormente a lui. Il Verbo, infatti, accrescerà la fede236 [dell’intelletto], comunicando [ad esso] la sua luce. Rendo grazie a te, Gesù, poiché sono giunto a comprendere questo grazie alla tua luce. Nella tua luce, infatti, o luce della mia
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lumine enim tuo video, lumen vitae meae, quomodo tu, verbum, influis omnibus credentibus vitam et perficis omnes te diligentes. Quae umquam brevior et efficacior doctrina tua, Ihesu bone? Non persuades nisi credere, et non praecipis nisi amare. Quid facilius quam credere deo? Quid dulcius quam ipsum amare? Quam suave iugum est iugum tuum et quam leve est onus tuum, praeceptor unice! Promittis hanc doctrinam servantibus omne desideratum. Nihil enim astruis credenti difficile et nihil amanti denegabile. Talia sunt promissa, quae tuis discipulis spondes. Et verissima sunt, quia tu es veritas, quae non nisi vera promittere potes, immo non nisi te ipsum promittis, qui es perfectio omnis perfectibilis. Tibi laus, tibi gloria, tibi gratiarum actio per aeterna saecula. 115
CAPITULUM XXV
Quomodo Ihesus sit consummatio Sed quid est hoc, domine, quod immittis in spiritum hominis, quem perficis? Nonne spiritum tuum bonum, qui penitus est in actu virtus omnium virtutum et perfectio perfectorum, quoniam ille est, qui omnia operatur? Sicut enim vis solaris descendens in spiritum vegetabilem movet ipsum, ut perficiatur, et fit gratissima et naturalissima decoctione caelestialis caloris fructus bonus medio boni arboris, ita spiritus tuus, deus, venit in spiritum intellectualem boni hominis et calore divinae caritatis decoquit virtualem potentiam, ut perficiatur et fiat sibi gratissimus fructus. Experimur, domine, simplicem spiritum tuum virtute infinitum capi multipliciter. Capitur enim aliter in uno, ubi efficit spiritum propheticum, aliter in alio, ubi peritum efficit interpretem, et in alio docet scientiam; ita in aliis aliter. Varia enim sunt dona eius, et illae sunt perfectiones intellectualis spiritus, sicut idem calor solaris in variis arboribus varios perficit fructus.
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vita, vedo che tu, che sei il Verbo, infondi la vita in tutti i credenti e perfezioni tutti coloro che ti amano. Quale insegnamento è più semplice e più efficace del tuo, o buon Gesù? Non persuadi se non a credere, e non insegni se non ad amare237. Che cosa c’è di più facile che credere in Dio? Che cosa c’è di più dolce che amarlo? Quanto è piacevole il tuo giogo e quanto è leggero il tuo peso, o maestro unico238! A coloro che osservano questo insegnamento prometti tutto ciò che desiderano. Assicuri che nulla sarà difficile per chi crede e nulla potrà essere rifiutato a chi ama 239. Queste sono le promesse che fai ai tuoi discepoli. E sono verissime, poiché tu sei la verità240, che non può promettere che cose vere; anzi, tu non prometti che te stesso, che sei la perfezione di ogni cosa perfettibile. Sia lode a te, a te gloria e grazie nei secoli. CAPITOLO XXV
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Gesù è il compimento di ogni cosa Ma che cos’è questa cosa, o Signore, che infondi nello spirito dell’uomo che conduci alla perfezione? Non è forse il tuo spirito buono, che è, completamente in atto, la forza di tutte le forze e la perfezione di tutto ciò che è perfetto, in quanto è ciò che opera ogni cosa241? La forza del sole discende nello spirito vegetativo e lo muove per perfezionarlo, in modo tale che, in virtù del riscaldamento, estremamente gradito e naturale, prodotto dal calore del cielo, nasce, per mezzo di un buon albero, un buon frutto. In modo analogo, o Dio, il tuo spirito scende nello spirito intellettuale dell’uomo buono e, con il calore dell’amore divino, riscalda quella forza che è presente in lui in potenza, in maniera tale che lo spirito si perfezioni e produca frutti graditissimi. Facciamo esperienza, Signore, del fatto che il tuo spirito semplice e infinito per la sua potenza viene accolto in una molteplicità di modi. In un uomo, infatti, viene accolto in una certa maniera, e in lui produce uno spirito profetico; in un’altra persona viene accolto in un’altra maniera, e produce un esperto interprete, in un altro ancora insegna il sapere, e in altri modi viene accolto in altre persone. Vari, infatti, sono i doni dello spirito, e sono le perfezioni dello spirito intellettuale, come lo stesso calore del sole fa maturare una varietà di frutti nei vari alberi 242.
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domine, spiritum tuum nulli spiritui deesse posse, quia spiritus spirituum et motus motuum et est replens omnem orbem. Sed disponit omnia, quae non habent spiritum intellectualem, per naturam intellectualem, quae movet caelum, et per eius motum omnia, quae ei subsunt. Dispositionem vero atque dispensationem in natura intellectuali non nisi sibi ipsi reservavit. Desponsavit enim sibi hanc naturam, in qua elegit quiescere tamquam in domo mansionis et caelo veritatis. Nullibi enim capi potest veritas per se nisi in intellectuali natura. Tu, domine, qui omnia propter temet ipsum operaris, universum hunc mundum creasti propter intellectualem naturam, quasi pictor, qui diversos temperat colores, ut demum se ipsum depingere possit ad finem, ut habeat sui ipsius imaginem, in qua delicietur et quiescat ars sua; cum ipse unus sit immultiplicabilis, saltem modo, quo fieri potest, in propinquissima similitudine multiplicetur. 117 Multas autem figuras facit, quia virtutis suae infinitae similitudo non potest nisi in multis perfectiori modo explicari. Et sunt omnes intellectuales spiritus cuilibet spiritui opportuni. Nam nisi forent innumerabiles, non posses tu, deus infinitus, meliori modo cognosci. Quisque enim intellectualis spiritus videt in te deo meo aliquid, quod nisi aliis revelaretur, non attingerent te deum suum meliori quo fieri posset modo. Revelant sibi mutuo secreta sua amoris pleni spiritus et augetur ex hoc cognitio amati et desiderium ad ipsum et gaudii dulcedo inardescit. 118 Neque adhuc, domine deus, sine Ihesu, filio tuo, quem prae consortibus suis unxisti, qui Christus est, complementum operis tui perfecisses, in cuius intellectu quiescit perfectio creabilis naturae; nam est ultima et perfectissima immultiplicabilis dei similitudo et non potest esse nisi una suprema talis. Omnes autem alii spiritus intellectuales sunt illo spiritu mediante similitudines, et quanto perfectiores, tanto huic similiores. Et quiescunt omnes in illo
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Vedo, Signore, che il tuo spirito non può mancare a nessuno spirito, in quanto è lo spirito degli spiriti e il movimento dei movimenti, ed è ciò che riempie l’intero universo243. Tutti gli esseri che non sono dotati di uno spirito intellettuale li governa, tuttavia, mediante quella natura intellettuale che muove il cielo, e, mediante il movimento del cielo, governa tutto ciò che è soggetto al cielo. Il tuo spirito ha riservato invece solo a se stesso le disposizioni e i doni che riguardano coloro che hanno una natura intellettuale. Ha sposato, infatti, questa natura, nella quale ha scelto di trovare riposo come nella propria dimora244 e nel cielo della verità. In nessun luogo, infatti, la verità può essere accolta per se stessa che nella natura intellettuale. Tu, o Signore, che fai ogni cosa per te, hai creato questo mondo per la natura intellettuale245, come un pittore che tempera diversi colori per poter dipingere se stesso ed avere così un’immagine di sé nella quale potersi allietare e nella quale possa trovar riposo la sua arte; e dato che è uno e non moltiplicabile, egli cerca di moltiplicarsi nel modo in cui ciò è possibile, ossia in una somiglianza che gli sia quanto più prossima. Produce, tuttavia, molte figure, perché la somiglianza della sua forza infinita non può essere esplicata nel modo più perfetto che nella molteplicità246. Tutti gli spiriti intellettuali giovano a ciascuno spirito. Se non fossero innumerevoli infatti, tu, o Dio, che sei infinito, non potresti essere conosciuto nel modo migliore. Ogni spirito intellettuale, infatti, vede in te, Dio mio, qualcosa senza il quale gli altri, se non venisse loro rivelato, non potrebbero cogliere te, il loro Dio, nel modo migliore possibile. Gli spiriti pieni d’amore si rivelano vicendevolmente i propri segreti, e così aumenta la conoscenza dell’amato e il desiderio di lui e arde la dolcezza della gioia. Ma senza il tuo figlio Gesù, signore Dio, che hai unto preferendolo ai suoi compagni247, e che è il Cristo, tu, signore Dio, non avresti ancora portato a compimento la tua opera. Nel suo intelletto trova pace la perfezione della natura creabile. Egli, infatti, è l’ultima e la più perfetta immagine di Dio, non moltiplicabile248. E non può esservi che una sola immagine suprema. Tutti gli altri spiriti intellettuali sono immagini grazie alla mediazione di quello spirito, e quanto più sono perfetti, tanto più sono simili a lui. E tutti trovano pace in quello spirito come nel grado supremo della perfezione
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spiritu ut in ultimitate perfectionis imaginis dei, cuius imaginis assecuti sunt similitudinem et gradum aliquem perfectionis. Habeo igitur dono tuo, deus meus, totum hunc visibilem mundum et omnem scripturam et omnes administratorios spiritus in adiutorium, ut proficiam in cognitione tui. Omnia me excitant, ut ad te convertar. Non aliud scripturae omnes facere nituntur nisi te ostendere, neque omnes intellectuales spiritus aliud habent exercitii, nisi ut te quaerant et, quantum de te reppererint, revelent. 119 Dedisti mihi super omnia Ihesum magistrum, viam, vitam et veritatem, ut penitus mihi nihil deesse possit. Confortas me spiritu sancto tuo, inspiras per eum electiones vitae, desideria sancta. Allicis per praegustationem dulcedinis vitae gloriosae, ut te bonum infinitum amem. Rapis me, ut sim supra me ipsum et praevideam locum gloriae, ad quem me invitas. Multa mihi saporissima fercula odore suo optimo me attrahentia ostendis. Thesaurum div itiarum vitae, gaudii et pulchritudinis videre sinis. Fontem, ex quo effluit omne desiderabile tam in natura quam arte, discooperis. Nihil secreti tenes. Venam amoris non occultas neque pacis neque quietis. Omnia offers mihi miserrimo, quem de nihilo creasti. Quid igitur moror? Cur non curro in odore unguentorum Christi mei? Cur non intro in gaudium domini mei? Quid me tenet? Si tenuit me ignorantia tui, domine, et vacua sensibilis mundi delectatio, amplius non tenebit. Volo enim, domine, quia tu das, ut velim ista linquere, quae huius mundi sunt, quia me linquere vult mundus. Propero ad finem, cursum paene consummavi, praevenio licentiare ipsum, quia anhelo ad coronam. Trahe me, domine, quia nemo pervenire poterit ad te nisi a te tractus, ut attractus absolvar ab hoc mundo et iungar tibi deo absoluto in aeternitate vitae gloriosae. Amen.
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trattato sulla visione di dio, xxv 118-119
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dell’immagine di Dio, dalla quale hanno conseguito una qualche somiglianza e un qualche grado di perfezione. Pertanto, grazie al tuo dono, Dio mio, ho come ausilio per progredire nella tua conoscenza tutto questo mondo visibile, tutta la scrittura e tutti gli spiriti tuoi amministratori. Tutte le cose mi incitano a rivolgermi a te. Tutte le scritture non si sforzano di fare altro che di mostrare te, e tutti gli spiriti intellettuali non hanno altro compito che di cercarti e di rivelare quanto di te abbiano trovato. Ma più di ogni altra cosa, mi hai donato Gesù, come maestro, via, vita e verità249, affinché non mi potesse mancare assolutamente nulla. Mi conforti con il tuo spirito santo250, mi ispiri attraverso di lui le scelte di vita, i desideri santi. Mi attiri, facendomi pregustare la dolcezza della vita dei beati, perché ami te, bene infinito. Mi rapisci, affinché sia al di sopra di me stesso e veda in anticipo il luogo della gloria al quale mi inviti. Mi mostri molti cibi saporitissimi, che mi attraggono con il loro buonissimo odore. Mi permetti di vedere il tesoro di ricchezza, di vita, di gioia e di bellezza. Sveli la fonte dalla quale fluisce ogni cosa desiderabile, tanto nella natura quanto nell’arte. Non conservi nulla di segreto. Non nascondi la fonte dell’amore, né della pace, né del riposo. A me, l’essere più povero che hai creato dal nulla, offri tutte le cose. Che cosa aspetto, dunque? Perché non corro al profumo degli unguenti251 del mio Cristo? Perché non entro nella gioia del mio Signore252? Che cosa mi trattiene? Se mi hanno trattenuto l’ignoranza di te, Signore, e il vano piacere del mondo sensibile, non mi tratterranno più a lungo. Perché tu mi concedi di volerlo, o Signore, voglio infatti abbandonare le cose che sono di questo mondo253, perché il mondo mi vuole abbandonare. Mi avvicino al mio fine; ho quasi completato la corsa; prevengo il momento di licenziare il mondo, perché anelo alla corona 254. Attirami tu, Signore, perché nessuno potrà giungere a te se non viene attratto da te255; attirami a te, in modo tale che, attratto, possa unirmi a te, Dio assoluto, nell’eternità della vita gloriosa.
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Qui legerit ea, quae in variis scripsi libellis, videbit me in oppositorum coincidentia crebrius versatum quodque nisus sum frequenter iuxta intellectualem visionem, quae excedit rationis vigorem, concludere. Unde ut quam clare legenti conceptum depromam, speculum et aenigma subiciam, quo se infirmus cuiusque intellectus in ultimo scibilium iuvet et dirigat, et graviores doctissimorum in difficilibus ponam paucas sententias et opiniones, ut applicato speculo et aenigmate visione intellectuali iudex fias, quantum quisque propinquius ad veritatem accedat. Et quamvis videatur libellus iste brevis, tamen dat sufficientem praxim, quomodo ex aenigmate ad visionem in omni altitudine possit pertingi. Erit etiam in cuiusque potestate modum qui subicitur applicandi et extendendi ad quaeque indaganda. 2 Causa autem, cur tam Plato in Epistulis quam Dionysius magnus Areopagita prohibuerunt haec mystica his, qui elevationes intellectuales ignorant, propalari, est quia illis nihil magis risu dignum quam haec alta videbuntur. Animalis enim homo haec divina non percipit, sed exercitatum habentibus in his intellectum nihil desiderabilius occurret. Si igitur tibi prima facie haec insipida deliramenta videbuntur, scias te deficere. Et hoc si aliquantulum maximo sciendi desiderio continuaveris meditationes et praxim ab aliquo, qui tibi aenigma declaret, acceperis, eo pervenies quod nihil
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Chi leggerà ciò che ho scritto nei miei vari libri1, vedrà che mi sono occupato molto spesso della coincidenza degli opposti 2 e che mi sono frequentemente sforzato di giungere a delle conclusioni sulla base di una visione intellettuale che oltrepassa la capacità della ragione. Per questo motivo, allo scopo di esporre nel modo più chiaro possibile il mio pensiero a chi legge, proporrò un’immagine di cui ognuno possa servirsi come di uno specchio3 per dirigere il proprio debole intelletto al limite estremo di ciò che è conoscibile. Presenterò anche alcune affermazioni e opinioni molto importanti sostenute da coloro che sono più sapienti in queste difficili questioni, in modo tale che, utilizzando l’immagine come uno specchio, tu possa giudicare, mediante una visione intellettuale4, quanto ciascuno di essi si sia avvicinato alla verità. E sebbene questo libro possa apparire breve, esso offre un metodo pratico esaustivo, con il quale, a partire da un’immagine, è possibile giungere al grado più alto di visione. Spetterà poi alla capacità di ciascuno applicare ed estendere il metodo che qui espongo ad ogni altro ambito di indagine5. La ragione per la quale sia Platone, nelle sue Lettere, sia il grande Dionigi Areopagita hanno proibito che queste dottrine mistiche venissero rivelate a coloro che sono incapaci di elevarsi alle altezze dell’intelletto6 risiede nel fatto che a tali persone nulla apparirebbe più ridicolo di queste alte dottrine. L’uomo che vive secondo la sua condizione animale, infatti, non riesce a percepire queste cose divine7, mentre coloro che hanno un intelletto esercitato8 in tali cose non troveranno nulla di più desiderabile. Se, pertanto, queste cose ti sembreranno a prima vista dei deliri insulsi, sappi che ciò dipende da una tua deficienza. Ma se, animato dal più grande desiderio di conoscere, persevererai nelle tue riflessioni9 ed apprenderai l’esercizio pratico10 da qualcuno che ti spieghi l’immagine, giungerai al punto in cui non anteporrai più nulla a questa luce e ti rallegrerai
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huic luci antepones et intellectualem thesaurum repperisse gaudebis; et hoc paucissimis diebus experieris. Nunc ad rem descendens primum exponam, cur imposui libello nomen Beryllus et quid intendam. 3 Beryllus lapis est lucidus, albus et transparens. Cui datur forma concava pariter et convexa, et per ipsum videns attingit prius invisibile. Intellectualibus oculis si intellectualis beryllus, qui formam habeat maximam pariter et minimam, adaptatur, per eius medium attingitur indivisibile omnium principium. Quomodo autem hoc fiat, propono quanto clarius possum enodare praemissis quibusdam ad hoc opportunis. 4 Oportet te primum attendere unum esse primum principium, et id nominatur secundum Anaxagoram intellectus, a quo omnia in esse prodeunt, ut se ipsum manifestet. Intellectus enim lucem suae intelligentiae delectatur ostendere et communicare. Conditor igitur intellectus, quia se finem facit suorum operum, ut scilicet gloria sua manifestetur, creat cognoscitivas substantias, quae veritatem ipsius videre possint, et illis se praebet ipse conditor modo quo capere possunt visibilem. Hoc scire est primum, in quo complicite omnia dicenda continentur. 5 Secundo scias, quomodo id, quod non est verum neque verisimile, non est. Omne autem quod est aliter est in alio quam in se. Est enim in se ut in suo vero esse, in alio autem ut in suo esse verisimili, ut calidum in se est ut in suo vero esse et in calefacto est per similitudinem suae caliditatis. Sunt autem tres modi cognoscitivi, scilicet sensibilis, intellectualis et intelligentialis, qui dicuntur caeli secundum Augustinum. Sensibile in sensu est per suam sensibilem speciem sive similitudinem, et sensus in sensibili per suam sensitivam speciem. Sic intelligibile in intellectu per suam intelligibilem
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di aver trovato un tesoro intellettuale. E di questo farai esperienza in pochissimi giorni. Per venire ora al nostro argomento, spiegherò in primo luogo per quale motivo ho intitolato questo libro Berillo e che cosa intendo con questo nome. Il berillo è una pietra lucida, chiara e trasparente, a cui viene data una forma concava e convessa allo stesso tempo11: chi vede attraverso il berillo scorge ciò che prima era invisibile. Se agli occhi dell’intelletto12 viene applicato un berillo intellettuale, che abbia una forma massima e minima al tempo stesso, allora attraverso di esso si può cogliere il principio indivisibile di tutte le cose. Mi propongo di spiegare, più chiaramente possibile, in che modo ciò possa avvenire, non prima di aver fatto alcune opportune premesse13. È necessario, anzitutto, che tu tenga a mente che uno solo è il primo principio14, il quale, secondo Anassagora, si chiama intelletto15; da esso vengono all’essere tutte le cose affinché l’intelletto manifesti se stesso. L’intelletto, infatti, prova gioia nel mostrare e nel comunicare la luce della propria intelligenza. L’intelletto creatore16, dunque, fa di se stesso il fine delle sue opere17, per fare in modo, cioè, che la sua gloria sia manifesta, e per questo crea sostanze capaci di conoscere, le quali possano vedere la sua verità18. E a tali sostanze il creatore si offre come visibile, secondo il modo in cui esse sono in grado di coglierlo. Questa è la prima cosa da sapere, e in essa è contenuto, nel modo della complicazione, tutto quanto dovremo dire. In secondo luogo, devi sapere che ciò che non è vero, né verosimile, non è19. Tutto ciò che esiste in ciò che è altro [da sé], tuttavia, esiste in modo differente da come è in sé20; in sé, infatti, esiste come nel suo vero essere, mentre in ciò che è altro [da sé] esiste come nel suo essere verosimile. Il calore, ad esempio, in sé esiste come nel suo vero essere, mentre in ciò che è caldo esiste mediante una somiglianza della sua natura di caldo. Ora, vi sono tre modalità di conoscenza, ossia quella sensibile, quella intellettuale e quella intelligenziale, che secondo Agostino si chiamano cieli21. L’oggetto sensibile è nei sensi per mezzo della sua specie sensibile o similitudine, e i sensi sono presenti nell’oggetto sensibile per mezzo della loro specie sensitiva22; allo stesso modo, l’intelligibile è presente nell’intelletto per mezzo della sua similitudine intelligi-
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similitudinem, et intellectus in intelligibili per suam intellectivam similitudinem. Ita intelligentiale in intelligentia et e converso. Illi termini te non turbent, quia aliquando intelligentiale nominaturintellectibile. Ego autem nomino sic propter intelligentias. 6 Tertio notabis dictum Protagorae hominem esse rerum mensuram. Nam cum sensu mensurat sensibilia, cum intellectu intelligibilia, et quae sunt supra intelligibilia in excessu attingit. Et hoc facit ex praemissis. Nam dum scit animam cognoscitivam esse finem cognoscibilium, scit ex potentia sensitiva sensibilia sic esse debere, sicut sentiri possunt; ita de intelligibilibus, ut intelligi possunt, excedentia autem ita, ut excedant. Unde in se homo reperit quasi in ratione mensurante omnia creata. 7 Quarto adverte Hermetem Trismegistum dicere hominem esse secundum deum. Nam sicut deus est creator entium realium et naturalium formarum, ita homo rationalium entium et formarum artificialium, quae non sunt nisi sui intellectus similitudines sicut creaturae dei divini intellectus similitudines. Ideo homo habet intellectum, qui est similitudo divini intellectus in creando. Hinc creat similitudines similitudinum divini intellectus, sicut sunt extrinsecae artificiales figurae similitudines intrinsecae naturalis formae. Unde mensurat suum intellectum per potentiam operum suorum et ex hoc mensurat divinum intellectum, sicut veritas mensuratur per imaginem. Et haec est aenigmatica scientia. Habet autem visum subtilissimum, per quem videt aenigma esse veritatis aenigma, ut sciat hanc esse veritatem, quae non est figurabilis in aliquo aenigmate.
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bile, e l’intelletto è presente nell’intelligibile per mezzo della sua similitudine intellettiva. Allo stesso modo è presente l’intelligenziale nell’intelligenza, e viceversa. Non farti turbare da questi ultimi termini, perché talvolta l’intelligenziale viene chiamato intellettibile23. Io invece lo chiamo in questo modo in riferimento alle intelligenze [angeliche]. In terzo luogo, dovrai prestare attenzione al detto di Protagora, secondo il quale l’uomo è misura delle cose24. Misura infatti gli oggetti sensibili con il senso, gli oggetti intelligibili con l’intelletto, e giunge a cogliere ciò che è al di sopra degli oggetti intelligibili superando l’intelletto. E lo fa nel modo in cui abbiamo appena detto. Sapendo, infatti, che l’anima conoscitiva è il fine di tutto ciò che è conoscibile, egli sa, sulla base della facoltà sensitiva, che gli oggetti sensibili devono avere un essere tale da poter essere percepiti con i sensi; allo stesso modo, degli oggetti intelligibili sa che devono avere un essere tale da poter essere colti con l’intelletto, e di ciò che è al di sopra dell’intelligibile sa che deve avere un modo d’essere per il quale esso è al di sopra [di ciò che può essere colto dall’intelletto]. L’uomo, dunque, trova in se stesso, come nel fondamento che le misura, tutte le cose create25. In quarto luogo, bada a quanto dice Ermete Trismegisto, ovvero che l’uomo è un secondo Dio26. Come Dio, infatti, è il creatore degli enti reali e delle forme naturali, così l’uomo è il creatore degli enti razionali e delle forme artificiali, le quali non sono che similitudini del suo intelletto, come le creature di Dio sono similitudini dell’intelletto divino. L’uomo, pertanto, ha un intelletto che, nel creare, è una similitudine dell’intelletto divino27. L’uomo, quindi, crea similitudini delle similitudini dell’intelletto divino, così come le figure esteriori di una cosa prodotte dall’arte sono delle similitudini della sua intrinseca forma naturale. L’uomo misura il suo intelletto mediante la potenza delle sue opere28, e in questo modo misura anche l’intelletto divino, così come la verità [l’esemplare] viene misurata mediante la sua immagine. E questa conoscenza [dell’intelletto divino] è una conoscenza simbolica29. L’uomo, tuttavia, ha una vista acutissima, grazie alla quale vede che il simbolo è simbolo della verità, in modo tale che egli sa che la verità è ciò che non è rappresentabile mediante nessun simbolo30.
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Ad rem igitur his paucis praemissis descendentes incipiamus a primo principio. Deridebat enim eos Indus ille, quem Socrates interrogabat, qui sine deo aliquid conabantur intelligere, cum sit omnium causa et auctor. Volumus autem ipsum ut principium indivisibile videre. Applicemus beryllum mentalibus oculis et videamus per maximum, quo nihil maius esse potest, pariter et minimum, quo nihil minus esse potest, et videmus principium ante omne magnum et parvum, penitus simplex et indivisibile omni modo divisionis, quo quaecumque magna et parva sunt divisibilia. Ac si per beryllum intueamur inaequalitatem, erit aequalitas indivisibilis obiectum, et per absolutam similitudinem videbimus principium indivisibile omni modo divisionis, quo similitudo est divisibilis seu variabilis, scilicet veritatem. Nam nullum est aliud obiectum illius visionis nisi veritas, quae videtur per omnem similitudinem maximam pariter et minimam absolutum primum principium omnis suae similitudinis. Sic si per beryllum videmus divisionem, erit obiectum conexio indivisibilis; ita de proportione et habitudine et pulchritudine et talibus. 9 Huius vide nostrae artis aenigma et recipe calamum ad manus et plica in medio, et sit calamus a b et medium c.
Dico principium superficiei et anguli superficialis esse lineam. Esto igitur quod calamus sit ut linea et plicetur super c puncto, c b mobilis et moveatur versus c a. In eo motu c b cum c a causat
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Dopo questa breve premessa, veniamo al nostro argomento, e iniziamo dal principio. Un tale indiano, infatti, che Socrate era solito interrogare, derideva coloro che si sforzavano di comprendere qualcosa senza considerare Dio, dal momento che Dio è la causa e l’autore di tutte le cose31. Noi, invece, vogliamo vedere Dio quale principio indivisibile. Applichiamo il berillo agli occhi della mente32 e guardiamo, ad un tempo, attraverso il massimo, di cui nulla può essere maggiore, e attraverso il minimo, di cui nulla può essere minore, ed allora vediamo che il principio precede tutto ciò che è grande e piccolo, che esso è assolutamente semplice e che non può essere diviso con alcun tipo di divisione con la quale può essere diviso tutto ciò che è grande e piccolo33. E se, attraverso il berillo, intuiamo l’ineguaglianza, l’oggetto del nostro sguardo sarà l’uguaglianza indivisibile, e, mediante una similitudine assoluta, vedremo il principio che non può essere diviso con nessun tipo di divisione con la quale la similitudine risulta divisibile o mutevole; vedremo cioè la verità. Non vi è, infatti, nessun altro oggetto di quel tipo di visione se non la verità, la quale viene vista attraverso ogni similitudine, che sia al tempo stessa massima e minima, come il principio primo assoluto di ogni sua similitudine. Allo stesso modo, se, attraverso il berillo, vediamo la divisione, l’oggetto del nostro sguardo sarà la connessione indivisibile. E ciò vale anche per la proporzione, la relazione, la bellezza e così via. Considera un’immagine simbolica di cui si serve la nostra arte, prendi in mano una canna e piegala nel mezzo: supponi che la canna sia il segmento a-b e che il punto medio sia c.
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Affermo che la linea è il principio della superficie e dell’angolo che si trova sulla superficie34. Supponi, dunque, che la canna sia come la linea, che sia piegata all’altezza del punto c, che il segmento c b sia mobile e sia mosso in direzione di c a. In questo movimento, c b dà luogo insieme a c a a tutti gli angoli che si possono for-
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omnes formabiles angulos. Numquam autem erit aliquis ita acutus, quin possit esse acutior, quousque c b iungetur c a, neque aliquis ita obtusus, quin possit esse obtusior, quousque c b erit cum c a una continua linea. Quando igitur tu vides per beryllum maximum pariter et minimum formabilem angulum, visus non terminabitur in angulo aliquo, sed in simplici linea, quae est principium angulorum, quae est indivisibile principium superficialium angulorum omni modo divisionis, quo anguli sunt divisibiles. Sicuti igitur hoc vides, ita per speculum in aenigmate videas absolutum primum principium. 10 Attente considera per beryllum ad indivisibile pertingi. Quamdiu enim maximum et minimum sunt duo, nequaquam vidisti per maximum pariter et minimum, neque enim maximum est maximum neque minimum minimum. Et hoc clare videbis, si feceris de c lineam c d egredi mobilem. Quamdiu enim illa unum angulum cum c a et alium cum c b constituit, nullus est maximus aut minimus. Semper enim maior potest esse, in tantum maior, quantum alius exsistit, et ideo non prius unus maximus quam alius minimus. Et hoc esse non potest, quamdiu sunt duo anguli. Si igitur dualitas cessare debet angulorum, non videbis nisi c d super lineam a b et nullum videbis angulum. Et ita ante duo et post simplicem lineam esse debet angulus maximus pariter et minimus, sed non est signabilis. Solum igitur principium videtur maximum pariter et minimum, ut omne principiatum non possit esse nisi similitudo principii, cum nec maius nec minus eo esse possit, puta in angulis, ut nullus pos-
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mare. Non vi sarà mai un angolo così acuto che non possa essere più acuto, fino a che c b non si congiunga a c a, né vi sarà un angolo così ottuso che non possa essere più ottuso, fino a che c b non formerà con c a una sola linea continua. Pertanto, nel momento in cui vedi, per mezzo del berillo, un angolo che è al tempo stesso l’angolo massimo e l’angolo minimo che si possa formare, il tuo sguardo sarà giunto non ad un angolo qualsiasi, bensì alla linea semplice, la quale è il principio degli angoli che si trovano sulla superficie, ed è un principio che non può essere diviso con nessun tipo di divisione con la quale si possono dividere gli angoli. E come vedi questo, così puoi vedere, come in uno specchio e per mezzo di un’immagine simbolica, il primo principio assoluto35. Considera con molta attenzione il fatto che, mediante il berillo, si giunge a cogliere l’indivisibile. Fintantoché, infatti, massimo e minimo sono due cose distinte, tu non sei ancora giunto a guardare attraverso ciò che è parimenti massimo e minimo; in questo caso, infatti, né il massimo è massimo, né il minimo è minimo. Te ne renderai conto chiaramente se dal punto c tracci una linea mobile cd. Fino a che la linea cd forma un angolo con ca e una altro angolo con cb, nessuno di questi due angoli è massimo o minimo. Uno dei due angoli, infatti, può essere sempre maggiore, e può essere maggiore in tanto in quanto esiste un altro angolo; pertanto, l’uno non diventa massimo prima che l’altro non diventi minimo, e ciò non può avvenire finché essi sono due angoli distinti. Se i due angoli, dunque, devono cessare di essere distinti [perché vi sia coincidenza di massimo e di minimo], allora non vedrai altro che la linea cd sovrapposta alla linea ab, e non vedrai alcun angolo. E così l’angolo che è parimenti massimo e minimo dev’essere anteriore alla distinzione dei due angoli e posteriore alla semplice linea, ma un tale angolo non lo si può tracciare con i nostri segni. Solo il principio, quindi, viene visto come parimenti massimo e minimo, in modo tale che tutto ciò che deriva dal principio non può essere che una similitudine del principio, dal momento che non può essere né maggiore, né minore di lui. Si consideri il
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sit esse angulus adeo acutus, quin suam acutiem habeat a principio, nec possit esse aliquis ita obtusus, quin esse ipsum tale habeat a suo principio. Ideo necesse est quod omni acuto dabili, cum possit esse acutior, in virtute principii sit creare acutiorem; et ita de obtuso. Sic videtur principium aeternum et inevacuabile per omnia principiata. 11 Eleganter magnus Dionysius apostoli Pauli discipulus in capitulo octavo De divinis nominibus ista compendiose dicit. Ait enim: «Nihil itaque alienum a nostro instituto facimus, si per exiles imagines ad auctorem omnium ascendentes purgatissimis et mundo superioribus oculis inspiciamus omnia in omnium causa et invicem contraria uniformiter et coniuncte. Est enim principium rerum, ex quo est ipsum esse et omnia, quae quomodolibet sunt, omne initium et omnis finis.» Et post pauca subiungit: «et alia quaeque ipso esse cum sint quae sunt, omnia exculpunt.» Idem de eodem principio affirmat quod sit «finis» et «infinitus, stans et» progrediens et quod «neque» sit «stans neque se movens». Dicit enim omnia «exemplaria rerum in una supersubstantiali coniunctione in sui et omnium causa ante subsistere concedendum.» Ecce quam lucide ibi et in variis aliis locis divinus vir ille quae praemisi sic esse affirmat. 12 Iam tibi ex aenigmate constat, quomodo id intelligere queas primum esse omnium mensuram; omnia enim complicite est quae esse possunt. Nam angulus maximus pariter et minimus est actus omnis formabilis anguli, nec maior nec minor, ante omnem quantitatem. Nemo enim adeo parvi sensus est, quin bene videat angu-
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caso degli angoli: nessun angolo può essere così acuto da non ricevere la sua caratteristica di angolo acuto dal principio, né può essere così ottuso da non ricevere il suo essere ottuso dal suo principio. E dal momento che può sempre esserci un angolo più acuto di qualsiasi angolo acuto dato, è necessario, pertanto, che nel principio vi sia la forza di creare un angolo più acuto [di qualsiasi angolo acuto dato]. Lo stesso vale per l’angolo ottuso. In questo modo, si vede che il principio è eterno e che tutto ciò che deriva esso non può esaurirlo. Il grande Dionigi, discepolo dell’apostolo Paolo36 , dice queste cose, in maniera concisa ma con un bello stile, nel capitolo ottavo dei Nomi divini. Afferma, infatti: «Non facciamo nulla di altro da quanto ci è stato prescritto, se, ascendendo attraverso pallide immagini all’autore di tutte le cose, contempliamo, con occhi del tutto purificati ed elevati al di sopra del mondo sensibile, tutte le cose nella causa di tutte e se [in essa] contempliamo, in maniera congiunta e uniforme, anche quelle cose che sono contrarie tra di loro. Egli, infatti, è il principio delle cose, dal quale derivano l’essere stesso e tutte le cose che sono, in qualunque modo esse siano, ogni inizio e ogni fine»37. E poco dopo aggiunge: «Anche le altre proprietà che caratterizzano tutte le cose derivano dal principio, dal momento che esse sono ciò che sono in virtù dell’essere stesso». E a proposito del principio stesso Dionigi afferma che è finito e infinito, che sta [in sé] e che procede [verso tutte le cose], e che né sta fermo, né si muove38. Sostiene, infatti, che si deve ammettere che tutti gli esemplari sussistono anteriormente, secondo un’unione soprasostanziale, in quella che è la causa di sé e di tutte le cose. Vedi, dunque, con quanta chiarezza, in questo e in molti altri passi39, quell’uomo divino afferma ciò che io ho detto nei capitoli precedenti. Sulla base dell’immagine [geometrica] che abbiamo impiegato40 ti risulta ormai chiaro in che modo tu possa intendere che il primo [principio] è misura di tutte le cose 41: esso, infatti, è, nel modo della complicazione, tutte le cose che possono essere42. Infatti, l’angolo che è al tempo stesso massimo e minimo è l’atto di ogni angolo che possa essere formato, né maggiore, né minore, anteriore ad ogni quantità. Nessuno è così poco intelligente da
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lum simplicissimum maximum pariter et minimum in se omnes formabiles sive magnos sive parvos complicare nec maiorem nec minorem quocumque dabili. Cui non plus nomen unius quam omnium angulorum atque nullius convenit. Quare nec acutus nec rectus nec obtusus angulus nominari potest, cum non sit aliquis talis, sed simplicissima omnium causa. Recte igitur, ut Proclus recitat in commentariis Parmenidis, Plato omnia de ipso principio negat. Sic et Dionysius noster negativam praefert theologiam affirmativae. 13 Videtur autem ipsi deo magis convenire ipsum unum quam aliud nomen. Ita vocat eum Parmenides, similiter et Anaxagoras, qui aiebat «melius unum quam omnia simul». Non intelligas de uno numerali, quod monas seu singulare dicitur, sed de uno scilicet indivisibili omni modo divisionis, quod sine omni dualitate intelligitur. Post quod omnia sine dualitate nec esse nec concipi possunt, ut sit primo unum absolutum iam dictum, deinde unum cum addito, scilicet unum ens, una substantia, et ita de omnibus, ita quod nihil dici aut concipi possit ita simplex, quin sit unum cum addito, solum uno superexaltato excepto. Unde quomodo debeat omnium nominibus et nullo omnium nominum nominari, ut Hermes Mercurius de eo dicebat, et quaeque circa hoc, vides clare in aenigmate figurari. 14 Adhuc unum attendere velis quomodo omnia creabilia non sunt nisi similitudo. Nam omnis dabilis angulus de se ipso dicit quod non sit veritas angularis. Veritas enim non capit nec maius nec minus. Si enim posset esse maior aut minor veritas, non esset veritas. Quomodo esset veritas, quando non esset quod esse posset? Omnis igitur angulus dicit se non esse veritatem angularem,
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non vedere bene che l’angolo semplicissimo, che è al tempo stesso massimo e minimo, complica in sé tutti gli angoli che si possono formare, grandi e piccoli che siano, che non è né maggiore, né minore di qualunque angolo tracciabile e che ad esso non si addice il nome di un solo angolo più di quanto non gli si addica il nome di tutti gli angoli o di nessuno. Pertanto, non può essere chiamato né angolo acuto, né retto, né ottuso, poiché non è nessuno di questi angoli, ma è la causa semplicissima di tutti. Giustamente, pertanto, come riferisce Proclo nel Commento al Parmenide, Platone nega ogni predicato del principio 43. Allo stesso modo, anche il nostro Dionigi preferisce la teologia negativa a quella affermativa44. Sembra, tuttavia, che il nome «l’Uno stesso» si addica a Dio meglio di qualsiasi altro nome. Così lo chiama Parmenide45. In modo analogo lo chiama anche Anassagora46, il quale affermava che «è meglio [dire] “Uno” che “tutte le cose insieme”». Non devi pensare che si tratti dell’uno inteso come numero47, che è detto monade o singolare, ma dell’Uno che non può essere diviso con nessun tipo di divisione e che viene inteso senza traccia di dualità. Dopo di esso, nessuna cosa può essere o essere concepita senza dualità, in modo tale che, prima di tutto, c’è l’Uno assoluto, di cui abbiamo detto; poi c’è l’uno con aggiunta una qualche determinazione, e cioè un ente, una sostanza e così via48 . Di conseguenza, non c’è nulla che si possa dire o concepire di così semplice che non sia un uno con aggiunta una qualche determinazione, tranne l’Uno superesaltato. Il fatto, pertanto, che Dio debba essere nominato con tutti i nomi e con nessun nome, come diceva di lui Ermete Mercurio49, lo puoi vedere chiaramente raffigurato nell’immagine [geometrica], ed in essa puoi vedere anche tutto il resto che si può dire a proposito di questo argomento. Voglio che tu tenga presente ancora una cosa, vale a dire che tutto ciò che può essere creato non è che una similitudine50. Ogni angolo che può essere tracciato dice, a proposito di se stesso, di non essere la verità dell’angolo, dal momento che la verità non ammette né un più, né un meno51: se la verità potesse essere maggiore o minore, non sarebbe la verità. Come farebbe ad essere verità, se non fosse [tutto] ciò che potrebbe essere? Ogni angolo, dunque, dice di
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quia potest esse aliter quam est, sed dicit angulum maximum pariter et minimum, cum non posset esse aliter quam est, esse ipsam simplicissimam et necessariam veritatem angularem. Fatetur igitur omnis angulus se illius veri similitudinem, quia est angulus non ut in se, sed ut est in alio, scilicet in superficie. Et ideo angulus verus in angulo creabili seu designabili est ut in sua similitudine. Recte beatus Augustinus omnes dicit creaturas ad interrogationem, an sint deus, respondere: Non, quia non ipsi nos, sed «ipse fecit nos». 15 Nunc potes satis ex his videre, quam nunc, quando «per speculum videmus in aenigmate», ut Apostolus ait, de deo notitiam habere possumus, utique non aliam quam negativam, uti scimus quocumque angulo designato ipsum non esse simpliciter maximum pariter et minimum. In omni igitur angulo negative videmus maximum, quem scimus esse, sed non illum designatum, et scimus ipsum maximum pariter et minimum omnem totalitatem et perfectionem omnium formabilium angulorum, omnium ipsorum intimum centrum pariter et continentem circumferentiam. Sed conceptum non possumus de quiditate ipsius anguli maximi pariter et minimi facere, cum nec sensus nec imaginatio nec intellectus sentire, imaginari, concipere vel intelligere possint aliquid tale simile illi, quod est maximum pariter et minimum. 16 Sic dicit Plato «in Epistulis» apud «omnium regem cuncta esse et illius gratia omnia» eumque «causam bonorum omnium.» Et post pauca: «Humanus enim animus affectat qualia sint illa intelligere, aspiciens illa cognata genera, quorum nihil sufficienter se habet, sed in rege ipso nihil tale». Utique bene ibi scribit hoc teneri debere secretum. Non enim absque causa nominat primum prin-
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non essere la verità dell’angolo, perché può essere diverso da come è. Dice, però, che l’angolo che è al tempo stesso massimo e minimo, dal momento che non può essere diverso da come è, è la verità semplicissima e necessaria dell’angolo. Ogni angolo, pertanto, riconosce di essere una similitudine di quell’angolo vero, in quanto è l’angolo non com’è in se stesso, bensì com’è presente in qualcos’altro, ossia è l’angolo che si trova su una superficie. E pertanto l’angolo vero è presente nell’angolo che può essere formato o disegnato come in una sua similitudine. Il beato Agostino dice giustamente che, se si chiedesse a tutte le creature se siano Dio, esse risponderebbero: «No, perché non siamo noi che ci siamo fatte, ma è lui che ci ha fatte»52. Considerando quanto abbiamo detto, puoi adesso vedere, in maniera sufficientemente chiara, quale conoscenza possiamo avere di Dio ora, quando, come dice l’Apostolo, lo vediamo come in uno specchio e attraverso un’immagine53: di Dio non possiamo certamente avere che una conoscenza negativa, analoga a quella per la quale sappiamo che qualunque angolo venga disegnato non è l’angolo in quanto tale, quello che è massimo e minimo al tempo stesso. In ogni angolo, pertanto, scorgiamo, in maniera negativa, l’angolo massimo, del quale sappiamo che esiste, ma che non è quello disegnato54; sappiamo, inoltre, che l’angolo che è massimo e minimo al tempo stesso è la perfezione e la totalità di tutti gli angoli che si possono formare e che di tutti è, ad un tempo, il loro centro più interno e la circonferenza che li contiene. Non possiamo però formarci un concetto dell’essenza dell’angolo che è massimo e minimo al tempo stesso55, dal momento che né il senso, né l’immaginazione, né l’intelletto possono sentire, immaginare, concepire o intendere qualcosa di simile a quell’angolo che è massimo e minimo al tempo stesso. Platone, nelle Lettere, dice che tutte le cose sono presso il re ed esistono grazie a lui, che è la causa di tutti i beni. E subito dopo aggiunge56: «L’animo umano, infatti, desidera comprendere di che natura siano quelle cose che si trovano presso il re e guarda alle cose che sono nate con lui, delle quali nessuna è perfetta, ma nel re non vi è nulla di simile»57. E giustamente egli qui scrive che questa dottrina deve restare segreta58. E non senza ragione chiama il pri-
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cipium omnium regem. Omnis enim res publica per regem et ad ipsum ordinata et per ipsum regitur et exsistit. Quae igitur in re publica reperiuntur distincta, prioriter et coniuncte in ipso sunt ipse et vita, ut addit Proclus. Duces, comites, milites, iudices, leges, mensurae, pondera et quaeque talia omnia sunt in rege ut in publica persona, in qua omnia, quae possunt esse in re publica, actu exsistunt ipse. Lex eius in pellibus scripta est in ipso lex viva, et ita de omnibus, quorum ipse auctor est, et ab ipso omnia habent, quae habent tam esse quam nomen in re publica. Bene Aristoteles in simili ipsum principem nominavit, ad quem omnis exercitus est ordinatus tamquam ad finem et a quo habet exercitus quidquid est. Ecce sicut lex scripta in pellibus mortuis est lex viva in principe, sic in primo omnia sunt vita, tempus in primo est aeternitas, creatura creator. 17 Dicebat Averroes «in XI Metaphysicae omnes formas» esse «actu in primo motore» et in XII Metaphysicae quomodo Aristoteles negando ideas Platonis ponit ideas et formas in primo motore. Idem Albertus in commentariis super Dionysio asserit. Ait enim Aristotelem dicere primam causam tricausalem, scilicet efficientem, formalem et finalem, formalis est exemplaris, quodque ad illum intellectum non reprehendat Platonem. Verum est autem quod deus omnium in se habet exemplaria. Exemplaria autem rationes sunt. Nominant autem theologi exemplaria seu ideas dei voluntatem, quoniam sicut «voluit fecit», ait propheta. Voluntas autem, quae est ipsa ratio in primo intellectu, bene dicitur exemplar, sicut voluntas in principe ratione fulcita exemplar legis est, «quod enim principi placuit, legis habet vigorem». 18 Neque haec omnia, quae aut Plato aut Aristoteles aut alius quisquam dicit, aliud sunt quam tibi beryllus et aenigma ostendit, scilicet veritatem per suam similitudinem omnibus tribuere esse. Sic
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mo principio «re di tutte le cose». Ogni stato, infatti, si regge sul re ed è ordinato al re, è governato dal re e grazie al re esiste. Tutto quello, pertanto, che nello stato si trova come distinto è presente anteriormente e in modo unitario nel re, come identico al re stesso e alla sua vita, conformemente a quanto dice Proclo59: i duchi, i conti, i soldati, i giudici, le leggi, i criteri di misura e di peso e tutte le altre cose analoghe a queste sono presenti nel re come in una persona pubblica, nella quale tutte le cose che possono esistere nello stato esistono in atto come identiche al re stesso60. La sua legge, scritta sulle pergamene, è in lui una legge viva, e lo stesso si deve dire di tutte le cose di cui egli è l’autore; e da lui tutte le cose hanno quello che esse hanno nello stato, sia l’essere che il nome. Altrettanto bene Aristotele ha chiamato il primo principio il principe, al quale tutto l’esercito è ordinato come verso il suo fine e dal quale l’esercito ha tutto ciò che esso è61. Ecco, allora, che, come la legge scritta su pergamene morte nel principe è una legge viva, così nel primo principio tutte le cose sono vita62, il tempo è eternità, la creatura è il creatore. Nell’XI libro della Metafisica, Averroè dice che tutte le forme sono in atto nel primo motore e, nel XII libro, che Aristotele, negando le idee di Platone, pone le idee e le forme nel primo motore63. Alberto Magno, nel suo Commentario a Dionigi, sostiene la stessa cosa. Dice, infatti, che Aristotele parla della prima causa come tricausale, ossia come causa efficiente, formale e finale, dove la causa formale è la causa esemplare64. Dice anche che Aristotele, quanto a questa concezione, non ha nulla da rimproverare a Platone65. Ora, è vero che Dio ha in sé gli esemplari di tutte le cose66. Ma gli esemplari sono i principi razionali [delle cose]67. I teologi, invece, chiamano gli esemplari o le idee volontà di Dio68, perché il profeta dice che Dio «fece come volle»69. Ora, la volontà, che nel primo intelletto è lo stesso principio razionale, viene correttamente chiamata «esemplare», così come in un principe la volontà, sorretta dalla ragione, è l’esemplare della legge: «ciò che piacque al principe ha valore di legge»70. Tutto questo, che afferma Platone, o Aristotele, o qualsiasi altro pensatore, non è diverso da quello che ti mostrano il berillo e l’uso delle immagini, ossia che la verità, attraverso una sua simili-
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Albertus ubi supra affirmat dicens: «Oportet aliquo modo» fateri «quod a primo fluat in omnia una forma, quae sit similitudo suae essentiae, per quam omnia esse ab ipso participant.» Et attende quod veritas, quae est id quod esse potest, est imparticipabilis, sed in similitudine sua quae potest secundum magis et minus recipi secundum dispositionem recipientis est communicabilis. Avicebron in libro Fontis vitae dicit variam reflexionem entis causare entium differentiam, quoniam ‘vitam’ addit ‘una reflexio’ super ‘ens, intellectum duae reflexiones’. Quomodo hoc capi possit in aenigmate, ita velis imaginari. 19 Esto igitur quod a b sit linea similitudinis veritatis inter primam veritatem et ipsum nihil cadens, b vero finis similitudinis circa nihil. Et super c ipsum b plicetur motu complicatorio versus a figurans motum, quo deus vocat de non esse ad esse.
Tunc linea a b est fixa, ut egreditur a principio ut est a c, et mobilis, ut movetur super c complicatorie versus principium. In hoc motu c b cum c a causat varios angulos et c b est per motum differentias similitudinis explicans. Primo in similitudine minus formali obtusum angulum causat ipsius esse, deinde ma-
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tudine, conferisce l’essere a tutte le cose. Così Alberto, nel passo che abbiamo menzionato71, afferma: bisogna riconoscere, in qualche modo, che dal primo principio fluisce in tutte le cose un’unica forma, la quale è un’immagine della sua essenza e per mezzo della quale tutte le cose partecipano dell’essere che deriva dal principio. E presta bene attenzione al fatto che la verità, che è [tutto] ciò che può essere, è impartecipabile; essa, tuttavia, può essere comunicata mediante una sua similitudine, la quale può essere recepita in modo maggiore o minore, conformemente alla disposizione di chi la riceve. Avicebron, nel suo libro La fonte della vita72, dice che è la diversa conversione riflessiva dell’ente quella che causa le differenze tra gli enti, in quanto una conversione riflessiva aggiunge all’ente la vita, due conversioni riflessive aggiungono l’intelletto. Per vedere in che modo sia possibile comprendere questo punto mediante un’immagine, cerca di rappresentarti quanto segue. Supponi che ab sia la linea che rappresenta la similitudine della verità, posta tra la prima verità e il nulla, e che b sia il punto finale della similitudine più vicino al nulla; supponi, inoltre, che, in corrispondenza del punto c, lo stesso punto b si pieghi, con un movimento proprio della complicazione, in direzione del punto a, raffigurando così il movimento con cui Dio chiama le cose dal non essere all’essere:
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In questo caso, la linea ab è fissa, nella misura in cui procede dal principio, così come è fissa la linea ac, ed è mobile, nella misura in cui, in corrispondenza del punto c, si muove verso il principio, con il movimento proprio della complicazione. In questo movimento, la linea cb forma con la linea ca vari angoli, e così cb esplica, attraverso il movimento, le differenze proprie della similitudine. In primo luogo, il movimento di cb produce, in una similitudine dotata di poca forma, l’angolo ottuso, che rappresenta l’essere; poi, con una similitudine dotata di maggiore forma,
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gis formali ipsius vivere, deinde maxime formali et acuto ipsius intelligere.
Acutus angulus plus de activitate anguli et simplicitate participat et similior primo principio. Et est in aliis angulis, scilicet vitali et ipsius esse; sic vitalis in angulo ipsius esse. Et quae sunt mediae differentiae ipsius esse et vitae ac ipsius intelligere et quae explicari possunt, sic in aenigmate videbis: a b enim similitudo veritatis omnia in se continet, quae possunt explicari, et per motum fit explicatio. Motus autem quomodo fiat, ubi simplex elementum de se explicat elementatum, sicut praemisi, in aenigmate figuratur. Simplicitas enim elementalis est ex mobili et immobili, sicut principium naturale est principium motus et quietis. 20 Unde dum intellectus conditor sic movet c b, exemplaria, quae in se habet, explicat in sua similitudine, sicut mathematicus, dum lineam plicat in triangulum, ipsum triangulum explicat motu complicationis, quem intra se habet in mente. Unde habes lineam a b imaginari debere communicabilem veritatem, quae est incommunicabilis veritatis similitudo, per quam omnia vera sunt vera, et non absoluta ut veritas, sed est in veris. Experimur autem ipsum
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l’angolo retto del vivere, e infine, in una similitudine dotata del massimo contenuto di forma possibile, l’angolo acuto dell’intendere73:
L’angolo acuto è quello che partecipa di più dell’attualità e della semplicità dell’angolo, ed è quello più simile al primo principio. Inoltre, l’angolo acuto è presente anche negli altri angoli74, vale a dire in quelli della vita e dell’essere; l’angolo della vita, a sua volta, è presente nell’angolo dell’essere. E quelle che sono le differenze intermedie tra l’essere, la vita e l’intendere e [tutte] quelle che possono venire esplicate [dal movimento di cb] le vedrai rappresentate nell’immagine [geometrica] in questo modo. La linea ab, infatti, che è una similitudine della verità, contiene in sé tutte le cose [tutti gli angoli] che possono essere esplicate. E l’esplicazione avviene attraverso il movimento. In che modo avvenga invece il movimento nel quale l’elemento semplice esplica da sé ciò che è composto di elementi è raffigurato nell’immagine [geometrica], come ho appena detto. La semplicità dell’elemento, infatti, è fatta del mobile e dell’immobile75, così come il principio della natura è principio del movimento e della quiete. L’intelletto creatore 76 , pertanto, quando muove in questo modo cb, esplica in una sua similitudine gli esemplari che ha in sé, così come il matematico, quando piega la retta per formare il triangolo, esplica, con il movimento proprio della complicazione, il triangolo che ha in sé, ossia nella sua mente. Di conseguenza, sai che la retta ab dev’essere immaginata come se fosse la verità comunicabile, la quale è una similitudine della verità incomunicabile; mediante tale verità comunicabile tutte le cose sono vere; essa non è assoluta come la verità [incomunicabile], ma è presente in ciò che è vero. Noi facciamo tuttavia esperienza del fat-
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esse verorum in trino gradu, in eo quod quaedam sunt tantum, alia vero veritatis gestant simpliciorem similitudinem, quorum esse est virtuosius, quia eo quod sunt vivunt. Alia adhuc simpliciorem, quae eo ipso quod sunt vivunt et intelligunt. Esse autem quanto simplicius, tanto virtuosius et potentius. Ideo absoluta simplicitas seu veritas est omnipotens. 21 Adhuc alio aenigmate per doctrinam ut ad minima respiciamus, quando maxima inquirimus. Unum seu monas est simplicius puncto. Puncti igitur indivisibilitas est similitudo indivisibilitatis ipsius unius. Esto igitur quod unum sit ut indivisibilis et incommunicabilis veritas, quae se vult ostendere et communicare per suam similitudinem, et unum se signat seu figurat et oritur punctus. Punctus autem communicabilis indivisibilitas in continuo non sit unum. 22 Sit igitur punctus communicatus modo quo communicabilis est, et habetur corpus. Nam punctus est indivisibilis omni modo essendi continui et dimensionis. Modi autem essendi continui sunt linea, superficies et corpus, modi autem dimensionis sunt longum, latum et profundum. 23 Igitur linea participat indivisibilitatem puncti, quia est linealiter indivisibilis; linea enim in non lineam partiri nequit nec est divisibilis secundum latum et profundum. Superficies participat indivisibilitatem puncti, quia in non superficiem impartibilis. Nec sit corpus, quia in non corpus secari nequit, secundum profundum divisibilis. In indivisibilitate puncti complicantur omnes illae indivisibilitates. Nihil igitur reperitur in his nisi explicatio indivisibilitatis puncti. Omne igitur, quod reperitur in corpore, non est nisi punctus seu similitudo ipsius unius. Et non reperitur punctus absolutus a corpore vel superficie aut linea, quia est principium in-
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to che l’essere delle cose vere ha tre gradi. Alcune cose, infatti, esistono soltanto; altre hanno in sé una similitudine più semplice della verità e il loro essere ha maggiore forza, in quanto esse, per il fatto di essere, vivono anche; altre, infine, hanno in sé una similitudine ancora più semplice, in quanto esse, per il fatto stesse di essere, vivono e intendono. L’essere, quanto più è semplice, tanto più è forte e potente77. La semplicità o verità assoluta, di conseguenza, è onnipotente. Proseguiamo ora con un’altra immagine [geometrica], conformemente alla regola per la quale, quando vogliamo indagare le realtà massime, dobbiamo volgerci a considerare le minime. L’uno o la monade è più semplice del punto78. L’indivisibilità del punto, pertanto, è una similitudine dell’indivisibilità dell’uno79. Supponi, dunque, che l’uno sia come la verità indivisibile e incomunicabile che vuole mostrarsi e comunicarsi attraverso la sua similitudine: in questo caso, l’uno disegna o raffigura se stesso e nasce il punto. Tuttavia, il punto, che è una indivisibilità comunicabile nel continuo, non è l’uno. Supponi, quindi, che il punto si comunichi nel modo in cui esso è comunicabile e che ne risulti un corpo. Il punto, infatti, è indivisibile in tutti i modi di essere del continuo e di ciò che ha una dimensione80. I modi di essere del continuo sono la linea, la superficie e il corpo, mentre i modi di essere di ciò che ha una dimensione sono la lunghezza, la larghezza e la profondità81. La linea, quindi, partecipa della indivisibilità del punto, perché per quanto riguarda il suo essere una linea, essa è indivisibile: una linea, infatti, non può essere divisa in parti che non siano linea, e non è neppure divisibile secondo la larghezza e la profondità. La superficie partecipa dell’indivisibilità, in quanto non può essere divisa in parti che non siano superficie. E neppure il corpo è divisibile secondo la profondità, in quanto non può essere diviso in parti che non siano corpo. Nella indivisibilità del punto sono complicate tutte queste indivisibilità. In esse, pertanto, non si trova che l’esplicazione dell’indivisibilità del punto82. Tutto ciò che si trova nel corpo, quindi, non è che il punto, ossia una similitudine dell’uno. E il punto non lo si trova separato dal corpo, dalla superficie o dalla linea, in quanto è il loro principio intrinseco, ciò che confe-
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trinsecum dans indivisibilitatem. Linea autem plus participat simplicitatem puncti quam superficies, et superficies quam corpus, ut patuit. De hac consideratione puncti et corporis te eleva ad similitudinem veritatis et universi et in clariore aenigmate facies dictorum coniecturam. 24 Recipias veraciorem conceptum ex homine, qui omnia mensurat. In homine est intellectus supremitas rationis, cuius esse est a corpore separatum et per se verum, deinde est anima, deinde natura ac ultimo corpus. Animam dico quae animat et dat esse animale. Intellectus, qui non est communicabilis aut participabilis propter suam simplicem universalitatem et indivisibilitatem, se in sua similitudine communicabilem reddit, scilicet in anima. Cognitio enim sensitiva animae ostendit se similitudinem intellectus esse. Per animam intellectus se communicat naturae et per naturam corpori. Anima in eo quod similitudo intellectus sentit libere, in eo quod est unita naturae animat. Ideo per naturam animat, per se sentit. Quae igitur anima operatur in corpore medio naturae, illa contracte operatur, sicut cognoscitiva in organo contracte secundum organum. 25 Respiciamus ergo ad corpus et omnia eius membra formalia et ad cuiuslibet legem sive naturam, virtutem, operationem et ordinem, ut sit unus homo; et quidquid reperimus explicite, illa reperimus in intellectu ut in causa, auctore et rege, in quo omnia sunt ut in causa efficiente, formali et finali. Omnia enim anterioriter in potentia effectiva sunt, sicut in potentia imperatoris sunt dignitates et officia rei publicae. Omnia sunt formaliter in ipso, qui omnia format, ut formata in tantum sint, in quantum sunt suo con-
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risce loro l’indivisibilità. La linea, tuttavia, partecipa della semplicità del punto più della superficie, e la superficie ne partecipa più del corpo, com’è risultato evidente. Partendo da questa considerazione del punto e del corpo, elevati fino a giungere ad una similitudine della verità e dell’universo, e così, per mezzo di quest’immagine [geometrica] molto chiara, potrai formulare una congettura83 intorno a quanto abbiamo detto. A questo proposito, una concezione più vicina alla verità puoi ricavarla considerando l’uomo che misura tutte le cose84. Nell’uomo l’intelletto è la parte più elevata della ragione, e il suo essere è separato dal corpo e vero di per sé85; c’è poi l’anima, quindi la natura e da ultimo il corpo. Chiamo «anima» ciò che fa vivere e conferisce l’essere dotato di vita86. L’intelletto, che, a motivo della sua semplice universalità e della sua indivisibilità87, non è comunicabile o partecipabile, si rende comunicabile in una sua similitudine, ossia nell’anima. La conoscenza sensibile dell’anima mostra, infatti, che essa è una similitudine dell’intelletto88. Attraverso l’anima, l’intelletto si comunica alla natura e, attraverso la natura, al corpo. In quanto è una similitudine dell’intelletto, l’anima percepisce liberamente; in quanto è unita alla natura, conferisce la vita. Attraverso la natura, pertanto, l’anima conferisce la vita, da se stessa, invece, percepisce. Le operazioni, quindi, che compie nel corpo per il tramite della natura, l’anima le compie in maniera contratta, così come la facoltà conoscitiva opera in maniera contratta negli organi di senso, conformemente alla funzione di ogni organo. Guardiamo quindi al corpo, a tutte le membra che appartengono alla sua forma; guardiamo alla legge o alla natura di ciascuna di esse, alla forza, all’operazione che ognuna svolge, al loro ordine, che fa sì che vi sia un unico uomo89: tutto ciò che qui troviamo secondo la modalità dell’esplicazione, lo troviamo nell’intelletto come nella causa, nell’autore e nel re, nel quale tutto è presente come nella sua causa efficiente, formale e finale. Tutte le membra, infatti, sono contenute anteriormente nella loro potenza efficiente, come nel potere dell’imperatore sono contenute le dignità e gli uffici dello stato. Tutte le membra sono contenute formalmente nell’intelletto, il quale conferisce a tutte la loro forma, in modo tale che esse sono strutturate secondo una forma solo in quanto sono con-
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ceptui conformia. Finaliter sunt omnia in eo, cum eius gratia sint, cum ipse sit finis et desiderium omnium. Nihil enim omnia membra appetunt nisi unionem inseparabilem cum ipso tamquam cum suo principio et bono ultimo et vita perenni. 26 Quomodo autem anima, quae est similitudo intellectus, in se omnia vivificabilia complicet et vitam omnibus medio naturae communicet et quomodo natura sit omnia ut instrumentum complicans et in se omnem omnium membrorum motum et naturam praehabens, quis sufficienter enarrabit? Intellectus mediante sua similitudine, quae in homine est anima sensitiva, dirigit naturam et omnem naturalem motum, ut omnia suo verbo seu conceptui sive voluntati conformentur. Sic in universo, cui praesidet conditor intellectus, nihil penitus reperitur nisi similitudo sive conceptus ipsius conditoris. Sicut si conditor intellectus foret visus volens suam virtutem videndi ostendere, omne visibile, in quo se ostendat, conciperet, eo ipso intra se omne visibile haberet et ad conformitatem singulorum visibilium in suo conceptu exsistentium cuncta visibilia formaret. In omnibus enim visibilibus nihil reperiretur nisi conformitas et ideo similitudo ipsius conditoris eorum intellectus. 27 Varia valde ponunt sancti et philosophi aenigmata. Plato in libro De re publica recipit solem et eius attendit in sensibilibus virtutem et ex conformitate illius se elevat ad lucem intelligentiae intellectus conditoris. Quem magnus Dionysius imitatur. Nam utique aenigma est gratum ob conformitatem lucis sensibilis et intelligibilis. Albertus aenigma rectitudinis recipit, ac si linealis rectitudo daret esse omni ligno, quae in nullo uti est potest participari et manet imparticipabilis et absoluta. Varie autem in contracto esse, scilicet in sua similitudine, in quolibet ligno participatur,
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formi al concetto dell’intelletto. Tutte le membra sono poi presenti nell’intelletto in maniera finale, in quanto esse esistono in vista di lui, dal momento che l’intelletto è ciò cui tutte le membra tendono ed è l’oggetto del loro desiderio. Tutte le membra, infatti, non desiderano altro che l’unione inseparabile con l’intelletto, quale loro principio, loro bene ultimo e loro vita eterna. Chi spiegherà in maniera adeguata in che modo l’anima, che è una similitudine dell’intelletto90, complica in sé tutte le membra che possono ricevere la vita e comunica, per il tramite della natura, la vita a tutte le membra? E chi spiegherà in che modo la natura, in quanto strumento, complica tutte le membra e contiene antecedentemente in sé ogni movimento e ogni natura di tutte le membra? L’intelletto, attraverso una sua similitudine, che nell’uomo è l’anima sensitiva, dirige la natura e ogni moto naturale, in modo tale che tutto sia conforme al suo verbo, o concetto, o volontà. Allo stesso modo, nell’universo, al quale presiede l’intelletto creatore, non si trova nient’altro che una similitudine, o un concetto dello stesso creatore. Ad esempio, se l’intelletto creatore fosse una vista che volesse manifestare la sua forza visiva91, concepirebbe tutto ciò che è visibile in cui manifestarsi: per ciò stesso, avrebbe dentro di sé tutto ciò che è visibile e formerebbe tutte le cose visibili secondo la forma delle singole realtà visibili che esistono nel suo concetto. In tutte le cose visibili, infatti, non si troverebbe se non una conformità, e quindi una similitudine, con il loro intelletto creatore. Sia santi che filosofi impiegano molte e svariate immagini. Nel suo libro La Repubblica, Platone si serve come immagine del sole e prende in considerazione la forza che esso esercita sulle realtà sensibili92; e dalla sua conformità [con il principio], si eleva alla luce dell’intelligenza dell’intelletto creatore. Il grande Dionigi lo imita93. Quella del sole è in effetti un’immagine molto apprezzata per la conformità che hanno tra loro la luce sensibile e la luce intelligibile. Alberto si serve dell’immagine della rettitudine94, come se la rettitudine della linea conferisse l’essere ad ogni pezzo di legno, sebbene in nessun legno essa possa essere partecipata com’è in se stessa, ma resti impartecipabile e assoluta. In un modo d’essere contratto, ossia in una sua similitudine, essa, tuttavia, si parteci-
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quoniam unum nodose, aliud incurve; et ita de infinitis differentiis. Etiam caliditatem fingit absolutam, et quomodo omnia calida illius similitudinem participant et habent esse suum ab illa, sic conceptum facit de conditore intellectu et creaturis. Innumerabiles modi possunt concipi, multos alias in Docta ignorantia et libellis aliis posui. Sed nullus praecisionem attingere potest, cum divinus modus sit supra omnem modum. Et si applicas oculare et vides per maximum pariter et minimum modum omnis modi principium, in quo omnes modi complicantur et quem omnes modi explicare nequeunt, tunc facere poteris de divino modo veriorem speculationem. 28 Diceres forte usum berylli praesupponere essentiam recipere magis et minus, alioquin per maximum pariter et minimum non videretur eius principium. Respondeo quod, quamvis essentia secundum se non videatur magis et minus recipere, tamen secundum comparationem ad esse et actus proprios speciei magis et minus participat secundum dispositionem materiae recipientis, adeo ut dicit Avicenna quod in quibusdam videtur deus, in hominibus, qui divinum habent intellectum et operationes. Nec hic modus berylli penitus fuit absconditus Aristoteli, qui saepe discurrit reperiendo primum per hoc argumentum: Ubi reperitur participatio unius secundum magis et minus in diversis, necesse est deveniri ad primum, in quo ipsum est primum, ut de calore, qui in diversis participatur, devenitur ad ignem, in quo primum est ut in fonte, a quo alia omnia calorem recipiunt. 29 Sic Albertus illa regula utens quaerit primum, in quo est ratio fontalis entis omnium entitatem participantium, sic et principium cognoscendi, ubi ita dicit: «Cum intelligentia, anima rationa-
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pa in varie maniere in ogni pezzo di legno, dal momento che un legno ne partecipa in maniera nodosa, un altro in maniera curva, e così via secondo infinite differenze. Alberto immagina anche il calore assoluto95 e che tutte le cose calde partecipino della sua similitudine ed abbiano da esso il proprio essere; in questo modo, egli si forma un concetto dell’intelletto creatore e delle creature. Si possono concepire innumerevoli esempi di questo modo di procedere; io ne ho proposti molti altri sia ne La dotta ignoranza, sia in altri libri96. Nessuno, però, può raggiungere la precisione97, dal momento che il modo divino è superiore ad ogni altro modo. Ma, se usi la lente e, attraverso il modo che è al tempo stesso massimo e minimo, vedi il principio di ogni modo, nel quale tutti i modi sono complicati e che tutti i modi non riescono ad esplicare, allora potrai condurre una speculazione più vera intorno al modo divino. Mi dirai, forse, che l’uso del berillo presuppone che un’essenza ammetta il più e il meno, altrimenti non si vedrebbe il suo principio attraverso ciò che è, al tempo stesso, massimo e minimo. Rispondo che, sebbene l’essenza, considerata di per sé, non sembri ammettere il più e il meno98, considerata tuttavia in rapporto con l’essere e gli atti propri della specie cui appartiene, partecipa del più e del meno a seconda della disposizione della materia che la riceve. Ciò è vero a tal punto che, come dice Avicenna99, in certi enti si scorge Dio: negli uomini, ad esempio, che hanno un intelletto divino e operazioni divine. Questo modo di usare il berillo non è stato del tutto sconosciuto neppure ad Aristotele, il quale, per trovare un principio primo, ha spesso ragionato utilizzando questo argomento: dove si trova che diversi enti partecipano di una cosa secondo il più e il meno, è necessario giungere ad un primo ente nel quale quella cosa sia presente in quanto prima; ad esempio, dal calore, del quale partecipano oggetti diversi, si giunge al fuoco, nel quale il primo [calore] è presente come nella sua fonte dalla quale tutti gli altri oggetti caldi ricevono il calore100. Allo stesso modo, Alberto utilizzando questa regola, cerca il principio primo nel quale risiede la ragione fontale dell’essere di tutte le cose che partecipano dell’essere; e fa la stessa cosa anche a proposito del principio della conoscenza, là dove si esprime in questo modo101: dal momento che l’intelligenza, la facoltà raziona-
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lis et sensitiva communicent in virtute cognoscendi, oportet quod recipiant hanc naturam ab aliquo, in quo est primo sicut in fonte, et hic est deus. Impossibile est autem quod aequaliter recipiant ab eo, quia sic essent aeque propinquae principio et aequalis virtutis in cognoscendo. Unde primo recipitur in intelligentia», quae habet «tantum de esse intelligentiae, quantum participat de radio divino. Similiter anima rationalis tantum participat de virtute cognoscitiva, quantum capit de radio intelligentiae, licet obumbretur in illa». Sic et «anima sensibilis participat de cognitione, quantum imprimitur in ipsa radius rationalis animae, licet obumbretur in ipsa». Sed sensitiva est ultima, quae «non influit ulterius virtutem cognoscitivam». Sed, ut ait, «anima rationalis non» influit in sensum, «nisi sibi» sit coniunctus. Sic nec «primum influit in secundum nisi ei coniunctum». Non intelligas intelligentiam creare animas aut animam sensum, «sed quod radius in primo horum» a sapientia aeterna receptus «est exemplar et quasi seminale secundi.» «Et quia radius iste semper recipitur» in virtute minoratus, ideo anima non recipit radium secundum esse intelligibile, nec vegetabilis ab anima sensitiva recipit radium cognoscitivum. 30 Idem magnus Albertus in allegatis commentariis assimilat illum divinum radium illuminantem naturam cognoscitivam radio solis, qui in se consideratus, antequam subintret aërem, est universalis et simplex et «in aëre» recipitur «in profundo» ipsum penetrando et penitus illuminando. Deinde «recipitur in superficie in corporibus terminatis», ubi secundum variam dispositionem varios causat
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le e la facoltà sensitiva dell’anima hanno in comune tra di loro la capacità di conoscere, è necessario che esse ricevano questa loro natura da qualcuno nel quale essa sia presente in modo primario come nella sua fonte, e questi è Dio. D’altra parte, è impossibile che esse ricevano da Dio la loro natura [conoscitiva] in modo uguale, perché in tal caso sarebbero ugualmente vicine al principio e sarebbero dotate della stessa capacità di conoscere. Essa [la natura conoscitiva], pertanto, viene ricevuta in primo luogo dall’intelligenza, la quale possiede l’essere proprio dell’intelligenza nella misura in cui partecipa del raggio divino. In modo simile, l’anima razionale partecipa della capacità conoscitiva nella misura in cui partecipa del raggio dell’intelligenza, sebbene l’intelligenza sia presente nell’anima razionale in modo più oscuro. E così, anche l’anima sensitiva partecipa della conoscenza nella misura in cui s’imprime in essa il raggio dell’anima razionale, anche se nell’anima sensitiva tale raggio risulta oscurato. L’anima sensitiva, tuttavia, è l’ultimo grado, che non fa più fluire ulteriormente la capacità conoscitiva ad un grado più basso. Ma anche l’anima razionale, come dice Alberto, non esercita il suo influsso sui sensi, se questi non sono congiunti ad essa; e così neppure il primo esercita il suo influsso sul secondo, se questo non è congiunto ad esso. Non devi intendere questo nel senso che l’intelligenza crei le anime, o che l’anima crei i sensi; devi piuttosto intenderlo nel senso che il raggio che deriva dalla sapienza eterna e che viene ricevuto nel primo di questi gradi [nell’intelligenza] è l’esemplare e, per così dire, il principio seminale del secondo. E poiché questo raggio viene ricevuto con una forza minore [rispetto a quella originaria], l’anima non riceve il raggio secondo il suo essere intelligibile, né l’anima vegetativa riceve dall’anima sensitiva un raggio dotato di capacità conoscitiva. Lo stesso Alberto Magno, nel commentario che abbiamo citato, paragona il raggio divino che illumina la natura conoscitiva al raggio del sole102. Questo, considerato in se stesso, prima di penetrare nell’aria, è universale e semplice, e viene ricevuto dall’aria quando penetra l’aria in profondità e la illumina tutta. Viene poi ricevuto sulla superficie di corpi delimitati, dove produce diversi colori, a seconda della diversa disposizione dei corpi [a ricevere la luce]: il
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colores, album et clarum, si est superficies clara, nigrum, si obscura, et medios colores secundum dispositionem mediam. Sic principium primum, scilicet sapientia dei seu divina cognitio, quae est essentia dei manens et incommunicabilis, radio suo, qui est una forma cognoscitiva, se habet, quoniam quasdam naturas illuminat, ut cognoscant «simplices quiditates rerum, et haec cognitio est secundum maximum fulgorem, qui possibilis est» recipi «in creatura», et hoc in intelligentiis. In aliis recipitur, ubi non operatur talem cognitionem simplicium quiditatum, sed mixtarum «cum continuo et tempore sicut in hominibus». Ibi enim incipit cognitio «a sensibus, ideo oportet, quod conferendo unum ad alterum perveniat ad simplex intelligibile.» 31 Quare Isaac dicebat «quod ratio oritur in umbra intelligentiae et sensus in umbra rationis», ubi «occumbit» cognitio. Unde «anima vegetabilis oritur in umbra sensus» et non participat de radio cognoscitivo, ita quod possit recipere «speciem et ab appendiciis materiae separare», ut fiat «simplex cognoscibile». Avicenna vero suscipit aenigma in igne et vario eius essendi modo ab aethere deorsum, usquequo in lapide penitus obumbretur. 32 Hi omnes et quotquot vidi scribentes caruerunt beryllo. Et ideo arbitror, si constanti perseverantia secuti fuissent magnum Dionysium, clarius vidissent omnium principium atque commentaria fecissent in ipsum secundum ipsius scribentis intentionem. Sed quando ad oppositorum coniunctionem perveniunt, textum magistri divini disiunctive interpretantur. Magnum est posse se stabiliter in coniunctione figere oppositorum. Nam etsi sciamus ita fieri debere, tamen, quando ad discursum rationis revertimur, labimur frequenter et visionis certissimae nitimur rationes reddere, quae
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bianco e il chiaro, se la superficie è chiara, il nero, se è scura, e colori di tonalità intermedia se la superficie ha una disposizione [a ricevere la luce] intermedia. In modo simile si comporta il primo principio, ossia la sapienza di Dio o la conoscenza divina, che è l’essenza di Dio che rimane in sé e resta incomunicabile, con il suo raggio, che è un’unica forma conoscitiva. Il primo principio, infatti, illumina certe nature in modo tale che esse possono conoscere le essenze semplici delle cose. E questa conoscenza corrisponde al massimo splendore che può essere ricevuto in una creatura, ed è quanto avviene nelle intelligenze [angeliche]. Questo splendore viene ricevuto anche in altre creature, nelle quali non produce una tale conoscenza delle essenze semplici, bensì una conoscenza delle essenze che sono mescolate con il continuo [con lo spazio] e con il tempo, ed è quanto avviene negli uomini. Qui, infatti, la conoscenza ha inizio dai sensi, per cui essa deve pervenire all’intelligibile semplice comparando una cosa con un’altra. Per questo motivo, Isacco103 diceva che la ragione sorge all’ombra dell’intelligenza e i sensi all’ombra della ragione e che qui finisce la conoscenza. L’anima vegetativa, pertanto, sorge all’ombra dei sensi e non partecipa del raggio della conoscenza in modo da poter ricevere la forma [dell’oggetto sensibile] e separarla dall’aggiunta della materia, per farla così diventare un oggetto semplice della conoscenza. Avicenna, invece, utilizza come immagine il fuoco e i suoi diversi modi di essere, a partire dall’etere scendendo giù fino al suo completo oscurarsi nella pietra104. Tutti gli autori che abbiamo menzionato, così come tutti gli altri che ho letto, sono stati privi del berillo. Ritengo che, se avessero seguito il grande Dionigi con costanza e perseveranza, avrebbero avuto una visione più chiara del principio e avrebbero composto dei commentari ai suoi scritti in modo conforme alle sue intenzioni. Invece, quando giungono alla [dottrina della] congiunzione degli opposti, interpretano il testo del divino maestro in modo da intendere gli opposti come disgiunti105. È una grande cosa essere in grado di fissare lo sguardo sulla congiunzione degli opposti. Infatti, anche se sappiamo che si deve fare così, tuttavia, quando ritorniamo al modo di procedere discorsivo proprio della ragione, spesso vacilliamo e ci sforziamo allora di addurre delle argomentazio-
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est supra omnem rationem, et ideo tunc cadimus de divinis ad humana et instabiles atque exiles rationes adducimus. Hoc Plato in Epistulis, ubi de visione primae causae praemisit, omnibus accidere astruit. Tu igitur si volueris aeternam sapientiam sive principium cognoscitivum videre, posito beryllo ipsum videas per maximum pariter et minimum cognoscibile. Et in aenigmate quemadmodum de angulis inquire acutas, formales, simplices et penetrativas naturas cognoscitivas uti angulos acutos, alias obtusiores et demum obtusissimas uti obtusos angulos. Et omnes gradus venari poteris possibiles, et quemadmodum de hoc sic dixi, ita de quibuscumque sic se habentibus. 33 Dubitas fortassis quomodo videtur principium unitrinum. Respondeo: Omne principium est indivisibile omni divisione suorum effectuum seu principiatorum. Primum igitur principium est ipsa simplicissima atque perfectissima indivisibilitas. In essentia autem perfectissimae indivisibilitatis video unitatem, quae est fons indivisibilitatis, video aequalitatem, quae est indivisibilitas unitatis, et video nexum, qui est indivisibilitas unitatis et aequalitatis. Et capio aenigma et intueor a c b angulum et considero c punctum primum principium anguli et lineas c a et c b secundum principium;
c punctus principium est unitrinum, nam est principium c a lineae, quae est linea immobilis, et lineae c b, quae est linea differentiativa formans; et video c punctum utriusque nexum, et quod c
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ni razionali a sostegno di una visione che è certissima e che è al di sopra di ogni ragione. E così ricadiamo giù dalle altezze divine alle cose umane, e adduciamo delle argomentazioni razionali che sono instabili e deboli. Nelle sue Lettere, dove parla della visione della causa prima, Platone ci assicura che questo è quello che accade a tutti gli uomini106. Tu, pertanto, se vuoi vedere l’eterna sapienza, ossia il principio da cui scaturisce la conoscenza, utilizza il berillo e guarda il principio attraverso ciò che è massimamente e minimamente conoscibile al tempo stesso. E servendoti di un’immagine, ad esempio quella degli angoli, cerca le nature dotate di capacità conoscitiva che siano caratterizzate dalla semplicità, dalla forma, dall’acutezza e dalla penetrazione, proprio come sono gli angoli acuti; cerca poi le altre nature che sono caratterizzate da una maggiore ottusità, e infine quelle più ottuse di tutte, proprio come sono gli angoli ottusi. In questo modo, sarai in grado di scovare107 tutti i possibili gradi [di nature conoscitive], e il procedimento che ho descritto in questo caso lo si potrà utilizzare in qualsiasi altro caso analogo. Hai forse dei dubbi sul fatto che il principio possa essere visto come unitrino. Rispondo: ogni principio è indivisibile secondo tutti i tipi di divisione che caratterizzano i suoi effetti, ossia le cose che derivano dal principio. Il primo principio, pertanto, è l’indivisibilità stessa, semplicissima e perfettissima. Nell’essenza dell’indivisibilità perfettissima vedo l’unità, che è la fonte dell’indivisibilità, vedo l’uguaglianza, che è l’indivisibilità dell’unità, e vedo il nesso, che è l’indivisibilità dell’unità e dell’uguaglianza108. E prendo un’immagine e guardo all’angolo abc; considero il punto c come il primo principio dell’angolo e le linee ca e cb come il secondo principio.
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Il punto c è un principio unitrino: è infatti il principio della linea ca, che è la linea immobile, e della linea cb, che è la linea che produce le differenze. Vedo inoltre che il punto c è il nesso
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punctus est intimius et proximius principium anguli, scilicet principium simul et terminus anguli, incipit enim in c puncto et in eodem terminatur. 34 Dum igitur intueor in c unitrinum principium, video ipsum esse fontem, unde primo emanat unitas seu necessitas omnia uniens et constringens. Deinde video ipsum principium, unde emanat aequalitas omnia quantumcumque varia formans seu adaequans, quocumque motu hoc fieri oporteat. Sic video ipsum c principium, unde emanat nexus et conservatio omnium constrictorum et formatorum. Video igitur ipsum principium simplicissimum unitrinum, ut sua indivisibilitas sit perfectissima et sit omnium causa, quae in sua indivisibili essentia sive terna indivisibilitate subsistere nequeunt. 35 Tetigerunt philosophi hanc trinitatem, quam viderunt in principio esse, a causato ad causam ascendendo. Anaxagoras et ante eum Emortinus Clasomenus, ut vult Aristoteles, fuit primus, qui intellectuale vidit principium. Quem Plato extulit eius libros saepissime legens, quia visum sibi fuit quod «magistrum invenisset». Et quae Plato de eo dicit, illa et Aristoteles. Ipse enim Anaxagoras tam Platoni quam Aristoteli oculos aperuit. Nisus est autem uterque hoc principium per rationem reperire. Et Plato principium, a quo omnia condita, nominavit conditorem intellectum et eius patrem deum ac cunctorum causam. Et ita primo apud primum omnia esse dixit, ut sunt in triplici causa efficienti, formali et finali. Secundo dixit omnia esse in conditore intellectu, quem primam dicit dei creaturam, et asserit generationem eius a primo esse quasi filius a patre. Hunc intellectum, quem etiam sacrae litterae sapientiam «ab initio et ante» omnia «saecula» creatam et primogenitam omnis creaturae nominant, dicit conditorem quasi inter causam et causata sensibilia mediatorem, qui exsequitur imperium seu intentionem patris. Tertio vidit per universum diffun-
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di entrambe le linee e che è il principio più intimo e più prossimo dell’angolo, ossia è, al tempo stesso, il principio e il termine ultimo dell’angolo, il quale inizia nel punto c e termina nello stesso punto. Quando guardo dunque in c il principio unitrino, vedo che esso è la fonte dalla quale emana109 in primo luogo l’unità o necessità che unisce e congiunge insieme tutte le cose. Poi vedo che esso è il principio da cui emana l’uguaglianza, che forma o rende adeguate tutte le cose, per quanto varie esse siano, e lo fa con qualunque movimento sia a ciò necessario. Allo stesso modo, vedo che è anche il principio da cui emana il nesso che conserva tutte le cose che hanno ricevuto una forma e che sono congiunte insieme. Vedo, pertanto, che il principio semplicissimo è unitrino, in modo tale che la sua indivisibilità sia perfettissima e sia la causa di tutte le cose110, le quali non possono sussistere nella sua essenza indivisibile o nella trina indivisibilità. I filosofi hanno accennato a questa trinità che essi, ascendendo dal causato alla causa, videro presente nel principio111. Anassagora, e prima di lui Ermotimo di Clazomene, come sostiene Aristotele112, fu il primo a vedere il principio come dotato di natura intellettuale. E Platone, che lesse più volte i suoi libri, lo elogiò, dal momento che gli sembrò di aver trovato in lui un maestro113. E ciò che dice di lui Platone, lo dice anche Aristotele114. È stato proprio Anassagora, infatti, ad aprire gli occhi tanto a Platone quanto ad Aristotele. Entrambi, tuttavia, si sono sforzati di trovare questo principio mediante la ragione. E Platone ha chiamato il principio, dal quale tutte le cose sono state create, «intelletto creatore»115, mentre il padre dell’intelletto lo ha chiamato Dio e causa di tutto. E ha detto che tutte le cose sono in primo luogo nel primo e vi sono come una triplice causa, ossia efficiente, formale e finale. Ha detto, poi, che tutte le cose sono, in secondo luogo, nell’intelletto creatore, che egli chiama «prima creatura di Dio», affermando che la sua generazione è come quella di un figlio dal padre116. Questo intelletto, che anche le Scritture117 citano con il nome di «sapienza creata fin dal principio e prima di tutti i secoli» e di «primogenita tra tutte le creature», Platone lo chiama «creatore», come se fosse il mediatore tra la causa e i causati sensibili, che esegue il comando o l’intenzione del padre. In terzo luogo, Platone ha visto che, per l’universo,
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di spiritum seu motum cuncta, quae in mundo sunt, conectentem et conservantem. 36 Apud igitur deum omnia vidit primo modo essendi primo et simplicissimo, sicut omnia sunt in potestate effectiva et omnipotenti. Secundo vidit omnia esse sicut in exsecutore imperii sapientissimo. Et hunc essendi modum vocat secundum. Tertio vidit omnia esse ut in instrumento exsecutoris, scilicet in motu, nam per motum quae fiunt ad effectum producuntur. Et hunc essendi modum tertium animam mundi nominavit Aristoteles, licet non utatur terminis illis. Idem videtur dicere quoad deum, scilicet quod omnia apud ipsum sint ut in causa unitrina quodque omnes formae sint in intelligentia motrice caeli et in motu animato anima nobili. Ipse autem ‘intelligentias plenas formis’ multiplicat secundum multitudinem orbium caeli, quia eas dicit motrices orbium. Tamen secundum regulam suam omnium intelligentiarum moventium ad primum motorem necessario deveniri oportere ostendit. Et hunc nominat principem seu primum intellectum. 37 Plato autem considerans multitudinem intelligentiarum vidit intellectum, cuius participatione omnes intelligentiae sunt intelligentiae. Et quia vidit primum deum absolutum, simplicissimum, imparticipabile et incommunicabile principium, ideo communicabilem intellectum in deis multis seu intelligentiis varie participatum et communicatum arbitrabatur primam creaturam. Ita etiam animam mundi, quae in omnibus animabus communicabiliter participatur, ante omnes animas, quasi in qua prioriter omnes complicantur ut in suo principio, esse credidit. De his igitur tribus essendi modis prioriter et quomodo sortiantur nomina fatorum, in Docta ignorantia memor sum quaedam dixisse. Solum autem notes non esse necessarium universalem esse creatum intellectum aut
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è diffuso lo spirito o il movimento che connette e conserva tutte le cose che esistono nel mondo118. Platone, pertanto, ha visto, in primo luogo, che tutte le cose sono in Dio secondo un modo d’essere primo e semplicissimo119, così come tutte le cose sono nella potenza efficiente e onnipotente. In secondo luogo, ha visto che tutte le cose sono come nell’esecutore sapientissimo del suo comando [di Dio]120. E questo modo d’essere lo chiama secondo. In terzo luogo, ha visto che tutte le cose sono come nello strumento dell’esecutore, ossia nel movimento: è attraverso il movimento, infatti, che tutte le cose che divengono vengono portate ad effetto121. Aristotele ha chiamato questo terzo modo di essere «anima del mondo», sebbene egli non usi esattamente questi termini122. Intorno a Dio egli sembra dire le stesse cose che dice Platone, ossia che tutte le cose sono presso Dio come nella loro causa unitrina123 e che tutte le forme sono nell’intelligenza che muove i cieli e nel movimento animato dall’anima nobile124. Aristotele, tuttavia, moltiplica le intelligenze piene di forme125 in proporzione alla molteplicità delle sfere celesti, in quanto sostiene che tali intelligenze sono i motori delle sfere126. Tuttavia, conformemente al suo metodo, egli mostra che si deve necessariamente pervenire ad un primo motore di tutte le intelligenze motrici, e chiama questo primo motore «principe» o «primo intelletto»127. Platone, invece, partendo dalla considerazione della molteplicità delle intelligenze, ha visto l’intelletto per la partecipazione al quale tutte le intelligenze sono intelligenze128. E poiché ha visto il primo Dio come un principio assoluto, semplicissimo e incomunicabile, ha ritenuto che questo intelletto comunicabile, che viene partecipato e comunicato in modi diversi ai molti dèi o intelligenze, fosse la prima creatura129. Allo stesso modo, ha anche ritenuto che l’anima del mondo, la quale viene partecipata e comunicata a tutte le anime, fosse anteriore a tutte le anime, come se tutte le anime siano complicate anteriormente in essa come nel loro principio. Ricordo che, ne La dotta ignoranza130, ho detto alcune cose a proposito di questi tre modi di essere e circa il fatto che ad essi vengono attribuiti i nomi delle diverse forme di fato. A questo proposito devi tuttavia notare che, per spiegare la partecipazione, non è necessario introdurre un intelletto creato universale o un’anima del
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universalem mundi animam propter participationem, quae Platonem movit. Se ad omnem essendi modum sufficit habunde primum principium unitrinum, licet sit absolutum et superexaltatum, cum non sit principium contractum ut natura, quae ex necessitate operatur, sed sit principium ipsius naturae et ita supernaturale, liberum, quod voluntate creat omnia. Illa vero, quae voluntate fiunt, in tantum sunt, in quantum voluntati conformantur, et ita eorum forma est intentio imperantis. Intentio autem est similitudo intendentis, quae est communicabilis et receptibilis in alio. Omnis igitur creatura est intentio voluntatis omnipotentis. 38 Istud ignorabant tam Plato quam Aristoteles. Aperte enim uterque credidit conditorem intellectum ex necessitate naturae omnia facere, et ex hoc omnis eorum error secutus est. Nam licet non operetur «per accidens sicut ignis per calorem», ut bene dicit Avicenna, nullum enim accidens cadere potest in eius «simplicitatem», et per hoc videatur agere «per essentiam», non tamen propterea agit quasi natura seu instrumentum necessitatum per superioris imperium, sed per liberam voluntatem, quae est et essentia eius. Bene vidit Aristoteles in Metaphysica, quomodo omnia in principio primo sunt ipsum, sed non attendit voluntatem eius non esse aliud a ratione eius et essentia. 39 Quomodo autem Plato habuerit de unitrino principio conceptum et quam propinque admodum nostrae christianae theologiae, Eusebius Pamphili in libro Praeparatoriorum evangelii ex libris Numenii, qui secreta Platonis conscripsit, et Plotini atque aliorum collegit. Aristoteles etiam in sua Metaphysica, quam ipse theologiam appellat, multa conformia veritati ratione ostendit, scilicet principium esse intellectum penitus in actu, qui se ipsum intel-
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mondo universale, secondo la considerazione che ha influenzato Platone131. Per spiegare ogni modo d’essere è in effetti ampiamente sufficiente il primo principio unitrino, per quanto esso sia superesaltato e assoluto; esso, infatti, non è un principio contratto come la natura, la quale agisce per necessità, ma è il principio della stessa natura ed è così al di sopra della natura e libero da creare tutte le cose mediante la sua volontà132. Le cose, tuttavia, che vengono fatte in virtù della volontà esistono solo in quanto sono conformi alla volontà, e così la loro forma è l’intenzione di colui che comanda. L’intenzione, tuttavia, è una similitudine di chi la esprime, una similitudine che può essere comunicata a qualcos’altro e ricevuta in qualcos’altro. Ogni creatura, pertanto, è l’intenzione della volontà dell’onnipotente. Sia Platone che Aristotele non hanno saputo tutto questo. Entrambi, infatti, hanno chiaramente creduto che l’intelletto creatore facesse ogni cosa per necessità di natura e da questa convinzione è derivato ogni loro errore133. Infatti, sebbene [il creatore] non operi per mezzo di un accidente, come fa il fuoco attraverso il calore, secondo quanto dice giustamente Avicenna134, in quanto nessun accidente può essere presente nella sua semplicità, e sebbene, pertanto, agisca in virtù della sua essenza, non per questo tuttavia agisce come fa la natura o come uno strumento, che è necessitato ad agire dal comando di qualcuno di superiore, ma agisce piuttosto mediante la sua libera volontà, che costituisce anche la sua essenza135. Ha visto bene Aristotele, nella Metafisica136, che tutte le cose nel principio sono il principio stesso, ma non ha tuttavia prestato attenzione al fatto che la volontà del principio non è qualcosa di altro dalla sua ragione e dalla sua essenza. Quale sia stata invece la concezione che Platone ha avuto del principio unitrino e quanto essa fosse vicina al modo d’intendere della nostra teologia cristiana ci è stato riferito da Eusebio di Panfilo nel libro La preparazione al Vangelo, nel quale egli ha tratto la concezione platonica dai libri di Numenio, che scrisse sulla dottrina segreta di Platone, di Plotino e di altri137. Anche Aristotele, nella sua Metafisica, che egli stesso chiama «teologia»138, dimostra con la ragione molte cose conformi a verità, ossia che il principio è un intelletto pienamente in atto, che pensa se stesso e che da questa
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ligit, ex quo delectatio summa. Hoc quidem et theologi nostri dicunt intellectum illum divinum se intelligendo de se et sua essentia et natura generare intelligibilem sui ipsius similitudinem adaequatissimam. Intellectus enim generat verbum, in quo est substantialiter, et ex hoc procedit delectatio, in qua est generantis et geniti consubstantialitas. Verum si de hoc principio tu vis habere omnem possibilem scientiam, considera in omni principiato quo est, quid est et nexum, et per beryllum maximi pariter et minimi principiati respice in omnium principiatorum principium. In ipso principio perfectissime modo divino reperies trinitatem principium simplicissimum omnis creaturae unitrinae. Et attende me in simplici conceptu principiati trinitatem unitatis essentiae exprimere per ‘quo est’ et ‘quid est’ et ‘nexum’, quae in sensibili substantia communiter nominantur forma, materia et compositum ut in homine anima, corpus et utriusque nexus. 40 Aristoteles concordando omnes philosophos dicebat principia, quae substantiae insunt, contraria. Et tria nominavit principia, materiam, formam et privationem. Arbitror ipsum, quamvis super omnes diligentissimus atque acutissimus habeatur discursor, atque omnes in uno maxime defecisse. Nam cum principia sint contraria, tertium principium utique necessarium non attigerunt et hoc ideo, quia contraria simul in ipso coincidere non putabant possibile, cum se expellant. Unde ex primo principio, quod negat contradictoria posse simul esse vera, ipse philosophus ostendit similiter contraria simul esse non posse. 41 Beryllus noster acutius videre facit, ut videamus opposita in principio conexivo ante dualitatem, scilicet antequam sint duo
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attività deriva il diletto più alto139. E questo è quanto dicono anche i nostri teologi, che l’intelletto divino, nel pensare se stesso, genera da sé, ossia dalla sua essenza e dalla sua natura, una similitudine intelligibile di se medesimo assolutamente adeguata. L’intelletto, infatti, genera il verbo, nel quale è presente sostanzialmente, e da questa generazione procede il diletto, nel quale è presente la consustanzialità del generante e del generato. Tuttavia, se di questo principio vuoi avere la maggiore conoscenza possibile, considera in ogni principiato ciò da cui esso è, ciò che esso è e il nesso, e attraverso il berillo del principio che è, ad un tempo, massimo e minimo guarda al principio di tutti i principiati. Troverai che in questo principio è presente, in modo perfettissimo e divino, una trinità quale principio semplicissimo di ogni creatura unitrina140. E tieni presente che, nel concetto semplice del principiato, io esprimo la trinità dell’unità dell’essenza mediante il «ciò da cui è», il «che cosa è» e il «nesso»; questi tre elementi, nel caso della sostanza sensibile, sono comunemente chiamati forma, materia e composto141, così come nell’uomo sono chiamati anima, corpo e nesso dell’una e dell’altro. Nel suo tentativo di far concordare tutti i filosofi, Aristotele diceva che i principi che ineriscono alla sostanza sono dei contrari. Ed egli ha nominato tre principi: la «materia», la «forma» e la «privazione»142. Ritengo che Aristotele, sebbene venga considerato, rispetto a tutti gli altri filosofi, come il logico più diligente e acuto, abbia sbagliato soprattutto in un punto, e con lui tutti gli altri. Infatti, essendo i principi dei contrari, sia Aristotele che gli altri filosofi non seppero giungere ad una corretta comprensione del terzo principio [la privazione], che è assolutamente necessario, e questo perché ritenevano che non fosse possibile che i contrari coincidessero insieme in esso, dal momento che i contrari si escludono143. Di conseguenza, sulla base di quel primo principio che nega che i contraddittori siano simultaneamente veri144, Aristotele ha dimostrato che, in modo simile, anche i contrari non possono essere presenti simultaneamente insieme145. Il nostro berillo ci consente di vedere più acutamente, in modo tale che noi possiamo vedere gli opposti nel principio della connessione prima della loro dualità, ossia prima che siano due contrad-
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contradictoria, sicut si minima contrariorum videremus coincidere, puta minimum calorem et minimum frigus, minimam tarditatem et minimam velocitatem et ita de omnibus, ut haec sint unum principium ante dualitatem utriusque contrarii, quemadmodum in libello De mathematica perfectione de minimo arcu et minima corda quomodo coincidant dixi. Unde sicut angulus minime acutus et minime obtusus est simplex angulus rectus, in quo minima contrariorum angulorum coincidunt, antequam acutus et obtusus sint duo anguli, ita est de principio conexionis, in quo simpliciter coincidunt minima contrariorum. 42 Quod si Aristoteles principium, quod nominat privationem, sic intellexisset, ut scilicet privatio sit principium ponens coincidentiam contrariorum et ideo privatum contrarietate utriusque tamquam dualitatem, quae in contrariis est necessaria, praecedens, tunc bene vidisset. Timor autem, ne contraria simul eidem inesse fateretur, abstulit sibi veritatem illius principii. Et quia vidit tertium principium necessarium et esse debere privationem, fecit privationem sine positione principium. Post hoc non valens bene evadere quandam videtur incohationem formarum in materia ponere, quae si acute inspicitur, est in re nexus, de quo loquor. Sed sic non intelligit nec nominat. Et ob hoc omnes philosophi ad spiritum, qui est principium conexionis et est tertia persona in divinis secundum nostram perfectam theologiam, non attigerunt, licet de patre et filio plerique eleganter dixerint, maxime Platonici, in quorum libris sanctus Augustinus evangelium Iohannis theologi nostri «in principio erat verbum» usque ad nomen Iohannis Baptistae et incarnationem se repperisse fatetur. In quo quidem evangelio de spiritu sancto nulla fit mentio. 43 Oportet te valde haec quae dixi de hoc tertio notare principio. Dicit Aristoteles et bene principia esse minima et indivisibilia quo-
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dittori146. È come se vedessimo coincidere i gradi minimi dei contrari, ad esempio il minimo caldo e il minimo freddo, la minima lentezza e la minima velocità, e così via, in modo tale che essi siano un unico principio che precede la dualità di entrambi i contrari, così come nel libro La perfezione matematica ho spiegato che il minimo arco e la minima corda coincidono147. Di conseguenza, come l’angolo che è minimamente acuto e l’angolo che è minimamente ottuso sono un semplice angolo retto, nel quale i due gradi minimi degli angoli contrari coincidono prima che l’acuto e l’ottuso siano due angoli distinti148, così è anche per quanto riguarda il principio della connessione, nel quale i gradi minimi dei contrari coincidono completamente. Aristotele avrebbe visto bene se avesse inteso quel principio che egli chiama «privazione» come un principio che pone la coincidenza dei contrari e che, pertanto, è privo della contrarietà dei due contrari, in quanto precede la dualità che è necessaria nei contrari. Il timore, tuttavia, di ammettere che i contrari ineriscano simultaneamente alla stessa cosa gli ha fatto sfuggire la verità intorno a questo principio. Ma poiché vide che un terzo principio era necessario e che doveva essere la privazione, egli fece della privazione un principio senza posizione. In seguito, non riuscendo a risolvere questa difficoltà sembra porre nella materia una certa incoazione delle forme, la quale, se la si considera in modo approfondito, è in effetti il nesso di cui parlo io149. Egli, tuttavia, non la intende in questo modo, né la chiama con questo nome. Questo è il motivo per il quale tutti i filosofi non sono giunti allo Spirito, che è il principio della connessione150 e che è, in Dio, la terza persona, secondo la nostra perfetta teologia. Nonostante questo, molti hanno parlato in modo molto appropriato del Padre e del Figlio, soprattutto i Platonici; nei loro libri sant’Agostino151 riconosce di aver trovato quanto dice il Vangelo del nostro teologo Giovanni, dalle parole «in principio era il Verbo» fino al nome di Giovanni il Battista e all’incarnazione152. Ma in questo Vangelo non si fa alcuna menzione dello Spirito santo153. È necessario che tu tenga bene a mente quanto ho detto a proposito di questo terzo principio. Aristotele afferma giustamente che i principi sono minimi e indivisibili, per quanto attiene alla
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ad magnitudinem quantitatis, maxima quoad magnitudinem virtutis. Unde neque forma est divisibilis neque materia divisibilis, quia non est nec qualis nec quanta, neque nexus divisibilis. Essentia igitur, quae in istis subsistit, est indivisibilis. Et quia intellectus noster, qui non potest concipere simplex, cum conceptum faciat in imaginatione, quae ex sensibilibus sumit principium seu subiectum imaginis suae seu figurae, hinc est quod intellectus essentiam rerum concipere nequit. Videt tamen eam supra imaginationem et conceptum suum indivisibilem triniter subsistere. 44 Unde dum sic attente advertit, videt substantiam corporalem ut substantiam indivisibilem, sed per accidens divisibilem. Ideo dum dividitur corpus, non dividitur substantia, quia non dividitur in non corpus aut in partes substantiales, scilicet formam, materiam et nexum, quae proprius dicuntur principia quam partes, quia esset dividere indivisibile ab indivisibili sicut punctum a puncto, quod non est possibile. Sed continuum dividitur in continua, potest enim eius subiectum, scilicet quantitas, recipere maius et minus. Posse autem dividi venit ab indivisibili materia, quae non est indivisibilis propter unitatem ut forma seu parvitatem ut nexus, sed propter informitatem sicut nondum ens. Ideo dum est ens per formam, quae se ei valde immergit et fit multum materialis, tunc propter materiam dividitur quantitas. Unde per aenigma poteris differentias talium formarum investigare, quae sunt multum materiales et immersae et quae minus et quae valde simplices. Et quoniam omnis corruptio, mutabilitas et divisio est a materia, statim videbis causas generationum et corruptionum et quaeque talia. 45 Aristoteles quando Politicam conscribere proposuit, ad minimum tam oeconomicae quam politicae se contulit et in illo mini-
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quantità, e sono massimi per quanto attiene alla potenza154. Di conseguenza, non è divisibile né la forma155, né è divisibile la materia, in quanto non ha né qualità né quantità, né è divisibile il nesso. Pertanto, anche l’essenza, che sussiste in essi, è indivisibile. Ora, il nostro intelletto non può concepire ciò che è semplice, in quanto esso forma i propri concetti nell’immaginazione, la quale ricava dalle cose sensibili il principio o il soggetto delle proprie immagini o figure156; per questo motivo, il nostro intelletto non è in grado di concepire le essenze delle cose157. L’intelletto, tuttavia, vede che tale essenza indivisibile esiste, in maniera trinitaria, al di sopra dell’immaginazione e dei suoi concetti158. Di conseguenza, quando l’intelletto presta bene attenzione a questo, vede la sostanza corporea come una sostanza indivisibile, la quale è divisibile solo per accidente. Pertanto, quando viene diviso un corpo, non viene divisa la sostanza159, in quanto il corpo non viene diviso in parti che siano non-corpo o in parti sostanziali160, ossia nella forma, nella materia e nel nesso – le quali vengono chiamate in modo più proprio «principi»161 piuttosto che «parti» –, perché ciò sarebbe come dividere l’indivisibile dall’indivisibile162 o un punto da un punto, il che non è possibile. Il continuo, invece, viene diviso in parti continue; infatti, ciò che funge ad esso da sostrato, ossia la quantità, può accogliere il più e il meno163. La possibilità d’essere diviso, tuttavia, deriva dalla materia indivisibile, la quale non è indivisibile per la sua unità, come la forma, o per la sua piccolezza, come il nesso, bensì per la sua mancanza di forma, com’è proprio di ciò che non è ancora un ente. Pertanto, nel momento in cui la materia diventa un ente grazie alla forma, che s’immerge profondamente in essa diventando materiale, allora la quantità risulta divisibile in virtù della materia. Per mezzo di questa immagine potrai pertanto investigare le differenze che vi sono tra tali forme164, quelle che sono molto materiali e che sono immerse profondamente nella materia, quelle che lo sono meno e quelle che sono molto semplici. E dal momento che ogni corruzione, ogni mutevolezza e ogni divisione derivano dalla materia165, vedrai subito le cause delle generazioni e delle corruzioni e di tutti gli altri fenomeni simili. Aristotele, quando si propose di scrivere la Politica, si rivolse al minimo, tanto nel campo dell’economia quanto nel campo della
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mo, quomodo maximum se habere deberet, vidit dicens sic in aliis similiter faciendum. In Metaphysica autem dicit curvum et rectum in natura contrariari, quare unum non posse converti in aliud. In primo bene dixit, et puto quod, si quis maxima quaeque scire quaesierit et ad minimum oppositorum se converterit, utique secreta scibilia investigabit. In secundo de curvo et recto non bene consideravit, nam opponuntur et unum est utriusque minimum. Ipse forte haec sic dixit, ut ignorantiam suam de quadratura circuli, cuius mentionem saepe facit, excusaret. Habes autem superius principium esse indivisibile omni modo, quo divisio est in principiatis. Principiata igitur, quae contrarie dividuntur, habent principium eo modo indivisibile. Ideo contraria eiusdem sunt generis. Facies tibi scientiam mediante beryllo et aenigmate de principio oppositorum et differentia et omnibus circa illa attingibilibus, sic generaliter de scientia per principium scibilium et differentiis eorum, uti in simili audisti superius. Unus est enim in omnibus agendi modus. 46 Sic si forte velis magnum Dionysium, qui deo multa nomina tribuit, ampliando ad beneplacitum extendere, cum beryllo et aenigmate ad cuiuslibet nominis principium pergas et quidquid humanitus dici potest deo te semper dirigente videbis. Etiam causas in natura subtilius attinges, scilicet quare «generatio unius est corruptio alterius». Videndo enim per beryllum unum contrarium vides in eo esse principium alterius contrarii, puta dum vides per maximam pariter et minimam caliditatem principium caliditatis
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politica, e in quel minimo vide come dovesse comportarsi il massimo, e disse che bisognava procedere nello stesso modo anche in altre discipline166. Nella Metafisica, invece, sostiene che il retto e il curvo sono contrari per natura167, per cui l’uno non può essere trasformato nell’altro. Nel primo caso, egli si è espresso correttamente: ritengo, infatti, che se uno cerca di conoscere le cose massime di una realtà qualsiasi e a questo scopo si volge a considerare il grado minimo degli opposti [che sta cercando], costui scoprirà certamente i segreti di tutto ciò che è conoscibile. Nel secondo caso, la considerazione che egli ha fatto a proposito del retto e del curvo non è corretta, in quanto essi sono opposti e c’è un grado minimo di entrambi168. Ma forse si è espresso in questo modo per giustificare la sua ignoranza circa il problema della quadratura del cerchio, che egli menziona spesso169. Da quanto abbiamo detto prima170, sai che il principio non può essere diviso con nessun tipo di divisione che è presente nei principiati. I principiati, che vengono divisi secondo i contrari, hanno pertanto un principio che non può essere diviso nello stesso modo. Per questo motivo, i contrari appartengono allo stesso genere171. Per mezzo del berillo e mediante l’uso dell’immagine potrai formarti una conoscenza del principio degli opposti, della loro differenza e di tutto ciò che si può sapere a questo proposito. Lo stesso vale, in generale, per quanto riguarda la conoscenza che si ottiene mediante il principio delle cose conoscibili e delle loro differenze, come hai ascoltato in precedenza in un caso simile172. C’è infatti un solo modo di procedere in tutti i casi. Così, se desideri ampliare ed estendere a piacere quanto è stato detto dal grande Dionigi, il quale ha attribuito a Dio molti nomi173, rivolgiti con il berillo e con l’immagine al principio di qualsiasi nome [divino], e allora, sempre con l’aiuto della guida di Dio, vedrai tutto ciò che, in questo ambito, si può dire in termini umani. Inoltre, giungerai a cogliere in modo più profondo anche le cause che sono presenti nella natura174, per quale motivo, in particolare, «la generazione di una cosa sia la corruzione di un’altra»175. Infatti, guardando un contrario attraverso il berillo, vedrai che in esso è presente il principio dell’altro contrario; ad esempio, quando guardi attraverso il calore che è, ad un tempo massimo e minimo, allora vedi che il principio del calore non è se non ciò che non può es-
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non esse nisi indivisibilitatem omni modo divisionis caloris et ab omni calore separatum. Principium enim nihil est omnium principiatorum, principiata autem principii caloris sunt calida, non est igitur calidum caloris principium. Id autem, quod est eiusdem generis et non calidum, video in frigido; et ita de contrariis aliis. Cum ergo in uno contrario sit principium alterius, ideo sunt circulares transmutationes et commune utriusque contrarii subiectum. 47 Sic vides quomodo passio transmutatur in actionem, sicut discipulus patitur informationem, ut fiat magister seu informator, et subiectum post passionem calefactionis mutatur in ignem calefacientem, et sensus patitur impressionem speciei obiecti, ut fiat actu sentiens, et materia impressionem formae, ut sit actu. Oportet autem, ut advertas, quando de contrariis dico, quomodo illa, quae sunt eiusdem generis et aeque divisibilia, denoto; tunc enim in uno est alterius principium. 48 Videtur mihi utique te post haec quaerere, quid ego aestimem ens esse, scilicet quaenam sit substantia. Volo tibi quantum possum satisfacere, quamvis superiora quae dicturus sum contineant. Aristoteles scribit hanc quaestionem antiquam. Omnes indagatores veritatis semper quaesierunt huius dubii solutionem et adhuc quaerunt, ut ait. Ipse autem resolvit a solutione illius dubii omnem scientiam dependere. Scire enim ‘quid erat esse’, hoc est rem ideo hoc esse, puta domum, quia ‘quod erat esse domui’ hoc est, est attigisse altissimum scibile. Dum autem circa hoc sollicite quaereret, sursum deorsumque pergeret, et repperisset nec materiam fieri substantialem, cum sit possibilitas essendi. Quae si ab alio esset, id
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sere diviso con nessun tipo di divisione del calore e che è separato da ogni calore. Il principio, infatti, non è nulla di tutto ciò che sono i suoi principiati176: i principiati che derivano dal principio del calore, tuttavia, sono caldi, per cui il principio del calore non è caldo. Ora, ciò che appartiene allo stesso genere [del calore] e non è caldo lo vedo nel freddo, e lo stesso vale per gli altri contrari. Pertanto, dal momento che in un contrario è presente il principio dell’altro contrario, le trasformazioni tra i contrari avvengono in modo circolare177 e c’è un sostrato comune di entrambi i contrari178. In questo modo, vedi che la passione si trasforma in azione179, che, ad esempio, il discepolo riceve passivamente l’insegnamento per diventare a sua volta maestro o insegnante180; che un sostrato, dopo aver ricevuto passivamente l’azione del calore, si trasforma in fuoco che riscalda, che il senso riceve passivamente l’impressione della forma dell’oggetto per diventare senziente in atto; che la materia riceve passivamente l’impressione della forma per poter passare all’atto. È necessario, tuttavia, che tu tenga presente che, quando io parlo di contrari, mi riferisco [con questo termine] a quelle cose che appartengono allo stesso genere e che sono ugualmente divisibili; in questo caso, infatti, in un contrario è presente il principio dell’altro. Mi sembra che tu mi voglia ora chiedere che cosa io pensi che sia l’essere, vale a dire che cosa sia la sostanza181. Voglio soddisfare il tuo desiderio per quanto mi è possibile, sebbene quanto ho affermato in precedenza contenga ciò che sto per dire. Aristotele scrive che si tratta di una questione antica182. Tutti coloro che hanno indagato la verità hanno sempre cercato la soluzione di questo problema, e ancora la cercano, come egli dice183. Ed egli tuttavia conclude che dalla soluzione di questo problema dipende ogni conoscenza184. Infatti, conoscere qual è l’essere essenziale185 di una cosa, sapere cioè che una cosa è questo, ad esempio una casa, perché questo è l’essere essenziale della casa186, significa aver raggiunto ciò che di più elevato si può conoscere187. Tuttavia, quando ha indagato attentamente la questione, Aristotele ha condotto la sua ricerca in tutte le direzioni e ha trovato che non è possibile considerare la materia come sostanza, in quanto la materia è possibilità-diessere188. Se, infatti, questa possibilità-di-essere derivasse da qual-
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a quo possibilitas essendi fuisset, cum nihil nisi possibile fieri fiat. Ideo non est possibilitas a possibilitate. Non ergo fit materia ab aliquo alio neque a nihilo, quia de nihilo nihil fit. Deinde ostendit formam non fieri; oporteret enim quod ab ente in potentia fieret et sic de materia. Et exemplificat quomodo rotundans aes non facit sphaeram aeneam, sed quae erat semper sphaera inducitur in materiam aeris. Compositum igitur fit tantum. Formam igitur, quae format actu in composito, nominat ‘quod erat esse’ et, dum ipsam separatam conspicit, nominat speciem. 49 Quid autem sit illa substantia, quam nominat ‘quod erat esse’, dubitat. Nescit enim, unde veniat aut ubi subsistat et an sit ipsum unum aut ens aut genus vel, si sit ab idea, quae sit substantia in se subsistens, aut si educitur de potentia materiae et si sic, quomodo hoc fiat. Oportet enim quod omne ens in potentia per ens in actu perducatur in actum. Actus enim nisi prior foret potentia, quomodo potentia veniret in actum? Si enim se ipsum poneret in actu, esset in actu, antequam esset in actu. Et si est prius in actu, erit igitur species aut idea separata; nec hoc videtur. Oporteret enim idem esse separatum et non separatum, cum non possit dici quod sit alia species separata et alia substantia ‘quod erat esse’. Si enim alia, non est ‘quod erat esse’, et si sunt species separatae a sensibilibus, oportet illas esse vel ut numeros vel ut magnitudines separatas sive mathematicales formas. Sed cum illae dependeant a materia et subiecto, sine quo mathematicalia non habent esse, non sunt igitur separatae. Et si non sunt species separatae, non sunt universales, neque scientia de ipsis fieri potest.
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cos’altro, allora ciò da cui essa deriva sarebbe la possibilità-di-essere, dal momento che avviene solo ciò che è possibile che avvenga. Non può essere, pertanto, che la possibilità derivi dalla possibilità. La materia, pertanto, non deriva da qualcos’altro, né dal nulla, perché dal nulla non deriva nulla189. Poi Aristotele mostra che anche la forma non è derivata190, perché, in questo caso, bisognerebbe che essa derivasse da un ente in potenza, e quindi dalla materia. E adduce come esempio il fatto che colui che dà ad un pezzo di bronzo la forma di una sfera non crea una sfera di bronzo; piuttosto, quella che è sempre stata la forma di una sfera viene [da lui] introdotta nella materia del bronzo191. Solo il composto, pertanto, è derivato192. Per questo, la forma, in quanto formatrice in atto del composto, viene chiamata da Aristotele, «ciò che l’essere era», mentre, quando egli la considera come separata, la chiama specie193. Che cosa sia, tuttavia, quella sostanza che egli chiama «ciò che l’essere era», su tale questione Aristotele ha dei dubbi194. Non sa, infatti, da dove venga e dove sussista195, se sia lo stesso uno o un ente196, o un genere197, oppure se derivi da un’idea che sarebbe la sostanza in sé sussistente198, o se venga tratta dalla potenza della materia, e in questo caso come ciò possa avvenire. È necessario, infatti, che ogni ente in potenza venga condotto all’atto da un ente che è in atto199. Se l’atto, infatti, non fosse anteriore alla potenza, come farebbe la potenza a giungere all’atto? Se la potenza si ponesse in atto da se stessa, allora sarebbe in atto prima di essere in atto. E se è in atto prima, allora sarà una specie o un’idea separata. Ma neppure questo sembra vero. In questo caso, infatti, bisognerebbe che la stessa cosa fosse separata e non separata200, dal momento che non si può dire che una cosa sia la specie separata e un’altra la sostanza, ossia «ciò che l’essere era». Se la sostanza, infatti, fosse qualcosa di altro [dalla specie separata], allora non sarebbe «ciò che l’essere era», e se vi sono specie separate dagli oggetti sensibili, bisogna che queste lo siano come lo sono i numeri, o le grandezze separate, o le forme matematiche201. Dal momento, tuttavia, che numeri, grandezze e forme matematiche dipendono dalla materia e dal sostrato, senza il quale gli enti matematici non hanno l’essere, essi non sono specie separate202. E se non sono specie separate, non sono universali e di esse non vi può essere scienza.
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Per talia multa subtilissime discurrit nec se plene, ut videtur, figere potuit propter dubium specierum et idearum. Etiam Socrates iuvenis et senex, ut Proclus dicit, de hoc dubitavit. Tamen magis elegit opinionem, scilicet quod, quamvis sint aliquae substantiae separatae a materia, tamen species non sunt separatae substantiae, sicut nec species artis, scilicet domus, non habet esse substantiale a materia separatum. Sed quaestionem illam saepius movens semper esse difficillimam conclusit. 51 Ego autem attendo quomodo, etsi Aristoteles repperisset species aut veritatem circa illa, adhuc propterea non potuisset attigisse ‘quod erat esse’ nisi eo modo, quo quis attingit hanc mensuram esse sextarium, quia est ‘quod erat esse sextario’, puta quia sic est, ut a principe rei publicae, ut sit sextarium, est constitutum. Cur autem sic sit et non aliter constitutum, propterea non sciret, nisi quod demum resolutus diceret: «Quod principi placuit, legis vigorem habet». Et ita dico cum sapiente «quod omnium operum dei» nulla est ratio, scilicet cur caelum caelum et terra terra et homo homo, nulla est ratio nisi quia sic voluit qui fecit. Ulterius investigare est fatuum, ut in simili dicit Aristoteles velle inquirere primi principii ‘quodlibet est vel non est’ demonstrationem. Sed dum attente consideratur omnem creaturam nullam habere essendi rationem aliunde nisi quia sic creata est, quodque voluntas creatoris sit ultima essendi ratio sitque ipse deus creator simplex intellectus, qui per se creat, ita quod voluntas non sit nisi intellectus seu ratio, immo fons rationum, tunc clare videt quomodo id, quod voluntate factum est, ex fonte prodiit rationis, sicut lex imperialis non est nisi ratio imperantis, quae nobis voluntas apparet.
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Mediante molte argomentazioni di questo genere Aristotele ha condotto il suo ragionamento con grande sottigliezza, ma, a quanto sembra, non è riuscito a trovare un punto fermo, dati i dubbi che egli aveva sulla realtà delle specie e delle idee203. Anche Socrate, come dice Proclo, ha avuto dei dubbi su questo argomento, sia da giovane che da vecchio204. Aristotele, tuttavia, ha preferito l’opinione secondo la quale, benché vi siano alcune sostanze separate dalla materia, le specie non sono tuttavia sostanze separate, come non lo sono le specie degli enti prodotti dall’arte: una casa, ad esempio, non ha un essere sostanziale separato dalla materia. E anche se Aristotele ha sollevato spesso tale questione, egli ha sempre concluso che si tratta della più difficile. Da parte mia, tuttavia, osservo che, anche se Aristotele si fosse formato un’idea o avesse trovato la verità su questi argomenti, non sarebbe per questo potuto giungere a cogliere «ciò che l’essere era», se non nella maniera in cui qualcuno giunge a cogliere che questa misura qui è un sestario perché essa è «ciò che era l’essere del sestario»; ad esempio, dicendo che essa è così perché è così che il principe dello stato ha stabilito che debba essere un sestario. In questo modo, tuttavia, una tale persona non saprebbe perché sia stato stabilito così e non altrimenti, a meno che egli non si risolvesse alla fine a dire: «ciò che piacque al principe ha valore di legge»205. E così anche io dico, con il sapiente, che non c’è nessuna ragione di tutte le opere di Dio206: del perché il cielo sia cielo, la terra terra e l’uomo uomo non c’è nessuna ragione, se non che colui che ha fatto queste cose ha voluto così. Voler indagare di più è inutile e illusorio, come, in un caso simile, dice Aristotele di chi vuole cercare la dimostrazione del primo principio, secondo il quale «ogni cosa è o non è»207. Quando però si considera con attenzione che ogni creatura ha la ragione del suo essere solo nel fatto che essa è stata creata in quel modo, che la volontà di Dio è la ragione ultima delle cose208, che Dio creatore è un intelletto semplice che crea di per sé, in modo tale che la sua volontà non è che il suo intelletto o la sua ragione209, ed è anzi la fonte delle ragioni, allora si vede chiaramente che ciò che è stato fatto dalla volontà [divina] è scaturito dalla fonte della ragione, così come una legge imperiale non è se non la ragione dell’imperatore, che a noi appare come sua volontà.
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Est igitur, ut accedamus propius, adhuc considerandum quomodo noster intellectus suum conceptum ab imaginatione, ad quam continuatur, nescit absolvere et ideo in suis intellectualibus conceptibus, qui sunt mathematicales, ponit figuras, quas imaginatur ut substantiales esse formas, et in illis et numeris intellectualibus ponit considerationes, quia illa sunt simpliciora quam sensibilia, quia intelligibilis materiae. Et cum omnia hauriat per sensum, ideo in istis subtilioribus et incorruptibilibus figuris a qualitatibus sensibilibus absolutis fingit se omne attingibile posse similitudinarie saltem apprehendere. Quare quidam ponit substantiale elementum esse ut unum et substantias ut numeros, alius ut punctum, et ita quae ex his sequuntur. 53 Unde eo modo videtur secundum has intellectuales conceptiones quod indivisibilitas sit principium prius omnibus. Nam est ratio, cur unum et punctus et omne principium est principium, scilicet quia indivisibile. Et secundum intellectualem conceptum indivisibile est formalius et praecisius principium, quod tamen non potest nisi negative attingi, sed in omnibus divisibilibus attingitur, uti supra patuit. Sublata enim indivisibilitate constat nihil substantiae manere atque ideo omnem subsistentiam tantum habere esse et substantiae quantum indivisibilitatis. Sed, ut bene dicit Aristoteles, haec negativa de principio scientia obscura est. Cognoscere enim substantiam non esse quantitatem, qualitatem aut aliud accidens non est clara scientia sicut illa, quae positive ipsam ostendit. Nos autem oculo mentis hic in aenigmate per speculum innominabilem indivisibilitatem nullo nomine per nos nominabili aut nullo conceptu formabili apprehensibilem cognoscentes, verissime eam
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Per fare un passo avanti, è opportuno considerare quanto segue: il nostro intelletto non riesce a slegare i suoi concetti dall’immaginazione, alla quale esso è strettamente congiunto210; per questo motivo, esso si rappresenta i propri concetti intellettuali, che sono matematici, come figure, che esso immagina siano delle forme sostanziali, e l’intelletto incentra le sue riflessioni su queste figure e su questi numeri intellettuali, perché, avendo una materia intelligibile211, essi sono più semplici degli enti sensibili 212. E dal momento che il nostro intelletto trae tutto dai sensi213, esso suppone di poter apprendere, per mezzo di queste figure sottilissime, incorruttibili e libere dalle qualità sensibili, tutto ciò che è possibile cogliere, almeno sotto forma di una similitudine. Per questo motivo, c’è chi sostiene214 che l’elemento sostanziale sia come l’uno e che le sostanze siano come i numeri, e chi, invece, sostiene che l’elemento sostanziale sia come un punto, e così via, con tutto ciò che ne consegue. In questo modo, pertanto, e conformemente a queste concezioni intellettuali, vediamo che l’indivisibilità è il principio che è anteriore a tutti gli altri 215. Infatti, la ragione per la quale l’uno, il punto e ogni altro principio è un principio risiede nel fatto che essi sono indivisibili. E secondo il modo di concepire dell’intelletto, ciò che è indivisibile è un principio più formale e più preciso, il quale, tuttavia, può essere colto solo negativamente, anche se lo si coglie in tutto ciò che è divisibile, com’è emerso chiaramente in precedenza. È evidente, infatti, che, se viene tolta l’indivisibilità, non resta più nulla della sostanza e che, pertanto, ogni realtà che esiste ha tanto di essere e di sostanza, quanto ha di indivisibilità. Ma, come dice giustamente Aristotele216, questa conoscenza negativa del principio è oscura. Sapere, infatti, che la sostanza non è quantità, qualità, o un qualsiasi altro accidente non è una conoscenza chiara come quella che mostrasse positivamente che cos’è la sostanza. Noi, tuttavia, che qui in basso guardiamo con l’occhio della nostra mente217 come in uno specchio e attraverso delle immagini 218, sappiamo che l’indivisibilità non può essere nominata con nessuno dei nomi che noi possiamo pronunciare219 e non può essere appresa con nessuno dei concetti che noi possiamo formare; e quando la vediamo in modo assolutamente vero, al di là di ogni
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videntes in excessu non turbamur nostrum principium omnem claritatem et accessibilem lucem excedere, sicut plus gaudet, qui reperit thesaurum vitae suae innumerabilem et inexhauribilem quam numerabilem et consumptibilem. 54 Post haec ad memoriam revocemus ea quae supra dixi de intentione, scilicet quomodo creatura est intentio conditoris, et consideremus intentionem esse verissimam quiditatem eius. Nam a simili, cum quis nobis loquitur, si nos quiditatem attingimus sermonis, non nisi intentionem loquentis attingimus. Sic cum per sensus species sensibiles haurimus, illas quantum fieri potest simplificamus, ut quiditatem rei videamus cum intellectu. Simplificare autem species est abicere accidentia corruptibilia, quae non possunt esse quiditas, ut in subtilioribus phantasmatibus discurrendo quasi in sermone seu scriptura ad intentionem conditoris intellectus perveniamus scientes quod quiditas rei illius, quae in illis signis et figuris rei sensibilis sicut in scriptura aut sermone vocali continetur, est intentio intellectus, ut sensibile sit quasi verbum conditoris, in quo continetur ipsius intentio, qua apprehensa scimus quiditatem et quiescimus. Est autem intentionis causa manifestatio; intendit enim se sic manifestare ipse loquens seu conditor intellectus. Apprehensa igitur intentione, quae est quiditas verbi, habemus ‘quod erat esse’. Nam ‘quod erat esse’ apud intellectum est in intentione apprehensum, sicut in perfecta domo est intentio aedificatoris apprehensa, quae erat apud eius intellectum. 55 Scias etiam me alium quendam in inquisitoribus veritatis, ut puto, defectum repperisse. Nam Plato dicebat circulum, uti nominatur aut diffinitur, pingitur aut mente concipitur, considerari pos-
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conoscenza positiva, non ci lasciamo turbare dal fatto che il nostro principio trascende ogni splendore e ogni luce accessibile220, così come chi ha scoperto che il tesoro della propria vita è innumerabile e inesauribile prova più gioia di chi ne avesse scoperto uno numerabile e corruttibile221. Dopo queste considerazioni, ricordiamoci di quanto ho detto prima a proposito dell’intenzione222, vale a dire che la creatura è l’intenzione del creatore e teniamo presente che questa intenzione è l’essenza più vera della creatura. Quando, infatti, per fare un esempio, qualcuno ci parla e noi cogliamo l’essenza del suo discorso, ciò che cogliamo non è altro che l’intenzione di colui che parla. Allo stesso modo, quando traiamo dai sensi le specie sensibili, le semplifichiamo il più possibile, per poter vedere con l’intelletto l’essenza della cosa223. Semplificare le specie significa rimuovere gli accidenti, che sono corruttibili e che non possono costituire l’essenza224, in modo tale che, ragionando [discorsivamente] sulla base delle immagini più sottili della fantasia, come faremmo con un testo scritto o con un discorso orale, possiamo pervenire all’intenzione dell’intelletto creatore. In questo modo, sappiamo che l’essenza di quella cosa, che è contenuta in quei segni e in quelle figure proprie della sua realtà sensibile come in un discorso scritto o parlato, è l’intenzione dell’intelletto, per cui il sensibile è come la parola del creatore225, nella quale è contenuta la sua intenzione: una volta che abbiamo appresa questa intenzione, conosciamo l’essenza e la nostra ricerca si acquieta. Il fine dell’intenzione, tuttavia, è la manifestazione; l’intelletto, infatti, parla, ovvero crea, perché intende, in questo modo, manifestarsi. Pertanto, una volta appresa l’intenzione, che è l’essenza della parola, abbiamo «ciò che l’essere era». Infatti il «ciò che l’essere era», che era presente nell’intelletto, viene appreso attraverso l’intenzione, così come in una casa compiuta apprendiamo l’intenzione dell’architetto226, che era presente nel suo intelletto. Sappi anche che in coloro che sono andati alla ricerca della verità ho trovato quello che a me sembra essere un altro difetto. Platone, ad esempio, diceva che un cerchio può essere considerato così come viene denominato o definito, così come viene raffigurato o concepito dalla mente, e che, sulla base di queste maniere di consi-
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se quodque ex his natura circuli non habeatur, sed quod solo intellectu eius quiditas, quae sine omni contrario simplex et incorruptibilis exsistit, videatur. Ita quidem Plato de omnibus asseruit. Sed nec ipse nec alius quem legerim advertit ad ea, quae in quarto notabili praemisi. Nam si considerasset hoc, repperisset utique mentem nostram, quae mathematicalia fabricat, ea quae sui sunt officii verius apud se habere quam sint extra ipsam. 56 Puta homo habet artem mechanicam et figuras artis verius habet in suo mentali conceptu quam ad extra sint figurabiles, ut domus, quae ab arte fit, habet veriorem figuram in mente quam in lignis. Figura enim, quae in lignis fit, est mentalis figura, idea seu exemplar; ita de omnibus talibus. Sic de circulo, linea, triangulo atque de nostro numero et omnibus talibus, quae ex mentis conceptu initium habent et natura carent. Sed propterea domus, quae est in lignis aut sensibilis, non est verius in mente, licet figura eius verior sit ibi. Nam ad verum esse ipsius domus requiritur quod sit sensibilis ob finem propter quem est. Ideo non potest habere speciem separatam, ut bene vidit Aristoteles. Unde licet figurae et numeri et omnia talia intellectualia, quae sunt nostrae rationis entia et carent natura, sint verius in suo principio, scilicet humano intellectu, non tamen sequitur quod propterea sensibilia omnia, de quorum essentia est quod sint sensibilia, sint verius in intellectu quam in sensu. Ideo Plato non videtur bene considerasse, quando mathematicalia, quae a sensibilibus abstrahuntur, vidit veriora in mente, quod propterea illa adhuc haberent aliud esse verius supra intellectum. Sed bene potuisset dixisse Plato quod, sicut formae artis
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derarlo, non è possibile conoscere la natura di un cerchio, la cui essenza, che è semplice, incorruttibile e senza alcun contrario, viene vista soltanto dall’intelletto. E Platone ha sostenuto questo a proposito di tutte le cose227. Ma né lui, né nessuno degli autori che ho letto hanno prestato attenzione a ciò che ho detto nella mia quarta premessa228. Se ne avesse tenuto conto, infatti, Platone avrebbe scoperto che la nostra mente, la quale costruisce gli enti matematici, possiede in se stessa tutte quelle cose che dipendono dalla sua attività, e le possiede con più verità di quanta esse ne abbiano fuori di lei229. L’uomo, ad esempio, possiede l’arte meccanica, e nel concetto della sua mente ha presenti le figure di quest’arte in modo più vero rispetto a come esse siano rappresentabili al di fuori di essa 230, così come la casa, che viene prodotta dall’arte, ha una figura più vera nella mente che nelle strutture lignee. La figura che viene realizzata nel legno, infatti, è la figura che è presente nella mente, è l’idea o l’esemplare. Lo stesso vale per tutte le cose di questo genere. E così è anche per il cerchio, per la linea, per il triangolo, per i nostri numeri e per tutte quelle cose che hanno il loro inizio da un concetto della nostra mente e mancano in natura. Ciò tuttavia non significa che la casa, che è fatta di legno ed è una realtà sensibile, esista in modo più vero nella mente, anche se la figura della casa è più vera così come essa è presente nella mente. Il vero essere della casa, infatti, richiede che essa sia sensibile, dato il fine per il quale esiste. Per questo motivo, la casa non può avere una figura specifica che sia separata da essa, come ha visto giustamente Aristotele231. Pertanto, sebbene le figure geometriche, i numeri e tutti gli altri enti intellettuali di questo genere, che sono enti prodotti dalla nostra ragione232 e mancano in natura, esistano in modo più vero nel loro principio, ossia nell’intelletto umano, da ciò non segue, tuttavia, che tutti gli enti sensibili, alla cui essenza appartiene il fatto di essere delle realtà sensibili, esistano in modo più vero nell’intelletto che nel senso. Non mi sembra, pertanto, che Platone abbia ragionato bene quando, vedendo che gli enti matematici, che vengono astratti dalle realtà sensibili, sono più veri nella mente, ha concluso che, per questo, essi dovrebbero avere un altro modo di essere ancora più vero al di sopra dell’intelletto233. Platone avrebbe
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humanae sunt veriores in suo principio, scilicet in mente humana, quam sint in materia, sic formae principii naturae, quae sunt naturales, sunt veriores in suo principio quam extra. Et si sic considerassent Pythagorici et quicumque alii, clare vidissent mathematicalia et numeros, qui ex nostra mente procedunt et sunt modo quo nos concipimus, non esse substantias aut principia rerum sensibilium, sed tantum entium rationis, quarum nos sumus conditores. 57 Sic vides quomodo ea, quae per artem nostram fieri non possunt, verius sunt in sensibilibus quam in nostro intellectu, ut ignis verius esse habet in sensibili substantia sua quam in nostro intellectu, ubi est in confuso conceptu sine naturali veritate; ita de omnibus. Sed verius esse habet ignis in suo conditore, ubi est in sua adaequata causa et ratione. Et licet non sit in divino intellectu cum sensibilibus qualitatibus, quas nos in ipso sentimus, tamen propterea non minus vere est, sicut ducalis dignitas in regia dignitate verius est, licet cum exercitio ducali ibi non exsistat. Ignis enim in hoc mundo suas habet proprietates aliorum sensibilium respectu, mediantibus quibus suas in alias res exercet operationes. Quas cum habeat aliorum respectu in hoc mundo, tunc non sunt simpliciter de essentia. Non habet igitur his opus, dum est ab hoc exercitio et de hoc mundo absolutus, neque eas appetit in mundo intelligibili, ubi nulla contrarietas, sicut Plato et bene de circulo dicebat quomodo in pavimento descriptus esset plenus contrarietatibus et corruptibilis secundum condiciones loci, sed in intellectu de his absolutus. 58 Videtur adhuc bonum adicere de speciebus, cum non fiant neque corrumpantur nisi per accidens et sint incorruptibiles divini,
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invece potuto dire giustamente che, come le forme dell’arte umana sono più vere nel loro principio, ossia nella mente, di quanto lo siano nella materia, così le forme del principio della natura, ossia le forme naturali, sono più vere nel loro principio che al di fuori di esso. E se i Pitagorici 234 e tutti gli altri avessero fatto questa considerazione, avrebbero visto chiaramente che gli enti matematici e i numeri, che procedono dalla nostra mente e che sono nel modo in cui noi li concepiamo, non sono sostanze o principi delle cose sensibili, ma sono soltanto principi degli enti di ragione, dei quali noi siamo i creatori235. In modo simile, vedi che le cose che non possono essere prodotte dalla nostra arte esistono in modo più vero nella realtà sensibile che nel nostro intelletto; il fuoco, ad esempio, ha un essere più vero nella sua sostanza sensibile che nel nostro intelletto, dove è presente come un concetto confuso e senza la sua verità naturale. E lo stesso vale per tutte le altre cose. Il fuoco, tuttavia, ha un essere [ancora] più vero nel suo creatore, dove esso è presente come nella sua causa adeguata e nel suo principio razionale236. E sebbene nell’intelletto divino il fuoco non sia presente insieme con le qualità sensibili che noi vi percepiamo, non per questo, tuttavia, è presente in esso in modo meno vero, così come la dignità ducale è presente in modo più vero nella dignità regia, anche se qui non esiste insieme con l’esercizio della sua funzione ducale237. In questo mondo, infatti, il fuoco ha le sue proprietà in quanto sta in relazione con le altre realtà sensibili, ed è mediante queste proprietà che esso compie le sue operazioni sulle altre cose; e dal momento che, in questo mondo, il fuoco possiede tali proprietà in quanto sta in relazione con gli altri enti, esse non appartengono in quanto tali alla sua essenza. Il fuoco, pertanto, non ne ha bisogno quando è libero dal loro esercizio e da questo mondo sensibile, né le desidera nel mondo intelligibile, dove non vi è nessuna contrarietà, così come Platone diceva giustamente del cerchio, il quale, quando viene tracciato su un pavimento, è pieno di contrarietà ed è corruttibile, conformemente alle condizioni del luogo, mentre nell’intelletto è libero da tutto questo238. Mi sembra opportuno aggiungere ancora qualcosa a proposito delle forme specifiche; dal momento che esse non nascono, né
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infiniti intellectus similitudines, quomodo hoc accipi possit, scilicet ipsum intellectum in omni specie resplendere, non enim modo quo una facies in multis speculis, sed ut una infinita magnitudo in variis finitis magnitudinibus et in qualibet totaliter. Dico autem hoc me sic concipere omnem speciem finitam esse uti triangulus quoad superficiales magnitudines. Nam est prima finita et terminata magnitudo, in qua infinitus angulus ex integro resplendet. Est enim maximus pariter et minimus angulus, ideo infinitus et immensurabilis, quia non recipit magis neque minus, et est omnium triangulorum principium. Non enim potest dici duos rectos angulos esse maiores vel minores maximo pariter et minimo angulo. Nam quamdiu maximus videtur minor duobus rectis, non est maximus simpliciter. Omnis autem triangulus habet tres angulos aequales duobus rectis. Resplendet igitur in omni triangulo ex integro omnium angulorum principium infinitum. 59 Et quia triangulus non habet angularem, rectilineam, terminatam superficiem unius aut duorum angulorum ante se, sed ipsa est prima terminata, ideo est ut species et prima substantia incorruptibilis. Triangulus enim in non triangulum non est resolubilis, ideo nec in figuram quamcumque, cuius tres anguli sint minores vel maiores. Sed varii possunt esse trianguli, aliqui oxygonii, aliqui amblygonii, alii recti, et illi iterum varii; sic erunt et species. Omnes autem species sunt perfectae et determinatae substantiae primae, quoniam in ipsis totum primum principium resplendet cum sua incorruptibilitate et magnitudine in modo finito et determinato. 60 Et ut tibi facias clarum ad hoc conceptum, respice per beryllum maximum pariter et minimum triangulum, et erit obiectum principium triangulorum, puta uti ante de angulis in aenigmate vidi-
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si corrompono, se non per accidente239 e sono delle similitudini dell’intelletto divino240, infinito e incorruttibile, è opportuno aggiungere come si possa intendere questo, ossia il fatto che lo stesso intelletto divino risplende in ogni forma specifica241; esso, infatti, vi risplende non come un unico volto risplende in molti specchi, bensì come un’unica grandezza infinita risplende nelle diverse grandezze finite e in ciascuna di esse in maniera totale. Da parte mia, concepisco la cosa in questo modo: ogni forma specifica finita è come un triangolo rispetto alla grandezza della superficie. Il triangolo, infatti, è la prima grandezza finita e determinata, nella quale risplende integralmente l’angolo infinito. L’angolo infinito, infatti, è un angolo che è, al tempo stesso, massimo e minimo, ed è pertanto infinito e incommensurabile, in quanto non ammette un più e un meno, ed è il principio di tutti i triangoli. Non si può infatti dire che due angoli retti siano maggiori o minori dell’angolo che è al tempo stesso massimo e minimo. Finché l’angolo massimo viene visto come minore di due angoli retti, esso non è il massimo in quanto tale. Ogni triangolo, tuttavia, ha i tre angoli uguali a due retti. In ogni triangolo, pertanto, risplende integralmente il principio infinito di tutti gli angoli. E poiché prima del triangolo non c’è nessuna superficie angolare, rettilinea e determinata, che sia composta di uno o di due angoli, ma quella del triangolo è la prima superficie determinata242, il triangolo può essere considerato come la forma specifica e come la prima sostanza243 incorruttibile. Un triangolo, infatti, non è risolubile in una figura non triangolare, e pertanto neppure in una figura qualunque i cui tre angoli siano maggiori o minori di due retti. Tuttavia, i triangoli possono essere di diversi tipi: alcuni acutangoli, altri ottusangoli, altri rettangoli, e questi, a loro volta, possono essere diversi. Così saranno anche le forme specifiche. Tutte le forme specifiche, tuttavia, sono sostanze prime, perfette e determinate, perché in esse risplende, in modo finito e determinato, tutto il primo principio, nella sua incorruttibilità e grandezza. Per formarti un concetto chiaro di quanto abbiamo detto, guarda attraverso il berillo il triangolo che è, al tempo stesso, massimo e minimo. Ciò che vedrai sarà il principio dei triangoli, in modo analogo a quello che, in precedenza, mediante un’immagine, hai visto
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sti. Sit a b linea, de cuius medio egrediatur c d linea mobilis, ita quod de d semper continuetur linea ad b et ad a, quae claudant superficies. Quantumcumque varietur per motum c d, dum super c revolvitur, manifestum est unum triangulum numquam fieri maximum, quamdiu alius est aliquis alius triangulus. Et sic dum unus debet fieri maximus, oportet quod alius fiat minimus. Et hoc non videtur, antequam c d iaceat super c b et d a sit b a et ita sit una recta linea, quae est principium angulorum et triangulorum. In hoc igitur principio, quod video per maximum pariter et minimum angulum et cum hoc maximum pariter et minimum triangulum, et est principium unitrinum, video omnes angulos pariter et triangulos complicari, ita quod quisque angulus, qui est unus et trinus, in ipso est ipsum principium. Et ita unitrinum principium, quod est unum pariter et trinum, in quolibet triangulo finito, qui est unus pariter et trinus, resplendet meliori modo, quo infinitus unus pariter et trinus in finito potest resplendere. Et sic vides quomodo species constituitur ex completa complicatione. Quando scilicet reflectitur supra se ipsam complete finem principio conectendo, sicut a b linea super c primo plicatur in angulum, deinde c b super
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a proposito degli angoli 244. Prendiamo una linea ab, dal cui punto medio c parta la linea mobile cd, in modo tale che da d vengano fatte proseguire due linee che chiudano la superficie, una fino a b ed un’altra fino ad a. Per quanto possano variare le superfici dei due triangoli formati dal movimento della linea cd che viene fatta ruotare sul punto c, è evidente che nessuno dei due triangoli può diventare mai massimo fino a che c’è un qualunque altro triangolo. E così, se un triangolo deve diventare massimo, è necessario che l’altro diventi minimo. E questo non lo si vede fino a che cd non giaccia su cb e da non s’identifichi con ba, in modo tale da formare un’unica linea retta, che è il principio degli angoli e dei triangoli245. In questo principio, pertanto, che vedo attraverso l’angolo che è, al tempo stesso, massimo e minimo e, insieme a ciò, attraverso il triangolo che è, al tempo stesso, massimo e minimo, vedo che sono complicati tutti gli angoli e i triangoli, in modo tale che ogni angolo, che è uno e trino, nel principio è lo stesso principio. E così, il principio unitrino, che è al tempo stesso uno e trino, risplende in qualunque triangolo finito, che è anch’esso uno e trino al tempo stesso, e vi risplende nel modo migliore in cui il triangolo infinito, che è al tempo stesso uno e trino, può risplendere in un triangolo finito. E in questo modo vedi anche come la forma specifica venga costituita mediante una complicazione completa, quando, cioè, essa ritorna riflessivamente su se stessa in maniera completa, congiungendo così la fine con il principio. Così, ad esempio, la linea ab viene anzitutto ripiegata sul punto c, in modo da formare un angolo, poi cb viene ripiegata su d, in
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d plicatur, ut b redeat in a, per talem duplicem reflexionem oritur triangulus seu determinata species incorruptibilis, cuius principium et finis coincidunt. 61 Considera hoc aenigma utique subtiliter manuducens ad conceptum specierum. Triangulus sive parvus sive magnus quoad sensibilem quantitatem seu superficiem est omni triangulo quoad angulorum trinitatem et simul ipsorum trium angulorum magnitudinem aequalis. Sic vides omnem speciem omni speciei aequalem in magnitudine. Quae utique non potest esse quantitas, cum illa recipiat magis et minus, sed est simplex substantialis magnitudo ante omnem quantitatem sensibilem. Quando igitur videtur triangulus in superficie, est videre speciem in subiecto, cuius est species, et ibi video substantiam, quae facta est, quae est hoc ‘quod erat esse’ huius, scilicet est triangulus orthogonius, quia est ‘quod erat esse’ trianguli orthogonii. Totum hoc assequitur per speciem, quae dat hoc esse. 62 Et attende quomodo non dat solum esse triangulare generale, sed esse triangulare orthogonicum aut oxygonicum sive amblygonicum sive aliter differentiatum ex illis. Et ita species est specificatio generis per differentiam. Specificatio est nexus, qui nectit differentiam generi, et ita totum esse rei dat species. Unde species, quae est alia et alia, non est alia a subiecto, sed in se habet sua principia essentialia, per quae determinatur substantialiter, «sicut figura suis continetur terminis», quemadmodum in harmonia aut numeris. Species enim harmonicae sunt variae. Nam generalis harmonia per varias differentias varie specificatur, et nexus ille, quo differentia, puta acutum cum gravi, nectitur, quae est species, in se habet
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modo tale che b ritorni ad a: attraverso questo duplice movimento di ripiegamento riflessivo nasce un triangolo, ossia una determinata forma specifica incorruttibile, il cui principio e il cui fine coincidono. Considera questa immagine [geometrica] che, certamente, ti conduce con precisone a formarti un concetto delle specie. Un triangolo, piccolo o grande che sia per quanto riguarda la sua dimensione sensibile o la sua superficie, è uguale ad ogni altro triangolo per quanto riguarda la trinità degli angoli e la grandezza della loro somma. In questo modo, vedi che ogni forma specifica è uguale in grandezza ad ogni altra forma specifica246. Questa grandezza non può di certo essere di natura quantitativa, poiché la quantità ammette un più e un meno, ma si tratta piuttosto di una grandezza semplice, sostanziale, che è anteriore ad ogni quantità sensibile247. Pertanto, quando vedo un triangolo su una superficie, ciò che vedo è una forma specifica in un sostrato di cui essa è la forma specifica, e così lì vedo una sostanza che si è realizzata e che è il «ciò che l’essere era»248 di quella cosa, ossia è un triangolo rettangolo, perché la sostanza è il «ciò che l’essere era» del triangolo rettangolo. Tutto questo il triangolo lo acquisisce mediante la forma specifica, la quale conferisce questo essere249. E presta attenzione al fatto che la forma specifica non conferisce solo l’essere del triangolo in generale, ma anche l’essere del triangolo rettangolo, o acutangolo, o ottusangolo, o qualsiasi altro triangolo differente da questi: la forma specifica, allora, è la specificazione del genere mediante la differenza250. La specificazione è il nesso che connette la differenza al genere, per cui la forma specifica è ciò che conferisce ad una cosa tutto il suo essere. Di conseguenza, le forme specifiche sono diverse le une dalle altre, ma ciascuna di esse non è qualcosa di altro dal sostrato, ma ognuna ha in sé i propri principi essenziali 251, mediante i quali è determinata in modo sostanziale, così come una figura geometrica è contenuta entro i propri termini, e come avviene anche nel caso di un’armonia252 e nel caso dei numeri. Le forme specifiche dell’armonia, ad esempio, sono varie. L’armonia generale, infatti, viene specificata in modo vario dalle varie differenze, e il nesso grazie al quale una differenza (ad esempio l’acuto insieme al grave) è congiunta al genere,
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proportionatam harmoniam ab omni alia specie distincte determinatam per sua essentialia principia. Species igitur est quasi quaedam harmonica habitudo, quae, etsi sit una, est tamen multis subiectis communicabilis. Habitudo enim sive proportionabilitas est incorruptibilis et dici potest species, quae non recipit magis neque minus, et dat speciem sive pulchritudinem subiecto, sicut proportio ornat pulchra. Similitudo etenim rationis aeternae seu divini conditoris intellectus resplendet in proportione harmonica seu concordanti. Et hoc experimur, quoniam proportio illa delectabilis et grata est omni sensui, dum sentitur. 63 Ecce quam propinquum est aenigma, quod versatur circa numeros capiendo numeros pro proportione seu habitudine, quae habitudo in numeris fit sensibilis sicut triangulus in superficie seu quantitate. Et quanto quantitas discreta est simplicior quantitate continua, tanto species melius in aenigmate quantitatis discretae videtur quam continuae. Mathematica enim versatur circa intellectualem materiam, ut bene dixit Aristoteles. Sed materia eius magnitudo est, sine qua nihil concipit mathematicus. Simplicior autem est magnitudo discreta quam continua et spiritualior atque speciei, quae penitus simplex est, similior, licet utique speciei simplicitas, quae est quiditas, sit ante simplicitatem illius discretae magnitudinis. Ideo concipi nequit, cum omnem magnitudinem, quae concipi potest, praecedat. Omnis enim intellectualis conceptio sine magnitudine fieri nequit et subtilior accedit usque ad dictam magnitudinem discretam ab omni quantitate discreta sensibili abstractam. Ideo substantia prima, cuius simplicitas omnem modum accidentis sive ut est in esse sensibili sive mathematico de sensibili abstracto antecedit, non potest concipi per nostrum intellectum
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costituendo in questo modo la specie, ha in sé un’armonia proporzionata, che è determinata, in maniera distinta da ogni altra specie, dai suoi principi essenziali. La forma specifica, pertanto, è una sorta di rapporto armonico, il quale, pur essendo uno, è tuttavia comunicabile a molti sostrati. Il rapporto, ossia la proporzionalità, è infatti incorruttibile e lo si può chiamare forma specifica; esso non ammette il più e il meno, ed è ciò che conferisce ad un sostrato la sua forma specifica, ossia la sua bellezza, così come la proporzione adorna le cose belle. Infatti, nella proporzione armonica o concordante risplende una similitudine della ragione eterna, ossia dell’intelletto divino creatore. E di questo noi facciamo esperienza dal momento che, non appena viene percepita, quella proporzione risulta piacevole e gradita ad ogni nostro senso. Vedi quanto sia vicina alla verità l’immagine che ha a che fare con i numeri, se i numeri vengono considerati come una proporzione e come un rapporto253; nei numeri questo rapporto diventa percepibile sensibilmente, così come un triangolo diventa percepibile sensibilmente quando viene tracciato su una superficie o quantità. E come la quantità discreta è più semplice della quantità continua254, altrettanto la forma specifica risulta visibile meglio nell’immagine che tratta della quantità continua. La matematica, infatti, come ha detto giustamente Aristotele, riguarda la materia intelligibile255. Ma la materia di cui essa si occupa è la grandezza, senza la quale il matematico non può compiere nulla. La grandezza discreta, tuttavia, è più semplice di quella continua, è più spirituale ed è più simile alla forma specifica, la quale è del tutto semplice, anche se, certamente, la semplicità della forma specifica, che è la quiddità, è anteriore alla specificità della grandezza discreta. Per questo motivo, [la quiddità o la forma specifica] non può essere concepita, in quanto precede ogni grandezza che può essere concepita. Infatti, l’intelletto non può formarsi nessun concetto senza grandezza256, e i concetti più sottili giungono sino alla grandezza discreta di cui abbiamo detto, la quale è separata da ogni quantità discreta sensibile. Per questo motivo, la sostanza prima, la cui semplicità precede ogni modo dell’accidente, sia quello presente negli enti sensibili, sia quello presente negli enti matematici astratti dagli enti sensibili, non può essere concepito concettualmente dal nostro in-
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corpori seu quantitati quasi instrumento, cum quo concipit, alligatum. Videt tamen ipsam supra omnem conceptum. 64 Adhuc considera quomodo in certo colore plus delectamur, sic et in voce seu cantu et ceteris sensibilibus, ideo quia sentire est vivere animae sensitivae et consistit non in sentire hoc vel illud, sed in omni sensibili simul, et ideo plus in eo sensibili, in quo plus de obiecto apprehendit, in quo scilicet sensibilia sunt in quadam harmonica unione, ut cum color in se harmonice multos continet colores et harmonicus cantus multas vocum differentias, ita de aliis sensibilibus. Sic de intelligibilibus, ubi in uno principio multas intelligibilium differentias. Et hinc est quod intelligere primum principium, in quo omnis rerum ratio est, summa est vita intellectus et delectatio immortalis. Sic species est quoddam totum unius perfecti modi essendi divinae similitudinis in se complicans omnes particulares contractiones, quae in subiecto ad hoc esse contrahitur. Videre igitur poteris per beryllum principium modo saepe dicto et quam divinae sint omnes species ex substantiali seu perfecta aeternae rationis similitudine ac quomodo in ipsis creator intellectus se manifestat quodque ipsa species sit verbum seu intentio ipsius intellectus sic se specifice ostendentis, quae est quiditas omnis individui. Et ideo hanc speciem summe colit omne individuum et ne perdat omnem curam adhibet, et ipsam tenere est sibi dulcissimum et desideratissimum. 65 Restat adhuc unum ut videamus quomodo homo est mensura rerum. Aristoteles dicit Protagoram in hoc nihil profundi dixis-
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telletto, il quale è legato al corpo, ossia alla quantità, come ad uno strumento, per così dire, di cui si serve per formare i suoi concetti. Il nostro intelletto, tuttavia, vede che la sostanza prima è al di sopra di ogni suo concetto257. Considera inoltre il fatto che noi traiamo più diletto da certi colori che da altri, e lo stesso avviene per la voce o il canto e per le altre realtà sensibili258. La ragione di ciò sta nel fatto che il percepire sensibilmente costituisce la vita dell’anima sensitiva 259, e la sua vita consiste non nel percepire questo o quello, ma nel percepire simultaneamente ogni realtà sensibile. Per questo motivo, l’anima sensitiva trae maggiore diletto nel percepire quelle realtà sensibili nelle quali apprende di più dell’oggetto, nelle quali, cioè, ciò che viene percepito è presente in una certa unione armonica, come avviene quando un colore contiene in sé, armonicamente, molti altri colori, ed un canto corale molte voci differenti associate in modo armonico, e così per altri fenomeni sensibili. Lo stesso si può dire a proposito degli oggetti intelligibili, quando, in un solo principio, l’intelletto apprende molti intelligibili diversi. Questo è il motivo per cui intendere il primo principio, nel quale è contenuta la ragione di tutte le cose, costituisce la vita suprema dell’intelletto ed è per esso un diletto senza fine260. In modo simile, la forma specifica è una certa totalità che consiste di un solo e perfetto modo d’essere, il quale è una similitudine del principio divino in quanto complica in sé tutte le contrazioni particolari; essa si contrae in un sostrato per formare l’essere determinato di una cosa particolare. Mediante il berillo, pertanto, potrai vedere il principio nel modo che ho più volte descritto, e potrai anche vedere come tutte le forme specifiche siano divine per il fatto che esse sono una similitudine sostanziale o perfetta della ragione eterna, come l’intelletto creatore si manifesti in esse, e come la forma specifica sia in se stessa il verbo o l’intenzione dell’intelletto [divino], che in essa si manifesta in modo specifico, e sia la quiddità di ogni individuo261. Ed è per questo motivo che ogni individuo ama in sommo grado la sua forma specifica e si adopera con ogni cura per non perderla; e conservarla è per un individuo la cosa più dolce e desiderabile262. Ci resta ancora un punto da trattare: vedere in che senso l’uomo sia misura delle cose263. Aristotele sostiene che, con questa af-
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se, mihi tamen magna valde dixisse videtur. Et primum considero recte Aristotelem in principio Metaphysicae dixisse quomodo «omnes homines natura scire desiderant», et declarat hoc in sensu visus, quem homo non habet propter operari tantum, sed diligimus ipsum propter cognoscere, quia «multas» nobis «differentias manifestat». Si igitur sensum et rationem habet homo, non solum ut illis utatur pro hac vita conservanda, sed ut cognoscat, tunc sensibilia ipsum hominem pascere habent dupliciter, scilicet ut vivat et cognoscat. Est autem principalius cognoscere et nobilius, quia habet altiorem et incorruptibiliorem finem. Et quia superius praesuppositum est divinum intellectum omnia creasse, ut se ipsum manifestet – sic Paulus apostolus Romanis scribens dicit in visibilibus mundi invisibilem deum cognosci –, sunt igitur visibilia, ut in ipsis cognoscatur divinus intellectus omnium artifex. 66 Quanta igitur est virtus naturae cognoscitivae in humanis sensibus, qui de lumine rationis eis coniuncto participant, tanta est sensibilium diversitas. Sensibilia enim sunt sensuum libri, in quibus est intentio divini intellectus in sensibilibus figuris descripta, et est intentio ipsius dei creatoris manifestatio. Si igitur dubitas de quacumque re, cur hoc sic vel sic sit vel sic se habeat, est una responsio, quia sensitivae cognitioni se divinus intellectus manifestare voluit, ut sensitive cognosceretur, puta cur in sensibili mundo est tanta contrarietas, dices, ideo quia ‘opposita iuxta se posita magis elucescunt’, et una est utriusque scientia. Adeo parva est cognitio sensitiva, quod sine contrarietate differentias non apprehenderet. Quare omnis sensus vult obiecta contraria, ut melius discernat, ideo quae ad hoc requiruntur sunt in obiectis. Sic enim si per-
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fermazione, Protagora non ha detto nulla di profondo264; a me, invece, sembra che egli abbia detto una cosa molto importante. Anzitutto, ritengo che Aristotele abbia detto giustamente, all’inizio della Metafisica, che «tutti gli uomini desiderano per natura conoscere»265; egli illustra questa affermazione facendo riferimento al senso della vista, che l’uomo possiede non soltanto al fine di operare; noi piuttosto amiamo la vista al fine di conoscere, in quanto la vista ci rende manifeste molte differenze tra le cose266. Se l’uomo, dunque, possiede i sensi e la ragione non soltanto per utilizzarli in vista della conservazione della sua vita, allora le realtà sensibili devono costituire un nutrimento per l’uomo sotto un duplice aspetto, perché, cioè, egli possa vivere e perché possa conoscere267. Il conoscere, tuttavia, è più importante e più nobile, perché ha un fine più alto e incorruttibile. E poiché prima 268 abbiamo presupposto che l’intelletto divino ha creato tutte le cose per manifestare se stesso, come dice l’apostolo Paolo, che, scrivendo ai Romani, afferma che il Dio invisibile viene conosciuto nelle cose visibili del mondo269, allora le realtà sensibili esistono affinché in esse possa essere conosciuto l’intelletto divino, l’artefice di tutte le cose270. La diversità degli oggetti sensibili è proporzionale alla forza della natura conoscitiva presente nei sensi dell’uomo271, i quali partecipano della luce della ragione, che è loro congiunta272. Gli oggetti sensibili, infatti, sono i libri dei sensi 273, nei quali l’intenzione dell’intelletto divino è descritta in figure sensibili, e questa intenzione è la manifestazione del Dio creatore. Pertanto, se a proposito di qualsiasi cosa ti chiedi per quale motivo essa sia in tale o in tal altro modo, la risposta è una sola: perché l’intelletto divino ha voluto manifestarsi alla conoscenza dei nostri sensi in modo da farsi conoscere sensitivamente. Se, ad esempio, ti chiedi per quale motivo nel mondo sensibile vi siano tante cose tra loro contrarie, dovrai rispondere: perché gli opposti, posti l’uno accanto all’altro, risaltano più vivamente274, e perché la scienza degli opposti è una sola 275. La conoscenza dei sensi è così debole che, senza il contrasto dei contrari, i sensi non riuscirebbero a cogliere le differenze276. Pertanto, ogni senso desidera oggetti contrari, per poterli descrivere meglio, ed è per questo che tali contrari, che sono richiesti a questo scopo, sono presenti negli oggetti. Se ti rivolgi, infatti, al tatto, al gu-
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gis per tactum, gustum, olfactum, visum et auditum et attente consideras, quam quisque sensus habeat cognoscendi virtutem, tu reperies omnia obiecta in mundo sensibili et ad servitium cognoscitivae ordinata. Sic contrarietas primarum qualitatum servit tactivae, colorum oculis; et ita de omnibus. In omnibus his adeo variis admirabilis est ostensio divini intellectus. 67 Postquam Anaxagoras vidit intellectum esse principium et causam rerum et in motis dubiis alias causas quam intellectum assignaret, tam per Platonem in Phaedone quam Aristotelem in Metaphysica reprehenditur, quasi voluerit quod intellectus sit principium universi et non singulorum. Miratus sum de ipsis principibus philosophorum, cum ipsi in hoc viderent Anaxagoram reprehensibilem et de principio secum concordarent, cur ipsi alias rationes indagarunt et in eo, in quo Anaxagoram arguebant, similiter errasse reperiuntur. 68 Sed hoc evenit eis ex malo praesupposito, quoniam necessitatem primae causae imposuerunt. Unde si ipsi in omni inquisitione ad veram causam conditionis universi, quam praemisimus, respexissent, unam omnium dubiorum veram repperissent solutionem. Puta quid sibi vult conditor, quando de spina tam pulchram et odoriferam motu caeli et instrumento naturae educit sensibilem rosam? Quid aliud responderi potest nisi quod admirandus ille intellectus in hoc verbo suo intendit se manifestare, quantae est sapientiae et rationis et quae sunt «divitiae gloriae suae», quando tam faciliter tantam pulchritudinem ita ornate proportionatam ponit medio sensibilis parvae rei in sensu cognoscitivo cum motu laetitiae et dulcissima harmonia omnem naturam hominis exhilarescente? Et adhuc clariori modo se ostendit in vita vegetabili ipsa, a
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sto, all’olfatto, alla vista, all’udito, e consideri attentamente la facoltà conoscitiva che è propria di ciascun senso, scoprirai tutti gli oggetti del mondo sensibile e scoprirai che essi sono ordinati al servizio della conoscenza. Così, la contrarietà tra le qualità primarie serve al tatto, la contrarietà dei colori serve alla vista, e lo stesso vale per gli altri sensi. In tutta questa varietà dei sensibili c’è una manifestazione mirabile dell’intelletto divino. Quando Anassagora 277 vide che l’intelletto è il principio e la causa delle cose, ma assegnò ai movimenti di natura incerta delle cause diverse dall’intelletto, egli venne rimproverato sia da Platone nel Fedone che da Aristotele nella Metafisica, come se egli avesse voluto dire che l’intelletto è il principio dell’universo, ma non delle singole cose278. Da parte mia, resto a mia volta sorpreso da questi principi della filosofia279: avendo essi ritenuto di dover rimproverare Anassagora su questo punto ed essendo essi d’accordo circa il principio, mi chiedo, infatti, per quale motivo siano essi stessi andati alla ricerca di altre ragioni, finendo così ugualmente per errare su quello stesso argomento per il quale avevano criticato Anassagora. Questo è accaduto loro per il fatto che sono partiti da un presupposto falso, in quanto hanno attribuito alla prima causa un modo di agire per necessità280. Se in ogni loro indagine, pertanto, avessero guardato a quella vera causa della creazione dell’universo di cui abbiamo parlato prima281, essi avrebbero trovato l’unica vera soluzione di tutti i loro dubbi: ad esempio, che cosa vuole il creatore quando, mediante il movimento del cielo e servendosi della natura come di uno strumento282, trae fuori da una spina una rosa sensibile, così bella e profumata?283 Che cos’altro si può rispondere, se non che quel mirabile intelletto intende manifestarsi in questo suo verbo, intende manifestare la grandezza della sua sapienza e della sua ragione e quali siano le ricchezze della sua gloria?284 Che cos’altro si può infatti rispondere, quando si osserva che, mediante una piccola cosa sensibile, egli pone, con così grande facilità, di fronte alla conoscenza dei nostri sensi tanta bellezza, così ornata e proporzionata, insieme con un movimento di gioia e con un’armonia dolcissima, che allietano tutta la natura dell’uomo? E in maniera ancora più chiara egli si manifesta nella stessa vita vegetativa,
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qua rosa progreditur. Adhuc clariori resplendentia in vita intellectiva, quae omnia sensibilia lustrat, et quam gloriosus sit ille imperator, qui per naturam tamquam legem omnibus imperat, omnia conservat in specie incorruptibili supra tempus et in individuis temporaliter, et quomodo omnia hac lege naturae oriuntur, moventur et operantur ea, quae lex naturae imperat, in qua lege non nisi intellectus ille viget ut omnium auctor. 69 Vidit Aristoteles id ipsum, scilicet semota sensitiva cognitione esse et sensibilia semota, quando dicit in Metaphysica: «Si animata non essent, sensus non esset neque sensibilia», et plura ibi de hoc. Recte igitur dicebat Protagoras hominem rerum mensuram, qui ex natura suae sensitivae sciens sensibilia esse propter ipsam mensurat sensibilia, ut sensibiliter divini intellectus gloriam possit apprehendere. Sic de intelligibilibus ea ad cognitionem referendo intellectivam, et demum ex eodem contemplatur naturam illam intellectivam immortalem, ut se divinus intellectus in sua immortalitate eidem ostendere possit. Et ita evangelica doctrina manifestior fit, quae finem creationis ponit, ut videatur «deus deorum in Sion» in maiestate gloriae suae, quae est ostensio patris, in quo est sufficientia omnis. Et promittit ille noster salvator, «per quem» deus «fecit et saecula», ipsum scilicet verbum dei, quomodo in illa die se ostendet et quod tunc illi vivent vita aeterna. 70 Haec enim ostensio est concipienda, ac si quis unico contuitu videret intellectum Euclidis et quod haec visio esset apprehensio eiusdem artis, quam explicat Euclides in suis Elementis. Sic intellectus divinus ars est omnipotentis, per quam fecit saecula et omnem vitam et intelligentiam. Apprehendisse igitur hanc artem,
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da cui procede la rosa. E si manifesta con uno splendore più chiaro ancora nella vita intellettiva, la quale illumina tutti i sensibili e mostra quanto sia grande la gloria del suo re che comanda a tutte le cose mediante la natura come mediante una legge, che conserva tutte le cose (al di sopra del tempo per quanto riguarda le specie incorruttibili, e nel tempo per quanto riguarda gli individui), e mostra come tutte le cose nascano, si muovano ed operino grazie a questa legge di natura, facendo ciò che la legge di natura comanda, legge nella quale vive e opera solo quell’intelletto [divino], in quanto autore di tutte le cose. Proprio questo è quanto vide Aristotele, ossia che, se viene tolta la conoscenza dei sensi, vengono tolti gli oggetti sensibili. Nella Metafisica, infatti, egli dice: qualora non vi fossero esseri animati, non vi sarebbero né le sensazioni, né gli oggetti sensibili, e su questo argomento egli dice qui molte cose285. Giustamente, dunque, Protagora diceva che l’uomo è misura delle cose286: sapendo, sulla base della natura della sua conoscenza sensitiva, che gli oggetti sensibili esistono in vista di questa stessa conoscenza, l’uomo misura le realtà sensibili per poter apprendere, in maniera percepibile sensibilmente, la gloria dell’intelletto divino287. E questo l’uomo lo fa anche a proposito degli oggetti intelligibili, quando vengono riferiti alla conoscenza intellettiva; e infine, sulla base della stessa considerazione, l’uomo giunge a riflettere sul fatto che la natura intellettiva è immortale288, in modo tale che l’intelletto divino gli si possa manifestare nella sua immortalità. E così diventa più evidente la dottrina del Vangelo, il quale sostiene che il fine della creazione è la visione del «Dio degli dèi in Sion», nella maestà della sua gloria289. Questa maestà della gloria di Dio è la manifestazione del Padre, nel quale risiede ogni sufficienza 290. E questo nostro Salvatore, mediante il quale Dio ha creato anche i secoli, ossia lo stesso Verbo di Dio, promette che in quel giorno egli si manifesterà e che gli uomini vivranno di una vita eterna. Questa manifestazione, infatti, dev’essere concepita come se uno vedesse l’intelletto di Euclide con un’unica intuizione e questa visione gli facesse apprendere quell’arte che Euclide esplica nei suoi Elementi. In modo simile, l’intelletto divino è l’arte dell’onnipotente, mediante la quale egli creò i secoli e ogni vita e intelligen-
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quando se nude ostendet in illa die, quando nudus et purus apparuerit coram eo intellectus, est acquisivisse dei filiationem et hereditatem immortalis regni. Intellectus enim si in se habuerit artem, quae est creativa vitae et laetitiae sempiternae, ultimam est assecutus scientiam et felicitatem. 71 Quomodo autem fiat cognitio per species particularium sensuum, quae generalem sentiendi virtutem specificant et determinant, et quomodo haec passio, scilicet impressionis specierum, fit actio in sensu atque quomodo «intelligentia est plena formis» intelligibilibus, licet sit una simplex forma, cognoscis, si attendis quomodo visus in se complicat omnium visibilium formas et quod ideo eas cognoscit, quando sibi praesentantur, ex sua natura per formam suam in se omnium visibilium formas complicantem. Sic de intellectu, cuius forma est simplicitas intelligibilium formarum, quas ex propria natura cognoscit, quando nudae sibi praesentantur, et ita sursum ad intelligentias ascendendo, quae habent simplicitatem formae subtiliorem et omnia vident etiam sine eo, quod eis in phantasmate praesententur; et demum quomodo omnia in primo intellectu ita cognoscitive, quod cognitio dat esse cognitis sicut omnium formarum causativum exemplar se ipsum exemplificando; et cur sensus non attingit intelligibilia neque intellectus intelligentias et eo superiora, scilicet cum nulla cognitio possit in simplicius eo. Cognoscere enim mensurare est. Mensura autem est simplicior quam mensurabilia sicut unitas mensura numeri. Quia haec omnia complicite in beryllo et aenigmate continentur et multi de hoc eleganter scripserunt, brevitatis causa non extendo. 72 Ego autem finem libello faciens dico cum Platone: Scientia brevissima est, quae sine omni scriptura melius communicaretur, si es-
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za 291. Pertanto, apprendere quest’arte, quando essa si manifesterà apertamente in quel giorno in cui l’intelletto [umano] apparirà nudo e puro davanti a Dio, significa acquisire la filiazione di Dio e l’eredità del regno immortale292. Quando infatti l’intelletto avrà in se stesso quell’arte che ha creato la vita e la gioia senza fine, avrà conseguito la conoscenza ultima e la felicità finale. In che modo, tuttavia, si realizzi la conoscenza attraverso le specie dei singoli sensi293, le quali specificano e determinano la facoltà sensitiva generale294, e come questa passività, ossia la recezione delle impronte delle specie, diventi azione nei sensi295, e in che modo, inoltre, l’intelligenza sia piena di forme intelligibili296, nonostante sia un’unica forma semplice: tutto questo lo puoi capire se presti attenzione al fatto che la vista complica in sé le forme di tutte le cose visibili e che, per questo motivo, quando le si presentano, essa le conosce grazie alla propria natura e mediante la propria forma, la quale complica in sé le forme di tutte le cose visibili297. Lo stesso vale anche per l’intelletto, la cui forma è la semplicità delle forme intelligibili, che l’intelletto conosce grazie alla propria natura quando gli si presentano nude298; e vedrai qualcosa di simile quando ascendi in alto alle intelligenze, le quali hanno una semplicità di forma più sottile e vedono tutte le cose anche senza che si presentino loro attraverso le immagini della fantasia; e alla fine vedrai che tutte le cose sono presenti conoscitivamente nel primo intelletto in maniera tale che la conoscenza conferisce l’essere agli oggetti conosciuti299, così come il [primo] esemplare, nell’esemplare se stesso, causa tutte le forme. E comprenderai perché i sensi non giungono a cogliere gli oggetti intelligibili, né l’intelletto le intelligenze e le realtà che sono ad esso superiori; comprenderai, cioè, che questo avviene perché non è possibile avere alcuna conoscenza di ciò che è più semplice rispetto al soggetto conoscente300. Conoscere, infatti, è misurare301. Una misura, tuttavia, è più semplice rispetto alle cose misurabili302, come lo è l’unità, in quanto misura del numero. Poiché tutto questo è contenuto in maniera complicativa nel berillo303 e nell’immagine simbolica304 e dato che molti hanno già scritto con eleganza su tale argomento, per brevità non mi dilungo su di esso. Nel concludere questo libro, tuttavia, vorrei dire, con Platone: il sapere è qualcosa di estremamente conciso305 e lo si comuniche-
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sent petentes atque dispositi. Illos autem Plato putat dispositos, qui tanta cupiunt aviditate imbui, quod sibi potius moriendum esse putent quam carendum scientia, deinde qui a vitiis et deliciis abstinent corporalibus atque ingenii habent aptitudinem. Dico ego illa omnia sic esse addens quod cum hoc sit fidelis atque deo devotus, a quo illuminari crebris et importunis obtineat precibus. Dat enim sapientiam firma fide, quantum saluti sufficit, petentibus. His iste quamquam minus bene digestus libellus dabit materiam cogitandi secretioraque inveniendi et altiora attingendi et in laudibus dei, ad quem aspirat omnis anima, semper perseverandi, «qui facit mirabilia solus» et est in aevum benedictus. Deo laus. 1458, 18a augusti in castro sancti raphaelis.
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rebbe meglio senza alcuno scritto, se vi fossero uomini che aspirassero ad esso e fossero per esso ben disposti306. Ora, Platone considera ben disposti coloro che desiderano possederlo con tanta avidità da ritenere che per essi sarebbe meglio dover morire piuttosto che essere privati del sapere, e poi coloro che si astengono dai vizi e dai piaceri del corpo e posseggono attitudine d’ingegno307. Anche io concordo con tutto questo, aggiungendo che ben disposto è colui che è fedele e devoto a Dio, dal quale può ottenere, con frequenti e insistenti preghiere308, il dono di essere illuminato. Dio, infatti, dona la sapienza a coloro che, con una fede salda, chiedono quanto basta alla salvezza309. A costoro questo mio libro, per quanto non strutturato molto bene, fornirà materia per riflettere, per scoprire cose più profonde e nascoste, per giungere sino a quelle più elevate e per perseverare sempre nella lode di Dio, al quale aspira ogni anima, Egli che, solo, compie cose mirabili310 ed è benedetto in eterno. Lode a Dio. 1458, 18 agosto, nel castello di San Raffaele.
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Vita erat lux hominum (Io. 1o)
Promiseram tibi Petre aliqua de aequalitate conscribere ad exercitationem intellectus tui veritatis avidi et ad capacitatem apti, ut sermones theologicos subintrares. Sed me legationis apostolicae occupatio citius et limatius adimplere non permisit. Suscipe igitur grate, quod deus ministravit. 2 Theologus Ioannes evangelista in praemissis verbis propalavit deum patrem per consubstantiale suum verbum seu filium omnibus dedisse esse et quod ipsum esse omnium in verbo seu filio suo, qui «vita erat»; vita et lumen rationis hominis erat lux quae verbum. Haec dixit, ut intelligeremus nos per verbum dei tam in esse prodiisse quam illuminari in ratione, post subiungens nos posse illuminari per dictam veram lucem, usque quo perducamur ad apprehensionem ipsius lucis substantialis nos sic illuminantis. Et tunc beati et felices erimus. Nam cum intelligere nostrum sit nobilissimum vivere, si poterit intellectus intelligere lucem suae intelligentiae, quae est verbum dei, tunc attingit suum principium, quod est aeternum, et eius filium, per quem ductus est ad principium. Et hoc intelligere est in se, cum intellectum et intelligens non sunt alia et diversa. Erit igitur intellectus tunc in unitate lucis, quae verbum dei, non sicut verbum dei patris cum deo patre seu filius cum patre in unitate substantiae, quia intellectus creatus non potest increato deo in unitate substantiae uniri; sed homo bene unitur homi-
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«La vita era la luce degli uomini» (Gv 1, 4) Ti avevo promesso, Pietro, che avrei messo per iscritto alcune riflessioni sull’uguaglianza per l’esercizio del tuo intelletto1, che è avido di verità e in grado di comprendere, così che tu possa penetrare nei discorsi teologici. Ma il mio impegno come legato apostolico non mi ha permesso di mantenere la promessa con molta rapidità e di dare a questo scritto una forma più elaborata 2. Accogli dunque, con gratitudine, ciò che Dio ha disposto. Il teologo ed evangelista Giovanni, nelle parole che ho citato in apertura3, ha svelato che Dio padre, mediante il Verbo a lui consostanziale, ossia mediante suo Figlio4, ha donato l’essere a tutte le cose5, e che nel suo Verbo o Figlio, che è vita, l’essere di tutte le cose «era vita»; e che la luce, che è il Verbo, era il lume della ragione dell’uomo6. Giovanni disse queste parole per farci comprendere che, mediante il Verbo di Dio, siamo venuti all’essere e siamo stati illuminati nella nostra ragione; ha aggiunto poi che da questa vera luce7 possiamo essere illuminati fino ad essere condotti alla comprensione della stessa luce sostanziale che ci illumina. E allora saremo beati e felici. Poiché, infatti, comprendere significa per noi vivere in maniera molto nobile, se il nostro intelletto potesse comprendere la luce della propria intelligenza, che è il Verbo di Dio, allora coglierebbe il proprio Principio, che è eterno, quel Figlio del Principio mediante il quale l’intelletto viene condotto fino al Principio. E questo genere di comprensione l’intelletto la realizza in se stesso, perché colui che comprende e ciò che viene compreso non sono diversi l’uno dall’altro8. Allora l’intelletto sarà nell’unità della luce, che è il Verbo di Dio; tuttavia, non sarà in un’unità della sostanza, come il Verbo di Dio padre è congiunto con Dio padre, oppure come il Figlio è congiunto con il Padre, perché un intelletto creato non può essere unito al Dio increato in un’unità sostanziale9; un uomo, invece, è unito ad un altro uomo in un’unità essenziale,
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ni in unitate essentiae humanae. Ideo «verbum caro factum est», ut homo mediante homine, qui verbum et filius dei, deo patri in regno vitae aeternae inseparabiliter uniatur. Hoc mysterium maximum mediatoris et «salvatoris nostri Iesu Christi» propalatum est in scripturis utriusque testamenti, nullibi tamen apertius quam in evangelio Ioannis theologi, cuius modus, licet sit inexpressibilis et incomprehensibilis, tamen in «figura et aenigmate» comprehensibilium describitur. Volentes autem cum fide intrare in evangelium et modum mysterii aliqualiter secundum humani ingenii vires concipere necesse est, ut habeant exercitatum intellectum, maxime circa abstractiones et animae nostrae vires. Quae igitur nunc circa hoc occurrunt, quam breviter tibi pandam. 3 Legisti in Beryllo nostro, quomodo intellectus vult cognosci. Dico nunc hoc verum a se et aliis; et hoc non est aliud nisi quod se et alia vult cognoscere, cum in cognoscendo sit vita eius et laetitia. Docuit me autem magister, qui verbum dei, videre et cognoscere idem esse. Ait enim: «Beati mundo corde quoniam ipsi deum videbunt». Et alibi: «Haec est vita aeterna» cognoscere «te deum». Et iterum: «Qui videt me, videt patrem», ubi videre cognoscere est et cognoscere videre. Loquar igitur de visione, quae cum cognitione hominis coincidit. Et pro introitu ad intentum praemitto quod alteritas non potest esse forma. Alterare enim est potius deformare quam formare. Id igitur, quod videtur in aliis, potest etiam sine alteritate in se videri, cum alteritas non dederit sibi esse. Visus autem, qui videt visibile semota omni alteritate in se, videt se non esse aliud a visibili. Li se igitur refertur tam ad visum quam visibile, inter quae non cadit al-
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quella dell’essenza umana. Per questo motivo, «il Verbo si è fatto carne»10, affinché l’uomo, grazie alla mediazione di quell’uomo che è il Verbo e il Figlio di Dio, sia unito inseparabilmente a Dio padre nel regno della vita eterna11. Questo mistero massimo del mediatore12 e «nostro Salvatore Gesù Cristo»13 è stato svelato negli scritti dei due Testamenti, ma in nessuno scritto è stato svelato in maniera più chiara che nel Vangelo del teologo Giovanni; sebbene il modo in cui si è realizzato un tale mistero14 sia inesprimibile e incomprensibile, Giovanni, tuttavia, lo descrive in una «figura» e mediante un’immagine «enigmatica» che fa riferimento a cose che risultano per noi comprensibili. Tuttavia, quanti desiderano penetrare, con la fede, nel Vangelo e cercare, in qualche misura, conformemente alle capacità dell’intelletto umano, di concepire il modo in cui si è realizzato tale mistero, devono possedere un intelletto molto esercitato, soprattutto nelle astrazioni e nelle facoltà della nostra anima. Cercherò, dunque, di illustrarti, nel modo più breve possibile, quale sia il mio pensiero a proposito di questo argomento. Hai letto nel mio scritto Il berillo15 che l’intelletto vuole esser conosciuto. Ora ti dico che questa affermazione è vera, sia in riferimento all’intelletto stesso, sia in riferimento alle altre cose; e questo non significa altro se non che l’intelletto vuole conoscere sia se stesso, sia le altre cose, poiché nel conoscere consistono la sua vita e la sua gioia. Ora, il Maestro, che è il Verbo di Dio, mi ha insegnato che il vedere e il conoscere sono la stessa cosa16. Dice infatti: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio»17. E altrove: «Questa è la vita eterna, conoscere te, Dio»18. E ancora: «Chi vede me, vede il Padre»19, dove il vedere è il conoscere, e il conoscere è il vedere20. Pertanto, parlerò di un vedere che coincide con il conoscere dell’uomo21. E, come introduzione a quanto intendo dire, premetto che l’alterità non può essere una forma22. Infatti, alterare significa deformare, non formare. Di conseguenza, ciò che vediamo in cose che sono altre [tra di loro] può essere visto anche in se stesso, senza alterità, dato che l’alterità non ha dato ad esse l’essere23. Ma la vista che, rimossa l’alterità, vede il visibile [per com’è] in se stesso, vede di non essere qualcosa di altro dal visibile. L’espressione «se stesso», pertanto, si riferisce sia alla vista che al visibile, e tra di loro
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teritas essentiae, sed est identitas. Potest autem aliquid omni alteritate semota videri. Id autem, quod sic videtur, omni caret materia. Subiectum enim alterationis non est nihil nec forma dans esse, sed id quod potest formari, quod hyle sive materiam dicimus. Intellectus autem, dum videt intellectum in alio et alio intelligibili et subiectum alteritatis materiam, quia per intellectum in se videt, ideo videt se ab omni materia separatum; et videt, quomodo intelligentia est per se intelligibilis ob carentiam materiae, et omnia, quae non carent materia, non esse per se intelligibilia, sed oportere ipsa abstrahi a materia, si intelligi debent. 4 Ideo naturalia sunt minus intelligibilia, cum habeant materiam alteritati valde subiectam, ut patet in qualitatibus activis et passivis, a quibus si abstrahitur materia, non sunt amplius entia naturalia. Mathematicalia autem sunt magis intelligibilia, quia materia non est tantae alteritati subiecta; qualitatibus enim activis et passivis non subicitur, sed quantitati, licet insensibili. Sicut enim homo non videtur ab omni materiali et sensibili, quantificativa et qualificativa contractione absolutus, sic nec circulus videtur ab omni materiali quantitate, licet insensibili, absolutus. Sed ens seu unum absolutum videri potest ab omni quantitate et qualitate, etiam intelligibili separatum. 5 Videtur autem hic homo qui Plato et alius homo qui Socrates. Videtur igitur homo separatus ab ista alteritate individuali. Et haec visio non est sensibilis, sed est absoluta a sensibili per remotionem contractionis individualis. Et non videtur homo sic ab omni materia naturali separatus, sed solum individuali, remanente communi. Puta: Absolutus est homo, quem sic video, ab hac carne et his
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non vi è alcuna differenza [alterità] di essenza, ma vi è piuttosto un’identità essenziale. Ora, rimossa ogni alterità, può essere visto qualcosa, ma ciò che in questo modo viene visto è privo di ogni materia. Infatti, ciò che è soggetto ad alterazione non è un nulla, e non è neppure la forma che dona l’essere24, bensì è ciò che può ricevere una forma, e che noi chiamiamo «hyle» o materia25. Quando, tuttavia, l’intelletto vede ciò che è da lui inteso nei diversi contenuti intelligibili, e quando vede che la materia è il soggetto dell’alterità, allora esso si vede separato da ogni materia, perché ciò che l’intelletto vede per mezzo di quanto è da lui inteso lo vede in se stesso; e vede, inoltre, che l’intelligenza, essendo priva di materia, è intelligibile per sé, mentre tutto ciò che non è privo di materia non è intelligibile di per sé, ma, per essere inteso, dev’essere separato, mediante l’astrazione, dalla materia26. Per questo motivo, gli enti naturali sono poco intelligibili, in quanto hanno una materia che è molto soggetta all’alterità, come risulta evidente nel caso delle qualità attive e passive27; se si separasse la materia degli enti naturali, essi non sarebbero più enti naturali. Invece, gli enti matematici sono molto intelligibili, in quanto la loro materia non è soggetta ad un tipo di alterità così grande; essa, infatti, non è soggetta alle qualità attive e passive, ma è soggetta alla quantità, sebbene si tratti di una quantità non sensibile. Come un uomo, infatti, noi non lo vediamo separato da ogni contrazione materiale e sensibile, quantitativa e qualitativa, così neppure un cerchio lo vediamo separato da ogni quantità materiale, anche se si tratta di una quantità non sensibile. Invece, l’ente in quanto tale, o l’uno in quanto tale, possono essere visti separatamente da ogni quantità e da ogni qualità, anche da quelle intelligibili28. Ora, noi vediamo quest’uomo, ad esempio Platone, e un altro uomo, ad esempio Socrate. Vediamo poi l’uomo separato da questa alterità individuale; e tale vedere non avviene attraverso i sensi, ma è svincolato dalla percezione sensibile, in quanto si realizza attraverso la rimozione della contrazione individuale29. In questo modo, tuttavia, l’uomo non viene visto separatamente da ogni materia naturale, ma lo si vede separato soltanto dalla materia individuale, mentre resta quella comune, ossia la materia che costituisce l’uomo in quanto tale30. In questo senso, io posso vedere l’uomo se-
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ossibus, non tamen a carne et ossibus; alioquin non foret naturalis homo. Et ideo homo quem video est universalis separatus ab individuis et cognoscitur tali visione homo per virtutem cognoscitivam, altiorem sensitiva, inferiorem tamen pure intellectiva et organo coniuncta, quae etiam in brutis invenitur et dicitur imaginativa. Videmus enim canes hominem in genere et hunc hominem cognoscere. Sic videt homo hanc figuram et figuram ab individuali contractione separatam, non tamen ab omni materia, quoniam non videt figuram nisi quantam. Quantitas autem materiam supponit. Et haec visio fit mediante ratione, quae parum ad organum est contracta. Videtur etiam Platonis et Aristotelis intellectus in eorum libris et intellectus separatus ab omni contractione et materia sive quantificativa sive qualificativa. Et haec visio fit per supremam animae separatam simplicitatem, quae intellectus seu mens dicitur. 6 Omne autem id, quod videtur in alio aliter, videtur per id, quod est in se idem cum anima videntis. Videt homo sensum esse alium in visu, alium in auditu et ita de reliquis. Et sensum sic in aliis aliter exsistentem in se videt sine illa alteritate esse idem cum anima rationali. Et ita videt sensum in aliis per sensum in se, qui est communis et a contractione individuali absolutus; sic rectitudinem in aliis et aliis rectis per rectitudinem in se; ita formam in formatis per formam in se; et iustitiam in iustis per iustitiam in se; et generaliter
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paratamente da questa carne e da queste ossa, ma non posso vederlo separatamente dalla carne e dalle ossa, perché, altrimenti, non sarebbe un uomo naturale. Pertanto, l’uomo che io vedo in questo modo è l’uomo inteso in senso universale, separato dai singoli uomini particolari, e, in questo tipo di vedere, l’uomo viene conosciuto mediante una facoltà conoscitiva che è superiore rispetto alla facoltà sensitiva, ma è inferiore rispetto a quella puramente intellettiva, ed è una facoltà che è congiunta ad un organo. Questa facoltà la si trova anche negli animali31 e viene chiamata «facoltà immaginativa». Osserviamo, infatti, che i cani riconoscono sia gli uomini in generale, sia questo uomo in particolare. Allo stesso modo, anche gli uomini vedono sia questa figura, sia la figura separata dalla contrazione individuale, ma non sono in grado di vedere la figura separatamente da ogni materia, perché possono vedere una figura solo se essa ha una quantità, e la quantità presuppone la materia. Questo tipo di vedere avviene grazie alla mediazione della ragione, la quale non è molto contratta in un organo. Inoltre, l’intelletto di Platone e quello di Aristotele vengono visti nei loro libri, ed in questo caso l’intelletto viene visto separatamente da ogni contrazione e da ogni materia, sia essa quantitativa o qualitativa32. Tale vedere si realizza mediante quella suprema e separata semplicità dell’anima che viene chiamata «intelletto» o «mente»33. Ora, tutto ciò che viene visto in qualcosa di altro viene visto in un altro modo [rispetto a come esso è in sé]; esso, tuttavia, viene visto mediante ciò che è in sé e che è identico all’anima di colui che vede. Ad esempio, un uomo vede che la facoltà sensitiva è diversa nella vista, nell’udito e negli altri organi di senso34. La facoltà sensitiva, che è presente in maniera diversa nei diversi sensi, egli tuttavia la vede in se stessa, senza quelle differenze, come identica alla sua anima razionale35. In questo modo, la facoltà sensitiva, che è presente nei diversi sensi, viene vista mediante la facoltà sensitiva quale è in se stessa, una facoltà che è comune [ai diversi sensi] ed è separata dalla contrazione individuale [dei singoli organi di senso]36. Allo stesso modo, la rettitudine che è presente in diverse cose rette viene vista mediante la rettitudine in sé37, così come la forma che è presente in diverse cose dotate di forma viene vista mediante la forma in sé, la giustizia che è presente nelle azioni giuste viene
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extrinsecum cognoscibile per intrinsecum consubstantiale. Et hac via patet, quomodo intelligibile extrinsecum fit in actu per intrinsecum. 7 Ac si intellectuale praesuppositum seu principium de se generaret suiipsius verbum, rationem seu notionem. Notitia enim illa foret consubstantialis similitudo eius, quia foret ratio intellectualis naturae sicut intellectuale praesuppositum, in qua «figura substantiae» sive principium seu praesuppositum clarificatur. Alias sine ratione tali remaneret sibi et omnibus praesuppositum incognitum. Ex quibus procedit utriusque amor seu voluntas. Nam amor sequitur cognitionem et cognitum – nihil enim incognitum amatur – et relucet in opere eius rationali, scilicet syllogistico, et maxime in primo modo primae figurae. 8 Puta: Anima vult ostendere omnem hominem mortalem et arguit sic. Omne animal rationale est mortale. Omnis homo est animal rationale. Ergo omnis homo est animal mortale. Prima propositio est principium fecundum praesuppositum; secunda ex fecunditate primae generata est eius fecunditatis ratio sive notio; ex quibus sequitur intenta conclusio. Sicut prima est universalis affirmativa, sic secunda, sic tertia et non est plus aut minus una universalis quam alia. Universalitas igitur in ipsis est aequalis sine alteritate. Sic etiam non plus continet in substantia prima quam secunda aut tertia. Nam prima omne animal rationale complectitur; sic secunda; sic tertia. Non enim secunda, quae de homine loquitur, minus complectitur, cum solus homo sit animal rationale. Sunt igitur illae propositiones tres aequales in universalitate, essentia atque virtute.
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vista mediante la giustizia in sé38, e, in generale, una cosa esterna che risulta a noi conoscibile la conosciamo mediante una cosa interna che è della sua stessa sostanza39. Risulta in questo modo evidente che una cosa esterna viene resa intelligibile in atto mediante qualcosa di interno. È come se un punto di partenza o un primo principio intellettuale generasse da sé un verbo, o una forma razionale, o una nozione di se stesso. In questo caso, infatti, quella forma razionale sarebbe una similitudine consostanziale del primo principio40, in quanto sarebbe la forma razionale della natura intellettuale, così come il primo principio è intellettuale; in questa forma razionale si manifesta la «figura della sostanza»41 [del primo principio], ossia il primo principio [stesso]. Altrimenti, senza una tale forma razionale il primo principio resterebbe sconosciuto sia a se stesso, sia a tutte le cose. Dal primo principio e dal suo verbo procede l’amore, o la volontà, che lega l’uno all’altro42. L’amore, infatti, consegue alla conoscenza e alla cosa conosciuta – non si ama in effetti ciò che non si conosce43 – e risplende nella sua opera razionale, cioè nel sillogismo, e soprattutto nel primo modo della prima figura44. Ad esempio, l’anima vuole dimostrare che ogni uomo è immortale, e argomenta così: «Ogni animale razionale è mortale. Ogni uomo è un animale razionale. Dunque, ogni uomo è un animale mortale». La prima proposizione è il punto di partenza o il primo principio dal quale derivano le altre; la seconda proposizione, che viene generata dalla fecondità della prima, è la forma razionale o la nozione della fecondità della prima; e da queste segue la conclusione che si cercava45. Come la prima è una proposizione universale affermativa, così lo sono anche la seconda e la terza, e l’una non è più o meno universale dell’altra. In esse, pertanto, l’universalità è uguale e senza alterità. Allo stesso modo, la prima proposizione non contiene nella sua sostanza qualcosa di più di quello che è contenuto nella seconda proposizione o nella terza. Infatti, la prima proposizione contiene in sé ogni animale razionale, e lo stesso vale per la seconda e per la terza. E la seconda proposizione, in cui si parla dell’uomo, non contiene di meno [in sostanza], in quanto soltanto l’uomo è un animale razionale. Così, quelle tre proposizioni sono uguali per quanto concerne l’universalità, l’essenza e la for-
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Hinc non sunt tres universalitates nec tres substantiae seu essentiae sive virtutes. Propter enim omnimodam aequalitatem non est alteritas substantiae in ipsis secundum omnem nostram apprehensionem, qui aliud rationale animal non cognoscimus quam hominem. Prima tamen propositio est prima et sic per se subsistens; sic et secunda secunda et tertia tertia, ita quod una non est alia. Tamen secunda totam naturam, substantiam et fecunditatem primae explicat sicut «figura substantiae eius» ita quod, si prima diceretur pater, secunda diceretur filius unigenitus, quia aequalis naturae et substantiae, in nullo minor aut inaequalis, de fecunditate primae genita. Ita tertia, quae est intentio conclusionis utriusque propositionis, pariformiter se habet. Prima memoriae similatur, cum sit principium praesuppositum, origine praecedens; secunda intellectui, cum sit explicatio notionalis primae; tertia voluntati, cum procedat ex intentione primae et secundae uti finis desideratus. In unitate igitur essentiae huius syllogismi trium propositionum per omnia aequalium relucet unitas essentialis animae intellectivae tamquam in opere eius logistico sive rationali. Nam per regulam praemissam anima rationalis se videt in syllogismo ut in suo opere rationali in alteritate operis, videt se sine illa alteritate in se et per visionem sui in se videt se in opere. 9 Et ita habes, quomodo anima pergit per se ad omnia alia et nihil reperit in omni varietate intelligibile, nisi quod in se reperit, ut omnia sint sua similitudo. Et in se verius omnia videt quam sint in ali-
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za. Quindi, non ci sono tre universalità, né tre sostanze o essenze, o forze. Infatti, in virtù di una tale completa uguaglianza, non vi è in esse alcuna alterità della sostanza, in qualunque modo noi possiamo considerare quest’ultima, in quanto noi non conosciamo altro animale razionale se non l’uomo. Ciononostante, la prima proposizione è prima, e pertanto sussiste di per sé; allo stesso modo, la seconda proposizione è seconda e la terza è terza, in modo tale che una proposizione non è l’altra. La seconda proposizione, tuttavia, esplica tutta la natura, la sostanza e la fecondità della prima, in quanto è «la figura della sua sostanza», per cui, se la prima proposizione venisse chiamata «padre», la seconda verrebbe chiamata il suo «figlio unigenito», in quanto, essendo stata generata dalla fecondità della prima proposizione, ha una natura ed una sostanza uguale ad essa, in nulla minore o disuguale46. E anche la terza proposizione, che è la conclusione dell’intenzione contenuta nelle prime due proposizioni, ha una natura e una sostanza uguale ad esse. La prima proposizione è come la memoria, in quanto è il punto di partenza e il primo principio che, per origine, precede le altre due proposizioni; la seconda proposizione è come l’intelletto, in quanto è l’esplicazione concettuale [nozionale] della prima proposizione, e la terza è come la volontà, in quanto procede dall’intenzione contenuta nella prima e nella seconda proposizione, come il fine da esse desiderato47. Pertanto, nell’unità dell’essenza di questo sillogismo, costituito da tre proposizioni che sono uguali in tutto, risplende l’unità essenziale dell’anima intellettiva, e risplende come nell’opera logica e razionale che è ad essa propria. Infatti, secondo la regola che abbiamo menzionato [ossia, la prima figura del sillogismo]48, l’anima razionale vede se stessa nel sillogismo come nella sua opera razionale, ma si vede nell’alterità che è propria di tale opera. L’anima razionale, tuttavia, si vede anche in se stessa, senza una tale alterità, e grazie a questa visione di sé, che essa ha in se stessa, l’anima razionale vede se stessa nella sua opera. In questo modo, puoi comprendere che è attraverso se stessa che l’anima si volge a tutte le altre cose49, e che in tutta questa varietà l’anima non trova nulla che sia per lei intelligibile se non ciò che essa trova in se stessa, in modo tale che tutte le cose sono una sua similitudine50. E in se stessa l’anima vede tutte le cose in ma-
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is ad extra. Et quanto plus egreditur ad alia, ut ipsa cognoscat, tanto plus in se ingreditur, ut se cognoscat. Et ita, dum per proprium intelligibile alia intelligibilia mensurare et attingere satagit, per alia intelligibilia suum proprium intelligibile sive seipsam mensurat. Anima igitur veritatem quam videt in aliis per se videt. Et est notionalis ipsa veritas cognoscibilium, quoniam anima intellectiva vera notio est. Visione intuitiva per se lustrat omnia et mensurat et iudicat per notionalem veritatem veritatem in aliis. Et per eam, quam in aliis comperit aliter, ad se revertitur, ut eam, quam in aliis aliter vidit, in se intueatur sine alteritate veraciter et stabiliter, ut in se quasi in speculo veritatis notionaliter omnia perspiciat et se rerum omnium notionem intelligat. 10 Anima videt terminum in omnibus terminatis. Et cum termini non sit terminus, videt se terminum notionalem interminum sine alteritate. Et hinc videt se non esse quantam nec divisibilem, ideo nec corruptibilem. Est igitur anima interminabilis notionalis terminus, per quem omnia ut vult terminat faciendo terminum brevem aut longum distanter a primo. Et sic facit longas lineas breves et breves longas; et mensuras facit longitudinis, latitudinis et profunditatis, temporis et omnis continui; et facit figuras et quaeque talia, quae sine rationali terminatore fieri non possunt; et terminos imponit seu nomina terminatis, et artes et scientias. Haec omnia explicat ex propria virtute notionali. Et de omnibus per se iudicat,
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niera più vera rispetto a come esse esistano fuori di lei nelle diverse realtà. E quanto più esce [fuori di sé] verso le altre cose per conoscerle, tanto più l’anima rientra in se stessa per conoscersi 51. Ed in questo modo, quando si dà da fare per misurare e cogliere le diverse realtà intelligibili mediante il proprio essere intelligibile, l’anima, attraverso le realtà intelligibili che essa misura, misura il proprio essere intelligibile, ossia misura se stessa52. Pertanto, la verità, che vede nelle diverse realtà, l’anima la vede attraverso se stessa. E l’anima è la stessa verità nozionale delle cose conoscibili, in quanto l’anima intellettiva è la vera nozione [delle cose conoscibili]. Con la sua visione intuitiva l’anima illumina da sé tutte le cose, e mediante la verità nozionale, che essa ha in sé, l’anima misura e giudica la verità presente nelle altre cose53. E attraverso la verità che essa scopre presente in modi diversi nelle diverse cose l’anima si rivolge a se stessa, in maniera tale da poter cogliere intuitivamente in se stessa, senza alterità e in modo vero e stabile, quella verità che ha visto presente in modi diversi nelle diverse cose, cosicché l’anima può giungere a scorgere in se stessa, come in uno specchio della verità, tutte le cose in maniera nozionale e può così comprendere di essere la nozione di tutte le cose54. L’anima vede il limite che è presente in tutte le cose delimitate. E poiché non c’è un limite del limite, l’anima vede se stessa come un limite concettuale [di tutte le cose], un limite senza limite, né alterità55. Di conseguenza l’anima vede di non essere una realtà dotata di quantità o divisibile, e si rende pertanto conto di non essere soggetta a corruzione. L’anima, pertanto, è un limite concettuale [nozionale] che non può essere limitato; mediante tale limite, l’anima delimita tutte le cose come vuole, stabilendo che un punto finale sia ad una distanza più breve o ad una più lunga dal punto iniziale. In questo modo, l’anima rende lunghe le linee corte e corte le linee lunghe; e stabilisce le unità di misura della lunghezza, della larghezza e della profondità, del tempo e di ogni continuo; e costruisce le figure di tutte quelle cose che non possono essere fatte senza una ragione che ne stabilisca i termini. Inoltre, l’anima impone i «termini», ossia i nomi, alle cose determinate, e costruisce le arti e le scienze56. Tutte queste cose l’anima le esplica dalla propria forza nozionale. E formula giudizi su tutte le cose mediante se stes-
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sicut de iustitia causarum per notionalem suam iustitiam, quae est consubstantialis sibi, quia est ratio iustitiae, per quam iudicat iustum et iniustum. Anima, dum se videt, intra se habere notionem mundi omnem omnium mundi notiones complicantem; videt in se esse verbum seu conceptum notionalem universorum et nomen omnium nominum, per quod de omni nomine notionem facit; et videt omnia nomina suum nomen explicare, cum nomina non sint nisi rerum notiones. Et hoc est, quod ipsa anima se videt omnibus nominibus nominari. 11 Adhuc anima videt se esse intemporale tempus. Nam percipit corpus esse in esse transmutabili et quod non fit transmutatio nisi in tempore. Percipit igitur tempus esse in temporalibus aliter et aliter. Et tunc videt tempus in se semota omni alteritate esse intemporaliter. Unde cum videat numerum in variis numeratis, videt etiam numerum innumerabilem omnia numerantem in se. Et ita videt tempus in se et numerum in se non esse alia et diversa. Et cum videat tempus contractum in temporalibus et in se absolutum a contractione, videt tempus non esse aeternitatem, quae non est nec contrahibilis nec participabilis. Unde videt se anima non esse aeternitatem, cum sit tempus, licet intemporaliter. Videt igitur se super temporalia «in horizonte aeternitatis» temporaliter incorruptibilem, non tamen simpliciter sicut aeternitas quae est simpliciter incorruptibilis, quia est incorruptibilitas omnem alteritatem antecedens. Unde videt anima se coniunctam continuo et temporali. In hoc enim sunt eius operationes successivae et temporales, quas per organa corruptibilia facit, ut est sentire, ratiocinari, deliberare et
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sa, sulla giustizia delle cause legali, ad esempio, mediante il proprio concetto di giustizia, che le è consostanziale, in quanto l’anima è il principio razionale della giustizia, attraverso cui essa giudica su ciò che è giusto e ciò che è ingiusto57. Quando l’anima vede di avere in se stessa una nozione completa del mondo, che complica le nozioni di tutte le cose del mondo, allora si rende conto che in lei è presente il verbo, ossia il concetto nozionale degli universi 58 e il nome di tutti nomi59, grazie al quale essa è in grado di formarsi una nozione di ogni nome; e vede che tutti i nomi sono esplicazioni del suo proprio nome, in quanto i nomi non sono che le nozioni delle cose. E questo vedere è tale che l’anima stessa vede di essere nominata mediante tutti nomi. Inoltre, l’anima vede di essere un tempo senza-tempo. Percepisce, infatti, che ciò che è materiale ha un essere che è soggetto al mutamento e che il mutamento avviene soltanto nel tempo. L’anima percepisce, pertanto, che il tempo è presente nelle cose temporali in vari modi che sono diversi gli uni dagli altri. Poi l’anima vede che, considerato in se stesso, una volta che è stata rimossa ogni alterità, il tempo esiste in modo non temporale. Di conseguenza, quando vede che il numero è presente in diverse cose numerate, l’anima vede anche che quel numero che numera tutte le cose è in se stesso innumerabile60. E così l’anima vede che il tempo, considerato in se stesso, e il numero, considerato in se stesso, non sono due realtà diverse l’una dall’altra. E dal momento che, nelle realtà temporali, vede il tempo come contratto, mentre in se stesso lo vede come libero da ogni contrazione, l’anima si rende conto del fatto che il tempo non è l’eternità, la quale, invece, non è né contraibile, né è partecipabile61. Per questo, l’anima vede di non essere l’eternità, in quanto essa è tempo, anche se in modo non temporale. L’anima, pertanto, vede di essere al di sopra delle cose temporali e «nell’orizzonte dell’eternità»62, come una realtà che è incorruttibile temporalmente63; L’anima, tuttavia, vede di non essere incorruttibile in senso assoluto, come lo è l’eternità, la quale è incorruttibile in senso assoluto in quanto è l’incorruttibilità che precede ogni alterità. L’anima, pertanto, vede di essere connessa al continuo e al temporale64; è quanto mostrano le operazioni che essa compie con la mediazione degli organi corruttibili, le quali operazioni
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similes. Et videt se absolutam a continuo in opere intellectus ab organo separati, quia dum intelligit subito intelligit. Et ita inter temporale et aeternum se reperit. Videt autem animam unius plus continuo et tempori seu successioni coniunctam tardius pervenire ad intellectum, aliam citius, quia minus immersa continuo, quae citius se resolvit habens aptiora organa ad operationem et praecisius attingit. Ex quo videt animam nostram indigere organis et successione temporali ob suam imperfectionem, ut de potentia ad actum perveniat. Quare intelligentiae perfectiores, quae sunt in actu non habentes necessitatem discursus ut ad actum perveniant, magis accedunt ad aeternitatem et plus separatae sunt a temporali successione. 12 Quomodo autem se habeat visio temporis ita considera! Hebrei temporis initium dicunt praeteritum, cui succedit praesens et sequitur futurum. Si respicis ad praeteritum uti est tempus praeteritum, vides ipsum in praesenti esse praeteritum et in futuro fieri praeteritum. Si respicis ad praesens, vides ipsum in praeterito fuisse praesens et in futuro fieri praesens. Si respicis ad futurum, vides ipsum in praeterito fuisse futurum et in praesenti esse futurum. Et haec anima in se videt, quae est intemporale tempus. Videt igitur se intemporale unitrinum tempus: praeteritum, praesens et futurum. Tempus autem praeteritum, quod semper est et erit praeteritum, perfectum tempus est. Et tempus praesens, quod semper fuit et erit praesens, perfectum tempus est. Sic et futurum, quod semper fuit et est futurum, perfectum tempus est. Et non sunt tria perfecta tempora, sed unum perfectum tempus: perfectum in prae terito, perfectum in praesenti et perfectum in futuro. Hoc tempus numquam deficere poterit. Praeteritum ut praeteritum non defi-
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sono successive e temporali, come il sentire, il ragionare, il deliberare, ecc. Nelle operazioni che compie mediante l’intelletto, il quale è separato da un organo corporeo, l’anima vede, tuttavia, di essere libera dal continuo, poiché, quando intende, essa intende con un atto immediato. In questo modo, l’anima scopre di essere situata tra il tempo e l’eterno. Ma l’anima osserva anche che un uomo, la cui anima sia legata di più al continuo e al tempo, ossia alla successione, giunge con più lentezza di intendere, mentre un altro uomo, la cui anima sia meno immersa nel continuo, vi giunge più rapidamente. Questa seconda anima, avendo strumenti più adatti per compiere le operazioni che sono proprie dell’intelletto, si separa più rapidamente [dal tempo e dalla successione] e giunge ad intendere con maggiore precisione. Da ciò l’anima si rende conto che è a causa della sua imperfezione che essa ha bisogno di organi corporei e della successione temporale per poter passare dalla potenza all’atto. Di conseguenza, le intelligenze più perfette, che sono in atto e che non hanno bisogno di un movimento razionale per giungere all’atto, sono più vicine all’eternità e sono maggiormente separate dalla successione temporale. Per quanto concerne il modo in cui l’anima vede il tempo, considera quanto segue. Gli ebrei chiamano l’inizio del tempo «passato», al quale succede il «presente», che è seguito dal «futuro»65. Se consideri il passato come tempo passato, vedi che, nel presente, esso è il passato e che, nel futuro, sarà il passato. Se consideri il presente, vedi che, nel passato, è stato il presente e che, nel futuro, sarà il presente. Se consideri il futuro, vedi che, nel passato, è stato il futuro e che, nel presente, è il futuro66. E questi modi temporali l’anima, che è tempo senza-tempo, li vede in se stessa67. L’anima, pertanto, si vede come un tempo unitrino senza-tempo: passato, presente e futuro. Il tempo passato, che è sempre stato e sarà sempre il passato, è un tempo perfetto. Il tempo presente, che è sempre stato e sarà sempre il presente, è un tempo perfetto. Così anche il futuro, che è sempre stato e sempre è il futuro, è un tempo perfetto. Ma questi non sono tre tempi perfetti, ma sono un unico tempo perfetto: perfetto nel passato, perfetto nel presente e perfetto nel futuro. Questo tempo [perfetto] non potrà mai venir meno. Il passato in quanto passato non viene mai meno, per il fatto che è sempre
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cit, quando semper est et erit praeteritum; sic nec praesens, nec futurum. Nihil igitur novi in illo tempore intemporali, ubi nihil est praeteritum, quod non sit praesens et futurum, licet enim praeterita in praeteritis defecerint et futura in futuro nondum sint, sed solum praesentia in praesenti, tamen secus de tempore praeterito et futuro, ut praedictum est. 13 Anima igitur, quae est intemporale tempus, in sua essentia videt praeteritum, praesens et futurum, nominat praeteritum memoriam, praesens intellectum, futurum voluntatem. Nam in natura intellectuali praesuppositum seu ‹quia est› est origo, de se generans sui scilicet praesuppositi sive ‹quia est› intellectum seu ‹quid est›, ad quae sequitur intentus finis, qui voluntas seu delectatio dicitur. Omnia igitur in ‹quia est› sunt; et vocatur ille essendi modus memoria intellectualis. Omnia in ‹quid est› sunt; et vocatur ille modus essendi intellectus, quoniam ut ibi sunt in sua ratione sunt et intelliguntur. Omnia in intento fine sunt; et vocatur ille essendi modus voluntas seu desiderium. Haec consideratio temporis intemporalis manifestat animam esse aeternitatis similitudinem atque quod anima intuetur per se tamquam per similitudinem aeternitatis ad aeternitatem vitae, quam solum appetit, sicut intellectualis imago vitae seu quietis aeternae suam veritatem, cuius est imago, sine qua non potest habere quietem. Quietis enim imago in quiete tantum quiescit. Quod igitur anima in se reperit de perfectione essentiae suae esse, scilicet unitrinitatem temporis intemporalis et generationem secundi primo tempori succedentis et processionem tertii ab utroque et aequalitatem naturae in tribus hypostasibus intemporalis temporis et inexsistentiam unius hypostasis in alia et ita de reliquis, ad sui principium quod est aeternum transsumit, ut in se tamquam in «speculo et aenigmate» suum principium aliqualiter possit intueri.
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e sarà sempre il passato: allo stesso modo, non verranno mai meno né il presente, né il futuro. Di conseguenza, in questo tempo senza-tempo, nel quale non c’è nulla che sia passato che non sia anche presente e futuro, non c’è nulla di nuovo68. Infatti, sebbene le cose passate abbiano cessato di essere nel passato e le cose future non siano ancora giunte all’essere nel futuro, per cui nel presente esistono solo le cose presenti, il caso tuttavia è diverso per quanto riguarda il tempo passato e il tempo futuro, come ho appena spiegato69. Pertanto, l’anima, che è tempo senza-tempo, vede nella propria essenza il passato, il presente e il futuro, e chiama il passato «memoria», il presente «intelletto», il futuro «volontà»70. Nella natura intellettuale, infatti, l’origine è il suo punto di partenza, ossia il «ciò che è»; questo punto di partenza [o principio], ovvero il «ciò che è», genera da sé l’intelletto, ossia il «che cos’è»; ad essi segue l’intenzione del fine, che si chiama «volontà» o «amore»71. Pertanto, tutte le cose sono nel «ciò che è», e questo modo di essere si chiama «memoria intellettuale». Tutte le cose sono nel «che cos’è», e questo modo di essere si chiama «intelletto», perché, in quanto presenti nell’intelletto, le cose sono e vengono comprese nella loro ragion d’essere. Tutte le cose sono nel fine a cui si tende, e questo modo di essere si chiama «volontà» o «desiderio». Queste considerazioni relative al tempo senza-tempo mostrano che l’anima è una somiglianza dell’eternità, e che essa contempla la vita eterna72, che è il solo oggetto del suo desiderio, attraverso se stessa, come attraverso una somiglianza dell’eternità, così come l’immagine intellettuale della vita eterna, o dell’eterna quiete, contempla la propria verità, di cui essa è immagine e senza la quale non può avere quiete. L’immagine della quiete, infatti, trova la sua quiete solo nella quiete73. Per questo, tutto ciò che, a motivo della perfezione della sua essenza, l’anima trova in se stessa – ossia, l’unitrinità del tempo senza-tempo, la generazione di un secondo tempo che succede al primo, la processione di un terzo tempo da entrambi, l’uguaglianza di natura delle tre ipostasi del tempo senzatempo e la non esistenza di un’ipostasi nell’altra, e così via –, tutto questo l’anima lo trasferisce al suo principio, per poterlo in qualche modo contemplare in se stessa «come in uno specchio» e attraverso un’immagine74.
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Et hic intellectus animae, quo in se intelligit mundum notionaliter complicari quasi in universali lumine rationis lucis aeternae, quae est causa sui et omnium, ad hoc tantum ordinata est, ut – dum se omnia complicare notionaliter sive assimilative intelligit et suam notionem non esse rationem seu causam rerum, ut realiter id sint quod sunt – ad causae suae et omnium inquisitionem medio sui se convertat et dicat: In causa mei, quae in me causato relucet, ut sim notionalis mundi complicatio, est necessario essentialis omnium causabilium aeterna complicatio ut in adaequatissima omnium et singulorum ratione essendi pariter et cognoscendi. In cuius universalis causae similitudine participo eius dono intellectuale esse, quod consistit in universali essendi et cognoscendi similitudine universalis causae. In me enim relucet universalitatis et omnipotentiae ipsius causae virtus rationalis, ut, dum in me intueor ut eius imaginem, ipsum possim contemplando per meiipsius transcensum propius accedere. Ut enim me in omnibus videam, alteritatem ab omnibus separo. Ut autem causam meam videre queam, me ut causatum et imaginem linquere oportet. Alias rationis meae vivam rationem non attingam. Ad hoc autem, ut anima mundum hunc et seipsam linquat, quae ad visionem dei et suae rationis anhelat, tendit doctrina «Christi filii dei», qui promittit nobis hac via ostensionem patris sui «creatoris omnium», prout haec in evangelio explicantur. 15 Adhuc, quia quidam dixerunt animam harmoniam, dicamus de hoc: Harmonia, quae videtur in multis harmonicis concordantiis,
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Inoltre, l’intelletto dell’anima – mediante il quale l’anima comprende che il mondo è complicato in lei in maniera concettuale75 (quasi come è complicato nello splendore universale della ragione della luce eterna, che è la causa dell’intelletto di tutte le cose76) – è ordinato solo a questo fine: a fare in modo, cioè, che, quando comprende di complicare in se stessa tutte le cose in maniera concettuale [nozionale] e vede che la nozione che essa ha delle cose non è la loro ragion d’essere, ossia la causa che fa sì che le cose siano realmente ciò che esse sono, l’anima si volga a cercare, con la mediazione dell’intelletto, quella che è la sua causa e la causa di tutte le cose, e pertanto dica: «La mia causa risplende in me, che sono causata da essa77, in modo tale che io possa essere la complicazione concettuale del mondo. Nella mia causa, pertanto, vi è necessariamente la complicazione eterna ed essenziale di tutte le cose che possono essere causate, le quali sono complicate in essa come nel fondamento razionale assolutamente più adeguato di tutte e di ciascuna di esse, sia per quanto riguarda il loro essere, sia per quanto concerne la loro conoscenza. Nella somiglianza con una tale causa universale, io partecipo, per suo dono, dell’essere intellettuale, il quale consiste in una somiglianza universale con la causa universale, sia per quanto riguarda l’essere, sia per quanto concerne il conoscere. In me, infatti, risplende la forza universale che è propria dell’universalità e dell’onnipotenza di tale causa78, in modo tale che, quando vedo me stessa come sua immagine, mediante questa contemplazione, posso, trascendendo me stessa, avvicinarmi alla causa. Infatti, per poter vedere me stessa in tutte le cose, devo abbandonare me stessa in quanto causata e in quanto immagine79; altrimenti, non giungerei a cogliere il fondamento vivo e razionale della mia ragione». Ed è questo il fine a cui tende l’insegnamento di «Cristo, il Figlio di Dio»80: che l’anima, la quale anela alla visione di Dio e del suo fondamento razionale81, abbandoni questo mondo e se stessa. Cristo ci promette, attraverso questa via, la rivelazione del Padre suo82, il «creatore di tutte le cose», come è spiegato nel Vangelo83. Inoltre, poiché alcuni84 hanno sostenuto che l’anima è un’«armonia», diciamo qualcosa su questo argomento. L’armonia, che si può osservare in molte concordanze armoniche85, sembra essere in
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in se videtur esse anima. Et primo videtur consonantia, deinde ratio eius; et ex his videtur sequi delectatio. Consonantia harmonica videtur quasi ‹quia est› et praesuppositum; et ipsa suiipsius rationem seu numerum generat, in qua se ut in «figura substantiae» suae intelligit seu intuetur; ex quibus oritur delectatio. Ut illius harmonicae consonantiae, quae dicitur diapason, ratio est habitudo dupla, in qua proportione diapason, si foret intellectus, se cognosceret et videret sicut in adaequatissima et consubstantiali ratione, quae est «figura substantiae eius», in qua cognoscit se quid sit. Nam cum interrogatur harmonia diapason in quo cognoscitur, dici debet quod in habitudine dupla. In illa enim se diapason cognoscit uti in conceptu seu rationali verbo suo. Ideo si diapason foret intellectus practicus et vellet se in instrumentis musicis sensibilem facere, hoc faceret medio rationis propriae et consubstantialis, in qua se cognoscit, scilicet medio habitudinis duplae. Et uti de diapason dictum est, ita universaliter de harmonia absoluta ab omni contractione diapason, diapente et diatessaron, prout in se videtur; in qua est harmonica concordantia memoria, ratio concordantiae intellectus; ex quibus delectatio quae voluntas. Omnem igitur sensibilem harmoniam in alteritate anima per se attingit, sicut per intrinsecum attingit extrinsecum. 16 Sic universaliter de omni mathematica et alia scientia dicendum. Per verbum enim, per quod se attingit, etiam omnia attingit. Ac si circulus mathematicalis foret memoria se attingens in ratione sua, scilicet quia habet centrum aeque distans circumferentiae, in hac ratione cognosceret se et omnes formabiles circulos, quos etiam per hanc rationem formaret, sive terreos sive aereos, sive magnos sive parvos. In hoc ut in aenigmate anima videt in aeternitate principium creationis aeternum per rationem suae notitiae omnia
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se stessa l’anima. Anzitutto si vede l’accordo e poi la sua ragione, e si vede che da essi deriva un diletto. L’accordo armonico sembra quasi come il «ciò che è» e come il punto di partenza; ed esso genera la propria ragione o il proprio numero, in cui esso comprende se stesso, o vede se stesso, come in una «figura della sua sostanza»86; da essi ha origine il diletto. Ad esempio, la ragione di quell’accordo armonico che si chiama «ottava» è un rapporto doppio87. Se l’ottava fosse un intelletto, in questa proporzione essa si conoscerebbe e si vedrebbe come in una ragione ad essa adeguatissima e consostanziale, che è «la figura della sua sostanza», nella quale l’ottava conoscerebbe che cosa essa sia. Infatti, se uno chiedesse «da che cosa si conosce l’armonia di un’ottava», bisognerebbe rispondere: dal rapporto doppio. Nel rapporto doppio, infatti, l’ottava si conosce come nel proprio concetto o nella propria parola [verbo] razionale. E così, se l’ottava fosse un intelletto pratico e volesse rendersi percepibile negli strumenti musicali, lo farebbe mediante la sua ragione consostanziale, nella quale essa si conosce, ossia per mezzo del rapporto doppio. E quello che abbiamo detto dell’ottava vale in generale per l’armonia considerata in se stessa, separatamente cioè da ogni sua contrazione nell’ottava, nella quarta e nella quinta88; in una tale armonia, la concordanza armonica è la memoria, la ragione della concordanza è l’intelletto e da essi se nasce il diretto, che è la volontà. Ogni armonia sensibile, quale è presente nell’alterità, l’anima giunge pertanto a coglierla mediante se stessa, così come essa coglie ciò che è esterno mediante ciò che è [ad essa] interno. Dobbiamo dire qualcosa di simile per quanto concerne, in generale, tutte le scienze matematiche e ogni altra scienza. Mediante la parola con la quale coglie se stessa, l’anima, infatti, coglie anche tutte le cose. È come se un cerchio matematico avesse una memoria con la quale potesse cogliere la sua definizione razionale, ossia che un cerchio è una figura geometrica il cui centro è equidistante dalla circonferenza89; in una tale definizione la memoria di quel cerchio conoscerebbe se stessa e tutti cerchi che è possibile costruire, e che essa, quindi, potrebbe costruire mediante quella definizione, siano essi di ferro o di bronzo, grandi o piccoli. Attraverso questo esempio, come attraverso un simbolo, l’anima può vedere che, nell’eternità, il principio eterno della creazione crea tutte le cose che pos-
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creabilia creare. Sicut si entitas foret principium creationis, tunc per rationem entitatis suae omnia entia crearet, prout hoc exprimitur per theologum Ioannem de logo seu rationali verbo principii, per quod asserit omnia facta esse. 17 Et cum attendis, quomodo ratio quiditatis entis est et ratio omnium formabilium entium ac quod ratio illa est ante alteritatem, scilicet ubi universale et particulare non sunt alia et diversa sed coincidunt, tunc vides ipsam rerum rationem esse sic universalem quod est et particularis omnium. Omne enim qualitercumque formabile non est extra illam rationem formabile et non est in ratione nisi ratio. Concipe igitur rationem formabilium et formabile idem! Tunc vides, quomodo eadem ratio est omnium formabilium ratio, quia, sicut universaliter est omnium pariter et singulorum formabilium ratio, ita est universaliter omne pariter et quodlibet formabile, cum in ipso sint idem. Creatura autem, quae exit ab illa ratione, non sic se habere potest quod ratio et formabilitas eius sint idem. Tunc enim non esset creatura, sed verbum creatoris. Sed cum sit secundum rationem et formabilitatem propriam exiens, non est verbum, sed eius similitudo in eo quod ab ipso secundum propriam rationem et formabilitatem, quae in verbo sunt verbum, exivit. 18 Sicut si grammatica absoluta foret intellectus, qui se in sua prae cisa ratione seu diffinitione cognosceret: in illa etiam omnia, quae sciri aut extrinsece dici vel eloqui sive proferri possent, cognosce-
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sono essere create per mezzo del suo principio razionale. Ad esempio, se il principio della creazione fosse l’entità stessa, esso creerebbe tutti gli enti mediante il principio razionale della propria entità90, come ci viene riferito dal teologo Giovanni a proposito del Logos91, ossia del Verbo razionale del principio, attraverso il quale – come afferma Giovanni – sono state fatte tutte le cose92. Inoltre, se presti attenzione al fatto che il principio razionale della quiddità dell’ente è anche il principio razionale di tutti gli enti che possono essere formati93, e che tale principio razionale precede l’alterità – ossia è presente dove l’universale e il particolare non sono differenti l’uno dall’altro94 –, allora vedrai che il principio di razionale delle cose è un principio così universale da essere anche il principio di tutte le cose particolari. Infatti, ogni cosa che può essere formata, in qualunque modo ciò possa avvenire, non può essere formata al di fuori di quel principio razionale, e in esso ogni cosa non è altro che quel principio razionale stesso. Se concepisci, pertanto, che il principio razionale delle cose formabili e ciò che può essere formato sono un’unica ed identica cosa, allora vedrai che un unico ed identico principio razionale è il principio razionale di tutte le cose formabili. Infatti, come esso, in maniera universale, è il principio razionale di tutte le cose formabili e, parimenti, di ciascuna di esse, così è, in maniera universale, tutto ciò che è formabile e ogni realtà formabile, in quanto nel principio razionale [ciò che è formabile e il principio] sono un’unica ed identica cosa. La creatura, tuttavia, che proviene da quel principio razionale, non può essere tale che, in essa, il principio razionale e la formabilità della creatura siano la stessa cosa. In questo caso, infatti, essa non sarebbe una creatura, ma sarebbe il Verbo del creatore. Tuttavia, dal momento che la creatura proviene dal Verbo del creatore secondo un proprio principio e una propria formabilità, essa non è il Verbo, ma è una sua similitudine, per il fatto di essere derivata dal Verbo secondo un proprio principio razionale e una propria forma, che, nel Verbo, sono il Verbo stesso. È come se la grammatica, considerata separatamente in se stessa, fosse un intelletto che si conoscesse nel proprio preciso principio razionale, ovvero nella propria definizione. In questo caso, nel proprio principio razionale l’intelletto conoscerebbe tutto ciò che
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ret, quia ratio illa universaliter et particulariter omnia talia qualitercumque scibilia et dicibilia complecteretur, ita quod nihil dici posset grammatice, quin secundum illam rationem et dicibilitatem cum illa ratione coincidentem dici oporteret. Omnis igitur elocutio secundum propriam rationem et dicibilitatem, quae in ratione grammaticae erant eius ratio, exierit ad sensibilem mundum, sicut erant in ratione seu verbo grammaticae. Dico ‹sicut erant in verbo›, quoniam non possent aliter exire, scilicet per alteritatem quae non est forma essendi, sed ‹sicut erant in verbo› verbum, quemadmodum verbum prolatum verum est, quia conformatur interno sive menti. Exivit enim de verbo interno taliter quod, sicut erat internum, sic est et elocutum verbum. Spiritus autem, sine quo non potest fieri prolatio, «procedit a patre» verbi et verbo et est consubstantialis eis quia coaeternus. Praecedit enim creaturam sicut voluntas extrinsecam elocutionem ut causa ipsius elocutionis; quae est tricausalis: efficiens, formalis et finalis; de quo alibi. 19 Et sicut de grammatica dictum est, ita te eleves ad absolutum magisterium, in quo omnis ars et scientia complicantur. Et pari modo videas rationem magisterii illius se habere, ut de ratione grammaticae audisti; similiter et de spiritu, sine quo non est internus motus et consequenter expressio magisterii in creaturis tam intelligibilibus quam sensibilibus. Diceres: Cum magnus Augustinus
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sarebbe possibile conoscere a proposito della grammatica, o tutto ciò che si potrebbe dire esternamente o esprimere o proferire su di essa, in quanto quel principio razionale abbraccerebbe, in senso universale e particolare, qualunque cosa si possa conoscere o esprimere a proposito della grammatica, per cui non si potrebbe dire nulla di relativo alla grammatica che non debba essere detto in conformità con quel principio razionale e secondo quella possibilità di espressione che coincide con tale principio razionale. In questo caso, pertanto, ogni espressione verrebbe alla luce nel mondo sensibile secondo quel suo principio razionale e quella sua esprimibilità che, nel principio razionale della grammatica, erano questo stesso principio; tutte le espressioni verrebbero quindi alla luce nel mondo sensibile così come esse erano presenti nel principio razionale, o nel verbo della grammatica. Dico «come erano presenti del verbo», in quanto esse non potrebbero venire alla luce in un altro modo, ossia mediante l’alterità, la quale non è una forma di essere; piuttosto, esse verrebbero alla luce «come erano nel verbo», dove erano il verbo stesso, così come la parola [verbo] che viene proferita è vera in quanto si conforma alla parola [verbo] interiore, ossia alla mente. Essa, infatti, è fuoriuscita dalla parola [verbo] interiore, in modo tale che, com’era parola interiore, così è anche parola proferita95. Ma il soffio [spirito], senza il quale non può realizzarsi il proferire, «procede dal padre»96 della parola e dalla parola ed è della loro stessa sostanza97, in quanto è coeterno a loro. Infatti, lo spirito precede la creatura, così come la volontà, in quanto causa dell’espressione, precede l’espressione esterna; e tale volontà è tricausale: è causa efficiente, causa formale e causa finale. Ho scritto altrove su questo tema98. E sulla base di quanto abbiamo detto a proposito della grammatica, elevati ora al magistero assoluto, nel quale è complicata ogni arte e ogni scienza99. E anche in questo caso potrai vedere che il principio razionale di tale magistero si comporta in modo analogo a come hai ascoltato si comporta il principio razionale della grammatica; lo stesso vale anche per lo spirito, senza il quale non vi è alcun movimento interno e, di conseguenza, neanche alcuna espressione del magistero nelle creature, sia in quelle intelligibili che in quelle sensibili100. Tu potresti forse chiedere: «Dato che Agostino
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dicat animam, trinitatis imaginem, habere memoriam, a qua abdita intelligentia generatur et procedit ex his voluntas – quomodo hoc videri debeat? Dico memoriam intellectualem principium esse notionum. Sed non apparet nisi cognoscatur, sicut non apparet te memoriam habere primi principii ‹quodlibet est vel non est›, nisi in lumine notionis manifestetur. Cum enim rationi manifestatur, statim videtur semper fuisse verum et ita in memoria fuisse reperitur, sed non apparuisse nisi ratione manifestante. Unde memoria, quae principium, de se generat sui intellectum sicut memoria de primo principio aliquo de se generat sui notitiam. Hoc est quod dicit animam locum sive complicationem specierum. Intellectiva autem memoria est a materia separata. Et ob immunitatem talem potest reflecti super species intelligibiles et eas intelligere. Et quia quod intelligitur cognoscitur ut conveniens intelligenti, ideo consequitur voluntas. Proprietas autem consequens animam, in quantum est specierum intelligibilium retentiva, memoria dicitur. Illa, per quam super species intelligibiles convertitur cognoscendo, intelligentia dicitur. Illa, per quam ad eas intellectas afficitur, voluntas nominatur. Qui dicebant addiscere nostrum esse reminisci, hanc absconditam memoriam intellectualem aliqualiter viderunt. 20 Adhuc dico: Nonne, si memoriam in se vides, quam in aliis et aliis memorabilibus vidisti, comperis animam esse memoriam? Sic de intellectu in intellectis et in se; et voluntate[m] in volitis et in se. Vides sic animam esse memoriam, intellectum et voluntatem in se. Si autem memoriam vides in sua ratione, in qua se cognoscit, tunc etiam vides quod in eadem ratione omnia memorabilia cognoscit, palam quod nihil cognoscibile nisi memoretur. Si
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diceva101 che l’anima, che è un’immagine della Trinità, possiede la memoria, da cui viene generata l’intelligenza, che giaceva prima nascosta, e da entrambe procede la volontà, come bisogna interpretare questa affermazione?». Ti rispondo che la memoria intellettuale è il principio dei concetti102, ma essa non appare se non viene conosciuta, anche se non appare che tu abbia una memoria del primo principio, «qualunque cosa esso sia o non sia», se esso non si manifesta nel lume della ragione. Quando, infatti, diventa manifesto alla ragione, si vede subito che è stato sempre vero103, e così si scopre che esso era nella memoria, ma che non sarebbe apparso se la ragione non l’avesse manifestato. Di conseguenza, la memoria, che è un principio [dei concetti], genera da se stessa un intelletto di sé, così come la memoria del primo principio genera da se stessa una conoscenza di sé. Questo è ciò che Agostino intende dire quando dice che l’anima è il luogo o la complicazione delle specie104. Ma la memoria intellettiva è separata dalla materia. E, in virtù di tale immunità, essa può riflettere sulle specie intelligibili e può intenderle. E poiché ciò che viene inteso viene conosciuto come qualcosa che conviene a colui che intende, per questo all’intendere segue la volontà. Ora, l’operazione caratteristica che è propria dell’anima, in quanto trattiene in se stessa le specie intelligibili, viene chiamata «memoria»105. Quella mediante la quale l’anima, nell’atto conoscitivo, si rivolge alle specie intelligibili viene chiamata «intelligenza». Quella per la quale l’anima avverte una disposizione nei confronti delle specie che ha inteso viene chiamata «volontà». Coloro che dicevano che il nostro apprendere è un ricordare videro in qualche modo questa memoria intellettuale nascosta106. Inoltre, ti chiedo: se la memoria, che hai visto presente in diverse cose che possono essere memorizzate, la vedi in se stessa, non scopri allora che l’anima è memoria? Lo stesso vale per l’intelletto, che hai visto nelle cose che vengono intese e in se stesso, e per la volontà, che hai visto nelle cose volute e in se stessa. In questo modo, vedi che l’anima è, in se stessa, memoria, intelletto e volontà107. Ora, se vedi la memoria nel suo principio razionale, nel quale essa conosce se stessa, allora vedi anche che, in un tale principio razionale, la memoria conosce tutte le cose che si possono ricordare, ed è evidente che non è possibile conoscere nulla se esso non vie-
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igitur memoria seipsam cognoscit et solum memorabile sit cognoscibile, utique, dum in se omne memorabile cognoscit, omne cognoscibile cognoscit. Revelat igitur intellectus absconditam memoriam, cum nihil sit intellectus nisi memoriae intellectus. Et voluntas nihil est nisi memoriae simul et intellectus voluntas. Quod enim in memoria et intellectu simul non reperitur, neque in voluntate esse potest. Diceres: Apparet te nunc aliter dicere quam supra, ubi ‹quia› attribuisti memoriae et ‹quid› intellectui; ‹quia› autem citius videtur quam ‹quid›; quomodo nunc ais quod intellectus revelet memoriam? Dico: ‹quia› citius videtur, sed non intelligitur nisi per intellectum eius. Prius videtur in memoria, sed ut ibi videtur, ‹quia› et non ‹quid› est. Dicitur autem intellectualiter occultum, quamdiu non videtur in sua ratione, in qua solum intelligitur. Omne enim extra lucem intelligentiae quid sit ignoratur. Et cum anima intellectiva in intelligere vivat, quamdiu aliquid non intelligit, in se non reperit vitaliter, sed est sibi absconditum sicut sensibile visui id, quod auditu tantum percepit, manet absconditum, quousque videat. 21 Oportet autem te attentum esse ne te varietas modi dicendi impediat. Nam intellectualem memoriam saepe doctores nominant intellectum, ut dum dicunt intellectum suae intelligentiae conceptum seu verbum de se generare. Intelligas intellectum pro parte quae memoria intellectualis capi. Intellectus etiam capitur, ut est alicuius intellectus, scilicet memoriae, sicut filius alicuius filius, scilicet patris. Et ita intellectus est verbum memoriae intellectualis, quod logos graece dicitur. Diceres: Nonne verbum se intelligit? Et si sic: In verbo igitur seu logo de se genito se intelligit. Ita erit verbum verbum generans in infinitum. Dico: Sicut memoria se intel-
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ne ricordato. Se la memoria, pertanto, conosce se stessa, e se soltanto ciò che può essere ricordato è conoscibile, allora, quando la memoria conosce in se stessa tutto ciò che si può ricordare, essa, certamente, conosce tutto ciò che è conoscibile. Pertanto, la memoria, che è nascosta, viene rivelata dall’intelletto, in quanto l’intelletto non è che l’intelletto della memoria. E anche la volontà non è che volontà della memoria e, al contempo, volontà dell’intelletto. Infatti, ciò che non si trova né nella memoria, né nell’intelletto, non può essere neanche nella volontà. Mi potresti obiettare: «Sembra che tu ora stia dicendo qualcosa di diverso rispetto a quello che hai sostenuto prima, quando hai a attribuito il “che è” alla memoria e il “che cos’è” all’intelletto108. Ma il “che è” lo si vede più facilmente rispetto al “che cos’è”. Come puoi ora affermare che l’intelletto rivela la memoria?». Rispondo: il «che è» viene visto più facilmente, ma non viene inteso se non quando viene compreso dall’intelletto il «che cos’è». Il «che è» lo si vede prima nella memoria, ma esso viene visto come «che è» e non come «che cos’è». Diciamo che esso resta nascosto in maniera intellettuale, finché non lo si vede nel suo principio razionale, solo nel quale esso viene inteso. Infatti, tutto ciò che è al di fuori della luce dell’intelligenza non si sa che cosa esso sia. E dal momento che la vita dell’anima intellettiva consiste nell’intendere, fino a che qualcosa non viene inteso esso non è presente in lei in modo vitale, ma le resta nascosto, così come un oggetto sensibile, che venga percepito solo con l’udito, resta nascosto alla vista fino a che essa non lo vede. Devi tuttavia prestare attenzione al fatto che la varietà dei modi di dire non ti sia di ostacolo. Infatti, i dottori109 spesso chiamano la memoria intellettuale «intelletto», come quando dicono che l’intelletto genera da se stesso un Verbo, o una nozione del suo essere intellettuale110. Il termine «intelletto» lo devi intendere come riferito al Padre, che è la memoria intellettuale. Per «intelletto» si intende anche l’intelletto di qualcosa, ovvero della memoria, così come un figlio è figlio di qualcuno, ossia di un padre. In questo senso l’intelletto è il verbo della memoria intellettuale, che in greco si chiama «logos»111. Potresti forse dire: «Il verbo non comprende se stesso? E se è così, allora si comprende mediante un verbo, o un “logos”, generato da sé, per cui ci sarà un verbo che genera un altro ver-
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ligit in verbo suo, sic et verbum se intelligit in memoria, non quod memoria sit verbum verbi, sicut cum filius se in patre filium intelligit, non ut a se genito, sed ut in suo principio. Memoria igitur se et omnia intelligit in verbo a se genito. Verbum vero se et omnia intelligit, quia verbum seu ratio intellectualis genita in se omnia complicans, sicut pater in filio suo se noscit patrem et filius in patre suo se noscit filium. 22 Miraris quomodo se noscit verbum sine suiipsius conceptu seu verbo de se genito, cum intelligere non sit sine concipere. Sed cum advertis quod concipere est commune ad generantem et genitum – pater enim generans non potest se ut patrem cognoscere nisi in conceptu geniti sui filii, et filius non potest se filium cognoscere nisi in conceptu generantis sui patris –, concipere autem non dicit generare in filio, sicut dicit in patre, sed generari. Unde pater non habet a filio quod se cognoscit, licet sine filio non se cognoscat patrem. Cum autem sit naturaliter intelligens, naturaliter de se generat, sine quo nec se nec quidquam intelligeret nec intelligi posset. Generat igitur de sua intellectuali substantia consubstantiale verbum, in quo se et omnia intelligit. Verbum igitur illud est, sine quo nec pater nec filius nec spiritus sanctus nec angeli nec animae nec omnes intellectuales naturae quidquam intelligere possunt. Et omnibus intelligentibus sufficit ut intelligant. Et non habet opus verbum, quod sibi et omnibus sufficit, ut suiipsius verbum generet, cum sit omne verbum, quod generari potest, aequale scilicet genito, patre aeterno et infinito. Cognoscit igitur verbum in se omnia, quia verbum patris, in
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bo, e così via all’infinito». Rispondo: come la memoria comprende se stessa nel proprio verbo, così anche il verbo comprende se stesso nella memoria, senza che, per questo, la memoria sia un verbo del verbo, così come un figlio comprende se stesso come figlio nel proprio padre, non come se il padre fosse generato dal figlio, ma in quanto il figlio si comprende nel suo principio. La memoria, pertanto, comprende se stessa e tutte le cose nel verbo che essa ha generato da sé. Ma il verbo comprende se stesso e tutte le cose, perché il verbo, o la ragione intellettuale che viene generata, comprende in se stesso tutte le cose, come un padre si conosce come padre in suo figlio e un figlio si conosce come figlio in un suo padre112. Dal momento che non c’è comprensione senza un concepire, ti chiedi con meraviglia come il Verbo possa conoscere se stesso senza avere un concetto di sé, o un verbo che sia generato dal Verbo stesso. Puoi renderti conto di come questo sia possibile, se rifletti sul fatto che il concepire è comune a colui che genera e a chi è generato. Infatti, il Padre che genera non può conoscere se stesso come Padre se non nel concetto del Figlio suo generato, e il Figlio non può conoscere se stesso come Figlio se non nel concetto del Padre suo generante. Ma, nel caso del Figlio, concepire non significa generare, come avviene nel caso del Padre, ma significa essere generato. Di conseguenza, il Padre non ha dal Figlio il fatto di conoscere se stesso, anche se, senza il Figlio, il Padre non si conoscerebbe come Padre113. Dal momento che, tuttavia, il Padre per natura comprende, per natura genera da sé qualcuno senza il quale non potrebbe comprendere né se stesso, né qualsiasi altra cosa, né potrebbe egli stesso essere compreso. Allora, il Padre genera dalla sua propria sostanza intellettuale un Verbo consostanziale, in cui egli comprende se e tutte le cose114. Il Verbo, quindi, è ciò senza cui né il Padre, né il Figlio, né lo Spirito santo, né gli angeli, né le anime, né alcuna natura intellettuale, possono comprendere alcunché. E il Verbo è quanto basta a tutti gli esseri intelligenti per comprendere. Ma un Verbo che basta a se stesso e a tutti gli altri esseri non ha bisogno di generare un proprio verbo, in quanto ogni verbo che potrebbe essere generato sarebbe uguale al Verbo generato dal Padre eterno e infinito. Il Verbo, pertanto, conosce in se stesso tutte le cose, in quanto è il
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quo pater et spiritus sanctus et omnia. Pater se et omnia cognoscit in verbo, quia pater verbi; verbum se et omnia cognoscit, quia verbum patris. 23 Dico autem ex praemissis satis constare quod loquens, si intelligit verbum quod profert, ipsum sensibile verbum extrinsecum intelligit per insensibile intrinsecum. Et est ipsum intrinsecum verbum ex sua intelligentia genitum, scilicet rationalis intelligentiae conceptus, in quo intellectus se et sermonem extrinsecum intelligit. Puta esto quod intellectus loquentis sit absoluta aequalitas; verbum aequalitatis rationale, in quo se concipit, est conceptus simplicis, scilicet inalterabilis cui nec quidquam addi vel a quo nec quidquam subtrahi potest. In eo conceptu seu verbo suam quiditatem intuetur aequalitas et per hoc verbum omnem extrinsecum aequalitatis sermonem suum intelligit et omnia aequalitatis opera facit. Et quamvis nullum nomen nominabile possit convenire primo principio, cum ipsum omnem alteritatem antecedat – nomina vero omnia ad discretionem unius ab alio sunt imposita –, ideo discretio et nomen non perveniunt ad principium alteritatem antecedens. Tamen, si aequalitas capitur pro absoluto inalterabili, omnem alteritatem praecedens in esse et posse ita quod nec est nec potest esse aliud aut recipere mutationem quamcumque sive in plus sive in minus sive aliter, cum illa omnia, quae dici aut nominari aut concipi possunt, sint post ipsam, tunc est aequalius nomen primi aeterni principii. 24 Addamus igitur ob nostram infirmitatem quod sit intellectualis aequalitas, licet plus sit in infinitum quam intellectualis, et dicamus ipsum perfectissimum principium, quod aequalitas, utique se intelligere et ea quae operatur. Hoc enim ad omnem factorem ra-
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Verbo del Padre nel quale sono presenti il Padre, lo Spirito santo e tutte le cose. Il Padre conosce se stesso e tutte le cose nel Verbo, in quanto egli è il Padre del Verbo; il Verbo conosce se stesso e tutte le cose, in quanto è il Verbo del Padre. Sulla base di quanto abbiamo detto in precedenza115 credo risulti sufficientemente chiaro che, se chi parla intende la parola [verbo] che proferisce, intende questa parola [verbo] sensibile esterna mediante la parola interna e non sensibile. E lo stesso verbo interno, generato dalla sua intelligenza116, è il concetto razionale dell’intelligenza, in cui l’intelletto comprende se stesso e il suo verbo esteriore117. Ad esempio, supponiamo che l’intelletto di colui che parla sia l’uguaglianza assoluta; la parola [verbo] razionale di tale uguaglianza, nella quale essa ha concepito se stessa, è un concetto semplice, ovvero inalterabile, a cui non può essere aggiunto nulla e da cui nulla può essere sottratto118. In questo concetto o parola [verbo], l’uguaglianza coglie intuitivamente la propria quiddità, e, mediante questa parola, comprende ognuna delle parole che essa proferisce all’esterno e realizza tutte le sue opere. Al primo principio, tuttavia, non può convenire alcun nome nominabile119, in quanto il primo principio precede ogni alterità120, mentre tutti i nomi vengono imposti per distinguere una cosa dall’altra121; per questo motivo, la distinzione e il nome non possono essere riferiti al principio che precede l’alterità. Ciononostante, «uguaglianza» può essere inteso come un nome molto adeguato per indicare il principio primo ed eterno, se esso viene inteso come un termine che designa ciò che è assolutamente inalterabile, che precede ogni forma di alterità, sia per quanto riguarda l’essere, sia per quanto concerne ciò che può-essere, di modo che una tale «uguaglianza» non è, né può essere qualcosa di altro, né può ammettere alcun tipo di mutamento, o in più, o in meno, o un mutamento di altro genere, in quanto tutto ciò di cui si può parlare, che può essere nominato e concepito, è successivo ad essa122. A motivo della nostra debolezza123, aggiungiamo che l’uguaglianza è intellettuale, anche se essa è infinitamente più che intellettuale, e diciamo che quel principio assolutamente perfetto124 che è l’uguaglianza comprende sia se stesso, sia le opere che esso compie125. Nessuno infatti dubita che tale comprensione spetti ad ogni
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tionalem nemo dubitat spectare. Domificator enim se intelligit esse talem et scit quid operatur. Nisi enim creator creaturae se sciret creatorem et quid crearet, non esset creatura plus creatura quam non creatura et caelum non esset plus caelum quam non caelum et ita de omnibus. Si igitur aequalitas absoluta est idem quod creator caeli et terrae, tunc se scit esse aequalitatem et scit omnia quae facit. Necesse erit utique quod verbum cognoscentiae suae, in quo se cognoscit, sit suiipsius aequalitas. Non enim potest aequalitas verbum seu conceptum suiipsius alium formare quam aequalitatis. Ratio igitur aequalitatis, per quam se cognoscit, quam nos nitimur exprimere per inalterabile, non est nisi diffinitio seu «figura substantiae eius». Quare eius aequalitas sic est aequalitatis aequalitas. Sequitur igitur quod una est aequalitas, quae est aequalitas et aequalitatis aequalitas; est igitur aequalitas de se generans verbum, quod est eius aequalitas; a quibus procedit nexus, qui est aequalitas. Quem nexum spiritum caritatis dicimus, quoniam ex aequalitate generante et aequalitate genita non potest procedere nisi aequalitas, qui nexus seu amor dicitur. Ac si diceretur: Absoluta aequalitas est caritas; est igitur caritas intellectualis de se generans conceptum essentiae suae, qui non potest esse nisi caritas caritatis, a quibus utique non potest nisi caritas, quae est utriusque nexus, procedere. Non possunt autem esse tres aequalitates, quoniam, si una esset una et alia alia, utique alia ante alteritatem non foret, ubi solum aequalitas esse potest. 25 Unde impossibile est plura esse omnino aequalia, cum plura esse non possint, nisi sint alia et alia et distincta in essentiis. Non erunt igitur plures aequalitates, sed ante omnem pluralitatem erit
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agente razionale. Un costruttore, ad esempio, comprende di essere un costruttore e sa che cosa sta facendo. In effetti, se il creatore delle creature non sapesse di essere il creatore e non conoscesse ciò che ha creato, la creatura non sarebbe una creatura più che una non-creatura, e il cielo non sarebbe cielo più che non-cielo, e così via. Se, pertanto, l’uguaglianza si identifica con il creatore del cielo e della terra126, allora essa sa di essere l’uguaglianza e conosce tutto ciò che essa fa127. Certamente, la parola [verbo] di questa sua conoscenza dovrà necessariamente essere la sua uguaglianza, nella quale l’uguaglianza conosce se stessa. Infatti, l’uguaglianza non può formare una parola [verbo], o un concetto di se stessa che sia diverso dal concetto dell’uguaglianza. Pertanto, la ragione [concetto] dell’uguaglianza, mediante la quale essa si conosce e che noi cerchiamo di esprimere con il termine «immutabile», non è che la definizione o «la figura della sostanza» dell’uguaglianza128. Per questo motivo, la sua uguaglianza è come un’uguaglianza dell’uguaglianza. Da ciò segue, pertanto, che vi è un’unica uguaglianza, la quale è sia uguaglianza, sia uguaglianza dell’uguaglianza129; vi è quindi l’uguaglianza che genera da sé una parola [verbo], la quale è la sua uguaglianza; da entrambe queste uguaglianze procede il nesso, il quale è [anch’esso] uguaglianza. Noi chiamiamo tale nesso «spirito di carità», perché dall’uguaglianza che genera e dell’uguaglianza generata non può procedere che un’uguaglianza, che viene chiamata «nesso» o «amore»130. È come se noi dicessimo che «l’uguaglianza assoluta è amore»; pertanto, l’amore intellettuale genera da se stesso un concetto della propria essenza, il quale non può essere che amore dell’amore, e da essi non può certamente procedere se non l’amore, il quale è il nesso di entrambi. Tuttavia, non possono esservi tre uguaglianze, in quanto se una di esse fosse un’uguaglianza e un’altra fosse un’altra uguaglianza, allora quest’ultima non sarebbe anteriore all’alterità, mentre può esservi uguaglianza solo là dove vi è una tale anteriorità. È impossibile, pertanto, che una pluralità di cose sia perfettamente uguale, in quanto tali cose possono essere una pluralità solo se sono diverse l’una dall’altra e distinte per quanto riguarda le loro essenze. Di conseguenza, non vi sarà una pluralità di uguaglianze131, ma, piuttosto, prima di ogni pluralità, vi sarà l’u-
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aequalitas generans verbum, aequalitas genita et aequalitas ab utroque procedens. Et quamvis generans non sit genita nec procedens, non tamen est aequalitas generans alia aequalitas quam aequalitas genita et aequalitas procedens. Numerus igitur, quo nos numeramus aequalitatem generantem, aequalitatem genitam et aequalitatem procedentem, cum sit ante alteritatem, non est numerus per nos intelligibilis, cum non videamus numerum sine alteritate in numeratis, nisi respexerimus ad numerum in se ante alia numerabilia, ubi tria sunt ante tria. Tria enim dicimus, quae per tria numeramus et numerum dicimus tria, per quem tria numeramus. Numerus non dependet a numeratis. Unde numerus in se quoad nos non est nisi anima, ut superius dictum est; numerus in aequalitate absoluta non est nisi aequalitas generans, genita et procedens; in aequalitate sunt numerus qui aequalitas et non tria numero aequalia, sed tres aequalitatis subsistentiae vel hypostases. Videmus enim primo necessarium esse, ut affirmemus primum perfectissimum principium ante alteritatem aeternum esse et ideo nequaquam carere scientia sui et suorum operum. Ob hoc necessario affirmamus ipsum unitrinum – licet omnem nostrum conceptum excedat – ante alteritatem et numerabilia principium unum esse trinum. Patet ex his aequalitatem omnia verbo seu ratione sua creare. Ideo omnia in tantum sunt, in quantum aequalitatis rationem participant. Quod autem nulla duo reperiantur omnino aequalia est, quia duo aequalitatem aequaliter participare nequeunt. 26 Nihil igitur est expers aequalitatis, cum ratio aequalitatis sit forma essendi, sine qua non potest quidquam subsistere. Quiditas igi-
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guaglianza che genera una parola [verbo], l’uguaglianza generata e l’uguaglianza che procede da entrambe. E sebbene l’uguaglianza che genera non sia né l’uguaglianza generata, né l’uguaglianza che procede dall’una e dall’altra, tuttavia l’uguaglianza che genera non è un’altra uguaglianza rispetto all’uguaglianza generata e rispetto all’uguaglianza che procede da esse. Pertanto, il numero con cui numeriamo132 l’uguaglianza che genera, l’uguaglianza generata e l’uguaglianza che procede dall’una e dall’altra non è un numero che sia per noi comprensibile, in quanto esso precede l’alterità133; nelle cose numerate, infatti, noi possiamo vedere un numero senza alterità solo se guardiamo al numero in se stesso, che precede le diverse cose innumerabili, dove il numero tre è anteriore rispetto al tre [che riferiamo alle cose]. Infatti, diciamo «tre» quelle cose che numeriamo con il tre, e chiamiamo «tre» il numero con cui numeriamo le tre cose. Il numero non dipende dalle cose numerate. Per cui, in riferimento a noi, il numero, considerato in se stesso, non è che l’anima, come abbiamo detto in precedenza134; nell’uguaglianza assoluta, il numero non è che l’eguaglianza che genera, l’uguaglianza che è generata e l’uguaglianza che procede dall’una dell’altra; nell’uguaglianza, esse sono un numero che è l’uguaglianza stessa e non sono tre cose uguali di numero, ma sono tre sussistenze, o ipostasi, dell’uguaglianza. Vediamo, infatti, che è necessario anzitutto affermare che il primo principio assolutamente perfetto precede l’alterità ed è eterno, per cui non è in alcun modo privo della conoscenza di se stesso e delle sue opere135. Per questo motivo, dobbiamo necessariamente affermare che il principio è unitrino, e che il principio uno, sebbene ecceda ogni nostro concetto, è trino in un modo che precede ogni alterità e tutte le cose che possono essere numerate. Sulla base di queste considerazioni risulta evidente che l’uguaglianza crea tutte le cose mediante la sua parola [verbo] o la sua ragione. E così, tutte le cose esistono in quanto partecipano della ragione dell’uguaglianza. Che, invece, non sia possibile trovare due cose che siano del tutto uguali, ciò è dovuto al fatto che due cose non possono partecipare in modo uguale dell’uguaglianza136. Non vi è pertanto nessuna cosa che sia priva dell’uguaglianza137, in quanto la ragione dell’uguaglianza è la forma dell’essere, e senza di essa non può esistere nulla138. Pertanto, la [rispetti-
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tur omnium quae sunt est aequalitas, per quam omne quod est nec est plus nec minus, sed id quod subsistit; quae est omnibus aequalis essendi ratio. Hinc quiditas non potest recipere magis nec minus quia aequalitas. Nihil igitur omnium quae sunt est multiplicabile, quia omnia in tantum sunt, in quantum rationem aequalitatis participant, quam plura aequaliter participare nequeunt. Entitas igitur immultiplicabilis aequalitas est; ita substantia et animalitas et humanitas et omne genus et omnis species et omne individuum. Individualitas enim est immultiplicabilis aequalitas. Neque est quidquam verum, nisi in quantum participat aequalitatis unitatem seu rationem; sic nec iustum, nec virtuosum, nec bonum, nec perfectum. 27 Omnis scientia et ars in aequalitate fundantur. Regulae iuris aut grammaticales aut aliae quaecumque non sunt nisi participationes rationis aequalitatis. Reducere enim diversitatem motuum astrorum in aequalitatem est scientia astronomiae. Reducere diversitatem constructionum grammaticalium in regulam est scientia grammaticae. Ita de omnibus. Neque aliquod nomen habet quidquam veritatis in significatione nisi in aequalitate significantis et significati. Sic et ars quaecumque fundatur in aequalitate, ut pictoriae in aequalitate signi et signati, imaginis et exemplaris. Sic medicina ad aequalitatem complexionis respicit. Iustitia in regula aequalitatis «quod tibi vis fieri, alteri fac!» fundatur. Sublata aequalitate cessat prudentia, cessat temperantia et omnis virtus, quoniam in medio, quod est aequalitas, consistit. Sine aequalitate non intelligitur veritas, quae est adaequatio rei et intellectus, non est nec
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va] quiddità di tutte le cose che esistono è un’uguaglianza, grazie alla quale ogni cosa che esiste non è né qualcosa di più, né qualcosa di meno, ma è ciò che essa è. Questa uguaglianza è, per tutte le cose, l’adeguata ragion d’essere [di ciascuna]139. Per questo motivo, una quiddità non può ammettere né qualcosa di più, né qualcosa di meno, in quanto essa è un’uguaglianza. Di conseguenza, nessuna fra tutte le cose che esistono è moltiplicabile [replicabile], perché tutte le cose in tanto sono, in quanto partecipano della ragione dell’uguaglianza, della quale una molteplicità di cose non può partecipare in modo uguale. L’entità [di un ente], pertanto, non può essere moltiplicata [replicata], e lo stesso vale per la sostanza, per l’animalità, l’umanità, per ogni genere, ogni specie e per ogni individuo140. L’individualità, infatti, è un’uguaglianza che non può essere moltiplicata [replicata]. E nessuna cosa è vera se non in quanto partecipa dell’unità dell’uguaglianza, ossia della ragione dell’uguaglianza; allo stesso modo, nessuna cosa è giusta, o virtuosa, o buona, o perfetta [se non in quanto partecipa dell’unità dell’uguaglianza]. Ogni scienza e ogni arte ha il suo fondamento nell’uguaglianza. Le regole del diritto, o le regole grammaticali, o le regole di qualsiasi altra disciplina non sono che partecipazioni della ragione dell’uguaglianza. Ad esempio, la scienza dell’astronomia consiste nel ricondurre ad un’uguaglianza la diversità dei movimenti degli astri141. La scienza della grammatica consiste nel ricondurre ad un’uguaglianza la diversità delle costruzioni grammaticali. E così via, per tutte le scienze. Inoltre, un nome non ha alcuna verità in ciò che esso designa se non nell’uguaglianza tra il significante e significato. Allo stesso modo, anche ogni arte si fonda sull’uguaglianza; l’arte della pittura, d’esempio, si fonda sull’uguaglianza tra la raffigurazione e l’oggetto raffigurato, o tra l’immagine e l’esemplare142. In modo analogo, la medicina guarda all’uguaglianza della complessione organica143. La giustizia si fonda su questa regola dell’uguaglianza: «Fà agli altri ciò che desideri sia fatto a te»144. Se viene tolta l’uguaglianza, scompare la saggezza, scompare la temperanza ed ogni altra virtù145, in quanto ogni virtù consiste in un giusto mezzo, il quale è un’uguaglianza146. Senza l’uguaglianza non si può intendere la verità, la quale consiste nell’adeguazione del-
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vita nec esse nec tempus nec motus nec continuum. Non enim est motus nisi quietis continuatio. Et quid quies nisi aequalitas? Sic de nunc, quoniam tempus non est nisi ipsius nunc continuatio. Et quid nunc nisi aequalitas, quae nec potest esse maior nec minor? Sic linea non est nisi puncti evolutio. Quid punctus nisi aequalitas? Et ita vides penitus nihil posse subsistere nisi in aequalitate. In omnibus enim quae sunt, in quantum sunt, relucet aequalitatis ratio. Et non est illa ratio multiplicabilis aut alterabilis aut corruptibilis, cum sit omnium essendi ratio adaequata, quae non esset adaequata ratio, si non foret absolutae aequalitatis ratio. 28 Una est igitur omnium ratio sive mensura adaequata, scilicet aequalitas. Quae aequalitatis ratio nec est maior nec minor omnibus mensurabilibus, sicut una ratio circuli est omnium circulorum dabilium praecisa ratio et adaequata; cur nec plus nec minus sunt quam circuli, sive circuli fuerint inter se aequales sive inaequales quoad quantitatem et cetera accidentia. Concordia et pax et ordo aequalitas sunt, per quae omnia et sunt et conservantur. Sic pulchritudo, harmonia, delectatio et amor et quaeque talia aequalitas sunt. Non potes videre plura inaequalia sine aequalitate. In hoc enim concordant quia inaequalia. Concordia et similitudo quid aliud sunt quam aequalitas? Sic et dilectio et amicitia et simile simili applaudit ob aequalitatem. Et quamvis unitas videatur pater aequalitatis, quoniam aequalitas est semel sumpta unitas, ut alibi habes, tamen aequalitas absoluta complicat unitatem. Id enim, quod est aequale, uno modo se habet. In unitate enim non nisi ae-
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la cosa e dell’intelletto147, e non possono esservi né la vita, né l’essere, né il tempo, né il movimento, né il continuo. Il movimento, ad esempio, non è che una serie continua di momenti di quiete. E che cos’è la quiete, se non un’uguaglianza? Lo stesso vale per l’istante, in quanto il tempo non è che una serie continua di istanti. E che cos’è l’istante, se non un’uguaglianza che non può essere né maggiore, né minore? Allo stesso modo, la linea non è che lo sviluppo di un punto148. Ma che cos’è il punto, se non un’uguaglianza? E così vedi che non può esistere assolutamente nulla se non nell’uguaglianza. Infatti, in tutte le cose che sono, in quanto sono, risplende la ragione dell’uguaglianza. E questa ragione non è moltiplicabile, o alterabile, o corruttibile, in quanto è la ragion d’essere adeguata di tutte le cose, ed essa non sarebbe la ragione adeguata di tutte le cose se non fosse la ragione dell’uguaglianza assoluta. Di tutte le cose, pertanto, vi è un’unica ragion d’essere o un’unica misura adeguata, ed è l’uguaglianza. Questa ragione dell’uguaglianza non è né maggiore, né minore rispetto a nessuna cosa misurabile, così come l’unica ragione [definizione] del cerchio è la ragione [definizione] precisa e adeguata di tutti i possibili cerchi, quella ragione per la quale essi sono tutti né più, né meno che cerchi, sia che siano uguali fra di loro, sia che siano disuguali per quanto riguarda la loro grandezza o altre caratteristiche accidentali149. La concordia, la pace e l’ordine, grazie alle quali tutte le cose esistono e si conservano, sono una forma di uguaglianza. Allo stesso modo, la bellezza, l’armonia, il diletto, l’amore e tutte le cose di questo genere sono una forma di uguaglianza150. Senza l’uguaglianza, non puoi neppure vedere una molteplicità di cose disuguali. Cose che sono disuguali, infatti, concordano nel fatto di essere disuguali. E che cos’altro sono la concordia e la somiglianza, se non una forma di uguaglianza? Allo stesso modo, anche il piacere e l’amicizia sono una forma di uguaglianza, e pure il simile si accorda col simile a motivo dell’uguaglianza. E sebbene l’unità debba essere considerata come il padre dell’uguaglianza, in quanto l’uguaglianza è l’unità presa una volta sola, come sai da quanto ho detto altrove, tuttavia l’uguaglianza assoluta complica in sé l’unità. Ciò che è uguale, infatti, è in un unico modo. Nell’unità, in effetti, non si vede che l’uguaglianza. Allo stesso modo, dal mo-
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qualitas videtur. Sic bonum, cum «sit suiipsius diffusivum», non habet hoc nisi ab aequalitate; et aequaliter ab omnibus appetitur ob aequalitatem. Omnia sunt a seipsis indivisibilia propter indivisibilem cuiuslibet ad se aequalitatem. 29 Et quodlibet est modus quidam participationis aequalitatis, sicut si diceretur quantitatem participare absolutam magnitudinem et lineam quantam esse talem modum participationis magnitudinis, scilicet secundum longitudinem, et superficiem secundum latitudinem et corpus secundum profunditatem et figuram secundum speciem superficialem et circulum secundum figuram circularem et sphaeram secundum figuram sphaericam et cubum secundum figuram cubicam, et ita de infinitis talibus varie magnitudinem medio quantitatis participantibus. Quae quidem magnitudo non est nisi aequalitatis participatio. Quare similiter homo non est nisi quidam modus participationis animalitatis; et sic leo et equus. Et animalitas est participatio aequalitatis. Aequalitas vero aequaliter omnem essendi modum sive elementalem sive vegetabilem sive animalem sive rationalem sive intellectualem complicat; sed in aliis participatur aliter, cum aequalis participatio sit impossibilis. Aequalitas igitur omnibus aequaliter adest, sed aequaliter non recipitur; sicut solaris radius in prato omnibus herbis aequaliter adest, sed aequaliter non recipitur, ut herbae non sint nisi varii modi receptionis vigoris radii solaris, qui per ipsas participatur. 30 Nonne sublata aequalitate nihil intelligitur, nihil videtur, nihil subsistit, nihil durat? Quanto enim complexio aequalior, tanto sanior, perfectior et durabilior. Aequalitas ipsa est aeterna duratio. Aequalitas quae vita est aeterna vita. Intelligere intellectus est vivere. Vita in aequalitate consistit. Si igitur anima omnia lustrans vi-
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mento che il bene è «diffusivo di se stesso»151, esso non ha una tale proprietà che dall’uguaglianza; ed il bene è ciò che è ugualmente desiderato da tutti a motivo dell’uguaglianza. Tutte le cose sono indivisibili da se stesse in virtù dell’uguaglianza indivisibile che ciascuna ha con se stessa. E ogni cosa è un certo modo di partecipazione dell’uguaglianza. È come se si dicesse che la quantità partecipa della grandezza assoluta e che una quantità lineare è un modo determinato di partecipazione della grandezza, cioè secondo la lunghezza, e che la superficie è un modo determinato di partecipazione della grandezza secondo la larghezza, il corpo secondo la profondità, la figura secondo la superficie esteriore che la delimita, il cerchio secondo la figura circolare, la sfera secondo la figura sferica, il cubo secondo la figura cubica, e così via, per un numero infinito di cose che partecipano in varia maniera della grandezza attraverso la mediazione della quantità. E questa grandezza non è che una partecipazione dell’uguaglianza. Allo stesso modo, l’uomo non è che un certo modo di partecipazione dell’animalità, e lo stesso vale per un leone e un cavallo152. E l’animalità è una partecipazione dell’uguaglianza. L’uguaglianza, tuttavia, complica in sé, in maniera uguale, ogni modo di essere, quello degli elementi, quello vegetale, quello animale, quello razionale, quello intellettuale; ma l’uguaglianza viene partecipata in maniera diversa nelle diverse cose, in quanto una partecipazione uguale è impossibile153. Pertanto, l’uguaglianza è presente in modo uguale in tutte le cose, ma non viene recepita in ugual maniera, così come il raggio del sole è presente in modo uguale in tutti fili di erba di un prato, ma non viene recepito in ugual maniera, per cui i fili d’erba non sono che vari modi di ricezione della forza del raggio del sole, del quale raggio essi partecipano. Non è forse vero che, se viene rimossa l’uguaglianza, non vi è più nulla che possa essere compreso154, che possa essere visto, e non vi è più nulla che possa esistere o durare? Ad esempio, quanto più una complessione organica è uguale, tanto più è sana, perfetta e duratura. L’uguaglianza è essa stessa una durata eterna. L’uguaglianza, che è vita, è vita eterna. Per l’intelletto intendere significa vivere; e la vita consiste nell’uguaglianza. Pertanto, se l’anima, che
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det sublata aequalitate nihil remanere, concludit omnia ‹ex ipsa, per ipsam et in ipsa› esse. Si tuum in his exercitaveris intellectum et non ad vocabula, sed ad mentem applicaveris, multa praecisius semper prius tibi abscondita penetrabis. Nam id, quod de trinitate in sanctis scripturis et doctoribus ipsas explanantibus legis – «qualis pater talis filius et talis spiritus sanctus», et quod filius sit aequalis patri et similiter spiritus sanctus, et quod «alia est persona patris alia filii alia spiritus sancti» –, utique, dum ad dicta de aequalitate respicis, melius et firmius fide capies. 31 Id etiam, quod est omnium difficilium captu difficilissimum, quomodo scilicet erat trinitas ante omnem alteritatem, melius videbis, dum attendis, quomodo tres aequales personae non sunt aequales per accidens, sed per essentiam, cum sint sine alteritate aequales. Sic non sunt nisi eadem immultiplicabilis aequalitas, quae cum non accidat personis aut participetur ab eis, tunc est id, quod quaelibet persona essentialiter. Et nulla potest esse alteritas, ubi non est aliud quam immultiplicabilis aequalitas. Unde, quando legitur quod «alia est persona patris, alia filii, alia spiritus sancti», non potest intelligi quod sit alia per alteritatem, quam trinitas illa praecedit. Et si id, per quod alia est persona patris, alia filii, alia spiritus sancti, videre volumus, non reperiemus nisi aequalitatem quae est ante alteritatem. Unde cum dico ‹aequalitas quae pater est pater›, ‹aequalitas quae filius est filius› et ‹aequalitas quae spiritus sanctus est spiritus sanctus›, verum dico. Non tamen dixi nisi de una immultiplicabili aequalitate. Nam non est verum quod aequalitas, de qua primo dixi, cum dicerem ‹aequalitas quae pater
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illumina tutte le cose155, vede che non rimane più nulla se viene tolta l’uguaglianza, essa allora conclude che tutte le cose sono «dall’uguaglianza, mediante l’uguaglianza e nell’uguaglianza». Se eserciterai il tuo intelletto in queste riflessioni e se presterai attenzione non alle parole, ma al loro significato, allora potrai penetrare in maniera sempre più precisa in molte cose che prima ti erano nascoste156. Infatti, quando consideri le cose che abbiamo detto a proposito dell’uguaglianza, allora capirai meglio e con maggiore fermezza, per fede, ciò che leggi sulla Trinità nelle sacre Scritture e presso i dottori che le hanno spiegate, ossia che «quale è il Padre, tale è il Figlio e tale è lo Spirito santo»157, che il Figlio è uguale al Padre e così pure lo Spirito santo, e che «una è la persona del Padre, un’altra quella del Figlio e un’altra quella dello Spirito santo»158. E poi anche quella che, fra tutte le cose difficili, è la cosa in assoluto più difficile da capire, ossia che la Trinità precede ogni forma di alterità, la vedrai meglio se presti attenzione al fatto che le tre persone uguali non sono uguali per accidente, ma per essenza, in quanto sono uguali senza alterità159. E così esse non sono che un’unica ed identica uguaglianza non moltiplicabile160; infatti, non essendo qualcosa che inerisca accidentalmente alle tre persone, né essendo qualcosa di cui esse partecipano, l’uguaglianza è ciò che ogni persona della trinità è per essenza. E dove non c’è altro che un’uguaglianza non moltiplicabile, non può esservi alcuna forma di alterità. Di conseguenza, quando leggiamo che «una è la persona del Padre, un’altra quella del Figlio, un’altra quella dello Spirito santo», non dobbiamo intendere questa affermazione nel senso che una persona sarebbe distinta dalle altre mediante l’alterità, in quanto la Trinità precede ogni forma di alterità. E se vogliamo vedere in che cosa la persona del Padre, quella del Figlio e quella dello Spirito santo sono distinte l’una dall’altra, non troveremo che l’uguaglianza, la quale precede l’alterità. Di conseguenza, quando dico «l’uguaglianza per la quale il Padre è il Padre», «l’uguaglianza per la quale il Figlio è il Figlio» e «l’uguaglianza per la quale lo Spirito santo è lo Spirito santo», dico il vero161. Ma in questo modo non ho parlato che di un’unica uguaglianza non moltiplicabile. Infatti, non è vero che l’uguaglianza di cui ho parlato per prima, dicendo «l’uguaglianza per la quale il Padre è il Padre», sia un’altra
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est pater›, sit alia aut non sit illa, de qua secundo dixi ‹aequalitas quae filius est filius› et de qua tertio dixi ‹aequalitas quae spiritus sanctus est spiritus sanctus›. Et quoniam has propositiones ante alteritatem veras video, ubi pater non est aliud quam aequalitas sic nec filius sic nec spiritus sanctus, ideo idem est ac si dicerem ‹aequalitas quae pater est pater› sicut ‹aequalitas quia pater est pater›. Et tunc video illam veram ‹aequalitas quia pater est pater› et illam ‹aequalitas quia pater est filius› non video priori aequalem aut aeque veram. Et ex hoc affirmo «patrem non esse filium nec spiritum sanctum», licet sint eadem aequalitas ante omnem alteritatem. Et conceptum ex aequalitate, quam in tempore et anima et syllogismo praemisi. 32 Convertas igitur te ad sacratissimum evangelium cum exercitato in praemissis intellectu et considera, quomodo Ioannes evangelista scripsit evangelium ad astruendum fidem, quod Iesus est filius dei, ut credentes «in nomine eius vitam habeant»! Et quia audivit Christum dicentem ad deum patrem: «clarifica me, tu pater, apud temet ipsum claritate, quam habui priusquam mundus» fieret «apud te», et illud: «si cognovissetis me, et patrem meum utique cognovissetis», et iterum: «qui videt me, videt patrem», et alibi: «quaecumque habet pater, mea sunt», «et omnia mea tua sunt et tua mea sunt», et: «ego in patre et pater in me»; dixit etiam: «ego lux in mundum veni, ut omnis, qui credit in me, in tenebris non maneat», et alibi: «exivi a patre et veni in mundum», et iterum: «sermonem quem audistis, non est meus, sed eius qui misit me patris»; et ad patrem dicit: «sermo tuus veritas». Dixit etiam se viam, veritatem et vitam et quod nemo ad patrem veniret nisi per ipsum et quod pater dedit sibi «potestatem omnis carnis, ut» daret «eis
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uguaglianza, o non sia la stessa uguaglianza di quella di cui ho parlato per seconda, quando detto «l’uguaglianza per la quale il Figlio è il Figlio», o di cui ho parlato per terza, quando ho detto «l’uguaglianza per la quale lo Spirito santo è Spirito santo». E poiché vedo che queste proposizioni sono vere prima dell’alterità, dove il padre non è altro dell’uguaglianza, come pure il Figlio e lo Spirito santo, allora se parlo «dell’uguaglianza per la quale il Padre è Padre» è come se parlassi «dell’uguaglianza in virtù della quale il Padre è il Padre». E allora vedo che l’affermazione «l’uguaglianza in virtù della quale il Padre è il Padre» è vera, e che l’affermazione «l’uguaglianza per la quale il Padre è il Figlio» non è uguale alla prima, ne è ugualmente vera162. E in base a questo affermo che «il Padre non è il Figlio, né è lo Spirito santo», anche se le tre persone della Trinità sono quella stessa uguaglianza che precede ogni alterità. E posso illustrare la mia concezione mediante le considerazioni sull’uguaglianza che ho esposto in precedenza in riferimento al tempo, all’anima e al sillogismo163. Pertanto, rivolgiti ora al sacro Vangelo con un intelletto esercitato nelle riflessioni che ho proposto poco sopra, e considera che Giovanni l’evangelista ha scritto il suo Vangelo per sostenere la fede che Gesù è il figlio di Dio, perché coloro che credono nel suo nome «abbiano la vita»164, e considera che Giovanni ha ascoltato il Cristo dire a Dio Padre: «Glorificami, Padre, davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse»165. Considera inoltre queste parole di Cristo: «Se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio»166; ed ancora: «Chi vede me, vede il Padre»167, e in un altro passo: «Tutto quello che il Padre possiede è mio»168, «e tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie»169; e ancora: «Io sono nel Padre e il Padre è in me»170. Inoltre, Cristo ha detto: «Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre»171. E altrove: «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo»172; e ancora: «La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato»173; e ha detto al Padre: «La tua parola è verità»174. Cristo ha detto inoltre di essere la via, la verità e la vita, e che nessuno può venire al Padre se non per mezzo di lui175, che il Padre gli ha dato il «potere su ogni essere umano», in modo da poter dare «loro la vita»176,
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vitam», et hoc, «quod dedit» sibi, «maius omnibus est», et omnia posuit in potestate eius, et «dedit» sibi «omne iudicium», «quia filius hominis est». Dixit se filium dei, et quod «pater in» eo «manens facit opera» [quae], et quod fecit «opera, quae nemo» ante eum «fecit», et quod «opera» sua «testimonium» perhiberent de eo, quod deus «pater misit» eum, et quod ipse esset «vita et resurrectio» et «panis vivus» dans «vitam aeternam» et talia multa, quae Ioannes audivit et scripsit. 33 Quorum omnium resolutionem faciens Ioannes praemisit theologiam ante narrationem illorum, ostendens quomodo hoc totum videri possit verum, dicens: «In principio erat verbum». Nam «in principio», antequam quidquam deus pater faceret, oportebat illud esse, sine quo «nihil factum est»; sed nihil a sapientissimo deo patre et creatore omnium sine logo, ratione sive verbo factum est; erat igitur «in principio», antequam quidquam faceret logos, et non erat nisi «apud deum». Et quia non erat aliud, hinc etiam non erat sic apud deum quasi aliud, sed erat idem deus verbum. Unde patet quod necesse fuit deum patrem creatorem habere verbum rationale non alterum, sed consubstantiale suiipsius, scilicet consubstantiale verbum seu rationem sive notionem, in quo esset suiipsius et omnium creabilium cognitio. Et quia hoc verbum erat consubstantiale et eiusdem naturae cum patre seu creatore, a quo erat sicut notitia rei a re, ideo filius. Genitus enim eiusdem naturae cum generante filius est. Et hoc declarat illud, quod Christus dicebat ad patrem: «clarifica me claritate, quam habui apud te, priusquam mundus» fieret, scilicet ut clarum fiat me tuum consubstantialem filium. «Hoc», ut ait evangelista, «erat in principio apud deum», quoniam «deus verbum erat» sic «apud deum» quod deus. Et sic
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che questo potere «che il Padre gli ha dato è il più grande di tutti»177, che il Padre ha posto tutte le cose in suo potere178, e che «ha dato» a lui «ogni giudizio»179, «poiché è il figlio dell’uomo»180. Cristo ha detto di essere figlio di Dio181, e che è «il Padre che abita in lui che compie le sue opere»182, e che lui ha compiuto «le opere che nessuno ha fatto»183 prima di lui e che le sue «opere» danno «testimonianza»184 del fatto che «lo ha mandato Dio Padre»185. E Cristo ha detto di essere «la vita e la resurrezione»186 e il «pane vivente»187 che dona la vita eterna188, e molte cose simili a queste che Giovanni ha ascoltato e ha trascritto. Per offrire una via di accesso a tutte queste cose, Giovanni ha premesso alla loro narrazione una teologia189, mostrando come tutto questo possa essere visto come è vero, e ha detto: «In principio era il Verbo»190. Infatti, «in principio», prima che Dio facesse qualsiasi cosa, bisognava che ci fosse ciò senza cui «nulla è stato fatto»191; ma da Dio sapientissimo, Padre e creatore di tutte le cose, nulla è stato fatto senza il «Logos»192, cioè senza la Ragione o il Verbo; pertanto, «in principio», prima che Dio facesse qualsiasi cosa, c’era il «Logos», ed il «Logos» non era che «presso Dio»193. E poiché [in principio] non c’era nulla di altro, per questo il Verbo non era presso Dio come se fosse qualcosa di altro da lui, ma era identico con Dio194. È evidente, pertanto, che fu necessario che Dio padre e creatore avesse un Verbo razionale, non come qualcosa di altro da lui, ma come qualcosa di consostanziale, ossia che egli avesse un Verbo consostanziale, ovvero una ragione o una nozione nella quale Dio padre avesse la conoscenza di se stesso e di tutte le cose che potevano essere create195. E poiché questo Verbo era consostanziale e della stessa natura del Padre o creatore – dal quale è stato generato, come la conoscenza di una cosa viene generata dalla cosa196 –, per questo il Verbo è il Figlio. Infatti, se colui che viene generato è della stessa natura di chi lo genera, costui è suo figlio197. E questo spiega ciò che Cristo ha detto al Padre: «Glorificami con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse»198, ossia «glorificami» in modo che sia manifesto che io sono il tuo Figlio consostanziale. «Questo» Verbo, come dice l’evangelista, «era in principio presso Dio»199, in quanto «il Verbo di Dio» era talmente «presso Dio» che era Dio200. E così Giovanni conclude che il «Logos» era
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concludit logon ante omnem creaturam fuisse «apud deum». Purus enim intellectus numquam est sine suiipsius notitia. Sic aeternus deus pater numquam sine filio consubstantiali. 34 Sequitur: «omnia per ipsum facta sunt», quoniam intellectualis operatio omnia per rationem, quae verbum eius est, facit, prout supra dicitur eandem esse rationem, qua creator se et alia cognoscit et creat, prout de circulo exemplum posui; et ita «facta sunt» quod sine eo «factum est nihil», quoniam hoc verbum est praecisissima rationalis diffinitio et determinatio omnium creabilium et intelligibilium, ita quod, si aliquid a deo factum esset aut foret sine logo, non esset illud rationabiliter factum; et hoc de deo sapientissimo dici blasphemia esset. Quemadmodum igitur imperio sapientissimi regis, quod sermone seu verbo promitur, omnia regia fiunt – qui sermo non est nisi ratio; non enim participat rationem sermo sapientissimi regis, sed est ipsa ratio et veritas –, sic «verbo domini caeli formati sunt» et silentio nihil. Quoniam autem in verbo consubstantiali necessario erant omnia creabilia ut in vivifica concludente ratione, ratio autem viva vita est, et ideo omne id, quod per ipsum «factum est, in ipso» verbum, quod «vita erat». Ratio enim omnis rei vivit «vita aeterna». Per rationem enim, per quam circulus est circulus, semper fuit et erit circulus circulus sine defectu. Quae igitur creaturae factae sunt, etiamsi non vivant, in ipso verbo tamen, cum sint verbum quod deus, aeternaliter vixerunt. Et haec vita non erat tantum verbum dei, per quod creat omnia, sed etiam per quod dirigit luce sua hominem lumine rationis pollentem. Verbum enim dei est lucerna pedum ad aeternam vitam tendentium.
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«presso Dio» prima di ogni creatura. Infatti, l’intelletto puro non è mai privo di una conoscenza di se stesso; allo stesso modo, Dio padre ed eterno non è mai senza il Figlio suo consostanziale. Giovanni continua: «Tutte le cose sono fatte mediante il Verbo»201, in quanto un’attività intellettuale fa tutte le cose mediante la sua ragione, che è il suo verbo202; come ho detto poco sopra 203, c’è un’unica ed identica ragione mediante la quale il creatore conosce se stesso e le altre cose e mediante la quale egli crea, come ho spiegato con l’esempio del cerchio204. E tutte le cose «sono state fatte» in modo tale che, senza il Verbo, «niente è stato fatto», in quanto il Verbo è la definizione razionale precisissima e la determinazione razionale di tutte le cose che possono essere create e di tutte le realtà intelligibili205, in modo tale che, se qualcosa fosse stato fatto o venisse fatto da Dio senza il «Logos», esso non sarebbe stato fatto o non verrebbe fatto secondo ragione, e dire questo del Dio sapientissimo sarebbe una bestemmia206. Per questo, come tutte le cose regali vengono fatte dal comando di un re sapientissimo, che viene espresso mediante un suo discorso o una sua parola – parola che non è altro che la ragione stessa del re, in quanto la parola di un re sapientissimo non partecipa della ragione, ma è essa stessa la ragione e la verità –, così i «cieli sono stati formati dalla parola del Signore»207, mentre dal silenzio non è stato formato nulla. Ma poiché tutte le cose che possono essere create erano presenti necessariamente nel Verbo consostanziale come in una Ragione che le racchiude tutte e tutte le rende vive, e poiché la ragione viva è vita208, tutto ciò che «è stato fatto» mediante il Verbo era in quel Verbo che «era vita»209. La ragione di ogni cosa, infatti, vive «di vita eterna»210. Ad esempio, in virtù della ragione [definizione razionale] per la quale un cerchio è un cerchio, il cerchio è stato sempre e sarà sempre un cerchio, senza alcuna mancanza211. Pertanto, anche se alcune delle creature che sono state fatte non sono dotate di vita, esse, tuttavia, hanno vissuto eternamente nel Verbo, in quanto nel Verbo esse erano il Verbo, che è Dio. E questa vita non era soltanto il Verbo di Dio mediante il quale Dio crea tutte le cose, ma era anche il Verbo mediante il quale Dio, con la sua luce, guida l’uomo che è dotato del lume della ragione. Infatti, il Verbo di Dio è una lampada per i passi di coloro che camminano verso la vita eterna 212.
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Et erat «lux in tenebris» ignorantiae lucens «et tenebrae» ipsam lucem, quae verbum seu sermo dei, quo «deus multifarie multisque modis» naturaliter et «in prophetis» locutus est, «non comprehenderunt. Fuit» deinde post omnes prophetas «homo missus a deo, cui nomen erat Ioannes. Hic venit in testimonium, ut testimonium perhiberet de lumine» lucis verbi dei tunc exorti. «Non erat ille» verbum, quod «lux, sed» venit, «ut de lumine» lucis «testimonium perhiberet». Sed «erat lux vera» ipsum verbum dei, «quae» lux «illuminat omnem hominem» ratione vigentem, in hunc «mundum venientem. In mundo erat» logos seu sermo ille et «mundus per ipsum factus est», quia deus pater dixit et facta sunt omnia; «et mundus eum non cognovit. In propria» loca patris sui, scilicet Terrae Sanctae, «venit, et sui eum» tamquam dei verbum «non receperunt. Quotquot autem» ex ipsis et omnibus gentibus «receperunt eum», ei ut verbo dei a deo misso oboediverunt, illis «dedit potestatem», quamvis essent homines, ut fierent filii dei per gratiam, sicut ipse erat per naturam. Et illi qui ipsum receperunt sunt generati in spiritu ipsius filii dei, non generatione illa, qua «ex sanguinibus et voluntate carnis et voluntate viri» secundum hunc mundum homines nascuntur, sed generatione caelesti «ex deo», qui spiritus est, in spiritu «nati sunt». Hoc igitur verbum, quod haec omnia potest et operatur, est logos seu filius dei. Quod quidem «verbum est caro factum», quia filius dei factus est filius hominis, «et habitavit» inter nos «et vidimus gloriam eius, gloriam» claritatis non quasi alicuius filii adoptionis dei, uti multi visi sunt, sed «quasi unigeniti» dei patris, «a patre» omnia quae patris sunt habentis, verbum scilicet «plenum omni gratia et veritate». 36 Haec est summa evangelii secundum intellectum Ioannis theologi. Et hanc explanando ampliat et probat testimonio dei patris, Ioannis, apostolorum, miraculorum, doctrina, assertione ipsius verbi veritatis, voluntaria oblatione usque ad turpissimam mortem
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Ed Egli era «la luce che risplende nelle tenebre» dell’ignoranza213 e «le tenebre non hanno compreso» quella luce che è il Verbo o la Parola di Dio, mediante la quale «Dio ha parlato molte volte e in svariati modi», sia nella natura che «per mezzo dei profeti»214. Poi, dopo tutti i profeti, «un uomo fu inviato da Dio e il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone, per rendere testimonianza allo splendore» della luce del verbo di Dio, che era apparso in quel tempo. «Giovanni non era» il Verbo, che è «luce, ma» egli è venuto «per rendere testimonianza allo splendore» della luce215. Ma «la vera luce era» il Verbo stesso di Dio e questa luce «illumina ogni uomo» dotato di ragione che «viene in questo mondo»216. Il Logos o la Parola era «nel mondo» e «il mondo è stato fatto per mezzo di lui», perché Dio padre ha parlato e furono fatte tutte le cose; e «il mondo non lo ha riconosciuto. Egli venne» nei luoghi propri di suo Padre, cioè in Terra santa217, e «non lo hanno accolto» come il verbo di Dio. «Ma a quanti» di essi e di tutte le genti «lo hanno accolto» e gli hanno obbedito come al verbo di Dio inviato da Dio, Egli «ha dato il potere» di diventare, benché fossero uomini, figli di Dio per grazia218, come Egli lo era per natura 219. E quelli che lo hanno accolto sono stati generati nello spirito del Figlio di Dio, non mediante quella generazione con la quale nascono gli uomini secondo questo mondo, «dal sangue, dal volere della carne e dal volere dell’uomo»220, ma «sono nati» in spirito «da Dio», che è spirito, mediante una generazione celeste221. Pertanto, questo Verbo, che può e opera tutte queste cose, è il Logos o il Figlio di Dio. E in effetti «il Verbo si è fatto carne», perché il Figlio di Dio si è fatto figlio dell’uomo, «e ha abitato» in mezzo a noi, «e noi abbiamo visto la sua gloria, la gloria» del suo splendore, non come quella di un figlio di Dio per adozione (quali molti ci sono apparsi)222, ma «come quella del Figlio unigenito» di Dio Padre, che «dal Padre» ha tutte le cose che sono del Padre e che era il Verbo «ricolmo di ogni grazia e verità»223. Questa è la parte essenziale del Vangelo, secondo la comprensione del teologo Giovanni. E spiegandola, Giovanni la amplia e la prova con la testimonianza di Dio padre, di Giovanni [il Battista], degli apostoli, dei miracoli, con la dottrina e l’insegnamento dello stesso Verbo di verità, con il suo sacrificio volontario224 fino alla
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pro salute omnium fidelium et resurrectione a mortuis. Quibus omnibus manifestissime ostendit Iesum esse filium dei, qui verba patris sui qui «verax est» locutus est et eius opera fecit, cuius verba sunt stabiliora quam caelum et terra et promissa maxima, scilicet resurrectionis ad immortalem vitam, quam solus deus possidet; cuius possessionis heres est ipse Christus et credentes in eum corde et opere coheredes. Et fiunt haec omnia in homine per spiritum sanctum a patre et filio procedentem, qui est spiritus filii, qui est «caritas dei». Quae dum diffunditur per corda fidelium, facit eos deo gratos «propter inhabitantem spiritum» sanctum. Et unit eos nexu insolubili Christo, capiti, heredi et possessori immortalitatis, ut in unitate corporis Christi, spiritu Christi vegetati coheredes sint regni immortalitatis et vitae aeternae possessores felicissimi. 37 Haec est summa evangelii in variis sermonibus meis infra positis varie explanati secundum datam gratiam, magis obscure dum inciperem in adolescentia et essem diaconus, clarius dum ad sacerdotium ascendissem, adhuc ut videtur perfectius, quando pontificis officio in mea Brixinensi ecclesia praefui et legatione apostolica in Germania et alibi usus fui. Dabit deus ut adhuc proficiam in restante aetate et demum «facie ad faciem» veritatem in aeterna laetitia amplectar. Quod ut concedat tu frater ora. Et si quid in omnibus superius aut infra positis sermonibus aut scripturis a veritate catholica reperiatur devium, corrigo et revoco per praesentes.
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morte più ignominiosa per la salvezza di tutti fedeli e con la sua risurrezione dai morti 225. Mediante tutto questo, Giovanni ha mostrato molto chiaramente che Gesù è il figlio di Dio, che egli ha parlato con le parole del Padre suo, che «è veritiero»226, che egli ha compiuto le opere del Padre, le cui parole sono più salde del cielo e della terra227 e le cui promesse sono le più grandi228, come la promessa di risorgere a quella vita immortale229 che Dio soltanto possiede230, e del cui possesso è erede Cristo e di cui sono coeredi coloro che, nel loro cuore e attraverso le loro opere, credono in Lui231. E tutte queste opere vengono compiute dall’uomo con l’aiuto dello Spirito santo, che procede dal Padre e dal Figlio232, che è lo Spirito del Figlio e «l’amore di Dio»233. Quando questo amore si diffonde nei cuori dei fedeli234, li rende grati a Dio235 perché «abitati dallo Spirito santo»236. Egli li unisce con un nesso indissolubile a Cristo, che è il capo237, l’erede238 e il possessore dell’immortalità 239, in modo tale che, uniti al corpo di Cristo240 e animati dallo spirito di Cristo241, i fedeli possano essere coeredi del regno dell’immortalità e possessori felicissimi della vita eterna. Questa è la parte essenziale del Vangelo, un Vangelo che io ho spiegato in vari modi, secondo la grazia che mi è stata donata, in diversi miei sermoni che vengono aggiunti qui di seguito, in maniera più oscura quando ho iniziato [a predicare], durante la mia giovinezza e quando ero un diacono, e con maggiore chiarezza quando sono asceso al sacerdozio e ancora, come sembra, in maniera ancora migliore quando ebbi l’incarico pontificio nella mia chiesa di Bressanone e poi fui inviato in legazione apostolica in Germania e altrove. Voglia Dio donarmi la possibilità di progredire ancora nel tempo che mi resta e, infine, di abbracciare la verità «faccia a faccia» nella gioia eterna242. Tu, fratello, prega affinché Egli me lo conceda. E se nelle riflessioni precedenti, o tra i sermoni che ho pronunciato e che vengono aggiunti qui di seguito, o nelle pagine che ho scritto, si trovasse qualcosa che si allontana dalla verità cattolica, lo correggo e lo ritratto con le presenti parole243.
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quis es? Respondit eis Iesus: Principium, qui et loquor vobis» (Jo. 8,). Propositum est pro exercitatione intellectus de principio dei dono quaedam tangere. Est autem principium in Graeco feminini generis et in hoc loco accusativi casus. Hinc Augustinus exponit: Principium, qui et loquor vobis, me credite, ut non pereamini in peccatis vestris. 2 Primum igitur investigemus, si est principium. Plato, prout Proclus in commentariis Parmenidis scribit, asseruit hunc mundum ex seniori causa in esse prodiisse, nam partibile non potest per se subsistere; quod enim per se subsistit, hoc est quod esse potest. Partibile autem, cum possit partiri, potest non esse. Unde cum, quantum est de se, possit partiri et non esse, patet quod non est per se subsistens sive authypostaton. 3 Item visibile agens agit per virtutem invisibilem, ut ignis per calorem et nix per frigiditatem; et ita generaliter agens seu generans est invisibile. Sed in per se subsistente idem est faciens et factum, generans et genitum. Non est ergo visibile. 4 Item si divisibile foret per se subsistens, simul exsisteret et non exsisteret, sicut si calidum per se hoc esset, quod est, tunc se calefaceret et ita esset calidum et non calidum. Quomodo enim se
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«Tu chi sei?» Rispose loro Gesù: «Io sono il Principio, io che anche vi sto parlando»1. Per esercitare il nostro intelletto, mi propongo di trattare brevemente, con l’aiuto di Dio, alcune questioni intorno al Principio. In greco, il termine «principio» è di genere femminile e nel passo sopra riportato è al caso accusativo. Per questo, Agostino interpreta [il passo in questo modo]: «Credete che io, che vi parlo, sono il Principio, credete così che non periate nei vostri peccati»2. In primo luogo, dunque, indagheremo se c’è un Principio. Platone, come scrive Proclo3 nel suo Commentario al Parmenide, ha sostenuto che questo mondo è giunto all’essere a partire da una causa anteriore, in quanto ciò che è divisibile non può sussistere per se stesso; infatti, ciò che sussiste per se stesso è [tutto] ciò che esso può essere. Ciò che è invece divisibile, dal momento che può essere diviso, può non essere. Quindi, dal momento che, per sua natura, può essere diviso e può non essere, è evidente che ciò che è divisibile non è qualcosa che sussiste per se stesso, ossia non è un «authypostaton»4. Inoltre, un agente visibile agisce per mezzo di una forza invisibile, come il fuoco, che agisce per mezzo del calore, e la neve, che agisce per mezzo del freddo; e così, in generale, ciò che agisce o che genera è invisibile5. Ma nel caso di ciò che sussiste per se stesso, ciò che causa e ciò che è causato, ciò che genera e ciò che è generato sono la stessa cosa. Di conseguenza, ciò che sussiste per se stesso non è visibile. Inoltre, se ciò che è divisibile fosse qualcosa che sussiste per se stesso, esso esisterebbe e, allo stesso tempo, non esisterebbe, così come, se il caldo fosse per se stesso ciò che esso è, allora renderebbe caldo se stesso, e pertanto sarebbe caldo e non-caldo. In che modo, infatti, potrebbe rendere caldo se stesso se non fosse caldo,
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calefaceret, si non esset calidum, et quomodo esset actu calidum, quando se calefaceret? Sic et per se motum esse nequit. 5 Sicut igitur omnis motus est a causa inmobili, sic omne partibile a causa impartibili. Corporalis autem iste visibilis mundus utique partibilis est naturae, cum corpus sit divisibile. Est igitur a seniori impartibili causa. Hoc exprimit salvator noster, quando dicebat: «Quis vestrum cogitans potest adicere ad staturam suam cubitum unum?» (Luc. 12,). Qui enim est a causa, ille non potest adicere, ut esse suum sit maius; sed ille dat incrementum, qui dedit et esse, scilicet deus. Sic Paulus ait (I Cor. 3,): «Neque qui plantat est aliquid aut qui rigat, sed qui incrementum dat, deus». Patet ex his quod solum infinitum et aeternum est authypostaton sive per se exsistens, cum illud solum sit impartibile et cui nihil adici potest. Omni autem finito addi vel subtrahi posse non repugnat. Non est igitur authypostaton seu per se subsistens, sed a causa seniore. 6 Quod autem non sit nisi una omnium causa seu unum principium vel plura, dico secundum doctrinam Christi patere, qui ait unum esse necessarium; pluralitas quasi alteritas est turbativa, non necessaria. Proclus ubi supra hoc tali ostendit ratione: Si enim forent plura principia, utique in eo uno similia forent, quia principia; uno igitur participarent. Participatum utique prius participantibus. Non igitur plura forent principia, sed unum ante multitudinem. Etiam si diceres plura principia sine participatione unius, sermo ille se ipsum interimeret; nam illa plura forent utique similia in eo, quia non participarent uno, et etiam in eo dissimilia, quia non participarent uno. Similia enim sunt, quae uno participant, dissi-
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e come potrebbe essere caldo in atto dal momento che dovrebbe rendere caldo se stesso? Allo stesso modo, ciò che è divisibile non può neppure muoversi da se stesso. Come dunque ogni movimento deriva da una causa immobile, così tutto ciò che è divisibile deriva da una causa indivisibile6. Ora, questo mondo corporeo, visibile, è di natura divisibile, dal momento che ciò che è corporeo è divisibile. Esso, pertanto, deriva da una causa anteriore indivisibile. Questo è ciò che il nostro Salvatore ha voluto esprimere quando ha detto: «Chi di voi, con le sue riflessioni, può aggiungere un solo cubito alla sua statura?». Infatti, chi deriva da una causa non può aggiungere nulla per fare in modo che il suo essere sia maggiore; la crescita, piuttosto, la dà colui che ha dato anche l’essere, cioè Dio. Così dice Paolo: «Né chi pianta, né chi irriga è qualcosa, ma colui che fa crescere, Dio»7. Da queste considerazioni è evidente che solamente ciò che è infinito ed eterno è «authypostaton», ossia è esistente per se stesso, poiché esso solo è indivisibile ed è ciò a cui nulla può essere aggiunto. Non è invece contraddittorio che si possa aggiungere o sottrarre qualcosa a tutto ciò che è finito. Ciò che è finito non è pertanto «authypostaton» o sussistente per se stesso, ma deriva da una causa anteriore. Che non vi sia, invece, che una sola causa di tutte le cose, ovvero un solo Principio, e non una molteplicità di principi, questo fatto – dico – risulta evidente dall’insegnamento di Cristo, il quale afferma che «una sola cosa è necessaria»8; la molteplicità, in quanto alterità, crea confusione e non è necessaria9. Proclo10, nel passo sopra citato, dimostra questo punto con il seguente ragionamento: se ci fossero più principi, in una cosa essi sarebbero in ogni caso simili all’Uno, nel fatto, cioè, che essi sarebbero principi; essi, pertanto, parteciperebbero dell’Uno. Ma il partecipato è senz’altro anteriore ai partecipanti. Non vi sarebbe quindi una molteplicità di principi, ma un unico Principio che precede il molteplice. Ed anche se tu dicessi che può esservi una molteplicità di principi senza che essi partecipino dell’Uno, questa affermazione si annullerebbe da sola; infatti, questi molteplici principi sarebbero in ogni caso simili per il fatto che non partecipano dell’Uno, e sarebbero insieme dissimili per il fatto che non partecipano dell’Uno. Simili, infatti, sono quelle cose che partecipano dell’Uno, per cui dissimili sono quelle cose
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milia igitur, quae uno non participant. Patet igitur non esse possibile quod plura sint principia. 7 Eadem ratione patet non plura esse entia ab uno deserta. Quando enim non participarent uno, forent simul et semel et secundum idem similia et dissimilia. Et haec est Zenonis subtilis hypothesis, qui aiebat: Si plura quae entia, simile est dissimile. Quam hypothesim Proclus, ut praemisi, explanat. Unde subtiliter consideranti non est nisi unum necessarium, quo deserto ratio concludit nihil esse posse. Cum igitur ad necessitatem essendi respicimus, Parmenidem verum dixisse videmus, scilicet non esse nisi unum, quemadmodum et Christus unum dixit necessarium. In multis igitur non videtur nisi turbatio et difformis infinitas seu interminatio, nisi unum in multitudine videatur. 8 Arbitror autem Christum ipsum unum nominasse necessarium, quia omnia necessitantur seu uniuntur sive constringuntur, ut sint, et dum sunt, ne defluant in nihil. Quaedam autem, ut sint, uniuntur, quaedam vero magis uniuntur, ut sint et vivant; adhuc strictius uniuntur quaedam, ut sint, vivant et intelligant. Experimur enim animam magis unitam quam corpus; nam ipsa in vitam suam unit suum corpus ab ea factum et tenet ipsum, ne defluat. Videmus etiam ab unione virtutem generari; nam quanto unio est strictior, tanto virtus fortior. Undo quanto essentia est magis unita, tanto maioris virtutis. Ideo infinita et simpliciter maxima unio, quae est et unitas, est infiniti vigoris. Et ideo haec unitas, quae unum absolutum per Platonem nominatur, nisi adesset possibilitati essendi, non esset possibilitas sive materia essendi. Unde ens in potentia non est ens; tamen, ut in potentia videtur, non videtur absque participatione unitatis, cum non sit nihil. Est autem nihil aut peni-
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che non partecipano dell’Uno. È evidente, pertanto, che non è possibile che vi sia una molteplicità di principi. Per la stessa ragione, è evidente che non c’è una molteplicità di enti che sia completamente separata dall’Uno. Infatti, nel caso in cui non partecipassero dell’Uno, sarebbero ad un tempo e insieme e sotto lo stesso rispetto simili e dissimili. E questa è la perspicace ipotesi di Zenone, il quale affermava: se c’è una molteplicità di enti, allora il simile è dissimile11. Ipotesi, questa, che, come ho già detto, Proclo12 spiega. Quindi, a chi rifletta con perspicacia, [risulta evidente che] solo un’unica cosa è necessaria, e se questa viene eliminata, allora, come risulta dalla conclusione del ragionamento, non può esservi nulla. Pertanto, se consideriamo la necessità dell’essere, vediamo che Parmenide13 ha detto il vero, ossia che c’è solo l’Uno, come anche Cristo ha detto che solo una cosa è necessaria. Pertanto, se nella molteplicità non vediamo l’Uno, nei molti vediamo solo confusione, e una infinità priva di forma, ovvero indeterminatezza. Ritengo, tuttavia, che Cristo abbia designato come necessario l’Uno stesso, perché tutte le cose, per essere e, mentre sono, per non precipitare nel nulla14, sono da esso necessitate o unificate o tenute insieme. Alcune cose, tuttavia, sono unificate in modo tale da poter semplicemente essere, altre invece sono unificate maggiormente, in modo tale da poter essere e vivere, e altre sono unificate in maniera ancora più forte, in modo tale che esse sono, vivono ed intendono15. Sappiamo, infatti, per esperienza che l’anima ha più unità del corpo: è l’anima, infatti, che unisce alla sua vita il suo corpo che essa ha formato, ed è l’anima che lo conserva in modo che non perisca. Costatiamo, inoltre, che anche la forza è generata dall’unione; infatti, quanto più stretta è l’unione, tanto più vigore ha la forza. Di conseguenza, quanto più un’essenza è unita, tanto maggiore è la sua forza16. Pertanto, l’unione infinita e assolutamente massima, che è anche l’Unità, è dotata di una forza infinita17. E pertanto, se questa unità, che da Platone viene denominata l’Uno assoluto, non fosse presente nella possibilità-di-essere, non vi sarebbe alcuna possibilità-di-essere o materia18. Per questo, l’essere in potenza non è essere [in senso proprio]; tuttavia, nella misura in cui viene visto in potenza, non viene visto senza una sua partecipazione all’Unità, dal momento che esso non è un nulla19. Il nul-
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tus defluxum aut nequaquam, ut esse possit, necessitatum seu constrictum. Et ita ante ens in potentia et actu ens videtur unum, sine quo neutrum esse potest. Hoc unum necessarium vocatur deus, ut dicebatur Israeli: «Audi Israel, deus tuus unus est», et est pater Iesu, ut ipse ait ad Iudaeos: «Pater meus, quem vos deum dicitis». De quo actuum 4. Ille est ipsa unitas, quae et autounum, per se scilicet unum, licet melius sit omni nominabili et authypostato, ut infra dicetur. 9 Et non possumus negare, quin se intelligat, cum melius sit se intelligente. Et ideo rationem sui seu diffinitionem seu logon de se generat. Quae diffinitio est ratio, in qua se unum necessarium intelligit et omnia, quae unitate constringuntur et fieri possunt. Et logon est consubstantiale verbum seu ratio diffiniti patris se diffinientis, in se omne diffinibile complicans, cum nihil sine ratione unius necessarii diffiniri possit. Sicut igitur Christus aiebat patrem in se vitam habere, ita dedit et filio in se vitam habere. Habere autem in divinis est esse. Est igitur filius vita vivificans sicut pater, eiusdem scilicet naturae et essentiae. 10 Et ne haesites filium esse principium, adverte principium esse aeternum, cum sit principium, et quod omnia, quae videntur in aeternitate, sunt aeternitas. Tunc vides quod non potest esse principium in aeternitate sine principiato in aeternitate. Videre autem principiatum in aeternitate est videre ipsum in principio. Unde principiatum est principium principiatum. Et scias quod aeternitas non est consideranda quasi quaedam extensa duratio, sed uti tota simul essentia, quae et principium. Quando igitur aeternitas consideratur principium, non est aliud dicere principium principiati quam aeternitas aeterni seu aeternitas principiati. Neque aliud esse potest aeternitas quam aeternum; non enim potest aeternitas pri-
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la, invece, o è del tutto inesistente, o non ha acquisito alcuna necessità o alcuna costrizione per poter essere. E così, prima dell’essere in potenza e prima dell’essere in atto viene visto l’Uno, senza il quale nessuno dei due può esistere20. Questo Uno necessario viene chiamato Dio, come è stato detto ad Israele: «Ascolta, Israele, il tuo Dio è uno»21, ed Egli è il Padre di Gesù, come Gesù stesso dice agli Ebrei: «Il Padre mio che voi chiamate [vostro] Dio»22. (Su ciò si veda Atti, 4 [30]23). Dio è l’Unità stessa, che è anche l’«autounum», ossia l’Uno per sé24, sebbene egli trascenda tutto ciò che è nominabile, incluso l’«authypostaton», come verrà spiegato più avanti25. Inoltre, non possiamo neppure negare che egli conosca se stesso, dal momento che trascende ciò che conosce se stesso. E per questo egli genera da se stesso la sua Ragione26, o la sua Definizione o il suo Logos. Questa Definizione è la Ragione nella quale l’Uno necessario conosce se stesso e conosce tutte le cose che sono tenute insieme dall’Unità e che dall’Unità possono essere prodotte. E il Logos è il Verbo consostanziale o la Ragione del Padre che definisce se stesso e che è quindi definito27; esso [il Logos] complica in sé tutto ciò che è definibile28, dal momento che nulla può essere definito senza la Ragione dell’Uno necessario. Per questo, Cristo ha detto che come il Padre ha la vita in se stesso, così ha dato anche al Figlio di avere in sé la vita29. Nell’ambito del divino, tuttavia, l’«avere» coincide con l’«essere»30. Il Figlio, dunque, è vita che vivifica come il Padre, ossia è della stessa natura e della stessa essenza del Padre. E affinché tu non abbia dubbi che il Figlio è il Principio, presta attenzione al fatto che il Principio, in quanto Principio, è eterno, e tutto ciò che viene visto nell’eternità è l’eternità. Allora vedi che, nell’eternità, non può esservi un Principio senza che vi sia, nell’eternità, un principiato. Ora, vedere il principiato nell’eternità significa vederlo nel Principio. Pertanto, [nell’eternità] il principiato è il Principio principiato. E sai che non si deve considerare l’eternità come una sorta di durata estesa, ma come un’essenza che è tutta intera simultaneamente31, e questa essenza è il Principio. Pertanto, quando l’eternità viene considerata come Principio, l’espressione «Principio del principiato» non significa nient’altro che «eternità dell’eterno», o «eternità del principiato». E l’eternità non può essere nient’altro che l’eterno; l’eternità, infatti, non può essere ante-
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or esse duratione aeterno; aeternum enim aeternitati coaeternum. Sic et principiatum coaeternum principio. Si enim principium est principiati principium, – et hoc est idem, ac si diceretur: aeternitas est aeterni aeternitas –, patet clare principiatum aeternum. Vides igitur principium sine principio et principium de principio. 11 Cum autem videas principium tam sine principio quam de principio in aeternitate, vides etiam illius principii, quod vides sine principio et de principio, principiatum. Et ita vides principium et principiatum principium et principiatum principii utriusque esse unam aeternitatis essentiam, quam Plato vocat unum. Nec videtur hoc incredibile; nam videmus in natura temporali principium sine principio, scilicet paternitatem, et principiatum principium filiationem et principiatum utriusque, scilicet nexum amoris a principio utriusque procedentem, et quod, sicut principium generationis sine principio est temporale, sic et principium de principio est temporale. Similiter est temporalis primus amoris nexus ab utroque procedens; prima enim amicitia seu primus naturalis amoris nexus est patris et filii. Sicut igitur ista in tempore videmus, ita et verissime in aeternitate esse non immerito credimus, cum tempus se habet ad aeternitatem sicut imago ad exemplar et ea, quae in tempore, similiter se habent ad ea, quae in aeternitate. 12 Ex his patet verbum, quod loquebatur Iudaeis, ut in themate, esse principium de principio et non recepisse nomen principii a mundo creato, sed antequam mundus fieret, in aeternitate id ipsum fuisse principium et post mundi constitutionem in tempore locutum fuisse. 13 Diceres: turbat audientem, quando dicis principii esse principium; hoc enim nullus philosophorum admittit, ne procedatur sic
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riore per durata all’eterno; l’eterno è infatti coeterno all’eternità32. Allo stesso modo, anche il principiato è coeterno al Principio. Infatti, se il Principio è principio del principiato – e questo equivale a dire che l’eternità è l’eternità dell’eterno –, allora è del tutto evidente che il principiato è eterno. Di conseguenza, vedi il Principio senza principio e il Principio che è dal Principio. Tuttavia, dal momento che, nell’eternità, vedi il Principio, sia quello senza principio sia quello che è dal Principio, vedi anche il principiato di questo Principio, che vedi come Principio senza principio e come Principio che è dal Principio. E in questo modo puoi costatare che il Principio, il Principio principiato e il Principio principiato che deriva da entrambi questi Principi costituiscono l’unica essenza dell’eternità, quella che Platone chiama l’Uno. E questo non sembra implausibile: infatti, anche nella natura temporale33 noi vediamo un principio che è senza principio, ossia la paternità, un principio principiato, la filiazione, e un principiato che deriva da entrambi questi principi, ossia il nesso d’amore che procede dal principio di entrambi; inoltre, come vediamo che è temporale il principio senza principio della generazione, così è temporale anche il principio che deriva dal principio. Allo stesso modo, è temporale il primo nesso d’amore che procede da entrambi i principi; la prima forma di amicizia, o il primo nesso d’amore naturale, è in effetti quello tra padre e figlio34. Pertanto, come vediamo queste cose nelle realtà temporali, così crediamo a giusto titolo che esse si trovino, e nella forma più vera, nell’eternità, dal momento che il tempo si rapporta all’eternità come l’immagine si rapporta al suo esemplare35, ed egualmente fanno le cose nel tempo nei confronti di quelle che sono nell’eternità. Da queste considerazioni risulta evidente che il Verbo che parlò ai Giudei, secondo il tema di cui qui stiamo trattando, è il Principio che procede dal Principio, e risulta evidente che esso non ha ricevuto il nome di «Principio» a partire dal mondo creato, ma era in sé Principio nell’eternità prima che il mondo fosse fatto, e, dopo la costituzione del mondo, ha parlato nel tempo36. Potresti dire: l’ascoltatore viene turbato quando affermi che c’è un Principio del Principio; nessuno dei filosofi, infatti, ammette questo, per timore che in questo modo si proceda all’infinito e che
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in infinitum et sublata sit omnis veritatis inquisitio, quando ad primum principium pertingi non posset. Dico non esse inconveniens principii esse principium in aeternitate; nam sicut albedo est albi albedo, sic, si album esset albedo, non variaret, si diceretur albedo albedinis albedo; in aeternitate autem sic est, quod aeternum est aeternitas et principiatum principium. Ideo non plus inconvenienter dicitur principium principii quam principium principiati, neque transire in infinitum hoc impedit, cum hoc sit in infinito actu; aeternitas enim, quae est tota simul, non est nisi infinitas actu. Sed ubi contractum non est idem cum absoluto, ibi verum est id, quod philosophi dicunt, scilicet quod termini non sit terminus, ut humanitatis non sit humanitas, quia numquam deveniretur ad principium, cum infinitum nequeat pertransiri. 14 Hanc trinitatem, quam Christiani credunt, utique Platonici fatentur, qui plures ponunt trinitates et ideo ante omnes unam aeternam, sicut ante omne temporale aeternum, ut ante hominem temporalem aeternum. Dicunt autem et Peripatetici idem de prima causa, quam tricausalem fatentur. Sic Iudaei deo aeterno tribuunt unum, intellectum et spiritum, et Sarraceni similiter aeterno deo tribuunt unum, intellectum et animam, ut patet ex libris eorum, de quibus alias dictum est. 15 Adhuc forte de thematis intellectu haesitas, quomodo verbum est principium. Dico: est, ut audisti, essentiale atque per se subsistens principium de principio, et sua aeternitas, quae est et eius essentia, est logon seu ratio aeterna aeternitatis et omnium, quae in aeternitate complicantur; nec est quidquam possibile fieri, cuius non sit aeterna essendi ratio. Omnia, quae per se non subsistunt,
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venga così distrutta ogni ricerca della verità, dal momento che non si potrebbe pervenire ad un primo principio37. A ciò rispondo che non è incoerente che, nell’eternità, vi sia un Principio del Principio; infatti, come la bianchezza è la bianchezza di ciò che è bianco38, così, nel caso in cui ciò che è bianco fosse la bianchezza, non farebbe alcuna differenza se si dicesse che la bianchezza è la bianchezza della bianchezza; nell’eternità, invece, le cose stanno in modo tale che ciò che è eterno è identico all’eternità39 e il principiato al Principio. Pertanto, dire «Principio del Principio» non è più incoerente che dire «Principio del principiato», e il regresso all’infinito non costituisce a ciò un ostacolo, dal momento che qui si tratta dell’infinito in atto; l’eternità, infatti, che è presente tutta intera simultaneamente, non è se non l’infinito in atto. Invece, dove ciò che è contratto40 non è identico con l’Assoluto, lì è vero ciò che dicono i filosofi, ossia che non c’è un limite del limite41, ad esempio non c’è un’umanità dell’umanità, perché altrimenti non si perverrebbe mai ad un principio, in quanto l’infinito non può essere compiutamente percorso42. Questa Trinità, nella quale i cristiani credono, la riconoscono chiaramente anche i Platonici43, i quali pongono una pluralità di triadi, e per questo pongono un’unica triade eterna prima di tutte le altre, così come prima di tutto ciò che è temporale pongono ciò che è eterno, ad esempio prima dell’uomo temporale pongono l’uomo eterno44. Ma anche i Peripatetici dicono lo stesso a proposito della prima causa45, che essi riconoscono come triplice. Egualmente, gli Ebrei attribuiscono al Dio eterno l’Uno, l’Intelletto e lo Spirito46, e in modo simile i Saraceni attribuiscono al Dio eterno l’Uno, l’Intelletto e l’Anima, come risulta evidente dai loro libri, dei quali ho discusso altrove47. Hai forse ancora dei dubbi circa la comprensione del nostro tema, circa il fatto, cioè, che il Verbo sia il Principio. La mia risposta, come hai già udito, è che il Verbo è il Principio, essenziale e sussistente per se stesso, che procede dal Principio, e che la sua eternità, che è anche la sua essenza, è il Logos o la Ragione eterna dell’eternità e di tutto ciò che è complicato nell’eternità; e nulla può essere fatto di cui non vi sia [nel Principio che procede dal Principio] una ragione eterna del suo essere. Tutte le cose che non sussi-
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cum non sint sui ipsius causa neque a casu et fortuna, quae non sunt nisi causae per accidens et non per se et essentiales, oportet quod a causa sint, quae est per se subsistens essendi rerum ratio, sicuti absolutum vivum exemplar, quod est et ratio aeterna, est causa omnis similitudinis. Sicut enim ratio circuli est aeterna et per se subsistens atque absoluta, quoniam non est contrahibilis aut sensibiliter designabilis, sed omnis circulus non potest sine illa nec esse nec intelligi, et est intellectuale aeternum exemplar omnium circulorum qualitercumque sensibilium, ita universaliter omne, quod esse potest, in ipsa essendi omnium ratione est aeternaliter ut in veritate exemplari, et est id, quod est, per ipsam sui essendi rationem. 16 Unde si advertis haec verba evangelii, ubi ait Iesus: «principium qui et loquor vobis», sunt ipsa lux intelligentiae; loquitur enim verbum caro factum, hoc scilicet verbum, quod et deus, qui principium, loquitur sensibiliter. Et non est difficile hoc capere, scilicet quod aeterna essendi ratio in his, quae ipsum sunt sensibiliter, loquatur sensibiliter. Loqui est revelare seu manifestare. Omne igitur subsistens, cum sit, ab eo est, quod per se subsistit, quod est ratio substantiae eius, et locutio est sui ipsius revelatio sive manifestatio. Sicut cum omne calefactum sit tale originaliter ab eo, quod per se calidum, scilicet igne, tunc ignis in omnibus calefactis loquitur seu se ipsum revelat, licet varie secundum calefactorum varietatem, propinquius in pura flamma quam fumosa et purius in carbone ignito quam calidis cineribus, sic logon in omnibus rationabilibus loquitur se revelans purius in seraphicis spiritibus quam angelicis et purius in angelis quam hominibus et purius in hominibus, quorum conversatio in caelis, quam quorum in terra, sed in Chri-
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stono per se stesse, dal momento che non sono la causa di se stesse, né derivano dal caso o dalla fortuna, le quali sono cause solo accidentali e non cause per sé e per essenza, devono necessariamente procedere da una causa che sia la Ragione per sé sussistente dell’essere delle cose48, così come l’esemplare vivente assoluto, che è anche la Ragione eterna, è la causa di ogni somiglianza. Ad esempio, la ragione del cerchio è eterna, per sé sussistente e assoluta, dal momento che non può essere contratta o disegnata sensibilmente; eppure, senza di essa nessun cerchio può esistere, né può essere compreso, per cui essa è l’esemplare intellettuale eterno di tutti i cerchi sensibili49, quali che essi siano; in modo simile, tutto ciò che può essere sussiste eternamente nella Ragione dell’essere di tutte le cose, come nella verità del suo esemplare, ed è ciò che è proprio grazie a questa Ragione del suo essere. Se tu quindi presti attenzione a queste parole del Vangelo, dove Gesù afferma: «[Io sono] il Principio, io che anche vi sto parlando»50, vedi che queste parole sono la luce stessa della nostra comprensione; è infatti il Verbo fatto carne che parla, ossia quel Verbo, che è anche Dio, il Principio, che parla in modo sensibile. E non è difficile comprendere questo, ossia che l’eterno Principio dell’essere parli in modo sensibile51 in quelle cose che, grazie al Verbo stesso, esistono in modo sensibile. Parlare significa rivelare o manifestare52. Tutto ciò che sussiste, pertanto, in quanto è, deriva da ciò che sussiste per se stesso e che è la ragione della sua sussistenza, per cui anche la parola di tale Ragione è la sua rivelazione o la sua manifestazione [in ciò che essa fa sussistere]. Ad esempio, dal momento che tutto ciò che viene riscaldato diventa inizialmente caldo a partire da ciò che è caldo per se stesso, ossia dal fuoco53, allora il fuoco parla o rivela se stesso in tutte le cose che vengono riscaldate, anche se in modi differenti a seconda della diversità delle cose riscaldate: in maniera più diretta nella fiamma pura che in quella che fa fumo, e in modo più puro nel carbone ardente che nella cenere calda. In modo simile, il Logos parla in tutti gli esseri dotati di ragione, e si rivela in maniera più pura negli spiriti dei serafini che negli spiriti degli angeli, e in maniera più pura negli angeli che negli uomini, e in maniera più pura negli uomini il cui genere di vita è legato al cielo54 che in quelli il cui genere di vita è legato alla
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sto supra omnem gradum, in quo logon non loquebatur ut in alio, sed ut in puritate principii, sicut si ignis non in alio calefacto se revelaret, sed in purissima flamma, quae in ipso igne indissolubili unione subsisteret. 17 Diceres: cum statim Christus de patre suo loquatur, ut habet evangelium, mirum est quomodo se dicat principium, qui fatetur se filium. Dico: non esset propria locutio, si se principiatum diceret; nam cum principium nihil sit principiati, in natura divina, ubi pater omnia dat filio, pater non est aliud a filio et filius non potest proprie dici principiatum, cum principiatum sit aliud a principio; sed sicut pater est principium, ita dat filio esse principium. Est igitur principium de principio sicut lumen de lumine et deus de deo. 18 Adhuc forte cogitas, an authypostaton conveniat verbo; et videtur quod sic; sequitur enim in evangelio: «tunc scietis quia ego sum». Solum per se subsistens veraciter dicere potest: ego sum. Dico quod humanae locutiones non sunt praecisae in divinis, sed sicut Christus de divinis humaniter locutus est, quoniam non nisi humaniter capi possunt per homines, ita oportet nos praesupponere has evangelicas locutiones humano modo omnibus praecisiores; nam verbum dei de se loquitur. Principium enim, cum non sit ab alio, per se subsistere dicimus, cum nihil esse concipere valeamus, si ipsum non conciperemus esse; primum enim, quod se offert conceptui, est ens, deinde ens tale; et licet principium entis nihil entium sit, cum principium nihil sit principiati, tamen, nisi concipiamus principium esse, nullum de ipso formare possumus conceptum. 19 Plato vero, qui vidit unum ens, unam essendi potentiam, unum caelum, unam terram quasi unum in his omnibus passum et con-
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terra. Ma in Cristo il Logos si rivela al di là di ogni grado; in lui il Logos ha parlato non come in un altro [da se stesso], ma come nella purezza del Principio, come se il fuoco si rivelasse non in un altro oggetto riscaldato, ma nella fiamma più pura che sussistesse nel fuoco stesso in un’unione indissolubile. Tu potresti dire: dal momento che Cristo, subito dopo, parla di suo Padre, come si dice nel Vangelo55, è sorprendente che colui che riconosce di essere figlio qualifichi se stesso come Principio. Rispondo: se egli si qualificasse come principiato, la sua affermazione non sarebbe appropriata; infatti, mentre il Principio è nulla di ciò che deriva dal Principio56, nella natura divina, invece, dove il Padre dà ogni cosa al Figlio57, il Padre non è altro58 dal Figlio, e il Figlio non può essere qualificato in senso proprio come principiato, in quanto il principiato è altro dal Principio; invece, come il Padre è Principio, così dà al Figlio di essere Principio59. Egli è quindi Principio dal Principio, come è Luce da Luce e Dio da Dio. Forse stai ancora riflettendo se il termine «authypostaton»60 si addica al Verbo, e sembra in effetti che gli si addica. Nel Vangelo, infatti, [dopo il testo citato all’inizio] seguono queste parole: «Allora saprete che io sono»61. Solo colui che sussiste per se stesso può dire in verità: io sono. A ciò rispondo che le espressioni umane non sono precise quando vengono riferite all’ambito del divino62; tuttavia, come Cristo ha parlato del divino in modo umano, perché è solo parlando in modo umano che le sue parole potevano essere comprese dagli uomini, così dobbiamo presupporre che queste espressioni del Vangelo, formulate in modo umano, siano più precise di tutte le altre, in quanto è il Verbo di Dio che in esse parla di se stesso. Poiché il Principio non deriva da altro, noi diciamo infatti che sussiste per se stesso, dal momento che non saremmo in grado di concepire che qualcosa esiste se non concepissimo che esiste il Principio; la prima cosa che si presenta al pensiero è infatti l’ente63, e poi l’ente qualificato in questo o in quel modo; ed anche se il Principio dell’ente non è nessuno degli enti, in quanto il principio non è nessuno dei principiati, tuttavia non possiamo formarci nessun concetto dell’ente se non concepiamo che il Principio esiste. Platone, tuttavia, che vide che uno è l’ente, una la potenza d’essere, uno il cielo, una la terra, e che vide per così dire in tutte que-
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tractum et alteratum videns, separans et tollens omnia ab uno vidit unum in se et absolutum. Et ut sic videtur, nec est ens nec non ens nec est nec subsistit nec est subsistens nec per se subsistens nec principium, immo nec unum. Immo non esset apta locutio «unum est unum», cum copula illa est non possit uni convenire, nec sine copula dicendo sic «unum unum» esset apta locutio, cum omnis locutio, quae sine alteritate aut dualitate non est proferibilis, non conveniat uni. Unde si attendis, tunc principium omnium nominabilium, cum nihil possit principiatorum esse, est innominabile, et ideo etiam non nominari principium, sed esse principii nominabilis innominabile principium omne qualitercumque nominabile antecedens sicut melius. Tunc vides contradictoria negari ab ipso, ut neque sit neque non sit neque sit et non sit neque sit vel non sit; sed omnes istae locutiones ipsum non attingunt, qui omnia dicibilia antecedit. 20 Et licet hoc sic sit et per se subsistere sibi non conveniat, cum per se subsistere sine dualitate et divisione non intelligatur et unum sit ante omnem alteritatem, tamen nulli verius convenit per se subsistere quam ei, quod est omnium subsistentium causa, cum nullum causatorum eius respectu per se subsistat aut sit, quidquid sit. Cui enim omnia vocabula aliquid significantia verius convenire possent quam ei, a quo omnia habent et quod sunt et nominentur? Quae verior substantia quam illa, quae omni substantiae dat esse substantiale, licet melior omni substantia nominabili? 21 Vidit Plato, quomodo per se ens ante omnia entia alia et alia exsistit, ita per se homo et animal, et ita de ceteris. Nonne haec om-
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ste cose l’uno come attributo64, contratto e modificato, separando e rimuovendo tutto questo dall’uno vide l’Uno in se stesso e come assoluto. E appena viene visto in questo modo, [appare subito che] l’Uno non è né ente, né non-ente, né è, né sussiste, non è né sussistente, né per se stesso sussistente, non è principio e non è neppure uno65. Persino l’espressione «l’Uno è uno»66 non sarebbe appropriata in quanto la copula «è» non può addirsi all’Uno; e neppure se, eliminando la copula, si dicesse «l’Uno uno» si avrebbe un’espressione appropriata, in quanto ogni espressione, non potendo essere proferita senza alterità o dualità, non si addice all’Uno. Pertanto, se poni mente a tutto questo, ti renderai conto che il Principio di tutto ciò che è nominabile non è nominabile, poiché non è nessuno dei principiati, e per questo motivo non può neppure essere qualificato come Principio, ma è piuttosto il Principio innominabile del principio nominabile e precede, come qualcosa di superiore, tutto ciò che è in qualsivoglia modo nominabile67. Vedi allora che di un tale Principio vengono negati i contraddittori, per cui non si può dire né che egli sia, né che non sia, né che egli sia e non sia, né che egli sia o non sia68; piuttosto, tutte queste espressioni non riguardano lui, che precede tutto ciò che è dicibile. E sebbene le cose stiano in questo modo e al Principio innominabile non si addica il sussistere per se stesso, in quanto il sussistere per se stesso non può essere concepito senza dualità e senza divisione69, mentre l’Uno precede ogni alterità70, a niente tuttavia si addice in modo più vero il sussistere per se stesso che all’Uno, il quale è la causa di tutto ciò che sussiste, dal momento che, rispetto ad esso, nessuna delle cose causate sussiste o è per se stessa, qualunque cosa essa sia. Tutte le parole che denotano qualcosa, infatti, a chi potrebbero addirsi in modo più vero che all’Uno71, dal quale tutte le cose che sono hanno sia ciò che esse sono, sia ciò per cui esse sono nominate?72 Quale sostanza è più vera di quella che conferisce ad ogni sostanza il suo essere sostanziale, anche se essa è superiore ad ogni sostanza nominabile? Platone vide che l’essere per sé esiste prima di tutti gli enti che sono differenti gli uni dagli altri; in questo senso, l’uomo per sé e l’animale per sé [esistono prima dei singoli uomini e dei singoli animali], e così via73. Non è forse vero che tutto ciò che sussiste per se
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nia, quae per se subsistere vidit, non in alio, sed in se vidit notionaliter, quemadmodum in praecedenti sermone tangitur? Sic etiam ea, quae in se vidit notionaliter quasi in principio notionalium seu entium rationum, quae sunt similitudines realium entium, vidit supra se esse essentialiter in conditore entium sicut in se notionaliter in conditore notionum. Unde hic li se est universalis intellectus, qui est aut conditor aut assimilator. Conditor est essentians, assimilator intelligens. Conditor in se omnia videt, hoc est se omnium videt conditivum sive formativum exemplar. Unde eius intelligere est creare. Assimilator intellectus, qui est conditoris similitudo, in se omnia videt, hoc est se omnium videt notionale sive figurativum exemplar, et eius intelligere est assimilare. Unde sicut conditor intellectus est forma formarum sive species specierum sive locus formabilium specierum, sic intellectus noster figura figurarum sive assimilatio assimilabilium seu locus figurabilium specierum seu assimilationum. 22 Adhuc ut circa haec exerciteris, attente considera Christum dixisse: «antequam Abraham fieret, ego sum», et alibi: «ante mundi constitutionem», et: «antequam mundus fieret», et: «ante omnia» et cetera; nam per se est ante omne fieri. Quomodo enim per se subsistere videretur post possibile fieri? Quis deduxisset possibile fieri in esse? Nonne qui actu? Recte igitur ante omne possibile fieri videtur per se actu subsistens. Sed quomodo potest videri ante possibile fieri? Nonne futurum semper ante fuit futurum? Igitur posse fieri semper est praesens per se subsistenti. Unde cum id, quod fit, sit temporale, tunc posse fieri temporaliter est praesens
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stesso egli lo vide non in qualcos’altro, ma lo vide concettualmente in se stesso, come abbiamo già accennato in un precedente discorso?74 E così anche quelle cose che egli vide concettualmente in se stesso e che vide, per così dire, nel principio dei concetti o degli enti di ragione, i quali sono similitudini degli enti reali, egli le vide esistere, in modo essenziale e al di sopra di sé, nel creatore degli enti, così come le vide esistere concettualmente in se stesso, ossia nel creatore dei concetti75. Quindi, il termine «sé» indica qui l’intelletto nel suo significato universale, il quale è o intelletto creatore o intelletto assimilatore. L’intelletto creatore conferisce l’essere, l’intelletto assimilatore conosce. L’intelletto creatore vede in sé tutte le cose76, ossia vede se stesso come esemplare creatore o formatore di tutte le cose. Per questo, il suo intendere equivale a creare. L’intelletto assimilatore, che è un’immagine dell’intelletto creatore, vede in se stesso tutte le cose, ossia vede se stesso come l’esemplare concettuale o rappresentativo di tutte le cose e il suo intendere equivale ad assimilare. Di conseguenza, come l’intelletto creatore è la Forma delle forme o l’Idea delle Idee77 o anche il luogo delle Idee formabili, così il nostro intelletto è la rappresentazione delle rappresentazioni, o l’assimilazione di tutto ciò che è assimilabile, o ancora il luogo delle idee rappresentabili78 o delle assimilazioni. Inoltre, affinché tu possa esercitarti ancora di più in tali questioni, considera con attenzione che Cristo ha detto: «Prima che Abramo fosse, io sono»79, e in altri passi: «Prima della creazione del mondo»80, «prima che il mondo fosse»81 e «prima di tutte le cose»82, ecc.; infatti, colui che esiste per se stesso è prima di tutto ciò che è stato fatto. In che modo, in effetti, si potrebbe considerare il sussistere per se stesso come successivo rispetto a ciò che può essere fatto? Chi avrebbe fatto passare all’essere ciò che può essere fatto? Chi, se non colui che è in atto? Pertanto, colui che sussiste per se stesso in atto viene giustamente considerato come anteriore rispetto a tutto ciò che può essere fatto. Ma in che modo lo si può considerare anteriore rispetto a ciò che può essere fatto? Non è forse vero che [ciò che doveva diventare] il futuro è sempre stato prima che il futuro fosse? Pertanto, per ciò che sussiste per se stesso il poter-essere-fatto è sempre presente. Dal momento che ciò che viene fatto è temporale, ne consegue che, per ciò che sussiste per se
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per se subsistenti aeternaliter. Id autem, quod videtur aeternaliter apud per se subsistens, est utique aeternum. Ante aeternum nihil est. Est igitur similiter per se subsistens. Quod igitur fit in tempore, est per se in aeternitate subsistens; sicut cum dicimus nos aliquid facturos, utique hoc aliquid, antequam fiat aliis visibile, in nobis est et in nobis videmus, et id fit in tempore visibile, quod est in verbo seu conceptu mentis mentaliter et aliis omnibus invisibiliter. 23 Palam omnia esse ab aeterno. In aeterno sunt omnia ipsum aeternum per se subsistens, a quo sunt, quaecumque facta sunt. Omnia temporalia sunt ab intemporali aeterno, sic omnia nominabilia ab innominabili et ita de omnibus. Ante omnia saecula aeternum; ante ante non est ante; absolutum ante aeternitas est. Antequam mundus fieret, videtur ante et per nihil ante ante. In ipso igitur ante, antequam mundus fieret, videtur mundus non factus, ideo per se subsistens. Mundus igitur, qui videtur, antequam fieret, est ipsum ante per se subsistens, et ipsum ante est mundus per se subsistens. Unde mundus per se subsistens est ipsum ante, antequam mundus fieret. Ab ante igitur, scilicet per se subsistenti, facta sunt omnia, quae facta sunt; sicut si diceretur: «antequam domus fieret», domus utique, quae fieri debuit, iam est nominata ante, quando dicitur: «antequam domus fieret». Omne igitur, quod factum est, fieri potuit et ante nominatum est. Fuit igitur ante in verbo, quam fieret, uti ibi: «fiat lux et facta est lux». Lux, quae fiebat, iam antequam fieret, erat in verbo, quia nomen eius lux erat; nec aliud nomen lux facta habuit, quam ut habuit, antequam fieret. Sed an-
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stesso, il poter-essere-fatto nel tempo è presente in modo eterno83. Ora, ciò che viene visto come eternamente presente presso ciò che sussiste per se stesso è senz’altro eterno. Ma niente è anteriore all’eterno. Pertanto, [ciò che viene visto come eternamente presente presso ciò che sussiste per se stesso] è in modo simile qualcosa che sussiste per se stesso. Quindi, ciò che viene fatto nel tempo è qualcosa che sussiste per se stesso nell’eternità. Ecco un esempio: quando diciamo che abbiamo intenzione di fare qualcosa, questo «qualcosa» è presente in noi e lo vediamo in noi prima che esso venga reso visibile agli altri, e nel tempo viene reso visibile ciò che nella parola o nel concetto della mente è presente in forma mentale ed è invisibile a tutti gli altri. È evidente che tutto deriva dall’Eterno84. Nell’Eterno tutte le cose sono lo stesso Eterno che sussiste per se stesso, dal quale deriva tutto ciò che è stato fatto. Tutto ciò che è temporale deriva dall’Eterno intemporale, così come tutto ciò che è nominabile deriva dall’Innominabile, e così via. L’Eterno è prima di ogni tempo; ma prima di questo «prima» non c’è alcun «prima»; il «prima» assoluto è l’Eternità85. Prima che il mondo fosse fatto, viene visto il «prima», ma non viene in alcun modo visto un «prima» di questo «prima». Pertanto, prima che il mondo fosse fatto, il mondo viene visto, nel «prima» stesso, come non-fatto, e di conseguenza come sussistente per se stesso. Il mondo, che viene visto prima che fosse fatto, è quindi il «prima» stesso che sussiste per sé, e questo «prima» è il mondo che sussiste per se stesso. Ne consegue che il mondo che sussiste per se stesso è quel «prima» che è prima che il mondo fosse fatto. Tutto ciò che è stato fatto è stato dunque fatto a partire da questo «prima», ossia da ciò che sussiste per se stesso. È come se uno dicesse: «prima che la casa venga fatta»; la casa che deve essere fatta viene in ogni caso già nominata prima, quando si dice: «prima che la casa venga fatta». Pertanto, tutto ciò che è stato fatto poté essere fatto86 e viene nominato prima [di essere fatto]; quindi era presente nel Verbo prima che venisse fatto, come si legge nel versetto: «Sia fatta la luce e la luce fu fatta»87. La luce, che è stata fatta, era presente nel Verbo già prima di essere fatta, dal momento che il suo nome era «luce»88, né, una volta fatta, la luce ebbe un nome diverso da quello che essa aveva prima di essere fatta. Ma
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tequam facta est lux, quia erat lux, quae fieri debuit, erat per se subsistens. Ante omne igitur factum est ipsum per se subsistens, sicut ante temporalia aeternum. 24 Proclus autem dicit primo hoc nomen authypostaton convenire tantum ut causae per se subsistentium, ut hominis per se subsistentis, quia aeternus. Causam dicit ipsum unum, regem scilicet omnium sive deum deorum; species enim et alia, quae ponit aeterna et ideo per se subsistere, in primo ut in causa et fonte complicari et explicata in aeternitate asserit, uti in mundo sensibili temporaliter et sensibiliter, ita in aeternali aeternaliter et intellectualiter. Et sicut negat unum, quod asserit omnia ut omnium causa, non subsistere per se, sed esse melius et ante omne per se subsistens, sic etiam de omnibus; nam sic ait unum non esse, sed esse ante omnia, quae sunt, et non esse in loco vel tempore, sed ante omnia localia et temporalia; ita de omnibus, quoniam ante omnem affirmationem et negationem. Et in hoc recte dicit, quia ante et melius omnibus, de quibus fieri possunt locutiones affirmativae vel negativae. 25 Sed quod plura possint esse sibi coaeterna tribus suis hypostasibus exceptis non bene dixit, cum idem sit aeternum et aeternitas, quae plurificari nequit sicut nec unum; ideo uti unum imparticipabile, ne sit minus unum et multiplicabile. Unde circa aeternitatem, quam quidem durationem successivam licet infinitam putarunt, videntur plures errasse. Sed qui principium considerat aeternitatem et in ipso ut principio et causa esse omnia ipsum unum principium, ille videt, ubi veritas et quidquid Parmenides concludit via ratio-
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prima che la luce venisse fatta, essa era qualcosa di sussistente per sé, dal momento che era proprio la luce che doveva essere fatta89. Prima di tutto ciò che è stato fatto vi è pertanto ciò che sussiste per se stesso, così come prima delle cose temporali c’è l’Eterno. Proclo, tuttavia, sostiene90 che questo nome di «authypostaton» può addirsi al primo solo in quanto causa delle cose che sussistono per sé, ad esempio in quanto causa dell’uomo per sé sussistente, perché questo è eterno. Proclo chiama questa causa l’Uno stesso91, o il «Re di tutte le cose»92 o il «Dio degli dèi»93; egli afferma, infatti, che le Idee e tutte le altre entità che egli pone come eterne e, di conseguenza, come sussistenti per sé, sono complicate nel Primo come nella loro causa e nella loro fonte94, e sono esplicate nell’eternità: come nel mondo sensibile, infatti, esse sono esplicate in modo temporale e sensibile, così nel mondo eterno sono esplicate in modo eterno ed intelligibile. E come nega che l’Uno (che, come egli sostiene, è tutto, in quanto causa di tutto95) sussista per sé, in quanto esso è piuttosto superiore ed anteriore rispetto a tutto ciò che è per sé sussistente, così ritiene che lo stesso valga per tutti gli altri predicati; infatti, come egli afferma che l’Uno non-è96, ma è prima di tutte le cose che sono, e che non è collocato nello spazio e nel tempo97, ma è prima di tutto ciò che è spaziale e temporale, lo stesso egli dice a proposito di tutti gli altri predicati, poiché l’Uno è prima di ogni affermazione e negazione98. E a questo proposito egli si esprime correttamente, in quanto l’Uno è anteriore e superiore rispetto a tutto ciò su cui si possono pronunciare degli enunciati affermativi o negativi. Proclo, tuttavia, ha sbagliato nel sostenere che possono esserci molteplici entità coeterne all’Uno99, oltre le sue tre Ipostasi, in quanto l’eterno e l’eternità sono la stessa cosa, e l’eternità non può essere moltiplicata come non può esserlo l’Uno; è per questo che l’Uno, in quanto tale, è impartecipabile, perché altrimenti esso sarebbe un Uno diminuito e moltiplicabile100. Per questo, molti hanno chiaramente errato a proposito dell’eternità concependola come una sorta di durata successiva per quanto infinita101. Ma chi riflette sul fatto che il Principio è l’eternità e che in esso, in quanto principio e causa, tutte le cose sono lo stesso unico Principio, costui vede dove risiede la verità e vede tutte le conclusioni tratte da Parmeni-
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nis, scilicet omnia de ipso negando et quod non plus unum oppositorum quam alterum vel ambo de eo affirmando et quod non sunt multa seu plura per se subsistentia; nam aut non participarent unum, tunc in hoc forent similia et iterum ideo non similia, quia uno non participarent, aut si participarent uno, tunc per se non subsisterent, sed per unum, quo participarent. Non erunt igitur plura per se subsistentia. Quare plura quae facta a per se subsistenti id sunt, quod sunt. Participant ergo uno, cum plura sine uno, quo participent, esse nequeant; sequeretur enim contradictoria simul esse vera, ut praemittitur. 26 Dixi autem superius per se subsistenti nullum nomen convenire, quoniam innominabile, indicibile et ineffabile est; etiam sibi li unum proprie non convenit. Nos autem, quoniam non possunt esse multa per se subsistentia, facimus de eo conceptum ut de uno, et unum est, quo ipsum nominamus secundum conceptum nostrum, et dicimus unam esse universi causam in se omnium rerum species complicantem, super omnem contradictionem, positionem et oppositionem, affirmationem et negationem exaltatam, quoniam illa indicibile non attingunt, sed inter effabilia verum a falso dividunt. Sermo autem circa unum non est, quia indeterminabile; quare Plato simul mentiri dicebat affirmationes et negationes in uno. Est ergo unum omni sensui, omni rationi, opinioni et scientiae et omnibus nominibus incomprehensibile. Deo tamen, qui est omnium causa, unum et bonum propius convenire dicimus, quia unum et bonum est ab omnibus desiderabile, sicut ab omnibus fugabile nihil et malum. Deum autem dicimus unum, quo melius co-
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de102 con il metodo del ragionamento, ossia che si deve negare tutto dell’Uno e che si deve affermare che esso non è uno degli opposti più di quanto non sia l’altro o entrambi, e che non c’è una molteplicità o una pluralità di realtà per sé sussistenti. Queste, infatti, o non parteciperebbero dell’Uno, e allora sarebbero sotto questo aspetto simili e per converso non sarebbero simili, in quanto non parteciperebbero dell’Uno; oppure, se partecipassero dell’Uno, non sussisterebbero allora per se stesse, ma per l’Uno di cui parteciperebbero. Non ci sarà dunque una pluralità di enti per se sussistenti. Pertanto, le molte cose che sono state fatte sono ciò che esse sono grazie a ciò che è per sé sussistente. Esse partecipano quindi dell’Uno, perché il molteplice non può essere senza l’Uno di cui partecipa; ne seguirebbe che i contraddittori sarebbero simultaneamente veri, come ho detto poco sopra103. In precedenza104, tuttavia, ho sostenuto che nessun nome si addice a ciò che è per sé sussistente, dal momento che esso è innominabile, indicibile e ineffabile: anche il nome «Uno» non gli si addice in senso proprio105. Tuttavia, dal momento che non può esserci una molteplicità di enti per sé sussistenti, noi ci formiamo di esso [di ciò che è per sé sussistente] un concetto come quello di Uno, ed «Uno» è il nome con cui lo designamo conformemente al concetto che noi abbiamo di esso106; e diciamo che la causa dell’universo è una e complica in sé le forme di tutte le cose, che essa è innalzata al di sopra di ogni contraddizione, di ogni posizione ed opposizione107, di ogni affermazione e negazione, perché tutte questi modi di espressone non raggiungono l’Indicibile, ma servono solo a distinguere il vero dal falso nell’ambito di ciò che è esprimibile. Intorno all’Uno, invece, non si può fare alcun discorso, perché l’Uno non è determinabile; per questo, Platone diceva108 che, riferite all’Uno, sia le affermazioni che le negazioni sono entrambe non vere. L’Uno resta pertanto incomprensibile per ogni forma di percezione sensibile, per ogni forma di ogni conoscenza razionale, di opinione, di scienza e per tutti i nomi109. Noi diciamo, tuttavia, che a Dio, che è la causa di tutte le cose, si addicono in modo più appropriato il nome di «Uno» e di «Bene» [rispetto ad altri nomi], perché l’uno e il bene sono ciò che tutte le cose desiderano110, così come ciò che tutte le cose rifuggono è il nulla e il male. Noi diciamo tuttavia che
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gitari nequit, et non intrat in nostram cogitationem aliquid melius esse eo, quod ab omnibus nobis desideratur. Hinc unum et bonum ipsum deum dicimus; nec illa sunt in ipso diversa, sed sunt ipsum unum, quod autounum Proclus nominat. 27 Neque ipsum deum unum ut cognitum nominamus, sed quia ante omnem cognitionem unum est desiderabile. Non est igitur dei comprehensio quasi cognoscibilium, quibus cognitis nomina imponuntur, sed intellectus incognitum desiderans et comprehendere non potens ponit denominationem unius divinando aliqualiter hypostasim eius ex indeficienti omnium unius desiderio. Quod autem deus non accedatur intellectualiter Proclus aiebat ideo, quia tunc solum intellectualis natura ferretur ad ipsum; nam non intellectuales ipsum non appeterent; sed cum ipse sit, cuius gratia omnia id sunt, quod sunt, ab omnibus naturaliter desiderari debet, uti est ipsum unum et bonum, quod omnia appetunt et omnia entia penetrat. 28 Adhuc attende: multitudo ab uno deserta esse nequit, ut patuit. Unum igitur est hypostasis eius, sed non unum participatum et coordinatum ipsi multitudini, quoniam tale in se non subsistit, sed in alio, scilicet multitudine. Omne autem in alio est ab eo, quod in se; nam in se est prioriter quam in alio, in quo non est nisi aliter. Aliter autem praesupponit in se. Hypostasis igitur, quod in alio, est ab eo, quod in se. Sic hypostasis coordinati ab exaltato et participabilis ab imparticipabili. Omne igitur, quod in considerationem cadit, aut est unum exaltatum aut coordinatum multitudini. Coordinatum vero non habet hypostasim nisi ab exaltato. Unum igitur exaltatum est hypostasis omnium hypostaseum, quo non exsisten-
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Dio è l’Uno di cui non si può pensare nulla di migliore111, e non riusciamo a pensare che vi sia qualcosa di migliore di ciò che noi tutti desideriamo. È per questo che diciamo che Dio è l’Uno e il Bene; e in Dio questi attributi non sono distinti, ma sono l’Uno stesso, che Proclo chiama «autounum»112. Inoltre, noi non denominiamo Dio l’«Uno» come se fosse qualcosa di conosciuto, ma perché l’Uno è ciò a cui si dirige il desiderio prima di ogni conoscenza113. Pertanto, la nostra comprensione di Dio non è come quella che noi abbiamo delle cose conoscibili, alle quali vengono imposti dei nomi dopo che sono state conosciute; piuttosto, l’intelletto, desiderando ciò che non conosce e non essendo in grado di comprenderlo, gli conferisce il nome di «Uno» presagendo in una certa misura la sua realtà grazie al desiderio incessante che tutti hanno dell’Uno. Che a Dio, invece, non si acceda intellettualmente, Proclo lo sosteneva perché, altrimenti, solo la natura dotata di intelletto tenderebbe verso di Lui; le nature che non sono dotate di intelletto non aspirerebbero a Lui114; invece, poiché Dio è colui grazie al quale tutti gli esseri sono ciò che sono, dev’essere per natura desiderato da tutti, in quanto Egli è l’Uno e il Bene al quale tutti gli esseri aspirano e che in tutti gli esseri è presente115. Presta attenzione ancora a quanto segue: non può esservi alcuna molteplicità completamente separata dall’Uno116, come è risultato chiaramente evidente. L’Uno, pertanto, è l’ipostasi della molteplicità, ma non l’Uno partecipato [di cui la molteplicità partecipa] e che è coordinato con la molteplicità, poiché un tale Uno non sussiste in sé, ma in altro, e cioè nella molteplicità. Tutto ciò che è-in-altro, tuttavia, procede da ciò che è in sé; infatti, ciò che è-in sé precede ciò che è-in altro, nel quale esso non sussiste se non in un altro modo [da come è in sé]. L’essere «in un altro modo» presuppone tuttavia l’essere «in sé». Pertanto, l’ipostasi che è-in altro procede da quella che è-in sé. Di conseguenza, l’ipostasi dell’Uno coordinato [con la molteplicità] procede dall’Uno trascendente [la molteplicità] e quella dell’Uno partecipabile procede dall’Uno non partecipabile117. Pertanto, tutto ciò che si presenta alla nostra considerazione o è l’Uno trascendente, o è l’Uno coordinato con la molteplicità. L’Uno coordinato, tuttavia, riceve la sua ipostasi solo dall’Uno trascendente. L’Uno trascendente, quindi, è l’ipostasi di tutte le ipostasi:
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te nihil est et quo exsistente omnia id sunt, quod sunt, et quo exsistente et non exsistente omnia exsistunt et non exsistunt. 29 Entia igitur, cum esse desiderent, cum sit bonum, unum desiderant, sine quo esse nequeunt; quid autem sit, quod desiderant, capere nequeunt, cum quodlibet entium sit unum participatione unitatis participabilis, quae habet hypostasim suam ab imparticipabili. Participabilis autem non est capax imparticipabilis, sicut capabilis non est capax incapabilis et causatum causae, et quod est secunde, non est capax eius, quod est prime, et licet non sit capax, non tamen est penitus ignorans eius, quod tantopere desiderat; certissime scit ipsum esse, quod desiderat. Et intellectualis natura, quae ipsum esse scit et incomprehensibilem, tanto se reperit perfectiorem, quanto scit ipsum magis incomprehensibilem; incomprehensibilis enim hac scientia ignorantiae acceditur. 30 Parmenides, haec attendens, ad ipsum unum exaltatum respiciens unum ens esse dicebat; vidit enim in uno ente omnem multitudinem complicari, et cum multitudinis causa sit unitas, sine qua esse nequit, ideo ad unialem unitatis causam respiciens ens unum protulit omnem multitudinem in uno considerans. Zeno in multitudine entium non videns nisi unum ens participatum dicebat non esse multa quae entia; ut enim multa ab uno deserta non sunt; propter unum igitur subsistunt. Non sunt igitur multa quae entia, nisi uno ente participent. Unum igitur est hypostasis. Et Zeno non voluit idem dicere quod Parmenides, nam non respexit ad unum exaltatum sicut Parmenides, sed participatum, moriens autem accessit ad assertionem Parmenidis multitudinem quidem in uno secundum causam respiciens, unum autem in sola multitudine sal-
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se esso non esiste, nulla è, se esiste, tutte le cose sono ciò che sono, e se esso esiste e non esiste, tutte le cose esistono e non esistono118. Gli enti, dunque, dal momento che desiderano l’esistenza, in quanto è un bene119, desiderano l’Uno, senza il quale non possono esistere; che cosa sia ciò che essi desiderano non possono tuttavia comprenderlo, poiché qualsiasi ente è uno in quanto partecipa dell’Unità partecipabile, la quale ha la sua ipostasi dall’Unità nonpartecipabile. Ma l’Unità partecipabile non è in grado di comprendere l’Unità non-partecipabile, come l’Unità comprensibile non è in grado di comprendere l’Unità incomprensibile, e il causato la Causa, e ciò che esiste in modo derivato non è in grado di comprendere ciò che esiste in modo originario120. E sebbene non sia in grado di comprenderlo, non si trova tuttavia in una condizione di totale ignoranza nei confronti di ciò che desidera con tanto ardore; sa con assoluta certezza che ciò che esso desidera esiste. E la natura dotata di intelletto, che sa che ciò che essa desidera esiste e che è incomprensibile, si scopre tanto più perfetta quanto più sa che esso è incomprensibile; l’accesso all’Incomprensibile, infatti, risiede in questa conoscenza della propria ignoranza121. Parmenide122, che considerò attentamente queste cose, diceva, riferendosi all’Uno trascendente, che l’essere è Uno; egli ha visto, infatti, che ogni molteplicità è complicata in un unico essere; e dal momento che la causa della molteplicità è l’Unità, senza la quale la molteplicità non potrebbe esistere, per questo, facendo riferimento alla causalità unitiva dell’Unità, Parmenide ha sostenuto che l’Essere è Uno, considerando l’intera molteplicità nell’Uno. Zenone, non vedendo nella molteplicità degli esseri che l’Uno-Essere partecipato, ha detto che non c’è una molteplicità di enti; in quanto molteplici, infatti, essi non sono completamente separati dall’Uno; è grazie all’Uno, pertanto, che essi sussistono. Non c’è pertanto una molteplicità di enti, se essi non partecipano dell’Uno-Essere. Di conseguenza, l’Uno è la loro ipostasi. Zenone, tuttavia, non ha inteso sostenere la stessa cosa di Parmenide, poiché egli non si riferiva, come Parmenide, all’Uno trascendente, ma all’Uno partecipato: prima di morire, tuttavia, Zenone123 si è avvicinato alla tesi di Parmenide, in quanto considerò la molteplicità nell’Uno dal punto di vista della causalità, non potendo preservare l’Uno se esso
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vare non potens. Unum quidem secundum se ante multitudinem est, multitudo vero omnino ex uno est quod est. Sed qui considerat omnem unitatem habere aliquam sibi coniugam multitudinem et quod omnis multitudo ab aliqua sibi convenienti unitate continetur, videt unum simul et multa entia, in unitate multa et in multitudine unum, sine quo nec esset ordo nec species nec quidquam, sed confusio et difformitas. Nec refert, si eo modo, quo de unitate dictum est, dicas de aequalitate, uti in praecedenti sermone habes; nam aequalitas est unificans et potest dici unionis causa. Sicut unum, sic bonitas et iustitia et talia. 31 Adhuc attende, quomodo quidam dicunt de dualitate, quod sit unitas simul et multitudo, quoniam hoc verum eo modo: sicut id, quod est causa unionis, secundum causam est unum, sic dualitas secundum causam est multitudo; dualitas enim undique mater est multitudinis. Dualitas autem non est deserta ab uno; omne enim, quod post unum est, uno participat; omnia posteriora prioribus participant et non e converso. Dualitas non est prima unitas omnia antecedens et exaltata supra omnia, sed est participata unitas; habet enim ab unitate, quod est unitas, et sic est aliqualiter unitas et dualitas; et ita videtur unitas esse multitudo; sed est unitas tamquam uno participans et multitudo tamquam causa multitudinis. Sic intelligo id, quod quidam dixerunt, dualitatem neque unitatem neque multitudinem. 32 Plato autem post unum posuit duo principia, scilicet finitum et infinitum, puta sicut numerus post unum est ex finito et infinito; si enim unitatem numeri a numero separatam consideras, monas est et non est numerus, sed principium numeri, si multitudinem ab unitate desertam consideras, infinitas quaedam est. Numerus igitur ex unitate et multitudine tamquam finito et infinito con-
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sussiste solamente nella molteplicità. Considerato per se stesso, infatti, l’Uno esiste prima della molteplicità, mentre la molteplicità è ciò che essa è completamente a partire dall’Uno. Tuttavia, chiunque consideri che ogni unità comporta una qualche molteplicità che è ad essa congiunta e che ogni molteplicità è tenuta insieme da una qualche unità che è ad essa conforme, vede allora contemporaneamente l’Uno e gli enti molteplici: nell’Unità vede i molti enti e nella molteplicità l’Uno, senza il quale non vi sarebbe né ordine, né forma specifica, né alcunché, ma solo confusione e deformità. E poco importa se ciò che abbiamo appena detto dell’Unità lo dici dell’Uguaglianza, come sai da un nostro precedente discorso124; l’Uguaglianza, infatti, produce unificazione e può essere detta causa dell’unione. E ciò che vale per l’Uno vale anche per la Bontà, per la Giustizia, ecc. Considera inoltre come alcuni filosofi parlano della Diade125, dicendo che essa è insieme unità e molteplicità; quello che essi dicono è infatti vero in questo senso: come ciò che è causa dell’unione è Uno in quanto causa, così la Diade è molteplicità in quanto causa; la Diade, infatti, è ovunque la madre della molteplicità. La Diade, tuttavia, non è separata dall’Uno; tutto ciò che è posteriore all’Uno partecipa infatti dell’Uno; tutto ciò che è gerarchicamente posteriore partecipa di ciò che è gerarchicamente anteriore e non viceversa126. La Diade non è dunque la prima Unità, la quale precede tutto ed è elevata al di sopra di tutto, ma è un’Unità partecipata; è dalla [prima] Unità, infatti, che la Diade ha il fatto di essere una unità, per cui essa è in qualche modo unità e dualità; e così essa sembra essere [insieme] unità e molteplicità, ma la Diade è un’unità in quanto partecipa dell’Uno, ed è una molteplicità in quanto causa della molteplicità. È in questo modo che io intendo ciò che certi filosofi hanno detto, ossia che la Diade non è né unità, né molteplicità. Platone, tuttavia, ha posto dopo l’Uno due principi, ossia il finito e l’infinito, come il numero, ad esempio, che viene dopo l’uno, è costituito dal finito e dall’infinito127; se infatti consideri l’unità del numero separata dal numero, vedrai che essa è la monade e non è un numero, ma è il principio del numero; se consideri la molteplicità come separata completamente dall’unità, vedrai che essa è una sorta di infinità. Il numero appare pertanto costituito dall’unità e
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stitui videtur. Sic de omni ente. Capit autem infinitatem pro interminato et confuso, apto tamen terminari et finiri, finitum vero pro forma finiente et terminante infinitatem. 33 Et si quis subtilius advertit, non est Melissi positio ita absurda, sicut Aristoteles eam redarguit; nihil enim in omni consideratione videtur quam infinitas, scilicet infinitas finiens et infinitas finibilis. Infinitas finiens est finis, cuius non est finis, et est principium per se subsistens omnem finem complicans et est deus ante omne ens, et infinitas finibilis est carentia omnis termini et diffinitionis finibilis fine infinito et est post omne ens. Quando igitur infinitum primum finit secundum, oritur ens finitum ab infinito principio, scilicet a primo, quod est plus quam ens, cum ipsum praecedat, non a secundo, cum sit post ens. In primo infinito sunt omnia diffinibilia actu, in secundo sunt omnia diffinibilia in respectu omnipotentiae primi, uti dicimus per omnipotentem de nihilo omnia posse creari; non quod in nihilo sint omnia in potentia, nisi referatur potentia ad omnipotentiam, ubi coincidit posse facere cum posse fieri, quasi concipias omnipotentis formae ipsum nihil esse materiam, quam ut voluerit formet, sed formae non omnipotentis et finitae virtutis non esse nihil materiam, sed magis formabilem seu minus resistentem, ut est possibilitas essendi hoc, quod forma formare potest, tamquam apta et oboediens, ut mereatur talem formam. Hoc dicebat Plato, quod formae darentur secundum merita materiae. 34 Resumendo itaque, quae tacta sunt, principium esse uniternum et ipsum aeternum manifestum dico hunc mundum ab uniterno principio id esse, quod est. Nec sunt multa principia, ut patuit.
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dalla molteplicità come dal finito e dall’infinito. Lo stesso vale per ogni ente. Platone, tuttavia, concepisce l’infinità come qualcosa di indeterminato e di confuso, che è atto tuttavia ad essere determinato e delimitato, e concepisce il finito come la forma che delimita e determina l’infinità. E se si riflette più approfonditamente, si vedrà che la posizione di Melisso non è così assurda come Aristotele l’accusa di essere128; infatti, in tutto ciò che possiamo prendere in considerazione non vediamo altro che l’infinito, ossia un infinito delimitante ed un infinito delimitabile. L’infinito delimitante è un Limite di cui non c’è limite, ed è il Principio, per sé sussistente, che complica ogni limite, ed è Dio che è anteriore ad ogni essere129. L’infinito delimitabile è mancanza di ogni determinatezza e di ogni delimitazione; esso è delimitabile dal Limite infinito ed è posteriore ad ogni essere. Pertanto, quando il primo infinito delimita il secondo, nasce l’essere finito, e nasce dal Principio infinito, ossia dal primo Infinito, che è più-che-essere, in quanto precede l’essere, e non dal secondo infinito, dal momento che quest’ultimo è posteriore all’essere. Nel primo infinito tutto ciò che è delimitabile sussiste in atto130, nel secondo infinito tutto ciò che è delimitabile sussiste solo in rapporto all’onnipotenza del primo infinito, così come diciamo che dall’Onnipotente tutte le cose possono essere create dal nulla; questo non significa che tutte le cose sarebbero contenute «in potenza» nel nulla, a meno che non si riferisca l’espressione «potenza» all’onnipotenza nella quale il poter-fare coincide con il poter-essere-fatto131. Potresti concepire il nulla in questione come la materia della forma onnipotente, che essa forma come vuole; per la forma che non è onnipotente e che ha una potenza finita, invece, la materia non è il nulla, ma è una materia che è più facilmente formabile o meno resistente, ossia è la possibilità di essere questa determinata cosa che la forma può formare, in quanto è per così dire adatta ed obbediente per meritare una tale forma. Questo è quanto diceva Platone, ossia che le forme vengono date secondo i meriti della materia132. Riassumendo dunque i punti già affrontati, è evidente che il principio è uni-trino e che è l’Eterno stesso133; io affermo, pertanto, che questo mondo è ciò che esso è grazie al principio uni-trino134. E, come è apparso chiaro, non ci sono molti principi135. Ciò che è
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Non multa non potest nisi unum concipi; ante igitur hunc mundum et multa principium, quod est non multa. Sicut igitur ante multa non multa, sic ante ens non ens et ante intellectum non intellectus et generaliter ante omne effabile ineffabile. Negativa igitur principium omnium affirmationum; principium enim nihil est principiatorum. Sed cum omne causatum verius sit in sua causa quam in se ipso, igitur affirmatio melius est in negatione, cum negatio sit eius principium. Principium igitur est ante maximum et minimum pariter omnium affirmationum; puta non ens entis principium sic videtur ante ens, quod per medium coincidentiae maximi et minimi videtur superexaltatum; praecedit enim ens, quod pariter est minime et maxime ens sive sic non ens, quod maxime ens. Non est principium entis nullatenus ens, sed non ens modo dicto; cum enim video ad principium entis, quod non est principiatum, ipsum video minime ens esse, cum video ad principium entis, in quo est melius principiatum quam in se, video ipsum maxime ens. Sed quia idem principium est supra omnia opposita et effabilia ineffabiliter, video ipsum ante maximum pariter et minimum omnibus, quae dici possunt, suprapositum. Quare consequenter omnia, quae de ente affirmantur, pariformiter de principio negantur modo praemisso. Omnis autem creatura ens aliquod est. Non multa igitur omnium principium omnia complicat, sicut negativa praegnans dicitur affirmationis, scilicet ut non esse dicit sic non esse, ut per esse significatur, sed melius esse. 35 Principium igitur ineffabile nec principium nominatur nec multa nec non multa nec unum nec alio nomine quocumque, sed ante
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«non-molti» può essere concepito solo come uno: prima di questo mondo, dunque, e prima dei molti c’è il Principio, che è «non-molti»136. Come prima dei molti, quindi, c’è il «non-molti», così prima dell’essere c’è il «non-essere», prima dell’intelletto il «non-intelletto», e in generale prima di tutto ciò che è esprimibile c’è il «nonesprimibile»137. Il principio di tutte le affermazioni è quindi una negazione138; il principio, infatti, non è nessuno dei principiati139. Poiché, tuttavia, tutto ciò che è causato esiste in maniera più vera nella sua causa che in se stesso140, per questo l’affermazione esiste in modo migliore nella negazione, poiché la negazione è il suo principio. Il Principio, quindi, è ugualmente anteriore sia al massimo sia al minimo di tutte le affermazioni. Ad esempio, il «non-essere», in quanto principio dell’essere, viene visto come anteriore all’essere, in modo tale che, per mezzo della coincidenza del massimo e del minimo, lo si vede come elevato al di sopra di tutto; infatti, ciò che è essere sia in forma massima che in forma minima, o che è non-essere nel senso che è l’essere in forma massima, precede l’essere. Il Principio dell’essere non è il mero non-essere, ma è il non-essere nel senso che abbiamo precisato141; quando infatti guardo al Principio dell’essere, che non è nessuna delle cose che derivano dal Principio, allora vedo che esso è essere in forma minima; quando invece guardo al Principio dell’essere, nel quale ciò che deriva dal Principio esiste in un modo migliore rispetto a come esiste in se stesso, vedo allora che esso è essere nella forma massima. Ma poiché questo stesso Principio è al di sopra di tutti gli opposti ed è, in modo non-dicibile, al di sopra di tutto ciò che è dicibile, vedo che esso è anteriore sia al massimo che al minimo e che è collocato al di sopra di tutto ciò di cui si può parlare. Ne risulta che tutto ciò che viene affermato dell’essere viene correlativamente negato del Principio, nel modo che abbiamo appena indicato. Ogni creatura, tuttavia, è un certo ente. Il «non-molti», quindi, in quanto principio di tutte le cose, complica in sé tutte le cose, nello stesso senso in cui si dice che la negazione è gravida dell’affermazione142, ossia nel senso che l’espressione «nonessere» vuol dire «non essere nel modo indicato dal termine “essere”», ma essere in un modo migliore. Il Principio ineffabile non viene pertanto denominato né «principio», né «molti», né «non-molti», né «uno», né con qualsiasi altro
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omnia illa est innominabiliter; omne enim nominabile aut figurabile seu designabile praesupponit alteritatem et multitudinem et non est principium; omnis enim multitudinis unitas principium. Multa non possunt esse aeterna, cum aeternum sit aeternitas, ut praemittitur; principium autem aeternum. Inmultiplicabile principium non est alterabile nec participabile, quia aeternitas. Nihil igitur in hoc mundo est eius similitudinem habens, cum non sit designabile nec imaginabile. Mundus est infigurabilis figura et indesignabilis designatio; mundus sensibilis est insensibilis mundi figura et temporalis mundus aeterni et intemporalis figura; figuralis mundus est veri et infigurabilis mundi imago. 36 Dum video per contradictoria principium, omnia in ipso video; esse enim et non esse omnia ambit, quoniam omne, quod dici aut cogitari potest, aut est aut non est. Principium igitur, quod est ante contradictionem, omnia complicat, quae contradictio ambit. Principium videtur in oppositorum aequalitate. Absoluta aequalitas essendi et non essendi non est participabilis, cum participans sit aliud a participato. Aequalitas igitur in alio non nisi aliter participabilis non est aequalitas, quae principium superexaltatum super aequale et inaequale. Nihil igitur ex omnibus aequaliter potest esse et non esse; quare duo contradictoria non possunt aeque de eodem verificari. Omnis igitur creatura imparticipabile principium in alteritate participat, sicut aequalitas imparticipabilis in similitudine. Similitudo aequalitatis, cum non sit aequalitas, sed eius similitudo, non potest esse nec maxima, qua maior esse nequit, nec minima, qua minor esse nequit, quia non foret similitudo, sed aut nihil aut aequalitas. Participa-
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nome, ma esso è, in modo innominabile, prima di tutti i nomi143. Infatti, tutto ciò che può essere nominato, raffigurato o rappresentato, presuppone una alterità e una molteplicità, e non è il Principio; il Principio di ogni molteplicità, infatti, è l’unità144. Il molteplice non può essere eterno, perché, come abbiamo detto precedentemente, l’eterno è identico all’eternità145; il Principio, invece, è eterno. Il Principio, che non è suscettibile di moltiplicazione, non è né alterabile, né partecipabile, perché è l’eternità146. Non c’è niente in questo mondo che abbia una somiglianza con esso147, poiché il Principio non è rappresentabile, né esprimibile con un’immagine. Il mondo è una raffigurazione di ciò che è irraffigurabile e una rappresentazione di ciò che non è rappresentabile148; il mondo sensibile è la raffigurazione del mondo non-sensibile, e il mondo temporale è una raffigurazione del mondo eterno e non-temporale; il mondo raffigurato è un’immagine del mondo vero e non raffigurabile. Allorché guardo il Principio con l’ausilio dei contraddittori, vedo in esso tutte le cose; l’essere e il non-essere, infatti, abbracciano tutto, poiché tutto ciò che può essere detto o che può essere pensato o è o non è149. Il Principio, quindi, che è anteriore alla contraddizione, complica in sé tutto ciò che la contraddizione abbraccia. Il Principio viene visto nella uguaglianza degli opposti. Dell’assoluta uguaglianza dell’essere e del non-essere non è possibile partecipare, perché ciò che partecipa è altro da ciò che è partecipato150. Pertanto, l’uguaglianza, che è partecipabile in altro solo secondo il modo dell’alterità, non s’identifica con l’uguaglianza che è propria del Principio, il quale è innalzato al di sopra dell’uguale e dell’ineguale151. Non c’è nessuna cosa, pertanto, che possa egualmente essere e non essere; per questo motivo, due proposizioni contraddittorie non possono essere ugualmente vere della medesima cosa152. Del Principio impartecipabile, dunque, ogni creatura partecipa nell’alterità153, così come dell’uguaglianza impartecipabile si partecipa nella somiglianza. Dal momento che la somiglianza con l’uguaglianza non è l’uguaglianza, ma una sua somiglianza, essa non può essere la massima, tale che non possa essercene una maggiore, né la minima, tale che non possa essercene una minore, perché, altrimenti, non sarebbe una somiglianza, ma o non sarebbe nulla, o sarebbe l’uguaglianza. Dell’uguaglianza si può dunque
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bilis igitur est aequalitas in similitudine, quae alia et varia esse potest, maior aut minor. 37 Creatura, cum nihil sit et totum esse suum habeat a causa, in principio est veritas; principium enim veritas est omnium creaturarum. Mundus igitur iste, quem magister noster dicit constitutum, quando ait «ante mundi constitutionem», non est veritas, sed eius principium est veritas. Ob hoc in mundo constituto nihil praecise verum reperitur, nulla est praecisa aequalitas aut inaequalitas seu similitudo sive dissimilitudo; mundus enim veritatis praecisionem capere nequit, ut de spiritu veritatis magister noster affirmat. In principio igitur, quod est veritas, sunt omnia ipsa aeterna veritas. Quia mundus constitutus per aeternum mundum sive principium constitutus non est in veritate, sed fallibilitate varietatis positus, sic non in bono, quod soli deo sive constituenti mundo convenit, sed in maligno positus est. 38 Posset quis dicere mundum omnia complecti, quoniam videtur ante eius constitutionem et videtur constitutus. Mundus ante constitutionem in principio verbum erat, et mundus constitutus per ipsum est constitutus, sicut verbum ante designationem et verbum designatum; quando enim intellectus sui ipsius verbum mentale, in quo se intelligit, vult manifestare, hoc facit per elocutionem sive scripturam seu aliam sensibilem designationem. Verbum igitur ante designationem mentale, designatum vero induit sensibilem speciem, et sic insensibile constitutum est sensibile. Sensibile autem ad insensibile nullam habet proportionem. Sic se habet aliqualiter mundus constitutus ad constituentem. Patet igitur principium universorum non esse neque aliud neque idem respectu creaturarum suarum, sicut verbum indesignatum est neque aliud neque idem ad suum designatum; primum enim principium est ante
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partecipare solo nella somiglianza, la quale può essere differente e varia, maggiore o minore. Dal momento che la creatura non è nulla in se stessa e riceve tutto il suo essere dalla causa, è nel Principio che risiede la sua verità154; il Principio, infatti, è la verità di tutte le creature. Questo mondo, pertanto, che il nostro Maestro chiama creato quando dice «prima della creazione del mondo»155, non è la verità, ma è il suo Principio che è la verità. È per questo che nel mondo creato non si trova nulla che sia precisamente vero; non c’è in esso alcuna precisa uguaglianza o disuguaglianza, o alcuna precisa somiglianza o dissomiglianza; il mondo, infatti, non è in grado di cogliere la verità nella sua precisione156, come afferma il nostro Maestro a proposito dello spirito di verità157. Nel Principio, che è la verità, tutte le cose sono pertanto la stessa verità eterna158. Poiché il mondo creato, che è stato creato dal mondo eterno, ossia dal Principio, non è posto nella verità, ma nella fallibilità del mutamento, esso non è posto neppure nel bene, che si addice solo a Dio o al mondo creatore, ma è posto «sotto il potere del maligno»159. Qualcuno potrebbe dire che il mondo contiene in sé tutto, dal momento che esso viene visto prima della sua creazione e viene visto come creato. Prima della sua creazione, il mondo era nel Principio ed era il Verbo160; in quanto creato, il mondo è stato creato mediante il Verbo161. Lo stesso accade per il verbo prima che esso venga proferito e per il verbo proferito; infatti, quando l’intelletto vuole manifestare il suo verbo mentale, nel quale esso conosce se stesso, lo fa mediante la parola o mediante la scrittura, o attraverso qualche altra espressione sensibile. Prima di venire proferito, dunque, il verbo è puramente mentale; quando viene proferito, assume invece una forma sensibile, e in questo modo ciò che non è sensibile viene reso sensibile. Il sensibile [il verbo che ha assunto una forma sensibile], tuttavia, non ha alcun rapporto di comparazione con ciò che non è sensibile [con il verbo mentale]. Il mondo creato si comporta in modo all’incirca analogo nei confronti del mondo creatore162. Risulta dunque evidente che il Principio di tutte le cose non è, rispetto alle sue creature, né altro da esse, né identico ad esse163, così come il verbo non proferito non è né altro dal verbo proferito, né identico ad esso; il primo Principio, infatti, è ante-
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omnem alteritatem et identitatem. Sicut natura incolorata neque alba neque nigra dicitur, non ut illis privetur ut materia, sed per eminentiam, quoniam est ipsorum causa, sic negamus vocem et silentium de anima, quoniam non est nec vox nec silentium modo quo lignum, sed modo quo causa nihil causati, causat enim anima ista in animali; ita omnia de uno principio negamus, quae ab ipso procedunt. Et non est principium unum dans omnibus hypostasim aliud aut idem, sed superexaltatum per eminentiam. Et in omnibus per ipsum constitutis creator non est idem cum sua creatura, sicut nec causa cum causato, sed non adeo longe abest, quod sit quid alterum; oporteret enim ipsius et creaturae, quae numerum constituerent, esse aliquod principium, cum omnis multitudinis unitas sit principium, et ita primum principium non foret primum principium. Et hoc Paulus apostolus expressit, cum diceret deum non longe a nobis abesse, cum in ipso simus et movemur. 39 Quemadmodum etiam primissimam monadem dicimus innumeratam, non tamquam submissam materiam numeris et interminatam, sed ut in se omnes numeros et species numerorum complicantem et producentem, quae non est aliud aut idem cum quacumque specie numeri, sic de uno principio, quantum nostra capacitas nobis suffragatur, conceptum facimus similitudinarium aliqualiter, licet valde infra praecisionem, quoniam est unum principium inmultiplicatum omnem multitudinem complicans et explicans seu producens, cui si addis aliquid quodcumque, puta dicendo unum ens, non manet unum simpliciter et transit in multitudinem. Multa quae entia habent ab uno primo principio, quod sunt multa, ab ente, quod sunt entia; et ita omnis multitudo est ab uno
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riore ad ogni alterità e ad ogni identità164. Della natura [del colore], che non è colorata, si dice che non è né bianca né nera, non nel senso che essa sia priva di questi colori come lo è la materia, ma [la si dice tale] per eminenza, in quanto è la loro causa. Così non attribuiamo all’anima la voce e il silenzio, non perché essa sia priva di voce e di silenzio nel modo in cui ne è privo un pezzo di legno, ma perché l’anima non è queste cose nel modo in cui la causa non è nulla di ciò che da essa è causato; è l’anima, infatti, che è la causa della voce e del silenzio negli esseri dotati di senso. Allo stesso modo, non attribuiamo all’Uno-Principio tutto ciò che da esso procede165. E l’Uno-Principio, che conferisce a tutte le cose la loro «ipostasi», non è né altro da esse, né è identico ad esse, ma è elevato al di sopra di esse a motivo della sua eminenza. E il creatore è in tutto ciò che viene da lui creato, ma non è identico alla sua creatura, così come la causa non è identica al causato166; tuttavia, non è neppure così completamente separato da essere altro da essa; altrimenti, infatti, il creatore e la creatura, che in questo caso costituirebbero un numero [di cose]167, dovrebbero avere un qualche principio comune, dal momento che il principio di ogni molteplicità è un’unità, e il primo principio non sarebbe più il primo principio. Ed è questo che l’apostolo Paolo ha inteso esprimere quando ha detto che Dio non è lontano da noi, perché è in lui che noi siamo e ci muoviamo168. Della monade assolutamente prima diciamo che è senza numero, non perché essa sia una materia indeterminata che soggiace ai numeri, ma nel senso che è una monade che complica in sé e produce tutti i numeri e tutte le specie dei numeri, e nel senso che essa non è qualcosa di altro o di identico rispetto a qualunque specie di numero169. È in modo simile che ci formiamo un concetto dell’Uno-Principio, per quanto ce lo consentono le nostre capacità; un concetto che in qualche modo si approssima ad esso, anche se rimane di gran lunga al di sotto della precisione, in quanto il Principio-Uno, che complica ed esplica o produce ogni molteplicità, non può essere reso molteplice, mentre se tu aggiungi ad esso un attributo qualsiasi, dicendo, ad esempio, «l’Uno essente», esso non rimane più l’Uno puro e semplice e diventa molteplice170. I molti enti hanno dall’Uno, in quanto primo principio, il fatto di essere molti, e dall’Essere il fatto di essere degli enti; così, ogni molteplicità
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ut multitudo, et contracta multitudo contractionem habet ab uno contracto, sicut multa entia ab uno et uno ente. Ens ab uno habet quidquid est; uno enim sublato nihil manet. Et si recte attendis, additio ad unum non est additio ad unum superexaltatum, sed est modus essendi – quod est ens entium – unius participabilis et contrahibilis ad varietatem, sicut de aequalitate imparticipabili et similitudine eius participabili praedixi. Sic entitas est universalis essendi modus participabilis unitatis, et vita modus est essendi specialior et perfectior unitatis participabilis, et intellectus est adhuc perfectior modus. Sed absolutae unitatis contrahibilis unitas similitudo est et imago, quae non est nisi designabilitas sive revelatio eius, uti designabilis indivisibilitas, punctus, se habet ad indivisibile simpliciter indesignabile, scilicet unum absolutum. Patet quod unum ens se habet ad simpliciter unum sicut multa et ad multitudinem entium sicut monas. In unitate entis videtur unum entialiter contractum, et hoc sine multitudine non est possibile. Unum vero principium est super omnem multitudinem exaltatum et expansum. Unum ens in se omnem colligit entium multitudinem, cum nulla entium multitudo esse possit deserta ab uno ente, et explicatur in multitudine unitas entis; sic de vita viventium et intellectu intelligentium et omnibus, quoniam omnis multitudo participat uno et ad monadem suam unitur, multitudo autem unitatum monadialium in primissimo uno complicatur. 40 Putarunt Platonici unum principium deum esse primissimum et omnium regem et alios esse deos unitatem prime inter omnia entia participantes; nam primissimo deo universalem providentiam adscripserunt, sed aliis diis partialem, quemadmodum legimus an-
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procede dall’Uno in quanto molteplicità, e la molteplicità contratta trae la sua contrazione dall’Uno contratto, così come i molti enti derivano dall’Uno [assoluto] e dall’Uno-essente171. Dall’Uno l’essere riceve tutto ciò che esso è; tolto l’Uno, infatti, non resta nulla. E se consideri correttamente la cosa, vedrai che l’aggiunta all’Uno non è un’aggiunta all’Uno che è elevato al di sopra di tutto, ma è un modo d’essere – che è l’essere degli enti – che corrisponde all’Uno partecipabile e contraibile nella diversità, come in precedenza ho detto a proposito della uguaglianza impartecipabile e della sua somiglianza partecipabile172. Così l’entità è il modo d’essere universale dell’Unità partecipabile, e la vita è un modo d’essere più specifico e più perfetto di questa Unità e l’intelletto è un modo ancora più perfetto173. Ma l’Unità contraibile è una similitudine e un’immagine dell’Unità assoluta, e non è se non la sua rappresentazione o rivelazione; essa si rapporta all’Unità assoluta come l’indivisibilità che può essere rappresentata [sensibilmente], e cioè il punto, si rapporta all’indivisibile che non può essere affatto rappresentato, ossia all’Uno assoluto174. È evidente che l’Uno-essente si rapporta all’Uno puro e semplice come un molteplice, e alla molteplicità degli enti come una monade. Nell’unità dell’ente l’Uno viene visto come contratto entitativamente, e questo non è possibile senza molteplicità. Ma, in quanto principio, l’Uno è trascendente ed elevato al di sopra175 di ogni molteplicità. L’Uno-essente, invece, contiene raccolta in sé l’intera molteplicità degli enti, poiché nessuna molteplicità degli enti può sussistere completamente separata dall’Unoessente, e poiché l’unità dell’essere si esplica nella molteplicità; avviene lo stesso per la vita a proposito degli esseri viventi e per l’intelletto a proposito degli esseri dotati di intelligenza, e per tutte le cose, dal momento che ogni molteplicità partecipa dell’Uno176 ed è unita alla propria monade. Ma la molteplicità delle unità monadiche è complicata nell’Uno assolutamente primo. I Platonici hanno creduto che il principio Uno fosse il Dio assolutamente primo e il Re di tutto, e che vi fossero altri dèi che, fra tutti gli esseri, partecipano per primi dell’Unità177. Infatti, al Dio che è assolutamente primo essi hanno attribuito la provvidenza universale, mentre agli altri dèi hanno attribuito una provvidenza parziale178, così come anche noi leggiamo che gli angeli sono po-
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gelos praepositos regnis et eis datum nocere terrae et mari; putarunt etiam deos mechanicis artibus praeesse, ut Vulcanum fabrili arti. Fatebantur autem omnes deos sive intelligentiales sive caelestiales sive mundiales nihil habere nisi sibi datum a primissimo deo omnium rege, quem Iovem appellarunt antiqui, qui omnium rex erat suo tempore nominatissimus; hinc Iovis esse dicebant omnia plena omnia ad unum reducentes, quia multitudo principum mala, si est deserta ab unitate. Unitas autem dat omni regno subsistentiam et divisio desolationem, ut nos docet princeps omnium, rex noster Messias. Isti utique si forent dii, forent novi et recentes et creati, qui ante mundi constitutionem non fuissent et propter mundum essent. Et cum mundus sit propter deum, nos cum Paulo dicimus «quod nullus est deus nisi unus. Nam etsi sunt, qui dicantur dii, sive in caelo sive in terra, scilicet quidem sunt dii multi et domini multi, nobis tamen unus deus, pater, ex quo omnia et nos in illo, et unus dominus Iesus Christus, per quem omnia et nos per ipsum» (I ad Cor. 8). Et hic est, de quo in themate, scilicet principium, qui et loquitur, cui data est omnis potestas, quae in caelo et in terra, cui omnes illi dii creati, de quibus dicunt praedicti, sive virtutes sive potestates subsunt, cum sit verbum dei vivi, per quod sunt omnia, in quo sunt omnes thesauri scientiae absconditi, per quem solum, sicut in esse et saeculum temporale pervenimus, ad intemporale esse et perpetuam vitam reduci poterimus per viam, quam opere et sermone ostendit principium in omnibus principatum tenens Iesus Christus semper benedictus. 9a Junii 1459.
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sti a capo dei regni179 e ad essi è dato il potere di nuocere alla terra e al mare180. I Platonici ritenevano inoltre che gli dèi presiedessero alle arti meccaniche, come, ad esempio, Vulcano all’arte del fabbro181. Essi tuttavia riconoscevano che tutti gli dèi, fossero essi intellettivi, celesti o cosmici, non possedevano nient’altro che quello che ad essi era stato concesso dal Dio assolutamente primo, il Re di tutto182, quello che gli antichi chiamavano Giove183, il quale, al loro tempo, era celeberrimo come Re di tutto. Per questo, essi dicevano che tutto era pieno di Giove184, riconducendo tutto all’Uno, poiché una molteplicità di prìncipi è un male se è completamente separata dall’unità185. È l’Unità che conferisce ad ogni regno la sua stabilità, mentre la divisione conduce alla rovina, come ci insegna il Principe di tutte le cose, il Messia, nostro Re186. Anche se questi dèi esistessero realmente, essi sarebbero in ogni caso degli dèi creati, nuovi e recenti, che non sarebbero esistiti prima della creazione del mondo e che esisterebbero solo in funzione del mondo. Ma poiché il mondo esiste in funzione di Dio, noi diciamo con Paolo che non vi è che un solo Dio: «Infatti, anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dèi e molti signori, per noi tuttavia c’è un solo Dio, il Padre, dal quale sono tutte le cose e noi siamo in lui, e c’è un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui»187. Ed egli è colui al quale si fa riferimento nel testo che è stato oggetto della nostra discussione, ossia è il Principio che, in quanto tale, anche parla, e al quale è stato concesso ogni potere che è in cielo e sulla terra188, al quale sono soggetti tutti quegli dèi creati di cui parlano gli antichi, siano essi Virtù o Potestà189, poiché egli è il Verbo del Dio vivente190, grazie al quale esistono tutte le cose191, e nel quale sono nascosti tutti i tesori della scienza192. E come siamo giunti all’esistenza e in questo mondo temporale solo attraverso di Lui, così è solo attraverso di Lui che potremo essere ricondotti all’esistenza eterna e alla vita perpetua, lungo quella via che, con la sua opera e con la sua parola, ci ha mostrato il Principio che ha «il primato su tutte le cose»193, Gesù Cristo, sempre benedetto. 9 giugno 1459
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Trialogus de possest
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Il POTERE-CHE È
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1 Bernardus:
Cum nobis concedatur colloquendi cardinalem dudum optata facultas nec sibi sit onerosum conceptum diu pensatum propalare, velis, peto, mi abba Iohannes, aliqua ex tuis studiis ipsum excitandi gratia proponere. Provocatus indubie grata nobis reserabit. Iohannes: Audivit iam ante me saepissime. Si quid moveris tu, ipse scilicet citius occurret, cum te placido vultu respiciat et diligat. Nec deero, si sic iudicabis. Accedamus igitur propius ad ignem. Ecce ipsum in sella tuis desideriis placere paratum. Cardinalis: Accedite. Frigus solito intensius nos artat et excusat, si igni consederimus. Bernardus: Cum tempus sic urgeat, proni sumus tuis iussis parere. Cardinalis: Aliqua inter vos versatur forte dubitatio, cum sitis solliciti. Facite me studiorum vestrorum participem. Iohannes: Dubia utique habemus, quae tu speramus dissolves. Si placet, Bernardus movebit. Cardinalis: Placet. 2 Iohannes: Incidi in studium epistulae Pauli apostoli ad Romanos et legi, quomodo deus manifestat hominibus ea, quae eis de ipso nota sunt. Ait autem hoc fieri hoc modo: «Invisibilia enim ipsius a creatura mundi per ea quae facta sunt intellecta conspiciuntur, sempiterna quoque eius virtus et divinitas.» Istius modi elucidationem a te audire exposcimus.
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Bernardo. Dal momento che ci viene concessa l’opportunità, che da tempo desideravamo, di conversare con il Cardinale, e a lui non pesa di esporre apertamente i pensieri su cui ha a lungo meditato, ti chiedo, mio caro abate Giovanni, se tu voglia proporgli qualche riflessione tratta dai tuoi studi che possa servirgli da stimolo alla discussione. Una volta sollecitato, egli ci comunicherà certamente cose gradite1. Giovanni. Già in passato mi ha prestato più volte ascolto. Ma se sei tu a dare avvio alla discussione, egli ci risponderà sicuramente con maggiore sollecitudine, dal momento che ti guarda con benevolenza e ti stima. Io resterò presente, se lo riterrai opportuno. Avviciniamoci dunque al fuoco. Eccolo là, il Cardinale, seduto sulla sua sedia e pronto a soddisfare i tuoi desideri. Cardinale. Venite! Il freddo ci opprime con più forza del solito e ci offre il pretesto di sedere insieme attorno al fuoco. Bernardo. Dal momento che la stagione ci costringe a questo, siamo ben disposti ad accogliere il tuo invito. Cardinale. C’è forse qualche dubbio che vi preoccupa, dal momento che mi sembrate inquieti. Rendetemi partecipe delle vostre riflessioni. Giovanni. In effetti, abbiamo alcuni dubbi che speriamo tu possa dissipare. Se sei d’accordo, comincerà Bernardo. Cardinale. Va bene. Giovanni2. Mi è capitato di studiare la Lettera ai Romani dell’apostolo Paolo e ho letto in quale modo Dio manifesta agli uomini le cose che essi sanno di lui. L’Apostolo, tuttavia, afferma che ciò avviene nella seguente maniera: «Le cose invisibili di Dio vengono viste dalle creature del mondo mediante la comprensione del creato, e così pure il potere eterno di Dio e così la sua divinità»3. Vorremmo ascoltare da te una spiegazione circa questo modo di vedere.
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Cardinalis: Quis melius sensum Pauli quam Paulus exprimeret? Invisibilia alibi ait aeterna esse. Temporalia imagines sunt aeternorum. Ideo si ea quae facta sunt intelliguntur, invisibilia dei conspiciuntur, uti sunt sempiternitas, virtus eius et divinitas. Ita a creatura mundi fit dei manifestatio. Bernardus: Miramur abbas et ego quod invisibilia conspiciuntur. Cardinalis: Conspiciuntur invisibiliter, sicut intellectus invisibilem veritatem, quae latet sub littera, quando intelligit quae legit invisibiliter videt. Dico invisibiliter hoc est mentaliter, cum aliter invisibilis veritas, quae est obiectum intellectus, videri nequeat. 3 Bernardus: Quomodo autem a visibili creatura mundi elicitur haec visio? Cardinalis: Id, quod video sensibiliter, scio ex se non esse. Sicut enim sensus nihil a se discernit, sed habet discretionem a superiori virtute, sic et sensibile a se non est, sed est ab altiore virtute. Ideo apostolus dicebat «a creatura mundi», ut a visibili mundo tamquam creatura ad creatorem elevemur. Quando igitur videndo sensibile intelligo ipsum a quadam altiori virtute esse, cum sit finitum, quod a se esse nequit – quomodo enim finitum sibi ipsi terminum posuisset? –, tunc virtutem, a qua est, non possum nisi invisibilem et aeternam conspicere. Virtus enim creativa non potest intelligi nisi aeterna. Nam quomodo esset ab alia virtute, nisi foret creata? Sempiterna igitur est virtus, per quam mundi exstat creatura, ideo invisibilis. «Quae enim videntur, temporalia sunt.» Et haec est ipsa omni creaturae invisibilis divinitas.
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Cardinale. Chi meglio di Paolo potrebbe esprimere il significato delle parole di Paolo? In un altro passo, egli dice che le cose invisibili sono le realtà eterne4. Le realtà temporali sono immagini delle realtà eterne. È per questo che, se si comprendono le realtà create, si vedono le cose invisibili di Dio, ad esempio la sua eternità, il suo potere, la sua divinità. Così, la manifestazione di Dio avviene a partire dalle creature del mondo. Bernardo. Siamo sorpresi, l’abate ed io, del fatto che le realtà invisibili possano essere viste. Cardinale. Esse vengono viste in maniera invisibile, come l’intelletto, quando intende ciò che legge, vede in maniera invisibile la verità invisibile che si nasconde sotto l’espressione letterale5. Dico «in maniera invisibile», ossia «mentale», perché la verità invisibile, che è l’oggetto dell’intelletto, non può essere vista in altro modo6. Bernardo. Ma in che modo questa visione può essere tratta dalle creature del mondo che sono visibili? Cardinale. Io so che quanto vedo con la percezione sensibile non esiste da se stesso. In effetti, come il senso [della vista] non è in grado di discernere nulla da se stesso, ma riceve la sua capacità di discernere da una facoltà superiore7, così anche ciò che viene percepito sensibilmente non esiste da se stesso, ma esiste grazie ad una forza più elevata. È per questo che l’apostolo Paolo ha detto «dalle creature del mondo», perché è dal mondo visibile, ossia dal mondo in quanto creatura, che noi ci eleviamo al Creatore. Pertanto, quando, nel vedere ciò che è percepibile sensibilmente, comprendo che esso esiste grazie ad una forza superiore – si tratta infatti di una realtà finita, e ciò che è finito non può esistere da se stesso (in che modo, in effetti, ciò che è finito avrebbe potuto fissare a se stesso il proprio limite?)8 –, allora comprendo che non posso vedere questa forza, grazie alla quale esso esiste, se non come invisibile ed eterna. La forza creatrice, infatti, non può essere intesa se non come eterna. Infatti, come potrebbe esistere grazie ad un’altra potenza, se non è stata creata? Di conseguenza, la forza per la quale esistono le creature del mondo è eterna, e quindi invisibile. «Le cose che in effetti vengono viste sono le realtà temporali»9. E questa forza è la divinità stessa, invisibile ad ogni creatura.
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Forte hoc sic est ut clare ostendis. Videtur tamen Paulum parum per hoc aperire de dei desideratissima notitia. Cardinalis: Immo non pauca sed maxima. Dixit enim: «Invisibilia» ipsius dei «a creatura mundi intellecta conspiciuntur», non quod invisibilia dei sint quid aliud quam deus invisibilis, sed quia plura in creatura mundi sunt visibilia, quorum quodlibet sua adaequata ratione id est quod est, ideo de qualibet visibili creatura docet ad cuiuslibet invisibile principium ascendendum. Bernardus: Intelligimus competenter ista, quomodo a creaturis incitamur, ut earum rationes aeternas in principio conspiciamus. Hoc potuisset sic clare per apostolum dici, si aliud non intendebat. Quod si aliquid dicere proposuit fecundius deum apprehendere gliscenti rogamus aperiri. 5 Cardinalis: Arbitror quod multa valde etiam altissima et mihi abscondita. Sed quae nunc conicio haec sunt: Docere nos voluit apostolus, quomodo in deo illa invisibiliter apprehendere poterimus, quae in creatura videmus. Omnis enim creatura actu exsistens utique esse potest. Quod enim esse non potest, non est. Unde non-esse non est creatura. Si enim est creatura, utique est. Creare etiam cum sit ex non-esse ad esse producere, utique clare ostendit ipsum non-esse nequaquam creaturam. Neque hoc parvum est apprehendisse. 6 Dico autem consequenter: Cum omne exsistens possit esse id quod est actu, hinc actualitatem conspicimus absolutam, per quam quae actu sunt id sunt quod sunt. Sicut cum alba videmus visibili oculo, albedinem intellectualiter intuemur, sine qua album non
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Bernardo. Forse il significato delle parole di Paolo è quello che tu ci mostri con chiarezza. Mi sembra, tuttavia, che, con le sue parole, Paolo ci sveli ben poco circa la conoscenza di Dio che tanto desideriamo. Cardinale. Al contrario, non poco, bensì moltissimo. Egli ha in effetti detto che «le cose invisibili» di Dio «vengono viste a partire dalla comprensione delle creature del mondo», e questo non perché le cose invisibili di Dio siano qualcosa di altro rispetto al Dio invisibile, ma perché, tra le creature del mondo, molte sono le cose visibili, ciascuna delle quali è ciò che essa è in virtù di un fondamento razionale ad essa adeguato; è per questo che l’apostolo Paolo insegna che da qualsiasi creatura visibile dobbiamo risalire al suo Principio invisibile. Bernardo. Tutto questo lo comprendiamo molto bene, ossia come dalle creature siamo spinti a vedere i loro fondamenti razionali eterni nel Principio. Questo l’Apostolo avrebbe potuto dirlo chiaramente, a meno che egli non intendesse dire qualcos’altro. Perché, se il suo proposito era invece quello di dire qualcosa di più fecondo a chi arde dal desiderio di conoscere Dio, ti preghiamo di spiegarcelo. Cardinale. Ritengo che l’Apostolo intendesse dire molte altre cose, che sono estremamente profonde e che a me restano nascoste. Ma le mie congetture a questo riguardo sono per ora queste. L’Apostolo ha voluto insegnarci in che modo potremo apprendere invisibilmente in Dio quelle cose che vediamo nella creazione. In effetti, ogni creatura che esiste in atto può di certo essere. Ciò che invece non può essere, non è10. Ne discende che il non-essere non è una creatura11. Se fosse infatti una creatura, certamente sarebbe. Inoltre, dal momento che «creare» significa condurre dal non-essere all’essere, anche questo concetto mostra chiaramente che il nonessere non è in alcun modo una creatura. Ed aver appreso questo non è una cosa da poco. Di conseguenza, aggiungo tuttavia questo: dal momento che tutto ciò che esiste può essere ciò che esso è in atto, da ciò noi vediamo l’attualità assoluta, in virtù della quale le cose che sono in atto sono ciò che esse sono12. Allo stesso modo, quando vediamo con il nostro occhio sensibile delle cose bianche, intuiamo con l’intelletto la bianchezza, senza la quale ciò che è bianco non sarebbe
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est album. Cum igitur actualitas sit actu, utique et ipsa potest esse, cum impossibile esse non sit. Nec potest ipsa absoluta possibilitas aliud esse a posse, sicut nec absoluta actualitas aliud ab actu. Nec potest ipsa iam dicta possibilitas prior esse actualitate quemadmodum dicimus aliquam potentiam praecedere actum. Nam quomodo prodisset in actum nisi per actualitatem? Posse enim fieri si se ipsum ad actum produceret, esset actu antequam actu esset. Possibilitas ergo absoluta, de qua loquimur, per quam ea quae actu sunt actu esse possunt, non praecedit actualitatem neque etiam sequitur. Quomodo enim actualitas esse posset possibilitate non exsistente? Coaeterna ergo sunt absoluta potentia et actus et utriusque nexus. Neque plura sunt aeterna, sed sic sunt aeterna quod ipsa aeternitas. Videnturne vobis haec sic aut aliter se habere? Bernardus: Utique mens dissentire nequit. Iohannes: Quasi dum solem intueor, negare nequeo ipsum superlucidum; sic ista tuo ductu clarissima intueor. Exspecto autem quod more tuo magna ex his inferas. 7 Cardinalis: Satis mihi est, si vestro iudicio non aberro. Pergam ergo hac via ad quae festino. Nominabo autem hanc quam sic videmus aeternitatem deum gloriosum. Et dico nunc nobis constare deum ante actualitatem, quae distinguitur a potentia, et ante possibilitatem, quae distinguitur ab actu, esse ipsum simplex mundi principium. Omnia autem quae post ipsum sunt cum distinctione potentiae et actus, ita ut solus deus id sit quod esse potest, nequaquam autem quaecumque creatura, cum potentia et actus non sint idem nisi in principio. 8 Bernardus: Siste, pater, parumper et dubium declara. Quomo-
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bianco13. Pertanto, dal momento che l’attualità è in atto, anch’essa certamente può essere, poiché ciò che è impossibile che sia non è14. Ora, la possibilità assoluta non può essere qualcosa di altro dal potere, così come l’attualità assoluta non può essere qualcosa di altro dall’atto. Ma questa possibilità che abbiamo appena menzionato [la possibilità assoluta] non può essere anteriore all’attualità, diversamente da quanto accade, invece, per una qualche potenza particolare, della quale diciamo che essa precede l’atto. In che modo, infatti, [la possibilità assoluta] sarebbe giunta all’atto se non in virtù dell’attualità? In effetti, se il poter-essere-fatto passasse da se stesso all’atto, esso sarebbe in atto prima di essere in atto15. Pertanto, questa possibilità assoluta, di cui stiamo parlando e grazie alla quale le cose che sono in atto possono essere in atto, non precede l’attualità e neppure la segue. In che modo, infatti, potrebbe esservi l’attualità se non vi fosse la possibilità? La potenza assoluta, l’atto e il nesso dell’una e dell’altro sono dunque coeterni. E non vi sono più realtà eterne16, ma essi sono eterni in modo da essere la stessa eternità. Vi sembra che le cose stiano così o altrimenti? Bernardo. Certamente, nessuno che sia dotato di ragione può dissentire. Giovanni. Come, quando guardo il sole, non posso negare che esso sia luminosissimo, così, sotto la tua guida, vedo queste cose con estrema chiarezza. Ma attendo che tu, com’è tua abitudine, ne tragga delle importanti conseguenze. Cardinale. Mi basta di non errare innanzi al vostro giudizio. Così, proseguirò lungo questa strada verso quelle conclusioni alle quali mi preme pervenire. Ora, questa eternità, che possiamo vedere nel modo che abbiamo detto, la chiamerò il «Dio glorioso»17. E affermo che ci risulta ora evidente che Dio, il quale precede sia quell’attualità che è distinta dalla potenza, sia quella possibilità che è distinta dall’atto, è il Principio semplice del mondo. Tutto ciò che esiste dopo di lui è caratterizzato dalla distinzione della potenza e dell’atto, di modo che solo Dio è ciò che [egli] può essere18, mentre non è così per nessuna delle creature, poiché la potenza e l’atto sono la stessa cosa solo nel Principio. Bernardo. Fermati un istante, Padre, e chiariscimi un dubbio. In che senso dici che Dio è ciò che [egli] può essere? Sembra in ef-
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do dicis deum id esse quod esse potest? Videtur enim hoc de sole et luna et terra et alio quolibet pariformiter dici posse. Cardinalis: Loquor in absolutis et generalissimis terminis, quasi dicerem: Cum potentia et actus sint idem in deo, tunc deus omne id est actu, de quo posse esse potest verificari. Nihil enim esse potest, quod deus actu non sit. Hoc facile videt quisque attendens absolutam potentiam coincidere cum actu. Secus de sole. Nam licet sol sit actu id quod est, non tamen id quod esse potest. Aliter enim esse potest quam actu sit. Bernardus: Prosequere, pater. Nam certum est nullam creaturam esse actu omne id quod esse potest, cum dei potentia creativa non sit evacuata in ipsius creatione, quin possit de lapide suscitare hominem et adicere seu diminuere cuiusque quantitatem et generaliter omnem creaturam in aliam et aliam vertere. Cardinalis: Recte dicis. Cum igitur haec sic se habeant, quod deus sit absoluta potentia et actus atque utriusque nexus et ideo sit actu omne possibile esse, patet ipsum complicite esse omnia. Omnia enim, quae quocumque modo sunt aut esse possunt, in ipso principio complicantur, et quaecumque creata sunt aut creabuntur, explicantur ab ipso, in quo complicite sunt. 9 Iohannes: Quamvis haec a te pluries audiverim, numquam tamen nisi magna visa sunt et mihi difficillima. Ideo ne pigriteris respondere: An velis dicere creaturas, quae per decem praedicamenta significantur, puta substantia, quantitas, qualitas et alia, in deo esse? Cardinalis: Volo dicere omnia illa complicite in deo esse deus sicut explicite in creatura mundi sunt mundus. Iohannes: Igitur deus est magnus.
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fetti che questo lo si possa dire parimenti anche del sole, della luna, della terra e di qualsiasi altra cosa. Cardinale. Sto parlando in termini assoluti e del tutto generali, come se io dicessi: dal momento che in Dio la potenza e l’atto sono la stessa cosa, allora Dio è in atto tutto ciò a cui si può attribuire il poter-essere19. Nulla infatti può essere che Dio non sia in atto. Questo lo riconosce facilmente chiunque ponga mente al fatto che la potenza assoluta coincide con l’atto. Il caso del sole è invece diverso. Infatti, benché sia in atto ciò che esso è, il sole, tuttavia, non è [tutto] ciò che esso può essere. Il sole, infatti, può essere diversamente da come è in atto20. Bernardo. Prosegui, Padre. In effetti, è certo che nessuna creatura è in atto tutto ciò che essa può essere, in quanto la potenza creatrice di Dio non si esaurisce nella sua creazione21, al punto che egli non possa far sorgere un essere umano da una pietra, o non possa aumentare o diminuire la grandezza di ciascuna cosa e in generale trasformare qualsiasi creatura in qualsiasi altra 22. Cardinale. Dici bene. Poiché, dunque, le cose stanno così, poiché cioè Dio è la potenza assoluta, l’atto e il nesso dell’una e dell’altro, ed è dunque in atto ogni essere possibile23, è evidente che Egli è tutte le cose nel senso che complica in sé tutte le cose. In effetti, tutte le cose che sono, in qualunque modo esse siano, o che possono essere, sono complicate nel principio stesso, e tutto ciò che è stato creato o sarà creato viene esplicato da quello stesso principio nel quale sussiste nel modo della complicazione24. Giovanni. Sebbene ti abbia già ascoltato molte volte dire queste cose, mi sono tuttavia sembrate sempre troppo grandi e difficili per me. Cosi, non ti rincresca di rispondere a questa mia domanda: intendi dire che le cose create, che vengono designate mediante le dieci categorie, ossia la sostanza, la quantità, la qualità ecc.25, sono in Dio? Cardinale Intendo dire che, in quanto sono in Dio nel modo della complicazione, tutte queste cose sono Dio stesso, così come, in quanto sono nel mondo creato nel modo della esplicazione, esse sono il mondo. Giovanni. Dio, dunque, è «grande».
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Cardinalis: Utique est magnus; sed sic magnus quod magnitudo quae est omne id quod esse potest. Nam non est magnus magnitudine quae maior esse potest aut magnitudine quae dividi et minui potest quemadmodum creata quantitas, quae non est id quod esse potest. Bernardus: Si ergo deus est magnus magnitudine quae id est quod esse potest et – ut dicis – quae maior esse non potest et quae minor esse non potest, tunc deus est magnitudo maxima pariter et minima. Cardinalis: Utique non errat dicens deum magnitudinem absolute maximam pariter et minimam; quod non est aliud dicere quam infinitam et impartibilem, quae est omnis magnitudinis finitae veritas et mensura. Quomodo enim foret maior alicui quae sic est maxima quod et minima? Seu quomodo minor alicui quae sic est minima quod maxima? Aut quomodo non est omnis magnitudinis essendi aequalitas quae omne id est actu quod esse potest? Utique essendi aequalitas esse potest. 10 Bernardus: Grata sunt haec. Sed sicut video, nec nomen nec res nec quicquam omnium, quae creatae magnitudini conveniunt, convenienter de deo dicuntur, cum differant per infinitum. Et fortassis non solum in magnitudine hoc verum, sed in omnibus quae de creaturis verificantur. Cardinalis: Recte concipis, Bernarde. Et hoc ipsum apostolus insinuat, cum faceret inter illa quae in creaturis attinguntur et in deo differentiam uti est inter visibilia et invisibilia, quae utique in infinitum distare affirmamus. Iohannes: Quantum capio, in his paucis multa valde continentur. Nam si dico ex pulchritudine creaturarum deum pulchrum et scio quod deus est ita pulcher quod pulchritudo quae est omne
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Cardinale. Certamente, è «grande»; ma è «grande» nel senso della grandezza che è tutto ciò che può essere. Infatti, non è grande di quella grandezza che può essere maggiore o che può essere divisa o diminuita, come accade con la quantità creata, che non è [tutto] ciò che essa può essere26. Bernardo. Se dunque Dio è grande di quella grandezza che è [tutto] ciò che essa può essere, e che – come tu dici – non può essere né più grande né più piccola, allora Dio è parimenti la grandezza massima e la grandezza minima. Cardinale. Certamente, non sbaglia chi dice che Dio è parimenti la grandezza massima in senso assoluto e la grandezza minima in senso assoluto27; e dire questo non significa se non che egli è la grandezza infinita e indivisibile, una grandezza che è la misura e la verità di ogni grandezza finita28. Come potrebbe infatti una tale grandezza essere [una misura] troppo grande per qualcosa, essa che è la grandezza massima in modo tale da essere anche la minima? O come potrebbe una tale grandezza essere [una misura] troppo piccola per qualcosa, essa che è la grandezza minima in modo tale da essere anche la massima? O in che modo una grandezza, che è in atto tutto ciò che essa può essere, non sarebbe l’uguaglianza dell’essere29 di ogni grandezza? Certamente, essa può essere l’uguaglianza dell’essere [di ogni grandezza]. Bernardo. Tutto ciò lo apprezzo molto. Ma, a quanto vedo, né il nome [«grandezza»], né la cosa, né alcuna delle caratteristiche che convengono ad una grandezza creata possono essere attribuite convenientemente a Dio, perché la differenza che le separa da Dio è infinita. E probabilmente questo è vero non solo per la grandezza, ma anche per tutte le proprietà che si riscontrano nelle creature. Cardinale. Hai compreso bene, Bernardo. Ed è proprio quello che l’Apostolo suggerisce, stabilendo fra quanto viene colto nelle cose create e quanto viene colto in Dio una differenza analoga a quella che c’è fra le cose visibili e quelle invisibili, le quali diciamo che distano fra di loro infinitamente30. Giovanni. Per quel che comprendo, in queste poche parole sono contenute molte verità. In effetti, se, a partire dalla bellezza delle creature, dico che Dio è bello, e se so che Dio è bello a
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id quod esse potest, scio nihil pulchri totius mundi deficere deo ac quod omnis quae potest creari pulchritudo non est nisi quaedam similitudo improportionalis ad illam quae actu est omnis essendi possibilitas pulchritudinis, quae non potest esse aliter quam est, cum sit id quod esse potest. Ita de bono, de vita et aliis, sic et de motu. Nullus enim motus est in fine seu id quod esse potest nisi qui deo convenit, qui est motus maximus pariter et minimus seu quietissimus. Et ita mihi videris dicere. Sed haesito, an in simili convenienter dici possit deum esse solem aut caelum sive hominem aut aliud tale. 11 Cardinalis: Non est vocabulis insistendum. Nam si dicitur deum esse solem, utique si intelligitur hoc sane de sole qui est omne id actu quod esse potest, tunc clare videtur istum solem non esse aliquid simile ad illum. Hic enim sol sensibilis dum est in oriente, non est in qualibet parte caeli, ubi esse posset, neque est maximus pariter et minimus, ut non possit esse nec maior nec minor, neque est undique et ubilibet, ut non possit esse alibi quam est, neque est omnia, ut non possit esse aliud quam est, et ita de reliquis. Sic quidem de omnibus creaturis pariformiter. Non refert igitur quomodo deum nomines, dummodo terminos sic ad posse esse intellectualiter transferas. 12 Bernardus: Intelligo te dicere velle deum esse omnia, ut non possit esse aliud quam est. Quomodo hoc capit intellectus? Cardinalis: Utique hoc firmissime asserendum. Deo enim nil omnium abest quod universaliter et absolute esse potest, quia est ipsum esse, quod entitas potentiae et actus. Sed dum est omnia in
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tal punto da essere quella bellezza che è tutto ciò che essa può essere, allora so che nessuna delle bellezze del mondo intero manca a Dio31; so inoltre che ogni bellezza che può essere creata non è nient’altro che una similitudine, senza alcun rapporto di comparazione, di quella bellezza che è in atto ogni possibilità d’essere della bellezza e che non può essere diversa da come essa è, dal momento che è [tutto] ciò che essa può essere. Lo stesso vale per il bene, la vita e per tutto il resto, come pure per il movimento. Nessun movimento, infatti, perviene al suo termine ultimo, ossia è ciò che esso piò essere, tranne che il movimento che conviene a Dio, il quale è il movimento massimo e parimenti il movimento minimo, ossia il movimento assolutamente in quiete32. Questo è quanto mi sembra che tu intenda dire. Ma sono incerto se si possa convenientemente dire in modo simile che Dio è sole o cielo o uomo, o qualunque altra realtà di questo genere33. Cardinale. Non ci si deve fermare alle parole. In effetti, se si dice che Dio è il sole, e s’intende correttamente questa affermazione come riferita ad un sole che è in atto tutto ciò che esso può essere, allora si vede chiaramente che questo sole di cui si parla non è affatto simile al sole sensibile. Questo nostro sole sensibile, infatti, mentre si trova ad oriente, non si trova in una qualche altra parte del cielo dove esso potrebbe essere; allo stesso modo, esso non è parimenti massimo e minimo, in modo da non poter essere né più grande né più piccolo; non è ovunque e in qualsiasi luogo, in modo da non poter essere altrove da dove esso si trova; non è tutte le cose, in modo da non poter essere altro da quello che è, e così via. Lo stesso vale per tutte le [altre] cose create. Non importa, quindi, che nome tu dia a Dio, purché tu trasferisca in modo intellettuale i termini [che utilizzi] al poter essere34. Bernardo. Ho capito: intendi dire che Dio è tutte le cose, in modo tale da non poter essere altro da quello che è. Ma come può l’intelletto comprendere questo? Cardinale. Questa dottrina dev’essere in ogni caso sostenuta nel modo più fermo35. In effetti, a Dio non manca nulla di tutto ciò che universalmente e assolutamente può essere, in quanto egli è l’essere stesso, che è l’entità della potenza e dell’atto. Ma pur essendo tutto in tutte le cose36, egli è tutte le cose in modo tale da non
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omnibus, sic est omnia quod non plus unum quam aliud, quoniam non est sic unum quod non aliud. Bernardus: Cave, ne tibi ipsi contradicas. Aiebas enim parum ante deum non esse solem, modo asseris ipsum omnia. Cardinalis: Immo dicebam ipsum solem; sed non modo essendi quo hic sol est, qui non est quod esse potest. Qui enim est id quod esse potest, utique solare esse sibi non deficit; sed habet ipsum meliori essendi modo quia perfectissimo et divino. Sicut essentia manus verius esse habet in anima quam in manu, cum in anima sit vita et manus mortua non sit manus, ita de toto corpore et singulis membris: ita se habet universum ad deum, excepto quod deus non est anima mundi sicut anima hominis anima est, nec forma alicuius, sed omnibus forma, quia causa efficiens, formalis seu exemplaris et finalis. 13 Bernardus: Vultne Iohannes evangelista dicere omnia sic in deo esse vita sicut de manu dixisti et anima? Cardinalis: Arbitror vitam ibi veritatem et vivacitatem dicere. Nam cum non sint res nisi per formam formentur, tunc formae in forma formarum verius et vivacius esse habent quam in materia. Res enim non est, nisi sit vera et suo modo viva. Quo cessante esse desinit. Ideo verius est in forma formarum quam in se. Ibi enim est vera et viva. Iohannes: Optime nos instruis, pater. Videtur mihi ex uno te omnia elicere. Deus ergo est omnia, ut non possit esse aliud. Ita est undique, ut non possit esse alibi. Ita est omnium adaequatissima mensura, ut non possit esse aequalior. Sic de forma et specie
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essere una di esse più di quanto sia un’altra, poiché non è una cosa in modo da non essere anche un’altra37. Bernardo. Fai attenzione a non contraddirti. Poco fa, infatti, dicevi che Dio non è il sole, mentre ora affermi che egli è tutte le cose. Cardinale. Al contrario, dicevo che Dio è sole, ma non secondo il modo d’essere che è proprio di questo nostro sole, il quale non è [tutto] quello che esso può essere. In effetti, colui che è ciò che può essere, certamente non è privo neppure dell’essere del sole, ma lo possiede secondo un modo d’essere superiore, in quanto lo possiede in modo assolutamente perfetto e divino. Come l’essenza della mano esiste in modo più vero nell’anima che nella mano, in quanto è nell’anima che si trova la vita e in quanto una mano morta non è una mano – e questo vale per l’intero corpo e per ciascuna delle sue singole membra –, così è per l’universo rispetto a Dio, salvo il fatto che Dio non è l’anima del mondo allo stesso modo in cui un’anima è l’anima di un uomo38, né è la forma di una qualche cosa in particolare, ma è la forma di tutte le cose39, poiché è causa efficiente, formale o esemplare, e finale40. Bernardo. Quando Giovanni Evangelista dice che tutto in Dio è vita41, non intende forse dire quello che tu hai detto a proposito della mano e dell’anima? Cardinale. Penso che l’espressione «vita» qui significhi «verità» e «vitalità». Infatti, dal momento che le cose non esistono se non in quanto sono formate mediante una forma, le forme esistono in modo più vero e vitale nella Forma delle forme42 che nella materia. Una cosa, infatti, non esiste se non in quanto è vera e, conformemente al modo che le è proprio, viva. E quando cessa di essere vera e viva, essa cessa di esistere. È per questo che essa esiste in modo più vero nella Forma delle forme che in se stessa43. Nella Forma delle forme, infatti, essa è vera e viva. Giovanni. Ci istruisci magnificamente, o Padre. Mi sembra che tu tragga tutto da un solo principio. Dio, dunque, è tutte le cose, in modo tale che non c’è qualcosa di altro che egli possa essere. Dio è presente ovunque, in modo tale che non c’è un qualche altro luogo in cui egli possa essere. Dio è la misura adeguatissima di tutte le cose44, in modo tale che egli non può essere una misura più ugua-
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et cunctis. Nec est hac via difficile videre deum esse absolutum ab omni oppositione et quomodo ea, quae nobis videntur opposita, in ipso sunt idem et quomodo affirmationi in ipso non opponitur negatio et quaeque talia. 14 Cardinalis: Cepisti, abba, propositi radicem et vides hanc contemplationem per multos sermones inexplicabilem brevissimo verbo complicari. Esto enim quod aliqua dictio significet simplicissimo significato quantum hoc complexum ‘posse est’, scilicet quod ipsum posse sit. Et quia quod est actu est, ideo posse esse est tantum quantum posse esse actu. Puta vocetur possest. Omnia in illo utique complicantur, et est dei satis propinquum nomen secundum humanum de eo conceptum. Est enim nomen omnium et singulorum nominum atque nullius pariter. Ideo dum deus sui vellet notitiam primo revelare, dicebat: «Ego» sum «deus omnipotens», id est sum actus omnis potentiae. Et alibi: «Ego sum qui sum.» Nam ipse est qui est. Quae enim nondum sunt id quod esse aut intelligi possunt, de illis absolutum esse non verificatur. Habet autem Graecus: Ego sum entitas, ubi nos: «Ego sum qui sum.» Est enim forma essendi seu forma omnis formabilis formae. Creatura autem, quae non est quod esse potest, non est simpliciter. Solus deus perfecte et complete est. 15 Ducit ergo hoc nomen speculantem super omnem sensum, rationem et intellectum in mysticam visionem, ubi est finis ascensus omnis cognitivae virtutis et revelationis incogniti dei initium. Quando enim supra se ipsum omnibus relictis ascenderit veritatis inquisitor et reperit se amplius non habere accessum ad invisibilem deum, qui sibi manet invisibilis, cum nulla luce rationis suae
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le. E lo stesso vale per la forma, per la specie e per tutto il resto. Seguendo questa via, non è difficile vedere come Dio sia del tutto svincolato da ogni opposizione45, come quelle cose che a noi sembrano opposte siano identiche in lui, e come in lui all’affermazione non si opponga la negazione46, e così via. Cardinale. Hai colto, abate, la radice della questione, ed ora vedi che la contemplazione di questa verità, che non può essere spiegata per mezzo di molti discorsi, è racchiusa, nel modo della complicazione, in una formula brevissima47. Ammettiamo che vi sia una qualche espressione che designi in un modo semplicissimo quanto è indicato dall’espressione composta «potere-è», ossia che il potere stesso48 è. Ora, poiché ciò che è, è in atto, dire «potereessere» è come dire «potere-essere-in atto». Chiamiamolo il «potere-che è»49. In esso, certamente, sono complicate tutte le cose, ed è un nome abbastanza appropriato a Dio50, secondo il concetto che noi uomini possiamo avere di lui. È infatti il nome di tutti i nomi e di ciascun singolo nome e, parimenti, non è il nome di nessun nome51. Per questo, Dio, quando ha voluto per la prima volta rivelare una conoscenza di se stesso, ha detto: «Io sono Dio onnipotente»52, il che significa: «Io sono l’atto di ogni potenza». Ed altrove egli ha detto: «Io sono colui che sono»53. In effetti, egli è colui che è. A quelle realtà, che non sono ancora ciò che esse possono essere o quali esse possono essere concepite, non è infatti possibile attribuire veramente l’essere in senso assoluto. In greco, tuttavia, sta scritto: «Io sono l’entità», mentre noi abbiamo: «Io sono colui che sono»54. Dio, infatti, è la Forma dell’essere55, o la Forma di ogni forma formabile56. La creatura, invece, che non è [tutto] ciò che essa può essere, non è in senso assoluto. Solo Dio è in modo perfetto e completo. Questo nome, dunque, conduce colui che riflette attentamente al di sopra di tutti i sensi, della ragione e dell’intelletto, fino alla visione mistica, là dove termina l’ascesa di ogni facoltà conoscitiva ed ha inizio la rivelazione del Dio ignoto. In effetti, quando colui che cerca la verità, avendo lasciato dietro di sé tutto, si sarà elevato al di sopra di se stesso ed avrà scoperto di non poter procedere oltre per accedere al Dio invisibile, che rimane per lui invisibile in quanto egli non può vederlo mediante la luce della sua ragione, allora
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videatur, tunc exspectat devotissimo desiderio solem illum omnipotentem et per sui ipsius ortum pulsa caligine illuminari, ut invisibilem tantum videat quantum se ipsum manifestaverit. Sic intelligo apostolum deum a creatura mundi intellecta, puta quando ipsum mundum creaturam intelligimus et mundum transcendentes creatorem ipsius inquirimus, se manifestare ipsum ut creatorem suum summa formata fide quaerentibus. Iohannes: Quorsum nos vehis, pater, mundanos supra mundum! 16 Indulgebis, ut te praesente cum Bernardo colloquar. Dicito, vir zelose, an quae dicta sunt cepisti? Bernardus: Spero aliquid saltem, licet parum. Iohannes: Quomodo intelligis in possest omnia complicari? Bernardus: Quia posse simpliciter dictum est omne posse. Unde si viderem omne posse esse actu, utique nihil restaret amplius. Si enim aliud aliquid restaret, utique hoc esse posset; ita non restaret, sed prius non fuisset comprehensum. Iohannes: Recte dicis. Nam si non est posse esse, nihil est, et si est, omnia id sunt quod sunt in ipso et extra ipsum nihil. Omnia igitur quae facta sunt in ipso ab aeterno necesse est fuisse. Quod enim factum est, in posse esse semper fuit, sine quo factum est nihil. Patet possest omnia esse et ambire, cum nihil aut sit aut possit fieri, quod non includatur. In ipso ergo omnia sunt et moventur et id sunt quod sunt quicquid sunt. 17 Sed quomodo intelligis ascendentem supra se ipsum constitui oportere? Bernardus: Quia nullo gradu cognitionis attingitur. Sensus enim nihil non-quantum attingit. Sic nec imaginatio. Simplex enim et quod non possit esse maius aut minus vel mediari aut duplica-
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egli attenderà, con un desiderio pieno di devozione, che quel sole onnipotente, con il suo sorgere, dissolva la tenebra e lo illumini, in modo da poter vedere l’Invisibile per quel tanto che esso si manifesterà57. È così che io intendo l’Apostolo: a partire dalla comprensione delle creature del mondo, ossia quando comprendiamo che il mondo è una realtà creata e quando, trascendendo il mondo, cerchiamo il suo creatore, Dio stesso si manifesta come creatore a coloro che lo cercano con una fede formata58 nel modo più profondo. Giovanni. Come ci conduci al di sopra del mondo, padre, noi che siamo uomini di questo mondo! Consentimi di conversare in tua presenza con Bernardo. Dimmi, uomo pieno di zelo, se hai capito ciò che è stato detto. Bernardo. Qualcosa l’ho capita, almeno spero, anche se è poco. Giovanni. Come intendi il fatto che nel «potere-che è» sono complicate tutte le cose? Bernardo. Perché il «potere», considerato in senso assoluto, è ogni potere59. Pertanto, se io vedessi che ogni potere è in atto, allora non resterebbe più nulla. Se, infatti, restasse qualcosa, si tratterebbe pur sempre di qualcosa che potrebbe essere, per cui non resterebbe se prima non fosse già stata compresa nel potere. Giovanni. Dici bene. Infatti, se il poter-essere non esiste, allora non esiste nulla, e se esiste, allora tutte le cose sono ciò che esse sono in lui, e fuori di lui non c’è nulla60. È necessario, pertanto, che tutte le cose che sono state create siano esistite in lui sin dall’eternità. Ciò che è stato creato, infatti, è sempre esistito nel poter-essere, senza il quale nulla è stato creato. È chiaro che il «potere-che è» è e abbraccia tutte le cose, poiché nulla che non sia incluso in lui esiste o può essere creato. È in lui, dunque, che tutte le cose sono e si muovono61, e sono ciò che esse sono, qualunque cosa esse siano. Ma come intendi il fatto che colui che ascende debba porsi al di sopra di se stesso? Bernardo. Poiché nessun grado della conoscenza giunge a cogliere il «potere-che è». I sensi, ad esempio, non giungono a cogliere ciò che è privo di quantità, e così pure l’immaginazione62. Infatti, ciò che è semplice, e che non può essere né più grande né più piccolo, o che non può essere né dimezzato né raddoppiato, non viene
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ri nullo sensu nec etiam per quamcumque subtilissimam attingitur phantasiam. Nec altissimus intellectus concipere potest infinitum interminum et unum quod omnia atque ipsum, ubi non est oppositionis diversitas. Nisi enim intellectus se intelligibili assimilet, non intelligit, cum intelligere sit assimilare et intelligibilia se ipso seu intellectualiter mensurare. Quod in eo, quod est id quod esse potest, non est possibile; nam immensurabile utique est, cum non possit esse maius. Quomodo ergo per intellectum, qui numquam est adeo magnus quin possit esse maior, intelligi posset. Iohannes: Profundius quam credideram dicta patris nostri subintrasti. Et hoc ultimum certum me facit oportere ascendentem omnia linquere, etiam suum intellectum transcendere, cum virtus infinita per terminatam capi non possit. Cardinalis: Gaudeo de vestro profectu ac quod iis locutus sum, qui pro suo captu dicta magnificant. 18 Bernardus: Quamvis constet mihi omnibus diebus meis contemplationis cibum posse ex praemissis elicere et sermones multiplicare et semper proficere, optamus tamen aliquo sensibili phantasmate manuduci, maxime quomodo aeternum est omnia simul et in nunc aeternitatis tota, ut ipso phantasmate relicto salientes supra omnia sensibilia elevemur. Cardinalis: Conabor. Et recipio omnibus nobis etiam in praxi notum trochi ludum puerorum: Proicit puer trochum et proiciendo simul ipsum retrahit cum chorda circumligata. Et quanto potentior est fortitudo brachii, tanto citius circumvolvitur trochus, adeo quod videatur, dum est in maiori motu, stare et quiescere, et
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colto da nessuno dei sensi e neppure per mezzo dell’immaginazione, per quanto sottile essa sia. Ed anche l’intelletto più penetrante non può concepire l’infinito63, che è senza limiti, e l’uno che è tutte le cose e nel quale non regna la diversità dovuta all’opposizione. Se non si assimila all’intelligibile, infatti, l’intelletto non intende, poiché intendere significa per l’intelletto assimilarsi agli intelligibili64 e misurare gli intelligibili con se stesso, vale a dire intellettualmente. Ma questo non è possibile nel caso di quell’essere che è ciò che può essere; esso, infatti, è certamente incommensurabile, dato che [è così grande che] non può essere più grande di come è. In che modo, dunque, potrebbe essere inteso mediante l’intelletto, il quale, invece, non è mai tanto grande da non poter essere ancora più grande? Giovanni. Sei penetrato nelle parole del nostro padre più profondamente di quanto credessi. E quanto hai detto da ultimo mi convince che è necessario che colui che ascende abbandoni tutto e trascenda anche il suo intelletto, poiché una potenza infinita non può essere colta mediante una facoltà limitata. Cardinale. Mi rallegro dei vostri progressi e di aver parlato a persone che, in proporzione alla loro capacità di comprendere, ampliano le cose che sono state dette. Bernardo. Sono consapevole che, dalle cose che sono state fin qui dette, io posso trarre, per tutta la mia vita, un nutrimento quotidiano per la contemplazione65, posso moltiplicare i discorsi su di esse e posso progredire continuamente [nella loro comprensione]. Tuttavia, desideriamo essere guidati per mano da un’immagine sensibile66, soprattutto per vedere come l’eterno sia tutte le cose simultaneamente e come, nell’istante, sia racchiusa tutta l’eternità, per poterci poi elevare, una volta abbandonata l’immagine, al di sopra di tutte le cose sensibili. Cardinale. Proverò. Prendo come esempio un gioco fatto dai ragazzi, che noi tutti conosciamo, anche nella sua pratica: la trottola. Il ragazzo lancia la trottola e, nel mentre la lancia, la tira nello stesso tempo verso di sé mediante la corda che è legata attorno alla trottola. Quanto maggiore è la forza del suo braccio, tanto più rapido è il movimento di rotazione della trottola su se stessa, di modo che, quando si trova nel momento del massimo moto, essa sembra
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dicunt pueri ipsum tunc quiescere. Describamus ergo circulum b c, qui super a circumvolvatur quasi superior circulus trochi, et sit alius circulus d e fixus:
Nonne quanto velocius mobilis circumrotatur, tanto videtur minus moveri? Bernardus: Videtur certe, et hoc vidimus pueri. 19 Cardinalis: Esto ergo quod posse moveri in ipso sit actu, scilicet ut moveatur actu quantum est possibile: Nonne tunc penitus quiesceret? Bernardus: Nulla successio posset notari ex repentina velocitate. Ita utique motus deprehendi nequiret successione cessante. Iohannes: Quando motus foret infinitae velocitatis, b et c puncta in eodem puncto temporis forent cum d puncto circuli fixi sine eo quod alter punctus scilicet b prius tempore fuisset quam c, aliter non esset maximus et infinitus motus, et tamen non esset motus sed quies, quia nullo tempore illa puncta de d fixo recederent.
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star ferma e in quiete, e i ragazzi dicono allora che è in quiete. Disegniamo quindi un cerchio bc che ruoti attorno ad un punto a, come se fosse il cerchio superiore della trottola, e poniamo un altro cerchio de fisso:
Non è forse vero che quanto più velocemente il cerchio mobile ruota intorno a sé, tanto meno sembra muoversi? Bernardo. Certo, sembra così, ed è quello che vedevamo da bambini. Cardinale. Supponiamo ora che il poter-muoversi del cerchio sia in esso in atto; supponiamo, cioè, che il cerchio si muova in atto con tutta la velocità possibile: non sarebbe allora totalmente in quiete? Bernardo. A causa della rapida velocità, non si potrebbe osservare nessuna successione. E così, venendo meno la successione, non si potrebbe cogliere neppure il movimento. Giovanni. Nel caso in cui arrivasse ad una velocità infinita, i punti b e c coinciderebbero, nel medesimo istante, con il punto d del circolo fisso, senza che uno dei due punti, cioè b, sia anteriore nel tempo a c, perché, altrimenti, il movimento non sarebbe massimo ed infinito. Tuttavia, non vi sarebbe moto ma quiete, perché in nessun momento del tempo questi due punti si allontanerebbero dal punto fisso d.
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Cardinalis: Recte ais, abba. Maximus ergo motus esset simul et minimus et nullus. Bernardus: Ita necessario videtur. Cardinalis: Nonne quemadmodum b c puncta opposita eo casu forent semper cum d, ita semper etiam cum opposito eius scilicet e? Iohannes: Necessario. Cardinalis: Nonne etiam omnia intermedia puncta circuli b c similiter? Iohannes: Similiter. Cardinalis: Totus ergo circulus etiamsi maximus foret, in omni nunc simul foret cum puncto d, etiamsi d punctus minimus foret, et non solum in d et e, sed in omni puncto circuli d e. Iohannes: Ita foret. Cardinalis: Satis sit ergo hoc phantasmate posse aenigmatice aliqualiter videri, quomodo si b c circulus sit ut aeternitas et alius d e tempus, non repugnare aeternitatem simul totam esse in quolibet puncto temporis et deum principium et finem simul esse totum in omnibus et quaelibet talia. 20 Bernardus: Video adhuc unum utique magnum. Iohannes: Quid hoc? Bernardus: In deo hic distantia nequaquam distare. Nam d e distant per diametrum circuli, cuius sunt opposita puncta; sed non in deo. Veniente enim b ad d est simul et cum e. Ita omnia, quae in tempore distant in hoc mundo, sunt in praesentia coram deo, et quae distant opposite sunt ibi coniuncte, et quae hic diversa ibi idem.
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Cardinale. Ti esprimi correttamente, abate. Quindi, il movimento massimo sarebbe, contemporaneamente, sia il movimento minimo, sia nessun movimento. Bernardo. Sembra necessariamente così. Cardinale. E in questo caso, come i punti opposti b e c coinciderebbero sempre con d, così non coinciderebbero forse sempre anche con il punto opposto rispetto a d, ossia con e? Giovanni. Necessariamente. Cardinale. E non sarebbe forse così anche per tutti i punti intermedi del cerchio bc? Giovanni. Sarebbe così. Cardinale. L’intero cerchio, pertanto, anche se fosse il cerchio massimo, in ogni istante coinciderebbe simultaneamente con il punto d, anche se d fosse il punto minimo, e sarebbe presente non solo in d e in e, ma in ogni punto del cerchio de. Giovanni. Sarebbe così. Cardinale. È sufficiente quindi questa immagine perché noi possiamo in qualche modo vedere simbolicamente come, se consideriamo il circolo bc come l’eternità e l’altro circolo de come il tempo, non sia contraddittorio che l’eternità sia simultaneamente presente nella sua interezza in ciascun punto del tempo, e che Dio, che è principio e fine, sia simultaneamente tutto in tutte le cose67, e così via. Bernardo. Mi sembra che via sia ancora una cosa davvero importante. Giovanni. Che cosa? Bernardo. Le cose che qui sono distanti non sono distanti in Dio68. Ad esempio, d ed e sono distanti l’uno dall’altro per il diametro del cerchio, di cui sono i punti opposti, ma non è così in Dio. Infatti, quando il punto b giunge sul punto d, esso coincide nello stesso tempo anche con e. In modo simile, le cose che, nel nostro mondo, sono distanti nel tempo sono tutte presenti davanti a Dio69, e le cose che [nel nostro mondo] sono distanti le une dalle altre come degli opposti sono tutte congiunte in Dio, e quelle che qui sono diverse in lui sono identiche.
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Iohannes: Haec certe notanda, ut intelligamus deum supra omnem differentiam, varietatem, alteritatem, tempus, locum et oppositionem esse. 21 Cardinalis: Iam intelligetis facilius, quomodo concordabitis theologos, quorum alter dicit sapientiam quae deus omni mobili mobiliorem et verbum velociter currere et omnia penetrare atque a fine ad finem pertingere atque ad omnia progredi. Alius vero dicit primum principium fixum immobile stare in quiete, licet det omnia moveri, quidam quod simul stat et progreditur, et adhuc alii quod neque stat neque movetur. Ita quidam dicunt ipsum generaliter in omni loco, alii particulariter in quolibet, alii utrumque, alii nullum. Haec et his similia facilius per hoc speculare medium capiuntur, licet infinite melius haec omnia sint in deo ipse deus simplex, quam per dictum paradigma etiam per cuiuscumque altissimum saltum. 22 Bernardus: Immo etiam de aeternis rerum rationibus, quae in rebus aliae et aliae atque differentes sunt, etiam pariformiter videtur eas in deo non esse varias. Nam etsi circuli b c puncta concipiantur rationes rerum seu ideae, non tamen sunt plura, cum totus circulus et punctus sint idem. Quando enim b est cum d, totus circulus est cum d et omnes eius puncti sunt unus punctus, licet videantur esse plura, quando ad d e temporis circulum et eius puncta respicimus. 23 Cardinalis: Multum acceditis ad theologiam illam latissimam pariter et concisam. Possemus adhuc plura in hoc trochi motu pulcherrima venari, scilicet quomodo puer volens trochum mortuum seu sine motu facere vivum sui conceptus similitudinem sibi impri-
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Giovanni. Dobbiamo certo tener conto di questo, in modo da poter comprendere che Dio è al di sopra di ogni differenza, varietà e alterità, è al di sopra del tempo, di ogni luogo e di ogni opposizione. Cardinale. Comprenderete oramai più facilmente in che modo potrete mettere d’accordo i teologi tra di loro. Di essi, uno dice che la sapienza, che è Dio, è più mobile di ogni realtà mobile e che il [suo] Verbo corre velocemente, pervade tutte le cose, si estende da un’estremità all’altra e giunge a tutte le cose70. Un altro, invece, dice che il primo principio è fisso, immobile, e resta in quiete, anche se conferisce il movimento a tutte le cose71; alcuni dicono che esso è, ad un tempo, in quiete e in movimento, altri che non è né in quiete, né in movimento72. In modo analogo, alcuni dicono che Dio è in ogni luogo in modo generale, altri che è in ciascun singolo luogo in modo particolare, altri sostengono entrambe le cose, altri negano entrambe le cose. Queste affermazioni, ed altre simili, si comprendono più facilmente con l’ausilio del nostro esempio, utilizzando quest’ultimo come una sorta di specchio, sebbene tutto ciò sia, in Dio, Dio stesso nella sua semplicità, e lo sia in maniera infinitamente migliore rispetto a quanto si possa comprendere attraverso l’esempio che abbiamo sopra menzionato, anche se uno facesse un salto grandissimo. Bernardo. E questo sembra parimenti valere anche a proposito dei principi razionali eterni delle cose, i quali, nelle cose, sono diversi l’uno dall’altro e differenti, mentre, in Dio, non sono diversi73. Infatti, anche nel caso in cui i punti del cerchio bc vengano concepiti come [esempi per illustrare] i principi razionali delle cose, ovvero le Idee, essi non sono tuttavia molteplici, in quanto l’intero cerchio e un punto sono un’unica e medesima cosa. Quando, infatti, b coincide con d, l’intero cerchio coincide con d, e tutti i suoi punti formano un punto solo, benché essi sembrino essere molti quando guardiamo al cerchio d-e del tempo e ai suoi punti. Cardinale. Vi state avvicinando molto a quella teologia che è, parimenti, vastissima e concisa74. In questo movimento della trottola potremmo scovare molte altre verità bellissime, osservando, ad esempio, come un ragazzo, volendo rendere viva una trottola morta, ossia priva di movimento, le imprima, per mezzo di un’ingegno-
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mit per inventum sui intellectus ingenium et motu manuum recto pariter et obliquo seu pulsionis pariter et attractionis imprimit sibi motum supra naturam trochi, cum non haberet nisi motum versus centrum uti grave: facit ipsum circulariter moveri ut caelum. Et hic spiritus movens adest trocho invisibiliter diu aut parum secundum impressionem communicatae virtutis. Quo desinente volvere trochum revertitur uti erat prius ad motum versus centrum. Nonne hic est similitudo creatoris spiritum vitae dare non-vivo volentis? Uti enim praeordinavit dare, ita medio motus caeli, qui sunt instrumenta exsecutionis voluntatis eius, moventur motu recto ab oriente ad occasum et cum hoc reversionis de occasu ad orientem simul, ut sciunt astrologi, et spiritus vitae ex zodiaco animali impressus movet vitaliter id, quod de sua natura vita caruit, et vivificat quamdiu spiritus durat, deinde revertitur in terram suam. Talia, quae tamen non sunt praesentis speculationis, et plura valde significantur in hoc ludo puerorum. Haec sic cursim rememorata sint, ut consideretis quomodo etiam in arte puerorum relucet natura et in ipsa deus, quodque sapientes mundi qui hoc ponderarunt veriores assecuti sunt de scibilibus coniecturas. 24 Bernardus: Ago tibi immensas gratias, pater optime, quoniam multa dubia et quae videbantur impossibilia hoc aptissimo trochi aenigmate facta sunt mihi non solum credibilia sed necessaria. Cardinalis: Qui sibi de deo conceptum simplicem facit quasi significati huius compositi vocabuli possest, multa sibi prius difficilia citius capit. Nam si quis se ad lineam convertit et applicat ipsum
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sa trovata del suo intelletto, [un movimento che è] una similitudine del suo pensiero: e così, con un movimento ad un tempo retto ed obliquo delle sue mani, ossia con un movimento insieme di spinta e di attrazione, imprime alla trottola un movimento che va al di là di quello che è proprio della sua natura, poiché la trottola non avrebbe [di per se stessa] che un movimento verso il centro, come ogni corpo pesante75; il ragazzo, invece, la fa muovere circolarmente, come il cielo. E questo spirito motore è presente in modo invisibile nella trottola per molto o per poco tempo, a seconda dell’intensità della forza che le è stata trasmessa. E quando esso [questo spirito motore] cessa di far girare la trottola, questa ritorna alla sua condizione iniziale, al suo moto verso il centro. Non è questa una similitudine del creatore, che vuole dare lo spirito di vita a ciò che non è vivo? Avendo infatti prestabilito di dare la vita, egli lo ha fatto per mezzo del movimento76, per cui i corpi celesti, che sono gli strumenti esecutivi della sua volontà, si muovono di un moto rettilineo da est ad ovest e, contemporaneamente, di un moto di ritorno da ovest ad est, come sanno gli astrologi; e lo spirito della vita, che viene dispensato all’animale dallo zodiaco77, muove vitalmente ciò che, per sua natura, era privo di vita, e lo vivifica finché perdura lo spirito, dopo di che quell’essere ritorna alla sua terra. Queste cose, che non attengono tuttavia alla nostra presente indagine, e molte altre ancora sono ben esemplificate in questo gioco che fanno i ragazzi. Esse sono state qui ricordate di passaggio affinché consideriate come, anche in un’attività escogitata dai ragazzi, risplenda la natura ed in essa Dio, e come i saggi del mondo che hanno esaminato questo fatto siano pervenuti a delle congetture più vere su ciò che è conoscibile. Bernardo. Ti ringrazio immensamente, eccellente padre, perché, grazie a questa immagine assai pertinente della trottola, molte cose di cui dubitavo e che mi sembravano impossibili mi sono state rese non solo credibili, ma mi appaiono ora necessarie. Cardinale. Chi si forma di Dio un concetto semplice come quello designato da questa parola composta «potere-che è» comprende più rapidamente molte cose che prima gli risultavano difficili. Se, ad esempio, qualcuno rivolge la sua attenzione ad una linea ed applica ad essa il «potere-che è», in modo da vedere il «po-
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possest, ut videat possest lineale, hoc est ut videat lineam illud esse actu quod esse potest et omne id esse quod lineam fieri posse intelligit, utique ex sola illa ratione quia est possest ipsam videt lineam maximam pariter et minimam. Nam cum sit id quod esse potest, non potest esse maior: sic videtur maxima, nec minor: sic videtur minima. Et quia est id quod linea fieri potest, ipsa est terminus omnium superficierum. Sic et terminus figurae triangularis, quadrangularis et omnium polygoniarum et omnium circulorum et figurarum omnium, quae fieri possunt ex linea sive recta sive curva, et omnium figurarum exemplar simplex, verissimum et adaequatissimum et aequalitas in se omnes habens et per se omnia figurans. Et ita unica figura omnium figurabilium linealiter et ratio una atque causa omnium quantumcumque variarum figurarum. 25 In hoc aenigmate vides quomodo si possest applicatur ad aliquod nominatum, [quomodo] fit aenigma ad ascendendum ad innominabile, sicut de linea per possest pervenisti ad indivisibilem lineam supra opposita exsistentem, quae est omnia et nihil omnium lineabilium. Et non est tunc linea, quae per nos linea nominatur, sed est supra omne nomen lineabilium. Quia possest absolute consideratum sine applicatione ad aliquod nominatum te aliqualiter ducit aenigmatice ad omnipotentem, ut ibi videas omne quod esse ac fieri posse intelligis supra omne nomen, quo id quod potest esse est nominabile, immo supra ipsum esse et non-esse omni modo, quo illa intelligi possunt. Nam non-esse cum possit esse per omnipotentem, utique est actu, quia absolutum posse est actu in omnipotente. Si enim ex non-esse potest aliquid fieri quacumque po-
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tere-che è» della linea, ossia in modo da vedere che la linea è in atto [tutto] ciò che essa può essere ed è tutto ciò che egli comprende che una linea può diventare, allora, per questa sola ragione, per il fatto cioè che essa è il «potere-che è», egli vede che la linea è parimenti massima e minima. Infatti, dal momento che la linea è [tutto] ciò che essa può essere, non può essere più grande, e pertanto viene vista come massima, né può essere più piccola, e pertanto viene vista come minima78. E dal momento che è tutto ciò che una linea può diventare, essa è il termine di tutte le superfici79. Pertanto, essa è il termine della figura triangolare, della figura quadrangolare, di tutti i poligoni, di tutti i cerchi e di tutte le figure che possono sorgere da una linea, sia essa retta o curva. Essa è pertanto il modello semplice, perfettamente vero e assolutamente adeguato, di tutte le figure, ed è l’uguaglianza che ha in sé tutte le figure e che, attraverso se stessa, conferisce una figura a tutte le cose. E così, essa è la figura unica di tutte le figure che possono essere tracciate mediante delle linee, è il fondamento unico e la causa di tutte le figure, per quanto diverse esse siano. In questa immagine vedi in che modo, se viene applicato a qualcosa che ha un nome, il «potere-che è» diventa un’immagine per ascendere a ciò che è innominabile, così come, a partire da una linea, sei pervenuto, attraverso il «potere-che è», alla linea indivisibile80, che esiste al di sopra degli opposti e che è tutte le cose che possono essere tracciate mediante delle linee e nessuna di esse. Ma, allora, essa non è una di quelle linee alle quali noi attribuiamo, appunto, il nome di «linea», ma è al di sopra di ogni nome relativo alle cose che possono essere tracciate mediante delle linee. Pertanto, il «potere-che è», se lo si considera in senso assoluto, senza applicarlo a qualcosa che venga da noi nominato, ti conduce in qualche modo, attraverso un’immagine, verso l’onnipotente81, in maniera tale che tutte le cose, che comprendi che possono essere e che possono essere fatte, lassù le vedi al di sopra di ogni nome con cui è nominabile ciò che può essere, ed anzi le vedi al di sopra anche dell’essere e del non-essere, in qualunque modo questi possano essere concepiti. Il non-essere, infatti, dal momento che può essere grazie all’onnipotente, è sicuramente in atto, poiché il potere assoluto è in atto nell’onnipotente. Se, infatti, dal non-essere può esse-
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tentia, utique in infinita potentia complicatur. Non esse ergo ibi est omnia esse. Ideo omnis creatura, quae potest de non-esse in esse perduci, ibi est ubi posse est esse et est ipsum possest. 26 Ex quo te elevare poteris, ut supra esse et non-esse omnia ineffabiliter, aenigmatice tamen, videas, quae de non-esse per actu esse omnia in esse veniunt. Et ubi hoc vides, verissime et discretissime nullum nomen nominabile per nos invenis. Illi enim principio non convenit nec nomen unitatis seu singularitatis nec pluralitatis aut multitudinis nec aliud quodcumque nomen per nos nominabile seu intelligibile, cum esse et non-esse ibi sibi non contradicant nec alia quaecumque opposita aut discretionem affirmantia vel negantia. Eius enim nomen est nomen nominum et non plus singulare singulorum quam universale simul omnium et nullius. 27 Bernardus: Intelligo te dicere quomodo hoc nomen compositum possest de posse et esse unitum habet simplex significatum iuxta tuum humanum conceptum ducentem aenigmatice inquisitorem ad aliqualem de deo positivam assertionem. Et capis posse absolutum prout complicat omne posse supra actionem et passionem, supra posse facere et posse fieri. Et concipis ipsum posse actu esse. Hoc autem esse quod actu est omne posse esse dicis, id est absolutum. Et ita vis dicere quod ubi omne posse actu est, ibi pervenitur ad primum omnipotens principium. Non haesito quin omnia in illo complicentur principio, quod omnia quae quocumque modo possunt esse in se habet. Nescio si bene dico. Cardinalis: Optime. Principium igitur suam vim omnipotentem in nullo quod esse potest evacuat. Ideo nulla creatura est pos-
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re fatto qualcosa per mezzo di una potenza qualsiasi, esso è a maggior ragione complicato nella potenza infinita. Lì, dunque, il nonessere significa essere tutte le cose82. E così ogni creatura, che può essere condotta dal non-essere all’essere, si trova lì dove il potere è l’essere, e lì è lo stesso «potere-che è». A partire da questo punto, potrai elevarti in modo da vedere, al di sopra dell’essere e del non-essere, per quanto in maniera ineffabile e attraverso un’immagine, tutte le cose che giungono dal non-essere all’essere mediante quell’essere che è in atto tutte le cose. E allorché tu vedi questo, non trovi alcun nome che possa essere pronunciato da noi con assoluta verità e distinzione. A quel principio, infatti, non si addice né il nome di «unità» o di «singolarità», né quello di «pluralità» o di «molteplicità», né alcun altro nome che noi possiamo nominare o comprendere, poiché lì l’essere e il non-essere non si contraddicono l’un l’altro, né si contraddice qualsiasi altra coppia di opposti che affermino o neghino una distinzione. Il suo nome, in effetti, è il nome dei nomi, e non è un nome singolare, valido per le singole cose, più di quanto sia un nome universale, valido per tutte le cose ed insieme per nessuna83. Bernardo. Comprendo che stai parlando di come questo nome «potere-che è», composto dalla congiunzione di «potere» e di «essere», abbia un significato semplice che, attraverso un’immagine e in modo conforme ad un tuo concetto umano, conduce colui che ricerca ad una qualche asserzione positiva su Dio. Inoltre, tu intendi il potere assoluto come quello che complica ogni potere, al di sopra dell’attività e della passività, al di sopra del poter-fare e del poter-essere-fatto84. E concepisci questo potere come essere in atto. Viceversa, dici che questo essere, che è in atto, è ogni potere, ossia che è il potere assoluto. E con ciò vuoi dire che, dove ogni potere è in atto, lì si è giunti al primo principio onnipotente. Non dubito che tutte le cose siano complicate in questo principio, il quale ha in sé tutto ciò che, in un modo o in un altro, può essere. Non so, tuttavia, se ho espresso bene il tuo pensiero. Cardinale. Benissimo. Il principio, pertanto, non esaurisce la sua forza onnipotente in nessuna delle cose che possono essere85. E così, nessuna creatura è il «potere-che è». Per questo, ogni creatu-
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sest. Quare omnis creatura potest esse quod non est. Solum principium quia est ipsum possest, non potest esse quod non est. Bernardus: Clarum est hoc. Si enim principium posset non esse, non esset, cum sit quod esse potest. Iohannes: Est igitur absoluta necessitas, cum non possit non esse. Cardinalis: Recte dicis. Nam quomodo posset non esse, quando non-esse in ipso sit ipsum. Iohannes: Mirabilis deus, in quo non-esse est essendi necessitas. 28 Bernardus: Quia mundus potuit creari, semper ergo fuit ipsius essendi possibilitas. Sed essendi possibilitas in sensibilibus materia dicitur. Fuit igitur semper materia. Et quia numquam creata, igitur increata. Quare principium aeternum. Iohannes: Non videtur procedere hoc tuum argumentum. Nam increata possibilitas est ipsum possest. Unde quod mundus ab aeterno potuit creari, est quia possest est aeternitas. Non est igitur verum aliud requiri ad hoc quod possibilitas essendi mundum sit aeterna nisi quia possest est possest, quae est unica ratio omnium modorum essendi. 29 Cardinalis: Abbas bene dicit. Nam si posse fieri non habet initium, hoc ideo est, quia possest est sine initio. Praesupponit enim posse fieri absolutum posse, quod cum actu convertitur, sine quo impossibile est quicquam fieri posse. Quod si absolutum posse indigeret alio, scilicet materia sine qua nihil posset, non esset ipsum possest. Quod enim hominis posse facere requirat materiam quae possit fieri, quia non est ipsum possest, in quo facere et fieri sunt ipsum posse. Hoc enim posse quod de facere verificatur est idem posse quod de fieri verificatur. Bernardus: Difficile est mihi hoc capere. Cardinalis: Quando attendis in deo non-esse esse ipsum possest, capies. Nam si in posse facere non-esse coincidit, utique et
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ra può essere ciò che non è. Solo il principio, in quanto è il «potere-che è», non può essere ciò che non è. Bernardo. Questo è chiaro. Infatti, se il principio potesse non essere, egli non sarebbe, dal momento che è ciò che può essere. Giovanni. Di conseguenza, egli è la necessità assoluta, dato che non può non essere. Cardinale. È giusto. Infatti, come potrebbe non essere, dal momento che in lui il non essere è [identico con] lui stesso? Giovanni. Dio mirabile, nel quale il non-essere è la necessità dell’essere!86 Bernardo. Poiché il mondo ha potuto essere creato, c’è quindi sempre stata la possibilità del suo essere. Ma, nelle cose sensibili, la possibilità di essere si chiama materia87. Pertanto, c’è sempre stata la materia. E dal momento che non è stata mai creata, essa è quindi increata. Quindi, è un principio eterno. Giovanni. Non mi sembra che questo tuo ragionamento proceda bene. Infatti, la possibilità increata è lo stesso «potere-che è». Che il mondo, pertanto, abbia potuto essere creato sin dall’eternità dipende dal fatto che il «potere-che è» è l’eternità. Perché la possibilità di essere del mondo sia eterna, non è quindi richiesto in verità nient’altro se non che il «potere-che è» sia il «potere-che è», il quale è l’unico fondamento di tutti i modi dell’essere88. Cardinale. L’abate dice bene. Infatti, se il poter-essere-fatto non ha un inizio è perché il «potere-che è» è senza inizio. Il poteressere-fatto presuppone infatti il potere assoluto, il quale coincide con l’atto, e senza di esso è impossibile che qualcosa possa essere fatto89. Perché, se il potere assoluto avesse bisogno di qualcos’altro, ossia della materia, senza la quale non potesse nulla, non sarebbe allora il «potere-che è». In effetti, che il poter-fare dell’uomo abbia bisogno di una materia che possa essere trasformata, lo si deve al fatto che esso non è lo stesso «potere-che è», nel quale il fare e l’essere fatto sono il potere stesso. Il potere che si predica del fare è lo stesso che si predica dell’essere-fatto. Bernardo. Mi risulta difficile comprendere questo punto. Cardinale. Lo comprenderai se poni mente al fatto che in Dio il non-essere è lo stesso «potere-che è». Infatti, se il non-esse-
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posse fieri coincidit. Ac si tu fores auctor libri quem scribis, in posse tuo activo, scilicet in ipso scribere librum, complicaretur ipsum posse passivum, scilicet ipsum scribi ipsius libri, quia non-esse libri in tuo posse esse haberet. 30 Iohannes: Maxima sunt quae aperis, pater. Nam omnia in possest sunt et videntur ut in sua causa et ratione, licet nullus intellectus capere possit ipsum nisi qui est ipsum. Cardinalis: Intellectus noster quia non est ipsum possest – non enim est actu quod esse potest; maior igitur et perfectior semper esse potest –, ideo ipsum possest licet a remotis videat, non capit. Solum ipsum possest se intelligit et in se omnia, quoniam in possest omnia complicantur. Iohannes: Bene considero quomodo omnia de possest negantur, quando nullum omnium quae nominari possunt sit ipsum, cum possit esse id quod non est. Ideo quantitas non est. Quantitas enim cum possit esse id quod non est, non est possest. Puta potest esse maior quam est aut aliud quam est; sed non sic possest, cui nec maioritas quae esse potest aut quicquam quod esse potest deest. Ipsum enim posse est actu perfectissimum. 31 Sed nunc subiunge quaeso, postquam ille superadmirabilis deus noster nullo quamvis etiam altissimo ascensu naturaliter videri possit aliter quam in aenigmate, ubi potius posse videri quam visio attingitur et in caliginem umbrosam pervenit inquisitor: quomodo ergo demum ille qui manet semper invisibilis videatur? Cardinalis: Nisi posse videri deducatur in actum per ipsum qui est actualitas omnis potentiae per sui ipsius ostensionem, non videbitur. Est enim deus occultus et absconditus ab oculis omnium
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re coincide con il poter-fare, a maggior ragione con quest’ultimo coincide anche il poter-essere-fatto. Ad esempio, se tu fossi l’autore di un libro che stai scrivendo, nel tuo potere attivo, ossia nello stesso scrivere il libro, risulterebbe complicato anche il potere passivo, ossia il poter-essere-scritto del libro, poiché il non-essere del libro avrebbe l’essere nel tuo potere. Giovanni. Quello che ci disveli, Padre, è della massima importanza. Tutte le cose sono e sono viste nel «potere-che è» come nella loro causa e nel loro fondamento, anche se nessun intelletto può comprendere il «potere-che è» tranne quell’intelletto che è lo stesso «potere-che è». Cardinale. Il nostro intelletto non è il «potere-che è»: non è infatti in atto tutto ciò che può essere, e può pertanto sempre essere più grande e più perfetto; per questo, non comprende il «potere-che è», benché lo veda da lontano. Solo il «potere-che è» intende se stesso e in se stesso tutte le cose, poiché tutte sono complicate nel «potere-che è». Giovanni. Vedo chiaramente che tutto viene negato del «potere-che è», dal momento che nessuna delle cose che possono essere nominate è il «potere-che è», in quanto ciascuna di esse può essere ciò che non è. Pertanto, il «potere-che è» non è quantità. La quantità, infatti, potendo essere ciò che non è, non è il «potere-che è». Ad esempio, la quantità può essere maggiore di quello che è, o può essere diversa da quello che è; non così invece il «potere-che è», al quale non manca né quel di più che la quantità può essere, né nulla di ciò che può essere. Questo potere, infatti, è in atto in modo perfettissimo. Ma rispondi ora ad un’altra domanda: dal momento che questo nostro Dio superammirabile, per quanto in alto si ascenda, non può essere visto per forza naturale se non attraverso un’immagine, dove si raggiunge la possibilità di vedere più che la visione effettiva e dove colui che ricerca perviene ad una caligine piena di ombre, in che modo, allora, può essere visto colui che, per l’appunto, rimane sempre invisibile? Cardinale. Non verrà visto a meno che colui che è l’attualità di ogni potenza non conduca all’atto, mediante una manifestazione di sé, la possibilità di vedere. Dio, infatti, resta occulto e nasco-
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sapientum, sed revelat se parvulis seu humilibus, quibus dat gratiam. Est unus ostensor, magister scilicet Iesus Christus. Ille in se ostendit patrem, ut qui eum meruerit videre qui est filius, videat et patrem. 32 Iohannes: Forte vis dicere, quod pater illis ostenditur, in quibus Christus per fidem habitat. Cardinalis: Non potest Christus per fidem habitare in aliquo, nisi habeat spiritum veritatis, qui docet omnia. Diffunditur enim spiritus Christi per Christiformem et est spiritus caritatis, qui non est de hoc mundo, nec mundus ipsum capere potest, sed Christiformis qui mundum transiliit. Hic spiritus, qui stultam facit mundi sapientiam, est illius regni, ubi «videtur deus deorum in Sion». Est enim virtus illuminativa nati caeci, qui per fidem visum acquirit. Neque dici potest quomodo hoc fiat. Quis enim dicere posset hoc? Nec qui ex non-vidente factus est videns. Multis enim quaestionibus interrogabatur illuminatus, sed artem qua Christus eum fecit videntem nec scivit nec dicere potuit. Sed bene dixit ipsum facere potuisse sibi, quia credidit fieri posse videns ab ipso, et hanc fidem respiciens noluit ipsam irritam esse. Nemo enim umquam in ipso confidens derelictus est. Postquam enim homo est desperatus de se ipso, ita quod se tamquam infirmum et penitus impotentem ad desiderati apprehensionem certus est, convertit se ad amatum suum, indubia fide promissioni Christi inhaerens, et pulsat oratione devotissima, credens non posse derelinqui, si non cessaverit pulsare Christum, qui suis nihil negat. Indubie assequetur quaesitum. Apparebit enim Christus dei verbum et manifestabit se illi et cum patre suo ad ipsum veniet et mansionem faciet, ut videri possit. 33 Bernardus: Capio te dicere velle quod viva fides, caritate scilicet formata quae facit quem Christiformem, illa implet defec-
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sto agli occhi di tutti i sapienti, ma si rivela ai piccoli e agli umili90, ai quali concede la grazia91. Uno solo è colui che lo manifesta, ossia il maestro Gesù Cristo. Egli manifesta in sé il Padre, in modo tale che, chi abbia meritato di vedere lui, che è il Figlio, veda anche il Padre92. Giovanni. Intendi forse dire che il Padre si manifesta a coloro nei quali Cristo abita in virtù della fede93. Cardinale. Cristo non può abitare in qualcuno in virtù della fede, se questi non ha lo spirito di verità che insegna tutte le cose94. Lo spirito di Cristo, infatti, si diffonde in colui che è cristiforme95; esso è lo spirito della carità96, che non è di questo mondo97 e che il mondo non può comprendere98; solo colui che è cristiforme, che ha trasceso questo mondo99, lo comprende. Questo spirito, che rende stolta la sapienza del mondo100, è lo spirito di quel regno dove «il Dio degli dèi viene visto in Sion»101. Esso è infatti la forza che illumina il cieco nato, il quale acquista la vista grazie alla fede102. Ma non possiamo dire in che modo questo avvenga. Chi potrebbe in effetti spiegare una cosa come questa? Neppure il cieco, al quale venne restituita la vista. In effetti, colui che aveva ricevuto la luce venne sottoposto a molte domande, ma non seppe, né poté dire con quale arte Cristo gli aveva restituito la vista. Tuttavia, egli disse giustamente che Cristo aveva potuto fare questo per lui, perché egli aveva creduto di poter avere la vista da Cristo, e Cristo, guardando a questa sua fede, non volle che essa restasse senza effetto. Nessuno che abbia confidato in Cristo, infatti, è stato mai abbandonato103. Dopo che l’uomo ha disperato di se stesso, fino al punto di riconoscere di essere, per così dire, infermo e del tutto impotente a raggiungere ciò che desidera, egli si rivolge al suo amato, aggrappandosi alla promessa di Cristo con una fede sicura, e lo supplica con la preghiera più devota, credendo che non potrà essere abbandonato, se non smetterà di implorare Cristo, il quale non rifiuta nulla ai suoi. Allora, senza alcun dubbio, egli otterrà ciò che chiede104. Apparirà, infatti, Cristo, il Verbo di Dio105, e si manifesterà a lui, e verrà a lui insieme a suo Padre106 e porrà in lui la sua dimora, in modo che egli possa vederlo. Bernardo. Comprendo quello che vuoi dire: la fede viva, ossia la fede formata dalla carità107 che rende cristiformi, supplisce
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tum naturae et stringit quodammodo deum, ut quicquid in nomine Christi petierit assiduus orator, impetret. Confortatur ex spiritu fidei concepto in spiritu nostro ipse spiritus noster secundum mensuram fidei, sicut spiritus visivus oculi caeci nati tenebrosus et impotens spiritu fidei Christi sanatus et confortatus sibi prius invisibile vidit. Cardinalis: Illa est suprema unici salvatoris nostri Christi doctrina, ipsum, qui est verbum dei per quod deus fecit et saecula, omnia adimplere quae natura negat in eo, qui ipsum ut verbum dei indubitata fide recipit, ut credens in ea fide, in qua est Christus, potens sit ad omnia medio verbi in eo per fidem habitantis. 34 Sicuti aliqua in hoc mundo medio humanae artis fieri videmus per eos, qui artem habent in anima sua studio acquisitam, ita quod ars est in ipsis recepta et manens et verbum docens et imperans ea quae artis sunt, sic et ars divina, quae firmissima fide acquisita est in spiritu nostro, est verbum dei docens et imperans ea quae artis creativae et omnipotentis exsistunt. Et sicut non potest indispositus artista operari ea quae artis sunt, ita nec indispositus fidelis. Dispositio autem fidelis volentis deum videre, quae necessario requiritur, est munditia cordis. Illi enim beati sunt et deum videbunt, ut verbum fidei Christi nostri nos docet. 35 Bernardus: Vellem de praemissis adhuc clarius si fieri posset informari. Cardinalis: Arbitror necessarium quod qui videre deum cupit, ipsum quantum potest desideret. Oportet enim quod posse desiderare ipsius perficiatur, ut sic actu tantum ferveat desiderium quantum desiderare potest. Hoc quidem desiderium est vivus amor, quo deum quaerens ipsum ex toto corde, ex tota anima, hoc
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al difetto della natura e «costringe» in qualche modo Dio108, così che colui che prega con costanza ottiene qualunque cosa egli abbia chiesto in nome di Cristo109. In proporzione alla misura della nostra fede, il nostro spirito viene fortificato dallo spirito della fede, che viene ricevuto nel nostro spirito, così come lo spirito visivo dell’occhio del cieco nato, che prima era avvolto nell’oscurità e impotente, una volta che venne risanato e fortificato dallo spirito della fede in Cristo, vide ciò che prima gli era invisibile. Cardinale. Questo è il supremo insegnamento di Cristo, il nostro unico Salvatore: egli, che è il Verbo di Dio, attraverso il quale Dio ha creato il mondo110, adempie in colui che lo accoglie con una fede salda come Verbo di Dio tutto ciò che la natura gli nega, in modo tale che, credendo con quella fede nella quale Cristo è presente, egli può fare tutto per mezzo del Verbo che abita in lui attraverso tale fede111. Ad esempio, in questo mondo noi vediamo un certo numero di cose che, per mezzo dell’arte umana, vengono realizzate da coloro che hanno nel loro animo tale arte, che essi hanno acquisita con lo studio; l’arte, pertanto, viene accolta in essi e vi rimane come una parola che insegna e prescrive quanto attiene all’arte. In modo simile, l’arte divina112, che viene acquisita nel nostro spirito mediante una fede assolutamente ferma, è la Parola di Dio che insegna e prescrive quanto attiene all’arte creatrice e onnipotente. E come un’artista, senza una disposizione adatta, non può fare quanto attiene alla sua arte, così neppure il fedele se non è ben disposto. Ora, la disposizione che è necessariamente richiesta al fedele che vuole vedere Dio è la purezza del cuore. I puri di cuore, infatti, sono beati e vedranno Dio, come ci insegna la parola della fede del nostro Cristo113. Bernardo. Vorrei essere istruito più chiaramente su questi punti, se fosse possibile. Cardinale. Ritengo sia necessario che, colui che brama di vedere Dio, desideri Dio quanto più può. Bisogna infatti che il suo potere di desiderare giunga al suo compimento, in modo tale che il suo desiderio arda in atto tanto quanto può desiderare114. Un tale desiderio è l’amore vivo con il quale chi cerca Dio lo ama con tutto il suo cuore, con tutta la sua anima, ossia con tutte le sue forze,
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est ex omnibus viribus suis, quantum scilicet potest, diligat. Quod quidem desiderium nemo habet nisi qui Christum ut dei filium ita diligit sicut Christus ipsum, in quo utique per fidem Christus habitat, ita ut dicere possit se spiritum Christi habere. 36 Iohannes: Intelligo fidem superare naturam et non esse deum alia fide visibilem quam fide Christi. Qui cum sit verbum dei omnipotentis et ars creativa, dum spiritui nostro ipsum per fidem recipienti illabitur, super naturam elevat in sui consortium spiritum nostrum, qui non haesitat propter inhabitantem in eo spiritum Christi et eius virtute supra omnia ut verbum imperiale ferri. Bernardus: Utique in verbo imperativo cunctipotentis, qui dicit et facta sunt, ipsa omnipotentia, quae deus creator et pater omnium est, revelatur, neque in alio aliquo quam in suo verbo potest revelari. Cui igitur hoc verbum se manifestat, in ipso utique ut in filio pater ostenditur. Sed stupor est ingens hominem posse per fidem ad verbum omnipotentis ascendere. 37 Cardinalis: Legimus aliquos subito artem verbi linguarum dono sancti spiritus recepisse, ita ut de ignorantibus subito facti sint scientes genera linguarum. Et haec vis non erat nisi participatio verbi divinae artis. Illi tamen non habuerunt scientiam nisi humanam, sed super hominem subito per infusionem acquisitam. Alii non solum linguarum sed doctorum peritiam receperunt, alii virtutem miraculorum. Et haec certa sunt. Fideles enim a principio cum fide viva talem spiritum receperunt, ut certi essent fidem tantae virtutis esse. Et sic si plantari debuit expediebat, non modo post eius receptionem, ut non quaerat signa sed sit pura et simplex. 38 Hic spiritus per fideles receptus quamvis cum mensura, tamen est spiritus Christi participator nos certos faciens quod quando in
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e cioè quanto più può115. E un tale desiderio non lo possiede se non chi ama Cristo come figlio di Dio, così come Cristo ama lui: in lui, certamente, grazie alla fede, abita Cristo, così che egli può dire di avere lo spirito di Cristo116. Giovanni. Comprendo che la fede supera la natura, e che Dio non è visibile in virtù di nessun’altra fede che non sia la fede in Cristo117. Dal momento che Cristo è il Verbo del Dio onnipotente ed è la sua arte creatrice, quando discende nel nostro spirito, che lo riceve grazie alla fede, egli eleva il nostro spirito al di sopra della natura alla comunanza con sé118; e il nostro spirito, grazie allo spirito di Cristo e alla sua forza che abita in lui, non esita a farsi trasportare al di sopra di tutte le cose come il Verbo che impera. Bernardo. Certamente, l’Onnipotenza stessa, che è Dio, il creatore e il padre di tutte le cose, si rivela nel Verbo dell’Onnipotente che impera, il quale parla e «le cose sono fatte»119, ed essa non può rivelarsi in altro che nel suo Verbo. In colui al quale si manifesta questo Verbo si rende pertanto visibile anche il Padre, così come si rende visibile nel Figlio. Tuttavia, desta un enorme stupore il fatto che un uomo possa ascendere, attraverso la fede, al Verbo dell’Onnipotente. Cardinale. Leggiamo che alcuni ricevettero all’improvviso, per un dono dello Spirito santo, l’arte di parlare tutte le lingue, così che, da ignoranti che erano, vennero resi sapienti nei diversi generi di lingue120. E questa capacità non era che una partecipazione all’arte divina121 della Parola. Quelle persone, tuttavia, non ebbero che una scienza umana, acquista però improvvisamente per una infusione superiore alle capacità umane. Altri ricevettero il talento non solo delle lingue, ma anche quello di insegnare, altri ancora il potere di compiere miracoli122. E queste cose [che noi leggiamo] sono certe. I fedeli, infatti, insieme ad una fede viva, ricevettero da principio anche un spirito tale per cui erano certi che la fede possedesse un potere così grande. E questo era allora utile perché la fede doveva mettere radici, ma non lo è più ora dopo che la fede è stata ricevuta, di modo che essa non vada alla ricerca di segni, ma sia pura e semplice. Questo spirito, per quanto sia ricevuto dai fedeli in una misura limitata, partecipa tuttavia dello spirito di Cristo, e ci rende cer-
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nobis habitaret integer spiritus Christi, ultimum felicitatis assecuti essemus, scilicet potestatem verbi dei per quod omnia, scilicet nostrae creationis scientiam. Felicitas enim ultima, quae est visio intellectualis ipsius cunctipotentis, est adimpletio illius desiderii nostri quo omnes scire desideramus. Nisi igitur ad scientiam dei qua mundum creavit pervenerimus, non quietatur spiritus. Semper enim restabit scientia scientiarum, quamdiu illam non attingit. Et haec scientia est verbi dei notitia, quia verbum dei est conceptus sui et universi. Qui enim non pervenerit ad hunc conceptum, neque ad scientiam dei attinget neque se ipsum cognoscet. Non enim potest se causatum cognoscere causa ignorata. Ideo hic intellectus cum sit omnia ignorans, intellectualiter in «umbra mortis» perpetua egestate tristabitur. 39 Iohannes: Incidit mihi videre fidem esse videre deum. Bernardus: Quomodo? Iohannes: Nam fides est invisibilium et aeternorum. Videre ergo fidem est videre invisibile, aeternum seu deum nostrum. Cardinalis: Non es parvum verbum locutus, mi abba. In Christiano vero non est nisi Christus: in hoc mundo per fidem, in alio per veritatem. Quando igitur Christianus Christum videre quaerens facialiter linquet omnia quae huius mundi sunt, ut iis subtractis quae non sinebant Christum, qui de hoc mundo non est, sicuti est videri, in eo raptu fidelis in se sine aenigmate Christum videret, quia se a mundo absolutum qui est Christiformis videt. Non ergo nisi fidem videt, quae sibi facta est visibilis per denudationem mundialium et sui ipsius facialem ostensionem. 40 Bernardus: Haec certe meo iudicio magna sunt valde et quam breviter atque clare a te dicta. Vellem tamen adhuc aliquid a te, pa-
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ti che, se abitasse integralmente in noi lo spirito di Cristo, noi raggiungeremmo il grado ultimo della felicità, ossia il potere del Verbo di Dio grazie al quale sono tutte le cose123, e cioè la scienza della nostra creazione. Infatti, il grado ultimo della felicità, che consiste nella visione intellettuale dello stesso Onnipotente, è il compimento di quel nostro desiderio per il quale noi tutti desideriamo conoscere124. Pertanto, se non giungeremo alla scienza di Dio, a quella scienza grazie alla quale egli ha creato il mondo, il nostro spirito non troverà la quiete125. Fino a che non raggiunge questa scienza, al nostro spirito, infatti, sfuggirà sempre la scienza delle scienze. E questa scienza è la conoscenza del Verbo di Dio, perché il Verbo di Dio è il concetto di se stesso e dell’universo126. Infatti, chi non perverrà a questo concetto non giungerà alla scienza di Dio, né conoscerà se stesso. Ciò che è causato non può infatti conoscere se stesso se non conosce la causa127. È per questo che un tale intelletto, dal momento che non conosce tutto, resterà intellettualmente nell’«ombra della morte»128, afflitto da una perenne indigenza129. Giovanni. Mi viene da pensare che vedere la fede consista nel vedere Dio. Bernardo. E come? Giovanni. In effetti, la fede concerne le cose invisibili ed eterne130. Vedere la fede è quindi vedere l’invisibile, l’eterno, ossia il nostro Dio. Cardinale. Non è un’affermazione da poco quella che hai fatto, abate mio. Nel vero cristiano non c’è che Cristo: in questo mondo mediante la fede, nell’altro mondo nella verità. Pertanto, quando il cristiano cerca di vedere Cristo faccia a faccia131, egli abbandona tutte le cose che sono di questo mondo; in questo modo, rimosso tutto ciò che non permetteva di vedere Cristo come egli è in se stesso, in quanto Cristo non è di questo mondo132, il fedele, in questo rapimento133, vede in se stesso Cristo senza immagini, perché chi è cristiforme vede se stesso sciolto dal mondo. Egli vede quindi solo la fede, la quale gli si è fatta visibile attraverso il suo spogliarsi delle cose di questo mondo134 mostrandosi a lui faccia a faccia. Bernardo. A mio avviso, questi argomenti sono certamente molto importanti e tu li hai esposti con concisione e in modo chia-
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ter, audire de sacratissima trinitate, ut de omnibus maximis aliquo a te sic audito mihi ipsi aliqualem praestare possem devotam consolationem. Cardinalis: Semper varie multa dici posse, licet insufficientissime, haec quae praemisi et quae in variis libellis meis legisti ostendunt. Multis enim valde et saepissime profundissimis meditationibus mecum habitis diligentissimeque quaesitis antiquorum scriptis repperi ultimam atque altissimam de deo considerationem esse interminam seu infinitam seu excedentem omnem conceptum. Omne enim cuius conceptus est aliquis, utique in conceptu clauditur. Deus autem id omne excedit. Nam conceptus de deo est conceptus seu verbum absolutum in se omne conceptibile complicans, et hic non est conceptibilis in alio. Omne enim in alio aliter est. Nihil enim per intellectum actu concipitur ut concipi posset. Per altiorem enim intellectum melius conciperetur. Solus per se seu absolutus conceptus est actu omnis conceptibilis conceptus. Sed noster conceptus, qui non est per se seu absolutus conceptus sed alicuius conceptus, ideo per se conceptum non concipit, cum ille non sit plus unius quam alterius, cum sit absolutus. Ideo istum infinibilem et interminabilem seu inconceptibilem dei conceptum ob suam infinitatem etiam dicimus necessario ineffabilem. Verbum enim illud nullo nomine seu termino finiri seu diffiniri per nos potest, cum concipi nequeat. Sic neque ipsum nominamus unum nec trinum nec alio quocumque nomine, cum omnem conceptum unius et trini et cuiuscumque nominabilis excedat, sed ab eo removemus omne omnium conceptibilium nomen, cum excellat.
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ro. Vorrei tuttavia ascoltare da te, padre, ancora qualche considerazione a proposito della santissima Trinità, così che, dopo avere in questo modo ascoltato da te qualcosa su tutti i temi più importanti, io possa offrire argomenti a me stesso per una qualche devota consolazione. Cardinale. Ciò che ho esposto in precedenza e ciò che hai letto nei miei vari libri mostra che, su questo argomento, si possono sempre dire molte cose e in modi diversi, per quanto in una maniera del tutto insufficiente. Infatti, dopo molte meditazioni, spesso alquanto profonde, che ho condotto in me stesso, e dopo aver svolto ricerche molto accurate negli scritti degli antichi, ho scoperto che l’ultima e più elevata considerazione che possiamo fare su Dio è senza limite, infinita ed eccede ogni concetto135. Tutto ciò di cui vi è un concetto, infatti, è certamente racchiuso in questo concetto. Ora, Dio eccede tutto questo. Il concetto di Dio, infatti, è un concetto assoluto o un verbo assoluto, che complica in sé tutto ciò che può essere concepito e che, pertanto, non è concepibile in qualcos’altro. Tutto ciò che è presente in qualcos’altro, infatti, è presente in esso in un altro modo [rispetto a com’è in se stesso]. Nulla, infatti, viene concepito in atto dall’intelletto così come esso potrebbe essere concepito136. Da un intelletto superiore, infatti, verrebbe concepito meglio. Solo quello che è il concetto per sé o il concetto assoluto137 è in atto il concetto di tutto ciò che è concepibile. Il nostro concetto, invece, che non è il concetto per sé o assoluto, ma è un concetto di qualcosa, non è per questo in grado di concepire il concetto per sé, dal momento che quest’ultimo, essendo assoluto, non è il concetto di una cosa più di quanto lo sia di un’altra. È per tale motivo che diciamo che questo concetto di Dio, indefinibile ed indeterminabile o inconcepibile, è, a motivo della sua infinità, necessariamente anche ineffabile138. Quel Verbo, infatti, dal momento che non può essere compreso concettualmente, non può essere da noi limitato o definito con nessun nome o con nessun termine139. Così, noi non attribuiamo a Dio né il nome di «uno», né quello di «trino», né qualsiasi altro nome, poiché egli eccede ogni concetto di «uno» e di «trino» e di qualsiasi altra cosa che sia nominabile140; piuttosto, noi rimuoviamo da Dio ogni nome di tutte le cose concepibili, dal momento che egli le supera tutte.
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Iohannes: Quanto igitur intellectus intelligit conceptum dei minus formabilem, tanto maior est, ut mihi videtur. Cardinalis: Recte dicis, abba. Ideo quicumque putat apprehendisse ipsum, sciat hoc ex defectu et parvitate sui intellectus evenire. Bernardus: Doctior igitur est sciens se scire non posse. Cardinalis: Hoc necessario omnes illuminatissimi etiam dicent. Bernardus: Dum considero nihil concipi per nos posse uti est conceptibile, clare mihi constat deum concipi non posse, qui concipi utique non potest nisi omnis conceptibilitas actu concipiatur. 42 Cardinalis: Scimus quod omnis numerabilis proportio diametri ad costam est inattingibilis, cum nulli duo numeri dari possent, qui praecise sic se habeant. Sed quibuscumque datis habitudo eorum est aut maior aut minor quam diametri ad costam, et quibuscumque datis possunt dari numeri propinquiores illi habitudini. Et ita videtur possibilis, sed actu numquam datur illa possibilitas. Actus autem esset praecisio, ita quod numeri praecise se sic haberent. Ratio est: Quia nisi numerus detur qui nec par nec impar, non erit quaesitus. Omnis autem numerus quem nos concipimus necessario est par vel impar et non simul; ideo deficimus. Videmus tamen quod apud illum conceptum qui concipit nobis impossibile praecisio exsistit. Sic dicere nos oportet quod noster conceptus non potest proportionem ipsius posse et ipsius esse attingere, cum nullum medium commune habeamus per quod attingamus habi-
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Giovanni. Mi sembra, dunque, che l’intelletto è tanto più grande quanto più comprende che non è possibile dar forma ad un concetto di Dio. Cardinale. Dici bene, abate. E così, chiunque ritiene di aver appreso un tale concetto, deve sapere che ciò è dovuto alla deficienza e alla ristrettezza del suo intelletto. Bernardo. Più dotto, dunque, è colui che sa di non poter sapere141. Cardinale. Questo lo devono necessariamente ammettere tutti i saggi, anche quelli più illustri. Bernardo. Quando pongo mente al fatto che non possiamo concepire nulla nel modo in cui esso può essere concepito, mi risulta chiaro che non possiamo concepire Dio, il quale non può certamente essere concepito, a meno che non venga concepito in atto tutto ciò che può essere concepito. Cardinale. Sappiamo che tra la diagonale e il lato [di un quadrato] non è possibile trovare alcun rapporto che sia esprimibile in termini numerici, perché non possono esserci due numeri il cui rapporto sia precisamente come quello [che vi è tra la diagonale e il lato]142. Ma qualunque siano i numeri dati, il loro rapporto è o maggiore o minore rispetto al rapporto che sussiste tra il diametro e il lato [del quadrato], e qualunque siano i numeri dati se ne possono sempre dare altri che si avvicinano di più a quel rapporto. E così, sebbene quel rapporto appaia possibile, questa possibilità non è mai data in atto. L’atto sarebbe invece quella precisione per la quale i numeri starebbero tra di loro in un rapporto preciso. La ragione di ciò risiede nel fatto che non si troverà il numero ricercato, a meno che non si darà un numero che non sia né pari, né dispari. Ogni numero che noi concepiamo è invece necessariamente o pari o dispari, e non può essere l’uno e l’altro insieme; è per questo che non riusciamo a trovare il numero ricercato143. Vediamo tuttavia che la precisione è presente in quel concetto che esprime ciò che per noi è impossibile concepire. Così, dobbiamo dire che il nostro concetto non può cogliere il rapporto che sussiste tra lo stesso potere e lo stesso essere, dato che non disponiamo di nessun termine medio comune con cui cogliere quel rapporto, dal momento che il
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tudinem, cum posse sit infinitum et indeterminatum et actus finitus et terminatus, inter quae non cadit medium. Sed videmus illa in deo esse indistincta, et ideo est supra nostrum conceptum. Bernardus: Cum omne quod per nos scitur non sciatur sicut sciri potest – potest enim melius sciri –, sola scientia dei, ubi omne posse est actu, est perfecta et praecisa. 43 Iohannes: Nonne, Bernarde, verissimum est bis duo esse quattuor et omnem triangulum habere tres angulos aequales duobus rectis? Bernardus: Immo. Iohannes: Non est igitur verum quod nostra scientia non attingat praecisam veritatem. Cardinalis: Oportet ut consideretur id quod dicitur. Nam in mathematicis quae ex nostra ratione procedunt et nobis experimur inesse sicut in suo principio per nos ut nostra seu rationis entia sciuntur praecise, scilicet praecisione tali rationali a qua prodeunt, sicut realia sciuntur praecise praecisione divina a qua in esse procedunt. Et non sunt illa mathematicalia neque quid neque quale sed notionalia a ratione nostra elicita, sine quibus non posset in suum opus procedere, scilicet aedificare, mensurare et cetera. Sed opera divina, quae ex divino intellectu procedunt, manent nobis uti sunt praecise incognita, et si quid cognoscimus de illis, per assimilationem figurae ad formam coniecturamur. Unde omnium operum dei nulla est praecisa cognitio nisi apud eum qui ipsa operatur. Et si quam de ipsis habemus notitiam, illam ex aenigmate et speculo cognitae mathematicae elicimus: sicut formam quae dat esse a figura quae dat esse in mathematicis. Sicut figura trianguli dat esse triangulo, ita forma seu species humana dat esse homini. Figuram trianguli cognoscimus, cum sit imaginabilis, formam hu-
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potere è infinito e indeterminato, mentre l’atto è finito e determinato, e fra l’uno e l’altro non c’è nessun termine medio. Vediamo invece che queste due cose [il potere e l’atto] in Dio non sono distinte, per cui Egli è al di sopra di ogni nostro concetto. Bernardo. Dal momento che tutto ciò che noi conosciamo non lo conosciamo coì come può essere conosciuto144 – può infatti essere conosciuto meglio –, solo la conoscenza che ha Dio, nella quale ogni potere è in atto, è la conoscenza perfetta e precisa145. Giovanni. Non è forse assolutamente vero, Bernardo, che due più due fa quattro e che ogni triangolo ha i tre angoli uguali a due retti? Bernardo. Certo. Giovanni. Non è dunque vero che la nostra conoscenza non raggiunge una verità precisa. Cardinale. Bisogna prestare bene attenzione a ciò che si dice. Infatti, per quanto concerne le cose matematiche, che procedono dalla nostra ragione e che troviamo presenti in noi come nel loro principio, esse vengono conosciute da noi come realtà nostre, ovvero come enti di ragione, e vengono conosciute in modo preciso, ossia con quella precisione che è propria della ragione da cui esse procedono, così come gli enti reali vengono conosciuti in modo preciso secondo la precisione divina, dalla quale essi procedono all’essere146. E questi enti matematici non sono né essenze, né qualità, ma sono nozioni tratte dalla nostra ragione147, senza le quali la nostra ragione non potrebbe procedere nelle sue opere, ossia nell’edificare, nel misurare, ecc. Ma le opere divine, che procedono dall’intelletto divino, ci restano sconosciute quali esse sono precisamente, e se ne conosciamo qualche cosa ciò avviene per congettura, assimilando una figura a una forma. Ne consegue che delle opere divine non c’è alcuna conoscenza precisa, se non da parte di colui che le produce. E se noi abbiamo di esse una qualche conoscenza, la traiamo dall’immagine e dallo specchio148 della nostra conoscenza matematica149: ad esempio, dal fatto che negli enti matematici la figura conferisce ad essi l’essere, inferiamo che la forma conferisce l’essere [agli enti reali]150. Come la figura di un triangolo dà l’essere al triangolo, così la forma umana, o specie, dà l’essere all’uomo. Noi conosciamo la figura del triangolo perché possiamo rappresentarcela con un’im-
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manam non, cum non sit imaginabilis nec sit quanta quantitate discreta seu continua. Omne autem, quod non cadit sub multitudine nec magnitudine, non potest nec concipi nec imaginari nec de eo phantasma fieri; sic nec praecise intelligi. Oportet enim omnem intelligentem phantasmata speculari. Ideo de his potius ‘quia est’ quam ‘quid est’ attingitur. 44 Bernardus: Si igitur recte consideraverimus, nihil certi habemus in nostra scientia nisi nostram mathematicam, et illa est aenigma ad venationem operum dei. Ideo magni viri si aliquid magni locuti sunt, illud in similitudine mathematicae fundarunt: ut illud quod species se habent ut numeri et sensitivum in rationali sicut trigonum in tetragono et talia multa. Cardinalis: Bene dicis. Ideo hic sic dixerim, ut sciatis quod si illam theologiam Christianorum deum esse unum et trinum in aenigmate videre volumus, recurrere nos possumus ad principium mathematicae: illud utique est unum pariter et trinum. Videmus enim quantitatem, sine qua non est mathematica, esse discretam, cuius principium est unum, et continuam, cuius principium est trinum. Nec sunt duo principia mathematicae, sed unum quod et trinum. Bernardus: Capio bene quoad discretam quantitatem unum principium, sed non quoad continuam trinum. Cardinalis: Prima figura quantitatis continuae est trigonus, in quam aliae figurae resolvuntur, quod ostendit ipsam esse primam. Tetragonus in trigonos resolvitur. Sed trigonus non potest resolvi in duorum angulorum aut unius anguli figuram. Quare patet primum principium mathematicae esse unitrinum. 45 Bernardus: Si igitur viderem principium mathematicae in sua puritate, utique sine pluralitate ipsum viderem unitrinum. Princi-
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magine, mentre non conosciamo la forma umana perché non possiamo rappresentarcela con un’immagine e perché non possiede alcuna quantità, sia essa una quantità discreta o continua151. Ora, tutto ciò che non ammette molteplicità, né grandezza, non può né essere concepito, né possiamo rappresentarcelo152, e di esso non è possibile farsi alcuna immagine, per cui non possiamo comprenderlo con precisione. Ogni essere dotato di intelligenza, infatti, pensa necessariamente attraverso immagini153. È per questo che delle forme noi possiamo sapere «che» esse sono, ma non «che cosa» esse sono154. Bernardo. Se abbiamo considerato bene la questione, possiamo riconoscere che, nel nostro sapere, non abbiamo nulla di certo tranne la nostra conoscenza matematica155, ed essa è un simbolo per investigare le opere di Dio. Pe questo, i grandi uomini, se hanno detto qualcosa di grande, l’hanno fondata su una similitudine matematica156: ad esempio, che le specie si rapportano le une alle altre come i numeri157, che il sensibile sta al razionale come il triangolo al quadrato158, e così via. Cardinale. Dici bene. A questo riguardo, anche io mi sarei espresso così, in modo che voi sappiate che, se vogliamo vedere attraverso un simbolo la dottrina teologica cristiana che Dio è uno e trino, possiamo ricorrere al principio della matematica: un tale principio, sicuramente, è anch’esso uno e trino. Vediamo, infatti, che la quantità, senza la quale non c’è matematica, è quantità discreta, il cui principio è l’uno, ed è quantità continua, il cui principio è il tre. E non ci sono due principi della matematica, ma c’è un unico principio che è anche trino. Bernardo. Comprendo bene che, per quanto concerne la quantità discreta, il principio sia l’uno, ma non comprendo in che senso il principio della quantità continua sia il tre. Cardinale. La prima figura della quantità continua è il triangolo, al quale si riconducono le altre figure, il che mostra che quella del triangolo è la prima figura159. Un quadrato può essere ricondotto a triangoli. Ma un triangolo non può essere ricondotto ad una figura con due angoli o con un angolo solo. È evidente, pertanto, che il primo principio della matematica è unitrino160. Bernardo. Se io quindi vedessi il principio della matematica nella sua purezza, lo vedrei certamente unitrino, senza pluralità. Il
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pium enim est ante alteritatem et pluralitatem et tale, quod omnia principiata quando in simplex resolvuntur, ad ipsum terminantur. Cardinalis: Optime. Sed attende: Ut principium videatur, necesse est abstrahi simplex, sine quo nihil principiatorum esse potest. Si igitur simplex, sine quo nec numerus nec figura esse potest, est id quod non est plus unum quam trinum et ita unum quod trinum et non est trinum ex numero, cum numerus sit principiatum, sed trinum ut sit perfectum principium omnium, ita in aenigmate videtur deus unitrinus ut sit perfectissimum principium omnium. 46 Iohannes: Sine numero dicis eum trinum. Nonne tres personae sunt ex ternario numero tres personae? Cardinalis: Nequaquam. Quia numerus quem tu conspicis dum hoc dicis est mathematicus et ex mente nostra elicitus, cuius principium est unitas. Sed trinitas in deo non est ab alio principio, sed est principium. Bernardus: Utique trinitas in principio est principium et non est a numero, qui non potest esse ante principium. «Omnis» enim «multitudinis unitas est principium». Si igitur trinitas in divinis esset numerus, et principiata a se ipsa esset. Cardinalis: Vides igitur primum principium unitrinum ante omnem numerum. Et si non potes hoc concipere quod sit ante numerum, hoc est ideo quia tuus intellectus sine numero nihil concipit. Id tamen, quod concipere nequit, videt supra conceptum negari non posse et credit. Sicut igitur deum magnum sine quantitate continua, ita trinum sine quantitate discreta seu numero. Et sicut credit deum magnum sibi attribuendo magnitudinem, ita credit trinum sibi attribuendo numerationem. 47 Iohannes: Intelligo nos consideratione creaturarum habita
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principio, infatti, è anteriore all’alterità e alla pluralità ed è tale che tutti i principiati, quando vengono ricondotti al semplice, trovano in esso il loro termine ultimo. Cardinale. Benissimo. Ma fai attenzione a questo: per vedere il principio, è necessario pervenire per astrazione al semplice, senza il quale nessuno dei principiati può esistere. Se, dunque, il semplice, senza il quale non possono esistere né il numero né la figura, è ciò che non è uno più di quanto sia trino, ed è uno in modo tale da essere trino e non è trino nel senso del numero161, dato che il numero è un principiato, ma è trino in modo da essere il principio perfettissimo di tutto, allora, in un simbolo [come quello matematico], noi vediamo che Dio è unitrino, in modo da essere il principio perfettissimo di tutte le cose. Giovanni. Tu dici che Dio è trino senza numero. Ma le tre persone divine non sono forse numericamente tre persone? Cardinale. Niente affatto. Infatti, il numero a cui tu guardi quando dici questo è un numero matematico, che è tratto dalla nostra mente162 e il cui principio è l’unità163. Invece, la trinità in Dio non deriva da un altro principio, ma è essa stessa il principio. Bernardo. Certamente, nel principio la trinità è essa stessa il principio e non deriva dal numero, il quale non può essere anteriore al principio. «Di ogni molteplicità», infatti, «è principio l’unità»164. Se, dunque, in Dio la trinità fosse un numero, essa sarebbe anche derivata da se stessa. Cardinale. Vedi, dunque, che il primo principio è unitrino anteriormente ad ogni numero. E se non puoi concepire che esso è anteriore al numero, la ragione sta nel fatto che il tuo intelletto non concepisce nulla senza il numero165. Ciò che l’intelletto non può concepire, tuttavia, esso lo vede al di sopra di ogni concetto166 come qualcosa che non può essere negato e vi crede. Pertanto, come vede che Dio è grande senza quantità continua, così egli vede che è trino senza quantità discreta o senza numero167. E come, attribuendo a Dio la grandezza, crede che Egli è grande, così, attribuendogli un numero, crede che Egli è trino. Giovanni. Comprendo che, a partire dalla considerazione che abbiamo fatto delle creature, noi possiamo affermare che il Creato-
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creatorem unitrinum affirmare, qui – ut praedictum est – in se manet omni modo dicendi ineffabilis. Cardinalis: Recte ais. Nam sine potentia et actu atque utrius que nexu non est nec esse potest quicquam. Si enim aliquid horum deficeret, non esset. Quomodo enim esset si esse non posset? Et quomodo esset si actu non esset, cum esse sit actus? Et si posset esse et non esset, quomodo esset? Oportet igitur utriusque nexum esse. Et posse esse et actu esse et nexus non sunt alia et alia. Sunt enim eiusdem essentiae, cum non faciant nisi unum et idem. Rosa in potentia et rosa in actu et rosa in potentia et actu est eadem et non alia et diversa, licet posse et actus et nexus non verificentur de se invicem sicut de rosa. Bernardus: Bene capio non posse negari dum mente rosam video me unitrinam videre. Nam ipsam video in posse. Si enim posse de ea negaretur, utique non posset esse. Video ipsam in esse. Si enim esse de ea negaretur, quomodo esset? Et video ipsam in nexu utriusque. Negato enim utriusque nexu non esset actu, cum nihil sit actu nisi possit esse et sit; ab his enim procedit actualis exsistentia. 48 Sic video unitrinam rosam ab unitrino principio. Hoc autem principium in omnibus relucere video, cum nullum sit principiatum non unitrinum. Sed omnia principiata video nihil esse principii, licet omnia sint in ipso ut in causa et ratione. Deus igitur non est ut rosa unitrina. Nihil enim habet aeternum principium a principiato, sed est unitrinitas absoluta, a qua omnia unitrina id sunt quod sunt. Iohannes: Mihi similiter ut tibi, Bernarde, videtur. Nec alius est deus a quo est rosa in potentia, alius a quo in esse et alius a quo in nexu utriusque, cum non sit alia rosa quae est in posse et alia
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re è unitrino, anche se, come abbiamo detto in precedenza, egli resta in sé ineffabile rispetto ad ogni nostro modo di dire. Cardinale. Ciò che dici è giusto. Infatti, senza la potenza, senza l’atto e senza il nesso dell’una e dell’altro non c’è e non può esserci nulla168. Se qualcosa, infatti, fosse priva di uno di questi elementi, non sarebbe. In che modo infatti sarebbe se non potesse essere? E in che modo sarebbe se non fosse in atto, dato che l’essere è atto? E se potesse essere, ma non fosse, in che senso sarebbe? È necessario, pertanto, che vi sia il nesso della potenza e dell’atto. Inoltre, il poter-essere, l’essere-in-atto e il nesso dell’uno e dell’altro non sono cose diverse tra loro. Appartengono infatti ad una medesima essenza, dato che non costituiscono se non un’unica ed identica cosa. La rosa in potenza, la rosa in atto e la rosa in potenza e in atto non sono rose diverse l’una dall’altra, ma sono la medesima rosa, anche se il potere, l’atto ed il loro nesso non si predicano l’uno dell’altro come si predicano della rosa169. Bernardo. Capisco bene che non si possa negare che, nel momento in cui vedo con la mia mente una rosa, io la veda unitrina. La vedo, infatti, nel potere. In effetti, se negassi alla rosa il potere, non potrebbe essere. La vedo nell’essere. In effetti, se negassi alla rosa l’essere, come sarebbe? E la vedo nel nesso dell’uno e dell’altro. In effetti, se alla rosa venisse negato tale nesso, essa non sarebbe in atto, dato che nulla è in atto se non in quanto può essere ed è. L’esistenza in atto, infatti, procede dal potere e dall’essere. In questo modo, vedo la rosa unitrina a partire da un principio unitrino. Questo principio, tuttavia, lo vedo risplendere in tutte le cose, dal momento che non c’è nessun principiato che non sia unitrino. Ma vedo anche che nessuna delle cose che derivano dal principio è una parte del principio, anche se tutte sono in esso come nella loro causa e nel loro fondamento. Dio, pertanto, non è come la rosa unitrina; il principio eterno, infatti, non riceve nulla da ciò che deriva da esso, ma è l’unitrinità assoluta, dalla quale tutte le cose unitrine sono ciò che esse sono. Giovanni. La penso anch’io come te, Bernardo. Non c’è un Dio per il quale la rosa è in potenza, un altro per il quale la rosa è nell’essere ed un altro per il quale essa è nel nesso dell’una e dell’altro, dal momento che la rosa che è in potenza, la rosa che è nell’es-
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quae in esse et alia quae in nexu, sed unitrina. Sed cum Christiani dicant aliam esse personam ipsius absoluti posse, quam nominamus patrem omnipotentem, et aliam ipsius esse, quam quia est ipsius posse nominamus filium patris, et aliam utriusque nexum, quam spiritum vocamus, cum naturalis amor sit nexus spiritalis patris et filii: has personales differentias quomodo in aenigmate videre debeam, non capio. 49 Cardinalis: Bene dicis, abba, aliam esse personam patris, aliam filii, aliam spiritus sancti in divinis propter infinitae perfectionis trinitatem. Non tamen est alia persona patris per aliquam alteritatem, cum omnem alteritatem supergrediatur benedicta trinitas, quae non est ab alio, sed per se est id quod est. Ideo pater non est aliud a filio propter identitatem essentiae et naturae, sed non est filius. Non per non-esse pater non est filius, cum ante omne non-esse sit deus unitrinus, sed quia esse praesupponit posse, cum nihil sit nisi possit a quo est, posse vero nihil praesupponit, cum posse sit aeternitas. Ideo cum videam deum qui non praesupponat sui principium et videam deum praesupponentem sui principium et videam deum procedentem ab utroque et non videam tres deos sed unitatem deitatis in trinitate, id quod sic video distincte in indistincta deitate verius et perfectius esse non dubito quam ego videam. Ideo sicut video ipsum absolutum posse in aeternitate esse aeternitatem et non video ipsum esse in aeternitate ipsius posse nisi ab ipso posse, sic credo ipsum posse aeternum habere hypostasim et esse per se et de ipso deo patre, qui est per se, generari deum, qui sit omne id quod est ab ipsa omnipotentia patris, ut sit filius omnipotentiae, id scilicet sit quod pater possit: omnipotens sit de absoluto posse seu omnipotente. A quibus procedat omnipotentiae et omnipotentis nexus. Video deum aeternaliter et eundem
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sere e la rosa che è nel nesso non sono tre rose diverse, ma sono l’unica rosa unitrina. Tuttavia, dal momento che i cristiani dicono che altra è la persona del potere assoluto, che noi chiamiamo Padre onnipotente, altra la persona dell’essere, che, in quanto procede da quel potere, chiamiamo Figlio del Padre, ed altra la persona del nesso, che noi chiamiamo Spirito, in quanto l’amore naturale è il nesso spirituale tra il padre e il figlio, non riesco a capire in che modo dovrei vedere in questa immagine queste differenze tra le persone. Cardinale. Dici bene, abate, che, in Dio, per la trinità dell’infinita perfezione, altra è la persona del Padre, altra quella del Figlio ed altra quella dello Spirito santo. Tuttavia, la persona del Padre non è altra a motivo di una qualche alterità, dal momento che la santissima Trinità, che non dipende da altro, ma è per se stessa ciò che essa è, trascende ogni alterità. Pertanto, in virtù dell’identità della loro essenza e della loro natura, il Padre non è altro dal Figlio, ma non è il Figlio. E non è neppure a motivo del non-essere che il Padre non è il Figlio, dal momento che il Dio uni-trino è anteriore ad ogni non-essere, ma per il fatto che l’essere presuppone il potere, dal quale dipende, in quanto niente è se non può [prima] essere, mentre il potere non presuppone nulla, essendo esso l’eternità170. E così, dal momento che vedo un Dio che non presuppone il proprio principio, e vedo un Dio che presuppone il proprio principio, e vedo un Dio che procede dall’uno e dall’altro, e tuttavia non vedo tre dèi, ma l’unità della divinità nella trinità, non dubito che ciò che in questo modo vedo in maniera distinta nella divinità priva di distinzioni esista in modo più vero e più perfetto di come io lo vedo. Pertanto, come vedo che, nell’eternità, il potere assoluto è l’eternità stessa, e come nell’eternità di questo potere non vedo l’essere se non a partire dallo stesso potere, così credo che questo potere eterno abbia una ipostasi ed esista per sé, e che da Dio Padre, che esiste per sé, sia generato Dio, il quale è tutto ciò che è derivandolo dalla stessa onnipotenza del Padre, in modo tale che egli è il Figlio dell’onnipotenza, ossia è ciò che il Padre può: è l’onnipotente che deriva dal potere assoluto, ossia dall’onnipotente. E credo che dall’uno e dall’altro proceda il nesso dell’onnipotenza e dell’onnipotente. Vedo Dio che è eternamente, e il medesimo Dio
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deum de deo aeternaliter ac eundem deum ab utroque aeternaliter procedentem. Sed quia subtilius sancti hoc viderunt quam nos, satis sit nos ad hoc devenisse quod sicut perfectio principii deposcit quod sit unum, ita deposcit veraciter quod sit trinum. 50 Non esset enim unitas naturalis et perfectissima, nisi in se haberet omnia quae ad perfectissimum principium sunt necessaria, quae per trinitatem exprimuntur. Neque trinitas esset perfecta, nisi esset una quae unitas. Non enim unitas quae de deo dicitur est mathematica, sed est vera et viva omnia complicans. Nec trinitas est mathematica, sed vivaciter correlativa. Unitrina enim vita est, sine qua non est laetitia sempiterna et perfectio suprema. Unde de essentia perfectissimae vitae est, quod sit perfectissime unitrina, ut posse vivere sit adeo omnipotens, quod de se sui ipsius generet vitam. A quibus procedit spiritus amoris et laetitia sempiterna. 51 Iohannes: Quaeso parum audiri, si forte aliquid de his altis percepi. Et ad possest me converto. Cum omne quod est non sit nisi id quod potest esse, possest video omnium formabilium formam verissimam et adaequatissimam. Sed in omni re video posse, esse et utriusque nexum, sine quibus impossibile est ipsam esse, et illa video in qualibet re sic esse quod perfectius esse possunt. Ideo ubi haec sunt adeo perfecta quod perfectius esse nequeunt, ut in possest, ibi video omnium exsistentium unitrinum principium. In perfectione igitur primi principii necesse est omnium principiabilium esse perfectionem. Quae si maior concipi posset, utique non esset perfectio principii sed principiati. Cardinalis: Ita oportet quod humanus intellectus, qui primum principium sibi absconditum uti est capere nequit, ex principiatis
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che è eternamente da Dio, e il medesimo Dio che procede eternamente da entrambi. Ma poiché i santi hanno visto queste cose più chiaramente di noi, ci basti essere giunti a convenire che, come la perfezione del principio richiede che esso sia uno, così richiede veramente che esso sia trino171. L’unità, infatti, non sarebbe naturale e perfettissima se non avesse in sé tutto ciò che è necessario al principio per essere perfettissimo, e questo lo esprimiamo con il termine trinità. Ma anche la trinità non sarebbe perfetta se non fosse una, ossia se non fosse l’unità. L’unità che predichiamo di Dio non è infatti l’unità matematica, ma è l’unità vera e vivente che complica in sé tutte le cose. E neppure la trinità [che predichiamo di Dio] è quella matematica, ma è una trinità di reciproche relazioni viventi. La vita, infatti, senza la quale non c’è gioia eterna, né perfezione suprema, è unitrina172. Di conseguenza, appartiene, all’essenza della vita perfettissima il fatto di essere unitrina nella maniera più perfetta, in modo tale che il poter-vivere sia a tal punto onnipotente da generare da se stesso la sua propria vita. E da essi procede lo spirito dell’amore, la gioia eterna. Giovanni. Ti chiedo di ascoltarmi un poco per vedere se io abbia per caso inteso qualcosa di questi argomenti così profondi. E ritorno al «potere-che è». Dal momento che tutto ciò che è non è se non ciò che può essere, vedo che il «potere-che è» è la forma più vera ed adeguata di tutto ciò che è suscettibile di ricevere una forma. Ora, in ogni cosa io vedo il potere, l’essere e il nesso dell’uno e dell’altro, senza i quali è impossibile che una cosa sia; inoltre, vedo che essi sono presenti in qualsiasi cosa in maniera tale da poter essere in modo più perfetto. E così, dove, come nel «potere-che è», essi sono in modo così perfetto da non poterlo essere più perfettamente, lì vedo il principio unitrino di tutte le cose esistenti. È necessario, pertanto, che nella perfezione del primo principio vi sia la perfezione di tutte le cose che possono avere un principio. Se questa perfezione la si potesse concepire maggiore, non sarebbe certamente la perfezione del principio, ma di ciò che deriva dal principio. Cardinale. Così è necessario che l’intelletto umano, che non può cogliere il primo principio come esso è in se stesso173, veda tale principio, che gli resta nascosto, a partire dalla conoscenza
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intellectis – ut Paulus nos instruit – videat. Oportet ergo, si posse debet esse perfectissimum, quod in ipso sit esse et utriusque nexus. Sic si esse debet esse perfectissimum, oportet quod in ipso sit posse et utriusque nexus. Et si nexus debet esse perfectissimus, oportet in ipso esse posse et actum seu esse. Haec ergo videmus necessario in perfectissimo unitrino principio, licet quomodo haec se habeant, omnem intellectum exsuperet. 52 Bernardus: Audi quaeso me, si huius tui dicti habeo intellectum. Et converto me ad motum. In essentia enim illius video primo posse et ab illo generari actum atque ab utroque procedere movere, qui est nexus ipsius posse et actus. Omnis autem motus qui concipi potest non est sicut esse potest motus, quia potest esse tardior et velocior motus, et ideo in posse ipsius non est actus et nexus utriusque, quando non movetur actus sicut potest moveri. Sed si motus esset id quod esse potest, tunc in posse foret actus et nexus aequaliter. Quantum posset tantum in posse esset actu. Et talis esset utriusque nexus. Ita de esse et nexu. Sed hic motus non intelligeretur. Nam cum esset id quod esse potest motus, utique neque maior neque minor esse posset et ita foret maximus pariter et minimus, velocissimus pariter et tardissimus seu quietissimus. Et quia foret motus cui quies non opponitur, ideo sublata oppositione nomen motus sibi non competeret, immo non plus foret motus quam non-motus, licet foret exemplar, forma, mensura et veritas omnis motus. 53 Motus autem qui intelligitur, cui quies opponitur, ille intelligitur, quia terminatur quiete ei opposita, et concipitur per finitum
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delle realtà che derivano dal principio, come ci insegna Paolo174. Pertanto, se il potere dev’essere assolutamente perfetto, è necessario che in esso vi siano l’essere ed il nesso dell’uno e dell’altro. Allo stesso modo, se l’essere dev’essere assolutamente perfetto, è necessario che in esso vi siano il potere e il nesso dell’uno e dell’altro. E se il nesso dev’essere assolutamente perfetto, è necessario che in esso vi siano il potere e l’atto, o l’essere. Tutto questo, pertanto, lo vediamo in modo necessario nel principio unitrino assolutamente perfetto, anche se comprendere come ciò avvenga supera ogni intelletto. Bernardo. Ti prego di ascoltarmi per vedere se ho ben compreso ciò che hai detto. Ritorno alla questione del movimento175. Nell’essenza del movimento, infatti, io vedo dapprima il potere, poi vedo l’atto che viene generato dal potere e poi da entrambi vedo procedere il movimento, che è il nesso del potere e dell’atto. Tuttavia, nessun movimento che noi possiamo concepire è come può essere il movimento, in quanto ogni movimento può essere più lento o più veloce, per cui nel suo potere non sono presenti anche l’atto e il nesso del potere e dell’atto, dal momento che il movimento in atto non si muove così come potrebbe muoversi. Se, invece, il movimento fosse [tutto] ciò che esso può essere, allora nel suo potere ci sarebbero anche l’atto e il nesso del potere e dell’atto. Nel suo potere esso sarebbe in atto tanto quanto potrebbe esserlo. E un tale movimento sarebbe il nesso del potere e dell’atto. Lo stesso varrebbe per l’essere e per il nesso. Questo movimento, tuttavia, non potrebbe essere compreso dal nostro intelletto. Se infatti il movimento fosse [tutto] ciò che esso può essere, allora non potrebbe certamente essere né maggiore né minore, e pertanto sarebbe il movimento massimo e parimenti il movimento minimo, il più veloce e parimenti il più lento o il più in quiete176. E poiché sarebbe un movimento al quale non si oppone la quiete, ad esso, tolta una tale opposizione, non potrebbe addirsi neppure il nome di «movimento»: non sarebbe anzi più movimento che non-movimento177, anche se sarebbe l’esemplare, la forma, la misura e la verità di ogni movimento. Il movimento che noi riusciamo invece a comprendere, quello a cui si oppone la quiete, viene compreso proprio perché è li-
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conceptum. Quando igitur intelligitur hunc conceptum de motu non esse conceptum motus qui id est quod esse potest, licet qualis ille sit intelligi nequeat, dimisso motu qui sciri potest convertit se mens ad videndum motum qui sciri nequit et non quaerit ipsum nec per nomen nec conceptum nec scientiam, immo per omnium quae de motu sciuntur ignorantiam. Scit enim se nequaquam illum motum videre, quamdiu aliquid horum manet. Tunc ad non-esse motus pertingens propius ad quaesitum ascendit, id enim quod se tunc supra esse et non-esse ipsius motus offert taliter quod quid sit penitus ignorat, quia est supra omne nomen. Ibi ignorantia est perfecta scientia, ubi non-esse est essendi necessitas, ubi ineffabile est nomen omnium nominabilium. Haec sic ex tuis dictis – nescio si bene – collegi. Cardinalis: Abunde animum applicasti. 54 Iohannes: Quantum tradi potest doctrina ignorantiae illius quae ad ineffabile pergit, videtur dictum. Sed adiciam aliquod mei conceptus speculum. Nam licet aenigmata multa nos ducant, sine quibus ad incognitum deum non habemus accedendi modum – oportet enim ad aliquod cognitum respicere incognitum quaerentem –, tamen in minimis principia maxime relucent. Capio igitur abbreviatum verbum concisum valde puta IN. Dico: Si volo intrare divinas contemplationes, per ipsum IN, cum nihil possit intrari nisi per ipsum IN, intrare conabor. Primo ad figuram eius adverto quomodo est ex tribus aequalibus lineis quasi unitrinum et quomodo I et N per spiritum conexionis nectuntur. In ipso enim IN est primo I, deinde N et utriusque nexus, ut sit una simplex dictio IN I
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mitato dalla quiete, che è il suo opposto, e viene quindi concepito mediante un concetto finito. Pertanto, quando comprendiamo che questo concetto del movimento non è il concetto di quel movimento che è [tutto] ciò che esso può essere, per quanto non possiamo comprendere che tipo di movimento sia quest’ultimo, allora la nostra mente, messo da parte quel movimento che può essere conosciuto, si volge a vedere il movimento che non può essere conosciuto, e non lo ricerca né attraverso un nome, né attraverso un concetto, né attraverso una scienza, bensì attraverso l’ignoranza di tutto ciò che si sa a proposito del movimento178. Essa sa, infatti, che non vedrà mai quel movimento fino a che resta qualcuna di queste cose. È allora che la nostra mente, giungendo al non-essere del movimento, ascende più da vicino alla meta della sua ricerca: allora, infatti, le si offre ciò che è al di sopra dell’essere e del non-essere del movimento, in modo tale che la mente ignora completamente che cosa esso sia, poiché è al di sopra di ogni nome. Dove il non-essere è la necessità dell’essere, dove il nome di tutto ciò che è nominabile è ineffabile, lì l’ignoranza diventa la forma perfetta di conoscenza. Queste sono le cose che ho tratto da quanto hai detto, non so se in modo corretto. Cardinale. Hai prestato grande attenzione alle mie parole. Giovanni. Della dottrina di quella ignoranza che conduce all’ineffabile mi sembra sia stato detto tutto quanto è di essa possibile comunicare. Vorrei tuttavia aggiungere un’immagine per illustrare il mio pensiero. Infatti, per quanto siano molte le immagini enigmatiche che ci guidano e senza le quali non abbiamo modo di accedere al Dio ignoto – per cercare ciò che è ignoto bisogna infatti guardare a qualcosa di noto179 –, è tuttavia nelle cose più piccole che i principi risplendono nel modo più chiaro. Prendo quindi una parola molto breve e concisa, ad esempio «in»180, e dico: se voglio penetrare nella contemplazione del divino, cercherò di farlo attraverso questa paroletta «in», poiché non possiamo penetrare in nulla se non attraverso questo «in»181. In primo luogo, rivolgo la mia attenzione alla sua figura e noto che la parola «in» è formata da tre linee uguali, come se fosse unitrina, e che «i» ed «n» sono congiunte insieme da uno spirito di connessione. Nella parola «in», infatti, c’è prima «i», poi «n» ed il nesso di queste due lettere, cosicché
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et N et utriusque nexu consistens. Nihil simplicius I. Nulla littera figurari potest sine illa simplici linea, ut sit principium omnium. N primo omnium ex simplicissimo I in se ducto generatur. Nec N littera est bis I littera, sed ex I semel in se ducta, ut sit una littera. In N enim est I explicatum. Unde si I additur ad N, non plus vocis habetur. Iam enim erat in N eius virtus. N enim non consonat ipsi E quasi N sit EN, sed ipsi I ut sit IN, ut sciunt illi, qui Graecarum litterarum peritiam habent. Nexus igitur utriusque naturalissimus est. Figura igitur unitrini principii conveniens ipsius IN videtur. Deinde adverto quomodo est primo I, scilicet principium. Ex quo N, ubi se I primo manifestat. N enim est notitia, nomen seu relatio potentiae ipsius I principii. 55 Deinde considero quomodo per IN intratur in deum et omnia. Nam omnia quae nominari possunt nihil nisi IN in se continent. Si enim IN non esset, nihil in se omnia continerent et vacua penitus forent. Dum enim intueor in substantiam, video ipsum IN substantiatum, si in caelum caelestiatum, si in locum locatum, si in quantum quantificatum, si in quale qualificatum, et ita de omnibus quae dici possunt. Quare in termino est terminatum, in fine finitum, in altero alteratum. Si vero video ipsum IN ante omne nomen, utique nec terminatum nec finitum nec aliquod esse video omnium quae nominari possunt. Quaecumque vero video in IN, video ineffabilitatem intrasse. Nam si video finem aut terminum in IN, non possum amplius ipsum nominare aut finem aut terminum. Transivit enim in IN, quod nec est finis nec terminus. Unde secundum hoc videretur mutasse nomen in oppositum, ut nominetur terminus in IN interminus seu non-terminus. Et quia IN, quod omnia
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vi è una sola e semplice parola «in», che consiste di «i», di «n» e del loro nesso. Non c’è nulla di più semplice di «i». Non è possibile formare nessuna lettera senza questa semplice linea, per cui essa è il principio di tutte le lettere. Fra tutte le lettere, la «n» è quella generata per prima dalla semplicissima «i» ricondotta su di sé. Tuttavia, la lettera «n» non è due volte la lettera «i», ma deriva dalla lettera «i» ricondotta su di sé una sola volta, cosicché vi è una lettera sola. Nella lettera «n», infatti, vi è la «i» esplicata. Di conseguenza, se si aggiunge la «i» alla «n» non si ha un suono in più. In effetti, la forza della «i» era già nella «n». La «n», infatti, non consuona con la «e», come se «n» fosse «en», ma con la «i», così da essere «in», come sanno coloro che conoscono le lettere greche182. Il nesso della lettera «i» e della lettera «n» è pertanto del tutto naturale. La figura «in» sembra pertanto un’immagine appropriata del principio unitrino. Poi noto come vi sia prima la «i», ossia il principio. Da essa viene la «n», nella quale la «i» si manifesta per prima. La «n» è infatti il nome, ciò che fa conoscere o dà notizia della potenza del principio «i». Dopo di ciò, considero come, attraverso «in», ci si introduca in Dio e in tutte le cose. Infatti, tutte le cose che possono essere nominate non contengono in se stesse nient’altro che «in». Se non ci fosse «in», infatti, tutte le cose non conterrebbero niente in se stesse e sarebbero vuote. In effetti, se guardo alla sostanza, vedo lo stesso «in» sostanzializzato, se guardo al cielo vedo l’«in» celestiato, se guardo ad un luogo lo vedo localizzato, se guardo una quantità lo vedo quantificato, se guardo ad una qualità lo vedo qualificato, e così via per tutte le cose di cui possiamo parlare. Per questo, in ciò che ha un limite l’«in» è limitato, in ciò che ha un fine è finito, in ciò che è altro è reso altro. Se invece vedo l’«in» stesso prima di ogni nome, allora certamente vedo che esso non è né limitato, né finito, né è niente di tutto ciò che può essere nominato. Qualunque cosa io veda nell’«in», vedo che essa è entrata nell’ineffabilità. Se infatti vedo un fine o un limite nell’«in», non posso più chiamarlo con il nome di «fine» o di «limite». Esso è infatti passato nell’«in», che non è né fine, né limite. In base a ciò, pertanto, il nome viene visto trasformarsi nel suo opposto, per cui nell’«in» il limite viene chiamato «il-limite» o «non-limite». E poiché l’«in», che riem-
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implet et sine quo omnia sunt vacua, inest et immanet, integrat et informat, ideo est perfectio omnis rei, omnis termini et omnis finis et omnium. Patet IN plus esse quam finis aut terminus, ut finis in IN non desinat esse finis, sed sit valde finis et finis in fine seu finis finium, ut non vocetur finis, quia non finitur omni fine, sed excedit. Sic enim omnia quando in absoluto videntur fiunt ineffabilia. IN igitur in suo simplicissimo significato complicat simul affirmationem et negationem, quasi I sit ita et N sit non, quae in IN conectantur. IN enim dum adicitur aliis dictionibus, aut est affirmatio aut negatio, in se vero utriusque complicatio. 56 IN igitur videtur conveniens speculum relucentiae divinae theologiae, quoniam «in omnibus est omnia, in nihilo nihil» et omnia in ipso ipsum. De hoc IN in se ineffabili quis quae dici possent explicaret nisi ille cuius loqui est perfectum cum sit possest? Solum enim verbum quod est elocutio omnium dicibilium hoc potest. Cardinalis: Subtiliter considerasti, pater abba, et satis est fecundum aenigma tuum, quoniam in spiritum ducit. Nam quae in deo sunt nemo scit nisi spiritus dei sicut quae in homine spiritus hominis. Ipsum igitur IN est aenigma spiritus omnia scrutantis. Sed qui per ipsum IN maiestatem dei intrare nititur, ut perscrutator opprimitur a gloria. Non enim IN ipsum quod notatur et intelligitur est lumen illuminans incomprehensibilitatis ipsius deitatis in se ipsa absolutae ostensionem, sed IN et omnia nomina, quae infinitatem deo attribuunt, eius incomprehensibilitatem nituntur ostendere per supereminentiam. 57 Bernardus: Quoniam abbas per verbum breve et concisum se intrasse in profunda ostendit, ne ego nil dicendo videar in vacu-
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pie tutte le cose e senza il quale esse sono vuote, è presente in tutte le cose, in tutte è immanente e tutte le completa e le informa183, esso è pertanto la perfezione di ogni cosa, di ogni limite e di ogni fine e di tutto. È chiaro che l’«in» è più che un fine o un limite, per cui nell’«in» il fine non cessa di essere un fine, ma è fine in misura maggiore: è fine nel fine o fine dei fini, di modo che non viene chiamato «fine», in quanto non viene finito da nessun fine, ma eccede ogni fine. In questo modo, quando vengono viste nell’assoluto tutte le cose diventano ineffabili. Di conseguenza, nel suo significato semplicissimo, «in» complica insieme l’affermazione e la negazione, come se la «i» fosse il «sì» e la «n» il «no» e l’uno e l’altro fossero congiunti nell’«in». Quando viene aggiunto ad altre parole, infatti, «in» dà luogo o ad un’affermazione o ad una negazione, ma in se stesso esso complica sia l’una sia l’altra. L’«in», pertanto, sembra essere uno specchio idoneo per far risplendere la luce della teologia divina, perché esso è «tutto in tutte le cose e nulla in nulla»184, e perché nell’«in» tutte le cose sono l’«in» stesso185. Chi potrebbe esplicare tutto ciò che può essere detto di un tale «in» ineffabile se non colui la cui parola è perfetta, essendo egli il «potere-che è»? Solo la Parola, che è l’espressione di tutte le cose dicibili, può infatti questo. Cardinale. Le tue riflessioni sono acute, padre abate, e l’immagine cui hai fatto riferimento è abbastanza feconda, dal momento che ci introduce nello spirito. Infatti, nessuno conosce le cose che sono in Dio tranne lo spirito di Dio186, così come solo lo spirito dell’uomo conosce le cose che sono nell’uomo. L’«in», pertanto, è un’immagine dello spirito che scruta tutte le cose187. Ma colui che, per mezzo dell’«in», cerca di penetrare nella maestà di Dio e di scrutarla viene sopraffatto dalla gloria188. Quell’«in», che viene tracciato con dei segni scritti e che viene compreso dall’intelletto, non è infatti la luce che illumina la manifestazione dell’incomprensibilità della divinità in se stessa assoluta; piuttosto, l’«in» e tutti gli altri nomi che attribuiscono a Dio l’infinità cercano di rendere manifesta la sua incomprensibilità attraverso il metodo della supereminenza. Bernardo. Dal momento che l’abate ha mostrato di essere penetrato in questioni profonde per mezzo di una parola breve e concisa, anch’io, per non dare l’impressione, non dicendo niente, di aver
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um tot alta audisse, dicam quoddam aenigma non reiciendum in ipso possest: Video E simplicem vocalem unitrinam. Nam est vocalis ipsius possE, ipsius Esse et nExus utriusque. Vocalitas eius utique simplicissima est trina. Et ut refertur ad posse non refertur ad esse et ut refertur ad Esse non refertur ad posse et ita ut refertur ad nExum utriusque non refertur nec ad posse nec ad esse sed nExum. Has igitur relationes in ipso E inconfusas et quamlibet per se veram et perfectam video non esse tres vocales seu vocalitates sed unam simplicissimam et indivisibilem vocalitatem. Cum igitur haec sic mente contemplor, magnum mihi praebet haec aenigmatica visio fidei orthodoxae argumentum, ut deum unitrinum simplicissimum credam principium esse in mundo aliquali similitudine licet remotissima ut vocalitas ipsius E in possest, a quo mundus habet quod potest esse et quod est et conexionem utriusque. Sicut enim probatur vocalitatem E dare omnia ipsi possest, quoniam E sublato penitus desinit esse dictio significativa, sic deo sublato mundus penitus desineret. Nec opus video ut de hac aenigmatis assimilativa proprietate plura dicam, cum vos ipsi melius me applicare possitis. 58 Cardinalis: Laudo aenigma tuum, Bernarde, utique aptum proposito. Sed aenigmatum nullus est finis, cum nullum sit adeo propinquum quin semper possit esse propinquius. Solus dei filius est «figura substantiae» patris, quia est quicquid esse potest. Forma dei patris non potest esse aut verior aut perfectior, cum sit possest. Bernardus: Si adhuc de aenigmatibus dicenda tibi aliqua post multa et varia in opusculis et sermonibus tuis tacta occurrunt, adicias. Nam intellectum abunde ad theologiam manuducunt.
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ascoltato invano argomenti elevati, vorrei menzionare un’immagine contenuta nella stessa parola «potere-che è», un’immagine che, penso, non sia da disprezzare. Io vedo che la «e» è una vocale semplice e unitrina. È infatti la vocale di «potere», di «essere» e del «nesso» dell’uno e dell’altro. La sua vocalità, che è senz’altro semplicissima, è trina: quando è riferita al «potere», non è riferita all’«essere», e quando è riferita all’«essere» non è riferita al «potere», ed ugualmente quando è riferita al «nesso» dell’uno e dell’altro non è riferita né al «potere», né all’«essere», ma al «nesso». Vedo, pertanto, che queste relazioni, che sono presenti in modo inconfuso nell’«e» e ciascuna delle quali è per se stessa vera e perfetta, non costituiscono tre vocali o tre suoni, ma costituiscono un solo, semplicissimo e indivisibile suono. Quando pertanto con la mia mente contemplo in questo modo tali cose, la visione di questa immagine mi offre un grande argomento a favore della vera fede, per credere, cioè, che Dio, che è unitrino e principio assolutamente semplice, è nel mondo in modo simile, per quanto di una similitudine lontanissima, a come la vocale «e» è nel «potere-che è», dal quale il mondo ha ciò che esso può essere, ciò che esso è e la connessione dell’uno e dell’altro. Infatti, come abbiamo stabilito che la vocale «e» conferisce tutto al «potere-che è», giacché, tolta la «e», l’espressione «potere-che è» perde tutto il suo significato, così, se venisse tolto Dio, il mondo cesserebbe completamente di essere189. E non mi sembra necessario aggiungere qualcosa di più circa la proprietà esemplificativa di questa immagine, dal momento che voi stessi potete applicarla meglio di me. Cardinale. Lodo la tua immagine, Bernardo; essa è certamente adatta al nostro tema. Con le immagini, tuttavia, non si finisce mai, perché nessuna immagine è così adeguata che non ce ne possa essere una più adeguata. Solo il Figlio di Dio è «figura della sostanza» del Padre190, perché il Figlio è tutto ciò che può essere. La Forma di Dio Padre non può essere più vera o più perfetta, in quanto essa è il «potere-che è». Bernardo. Se hai ancora qualcosa da dire a proposito delle immagini, dopo le molte e diverse cose di cui hai già trattato nei tuoi opuscoli e nei tuoi sermoni, aggiungilo pure. Esse, infatti, costitui scono una guida molto efficace per condurre il nostro intelletto alla teologia.
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Cardinalis: Placet. Quoniam plurimum difficile est videre quomodo unum omnia quod essentialiter in omnibus, ad hoc quaerantur clariora aenigmata. Cuius tamen in libello Iconae satis conveniens ponitur aenigma. Sicut enim deus omnia et singula simul videt, cuius videre est esse, ita ipse omnia et singula simul est. Homo enim simul et semel in aures omnium et singulorum ipsum audientium verbum immittit. Sic deus, cuius loqui est creare, simul omnia et singula creat. Et cum verbum dei sit deus, ideo deus in omnibus et singulis est creaturis. De quo in dicto Iconae libello latius. 59 Sed quomodo deus in se absolute consideratus sit actus omnis posse seu forma simplicissima simul et infinitissima, non video aenigma intellectuale propinquius quam si pono lineam infinitam. Declaravi enim in libello Doctae ignorantiae illam si dabilis esset actum esse omnis posse lineae, scilicet terminum omnium per lineam terminabilium et adaequatissimum omnium figurarum lineabilium exemplar. Sic necesse est se habere absolutam entitatem seu formam. Absoluta enim est interminata et infinita. Quare est cuiuslibet terminatae et finitae adaequatissimum exemplar, cum nulli sit aut maior aut minor. Deum autem esse absolutum necesse est, cum praecedat omne non-esse et per consequens omnem alteritatem et contractionem. Ideo nulli alter vel diversus, licet nihil ad eius aequalitatem accedere possit, cum omnia alia sint altera et finita. Unde cum deo nihil sit impossibile, oportet per ea quae in hoc mundo sunt impossibilia nos ad ipsum respicere, apud quem impossibilitas est necessitas. Sicut infinitas in hoc mundo actu est im-
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Cardinale. Va bene. Poiché è estremamente difficile vedere in che modo l’Uno, che è presente in modo essenziale in tutte le cose, sia tutte le cose, dobbiamo cercare delle immagini più chiare per illustrare questa verità. A questo proposito, tuttavia, un’immagine abbastanza appropriata l’ho già proposta nel trattato Sull’icona191. Infatti, come Dio, per il quale il vedere coincide con il suo essere192, vede contemporaneamente tutte le cose insieme e ciascuna nella sua singolarità193, così egli è contemporaneamente tutte le cose e ciascuna singolarmente194. Un uomo, infatti, con la sua parola raggiunge contemporaneamente e in una volta sola le orecchie di tutti coloro che lo ascoltano e di ciascuno di essi singolarmente195. Così, Dio, il cui parlare è creare196, crea simultaneamente tutte le cose e ciascuna singolarmente. E poiché la Parola di Dio è Dio, egli è presente in tutte le creature e in ciascuna di esse. Di questo ho parlato più diffusamente nel citato trattato Sull’icona. Ma, per illustrare come Dio, considerato assolutamente in se stesso, sia l’atto di ogni potere, vale a dire la forma ad un tempo semplicissima e totalmente infinita, non vedo un’immagine intellettuale più appropriata di quella che si ha se si suppone una linea infinita. Ne mio trattato Sulla dotta ignoranza, infatti, ho sostenuto che, se vi fosse una linea infinita, essa sarebbe l’atto di ogni poter-essere di una linea, sarebbe cioè il limite di tutte le figure che possono essere delimitate attraverso una linea ed il modello più adeguato di tutte le figure che possono essere tracciate mediante delle linee197. Lo stesso si deve pertanto dire dell’Entità assoluta o della Forma assoluta. Assoluta, infatti, vuol dire senza limite ed infinita. Per questo, essa è il modello più adeguato di ogni forma delimitata e finita, in quanto non è né maggiore né minore rispetto a nessuna forma. Ora, è necessario che Dio sia l’essere assoluto, dal momento che egli precede ogni non-essere, e di conseguenza ogni alterità ed ogni contrazione. Pertanto, egli non è altro o diverso rispetto a nessuna cosa, sebbene non vi sia nulla che possa avvicinarsi ad un’uguaglianza con lui, poiché tutto ciò che è diverso da lui è altro e finito. Di conseguenza, dal momento che nulla è impossibile a Dio198, è [proprio] attraverso quelle cose che in questo mondo risultano impossibili che noi dobbiamo guardare a lui, presso il quale [invece] l’impossibilità equivale alla necessità199. Come in questo mondo l’infinito in atto è impos-
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possibilis, sic magnitudo cuius non est finis est necessitas illa, quae non-ens seu nihil ut sit necessitat. 60 Adhuc mathematice aenigmatizando considera, quomodo summa aequalitas quantitatum ipsas ab omni pluralitate absolvit. Puta si concipis circuli a centro ad circumferentiam lineas ut describitur in pavimento, videntur esse aequales, sed non sunt propter pavimenti fluxibilitatem et materiam, ita quod nulla est alteri praecise similis, ut in Docta ignorantia ostenditur. Sed dum intellectualiter circulus in se consideratur, lineae multae in pavimento non possunt ibi esse aliae et aliae, quia causa alteritatis cessat scilicet materia. Sic nec sunt plures. Sicut igitur de lineis dictum est, ita de omni quanto scilicet superficie et corpore. Quando igitur video in pavimento unam superficiem terminari figura circulari, et aequalem superficiem figura triangulari terminari et aequalem figura hexagonali et ita de omnibus signabilibus figuris et post haec considero plures videri superficies illas aequales ob subiectum aliud et aliud, in quo aliter et aliter describuntur, abstraho igitur mentaliter a subiecto et video quomodo prius una et eadem superficies fuit mihi alia et alia visa, quia vidi in alio et alio loco et subiecto. Et deinde adverto quod una et eadem superficies est circulus, est trigonus, est hexagonus et omnis figura, qua superficies figurari et terminari potest. 61 Per hoc aenigma entitatem ab hoc et illo absolutam video actu esse omnium et singulorum entium essendi formam quomodocumque formabilem, non quidem similitudinarie et mathematice, sed verissime et forma[bi]liter, quod et vitaliter dici potest. Et hoc aenigma mihi placet. Nam eandem superficiem posse esse circularem et rectilinealem et polygoniam et eius praxim nuper ostendi.
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sibile, così la grandezza di cui non vi è fine è quella necessità che fa sì che il non-essere o il nulla necessariamente siano. Proseguendo con le immagini della matematica, considera ancora come la suprema uguaglianza tra le quantità le svincoli da ogni pluralità. Ad esempio, prendi le linee di un cerchio che vanno dal centro alla circonferenza, come esse sono tracciate su un pavimento: sembrano uguali, ma non lo sono a causa della mutevolezza e del materiale del pavimento200, per cui nessuna di esse è precisamente simile all’altra, come ho mostrato ne La dotta ignoranza201. Ma quando, mediante l’intelletto, si considera il cerchio in se stesso, allora lì le molte linee tracciate sul pavimento non possono essere diverse l’una dall’altra202, perché viene meno la causa dell’alterità, ossia la materia. E così, esse non sono neppure molte. Ciò che abbiamo detto delle linee lo si deve quindi dire di tutto ciò che ha quantità, ossia di tutto ciò che ha una superficie ed un volume. Quando, pertanto, vedo sul pavimento una superficie delimitata da una figura circolare, un’altra superficie uguale delimitata da una figura triangolare e un’altra uguale delimitata da una figura esagonale, e così via per tutte le figure che si possono tracciare, e quando, poi, considero che queste superfici uguali mi appaiono molteplici per il fatto che è rispettivamente diverso il sostrato su cui esse sono state rispettivamente disegnate, allora faccio mentalmente astrazione dal sostrato e vedo come quella superficie, che prima era una ed identica, mi sia potuta apparire di volta in volta diversa per il fatto che l’ho vista in un luogo ed in un sostrato di volta in volta diversi. E mi rendo quindi conto che un’unica e medesima superficie è cerchio, è triangolo, è esagono e ogni figura mediante la quale una superficie può essere delimitata e configurata. Attraverso questa immagine, posso vedere che l’entità assoluta, ossia sciolta da questo o da quello [da questa o da quella determinazione particolare], è in atto la forma d’essere di tutti gli enti e di ciascuno di essi singolarmente, qualunque sia la forma che essi possano avere, e lo è non in modo figurato e in senso matematico, ma nella maniera più vera ed essenziale, o, come si può anche dire, vitale. E questa immagine mi piace. Ho già mostrato, infatti, che una medesima superficie può essere circolare, rettilinea e poligonale, e di ciò ho dato anche un esempio concreto. Supponiamo, dunque,
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Esto igitur quod possibile esse ponatur actu esse, uti in theologicis fatendum est, utique tunc aenigma clarius dirigit. Quare secundum mathematicae perfectam comprehensionem ad theologiam aenigma propinquius fieri posse arbitror. Et haec de hoc nunc sic dicta sint. 62 Iohannes: Timeo ne importunus videar et taediosus, alioquin adhuc informari peterem. Cardinalis: Petite ambo. Nam hae collocutiones nequaquam me fatigant, sed apprime delectant. Ideo si quid restat, cum alio forte tempore minus otii detur mihi, nequaquam nunc indulgete. Iohannes: Inter innumera quae audire vellem est unum praecipue quomodo hanc omnipotentem formam negative melius attingimus, quae dicitur super omne esse et non-esse videri. Cardinalis: Oportet, abba, praesupponere quae alias a me audisti: tres esse speculativas inquisitiones. Infima est physica, quae circa naturam versatur et considerat formas inabstractas, quae subsunt motui. Nam forma in materia est natura et ideo inabstracta est atque in alio, ideo aliter. Secundum igitur instabilitatem materiae continue movetur seu alteratur. Et hanc inquirit anima sensibus et ratione. 63 Alia est speculatio circa formam penitus absolutam et stabilem, quae est divina et est ab omni alteritate abstracta, ideo aeterna sine omni motu et variatione. Et hanc formam quaerit anima per se sine phantasmate supra omnem intelligentiam et disciplinam per supremam sui ipsius acutiem et simplicitatem, quae intellectualitas a quibusdam dicitur. Estque media speculatio circa inabstractas
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che l’essere possibile sia in atto, come bisogna in effetti dire in teologia; in questo caso, l’immagine ci guida sicuramente con maggiore chiarezza. Per questo motivo, ritengo che, sulla base di una perfetta comprensione della matematica, sia possibile elaborare un’immagine che si avvicina maggiormente alla teologia. E su questo argomento può bastare quanto si è qui detto. Giovanni. Se non avessi timore di apparire inopportuno e noioso ti chiederei ancora altre spiegazioni. Cardinale. Chiedete entrambi. Queste conversazioni, infatti, non mi affaticano affatto, anzi mi danno un grande piacere. Se quindi resta ancora qualcosa da chiedere, non abbiate ora riguardi verso di me, perché in un’altra occasione avrò forse meno tempo. Giovanni. Tra le innumerevoli cose che vorrei ascoltare, ve ne è una che mi interessa in maniera particolare: in che modo è attraverso la via negativa che perveniamo meglio a questa Forma onnipotente, che abbiamo detto viene vista al di sopra di ogni essere e di ogni non-essere. Cardinale. È necessario presupporre, abate, quello che hai udito da me in altre occasioni, ossia che tre sono le forme di ricerca speculativa203. La più bassa è quella fisica, che tratta della natura e considera le forme non-separate che sono soggette al movimento. La natura, infatti, è forma-nella-materia, la quale [forma], pertanto, non è separata e sussiste in qualcos’altro, e quindi in un altro modo [rispetto a quello che la forma ha in se stessa]. Di conseguenza, essa è continuamente soggetta a movimento o ad alterazione, conformemente all’instabilità della materia. È questo il tipo di forma che l’anima indaga mediante i sensi e mediante la ragione. Un altro tipo di ricerca speculativa è quello che concerne la forma totalmente separata e stabile, che è la forma divina, libera da ogni alterità, e quindi eterna, priva di ogni movimento e di ogni variazione. E questa forma l’anima la ricerca da se stessa, senza l’ausilio di immagini, al di sopra di ogni intelligenza e di ogni insegnamento, per mezzo di quella sua suprema acutezza e semplicità che alcuni chiamano intellettualità. Vi è infine una ricerca speculativa che è intermedia tra queste due e che concerne le forme non-separate e tuttavia stabili: è la ricerca speculativa che chiamiamo matematica. Essa tratta, ad esempio, del cerchio, che non è separato
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formas tamen stabiles, quae mathematica dicitur. Considerat enim circulum, qui non est a subiecto seu omni materia intelligibili abstractus sed bene a materia corporali et instabili. Non enim considerat circulum ut in pavimento corruptibili sed ut in sua ratione seu diffinitione. Et vocatur speculatio illa mathesis seu disciplina. Traditur enim via disciplinae. Et utitur anima in huius inquisitione intellectu cum imaginatione. De his alias. 64 Nunc autem de absoluta forma theologizantes dicimus, quoniam ipsa primarie dat esse. Omnis enim forma adveniens materiae dat ei esse et nomen. Ut cum figura Platonis advenit aeri, dat aeri esse et nomen statuae. Sed quia omnes formae inabstractae, quae sine materia non subsistunt nisi notionaliter, proprie non dant esse, sed ex ipsarum cum materia conexione surgit esse, ideo necesse est quod sit forma penitus abstracta per se subsistens sine cuius cumque indigentia, quae det materiae possibilitatem essendi et formae ei advenienti actualitatem et utriusque conexioni rei exsistentiam. Formae igitur quanto magis indigent subiecto seu materia ut subsistant actu, utique debiliores et materialiores sunt et magis naturam subiecti imitantur et ideo minus perfectae. Quanto vero minus indigent subiecto, formaliores, stabiliores et perfectiores exsistunt. Oportet igitur quod forma quae penitus nullo alio indiget quoniam infinitae perfectionis in se omnium formarum formabilium complicet perfectiones, quoniam est actu ipse essendi thesaurus a quo emanant omnia quae sunt, quemadmodum ipsa ab aeterno in thesauro sapientiae concepta vel reposita sunt. 65 Refert Moyses deum dixisse: Ego sum entitas, quod reperitur in libris nostris translatum – ut praedictum est –: «Ego sum qui sum.» Esse igitur quod entitas nominat nobis formarum formam. Nulli
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da un sostrato, ovvero da ogni materia intelligibile, ma che è pur sempre separato dalla materia corporea ed instabile. Non considera, infatti, il cerchio come esso è in un pavimento corruttibile, ma come esso è nel suo principio razionale, ovvero nella sua definizione. E questa ricerca speculativa viene chiamata «mathesis» o «disciplina», perché viene trasmessa attraverso l’insegnamento204. Ed in questa indagine l’anima si serve dell’intelletto insieme con l’immaginazione. Di ciò ho trattato altrove. Ora, tuttavia, stiamo parlando da un punto di vista teologico, ossia stiamo parlando della forma separata, poiché è essa che conferisce primariamente l’essere. Ogni forma che si aggiunge alla materia, infatti, conferisce a questa l’essere205 e il nome206. Ad esempio, quando la figura di Platone si aggiunge al bronzo, conferisce a quest’ultimo l’essere di una statua e il nome di «statua». Tuttavia, tutte le forme non-separate, quelle che, senza la materia, non sussistono se non concettualmente, non conferiscono in senso proprio l’essere, il quale sorge piuttosto dalla loro connessione con la materia; per questo, è necessario che vi sia una forma completamente separata, sussistente per sé, che non abbia bisogno di nient’altro, la quale conferisca alla materia la possibilità di essere, alla forma, che si aggiunge alla materia, l’essere in atto, e alla connessione della forma con la materia l’esistenza reale propria di una cosa 207. Le forme, pertanto, quanto più hanno bisogno di un sostrato o di una materia per sussistere in atto, tanto più sono deboli e materiali e tanto più imitano la natura del sostrato cui ineriscono, per cui sono meno perfette208. Quanto meno, invece, hanno bisogno di un sostrato, tanto maggiore è il loro carattere di forme e tanto più sono stabili e perfette. È necessario, pertanto, che quella forma che, a motivo della sua infinita perfezione, non ha assolutamente bisogno di nessun’altra cosa, complichi in se stessa le perfezioni di tutte le forme formabili, poiché essa è in atto quel tesoro dell’essere dal quale emanano tutte le cose che sono209, così come esse sono state concepite o riposte sin dall’eternità nel tesoro della sapienza. Mosè narra che Dio disse: «Io sono l’entità»210; questa espressione, come ho già detto, è stata tradotta nei nostri libri con: «Io sono colui che sono»211. Pertanto, l’essere, che è l’entità, è il nome che per noi designa la forma delle forme212. A nessuna forma possi-
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dabili formae convenit esse quod entitas nisi illi penitus abstractae et adeo perfectae quod ab omni indigentia sit libera. Potest igitur omnis forma esse perfectior quae non est absoluta entitas. Esse autem quod entitas est perfectio omnis esse et ideo omnium formarum complicatio. Unde nisi ipsa entitas daret omnibus formis esse formativum, nequaquam haberent. In omnibus igitur est divina essentia quae entitas absoluta dans omnibus esse tale quale habent. Cum autem omnia bonum appetant et nihil appetibilius ipso esse, quod de suo thesauro utique optimo emanare facit entitas absoluta, ideo deum quem entitatem nominamus solum bonum dicimus, quia ab ipso optimum donum nobis gratissimum, nostrum scilicet proprium esse, recipimus. 66 Quaerimus autem fontem nostri esse videre per omnes nobis possibiles modos et reperimus per negativam nos verius iter carpere, cum sit incomprehensibilis quem quaerimus et infinitus. Ut igitur tibi nunc dicam quae a me exigis, de negativa recipiamus negativam scilicet non-esse, quae omnium negationum prima videtur. Nonne negativa illa praesupponit et negat? Iohannes: Utique praesupponit esse et negat esse. Cardinalis: Id igitur esse quod praesupponit ante negationem est. Iohannes: Utique sic est necesse secundum nostrum intelligendi modum. Cardinalis: Esse igitur quod negatio praesupponit utique aeternum est. Est enim ante non-esse, et esse id quod negat post nonesse est initiatum. Iohannes: Necesse videtur. 67 Cardinalis: Negatio igitur quae cadit super esse negat esse illud sic nominatum esse praesuppositum, quod non est aliud dicere nisi quod esse post non-esse nequaquam est esse aeternum et ineffabile.
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bile conviene questo essere che è l’entità, se non a quella forma che è totalmente separata e così perfetta da essere libera da ogni mancanza213. Ogni forma che non sia l’entità assoluta può pertanto essere più perfetta. Quell’essere che è l’entità, invece, è la perfezione di ogni essere, ed è per questo che complica in sé tutte le forme. Di conseguenza, se questa entità non conferisse a tutte le forme l’essere formativo, queste non l’avrebbero affatto. In tutte le cose, pertanto, è presente l’essenza divina, che è l’entità assoluta, la quale conferisce a tutte le cose quel tipo di essere che esse hanno. E dal momento che tutte le cose desiderano il bene214 e che niente è più desiderabile di quell’essere che l’entità assoluta fa emanare dal suo tesoro sicuramente ottimo215, per questo diciamo che Dio, al quale diamo il nome di entità, è il solo bene: è da lui, infatti, che riceviamo quello che per noi è il dono migliore e più gradito, e cioè il nostro stesso essere216. Cerchiamo tuttavia di vedere la fonte del nostro essere impiegando tutti i modi che ci sono possibili, e scopriamo che la via negativa è la via più vera che noi possiamo percorrere, in quanto colui che noi cerchiamo è incomprensibile ed infinito217. Così, per dirti ora quanto vorresti ascoltare da me a proposito della via negativa, prendiamo quella che sembra essere la prima di tutte le negazioni, ossia il non-essere. Non è forse vero che questa negazione presuppone218 e nega qualcosa? Giovanni. Certamente, essa presuppone l’essere e nega l’essere. Cardinale. Questo essere, pertanto, che essa presuppone è anteriore alla negazione. Giovanni. Secondo il nostro modo di intendere, è certamente necessario che sia così. Cardinale. L’essere, che la negazione presuppone, è quindi senz’altro eterno. Esso, infatti, è anteriore al non-essere, mentre l’essere, che la negazione nega, ha avuto inizio dopo il non-essere. Giovanni. Sembra che sia necessariamente così. Cardinale. Di conseguenza, la negazione che cade sull’essere nega che tale essere, quello che viene designato in questo modo, sia l’essere che essa presuppone; ciò equivale a dire che l’essere posteriore al non-essere non è affatto l’essere eterno ed ineffabile.
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Iohannes: Negare ista nequeo. Cardinalis: Sic verius video deum quam mundum. Nam non video mundum nisi cum non-esse et negative, ac si dicerem: Mundum video non esse deum. Deum autem video ante non-esse; ideo nullum esse de ipso negatur. Esse igitur ipsius est omne esse omnium quae sunt aut esse quoquomodo possunt. Hoc nulla alia via absque phantasmate simplicius et verius videri potest. Per negativam enim praesuppositum ipsum, quod non-esse antecedit, entitatem omnis esse in aeternitate simplici intuitu vides, a quo omne quod non-esse sequitur negas. Iohannes: Intelligo ipsum praesuppositum esse in negatione necessario antecedere non-esse, alias utique nihil esset. Quis enim non-esse in esse produxisset? Non ipsum non-esse, quando non praesupponeret esse a quo produceretur. Si igitur aliquid esse affirmamus, necesse est id quod dicis esse verissimum. 68 Cardinalis: Bene infers, abba. Tu autem vides aliqua esse, caelum scilicet et terram et mare et cetera. Vides autem unum non esse aliud, et ita illa vides post non-esse. Vides igitur illa de aeterno esse post non-esse hoc esse quod sunt. Cum enim praecedat ipsa aeternitas non-esse, quod se in esse producere nequit, necesse est omnia per aeternum esse de non-esse seu non exstantibus produci. Aeternum igitur esse est necessitas essendi omnibus. Iohannes: Pater, dicito clarius si potes quomodo omnia in aeterno esse videre queam. Cardinalis: Si sol in eo quod est foret etiam eo ipso omnia quae non est, tunc utique foret ante non-esse et ita sol et omnia, quia nihil de ipso negari posset.
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Giovanni. Non posso negarlo. Cardinale. Così, vedo in modo più vero Dio che il mondo. Il mondo, infatti, non lo vedo se non insieme al non-essere e attraverso una negazione, come se dicessi: «Vedo che il mondo non è Dio». Dio, invece, lo vedo prima del non-essere; per questo, nessun essere viene negato di Dio. Il suo essere, pertanto, è tutto l’essere di tutte le cose che sono o che possono in qualche modo essere. Non c’è nessun’altra via [se non quella negativa] attraverso la quale, senza ricorrere ad immagini, possiamo vedere questo in modo più semplice e più vero. Attraverso la via negativa, infatti, vedi, con un semplice atto intuitivo219, che quell’essere presupposto [dalla negazione], il quale precede il non-essere, è, nell’eternità, l’entità di ogni essere, e di esso neghi tutto ciò che segue al non-essere. Giovanni. Comprendo che l’essere, che viene presupposto nella negazione, precede necessariamente il non-essere, perché, altrimenti, non vi sarebbe nulla. Chi avrebbe infatti condotto il non-essere all’essere? Non certo il non-essere, se non presupponesse l’essere dal quale il non-essere viene condotto all’essere. Pertanto, se affermiamo che qualche cosa esiste, è necessario che quanto dici sia assolutamente vero. Cardinale. La tua conclusione è corretta, abate. Ora, tu vedi che alcune cose esistono, il cielo, ad esempio, la terra, il mare, ecc. Vedi, tuttavia, che l’una non è l’altra, e pertanto queste cose le vedi dopo il non-essere. Vedi pertanto che queste cose sono ciò che esse sono in quanto procedono dall’essere eterno e sono posteriori al non-essere. Infatti, dal momento che l’eternità stessa precede il non-essere, il quale non può condurre se stesso all’essere, è necessario che tutte le cose siano condotte dal non-essere o dalla nonesistenza all’essere in virtù dell’essere eterno. L’essere eterno, pertanto, è per tutte le cose la necessità dell’essere220. Giovanni. Se puoi, padre, dimmi più chiaramente in che modo io possa vedere tutte le cose nell’essere eterno. Cardinale. Se il sole, in ciò che esso è, fosse per ciò stesso anche tutte le cose che esso non è, allora sarebbe certamente anteriore al non-essere, e così sarebbe e sole e tutte le cose, dal momento che nulla potrebbe essere negato di esso.
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Iohannes: Admitto. Sed me conturbat conceptus solis, qui est terminatus. Cardinalis: Iuves te igitur et respice in ipsum esse solis et deinde tolle li ‘solis’ et omnem inabstractionem, removendo sic negativam: tunc de eo vides nihil negari. Quando enim vides quod esse solis non est esse lunae, hoc evenit quia vides esse inabstractum et sic contractum et limitatum quod ideo solare dicitur. Si igitur aufers terminum et videas esse interminum seu eterminum sive aeternum, utique tunc vides ipsum ante non-esse. 69 Iohannes: Quodlibet igitur esse sic video in deo aeterno deum et omnia esse. Cardinalis: Ita est. Nam cum deus aeternus omnia de non-esse producat, nisi ipse actu esset omnium et singulorum esse, quomodo de non-esse produceret? Iohannes: Haec igitur vera sunt quae sancti asserunt. Aiunt enim deum esse quantum sine quantitate, qualem sine qualitate et ita de omnibus. Cardinalis: Sic dicunt. Sed dicito tu quomodo illud intelligas. Iohannes: Intelligo ipsum omnium quae videmus veritatem absolutam. Ideo oportet de contracto contractionem negare, ut absolutum pertingamus. In visibili namque quantitate attendo quomodo est vera quantitas. Veritatem igitur eius, per quam vera est, in absoluto inspicere attempto et video ipsam esse quantitatem sine tali quantitate quam vidi post non-esse sic et sic terminatam et limitatam, quae per hoc nomen ‘quantitas’ designatur. 70 Oportet igitur me citra non-esse relinquere omnia ea, per quae quantitas est potius quantitas quam omnia. Et ita nomen, diffinitionem, figuram et omnia, quae omni sensu, imaginatione et intel-
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Giovanni. Questo lo ammetto. Ciò che crea in me una certa confusione è tuttavia il concetto di sole, che è [un concetto] delimitato. Cardinale. Puoi venire in tuo aiuto guardando all’essere stesso del sole; togli poi il «del sole» e tutto ciò che non è separato, rimuovendo così ogni delimitazione negativa: allora vedi che nulla viene negato dell’essere del sole. Quando infatti vedi che l’essere del sole non è l’essere della luna221, ciò accade perché vedi l’essere come non-separato e come contratto e limitato in quel determinato modo che, per l’appunto, diciamo «solare». Se pertanto togli la delimitazione e vedi l’essere illimitato, ossia senza limiti ed eterno222, allora vedi certamente che esso è anteriore al non-essere. Giovanni. In questo modo, pertanto, io vedo che nel Dio eterno qualsiasi cosa è Dio ed è tutte le cose223. Cardinale. È così. Infatti, poiché il Dio eterno conduce tutte le cose dal non-essere all’essere, se egli non fosse in atto l’essere di tutte le cose e di ciascuna di esse singolarmente, come potrebbe condurle dal non-essere all’essere? Giovanni. È vero quindi quello che affermano i santi. Dicono, infatti, che Dio è quanto senza quantità, è quale senza qualità, e così via [per tutte le altre categorie]224. Cardinale. È così che dicono. Ma dimmi in che modo intendi tu questo. Giovanni. Lo intendo nel senso che Dio è la verità assoluta di tutte le cose che vediamo225. È per questo che, per giungere all’assoluto, bisogna negare la contrazione a ciò che è contratto. Osservo, in effetti, come nella quantità visibile vi sia la vera quantità. La verità di quest’ultima, per la quale essa è vera, cerco quindi di scorgerla nell’assoluto, e vedo che tale verità [della quantità] è una quantità senza quella tale quantità che ho visto essere posteriore al non-essere, ossia quella quantità determinata e delimitata in questo o in quel modo che viene per l’appunto designata con il nome di «quantità». È necessario, pertanto, che io abbandoni dalla parte del nonessere tutto ciò per cui la quantità è quantità piuttosto che tutto il resto. E così io rigetto il nome, la definizione, la figura e tutto ciò che della quantità viene appreso mediante i sensi, mediante la fa-
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lectu de quantitate apprehenduntur, abicio, ut sic perveniam ad non-esse huius quantitatis. Deinde respicio in aeternam eius quod prius videram causam et rationem. Quae etsi sit ineffabilis ante omne nomen, tamen ipsam aeternitatem quantitatem sine quantitate nomino, quia ratio et veritas nominabilis quantitatis. Ratio autem quanti non est quanta, sic nec veritas seu aeternitas, sicut nec ratio temporis est temporalis sed aeterna. 71 Cardinalis: Gaudeo haec a te audisse. Nec haec quae dixisti cuiquam mira videbuntur, qui experitur in se quomodo calor in regione sensibilium est sine calore in regione virtutum cognoscitivarum magis abstractarum. Calor cum calore est in sensu ubi calor sentitur, sed in imaginatione sive intellectu sine calore attingitur. Ita de omnibus quae sensu attinguntur pariformiter dicendum. Odor enim sine odore et dulce sine dulcedine et sonus sine sono et ita de singulis. Sicut igitur quae sensibiliter sunt in sensu insensibiliter sunt in intellectu, quia in eo non sunt sensibiliter sed intellectualiter et intellectus, sic omnia quae sunt mundialiter in mundo sunt immundialiter in deo, quia ibi sunt divine et deus. Ita temporalia intemporaliter quia aeterne et corruptibilia incorruptibiliter, materialia immaterialiter et plura impluraliter et numerata innumerabiliter, composita incomposite, et ita de omnibus. Quod totum non est aliud nisi quod omnia sunt in suo proprio et adaequatissimo aeterno esse sine omni substantiali aut accidentali differentia discretissime ipsa simplicissima aeternitas. 72 Bernardus: Audivi utique alta lucide resolvi. Ex quibus elicio
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coltà immaginativa e l’intelletto, così da poter pervenire, in questo modo, al non-essere di questa quantità. Poi rivolgo il mio sguardo alla causa e al principio razionale eterni di ciò che avevo visto prima. Sebbene questa causa o principio razionale sia ineffabile e sia anteriore ad ogni nome, designo tuttavia questa eternità con il nome di «quantità senza quantità», perché è la verità e il principio razionale della quantità nominabile. Il principio razionale del quanto non è tuttavia esso stesso quantitativo, come non lo è la sua verità o la sua eternità; allo stesso modo, il principio razionale del tempo non è temporale, ma eterno. Cardinale. Sono contento di aver ascoltato queste cose da te. E quanto hai detto non sembrerà sorprendente a nessuno che abbia fatto in se stesso l’esperienza di come il calore nell’ambito delle cose percepibili dai sensi sia senza calore nell’ambito delle facoltà conoscitive più astratte. Nell’organo di senso, dove viene recepito sensibilmente, il calore è accompagnato dal calore, ma nella facoltà immaginativa o nell’intelletto esso viene colto senza calore. Lo stesso va egualmente detto di tutto ciò che viene colto con i sensi: [nella facoltà immaginativa o nell’intelletto] l’odore viene infatti colto senza odore, il dolce senza dolcezza, il suono senza suono, e così via. Come pertanto le cose che sono presenti in modo sensibile nei sensi sono presenti in modo non sensibile nell’intelletto, perché nell’intelletto non sono presenti in modo sensibile ma in modo intellettuale e sono l’intelletto, così tutte le cose che sono presenti in maniera mondana nel mondo sono presenti in maniera non-mondana in Dio, perché in Dio esse sono presenti in maniera divina e sono Dio226. Allo stesso modo, le cose temporali [sono presenti in Dio] in maniera non-temporale, perché [in Dio esse sono presenti] in maniera eterna, le cose corruttibili in maniera incorruttibile, le cose materiali in maniera immateriale, le cose molteplici senza molteplicità, le cose numerate senza numero, le cose composte senza composizione, e così via. Tutto ciò non significa altro che questo: tutte le cose, nel loro proprio ed adeguatissimo essere eterno, sono, in maniera assolutamente distinta, la stessa semplicissima eternità, senza alcuna differenza sostanziale o accidentale. Bernardo. Ho ascoltato come sono state risolte in modo chiaro questioni certamente elevate. La conclusione che ne traggo è che
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mundum post non-esse initiatum ideo Graece dici pulchrum cosmon, quia est ab ineffabili aeterna pulchritudine, quae est ante non-esse. Et nomen id negat ipsum esse ipsam pulchritudinem ineffabilem. Affirmat tamen esse illius imaginem, cuius ineffabilis est veritas. Quid igitur est mundus nisi invisibilis dei apparitio? Quid deus nisi visibilium invisibilitas, uti apostolus in verbo in principio nostrae collocutionis praemisso innuit? Mundus igitur revelat suum creatorem, ut cognoscatur, immo incognoscibilis deus se mundo in speculo et aenigmate cognoscibiliter ostendit, ut bene dicebat apostolus apud deum non esse est et non sed est tantum. Vivorum regio, quae est in aeternitate ante non-esse, aliquantulum mihi incipit ex dictis quia est apparere atque quale sit istud magnum chaos, de quo Christus loquitur quod est inter incolas immortalitatis aeternae et eos qui inhabitant infernum, ac quod Christus magister noster ignorantiam tollens et viam ad immortalitatis aeternitatem nos docens omnia supplebit, quae nos aeternae illius immortalitatis incapaces reddunt. 73 Nunc satis erit tanta dixisse, quae si placet epilogando concludas. Cardinalis: Forte sic tempus fieri postulat. Movistis ex Pauli summi theologi sententia quomodo ex creatura mundi intellecta conspiciuntur invisibilia dei. Diximus mente illa creatoris sempiternam virtutem et invisibilem divinitatem conspici, quae mundum creaturam intelligit. Non est enim possibile creaturam intelligi emanasse a creatore, nisi videatur in invisibili virtute seu potes tate eius ipsam aeternaliter fuisse. Oportet omnia creabilia actu in eius potestate esse, ut ipse sit formarum omnium perfectissima forma. Oportet ipsum omnia esse quae esse possunt, ut sit verissima formalis seu exemplaris causa. Oportet ipsum in se habere om-
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il mondo, che ha avuto inizio dopo il non-essere, viene per questo motivo designato in greco con il nome di «cosmos», ossia di bello227, perché deriva dalla bellezza eterna e ineffabile, che è anteriore al non-essere. E il suo nome [«cosmos»] nega che il mondo sia la stessa bellezza ineffabile, ma afferma che esso è l’immagine di quella bellezza, la cui verità è ineffabile. Che cos’è dunque il mondo se non la manifestazione del Dio invisibile?228 E che cos’è Dio se non l’invisibilità delle cose visibili, come indica l’Apostolo in quelle parole che abbiamo posto a premessa all’inizio del nostro colloquio?229 Il mondo, dunque, rivela il suo creatore perché venga conosciuto, o meglio il Dio inconoscibile si mostra in maniera conoscibile nel mondo come in uno specchio e in un’immagine enigmatica 230; come diceva giustamente l’Apostolo, in Dio non c’è il «sì» e il «no», ma soltanto il «sì»231. Da quanto è stato detto, inizia ad apparirmi un po’ più chiaramente l’esistenza di quella regione dei vivi232 che, nell’eternità, è anteriore al non-essere, quale sia quel grande caos di cui parla Cristo e che è situato tra gli abitanti dell’immortalità eterna e coloro che abitano l’inferno233, ed il fatto che Cristo, nostro maestro, rimuovendo la nostra ignoranza ed insegnandoci la via che conduce verso l’eternità dell’immortalità, supplirà in noi a tutte quelle mancanze che ci rendono incapaci di questa immortalità eterna. Le tante cose di cui abbiamo parlato possono per ora essere sufficienti; se vuoi, concludi pure con un riepilogo. Cardinale. Il tempo forse richiede, in effetti, che perveniamo ad una conclusione. Avete preso le mosse dalle parole del sommo teologo Paolo, secondo le quali le cose invisibili di Dio vengono viste a partire dalla comprensione delle creature del mondo. Abbiamo detto che la forza eterna del creatore e la sua divinità invisibile vengono viste da quella mente che comprende il mondo come una realtà creata. Non è infatti possibile comprendere come la creatura sia emanata dal creatore se non si vede che essa è eternamente presente nella sua forza o potenza invisibile. È necessario che tutte le cose creabili esistano in atto nella potenza del creatore, in modo tale che egli sia la forma perfettissima di tutte le forme. È necessario che egli sia tutte le cose che possono essere, in modo tale da essere la più vera causa formale o esemplare. È necessario che egli ab-
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nium formabilium conceptum et rationem. Oportet ipsum esse supra omnem oppositionem. Nam in ipso non potest esse alteritas, cum sit ante non-esse. Si enim post non-esse esset, non esset creator sed creatura de non-esse producta. In ipso igitur non-esse est omne quod esse potest. Ideo de nullo alio creat, sed ex se, cum sit omne quod esse potest. 74 Et quando ipsum conati sumus super esse et non-esse videre, non potuimus intelligere quomodo foret visibilis qui est super omne simplex et compositum, super omne singulare et plurale, super omnem terminum et infinitatem, totaliter undique et nullibi, omniformis pariter et nulliformis et penitus ineffabilis, in omnibus omnia, in nullo nihil et omnia et nihil in ipso ipse, integre, indivise in quolibet quantumcumque parvo et simul in nullo omnium. Qui se in omni creatura ostendit unitrinum exemplar verissimum et adaequatissimum, omnem sensibilem, imaginabilem et intellectualem phantasmatibus inhaerentem in infinitum excedentem cognitionem, cum his cognitionibus nihil incorporeum et spirituale attingatur, sed altissimo et ab omnibus phantasmatibus absoluto intellectu omnibus transcensis ut nihil omnium quae sunt reperitur inintelligibilis ignoranter seu inintelligibiliter in umbra seu tenebra sive incognite. Ubi videtur in caligine et nescitur, quae substantia aut quae res aut quid entium sit, uti res, in quo coincidunt opposita, scilicet motus et quies simul, non ut duo, sed supra dualitatem et alteritatem. Haec visio in tenebra est, ubi occultatur ipse deus absconditus ab oculis omnium sapientum. 75 Et nisi sua luce pellat tenebram et se manifestet, manet omnibus ipsum via rationis et intelligentiae quaerentibus penitus inco-
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bia in sé il concetto e il principio razionale di tutte le cose suscettibili di ricevere una forma. È necessario che egli sia al di sopra di ogni opposizione. In lui, infatti, non può esservi alterità, in quanto egli è anteriore al non-essere. Infatti, se egli fosse posteriore al nonessere, non sarebbe il creatore, ma una creatura prodotta a partire dal non-essere. In lui, pertanto, il non-essere è tutto ciò che può essere. Per questo, egli non crea a partire da qualcos’altro, ma da se stesso, in quanto egli è tutto ciò che può essere234. E quando abbiamo tentato di vederlo al di sopra dell’essere e del non-essere, non abbiamo potuto comprendere in che modo egli fosse visibile: egli, infatti, è al di sopra di tutto ciò che è semplice e di tutto ciò che è composto, al di sopra di tutto ciò che è singolare e di tutto ciò che è plurale, di ogni limite e di ogni infinità, totalmente ovunque e in nessun luogo, dotato di tutte le forme e parimenti di nessuna forma e completamente ineffabile, in tutte le cose tutto e in nessuna nulla235; ed in lui tutte le cose sono lui stesso e nessuna lo è, è presente in maniera totale ed indivisa in ciascuna cosa236, per quanto piccola essa sia, e ad un tempo non è presente in nessuna di esse. Egli si manifesta in ogni creatura come l’esemplare unitrino, assolutamente vero ed assolutamente adeguato, che supera all’infinito ogni conoscenza sensibile ed immaginativa ed ogni conoscenza intellettiva che sia legata alle immagini della facoltà immaginativa, perché con queste forme di conoscenza non si può pervenire a nulla di incorporeo e di spirituale. Questo inintelligibile lo si trova piuttosto con il nostro intelletto più elevato, quello che si è svincolato da ogni immagine della facoltà immaginativa e ha trasceso tutte le cose, e lo si trova come nulla di tutto ciò che è, in una forma di conoscenza che è ignoranza, ossia in maniera inintelligibile, nell’ombra o nella tenebra, ovvero incognitamente. Lo si trova là dove lo si vede nell’oscurità e non si sa quale sostanza, o quale cosa o quale degli enti egli sia; lo si trova come una realtà nella quale gli opposti coincidono, ad esempio il movimento e la quiete237, non come se fossero due, ma al di sopra della dualità e dell’alterità. Una tale visione avviene nella tenebra, là dove il Dio nascosto si cela agli occhi di tutti i sapienti238. E se con la sua luce non dissipa le tenebre e non si manifesta, egli resta completamente sconosciuto a tutti coloro che lo cercano
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gnitus. Sed non deserit quaerentes ipsum summa fide et spe certissima atque fervidissimo quantum fieri potest desiderio, scilicet via illa quam nos docuit magister unicus Christus dei filius, viva via, solus ostensor patris sui, creatoris nostri omnipotentis. Quaecumque igitur per nos dicta sunt non ad aliud tendunt quam ut intelligamus ipsum omnem intellectum excedere. Cuius facialis visio quae sola felicitat nobis fidelibus per veritatem ipsam dei filium promittitur, si viam nobis verbo et facto patefactam ipsum sequendo tenuerimus. Quod nobis ipse dominus noster Iesus Christus concedat semper benedictus. Amen.
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per la via della ragione e dell’intelligenza. Ma non abbandona coloro che lo cercano con la fede più profonda, con la speranza più ferma e con un desiderio quanto più ardente possibile, ossia per quella via che ci ha insegnato il nostro unico maestro, Cristo, il Figlio di Dio, la via vivente, il solo rivelatore del Padre suo, del nostro creatore onnipotente. Tutto ciò che noi abbiamo detto non mira pertanto ad altro che a farci comprendere che il nostro creatore supera ogni comprensione. La sua visione faccia a faccia, che è la sola cosa che renda felici, è promessa a noi fedeli dalla verità stessa, il Figlio di Dio, se, seguendo lui, terremo quella via che ci è stata dischiusa dalla sua parola e dalle sue opere. Possa il nostro Signore Gesù Cristo, sempre benedetto, concederci questo. Così sia.
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Capitulum I.
Abbas. Tu nosti nos tres, qui studio dediti tecum colloqui admittimur, in altis versari: ego enim in Parmenide Proculique commentariis, Petrus vero in theologia Platonis eiusdem Proculi, quam de graeca latinam facit, Ferdinandus autem Aristotelis perlustrat ingenium; tu vero, cum vacat, in Areopagita Dionysio theologo versaris. Gauderemus audire, an ne ad illa, quae per iam dictos tractantur, compendiosior tibi clariorque occurrat modus. Nicolaus. Undique circa profunda mysteria occupamur, neque, ut credo, brevius quisquam faciliusque illa diceret, quam hii, quos lectitamus, licet mihi aliquando visum sit illud per nos negligi, quod propinquius nos duceret ad quaesitum. Petrus. Hoc aperiri deposcimus. 2 Ferdinandus. Ita omnes veritate afficimur, quod ipsam undique reperibilem scientes illum habere magistrum optamus, qui ipsam nostrae mentis oculis anteponat. Tu autem te infatigabilem ostendis in eo etiam tuo declinante senio, et quando pulsatus de ipsa loqueris, videris iuvenescere. Dicito igitur tu illud, quod prae nobis ipse considerasti. Nicolaus. Dicam et tecum, Ferdinande, hoc pacto colloquar, quod omnia, quae a me audies, nisi compellaris ratione, ut levia abicias. Ferdinandus. Sic philosophi, praeceptores mei, agendum esse docuerunt. 3 Nicolaus. Abs te igitur in primis quaero: quid est quod nos apprime facit scire?
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Capitolo i Abate. Sai che noi tre, a cui hai consentito di conversare con te in quanto persone dedite allo studio, ci occupiamo di questioni elevate1: io, infatti, mi occupo del Parmenide e del Commentario di Proclo [a questo dialogo], Pietro della Teologia Platonica dello stesso Proclo, che egli sta traducendo dal greco al latino, mentre Ferdinando indaga il pensiero di Aristotele; e tu, quando ne hai tempo, ti dedichi a Dionigi Areopagita, il teologo2. Ci piacerebbe ascoltare se tu non abbia per caso presente un modo più chiaro e più breve per accedere alle cose di cui trattano gli autori che ho appena nominato. Nicola. Noi ci occupiamo tutti di profondi misteri, ma credo che nessuno ne abbia parlato con maggiore concisione e con maggiore chiarezza di questi maestri che non smettiamo mai di leggere, anche se talvolta mi è parso che abbiamo trascurato un punto che potrebbe condurci più vicino a ciò che ricerchiamo. Pietro. Ti chiediamo di svelarci questo punto. Ferdinando. Noi tutti abbiamo talmente a cuore la verità che, sapendo che essa può essere scoperta ovunque3, desideriamo avere come maestro chi è in grado di porla di fronte agli occhi della nostra mente. Tu, invece, che ti mostri infaticabile nonostante la tua età avanzata e che sembri ringiovanire quando, sollecitato, discorri della verità, parlaci, dunque, di ciò su cui hai riflettuto prima e meglio di noi. Nicola. Ne parlerò e converserò con te, Ferdinando, ma a questa condizione. Che tu respinga come insignificante tutto ciò che ascolterai da me, se non ne sei convinto con la tua ragione4. Ferdinando. È in questo modo che i filosofi, i miei maestri, mi hanno insegnato che si deve procedere. Nicola. Per prima cosa, allora, ti domando questo: che cos’è che ci fa conoscere più di ogni altra cosa?
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Ferdinandus. Definitio. Nicolaus. Recte respondes; nam oratio seu ratio est definitio. Sed unde dicitur definitio? Ferdinandus. A definiendo, quia omnia definit. Nicolaus. Bene sane! Si igitur omnia definit definitio, et se ipsam igitur definit? Ferdinandus. Utique, cum nihil excludat. Nicolaus. Vides igitur definitionem omnia definientem esse non aliud quam definitum? Ferdinandus. Video, cum suiipsius sit definitio. Sed quaenam sit illa, non video. Nicolaus. Clarissime tibi ipsam expressi. Et hoc est id, quod dixi nos negligere in venationis cursu quaesitum praetereuntes. Ferdinandus. Quando expressisti? Nicolaus. Iam statim, quando dixi definitionem omnia definientem esse non aliud quam definitum. Ferdinandus. Nondum te capio. 4 Nicolaus. Pauca, quae dixi, facile rimantur, in quibus reperies ‘non aliud’; quodsi toto nisu mentis aciem ad li ‘non aliud’ convertis, mecum ipsum definitionem se et omnia definientem videbis. Ferdinandus. Instrue nos, quonam modo id fiat; nam magnum est quod affirmas et nondum credibile. Nicolaus. Responde igitur mihi: quid est ‘non aliud’? Estne aliud quam non aliud? Ferdinandus. Nequaquam aliud. Nicolaus. Igitur non aliud. Ferdinandus. Hoc certum est. Nicolaus. Definias igitur ‘non aliud’! Ferdinandus. Video equidem bene, quomodo ‘non aliud’ est non aliud quam non aliud. Et hoc negabit nemo.
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Ferdinando. La definizione5. Nicola. Hai risposto correttamente; il discorso o la nozione è in effetti una definizione6. Ma a partire da che cosa la definizione è detta tale? Ferdinando. Dal fatto di definire, poiché essa definisce ogni cosa. Nicola. Perfetto. Se, dunque, una definizione definisce ogni cosa, definisce anche se stessa?7 Ferdinando. Certo, dal momento che essa non esclude nulla. Nicola. Vedi, dunque, che una definizione che definisce ogni cosa è non-altro che il definito? Ferdinando. Lo vedo, dal momento che una tale definizione è la definizione di se stessa. Ma di quale definizione si tratti non lo vedo. Nicola. Te l’ho già esposta in modo chiarissimo. Si tratta di quel punto che, come ho detto, abbiamo trascurato quando, nel corso della nostra caccia8, ci siamo lasciati scappare ciò che ricercavamo. Ferdinando. Quando l’hai esposta? Nicola. Proprio ora, quando ho detto che la definizione, che definisce ogni cosa, è non-altro che il definito. Ferdinando. Ancora non ti capisco. Nicola. È facile esaminare le poche cose che ho detto. Tra queste troverai l’espressione «non-altro», e, se farai ogni sforzo per rivolgere lo sguardo acuto della tua mente9 verso il «non-altro», vedrai con me la definizione che definisce se stessa ed ogni cosa. Ferdinando. Insegnaci in che modo avviene questo; ciò che affermi, infatti, è importante, ma risulta ancora poco plausibile. Nicola. Rispondimi allora: che cos’è il «non-altro»? È forse altro dal non-altro? Ferdinando. Non è affatto altro. Nicola. Quindi, è non-altro. Ferdinando. Questo è certo. Nicola. Definisci allora il «non-altro». Ferdinando. Vedo chiaramente da parte mia che il «non-altro» è non-altro che il «non-altro». E questo nessuno lo negherà.
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Nicolaus. Verum dicis. Nonne nunc certissime vides ‘non aliud’ se ipsum definire, cum per aliud definiri non possit? Ferdinandus. Video certe, sed nondum constat ipsum omnia definire. 5 Nicolaus. Nihil cognitu facilius. Quid enim responderes, si quis te «quid est aliud?» interrogaret? Nonne diceres: «non aliud quam aliud»? Sic, «quid caelum?», responderes: «non aliud quam caelum». Ferdinandus. Utique veraciter sic respondere possem de omnibus, quae a me definiri expeterentur. Nicolaus. Cum igitur nihil maneat dubii, quin hic definiendi modus, quo ‘non aliud’ se et omnia definit, praecisissimus sit atque verissimus, non restat nisi circa ipsum attente immorari et quae humanitus sciri possunt reperire. Ferdinandus. Mira dicis et promittis. Cuperem quidem in primis audire, si quis palam hoc expresserit ex omnibus contemplativis. Nicolaus. Licet nullum legerim, prae ceteris tamen Dionysius propinquius videtur accessisse. Nam in omnibus, quae varie exprimit, ‘non aliud’ ipse dilucidat. Quando vero ad finem Mysticae pervenit theologiae, creatorem affirmat neque quicquam nominabile, neque aliud quid esse. Sic tamen hoc dicit, quod non videatur ibi magni aliquid propalare, quamvis intendenti ‘non aliud’ secretum expresserit undique per ipsum aliter explicatum. 6
Capitulum II.
Ferdinandus. Cum cuncti primum principium Deum appellent, videris tu quidem ipsum per li ‘non aliud’ velle significari. Primum enim ipsum fateri oportet, quod et se ipsum et omnia definit;
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Nicola. Dici il vero. E non vedi forse ora, con assoluta certezza, che il «non-altro» definisce se stesso, dal momento che non può essere definito per mezzo di altro?10 Ferdinando. Questo lo vedo con certezza, ma non è ancora evidente che il «non-altro» definisce ogni cosa. Nicola. Non c’è niente di più facile da riconoscere. Che cosa risponderesti se qualcuno ti chiedesse: «che cos’è l’altro?». Non risponderesti forse che «è non-altro che l’altro»? Così come, se uno ti chiedesse, «che cos’è il cielo», risponderesti: «è non-altro che il cielo»11. Ferdinando. Potrei senz’altro rispondere con verità in questo modo a proposito di tutto ciò di cui mi si chiedesse di dare una definizione. Nicola. Dunque, poiché non rimane più alcun dubbio sul fatto che questo modo di definire, secondo il quale il «non-altro» definisce se stesso ed ogni cosa, è il più preciso e il più vero, non ci resta che soffermare la nostra attenzione su di esso e scoprire ciò che se ne può umanamente conoscere. Ferdinando. Dici e prometti cose straordinarie. Tuttavia, desidererei anzitutto sapere se, tra tutti i pensatori contemplativi, ve ne sia qualcuno che si è esplicitamente espresso su questo punto12. Nicola. Sebbene non l’abbia letto in nessuno, mi sembra, tuttavia, che, tra tutti, Dionigi sia quello che vi si è avvicinato di più. Dionigi, infatti, illustra il «non-altro» in tutto ciò di cui, in vari modi, egli parla13. Quando poi giunge al termine della sua Teologia mistica14, egli afferma che il creatore non è né qualche cosa di nominabile, né qualunque altra cosa. Tuttavia, lo dice in un modo tale per cui sembra che egli non stia divulgando nulla di particolarmente importante, sebbene, per un lettore attento, egli abbia espresso in questo modo il segreto del «non-altro», quel segreto che, in una maniera o in un’altra, egli ha esposto ovunque nella sua opera.
Capitolo ii
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Ferdinando. Mentre tutti chiamano il primo principio Dio, sembra che tu lo voglia designare con l’espressione «non-altro». È necessario infatti riconoscere come primo ciò che definisce sia se
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nam cum primo non sit prius, sitque ab omnibus posterioribus absolutum, utique non nisi per semetipsum definitur. Principiatum vero cum a se nihil, sed, quidquid est, habeat a principio, profecto principium est ratio essendi eius seu definitio. Nicolaus. Bene me capis, Ferdinande. Nam etsi primo principio multa attribuantur nomina, quorum nullum ei adaequatum esse potest, cum sit etiam nominum omnium sicut et rerum principium, et nihil principiati omnia antecedat, per unum tamen significandi modum mentis acie praecisius videtur, quam per alium. Neque hactenus equidem comperi quodcumque significatum humanum visum rectius in primum dirigere. Nam omne significatum, quod in aliquid aliud sive in aliud ipsum terminatur, quemadmodum alia omnia sunt ab ipso ‘non aliud’, utique non dirigunt in principium. 7 Ferdinandus. Video quae dicis sane sic se habere. Nam aliud, terminus visionis, principium videntis esse non potest. Aliud enim cum sit non aliud quam aliud, utique ‘non aliud’ praesupponit, sine quo non foret aliud. Omne igitur significatum aliud a significato ipsius ‘non aliud’ in alio quam in principio terminatur: Hoc certe verum perspicio. Nicolaus. Optime! Cum nos autem alter alteri suam non possumus revelare visionem nisi per vocabulorum significatum, praecisius utique li ‘non aliud’ non occurrit, licet non sit nomen Dei, quod est ante omne nomen in caelo et in terra nominabile, sicut via peregrinantem ad civitatem dirigens non est nomen civitatis. Ferdinandus. Sic est, ut dicis, et hoc clare conspicio, quando Deum esse non aliud quam Deum video et aliquid non aliud quam aliquid et nihil non aliud quam nihil et non-ens non aliud quam
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stesso, sia ogni altra cosa; infatti, dal momento che non c’è nulla che sia anteriore al primo, e dal momento che il primo è indipendente da tutto ciò che gli è posteriore, esso non può essere definito se non attraverso se stesso. Il principiato, invece, dal momento che non ha nulla da se stesso, ma tutto ciò che è lo ha dal principio, ha senza dubbio nel principio la sua ragion d’essere o la sua definizione. Nicola. Mi hai compreso bene, Ferdinando. Infatti, sebbene al primo principio vengano attribuiti molti nomi, nessuno dei quali può essere ad esso adeguato, in quanto esso è il principio anche di tutti i nomi, come lo è di tutte le cose, e nulla che abbia un principio precede tutte le cose, tuttavia lo sguardo acuto della mente può vedere il principio con maggiore precisione attraverso un modo di espressione piuttosto che attraverso un altro. E finora non ho trovato nessuna espressione che diriga più correttamente lo sguardo umano verso il principio [di quanto faccia l’espressione «non-altro»]. In effetti, ogni espressione, che ha come termine di riferimento qualcos’altro o l’altro stesso, si riferisce a cose che sono tutte altre dal «non-altro» e che, di conseguenza, non conducono verso il principio15. Ferdinando. Vedo che le cose stanno proprio come tu dici. Infatti, l’altro, in quanto punto terminale della visione, non può essere il principio del vedere. L’altro, infatti, essendo non-altro che l’altro, presuppone certamente il «non-altro», senza il quale non sarebbe l’altro. Di conseguenza, ogni espressione, che sia altra rispetto al «non-altro», termina in qualcosa di altro rispetto al principio. Riconosco che questo è certamente vero. Nicola. Ottimo. E dal momento che nessuno di noi può rivelare all’altro ciò che ha visto se non per mezzo del significato delle parole, ricorriamo all’espressione «non-altro» come a quella più precisa, anche se non si tratta del nome di Dio, che è prima di ogni nome che sia nominabile in cielo e sulla terra16, così come la strada che conduce il viaggiatore verso la città non è il nome della città. Ferdinando. È proprio come dici tu. E lo riconosco chiaramente quando vedo che Dio è non-altro che Dio, che una certa cosa è non-altro che quella cosa, che il nulla è non-altro che il nulla, che il non-ente è non-altro che il non-ente, e così è per tutte le
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non-ens et ita de omnibus, quae qualitercumque dici possunt. Per hoc enim video ‘non aliud’ talia omnia antecedere, quia ipsa definit, et ipsa alia esse, cum ‘non aliud’ antecedat. Nicolaus. Placet mihi mentis tuae promptitudo et vivacitas, quia et bene capis et cito quae volo. Ex his igitur nunc plane vides de li ‘non aliud’ significatum non solum ut viam nobis servire ad principium, sed innominabile nomen Dei propinquius figurare, ut in ipso tamquam in pretiosiori aenigmate relucescat inquirentibus. 8
Capitulum III.
Ferdinandus. Quamvis appareat te per li ‘non aliud’ videre principium essendi et cognoscendi, tamen, nisi idipsum mihi clarius ostendes, non percipio. Nicolaus. Dicunt theologi Deum nobis in lucis aenigmate clarius relucere, quia per sensibilia scandimus ad intelligibilia. Lux profecto ipsa, quae Deus, ante aliam est lucem qualitercumque nominabilem et ante aliud simpliciter. Id vero, quod ante aliud videtur, non est aliud. Lux igitur illa, cum sit ipsum ‘non aliud’ et non lux nominabilis, in sensibili lucet lumine. Sed sensibilis lux visui comparata sensibili ita sese habere aliqualiter concipitur, sicut lux, quae ‘non aliud’, ad omnia quae mente videri queunt. Visum autem sensibilem absque luce sensibili nihil videre experimur, et visibilem colorem non esse nisi sensibilis lucis terminationem sive definitionem, ut iris ostendit; et ita sensibilis lux principium est essendi et visibile sensibile cognoscendi. Ita quidem conicimus principium essendi esse et principium cognoscendi. 9 Ferdinandus. Clara manuductio et grata! Nam sic se etiam habet in auditu sensibili. Sonus enim est principium essendi audibilis
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cose di cui possiamo parlare, in una maniera o in un’altra. In questo modo, infatti, vedo che il «non-altro» precede tutte queste cose per il fatto che esso le definisce, e che tali cose sono altre perché il «non-altro» le precede. Nicola. Mi piace la prontezza e la vivacità della tua mente, perché capisci bene e subito quello che intendo dire. Da queste considerazioni, dunque, vedi subito chiaramente che l’espressione «non-altro» non solo ci serve come una via verso il principio, ma ci consente di rappresentarci più da vicino l’innominabile nome di Dio, in modo tale che, in questa espressione, come in un’immagine enigmatica assai preziosa, egli risplenda agli occhi di coloro che lo cercano.
Capitolo iii Ferdinando. Sebbene sia evidente che, per mezzo del «non-altro», tu vedi il principio dell’essere e del conoscere, io non riesco tuttavia a coglierlo, se tu non me lo mostri più chiaramente17. Nicola. I teologi dicono che per noi Dio risplende più chiaramente nell’immagine della luce, in quanto è attraverso le cose sensibili che noi ascendiamo alle realtà intelligibili18. Certamente, la luce stessa, che è Dio19, è prima di ogni altra luce, in qualunque modo questa possa essere nominata, ed è anzi prima di tutto ciò che è altro. Ora, ciò che viene visto prima dell’altro non è l’altro. Quella luce, dunque, dal momento che è il «non-altro» stesso e non una luce che si possa nominare, risplende nella luce sensibile. Ma si può in qualche modo concepire che la luce sensibile si rapporti alla vista sensibile come quella luce che è il «non-altro» si rapporta a tutte le cose che possono essere viste con la mente. Ma noi sappiamo per esperienza che la vista sensibile non vede nulla senza la luce sensibile e che il colore visibile non è che la determinazione o la definizione della luce sensibile, come mostra l’arcobaleno; pertanto, la luce sensibile è il principio dell’essere e del conoscere delle cose sensibili e visibili. Così congetturiamo che il principio dell’essere sia anche il principio del conoscere. Ferdinando. Ecco un’introduzione chiara per la quale ti sono grato. Ora, lo stesso vale per l’udito sensibile. Il suono, infatti, è il
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et cognoscendi. Deus igitur per ‘non aliud’ significatus essendi et cognoscendi omnibus principium est. Quem si quis subtrahit, nihil manet neque in re, neque in cognitione. Quemadmodum luce subtracta iris aut visibile nec est nec videtur, et sublato sono nec est audibile nec auditur, sic subtracto ‘non aliud’ neque est neque cognoscitur quidquam. Ista mihi sic se habere certissime teneo. Nicolaus. Utique bene tenes, sed advertas, quaeso: dum aliquid vides, puta lapidem quempiam, licet non consideres, non tamen nisi per lucem ipsum vides. Et ita dum aliquid audis, non nisi per sonum audis, quamvis non attendas. Prioriter igitur essendi cognoscendique principium sese offert tamquam sine quo frustra ad videndum intenderes seu audiendum. Ceterum quia ad aliud, quod videre cupis audireve, est intentio, in principii consideratione non defigeris, quamquam id principium, medium et finis est quaesiti. 10 Eodem modo in ‘non aliud’ adverte. Nam cum omne, quod quidem est, sit non aliud quam idipsum, hoc utique non habet aliunde; a ‘non alio’ igitur habet. Non igitur aut est aut cognoscitur esse id, quod est, nisi per ‘non aliud’, quae quidem est eius causa, adaequatissima ratio scilicet sive definitio, quae sese prioriter offert, quia principium, medium et finis per mentem quaesiti; sed nequaquam iuxta esse consideratur, quando quidem id, quod quaeritur, quaeratur ut aliud. Nam proprie non quaeritur principium, quod quaesitum semper antecedit, et sine quo quaesitum minime quaeri potest. Quaerit autem omnis quaerens attrectare principium, si id, ut Paulus ait, valeret; quod quoniam fieri nequit, veluti in sese est, ante aliud quaerens ipsum, cum ipse sit aliud, ipsum sane quaerit
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principio dell’essere e del conoscere delle cose che possono essere udite. Dio, dunque, che noi abbiamo indicato con l’espressione «non-altro», è per tutte le cose il principio dell’essere e del conoscere. Se lo si toglie, non resta nulla, né nella realtà, nè nella conoscenza. Come l’arcobaleno, o qualunque cosa visibile, non esiste più e non la si vede più se viene tolta la luce, e come una cosa udibile non esiste più, né viene più udita, se sompare il suono, così, se viene tolto il «non-altro», non c’è più nulla che esista e che possa essere conosciuto20. Da parte mia, ritengo, con assoluta certezza, che le cose stiano proprio in questo modo. Nicola. Ritieni senz’altro bene, ma, ti prego, poni mente a questo: quando vedi qualcosa, ad esempio una pietra, è solo grazie alla luce che la vedi, anche se alla luce non fai caso. E, allo stesso modo, quando odi qualcosa, è solo grazie al suono che la odi, anche se al suono non presti attenzione. Quindi, il principio dell’essere e del conoscere si presenta per primo come ciò senza cui ti sforzeresti invano di vedere o di udire21. Tuttavia, poiché la tua attenzione è rivolta verso qualcos’altro, ossia verso ciò che desideri vedere o udire, non ti sei soffermato a considerare il principio, per quanto esso sia l’inizio, il mezzo e il fine di ciò che viene ricercato. Allo stesso modo, presta attenzione al «non-altro». Infatti, dal momento che tutto ciò che è, qualunque cosa sia, è non-altro che se stesso, questo fatto esso non lo ha da altro; lo ha pertanto dal «nonaltro». Tutto ciò che esiste, quindi, è ciò che esso è e viene conosciuto per ciò che esso è solo attraverso il «non-altro», che è la sua causa, la sua più adeguata ragion d’essere o la sua definizione, e che è ciò che si presenta per primo, in quanto è il principio, il mezzo e il fine di ciò che viene ricercato attraverso la mente. Ma, quando ciò che viene ricercato viene ricercato in quanto altro, non lo si considera affatto come esso è. Oggetto della ricerca, infatti, non è, in senso proprio, il principio, il quale precede sempre ciò che viene ricercato, e senza il quale ciò che viene ricercato non può in alcun modo essere ricercato22. Chiunque cerca, tuttavia, cerca di raggiungere a tentoni il principio, se, come dice Paolo23, questo fosse possibile; poiché, tuttavia, il principio non può essere trovato come esso è in se stesso, colui che lo cerca prima di qualsiasi altra cosa lo cerca giustamente in ciò che è altro, essendo del resto lui stesso un altro; allo stes-
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in alio, sicut lux, quae in se est per hominis visum invisibilis, ut in solaris lucis exprimitur puritate, videri quaeritur in visibili. Neque enim opus est lucem quaeri, quae se ipsam alioquin incomprehensibilis; oporteret enim lucem luce quaeri. Lux igitur in visibili, ubi percipiatur, exquiritur, ut sic saltem attrectabiliter videatur. 11
Capitulum IV.
Ferdinandus. Circa ‘non aliud’ immorandum admonuisti; ob maxima igitur tua promissa abire nequaquam festinabo; dic ergo: quid tu per ‘non aliud’ intelligis? Nicolaus. Id, quod ipsum intelligo, per alia aliter exprimi nequit; nam omnis post ipsum foret alia expositio et minus ipso profecto. Id enim, quod per ipsum mens conatur videre, cum omnia, quae aut dici aut cogitari possunt, antecedat, quonam modo aliter dicetur? Omnes enim theologi Deum viderunt quid maius esse quam concipi posset, et idcirco ‘supersubstantialem’, ‘supra omne nomen’ et consimilia de ipso affirmarunt, neque aliud per ‘super’, aliud per ‘sine’, aliud per ‘in’, aliud per ‘non’ et per ‘ante’ nobis in Deo expresserunt; nam idem est ipsum esse substantiam supersubstantialem, et substantiam sine substantia, et substantiam insubstantialem, et substantiam non-substantialem, et substantiam ante substantiam. Qualitercumque autem dixeris, cum id ipsum, quod dicis, non aliud sit quam idem ipsum, patet ‘non aliud’ simplicius et prius esse per aliudque ineloquibile atque inexpressibile. 12 Ferdinandus. Visne dicere ‘non aliud’ affirmationem esse vel negationem vel eius generis tale? Nicolaus. Nequaquam, sed ante omnia talia; et istud est, quod
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so modo, la luce, che, in se stessa, quale traspare nella purezza della luce del sole, è invisibile alla vista dell’uomo, la si cerca di vedere in ciò che è visibile24. E, in effetti, non è neppure necessario ricercare la luce, la quale si manifesta in ciò che è visibile; ciò sarebbe del resto incomprensibile, perché bisognerebbe cercare la luce con la luce. La luce, pertanto, va ricercata in ciò che è visibile, là dove essa viene percepita, così da poter essere vista almeno a tentoni.
Capitolo iv Ferdinando. Ci hai esortato a soffermarci sul «non-altro»; e, data l’estrema importanza delle cose che ci hai promesso, io non abbandonerò così presto questo tema; dimmi, dunque: che cosa intendi con «non-altro»? Nicola. Ciò che io intendo con «non-altro» non può essere espresso in altro modo e con altri termini; ogni altra formulazione, infatti, sarebbe posteriore ed inferiore rispetto all’espressione «non-altro»25. Infatti, dal momento che ciò che la mente si sforza di vedere attraverso l’espressione «non-altro» precede tutto ciò che può essere detto o pensato, in che modo ne possiamo parlare con altri termini? Tutti i teologi hanno riconosciuto che Dio è qualcosa di più grande di tutto ciò che potrebbe essere concepito26 e per questo hanno affermato che egli è «sovrasostanziale»27, «al di sopra di ogni nome»28 e cose simili; e nel parlarci in questo modo di Dio non ne hanno espresso una cosa con «sovra», un’altra con «senza», un’altra con «in», un’altra con «non» ed un’altra con «prima»; è infatti la stessa cosa per Dio essere sostanza sovrasostanziale, sostanza senza sostanza, sostanza insostanziale, sostanza nonsostanziale e sostanza prima della sostanza. Qualunque sia il modo in cui ti voglia esprimere, dal momento che ciò di cui parli è nonaltro che la stessa identica realtà, è evidente che l’espressione «nonaltro» è quella più semplice e più originaria, che non può essere esposta e formulata con altri termini. Ferdinando. Vuoi forse dire che «non-altro» è un’affermazione o una negazione, o qualcosa di questo genere? Nicola. Niente affatto. Esso precede piuttosto tutto questo, ed è ciò che per molti anni ho cercato per mezzo della coincidenza
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per oppositorum coincidentiam annis multis quaesivi, ut libelli multi, quos de hac speculatione conscripsi, ostendunt. Ferdinandus. Ponitne ‘non aliud’ aliquid, aut aufert aliquid? Nicolaus. Videtur ante omnem positionem atque ablationem. Ferdinandus. Neque igitur est substantia, neque ens, neque unum, neque aliud quodcumque. Nicolaus. Sic equidem video. Ferdinandus. Eo pacto neque non-ens est, nec nihil. Nicolaus. Et hoc utique sic video. Ferdinandus. Sequor te, pater, quantum valeo, mihique videtur certissimum ‘non aliud’ nec affirmatione negationeve aut alio quolibet modo comprehendi, sed mirum in modum ad aeternum ipsum videtur accedere. Nicolaus. Stabile, firmum, aeternum multum de ‘non aliud’ videntur participare, cum alteritatem aut mutationem ‘non aliud’ nequaquam possit accipere; cum tamen aeternum sit non aliud quam aeternum, erit sane aeternum aliud quidem quam ‘non aliud’, et ideo ipsum ante aeternum et ante saecula perspicio supra omnem esse comprehensionem. 13 Ferdinandus. Ita quidem necesse est omnem quemcumque tecum perspicientem dicere, quando ad omnium, quae dici possunt, intendit antecedens. Verum equidem miror, quomodo unum et ens et verum et bonum post ipsum existant. Nicolaus. Quamvis unum propinquum admodum ad ‘non aliud’ videatur, quando quidem omne aut unum dicatur aut aliud, ita quod unum quasi ‘non aliud’ appareat, nihilominus tamen unum, cum nihil aliud quam unum sit, aliud est ab ipso ‘non aliud’. Igitur ‘non aliud’ est simplicius uno, cum ab ipso ‘non aliud’ habeat, quod sit unum; et non e converso. Enimvero quidam theologi unum pro ‘non aliud’ accipientes ipsum unum ante contradictio-
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degli opposti, come attestano i molti libri che ho scritto su questo tema29. Ferdinando. Il «non-altro» pone forse qualcosa, o sottrae qualcosa? Nicola. Viene visto prima di ogni posizione e di ogni sottrazione30. Ferdinando. E di conseguenza esso non è né sostanza, né ente, né uno, né qualunque altra cosa. Nicola. È esattamente la mia opinione. Ferdinando. Allo stesso modo, allora, non è né non-ente, né nulla. Nicola. Anche questa è la mia opinione. Ferdinando. Ti seguo, padre, per quello che posso. Ciò che mi sembra assolutamente certo è che il «non-altro» non può essere compreso né attraverso un’affermazione, nè attraverso una negazione, né in qualsiasi altro modo, ma sembra piuttosto avvicinarsi in maniera mirabile all’eterno stesso. Nicola. Ciò che è stabile, fermo, eterno, sembra partecipare molto del «non-altro», in quanto il «non-altro» non può in alcun modo ammettere né alterità, né mutamento; tuttavia, dal momento che l’eterno è non-altro che l’eterno, esso sarà in realtà qualcosa di altro rispetto al «non-altro», e così vedo chiaramente che il «nonaltro» è prima dell’eterno31 e prima dei secoli, al di là di ogni comprensione. Ferdinando. Per chiunque esamini la questione insieme a te, è in effetti necessario parlare in questo modo, quando rivolge la sua attenzione a ciò che precede tutte le cose che possono essere dette. Quanto a me, a dire il vero, mi chiedo come sia possibile che l’uno, l’ente, il vero e il bene, esistano dopo il «non-altro»32. Nicola. Sebbene l’uno sembri essere in qualche modo vicino al «non-altro», in quanto di ogni cosa si dice che è una cosa o l’altra, per cui l’una appare come «non-l’altra», cionondimeno, dal momento che l’uno è nient’altro che uno, esso è altro rispetto al «nonaltro»33. Pertanto, il «non-altro» è più semplice rispetto all’uno, in quanto è dallo stesso «non-altro» che l’uno ha il fatto di essere uno, mentre non è vero il contrario. Certamente, alcuni teologi, intendendo come «non-altro» l’uno, hanno considerato l’uno stes-
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nem perspexerunt, quemadmodum in Platonis Parmenide legitur atque in Areopagita Dionysio. Tamen, cum unum sit aliud a non uno, nequaquam dirigit in primum omnium principium, quod sive ab alio sive a nihilo aliud esse non potest, quod item nulli est contrarium, ut inferius videbis. 14 Eodem modo de ente considera; nam etsi in ipso ‘non aliud’ clare videatur elucere, cum eorum, quae sunt, aliud ab aliquo minime videatur: tamen ipsum ‘non aliud’ praecedit. Sic de vero, quod quidem similiter de nullo ente negatur, et bono, licet nihil boni expers reperiatur. Sumuntur quoque ob id omnia haec pro apertis Dei nominibus, tametsi praecisionem non attingant. Non tamen proprie dicuntur illa post ‘non aliud’ esse; si enim forent post ‘non aliud’, quomodo eorum quodlibet esset non aliud quam id, quod est? Sic igitur ‘non aliud’ ante ista videtur et alia, quod post ipsum non sunt, sed per ipsum. Recte igitur tu quidem miratus es de hiis, quae ‘non aliud’ antecedit, si post ipsum sunt, et quonam modo id possibile. Ferdinandus. Si recte te capio, ita ‘non aliud’ videtur ante omnia, quod ex hiis, quae post ipsum videntur, nullis abesse possit, si quidem etiam sint contradictoria. Nicolaus. Ita utique verum perspicio. 15
Capitulum V.
Ferdinandus. Oro te, pater, patere me loqui ea, quae equidem sic in ‘non aliud’ ductus intueor ut, si me errantem senseris, more corrigas tuo. Nicolaus. Eloquere, Ferdinande. Ferdinandus. ‘Non aliud’ seorsum ante omne aliud intuens ipsum sic video, quod in eo quidquid videri potest intueor; nam ne-
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so come anteriore alla contraddizione, come possiamo leggere nel Parmenide di Platone34 e in Dionigi Areopagita35. Tuttavia, dal momento che l’uno è altro dal non-uno, esso non ci conduce in alcun modo al primo principio di tutto, il quale non può essere altro da nessun’altra cosa o da nulla e che, come vedrai più avanti, non può neppure essere il contrario di nulla. Allo stesso modo, considera l’ente; in esso il «non-altro» sembra risplendere con chiarezza, in quanto l’ente non sembra essere in alcun modo altro da nessuna delle cose che sono; ciononostante, il «non-altro» lo precede. Lo stesso vale per il vero, che egualmente non viene negato di nessun ente, e per il bene, ammesso che non si possa trovare nulla che sia privo del bene. Per questo, tutti questi termini vengono considerati come dei nomi rivelativi di Dio, anche se essi mancano di precisione36. Tuttavia, non si può propriamente dire che essi vengano dopo il «non-altro»; se venissero dopo il «non-altro», come potrebbe ciascuno di essi essere non-altro da ciò che esso è? Il «non-altro», pertanto, viene visto prima di queste e delle altre cose, non perché esse siano dopo di lui, ma perché esse sono grazie a lui. Hai avuto dunque ragione a chiederti, a proposito di queste nozioni che il «non-altro» precede, se esse siano dopo di lui ed in che modo ciò sia possibile. Ferdinando. Se ti ho compreso bene, il «non-altro» viene visto prima di tutte le cose in modo tale che esso non può essere assente da nessuna delle cose che vengono viste dopo di lui, anche nel caso in cui queste cose siano dei contraddittori. Nicola. È certamente questa, a mio parere, la verità.
Capitolo v
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Ferdinando. Ti prego, Padre, di permettermi di esporre ciò che, essendo stato guidato fin qui, io intuisco nel «non-altro», in modo tale che, com’è tuo costume, tu possa correggermi nel caso in cui ti renda conto che sbaglio. Nicola. Parla, Ferdinando. Ferdinando. Quando colgo intuitivamente il «non-altro» per se stesso, prima di ogni altra cosa, lo vedo in modo da intuire in esso tutto ciò che può essere visto; al di fuori di esso, infatti, nien-
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que esse nec cognosci extra ipsum quidquam possibile; aliud etiam ipsum ab esse et cognosci id nequit effugere. Esse enim intelligereve quippiam extra ‘non aliud’ sed ne fingere quidem mihi est possibile; adeo ut, si ipsum quoque nihil et ignorare videre absque ‘non aliud’ coner, videre frustra et incassum coner. Quomodo enim erit nihil nihil visibile nisi per ‘non aliud’, ut sit non aliud quam nihil? Pari modo de ignorare et ceteris omnibus. Omne enim, quod est, in tantum est, in quantum ‘non aliud’ est; et omne, quod intelligitur, in tantum intelligitur, in quantum ‘non aliud’ esse intelligitur; et omne, quod videtur verum, usque adeo videtur verum, in quantum ‘non aliud’ cernitur. Et summatim quidquid videtur aliud, in tantum aliud videtur, in quantum ‘non aliud’. Sicut igitur sublato ‘non aliud’ nec manet, nec cognoscitur quidquam: sic in ipso quidem omnia et sunt et cognoscuntur et videntur. 16 Ipsum enim ‘non aliud’ adaequatissima ratio est discretioque et mensura omnium, quae sunt, ut sint; et quae non sunt, ut non sint; et quae possunt esse, ut esse possint; et quae sic sunt, ut sic sint; et quae moventur, ut moveantur; et quae stant, ut stent; et quae vivunt, ut vivant; et quae intelligunt, ut intelligant, et eiusmodi omnia. Ita enim necessarium esse video in eo, quod video ipsum ‘non aliud’ se definire ideoque et omnia, quae nominari possunt. 17 Nicolaus. Recte in Deum aciem iecisti per ‘non aliud’ significatum, ut in principio, causa seu ratione, quae non est alia nec diversa, cuncta humaniter visibilia conspiceres, quantum tibi nunc quidem conceditur. Tantum autem conceditur, quantum ipsum ‘non aliud’, scilicet rerum ratio, tuae se rationi seu menti revelat sive visibilem exhibet; sed hoc nunc medio per ‘non aliud’, quia
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te può essere, né essere conosciuto; neppure ciò che è altro dall’essere e dall’essere conosciuto può sfuggirgli. Non mi è infatti neppure possibile immaginare un essere e un comprendere al di fuori del «non-altro»; questo è talmente vero che, se io cercassi di vedere anche il nulla e l’ignoranza senza il «non-altro», cercherei invano di vedere ed inutilmente. In che modo, infatti, il nulla può essere un nulla visibile se non grazie al «non-altro», in modo da essere non-altro che nulla?37 Lo stesso vale per l’ignoranza e per tutte le altre cose. Tutto ciò che è, infatti, in tanto è, in quanto è non-altro [da se stesso], e tutto ciò che viene conosciuto in tanto viene conosciuto, in quanto viene conosciuto come non-altro [da se stesso]; e tutto ciò che viene visto come vero lo si vede come vero nella misura in cui si riconosce che è non-altro [dal vero]. E, in breve, ogni cosa, che viene vista come altra, viene vista come altra in quanto è non-altra. Come, pertanto, tolto il «non-altro» non rimane più nulla, né nulla può essere conosciuto, così tutte le cose sono, vengono conosciute e vengono viste nel «non-altro». Il «non-altro», infatti, è il fondamento più adeguato, il criterio e la misura di tutto38: delle cose che sono, in quanto sono, delle cose che non sono, in quanto non sono, delle cose che possono essere, in quanto possono essere, delle cose che sono in un determinato modo, in quanto sono in quel determinato modo, delle cose che si muovono, in quanto si muovono, e delle cose che sono immobili, in quanto sono immobili, delle cose che vivono, in quanto vivono, delle cose che intendono, in quanto intendono, e così via per tutte le cose di questo genere. Vedo, infatti, che dev’essere così, per il fatto che vedo che il «non-altro» definisce se stesso e, pertanto, definisce tutto ciò che può essere nominato. Nicola. Hai diretto correttamente lo sguardo della tua mente verso Dio, che viene qui indicato con l’espressione «non-altro», in modo tale che, in questo principio, in questa causa o in questo fondamento razionale, che non è né altro, né diverso, hai potuto scorgere tutto ciò che è umanamente visibile, per quel tanto che ti è ora concesso di vedere. Quello che ti è tuttavia concesso di vedere lo devi al fatto che il «non-altro», ossia il fondamento razionale delle cose, si rivela, ossia si rende visibile alla tua ragione, o alla tua mente; mediante il «non-altro», tuttavia, tale fondamento si è ora rive-
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sese definit, revelavit clarius quam antea. Nam quo pacto mihi se visibilem praestiterit, in libellis pluribus legere potuisti: nunc autem in hoc aenigmate significati ipsius ‘non aliud’ per rationem potissimum illam, quia se definit, fecundius et clarius, adeo ut sperare queam ipsum Deum sese nobis aliquando sine aenigmate revelaturum. Ferdinandus. Licet in praemissis, quaecumque videri per nos possunt, omnia complicentur, ut tamen acrius excitemur, certa dubia tangamus, ut per illorum evacuationem pronior fiat visio exercitata. Nicolaus. Placet, ut ita facias. 18 Ferdinandus. In primis quaerit scientiae avidus, ubi sumi debeat ratio, quod Deus trinus et unus est per li ‘non aliud’ significatus, cum ‘non aliud’ numerum omnem antecedat. Nicolaus. Ex hiis, quae dicta sunt, unica ratione omnia videntur, quam tu quidem vidisti esse, quia principium per ‘non aliud’ significatum se ipsum definit. In explicatam igitur eius definitionem intueamur, quod videlicet ‘non aliud’ est non aliud quam non aliud; idem triniter repetitum si est primi definitio, ut vides, ipsum profecto est unitrinum et non alia ratione, quam quia se ipsum definit; non enim foret primum, si se ipsum minime definiret; se autem quando definit, trinum ostendit. Ex perfectione igitur vides resultare trinitatem, quam tamen, quoniam ante aliud vides, nec numerare potes nec numerum esse affirmare, cum haec trinitas non sit aliud quam unitas, et unitas non sit aliud quam trinitas, quia tam trinitas quam unitas non sunt aliud quam simplex principium per ‘non aliud’ significatum. Ferdinandus. Optime perfectionis primi necessitatem video, quia se definit, exigere, ut sit unitrinum ante aliud tamen et nu-
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lato in modo più chiaro che in precedenza, per il fatto che il «nonaltro» definisce se stesso. In molti miei libri, infatti, hai potuto leggere in che modo esso mi si sia reso visibile39; ora, tuttavia, in questa immagine enigmatica propria dell’espressione «non-altro» esso si rende visibile in modo più ricco e più chiaro, soprattutto a motivo del fatto che il «non-altro» definisce se stesso, al punto di farci sperare che un giorno Dio stesso ci si rivelerà senza enigmi40. Ferdinando. Per quanto in ciò che è stato detto in precedenza sia già complicato tutto quello che da noi può essere visto, proporrei, tuttavia, come ulteriore stimolo, di esaminare alcuni dubbi, in modo tale che, una volta eliminati, la visione, alla quale ci siamo già esercitati, diventi più agevole. Nicola. Sono d’accordo che tu proceda in questo modo. Ferdinando. In primo luogo, chi ha un ardente desiderio di conoscenza chiede in che modo sia possibile rendere ragione del fatto che il Dio trino e uno viene designato con l’espressione «nonaltro», dal momento che il «non-altro» precede ogni numero. Nicola. Sulla base di quanto è stato detto, tutto viene visto a partire da un’unica ragione, che del resto anche tu hai riconosciuto, ossia dal fatto che il principio, che viene designato con l’espressione «non-altro», definisce se stesso. Se esplicitiamo, pertanto, la sua definizione, noi intuiamo che il «non-altro» è non-altro che il «non-altro»; se, come vedi, la stessa cosa, ripetuta tre volte, costituisce la definizione del principio, allora il Primo è senza dubbio unitrino, e lo è per nessun’altra ragione se non per il fatto che definisce se stesso. Non sarebbe, infatti, il Primo se non definisse se stesso; ma, dal momento che definisce se stesso, si mostra come trino. Vedi, dunque, che la trinità risulta dalla perfezione, e, tuttavia, poiché la vedi prima di ciò che è altro, non puoi numerarla, né puoi affermare che essa sia un numero, poiché questa trinità non è altro che unità e l’unità non è altro che trinità, e perché tanto la trinità quanto l’unità non sono altro che il principio semplice, che viene designato con l’espressione «non-altro». Ferdinando. Vedo molto bene che la necessità della perfezione del Primo, che consiste nel fatto che definisce se stesso, esige che esso sia unitrino, prima, tuttavia, dell’altro e del nume-
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merum, cum ea, quae ipsum primum praesupponunt, ad eius nihil conferant perfectionem. Sed cum alias et saepe hanc divinam foecunditatem nisus sis aliquo modo, maxime quidem in Docta ignorantia, explanare per alios terminos, satis erit, si istis nunc pauca addideris. 19 Nicolaus. Trinitatis secretum, Dei utique dono fide receptum, quamvis omnem sensum longe exsuperet atque antecedat, hoc medio, quo in praesentia Deum indagamus, non aliter nec praecisius quam superius audisti, declarari potest. Sed qui Patrem et Filium et Spiritum sanctum Trinitatem nominant, minus praecise quidem appropinquant, congrue tamen nominibus illis utuntur propter scripturarum convenientiam. Qui vero unitatem, aequalitatem et nexum Trinitatem nuncupant propius accederent, si termini illi sacris in litteris reperirentur inserti; sunt enim hii, in quibus ‘non aliud’ clare relucescit; nam in unitate, quae indistinctionem a se dicit et ab alio distinctionem, profecto ‘non aliud’ cernitur. Ita et in aequalitate sese manifestat et nexu consideranti. Adhuc simplicius hii termini: hoc, id et idem lucidius praecisiusque ‘non aliud’ imitantur, sed minus sunt in usu. Sic itaque patet in non aliud et non aliud atque non aliud, licet minime usitatum sit, unitrinum principium clarissime revelari supra omnem tamen nostram apprehensionem atque capacitatem. Quando enim primum principium ipsum se definit per ‘non aliud’ significatum, in eo definitivo motu de non alio non aliud oritur atque de non alio et non alio exorto in non alio concluditur definitio, quae contemplans clarius, quam dici possit, intuebitur.
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ro, in quanto quelle cose che presuppongono il Primo non possono apportare nulla alla sua perfezione. Tuttavia, dal momento che altrove, soprattutto nella Dotta ignoranza, hai spesso cercato di spiegare in qualche modo questa divina fecondità con altri termini, sarà sufficiente che ora tu aggiunga poche cose a quelle che hai detto41. Nicola. Il mistero della Trinità, che è senz’altro ricevuto per fede mediante un dono di Dio, precede e supera di gran lunga ogni comprensione; ciononostante, con i mezzi con i quali possiamo ricercare Dio nella vita presente, questo mistero non può essere dilucidato in maniera diversa, né in modo più preciso rispetto a quanto hai sopra ascoltato. Coloro, invece, che chiamano la Trinità Padre e Figlio e Spirito Santo si avvicinano ad essa in modo meno preciso, per quanto si servano debitamente di questi nomi a motivo della loro conformità con la Scrittura. Quanto a quelli che chiamano la Trinità Unità, Uguaglianza e Nesso42, si avvicinerebbero di più ad essa, se potessero trovare questi termini nelle Scritture; sono questi, infatti, i termini nei quali il «non-altro» risplende chiaramente. In effetti, nella unità, che significa il non-essere-distinto-da se stesso e l’essere-distinto dall’altro43, si riconosce certamente il «non-altro». Allo stesso modo, per chi consideri attentamente la cosa, il «non-altro» si manifesta anche nell’uguaglianza e nel nesso. Per parlare in modo ancora più semplice, i termini «questo», «quello» e «identico»44 imitano con maggiore chiarezza e precisione il «non-altro», ma sono meno in uso. Così, dunque, è evidente che nell’espressione «non-altro e non-altro e non-altro», sebbene non sia affatto usuale, il principio unitrino si rivela nel modo più chiaro, per quanto esso sia al di sopra di ogni nostra comprensione e di ogni nostra capacità. Infatti, nel momento in cui il primo principio, indicato con l’espressione «non-altro», definisce se stesso, in questo movimento di definizione dal «non-altro» trae origine il «non-altro», e dal «non-altro» e dal «non-altro» originato la definizione si conclude nel «non-altro»; una definizione, questa, che, chi la contempla, coglierà intuitivamente in maniera più chiara rispetto a quanto sia possibile esprimerla a parole.
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Capitulum VI.
Ferdinandus. Haec de hoc quidem sufficiant; nunc ut in alio ‘non-aliud’ ostendas, porro perge. Nicolaus. ‘Non aliud’ neque est aliud, nec ab alio aliud, nec est in alio aliud non alia aliqua ratione, quam quia ‘non aliud’ quod nullo modo esse aliud potest, quasi sibi desit aliquid, sicut alii. Aliud enim, quia aliud est ab aliquo, eo caret, a quo aliud. ‘Non aliud’ autem, quia a nullo aliud est, non caret aliquo, nec extra ipsum quidquam esse potest. Unde sicut non potest sine ipso neque dici quidquam nec cogitari, quod per ipsum non dicatur aut cogitetur, sine quo non esse, non discerni aliquid possibile est, cum talia omnia antecedat: tunc ipsum in se antecedenter et absolute non aliud quam ipsum videtur et in alio cernitur non aliud quam ipsum aliud; puta si dixero Deum nihil visibilium esse, quoniam eorum causa est et creator, et si dixero ipsum in caelo esse non aliud quam caelum; quomodo enim caelum non aliud quam caelum foret, si ‘non aliud’ in ipso foret aliud quam caelum? Caelum autem cum a non-caelo aliud sit, idcirco aliud est; Deus vero, qui ‘non aliud’ est, non est caelum, quod aliud, licet nec in ipso sit aliud, nec ab ipso aliud, sicut lux non est color, quamvis nec in ipso nec ab ipso aliud sit. 21 Oportet te attentum esse, quomodo omnia, quae dici aut cogitari possunt, ideo non sunt primum per ‘non aliud’ significatum, quia ea omnia a suis oppositis alia sunt. Deus autem, quia non aliud est ab alio, non est aliud, quamvis non aliud et aliud videantur opponi; sed non opponitur aliud ipsi, a quo habet quod est aliud, ut praediximus. Nunc vides, quomodo recte theologi affirmarunt Deum in omnibus omnia, licet omnium nihil.
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il non-altro, vi 20-21
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Capitolo vi Ferdinando. Le cose che hai detto su questo argomento sono certamente sufficienti; ora procedi, tuttavia, a mostrare il «non-altro» nell’altro45. Nicola. Il «non-altro» non è l’altro, né è un altro dall’altro, né è un altro nell’altro e questo per nessun’altra ragione se non per il fatto che il «non-altro» non può in alcun modo essere un altro, come se mancasse di qualche cosa, come accade all’altro. L’altro, infatti, poiché è altro rispetto a qualcosa, manca di ciò rispetto a cui è altro. Il «non-altro», invece, poiché non è altro da nulla, non manca di nulla, né può esserci qualche cosa al di fuori di esso. Dunque, come senza il «non-altro» nessuna cosa può essere detta, né essere pensata, perché non verrebbe detta o pensata mediante ciò che è anteriore a tutto e senza il quale, pertanto, non è possibile che qualcosa sia e che venga distinta dalle altre cose, così in se stesso il «non-altro» viene visto come ciò che, prima di tutto e in modo assoluto, non è altro che se stesso, mentre nell’altro viene riconosciuto come non-altro da questo altro. È come se io dicessi, ad esempio, che Dio non è nessuna delle cose visibili, dal momento che Egli è la loro causa e il loro creatore, e che nel cielo Egli non è altro che il cielo: infatti, come potrebbe il cielo essere non-altro che il cielo, se in esso il «non-altro» fosse qualcosa di altro rispetto al cielo? Il cielo, invece, essendo altro dal non-cielo, è per questo un altro; ma Dio, che è il «non-altro», non è il cielo, che è un altro, anche se nel cielo Dio non è un altro, né è altro dal cielo46, così come la luce non è il colore47, sebbene nel colore essa non sia qualcosa di altro, né sia altra dal colore. Devi osservare attentamente che la ragione per la quale tutte le cose di cui si può parlare, o che si possono pensare, non sono il Primo, ossia ciò che viene indicato con l’espressione «non-altro», è che tutte queste cose sono altre dai loro rispettivi opposti. Dio, invece, poiché non è altro da nessun altro, non è un altro, sebbene il nonaltro e l’altro sembrino essere degli opposti; ma l’altro non è opposto a ciò da cui, come ho detto in precedenza, esso ha il fatto di essere altro48. Vedi ora perché i teologi hanno giustamente affermato che Dio è tutto in tutte le cose, sebbene egli sia nulla di tutto49.
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niccolò cusano
Ferdinandus. Nemo est, qui quidem mentem applicans haec tecum non videat. Ex quo constat unicuique Deum innominabilem omnia nominare, infinitum omnia finire, interminum omnia terminare et de omnibus eodem modo. 22 Nicolaus. Recte; nam cum ipso ‘non aliud’ cessante omnia, quae sunt quaeque non sunt, necessario cessent, clare perspicitur, quo-modo in ipso omnia anterioriter ipsum sunt et ipsum in omnibus omnia. Cum igitur in alio ipsum intueor aliudque in ipso ipsum prioriter: quomodo per ipsum sine alio aliquo omnia id sunt, quod quidem sunt, video; non enim creat caelum ex alio, sed per caelum, quod in ipso ipsum est; sicut si ipsum intellectualem spiritum diceremus seu lucem et in ipso intellectu rationem omnium esse ipsum consideraremus; tunc enim ratio, cur caelum caelum et non aliud prioriter in ipso est, per quam constitutum est caelum, sive quae in caelo est caelum. Sensibile igitur caelum non est id, quod est, ab alio aut quid aliud a caelo, sed ab ipso ‘non aliud’ ab aliquo, quod vides ante nomen, quia omnia in omnibus est nominibus et omnium nullum. Nam eadem ratione, qua rationem illam caelum nominarem, eadem ratione ipsam terram nominarem atque aquam et pari de singulis modo. Et si rationem caeli non video cae lum nominandam, quasi causa causati non habeat nomen, sic ipsum eadem ratione nullo nomine video nominabilem. Non video igitur innominabilem quasi nomine privatum, verum ante nomen.
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il non-altro, vi 21-22
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Ferdinando. Non c’è nessuno che non veda queste cose insieme con te, se rivolge ad esse la sua mente. Da tutto questo risulta evidente per chiunque che il Dio innominabile nomina tutte le cose, il Dio infinito definisce tutte le cose, il Dio illimitato delimita tutte le cose, e così di seguito. Nicola. Giusto; infatti, dal momento che, se il «non-altro» cessasse di essere, cesserebbero necessariamente di essere tutte le cose50, quelle che sono e quelle che non sono, questo ci consente di riconoscere chiaramente come tutte le cose siano anteriormente nel «non-altro» come identiche al «non-altro», e come il «nonaltro» sia tutto in tutte le cose. Poiché, dunque, nell’altro colgo il «non-altro», e l’altro lo colgo precedentemente nel «non-altro» come «non-altro», vedo allora in che modo tutte le cose siano ciò che esse sono grazie ad esso, senza la mediazione di qualcos’altro; il «non-altro», infatti, crea il cielo non a partire da qualcos’altro, ma attraverso il cielo, che, nel «non-altro», è il «non-altro». Sarebbe lo stesso se caratterizzassimo il «non-altro» come spirito intellettuale o come luce, e se considerassimo che, proprio in tale intelletto, esso è il principio razionale di tutte le cose; in questo caso, infatti, il principio razionale per il quale il cielo è cielo e non un’altra cosa è precedentemente nel «non-altro»; ed è attraverso questo principio razionale che il cielo viene costituito come tale, ovvero esso è il principio razionale che, nel cielo, è il cielo. Il cielo sensibile, dunque, non è ciò che esso è a partire da un altro, né è qualcosa di altro dal cielo; ciò che esso è, piuttosto, lo è dal «non-altro» stesso, ossia da qualcosa che tu vedi prima di ogni nome, in quanto è tutto in tutti i nomi e non è nessuno di essi. Infatti, per la stessa ragione per la quale posso chiamare quel principio razionale cielo, potrei chiamarlo terra e acqua, e così di seguito per ogni cosa. E se vedo che il principio razionale del cielo non dev’essere chiamato cielo, in quanto la causa non ha lo stesso nome del causato, allora, per la stessa ragione, vedo che il «non-altro» non è nominabile con nessun nome. Lo vedo, quindi, innominabile, non nel senso che sia privo di ogni nome, ma nel senso che precede ogni nome.
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Capitulum VII.
Ferdinandus. Intelligo et ita etiam verum cerno. Si enim cessaret causa, cessaret effectus; et ideo cessante ipso ‘non aliud’ cessaret omne aliud et omne nominabile et ita etiam ipsum nihil, cum nihil nominetur; ostende mihi, quaeso, ut id ipsum perspiciam. Nicolaus. Certum est quod si cessaret frigus, cessaret et glacies, quae iam Romae videtur multiplicata; verum propterea aqua prior glacie non cessaret; cessante vero ente cessaret et glacies et aqua, ita quod actu non esset; et tamen materia seu possibilitas essendi aquam non cessaret. Quae quidem possibilitas essendi aquam una dici possibilitas potest. Cessante vero uno et glacies et aqua et essendi aquam cessaret possibilitas. At non cessaret omne intelligibile, quod posset ad essendi aquam possibilitatem necessitari per omnipotentiam, puta ipsum intelligibile nihil vel chaos non cessaret, quod quidem ab aqua distantius est, quam ipsa essendi aquam possibilitas, quae, quamvis remotissima confusissimaque, omnipotentiae tamen necessitatur oboedire. Vigor autem omnipotentiae in ipsum non cessaret per unius cessationem. Verum si ipsum ‘non aliud’ cessaret, statim omnia cessarent, quae ipsum ‘non aliud’ antecedit. Atque ita non entium solummodo actus cessaret ac potentia, sed et non-ens et nihil entium, quae ‘non aliud’ antecedit. 24 Ferdinandus. Satis dubio fecisti. Nunc nihil video, quod est non aliud quam nihil, ‘non aliud’ ante se habere, a quo distat ultra actu esse et esse potentia. Videtur enim mente quam confusissimum chaos, quod infinita dumtaxat virtute, quae ‘non aliud’ est, ut determinetur, potest astringi.
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il non-altro, vii 23-24
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Capitolo vii Ferdinando. Capisco quello che hai detto e riconosco anche che è vero. Se infatti venisse meno la causa, verrebbe meno anche l’effetto51, e così se venisse meno il «non-altro», verrebbe meno ogni altra cosa e tutto ciò che può essere nominato, e quindi verrebbe meno persino lo stesso nulla, dal momento che esso viene nominato «nulla»; chiariscimi, ti prego, questo punto, in modo che io possa comprenderlo pienamente52. Nicola. È certo che se venisse meno il freddo, verrebbe meno anche il ghiaccio, che ora a Roma si può vedere già presente ovunque; ma non verrebbe meno per questo anche l’acqua, che è anteriore al ghiaccio. Se venisse meno invece l’essere, verrebbero meno sia il ghiaccio, sia l’acqua, di modo che essi non sarebbero più in atto; e tuttavia, la materia, o la possibilità-di-essere-acqua, non verrebbe meno. Questa possibilità-di-essere-acqua può essere detta una possibilità. Se venisse meno invece l’uno, verrebbero meno sia il ghiaccio, sia l’acqua, sia la possibilità-di-essere-acqua53. Non verrebbe meno, tuttavia, ogni intelligibile che, dall’onnipotenza [divina], può essere necessitato alla possibilità-di-essere-acqua; ad esempio, non verrebbe meno il nulla intelligibile, o il caos. Certamente, il nulla, o il caos, è più distante dall’acqua di quanto lo sia la possibilità-di-essere-acqua, la quale, per quanto possa essere estremamente remota e disordinata, è tuttavia costretta ad obbedire all’onnipotenza [divina]. Tuttavia, la forza dell’onnipotenza [divina] rispetto all’intelligibile [al nulla o al caos] non verrebbe meno per il fatto che viene meno l’uno. Se invece venisse meno il «non-altro», verrebbero meno subito tutte le cose che il «non-altro» precede. E allora non solo verrebbero meno l’essere in atto e l’essere in potenza degli enti, ma verrebbero meno anche il non-essere e il nulla degli enti, che il «non-altro» precede. Ferdinando. Hai dissipato il mio dubbio. Ora vedo che il nulla, che è non-altro che il nulla, ha prima di sé il «non-altro», dal quale è più distante di quanto lo siano l’essere in atto e l’essere in potenza. Con la mente, infatti, si vede quanto sia del tutto disordinato il caos, che, tuttavia, può essere costretto ad essere determinato da quella forza infinita che è il «non-altro».
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Nicolaus. Dixisti virtutem actu infinitam esse ‘non aliud’. Quomodo id vides? Ferdinandus. Virtutem unitam et minus aliam video fortiorem; quae igitur penitus ‘non aliud’, illa erit infinita. Nicolaus. Optime et rationabiliter imprimis dicis; rationabiliter inquam: sicut enim sensibilis visio quantumcumque acuta abs que omni sensatione seu sensibili motu esse nequit, ita et mentalis non est absque omni ratione seu motu rationali. Et quamvis recto intuitu te videam uti, scire tamen opto, an ipsum ‘non aliud’ sic per mentem videatur in omnibus, quod non possit non videri. 25 Ferdinandus. Ad principium se et quae dici queunt omnia definiens recurro videoque, quomodo videre est non aliud quam non videre, et video equidem, quod ipsum ‘non aliud’ tam per videre quam non videre conspicio. Si igitur mens sine ipso ‘non aliud’ nec videre potest nec non videre, non igitur ipsum ‘non aliud’ potest non videri, sicut non potest non sciri, quod per scientiam scitur atque ignorantiam. In alio ipsum ‘non aliud’ cernitur, quia, cum aliud videtur, aliud videtur et ‘non aliud’. Nicolaus. Bene ais. Sed quomodo vides aliud, si in alio non vides aut in ‘non alio’? 26 Ferdinandus. Quoniam positio ipsius ‘non aliud’ omnium est positio et eius sublatio omnium sublatio, ideo aliud nec extra ‘non aliud’ est nec videtur. Nicolaus. Si in ‘non alio’ aliud vides, utique non vides ipsum ibi esse esse aliud, sed non aliud, cum in ‘non alio’ esse aliud sit impossibile. Ferdinandus. Aliud in ‘non alio’ videre me idcirco aio, quia extra ipsum nequit videri. Sed si me quid sit aliud in ‘non alio’ interrogares, dicerem esse ‘non aliud’. Nicolaus. Recte.
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il non-altro, vii 24-26
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Nicola. Hai detto che il «non-altro» è la forza infinita in atto. Come fai a vedere questo? Ferdinando. Vedo che una forza unificata e con meno alterità è più forte54; di conseguenza, quella forza che è sotto ogni aspetto «non-altro» sarà una forza infinita. Nicola. Ti sei espresso molto bene, e soprattutto in modo razionale; dico in modo razionale perché, come la vista sensibile, per quanto acuta possa essere, non può realizzarsi senza qualche percezione sensoriale, o senza qualche stimolo percettivo, così anche la visione mentale non può realizzarsi senza qualche ragionamento, o senza qualche stimolo razionale. E sebbene vedo che hai un’intuizione giusta, desidererei tuttavia sapere se il «non-altro» viene visto dalla mente in tutte le cose, al punto che non può non essere visto. Ferdinando. Ritorno al principio che definisce se stesso e tutto ciò di cui si può parlare, e vedo che il vedere non è altro dal nonvedere; vedo, infatti, che io scorgo il «non-altro» tanto attraverso il vedere, quanto attraverso il non-vedere. Se, pertanto, senza il «nonaltro» la mente non può né vedere, né non vedere, allora il «non-altro» non può non essere visto, così come non può non essere conosciuto ciò che viene conosciuto sia attraverso la conoscenza, sia attraverso l’ignoranza55. Nell’altro viene riconosciuto lo stesso «nonaltro», perché, quando si vede l’altro, si vede l’altro e il «non-altro». Nicola. Dici bene. Ma l’altro come lo vedi, se non lo vedi né nell’altro, né nel «non-altro»? Ferdinando. Dal momento che la posizione del «non-altro» è la posizione di tutte le cose e l’eliminazione del «non-altro» è la eliminazione di tutte le cose, allora l’altro non può né essere, né essere visto, al di fuori del «non-altro». Nicola. Se è nel «non-altro» che vedi l’altro, lì, certamente, non lo vedi come altro, bensì come «non-altro», in quanto è impossibile che nel «non-altro» vi sia l’altro. Ferdinando. La ragione per la quale dico di vedere l’altro nel «non-altro» consiste nel fatto che l’altro non può essere visto al di fuori del «non-altro». Ma, se mi chiedessi che cos’è l’altro nel «nonaltro», ti risponderei che è «non-altro». Nicola. Giusto.
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Capitulum VIII.
Ferdinandus. De quidditate aliquid attingere expedit. Nicolaus. Attingam! Non haesitas, ut opinor, ipsius ‘non aliud’ quidditatem ‘non aliud’ ipsum esse; ideo Dei sive ipsius ‘non aliud’ quidditas ab aliqua quidditate non est alia, sed in omni alia quidditate ipsum ‘non aliud’ est ipsa non alia. Alia igitur a quidditate ipsius aliud idcirco accidunt ei, quia aliud, quod sine alio ‘non aliud’ foret. Alia igitur illa ad ipsius aliud quidditatem consequenter se habentia quidditatis ipsius aliud splendores sunt, qui in nihil umbra occumbunt. Quidditas igitur, quae ‘non aliud’, quidditatis ipsius aliud quidditas est, quae quidem quidditatis est prioris relucentia. Suntque alia, quae illi accidunt, in quibus quidditas illa, cui accidunt, lucet. 28 Quidditas, quam mente ante quantitatem video, cum sine quanto imaginari non possit, in imaginatione varias recipit imagines, quae sine varia quantitate esse non queunt; et licet de quidditatis essentia quantitas non sit, quam mens quidem supra imaginationem contemplatur, cumque quidditas illa, quam mens videt, non alia a quidditate sit, quam imaginatio imaginatur: quantitas tamen sic est consequenter ad imaginis quidditatem, quod sine ipsa esse nequit imago. 29 Sic de magnitudine dico, quae mente supra imaginationem videtur ante imaginariam quantitatem. Sed in imaginatione cernitur quantitas. Quanto est autem absolutior eius imaginatio a grossa et umbrosa quantitate subtiliorque atque simplicior, tanto in ea magnitudinis quidditas simplicius et certius et imaginaria verior relu-
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Capitolo viii
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Ferdinando. È opportuno ora dire qualcosa a proposito della quiddità. Nicola. Lo farò. Ritengo che tu non abbia dubbi sul fatto che la quiddità del «non-altro» sia il «non-altro» stesso; pertanto, la quiddità di Dio o del «non-altro» non è qualcosa di altro da qualsiasi altra quiddità, ma, in ogni altra quiddità, il «non-altro» è quella stessa quiddità e non un’altra56. È per questo che ad essa si aggiungono come accidenti delle cose che sono altre rispetto alla quiddità dell’altro stesso, perché un altro che fosse privo di qualcosa di altro sarebbe il «non-altro». Queste cose, che si accompagnano necessariamente alla quiddità dell’altro, sono pertanto dei riverberi della quiddità dell’altro, riverberi che sprofondano nell’ombra del nulla. Di conseguenza, la quiddità che è il «non-altro» è la quiddità della quiddità dell’altro57, la quale è lo splendore della quiddità che la precede. E ci sono altre cose che si aggiungono come accidenti a quella quiddità, nelle quali risplende la quiddità alla quale esse si aggiungono come accidenti. Dal momento che la quiddità, che con la mente vedo prima della quantità, non può essere immaginata senza la quantità, essa riceve nella facoltà immaginativa immagini diverse, che non possono sussistere senza una diversa quantità. E sebbene la quantità non appartenga all’essenza della quiddità, che la mente contempla al di sopra dell’immaginazione, e sebbene la quiddità che la mente vede non sia qualcosa di altro dalla quiddità che l’immaginazione coglie con la sua facoltà, la quantità, tuttavia, si accompagna necessariamente alla quiddità dell’immagine, in modo tale che, senza la quantità, non potrebbe esserci alcuna immagine58. Lo stesso si può dire a proposito della grandezza, la quale con la mente viene vista al di sopra dell’immaginazione e prima della quantità immaginata59, ma che nella facoltà immaginativa viene percepita come quantità. Tuttavia, quanto più l’immaginazione della quantità si è svincolata dalla quantità oscura e grossolana e quanto più essa è sottile e semplice, tanto più semplicemente e con tanta più certezza risplende in essa la quiddità della grandezza e tanto più è vera l’immagine della quantità. La quantità, in-
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cescit. Non enim quantitas aliquid est ad magnitudinis quidditatem, quasi ex eo constituatur, necessarium, cum maxima simplicitas sive indivisibilitas magna sit absque quantitate. Sed si debet imaginari magnitudo sive imaginabiliter apparere, statim quantitas est necessaria, tamquam sine qua hoc non sit possibile. Quantitas igitur est relucentia magnitudinis in sua imagine imaginabiliter. 30 Verum in intelligentia certius relucet. Magnum enim intellectum et scientiam magnam dicimus; ibi autem intellectualiter relucet magnitudo, separatim scilicet et absolute ante corpoream quantitatem, sed supra omnem intellectum verissime cernitur, scilicet supra et ante omnem modum cognitivum. Et ita incomprehensibiliter comprehenditur, incognoscibiliterque cognoscitur, sicut invisibiliter videtur. Quae quoniam supra hominis cognitionem est cognitio, non nisi negative in humaniter cognitis attrectatur. Nam non dubitamus, quin imaginabilis magnitudo non aliud quam imaginabilis sit, et sic intelligibilis non aliud quam intelligibilis, et ita magnitudinem illam videmus, quae in imaginabili imaginabilis et intelligibilis est in intelligibili, non illam, quae ‘non aliud’ ipsum est et ante aliud, qua non existente neque intelligibilis foret. Imaginabilis enim magnitudo magnitudinem praesupponit, quae est ante imaginabilem contractionem, et intelligibilis eam, quae ante contractionem intelligibilem, quae sic et sic relucet in speculo et aenigmate, ut, quae est ante aliud et modum et omne effabile et cognoscibile, cognoscatur, qualis est illa Dei, cu-
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il non-altro, viii 29-30
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fatti, non è qualcosa di necessario alla quiddità della grandezza, come se la grandezza fosse costituita dalla quantità, dal momento che la massima semplicità, o la massima indivisibilità, è grande senza quantità. Ma, se ci si deve rappresentare un’immagine della grandezza, o se essa deve apparire secondo l’immaginazione, allora la quantità si rende subito necessaria, come se, senza la quantità, l’immaginazione non fosse possibile. La quantità, pertanto, è il risplendere della grandezza nella sua immagine, come avviene nell’immaginazione. La grandezza, tuttavia, risplende con maggiore certezza nell’intelligenza. Parliamo, infatti, della grandezza dell’intelletto e della grandezza della scienza; qui, tuttavia, la grandezza risplende in modo intellettuale, e cioè prima di ogni quantità corporea, separata e svincolata da essa; nel modo più vero, tuttavia, la si scorge al di sopra di ogni intelletto, ossia al di sopra e prima di ogni forma di conoscenza. E così la si comprende in maniera incomprensibile e la si conosce in maniera inconoscibile, così come la si vede in maniera invisibile. Questa conoscenza, essendo al di sopra di ogni conoscenza umana, non può essere afferrata che negativamente nell’ambito delle cose che gli uomini possono conoscere. Noi, infatti, non dubitiamo che la grandezza rappresentabile in un’immagine sia non-altro che la grandezza rappresentabile in un’immagine, e allo stesso modo non dubitiamo che la grandezza conoscibile dall’intelletto sia non-altro che la grandezza conoscibile dall’intelletto; in questo modo, vediamo quella grandezza che dall’immaginazione è rappresentabile in un’immagine e quella che dall’intelletto è conoscibile nell’intelligibile, ma non vediamo quella grandezza che è il «non-altro» e che è prima dell’altro e senza la cui esistenza non ci sarebbe neppure la grandezza intelligibile. La grandezza rappresentabile in un’immagine presuppone, infatti, una grandezza che è anteriore alla sua contrazione in un’immagine, e la grandezza intelligibile presuppone una grandezza che è anteriore alla sua contrazione nell’intelligibile: una grandezza che risplende in questo o in quel modo, come «in uno specchio e per enigmi»60, in maniera tale che venga conosciuto ciò che precede l’altro, ciò che è prima di ogni modo d’essere e di tutto quanto è dicibile e conoscibile. Questo è il tipo di grandezza che appartiene a Dio, la cui grandezza è
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ius non est ullus finis: magnitudo, quae nullis cognoscibilibus terminis comprehenditur. 31 Ita universaliter quidditas, quae est ipsum ‘non aliud’, sese et rerum omnes definit quidditates, sicut est dictum de magnitudinis quidditate. Quemadmodum igitur ‘non aliud’ non est multiplicabile, quia est ante numerum, eodem modo et quidditas, quae ‘non aliud’, licet aliis in rebus aliisque in modis alia sit. Ferdinandus. Aperuisti mihi oculos, ut videre incipiam, quomodo se habeat veritas quidditatis; et in aenigmate quidditatis magnitudinis me ad gratissimam utique visionem perduxisti. Nicolaus. Bene nunc quidem clareque mente vides ipsum ‘non aliud’ in omni cognitione praesupponi et cognosci, neque quod cognoscitur ab ipso aliud esse, sed esse ipsum incognitum, quod in cognito cognite relucescit, sicut solis claritas sensibiliter invisibilis in iridis coloribus visibilibus visibiliter relucet varie in varia nube. 32
Capitulum IX.
Ferdinandus. Dic, rogo te, aliqua de universo, ut te sequens ad Dei melius subintrem visionem. Nicolaus. Dicam. Dum corporeis caelum oculis video terramque et quae in hiis sunt, et illa, quae vidi, ut universum imaginer, colligo, intellectualiter conspicio quodlibet universi suo in loco et congruenti ordine ac pace, pulchrum contemplor mundum et cum ratione omnia fabrefacta, quam in omnibus comperio relucere tam in hiis, quae tantum sunt, quam in hiis, quae sunt simul et vivunt, in hiisque, quae pariter sunt, vivunt et intelligunt, in primis quidem obscurius, vivacius in secundis et clarius, in tertiis vero lu-
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senza fine, ossia è una grandezza che non può essere compresa mediante nessuna determinazione della conoscenza. Come abbiamo detto a proposito della quiddità della grandezza, così, in generale, la quiddità che è il «non-altro» definisce se stessa e tutte le quiddità delle cose. Pertanto, come il «non-altro» non è moltiplicabile, dal momento che precede il numero61, allo stesso modo non è moltiplicabile la quiddità che è il «non-altro», per quanto nelle altre cose essa sia queste altre cose e negli altri modi d’essere essa sia questi altri modi d’essere. Ferdinando. Mi hai aperto gli occhi, e così comincio a vedere quale sia la verità a proposito della quiddità. E attraverso l’immagine enigmatica della quiddità della grandezza mi hai condotto ad una visione per me graditissima. Nicola. Ora con la tua mente vedi bene e con chiarezza che, in ogni conoscenza, è presupposto e conosciuto il «non-altro», e che ciò che è conosciuto non è qualcosa di altro da esso, ma è lo stesso «non-altro» in quanto non-conosciuto, il quale risplende in modo conoscibile in ciò che viene conosciuto, così come la luce del sole, che è invisibile agli occhi dei sensi, risplende in maniera visibile nei colori visibili dell’arcobaleno, in modi diversi secondo le diverse nuvole.
Capitolo ix
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Ferdinando. Dimmi ora qualcosa, ti prego, circa l’universo62, in modo tale che, seguendoti, possa addentrarmi meglio nella visione di Dio. Nicola. Lo farò. Quando, con gli occhi corporei, vedo il cielo e la terra e le cose che si trovano in essi, e quando, per farmi un’immagine dell’universo, raccolgo insieme ciò che ho visto, scorgo con l’intelletto che ogni cosa dell’universo è nel posto che è ad essa proprio, è inserita in un ordine ad essa adeguato ed è in pace; allora contemplo la bellezza del mondo e vedo che tutto è stato fatto abilmente secondo un principio razionale che scopro risplendere in tutte le cose, tanto in quelle che sono solamente, quanto in quelle che sono e vivono, come in quelle che sono, vivono e intendono63: nelle prime, certamente, in maniera più oscura, in maniera più vi-
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cidissime et in singulis modis varie in variis. Deinde ad ipsam me rerum rationem converto, quae mundum praecedit et per quam mundum video constitutum, et illam incomprehensibilem invenio. Non enim haesito ipsam mundi rationem, per quam omnia rationabiliter facta sunt, omnem cognitionem praesupponere et in creatis ipsam omnibus elucere, cum nihil sit factum absque ratione; ipsam tamen minime comprehendo. Nam si ipsam comprehenderem, profecto cur mundus sic est et non aliter scirem, cur sol sol, luna luna, terra terra et quodvis id, quod est et nec aliud, nec maius, nec minus; quippe si statim haec scirem, non ego essem creatura et portio universi, quia ratio mea esset ars universi creativa ita et suiipsius creatrix; quare ipsum ‘non aliud’ comprehendo, quando quidem universi rationem non esse comprehensibilem video, cum antecedat omne comprehensibile: ipsam igitur incomprehensibilem, quod in comprehensibilibus comprehensibiliter relucet, perspicio. Ferdinandus. Difficile comprehenditur, quod esse praecedit. 33 Nicolaus. Forma dat esse et cognosci; ideo quod non est formatum, quia praecedit aut sequitur, non comprehenditur, sicut Deus et hyle et nihil et talia. Quando illa visu mentis attingimus, supra vel citra comprehensionem attingimus; sed sine verbo visionem communicare non valentes sine li esse, quod non est, explicare non possumus, quia aliter audientes non comprehenderent. Unde hae mentis visiones, sicut sunt supra comprehensionem, sic etiam supra expressionem. Et locutiones de ipsis sunt impropriae, praecisione carentes, sicut cum dicimus materiam esse materiam, hyle esse hyle, nihil esse nihil et huiusmodi. Oportet igitur specu-
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vida e chiara nelle seconde e in maniera del tutto evidente nelle terze, ed in ciascuno di questi modi d’essere in maniera diversa nelle diverse cose. Poi mi rivolgo al principio razionale stesso delle cose, che precede il mondo e attraverso il quale, come vedo, il mondo è stato costituito64, e scopro che esso è incomprensibile. Non ho certo alcun dubbio sul fatto che ogni conoscenza presupponga questo principio razionale del mondo, attraverso il quale tutto è stato fatto in modo razionale e che questo principio razionale risplenda in tutte le cose create, dal momento che nulla è stato fatto senza di esso65, e tuttavia non lo comprendo in alcun modo. Infatti, se lo comprendessi saprei certamente perché il mondo è così e non altrimenti, perché il sole è sole, la luna luna, la terra terra, e perché qualsivoglia altra cosa è ciò che essa è e non un’altra, né più grande, né più piccola66. In effetti, se io sapessi queste cose, cesserei subito di essere una creatura e una parte dell’universo, perché la mia ragione sarebbe l’arte creatrice dell’universo e sarebbe così anche la creatrice di se stessa67. Per questo motivo, quando vedo che il principio razionale dell’universo non è comprensibile, dal momento che precede tutto ciò che può essere compreso, io comprendo il «non-altro» stesso: questo principio razionale incomprensibile, quindi, lo scorgo perché esso risplende in maniera comprensibile nelle cose comprensibili. Ferdinando. È difficile da comprendere ciò che precede l’essere. Nicola. È la forma che dà l’essere68 e l’essere conosciuto; per questo, ciò che non ha alcuna forma, o perché precede, o perché segue la forma, non può essere compreso69, [come] ad esempio Dio, la materia, il nulla e simili70. Quando giungiamo a cogliere queste realtà con la vista della mente, vi giungiamo al di sopra o al di sotto di ogni comprensione; ma, dal momento che, senza la parola, non siamo in grado di comunicare ciò che vediamo, non possiamo spiegare ciò che non è senza ricorrere al verbo «essere», perché, altrimenti, coloro che ci ascoltano non comprenderebbero71. Queste visioni della mente, quindi, come sono al di sopra di ogni comprensione, così sono al di sopra anche di ogni espressione. E il linguaggio, di cui ci serviamo per esprimerle, è improprio, manca di precisione, come quando diciamo che la materia è la materia, la hyle è la hyle, il nulla è il nulla, e così di seguito. È necessario, pertanto, che
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lantem facere; uti facit videns per vitrum rubeum nivem, qui nivem videt et apparentiam rubedinis non nivi, sed vitro attribuit, ita facit mens per formam videns informatum. 34 Ferdinandus. Quo pacto hoc verum videbo, quod theologi dicunt omnia Dei creata voluntate? Nicolaus. Voluntas Dei est ‘non aliud’, nam velle determinat; quo autem voluntas perfectior, eo rationabilior atque ordinatior. Voluntas igitur, quae ante aliud ‘non aliud’ cernitur, non est alia a ratione, neque sapientia, nec alio quolibet nominabili. Si voluntatem igitur esse ipsum ‘non aliud’ vides, ipsam esse rationem, sapientiam, ordinem et talia vides, a quibus non est aliud; et sic illa vides voluntate omnia determinari, causari, ordinari, firmari, stabiliri et conservari, et in universo relucere, sicut Traiani in sua columna, voluntatem, in qua sapientia est atque potentia. Nam cum posteris gloriam suam ostendere Traianus vellet, quae non nisi in aenigmate ostendi sensibili potuit sensibilibus, quibus gloriae suae praesentiam exhiberi fuit impossibile: hoc fecit in columna, quae sua dicitur, quia sua voluntate id est columna quod est, et non est ipsa columna aliud ab eius voluntate, licet columna nequaquam sit voluntas, sed quidquid est columna, hoc habet ab ipsa voluntate, quae ipsam definit et terminat; sed in voluntate sapientia cernitur ordoque, quae relucet in sculpturis rerum bellicarum peractis cum felicitate; in pretiositate quoque operis, quod ab impotente perfici non potuisset, Traiani potentia relucet. 35 Eo te iuvabis aenigmate, ut videas regem regum, qui per ‘non aliud’ significatur, ad gloriae suae ostensionem voluntate, in qua est sapientia et potentia, universum et quamlibet eius partem creasse, quae etiam triniter relucet in omnibus, essentialiter scilicet, intelli-
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colui che riflette faccia come fa colui che vede la neve attraverso un vetro rosso: vede la neve e il fatto che gli appaia rossa non l’attribuisce alla neve, ma al vetro72; in modo analogo procede anche la mente, la quale vede ciò che è senza forma attraverso la forma. Ferdinando. Come posso allora riconoscere come vero quanto sostengono i teologi, ossia che tutte le cose sono create dalla volontà di Dio?73 Nicola. La volontà di Dio è il «non-altro», perché è essa che determina il volere; e quanto più una volontà è perfetta, tanto più è razionale e ordinata74. Di conseguenza, la volontà, che è anteriore all’altro e viene riconosciuta come «non-altro», non è qualcosa di altro dalla ragione75, dalla saggezza, o da qualsiasi altra cosa possiamo nominare. Se, pertanto, vedi che la volontà è «non-altro», vedi che essa è ragione, sapienza, ordine, rispetto alle quali essa non è qualcosa di altro. E così vedi che tutte le cose sono determinate, causate, ordinate, rese salde, stabilite e conservate attraverso la volontà, e vedi che questa volontà, nella quale c’è la sapienza e il potere, risplende in tutto l’universo, come la colonna di Traiano risplende nella sua colonna. In effetti, quando volle rendere manifesta ai posteri la sua gloria, Traiano lo fece per mezzo di una colonna, in quanto a degli esseri sensibili, ai quali sarebbe stato impossibile esibire direttamente la sua gloria, questa non poteva essere mostrata se non per mezzo di un’immagine sensibile. Questa colonna viene chiamata colonna di Traiano perché è grazie alla sua volontà che essa è ciò che è, e perché questa colonna non è qualcosa di altro dalla sua volontà, per quanto la colonna non sia affatto la sua volontà; tutto ciò che essa è, tuttavia, questa colonna lo deve alla sua volontà, che la definisce e la determina. Ora, all’interno della volontà è possibile distinguere l’ordine e la sapienza, la quale risplende nelle sculture delle imprese belliche concluse felicemente, mentre nella preziosità dell’opera, che non avrebbe potuto essere realizzata da un incapace, risplende la potenza di Traiano. Questo esempio ti aiuterà a vedere come il Re dei Re76, che noi designamo con l’espressione «non-altro», per manifestare la sua gloria abbia creato l’universo ed ogni sua parte mediante la sua volontà77, nella quale vi sono sono sapienza e potenza. Questa sua volontà risplende in tutte le cose in un triplice modo: nell’essere, nel-
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gibiliter et desiderabiliter, ut in anima nostra experimur. Nam ibi relucet ut principium essendi, a quo anima habet esse, et ut principium cognoscendi, a quo cognoscere, et ut principium desiderandi, a quo habet et velle, et suum unitrinum in hiis principium speculando ad eius ascenditur gloriam. Ferdinandus. Optime ista sic esse contemplor et video voluntatem, quae ‘non aliud’, creatricem ab omnibus desiderari et nominari bonitatem. Nam quid desiderant omnia, quae sunt? non aliud utique quam esse; quid quae vivunt? non aliud quam vivere; et quae intelligunt? non aliud quam intelligere. Hoc igitur quodlibet desiderat, quod ab ipso est ‘non aliud’. ‘Non aliud’ vero cum ab aliquo non sit aliud, ab omnibus summopere desideratur tamquam principium essendi, medium conservandi et quiescendi finis. Nicolaus. Recte in ipsum ‘non aliud’ intendis, in quo omnia elucescunt. 36
Capitulum X.
Ferdinandus. Quidam theologorum creaturam aiebant non aliud quam Dei participationem. Circa hoc te audire percupio. Nicolaus. Primum tu vides quidem ipsum ‘non aliud’ innominabile, quia nullum nomen ad ipsum attingit, cum omnia praecedat; omne nomen tamen id est, quod est, ipsius participatione; nominatur igitur minime nominabile. Sic in omnibus imparticipabile participatur. Sunt sane quae obscure ‘non aliud’ participant, quia confuse atque generaliter; sunt quae magis specifice; sunt quae specialissime, sicut animae vitam aliqua membra obscure, aliqua
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la conoscenza e nel desiderio, come possiamo sperimentare nella nostra anima78. Nella nostra anima, infatti, essa risplende come principio dell’essere, dal quale l’anima ha l’essere, come principio del conoscere, dal quale essa possiede la conoscenza, e come principio del desiderio, dal quale possiede la volontà; ed è contemplando in questi principi il suo principio unitrino che l’anima si eleva alla gloria di Dio. Ferdinando. Vedo benissimo che le cose stanno proprio così ed osservo che la volontà creatrice, che è il «non-altro», viene desiderata da tutte le cose e le viene attribuito il nome di bontà. Infatti, che cosa desiderano tutte le cose che sono? Certamente, non-altro che essere. E le cose che vivono? Non-altro che vivere. E quelle che intendono? Non-altro che intendere. Pertanto, ogni cosa desidera ciò che è non-altro da se stessa. Ora, dal momento che il «non-altro» non è altro rispetto a nessuna cosa, esso è ciò che tutte le cose sommamente desiderano, come principio del loro essere, come mezzo della loro conservazione e come fine ultimo in cui possono trovare la loro quiete79. Nicola. Ti volgi nella giusta direzione verso il «non-altro», nel quale tutte le cose risplendono.
Capitolo x
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Ferdinando. Certi teologi80 hanno sostenuto che la creazione non è altro che una partecipazione a Dio81. Mi piacerebbe molto ascoltarti su questo argomento. Nicola. Anzitutto, vedi che il «non-altro» è innominabile, perché nessun nome gli si addice, dal momento che precede tutte le cose. Ogni nome, tuttavia, è ciò che è per il fatto che partecipa del «non-altro»; è per questo che il «non-altro» viene nominato come ciò che non è in alcun modo nominabile. Allo stesso modo, il «nonaltro», che è impartecipabile82, viene partecipato da tutte le cose. In effetti, vi sono cose che partecipano del «non-altro» in modo oscuro, in quanto partecipano di esso in maniera confusa e generica, ve ne sono altre che partecipano di esso in modo più specifico, ed altre ancora in modo assolutamente speciale. È quello che accade, ad esempio, alle membra del corpo: alcune partecipano della
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clarius, aliqua vero specialissime participant; potentiae item animae aliae clarius, aliae obscurius participant intelligentiam. Creaturae quoque, quae minus ab aliis aliae sunt, veluti purae intelligentiae, de ipso plus participant. At quae magis ab aliis aliae sunt, ut puta corporales, quae sese uno non compatiuntur loco, de natura eius, quae non aliud est ab aliquo, minus participant. 37 Ferdinandus. Video ita se habere quae dixisti; sed adhuc, quae so, adicere ne pigriteris, quonam id modo verum videtur, quod rerum essentiae incorruptibiles sunt. Nicolaus. Primum non haesitas tu quidem ipsum ‘non aliud’ esse incorruptibile; si enim corrumperetur, in aliud corrumperetur; posito autem aliud et ‘non aliud’ ponitur; non est igitur corruptibile. Deinde certum est ipsum ‘non aliud’ se et omnia definire. Omnes igitur rerum essentiae nisi ipsius ‘non aliud’ non sunt. Ex quo ipsum ‘non aliud’ igitur in ipsis est, ipsae essentiae quomodo ‘non aliud’ perdurante corrumperentur? Sicut enim ipsum ‘non aliud’ essentias praecedit et omne nominabile, ita mutabilitatem ac fluxibilitatem, quae in alterabili materia radicatur, praecedunt essentiae. ‘Non aliud’ quidem non est essentia, sed, quia in essentiis essentia, essentia dicitur essentiarum. Dicebat Apostolus: «Quae videntur, temporalia sunt; quae non videntur, aeterna.» Materialia enim sunt, quae sensu quocumque sentiuntur, et secundum materiae naturam fluxibilia atque instabilia; quae vero non videntur sensibiliter et tamen sunt, temporaliter quidem esse non videntur, verum sunt aeterna. Dum essentiam in alio, ut in Socrate vides humanitatem, ipsam in alio aliam vides, ideoque propter hoc in Socrate corruptibili per accidens esse corruptibilem. Sin eam ab alio videas separatam et in ‘non alio’, nempe secundum ipsius naturam, in quo illam vides, ipsam vides incorruptibilem.
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vita dell’anima in modo oscuro, altre più chiaramente ed altre ancora in maniera assolutamente speciale; allo stesso modo, anche le facoltà dell’anima partecipano dell’intelligenza alcune in maniera più oscura, altre più chiara. Così avviene anche per le creature: quelle che hanno meno alterità delle altre, come le intelligenze pure, partecipano di più del «non-altro». E quelle che che hanno maggiore alterità rispetto alle altre, come le creature corporee, che non possono occupare un unico e medesimo luogo, partecipano di meno della natura di ciò che è «non-altro» da nulla. Ferdinando. Vedo che le cose stanno come tu hai detto; ma ora ti prego di non indugiare ad aggiungere in che modo sia possibile vedere che è vero che le essenze delle cose sono incorruttibili. Nicola. In primo luogo, non dubitare del fatto che il «non-altro» sia incorruttibile; se infatti si corrompesse, si corromperebbe diventando qualcos’altro; ma posto l’altro, è posto anche il «non-altro»; dunque, il «non-altro» non è corruttibile. In secondo luogo, è certo che il «non-altro» definisce se stesso e tutte le cose. Di conseguenza, tutte le essenze delle cose non sono se non essenze dello stesso «non-altro». Pertanto, dato che il «non-altro» è in esse, in che modo queste essenze potrebbero corrompersi se «il non-altro» continua a sussistere? In effetti, come il «non-altro» precede l’essenza e tutto ciò che è nominabile, così le essenze precedono la mutevolezza, il fluire, che hanno la loro radice nella materia alterabile. Certo, il «non-altro» non è un’essenza, ma, poiché nelle essenze esso è essenza, viene chiamato l’«essenza delle essenze»83. Ha detto l’Apostolo: «Le cose che si vedono sono temporali, quelle che non si vedono sono eterne»84. Le cose materiali, infatti, sono quelle che vengono percepite da uno qualunque dei sensi e che, conformemente alla natura della materia, sono instabili e mutevoli; le cose, invece, che non vengono viste sensibilmente e che tuttavia esistono sono quelle che non appaiono nel tempo, ma che sono piuttosto eterne. Quando un’essenza la vedi in qualcos’altro, come quando vedi l’umanità in Socrate, la vedi come altra in questo altro, ed è per questo motivo che in Socrate, che è corruttibile, vedi che essa è per accidente corruttibile. Ma se la vedi separata dall’altro e nel «non-altro», la vedi incorruttibile, conformemente alla natura di ciò in cui la vedi.
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Videris essentiam illam, quam ‘non aliud’ praecedit et aliud sequitur, ideam sive speciem dicere. Nicolaus. Sic rerum exemplaria ante res et post Deum vidit Plato; namque rem ratio rei antecedit, cum per ipsam fiat; varietas autem rerum varias dicit rationes, quas oportet post fontem esse, a quo secundum ipsum emanant. Sed quia ‘non aliud’ ante res est, quod adaequatissima causa est, cur quodlibet id est, quod est, ‘non aliud’ autem multiplicabile non est: idcirco rerum ratio, quae aliud praecedit, et numerum praecedit et pluralitatem et innumerabilis secundum res ipsam participantes numeratur. 39 Ferdinandus. Videris dicere rerum essentias non esse, verum unam esse, quam rationem asseveras. Nicolaus. Nosti tu quidem unum, essentiam, ideam, formam, exemplar sive speciem ‘non aliud’ ista non attingere. Quando igitur in res intueor ipsarum essentias videns, cum res quidem per ipsas sint, per intellectum eas ipsas prioriter contemplando alias et alias assevero. Quando ipsas vero supra intellectum ante aliud video, non video alias aliasque essentias, sed non aliud quam essentiarum, quas in rebus contemplabar, simplicem rationem; et ipsam ‘non aliud’ aut essentiarum essentiam appello, cum sit quidquid omnibus in essentiis cernitur. 40 Ferdinandus. Essentiae igitur esse essentiam dicis, quod eam ob rem Aristoteles non admisit, ne in infinitum transitus fieret nunquamque deveniretur ad primum et scientia omnis interiret. Nicolaus. Recte dicebat Aristoteles in infinitum non posse pertransiri, prout quantitas mente concipitur, ideoque ipsum
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Ferdinando. Sembra che tu stia dicendo che quell’essenza, che è preceduta dal «non-altro» e a cui segue l’altro, è l’idea o la specie. Nicola. Questo è il modo in cui Platone85 ha considerato gli esemplari delle cose, i quali sono anteriori alle cose e posteriori a Dio; il principio razionale di una cosa, in effetti, precede la cosa, in quanto è attraverso il principio razionale che la cosa è fatta; la varietà delle cose, invece, attesta una varietà di principi razionali, i quali devono necessariamente essere posteriori alla fonte da cui, secondo Platone, essi emanano. Poiché tuttavia il «non-altro» è anteriore alle cose, in quanto è la causa assolutamente adeguata per la quale qualunque cosa è ciò che essa è, il «non-altro» non è moltiplicabile: per questo, il principio razionale delle cose, che precede l’altro, precede anche il numero e la molteplicità, e, sebbene non numerabile, viene numerato in corrispondenza con le cose che ne partecipano. Ferdinando. Sembra che tu stia dicendo che non ci sono molteplici essenze delle cose, bensì un’unica essenza, che tu chiami principio razionale86. Nicola. Hai appreso che le espressioni «uno», «esenza», «idea», «forma», «esemplare» o «specie» non si applicano al «non-altro». Pertanto, quando osservo le cose e vedo le loro essenze, allora, dato che le cose sono grazie alle loro essenze, contemplando attraverso l’intelletto tali essenze come anteriori [rispetto alle cose], sostengo che esse sono diverse le une dalle altre. Ma, quando le vedo al di sopra dell’intelletto e prima dell’altro, non vedo le essenze come diverse le une dalle altre, ma non vedo altro che il semplice principio razionale di quelle essenze che contemplavo nelle cose; e questo principio io lo chiamo «non-altro» o «essenza delle essenze», in quanto è ciò che viene colto in tutte le cose. Ferdinando. Tu sostieni, quindi, che vi è un’essenza delle essenze, cosa, questa, che Aristotele non ha ammesso per evitare che vi fosse un regresso all’infinito87, che non si pervenisse mai ad un termine ultimo e che perisse così ogni conoscenza. Nicola. Aristotele ha detto giustamente che non è possibile procedere all’infinito per quanto concerne la quantità che viene
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excludit; sed uti est ante quantitatem atque omne aliud et in omnibus omnia, eiusmodi non refutavit infinitum, sed ad ipsum cuncta deduxit ut de primo motore, quem virtutis repperit infinitae; et hanc participari in omnibus virtutem vidit, quod equidem infinitum ‘non aliud’ dico. Unde ‘non aliud’ formarum est forma sive formae forma et speciei species et termini terminus et de omnibus eodem modo sine eo, quod sic ulterius in infinitum sit progressus, cum iam ad infinitum omnia definiens sit perventum. 41
Capitulum XI.
Ferdinandus. Velis, optime pater, aliquo aenigmate me ducere ad dictorum visionem, ut melius quid velis intuear. Nicolaus. Perlibenter! Videsne hunc lapillum carbunculum, quem rustici rubinum nuncupant, hac ipsa tertia noctis hora, tempore et loco obscurissimo, nec opus candela esse, quia in eo lux est? Quae dum se ipsam vult exserere, medio lapilli hoc facit, quia in se esset sensui invisibilis; non enim occurreret sensui ideoque nequaquam sentiretur, cum nisi obvium sibi sensus non cognoscat. Illa igitur lux, quae fulgescit in lapillo, ad lucem, quae in oculo est, id defert, quod de lapillo illo visibile est. Considero autem quomodo carbunculorum alius plus, alius minus fulget, et perfectior is est, qui fulgidior et maior quantitate, minor autem fulgore ille quidem ignobilior; fulgoris igitur intensitatem eius pretiositatis mensuram perspicio non autem corporis molem, nisi secundum ipsam fulgoris etiam intensitas sit micantior. Non ergo molis quantitatem de carbunculi essentia video, quia et parvus lapillus carbunculus est, sicut et magnus. Ante magnum igitur corpus et parvum carbunculi substantiam cerno. Ita de colore, figura et ceteris eius ac-
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concepita dalla mente, ed è per questo che egli esclude tale infinito; ma, in quanto l’infinito è anteriore alla quantità e ad ogni altra cosa ed è tutto in tutte le cose, un tale infinito Aristotele non l’ha rifiutato, ma anzi ha ricondotto ad esso tutte le cose come al primo motore dal quale tutte derivano88 e nel quale egli ha riconosciuto una forza infinita; e ha visto che tutte le cose partecipano di questa forza: a questo infinito io dò il nome di «non-altro». Quindi, il «nonaltro» è la forma delle forme o la forma della forma89, la specie delle specie, il termine del termine, e così di seguito per tutto, senza che in ciò vi sia alcun ulteriore procedere all’infinito, dal momento che abbiamo già raggiunto l’infinito che definisce tutte le cose.
Capitolo xi
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Ferdinando. Non ti dispiaccia, padre carissimo, di guidarmi alla visione di ciò che è stato detto mediante un’altra immagine, in modo che io possa comprendere meglio ciò che tu intendi dire90. Nicola. Volentieri. Questa pietra di carbonchio, che i contadini chiamano rubino91, non la vedi tu forse anche in questa ora terza della notte, in un’ora e in un luogo che sono nell’oscurità più completa e senza che vi sia neppure bisogno di una candela perché la luce è in essa?92 Quando questa luce vuole farsi vedere, lo fa per mezzo della pietra, perché in se stessa sarebbe invisibile al senso [della vista]; altrimenti, infatti, non si renderebbe presente al senso e non verrebbe pertanto mai percepita da esso, in quanto il senso percepisce solo ciò che gli si fa incontro. Pertanto, la luce che risplende nella pietra trasmette alla luce che è nell’occhio ciò che di quella pietra è visibile93. Osservo, tuttavia, che, fra i carbonchi, alcuni brillano di più, altri di meno, e che è più perfetto quello che brilla di più e che è più grande, mentre è di minor valore quello con minore splendore. Riconosco, quindi, che la misura della preziosità della pietra è l’intensità dello splendore, non la sua grandezza fisica, a meno che l’intensità dello splendore non sia maggiore in rapporto alla grandezza della pietra. Vedo pertanto che la grandeza fisica non appartiene all’essenza del carbonchio, poiché una pietra piccola è un carbonchio come lo è quella grande. La sostanza del carbonchio, quindi, la scorgo prima della grandezza o della picco-
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cidentiis. Unde omnia, quae visu, tactu, imaginatione de carbunculo attingo, carbunculi non sunt essentia, sed quae ei accidunt cetera, in quibus, ut sensibilis sit, ipsa enitescit, quia sine illis nequit esse sensibilis. 42 Illa igitur, quae accidens praecedit, substantia ab accidentibus nihil habet. Sed accidentia habent ab ipsa omnia, quoniam eius sunt accidentia seu substantialis lucis eius umbra vel imago. Lux igitur illa substantialis carbunculi in clarioris fulgore splendentiae se clarius ostendit ut in similitudine propinquiori. Carbunculi autem hoc est rubini color, rubeus scilicet, non nisi lucis terminus est substantialis, non autem substantia, sed est similitudo substantiae, quia extrinsecum est sive sensibilis. Lux igitur substantialis, quae praecedit colorem et omne accidens, quod quidem sensu et imaginatione potest apprehendi, intimior et penitior carbunculo est et sensui ipsi invisibilis, per intellectum autem, qui ipsam anterioriter separat, cernitur; ipse sane illam carbunculi substantiam videt non aliud quam carbunculi esse substantiam; et ideo ipsam etiam ab omni substantia non carbunculi aliam videt. Et hoc in aliis atque aliis operationibus experitur, quae substantiae carbunculi virtutem sequuntur et non alterius rei cuiuscumque. Quia igitur sic aliam substantialem invisibilem carbunculi lucem videt, aliam substantialem invisibilem magnetis substantiam, solis aliam, aliam leonis et ita de omnibus: substantialem lucem in visibilibus omnibus aliam et aliam videt, et ante omne sensibile intelligibilem, cum substantia, quae prior accidente videtur, non nisi intellectu videatur, qui solum videt intelligibile.
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lezza dell’oggetto fisico. Lo stesso vale per quanto riguarda il colore della pietra, la sua forma e gli altri suoi accidenti. Pertanto, tutte le cose che del carbonchio io colgo con la vista, con il tatto, con l’immaginazione, non sono l’essenza del carbonchio, ma sono quelle altre cose che si aggiungono ad essa come degli accidenti, nelle quali l’essenza risplende in modo da essere percepibile ai sensi, giacché senza di esse [questi accidenti] l’essenza non può risultare percepibile ai sensi. Pertanto, la sostanza, che precede gli accidenti, non riceve nulla dagli accidenti94. Gli accidenti, invece, ricevono tutto dalla sostanza, dal momento che essi sono accidenti della sostanza, ossia sono l’ombra o l’immagine della sua luce sostanziale. Pertanto, quella luce sostanziale del carbonchio si mostra con più chiarezza, come in un’immagine ad essa più prossima, nel brillare di uno splendore più luminoso. Ma il colore del carbonchio, e cioè del rubino, ossia il rosso, non è che il punto terminale della luce sostanziale; non è la sostanza, ma è un’immagine della sostanza, in quanto esso è esterno e percepibile sensibilmente. La luce sostanziale, che precede il colore ed ogni accidente che può essere appreso con i sensi e con l’immaginazione, è pertanto qualcosa di più interno al carbonchio e di più profondo; essa è invisibile ai sensi, ma viene colta dall’intelletto, che la coglie separatamente e prima degli accidenti. L’intelletto, infatti, vede certamente che la sostanza del carbonchio è non-altro che la sostanza del carbonchio, e così vede anche che essa è altra rispetto ad ogni sostanza che non sia quella di un carbonchio. E questo l’intelletto lo sperimenta in tutti i diversi effetti che conseguono dalla forza della sostanza del carbonchio e non da quella di qualsiasi altra cosa. Dunque, poiché l’intelletto vede in questo modo che la luce invisibile e sostanziale del carbonchio è una cosa, un’altra cosa è la sostanza invisibile e sostanziale del magnete, un’altra è quella del sole, un’altra ancora è quella del leone, e così di seguito per tutte le cose, esso vede che in tutte le cose visibili la luce sostanziale è di volta in volta altra, e vede che l’intelligibile precede tutto ciò che è sensibile, dal momento che la sostanza, che viene vista prima dell’accidente, non viene vista se non con l’intelletto, il quale vede solamente l’intelligibile.
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Acutius deinde mente introspiciens in universum ipsum et eius singulas partes is videt, quod sicut carbunculi substantia a sua quantitate non est alia colore, duritie et reliquis, quando quidem eius sunt accidentia et ipsa in ipsis est omnia quaecumque illa sunt, quamquam non est ipsa nec quantitas illa nec qualitas nec accidentium aliud, sed in ipsis ipsa, quae alia sunt atque alia, quoniam aliud accidens quantitas est, aliud qualitas et pari de omnibus modo: ita necessarium video, quod, cum alia carbunculi substantia sit, alia magnetis, alia hominis, alia solis, tunc in ipsis omnibus aliis aliisque substantiis ‘non aliud’ ipsum antecedere necesse est, quod quidem ab omnibus, quae sunt, non sit aliud, sed omnia in omnibus sit, omne id scilicet, quod in quocumque subsistit. Quemadmodum Ioannes Evangelista Deum lucem dicit ante aliud, scilicet tenebras, quia ipsum asserit lucem, in qua ullae non sunt tenebrae. Si lucem igitur id, quod ipsum est ‘non aliud’, dixeris, erunt creaturae tenebrae aliud. Sic mens cernit ultra intelligibilem substantialem lucem singulorum lucis principium ‘non aliud’, quia non aliud a singulis est substantiis.
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Capitulum XII.
Ferdinandus. Intelligere te equidem videor mihi; ut tamen experiar, dicito: Nonne tu admittis parvum hunc carbunculum esse alium ab illo grandiori? Nicolaus. Cur non admittam? Ferdinandus. At cum ambo sint carbunculi, substantia utique unius ab alterius substantia alia non videtur; unde sunt ergo ab invicem alia? 45 Nicolaus. Tu quidem in substantiam absolutam intueris, quae in aliis alia esse non potest per ipsam substantificatis, at quae, ut sensibilis fiat substantia, materiam requirit substantificabilem, sine qua non posset substantificari. Quomodo enim substantificari pos-
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Se uno, poi, con la mente scruta in modo più acuto l’universo e ciascuna delle sue singole parti, allora vede che la sostanza del carbonchio non è altra dalla sua quantità, dal suo colore, dalla sua durezza, ecc., dal momento che questi sono accidenti della sostanza, e la sostanza è in essi tutto ciò che essi sono, sebbene la sostanza non sia né la quantità, né la qualità, né nessuno degli accidenti, ma negli accidenti essa è questi accidenti, i quali sono diversi l’uno dall’altro, in quanto la quantità è un accidente, la qualità un altro accidente, e così di seguito per tutti gli accidenti. Allo stesso modo, vedo necessariamente che, essendo la sostanza del carbonchio una cosa, quella del magnete un’altra, quella dell’uomo un’altra, quella del sole un’altra, è necessario che il «non-altro» preceda tutte queste sostanze, che sono altre le une dalle altre, in quanto esso non è altro da tutte le cose che sono, ma è tutto in tutto, ossia in qualsiasi cosa è tutto ciò per cui essa sussiste. In modo simile, Giovanni Evangelista95 dice che Dio è la luce che è prima dell’altro, ossia prima delle tenebre; egli afferma, infatti, che Dio è una luce nella quale non vi sono tenebre. Pertanto, se chiami «luce» ciò che è «nonaltro», le creature, ossia l’altro, saranno allora le tenebre. Così, al di là della luce sostanziale intelligibile, la mente scorge il «non-altro» come principio della luce delle singole cose, in quanto esso non è altro dalle singole sostanze.
Capitolo xii Ferdinando. Mi sembra di comprenderti; tuttavia, perché possa verificarlo, dimmi: non ammetti forse che questo piccolo carbonchio è altro da quello più grande? Nicola. Perché non dovrei ammetterlo? Ferdinando. Ed essendo entrambi carbonchi, la sostanza dell’uno non sembra essere altra dalla sostanza dell’altro; per quale ragione, allora, essi si differenziano l’uno dall’altro? Nicola. Tu stai considerando la sostanza assoluta, la quale, nelle diverse cose che vengono rese sostanze grazie ad essa, non può essere qualcosa di altro; tuttavia, perché la sostanza assoluta diventi una sostanza percepibile sensibilmente, c’è bisogno di una materia sostanzializzabile, senza la quale essa non potrebbe essere so-
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set absque sensibiliter essendi possibilitate? Idcirco cum ab illo alius sit iste carbunculus, ex essendi possibilitate, in uno alia quam in altero, hoc evenire necesse est. Cum igitur materia sensibilis ad sensibilem substantiam necessaria sit, erit substantialis materia in sensibilibus, ex quo secundum substantialem hanc materiam, quae alia in alio est carbunculo, substantialiter duo carbunculi differunt. At vero secundum intelligibilem substantiam, quae essendi forma possibilis sensibilisque substantiae intelligitur, alii et alii duo non sunt carbunculi. 46 Ferdinandus. Erit igitur carbuncularis id est rubinalis substantia non alia a qualibet cuiusvis carbunculi substantia, cuius quidem extrema ei accidentia, ut sensibilis et materialis est, ipsam consequuntur. Nicolaus. Optime intelligis. Nam in diversis carbunculis est substantia, quae non est alia a quacumque cuiuslibet carbunculi substantia, licet neutrius substantia sit ob substantialis possibilitatis ipsorum et accidentium consequenter advenientium varietatem. Prima igitur substantia, quam intellectus videt separatam, est substantia seu forma specifica. Alia vero, quae sensibilis dicitur, est per primam et materiam specificabilem specificata. 47 Ferdinandus. Clarissima haec sunt. Sed nonne sic ipsum ‘non aliud’ se habere ad alias et alias intelligibiles substantias vides? Nicolaus. Praecise. Ferdinandus. Non erit igitur unum universum quasi unus iste carbunculus? Nicolaus. Quam ob rem hoc? Ferdinandus. Quia eius substantia a qualibet ipsius partis substantia alia non foret, puta eius substantia non foret alia a carbun-
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stanzializzata96. In che modo potrebbe infatti essere sostanzializzata, se non ci fosse la possibilità di essere in maniera sensibile?97 Pertanto, dal momento che questo carbonchio qui è altro da quello lì, è necessario che una tale differenza sia dovuta alla possibilità di essere98, che nel primo carbonchio è diversa da quella presente nel secondo. Di conseguenza, dal momento che la materia sensibile è necessaria per la sostanza sensibile, vi sarà una materia sostanziale nelle cose sensibili, e i due carbonchi, pertanto, differiscono nelle loro sostanze secondo questa materia sostanziale, che in un carbonchio è altra da quella presente nell’altro. Invece, secondo la sostanza intelligibile, che viene intesa dall’intelletto come la forma d’essere della sostanza possibile e della sostanza sensibile, i due carbonchi non si differenziano l’uno dall’altro. Ferdinando. La sostanza del carbonchio, dunque, ossia la sostanza del rubino, non sarà altra da qualunque sostanza di qualsiasi carbonchio, e da essa conseguono gli ultimi accidenti, ossia ciò che è percepibile sensibilmente e che è materiale. Nicola. Hai compreso perfettamente. Nei diversi carbonchi, infatti, c’è una sostanza che non è altra da qualunque sostanza di qualsiasi carbonchio, sebbene essa non sia la sostanza di nessuno di questi carbonchi, e ciò a motivo della varietà della loro possibilità sostanziale e degli accidenti che sopraggiungono di conseguenza. La sostanza prima, quindi, che l’intelletto vede come separata, è la sostanza specifica o la forma99. L’altra sostanza, invece, che viene detta sensibile, è specificata attraverso la sostanza prima e attraverso la materia specificabile. Ferdinando. Tutto questo è molto chiaro. Ma non ti sembra che questo sia il modo in cui il «non-altro» si rapporta alle sostanze intelligibili che sono differenti le une dalle altre? Nicola. Sì, precisamente. Ferdinando. L’universo non sarà allora uno come è uno questo carbonchio? Nicola. Per quale motivo? Ferdinando. Perché la sostanza dell’universo non sarebbe qualcosa di altro rispetto alla sostanza di una qualsiasi delle sue parti; ad esempio, non sarebbe qualcosa di altro dalla sostanza di
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culi vel hominis substantia, sicut nec hominis substantia a substantia manus eius, licet non sit manus, quae alia est substantia. Nicolaus. Quid tum? Ferdinandus. Absurdum profecto! Nam ipsum ‘non aliud’ substantia foret universi et ita ipsum universum foret, quod tamen video impossibile, quando ipsum ante universum et aliud conspicio. Universum vero illud utique aliud video. Nicolaus. Non aberras nec devias, Ferdinande; nam cum omnia ad Deum seu ‘non aliud’ ordinentur et nequaquam ad aliud post ipsum, non est considerandum universum quasi finis universorum; tunc enim Deus esset universum. Sed cum ad suum sint principium ordinata universa – per ordinem enim a Deo universa esse se ostendunt – ad ipsum igitur ut ordinis in omnibus ordinem sunt ordinata; omnia enim ordinat, ut ipsum ‘non aliud’ sive ordinis ordo in ordinatorum ad ipsum perfectione perfectius relucescat. 48
Capitulum XIII.
Ferdinandus. Colligendo quae iam intellexi ita in pluribus carbunculis aliquid cernit intellectus, quod eiusdem ipsos speciei efficit; et licet ipsis hoc insit omnibus ut specificans, anterioriter tamen ipsum tale ante pluralitatem illam carbunculorum intuetur ipsius ‘non aliud’ similitudinem, quia carbunculum quemlibet esse carbunculum facit, et carbunculi cuiuslibet est internum substantiale principium, quo subtracto carbunculus non manebit. 49 Hoc igitur specificum principium specificat carbunculi possibilitatem essendi specificabilem ipsique possibilitati esse tribuit actuale, quando quidem posse esse carbunculi facit actu suo actu esse carbunculum, quando confusam essendi possibilitatem
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un carbonchio o di un uomo, così come la sostanza di un uomo non è qualcosa di altro dalla sostanza della sua mano, benché non sia la mano, che è un’altra sostanza. Nicola. Ebbene? Ferdinando. Ma ciò sarebbe del tutto assurdo! Infatti, il «nonaltro» sarebbe la sostanza dell’universo e, con ciò, sarebbe lo stesso universo; ma io vedo che questo è impossibile, dal momento che scorgo che il «non-altro» è prima dell’universo e prima dell’altro. Vedo invece sicuramente che l’universo è questo altro. Nicola. Non ti inganni, né erri, Ferdinando; infatti, dal momento che tutte le cose sono ordinate a Dio, o al «non-altro», e non sono in alcun modo ordinate a ciò che è altro, che viene dopo di Lui, l’universo non dev’essere considerato come il fine di tutte le cose, perché allora l’universo sarebbe Dio. Ma, dal momento che tutte le cose sono ordinate al loro principio – ed è infatti attraverso il loro ordine che tutte le cose mostrano di derivare da Dio –, esse sono pertanto ordinate a Dio come all’ordine dell’ordine presente in tutte le cose100. Infatti, egli ordina tutte le cose, in modo tale che il «non-altro», ovvero l’ordine dell’ordine, risplende in modo più perfetto nella perfezione delle cose ordinate a Dio101.
Capitolo xiii Ferdinando. Riassumendo ciò che ho compreso finora: nei molti carbonchi l’intelletto discerne qualcosa che fa sì che essi siano della medesima specie. E sebbene questo qualcosa sia presente in tutti tutti i carbonchi come ciò che li costituisce in un’unica specie, esso, tuttavia, viene intuito prima di quella molteplicità dei carbonchi come un’immagine del «non-altro», in quanto è ciò che fa sì che ogni carbochio sia un carbonchio, ed è il principio sostanziale interno di ogni carbonchio, tolto il quale non rimarrà alcun carbonchio. Questo principio specifico, pertanto, specifica la possibilità di essere specificabile del carbonchio e conferisce a questa possibilità l’essere in atto, in quanto, con il suo proprio atto, fa sì che l’essere possibile del carbonchio sia un carbonchio in atto. Noi allora sperimentiamo che la possibilità di essere, che è in sé ancora indistinta,
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per specificum actum determinatam et specificatam experimur; et tunc illud, quod prius intellectualiter absolutum vidisti, in singulo carbunculo possibilitatis actum vides, quoniam actu est carbunculus, veluti si quis glaciem respiciens consideret fuisse prius fluidum rivulum, quem nunc concretam et stabilitam glaciem videt. Ille causam inspiciens reperiet, quomodo frigus, quod intellectualiter separatum videt, essendi quaedam species est, quae in concretam et stabilem glaciem omnium rivulorum materiam crustavit et perstrinxit congelabilem, ut quilibet rivulus ob ipsius causae suae actualis praesentiam actu glacies sit, quamdiu per ipsam, quominus effluat, continetur. Et licet a frigidis non reperiatur frigus separatum, intuetur tamen intellectus ut frigidorum causam ipsum ante frigida et frigefactum actu per frigus frigidabile cernit in frigidis, indeque ita glaciem ortam aut inveniri aut pruinam aut grandinem aut secundum frigidabilium varietatem eius generis reliqua. Sed quoniam materia frigidabilis calefactibilis quoque est, ideo in sese frigus alioquin incorruptibile propter materiam, sine qua nequaquam actu reperitur, dum ipsa per caliditatem utpote calefactibilis alteratur, per accidens in corruptionem cadit. Sic mihi videris ipse dixisse. 50 Quomodo etiam consequenter se habent ad specificas substantias accidentia intelligo. Sicut alia sunt, quae unam quam aliam glaciem consequuntur, alia item, quae nivem, pruinam, grandinem, cristallum et alium quemvis lapidem. Satis ex hiis naturae operibus apertis et patulis profundiora quoque reperio non aliter se habere, quam ipse breviter perstrinxisti, formas videlicet specificas et substantificas separatas per intellectum conspici ac in specificatis rebus substantificatisque modo praemisso attingi. De sensibilibus autem substantiis ad intelligibiles me per similitudinem erigo.
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viene determinata e specificata attraverso un atto specifico. E così, ciò che prima hai visto intellettualmente come del tutto separato, ora lo vedi nel singolo carbonchio come l’atto della possibilità, dal momento che il singolo carbonchio è un carbonchio in atto. È come se uno, guardando una superficie ghiacciata, riflettesse sul fatto che quello che ora vede come ghiaccio compatto e rigido prima era un ruscello che scorreva. Se egli investiga la causa di questo fenomeno, scoprirà che il freddo, che con l’intelletto vede come qualcosa di astratto, è una specie di essere che ha fatto indurire e condensare la materia congelabile di tutti i ruscelli, trasformandola in ghiaccio solido e rigido. Pertanto, ogni ruscello è in atto ghiaccio in virtù della presenza di questa causa che è in atto, e lo è fintanto che tale causa gli impedisce di scorrere. E sebbene il freddo non lo si trovi separato dalle cose fredde, l’intelletto, tuttavia, lo intuisce prima delle cose fredde come loro causa, e distingue nelle cose fredde ciò che può diventare freddo da ciò che è stato reso freddo in atto dal freddo; e riconosce che da tale causa si è formato il ghiaccio, o la neve, o la brina, o la grandine, o tutte le altre cose di questa specie, conformemente alla varietà delle cose che possono diventare fredde. Tuttavia, poiché la materia, che può diventare fredda, può egualmente diventare calda, il freddo, che in sé è altrimenti incorruttibile, incorre per accidente nella corruzione a motivo della materia, senza la quale non lo si trova mai in atto, e questo quando la materia viene alterata dal calore, com’è naturale per ciò che è suscettibile di diventare caldo. Mi sembra che questo sia ciò che tu hai detto. Comprendo anche in che modo gli accidenti si rapportino conseguentemente alle sostanze specifiche. Come ce ne sono alcuni che accompagnano un pezzo di ghiaccio piuttosto che un altro, ce ne sono altri che accompagnano la neve, la brina, la grandine, il cristallo, e qualsiasi altra pietra. Sulla base di queste chiare e manifeste opere della natura riconosco a sufficienza che anche le cose più profonde non stanno diversamente da come tu hai precedentemente indicato, ossia che le forme specificanti e sostanzializzanti vengono viste dall’intelletto come separate, mentre nelle cose specificate e sostantificate esse vengono apprese nel modo in cui abbiamo detto prima. Dalle sostanze sensibili mi elevo invece a quelle intelligibili per mezzo della similitudine.
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51 Nicolaus.
Video te meum quidem conceptum in exemplo naturae aptissimo dilucide explanasse et gaudeo; omnia enim eo pacto considerando perspicies. Nam quod parvo calore cristallum non dissolvatur, ut glacies, propter congelantis victoriam frigoris super aquae congelatae fluxibilitatem, plane ostendit, ubi materiae fluxibilitatem omnem forma in actu ponit, veluti in caelo, illius corruptionem non sequi. Ex quo impossibilem esse intelligentiis corruptionem, quae in sensibilibus est, patet, quod sunt a materia separatae, quae apta est alterari. Unde cum in intelligente intellectum calor, ut calefiat, non immutet, sicut in sentiente, ubi sensum immutat, facit, evidens est intellectum materialem non esse aut alterabilem, quia sensibilia, quorum propria immutatio est, non sensibiliter in eo, sed intellectualiter sunt; dumque acriter attente intellectum ante sensum esse consideras et idcirco nullo attingibilem sensu, omnia quaecumque in sensu sunt anterioriter in intellectu reperies. Anterioriter autem, hoc est insensibiliter, dico: sicut in intellectu frigus est ac frigidum in sensu, frigus in intellectu ad sensibile frigus anterioriter est; non enim sentitur, sed intelligitur frigus, cum frigidum ipsum sentiatur; sicut nec calor sentitur, sed calidum, ita nec aqua, sed aqueum, neque ignis, sed igneum in sensibilium regione reperitur. 52 Quod similiter de compositis omnibus est dicendum, quoniam omne sensibilis mundi tale simplex, quod est de regione intelligibilium, antecedit. Aliaque et alia intelligibilia ‘non aliud’ ipsum, simplicium intelligibilium simplicitas, praecurrit, quam ob rem ‘non aliud’ nequaquam in se, sed in simplici simpliciter, composite vero
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Nicola. Vedo che hai spiegato con chiarezza la mia idea per mezzo di un esempio estremamente appropriato tratto dalla natura, e me ne compiaccio; considerando la cosa in questa maniera, infatti, comprenderai a fondo tutto. Un cristallo di ghiaccio, ad esempio, non viene sciolto da una piccola quantità di calore, e questo perché il freddo che congela ha la meglio sulla fluidità dell’acqua congelata. Questo fatto mostra chiaramente che, là dove la forma attualizza l’intera fluidità della materia, come nel cielo, essa non viene coinvolta nella corruzione della materia. Da ciò risulta evidente che la corruzione, che si verifica nelle realtà sensibili, è impossibile per le realtà intelligibili, dal momento che esse sono separate dalla materia, la quale è ciò che è soggetto ad alterazione. Ora, quando si intende con l’intelletto il calore, quest’ultimo non modifica l’intelletto in modo da renderlo caldo, come modifica invece il senso quando si percepisce sensibilmente il calore. È evidente, pertanto, che l’intelletto non è materiale o alterabile, poiché le cose sensibili, delle quali è proprio il mutamento, sono presenti in esso non in modo sensibile, ma in modo intellettuale. Se consideri con grande attenzione e acutamente che l’intelletto precede i sensi, e che, per questo, non è afferrabile da nessuno di essi, scoprirai che tutto ciò che è nei sensi è anteriormente nell’intelletto. Dico «anteriormente», e cioè in maniera non sensibile: come la freddezza è nell’intelletto e il freddo nei sensi, così la freddezza che è nell’intelletto è anteriore rispetto al freddo che viene percepito sensibilmente; non si sente infatti la freddezza, ma la si intende con l’intelletto, mentre si sente il freddo; e come non si sente il calore, ma ciò che è caldo, così, nell’ambito delle cose percepibili sensibilmente, facciamo esperienza non dell’acqua, ma di ciò che è acquoso, non del fuoco, ma di ciò che è igneo. Questo lo si deve dire in modo simile a proposito di tutto ciò che è composto, perché ciò che è semplice e appartiene all’ambito intelligibile precede ogni cosa di questo genere [ogni cosa composta], che appartiene all’ambito sensibile. E il «non-altro», che è la semplicità degli intelligibili semplici, precede tutti gli intelligibili, che sono diversi gli uni dagli altri; per questo motivo, il «nonaltro» non viene mai conosciuto in se stesso, ma in ciò che è semplice viene conosciuto in modo semplice e in ciò che è composto in modo composto. Ciò che è semplice e ciò che è composto sono,
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intelligitur in composito, quae quidem sunt, ut sic dixerim, ‘non aliata’ eius, et a quibus scilicet ipsum ‘non aliud’ aliud non est. Video igitur, quomodo eorum, quae in regione sensibilium reperiuntur, quicquam sentitur, simplex eius, quod quidem intelligitur, antecedit; nec minus omnia, quae in intelligibilium reperiuntur regione, principium, quod ‘non aliud’ nominamus, antecurrit. Intellectuale quippe frigus eius praevenit causa, quae ipsum non aliud quam frigus esse definit. Sicut ergo intellectus per intellectuale frigus omnia sensibiliter frigida intelligit sine mutatione sui sive frigefactione, ita ipsum ‘non aliud’ per se ipsum sive ‘non aliud’ omnia intellectualiter existentia facit non alia quam id esse, quod sunt, sine sui vel mutatione vel alteritate. Et sicut frigidum sensibile intellectuale non est frigus, licet aliud ab ipso frigus nequaquam sit, sic frigus intellectuale principium non est primum, etsi primum principium, quod est ‘non aliud’, ab ipso non sit aliud. 53
Capitulum XIV.
Ferdinandus. Prime equidem et clarissime ita haec esse perspicio, quemadmodum ais, elicioque in intellectualibus ‘non aliud’ valde relucere principium, quoniam, etsi ipsa non sunt sensibilia, tamen a sensibilibus non sunt alia. Frigus enim a frigido non est aliud, ut dixisti, quoniam summoto frigore nec frigidum erit, neque esse intelligetur; sic intellectus se habet ad sensum; similiter ideo agens omne sibi simile producere video, quia omne id, quod est, ab ipso ‘non aliud’ habet; quapropter calor calefacere et frigefacere frigus nititur, et de omnibus eodem modo. Sed haec nunc ita sufficiant! Quaeso vero, ut iuxta tua promissa ab hoc me principio in magnum illum theologum Dionysium aliosque quam brevissime introducas.
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per così dire, i suoi «non-altri», ossia sono cose rispetto alle quali il «non-altro» non è altro. Vedo, pertanto, che fra le cose che possiamo trovare nell’ambito delle realtà sensibili, vi è qualcosa di semplice che viene colto mediante l’intelletto e che precede qualunque cosa venga percepita sensibilmente; e parimenti, il principio, che noi chiamiamo «non-altro», precede tutto ciò che si trova nell’ambito degli intelligibili. In effetti, la causa che definisce la freddezza, facendo sì che essa sia non-altro che freddezza, precede la freddezza intelligibile. Come l’intelletto, pertanto, attraverso la freddezza intelligibile conosce tutte le cose che vengono percepite sensibilmente come fredde, senza alcun mutamento da parte sua e senza diventare freddo, così il «non-altro», attraverso se stesso, ossia attraverso il «non-altro», e senza alcun mutamento o alterazione da parte sua, fa sì che tutte le cose che esistono intellettualmente siano non-altro che ciò che esse sono. E come il freddo percepibile sensibilmente non è la freddezza intelligibile, sebbene la freddezza intelligibile non sia affatto qualcosa di altro dal freddo sensibile, così la freddezza intelligibile non è il primo principio, anche se il primo principio, che è il «non-altro», non è altro da essa.
Capitolo xiv
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Ferdinando. Vedo molto bene e con estrema chiarezza che le cose stanno come dici, e ne desumo che, negli esseri intelligibili, il «non-altro» risplende nettamente come principio; infatti, benché non siano gli esseri sensibili, essi, tuttavia, non sono qualcosa di altro dagli esseri sensibili. La freddezza, infatti, non è qualcosa di altro dal freddo, come hai detto, perché, se viene tolta la freddezza, non ci sarà più neppure il freddo, né si saprà che esso c’è; questo è il modo in cui l’intelletto si rapporta ai sensi. In maniera simile, vedo che la ragione per la quale ogni agente produce qualcosa di simile a sé102 risiede nel fatto che riceve dal «non-altro» tutto ciò che esso è; è per questo che il calore tende a riscaldare, e il freddo a raffreddare, e lo stesso vale per tutte le cose. Ma per ora basti quanto abbiamo detto! Ti prego, invece, come mi hai promesso, di introdurmi, partendo da questo principio e nel modo più breve possibile, all’opera di quel grande teologo Dionigi.
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54 Nicolaus.
Obsequar tibi, quam fieri poterit brevissime, ut poscis. Dionysius, theologorum maximus, impossibile esse praesupponit ad spiritualium intelligentiam praeterquam sensibilium formarum ductu hominem ascendere, ut visibilem scilicet pulchritudinem invisibilis decoris imaginem putet; hinc sensibilia intelligibilium similitudines seu imagines dicit, Deum autem principium asserit intelligibilia omnia praecedere, quem scire se dicit nihil omnium esse, quae sciri possunt aut concipi. Ideo hoc solum de ipso credit posse sciri, quem esse inquit omnium esse, quod scilicet omnem intellectum antecedit. Ferdinandus. Dic eius, nisi tibi grave est, verba. Nicolaus. Alii aliter eius verba latine reddiderunt; ceterum ego ex fratris Ambrosii Camaldulensium generalis, novissimi interpretis, translatione, quae mihi proposito videbuntur inservire, ex ordine subiungam: 55 Ex capitulo primo Caelestis Hierarchiae: «Impossibile est hominem ad intelligentiam spiritualium ascendere, nisi formis et similitudinibus sensibilium ducatur, ut scilicet visibilem pulchritudinem invisibilis decoris imaginem putet.» Ex capitulo secundo: «Cum simplex divinarum rerum substantia in se ipsa et incognita sit nobis et intelligentiam fugiat nostram ...» Ex eodem: «Dum ipsam esse aliquid negamus ex hiis, quae sunt, verum profecto loquimur, etsi modum, quo illa indefinita est, quippe supersubstantialem et incomprehensibilem atque ineffabilem prorsus ignoramus.» Caelestis hierarchiae capitulo quarto: «Igitur omnia quaeque subsistunt providentiae ratione reguntur ex summa illa omnium auctore deitate manantis. Alioquin essent profecto nulla, nisi substantiae rerum atque principio communicarent. Itaque inanimata
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Nicola. Esaudirò volentieri la tua richiesta e sarò il più breve possibile. Dionigi, il più grande fra i teologi103, parte da questo presupposto: che è impossibile per un essere umano ascendere alla comprensione delle realtà spirituali senza la guida delle forme sensibili, di modo che, ad esempio, egli considera la bellezza sensibile come un’immagine del bello invisibile; per questo, egli afferma che le cose sensibili sono similitudini o immagini delle realtà intelligibili, e sostiene invece che Dio, in quanto principio, precede tutte le realtà intelligibili, e di Lui dice di sapere che Egli non è nessuna delle cose che possono essere conosciute o concepite. Per questo, crede che l’unica cosa che si possa conoscere di Dio, che – egli dice – è l’essere di tutte le cose, è il fatto che Egli precede ogni intelletto. Ferdinando. Cita le sue parole, se non ti è di fastidio. Nicola. Sono diversi gli autori che hanno tradotto in latino le sue parole, e lo hanno fatto in modi differenti; in ogni caso, io riporterò qui, in successione, quei passi che mi sembreranno essere utili al mio proposito; li traggo dalla traduzione di Fratello Ambrogio, generale dei Camaldolesi, che è il più recente traduttore di Dionigi104. Dal primo capitolo della Gerarchia celeste: «È impossibile per un essere umano ascendere alla comprensione delle realtà spirituali se egli non è guidato dalle forme e dalle immagini delle cose sensibili, di modo che, ad esempio, egli considera la bellezza sensibile come un’immagine del bello invisibile»105. Dal capitolo Secondo: «Dal momento che la sostanza semplice delle cose divine è di per se stessa sconosciuta e sfugge alla nostra comprensione...»106. Dallo stesso capitolo: «Quando diciamo che questa Sostanza non è nessuna delle cose che sono, diciamo certamente il vero, anche se ignoriamo completamente il modo certamente sovrasostanziale in cui è quella Sostanza indefinita, incomprensibile e ineffabile»107. Nel capitolo quarto della Gerarchia celeste: «Pertanto, tutte le cose che esistono sono governate in virtù della Provvidenza, che emana da quella Divinità suprema che è l’autrice di tutte le cose. Esse sarebbero di certo nulla se non partecipassero del Principio e della Sostanza delle cose. E così tutte le cose inanimate ricevono
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omnia hoc ipsum quod sunt ab ipso suscipiunt, quippe esse omnium est ipsa divinitas, quae modum totius essentiae superat.» Eodem capitulo: «Secretum ipsum dei, quodcumque tandem illud est, nemo unquam vidit, neque videbit.» Eiusdem capitulo tertio decimo: «Admonebatur ergo theologus ex hiis, quae cernebat, ut secundum omnem substantialem eminentiam cunctis visibilibus invisibilibusque virtutibus absque ulla comparatione Deus excelsior sit.» 56 De ecclesiastica hierarchia capitulo primo: «Ut vere et proprie dixerim: unum quidem est, quod appetunt omnes, qui unius speciem praeferunt, sed non uno modo eius, quod idem atque unum est, participes fiunt, verum ut cuique pro merito sortem divina et aequissima libra distribuit.» Eodem capitulo: «Initium est fons vitae, bonitatis essentia, unica rerum omnium causa, beatissima Trinitas, ex qua sola bonitatis causa, quae sunt omnia, ut et essent et bene essent, acceperunt; hinc transcendenti omnia divinae beatitudini trinae atque uni, cui soli vere esse inest modo nobis quidem incognito, sed sibi plane perspecto et noto, voluntas quidem est rationalis salus humanae omnis caelestisque substantiae.» 57 De divinis nominibus capitulo primo: «Sicut enim spiritalia carnales percipere et inspicere nequeunt, et qui figmentis et figuris inhaerent ad simplicia figurisque vacua non aspirant, quique secundum corporum lineamenta formantur incorporearum rerum informitatem nec tactui nec figuris obnoxiam nequaquam attingunt: eadem ratione veritatis supereminet substantiis omnibus supersubstantialis infinitas, sensusque excellit omnes unitas sensu eminentior, ac mentibus omnibus inexcogitabile est unum illud mente superius, ineffabileque est verbis omnibus bonum, quod superat verbum.» Eodem: «Ipsa de se in sacris tradit litteris, quod sit omnium causa, initium et substantia et vita.»
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da questo Principio ciò che esse sono. In effetti, l’essere di tutte le cose è la Divinità stessa, che supera la misura di ogni essenza»108. Nello stesso capitolo: «La natura segreta di Dio, qualunque essa sia, nessuno l’ha mai vista, nè mai la vedrà»109. Nel capitolo tredicesimo della medesima opera: «Dunque, dalle cose che scorgeva il teologo era spinto a pensare che Dio, conformemente a tutta la sua eminenza sostanziale, è incomparabilmente più eccelso di tutte le potenze visibili e invisibili»110. Nel primo capitolo de La Gerarchia ecclesiastica: «Per parlare in modo vero e appropriato: l’Uno è il principio che desiderano tutte le cose, le quali portano in se stesse un’immagine dell’Uno, ma esse non partecipano in un unico modo di ciò che è Uno e identico, ma ne partecipano secondo la parte che la bilancia divina e giustissima attribuisce a ciascuno secondo il suo merito»111. Nello stesso capitolo: «Il principio è la fonte della vita, l’essenza della bontà, la causa unica di tutte le cose, la beatissima Trinità, dalla quale, a motivo solo della sua bontà, tutte le cose che esistono hanno ricevuto e la loro esistenza e la loro felice condizione. Per questa ragione, la volontà della divina Beatitudine, trina e una, che trascende tutto, solo alla quale l’essere inerisce veramente – in un modo per noi sconosciuto, ma ad essa perfettamente manifesto e noto – è la salvezza razionale di ogni sostanza umana e celeste»112. Nel primo capitolo de I nomi divini: «Come gli esseri carnali non possono percepire, né guardare le cose spirituali, coloro che restano legati a immagini e figure non aspirano alle realtà semplici e prive di figura, e coloro che sono formati secondo lineamenti corporei non raggiungono mai le realtà incorporee e prive di forma, che non possono essere percepite mediante il tatto o rappresentate mediante una figura, così, secondo lo stesso procedimento della verità, l’infinità sovrasostanziale sta al di sopra di tutte le sostanze, l’Unità, che è più eminente del senso, supera tutti sensi, ed è inconcepibile per tutte le menti quell’Uno che è al di sopra della mente, ed è inesprimibile con qualsiasi parola la bontà che supera ogni parola»113. Nello stesso capitolo: «Nelle Sacre Scritture, questa Divinità riferisce di sè che essa è la Causa, il Principio, la Sostanza e la Vita di tutte le cose»114.
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Eodem: «Invenies omnem, ferme dixerim, theologorum laudationem ad beneficos divinitatis progressus exponendos atque laudandos divina effingere nomina; quocirca in omnibus ferme sanctis libris advertimus divinitatem sancte praedicari ut singularem quidem atque unicam ob simplicitatem atque unitatem excellentis illius individui, ex quo veluti unifica virtute in unum evadimus dividuisque nostris alteritatibus supra mundanum modum conglobatis in divinam monadem atque unionem Deum imitantem colligimur etc.» 59 Eodem: «In quo termini omnes omnium scientiarum plus quam ineffabiliter praesubsistunt, neque intelligere, neque eloqui possumus, neque omnino quomodolibet intueri, quod sit exceptus omnibus et excellenter ignotus.» Eodem: «Si enim scientiae omnes rerum substantium sunt atque in substantiis desinunt, quae substantiam excedit omnem, scientia quoque omni superior sit necesse est... Cum percipiat et comprehendat atque anticipet omnia, ipsa tamen omnino incomprehensibilis manet.» Eodem: «Ipsaque iuxta scripturae fidem sit omnia in omnibus; verissime laudatur ut substantiae indultrix et consummatrix continensque custodia et domicilium et ad se ipsam convertens atque ista coniuncte, incircumscripte, excellenter.» Eodem libro capitulo secundo: «Ineffabile quoque multis vocibus praedicatur, ignoratio, quod per cuncta intelligitur, omnium positio, omnium ablatio, quod positionem omnem ablationemque transcendit; divina sola participatione noscuntur.» 60 In epistola Hierothei: «Neque pars neque totum est, et pars est et totum, ut quae omne et partem et totum in se ipsa comprehenditur, et excellenter habeat, antequam habeat. Perfecta est quidem in imperfectis utpote perfectionis princeps; porro inter perfectos imperfecta est quippe perfectionem excellentia temporeque transcendens.»
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Nello stesso capitolo: «Scoprirai, un punto, questo, su cui ho insistito, che tutta la lode dei teologi consiste nel formare nomi divini, per narrare e lodare il procedere benefico della Divinità; per questo, in quasi tutti i libri santi constatiamo che della Divinità si parla in modo santo come di un essere singolare ed uno, in ragione della semplicità e della unicità di quella eminente indivisibilità attraverso la quale, come se fosse una forza unificante, noi ascendiamo fino all’Uno, e, dopo che le nostre diversità divisibili sono state raccolte insieme in maniera sovramondana, noi veniamo riuniti in seno alla monade divina in una unione che imita Dio, ecc.»115. Nello stesso capitolo: «In lui preesistono, in maniera più che ineffabile, tutti i limiti di tutte le scienze, e noi non possiamo né comprenderlo, né esprimerlo, né coglierlo in alcuna maniera, per il fatto che è distaccato da ogni cosa ed è perfettamente sconosciuto»116. Nello stesso capitolo: «Se tutte le scienze riguardano le sostanze delle cose e terminano nelle sostanze, è necessario che quella che eccede ogni sostanza sia superiore anche ad ogni scienza [...]. E sebbene percepisca, comprenda e preceda tutte le cose, essa resta del tutto incomprensibile»117. Nello stesso capitolo: «Conformemente alla sicura testimonianza della Scrittura, questa [scil. Causa] è tutta in tutto; essa, in modo assolutamente vero, viene lodata come ciò che dona e perfeziona la sostanza, come ciò che la conserva, la custodisce e ne è la dimora, e come ciò che la converte verso di sé, e tutto questo essa lo fa in modo uniforme, non limitato ed eccellente»118. Nello stesso libro, al capitolo secondo: «L’Ineffabile viene espresso con molti nomi: “ignoranza”, “ciò che viene conosciuto attraverso tutte le cose”, “posizione di tutte le cose”, “negazione di tutte le cose”, “ciò che trascende ogni negazione e ogni posizione”. Le cose divine sono conosciute solo per partecipazione»119. Nella Lettera di Ieroteo: «[La divinità del Figlio] non è né parte, né tutto, ed è sia parte che tutto, in quanto comprende in sé, ha in maniera eminente e possiede in antecedenza ogni cosa, la parte come il tutto. È perfetta nelle cose imperfette, in quanto è il principio della perfezione; d’altra parte, è imperfetta tra le cose perfette, come quella che trascende in eccellenza e in durata la perfezione»120.
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In eadem: «Mensura est rerum et saeculum et supra saeculum et ante saeculum.» In eadem: «Nec unum est neque unius particeps longeque ab hiis unum est super unum illud, quod in substantiis est.» 61 Eodem libro de divinis nominibus capitulo quarto: «Theologi peculiariter bonitatem summae deitati ex omnibus applicant ipsam, ut reor, substantiam divinam appellantes.» Eodem: «Cum neque augeri neque minui possit substantia, quae bonum etc.» Eodem: «Ex illo namque bono lux est et imago bonitatis; idcirco lucis appellatione laudatur bonum veluti in imagine expressa primitiva forma.» Eodem: «Illuminat quae lucem admittunt omnia et creat atque vivificat continetque et perficit mensuraque substantium est et saeculum et numerus et ordo etc.» Nota exemplum de sole. 62 Eodem: «Ut intelligibilis lux bonus ipse dicitur, qui omnem supercaelestem spiritum spiritali impleat luce omnemque ignorantiam pellat erroremque abigat ex animabus, quibus sese insinuaverit, omnibus etc.» Eodem: «Lux igitur intelligibilis dicitur bonum illud omnem superans lucem ut principalis radius et exuberans effusio luminis.» Eodem: «Bonum istud ut pulchrum quoque a theologis sanctis praedicatur.» Eodem: «Ut pulchri omnis principalem pulchritudinem excellentissime in se ipso ante tempora habens...» Eodem: «Idem pulchrum esse quod bonum perspicuum est.» Eodem: «Neque est aliquid in substantiis rerum, quod pulchri et boni non sit aliquatenus particeps, et istud item dicere disserendo praesumimus id quoque, quod non est, pulchri et boni particeps esse. Tunc enim etc.» Eodem: «Ut perstringam breviter: omnia, quae sunt, ex pul-
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Nella stessa Lettera: «[La divinità del Figlio] è misura e durata delle cose, ed è al di sopra della durata e prima della durata»121. Nella stessa Lettera: «[Dio] non è l’uno, né partecipa dell’uno, e, lungi da queste cose, Egli è l’Uno al di sopra dell’uno che è nelle sostanze»122. Nel capitolo quarto dello stesso libro I nomi divini: «I teologi, tra tutte le cose, attribuiscono in modo peculiare la bontà alla suprema Divinità, chiamando bontà, credo, la sostanza divina»123. Nello stesso capitolo: «Dal momento che la sostanza, che è il Bene, non può né aumentare, né diminuire...»124. Nello stesso capitolo: «La luce deriva da quel Bene ed è l’immagine della bontà; per questo, il Bene è celebrato con il nome della luce, come la forma originaria che si trova espressa nell’immagine»125. Nello stesso capitolo: «[La bontà divina] illumina tutte le cose che sono atte a ricevere la luce, ed essa le crea, le vivifica, le contiene e le perfeziona; essa è la misura, la durata, il numero e l’ordine, ecc. delle sostanze»126 (osserva l’esempio del sole). Nello stesso capitolo: «Questo bene viene chiamato luce intelligibile, per il fatto che riempie di luce spirituale ogni spirito sovraceleste, disperde l’ignoranza e scaccia l’errore da tutte le anime nelle quali si era insinuato»127, ecc. Nello stesso capitolo: «Dunque, quel Bene, che è superiore ad ogni luce, viene chiamato luce intelligibile, in quanto raggio sorgivo ed effusione esuberante di luce»128. Nello stesso capitolo: «Questo Bene viene anche caratterizzato come Bellezza dai santi teologi»129. Nello stesso capitolo: «Come ciò che ha in sé, in maniera sovraeminente, prima del tempo, la Bellezza, principio di ogni cosa bella»130. Nello stesso capitolo: «È evidente che il bello è identico al bene»131. Nello stesso capitolo: «Non c’è nulla nelle sostanze delle cose che non sia in qualche modo partecipe del bello e del bene. E nella nostra discussione noi osiamo dire persino questo: che anche ciò che non è partecipa del bello e del bene. Allora, infatti...»132, ecc. Nello stesso capitolo: «Per riassumere brevemente: tutte le cose
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chro et bono sunt; et quae non sunt, omnia supersubstantialiter in pulchro sunt et bono, estque ipsum initium omnium et finis etc.» 63 Eodem capitulo octavo: «Neque est, sed hiis, quae sunt, esse ipse est, neque ea, quae sunt, solum, verum ipsum quoque eorum esse ex eo est, qui est ante saecula. Ipse enim est saeculum saeculorum, qui ante saecula est.» Eodem capitulo octavo: «Resumentes itaque dicamus: ut iis, quae sunt omnibus et saeculis esse ab eo est, qui ante est, et omne quidem saeculum et tempus ab eo est.» Eodem: «Omnia ipsi participant et a nullo existente discedit.» Eodem: «Si quid quomodolibet est, in ipso, qui ante est, et est et cogitatur atque servatur ceterisque ipsius participationibus praefertur.» 64 Eodem: «Deus ante habet, ut ante sit et eminentissime sit excellenterque ipsum esse habeat. Omnia ipsum in se ipso esse praestituit atque ipso esse omne quod quomodolibet est, ut subsisteret, fecit; denique et rerum principia omnia esse ipsius participatione et sunt et principia sunt et prius sunt, postea principia sunt. Et si velis vitam ipsam viventium ut viventium initium dicere et similium ut similium similitudinem etc.» Eodem: «Haec esse ipsius invenies participare primum atque esse ipso primo manere, deinde huius aut illius esse principia essentiaeque participando et esse et participari; si autem ista participatione essentiae sunt, multo magis, quae ipsorum participia sunt.» Eodem: «Bonitas prima participationum celebratur.» Eodem: «Neque in aliquo subsistentium est neque aliquid est horum.» 65 Eodem capitulo nono: «Ipsi nihil contrarium.»
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che sono derivano dal Bello e dal Bene; e tutte le cose che non sono sono, in maniera sovrasostanziale, nel Bello e nel Bene, che è il principio e il fine di tutte le cose, ecc.»133. Nello stesso libro, capitolo ottavo: «Egli non è, ma è l’essere delle cose che sono, e non solo le cose che sono, ma anche l’essere delle cose che sono procede da Lui, che precede i secoli. Egli, infatti, che precede i secoli, è il secolo dei secoli»134. Nello stesso capitolo ottavo: «E così, riassumendo, diciamo: a tutte le cose che sono e a tutti i secoli l’essere deriva da colui che li precede, ed ogni secolo e tempo derivano da Lui»135. Nello stesso capitolo: «Tutte le cose partecipano di Lui, ed Egli non si allontana da alcuna delle cose che esistono»136. Nello stesso capitolo: «Se qualche cosa è, in qualsivoglia modo essa è, allora essa è, è pensata ed è conservata in colui che precede tutte le cose, e questa partecipazione [all’essere] precede tutte le altre forme di partecipazione a Lui»137. Nel medesimo capitolo: «Dio possiede il “prima”, in modo tale che egli pre-esiste ed è nel modo più eminente ed ha l’essere in maniera eccelsa. Egli ha fatto preesistere tutto l’essere in lui stesso e come identico a lui stesso, e attraverso questo suo essere egli ha fatto sì che sussista tutto ciò che è, in qualsivoglia modo esso è. Infine, è partecipando del suo essere che tutti i principi delle cose sono e sono principi; essi prima sono e poi sono principi. E se tu vuoi chiamare la Vita-in-sé il principio degli esseri viventi in quanto viventi, e la Somiglianza-in-sé il principio delle cose simili in quanto simili...»138, ecc. Nello stesso capitolo: «Tu troverai che questi principi partecipano prima dell’essere stesso e in primo luogo permangono nell’essere, e che poi essi sono principi di questo o di quello, e che, partecipando dell’essere, essi sia sono, sia sono partecipati. Se, dunque, essi esistono per la partecipazione all’essere, tanto più vero questo sarà per le cose che partecipano di essi»139. Nello stesso capitolo: «La Bontà viene celebrata come la prima delle partecipazioni»140. Nello stesso capitolo: «Egli non è in nessuna delle cose esistenti e non è alcuna di esse»141. Nello stesso libro, capitolo nono: «Niente è a lui contrario»142.
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Eodem capitulo decimo: «Qui invenitur ex omnibus, incomprehensibilem et investigabilem theologi dicunt.» Eodem capitulo: «Divina oportet non intelligamus humano more, sed toti integre a nobis ipsis excedentes atque prorsus in Deum transeuntes.» Eodem capitulo: «Non habet Deus peculiarem scientiam sui, aliam vero communem omnia comprehendentem. Ipsa enim se omnium causa cognoscens qua tandem ratione, quae ab se sunt et quorum est causa, ignorabit?» Eodem capitulo: «In omnibus Deus cognoscitur, et seorsum ab omnibus et per scientiam et ignorationem cognoscitur Deus.» Eodem capitulo: «In omnibus omnia est et in nihilo nihil.» 66 Eodem capitulo undecimo: «Virtus est Deus ... et ... omnis virtutis auctor.» Eodem capitulo: «Infinite potens divina distributio in omnia, quae sunt, se intendit, et nihil est in rebus, quod non sit virtuti alicui percipiendae idoneum.» Eodem capitulo: «Quod enim omnino nulla virtute subnititur, neque est, neque aliquid est, neque est penitus ipsius ulla positio». Eodem capitulo: «Quique quae sunt omnia excellenter et ante tempora habeat supersubstantiali virtute sua, qui hiis, quae sunt omnibus, ut esse possint et hoc sint, excellentis virtutis copia et exuberanti profusione largitur.» 67 Eodem libro capitulo duodecimo: «Magnus quidem appellatur Deus iuxta propriam ipsius magnitudinem, quae magnis omnibus suimet consortium tradit et extrinsecus super omnem magnitudinem funditur et supra expanditur, omnem continens locum, omnem transcendens numerum, omnem transiliens infinitatem.» Eodem: «Magnitudo haec et infinita est et quantitate caret et numero.» Eodem: «Parvum vero sive tenue dicitur, quod molem omnem excedit atque distantiam, quod absque impedimento ad omnia
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Nello stesso libro, capitolo decimo: «Colui che viene trovato da tutti i teologi dicono che è incomprensibile e irraggiungibile»143. Nello stesso capitolo: «Non bisogna comprendere le cose divine in maniera umana, ma dobbiamo uscire completamente da noi stessi e trasferirci direttamente in Dio»144. Nello stesso capitolo: «Dio non ha una speciale conoscenza di se stesso, e un’altra, invece, che è generale e che comprende tutte le cose. Infatti, se la causa di tutte le cose conosce se stessa, in che modo ignorerà le cose che derivano da lei e di cui è causa?»145. Nello stesso capitolo: «Dio è conosciuto in tutte le cose e separatamente da tutte le cose. Egli è conosciuto mediante la conoscenza e mediante l’ignoranza»146. Nello stesso capitolo: «Egli è tutto in tutte le cose e nulla in nessuna»147. Nello stesso libro, capitolo undicesimo: «Dio è potenza... e... l’autore di ogni potenza»148. Nello stesso capitolo: «La distribuzione divina, infinitamente potente, giunge a tutte le cose che esistono, e non c’è nulla fra le cose che non sia idonea a ricevere una qualche potenza»149. Nello stesso capitolo: «Infatti, ciò che non è sostenuto da alcuna potenza non esiste, né è alcunché, né si può affermare qualcosa di esso»150. Nello stesso capitolo: «Colui che, in maniera sovrasostanziale, possiede, in maniera eccelsa e prima di tutti i tempi, tutte le cose che sono, con l’abbondanza e con l’esuberante profusione della sua eccelsa potenza, dona a tutte queste cose che sono di poter essere e di essere questo o quello»151. Nello stesso libro, capitolo dodicesimo: «In effetti, Dio viene detto grande conformemente alla grandezza che gli è propria, la quale dona a tutte le cose grandi di partecipare di lei, che si diffonde dall’esterno su ogni grandezza e che si estende al di sopra di ogni grandezza, contenendo ogni luogo, trascedendo ogni numero, superando ogni infinità»152. Nello stesso capitolo: «Questa grandezza è infinita e priva di quantità e di numero». Nello stesso capitolo: «Ma [Dio] è detto anche piccolo o tenue, in quanto trascende ogni massa e ogni distanza e in quanto giunge
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pergit, quamquam certe omnium causa pusillum est: nusquam enim invenies pusilli speciem incommunicabilem.» Eodem: «Hoc pusillum quantitate caret et qualitate tenetur nulla, infinitum est et indeterminatum, comprehendens omnia et ipsum comprehensibile nulli.» Eodem: «Quod augeri minuique non possit ...» 68 Eodem: «Porro alterum dicitur, quia omnibus providentiae ratione Deus adest et omnia in omnibus pro omnium salute fit, in se ipso et sua identitate manens.» Eodem: «Divinae similitudinis virtus, per quam quae producuntur omnia ad auctorem convertuntur; haec quidem Deo similia dicenda sunt et ad divinam imaginem et similitudinem ficta. Non autem illis similis dicendus est Deus, quia neque homo est suae imagini similis.» Eodem: «Ipsa theologia ipsum dissimilem praedicat et omnibus incompactum, ut ab omnibus alterum, et, quod est profecto mirabilius, nihil simile esse ait. Et certe non adversatur hoc divinae similitudini, quippe eadem Deo et similia et dissimilia sunt: similia, quia ipsum pro viribus imitantur, quem ad liquidum imitari possibile non est.» Eodem: «Hoc autem, quia causalia auctore suo multum inferiora sunt et infinitis inconfusisque mensuris ab eo absunt.» 69 Eodem capitulo tertio decimo: «Ex se velut ex omnipotente radice cuncta producens ...» Eodem: «Neque sinens ea ab se cadere ...» Eodem capitulo duodecimo: «Ipse omnium et saeculum et tempus et ante dies et ante saeculum ac tempus, quamvis et tempus et diem et momentum et saeculum eum convenientissime appellare
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senza ostacolo a tutte le cose; e tuttavia la piccolezza è certamente la causa di tutte le cose: non troverai nulla, infatti, a cui la forma del piccolo non sia comunicabile»153. Nello stesso capitolo: «Questo piccolo è privo di quantità e di qualità, non lo si può prendere con nulla, è infinito ed indeterminato, racchiude tutto e non può essere racchiuso da niente»154. Nello stesso capitolo: «Ciò che non può essere aumentato o diminuito...»155. Nello stesso capitolo: «Ma Dio viene detto “altro” per il fatto che, in virtù della sua Provvidenza, Egli è presente a tutte le cose e si fa tutto in tutti per la salvezza di tutti, pur rimanendo in se stesso e nella sua identità»156. Nello stesso capitolo: «La forza della similitudine divina è quella attraverso la quale tutte le cose prodotte vengono ricondotte al loro autore. Queste devono essere dette simili a Dio e formate ad immagine e somiglianza di Dio. Ma non si deve dire che Dio sia simile alle cose, perché neppure l’uomo è simile alla sua immagine»157. Nello stesso capitolo: «La stessa teologia dice che egli è dissimile e che non lo si può paragonare a nulla, in quanto è altro da tutto, e, cosa che certamente desta ancora più meraviglia, sostiene che niente è simile a Lui. E questo non è certamente contrario alla dottrina della somiglianza con Dio, in quanto le stesse cose sono, ad un tempo, simili e dissimili a Dio: simili per il fatto che, per quanto possono, esse imitano colui che, certamente, non può essere imitato»158. Nello stesso capitolo: «Questo perché le cose causate sono molto inferiori alla causa, e sono lontane da essa ad una distanza infinita e senza possibilità di confusione»159. Nello stesso libro, capitolo dodicesimo: «Producendo tutte le cose da se stesso come da una radice onnipotente...»160. Nello stesso capitolo: «...e non permettendo che esse cadano fuori da Lui»161. Nello stesso libro, capitolo dodicesimo: «Egli è la durata e il tempo di tutte le cose, ed Egli è prima dei giorni, prima della durata e prima del tempo, sebbene lo possiamo chiamare, in modo assolutamente appropriato, tempo, giorno, momento e durata, Egli che,
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possimus, et qui per omnem motum incommutabilis atque immobilis sit, cumque semper moveatur, in se ipso manet ut saeculi et temporis et dierum auctor.» Eodem capitulo tertio decimo: «Vitam omnium quae vivunt et ipsius vitae causam ... ipsum esse ipsamque vitam et ipsam deitatem diximus principaliter quidem et divine et secundum causam unum principia cuncta excellens.» 70 Eodem capitulo quinto decimo: «Omnem terminat infinitatem et supra omnem expanditur finem atque a nullo capitur seu comprehenditur; sed pertingit ad omnia simul.» Eodem: «Neque est unum illud, omnium causa, unum ex pluribus, sed ante unum etc.» Eodem: «Uniusque omnis ac multitudinis definitivum.» Eodem: «Si omnibus omnia coniuncta quis ponat, erunt omnia toto unum.» Eodem: «Est unum omnium veluti elementum.» Eodem: «Si unum tollas, neque totum erit, neque pars aliqua, neque aliud quidquam in rebus. Omnia enim in se ipso unum uniformiter antea cepit atque complectitur.» Eodem: «Unum ante ... finem atque infinitatem etc.» Eodem: «Omnia quae sunt ipsumque esse determinat.» Eodem: «Quod supra ipsum unum est, ipsum quod unum est determinat.» Eodem: «Unum quod est, inter ea, quae sunt, connumeratur. Porro numerus substantiae particeps est. Unum vero illud supersubstantiale et unum, quod est et omnem numerum determinat.» 71 Circa finem Mysticae theologiae: «Neque aliud aliquid ex hiis, quae nobis aut alteri cuiquam in mundo est cognitum, neque aliquid eorum, quae non sunt, neque eorum, quae sunt, est.» In eadem: «Neque est ulla eius positio, neque ablatio.» In epistola ad Gaium: «Si aliquis videns Deum intellexerit quod vidit, non ipsum vidit, sed aliquid; ... non cognosci, neque esse
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in ogni movimento, resta immobile e immutabile. Infatti, sebbene sia sempre in movimento, Egli rimane in se stesso come il creatore della durata e del tempo e dei giorni»162. Nello stesso libro, capitolo tredicesimo: «Noi diciamo che egli è principalmente la vita di tutto ciò che vive e la causa della vita-insé... che la Vita-in-sé e la Divinità-in-sé è l’Uno, che, principalmente e divinamente e secondo la causa, eccelle su tutti i principi»163. Nello stesso libro, capitolo quindicesimo: «Egli delimita ciò che è senza limite e si estende al di sopra di ogni confine, e non è contenuto, né compreso da nulla, ma si estende a tutte le cose contemporaneamente»164. Nello stesso capitolo: «E quest’Uno, che è la causa di tutte le cose, non è un uno formato da molti, ma è prima dell’uno»165, ecc. Nello stesso capitolo: «...definisce ogni unità e moltitudine»166. Nello stesso capitolo: «Se si supponesse che tutte le cose fossero congiunte a tutte, tutte insieme non formerebbero che uno»167. Nello stesso capitolo: «L’Uno è, per così dire, l’elemento costitutivo di tutte le cose»168. Nello stesso capitolo: «Se si togliesse l’Uno, non ci sarebbe nè il tutto, né alcuna parte, né alcun’altra cosa. Infatti, l’Uno comprende e abbraccia in se stesso, uniformemente e antecedentemente, tutte le cose»169. Nello stesso capitolo: «L’Uno precede... ogni limite e infinità»170. Nello stesso capitolo: «[L’Uno] determina tutte le cose che sono e l’essere stesso»171. Nello stesso capitolo: «Ciò che è al di sopra dell’uno stesso determina ciò che è uno»172. Nello stesso capitolo: «L’uno-che-è viene numerato tra le cose che sono. Inoltre, il numero partecipa della sostanza. Ma l’Uno sovrasostanziale determina sia l’uno-che-è, sia ogni numero»173. Verso la fine della Teologia mistica: «Egli non è nulla di ciò che noi o qualcun altro nel mondo conosce, e non è né nessuna delle cose che sono, né nessuna di quelle che non sono»174. Nella stessa Teologia mistica: «Di lui non vi è né affermazione, né negazione»175. Nella Lettera a Gaio: «Se uno, vedendo Dio, comprendesse ciò che vede, egli non vedrebbe Dio, ma qualcos’altro; [...] Dio, che
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est supersubstantialiter, et super mentem cognoscitur. ... Perfecta ignorantia cognitio est eius, qui est super omnia, quae cognoscuntur.» 72
Capitulum XV.
Ferdinandus. Haec theologi ponderosa et profunda esse dicta perspicio et talia, quae in ineffabilem divinitatem modo, quo quidem homini conceditur, visum dirigunt. Nicolaus. Advertistine, quomodo de ipso ‘non aliud’ loquitur? Ferdinandus. Non adhuc clare percepi. Nicolaus. Tu saltem ipsum de prima causa loqui considerasti, quam in omnibus omnia nunc sic, nunc alio modo ostendit. Ferdinandus. Sic videtur. Sed duc me, quaeso, ut idipsum clarius tecum inspiciam. 73 Nicolaus. Nonne, ubi ipsum principium unum nominat, considerasti quomodo post hoc dicit unum supersubstantiale unum quod est, et omnem numerum determinare? Ferdinandus. Consideravi et placuit. Nicolaus. Quare placuit? Ferdinandus. Quia licet ipsum unum propinque ad ipsum ‘non aliud’ accedat, adhuc tamen fatetur ante unum esse supersubstantiale unum; et hoc utique est unum ante ipsum unum, quod est unum. Et hoc tu quidem ipsum ‘non aliud’ vides. Nicolaus. Optime cepisti! Unde si A foret significatum de li ‘non aliud’, tunc A id, de quo loquitur, foret. Si autem, ut ait, unum est ante finem et infinitatem omnem terminans infinitatem, ad omnia simul pertingens et ab omnibus incomprehensibile manens uniusque et omnis multitudinis definitivum: utique A ipsum unum definiens ipsum unum sane, quod est aliud, antecedit. Nam
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non può essere conosciuto, né essere, è in maniera sovrasostanziale e viene conosciuto al di sopra della nostra capacità intellettiva. La perfetta ignoranza è la conoscenza di colui che è al di sopra di ogni cosa conosciuta»176.
Capitolo xv Ferdinando. Comprendo che queste parole del teologo sono importanti e profonde e sono tali da dirigere il nostro sguardo verso la divinità ineffabile, nella misura in cui questo è concesso all’uomo. Nicola. Hai notato il modo in cui egli parla del «non-altro»?177 Ferdinando. Non l’ho ancora colto chiaramente. Nicola. Hai notato almeno che egli parla della causa prima, che egli mostra, ora in un modo ora in un altro, essere tutta in tutto? Ferdinando. Mi sembra. Ma guidami, ti prego, in modo tale che, insieme con te, io possa esaminare più chiaramente questo punto. Nicola. Quando egli attribuisce al principio il nome di «Uno», non hai notato che, dopo questo, egli dice che l’Uno sovrasostanziale determina l’uno-che-è e ogni numero?178 Ferdinando. L’ho notato e l’ho apprezzato. Nicola. Perché l’hai apprezzato? Ferdinando. Perché, sebbene l’uno sia ciò che si avvicina maggiormente al «non-altro», egli [Dionigi] tuttavia sostiene che, prima dell’uno, c’è l’Uno sovrasostanziale; e certamente questo Uno precede l’uno che è uno179. Ed è in questo [Uno sovrasostanziale] che tu vedi il «non-altro». Nicola. Hai capito perfettamente! Quindi, se con A venissse designato il «non-altro», allora A sarebbe ciò di cui egli parla180. Ma, se, come egli dice, l’Uno precede il limite e l’infinità in quanto determina tutto ciò che è senza limite181, in quanto si estende a tutte le cose contemporaneamente restando ad un tempo incomprensibile da parte di tutte, e in quanto è ciò che definisce sia tutto ciò che è uno, sia tutto ciò che è molteplice182, allora, certamente, dal momento che A definisce l’uno, A precede anche l’uno, che è un al-
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cum unum sit non aliud quam unum, tunc A subtracto unum desineret. Ferdinandus. Recte! Nam cum dicat quomodo unum, quod supra unum est, ipsum, quod unum est, determinat, hoc utique unum supra unum prius dixit ‘unum ante unum’. Determinat igitur A unum et omnia, cum, ut dicit, ipsum unum omnis unius et multitudinis sit definitivum. 74 Nicolaus. Potuisti etiam videre, quomodo theologus ad ipsum ante mentem convertit dicens Deum habere ante, ut ante sit et sit eminentissime, tamen A ante ante conspicitur, cum ante sit non aliud quam ante. Unde cum ante non nisi ante aliquid, quod praecedit, intelligatur, utique A est eminentissime ipsum ante, cum aliud omne praecedat. Ante autem dici de alio potest, ut aliud, quod praecedit, et aliud, quod sequitur, sit. Igitur si, ut theologus vult, in anteriori omnia eminenter sunt seu anterioriter quae reperiuntur in posteriori, in A utique eminentissime omnia cernimus, cum ante ipsum ante sit. 75 Ferdinandus. Optime rememoras! Adverti enim, quomodo dicit theologus ipsum, qui est ante saecula, esse saeculorum saeculum et ita ipsum de omnibus velle arbitror dicere. Per hoc igitur, quod Deum anterioriter ipsum A video, omnia in ipso ipsum video; per hoc vero, quod Deum posterioriter cerno in alio, ipsum in omnibus omnia esse cerno. Si ipsum ante saecula perspicio, in ipso saeculum Deum esse perspicio; nempe ante saeculum videtur saeculum in suo principio seu ratione; si video ipsum in saeculo, ipsum saeculum video. Quod enim ante vidi Deum, post video saeculum; nam saeculum, quod in Deo Deum vidi, in saeculo saeculum intueor, quod quidem non est aliud, quam cum in ipso priori posterius ipsum videtur, tunc enim est ipsum prius; quodsi in ipso posteriori prius ipsum cernitur, tunc ipsum posterius est.
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tro. Infatti, dal momento che l’uno è non-altro che uno, esso cesserebbe di essere se venisse tolto A. Ferdinando. Giusto! Infatti, se egli dice che l’Uno-che è-al di sopra-dell’uno determina quell’uno-che è-uno, in precedenza egli aveva parlato di questo Uno-al di sopra-dell’uno come dell’«Unoche è prima-dell’uno»183. A, pertanto, determina l’uno e tutte le cose, dal momento che, come egli dice, l’Uno stesso è ciò che definisce sia tutto ciò che è uno, sia tutto ciò che è molteplice. Nicola. Hai potuto anche vedere in che modo il teologo abbia rivolto la sua attenzione alla nozione di «prima», dicendo che Dio possiede il «prima», in modo tale che egli pre-esiste ed esiste nella maniera più eminente184. A, tuttavia, lo si scorge prima del «prima», dal momento che il «prima» è non-altro che «prima». Quindi, dal momento che il «prima» non viene conosciuto se non come un prima rispetto a qualcosa che esso precede, A è certamente il «prima» nella maniera più eminente, in quanto precede ogni altra cosa. Il «prima», tuttavia, può essere predicato anche di ciò che è altro, in quanto altro è ciò che precede ed altro ciò che segue. Pertanto, se, come vuole il teologo, in ciò che è anteriore esiste in modo eminente, ovvero anteriormente, tutto quello che si trova in ciò che è posteriore, allora in A vediamo tutte le cose nella maniera più eminente, dal momento che A è prima anche del «prima»185. Ferdinando. Ricordi perfettamente! Ho notato, infatti, che il teologo dice che colui che è prima dei tempi è il tempo dei tempi186, e credo che egli voglia dire questo a proposito di tutte le cose. Pertanto, per il fatto che io vedo Dio anteriormente come lo stesso A, vedo che in lui tutte le cose sono lui stesso; per il fatto che scorgo Dio successivamente in un altro, scorgo che in tutte le cose egli è tutte le cose187. Se lo vedo prima dei tempi, allora vedo che in Dio il tempo è Dio; infatti, se viene visto nel suo principio o nel suo fondamento razionale, il tempo viene visto prima del tempo; se lo vedo nel tempo, lo vedo come tempo. Infatti, ciò che ho visto anteriormente come Dio, lo vedo successivamente come tempo; il tempo, in effetti, che in Dio viene visto come Dio, nel tempo lo colgo come tempo, il che non significa altro che questo: quando il posteriore viene visto nell’anteriore, esso è allora l’anteriore; quando, invece, l’anteriore viene scorto nel posteriore, esso è allora il posteriore188.
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Nicolaus. Omnia penetras per ipsum ea, quae de ipso ‘non aliud’ concepisti, et, quantum tibi lucis ipsum A principium praestitit, intueris ad ea, quae tibi alioquin erant abscondita. Sed mihi adhuc unum dicito, quomodo apprehendis theologum asserere Deum convenientissime saeculum et tempus et diem et momentum posse nuncupari? 76
Capitulum XVI.
Ferdinandus. Intelligo iuxta theologi visionem. Vidit enim in tempore omnia temporalia temporaliter moveri, tempus tamen ipsum manere semper immutabile. Unde in tempore ipsum ‘non aliud’ valde intelligere elucescit. In hora enim est hora, dies in die, mensis in mense, in anno annus, et ut ante haec omnia cernitur, in ipso ipsum sunt sicut ipsum in omnibus omnia. Et quamvis ipsum in omnibus, quae tempore participant, omnia sit et ad omnia pergat et maneat cum omnibus inseparabiliter eaque definiat et terminet, non minus tamen apud se ipsum stabile manet et immobile neque augetur neque minuitur, licet maius esse tempus maiori induratione videatur, ut in mense maius quam die, quod non nisi ex alio venit, quod de ipso plus minusve participat. Aliter igitur et aliter eo manente imparticipabili varie participatur. 77 Nicolaus. Ut equidem video, nihil te latet, sed ut ad cuncta theologi verba mentem applices opus est. Nihil enim frustra dicit. Momentum enim ipsum Deum convenientissime dici posse ait. Ferdinandus. Utique sic dicit. Sed cur hoc attendendum acriter mones? Nicolaus. Momentum est temporis substantia. Nam eo sublato nihil temporis manet. Momentum igitur valde admodum de A participat ob suam simplicissimam indivisibilitatem et inalterabili-
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Nicola. Penetri a fondo tutte queste cose grazie a quanto hai compreso circa il «non-altro», ed è per la luce che questo principio A ti ha offerto che puoi guardare queste cose che sarebbero altrimenti rimaste nascoste agli occhi. Ma dimmi ancora una cosa: come interpreti l’affermazione del teologo secondo la quale Dio può essere nominato nel modo più appropriato durata, tempo, giorno e istante?
Capitolo xvi Ferdinando. Quella affermazione io la intendo conformemente alla visione del teologo. Infatti, egli vide che nel tempo tutte le cose temporali si muovono temporalmente, mentre il tempo stesso permane sempre immutabile189. Per questa ragione, la comprensione del «non-altro» è particolarmente manifesta nel tempo. In effetti, nell’ora il tempo è l’ora, nel giorno è il giorno, nel mese è il mese, nell’anno è l’anno; e come il tempo lo si scorge prima di tutte queste cose, così nel tempo esse sono il tempo, così come in tutte le cose il tempo è tutte le cose190. E sebbene in tutte le cose che partecipano del tempo il tempo sia tutte le cose, si estenda a tutte, permanga con esse in modo inseparabile e le definisca e le delimiti, cionondimeno esso rimane stabile presso di sé ed immobile, senza né aumentare, né diminuire, anche se il tempo sembra essere maggiore in una durata più lunga: in un mese, ad esempio, esso sembra essere più lungo che in un giorno. Questa impressione, tuttavia, nasce solo da ciò che è altro [dal tempo] e che partecipa più o meno del tempo. Le cose, dunque, partecipano in modi sempre diversi del tempo, mentre esso resta in se stesso impartecipabile191. Nicola. Da quanto vedo, non ti sfugge nulla; tuttavia, devi prestare attenzione a tutte le parole del teologo. Egli, infatti, non dice nulla di superfluo. Ad esempio, afferma che Dio può essere chiamato nel modo più appropriato «istante»192. Ferdinando. Dice in effetti così. Ma perché mi raccomandi di considerare attentamente questo punto? Nicola. L’istante è la sostanza del tempo193. Se viene tolto, infatti, non resta nulla del tempo194. L’istante, pertanto, a motivo della sua semplicissima indivisibilità e inalterabilità, partecipa di A in
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tatem; videtur enim ipsa substantialitas, quae si duratio nominaretur, tunc facillime cerneretur quomodo in aeternitate aeternitas est, in tempore tempus, mensis in mense, in die dies, in hora hora, momentum in momento et de omnibus durationem participantibus eodem modo. Et non est aliud ab omnibus, quae durant, ipsa duratio et maxime quidem a momento sive nunc, quod stabiliter durat. Igitur duratio in omnibus est omnia, licet ante omnia, quae ipsam participant. Unde quia alia sunt, quae ipsam participant, et a participantibus ipsa non est aliud: patet quomodo ipsum ‘non aliud’ per aeternitatem seu verius durationem et momentum participatur. 78 Ferdinandus. Puto te per momentum velle praesentiam dicere. Nicolaus. Idem esse nunc, momentum et praesentiam volo. Ferdinandus. Clare iam video, quoniam praesentia est cognoscendi principium et essendi omnes temporum differentias atque varietates; per praesentiam enim praeterita cognosco et futura, et quidquid sunt per ipsam sunt, quippe praesentia in praeterito est praeterita, in futuro autem est futura, in mense mensis, in die dies, et ita de omnibus. Et quamquam est omnia in omnibus et ad omnia pergens, est tamen ab omnibus incomprehensibilis stabiliter manens absque alteritate. Nicolaus. Perfecte subintrasti atque ideo etiam nequaquam te latet A praesentiam esse praesentiae. Nam ipsam antecedit praesentiam, cum praesentia, quae non aliud est quam praesentia, ipsum ‘non aliud’, quod in ipso est ipsum, praesupponat. Et quia praesentia est temporis substantia, recte quidem ipsum A substantiae vides esse substantiam. Sublata enim praesentia non permanent tempora, sed sublato A nec praesentiam, nec tempora, nec aliud quidquam possibile est manere.
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un grado molto elevato195; infatti, esso sembra essere la sostanzialità stessa del tempo. E se questa sostanzialità la si chiamasse durata, allora riconosceremmo in che modo nell’eternità essa è l’eternità, nel tempo è il tempo, nel mese il mese, nel giorno il giorno, nell’ora l’ora, nell’istante l’istante, e così per tutte le cose che partecipano della durata. E la durata non è qualcosa di altro da tutte le cose che durano, e non lo è specialmente dall’istante o dall’ora, che dura in maniera stabile. In tutte le cose, pertanto, la durata è tutte le cose, anche se essa precede tutte le cose che partecipano di essa. Quindi, dal fatto che le cose che partecipano della durata sono qualcosa di altro da essa, mentre la durata non è qualcosa di altro dalle cose che di essa partecipano, emerge chiaramente in che modo, attraverso l’eternità, o, meglio, attraverso la durata e l’istante, si realizzi la partecipazione al «non-altro». Ferdinando. Penso che con «istante» tu intenda indicare il «presente». Nicola. Con «ora», «istante» e «presente» intendo la stessa cosa. Ferdinando. Ora vedo chiaramente che il presente è il principio dell’essere e della conoscenza di tutte le varie e diverse forme di tempo; attraverso il presente, infatti, conosco il passato e il futuro, e qualunque cosa essi siano lo sono attraverso il presente196; in effetti, in ciò che è passato il presente è il passato, in ciò che è futuro è il futuro, in un mese è il mese, in un giorno è il giorno, e così via. E benché sia tutto in tutto e a tutto si estenda, esso non può essere compreso da parte di nulla e permane in modo stabile senza alterità. Nicola. Sei andato perfettamente a fondo della questione, e per questo non ti è affatto sfuggito che A è il presente del presente. Infatti, A precede anche il presente, dal momento che il presente, che è non-altro che il presente, presuppone il «non-altro», perché nel «non-altro» il presente è il «non-altro» stesso. E dal momento che il presente è la sostanza del tempo, vedi bene che A è la sostanza della sostanza. Infatti, se viene tolto il presente, non rimane più il tempo, ma se viene tolto A non è possibile che rimanga né il presente, né il tempo, né alcun’altra cosa.
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79 Ferdinandus.
Bene admonuisti, pater, et iam equidem clare video cuncta ipsius theologi dicta per ipsum A illuminari. Placetque plurimum, quod Dionysius ipse affirmat theologos bonitatem ipsius Dei primam celebrare participationem, ex quo video, quod omnia nomina divina imparticipabilis participationem significant. Sed, cum omnia talia ipso A sublato cessent a significatione et participatione, quod A ipsum in omnibus participatur, habere me gaudeo et prioriter quidem secundum theologos in bonitate. Nam cum id, quod ab omnibus appetitur, sub boni ratione appetatur, recte A ipsum, sine quo omnia cessant, bonitas nominatur. Moyses creatorem ad omnia creandum motum inquit, quia ipsa vidit bona. Si igitur rerum principium bonum est, omnia profecto in tantum sunt, in quantum bona sunt. Bonum sicut non est aliud a pulchro, ut ait Dionysius, sic nec ab omni existenti; hoc autem habet ab ipso A. Idcirco in ipso optime relucescit. Si enim A ipsum optime splendescit in aliquo, id ipsum utique et est et dicitur bonum. Nicolaus. Perspicue cernis, quia medio ipsius A recte cuncta perlustras; numquid et id etiam considerasti, quomodo unum esse veluti omnium elementum theologus dicit, Deum tamen in Mystica theologia unum negat?
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Capitulum XVII.
Ferdinandus. Consideravi, inquam, ipsum dixisse veluti ais, sed quaeso quid per hoc expresserit, dissere. Nicolaus. Dicere ipsum voluisse arbitror: sicut uno sublato cessant singula et quemadmodum elemento sublato desinunt elementata, ita ipso A summoto omnia pariter cessant. Habet enim se modo ad cuncta intimiore penitioreque, quam elementum ad elementata.
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Ferdinando. Hai fatto bene a farmi quella raccomandazione, padre; ora vedo distintamente che tutto ciò che ha detto il teologo si chiarisce grazie alla luce di A. E sono oltremodo lieto di constatare che Dionigi stesso afferma che i teologi celebrano la bontà [di Dio] come la prima partecipazione di Dio197; da ciò vedo che tutti i nomi divini indicano una partecipazione a colui che è impartecipabile198. Poiché, tuttavia, se venisse tolto A, tutti questi nomi perderebbero il loro significato e la loro partecipazione, dal momento che tutti partecipano di A, mi rallegro di avere una tale partecipazione e di averla anzitutto della bontà, secondo quanto dicono i teologi. Infatti, dal momento che ciò che viene desiderato da tutti viene desiderato per il fatto di essere un bene199, A, senza il quale tutte le cose cesserebbero di essere, viene giustamente denominato bontà. Mosé dice che il creatore fu spinto a creare tutte le cose perché vide che erano buone200. Se il bene, dunque, è il principio delle cose, allora, certamente, tutte le cose sono nella misura in cui sono buone. Come il bene non è altro dal bello, come dice Dionigi201, così non è neppure altro da tutto ciò che esiste; questo, tuttavia, il bene lo riceve da A. Per questa ragione, A risplende in maniera perfetta nel bene. Se, infatti, A risplende in maniera perfetta in qualche cosa, questa certamente è e viene detta buona. Nicola. Discerni tutto con grande chiarezza, e questo perché esamini tutto correttamente per mezzo di A. Ma hai anche notato che il teologo dice che l’Uno è, per così dire, l’elemento di tutte le cose202, mentre nella Teologia mistica nega che Dio sia uno?203
Capitolo xvii
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Ferdinando. Ho notato, in effetti, che Dionigi si è espresso come dici; ma, ti prego, spiegami che cosa egli ha inteso dire con ciò. Nicola. Ritengo che egli abbia voluto dire questo: come le singole cose cessano di essere se viene tolto l’uno204, e come le cose formate di elementi vengono meno se viene tolto il loro elemento costitutivo, così, se viene eliminato A, cessano egualmente di essere tutte le cose. A, in effetti, si rapporta a tutte le cose in maniera più intima e più profonda rispetto a come l’elemento si rapporta alle cose che sono formate di elementi.
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81 Ferdinandus.
David igitur de Dynanto et philosophi illi, quos secutus is est, minime errarunt, qui quidem Deum hylen et noyn et physin, et mundum visibilem Deum visibilem nuncuparunt. Nicolaus. David hylen corporum principium vocat, noyn seu mentem principium animarum, physin vero seu naturam principium motuum et illa non vidit differre inter se ut in principio, quocirca sic dixit. Tu autem iam ipsum A haec ipsa vidisti definire ipsaque in ipsis esse, etsi ipsorum sit nullum. Ideo haec et huiusmodi nihil te moveant, quod scilicet theologus unum veluti elementum dicat, sed semper ad ipsum A et praemissa recurrens non errabis. Ferdinandus. Sancte me instruis informasque, idque etiam mihi admodum est gratum, quod ad Caium theologus scripsit. Est enim lucidum et ad ea, quae dixisti, conforme atque consentaneum. Nicolaus. Quidnam illud? Ferdinandus. Quando aiebat theologus: «si quis Deum videns intellexerit quod vidit, non ipsum vidit, sed aliquid». Unde si David de Dynanto Deum vidisset esse hylen aut noyn aut physin, utique aliquid et non Deum vidisset. 82 Nicolaus. Mirabilis es, Ferdinande; et mirabilior sane, si id in dictis etiam verbis, quod est altius, considerasti. Ferdinandus. Quid istuc est? rogo. Nicolaus. Quando scilicet inquit: «cum omnia, quae intelliguntur, sint aliquid, ideo non sunt Deus.» Aliquid autem quid aliud est. Deus igitur, si intelligeretur, utique «non esse aliud» intelligeretur. Unde si non potest intelligi esse id, quod per aliud et aliquid significatur, nec aliquid intelligi potest, quod per aliquid non significetur: ideo Deus, si videretur, necesse est quod supra
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Ferdinando. Pertanto, Davide di Dinant205 e i filosofi ai quali egli si è rifatto non hanno errato del tutto quando hanno chiamato Dio hyle, nous e physis, e il mondo visibile un Dio visibile. Nicola. Davide chiama hyle il principio dei corpi, chiama nous o mente il principio delle anime, e chiama physis o natura il principio dei movimenti. Ed egli ha visto che queste realtà, quando le si considera nel principio, non differiscono tra di loro, ed è per questo che egli ha parlato in quel modo. Tu, però, hai ormai visto che è proprio A che definisce questi principi, e che, in questi principi, A è questi principi, anche se non è nessuno di essi206. E così non farti turbare da queste affermazioni e da altre simili, come quella, ad esempio, del teologo che sostiene che l’Uno è, per così dire, l’elemento [di tutte le cose]207, ma fai piuttosto sempre riferimento ad A e alle cose che abbiamo detto sopra, e non sbaglierai. Ferdinando. Mi istruisci e mi educhi in modo impeccabile; anche ciò che il teologo ha scritto a Gaio mi piace moltissimo. Le sue parole sono infatti chiare, e sono conformi e in accordo con ciò che tu hai detto. Nicola. Quali parole? Ferdinando. Quando il teologo ha detto: «Se qualcuno, vedendo Dio, comprendesse ciò che vede, non sarebbe Dio ciò che egli vede, ma un’altra cosa»208. Se, dunque, Davide di Dinant avesse visto che Dio è hyle o nous o physis, egli avrebbe certamente visto non Dio, ma qualcos’altro. Nicola. Sei degno di ammirazione, Ferdinando, e lo sei certamente ancora di più se hai notato ciò che vi è di più profondo nelle parole che abbiamo citato. Ferdinando. Di che cosa si tratta? Dimmelo, ti prego. Nicola. Quando egli dice: «Dal momento che tutte le cose che vengono conosciute sono un qualcosa, per questo esse non sono Dio»209. Ora, «qualcosa» significa qualcosa di «altro»210. Dunque, se Dio venisse conosciuto, verrebbe anzitutto conosciuto come ciò che non è «altro». Pertanto, se Dio non può essere conosciuto come ciò che viene designato mediante le espressioni «altro» e «qualcosa», e se non c’è nulla che può essere conosciuto che non venga designato come un «qualcosa», allora, se Dio venisse visto, dovrebbe
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et ante quid aliud et supra intellectum videatur. Ast ante aliud nil nisi ‘non aliud’ videri potest. Habes igitur quod ‘non aliud’ in principium nos dirigit intellectum et aliud et aliquid et omne excellens et antecedens intelligibile. Haec ibidem theologus declarat, atque etiam, quomodo ipsius ‘non aliud’ cognitio perfecta dici potest ignorantia, quando quidem eius, qui est super omnia, quae cognoscuntur, est cognitio. Haec nunc de nostro admirabili theologo sic dicta sint; sufficiunt enim proposito ad quaeque alia per ipsum taliter dicta. 83
Capitulum XVIII.
Ferdinandus. Nunc si otium tibi est, maximi illius Peripatetici et argutissimi Aristotelis quaedam hoc nostro principio scripta forte non indigna subintremus. Et quoniam ignotus penitus nequaquam tibi est, dic, quaeso, quid nobis voluit ostendere tantae sollicitudinis philosophus? Nicolaus. Ea sane arbitror, quae circa veri notitiam adinvenit. Ferdinandus. Quid igitur invenit? Nicolaus. Equidem, ut ingenue fatear, nescio; sed quidditatem, obiectum intellectus, semper quaesitam, numquam repertam dicit. Sic enim ait in prima philosophia: «Omnibus difficillimum est maximamque ambiguitatem habet, utrum unum et ens, ut Pythagorici et Plato dicebat, non est aliud quidquam sed entium substantia, an non; an aliud quidem subiectum, ut Empedocles amicitiam ait, alius ignem, alius aquam, alius aërem.» Et alibi idem in eodem libro: «Tam olim quam nunc et semper quaeritur semperque dubitatur, quidnam ipsum ens sit, hoc est quaenam substantia est. Hoc enim quidam unum aiunt esse, quidam plura.»
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necessariamente essere visto al di sopra e prima di ciò che è altro e al di sopra dell’intelletto. Ma, prima di ciò che è altro, non si può vedere nulla tranne il «non-altro». Ne consegue, pertanto, che il «nonaltro» ci conduce verso il principio che precede ed è al di sopra dell’intelletto, dell’altro, del qualcosa e di tutto ciò che è intelligibile. Queste cose il teologo le spiega nel medesimo passo211, e spiega anche che la conoscenza del «non-altro» può essere chiamata perfetta ignoranza per il fatto che si tratta della conoscenza di colui che è al di sopra di tutto ciò che viene conosciuto. Le cose che abbiamo fin qui detto circa la dottrina del nostro ammirabile teologo possono per ora bastare; esse sono infatti sufficienti per il nostro intento e anche per comprendere le altre cose che egli ha detto in termini simili.
Capitolo xviii
83
Ferdinando. Ora, se hai tempo, esaminiamo alcune delle cose scritte da Aristotele212, il più grande e il più acuto dei Peripatetici213, cose che forse non sono indegne del nostro principio. Dal momento che è un autore che non ti è del tutto sconosciuto, dimmi, ti prego, che cosa il filosofo ha voluto mostrarci con tanta sollecitudine. Nicola. Si tratta, credo, di ciò che egli ha scoperto circa la conoscenza della verità. Ferdinando. Che cosa, dunque, ha scoperto? Nicola. In effetti, se devo essere franco, non lo so. Ma egli dice che la quiddità, che è l’oggetto dell’intelletto, viene sempre ricercata e non viene mai trovata 214. Nella Filosofia prima, infatti, egli afferma questo: «È per tutti una questione estremamente difficile e fonte di grandissima perplessità sapere se, come dicevano i Pitagorici e Platone, l’uno e l’essere non siano altro che la sostanza delle cose, oppure se non lo siano, e se, invece, non vi sia un qualche altro sostrato, come, per esempio, l’amicizia, secondo Empedocle, o, secondo altri, il fuoco, o, secondo altri ancora, l’acqua o l’aria»215. E nella stessa opera egli afferma in un altro passo: «Ciò che dai tempi antichi, così come ora e sempre, costituisce l’eterno oggetto di ricerca e l’eterno problema: “che cos’è l’essere”, equivale a questo: “che cos’è la sostanza”. Alcuni dicono che la sostanza è unica, altri ne pongono molte»216.
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84 Ferdinandus.
Verba haec magni philosophi utique sunt aestimanda. Fac igitur, ut acuto visu hos philosophi sermones subintremus. Nicolaus. Tentabo pro virili. Equidem considero quomodo quaerit, utrum unum et ens non est aliud quidquam, sed entium substantia, qualiter per ipsum ‘non aliud’ rerum substantiam quae sivit. Vidit enim rerum substantiam non esse aliud quidquam et ideo de ente et de uno et de amicitia et de aëre et aqua et omnibus dubitavit, an aliquid horum foret rerum substantia, quoniam illa omnia aliud aliquid esse perspiciebat. Esse igitur rerum substantiam praesupposuit et plures tales non esse. Dubitavit autem, sicut alii omnes, quaenam haec esset. Et cum omnibus quaerens concurrit, qui ipsam varie nominabant, sciscitans, an per aliquem esset bene nominata. Et demum illi visum est, quod illam bene nemo nominavit; quia, quicumque eam nominarunt, aliquid aliud sive quid aliud, non ipsam simplicissimam rerum nominarunt quidditatem, quam utique vidit non posse esse aliud aliquid. Et in hoc quidem non erravit, sed ibi, sicut alii homines, cessavit. Vidit enim, quod omnis rationalis venandi modus ad capiendum ipsam tantopere desideratam et sapidam scientiam minime sufficit. Ferdinandus. Video philosopho id accidisse, quod praedixisti. Nicolaus. Quid illud? 85 Ferdinandus. Quia qui quaerit videre, quaenam visibilium sit substantia, cum visu illam inter visibilia quaerat, lucem se anterioriter percipere non attendit, sine qua nec posset quaerere nec reperire visibile. Quodsi ad illam attenderet, in aliquo alio quaerere desineret; nempe sic philosopho accidit, qui cum mente rerum quidditatem quaereret, lumen, quod per ‘non aliud’ significatur, illi sese
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Ferdinando. Queste parole del grande filosofo devono certamente essere tenute in grande considerazione. Fai dunque in modo che noi possiamo penetrare in profondità in questi ragionamenti del filosofo. Nicola. Farò del mio meglio. Da parte mia, osservo che egli si chiede se l’uno e l’essere siano non qualcos’altro, ma la sostanza degli enti217; in questo modo, egli ha cercato la sostanza delle cose attraverso il «non-altro». Egli ha visto, infatti, che la sostanza delle cose non è qualcosa di altro; è per questo che, per quanto concerne l’essere, l’uno, l’amicizia, l’aria, l’acqua e tutti i principi, egli mise in dubbio che una di queste realtà fosse la sostanza delle cose, in quanto riconosceva che ciascuna di esse è qualcosa di altro. Egli, quindi, è partito dal presupposto che vi sia una sostanza delle cose e che non ve ne possano essere molte. Tuttavia, come tutti gli altri, era incerto su quale fosse questa sostanza. E, nel condurre le sue ricerche, egli ha passato in rassegna tutti coloro che le avevano dato nomi diversi e si è chiesto se qualcuno di essi l’avesse denominata in modo appropriato218. E alla fine è parso ad Aristotele che nessuno l’avesse nominata in modo appropriato, in quanto tutti coloro che l’avevano nominata avevano indicato con i loro nomi qualcos’altro o qualcosa di altro e non quella semplicissima quiddità delle cose, che Aristotele aveva visto che non può essere qualcosa di altro. E su questo punto egli non si è sbagliato, ma, come gli altri, si è fermato ad esso. Egli vide, infatti, che nessun procedimento razionale della ricerca è in alcun modo suffciciente per acquisire quella scienza sapida e così tanto desiderata 219. Ferdinando. Vedo che al filosofo è accaduto quello che hai detto in precedenza. Nicola. Che cosa ho detto? Ferdinando. Che colui che cerca di vedere quale sia la sostanza delle cose visibili, se la cerca con i suoi occhi tra le cose visibili, non presta attenzione al fatto che egli percepisce prima la luce, senza la quale non potrebbe né cercare, né trovare ciò che è visibile. Ma se egli prestasse attenzione a questa luce, smetterebbe di cercarla in qualche cosa di altro; ed è appunto quello che è accaduto al filosofo: quando si mise alla ricerca con la mente della quiddità delle cose, gli si presentò la luce, che viene designata con il ter-
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obtulit, tamquam sine quo nequaquam reperiret. Ceterum ipse lumen ipsum ‘non aliud’ a quaesito non esse aliud non attendit. Quia vero per ‘non aliud’ aliud quaesivit, non nisi aliud ab aliis repperit, quocirca hinc quaerendo remotius nimis adinvenit. Nicolaus. Verum dicis. Nam si lumen ipsum, quod mente medium esse vidit ad quaesitum perveniendi principium, etiam ac finem esse attendisset, non deviasset profecto et tot labores abbreviasset. Si enim dixisset: clarissime utique video rerum quidditatem quid aliud esse non posse: quomodo enim foret rerum quidditas, si aliud foret? Aliud enim se ipsum quaesitum negat; quodsi non aliud esse debet, ab omni sane alio ‘non aliud’ esse necesse est. Sed hoc, quod ab omni alio aliud esse non debet, certe aliter nominari non potest. ‘Non aliud’ igitur recte nominabitur. Esto igitur quod A per ‘non aliud’ ipsum significetur, A profecto quaesitum erit. 86
Capitulum XIX.
Ferdinandus. Utinam, ut dicis, attendisset; magno quidem se et nos labore liberasset: nempe secretum hoc facillimis, clarissimis ac paucissimis verbis tradidisset. Neque enim laboriosa logica nec difficili definiendi arte opus habuisset, quae, cum vir ille maximo labore investigasset, ad perfectum tamen perducere non evaluit. Cessassent quoque omnes circa species et ideas difficultates ac opinionum diversitates humanamque scientiam gloriose consummasset. 87 Nicolaus. Ostendis eximiam erga philosophum utique diligendum affectionem, qui quidem ratione lucidissima dotatus vide-
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mine «non-altro», come ciò senza cui non avrebbe in alcun modo potuto trovare nulla. Per il resto, tuttavia, egli non ha prestato attenzione al fatto che la luce, in quanto «non-altro», non è qualcosa di altro rispetto a ciò che viene cercato. Poiché, invece, attraverso il «non-altro» ha cercato qualcosa di altro, egli non ha trovato se non ciò che è un altro dagli altri; è per questo che, nella sua ricerca, egli ha scoperto solo qualcosa che è estremamente distante dal principio ricercato. Nicola. Dici il vero. In effetti, se egli avesse prestato attenzione al fatto che la luce, che egli vedeva con la mente come il mezzo per pervenire al principio ricercato, è anche il fine cui tende la ricerca, egli non avrebbe certamente errato e si sarebbe risparmiato così tante fatiche. Egli avrebbe potuto dire, per esempio: «Vedo con estrema chiarezza che la quiddità delle cose non può essere qualcosa di altro [rispetto ad esse]: in che modo, infatti, potrebbe essere la quiddità delle cose, se fosse altro? È l’altro stesso che nega di essere ciò che viene ricercato. Se, quindi, l’essenza delle cose non deve essere un altro, è certamente necessario che sia non-altro da ogni altro. Ma ciò che non deve essere altro da ogni altro non può di certo essere denominato in altro modo. Pertanto, sarà a ragione denominato “non-altro”. Posto, dunque, che con A indichiamo il “nonaltro”, A sarà certamente ciò che viene ricercato».
Capitolo xix Ferdinando. Magari, come dici, Aristotele avesse prestato attenzione a queste cose! Avrebbe risparmiato a noi e a se stesso una grande fatica; ci avrebbe trasmesso questo segreto in pochissime parole, estremamente chiare e semplici. Ed egli non avrebbe neppure avuto bisogno di una logica così complicata, né della difficile arte della definizione, discipline che quell’uomo non è riuscito a portare alla loro perfezione, nonostante l’immenso lavoro di ricerca che ha dedicato ad esse. Inoltre, tutte le difficoltà e le differenze di opinione circa le specie e le idee sarebbero scomparse, ed egli avrebbe gloriosamente condotto il sapere umano alla sua perfezione. Nicola. Mostri un affetto straordinario verso questo filosofo, degno senz’altro di apprezzamento, che sembra in effetti aver avu-
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tur fuisse. Verum idem fortasse de omnibus speculativis dici philosophis posset. Difficilium enim haec est facilitas, quae ad veritatem speculantes direxisset omni visui mentis indubitabilem, qua meo quidem iudicio brevior nulla et artior vel tradi vel apprehendi potest, quae sola perfecta est, cui nihil addi per hominem est possibile. Visum enim ad principium dirigit, ut ibidem contemplans delicietur assidueque pascatur et excrescat. Neque ulla alia reperibilis est perfecta, absoluta et completa traditio. Omnia enim, quae oculi mentis acie non videntur, sed ratione investigantur, tametsi verum admodum appropinquare videantur, nondum tamen ad ultimam certitudinem pervenerunt. Ultima autem et omni ex parte cumulata certitudo visio est. 88 Ferdinandus. Cuncta, quae dicis, sic profecto se habent. Videtur sane philosophus ille omni suo tempore viam seu venandi rerum substantiam artem ex ratione elicere studuisse ac nullam, quae sufficeret, adinvenisse. Nam nec ipsa etiam ratio ad id, quod rationem antecedit, pertingit, minusque omnes a ratione productae artes possunt viam praebere ad id, quod omni rationi est incognitum. Philosophus ille certissimum credidit negativae affirmativam contradicere, quodque simul de eodem utpote repugnantia dici non possent. Hoc autem dixit rationis via id ipsum sic verum concludentis. Quodsi quis ab eo quaesivisset, quid est aliud, utique vere respondere potuisset: «non aliud quam aliud est.» Et consequenter si quaerens adiecisset: quare aliud est aliud? sane quidem, ut prius, dicere valuisset: «quia non aliud quam aliud est»; et ita ‘non aliud’ et aliud neque sibi ut repugnantia vidisset contradicere. Atque illud, quod primum principium nominat, pro viae ostensione per-
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to un’intelligenza estremamente lucida. Ma si potrebbe forse dire la stessa cosa di tutti i filosofi speculativi. È infatti la facilità delle cose difficili che ha condotto i filosofi speculativi a quella verità che risulta indubitabile per ogni visione della mente220; verità rispetto alla quale non ce n’è nessun’altra che possa essere appresa o trasmessa in maniera più breve o concisa221. Solo questa verità è perfetta, e l’uomo non può aggiungere ad essa nulla. Essa, infatti, dirige la visione verso il principio, in modo tale che, chi lo contempla, se ne diletti, se ne nutra continuamente e ne riceva una continua crescita. Non si può trovare nessun altro insegnamento che sia perfetto, assoluto e completo. In effetti, tutto ciò che non viene visto con l’occhio acuto della mente222, ma viene investigato dalla ragione, per quanto possa sembrare che si avvicini molto alla verità, non è tuttavia ancora pervenuto alla certezza ultima. La certezza ultima, infatti, quella che è sotto ogni aspetto perfetta, coincide con la visione223. Ferdinando. Le cose che dici stanno sicuramente così. Sembra proprio che questo filosofo si sia adoperato, durante tutta la sua vita, a ricavare dalla ragione una via o un’arte per andare a caccia della sostanza delle cose, e che egli non abbia trovato nulla di soddisfacente. Infatti, neppure la ragione stessa raggiunge ciò che precede la ragione, e ancor meno tutte le arti prodotte dalla ragione possono fornire una via che conduca verso ciò che resta sconosciuto ad ogni ragione. Questo filosofo ha ritenuto cosa certissima che una proposizione affermativa contraddica la sua negativa, e che entrambe non possano essere dette nello stesso tempo della stessa cosa, dal momento che esse sono degli opposti inconciliabili 224. Egli, tuttavia, ha detto questo seguendo la via della ragione, la quale conclude che proprio in questo consiste la verità. Ma, se qualcuno avesse chiesto ad Arsitotele: «Che cos’è l’altro?», egli avrebbe potuto sicuramente rispondere in tutta verità: «È non-altro che l’altro». E se, conseguentemente, colui che aveva posto la domanda avesse aggiunto: «Perché l’altro è altro?», Aristotele avrebbe potuto correttamente rispondere come in precedenza: «Perché è nonaltro che l’altro». E così egli avrebbe visto che il non-altro e l’altro non si contraddicono tra di loro come degli opposti inconciliabili. Ed avrebbe anche capito che ciò che egli chiama «primo princi-
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spexisset non sufficere ad veritatem, quae supra rationem mente contemplatur. 89 Nicolaus. Tua equidem dicta laudo addoque, quod alio etiam modo ad veritatem intuendam viam sibi ipse praeclusit: aiebat enim substantiae non esse substantiam nec principii principium, ut supra tetigimus; nam sic etiam contradictionis negasset esse contradictionem. At si quispiam eum interrogasset, numquid in contradicentibus contradictionem vidisset, veraciter se videre respondisset. Deinde interrogatus, si id, quod in contradicentibus vidit, anterioriter sicut causam ante effectum videret, nonne tunc contradictionem videret absque contradictione, hoc certe sic se habere negare nequivisset. Sicut enim in contradicentibus contradictionem esse contradicentium contradictionem vidit, ita ante contradicentia contradictionem ante dictam vidisset contradictionem, sicut Dionysius theologus Deum oppositorum vidit oppositionem sine oppositione. Oppositioni enim ante opposita nihil opponitur. Verum etsi philosophus ille in prima seu mentali philosophia defecerit, multa tamen in rationali ac morali omni laude dignissima conscripsit. Quae quoniam praesentis speculationis non sunt, haec de Aristotele dixisse sufficiat. 90
Capitulum XX.
Petrus Balbus Pisanus. Audivi te, pater, cum Ferdinando multa et mihi quidem gratissima contulisse, sed maxime ex Dionysii maximi theologi libellis recitata sum admiratus. Cum enim Proculum illum Platonicum in libro de Platonis divini theologia de Graeco verterem hiis diebus in Latinum, ea ipsa quasi eodem quo-
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pio»225 non è sufficiente per mostrare la via verso quella verità che viene contemplata dalla mente al di sopra della ragione. Nicola. Apprezzo le tue parole, ed aggiungo che Aristotele si è preclusa la via che gli avrebbe permesso di cogliere la verità anche in un’altra maniera. Infatti, come abbiamo accennato in precedenza 226, egli affermava che non c’è una sostanza della sostanza, né un principio del principio; allo stesso modo, egli avrebbe anche negato che vi è una contraddizione della contraddizione. Ma se qualcuno gli avesse domandato se egli vedeva la contraddizione nei termini contraddittori, egli avrebbe certamente risposto di vederla. Se poi gli fosse stato chiesto se ciò che egli vedeva nei termini contraddittori l’aveva visto anteriormente [ad essi] come si vede la causa prima dell’effetto, e se, di conseguenza, avesse visto la contraddizione senza la contraddizione, egli non avrebbe potuto negare che era proprio così. Infatti, come egli ha visto che, nei contraddittori, la contraddizione è una contraddizione dei termini contraddittori, così avrebbe visto, prima dei contraddittori, la contraddizione che precede la contraddizione espressa. Allo stesso modo, il teologo Dionigi ha visto che Dio è l’opposizione degli opposti senza opposizione227. Non c’è nulla, infatti, che sia opposto all’opposizione che precede gli opposti. Anche se questo filosofo ha fallito nella filosofia prima o filosofia della mente, egli ha tuttavia scritto molte cose degnissime di ogni lode nell’ambito della dottrina della conoscenza razionale e della filosofia morale. Poiché, tuttavia, queste dottrine non rientrano nella nostra presente indagine, quello che abbiamo fin qui detto su Aristotele può essere sufficiente.
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Pietro Balbo da Pisa. Ti ho ascoltato, padre, discutere con Ferdinando di molti argomenti che ho apprezzato moltissimo, ma ciò che ha destato in me meraviglia sono state soprattutto le citazioni che hai tratto dai libri di Dionigi, il più grande dei teologi. In questi giorni, infatti, ho tradotto dal greco al latino il libro del celebre platonico Proclo sulla teologia del divino Platone, ed ho trovato le stesse cose con delle espressioni quasi dello stesso tenore e
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que expressionis tenore ac modo repperi, quam ob rem de Platonica etiam te audire theologia aliquid cupio. Nicolaus. Proculum tuum, Petre, Dionysio Areopagita tempore posteriorem fuisse certum est. An autem Dionysii scripta viderit, est incertum. Sed tu particularius narrato, quo in dicto consentiant. Petrus. Sicut Dionysius inquit unum, quod est posterius uno simpliciter, ita et Proculus Platonem referens asserit. 91 Nicolaus. Forte sapientes idem omnes dicere voluerunt de primo rerum principio, sed varie id ipsum varii expresserunt. Plato autem, quem tantopere Proculus extollit, tamquam deus quidem fuerit humanatus, ad anterius semper respiciens conatus est rerum videre substantiam ante omne nominabile. Unde cum rem corporalem divisibilemque ex se subsistere non posse perspiceret nec se ipsam propter debilitatem et fluxibilitatem suam conservare, ante illam animam, ante animam vero intellectum vidit atque ante intellectum unum. 92 Posterius autem prioris participatione subsistit. Primum igitur, cuius participatione omnia id sunt, quod sunt, ante intellectum videtur, cum omnia intellectu nequaquam participent. Intellectus igitur anterius sive senius se ipso, ut verbis eius utamur, non attingit. Ex quo Platonem reor rerum substantiam seu principium in mente sua revelationis via percepisse modo, quo apostolus ad Romanos dicit Deum se illis revelasse, quam equidem revelationem in lucis similitudine capio, quae sese per semetipsam visui ingerit. Et aliter non videtur, neque cognoscitur, quam ipsa se revelat, cum sit invisibilis, quia est ante et supra omne visibile. Haec Plato in epistolis sic se habere perbreviter exprimit Deum ipsum dicens vigilantissime et constanter quaerenti se demum manifestare, quae Proculus quoque in Parmenidis commentariis resumit. Cum haec
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dello stesso genere. Per questo, mi piacerebbe ascoltare da te qualcosa anche a proposito della Teologia platonica228. Nicola. È certo, Pietro, che il tuo Proclo è cronologicamente posteriore a Dionigi l’Areopagita, ma non è certo che egli abbia letto gli scritti di Dionigi229. In ogni caso, esponi più precisamente quali sono le affermazioni sulle quali essi concordano. Pietro. Come Dionigi dice che l’uno-che-è è posteriore all’Uno assoluto230, così anche Proclo sostiene la stessa cosa riferendosi a Platone231. Nicola. Forse tutti i sapienti hanno voluto dire la stessa cosa del primo principio della realtà, ma diversi fra di essi l’hanno espressa in modi diversi. Platone, invece, che Proclo esalta a tal punto da considerarlo quasi come un Dio fatto uomo232, rivolgendo sempre lo sguardo verso ciò che è anteriore, si è sforzato di vedere la sostanza delle cose prima di tutto ciò che è nominabile233. Di conseguenza, osservando che la realtà corporea e divisibile non può sussistere da se stessa, né può conservare se stessa a causa della sua inconsistenza e della sua mutevolezza, egli ha visto che, prima di ogni realtà corporea, vi è l’anima, prima dell’anima l’intelletto, e prima dell’intelletto l’Uno234. Ora, ciò che è posteriore sussiste grazie alla partecipazione a ciò che è anteriore. Di conseguenza, il Primo, per partecipazione al quale tutte le cose sono ciò che sono, viene visto prima dell’intelletto, dal momento che non tutte le cose partecipano dell’intelletto235. L’intelletto, pertanto, non raggiunge «ciò che è anteriore o più vecchio di lui», per usare le sue parole236. Per questo motivo, penso che Platone abbia visto nella sua mente la sostanza o il principio delle cose attraverso una rivelazione, nel modo in cui l’Apostolo dice ai Romani che Dio si è rivelato a loro237; rivelazione che io intendo per mezzo di un’analogia con la luce, la quale si presenta da se stessa alla vista. La luce non viene vista, né conosciuta se non nel modo in cui essa si rivela, dal momento che la luce è invisibile, in quanto è prima e al di sopra di tutto ciò che è visibile. Che le cose stiano così Platone lo esprime molto brevemente nelle sue Lettere, quando dice che Dio si manifesta soltanto a chi lo ricerca con estrema vigilanza e con costanza238 – dottrina che anche Proclo riprende nel suo Commentario al Parmenide. Presupponendo pertan-
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igitur vera supponat, animam inquit, quae quidem omnia posteriora se ipsam contemplans in se animaliter complicat, ut vivo in speculo cuncta inspicere, quae eius participant vitam et per ipsam vivunt vitaliterque subsistunt. Et quia illa in ipsa sunt, ipsa in sui similitudine sursum ascendit ad priora, quemadmodum haec Proculus in eius recitat theologia. 93 Petrus. Declara id, quaeso, quod dixisti, ipsum idem dicere scilicet, quod tu de ‘non aliud’ praemisisti. Nicolaus. Faciliter consideranti id ipsum clarescet. Namque, ut ipse ait, omnium causam ab omnibus oportet participari. Ideo ipsum unum, quod dicit esse ante unum, quod est unum, ab eo, non est aliud, cum eius sit causa; quare causam ipsius unius, quod est, ideo unum nominat, ut ‘non aliud’ exprimat. Unde sicut nominat unius, quod est, causam unum, sic entis causam ens nuncupat et substantiae substantiam et de omnibus eodem modo, per quod intelligi datur, omnia, quae sunt et nominantur id, quod sunt et nominantur, habere ab omnium causa, quae in existentibus omnibus est id, quod sunt et nominantur, et non aliud. Vides igitur omnia nomina, quae nominatorum nomina dicit, antecedere sicut unum ante unum, quod est et nominatur unum, ideo causae attribui, ut causam a causato non esse aliud designetur. In omnibus igitur nominibus ‘non aliud’ est, quod significatur. 94 Petrus. Video, pater, haec dubio carere: sed dum ad li ‘non aliud’ me converto, non possum equidem, quid sit, mente concipere. Nicolaus. Si quidem posses id concipere, haud utique esset omnium principium, quod in omnibus omnia significaret. Omnis enim humanus conceptus unius alicuius conceptus est. Verum ante
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to questo come vero, Platone dice che l’anima – la quale, contemplando se stessa, complica in sé, nel modo proprio dell’anima, tutte le cose che vengono dopo di lei239 – guarda, come in uno specchio vivente, tutte le cose che partecipano della sua vita e che, grazie all’anima, vivono e sussistono come esseri viventi. E poiché queste cose sono nell’anima, quest’ultima, per mezzo di ciò che è simile ad essa, ascende in alto verso quelle realtà che la precedono, come dice Proclo nella sua teologia, citando questa dottrina240. Pietro. Spiegami, ti prego, in che senso ciò che hai appena detto coincida con quello che hai esposto in precedenza a proposito del «non-altro». Nicola. Ciò risulterà subito chiaro a chiunque consideri la cosa con attenzione. Infatti, come dice Proclo, è necessario che alla causa di tutto partecipino tutte le cose241. E così l’Uno che, egli dice, è anteriore all’uno-che-è-uno, non è qualcosa di altro rispetto a quest’ultimo, in quanto ne è la causa; è per questo che alla causa dell’uno-che-è egli dà il nome di «Uno», per esprimere in questo modo il «non-altro»242. Quindi, come egli denomina «Uno» la causa dell’uno-che-è, così chiama «Essere» la causa dell’essere, «Sostanza» la causa della sostanza, e così di seguito per tutte le cose; in questo modo ci viene fatto comprendere che tutte le cose che sono e che vengono nominate hanno ciò che esse sono e per cui vengono nominate dalla causa di tutte le cose, la quale, in tutte le cose che esistono, è ciò che esse sono e per cui vengono nominate e nonaltro243. Vedi, dunque, che essa [la causa di tutto] precede tutti i nomi, che Proclo chiama i nomi delle cose che vengono nominate, come l’Uno precede l’uno-che-è e che viene denominato uno, e vedi, quindi, che i nomi vengono attribuiti alla causa allo scopo di indicare che essa non è qualcosa di altro dal causato. Ciò che viene pertanto indicato in tutti i nomi è il «non-altro». Pietro. Vedo, Padre, che tutto questo è indubitabile. Tuttavia, quando mi rivolgo al «non-altro» non posso comprendere concettualmente con la mia mente che cosa esso sia. Nicola. Se fossi in grado di comprenderlo concettualmente, allora esso non sarebbe veramente «il principio di tutte le cose», espressione, questa, che significa che esso è tutto in tutto. Ogni concetto umano, infatti, è il concetto di un qualcosa di determina-
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conceptum ‘non aliud’ est, quando quidem conceptus non aliud quam conceptus est. Vocetur igitur ipsum ‘non aliud’ conceptus absolutus, qui videtur quidem mente, ceterum non concipitur. Petrus. Ipsum ergo ‘non aliud’, cum ab aliquo non sit aliud, sed in omnibus omnia, nonne omni in conceptu omnia est? Nicolaus. Utique. Ideo cum omnis conceptus non aliud quam conceptus sit, in omni conceptu ‘non aliud’ est, quodcumque concipitur, manente sane conceptu, qui ipsum ‘non aliud’ est, inconceptibili. 95
Capitulum XXI.
Petrus. Me certe li ‘quam’ turbat, quando ipse definiendo dicis: terra non est aliud quam terra. Id igitur, ut explanares, vellem. Nicolaus. Plane tu quidem vides veram esse hanc terrae definitionem, qua dicitur: terra non aliud quam terra est, hanc vero falsam: terra est aliud quam terra. Petrus. Video. Nicolaus. Veritas definitionis igitur unde dependet? Petrus. Adverto plane, quomodo tam in vera quam falsa definitione est ‘quam’; ideo nequeo ab ipso li ‘quam’ dicere veritatem dependere, sed ab ipso ‘non aliud’ potius. Nicolaus. Optime! ‘Quam’ igitur non definit. Non ergo te perturbet. Petrus. Quam ob causam apponitur? Nicolaus. Quia dirigit visum; nam cum ‘non aliud’ dico non aliud quam non aliud, li ‘quam’ in ‘non aliud’ visum simpliciter dirigit, uti ante aliud est. Quando autem dico: aliud est non aliud
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to. Il «non-altro», invece, è prima del concetto, dal momento che un concetto è non-altro che un concetto. Di conseguenza, il «nonaltro» può essere denominato «concetto assoluto»244, il quale viene certamente visto con la mente, ma, ciononostante, non viene compreso concettualmente. Pietro. Se il «non-altro», dunque, non è altro da nulla, ma è tutto in tutte le cose, non è allora presente come tutto in ogni concetto? Nicola. Certamente. Dal momento che ogni concetto è nonaltro che un concetto, il «non-altro» è presente in ogni concetto, qualunque sia la cosa che viene concepita; ma in ciò, senza dubbio, quel concetto che è il «non-altro» resta concettualmente inconcepibile.
Capitolo xxi
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Pietro. Quando, nel dare una definizione, dici: «La terra è non-altro che la terra», ciò che crea in me confusione è il termine «che». Vorrei pertanto che me lo spiegassi. Nicola. Vedi chiaramente che la definizione della terra, nella quale si dice: «La terra è non-altro che la terra», è vera, e che è invece falsa quella nella quale si dice: «La terra è altro che la terra». Pietro. Lo vedo. Nicola. La verità di una definizione, dunque, da che cosa dipende? Pietro. Noto senza difficoltà che tanto nella definizione falsa, quanto in quella vera è presente il termine «che», per cui non posso dire che la verità dipenda da questo «che». Essa dipende, piuttosto, dal «non-altro». Nicola. Perfetto! Il «che», dunque, non definisce. Non lasciarti quindi confondere da questo termine. Pietro. Per quale motivo viene aggiunto [alla definizione]? Nicola. Perché indirizza il nostro sguardo; infatti, quando dico che «il “non-altro” è non altro che il “non-altro”», il termine «che» indirizza direttamente il nostro sguardo al «non-altro» come a ciò che è prima dell’altro. Quando invece dico: «l’altro è non-altro che
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quam aliud, visum dirigit in ‘non aliud’, ut est in alio aliud. Et cum dico: terra non aliud quam terra est, dirigit obtutum in ‘non aliud’, ut est in terra terra, et pari de omnibus modo. 96 Petrus. Optime sane! Nam nunc video ad quaestionem ‘quid est terra?’ responsum hoc: terram non aliud esse quam terram, mentis aciem explicare, qua mens quidem videt principium omnium per ‘non aliud’ significatum terram definire, quod est ‘non aliud’ in terra terram esse. Quodsi quaereretur ‘cur terra est terra?’ responderi debet, quia non aliud quam terra. Ideo enim terra est terra, quia ipsius principium seu causa in ipsa ipsa est. Et sic si quaeratur: ‘unde habet terra, quod terra est?’ dici sane debet: ab ipso suo principio seu ‘non aliud’ id habere; ab eo enim, a quo habet, ut non aliud quam terra sit, habet, quod est terra. Quocirca si quaeratur: ‘a quo habet bonum, quod est bonum?’ responderi potest a ‘non alio a bono’. Nam cum bonum ab alio a bono non habeat, quod sit bonum, necesse profecto est, quod id habeat a ‘non alio a bono’; sic terra habet, quod est terra, a ‘non alio a terra’; et ita de singulis. Hoc modo prioriter omnia in principio, quod ‘non aliud’, video. Et per ‘non aliud’ simplicissime et absolute significatur, quia A ab aliquo non est aliud. Ideo causa, exemplar, forma, idea, species et eiusmodi nomina ei per philosophos attribuuntur, quemadmodum ante me videre fecisti. 97 Nicolaus. Subintrasti, Petre, videsque omnium principium per ‘non aliud’ significari, ideo non aliud ab aliquo atque in omnibus omnia. Sed tu nunc ad Platonem revertere, cuius utique erat intentio principium, quod omnia est, in omnibus intueri. Unde ille omnia, quae habere se aliter possunt, ut est figura, nomen, definitio
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l’altro», il termine «che» indirizza il nostro sguardo al «non-altro» come a ciò che, nell’altro, è l’altro. E quando dico: «la terra è nonaltro che la terra», il termine «che» indirizza il nostro sguardo al «non-altro» come a ciò che, nella terra, è la terra, e così per tutte le cose. Pietro. Molto bene, davvero! Ora, infatti, vedo che alla questione: «che cos’è la terra?», la risposta: «la terra è non-altro che la terra» esplica lo sguardo acuto della mente grazie al quale la mente vede che il principio di tutto, indicato con l’espressione «non-altro», definisce la terra, ossia che, nella terra, il «non-altro» è la terra. E se venisse posta la domanda: «perché la terra è la terra?», allora si dovrebbe dare questa risposta: «perché la terra è non-altro che la terra». Infatti, la terra è la terra per il fatto che il suo principio o causa è, nella terra, la terra. E, allo stesso modo, se viene posta la domanda: «da dove ha la terra il fatto di essere terra?», si deve sicuramente dire: «dal suo principio, ovvero dal “non-altro”»; infatti, da ciò da cui la terra ha il fatto di essere non-altro che terra, essa ha anche il fatto di essere terra. Di conseguenza, se viene posta la domanda: «da dove ha il bene il fatto di essere bene?», si può rispondere: «da ciò che è non-altro dal bene». Infatti, dal momento che il bene non ha il fatto di essere bene da qualcos’altro dal bene, è certamente necessario che esso lo abbia da ciò che è «non-altro dal bene»245; allo stesso modo, la terra ha il fatto di essere terra da ciò che è «nonaltro dalla terra», e così di seguito per tutte le singole cose. In questo modo, tutte le cose le vedo anteriormente nel principio, che è il «non-altro». E con l’espressione «non-altro» il principio viene designato nel modo più semplice ed assoluto, in quanto A non è altro da nulla. Ed è per questo motivo che ad A vengono attribuiti dai filosofi i nomi di «causa», «esemplare», «forma», «idea», «specie», e nomi di questo genere, come mi hai fatto vedere in precedenza. Nicola. Sei andato bene a fondo della questione, Pietro, e vedi che il principio di tutto viene indicato con l’espressione «non-altro» per il fatto che esso non è altro da nulla ed è tutto in tutte le cose246. Ma ritorniamo ora a Platone, la cui intenzione era senz’altro quella di cogliere il principio che è tutto in tutte le cose. Per questo, egli ha visto che tutto ciò che può essere diversamente – come la figura, il nome, la definizione, la nozione, l’opinione e si-
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ratioque et opinio et talia, quidditatem nequaquam videbat ostendere, cum rerum essentia et quidditas haec omnia praecedat. Anterioriter igitur vidit ad illa, quae alia, instabilia et variabilia, ipsum, quod quidem aliud praecedit, omnium substantiarum substantiam et quidditatum esse quidditatem, quae cum in omnibus omnia sit, illa ipsum est, quod per ‘non aliud’ significatur. Apud ipsum igitur primum ipsum omnia et ab ipso vidit omnia ut a fonte seu causa et cuius gratia emanare. Petrus. Haec aperte de se ipso Plato in epistolis scribit, verum adicit illud, quo omnia prime apud regem primum sunt et apud secundum secunde, tertie vero apud tertium. 98 Nicolaus. Diversos modos essendi rerum vidit. Nam omnia ante aliud ipsum principium intuitus est simplicissimum, in quo quod libet, quod in alio aliter, in ipso quidem ‘non aliud’ cernitur. Quando enim de terra, quam rationis obtutu esse quid aliud a non terra video seu caelo sive igne, me ad intuendum ipsam in principio transfero: ibi ipsam a non-terra aliam non video, quia ipsam principium, quod ab aliquo non aliud est, video; non quod ipsam imperfectiori modo quam prius intuear, sed praecisissimo modo atque verissimo. Tunc enim quodlibet videtur praecisissime, quando ‘non aliud’ cernitur. Qui enim sic terram videt, quod ‘non aliud’ ipsam videt, praecisissime intuetur. Et hoc est quidditatis ipsius et omnium quidditatem cernere. Namque alia est terrae quidditatis visio, quae intellectu a quidditate aquae aut ignis videtur esse alia, et illa ‘non aliud’ sequitur, quia ab aliis alia est, et hic essendi quidditatis secundus seu intellectualis est modus. At tertius essendi est modus, quemadmodum per animam hoc ab illo discernentem animaliter attingitur, prout res seu rei quidditas sentitur, quod quidem
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mili247 – non ci mostra in alcun modo la quiddità, in quanto l’essenza o la quiddità delle cose precede tutto ciò che può essere diversamente. Egli, pertanto, ha visto, prima di tutte quelle cose che sono diverse le une dalle altre, instabili e mutevoli, che ciò che precede l’altro è la Sostanza di tutte le sostanze e la Quiddità di tutte le quiddità; e questa Sostanza o Quiddità, essendo tutta in tutte le cose, è ciò che viene indicata mediante l’espressione «non-altro». Egli ha visto, quindi, che tutte le cose sono attorno al Primo e sono il Primo, e che da esso tutte emanano come dalla loro fonte o dalla loro causa e per suo dono. Pietro. Nelle Lettere Platone scrive apertamente di queste cose, esponendo le sue opinioni. Ma egli aggiunge anche questo: che tutte le cose sono in primo luogo attorno al primo Re, in secondo luogo attorno al secondo, e in terzo luogo attorno al terzo248. Nicola. Egli ha visto i diversi modi d’essere delle cose. Infatti, prima di tutto ciò che è altro, egli ha colto il principio assolutamente semplice, nel quale tutto ciò che, nell’altro, esiste come di volta in volta altro, viene visto come non-altro. Infatti, quando dalla terra, che con gli occhi della ragione vedo che è qualcosa di altro da ciò che non è terra, o dal cielo o dal fuoco, trasferisco la mia attenzione alla terra così come la colgo nel principio, allora lì non la vedo come altra dalla non-terra, in quanto la vedo come il principio, il quale non è altro da nulla. Non che ora io la colga in maniera più imperfetta rispetto a come la vedevo prima; al contrario, ora la colgo con la massima precisione e nel modo più vero. Ogni cosa, infatti, viene vista con la massima precisione quando la si riconosce come «non-altro». Chi, infatti, vede la terra in modo da verderla come «non-altro», la coglie nel modo più preciso. E questo vuol dire riconoscere la quiddità della quiddità sia della terra sia di tutte le cose. Un altro modo di vedere la quiddità della terra è quello che consiste nel vederla, mediante l’intelletto, come altra rispetto alla quiddità dell’acqua o del fuoco; questa forma di quiddità viene dopo il «non-altro», in quanto essa è altra dalle altre quiddità, e questo è il secondo modo d’essere della quiddità, ossia quello intellettuale. C’è un terzo modo d’essere, che è quello che viene colto dall’anima quando essa distingue, come è proprio dell’anima, questo da quello, a seconda che venga percepita una cosa o la quiddità
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fortassis dicere voluit Plato aut altius quiddam. Suum enim hoc arcanum et secretum quam breviter et timide Plato patefecit et in paucis suis verbis acutissima multorum ingenia excitavit. 99
Capitulum XXII.
Ioannes Andreas, Abbas. Audivi te, pater, et antea saepe et nunc maxime mentis tuae visionem nobis referentem, quodque illam in ipsum primum, quod quidem omnia in omnibus est, dirigis, quo prius quidquam concipi non potest, quod ‘non aliud’ nominas; et tamen ipsum asseris primum videri ante omne nominabile: quae mihi profecto videntur esse contraria. Nicolaus. Pater abba, bene tenes audita; sed ipsum ‘non aliud’ non dico equidem illius nomen, cuius est super omne nomen nuncupatio. Sed de ipso primo conceptus mei nomen per ipsum ‘non aliud’ tibi patefacio; neque mihi praecisius occurrit conceptum meum exprimens nomen de innominabili, quod quidem a nullo aliud est. 100 Abbas. Equidem mirarer, quonam modo ipsum, quod tu vides ante et supra omne aliud, non sit aliud, cum aliud ipsi ‘non aliud’ videatur opponi, nisi paene idem Plato quoque diceret in Parmenide et commentator Proculus hoc dubium enodaret. Etsi ibi de uno et altero tam Plato, quam Proculus disserant dicentes impossibile unum ab altero alterum esse, tu autem praecisiori expressione tui conceptus per ipsum ‘non aliud’ clare me facis intueri ‘non aliud’ ipsum ab alio aliud esse non posse quocumque nominabili aut innominabili, cum omnia ipsum ‘non aliud’ ita definiat, ut omnia in omnibus sit. Verum Dionysius ille Areopagita dicebat etiam Deum alterum dici, quod quidem negatur in Parmenide.
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di una cosa. Questo è quanto Platone ci ha voluto dire, o forse ci ha voluto dire qualcosa di ancora più profondo. Egli ha in effetti svelato questa dottrina arcana e segreta con circospezione e nel modo più conciso possibile, e con le sue poche parole ha stimolato gli ingegni acutissimi di molti altri249.
Capitolo xxii Giovanni Andrea, Abate. Sovente nel passato e anche adesso, in modo particolare, ti ho ascoltato, Padre, esporci la visione della tua mente. E ho ascoltato che tu la dirigi verso il Primo, che è tutto in tutte le cose, prima del quale non è possibile concepire nulla e al quale dai il nome di «non-altro». E tuttavia sostieni che il Primo viene visto prima di tutto ciò che è nominabile. Queste due affermazioni mi sembrano del tutto contrarie. Nicola. Ricordi molto bene, padre Abate, ciò che hai ascoltato. Ma io non intendo certamente dire che il «non-altro» sia il nome di colui il cui nome è al di sopra di ogni altro nome250. Piuttosto, mediante il «non-altro» ti svelo il nome del mio concetto del Primo. Non mi viene in mente nessun nome più preciso che possa esprimere il mio concetto dell’innominabile, il quale, per l’appunto, non è altro da nulla. Abate. Da parte mia, mi chiederei, certamente, com’è possibile che ciò che tu vedi prima e al di sopra di ogni altro non sia un altro, dal momento che l’altro sembra essere opposto al «non-altro», se non fosse per il fatto che anche Platone ha detto quasi la stessa cosa nel Parmenide, e Proclo, il suo commentatore, ha chiarito questo dubbio251. E sebbene in queste opere, tanto Platone quanto Proclo hanno trattato dell’«uno» e dell’«altro», dicendo che è impossibile che l’«uno» sia altro dall’«altro»252 tu, tuttavia, avendo dato, proprio mediante il «non-altro», un’espressione più precisa al tuo concetto [del Primo], mi fai vedere chiaramente che il «non-altro» non può essere altro da nessun’altra cosa, sia questa nominabile o innominabile, dal momento che il «non-altro» definisce tutte le cose, in modo tale da essere tutto in tutte. Dionigi Areopagita, tuttavia, affermava che anche Dio può essere detto «Altro»253, una cosa, questa, che viene negata nel Parmenide254.
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Meministi, puto, Platonem negare quid rei definitionem attingere, quia quidditati circumponitur, uti etiam Proculus explanat. Unde non fit ita, cum ipsum ‘non aliud’ se atque omnia definit. Non enim sic ipsum principium quidditativum definit, quasi qui lineis circumpositis triangularem determinat seu definit superficiem, sed quasi superficiem, quae trigonus dicitur, constituat. Sed quod Plato et Dionysius sibi non repugnent atque adversentur, ipse quidem ex hoc vides: Dionysius enim ipsum alterum asserit, veluti communiter dicimus ‘amicus alter ego’, non sane propter separationem, sed agglutinationem et ad essentiam ut sic dixerim talem, quod in omnibus omnia sit, ut ipse declarat. Nec aliud intendit Plato. 102 Abbas. Video certe hanc, quam asseris definitionem solum veram et quidditativam, non esse illam, quam Plato mancam et defectuosam dicit, et vehementer demiror, dum magis adverto, quomodo hic modus, quanto notior quidem clarior et facilior, tanto ab omni obscuritate ac dubio est remotior atque absolutior. Quocirca cum dubitare nemo queat, quin hae tuae definitiones adeo sint verae, quod veriores esse non possint, in ipsis utique rerum quidditas veraciter elucescit. Sed quid ad evangelium dices, ubi legitur Joannem Baptistam, quo inter natos mulierum nemo est maior, asserere, quod Deum nemo vidit umquam, quodque hoc filius Dei, qui veritas in eodem nominatur evangelio, revelavit. 103 Nicolaus. Idipsum sane aio, ipsum scilicet omni visionis modo invisibilem. Nam etsi quis assereret se ipsum vidisse, is utique nequiret exprimere, quid vidisset. Nam qui est ante visibile et invisibile, quo pacto est visibilis, nisi quia excellit omne visibile, quod sine ipso nihil cernitur? Unde quando ipsum nec caelum, nec a
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Nicola. Ricordi, credo, che Platone nega che la definizione possa raggiungere l’essenza di una cosa255, perché, come spiega anche Proclo, la definizione si limita a circorscrivere la quiddità256. Di conseguenza, non è questo il genere di definizione che interviene quando il «non-altro» definisce se stesso e tutte le cose. Il «non-altro», infatti, definisce il principio quidditativo non come fa chi determina o definisce una superficie triangolare mediante delle linee che la circoscrivono, ma come farebbe chi costituisse quella superficie che viene chiamata triangolo. Tuttavia, che Platone e Dionigi non siano in disaccordo e in contrasto fra di loro, lo puoi vedere anche da questo: Dionigi afferma che Dio è «Altro» nel senso in cui diciamo comunemente che «l’amico è un “altro io”»257, ossia non in ragione di una separazione, ma di una profonda unione, e lo dice in relazione ad una essenza che è tale, per così dire, da essere tutta in tutte le cose, come Dionigi stesso si esprime. E Platone non ha inteso dire niente di diverso. Abate. Vedo ora con certezza che questa definizione, che tu sostieni essere la sola vera e quidditativa, non è quella che Platone chiama manchevole e incompleta 258; e non appena presto a ciò maggiore attenzione, resto fortemente sorpreso dal constatare come questo modo [di vedere] quanto più è noto, chiaro e facile, tanto più è distante e libero da ogni oscurità e da ogni dubbio. Pertanto, dal momento che nessuno può più dubitare che le tue definizioni siano vere, a tal punto che non potrebbero essere più vere, in esse la quiddità delle cose risplende senz’altro in modo vero. Ma che cosa dici a proposito del Vangelo, dove si legge che Giovanni il Battista, colui del quale nessuno, fra i nati da donna, è più grande259, afferma che nessuno ha mai visto Dio260, e che questo è quello che ha rivelato il Figlio di Dio, il quale, nello stesso Vangelo, viene chiamato Verità?261 Nicola. Io dico esattamente la stessa cosa, ossia che Dio è invisibile per ogni forma di visione. Infatti, anche se qualcuno affermasse di averlo visto, egli non sarebbe certo in grado di esprimere ciò che ha visto. Infatti, come può essere visibile colui che è prima del visibile e dell’invisibile262, se non nel senso che egli trascende tutto ciò che è visibile, e, senza di lui, nulla viene percepito? Quin-
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caelo aliud esse video et universaliter nec esse aliud, nec ab alio aliud esse, non video ipsum quasi sciens, quid videam. Videre enim illud, quod equidem ad Deum refero, non est videre visibile, sed est videre in visibili invisibile. Sicut cum hoc esse verum video, quod nemo scilicet Deum vidit, tunc sane Deum video super omne visibile ‘non aliud’ ab omni visibili; actualem autem illam infinitatem omnem excedentem visionem, omnium quidditatum quidditatem, nequaquam visibilem video, cum visibile quidem seu obiectum aliud sit a potentia, Deus autem, qui ab aliquo aliud esse non potest, omne obiectum excedat. 104
Capitulum XXIII.
Joannes Andreas, Abbas. Non est mirandum Deum creatorem, esse invisibilem, quippe cum mira intellectus opera in civitatum aedificiis, navibus, artibus, libris, picturis aliisque innumeris videamus, intellectum tamen sensu visus non attingimus; Deum itaque in creaturis suis cernimus, quamvis nobis maneat invisibilis. Sic quidem opera Dei sunt caeli et terra, quem nemo umquam vidit. Nicolaus. Visus se ipse non videt, licet in alio, quod videt, se videre attingat. Sed is visus, qui est visuum visus suum cernere in alio non attingit, cum ante aliud sit. Cum igitur ante aliud cernat, in ipsa visione non est aliud videns, aliud visibile et aliud videre ab ipsis procedens. Quare patet Deum, qui theos quod est a theoro seu video dicitur, visionem illam ante aliud esse, quam non possimus perfectam nisi trinam videre, quodque ipsum videre infinitum et interminatum in alio est videre non aliud ab aliquo. Se igitur et omnia unico et inenarrabili contuitu sapientes Deum videre aiunt, quia est visionum visio. 105 Abbas. Quis non videret hoc verum, quod tu te iam videre ostendisti? Nemo profecto negat nisi mentis carens acumine
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di, quando vedo che Egli non è né cielo, nè altro dal cielo, e, in generale, che non è né altro, né altro dagli altri, io non lo vedo come se conoscessi ciò che vedo. Quel vedere che rivolgo a Dio, infatti, non è un vedere qualcosa di visibile, ma è un vedere l’invisibile nel visibile. Ad esempio, quando vedo che è vero che nessuno ha visto Dio, allora vedo in effetti Dio al di sopra di tutto ciò che è visibile come «non-altro» da tutto ciò che è visibile263. Ma questa infinità in atto, che supera ogni visione e che è la Quiddità di tutte le quiddità, io non la vedo affatto come visibile, in quanto ciò che è visibile, vale a dire l’oggetto, è qualcosa di altro rispetto alla facoltà visiva, mentre Dio, che non può essere altro da nulla, trascende ogni oggetto.
Capitolo xxiii Abate. Non bisogna meravigliarsi del fatto che Dio, il creatore, sia invisibile. In effetti, anche se vediamo le opere meravigliose dell’intelletto negli edifici delle città, nelle navi, nelle arti, nei libri, nelle pitture e in innumerevoli altre cose, l’intelletto, tuttavia, non lo afferriamo con il senso della vista; allo stesso modo, riconosciamo Dio nelle sue creature, sebbene Egli resti per noi invisibile. Così, il cielo e la terra sono effettivamente le opere di Dio, che nessuno ha mai visto264. Nicola. La vista non vede se stessa, anche se nell’altro, che essa vede, giunge ad essere consapevole di vedere. Ma quella vista che è la Vista delle viste non giunge a riconoscere se stessa nell’altro, dal momento che essa è anteriore all’altro. Dunque, poiché essa vede prima dell’altro, nella sua visione ciò che vede, ciò che è visto e il vedere che procede da entrambi non sono distinti l’uno dall’altro. È evidente, pertanto, che Dio, il cui nome «theos» deriva da «theoro», che significa «vedo»265, è quella visione che è anteriore all’altro e che non possiamo vedere come perfetta a meno che non la vediamo come trina; ed è evidente che vedere l’infinito e l’illimitato nell’altro significa vedere ciò che è «non-altro» da nulla. Se, dunque, i sapienti dicono che Dio vede se stesso e tutte le cose con un unico e indicibile sguardo, è perché Egli è la Visione delle visioni. Abate. Chi non vedrebbe questa verità che tu ci hai mostrato di aver già visto? Sicuramente, nessuno, a meno di non essere sprov-
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Deum, qui principium ante aliud et omnia est, non esse privatum visu, qui quidem est ante privationem omnem; quodsi visu privatus non est, sed a visu theos nominatur, perfectissimam habet visionem Deus se ipsam et omnia perficientem seu definientem eo modo, quo tu proxime explicuisti. Quod autem Deus habet, hoc ante aliud est. Visus ergo, qui et theos unitrinus, non alia sane visione sese et alia alia videt, sed ea visione, qua se, simul et omnia intuetur. Hoc videre definire est. Neque enim videre ab alio motum habet, sicut in nobis obiectum potentiam movet, sed illius videre constituere est, quemadmodum inquit Moyses Deum vidisse lucem bonam et factam esse. Lux igitur non aliud quam lux est, quae per visum, qui ‘non aliud’ est, lux visa est. Ex quo omnia una video ratione non aliud quam id, quod sunt, esse, quia scilicet visus, qui ‘non aliud’ est, non aliud a se ipso vidit. Sed reliquum est ut te de bono audiam, quod Moyses praemittit inquiens: «Vidit Deus, quod esset bonum», et mox creavit. 106 Nicolaus. Legisti tu quidem in Parmenidis commentariis Deum bonum dici similiter et unum, quae idem esse, quia illa omnia penetrant, probat. Ac si diceret: quia Deus est omnia in omnibus, hoc ei est attribuendum nomen, quod quidem omnibus centraliter adesse cernimus. Bonum autem relucet in omnibus. Omnia suum esse diligunt, quia bonum, cum de se ipso amabile sit bonum atque diligibile. Quando igitur Moyses universi voluit describere constitutionem, in quo Deus se manifestaret, ad huius constitutionem singula creata bona dicit, ut universum esset gloriae et sapientiae Dei perfecta revelatio. Id igitur, quod ante aliud in se bonum vidit, in universi constitutionem, quia bonum, pervenit. Deus vero cum ante aliud videret bonum, ab illo utique aliud ipse
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visto di acume mentale, sostiene che Dio, che è il principio anteriore all’altro e a tutte le cose, sia privo della vista, lui che è anche anteriore ad ogni privazione. E se Dio non è privo della vista, ed è anzi chiamato «theos» proprio a motivo della sua vista, allora Egli possiede la visione più perfetta, che realizza compiutamente o definisce se stessa e tutte le cose nel modo in cui hai spiegato poco fa. Ciò che Dio ha, tuttavia, è anteriore all’altro. Pertanto, quella vista, che è il «theos» uni-trino, non vede se stessa con una visione e le altre cose con un’altra visione, ma con quella visione con la quale guarda se stessa guarda, ad un tempo, anche le altre cose. Questo vedere è un definire. Non si tratta, infatti, di un vedere che è messo in moto da qualcos’altro, come in noi l’oggetto muove la facoltà visiva; il vedere di Dio, invece, è un costituire, nel senso in cui Mosè dice che Dio vide che la luce era buona e la luce fu fatta266. La luce, dunque, è non-altro che luce, la quale viene vista come luce grazie a quel vedere che è il «non-altro». A partire da questo, vedo che tutte le cose sono non-altro che ciò che esse sono per un’unica ragione, ossia perché questo vedere, che è il «non-altro», non ha visto qualcosa che sia altro da se stesso. Ma mi resta da ascoltare che cosa hai da dire a proposito del bene, che Mosé menziona quando dice: «Dio vide che era cosa buona» e subito la creò267. Nicola. Hai letto nel Commentario al Parmenide che Dio viene chiamato sia «buono» che «uno»268; Proclo dimostra che questi due predicati sono identici per il fatto che essi compenetrano tutte le cose269. È come se egli dicesse: poiché Dio è tutto in tutte le cose, bisogna attribuirgli quel nome che, in qualche modo, riconosciamo essere presente in modo centrale in tutte le cose. Ora, il bene risplende in tutte le cose. Tutte le cose amano il proprio essere perché è buono, essendo il bene ciò che è amabile e desiderabile per se stesso. Pertanto, quando Mosé volle descrivere la costituzione dell’universo nella quale si sarebbe manifestato Dio, egli disse che, in riferimento a tale costituzione, tutte le singole cose create erano «buone», in modo tale che l’universo fosse la rivelazione perfetta della gloria e della sapienza di Dio. Quindi, ciò che Dio ha visto in se stesso come buono, prima dell’altro, è entrato nella costituzione dell’universo perché era buono. E poiché Dio ha visto il bene prima dell’altro, Egli non era certamente altro dal bene. Ora,
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non fuit. Quodsi quis bonum solum, ut est ipsum ‘non aliud’, posset intueri ante omne aliud, profecto is intueretur, quod nemo bonus nisi solus Deus, qui est ante non-bonum. Omnia quippe alia, quia aliud esse aliter possent. Idcirco de ipsis bonum ipsum, quod quidem, quia ‘non aliud’ aliter esse nequit, minime verificatur. At vero attende, quomodo principio bonum convenit, quia non-bonum praecedit, et ‘non aliud’ praecedit aliud et principio convenit: et bonum, quod de principio dicitur, ‘non aliud’ est; praecisius tamen ‘non aliud’, cum sese bonumque definiat. 107 Abbas. Attende an ita sit, quod bonum non-bonum antecedit, cum secundum Platonem non-ens praecedat ens et affirmationem generaliter negativa. Nicolaus. Cum dicitur non-ens praecedere ens, hoc non-ens ente quidem melius est secundum ipsum Platonem, ita etiam negativa, quae affirmativam praecedit. Ideo enim praecedit, quia melior. Verum non-bonum bono non est melius, quocirca secundum hoc bonum antecedit, et solus Deus bonum est, cum bono nihil sit melius. Bonum vero, quia aliud videtur a non-bono, non est prae cisum nomen Dei. Et ideo negatur a Deo, sicut etiam alia omnia nomina, cum Deus nec a bono, nec a non-bono aliud sit, neque denique ab omni nominabili. Quare significatum li ‘non aliud’ praecisius in Deum quam bonum dirigit. 108
Capitulum XXIV.
Abbas. Video nunc planissime, cur magister veritatis aiebat solum Deum bonum. Sed tu, pater, unum adhuc, quaeso, adice: quam ob causam idem magister Deum spiritum dicat, et tibi molesti esse desinemus. 109 Nicolaus. Spiritum quidem esse Deum inquit, quia, sicuti corpus, loco non clauditur, cum incorporeus sit. Incorporeum enim
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se qualcuno fosse in grado di intuire il bene da solo e prima di ogni altro, conformemente a come è il «non-altro», allora vedrebbe certamente che nessuno è buono se non Dio solo270, il quale è prima del non-bene. Tutte le altre cose, in effetti, potrebbero essere altrimenti, in quanto esse sono ciò che è altro. È per questo che il bene stesso, che non può invece essere altrimenti, in quanto è il «non-altro»271, non si predica affatto con verità di queste cose. Ma presta attenzione a questo: il bene si addice al principio in quanto precede il non-bene, e il «non-altro» precede l’altro e si addice al principio; di conseguenza, il bene, che viene predicato del principio, è il «non-altro». Tuttavia, il «non-altro» si addice con più precisione al principio, perché definisce se stesso e il bene. Abate. Considera se sia proprio vero che il bene precede il nonbene, perché, secondo Platone, il non-essere precede l’essere e, in generale, la negazione precede l’affermazione. Nicola. Quando si dice che il non-essere precede l’essere, lo si dice perché questo non-essere, secondo Platone, è certamente migliore dell’essere272. Lo stesso vale anche per la negazione che precede l’affermazione; la precede, infatti perché è migliore. Il nonbene, invece, non è migliore del bene. È per questo motivo che il bene è anteriore e che Dio solo è il bene, perché non c’è niente che sia migliore del bene. Ma anche il bene, poiché viene visto come altro dal non-bene, non è il nome preciso di Dio. E per questo esso viene negato di Dio, come pure tutti gli altri nomi, perché Dio non è altro né dal bene, né dal non-bene, né, in breve, da nessuna cosa nominabile. Per questo motivo, la denominazione [il] «non-altro» ci guida verso Dio con maggiore precisione di quanto faccia il predicato «buono».
Capitolo xxiv Abate. Vedo ora, con estrema chiarezza, perché il Maestro della verità diceva che Dio solo è buono273. Ma, padre, dicci ancora una cosa, ti prego, e poi ti lasceremo in pace: per quale motivo questo stesso Maestro dice che Dio è spirito?274 Nicola. Egli dice che Dio è spirito275 perché, essendo Dio incorporeo, non è racchiuso in un luogo, come accade al corpo. L’in-
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ante corporeum, illocale ante locale, incompositum est ante compositum. Quid enim omni in composito nisi simplex dumtaxat cernitur seu incompositum? Compositum enim de se suum principium incompositum dicit. Nam si in composito compositum videretur et in illo composito item compositum, unum utique magis compositum esse et aliud minus oporteret. Ad incompositum tandem deveniretur, cum ante compositum sit componens. Nihil enim compositum se ipsum composuit. Erit ergo componens incompositum, quod ante partem et ante totum est et ante universum et ante omne, in quo anterioriter seu incomposite omnia sunt. Non igitur in compositis nisi incompositum dumtaxat videtur. Sic mens ante compositam lineam incompositum punctum contemplatur. Punctus enim signum est, linea vero signatum. Quid autem videtur in signato nisi signum? 110 Quippe signum est signati signum. Ideo principium, medium et finis signati est signum, seu lineae est punctus, seu motus est quies, sive temporis est momentum et universaliter divisibilis indivisibile. Non video autem indivisibile in divisibili quasi eius partem, quia pars totius pars est, sed ipsum indivisibile ante partem et totum video in divisibili et ipsum non aliud ab ipso video. Si enim ipsum non cernerem, nihil penitus cernerem. Ultra ergo cum aliud in ipso video, non nisi ‘non aliud’ video. Deus igitur est spirituum spiritus, qui per ipsum ‘non aliud’ cernitur ante omnem spiritum. Quo sublato nec spiritus, nec corpus, nec quidquam potest manere nominabile. 111 Sicut frigiditas propter suam invisibilitatem activitatemque, quae in frigido seu glacie sentitur, dici spiritus potest, qua sublata esse glacies desinit – subtracto enim spiritu congelante seu glaciente cessat et glacies – sic cessante spiritu connectente in composi-
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corporeo, infatti, è anteriore al corporeo, ciò che è senza luogo è anteriore al luogo, e ciò che non è composto è anteriore al composto. In tutto ciò che è composto, infatti, che cosa scorgiamo se non il semplice, ovvero il non-composto? È il composto stesso, infatti, che attesta che il suo principio è il non-composto. Infatti, se nel composto si vedesse un composto, e in quest’ultimo composto ancora un altro composto, allora uno di essi sarebbe necessariamente più composto e l’altro meno. Alla fine si arriverebbe a ciò che non è composto, dal momento che, prima del composto, c’è ciò che lo compone. Nessun composto, infatti, si è composto da se stesso. Ci sarà, pertanto, qualcosa che compone ed è non-composto, che è anteriore alla parte e al tutto, che è anteriore all’universo e ad ogni singola cosa, e nel quale tutte le cose sono presenti anteriormente e in modo non-composto. Nelle cose composte, pertanto, non si vede se non ciò che è non-composto. Così, prima della linea, che è composta, la mente contempla il punto, che non è composto. Il punto, infatti, è un segno, la linea, invece, è ciò che viene segnato. Ma che cosa si vede in ciò che viene segnato se non il segno? In effetti, il segno è un segno in riferimento a qualcosa che viene segnato. Il segno, pertanto, è il principio, il mezzo e il fine di ciò che viene segnato, come il punto lo è per la linea, la quiete per il movimento, l’istante per il tempo e, in generale, l’indivisibile per il divisibile. Non vedo, tuttavia, l’indivisibile nel divisibile come se fosse una parte di quest’ultimo, perché la parte è una parte del tutto, mentre nel divisibile vedo l’indivisibile prima della parte e del tutto e lo vedo come non-altro dal divisibile. Se non scorgessi l’indivisibile, infatti, non vedrei assolutamente nulla. Inoltre, pertanto, quando nel divisibile vedo qualcosa di altro [da esso], io non vedo se non il «non-altro». Dio, dunque, è lo Spirito degli spiriti, che, attraverso il «non-altro», viene scorto prima di ogni spirito. Se Dio viene tolto, non possono permanere né lo spirito, né il corpo, né alcuna delle cose che sono nominabili. Così è per il freddo, che, a motivo della sua attività indivisibile che viene percepita in ciò che è freddo o ghiacciato, può essere detto «spirito»: se viene tolto il freddo, cessa di esserci il ghiaccio; se viene infatti eliminato lo «spirito» che fa congelare o ghiacciare, viene meno anche il ghiaccio. Allo stesso modo, se viene meno lo spi-
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tis compositum cessat, et cessante spiritu essentiante cessat ens, et cessante spiritu discernente sive discretiante aut, ut praecisius exprimam, non aliante omnia pariter cessant. Spiritus enim, qui omnia in omnibus operatur, per quem quodlibet est non aliud quam est, per me ‘non aliud’ nominatur. Ille spirituum spiritus est, cum omnis spiritus non aliud quam spiritus sit; ille spiritus non nisi in spiritu seu mente in veritate conspicitur. Solus enim ille rationalis creaturae spiritus, quae mens dicitur, veritatem potest intueri. In ipsa autem veritate videt spiritum, qui est spiritus veritatis, qui quidem omnia veraciter efficit id esse, quod sunt. Et sicut ipsum videt, ita etiam ipsum adorat, in spiritu scilicet et veritate. 112 Abbas. Duxisti me, pater, in spiritum, quem omnium creatorem video, ut propheta vidit, qui ad creatorem dixit: «Emitte spiritum spirantem glaciationem, ita ultra de omni desiderato; atque ut mentem spiritum videam illius imaginem spiritus. Etenim spiritus ille, qui de sua virtute ad omnia pergit, omnia scrutatur et creat omnium notiones atque similitudines; creat, inquam, quoniam rerum similitudines notionales ex alio aliquo non facit, sicut nec spiritus, qui Deus, rerum quidditates facit ex alio, sed ex se aut ‘non alio’. Ideo sicut ab aliquo creabili non est aliud, ita nec mens est aliud ab aliquo per ipsam intelligibili. 113 Bene etiam in una video mente a corpore magis absoluta perfectius spiritum relucescere creatorem et praecisiores creare notiones. Sed quoniam tui propositi non est nisi nos tecum rapere et ducere ad visionis primi viam, quod omnia in omnibus est, quia in via alius alio citius currit, ut comprehendat, idcirco te deinceps sinam amplius conquiescere. Sufficit enim nobis directio tua, qua nos nisus
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rito che, nelle cose composte, produce la connessione, viene meno ciò che è composto; e se viene meno lo spirito che dà l’essere, viene meno l’ente; e se viene meno lo spirito che distingue e separa, o, per parlare in maniera più precisa, che rende le cose non-altre [da se stesse], vengono meno parimenti tutte le cose. Ora, lo spirito, che opera tutto in tutto276 e grazie al quale ogni cosa è non-altra da ciò che essa è, io lo chiamo «non-altro». Esso è lo Spirito degli spiriti, dal momento che ogni spirito è non-altro che spirito. Questo Spirito viene visto in verità solo nello spirito e nella mente. Infatti, solo quello spirito della creatura razionale che viene chiamato mente è in grado di intuire la verità. Ed è proprio nella verità che la mente vede quello Spirito che è lo Spirito di verità277, il quale fa sì che tutte le cose siano veramente ciò che esse sono. E come la mente vede questo Spirito, così lo adora, ossia lo adora in spirito e verità278. Abate. Mi hai condotto, padre, allo Spirito che vedo essere il creatore di tutte le cose, così come lo vide il profeta, il quale disse al creatore: «Manda il tuo spirito e saranno create»279. È come se uno, desiderando il ghiaccio, chiedesse che venisse inviato uno spirito che con il suo soffio lo produca, e così per ogni altra cosa desiderata. E mi hai condotto anche a vedere che quello spirito, che è la mente, è un’immagine di questo Spirito. Infatti, quello spirito che, con la sua forza, si volge a tutte le cose, le esamina tutte e crea i concetti e le immagini mentali di tutte le cose. Dico «crea», perché esso non produce le immagini concettuali delle cose a partire da qualcos’altro, così come lo Spirito che è Dio non produce le quiddità delle cose a partire da qualcos’altro, ma da se stesso, ovvero dal «non-altro». E pertanto, come questo spirito non è qualcosa di altro rispetto a tutto ciò che è creabile, così anche la mente non è qualcosa di altro rispetto a tutto ciò che è da essa intelligibile. E vedo anche con chiarezza che, in una mente maggiormente libera dal corpo [rispetto alla nostra], lo spirito creatore risplende in maniera più perfetta e crea dei concetti più precisi. Ma, dal momento che il tuo intento è solo quello di trascinarci con te e di guidarci sulla via che conduce alla visione del Primo, che è tutto in tutto, e poiché lungo questa via uno corre più veloce di un altro nel comprendere, vorrei ora lasciarti riposare un poco. Per noi risulta infatti sufficiente la guida che ci hai offerto, con la quale ti sei
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es dirigere ad ipsum principium, quod sese et omnia definit, hactenus ab omnibus quaesitum semperque quaerendum in posterum; contentamur sane de via, quam tu nobis per ipsum ‘non aliud’ revelasti. Et ego tibi pro omnibus immortales gratias ago agemusque semper, quoad usque facie ad faciem Deum deorum in Sion semper benedictum videbimus. Finis. Laus Deo! 114
Propositiones eiusdem reverendissimi patris Domini Nicolai Cardinalis de virtute ipsius non aliud.
Prima propositio: Definitio, quae se et omnia definit, ea est, quae per omnem mentem quaeritur. Secunda: Quisquis videt verissimum esse, quod definitio est non aliud quam definitio, is etiam videt ipsum ‘non aliud’ definitionis esse definitionem. Tertia: Qui videt, quod ‘non aliud’ est non aliud quam non aliud, videt ‘non aliud’ definitionis esse definitionem. Quarta: Qui videt ipsum ‘non aliud’ definire se et definitionem omnia definientem, is ipsum ‘non aliud’ videt non esse aliud ab omni definitione et ab omni definito. 115 Quinta: Qui videt ipsum ‘non aliud’ principium definire, cum principium sit non aliud quam principium, ipsum ‘non aliud’ videt principium esse principii, sic ipsum quoque videt medium medii et finem finis et nomen nominis et ens entis et non-ens non-entis atque ita de omnibus ac singulis, quae dici possunt aut cogitari. Sexta: Qui videt, quomodo ex eo, quod ‘non aliud’ se ipsum definit, ipsum ‘non aliud’ est non aliud ipsius ‘non aliud’, et quomodo ex eo etiam, quod omnia definit et singula, est in omnibus omnia et in singulis singula: ille quidem videt ipsum ‘non aliud’ esse aliud ipsius aliud et videt ‘non aliud’ ipsi aliud non opponi, quod est secretum, cuius non est simile.
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sforzato di condurci verso il Principio, che definisce se stesso e tutte le cose: quel Principio che è stato finora ricercato da tutti e che dovrà sempre essere ricercato da tutti in futuro. Quanto a noi, siamo pienamente soddisfatti della via che tu ci hai rivelato per mezzo del «non-altro». Ed io ti esprimo, a nome di tutti, la nostra perpetua gratitudine; e ti saremo sempre grati fino al giorno in cui, in Sion, vedremo faccia a faccia280 il Dio degli dèì281, sempre benedetto. Fine. Sia lode a Dio.
Proposizioni del Reverendissimo Padre, Sua Eminenza Cardinale Nicola, sul significato del non-altro. I. La definizione che definisce se stessa e tutte le cose è la definizione di cui va alla ricerca ogni mente. II. Chiunque vede come assolutamente vero che la definizione è non-altro che la definizione vede anche che il «non-altro» è la definizione della definizione. III. Chi vede che il «non-altro» è non-altro che il «non-altro» vede che il «non-altro» è la definizione della definizione. IV. Chi vede che il «non-altro» definisce se stesso ed è la definizione che definisce tutte le cose, vede che il «non-altro» non è altro da ogni definizione e da tutto ciò che viene definito. V. Chi vede che il «non-altro» definisce il principio, in quanto il principio è non-altro che principio, vede che il «non-altro» è il principio del principio; e così vede anche che esso è il mezzo del mezzo e il fine del fine, il nome del nome, l’essere dell’essere e il non-essere del non-essere, e così per tutte le cose che si possono pensare e si possono dire e per ciascuna di esse. VI. Chi vede come dal fatto che il «non-altro» definisce se stesso segue che il «non-altro» è il non-altro dello stesso «non-altro», e come dal fatto ulteriore che esso definisce tutte le cose e ciascuna di esse segue che il «non-altro» è tutto in tutte le cose e ciascuna singola cosa nelle singole cose, costui vede certamente che il «nonaltro» è l’altro dell’altro e che il «non-altro» non è opposto all’altro, il che è un mistero di cui non c’è l’uguale.
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Septima: Qui videt, quomodo subtracto ipso ‘non aliud’ non remanet nec aliud, nec nihil, cum non aliud sit nihil ipsius nihil; ille sane videt ipsum ‘non aliud’ in omnibus omnia esse et nihil in nihilo. 116 Octava: Non est possibile quidquam in hominis cogitationem posse venire absque ipso ‘non aliud’, cum sit cogitationum cogitatio. Et licet ipsum ‘non aliud’ non sit aliud a cogitatione de se ipso cogitante, non est tamen ipsa cogitatio, cum cogitatio non sit ‘non aliud’ simpliciter, sed non aliud quam cogitatio; neque ipsum ‘non aliud’ aliter se habet in omnibus, quae dici possunt. Nona: Quidquid mens videt sine ipso ‘non aliud’ non videt. Non enim videret aliud, si ‘non aliud’ non foret ipsius aliud aliud. Sic nec ens cerneret, si ‘non aliud’ non foret ipsius entis ens et ita de omnibus, quae dici queunt. Ita videt mens omne aliud per aliud, quod ‘non aliud’, quare sic etiam alia omnia. Aliam enim videt veritatem per veritatem, quae ‘non aliud’; aliam rationem per rationem, quae ‘non aliud’. Igitur quodlibet aliud prioriter ‘non aliud’ videt. Et eodem modo videt omnia et nomen et quidditatem et alia quaecumque habent ab ipso ‘non aliud’ habere. 117 Decima: Qui videt finitum non aliud quam finitum, et infinitum non aliud quam infinitum, pari modo de visibili et invisibili, de numerabili quoque et innumerabili, mensurabili et immensurabili, conceptibili et inconceptibili, imaginabili et inimaginabili, intelligibili et inintelligibili et ceteris talibus: ille videt Deum per ‘non aliud’ significatum nec finito nec infinito finibilem, nec mensura mensurabili nec immensurabili mensurabilem, nec numero numerabili nec innumerabili numerabilem, ita nec conceptibilem, nec imaginabilem, nec intelligibilem, nec nominabilem nomine nominabili nec nomine innominabili, licet a nullo omnium illorum et aliorum, quae dici possunt, nec in ipsis aliud sit.
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VII. Chi vede come, tolto il «non-altro», non rimane né l’altro, né il nulla, in quanto il «non-altro» è il nulla del nulla, vede che il «non-altro» è tutto in tutte le cose e nulla in nessuna. VIII. Non è possibile che qualcosa possa presentarsi al pensiero dell’uomo senza il «non-altro», in quanto il «non-altro» è il pensiero di ogni pensiero. E benché il «non-altro» non sia altro dal pensiero che pensa se stesso, non è tuttavia il pensiero stesso, in quanto il pensiero non è semplicemente «non-altro», ma è non-altro che pensiero; e in tutte le cose di cui possiamo parlare il «non-altro» non si comporta in altro modo. IX. Qualunque cosa la mente vede, non la vede senza il «nonaltro». Non vedrebbe infatti l’altro, se il «non-altro» non fosse l’altro [l’essere-altro] dello stesso altro. Così, non riconoscerebbe nessun essere, se il «non-altro» non fosse l’essere dello stesso essere, e così via per tutto ciò di cui possiamo parlare. In questo modo, la mente vede ogni altro mediante quell’altro che è il «non-altro», e lo stesso vale per tutto ciò che è altro. Ad esempio, mediante quella verità che è il «non-altro» la mente vede un’altra verità, mediante quel principio razionale che è il «non-altro» vede un altro principio razionale. Tutto ciò che è altro, la mente lo vede prima come «non-altro». E allo stesso modo vede che tutte le cose ricevono dal «non-altro» il nome, la quiddità e tutto ciò che esse hanno. X. Chi vede che il finito è non-altro che finito, che l’infinito è non-altro che infinito, e allo stesso modo per quanto riguarda il visibile e l’invisibile, il numerabile e l’innumerabile, il misurabile e il non-misurabile, il concepibile e l’inconcepibile, l’immaginabile e l’inimmaginabile, l’intelligibile e l’inintelligibile, e così di seguito: chi vede questo vede che Dio, che viene designato con l’espressione «non-altro», non è limitabile né dal finito, né dall’infinito, non è misurabile né da una misura misurabile, né da una misura non-misurabile, non è numerabile né da un numero numerabile, né da un numero innumerabile; allo stesso modo, non è né concepibile, né immaginabile, né intelligibile, e non è nominabile da un nome nominabile, né da un nome innominabile, sebbene Dio non sia altro da tutte queste cose e da altre ancora che possono essere dette, né sia presente in esse come qualcosa di altro.
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Undecima: Qui videt, quomodo ipsum ‘non aliud’ se definiendo omnia definit, ille videt, quoniam ipsum est omnium adaequatissima mensura, maiorum maior, minorum minor, aequalium aequalis, pulchrorum pulchra, verorum vera et vivorum viva mensura, et de omnibus eodem modo. Duodecima: Qui videt, quoniam ipsum ‘non aliud’ sui et omnium est definitio et definitum, ille in omnibus, quae videt, non nisi ‘non aliud’ videt se ipsum definiens. Nam quid videt in aliud nisi ‘non aliud’ sese definiens? Quid aliud in caelo quam ‘non aliud’ se ipsum definiens? Et de omnibus eodem modo. Creatura igitur est ipsius creatoris sese definientis seu lucis, quae Deus est, se ipsam manifestantis ostensio, quasi mentis se ipsam definientis propalatio, quae praesentibus fit per vivam orationem et remotis per nuntium aut scripturam. In quibus ostensionibus mentis non est aliud nisi mens sese definiens, se clarissime et vivaciter per propriam orationem audientibus manifestans, remotis per legatam orationem, remotissimis per scriptam. Ita ipsum ‘non aliud’ mens mentis se in primis quidem creaturis clarius, in aliis vero occultius ostendit. 119 Tertia decima: Qui videt, quomodo li ‘non aliud’, quod est ipsius ‘non aliud’ non aliud, relucet in aeterno, ubi est aeternae aeternitatis aeternitas, et in vero, ubi verae veritatis est veritas, et in bono, ubi bonae bonitatis est bonitas, et ita in reliquis: ille in omnibus Deum videt se ipsum definientem unitriniter relucere. Nam unitrinum ‘non aliud’ in uno est unius unitatis unitas et in ente entis entitatis entitas et in magnitudine magnae magnitudinis magnitudo et in quanto quantae quantitatis quantitas et ita de ceteris. Quarta decima: Qui videt in alio ‘non aliud’ aliud, is videt in affirmatione negationem affirmari; et qui Deum videt ante affirma-
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XI. Chi vede in che modo il «non-altro», definendo se stesso, definisce tutte le cose, vede che il «non-altro» è la misura più adeguata di tutte le cose, una misura più grande per le cose più grandi, più piccola per le cose più piccole, uguale per le cose uguali, bella per le cose belle, vera per le cose vere e viva per le cose vive, e così allo stesso modo per tutte le cose. XII. Chi vede che il «non-altro» è la definizione di sé e di tutte le cose ed è anche il definito, allora in tutto ciò che vede costui non vede se non il «non-altro» che definisce se stesso. Infatti, che cosa vede nell’altro se non il «non-altro» che definisce se stesso? Che cos’altro vede nel cielo se non il «non-altro» che definisce se stesso? E così allo stesso modo per tutte le cose. La creatura, pertanto, è la manifestazione del creatore che definisce se stesso, o della luce, che è Dio, che manifesta se stessa. Ciò lo si può paragonare ad una mente che, definendo se stessa, rende noto il suo pensiero alle persone presenti con un discorso dal vivo e alle persone lontane per mezzo di un messaggero o di uno scritto. In queste manifestazioni della mente non c’è altro se non la mente che definisce se stessa, la quale si rende manifesta agli ascoltatori nella forma più chiara e in maniera viva attraverso un proprio discorso, alle persone lontane attraverso un discorso di un delegato, e a quelle ancora più lontane attraverso uno scritto. Così, anche il «non-altro», che è la mente della mente, si manifesta in maniera più chiara nelle prime creature, in maniera più oscura, invece, nelle altre. XIII. Chi vede come il «non-altro», che è non-altro dello stesso «non-altro», risplende nell’eterno, dove è l’eternità dell’eternità eterna, dove è la verità della verità vera, e nel bene, dove è la bontà della bontà buona, e così di seguito nelle restanti cose, vede che Dio, che definisce se stesso, risplende in tutte le cose in maniera unitrina. Infatti, in ciò che è uno il «non-altro» unitrino è l’unità dell’unità dell’uno, nell’ente è l’essere dell’essere dell’ente, nella grandezza è la grandezza della grandezza grande, nella quantità è la quantità della quantità quantitativa, e così via. XIV. Chi vede che, nell’altro, il «non-altro» è l’altro, vede che, nell’affermazione, viene affermata una negazione; e chi vede Dio prima dell’affermazione e della negazione vede che, nelle afferma-
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tionem et negationem, ille Deum videt in affirmationibus, quae de ipso per nos fiunt, non esse negativam, quae affirmatur, sed affirmationis affirmationem. 120 Quinta decima: Qui videt in alio ‘non aliud’ aliud, ille videt in calefacto non-calefactum calefactum et in frigefacto non-frigefactum frigefactum et in formato non-formatum formatum et in facto non-factum factum et in divisibili indivisibile divisibile et in composito incompositum compositum et generaliter in affirmato nonaffirmatum affirmatum, et videt negativam tale principium affirmationis, quod ea sublata est affirmatio. Negationes igitur dirigunt visum mentis in quid, affirmationes autem in tale quid. 121 Sexta decima: Qui videt, quomodo negationes, quae mentis visum in quidditatem dirigunt, sunt priores affirmationibus, ille videt omne nomen significare tale quid. Nam corpus non significat quidditatem, quae incorporalis est, sed talem scilicet corpoream; sic terra terrestrem et sol solarem et ita de omnibus. Nomina igitur omnia ex aliquo sensibili signo impositionem habent significativam, quae signa sequuntur rerum quidditatem. Non igitur ipsam, sed talem significant. Mens autem ipsam anterioriter contemplans vocabulum negat esse proprium ipsius, quam videt quidditatem. 122 Septima decima: Videt mens, quomodo ipsum ‘non aliud’ est actus ipsius actus et ipsius maximi maximum et ipsius minimi minimum. Et ideo videt actum purum, qui purior esse non potest, numquam fuisse in potentia; nam per puriorem actum in actum devenisset. Quare videt omnia, quae alia esse possent, semper posse alia esse et ideo in recipientibus magis seu maius numquam deveniri ad actum maximum, quo maius esse nequit, et quae aliud esse possunt, quia numquam ad ipsum ‘non aliud’ attingunt, semper possunt esse aliud.
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zioni che facciamo su di lui, Dio non è una negazione che viene affermata, ma è l’affermazione dell’affermazione. XV. Chi vede che, nell’altro, il «non-altro» è l’altro, vede in ciò che è caldo il non-caldo come caldo, in ciò che è freddo il non-freddo come freddo, in ciò che è dotato di forma il non-dotato di forma come dotato di forma, in ciò che è fatto il non-fatto come fatto, in ciò che è divisibile il non-divisibile come divisibile, e in ciò che è composto il non-composto come composto, e, in generale, in ciò che è affermato il non-affermato come affermato. E vede che la negazione è a tal punto il principio dell’affermazione, che, tolta la negazione, viene tolta anche l’affermazione. Pertanto, le negazioni dirigono la vista della mente verso l’essenza, mentre le affermazioni la dirigono verso una determinata essenza. XVI. Chi vede come le negazioni, che dirigono la vista della mente verso la quiddità, sono anteriori alle affermazioni, vede che ogni nome designa una determinata essenza. Ad esempio, il nome «corpo» non designa la quiddità, che è incorporea, ma una determinata quiddità, ossia una quiddità incorporea, così come il nome «terra» designa una quiddità terrestre e il nome «sole» una quiddità solare, e così via per tutte le cose. Tutti i nomi, quindi, attribuiscono alle cose un termine che le designa a partire da un qualche segno sensibile, e questi segni seguono la rispettiva quiddità delle cose. Essi, pertanto, non designano la quiddità in se stessa, ma una determinata quiddità. La mente, invece, che contempla la quiddità anteriormente, nega che il termine [con cui essa viene designata] sia quello proprio della quiddità che essa vede. XVII. La mente vede come il «non-altro» è l’atto dello stesso atto, è il massimo dello stesso massimo e il minimo dello stesso minimo. E così essa vede che l’atto puro, che non può essere più puro, non è mai stato in potenza, perché altrimenti, sarebbe stato condotto all’atto da un atto più puro. Per questo motivo, la mente vede che tutto ciò che può essere altro può sempre essere altro, e che, di conseguenza, nelle cose che ammettono il più e il meno non si può mai pervenire ad un massimo in atto, del quale non può esserci nulla di maggiore. Così, quelle cose che possono essere qualcosa di altro possono sempre essere qualcosa di altro, perché esse non raggiungono mai il «non-altro».
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Decima octava: Qui videt, quomodo ‘non aliud’, quod est aliud ipsius aliud, non est ipsum aliud, ille videt aliud ipsius aliud, quod est aliud aliorum; sic aequalis videt aequale, quod aequalium est aequale; et bonum ipsius boni, quod est bonum bonorum et ita de omnibus. Ille sane videt, quomodo ‘non aliud’, quod est aliud ipsius aliud, non participatur per ipsum aliud, quia ab ipso non est aliud, sed in ipso ipsum, sed aliud ab aliis participatur. Sic de aequali et bono et ceteris. Bonum igitur, a quo ‘non aliud’ non est aliud, ab omnibus aliis bonis participatur et in aliis aliter. Numquam igitur erunt duo aeque bona aut aeque aequalia, quae meliora esse non possint aut aequaliora; de similibus eodem modo. Oportet enim omne aliud ab alio esse aliud, cum solum ‘non aliud’ sit non aliud ab omni alio. 124 Decima nona: Qui videt, Deum non esse aliud nec ab omni eo, quod intelligit, nec ab omni eo, quod intelligitur, ille videt Deum dare intellectui quod est non aliud quam intellectus intelligens et intelligibili, quod est non aliud quam intelligibile ab intellectu, et quod intellectus intelligens non sit aliud ab intellecto. Ipsum igitur ‘non aliud’ clarius relucet in intellectu, qui non aliud est ab intellecto, sicut scientia non aliud a scito, quam in sensibus. Visus enim non sic clare non aliud est a viso et auditus ab audito. Intelligentiae autem, in quibus clarius ipsum ‘non aliud’ relucet, citius et clarius intelligibilia, a quibus minus sunt alia, intelligunt. Hoc est enim intelligere, scilicet intelligibilia a se non alia facere, sicut lumen illuminabilia citius non alia a se facit, quando est intensius. Relucere autem videtur ipsum ‘non aliud’ in omnibus, quando constat, quod omnia se in omnibus nituntur definire. Sicut calor omnia nititur calida talia facere, ut ipse sit non aliud ab ipsis et se in omni-
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XVIII. Chi vede come il «non-altro», che è l’altro [l’essere-altro] dello stesso altro, non è l’altro, vede l’altro [l’essere-altro] dell’altro, ossia l’altro [l’essere-altro] delle altre cose. In questo modo, egli vede l’uguaglianza dell’uguale, vale a dire l’uguaglianza delle cose uguali, e la bontà del bene, vale a dire la bontà delle cose buone, e così di seguito. Sicuramente, egli vede come il «non-altro», che è l’altro [l’essere-altro] dello stesso altro, non è ciò di cui partecipa l’altro, poiché il «non-altro» non è altro dall’altro, ma nell’altro è l’altro; ciò di cui partecipano gli altri è invece l’altro. Lo stesso vale per l’uguale, per il bene, ecc. Pertanto, il bene, rispetto al quale il «non-altro» non è altro, è ciò di cui partecipano tutti gli altri beni, ciascuno in maniera diversa dall’altro. Di conseguenza, non ci saranno mai due cose ugualmente buone o ugualmente uguali che non possano essere ancora più buone o ancora più uguali; e lo stesso vale per tutte le cose simili. Ogni altro, infatti, deve necessariamente essere qualcosa di altro rispetto ad un altro, perché solo il «non-altro» non è altro da ogni altro. XIX. Chi vede che Dio non è altro né da tutto ciò che conosce, né da tutto ciò che è conosciuto, vede che Dio dona all’intelletto il fatto di essere non-altro che un intelletto che conosce e all’intelligibile di essere non-altro che ciò che è conoscibile da un intelletto, e all’intelletto che conosce di non essere qualcosa di altro da ciò che viene conosciuto. Il «non-altro», quindi, risplende in maniera più chiara nell’intelletto che nei sensi, perché l’intelletto non è altro da ciò che è conosciuto, così come il sapere non è altro da ciò che è saputo. Il vedere, infatti, non è in modo così chiaro non-altro da ciò che è visto, né l’udire da ciò che è udito. Le intelligenze, invece, nelle quali il «non-altro» risplende con maggiore chiarezza, conoscono in modo più rapido e più chiaro gli intelligibili, rispetto ai quali esse non sono affatto qualcosa di altro. Conoscere, infatti, significa rendere ciò che è conoscibile non-altro dal conoscere stesso, così come la luce, quando è più intensa, rende più rapidamente le cose illuminabili non-altre da se stessa. Il «non-altro», tuttavia, lo vediamo risplendere in tutte le cose, dal momento che risulta evidente che ogni cosa si sforza di definire se stessa in tutte le altre. Il calore, ad esempio, si sforza di rendere tutte le cose calde, in modo tale da essere non-altro da esse e da definire se stesso
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niccolò cusano
bus definiat, sic intellectus, ut omnia sint intellectus et se in omnibus definiat; ita et imaginatio et omnia cetera. 125 Vicesima: Quando mens considerat non-calidum calefieri et frigidum calefieri, per intellectum attingit non-calidum, per sensum frigidum, et videt non esse idem, quando per diversas potentias attingit. Et dum considerat non-frigidum per mentem videri, sicut non-calidum, ac quod non-calidum potest calefieri et non-frigidum frigefieri, et quod frigidum potest calefieri et calidum frigefieri: videt quomodo idem est non-calidum et non-frigidum; et dicitur non-calidum, quia, licet non sit actu calidum, potest tamen calefieri; et sic dicitur non-frigidum, quia, licet non actu frigidum, potest tamen frigefieri. Ideo cum actu est calidum, adhuc manet potentia frigidum, et cum actu est frigidum, manet potentia calidum. Potentia autem non quiescit, nisi sit actu, cum sit finis et perfectio eius, alias frustra foret potentia. Ideo non foret potentia, cum nihil sit frustra. Quia autem potentia se ipsam non producit in actum – hoc enim repugnat –, ideo est motor necessarius, qui potentiam ad actum moveat. Ita videt mens naturam et naturalem motum et ipsum ‘non aliud’ naturae naturam in se ipsa relucentem. Finis propositionum.
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il non-altro, Proposizioni 124-125
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in tutte, e così anche l’intelletto si sforza di fare in modo che tutte le cose siano intelletto e di definire se stesso in tutte; lo stesso vale per l’immaginazione e per tutto il resto. XX. Quando la mente considera che ciò che non è caldo diventa freddo e ciò che è freddo diventa caldo, essa coglie il non-caldo attraverso l’intelletto e il freddo attraverso i sensi, e vede così che non si tratta della stessa cosa, dal momento che coglie il non-caldo e il freddo con facoltà diverse. E quando considera che il non-freddo viene anch’esso visto con la mente come il non-caldo, e che ciò che è non-caldo può diventare freddo, e che ciò che è caldo può diventare freddo e che ciò che è freddo può diventare caldo, allora vede in che modo il non-caldo e il non-freddo siano la stessa cosa. E una cosa viene detta «non-calda» perché, sebbene non sia in atto calda, può tuttavia diventare calda, mentre, allo stesso modo, un’altra viene detta «non-fredda» perché, sebbene non sia in atto fredda, può tuttavia diventare fredda. Pertanto, quando una cosa è in atto calda, essa resta sempre fredda in potenza, e quando è in atto fredda resta pur sempre calda in potenza. La potenza, tuttavia, non si acquieta se non nell’atto, in quanto l’atto è il fine e il compimento della potenza, la quale, altrimenti, sarebbe vana. E così non ci sarebbe alcuna potenza, dal momento che non esiste nulla che sia vano. Ora, poiché la potenza non passa da se stessa all’atto – ciò è infatti contraddittorio –, è per questo necessario un motore che muova la potenza all’atto. In questo modo, la mente vede la natura, il movimento naturale e il «non-altro», il quale è la natura della natura, nella quale esso risplende.
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Fine delle proposizioni
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DE VENATIONE SAPIENTIAE
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LA CACCIA DELLA SAPIENZA
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Prologus Propositum est meas sapientiae venationes, quas usque ad hanc senectam mentis intuitu veriores putavi, summarie notatas posteris relinquere, cum nesciam, si forte longius et melius cogitandi tempus concedatur; sexagesimum enim primum transegi annum. Conscripsi dudum conceptum de quaerendo deum; profeci post hoc et iterum signavi coniecturas. Nunc vero cum in Diogenis Laërtii De vitis philosophorum libro varias philosophorum legissem sapientiae venationes, concitatus ingenium totum contuli tam gratae speculationi, qua nihil dulcius homini potest advenire. Et quae diligentissima meditatione repperi, licet parva sint, ut acutiores moveantur ad melius mentem profundandum, peccator homo timide verecundeque pandam, hocque ordine procedam: Sollicitamur appetitu naturae nostrae indito ad non solum scientiam, sed sapientiam seu sapidam scientiam habendum. Circa huius rationem primo pauca praemittam. Deinde volenti philosophari, quod venationem sapientiae voco, regiones et in illis loca quaedam describam in camposque ducam, praedae, quam quaerunt, apprime puto refertos.
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Prologo
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Il mio intento in questo scritto è quello di lasciare ai posteri una breve esposizione delle ricerche che ho condotto nella mia caccia della sapienza, quelle che finora, giunto a questa tarda età, ho ritenuto, sulla base di un’intuizione della mente, le più vere, dal momento che non so se mi sarà per caso concesso altro e più propizio tempo per svolgere le mie riflessioni1. Ho già compiuto infatti sessantun anni. Alcuni anni fa ho scritto un saggio sulla ricerca di Dio2; dopo di esso sono andato ulteriormente avanti [nella mia ricerca] ed ho proposto di nuovo altre congetture3. Ma di recente, dopo aver letto, nel libro Le vite dei filosofi di Diogene Laerzio4, le diverse ricerche compiute dai filosofi che sono andati a caccia della sapienza, ho ricevuto un nuovo stimolo ed ho dedicato tutto il mio pensiero ad una speculazione così gratificante che non c’è nulla di più piacevole che possa capitare all’uomo. Ed io, un uomo peccatore, intendo esporre, timidamente e con modestia, quei punti che, se pur di poco conto, ho scoperto in seguito ad una riflessione estremamente accurata, in modo tale che pensatori più acuti possano essere motivati a spingere più in profondità le loro menti. Procederò pertanto secondo il seguente ordine. C’è un desiderio innato nella nostra natura che ci spinge ad acquisire non solo la conoscenza, ma la sapienza, ovvero la conoscenza dotata di sapore5. Per prima cosa farò delle breve osservazioni introduttive per spiegare questo fatto. Poi descriverò a chi vuole filosofare – cosa, questa, che io chiamo caccia della sapienza6 – delle regioni e, all’interno di esse, certi luoghi e lo condurrò in campi che, a mio avviso, sono assai ricchi di quella preda di cui i filosofi sono alla ricerca.
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niccolò cusano
Capitulum I
Sapientiam pastum esse intellectus Intellectualis nostra natura cum vivat, necessario pascitur. Sed alio quam intelligibilis vitae cibo nequaquam refici potest, quemadmodum omne vivens simili cibo vitae suae pascitur. Nam cum vitalis spiritus sit delectabiliter movens, qui motus vita dicitur, tunc vis ipsa spiritus vitae, nisi restauretur naturali sua refectione, exspirat et deficit. Pythagorici aiebant vitalem spiritum in vapore seminis, corpus in corpore eius potentialiter subsistere. Quod et Stoici, qui et Zenonii, approbantes substantiam fructiferi seminis in spiritu vaporabili esse dixerunt, qui dum in grano aut in alio semine exspiravit, non fructificat. Ignem enim videmus deficere et exspirare, si pabulum eius defecerit. Unde et caelestia, cum moveantur, ‘spiritus’ veteres appellabant, ut sapiens Philo et Iesus filius Sirach solem spiritum affirmant. Ideo et solem pasci dicebant vapore oceani et lunam similiter vapore aliorum fluminum refici affirmant et planetas, quos divina vita pollere putabant, et deos alios vaporibus delectari credentes thure et odoriferis placabant. His enim spiritum vitae aetheriae seu caelestis purgatissimi ignis naturae inesse asserentes vaporem odoris suavissimi obtulerunt. 3 Quoniam autem animalia omnia naturalem mentem fixamque memoriam pabuli sui similitudinisque suae sensum habent, quae sunt eiusdem speciei sentientes, aiebat Plato hoc ex idea necessario esse, cum praeter illas nihil maneat. Ex quo elicias ideas non esse
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la caccia della sapienza, i 2-3
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CAPITOLO I
2
La sapienza è il nutrimento dell’intelletto La nostra natura intellettuale, essendo viva, ha necessariamente bisogno di nutrirsi. Essa, tuttavia, non può in alcun modo trovare il suo nutrimento in un cibo che sia diverso dal cibo della vita intelligibile, così come ogni essere vivente si nutre del cibo che è simile alla sua vita7. Ad esempio, dal momento che lo spirito vitale prova piacere nel muovere, producendo quel movimento che si chiama vita, se la forza dello spirito non viene ristorata con un nutrimento adatto alla sua natura, essa spira e muore. I Pitagorici sostenevano che lo spirito vitale è presente nel calore del seme e che il corpo sussiste in potenza nel corpo del seme8. Anche gli Stoici, che furono seguaci di Zenone, approvarono questa dottrina e dissero che la sostanza del seme da frutto si trova nello spirito che ne evapora, il quale, una volta esaurita la sua funzione nel chicco [di grano] o in qualche altro seme, non produce più frutti9. Vediamo, infatti, che anche il fuoco viene meno e si estingue se viene a mancare ciò che lo alimenta. Di conseguenza, dal momento che anche i corpi celesti si muovono, gli antichi li hanno per questo chiamati «spiriti», così come hanno fatto il sapiente Filone10 e Gesù figlio di Sirach11, i quali sostengono che il sole è uno spirito. Per questo, essi dicevano anche che il sole si nutre dei vapori dell’oceano ed affermano, in modo analogo, che la luna trae il suo sostentamento dai vapori degli altri corsi d’acqua; inoltre, credendo che i pianeti, che essi ritenevano ricolmi di vita divina, e gli altri dèi traessero piacere dai vapori, li placavano con incensi e profumi12. Essi offrivano loro i vapori di un profumo dolcissimo, sostenendo che in queste divinità fosse presente uno spirito di vita eterea o di vita celeste avente la natura di un fuoco purissimo. Tutti gli animali hanno una disposizione naturale per il loro cibo e ne conservano una salda memoria; inoltre, hanno una sensibilità per ciò che è simile ad essi che li porta a riconoscere istintivamente gli animali che appartengono alla loro stessa specie. Per questo motivo, Platone sosteneva che ciò è dovuto necessariamente all’Idea, dal momento che, al di fuori delle Idee, nulla persiste nell’esistenza13. Da ciò puoi inferire che le Idee non sono separate
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niccolò cusano
sic ab individuis separatas sicut extrinseca exemplaria. Nam natura individui cum ipsa idea unitur, a qua habet haec omnia naturaliter. Dicebat Laërtius Platonem affirmare ideam unum et multa, stare et moveri. In eo enim, quod est species incorruptibilis, est intelligibilis et una. In eo vero, quod multis unitur individuis, multa dicebat. Sic fixam stabilemque in eo, quod inalterabilis et intelligibilis; in eo vero, quod coniungitur mobilibus, moveri dixit. Proclus latius explanat quomodo principia essentialia sunt intrinseca et non extrinseca, et quomodo per cont[r]actum illum, quo individuum ideae suae iungitur, per ipsam ideam intelligibilem divinitati conectitur, ut secundum suam capacitatem meliori modo sit quo esse et conservari potest. Refert etiam Laërtius Platonem dicere ideas principium et initium esse eorum quae natura consistunt, ut huiusmodi sint, qualia sunt. Quae si bene intelligantur, forte non tantum adversantur veritati, quantum mali interpretes ipsius suggesserunt. 4 Epicharmus etiam dixit omnia, quae vivunt, notioni et sapientiae participare. Gallina enim non parit viventes, «sed ova prius incubat et calore animat. Haec autem sapientia ut sese habet, natura novit sola; ab ea quippe eruditur». Ac rursum ait: «Nihil profecto mirum, si ita loquar, et placere eas sibi et mutuo fovere et videri praeclara. Nam et canis cani videtur esse pulcherrimum et bovi bos et asino asinus, susque item sui videtur venustate praestare.» Ecce si animal omne habet conatam intelligentiam eorum, quae ad necessitatem conservationis ipsius in se et in eius prole, cum sit mortale, sunt necessaria, et hinc industriam habet venandi pabulum suum et lumen opportunum et organa venationi suae apta – ut lucem oculis congenitam animalia, quae nocte venantur – cogno-
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la caccia della sapienza, i 3-4
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dagli individui, così come lo sono degli esemplari esterni. La natura dell’individuo, infatti, è unita con l’Idea stessa, dalla quale l’individuo ha tutto ciò che appartiene alla sua natura. Secondo Laerzio14, Platone affermava che l’Idea è sia una che molti, è sia in quiete che in movimento. Infatti, in quanto è una Forma specifica incorruttibile, l’Idea è intelligibile ed una; in quanto, invece, è unita a molti individui, Platone la designava come «molti». Allo stesso modo, Platone diceva che l’Idea è fissa e in quiete in quanto è inalterabile e intelligibile, mentre diceva che è in movimento in quanto è congiunta con le cose dotate di movimento. Proclo15 spiega più diffusamente che i principi essenziali sono interni e non esterni [alle cose] e che, attraverso quel contatto con il quale la singola cosa individuale è congiunta con la sua Idea, essa è connessa con la divinità tramite questa Idea intelligibile, in modo tale che ogni cosa, secondo le sue capacità, possa esistere nel modo migliore in cui può esistere e in cui può essere conservata. Laerzio riferisce16 anche che Platone diceva che le Idee sono il principio e l’inizio delle cose che sussistono per natura e fanno sì che esse siano il genere di cose che sono. Se questi insegnamenti platonici vengono compresi bene, essi non sono forse così contrari alla verità come hanno suggerito i cattivi interpreti di Platone. Anche Epicarmo17 ha detto che tutto ciò che vive partecipa della conoscenza e della sapienza. Una gallina, ad esempio, non genera dei figli già vivi, «ma prima cova le uova e le anima con il suo calore. Come mai, tuttavia, essa si comporti con tale sapienza, lo sa solo la natura; è dalla natura, infatti, che questo le viene insegnato». Ed Epicarmo dice ancora: «Non c’è nulla di sorprendente, se posso esprimermi così, se essi si piacciono, se si curano l’uno dell’altro e se sembra loro di avere una bella natura. Infatti, anche un cane sembra ad un cane la cosa più bella, e persino un maiale sembra ad una altro maiale eccellere per grazia». Se ogni animale, pertanto, ha una comprensione innata di quelle cose che sono necessarie alla conservazione della sua natura, sia per quanto riguarda lui stesso, sia, essendo esso mortale, per quanto riguarda la sua prole, e ha quindi l’industriosità per andare a caccia del suo cibo, possiede una capacità visiva idonea ed organi adatti per la sua caccia (ad esempio, gli animali che cacciano di notte hanno sin dalla nascita
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niccolò cusano
scitque inventum et eligit sibique unit, utique vita intellectualis nostra his nequaquam carebit. Quare intellectus dotatus est a natura logica, ut illa mediante discurrat et suam faciat venationem. Est enim, ut Aristoteles dicebat, logice exactissimum instrumentum ad venationem tam veri quam verisimilis. Unde dum invenit, cognoscit et avide amplectitur. Sapientia igitur est quae quaeritur, quia pascit intellectum. Immortalis est enim cibus; immortaliter igitur pascit. Illa autem in variis rationibus lucet, quae ipsam varie participant. In variis enim rationibus quaerit sapientiae lumen, ut inde sugat et pascatur. Quemadmodum in variis sensibilibus, in quibus aliquando vita pascebatur, rationabiliter quaerit sensibilis vita pastum, ita et in sensibilibus notionibus ratione applicata intellectus intelligibilem cibum venatur. Unde in uno cibo melius quam in alio reficitur; sed difficilius id, quod pretiosius, reperitur. 5 Et quia homo maiori industria indiget, ut suam animalitatem bene nutriat, quam aliud animal, habetque opus, ut ad hoc logica sua naturali in venatione corporalis cibi utatur, non est ad intellectualem ita deditus et attentus, sicut illa natura exposcit. Haec occupatio dum nimia est, a speculativa sapientiae alienat. Quare philosophia carni contraria mortificare scribitur. Etiam inter philosophos magna differentia reperitur. Et hoc maxime evenit, quia unus intellectus est melior venator, quia exercitatus et logica sibi promptior et ea utitur exquisite, scitque unus melius, in qua regione sapientia, quae quaeritur, citius reperiatur et quo modo detineatur. Nihil enim sunt philosophi nisi venatores
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la caccia della sapienza, i 4-5
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una luce interna all’occhio), e sa inoltre riconoscere il cibo che ha trovato, lo sceglie e lo fa suo, allora, certamente, la nostra vita intellettuale non sarà in alcun modo priva di queste cose18. È per questo motivo che il nostro intelletto è stato dotato dalla natura di logica, in modo tale che, con il suo ausilio, possa svolgere i suoi ragionamenti e possa condurre la caccia che gli è propria19. La logica, infatti, come diceva Aristotele20, è lo strumento più esatto per andare a caccia sia del vero, sia del verosimile. Per questo, quando l’intelletto trova ciò che è vero, lo riconosce e lo abbraccia avidamente. La sapienza, quindi, è ciò che noi ricerchiamo perché essa nutre l’intelletto. E la sapienza è un cibo immortale, per cui nutre in modo immortale21. Essa risplende nelle diverse argomentazioni razionali, che di essa partecipano in modi diversi. Nelle diverse argomentazioni razionali, infatti, l’intelletto cerca la luce della sapienza, per succhiare da essa il suo latte e potere così nutrirsi. Come la vita dei nostri sensi cerca razionalmente il suo alimento nei diversi oggetti sensibili, dei quali talvolta la vita si è nutrita, così l’intelletto va a caccia del cibo intelligibile nelle nozioni sensibili, servendosi della ragione. Di conseguenza, l’intelletto trova ristoro meglio in un cibo che in un altro; quello più prezioso, tuttavia, lo si trova con maggiore difficoltà. E poiché l’uomo, per nutrire bene la sua natura animale, ha bisogno di profondere un impegno maggiore rispetto a quello profuso da qualsiasi altro animale, ed ha pertanto necessità di usare le sue doti [capacità] logiche naturali per andare a caccia del cibo destinato al suo corpo, egli non è così dedito ed attento al cibo intellettuale come richiede la sua natura intellettuale. Quando questa preoccupazione [per il cibo materiale] è eccessiva, essa allontana dalla preoccupazione spirituale per la sapienza. Per questo, si è scritto che la filosofia è contraria alla carne ed è un esercizio di morte della carne22. Anche tra i filosofi si trovano delle grandi differenze. E ciò dipende soprattutto dal fatto che l’intelletto di un filosofo è in grado di cacciare meglio dell’intelletto di un altro, in quanto si è esercitato di più, è più pronto nella logica e la utilizza in modo accurato, e dal fatto, inoltre, che l’intelletto di un filosofo conosce meglio in quale regione si può trovare più rapidamente quella sapienza di cui va alla ricerca ed in quale modo la si può catturare. I filosofi, infat-
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niccolò cusano
sapientiae, quam quisque in lumine logicae sibi conatae suo modo investigat. 6
Capitulum II
Quo principio rationes sapientiae perquisivi Dicit inter sapientes primus Thales ille Milesius deum antiquissimum, quia ingenitus, mundum pulcherrimum, quia a deo factus. Quae verba dum in Laërtio legerem, summe mihi placuere. Inspicio mundum pulcherrimum miro ordine unitum, in quo summa summi dei bonitas, sapientia pulchritudoque relucet. Moveor ad quaerendum huius tam admirandi operis artificem et intra me dico: Cum ignotum per ignotius non possit sciri, capere me oportet aliquid certissimum, ab omnibus venatoribus indubitatum et praesuppositum, et in luce illius ignotum quaerere. Verum enim vero consonat. Cum haec sollicite intra me avida mens quaereret, incidit philosophorum assertio, quam et Aristoteles in Physicorum principio assumit, quae est quod impossibile fieri non fit. Et ad ipsam conversus introspexi regiones sapientiae hoc qualicumque discursu. 7
Capitulum III
Quo discursu ratio venatur Cum impossibile fieri non fiat, nihil factum est aut fiet, quin potuit aut possit fieri. Quod autem est et non est factum nec creatum, non potuit neque potest fieri neque creari. Praecedit enim posse fieri et est aeternum, cum non sit nec factum nec creatum nec possit fieri aliud. Omne autem quod est factum aut fiet, cum sine pos-
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la caccia della sapienza, i 5 - iii 7
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ti, non sono che cacciatori della sapienza, che ciascun filosofo indaga a suo modo alla luce della logica che gli è innata. CAPITOLO II
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Il principio con il quale sono andato alla ricerca delle ragioni della sapienza Talete di Mileto, il primo dei sapienti, dice che Dio è antichissimo, in quanto è ingenerato, e che il mondo è bellissimo, in quanto è stato fatto da Dio. Quando ho letto queste parole in Laerzio23, mi sono piaciute moltissimo. Io osservo un mondo bellissimo, unito in un ordine straordinario, nel quale risplende la somma bontà del Dio sommo, la sua sapienza e la sua bellezza. Sono spinto a ricercare l’artefice di questa opera così mirabile24, e dico a me stesso: «Dal momento che ciò che è ignoto non lo si può conoscere mediante qualcosa di ancora più ignoto, bisogna che io prenda qualcosa di assolutamente certo, che tutti i cacciatori [della sapienza] presuppongono e ritengono indubitabile, e che alla luce di tale certezza vada alla ricerca di ciò che è ignoto25. Il vero, infatti, si accorda con il vero». Mentre la mia mente, desiderosa di conoscere, indagava attentamente dentro di me queste cose, mi capitò di imbattermi in una proposizione dei filosofi, che anche Aristotele riprende all’inizio della sua Fisica, secondo la quale ciò che è impossibile che sia fatto non viene fatto26. E dopo essermi rivolto a questa proposizione ho intrapreso un esame delle regioni della sapienza, seguendo questo tipo di ragionamento. CAPITOLO III
7
Il ragionamento con il quale la ragione va a caccia della sapienza Poiché ciò che è impossibile che sia fatto non viene fatto, niente è stato fatto o verrà fatto che non potesse essere fatto o che non possa essere fatto. Ciò che invece è, ma non è stato fatto né creato, non ha potuto né può essere fatto, né creato. Esso, infatti, precede il poter-essere-fatto ed è eterno, dal momento che non è stato fatto, né creato, e dal momento che non può neppure diventare qualcos’altro [da quello che è]. Tuttavia, dal momento che non è pos-
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niccolò cusano
se fieri nec sit factum nec fiet, habet principium unum absolutum, quod est principium et causa ipsius posse fieri. Et id est illud aeternum, quod posse fieri antecedit; et est absolutum principium et incontrahibile, quia est omne quod esse potest; et ipsum quod fit, de posse fieri producitur, quia ipsum posse fieri fit actu omne quod fit. Omne autem quod factum est ex posse fieri, aut est id, quod fieri potest, aut est post illud; et numquam est id quod fieri potest, sed sequitur et imitatur ipsum. Fieri posse cum non sit factum, nec a se est factum nec ab alio. Nam cum omne factum praecedat li posse fieri, quomodo fieret ipsum posse fieri? Sed cum sit post id, quod est omne quod esse potest, scilicet aeternum, habet initium. Tamen non potest deficere posse fieri. Si enim deficeret, hoc fieri posset. Non igitur posse fieri deficeret. Posse fieri igitur initiatum in aevum manet et perpetuum est. 8 Et cum non sit factum et tamen initiatum, ipsum dicimus creatum, cum nihil praesupponat ex quo sit, dempto eius creatore. Omnia igitur quae post ipsum sunt, a creatore de ipso posse fieri producta sunt. Quae autem facta sunt id quod fieri possunt, haec caelestia et intelligibilia nominantur. Quae autem sunt, sed non id quod fieri possunt, numquam fixa sunt et deficiunt. Imitantur igitur perpetua et non attingent umquam illa. Temporalia igitur sunt et terrena sensibiliaque vocantur. Cum igitur me converto ad contemplandum aeternum, video ipsum actum simpliciter et in ipso mente intueor omnia ut in causa absoluta complicite. Cum in aevum et perpetuum intueor, intellectualiter video ipsum posse fieri et in ipso naturam omnium
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la caccia della sapienza, iii 7-8
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sibile che tutto ciò che è stato fatto o che verrà fatto sia stato fatto o verrà fatto senza il poter-essere-fatto, tutto ciò che è stato fatto o che verrà fatto ha un unico Principio assoluto, che è il principio o la causa dello stesso poter-essere-fatto; ed esso è un principio assoluto e incontraibile, in quanto è tutto ciò che può essere; e tutto ciò che viene fatto viene prodotto a partire dal poter-essere-fatto, poiché il poter-essere-fatto diventa in atto tutto ciò che viene fatto. Ma tutto ciò che è stato fatto a partire dal poter-essere-fatto o è il poter-essere-fatto, o è successivo ad esso; tuttavia, non è certamente il poter-essere-fatto, ma è piuttosto ciò che viene dopo di esso e lo imita. Dal momento che il poter-essere-fatto non è stato fatto, esso non è stato fatto né da se stesso, né da qualcos’altro. Infatti, dato che il poter-essere-fatto precede tutto ciò che è fatto, in che modo potrebbe essere fatto lo stesso poter-essere-fatto? Dall’altro lato, poiché è successivo rispetto a colui che è tutto ciò che può essere, ossia rispetto all’Eterno, il poter-essere-fatto ha un inizio27. Ciononostante, il poter-essere-fatto non può perire. Se infatti perisse, questo perire sarebbe stato qualcosa che poteva-essere-fatto. Il poteressere-fatto, quindi, non perirebbe. Il poter-essere-fatto, pertanto, ha un inizio, ma rimane per sempre ed è perpetuo28. E dal momento che il poter-essere-fatto non è stato fatto e tuttavia ha un inizio, diciamo che esso è creato, in quanto non presuppone nulla da cui possa essere eccetto il suo creatore. Pertanto, tutto ciò che è successivo al poter-essere-fatto è stato prodotto dal creatore a partire dal poter-essere-fatto29. Quelle realtà, tuttavia, che sono state fatte e che sono tutto ciò che è contenuto nel loro poteressere-fatte vengono chiamate celesti ed intelligibili30. Le cose, invece, che esistono, ma che non sono tutto ciò che è contenuto nel loro poter-essere-fatte non sono mai stabili e periscono. Esse imitano, pertanto, le realtà che sono perpetue, senza tuttavia raggiungerle mai. Queste cose, pertanto, sono temporali e vengono chiamate terrene e sensibili31. Quando pertanto mi rivolgo a contemplare l’Eterno, lo vedo come puro atto ed in lui scorgo intuitivamente, con la mia mente, tutte le cose così come esse sono presenti, nel modo della complicazione, nella loro causa assoluta. Quando guardo a ciò che è imperituro e perpetuo, vedo intellettualmente il poter-essere-fatto, ed in
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niccolò cusano
et singulorum, ut secundum perfectam explicationem praedestinationis divinae mentis fieri debent. Cum in tempus intueor, omnia in successione explicari perfectionem perpetuorum imitando sensibiliter comprehendo. Imitantur enim sensibilia ipsa intelligibilia. Quare in posse fieri creato omnia creata sunt praedeterminata, ut hic mundus pulcher, uti est, fieret. De quo infra plenius. Quomodo autem hoc concipi possit, aliquale exemplum licet remotum subiungam. 9
Capitulum IV
Quomodo exemplo artis logicae se iuvat Intellectus magistri vult creare artem syllogisticam. Ipse enim posse fieri huius artis praecedit; quae ars in ipso est ut in causa. Ponit igitur et firmat posse fieri huius artis. Nam quae ars illa requirit, fieri possunt, ut sunt nomen et verbum et propositiones ex illis et ex illis syllogismus, qui fit ex tribus propositionibus, quarum duae praemittuntur, ex quibus tertia concludens sequitur. Requiritur etiam, quod subiecta et praedicata omnium trium propositionum non habeant nisi tres terminos. Ideo necesse est unum in praemissis bis resumi, qui dicitur medium. Aut igitur hoc est, quando in prima praemissa, quae dicitur maior, ille est subiectum et in minori praemissa praedicatum; aut ubi in ambabus praedicatum aut subiectum. Et ita oriuntur tres figurae. Cuiuslibet figurae etiam varii modi oriuntur ex varia et utili combinatione propositionum inutilibus combinationibus reiectis, sicut sunt trium negativarum et trium particularium propositionum – et aliis secundum figuram inutilibus. Et primum ex tribus affirmativis universa-
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esso vedo la natura di tutte le cose e di ognuna di esse singolarmente, così come devono essere fatte conformemente alla perfetta esplicazione della predestinazione della mente divina. Quando guardo al tempo, colgo con la percezione sensibile che tutte le cose si esplicano nella successione, imitando la perfezione delle realtà perpetue. Le realtà sensibili imitano, infatti, quelle intelligibili32. Tutte le cose create, pertanto, sono state predeterminate nel poter-essere-fatto, che è stato creato, in modo tale che questo mondo bello venisse fatto così come esso è. Di questo argomento parlerò più diffusamente oltre33. Per illustrare in che modo si possa concepire quanto ho detto, vorrei invece aggiungere un esempio, per quanto approssimativo. CAPITOLO IV
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Un esempio tratto dall’arte della logica L’intelletto di un maestro vuole creare l’arte dei sillogismi. Il suo intelletto, infatti, precede il poter-essere-fatta di quest’arte, la quale è presente nel suo intelletto come nella sua causa. È l’intelletto, pertanto, che pone e stabilisce il poter-essere-fatta di questa arte. Infatti, ciò che questa arte richiede può essere fatto, ossia i nomi, i verbi, le proposizioni formate da nomi e verbi e il sillogismo formato da queste proposizioni. Un sillogismo è formato da tre proposizioni, due delle quali sono le premesse del sillogismo, dalle quali segue come terza proposizione la conclusione. Si richiede, inoltre, che i soggetti e i predicati di tutte e tre le proposizioni abbiano solo tre termini. È necessario, pertanto, che un termine, che viene chiamato termine medio, compaia due volte nelle premesse. E ciò avviene o quando nella prima premessa, che viene detta premessa maggiore, il termine medio è il soggetto e nella premessa minore è il predicato, oppure quando il termine medio funge da predicato o da soggetto in entrambe le premesse. In questo modo, si formano tre figure del sillogismo34. Per ogni figura ci sono poi anche diversi modi, che si formano dalla diversa ed utile combinazione delle proposizioni, trascurando le proposizioni inutili, come quella di tre proposizioni negative, o di tre proposizioni particolari, ed altre combinazioni inutili relative a ciascuna figura. Il primo sillogismo, costituito da tre proposizioni affermative universali, si
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libus nominant Barbara in prima figura. Secundum ex universalibus, maiori negativa et minori affirmativa et conclusione negativa, nominant Celarent; et ita consequenter. Et hae sunt specificae formae syllogisticae in ratione fundatae et permanentes, quas necesse est omnem syllogismum, qui sensibili sermone exprimitur, imitari. Et ita posse fieri huius artis explicatur. 10 Hanc artem inventor magister oboedienti tradit discipulo et mandat, ut secundum omnes sibi praepositos modos syllogizet. Sic forte se aliqualiter habet mundi artificium. Nam eius magister, gloriosus deus, volens constituere mundum pulchrum, posse fieri ipsius et in ipso complicite omnia ad illius mundi constitutionem creavit necessaria. Requirebat autem pulchritudo mundi tam illa quae essent quam quae et viverent atque etiam quae et intelligerent, atque etiam quod horum trium variae essent species seu modi pulchritudinis, quae sunt divinae mentis practicae praedeterminatae rationes et utiles pulchrae combinationes ad mundi constitutionem opportunae. Hoc divinum opificium deus oboedienti scilicet naturae ipsi posse fieri concreatae tradidit, ut posse fieri mundi secundum iam dictas praedeterminatas divini intellectus rationes explicaret, puta posse fieri hominis secundum rationem hominis praedeterminatam explicaret. Et ita de cunctis, sicut syllogizans ad praedeterminatas rationes, quae Barbara Celarent nominantur, syllogizando respicit. 11
Capitulum V
Quomodo exemplo geometrico proficit Videtur autem naturam imitari geometer, dum circulum figurat. Nam ad praedeterminatam circuli respicit rationem, secundum quam studet operari, quantum hoc posse fieri sensibilis su-
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chiama, nella prima figura, «Barbara». Il secondo sillogismo, costituito da tre proposizioni universali, delle quali la premessa maggiore è negativa, quella minore è affermativa e la conclusione è negativa, si chiama «Celarent». E così di seguito. Queste sono le forme specifiche di sillogismo che sono basate sulla ragione e che sono permanenti, ed ogni sillogismo che viene espresso in un discorso percipibile sensibilmente le deve imitare. Il maestro che ha inventato questa arte la trasmette ad un discepolo obbediente e gli prescrive di formare i sillogismi secondo tutti i modi che gli ha posto davanti35. In qualche misura, l’arte con la quale è stato costituito il mondo è forse simile a ciò. Il maestro del mondo, infatti, il Dio glorioso, volendo costituire un mondo bello, ha creato il poter-essere-fatto del mondo ed ha posto in esso, nella forma della complicazione, tutte le cose necessarie alla costituzione di quel mondo. La bellezza del mondo, tuttavia, richiedeva non solo cose che avessero l’essere, ma anche esseri che avessero la vita ed esseri che, oltre alla vita, avessero anche l’intelligenza36, e richiedeva inoltre che in questi tre generi di realtà vi fossero diverse specie o modi di bellezza, i quali sono le forme razionali pratiche predeterminate della mente divina, e le utili combinazioni della bellezza adatte alla costituzione del mondo. Dio ha affidato questa opera divina ad un discepolo obbediente, ossia alla natura, che è stata creata insieme con il poter-esserefatto, perché esplicasse37 il poter-essere-fatto del mondo secondo quelle forme razionali predeterminate dell’intelletto divino che ho già menzionato, ad esempio il poter-essere-fatto dell’uomo secondo la forma razionale predeterminata dell’uomo. E così via per tutte le cose, come colui che forma sillogismi guarda, nel formarli, a quelle forme razionali predeterminate dell’argomentazione sillogistica che vengono chiamate «Barbara» e «Celarent». CAPITOLO V
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Utilità di un esempio tratto dalla geometria Quando un geometra disegna un cerchio, sembra che imiti la natura. Egli infatti guarda alla forma razionale del cerchio, secondo la quale si sforza di costruirlo, per quanto lo consente il poter-
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biecti permittit; unum enim aptius est alio. Nec aliud est haec ratio quam aequedistantia centri circuli a circumferentia, quae est vera circuli ratio seu causa, non recipiens magis nec minus. Sed nullus sensibilis circulus adeo perfecte fieri potest, quod rationem illam praecise attingat. Nam posse fieri sensibilis circulus est post illam intelligibilem rationem fixam et stabilem, quam ut imago veritatem sequitur et imitatur posse fieri circulum in sensibili materia. Quae cum sit variabilis, nequaquam erit circulus, qui describitur, omne id quod sensibilis circulus fieri potest, cum omni sensibili dato possit fieri verior et perfectior et dicto intelligibili similior. 12 Sic dum vult geometer angulum rectum figurare, ad intelligibilem eius respicit rationem, quae est id quod rectus intelligibilis esse potest; quam nullus sensibilis praecise potest imitari. Nec ad aliam respicit speciem, quando acutum vel obtusum angulum facit, quam speciem recti, cui acutus est minor et obtusus maior. Acutus enim semper potest esse recto similior; ita et obtusus. Et si alter ipsorum esset minime talis, ita quod minus esse non posset, rectus esset. Quare in ratione recti complicantur, cum sint recti, quando id sunt quod fieri possunt. Sic nec natura respicit ad aliam speciem quam humanam, quando aut masculum aut feminam producit, quamvis ratio hominis non sit masculus nec femina, quae sensibilibus conveniunt. Species enim medium est in se uniens a se vel ad dexteram vel ad sinistram declinantia. 13 Vides bene ista sic esse, quando advertis intelligibilia nihil eorum aut esse aut habere, quae in sensibilibus reperiuntur. Non enim
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essere-fatto del sostrato materiale sul quale egli opera; un tipo di sostrato, infatti, è più adatto di un altro. Questa forma razionale del cerchio non è altro che la «equidistanza del centro del cerchio dalla circonferenza»; questa è la vera forma razionale o causa del cerchio, che non ammette né un di più, né un di meno. Nessun cerchio, tuttavia, può essere fatto in modo così perfetto da raggiungere con precisione quella forma razionale. Infatti, il poter-essere-fatto di un cerchio sensibile è successivo a quella forma razionale intelligibile, che non è soggetta a mutamento e a variazione; il poteressere-fatto di un cerchio in una materia sensibile viene dopo di essa e la imita, come un’immagine viene dopo ed imita il suo esemplare. Ed essendo la materia sensibile variabile, il cerchio che viene tracciato su di essa non sarà mai tutto ciò che un cerchio sensibile può diventare, dal momento che, rispetto ad ogni cerchio sensibile dato, può esserne sempre fatto uno che è più vero, più perfetto e più simile al cerchio intelligibile di cui ho parlato38. Allo stesso modo, quando un geometra vuole disegnare un angolo retto, egli guarda alla sua forma razionale intelligibile, che è ciò che un angolo retto intelligibile può essere e che nessun angolo sensibile può imitare in modo preciso39. E quando traccia un angolo acuto od ottuso, egli non guarda ad una forma specifica diversa dalla forma specifica dell’angolo retto, di cui l’angolo acuto è minore e l’angolo ottuso maggiore. Un angolo acuto, infatti, può diventare sempre più simile ad un angolo retto, e lo stesso vale anche per un angolo ottuso. E se uno di essi fosse acuto od ottuso in grado minimo, al punto da non poter essere ancora meno acuto o meno ottuso, allora sarebbe un angolo retto40. Pertanto, l’angolo acuto e l’angolo ottuso sono complicati nella forma razionale dell’angolo retto, dal momento che, quando sono [tutto] ciò che possono diventare, essi sono degli angoli retti. In modo analogo, anche la natura, quando produce o un maschio o una femmina, non guarda ad una forma specifica diversa dalla forma specifica dell’uomo, sebbene la forma razionale dell’uomo non sia né maschio, né femmina, caratteri, questi, che si addicono solo alle realtà sensibili. La specie41, infatti, è un termine medio che riunisce cose che deviano da essa o in un senso o in un altro. Che le cose stiano così ti risulterà evidente se presti attenzione al fatto che le realtà intelligibili non sono, né hanno nulla di ciò
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habent aut colorem aut figuram, quae sensibili visu attinguntur, aut duritiem seu lenitatem sive aliquod tale, quod tactu sentitur; ita nec quantitatem nec sexum nec aliquid, quod sensus apprehendit. Illa enim omnia intelligibilia sequuntur sicut temporalia perpetua. Sic nihil intelligibilium est in aeternitate, quae omne intelligibile antecedit sicut aeternum perpetuum. Omnia autem praecisa et permanentia pulchriora sunt imperfectis et fluidis. Sic intelligibilia pulchriora sensibilibus, quae in tantum sunt pulchra, in quantum intelligibiles species seu pulchritudines in ipsis relucent. 14
Capitulum VI
Dilucidatio ipsius posse fieri Erit, qui haec legerit, non dubium occupatus, ut posse fieri concipiat. Et hoc ideo difficile, quoniam posse fieri non terminatur nisi in suo principio. Quomodo igitur formari posset conceptus de eo quod interminabile? Ne tamen penitus aberres, rudi quodam exemplo succurram. Esto lucem aeternam deum appellari, mundum vero penitus invisibilem, qui per visum iudicatur non esse, cum nihil visus esse iudicet, nisi per ipsum videatur. Disponit autem lux velle mundum visibilem facere. Et quia posse fieri visibilem mundum est color, ipsius lucis similitudo – nam coloris hypostasis lux est –, creat igitur lux colorem, in quo omne, quod videri potest, complicatur. Sicut enim sublato colore nihil videtur, ita de colore per lucem omne visibile ut tale de potentia ad actum perducitur. Unde quia varie color in coloratis resplendet, in certis luci propinquior color apparet. Et illa sunt magis visibilia et ut talia nobiliora, uti albus color. Nullum tamen coloratum participat adeo
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che si trova nelle cose sensibili. Esse non hanno infatti un colore o una figura, proprietà che vengono colte con la vista sensibile, non hanno asperità né levigatezza, o altro di simile che viene percepito con il tatto; allo stesso modo, non hanno né quantità, né sesso, né nulla di ciò che viene appreso con i sensi. Tutte queste proprietà, infatti, sono successive alle realtà intelligibili, come le realtà temporali sono successive a quelle perpetue. Allo stesso modo, nessuna delle realtà intelligibili è presente nell’eternità, la quale precede tutto ciò che è intelligibile come ciò che è eterno precede ciò che è perpetuo. Ora, tutto ciò che è preciso e permanente è più bello di ciò che è imperfetto e mutevole. Pertanto, le realtà intelligibili sono più belle delle cose sensibili, le quali in tanto sono belle, in quanto risplendono in esse le forme intelligibili o le bellezze intelligibili. CAPITOLO VI
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Chiarimento del poter-essere-fatto Chi leggerà queste pagine sarà senza dubbio intento a farsi un concetto del poter-essere-fatto42. E ciò è difficile perché il poter-essere-fatto non ha alcun termine se non nel suo principio. Come ci si potrebbe quindi formare un concetto di ciò che è indeterminabile? Ciononostante, per fare in modo che tu non vada completamente fuori strada, ti aiuterò con un esempio molto semplice e banale. Supponiamo di chiamare Dio «luce eterna», e supponiamo che il mondo sia completamente invisibile, per cui il senso della vista ritiene che esso non esista, dal momento che la vista ritiene che esiste solo ciò che essa vede43. Ora, la vista decide di voler rendere il mondo visibile. E poiché il mondo, per poter-essere-fatto visibile, ha bisogno del colore, che è una similitudine della luce (la luce, infatti, è la base del colore)44, la luce crea il colore, nel quale è complicato tutto ciò che può essere visto45. Infatti, tolto il colore, non si vede nulla46, così con la presenza del colore e grazie alla luce tutto ciò che è visibile passa, in quanto visibile, dalla potenza all’atto. Di conseguenza, poiché il colore risplende in modi diversi negli oggetti colorati47, in alcuni di questi esso appare più vicino alla luce. E questi oggetti sono allora più visibili e, in quanto tali, più nobili, come, ad esempio, il colore bianco. Nessun oggetto colorato, tutta-
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perfecte colorem aliquem, quin perfectius participari possit, et non est terminus ipsius posse fieri nisi causa coloris. Aliqua stabiliter et perpetue manent eiusdem coloris, ut caelestia, alia instabiliter et temporaliter, ut terrestria et quae huius corruptibilis mundi sunt. Color igitur est posse fieri visibile. Omne enim quod videtur, quia coloratum est, videtur. Et discrete ab omni alio colorato videtur et discernitur propter discretum et singularem suum colorem. 15 Et quia sensus visus, qui spiritus lucidus est, lucem discretivam et cognoscitivam participat et nequaquam est coloratus, ut de omni colore iudicet, igitur color non est posse fieri ipsius. Sic et intellectus lucidior est visu. Discernit enim subtilissime quae invisibilia sunt, puta intelligibilia a visibilibus abstracta. Quare nec color posse fieri ipsius intellectus exsistit, sed posse fieri lucidum et pulchrum mundum et cuncta quae in ipso sunt, etiam ipsum colorem, est simplicius colore, qui dicitur aeternae lucis similitudo, in sua potentia passiva omnia lucida, quae sunt, quae vivunt et intelligunt, uti semen participalis lucis et pulchri complicans. Quod lucidum semen animale huius seminis participatio aliqualiter ostendit, cum sit posse fieri animalis, quod est, vivit, sentit et suo modo intelligit. Quam virtutem non haberet, nisi illius posse fieri mundi et dicti seminis seminum similitudinem participaret et imago esset. Unde semen seminum exsistentium, viventium et intelligentium est participabilis dei similitudo, quam posse fieri nominamus; de qua lux aeterna hunc pulchrum et lucidum mundum produxit et cuncta, quae fiunt, constituit. Nam cum sit aeternae lucis parti-
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via, partecipa di un colore, qualunque esso sia, in modo così perfetto da non poter partecipare di esso in modo ancora più perfetto, e non c’è nessun limite a questo suo poter-essere-fatto colorato se non quello costituito dalla causa del colore. Alcune cose, come quelle celesti, conservano lo stesso colore in maniera stabile e perpetua, altre in maniera non stabile e per breve tempo, come le cose terrestri e tutto ciò che fa parte di questo mondo corruttibile. Nel colore, dunque, risiede il poter-essere-fatto visibile di un oggetto. Tutto ciò che vediamo, infatti, lo vediamo perché è colorato. Inoltre, lo vediamo come distinto da ogni altro oggetto colorato e lo distinguiamo grazie al suo colore distinto e singolare. E poiché il senso della vista, che è uno spirito luminoso, partecipa della luce, la quale consente di distinguere gli oggetti e di conoscerli, e poiché, per poter giudicare di tutti i colori, il senso della vista non è in alcun modo colorato48, il colore non appartiene al suo poter-essere-fatto. In modo simile, anche l’intelletto è più luminoso della vista. Esso, infatti, distingue con grandissima finezza cose che sono invisibili, ossia gli intelligibili astratti dalle cose visibili. Pertanto, il colore non appartiene neppure al poter-essere-fatto dell’intelletto; piuttosto, il poter-essere-fatto di un mondo bello e luminoso e di tutte le cose che sono in esso ed anche dello stesso colore è più semplice del colore, il quale viene detto una similitudine della luce eterna; esso complica nella sua potenza passiva tutte le cose luminose, che sono, che vivono e che intendono, come un seme che renda partecipi della luce e della bellezza. Dal momento che questo seme49 costituisce il poter-essere-fatto di un animale, che è un essere che vive, che sente e, a suo modo, intende, la partecipazione a questo seme rivela in qualche misura il carattere luminoso del seme animale. Il seme animale non avrebbe questa forza se esso non partecipasse dell’immagine del poter-essere-fatto del mondo e del seme dei semi che ho sopra menzionato, e se non fosse una loro immagine. Pertanto, il seme dei semi di tutti gli esseri che esistono, vivono ed intendono è una similitudine partecipabile di Dio, una similitudine che noi chiamiamo «poter-essere-fatto»; da tale similitudine la luce eterna ha prodotto questo mondo bello e luminoso e ha costituito tutte le cose che in esso giungono all’essere. Infatti, dal mo-
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cipabilis similitudo, bona est, quod constat in sui ipsius larga diffusione; magna est, quia virtus numquam terminabilis; vera, delectabilis perfectaque est et per omnia laudabilis, cuius opera laudabilia et gloriosa sunt, uti infra narrabimus. 16
Capitulum VII
Quod una est causa ipsius posse fieri omnia Id in quo meae quiescunt venationum coniecturae, hoc est, quod non est nisi una omnium causa creatrix posse fieri omnium et quod illa omne posse fieri praecedat sitque ipsius terminus; quae nec est nominabilis nec participabilis, sed eius similitudo in omnibus participatur. Et quia varia participantia sunt in omnibus, quae secundum eandem speciem similitudinis participant ipsius causae similitudinem, est devenire ad unum quod est maxime tale et est primum seu praecipuum aut principium illius specificae participationis et in ordine ad alia eiusdem speciei maxime tale et per se tale, cuius specificam similitudinem alia illius ordinis participant; sicut lucem dicimus primae causae similitudinem, quae in maxime lucido, puta sole, primo et principaliter resplendet ut in per se lucido, in aliis vero lucidis ut in participantibus solarem lucem. Causa autem solaris lucis nihil commune habet cum luce solis, sed est omnium causa, ideo nihil omnium. Quo vero rationis discursu venationes fecerim, nunc revelabo, ut tam praedicta quam quae sequuntur capias et iudices. 17 Certum est primum principium non esse factum, cum nihil a se ipso, sed ab eo priori fiat. Quod autem non est factum, neque
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mento che questa similitudine è una similitudine partecipabile della luce eterna, essa è buona come risulta evidente dall’ampia diffusione con la quale si comunica50, ed è grande, in quanto la sua forza non conosce alcun limite; ma vera, fonte di gioia, perfetta e degna di essere lodata da tutti è la luce eterna, le cui opere sono degne di lode e gloriose, come spiegheremo più avanti51. CAPITOLO VII
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C’è un’unica causa del poter-essere-fatto di tutte le cose Il punto al quale sono pervenute e nel quale riposano le congetture che ho elaborato nel corso della mia caccia [della sapienza] è il seguente: di tutte le cose non c’è che un’unica causa, la quale crea il poter-essere-fatto di tutte le cose52, e tale causa precede ogni poter-essere-fatto e ne è il termine ultimo. Essa non è né nominabile, né partecipabile53, ma tutte le cose partecipano della sua similitudine. In tutte le cose vi sono diverse forme di partecipazione, ma esse partecipano tutte della similitudine della causa creatrice secondo una medesima specie di similitudine; di conseguenza, si deve pervenire ad una realtà nella quale questa forma specifica di similitudine si realizzi in maniera massima e che, pertanto, sia il primo o il principio di quella partecipazione specifica e che, in confronto con gli altri individui della sua medesima specie, possegga il modo d’essere proprio di quella specie in modo massimo e lo possegga di per sé, per cui le altre realtà di quell’ordine partecipano della sua specifica similitudine. Così, ad esempio, noi diciamo che la luce è una similitudine della prima causa, una similitudine che risplende in primo luogo e in maniera principale in ciò che è massimamente luminoso, ossia nel sole, come in ciò che è di per sé luminoso, mentre risplende nelle altre cose luminose in quanto partecipano della luce del sole. Tuttavia, la causa della luce del sole non ha nulla in comune con la luce del sole, ma è la causa di tutte le cose e per questo non è nessuna di esse54. Ma ora vorrei mostrarti qual è il ragionamento che ho seguito per condurre la mia caccia, in modo che tu possa comprendere e giudicare sia ciò che ho già detto, sia ciò che dirò in seguito. È certo che il primo principio non è stato fatto, in quanto nulla si fa da se stesso, ma ogni cosa viene fatta da ciò che la precede.
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resolvi aut interire potest; et hoc aeternum dicimus. Et quia posse fieri non potest se ipsum in actum producere – nam producere ex actu est –, implicat igitur dicere potentiam passivam se ipsam in actum producere, quare ante potentiam est actus. Non est igitur posse fieri aeternum principium. Recte dicebat quidam doctor sanctus: Affirmare potentiam passivam semper fuisse haeresis est. Sequitur igitur primam causam. Asserit autem magnus Dionysius in nono capitulo De divinis nominibus primum illud aeternum «inflexibile, inalterabile, immixtum, immateriale, simplicissimum, non indigens, inaugmentabile, imminorabile, non factum, semper ens». Haec et omnia similia quisque ita esse videt, qui attendit primum ipsum posse fieri anteire. Nam flexibile, alterabile, materiale, augmentabile, minorabile et factibile et quaeque similia passivam dicunt potentiam et nequaquam posse fieri praecedunt. Ideo de aeterno principio neganda sunt. 18 Capio autem haec duo, scilicet inaugmentabile et imminorabile, et cum illis ad venationem propero. Et dico: Inaugmentabile magis esse nequit; maximum igitur est. Imminorabile minus esse non potest; est igitur minimum. Unde cum sit maximum pariter et minimum, nullo utique est minus, quia maximum, neque maius, quia minimum; sed omnium sive magnorum sive parvorum formalis seu exemplaris praecisissima causa et mensura, quemadmodum in libello De beryllo in aenigmate anguli ostendi angulum maximum necessario pariter et minimum omnium angulorum, qui fieri possent, formalem adaequatissimam causam. Nec solum est causa formalis, immo et efficiens atque finalis, ut ipse Dionysius, ubi de pul-
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Ora, ciò che non è stato fatto non può né essere distrutto, né perire55, e così lo chiamiamo eterno. E poiché il poter-essere-fatto non può passare da se stesso all’atto – può infatti far passare all’atto solo ciò che è [già] in atto – sarebbe contraddittorio56 dire che una potenza passiva passa da se stessa all’atto, per cui prima della potenza c’è l’atto57. Di conseguenza, il poter-essere-fatto non è il principio eterno. Un santo dottore diceva giustamente58: è un’eresia affermare che c’è sempre stata una potenza passiva. La potenza passiva, dunque, viene dopo la prima causa. Nel nono capitolo de I nomi divini, il grande Dionigi59 sostiene che questo primo principio eterno è «immutabile, inalterabile, non mescolato, immateriale, semplicissimo, senza bisogno, senza crescita, non aumentabile, non diminuibile, non fatto, sempre esistente». Queste affermazioni e tutte quelle simili a queste le riconosce come vere chiunque presti attenzione al fatto che il primo principio precede il poter-essere-fatto. Infatti, «mutevole, alterabile, materiale, aumentabile, diminuibile, fattibile» e tutti i predicati simili a questi indicano una potenza passiva e non precedono in alcun modo il poter-essere-fatto. Per questo, devono essere negati del principio eterno. Di questi predicati, tuttavia, ne prendo in considerazione due, «non aumentabile» e «non diminuibile», e con essi proseguo velocemente nella mia caccia. E dico: ciò che non è aumentabile non può essere più grande [di come è], ed è pertanto il massimo. Ciò che non è diminuibile non può essere più piccolo [di come è], ed è pertanto il minimo. Di conseguenza, dal momento che [il primo principio] è parimenti massimo e minimo, sicuramente non è più piccolo di nessuna cosa in quanto massimo, né è più grande di nessuna cosa in quanto minimo; piuttosto, esso è la causa formale o esemplare precisissima di tutte le cose60, siano esse grandi o piccole, e di tutte è la misura precisissima, come ho mostrato nel mio libro Il berillo con l’esempio dell’angolo, facendo vedere che un angolo massimo è necessariamente anche l’angolo minimo ed è pertanto la causa formale assolutamente adeguata di tutti gli angoli che si possono costruire61. Tuttavia, [il primo principio] non è solamente la causa formale, ma è anche la causa efficiente e la causa finale62, come mostra lo stesso Dionigi nelle pagine in cui trat-
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chro scribit, ostendit. Nam pulchritudo, quae id est quod esse potest, inaugmentabilis et imminorabilis, cum sit maxima pariter et minima, est actus posse fieri omnis pulchri, omnia pulchra efficiens, sibi – quantum capacitas recipit – conformans et ad se convertens. Sic de bono, quod est id quod esse potest, et de vero, de perfecto, et cunctis quae in creaturis laudamus; quae videmus in deo deum esse aeternum, quando id sunt quod esse possunt. Et ideo deum omnium causam efficientem, formalem et finalem laudamus. Patet iam maxime notandum, quomodo posse fieri non potest terminari per aliquid, quod ipsum sequitur seu fieri potest, sed idem est eius principium et finis. De quo infra latius. 19
Capitulum VIII
Quomodo Plato et Aristoteles venationem fecerunt Plato, venator miro modo circumspectus, considerabat superiora in inferioribus esse participative, inferiora vero in superioribus excellenter. Ideo, cum videret multa nominari bona ex participatione boni, et sic iusta et honesta, attendebat illa nomen participati sortiri et se convertit ad videndum per se bonum et iustum ac quod, si participantia sunt bona et iusta, utique per se talia sunt maxime talia et causae aliorum. Et in hoc Peripateticorum princeps, acutissimus Aristoteles, consentit, qui sic in naturalibus multa participatione calida videns ad per se calidum devenire oportere affirmabat, quod sit maxime tale et causa caloris in omnibus est uti ignis. Et hac via ad primam
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ta del bello63. Infatti, la bellezza che è tutto ciò che può essere, che non è né aumentabile, né diminuibile, essendo parimenti massima e minima, è l’atto del poter-essere-fatto di tutto ciò che è bello, è la causa efficiente di tutte le cose belle, che le rende tutte conformi a sé – nella misura in cui lo consente la loro capacità recettiva – e a sé tutte le converte. Lo stesso vale a proposito del bene che è tutto ciò che può essere, del vero, del perfetto, e di tutto ciò che lodiamo nelle creature; le quali vediamo che in Dio sono il Dio eterno, dal momento che [in Dio] esse sono tutto ciò che possono essere64. E pertanto lodiamo Dio come causa efficiente, formale e finale di tutte le cose. È ora chiaro che ciò a cui dobbiamo prestare la massima attenzione è che il poter-essere-fatto non può essere delimitato da qualcosa che sia successivo ad esso o che può essere fatto, ma che il suo principio e il suo fine sono identici. Di questo parlerò più diffusamente tra poco. CAPITOLO VIII
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Come Platone e Aristotele hanno condotto la loro caccia Platone65, un cacciatore che si è distinto in un modo straordinario, riteneva che gli esseri superiori fossero presenti in quelli inferiori secondo il modo della partecipazione, mentre quelli inferiori in quelli superiori secondo il modo della eccellenza. Pertanto, avendo visto che molte cose venivano chiamate buone perché partecipavano del bene e che lo stesso accadeva per le cose giuste e per quelle moralmente belle, si rese conto che tali cose ricevevano il nome di ciò a cui partecipavano; si volse allora a considerare ciò che è buono per sé e ciò che è giusto per sé e vide che, se i partecipanti sono giusti e buoni, quelle realtà che sono giuste e buone per sé sono certamente tali in massimo grado e sono le cause delle altre cose. Su ciò concorda anche il principe dei Peripatetici, l’acutissimo Aristotele66; osservando anche lui che, nell’ambito delle realtà naturali, molte cose erano calde per partecipazione, egli, infatti, sosteneva che bisognava giungere a ciò che è caldo per sé, a qualcosa che sia caldo in massimo grado, il quale è la causa del calore in tutte le cose calde, come è, ad esempio, il fuoco67. E percorrendo que-
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et per se causam omnium causarum pervenerunt; sic ad ens entium, vitam viventium atque intellectum intelligentium. 20 Plato autem universalem omnium causam per ascensum de bono participato ad per se bonum venatus est hoc modo: Considerabat enim omnia entia, atque etiam nondum actu entia sed tantum potentia, participatione unius boni bona dici. Processus enim de potentia in actum et omne actu exsistens non caret boni participatione. Maxime igitur tale, scilicet unum per se bonum, ab omnibus desideratur. Omne enim eligibile sub ratione boni est eligibile. Terminus igitur eligibilis et desiderabilis cum sit bonum, erit per se bonum omnium causa, cum omnia ad suam causam conversa ipsam appetant, a qua habent, quicquid habent. Affirmabat igitur principium primum deum per se unum et bonum. Et principia aliorum, scilicet entis, vitae et intellectus et talium, nominabat ‘per se exsistens’, ‘per se vita’, ‘per se intellectus’ et principia causasque esse ipsius esse, vivere et intelligere. 21 Et hos conditorios deos Proclus nominat, quorum participatione omnia quae sunt exsistunt, quae vivunt vivunt et quae intelligunt intelligunt. Et quoniam omnia quae vivunt et intelligunt, nisi essent, nec viverent nec intelligerent, ideo causam entium vocavit post primum deum deorum – quem unum bonum, ut dixi, affirmabat – secundum deum, scilicet conditorem intellectum. Hunc Proclus Iovem, omnium regem et principalem, credidit. Posuit sic caelestes et mundanos et alios varios et aeternos deos, prout haec extense Proclus in sex libris De theologia Platonis expressit. Omnibus tamen praeposuit deum deorum, causam universalem omnium. Et ita illa, quae deo bono attribuimus, quae non sunt nisi ra-
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sta strada, Platone e Aristotele giunsero alla causa prima e per sé di tutte le cause e, in modo simile, all’Essere degli esseri, alla Vita delle realtà dotate di vita68 e all’Intelletto delle realtà dotate di intelletto. Platone69, tuttavia, attraverso l’ascesa da ciò che è buono per partecipazione a ciò che è buono per sé, andò a caccia della causa universale di tutte le cose, e lo fece nel seguente modo: egli prese in considerazione il fatto che tutti gli enti, anche quelli che non sono ancora in atto ma sono solo in potenza, vengono detti buoni perché partecipano di un unico bene. Infatti, né ciò che passa dalla potenza all’atto, né ciò che esiste in atto è privo della partecipazione al bene. Pertanto, ciò che è bene in grado massimo, ossia l’unico bene che è buono per sé, è desiderato da tutti. Tutto ciò che può essere scelto, infatti, può essere scelto in quanto è un bene. Pertanto, essendo il bene il fine ultimo di ciò che è sceglibile e desiderabile, il Bene per sé sarà la causa di tutte le cose, dal momento che tutte le cose sono rivolte alla loro causa e ad essa tendono, in quanto da essa hanno tutto ciò che posseggono70. Per questo, Platone affermava che il primo principio, ossia Dio, è l’Uno e il Bene per sé71. E i principi delle altre cose, ossia dell’essere, della vita, dell’intelletto e simili, Platone li ha chiamati «l’esistente per sé», «la vita per sé», «l’intelletto per sé», affermando che essi sono i principi e le cause dell’essere, del vivere e dell’intendere. Proclo chiama questi principi dèi-creatori, per partecipazione ai quali esistono tutte le cose che sono, hanno la vita tutte le cose che vivono e hanno l’intelletto tutte le cose che intendono72. E poiché tutto ciò che vive e intende non vivrebbe e non intenderebbe se non avesse l’essere, egli ha per questo chiamato la causa degli esseri «secondo dio»73 e l’ha identificata con l’Intelletto creatore74; tale causa, infatti, viene dopo il dio degli dèi che, come ho detto, Proclo affermava fosse l’Uno-Bene75. Proclo credette che questo Intelletto creatore fosse Giove, il re e il signore di tutte le cose76. Proclo introdusse anche degli dèi celesti e degli dèi mondani e diversi altri dèi egualmente eterni, come egli spiega diffusamente nei sei libri della sua Teologia platonica77. Tuttavia, al vertice di tutti questi dèi egli pose il dio degli dèi, la causa universale di tutte le cose. E così, quei predicati che noi attribuiamo al Dio buono, predicati
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tione et nequaquam re differentia, ipse videtur deos asserere diversos propter diversam attributorum rationem motus, nihil intelligibile nisi actu sit, cum esse necessario per intelligibile participetur. Ideo omne, quod intelligitur, esse affirmabat. Sic intelligibilem hominem et leonem et cuncta, quae a materia vidit abstracta et absoluta, intellectualiter esse asseruit, modo quo supra ponitur. 22 Sed cum ipso in hoc non consentiunt Peripatetici, qui ens rationis viderunt a nostro intellectu constitui, reale ens non attingere. Nec in hoc, quod bonum sit antiquius ente, concordant; unum et ens et bonum dicunt converti. Unde cum causa entis sit prima causa et conditor omnium intellectus, illi qui dicunt, quod unum et ens et bonum convertuntur, etiam fatentur causam unius et entis et boni esse eandem. Tamen Aristoteles, qui ut Anaxagoras primam causam intellectum, qui est principium motus, asserit, non sibi attribuit totius universi administrationem, sed caelestium tantum; caelestia vero haec terrena dicit gubernare. Epicurus vero totam deo soli sine cuiuscumque adminiculo universi tribuit administrationem. Sed divini nostri theologi revelatione superna didicerunt primam causam, cum omnium assertione sit tricausalis, scilicet efficiens, formalis et finalis, quae per Platonem unum et bonum, per Aristotelem intellectus et ens entium nominatur, esse sic unam quod trina et ita trinam quod una. Quae cum sit causa efficiens, vocatur iuxta Platonem unitas, et sit causa formalis, iuxta Aristotelem entitas, et sit causa finalis, iuxta utrosque bonitas. Verum quomodo haec sacratissima trinitas in unitate, quae intelligibile omne omnemque quantitatem continuam et discretam,
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che sono diversi solo concettualmente e non realmente, sembra che Proclo li consideri come diversi dèi; a ciò egli fu spinto dalla diversità concettuale degli attributi, perché [a suo avviso] solo ciò che esiste in atto è intelligibile, in quanto ciò che è intelligibile partecipa necessariamente dell’essere. Per questo motivo, egli affermava che tutto ciò che viene inteso esiste realmente. Proclo ha così sostenuto che l’uomo intelligibile, il leone intelligibile e tutte le cose che trovava come astratte e separate dalla materia esistono intellettualmente, nel modo che abbiamo specificato sopra. Su questo punto, tuttavia, i Peripatetici non sono d’accordo con Proclo; essi hanno riconosciuto che l’ente di ragione è formato dal nostro intelletto e non ha la condizione propria di un ente reale78. E i Peripatetici non sono d’accordo neppure sul fatto che il bene sia più antico dell’essere; essi dicono che l’uno, l’essere e il bene sono convertibili79. Di conseguenza, dal momento che la causa dell’essere è la causa prima ed è l’Intelletto creatore di tutte le cose, coloro che affermano che l’uno, l’essere e il bene sono convertibili ammettono anche che la causa dell’uno, dell’essere e del bene è un’unica ed identica causa. Ciononostante, Aristotele, che sostenne, come Anassagora, che la causa prima è l’Intelletto80, il quale è il principio del movimento, non attribuisce alla prima causa il governo dell’intero universo81, ma solo delle sfere celesti; dice invece che le realtà celesti governano quelle terrestri. Epicuro82, invece, attribuisce l’intero governo dell’universo a un Dio solo, senza l’ausilio di nessun altro. I nostri divini teologi, tuttavia, hanno appreso dalla rivelazione ricevuta dall’alto che la prima causa, essendo per ammissione di tutti tricausale83, ossia efficiente, formale e finale – causa che da Platone viene chiamata «Uno» e «Bene», da Aristotele «Intelletto» e «Essere degli esseri» – è una in modo tale da essere trina, ed è trina in modo tale da essere una. Dal momento che è una causa efficiente, la prima causa viene chiamata Unità in accordo con Platone, e dal momento che è una causa formale viene chiamata «Essere» in accordo con Aristotele, e dal momento che è una causa finale viene chiamata «Bontà» in accordo con entrambi. Più avanti mostrerò84, con l’aiuto di Dio, in che modo in questa vita il credente possa vedere in un’immagine enigmatica que-
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numerum omnem et alteritatem antecedit, hic in aenigmate per fidelem videri possit, inferius, ut deus dederit, adnotabo. 23
Capitulum IX
Quomodo sacrae litterae et philosophi idem varie nominarunt Si quis cum his taliter praemissis primo ad genesin mundi per sanctum Moysen dudum ante philosophos descriptam se convertit, supra de principiis quae dicta sunt, ibi reperiet. Ait enim: «In principio creavit deus caelum et terram», deinde lucem, per hoc innuens posse fieri mundum, qui caelo et terra continetur, in principio creatum. Nam postea id quod actu factum est caelum, scilicet firmamentum, et quod terra factum, scilicet aridam, et quod lux facta est, scilicet solem iuxta Dionysium, expressit. Omnia enim in posse fieri confuse et complicite creata, quae postea facta et explicata leguntur. Unde quando ait deum dixisse «‘Fiat lux’, et facta est lux», ad naturam posse fieri haec dicit. Vidit enim in posse fieri lucem et illam bonam et necessariam ad visibilis mundi pulchritudinem. Et ipsi naturae lucis in posse fieri dixit, ut fieret lux actu, et facta est lux posse fieri lucis. Imperio verbi creatoris naturaliter facta est lux. Hic motus, quo posse, ut actu fiat, movetur, naturalis dicitur. Est enim a natura, quae est divini praecepti instrumentum, in ipso posse fieri creatum, ut naturaliter et delectabiliter omni labore fatigaque exclusis actu fiat, quod fieri potest. Verbum autem dei, ad quod natura respicit, ut fiant omnia, deus est. Nihil enim est dei, quod non ipse deus. 24 Hoc autem verbum Platonici conditorem intellectum appellant, quem et unigenitum dicunt atque dominum universorum, ut Pro-
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sta santissima trinità-nell’unità, che precede ogni intelligibile, ogni quantità continua o discreta, ogni numero e ogni alterità. CAPITOLO IX
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La Sacra Scrittura e i filosofi hanno attribuito nomi diversi alla stessa cosa Se uno, dopo queste premesse, si volge a considerare la genesi del mondo descritta dal santo Mosè molto prima dei filosofi, vi troverà ciò che abbiamo detto sopra a proposito dei principi. Dice infatti Mosè: «In principio Dio creò il cielo e la terra» e poi la luce85, indicando con queste parole che, in principio, è stato creato il poter-essere-fatto del mondo, il quale [mondo] è costituito dal cielo e dalla terra. E in effetti è dopo questo che Mosè dice (secondo l’interpretazione di Dionigi)86 che ciò che è stato fatto in atto è il cielo, ossia il firmamento, e che ciò che è stato fatto in atto è la terra, ossia l’asciutto, e che ciò che è stato fatto in atto è la luce, ossia il sole. Infatti, nel poter-essere-fatto sono state create tutte insieme e nella forma della complicazione tutte quelle cose di cui leggiamo che poi sono state fatte ed esplicate87. Quando Mosè, quindi, dice che Dio comandò «sia fatta la luce»88 e la luce fu fatta, egli lo dice in riferimento alla natura del poter-essere-fatto. Infatti, nel poter-essere-fatto Dio vide la luce e vide che la luce era buona e che era necessaria per la bellezza del mondo visibile. Ed è alla natura della luce contenuta nel poter-essere-fatto che Dio comandò di farsi luce in atto, e il poter-essere-fatto della luce fu fatto luce. Su comando della parola del creatore, la luce è stata fatta in modo naturale. Questo movimento, con il quale il potere viene fatto passare all’atto, viene detto un movimento naturale. Si tratta infatti di un movimento che deriva dalla natura, la quale è uno strumento del comando divino, creato nello stesso poter-essere-fatto, in modo tale che ciò che può essere fatto diventa in atto in modo naturale e con piacere senza alcuno sforzo e alcuna fatica. La parola di Dio, tuttavia, alla quale guarda la natura affinché tutte le cose vengano fatte, è Dio. Tutto ciò che è di Dio, infatti, è Dio stesso89. I Platonici, invece, chiamano questa Parola l’Intelletto creatore, che essi designano anche come unigenito e come signore di tutte
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clus credit. Deum enim unum appellant; ideo conditorem intellectum unigenitum; quidam vero primam intelligentiam appellant. Anaxagoras autem ipsum mentem nominat, Stoici verbum, quod et deum asserunt, ut in Laërtio legitur. Et hi optime secuti sunt David prophetam qui dixit: «Verbo domini caeli firmati sunt», et alibi: «Dixit et facta sunt, mandavit et creata sunt». Ad haec, quid philosophi senserint de his principiis, attende: Anaxagoras mentem, motus principium, dicit accessisse ad materiam, in qua omnia erant in confuso, et singula discrete composuisse. Sic Plato deum et materiam duo dicit rerum principia. Aris toteles resolvit omnia in actum et potentiam. Pythagoras principia monadi et dualitati assimilat; dualitatem uti indiffinitam materiam monadi auctori aiebat subiectam. Stoici deum, quem et Mentem et Iovem nominant, «opificem» dicunt «immensi huius operis». Quibus visum est «duo esse rerum omnium principia, faciens et patiens; et quod patitur, sine qualitate substantiam seu materiam, quod autem facit, verbum, quod et deum esse» dicunt. Epicurus autem dicebat imperio dei omnia ex materia, quam atomorum infinitatem credidit. Haec in Laërtio latius. 25 Quae si bene consideras, nihil nisi id quod praedicitur intendunt, scilicet deum, qui purissimus actus, ex posse fieri omnia facere. Sed posse fieri esse dei creaturam expressius dixit Moyses. Thales autem non dissentit, quando ait mundum esse facturam dei, quem antiquissimum confitetur. Est igitur et deus ipsius posse fieri mundi principium et creator, qui mundum, qui factus est, praeces-
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le cose, secondo l’opinione di Proclo90. Essi, infatti, chiamano Dio «Uno», e pertanto designano l’Intelletto creatore come «uni-genito»91; alcuni, tuttavia, lo chiamano «prima Intelligenza»92. Anassagora, invece, lo chiama «Mente»93, gli Stoici «Ragione»94, che essi designano anche come Dio, come si legge in Laerzio. Inoltre, gli Stoici hanno seguito nel modo migliore il profeta Davide, il quale ha detto: «I cieli sono stati stabiliti dalla parola del Signore», e in un altro passo: «Egli parlò e le cose furono fatte, comandò e furono create»95. Per quanto concerne quello che i filosofi hanno pensato a proposito di questi principi, considera questi punti: Anassagora96 dice che la Mente, in quanto principio del movimento, si è avvicinata alla materia, nella quale tutte le cose erano presenti in modo confuso, ed ha radunato insieme le singole cose distinguendole le une dalle altre. In modo simile, Platone97 dice che i principi delle cose sono due, Dio e la materia. Aristotele 98 riconduce tutto all’atto e alla potenza. Pitagora99 assimila i principi alla monade e alla diade; egli diceva che la diade, in quanto materia indefinita, fa da sostrato alla monade e ne è la causa. Gli Stoici100 parlano di Dio, che essi chiamano anche Mente e Giove, come dell’«artefice di questa immensa opera». Gli Stoici ritennero che «i principi di tutte le realtà sono due: quello attivo e quello passivo; quello passivo è la sostanza priva di qualità o materia, mentre quello attivo è la ragione, che è anche Dio», come essi dicono. Epicuro101, invece, diceva che tutte le cose, su comando di Dio, derivano dalla materia, che egli riteneva fosse costituita da un’infinità di atomi. Un’esposizione più ampia di queste dottrine la si può trovare in Laerzio. Se consideri attentamente queste dottrine dei filosofi, vedrai che esse non intendono dire se non ciò che io ho esposto in precedenza102, ossia che Dio, che è atto purissimo103, fa tutte le cose dal poter-essere-fatto. Mosè, tuttavia, ha detto esplicitamente che il poter-essere-fatto è una creatura di Dio. Ed anche Talete104 non ha un’opinione diversa, quando afferma che il mondo è opera di Dio, che egli riconosce come il più antico degli esseri105. Dio, quindi, è il principio e il creatore del poter-essere-fatto del mondo; Egli era prima del mondo, che è stato fatto, e in Lui il mondo – che Mosè
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sit, in quo mundus fuit ipsum posse fieri, quem factum dicit, cum nihil actu factum, quod fieri non potuit. Sic et Plato mundum genitum sive factum tenet. Dicit enim constanter omne sensibile ab antiquiori principio necessario esse, non autem ipsius mundi posse constare tempus, quia cum conderetur, simul et tempus affuit. 26 Aristoteles vero posse fieri negat initium habere. Sic nec motum nec tempus facta credit deceptus hac ratione: mundum factum potuisse fieri, et posse fieri non fit actu sine motu; sic nec motum nec tempus factum concludit. Si attendisset ante posse fieri actu aeternum, posse fieri ab eo quod ipsum praecedit principiatum non negasset. Successio enim, quae in motu est, cuius mensura est tempus, de se fatetur tempus et motum et quae moventur non esse aeterna. Cum aeternitas sit actu simul id quod esse potest, ideo ante successionem. Cadit enim successio ab aeterno. Quare Plato melius videns recte aiebat tempus imaginem sempiterni; imitatur enim sempiternum et sequitur posse fieri. Quomodo enim fieret successio, nisi fieri posset? Anaxagoras initia rerum et temporis finem posuit. Interrogatus enim, si mare aliquando futurum esset, ubi erant montes Lampsaceni, respondit: Immo, «nisi tempus deficeret». Credebat igitur tempus aliquando finiri. Sic et Stoici, qui mundum corruptibilem affirmabant, melius cum nobis revelata per fidem veritate concordantes.
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dice che è stato fatto – era presente nel suo poter-essere-fatto, poiché nulla è stato fatto in atto che non poteva essere fatto. Allo stesso modo, anche Platone106 sostiene che il mondo è generato o fatto. Infatti, egli dice ripetutamente che è necessario che tutto ciò che è sensibile derivi da un principio più antico, e che il tempo, tuttavia, non esiste prima107 del poter-essere-fatto del mondo, poiché quando viene costituito il mondo sorge insieme anche il tempo. Aristotele108, tuttavia, nega che il poter-essere-fatto abbia un inizio. Pertanto, egli ritiene che né il movimento, né il tempo siano stati fatti, tratto in ciò in inganno dal seguente ragionamento: se il mondo è stato fatto, allora ha potuto essere fatto, ma il poter-essere-fatto non passa all’atto senza il movimento; pertanto, egli conclude, né il movimento, né il tempo sono stati fatti. Se egli avesse considerato che l’eterno è in atto prima del poter-essere-fatto, non avrebbe negato che il poter-essere-fatto è principiato da ciò che lo precede. Infatti, la successione che è presente nel movimento, la misura del quale è il tempo109, attesta in maniera evidente che il tempo, il movimento e le cose che si muovono sono eterni. Dal momento che l’eternità è in atto e in maniera simultanea tutto ciò che può essere, essa precede la successione. La successione, infatti, deriva discensivamente dall’eterno110. Per questo motivo, Platone, vedendo in ciò meglio di Aristotele, diceva che il tempo è un’immagine dell’eterno111; il tempo, infatti, imita l’eterno ed è successivo al poter-essere-fatto. Come potrebbe infatti esserci una successione, se essa non potesse-essere-fatta? Anassagora112 pose un inizio delle cose e una fine del tempo. Infatti, a chi gli domandava se ci sarebbe mai stato il mare lì dove c’erano i monti di Lampsaco, egli rispose: certamente, «se il tempo non verrà meno». Egli credeva, pertanto, che il tempo sarebbe un giorno giunto alla fine. Di questa opinione erano anche gli Stoici113, i quali affermavano che il mondo è corruttibile, concordando in questo ancora di più con la verità che a noi è stata rivelata mediante la fede.
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Capitulum X
Quomodo sapientes posse fieri nominarunt Thales Milesius assimilabat aquam ipsi posse fieri, quando vidit ex eius vapore aërem et illius subtilitate ignem atque ex aquae grossitie terram fieri cunctaque viventia ex ipsa nutriri, ideo et fieri. Ex his enim, ex quibus sunt viventia, ex illis nutriuntur. Sed quod aqua non sit posse fieri mundi et omnium, licet in ea multum reluceat, ex hoc videtur: Deus enim, ut ipse recte ait, est antiquissimum; ante igitur omne factum aut creatum. Aqua igitur, cum sit post ipsum, facta est. Ipsam igitur posse fieri antecedit. 28 Zeno vero Stoicus deum aiebat ignis «substantiam per aërem in aquam convertisse. Et quemadmodum semen in foetu continetur, ita et serendi rationem in humore resedisse, materia scilicet ad operandum aptissime parata, a qua cetera post haec gignerentur». Oportet ut intelligas nostrum principium, scilicet posse fieri, aquam et cuncta elementa et quae facta sunt praecedere, sive sint sive vivant aut intelligant. Neque hic humor – de quo Zeno – est pura aqua, etiam si aqueus. Cum enim detur aqua una purior et simplicior alia, omnis dabilis aqua purior esse potest simpliciorque. Non igitur uni elemento, sed omnibus invicem compositis posse fieri sensibilia corporaliaque attribui debet. Sic enim et Stoicos sensisse tradit Laërtius. In Zenonis Citiei vita de sensibili et corruptibili mundo loquens ait mundum factum, quando ignis «substantia per aërem versa fuerat in humorem. Tunc crassior ipsius pars effecta fuit terra, porro subtilior in aërem cessit eaque magis ac magis extenuata in ignem evasit; et ex his permixtis exorta esse animalia et arbores et alia genera mundanae creaturae».
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I modi in cui i sapienti hanno nominato il poter-essere-fatto Talete di Mileto114 assimilava l’acqua al poter-essere-fatto, in quanto aveva visto che l’aria è fatta di vapore acqueo, il fuoco di parti sottilissime di acqua e la terra di parti compatte di acqua e che tutti gli esseri viventi si nutrono di acqua e sono quindi fatti di acqua. Gli esseri viventi, infatti, si nutrono degli elementi di cui essi sono costituiti115. Che l’acqua, tuttavia, non sia il poter-esserefatto del mondo e di tutte le cose, per quanto in essa il poter-essere-fatto risplenda molto, lo si vede da questo: Dio, come dice giustamente Talete, è il più antico degli esseri116, per cui precede tutto ciò che è fatto o creato. L’acqua, pertanto, essendo successiva a Dio, è fatta. Di conseguenza, il poter-essere-fatto la precede. Lo stoico Zenone117 diceva invece che Dio aveva trasformato, attraverso l’aria, la sostanza del fuoco in acqua. E come il seme è contenuto nel feto, così il principio razionale di ogni generazione risiede nell’elemento liquido, ossia in una materia che è stata resa del tutto idonea per operare, e dalla quale vengono generate le realtà successive. Bisogna che tu intenda che il nostro principio, ossia il poter-essere-fatto, precede l’acqua, precede tutti gli elementi e tutto ciò che è stato fatto, si tratti delle cose che sono, o degli esseri che vivono o di quelli che intendono. E questo elemento liquido, di cui parla Zenone, non è acqua pura, anche se è acqueo. Infatti, dal momento che un’acqua può essere più semplice e più pura di un’altra, di ogni acqua data ce ne può essere una più pura e più semplice118. Pertanto, il poter-essere-fatto delle cose sensibili e corporee lo si deve attribuire non ad un solo elemento, ma a tutti gli elementi nella loro reciproca composizione119. Questa è infatti anche l’opinione degli Stoici, secondo quanto riferisce Laerzio. Nella sua vita di Zenone di Cizio, Laerzio120, parlando del mondo sensibile e corruttibile, dice che il mondo è stato fatto quando la sostanza del fuoco venne trasformata, attraverso l’aria, in elemento liquido. Allora, la sua parte più spessa divenne terra, la parte più sottile si dissolse in aria e quella ancora più rarefatta si disperse in fuoco; e dalla mescolanza di questi elementi sono sorti gli animali, gli alberi e tutti gli altri generi di creature che fanno parte del mondo.
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satis istos et eorum sequaces de hoc sensibili terrestrique mundo locutos esse ac quod in ipso non reperiantur simplicia elementa, sed permixta, ut unum ex altero et ex omnibus cuncta etiam viventia fieri possent. Si enim elementum simplex et purum esset, cum id esset quod fieri posset, non foret in potentia ad aliud, sicuti Dionysius in Caelesti hierarchia ignem inalterabilem asserit, immo alibi, libro De divinis nominibus in capitulo de malo, affirmat nihil secundum naturam et substantiam corrumpi, licet aliqua secundum alia eis accidentia corrumpantur. Stoici vero partes huius terreni mundi corruptibiles affirmarunt; hinc concluserunt hunc mundum et genitum et corruptibilem. Peripatetici vero restaurari ipsum per circulationem astruunt; ideo numquam posse deficere, motu circulari semper perseverante, ingenitumque esse dicunt; hoc tamen certissimum universum mundum numquam deficere posse. Intelligibilia enim, quae sunt principales eius partes, id sunt quod fieri possunt, ut supra diximus.
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Capitulum XI
De tribus regionibus et decem campis sapientiae Ut autem propositum nostrum explicemus, dicimus quod tres sunt regiones sapientiae: Prima, in qua ipsa reperitur, uti est aeternaliter. Secunda, in qua reperitur in perpetua similitudine. Tertia, in qua in temporali fluxu similitudinis lucet a remotis. Decem vero puto campos venationi sapientiae plurimum aptos: Primum nomino doctam ignorantiam, secundum possest, tertium non aliud, quartum lucis, quintum laudis, sextum unitatis,
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È abbastanza evidente che questi filosofi e i loro discepoli hanno parlato di questo mondo sensibile e terrestre, ed è chiaro che in esso non si trovano elementi semplici, ma elementi che sono mescolati gli uni agli altri121, in modo tale che una cosa può essere formata da un’altra e tutte, compresi gli esseri viventi, possono essere formate da tutte. Se ci fosse un elemento semplice e puro, infatti, esso non sarebbe in potenza qualcos’altro, dal momento che sarebbe [tutto] ciò che poteva-essere-fatto. In questo senso, ne La gerarchia celeste Dionigi sostiene che il fuoco non può essere soggetto ad alterazione, ed anzi altrove, ossia nel libro I nomi divini122, nel capitolo in cui tratta del male, egli afferma che niente si corrompe per quanto concerne la sua natura e sostanza, per quanto alcune cose si corrompano in quegli aspetti che costituiscono dei loro accidenti. Gli Stoici123, invece, hanno sostenuto che le parti di questo mondo terrestre sono corruttibili, per cui sono giunti alla conclusione che questo mondo è sia generato che corruttibile. I Peripatetici124, al contrario, sostengono con fermezza che il mondo si rinnova attraverso il suo corso circolare; per questo, essi dicono che il mondo non può mai perire, in quanto il suo moto circolare continua sempre, e che è ingenerato; ritengono, tuttavia, come assolutamente certo che l’intero universo non possa mai perire. Le realtà intelligibili, infatti, che costituiscono le parti principali dell’universo, sono [tutto] ciò che esse possono essere fatte, come abbiamo detto sopra125.
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CAPITOLO XI
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Le tre regioni e i dieci campi della sapienza Per sviluppare il tema che ci siamo proposti, diciamo che ci sono tre regioni126 della sapienza: la prima è quella nella quale la sapienza si trova eternamente come essa è. La seconda è quella in cui la sapienza si trova in una similitudine perpetua. La terza è quella in cui la sapienza risplende da lontano nel flusso temporale della similitudine. Ritengo invece che dieci siano i campi più adatti alla caccia della sapienza: chiamo il primo dotta ignoranza, il secondo potereche-è, il terzo non-altro, il quarto il campo della luce, il quinto del-
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septimum aequalitatis, octavum conexionis, nonum termini, decimum ordinis. 31
Capitulum XII
De primo campo, doctae scilicet ignorantiae In primum intrans adverto, quomodo incomprehensibilis incomprehensibiliter capitur. Refert Eusebius Pamphili Indum Athenas adventasse, quem Socrates convenit, an deo ignorato sciri aliquid posset. Qui admirans quaestionem respondit, quomodo hoc fieret? Non enim voluit Indus nihil sciri, sed nec deum penitus ignorari. Omnia enim, quia sunt, et deum, quia est, attestantur. Immo potius, quia deus est, omnia sunt. Scilicet quia omne, quod scitur, melius perfectiusque sciri potest, nihil, uti scibile est, scitur. Hinc sicut ‘quia est’ dei est causa scientiae omnium, quia sunt, ita, quia deus quid sit, uti scibilis est, ignoratur, quiditas etiam omnium, uti scibilis est, ignoratur. Quam ait Aristoteles semper quae sitam; quemadmodum et ipse eam in prima quaerit philosophia, sed non invenit. Visum est Proclo, quomodo quid sit id quod est principaliter, omnium repertu difficillimum, non esse aliud quam unum plura: unum in essentia, plura in potentia. Sed per hoc non scitur, quid unum plura exsistat; de quo infra latius. Fieri enim non potest quod id sciatur, quod posse fieri antecedit. Deus igitur cum praecedat, non potest fieri comprehensibilis. Et cum quid sit posse fieri non sit comprehensibile, sicut nec eius causa ipsum praecedens, nullius quiditas causis ignoratis, uti scibilis est, actu comprehenditur.
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la lode, il sesto della unità, il settimo dell’uguaglianza, l’ottavo della connessione, il nono del termine, il decimo dell’ordine. CAPITOLO XII
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Il primo campo: la dotta ignoranza Entrando nel primo campo mi rendo conto che l’incomprensibile viene colto in modo incomprensibile127. Eusebio di Panfilo128 racconta che un giorno giunse ad Atene un uomo dall’India; Socrate lo incontrò e gli chiese se fosse possibile conoscere qualcosa senza avere alcuna conoscenza di Dio. Pieno di stupore per la domanda, l’Indiano rispose chiedendo come ciò fosse possibile. L’Indiano, infatti, non intendeva dire che non si conosce nulla, ma piuttosto che neppure Dio è del tutto sconosciuto129. Tutte le cose, per il fatto che esistono, testimoniano infatti che Dio esiste130. O meglio, per il fatto che Dio esiste, tutte le cose esistono. In altre parole, poiché tutto ciò che viene conosciuto può essere conosciuto in modo migliore e più perfetto, nulla viene conosciuto così com’è conoscibile131. Di conseguenza, come l’esistenza di Dio è la causa ultima della conoscenza dell’esistenza di tutte le cose, così, dal momento che non conosciamo l’essenza di Dio come essa è conoscibile, non conosciamo neppure l’essenza di tutte le cose come essa è conoscibile. Aristotele afferma che l’essenza è ciò che è sempre ricercato, come mostra il fatto che lui stesso la ricerca nella filosofia prima, senza tuttavia trovarla132. Proclo133 ritenne che l’essenza dell’essere originario – essenza che è la cosa più difficile di tutte da scoprire – non fosse altro che l’Uno-molti: Uno per quanto riguarda l’essenza, e molti per quanto riguarda la potenza. Con ciò, tuttavia, non si sa ancora che cosa sia l’Uno-molti; di questo parlerò più diffusamente avanti134. Non si può infatti giungere a conoscere ciò che precede ogni poter-essere-fatto. Pertanto, non è possibile che Dio diventi comprensibile, dal momento che precede ogni poter-essere-fatto. E dal momento che anche l’essenza del poter-essere-fatto non è comprensibile, come non lo è neppure la sua causa che lo precede, l’essenza di nessuna cosa viene compresa in atto così come essa è conoscibile, in quanto se ne ignora la causa.
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igitur quis melius sciverit hoc sciri non posse, tanto doctior. Nam si doctior est de magnitudine claritatis solis negans ipsam visu comprehensibilem quam affirmans, et de magnitudine maris negans ipsam quacumque mensura liquidorum mensurabilem quam affirmans, utique doctior est negans magnitudinem absolutam incontractam ad claritatem solis vel amplitudinem maris aut alterius cuiuscumque et penitus interminatam et infinitam mensura mentis, quae ad mentem contracta est, mensurabilem quam affirmans. Et hanc partem in libellis Doctae ignorantiae, prout potui, explicavi. Mira res! Intellectus scire desiderat; non tamen hoc naturale desiderium eius ad sciendum quiditatem dei sui est sibi conatum, sed ad sciendum deum suum tam magnum, quod magnitudinis eius nullus est finis; hinc omni conceptu et scibili maior. Non enim contentaretur de se ipso intellectus, si similitudo foret tam parvi et imperfecti creatoris, qui maior esse posset et perfectior. Omni enim scibili et comprehensibili infinitae et incomprehensibilis perfectionis utique maior est. Hunc deum suum omnis creatura et huius se asserit similitudinem, nequaquam eo minoris. Contentatur enim omnis creatura de sua specie tamquam perfectissima, ut Epicharmus dicebat, quia ipsam infinitae pulchritudinis dei sui scit similitudinem et donum perfectum. Ideo Moyses scripsit deum vidisse «cuncta quae fecerat, et erant bona valde». Quare merito quiescit quaelibet res in sua specie, quae est ab optimo bona valde. 33 Adhuc attende, quomodo deus posse fieri excedens praecedit omne quod potest fieri. Nihil igitur potest fieri perfectius, quod non praecedat. Est igitur omne id quod esse potest, omne perfectibile perfectumque. Quare est ipsum perfectum, quod et perfec-
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Pertanto, quanto meglio uno saprà che ciò non può essere conosciuto, tanto più egli sarà dotto135. In effetti, se, a proposito della grandezza dello splendore del sole, chi nega che essa sia comprensibile con la vista è più dotto di chi afferma che è comprensibile136, e a proposito della grandezza del mare chi nega che essa sia misurabile con una qualsiasi delle misure impiegate per i liquidi è più dotto di chi afferma che essa è misurabile, a maggior ragione chi nega che la grandezza assoluta, che non è contratta allo splendore del sole o all’estensione del mare o all’estensione di qualsiasi altra cosa e che è del tutto illimitata e infinita, sia misurabile con una misura della mente, che è contratta alla mente, sarà più dotto di chi afferma che essa è misurabile. Questa dottrina l’ho spiegata, nel modo migliore in cui ho potuto, nei libri de La dotta ignoranza. Che cosa straordinaria! L’intelletto desidera conoscere: questo suo desiderio naturale ha tuttavia innato non il desiderio di conoscere l’essenza di Dio, ma il desiderio di conoscere che il suo Dio è così grande che non c’è alcun termine alla sua grandezza, e che Egli è quindi più grande di ogni concetto e di tutto ciò che può essere conosciuto137. L’intelletto, infatti, non sarebbe contento di se stesso se fosse l’immagine di un creatore così piccolo ed imperfetto che potrebbe essere più grande e più perfetto. Un creatore, infatti, che ha una perfezione infinita e incomprensibile è certamente più grande di tutto ciò che è conoscibile e comprensibile. Ogni creatura afferma che il suo Dio è un Dio come questo [infinito e perfetto] e afferma di essere un’immagine di un Dio come questo, non di un dio inferiore a questo. Ogni creatura, infatti, è contenta della sua specie come fosse la più perfetta, come diceva Epicarmo, in quanto sa che essa è un’immagine e un dono perfettissimo dell’infinita bellezza del suo Dio. Per questo, Mosè scrisse che Dio vide «tutte le cose che aveva fatto, ed erano molto buone»138. Perciò, ogni cosa riposa giustamente nella sua specie, che è molto buona in quanto deriva da colui che è ottimo. Considera inoltre che Dio, che eccede il poter-essere-fatto, precede tutto ciò che può essere fatto. Non c’è nulla, quindi, che possa-essere-fatto così perfetto che non sia preceduto da Dio. Egli, pertanto, è tutto ciò che può essere, tutto ciò che è perfettibile e tutto ciò che è perfetto. Per questo, egli è la perfezione stessa, che
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tio omnium perfectorum et perfectibilium. Gaudet igitur intellectus se talem cibum perficientem numquam consumptibilem habere, per quem videt se immortaliter perpetueque pasci delectabilissimeque vivere semperque in sapientia perfici, crescere augerique posse. Uti is plus gaudet, qui invenit infinitum et innumerabilem, incomprehensibilem atque inexhauribilem thesaurum, quam ille, qui repperit finitum, numerabilem comprehensibilemque. Hoc ille magnus Leo Papa videns ait in sermone, ubi deum ineffabilem laudat, dicens: «Sentiamus in nobis bonum esse, quod vincimur. Nemo ad cognitionem veritatis magis propinquat, quam qui intelligit in rebus divinis, etiam si multum proficiat, semper sibi superesse, quod quaerat.» Vides nunc venatores philosophos, qui nisi sunt rerum quiditates ignorata quiditate dei venari et qui dei quiditatem semper scibilem facere scitam nisi sunt, fecisse labores inutiles, quoniam campum doctae ignorantiae non intrarunt. Solus autem Plato aliquid plus aliis philosophis videns dicebat se mirari, si deus inveniri, et plus mirari, si inventus posset propalari. 34
Capitulum XIII
De secundo campo, possest Intellectus intrans in campum possest, hoc est, ubi posse est actu, venatur cibum sufficientissimum. Deus enim, quem Thales Milesius antiquissimum recte affirmabat, quia non factus seu genitus, antiquior est omni nominabili; nam ante aliquid et nihil, effabile et ineffabile, atque posse fieri et factum. Non igitur potest fieri, quod aeternum non sit actu. Licet enim humanitas sit id quod humanitas requirit, non tamen est actu id quod fieri potest; est enim
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è la perfezione di tutto ciò che è perfetto e di tutto ciò che è perfettibile. L’intelletto, pertanto, si rallegra di possedere un cibo di questo genere che lo conduce alla perfezione e che è inesauribile, grazie al quale riconosce di poter essere nutrito in modo immortale e in maniera perpetua, di poter vivere con il più grande diletto, di poter crescere, progredire e diventare sempre più grande nella sapienza. È come uno che scopra un tesoro infinito e non numerabile, incomprensibile e inesauribile: prova molta più gioia di quella che prova una persona che ne ha trovato uno finito, numerabile e comprensibile139. Riconoscendo questo fatto, papa Leone Magno dice in un sermone nel quale loda il Dio ineffabile: «Sentiamo che in noi c’è un bene che ci vince. Nessuno si avvicina di più alla comprensione della verità di chi comprende che, nelle cose divine, per quanti progressi faccia, ciò che egli cerca lo sopravanza sempre»140. Ti risulta ora chiaro che i cacciatori-filosofi, i quali si sono sforzati continuamente di andare a caccia dell’essenza delle cose senza conoscere l’essenza di Dio, e che si sono sforzati di rendere conoscibile l’essenza di Dio che non può mai essere conosciuta, hanno compiuto delle fatiche inutili, dal momento che non sono entrati nel campo della dotta ignoranza. Solo Platone, che vide un po’ più lontano degli altri filosofi, diceva che si sarebbe meravigliato se avesse potuto trovare Dio, e che si sarebbe ancora di più meravigliato se, una volta trovatolo, avesse potuto comunicarlo ad altri141. CAPITOLO XIII
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Il secondo campo: il «potere-che-è» Quando entra nel campo del «potere-che-è», ossia nel campo dove il potere è in atto, l’intelletto va a caccia di un cibo estremamente nutriente142. Dio, infatti, che Talete di Mileto designava giustamente come il più antico degli esseri143, in quanto non è stato fatto o generato, è più antico di tutto ciò che è nominabile; infatti, egli è prima del qualcosa e del nulla144, di ciò che è dicibile e di ciò che è indicibile, del poter-essere-fatto e di ciò che è stato fatto. Pertanto, non è possibile che l’eterno non sia in atto. L’umanità, ad esempio, per quanto contenga ciò che è richiesto dall’umanità, non è tuttavia in atto tutto ciò che essa può essere fatta; essa,
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post fieri posse sub omnipotenti potestate creatoris ipsius posse fieri. Nihil igitur omnium, quae sequuntur posse fieri, umquam a posse fieri aliud, quam est, absolvitur. Solus deus est possest, quia est actu quod esse potest. 35 Non est igitur deus quaerendus in alio campo quam possest. Nam quocumque demonstrato hoc deus non est, quia hoc potest fieri aliud. Non est deus parvus, quia parvum potest esse maius, neque magnus, quia magnum potest esse minus, sed ante omnia, quae aliter fieri possunt, et ante omnia, quae differunt. Est enim ante differentiam omnem: ante differentiam actus et potentiae, ante differentiam posse fieri et posse facere, ante differentiam lucis et tenebrae, immo ante differentiam esse et non esse, aliquid et nihil, atque ante differentiam indifferentiae et differentiae, aequalitatis et inaequalitatis, et ita de cunctis. Unde si respicis ad cuncta quae post ipsum sunt, omnia sunt ab invicem differentia atque etiam ad invicem concordantia, in genere entis aut specie numero differentia. Ipse autem deus est ante omnem differentiam differentiae et concordantiae, quia possest. Et cum sit ante differentiam unius et alterius, non est plus unum quam aliud, et ante differentiam parvi et magni, non maior uni et minor alteri nec aequalior uni et alteri inaequalior. 36 Sunt in hoc campo delectabilissimae venationes, quia possest est actu omne posse. Omne igitur quod sequitur posse fieri, ut fiat actu, non est actu, nisi imitetur actum possest, qui est actus aeternus, non factus, secundum quem omne quod actu fit, necesse est fieri. Nam cum posse fieri et esse actu differant, et aeternitas, quae deus, illam differentiam praecedat, respicis in aeternitate, in qua
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infatti, viene dopo il poter-essere-fatto ed è soggetta alla potenza onnipotente del creatore dello stesso poter-essere-fatto. Di conseguenza, nessuna delle cose che sono successive al poter-essere-fatto è mai libera dal poter-essere-fatta qualcosa di diverso da quello che essa è145. Solo Dio è il «potere-che-è»146, in quanto è in atto ciò che può essere. Dio, quindi, non va cercato in un campo diverso da quello del «potere-che-è». Qualunque cosa venga indicata, infatti, Dio non è quella cosa, poiché quella cosa può essere fatta diversa da quello che è. Dio non è piccolo, poiché ciò che è più piccolo può essere più grande, né è grande, perché ciò che è grande può essere più piccolo, ma è prima di tutte le cose che possono-essere-fatte in altro modo e prima di tutte le cose che sono differenti le une dalle altre. Dio, infatti, è prima di ogni differenza147: prima della differenza tra atto e potenza148, prima della differenza tra poter-essere-fatto e poter-fare149, prima della differenza tra luce e tenebra150, ed anzi prima della differenza tra essere e non-essere151, tra qualcosa e nulla, e prima anche della differenza tra indifferenza e differenza152, tra uguaglianza e ineguaglianza, e così di seguito. Se consideri pertanto tutte le cose che sono dopo di lui, esse sono tutte differenti le une dalle altre, ed anche quelle che concordano nel genere o nella specie si differenziano per il numero153. Dio, invece, è in se stesso prima di ogni differenza tra differenza e concordanza, in quanto è il «potere-che-è». Ed essendo anteriore alla differenza tra una cosa e un’altra, egli non è una cosa più di quanto non sia un’altra, ed essendo anteriore alla differenza tra piccolo e grande, egli non è più grande di una cosa e più piccolo di un’altra, né è più uguale ad una cosa e più disuguale ad un’altra. In questo campo si compiono cacce che procurano un enorme diletto, in quanto il «potere-che-è» è in atto ogni potere. Pertanto, tutto ciò che è successivo al poter-essere-fatto, in modo da essere-fatto in atto, esiste in atto solo se imita l’atto del «potere-cheè», il quale è l’atto eterno, non-fatto, secondo il quale deve necessariamente essere fatto tutto ciò che viene fatto in atto. Infatti, dal momento che il poter-essere-fatto e l’essere in atto sono differenti l’uno dall’altro, e dal momento che l’eternità, che è Dio, precede tale differenza, nell’eternità, nella quale il poter-essere-fatto e
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posse fieri et actu esse non differunt, omnia quae facta sunt et fieri possunt, actu; et ibi ipsa aeternitatem esse vides. Unde omne quod factum est aut fiet, posse fieri creatum, necessario etiam sequitur actum suum, qui est aeternitas. 37 Iterum, unum et eius potentia differunt. Nam unum actu, ut est principium numeri, est post posse fieri, quia est multiplicabile, et non est actu quod esse potest. Unum vero potentialiter est omnis numerus. Differt igitur unum et eius potentia. Respice igitur in possest ante illam differentiam, et vides in aeternitate unum et eius potentiam ante differentiam esse actu aeternitatem. Omnem igitur numerum, qui ex potentia unitatis post posse fieri actu constitui potest, actu vides esse aeternitatem. Et illum actum aeternum actus numeri, qui fit aut fiet, sequitur ut imago veritatem. Nam sicut monas in aeternitate est, ita unum, quod omnia actu quae unum fieri potest. Sic et duo in aeternitate est ita duo, quod omnia, quae duo fieri possunt; ita de omnibus. Vides igitur, quod duo actu post posse fieri imitatur actum ipsius duo in aeternitate. Sed proportio ipsius duo post posse fieri ad duo illa, quae sunt aeternitas, est sicut numerabilis ad innumerabile seu finitum ad infinitum. 38 Patet quomodo philosophi, qui hunc campum non intraverunt, de delectabilissimis venationibus non degustarunt. Id autem quod eos terruit, ne hunc campum intrarent, fuit, quia praesupposuerunt etiam deum, sicut alia quae posse fieri sequuntur, citra differentiam oppositorum quaerendum. Nam ante differentiam contradictorie oppositorum non putabant deum reperiri. Volentes igitur venationem eius includi infra ambitum principii illius ‘quodlibet est vel non est’, ipsum, qui etiam illi principio antiquior et qui am-
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l’essere-in-atto non sono differenti l’uno dall’altro, scorgi come esistenti in atto tutte le cose che sono state fatte e che possono essere fatte, e vedi che lì esse sono la stessa eternità. Di conseguenza, tutto ciò che è stato fatto o che sarà fatto, incluso il poter-essere-fatto che è anch’esso creato, sono necessariamente successivi all’atto di Dio, che è l’eternità. Inoltre, l’uno e la sua potenza sono differenti. L’uno, infatti, in quanto principio del numero154, viene dopo il poter-essere-fatto, perché è moltiplicabile e non è in atto tutto ciò che può essere. L’uno, piuttosto, è in potenza ogni numero. L’uno e la sua potenza, pertanto, sono differenti. Volgi pertanto lo sguardo al «potere-cheè», che precede tale differenza, e allora vedrai che, nell’eternità, l’uno e la sua potenza, prima di ogni differenza, sono in atto l’eternità stessa. Vedi quindi che ogni numero, che dalla potenza dell’unità può essere formato in atto dopo il poter-essere-fatto, è in atto l’eternità. E l’atto del numero che viene formato o che verrà formato è successivo a quell’atto eterno come l’immagine è successiva al suo esemplare. Infatti, come nell’eternità la monade è un «uno» tale da essere in atto tutte le cose che possono-essere-fatte dall’uno, così, nell’eternità, il numero due è un «due» tale da essere in atto tutte le cose che possono-essere-fatte dal due; lo stesso vale per tutti i numeri. Vedi, quindi, che il numero due, che esiste in atto come successivo al poter-essere-fatto, imita l’atto del due che è presente nell’eternità. Ma il rapporto che c’è tra il numero due che è successivo al poter-essere-fatto e il due che è presente nell’eternità è simile al rapporto che c’è tra ciò che è numerabile e ciò che non è numerabile, o tra il finito e l’infinito. È evidente che i filosofi che non sono entrati in questo campo non hanno gustato le cacce che procurano più piacere. Ora, ciò che ha impedito loro di entrare in questo campo è stato il fatto che essi hanno presupposto che anche Dio, come tutto ciò che è successivo al poter-essere-fatto, debba esser cercato al di qua della differenza degli opposti. Infatti, essi non ritenevano che si potesse trovare Dio prima della differenza degli opposti contraddittori155. Volendo pertanto che la caccia di Dio fosse racchiusa all’interno dell’ambito del principio secondo il quale «ogni cosa o è o non è»156, essi non hanno ricercato Dio, che è più antico anche di un tale principio e che
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bitum illius principii excellit, non quaesiverunt in campo possest, ubi posse esse et actu esse non differunt. De possest alibi in trialogo plura scripsi. Haec igitur nunc sic tacta sufficiant. 39
Capitulum XIV
De tertio campo, scilicet non aliud Aristoteles Socratem ad diffinitiones primo ingenium contulisse in Metaphysica sua scribit. Diffinitio enim scire facit. Exprimit enim diffiniti genericam concordantiam et differentiam specificam, quam vocabulum in suo significato complicat. Videtur igitur quae situm in diffinitione sua eo modo, quo cognosci potest. Oportet igitur intellectum, qui venatur id quod ipsum posse fieri praecedit, attendere, quomodo etiam li aliud praecedit. Non enim potest fieri aliud, quod posse fieri antecedit, quia aliud est post ipsum. Et quia hoc sic se habet, non potest per alios terminos diffiniri, scilicet per genus et differentias specificari seu determinari quae praecedit. Oportet igitur, quod ipsum sit sui ipsius diffinitio. Et hoc etiam clarum ex antehabitis, quando praecedit differentiam diffinitionis et diffiniti. Nec hoc solum, sed etiam necesse est per ipsum omnia diffiniri, cum esse nequeant, nisi per ipsum sint et diffiniantur. Optime haec vidit Dionysius in capitulo de perfecto et uno libri Divinorum nominum dicens: «Neque est unum illud – omnium causa – unum ex pluribus, sed ante unum omne, omnem multitudinem uniusque omnis ac multitudinis diffinitum.» 40 Campum autem, ubi est venatio iocundissima eius, quod se et omnia diffinit, nomino non aliud. Ipsum enim non aliud se et om-
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è al di sopra dell’ambito di un tale principio, nel campo del «potere-che-è», dove il poter-essere e l’essere in atto non sono differenti l’uno dall’altro157. Del «potere-che-è» ho trattato ampiamente altrove, in un trialogo dedicato a questo argomento158. Le cose cui ho qui accennato possono pertanto essere per ora sufficienti. CAPITOLO XIV
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Il terzo campo: il Non-altro Nella Metafisica Aristotele scrive che Socrate rivolse la sua attenzione in primo luogo alle definizioni159. È la definizione, infatti, che ci permette di conoscere160. Nel definire qualcosa, in effetti, la definizione ne esprime quella concordanza generica e quella differenza specifica161 che la parola complica nel suo significato. Ciò che viene ricercato, quindi, viene visto nella sua definizione, nella misura in cui esso può essere conosciuto. Pertanto, l’intelletto, che va a caccia di ciò che precede il poter-essere-fatto, deve considerare con attenzione che esso precede anche ciò che è altro. Infatti, ciò che precede il poter-essere-fatto non può diventare qualcosa di altro, in quanto l’altro viene dopo di lui. E poiché le cose stanno in questo modo, esso non può essere definito mediante altri termini, ossia non può essere specificato o determinato mediante genere e differenze, termini, questi, che esso precede. Di conseguenza, esso deve essere la definizione di se stesso162. Questo punto risulta chiaro anche da ciò che abbiamo già detto, in quanto ciò che stiamo ricercando precede la differenza tra la definizione e il definito. Ma questo non è sufficiente: è necessario anche che tutte le cose siano definite attraverso di lui, perché non può esistere se non ciò che riceve l’essere e viene definito da lui163. Questo è stato colto molto bene da Dionigi nel capitolo del suo libro I nomi divini in cui tratta del Perfetto e dell’Uno e in cui dice: «E l’Uno, che è causa di tutte le cose, non è l’uno formato da molti, ma precede ogni unità ed ogni moltitudine e definisce ogni unità e moltitudine»164. Ora, a questo campo, nel quale è possibile compiere la caccia piacevolissima di ciò che definisce se stesso e tutte le cose, io dò il nome di «Non-altro». Il «Non-altro», infatti, definisce se stesso
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nia diffinit. Nam cum interrogo: ‘Quid est non aliud?’ convenientissime respondetur: ‘Non aliud est non aliud quam non aliud.’ Et cum quaero: ‘Quid est igitur aliud?’, bene respondetur ipsum aliud esse non aliud quam aliud. Et sic mundus est non aliud quam mundus; et ita de omnibus, quae nominari possunt. Vides nunc aeternum illud antiquissimum in eo campo dulcissima venatione quaeri posse. Nam cum sit sui ipsius et omnium aliorum diffinitio, non reperitur in alio aliquo clarius quam in li non aliud. Attingis enim in eo campo antiquissimum trinum et unum, qui et sui ipsius diffinitio. Nam non aliud est non aliud quam non aliud. Miratur de hoc secreto intellectus, quando attente advertit trinitatem, sine qua deus se ipsum non diffinit, esse unitatem, quia diffinitio diffinitum. Deus igitur trinus et unus est diffinitio se et omnia diffiniens. Reperit igitur intellectus deum non esse aliud ab alio, quia ipsum aliud diffinit. Sublato enim li non aliud non manet li aliud. Oportet enim aliud, si esse debet, esse non aliud quam aliud; alias esset aliud quam aliud, et ita non esset. Non aliud igitur cum sit ante aliud, non potest fieri aliud et est actu omne, quod simpliciter esse potest. 41 Advertas autem, quomodo li non aliud non significat tantum sicut li idem. Sed cum idem sit non aliud quam idem, non aliud ipsum et omnia, quae nominari possunt, praecedit. Ideo etsi deus nominetur non aliud, quia ipse est non aliud ab alio quocumque, – sed propterea non est idem cum aliquo. Sicut enim non est aliud a caelo, ita non est idem cum caelo. Habent igitur omnia ut non alia quam sunt, quia deus ipsa diffinit, et ab ipso non aliud habent non aliud in specie generare, sed sibi simile efficere. Bonitas igitur bonificat, album albificat, et ita de omnibus.
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e tutte le cose165. Quando infatti domando «che cos’è il “Non-altro”?», la risposta più appropriata è questa: «Il “Non-altro” è nonaltro che il «Non-altro»166. E quando chiedo: «Che cos’è quindi l’altro?», la risposta corretta è che l’altro è non-altro che l’altro167. E così il mondo è non-altro che il mondo, e lo stesso vale per tutte le cose che si possono nominare. Vedi ora che in questo campo si può ricercare l’eterno, quello che è «il più antico degli esseri»168, con una caccia gradevolissima. Essendo infatti la definizione di se stesso e di tutte le altre cose, in nessun altro campo lo si può trovare in maniera più chiara che in quello del «non-altro». In questo campo, infatti, giungi a cogliere quell’«antichissimo» trino ed uno che è la definizione di se stesso169. In effetti, il «Non-altro» è non-altro che il «Non-altro». L’intelletto resta meravigliato di fronte a questo mistero, quando considera attentamente che la trinità, senza la quale Dio non definisce se stesso, è unità, poiché la definizione è il definito. Il Dio trino ed uno, pertanto, è la definizione che definisce se stesso e tutte le cose. Pertanto, l’intelletto scopre che Dio non è altro da ciò che è altro, in quanto egli definisce ciò che è altro. Se viene tolto il «Non-altro», infatti, non resta l’altro170. Se l’altro deve esistere, infatti, bisogna che esso sia non-altro che l’altro; altrimenti, esso sarebbe qualcosa di altro rispetto all’altro, e di conseguenza non esisterebbe. Il «Non-altro», quindi, essendo anteriore all’altro, non può diventare qualcosa di altro, ed è in atto tutto ciò che in generale può essere. Presta tuttavia attenzione al fatto che «non-altro» non significa la stessa cosa di identico171. Piuttosto, dal momento che l’identico è non-altro che l’identico, il «Non-altro» lo precede e precede tutte le cose che si possono nominare. Per questo motivo, sebbene a Dio venga attribuito il nome di «Non-altro», in quanto egli è non-altro da qualsiasi altra realtà172, non per questo, tuttavia, egli è identico a qualsiasi altra realtà173. Ad esempio, come non è altro dal cielo, così non è identico al cielo174. Tutte le cose, pertanto, hanno il loro non essere altro da quello che sono dal fatto che Dio le definisce, e dal «Non-altro» hanno il fatto che esse non generano qualcosa di altro rispetto alla loro specie, ma producono ciò che è simile a se stesse. La bontà, pertanto, produce il bene, il bianco produce il bianco, e così per tutte le cose.
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Venatores philosophi hunc campum non intrarunt, in quo solo negatio non opponitur affirmationi. Nam li non aliud non opponitur li aliud, cum ipsum diffiniat et praecedat. Extra hunc campum negatio affirmationi opponitur, ut immortale mortali, incorruptibile corruptibili; et ita de omnibus, solum li non aliud excepto. Quaerere igitur deum in aliis campis, ubi non reperitur, vacua venatio est. Non enim est deus, qui alicui opponitur, cum sit ante omnem oppositorum differentiam. Imperfectiori igitur modo deus nominatur animal, cui non-animal opponitur, et immortalis, cui mortale opponitur, quam non aliud, cui nec aliud nec nihil opponitur, cum etiam ipsum nihil praecedat et diffiniat. Est enim nihil non aliud quam nihil. Subtilissime aiebat divinus Dionysius deum esse «in omnibus omnia, in nihilo nihil». Scripsi autem latius de li non aliud in tetralogo Romae anno transacto. Ideo nunc de hoc satis et cetera. 42
Capitulum XV
De quarto campo, scilicet lucis Volo nunc intrare campum lucis et in data luce quaerere lumen sapientiae. Est enim, ut ait propheta, «signatum super nos lumen vultus» seu notitiae dei, et in illa fit laeta valde iocundaque venatio. Dico autem quoniam omnis videns nivem albam eam affirmat. Huic assertioni contradicere delirare est. Sic quae omnis intelligens vera dicit, vera esse negari nequit. Cum autem id quod omnia diffinit, diffinitio sit, utique diffinitio, quae se et omnia diffinit, est bona valde, magnaque est haec diffinitio, vera est, pulchra est,
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I filosofi che sono andati a caccia della sapienza non sono entrati in questo campo, solo nel quale la negazione non si oppone all’affermazione175. Il «Non-altro» non si oppone all’altro, in quanto lo precede e lo definisce. Al di fuori di questo campo, la negazione si oppone all’affermazione, ad esempio l’immortale si oppone al mortale, l’incorruttibile al corruttibile, e così via per tutte le cose tranne che per il solo «Non-altro». Andare pertanto alla ricerca di Dio in altri campi, dove non lo si trova, è una caccia inutile. Non è infatti Dio colui che sta in opposizione a qualcosa, in quanto Dio precede ogni differenza tra gli opposti176. Quando pertanto Dio viene designato con il nome di «essere vivente», al quale si oppone «essere non-vivente», e di «immortale», al quale si oppone «mortale», questo è un modo di designarlo più imperfetto rispetto a quello che attribuisce a Dio il nome di «Non-altro», al quale non si oppone né l’altro, né il nulla, in quanto il «Non-altro» precede e definisce lo stesso nulla. Il nulla, infatti, è non-altro che nulla177. Il divino Dionigi diceva, in modo estremamente acuto, che Dio è «tutto in tutte le cose e nulla in nessuna»178. Ho trattato più diffusamente del «Non-altro» in un dialogo a quattro che ho scritto lo scorso anno a Roma, per cui su questo argomento può essere per ora sufficiente quanto ho detto. CAPITOLO XV
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Il quarto campo: la luce Voglio ora entrare nel campo della luce e ricercare la luce della sapienza nella luce che ci è stata data. Infatti, come dice il profeta, «su di noi è stata impressa la luce del tuo volto»179 o della conoscenza di Dio, ed in questa luce si compie una caccia piena di letizia e di gioia. Dico che chiunque vede la neve afferma che è bianca. Contraddire questa affermazione è pura follia. Allo stesso modo, non si può negare la verità di una proposizione che ogni uomo dotato di intelligenza dice essere vera180. Ora, dal momento che ciò che definisce tutte le cose è una definizione, quella definizione che definisce se stessa e tutte le cose181 sarà certamente molto buona; inoltre, questa definizione è grande, è vera, è bella, è una definizione che
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sapientifica est, delectabilis est, perfecta est, clara est, aequa est et sufficiens. Haec omnia et his similia de diffinitione illa verissime dici omnis fatetur intellectus. 43 Sunt igitur illa in diffinitione diffinitio et in diffinito diffinitum. Cum igitur diffinio mundum non aliud esse quam mundum, haec omnia, quae praemisi, video in diffinitione illa diffinitionem esse, quae de his omnibus verificatur, et in mundo diffinito mundum esse. Bonitas igitur, magnitudo, veritas, pulchritudo, sapientia, perfectio, claritas et sufficientia in mundo diffinito mundus sunt, in terra diffinita terra. Sicut in deo diffinito deus et sicut in li non aliud sunt non aliud, sic in li aliud aliud. Quando igitur in sole, qui est quid aliud, sunt sol, tunc sunt sol, qui est aliud (scilicet sol) dictum. Sicut igitur in deo non sunt aliud quam non aliud simpliciter, sic in sole non sunt aliud quam aliud sic dictum. Bonitas igitur solis non est ipsum non aliud simpliciter, sed ipsum non aliud solare, quoniam in sole sol est; ita in omnibus. 44 Hic venatur intellectus admirabilem atque sapidissimam scientiam, quando certissime intuetur haec omnia in aeterno simplicissimo deo ipsum deum se et omnia diffinientem, hinc et in omni diffinito diffinitum. Ex quo scit, quod nihil omnium quae sunt, penitus potest esse expers boni, magni, veri, pulchri, et sic consequenter de singulis praemissis. Et quia nihil omnium est expers sufficientiae, sufficientissime omnia condita sunt, cum quodlibet tantum habeat sufficientiae, quantum sibi sufficit. Sic nihil omnium expers est sapientiae et claritatis seu lucis, sed quodlibet tantum habet de his, quantum suae naturae sufficit, ut sit non aliud quam est, meliori modo quo esse potest.
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rende sapienti, è dilettevole, è perfetta, è chiara, è adeguata e sufficiente. Ogni intelletto riconosce che tutte queste proprietà ed altre simili a queste si predicano in modo assolutamente vero di quella definizione. In quella definizione, pertanto, quelle proprietà sono la definizione e in ciò che viene definito sono il definito. Pertanto, quando definisco il mondo e dico che il mondo è non-altro che il mondo, vedo che tutte le proprietà che ho prima citato sono, in quella definizione, la definizione, la quale si predica di tutte esse, e che nel mondo, in quanto definito, esse sono il mondo. Di conseguenza, la bontà, la verità, la bellezza, la sapienza, la perfezione, lo splendore e la sufficienza nel mondo, in quanto definito [come mondo], sono il mondo, nella terra, in quanto definita [come terra], sono la terra. Come in Dio, in quanto definito, esse sono Dio e nel «Non-altro» sono il «Non-altro», così nell’altro sono l’altro. Quando pertanto nel sole, che è qualcosa di altro, quelle proprietà sono il sole, allora esse sono quel sole che viene detto un altro (ossia il sole). Come quindi in Dio esse non sono altro che il puro e semplice «Non-altro», così nel sole esse non sono altro che quel determinato altro che viene chiamato in quel modo. Pertanto, la bontà del sole non è il non-altro puro e semplice, ma è il non-altro che è proprio del sole; lo stesso vale per tutte le cose. Qui l’intelletto caccia una conoscenza straordinaria ed estremamente ricca di sapore nel momento in cui intuisce nel modo più certo che, nell’eternità e nell’assoluta semplicità di Dio, tutte queste proprietà sono Dio stesso che definisce se stesso e tutte le cose, e che, pertanto, in ogni cosa che viene definita, esse sono il definito. Da ciò l’intelletto viene a sapere che nessuna delle cose che esistono può essere completamente priva del bene, del grande, del vero, del bello, e così di seguito per tutte le singole proprietà che sono state prima menzionate. E dal momento che nessuna cosa è priva di sufficienza, tutte le cose sono state create in modo del tutto sufficiente, in quanto ciascuna ha tanta sufficienza quanta le basta. In modo simile, nessuna cosa è priva di sapienza e di splendore o di luce, ma di queste proprietà ogni cosa ne ha quanto è sufficiente alla sua natura, in modo tale che essa non sia altro da quello che è, nel modo migliore in cui può esserlo.
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O mirabilis sapientia dei, quae cuncta quae fecit, vidit bona valde! Pervenire igitur per omnem venationem usque ad admirationem illius aeternae sapientiae est prope accedere. Quoniam, ut ait sapiens Philo, ipsa est vapor virtutis maiestatis dei, huius suavissimum et novum totam intellectualem capacitatem reficientem odorem admiratur venator et inflammatur inenarrabili desiderio in odore illo currendi, ut capiat, quam prope esse non dubitat. Hac spe gaudiosa confortatur et augetur cursus venatoris; retardatur tamen ob aggravans corpus, quod circumfert. Et sapientiam velocissimam, quae attingit a fine ad finem, comprehendere nequiens cupit dissolvi a corpore. Et illi amicitiae, quae nectit ipsum ad corpus, quae maior secundum naturam esse nequit, renuntiat et mori non pertimescit, ut cibum immortalem dei, scilicet sapientiam, comprehendat et degustet. Neque est possibile quemquam venatorum aliter ad eius comprehensionem pervenire, ut haec nos incarnata docuit dei sapientia, quam nemo nisi dignus apprehendit. Dignus autem non est omnis ille, qui ipsam ignorat omnibus et vitae propriae praeferendam, et ita ardeat eius amore, ut se et omnia perdat et ipsam lucretur.
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Capitulum XVI
De eodem Gaudet intellectus in hac venatione laetissima. Nam haec venatio bona, magna, vera, pulchra, sapida, delectabilis, perfecta, clara, aequa et sufficiens est. Videt enim, cum bonum diffinitur, ipsa omnia praedicta: magnum, verum et cetera esse ipsum bonum; et dum magnum diffinitur, in ipso bonum, verum et cetera esse ipsum magnum. Et ita in quolibet ipsorum omnia sunt ipsum. Et quia in
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O mirabile sapienza di Dio, che vide che tutto ciò che aveva fatto era sommamente buono!182 Pertanto, giungere, attraverso ogni caccia che noi compiamo, ad ammirare questa sapienza eterna significa avvicinarsi molto ad essa. Poiché, come dice il sapiente Filone, la sapienza è la fragranza della forza della maestà di Dio183, colui che va a caccia della sapienza resta ammirato di fronte a questo nuovo e dolcissimo profumo184 che ristora tutta la sua capacità intellettuale, ed è infiammato da un desiderio indicibile di correre, seguendo la scia di quel profumo185, per cogliere la sapienza che egli non dubita essere vicina. La corsa del cacciatore viene rinfrancata da questa gioiosa speranza e diventa più veloce; essa viene tuttavia rallentata dal peso del corpo186, che il cacciatore si porta dietro. E non essendo in grado di afferrare la sapienza velocissima, che si estende da un confine all’altro [dell’universo], egli desidera ardentemente di svincolarsi dal corpo. E rinuncia a quell’intimo legame di amicizia che lo unisce al suo corpo, un legame del quale non può essercene per natura uno maggiore, e non ha timore di morire pur di poter afferrare e gustare il cibo immortale di Dio, ossia la sapienza187. E non vi è altro modo con il quale un cacciatore possa pervenire ad una comprensione della sapienza, come ci ha insegnato la Sapienza incarnata di Dio, che viene conosciuta solo da chi ne è degno. Non ne è degno, tuttavia, chi non sa che essa va preferita a tutte le cose e anche alla propria vita e chi non arde per essa di un amore così grande da essere disposto a perdere se stesso e tutto pur di guadagnare la Sapienza.
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CAPITOLO XVI
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Sullo stesso argomento Nel compiere questa caccia lietissima, l’intelligenza prova una grande gioia. Questa caccia, infatti, è buona, grande, vera, bella, piena di sapore, dilettevole, perfetta, luminosa, adeguata e sufficiente. Quando viene definito il bene, in effetti, l’intelletto vede che tutte le proprietà sopra menzionate – il grande, il vero, ecc. – sono il bene stesso; e quando viene definito il grande, l’intelletto vede che in esso il bene, il vero e le altre proprietà sono il grande. E così, in ognuna di queste proprietà tutte le altre sono quella proprietà. E poiché
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non aliud sunt ipsum non aliud, non est ibi bonum aliud a magno et vero et ceteris, nec magnum aliud a bono et vero et ceteris. Nam non aliud ipsa omnia facit esse non aliud. Sic aliud ipsa omnia facit aliud. Bonum enim in aliud est aliud; ita magnum et verum. Cum igitur quodlibet sit aliud, non erit bonum tunc non aliud a magno nec a vero; sed sicut in ipso non aliud non aliud, ita in ipso aliud aliud. 47 Unde cum sol sit aliud, non est eius bonitas non aliud quam eius magnitudo aut veritas et cetera; sed quodlibet illorum, cum sit solare, est aliud ab alio. Solaris enim bonitas ad solem contracta non est illa absoluta bonitas quae non aliud. Ideo est alia a magnitudine solari et veritate solari et aliis. Non enim in alio aliud, quod sol dicitur, essent illa ipsum aliud, si non essent quodlibet ipsorum aliud. Sol enim alio est bonus et alio magnus et alio verus, et ita de singulis illis. Quare aliud citra simplicitatem ipsius non aliud non caret respectu ipsius non aliud compositione. Magis autem compositum est ipsum aliud, in quo non aliud minus relucet, ut magis in aliud sensibili quam intelligibili. Neque in bonitate solari, in qua magnitudo, veritas et cetera sunt ipsa bonitas, magnitudo est non aliud, sed aliud a veritate; et quodlibet a quolibet aliud, cum sint in solari bonitate, quae est alia, ipsa scilicet solaris bonitas. Necesse est igitur solarem bonitatem cadere in compositionem, cum a simplicitate ipsius non aliud seu dei in solarem alteritatem contrahatur. Bonitas igitur, magnitudo, veritas et cetera, quae in composito compositum sunt, alia et composita esse necesse est; sicut in simplicissimo deo non alia, sed incomposite simplex ipse deus exsistunt, sicut causata in causa causa sunt.
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nel «Non-altro» esse sono il «Non-altro», allora nel «Non-altro» il buono non è qualcosa di altro dal grande, dal vero e dalle altre proprietà, né il grande è qualcosa di altro dal buono, dal vero e dalle altre proprietà. Il «Non-altro», infatti, fa sì che tutte queste proprietà siano non-altro. Allo stesso modo, l’altro fa sì che ognuna di esse sia altro. In ciò che è altro, infatti, il bene è altro, e così il grande e il vero. Pertanto, dal momento che ogni cosa è un altro, il bene non sarà allora non-altro dal grande, né dal vero; piuttosto, come nel «Non-altro» il bene è non-altro, così in ciò che è altro il bene è altro. Di conseguenza, poiché il sole è qualcosa di altro, la sua bontà non è non-altro che la sua grandezza, o la sua verità, ecc.; piuttosto, ciascuna di queste proprietà, essendo una proprietà del sole, è altra dalle altre. La bontà del sole, infatti, in quanto contratta nel sole, non è quella bontà assoluta che è il «Non-altro». Per questo, la bontà del sole è qualcosa di altro rispetto alla grandezza del sole, alla verità del sole e alle altre sue proprietà. In quell’altro che viene chiamato sole, infatti, queste proprietà non sarebbero un tale altro se ciascuna di esse non fosse qualcosa di altro. Il sole, infatti, è per un aspetto buono, per un altro grande e per un altro vero, e così per tutte le singole proprietà. Pertanto, essendo al di sotto della semplicità del «Non-altro», l’altro non è privo di composizione, a differenza del «Non-altro». Più composto, tuttavia, è l’altro nel quale il «Non-altro» risplende di meno, per cui la composizione è maggiore nell’altro sensibile che in quello intelligibile188. Ed anche nella bontà del sole, nella quale la grandezza, la verità e le altre proprietà sono la stessa bontà, la grandezza non è qualcosa di nonaltro, ma è piuttosto qualcosa di altro dalla verità; e ciascuna proprietà è qualcosa di altro da tutte le altre, in quanto nella bontà del sole, che è un altro, ognuna è la bontà del sole. È necessario, pertanto, che la bontà del sole sia soggetta alla composizione, in quanto essa discende dalla semplicità del «Non-altro» o di Dio ed è contratta nella alterità propria del sole. La bontà, la grandezza, la verità e le altre proprietà, che, in ciò che è composto, sono il composto, devono pertanto essere qualcosa di altro e di composto, così come nella semplicità assoluta di Dio esse non sono qualcosa di altro, ma sussistono, in modo non composto, come identiche allo stesso Dio semplice, così come nella causa il causato è la causa189.
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autem, quae intellectus concipere potest, aut sunt non aliud aut aliud. In non aliud, cum ipsum sit id quod esse potest, simplicissimum et perfectissimum, non cadit varietas. Ideo in li aliud omnem cadere varietatem videt. Varietas igitur modorum essendi ipsius aliud alia et alia sortitur nomina. Bonitas igitur, magnitudo, veritas et cetera secundum alium modum combinationis constituunt id quod vocatur esse, secundum alium id quod vocatur vivere, secundum id quod vocatur intelligere; et ita de omnibus. Nec illa omnia, quae sunt, vivunt et intelligunt, aliud sunt quam ipsius non aliud, quod omnia diffinit, varia receptio. Ex qua sequitur varia eius relucentia, in uno clarius, in alio obscurius, clarius et durabilius in intellectualibus, obscurius et corruptibilius in sensibilibus, et in his differenter.
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Capitulum XVII
De eodem Refert Proclus in primo libro Theologiae Platonis Socratem, qui vices Platonis tenet, in Alcibiade dicere intellectivam animam, cum intra se conspicit, deum et omnia speculari. Ea enim quae post ipsam sunt, umbras esse videt intelligibilium; quae vero ante ipsam, ait in profundo clausis quodammodo oculis conspici. Omnia enim in nobis animaliter esse dicit. Ecce divinum Platonis iudicium. Ita quidem arbitror ut ipse omnia in omnibus, scilicet suo esse modo. In intellectu igitur nostro secundum ipsius essendi modum sunt omnia. Nam bonitas, magnitudo, veritas et omnia illa decem in omnibus sunt omnia: in deo deus, in intellectu intellectus, in
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Ora, tutto ciò che l’intelletto può concepire o è il «Non-altro» o è l’altro. Al «Non-altro» non appartiene la varietà, in quanto esso è [tutto] ciò che può essere ed è assolutamente semplice e perfetto. L’intelletto, pertanto, vede che ogni forma di varietà appartiene a ciò che è altro. La varietà dei modi di essere190 di ciò che è altro riceve quindi diversi nomi. La bontà, la grandezza, la verità e le altre proprietà costituiscono, secondo un certo modo di combinazione, ciò che viene chiamato «essere», secondo un altro modo di combinazione ciò che viene chiamato «vivere», e secondo un altro modo ancora di combinazione ciò che viene chiamato «intendere»191, e ciò vale per tutte le proprietà. E tutte le cose che sono, che vivono e che intendono non sono altro che la varia recezione del «Non-altro», il quale le definisce tutte. Da queste diverse forme di recezione derivano i vari riflessi luminosi del «Non-altro», che risplende in modo più chiaro in alcuni esseri e in modo più oscuro in altri: in modo più chiaro e durevole nelle realtà intelligibili e in modo più oscuro e corruttibile nelle realtà sensibili, e in ciascuno di questi ambiti in modo diverso nelle diverse cose192.
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CAPITOLO XVII
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Sullo stesso argomento Nel primo libro della Teologia platonica Proclo riferisce che, nell’Alcibiade, Socrate, che rappresenta Platone, afferma che l’anima intellettiva, quando guarda dentro se stessa, scorge Dio e tutte le cose193. Infatti, l’anima intellettiva vede che le cose che sono dopo di lei sono le ombre degli intelligibili; le cose che sono invece prima di lei vengono contemplate, dice Proclo, nella profondità dell’anima intellettiva e, in certo qual modo, con gli occhi chiusi. Egli dice, infatti, che tutte le cose sono presenti in noi secondo il modo d’essere dell’anima. Questo è il parere divino di Platone. Anche io ritengo, come Platone, che tutto è in tutto, secondo cioè il rispettivo modo d’essere di ciascuno194. Nel nostro intelletto, pertanto, sono presenti tutte le cose secondo il modo d’essere dell’intelletto195. Ad esempio, la bontà, la grandezza, la verità e tutte le altre dieci proprietà sono presenti tutte in tutte le cose: in Dio sono Dio196, nell’intelletto sono l’intelletto, nei sensi sono i
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sensu sensus. Si igitur, quae in deo deus, in intellectu intellectus et in omnibus omnia, utique omnia in intellectu intellectus sunt. Intellectualiter igitur sunt ibi omnia seu notionaliter sive cognoscibiliter. Et quia intellectus est bonus, magnus, verus, pulcher, sapiens et cetera decem, cum se intuetur, se talem, ut dixi, esse videt et contentatur maxime, cum videat se perfectum et sufficientem. Et quoniam illa est intellectualiter, per suam bonitatem intellectualem potens est intelligere bonitatem absolutam et bonitatem contractam; sic per magnitudinem, sic per veritatem; sic per sapientiam intellectualem suam notiones facit sapientiae absolutae ab omnibus et ad omnia contractae ordinemque rerum in sapientia intuetur et ordinata contemplatur. 50 Unde, cum cognitio sit assimilatio, reperit omnia in se ipso ut in speculo vivo vita intellectuali, qui in se ipsum respiciens cuncta in se ipso assimilata videt. Et haec assimilatio est imago viva creatoris et omnium. Cum autem sit viva et intellectualis dei imago, qui deus non est aliud ab aliquo, ideo, cum in se intrat et sciat se talem esse imaginem, quale est suum exemplar in se speculatur. Hunc enim indubie deum suum cognoscit, cuius est similitudo. In bonitate enim sua notionali cognoscit eius bonitatem, cuius est imago, maiorem quam concipere aut cogitare possit. Sic intuendo in suam magnitudinem omnia intellectualiter ambientem cognoscit exemplarem dei sui magnitudinem ambitum, quae illius est imago, excedere, quia ipsius non est finis; ita de reliquis cunctis. Videt etiam supra se intelligentias lucidiores divinitatis capaciores, et post se
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sensi197. Se, quindi, queste proprietà in Dio sono Dio, nell’intelletto sono l’intelletto e in tutte le cose sono tutte le cose, allora, certamente, tutto nell’intelletto è l’intelletto. Tutte le cose, pertanto, sono presenti nell’intelletto in modo intellettuale, ossia concettuale o conoscitivo198. E dal momento che l’intelletto è buono, grande, vero, bello, sapiente e tutte le altre dieci proprietà [di cui abbiamo parlato]199, quando guarda dentro se stesso si vede essere in questo modo che ho appena detto, ed allora prova una grandissima contentezza, in quanto si vede come perfetto e adeguato. E poiché l’intelletto è tutte queste proprietà in modo intellettuale, esso è in grado di intendere, attraverso la sua bontà intellettuale, la bontà assoluta e la bontà contratta; lo stesso vale per la grandezza e per la verità. In modo simile, attraverso la sua sapienza intellettuale, l’intelletto si forma concetti della sapienza che è separata da tutte le cose e della sapienza che è contratta in tutte le cose, e nella sapienza coglie l’ordine delle cose e contempla le cose ordinate. Di conseguenza, dato che la conoscenza è assimilazione200, l’intelletto trova tutte le cose in se stesso come in uno specchio vivo dotato di vita intellettuale201; e quando guarda dentro se stesso, vede in se stesso tutte le cose assimilate [a sé]. E questa assimilazione è un’immagine viva del creatore e di tutte le cose. Tuttavia, dal momento che l’intelletto è un’immagine viva e intellettuale di Dio202, e di un Dio che non è altro da nulla, per questo, quando penetra in se stesso e diventa consapevole di essere una tale immagine, l’intelletto contempla in sé quale è il suo esemplare. Infatti, l’intelletto conosce, senza alcun dubbio, che questo esemplare è il suo Dio, di cui l’intelletto è una similitudine. Attraverso il suo concetto della bontà, infatti, l’intelletto conosce che la bontà di Dio, di cui è un’immagine, è più grande di ciò che si possa concepire o pensare. In modo simile, nel guardare dentro di sé alla sua grandezza, la quale abbraccia in modo intellettuale tutte le cose203, l’intelletto conosce che l’esemplare della grandezza che è proprio del suo Dio trascende l’ambito della grandezza, che è un’immagine di quell’esemplare, in quanto della grandezza divina non c’è alcun limite; lo stesso vale per tutte le altre [dieci] proprietà. Inoltre, l’intelletto vede al di sopra di sé delle intelligenze che sono più luminose e più capaci di cogliere la divinità, e al di sotto di sé
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sensibilem cognitionem magis tenebrosam et divinitatis minus capacem. Quantum sufficientiae habeat intellectualis venatio, quando intra se pergit non cessans se ipsam profundare, ostendunt theologorum, philosophorum et mathematicorum inventa nobis per eorum scripta multipliciter reserata. Quo autem modo Dionysius in campo lucis venationem fecerit utique electam, in libro ipsius De divinis nominibus reperitur. 51
Capitulum XVIII
De campo quinto, scilicet laudis Cum hunc lucis campum peragrassem, statim se campus laudis dei amoenissimus ostendit. Nam cum haec, quae in campo lucis venatus fui – de quibus decem praedicta, scilicet bonitatem, magnitudinem, veritatem et reliqua – in mentis escario reconderam, repperi illa omnia et plura dei in laudis campo plantata. Et dixi: «Cum hic floridus laetusque campus non producat nisi illa decem et similia, sunt igitur ipsa decem laudes dei.» Et intra me conspiciens attendi, quomodo intellectus affirmans diffinitionem se et omnia diffinientem esse bonam, magnam, veram et reliqua, laudem eius exprimere conatur. Laudavit enim illam diffinitionem, quae deus est, quia bona, quia magna, quia vera, et ita consequenter. Quid igitur sunt illa decem nisi laus dei? Quid laudatur per illa nisi laus illa, quae deus? Nonne haec omnia laudantur? Bonitas laudatur, magnitudo laudatur, veritas laudatur, et singula sequentia. Haec igitur decem et alia quae per omnem intellectu vigentem laudantur, in dei laudem sumuntur et bene de ipso dicuntur, quia ipse est fons laudis. 52 Sunt igitur omnia ex dei laudibus et benedictionibus id quod sunt. Ideo propheta David ad omnia respiciens dei opera cane-
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la conoscenza sensibile, che è più oscura e meno capace di cogliere la divinità 204. Quanto sia fruttuosa la caccia dell’intelletto quando penetra dentro di sé e continua ad andare sempre più a fondo, lo mostrano le scoperte dei teologi, dei filosofi e dei matematici che ci sono state rese accessibili in molti modi attraverso i loro scritti. In che modo invece Dionigi abbia condotto una caccia sicuramente eccellente nel campo della luce, lo possiamo leggere nel suo libro I nomi divini205. CAPITOLO XVIII
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Il quinto campo: la lode Dopo aver percorso il campo della luce, mi si è presentato subito un campo estremamente ameno, quello della lode di Dio206. Infatti, dopo aver riposto nella dispensa della mia mente quelle cose che avevo trovato nel corso della caccia condotta nel campo della luce – tra le quali, le dieci proprietà di cui ho parlato prima, ossia la bontà, la grandezza, la verità e le altre –, le ho ritrovate tutte, e molte di più, piantate nel campo della lode. E ho detto: «Dal momento che quel campo florido e rigoglioso non produce se non quelle dieci proprietà e cose simili ad esse, sono allora queste le dieci lodi dirette a Dio». E guardando dentro di me ho notato che, quando l’intelletto afferma che la definizione che definisce se stessa e tutte le cose207 è buona, grande, vera e così via, esso cerca di esprimere una lode della definizione. L’intelletto, infatti, lodava quella definizione che è Dio, perché è buona, perché è grande, perché è vera, e così di seguito. Che cosa sono dunque quelle dieci proprietà se non una lode di Dio? Che cosa viene lodato mediante esse se non quella lode che è Dio? Non vengono forse lodate tutte queste proprietà? Si loda la bontà, si loda la grandezza, si loda la verità, e si loda ciascuna delle altre proprietà. Queste dieci proprietà, e le altre che vengono lodate da chiunque abbia un buon intelletto, vengono utilizzate nella lode di Dio e vengono giustamente attribuite a Lui, perché Egli è la fonte della vita. Tutte le cose, pertanto, sono ciò che esse sono per il fatto che sono delle lodi e delle benedizioni rivolte a Dio. È per questo che
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bat: «Benedicite omnia opera domini domino, laudate et superexaltate eum in saecula!» Et singulariter enumerat angelos, caelos et terram, aquam et cetera cuncta creata, quae laudant deum. Nihil enim sunt omnia nisi decora dei iocundaque laudatio. Nam attestante Dionysio divina sola participatione noscuntur. Quomodo enim «in suo principio et sua sede sint», nullus intellectus attingit. Porro, sive «supersubstantiale illud occultum lucem aut vitam sive verbum appellamus, nihil intelligimus aliud quam ex eo in nos emanantes participationes atque virtutes, quibus assumamur in deum et quae nobis vel substantiam vel vitam vel sapientiam largiantur». Haec Dionysius. Merito igitur quaelibet dei factura deum laudat, quia bonus, quia ipsa se fatetur bonam et laudabilem ipsius dono; sic magnam, sic veram et reliqua. 53 In campo laudis fecerunt suas devotissimas venationes omnes prophetae seu videntes et elevatiores intellectus, quod attestantur sacrae litterae et scripta sanctorum, in quibus omnia ad laudem dei referuntur. Cum enim Dionysius de divinis tractaret nominibus, nomina illa dei laudes appellavit et deum per ipsa laudans in eius laudem ipsa exposuit, ut in capitulo de sapientia laudatur intellectus et ratio, et dicit quod «ex substantiis omnibus laudatur». Deprehendi igitur in hoc laudis campo sapidissimam scientiam consistere in laude dei, quae omnia ex suis laudibus ad sui laudem constituit. Sicut enim hymni laudum varii varias continent harmonicas combinationes, sic quaelibet species, humana scilicet, leonina, aquilina, et ita de omnibus, est specialis quidam hymnus ex laudibus dei et in laudem eius conditus. Caelici hymni magis festivi et fecundi sunt laudibus quam terrestres. Sol enim mirabilis est laudum dei combinatio, et quilibet hymnus in hoc pulcher et singularis, quia habet in sua singularitate aliquid, quo alii hymni carent. Ideo deo cuncti accepti, qui om-
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il profeta Davide, guardando a tutte le opere di Dio, cantava: «Benedite, opere tutte del Signore, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli»208. Ed egli le enumera [queste opere] una per una: gli angeli, i cieli, la terra, l’acqua e tutte le altre cose create che lodano Dio. Tutte, infatti, non sono altro che una degna e gioiosa lode di Dio. Infatti, come attesta Dionigi209, le cose divine si conoscono solo per partecipazione. Nessun intelletto, infatti, arriva a conoscere in che modo «esse sono nel proprio principio e nella propria sede». E se chiamiamo «quella oscurità sovrasostanziale luce, o vita, o parola, noi non conosciamo nient’altro che le partecipazioni e le potenze che da essa provengono a noi, mediante le quali siamo elevati a Dio e che ci elargiscono o la sostanza, o la vita o la potenza». Questo è quanto dice Dionigi. Ogni opera di Dio, pertanto, loda giustamente Dio perché è buono210, in quanto riconosce che è per un dono di Dio che essa stessa è buona e degna di lode; allo stesso modo, riconosce che è per un dono di Dio che essa è grande, che è vera e così via. Nel campo della lode hanno condotto le loro cacce devotissime tutti i profeti o i veggenti e gli intelletti più elevati, cosa, questa, che è attestata dalla Sacra Scrittura e dagli scritti dei santi, nei quali tutto viene riportato a lode di Dio. Ad esempio, quando Dionigi trattò dei nomi divini, chiamo tali nomi lodi rivolte a Dio, e lodando Dio mediante questi nomi ne fece un’esposizione a lode di Dio211; così, nel capitolo dedicato alla sapienza si trova una lode dell’intelletto e della ragione e si dice che Dio viene lodato da tutte le sostanze212. In questo campo della lode, pertanto, ho compreso che la conoscenza che ha più sapore213 consiste nella lode di Dio, il quale214 ha costituito tutte le cose dalle sue lodi e a sua lode. Come infatti i diversi inni di lode contengono diverse combinazioni armoniche, così ogni specie – quella dell’uomo, del leone, dell’aquila e così tutte le altre – è una sorta di inno specifico costituito dalle lodi di Dio e a lode di Dio. Gli inni celesti sono più festosi e più ricchi di lodi di quelli terrestri. Il sole, infatti, è una combinazione straordinaria di lodi a Dio, ed ogni inno è bello e singolare per il fatto che possiede nella sua singolarità qualcosa di cui gli altri inni sono privi. E così tutti
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nia quae creavit participatione laudis suae bona dixit eisque benedixit. Ex his elicui hominem, vivum quendam et intelligentem laudum dei hymnum optime compositum, plus cunctis visibilibus de dei laudibus habere, ut deum prae ceteris indesinenter laudet; et in hoc solo consistere vitam suam, ut id reddat deo, quod ut esset accepit. Laudes scilicet tunc ad finem properat et immortalium laudum felicissima merita consequetur. 54
Capitulum XIX
De eodem Omnia igitur suo esse laudant deum. Postquam quodlibet adeo est perfectum et sufficiens, quod nulla ex parte laude careat, utique suum laudat opificem, a quo solum hoc habet quod laudatur. Naturaliter igitur omnia creata deum laudant. Et cum creatura laudatur, non ipsa, quae se ipsam non fecit, sed in ipsa conditor eius. Idolatria igitur, qua creaturae divinae laudes dantur, insania est infirmae, caecae et seductae mentis. Nam cum colitur pro deo illud, quod sua natura suum laudat factorem, utique insanire est. Neque est quicquam, quod alium cognoscat deum quam illum, quem ut conditorem laudat, cui nihil scit praestantius. Scit igitur omnis creatura et, quantum sufficit sibi, cognoscit conditorem suum omnipotentem, ipsum laudat auditque et intelligit verbum eius et oboedit. Si enim dixerit lapidi, quod vivat, utique audit, intelligit et oboedit. «Mortui enim audient verbum dei et vivent», sicut Lazarus quatriduanus et alii mortui audiverunt et vixerunt, ut haec sciunt Christiani. Ex quo certum est hominem, qui habet liberum arbitrium, quando a laudibus dei cessat et dei ver-
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gli inni sono graditi a Dio, il quale disse che tutte le cose che aveva creato erano buone in virtù della partecipazione alla sua lode e le benedisse. Dalle precedenti considerazioni ho tratto la conclusione che l’uomo, che è un inno vivente ed intelligente di lodi a Dio215 composto in maniera eccellente, più di ogni altra realtà visibile ha ricevuto dalle lodi di Dio il compito di lodarlo in maniera incessante e al di sopra di tutte le cose; ed in questo consiste la sua vita, nel restituire a Dio ciò che egli ha ricevuto per poter esistere, ossia le lodi; in questo modo, l’uomo si affretta verso il suo fine, ed otterrà le ricompense più felici di lodi immortali. CAPITOLO XIX
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Sullo stesso argomento Tutte le cose, pertanto, lodano Dio con la loro esistenza. Dal momento che ogni cosa è così perfetta e sufficiente da non avere alcun aspetto che non meriti di essere lodato, essa loda certamente il suo artefice, solo dal quale ha ciò per cui viene lodata216. Tutte le creature, pertanto, lodano per natura Dio. E quando si loda una creatura non è la creatura che viene lodata, la quale non si è fatta da sé, ma in lei viene lodato il suo creatore. L’idolatria, per la quale si tributano alla creatura lodi divine, è una pazzia propria di una mente malata, cieca e sviata217. Quando, infatti, a posto di Dio si onora ciò che, con la sua stessa natura, loda il suo creatore, ci si comporta certamente da pazzi. E non c’è nessuna cosa che non riconosca come Dio se non colui che essa loda come creatore e di cui sa che non c’è nulla di più eccelso. Ogni creatura, pertanto, conosce e riconosce, per quanto le basta, il suo creatore onnipotente, lo loda e ode ed intende la sua parola218 e le obbedisce. Se il creatore, ad esempio, dicesse ad una pietra di diventare viva, essa certamente lo udrebbe, lo intenderebbe e gli obbedirebbe. «I morti, infatti, udranno la parola di Dio e vivranno»219, come Lazzaro, che era morto da quattro giorni, ed altre persone morte hanno udito e sono tornate alla vita, fatti, questi, che i cristiani conoscono220. Di conseguenza, è certo che quando l’uomo, che è dotato di libero arbitrio221, smette di lodare Dio e non presta ascolto alla parola di Dio,
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bum non audit, quod in ipso et conscientia eius loquitur nec vult intelligere et oboedire, ut bene agat, inexcusabilis est, cum a propria natura reprehendatur, et indignus est societate felicium deum perpetue laudantium. 55 Venatus sum praeterea in hoc campo indicibilem esse sanctorum spirituum perpetuam iocundissimamque domini laudationem. Qui quantum amant, tantum clamant, et quanto plus laudant, tanto et ipsi maiorem laudem assequuntur et ad infinite laudabilem propius accedunt, licet numquam ad eius aequalitatem pertingant. Sicut enim finibile tempus non potest umquam ita augeri, quod fiat simile infinibili perpetuo, ita nec initiatum perpetuum potest umquam aequari inprincipiato aeterno. Sic nec perpetua rebellium spirituum dampnatio umquam temporalis finibilisque fiet. Qualem autem laudem homines perfecti, laudatores dei, consequantur, observantia semper servata docet, quae eos ad dei et sanctorum consortium exaltat et divinis prosequitur laudibus. Perfecti autem in excelsis deum laudant et, quae hanc laudem possunt impedire, abiciunt, uti est amor sui et mundi huius, et relegant se ipsos, habituantes se in religione hunc impeditivum sui et mundi amorem mortificante, imitantes magistrum veritatis, dei verbum incarnatum, qui in dei laudem omnium terribilium terribilissimum, mortem scilicet turpissimam, voluntarie verbo et exemplo docuit subeundum. Quem infiniti martyres secuti morte vitam adepti sunt immortalem, et hodie religiosi quam plurimi mundo mortui his dei laudibus vacantes perfecti dei laudatores esse contendunt.
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che parla in lui e nella sua coscienza, e non vuole più intenderla ed obbedire ad essa, in modo da poter agire rettamente, egli non ha alcuna giustificazione222, dal momento che viene biasimato dalla sua stessa natura, ed è indegno di far parte della comunione dei beati, che lodano perpetuamente Dio. Inoltre, nel corso della caccia che ho compiuto in questo campo ho scoperto che la lode perpetua e gioiosissima che gli spiriti santi rivolgono al Signore non è esprimibile in parole umane. La voce con la quale esprimono la loro lode corrisponde al loro amore, e quanto più essi lodano, tanto maggiore è la lode che essi ricevono e tanto più, in questo modo, si avvicinano a colui che è infinitamente degno di lode, anche se non giungono mai ad una eguaglianza con lui. Infatti, come il tempo, che è limitabile, non può mai essere prolungato fino al punto da diventare simile al perpetuo, che non ha alcun limite, così il perpetuo, che ha avuto un inizio, non può mai diventare uguale all’eterno, che non ha avuto alcun principio223. Allo stesso modo, anche la dannazione perpetua degli spiriti ribelli non sarà mai temporanea e non conoscerà mai un fine. Quale lode conseguano gli uomini che sono perfetti lodatori di Dio224 lo insegna la devozione che viene sempre riservata ad essi e che li innalza alla comunione con Dio e con i santi e li onora con lodi divine. Coloro che sono perfetti, tuttavia, lodano Dio nell’alto dei cieli e rigettano tutto ciò che può ostacolare una tale lode, come l’amore di sé e di questo mondo; essi si allontanano dal mondo, dedicandosi alla religione e mortificando quell’amore di sé e del mondo che costituisce un impedimento, imitando il maestro della virtù, il Verbo incarnato di Dio, il quale, con la sua parola e con il suo esempio, ha insegnato che, per la lode di Dio, si deve affrontare volontariamente anche la più terribile di tutte le cose terribili, ossia la morte più disonorante225. Il numero infinito di martiri che lo hanno seguito nella morte hanno conseguito la vita immortale, ed anche oggi ci sono moltissimi religiosi che, morti al mondo, si dedicano completamente a queste lodi di Dio e si sforzano così di essere dei perfetti lodatori di Dio.
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Capitulum XX
De eodem Mandavit propheta psallere dei laudes in psalterio decacordo. Hoc ego attendens decem laudis cordas tantum sumpsi: bonitatem, magnitudinem, veritatem ac alias praenominatas. Psalterium autem opus est intelligentiae, ut homo habeat instrumentum, in quo dulces et delectabiles tangat modos. Illos enim modos, quos in se habet intelligibiliter, facit audibiles et sensibiles. Et cum sint in intellectu modi illi, habentes intellectum delectantur aure et sensibiliter audire in sono, quod insensibiliter habent in anima. Unde si concordant voces cum harmonicis vitalibus animae numeris, laudant psallentem, si dissentit, vituperant. Tria sunt necessaria, si psalli debet: psalterium ex duobus, scilicet vase et cordis, compositum atque psaltes. Hoc est: intelligentia, natura et subiectum. Psaltes intelligentia, cordae natura, quae ab intelligentia movetur, et vas naturae conveniens . In homine microcosmo haec ut in maiori mundo sunt. Est in ipso intelligentia, est natura humana et corpus ei conveniens. Ita est homo vivum psalterium in se omnia habens ad psallendum deo laudes, quas in se ipso cognoscit. In psalterio enim et cithara, in cymbalis iubilationis et bene sonantibus omnis spiritus laudat dominum. Haec omnia instrumenta in se viva habet spiritus noster intellectualis. 57 Mirandum autem, unde homo vigens intellectu naturaliter habet scientiam laudis et laudabilium et vituperabilium. Nisi enim illi naturae haec scientia necessaria esset ad sui pascentiam et conservationem, non haberet plus homo ipsam quam asinus. Divina enim
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CAPITOLO XX
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Sullo stesso argomento Il profeta ci ha prescritto di cantare le lodi di Dio con un’arpa a dieci corde226. Osservando questa prescrizione, io ho scelto solo dieci corde di lode: la bontà, la grandezza, la verità e le altre che ho menzionato in precedenza 227. L’arpa, tuttavia, è una creazione dell’intelligenza, costruita per fare in modo che l’uomo abbia uno strumento con cui poter esprimere delle melodie dolci e dilettevoli. L’uomo, infatti, rende udibili e percepibili sensibilmente quelle melodie che egli ha in sé in modo intelligibile. E dal momento quelle melodie sono nell’intelletto, coloro che sono dotati di intelletto provano piacere nell’udire con le orecchie e, per mezzo del suono, in modo percepibile sensibilmente228 ciò che essi hanno nell’anima in un modo che non è percepibile sensibilmente. Per questo, i suoni musicali concordano con i numeri armonici viventi dell’anima, allora gli uomini lodano il suonatore, se c’è invece una discordanza lo biasimano. Per cantare i salmi sono necessarie tre cose: un’arpa composta di due elementi, ossia della cassa armonica e delle corde, e un suonatore. In altri termini, sono necessarie l’intelligenza, la natura e un oggetto. Il suonatore è l’intelligenza, le corde sono la natura, la quale è mossa dall’intelligenza, e la cassa armonica è l’oggetto che è adatto alla natura. Questi tre elementi, come sono presenti nelle macrocosmo, così sono presenti anche nell’uomo, che è un microcosmo229. Nell’uomo c’è l’intelligenza, c’è la natura umana e c’è un corpo che è adatto alla natura umana. L’uomo, pertanto, è un’arpa vivente, che ha in sé tutto ciò che è necessario per cantare a Dio quelle lodi di cui ha in se stesso la conoscenza. Infatti, ogni spirito loda il Signore con l’arpa e con la chitarra, con i cembali di giubilo e con tutti gli altri strumenti che suonano bene. Il nostro spirito intellettuale hai in se stesso tutti questi strumenti come strumenti vivi. Ciò che desta meraviglia, tuttavia, è il fatto che un uomo dotato di intelletto abbia per natura una conoscenza della lode e di ciò che è degno di lode e di riprovazione230. Se una tale conoscenza, infatti, non fosse necessaria alla natura umana, per il suo nutrimento e la sua conservazione, l’uomo non ne avrebbe più dell’asino. La prov-
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providentia, sicut non deficit in necessariis, ita non habundat in superfluis. Et quoniam, ex quibus sumus, ex illis nutrimur et pascimur, omne vivens quaerit cibum suum; quem dum invenit, cognoscit, et hoc ex conformitate cibi ad id, unde est. Quare, cum homo secundum intellectualem animam laudabilia naturaliter cognoscat et amplectatur delicieturque in illis tamquam in cibo naturae suae conformi, hinc scit se de his naturaliter esse, quae ob conformitatem naturalem ad suum esse laudat et amplectitur. Habet igitur intellectus in se dono divinae providentiae omnem sibi necessariam scientiam principiorum, per quae venatur suae naturae conforme, et infallibile est hoc iudicium. Et quoniam principia sua sunt laudabilia, uti sunt decem illa saepe dicta, et ipse homo ex his principiatus est, ut laus dei suum laudet creatorem, non est penitus homo dei sui ignarus, quem scit laudabilem et gloriosum in saecula. Neque est sibi alia scientia necessaria, quia scit tantum, quantum sufficit sibi ad hoc ut faciat illa, propter quae creatus est. Laudando igitur deum quia bonus, utique bonitatem scit laudabilem; ita veritatem et sapientiam et cetera. Et quamvis ignoret, quid illa sint, non tamen habet omnimodam eorum ignorantiam, quando cognoscit illa esse laudabilia et in laude dei complicari et in tantum laudi dei convenientia, quod homo sine illis non capit nec deum nec quicquam laudari posse. 58 Scit etiam homo, quod ipsum oporteat liberum arbitrium suum per laudabilia determinare, ut sit ex electione sicut a natura laudabilis. Bonitas, virtus, veritas, honestas, aequitas et cetera talia laudabilia sunt, possuntque eligi per liberum arbitrium aut eorum contrarium. Si eliguntur, totus homo tam ex naturalibus quam ar-
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videnza divina, infatti, come non manca nelle cose che sono necessarie, così non abbonda in quelle superflue. E dal momento che noi ci cibiamo e ci nutriamo delle cose grazie alle quali esistiamo, ogni vivente cerca il cibo che gli è proprio; e appena lo trova lo riconosce, e lo riconosce dalla conformità che il cibo ha con ciò grazie a cui quell’essere vivente esiste231. Per questo motivo, dal momento che l’uomo, in virtù della sua anima intellettuale, conosce per natura le cose degne di lode, si unisce ad esse e prova per esse piacere come si prova piacere per il cibo che è conforme alla propria natura, egli sa in questo modo di esistere per natura grazie a quelle cose che, data la loro conformità naturale con il suo essere, egli loda e alle quali si unisce232. L’intelletto, pertanto, per dono della provvidenza divina, ha in sé tutta la conoscenza dei principi che gli è necessaria, e con l’ausilio di questi principi va a caccia di ciò che è conforme alla sua natura ed il suo giudizio è a questo riguardo infallibile. E dal momento che i principi dell’intelletto sono degni di lode, come lo sono quei dieci attributi che abbiamo spesso menzionato, e dal momento che l’uomo stesso ha la sua origine da questi principi, in modo tale che egli può lodare il suo creatore come creatura che deriva dalla lode di Dio, allora l’uomo non è del tutto privo di una conoscenza del suo Dio, che egli sa essere degno di lode e glorioso nei secoli. Né all’uomo è necessaria altra forma di conoscenza perché egli sa quanto gli è sufficiente per fare ciò per cui è stato creato. Nel lodare Dio perché buono, egli, pertanto, sa certamente che la bontà è degna di lode; e lo stesso vale per la verità, per la sapienza, e così via. E sebbene l’uomo ignori che cosa siano queste cose, egli, tuttavia, non ne è del tutto ignorante, in quanto sa che sono degni di lode, che sono complicate nella lode di Dio e che si addicono a tal punto alla lode di Dio che, senza di esse, l’uomo non capisce come si possa lodare Dio o qualsivoglia cosa. Inoltre, l’uomo sa che deve orientare il suo libero arbitrio verso ciò che è degno di lode, in modo da essere degno di lode anche per la sua scelta, come lo è per la sua natura233. La bontà, la virtù, l’onestà, l’equità, e le altre cose di questo genere sono degne di lode, ed il libero arbitrio può scegliere queste cose o i loro contrari. Se vengono scelte queste cose, allora tutto l’uomo è degno di lode, sia per
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bitrii electione laudabilis perfecte deum laudat. Si vero vitia et laudabilibus adversa eligit, non est laudabilis, sed sibi deoque contrarius. Quomodo tunc laudare deum poterit laudi contrarius? Proficit autem continue semper laudans deum sicut citharoedus citharizando et fit deo semper similior. Et hic est finis hominis, deo scilicet similiorem fieri, ut recte Plato dicebat. Nam quanto plus deum laudat, tanto ipse deo gratior; igitur et ipse laudabilior divinaeque laudabilitati similior. Recte sapiens Socrates comperit nihil nos certius scire quam ea quae laudabilia sunt, et monuit ad illa ceteris dimissis tamquam superfluis et incertis solum nostrum studium converti. Laudabilibus enim moribus suasit insudandum, quorum ex nobis scientiam haurire possumus et ex consuetudine perficientem habitum acquirere et ita continue fieri meliores. 59
Capitulum XXI
De sexto campo, scilicet unitatis Aurelius Augustinus dum sapientiam venari niteretur, in libello De ordine scribit omnium philosophorum considerationem circa unum versari. Post ipsum doctissimus Boethius De unitate et uno scribens similiter venationem sapientiae ibi fiendam facto declaravit. Platonem hi secuti sunt, qui li unum primum et aeternum asserit principium; ante quem Pythagoras ille Samius, qui cuncta in proprietate numeri investigans monadem omnium affirmabat principium; ante enim omnem multitudinem unitas. Volumus igitur hunc unitatis campum venationis gratia mente perlustrare. Unitas enim, etsi ipsam li non aliud praecedat, tamen prope ipsum videtur. Unum enim et idem videntur ipsum non
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la sua natura che per la sua libera scelta, ed egli allora loda Dio in modo perfetto. Se sceglie invece i vizi e ciò che è opposto a quanto è degno di lode, allora l’uomo stesso non è degno di lode ed è in contrasto sia con se stesso che con Dio. In che modo, allora, potrebbe lodare Dio chi è in contrasto con ciò che è degno di lode? Chi loda sempre Dio, invece, progredisce continuamente, come un suonatore di cetra suonando la cetra, e diventa sempre più simile a Dio. E questo è il fine dell’uomo, diventare più simile a Dio, come diceva giustamente Platone234. Quanto più loda Dio, infatti, tanto più è gradito a Dio; e pertanto egli diventa sia più degno di lode, sia più simile alla lodabilità divina. Il saggio Socrate235 era giustamente convinto del fatto che noi non conosciamo nulla di più certo delle cose che sono degne di lode ed ammoniva di rivolgere solo ad esse tutto il nostro impegno, abbandonando tutte le altre cose come superflue ed incerte. Egli esortava, infatti, a dedicare i propri sforzi alla realizzazione di comportamenti morali degni di lode, la cui conoscenza possiamo trarre da noi stessi e dei quali possiamo acquisire un abito perfetto mediante la consuetudine, in modo da diventare così continuamente migliori. CAPITOLO XXI
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Il sesto campo: L’unità. Aurelio Agostino, quando cercò di andare a caccia della sapienza, scrisse nel suo libro L’ordine che tutti i filosofi hanno rivolto la loro attenzione all’uno236. In modo analogo, dopo Agostino, il dottissimo Boezio, scrivendo su L’unità e l’uno237, mostrò con ciò che la caccia della sapienza deve essere condotta in questo campo. Agostino e Boezio seguirono Platone238, il quale sostiene che l’Uno è il principio primo ed eterno; prima di Platone vi fu Pitagora di Samo, il quale, cercando tutto nelle proprietà del numero, affermava che la monade è il principio di tutte le cose239; prima di ogni molteplicità, infatti, c’è l’unità. Ora, pertanto, in vista della nostra caccia, vogliamo perlustrare con la mente questo campo dell’unità. Sebbene il Non-altro, infatti, preceda l’unità, quest’ultima, tuttavia, sembra essere molto vicina al Non-altro. L’uno e l’identico, infatti, sembrano partecipare
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aliud plus ceteris participare. Voluit Plato unum esse aeternum; nihil enim vidit nisi post unum. Est enim ante finem et infinitatem, ut dicit Dionysius, qui in hoc Platonem imitatur, quando – ut refert Proclus – post primum principium posuit finitum et infinitum principia, quoniam ex illis omne exsistens mixtum est: a finito essentiam, ab infinito virtutem seu potentiam habens. Et cum unum sit, quod esse potest et penitus simplex et immultiplicabile, omnia in se complicare videtur quae remoto ipso nequaquam manent. «Omnia enim in tantum sunt, in quantum unum sunt.» Complectitur autem tam ea quae sunt actu, quam ea quae possunt fieri. 60 Capacius est igitur unum quam ens, quod non est nisi actu sit, licet Aristoteles dicat ens et unum converti. Id autem, quod Platonem movebat unum cunctis praeferendum et fateri omnium principium, erat quia, cum principiatum nihil a se habeat sed omnia a suo principio, oportet quod principio posito omnia principiata sint posita. Sed cum posito ente non ponitur potentia ens, quod est utique aliquid, posita vita non ponitur ens vita carens et posito intellectu non ponitur ens non intelligens: et cum esse, vivere et intelligere reperiantur in mundo, non erit mundi principium aut ens aut vita aut intellectus, sed id quod illa in se complicat, et quae illa esse possunt. Et hoc dicebat unum. Verificatur enim unum de potentia et de actu: una potentia, unus actus; sic de ente, vita et intellectu. 61 Neque potest esse multitudo, quae non participet unitate. Nam si foret simile, esset dissimile in non participare unitatem. Omnia multa similia forent et similiter dissimilia ex eadem ratione, quia
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del Non-altro più di ogni altra cosa 240. Platone sostenne che l’Uno è eterno; egli non vide nulla, infatti, che non fosse successivo all’Uno241. L’Uno, in effetti, è anteriore al fine e all’infinità, come dice Dionigi 242, il quale, a questo proposito, imita Platone, quando quest’ultimo – come riferisce Proclo – dopo il primo principio pose come principi il finito e l’infinito243, in quanto ogni cosa che esiste è un composto costituito da questi due principi: dal finito, infatti, ha l’essenza e dall’infinito la forza o la potenza. E dal momento che l’Uno è ciò che può essere ed è del tutto semplice e immoltiplicabile, è evidente che esso complica in sé tutte le cose, le quali non possono in alcun modo sussistere se viene tolto l’Uno. «Ogni cosa, infatti, è in quanto è una»244. L’Uno, tuttavia, abbraccia in sé sia le cose che sono in atto, sia quelle che possono diventare in atto. L’uno, pertanto, è più comprensivo dell’essere245, il quale non è se non è in atto, sebbene Aristotele dica che l’essere e l’uno sono convertibili246. Ciò che tuttavia ha spinto Platone a preferire l’Uno a tutto il resto e a riconoscerlo come principio di tutte le cose è stata la seguente riflessione: dal momento che il principiato non ha nulla da sé, ma ha tutto dal suo principio, è allora necessario che, posto il principio, siano posti tutti i principiati. Ora, tuttavia, quando viene posto l’essere non viene con ciò posto anche l’essere in potenza, il quale è certamente un qualcosa; quando viene posta la vita, non viene con ciò posto anche l’essere che è privo di vita, e quando viene posto l’intelletto non viene con ciò posto anche l’essere che non è dotato di intelligenza: e dal momento che in questo mondo si trovano l’essere, il vivere, e l’intendere, allora il principio del mondo non sarà né essere, né vita, né intelletto, ma sarà piuttosto ciò che complica in sé tutte queste cose e tutto ciò che esse possono essere. Ed è questo principio che Platone ha chiamato Uno247. L’Uno, infatti, viene predicato della potenza e dell’atto: si dice, infatti, «una potenza», «un atto»; allo stesso modo, l’uno viene predicato dell’essere, della vita e dell’intelletto. Inoltre, [secondo Platone] non può esserci una molteplicità che non partecipi dell’unità. Se ci fosse, infatti, ciò che è simile sarebbe dissimile per il fatto di non partecipare dell’unità. Per la stessa ragione, tutte le cose presenti nella molteplicità sarebbero simi-
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non participarent unitate. Cessarent igitur omnia multa et plura et numerus omnis et quae unum dici possunt, uno sublato, ut haec in Parmenide Platonis mira subtilitate ostenduntur. Non potest igitur unum esse factum, cum ipsum antecedat. Neque potest corrumpi nec alterari nec multiplicari, cum praecedat posse fieri et sit omne quod esse potest. Verum, ut ait Dionysius, «unum, quod est, multiplicari dicitur multas ex se producens substantias; manet tamen unum, quod deus, et multiplicatione unus et procedendo coniunctus.» Omnia igitur quae fieri possunt, participatione invariabilis et immultiplicabilis unitatis fieri possunt et fiunt actu. Et quia non potest esse nisi una unitas, quae, ut dicit Dionysius, est sensu eminentior et menti incomprehensibilis et antecedens ipsam, ideo ipsa est unum, quod omnia unit, ut quodlibet in tantum sit, in quantum est unum. Non est etiam nisi unum aeternum ante posse fieri. 62 Hinc non est illa positio vera, quod ante posse fieri sint dei participantes unum tamquam divinam speciem. Nam cum unum aeternum sit immultiplicabile, quia ante posse multiplicari, non possunt dii multi esse in uno ut primo aeterno deo quasi in divina specie uniti. Nam si essent dii, multi essent. Varie igitur divinam naturam in aeternitate participarent, quod est impossibile, cum aeternum sit et aeternitas simplicissima penitus imparticipabilis. Supervacuos igitur fecit Proclus labores in sex libris De theologia Platonis volens investigare ex coniecturis incertis deorum illorum aeternorum differentias et ordinem ad unum deum deorum, cum non sit nisi deus unus aeternus, qui ad omnia, propter quae ipse deos ponit, sufficientissimus est huius totius mundi administrator. 63 Videntur philosophi venatores in omni eorum discursu ex hoc sensibili mundo et his quae illi necessaria sunt, ut id sit quod est,
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li e parimenti dissimili, in quanto non parteciperebbero dell’unità248. Se venisse tolto l’Uno, pertanto, verrebbe meno ogni molteplicità, ogni pluralità, ogni numero e tutto ciò che può essere chiamato uno, come viene mostrato con mirabile sottigliezza nel Parmenide di Platone249. Non è possibile, quindi, che l’Uno sia fatto, dal momento che è anteriore rispetto ciò che è fatto. E l’Uno non può né corrompersi né alterarsi né moltiplicarsi, in quanto precede il poter-esserefatto ed è tutto ciò che può essere. Ma, come dice Dionigi, «l’Unoche-è si dice che si moltiplica perché produce da sé molte sostanze; l’Uno che è Dio, tuttavia, rimane uno nella moltiplicazione e resta congiunto nella processione»250. Tutte le cose che possono essere fatte, pertanto, possono essere fatte ed esistono in atto grazie alla partecipazione all’Unità invariabile e immoltiplicabile. E dal momento che non può esserci che una sola Unità, la quale, come dice Dionigi251, è in modo eminente al di sopra dei sensi, è incomprensibile dalla mente ed è anteriore ad essa, l’Unità è allora l’Uno che unisce tutte le cose, in modo tale che ogni cosa è in quanto è uno252. Inoltre, prima del poter-essere-fatto non c’è se non l’Uno eterno. Di conseguenza, non può essere vera l’affermazione secondo la quale, prima del poter-essere-fatto, ci sono gli dèi, che partecipano dell’Uno come di una specie divina253. Infatti, dal momento che l’Uno eterno è immoltiplicabile254, in quanto è anteriore al poteressere moltiplicato, non possono esserci molti dèi, che sarebbero uniti, come in una sorta di specie divina, nell’Uno come nel primo Dio eterno. Se ci fossero degli dèi, infatti, sarebbero molti. Nell’eternità, pertanto, essi parteciperebbero in modo diviso della natura divina, il che è impossibile in quanto la natura divina è qualcosa di eterno e l’eternità semplicissima è del tutto impartecipabile255. Proclo, pertanto, ha compiuto una fatica completamente inutile quando, nei sei libri della sua Teologia platonica, ha voluto indagare, sulla base di congetture incerte, le differenze tra questi dèi eterni ed il loro ordine rispetto all’unico Dio degli dèi, dal momento che non c’è che un unico Dio eterno, il quale è il reggitore del mondo intero, del tutto sufficiente per tutte quelle cose per le quali Proclo pone gli dèi. In tutti i loro ragionamenti i filosofi-cacciatori partono chiaramente da questo mondo sensibile e da quelle cose che sono ad esso
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meliori modo quo hoc fieri potest, de deo, de diis, de caelo et eius motu et fato, intelligentiis, spiritibus et ideis atque ipsa natura inquirere, quasi haec omnia sint necessaria huic mundo terreno et hic mundus sit omnium operum illorum finis. Sic Aristoteles deum ut Plato; quem sua providentia caelos administrare posuit; caelos vero ob hunc mundum esse et moveri per intelligentias, ut generationes et cuncta ad huius mundi conservationem necessaria ordinem et motum caeli sequentia naturaliter fiant et continuentur; non attendentes tot innumerabiles stellas huic terrae habitabili maiores et tot intelligentias non esse conditas ad finem huius terreni mundi, sed ad laudem creatoris, ut supra tactum est. Unus est igitur deus omnipotens, cuncta ad sui laudem creans et optima providentia gubernans, ut recte Epicurus dicebat, qui licet non negaret deos esse, tamen id, quod de ipsis dicitur et scribitur, penitus a veritate dixit alienum. Hoc attendendum neminem umquam affirmasse plures deos, qui unum multitudini, deorum deum scilicet, non praeferret. Venationes igitur in hoc unitatis campo sapidas facit, qui – ut fecit Augustinus in libro De trinitate – unitatem fecundam de se aequalitatem generantem et amorem conectentem ab unitate aequalitate procedentem videt sic in aeternitate, quod sunt ipsa simplicissima aeternitas. De quo alibi in Docta ignorantia et De visu dei et aliis multis libellis ea, quae concipere potui, adnotavi.
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necessarie per essere ciò che è, nel modo migliore in cui può esserlo, e da qui conducono le loro indagini su Dio, sugli dèi, sul cielo e sul suo moto, sul fato, sulle intelligenze, sugli spiriti, sulle idee e sulla stessa natura, come se tutte queste cose fossero necessarie per questo mondo terreno e come se questo mondo fosse il fine di tutte quelle opere. Questo è il modo in cui Aristotele ha parlato di Dio, come ha fatto anche Platone; Aristotele ha sostenuto che Dio governa i cieli con la sua provvidenza 256; ma ha detto che i cieli sono in funzione di questo mondo e sono mossi mediante le intelligenze, in modo tale che le generazioni e tutte le cose che sono necessarie per la conservazione di questo mondo avvengono e proseguono in modo naturale, in accordo con l’ordine e il movimento del cielo. Platone ed Aristotele non hanno prestato attenzione al fatto che le innumerevoli stelle, che sono più grandi di questa terra abitabile, e le tante intelligenze non sono state create per questo mondo terreno come loro fine, ma sono state create a lode del creatore, come abbiamo menzionato sopra. Pertanto, c’è un unico Dio onnipotente, che crea tutte le cose a sua lode e tutte le governa con una provvidenza ottima, come ha giustamente detto Epicuro257, il quale, sebbene non abbia negato l’esistenza di dèi, ha tuttavia sostenuto che quello che si dice e si scrive su di essi è del tutto lontano dalla verità 258. Si deve notare che, tra quelli che hanno affermato l’esistenza di una pluralità di dèi non c’è nessuno che non abbia anteposto alla molteplicità l’Uno, ossia il Dio degli dèi259. In questo campo dell’unità, pertanto, compie delle cacce sapienti chi – come fece Agostino nel suo libro La Trinità – vede che la feconda Unità, che genera da se stessa l’Uguaglianza, e l’Amore, che procede dall’Unità e dall’Uguaglianza e che connette l’una e l’altra, esistono nell’eternità in modo tale da essere la stessa semplicissima eternità 260. Di ciò ho già parlato altrove, ne La dotta ignoranza, ne La visione di Dio e in molti altri miei libri, mettendo per iscritto quello che sono stato in grado di concepire a proposito di questo argomento261.
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De eodem Campum unitatis Plato diligenter perlustrans repperit unum, quod omnium causa, ante potentiam et actum ex potentia egredientem, quodque ipsum unum, ut sit causa omnium, nihil omnium est; non est plura, ut sit causa plurium. Unde omnia de eo negans ipsum ante omnia ineffabiliter vidit. Quomodo autem venationem suam per logicam de uno fecerit, liber Parmenidis ostendit. Et Proclus secundo libro De theologia ipsius epilogat et dicit: Qui Platoni credit, in negationibus remanet. Nam additio ad unum unius excellentiam contrahit et minuit, et per ipsam potius non unum quam unum ostenditur. Dionysius, qui Platonem imitatur, in campo unitatis similem venationem fecit et negationes, quae sunt privationes, sed excellentiae et praegnantes affirmationes, veriores dicit affirmationibus. Proclus vero, qui Origenem allegat, post Dionysium venit. Dionysium sequendo, unum et bonum – licet ita Plato primum nominaverit – de primo negat, quod penitus est ineffabile. Hos mirandos venatores sequendos laudandosque esse cum arbitrer, ad ipsorum nobis relictam in scriptis diligentiam studiosum remitto. 65 Et quia in campo unitatis est quoddam singulare pratum, ubi singularissima praeda reperitur, pratum illud nunc venationis gratia visitemus. Nominatur autem singularitas. Nam cum unum non sit aliud quam unum, singulare videtur, quia in se indivisum et ab alio divisum. Singulare enim cuncta complectitur; cuncta enim singula sunt, et quodlibet implurificabile. Singula igitur, cum omnia et implurificabilia sint, ostendunt esse unum maxime tale, quod omnium singularium causa. Et quod per essentiam est singulare,
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Sullo stesso argomento Perlustrando diligentemente il campo dell’unità, Platone ha trovato che l’Uno, che è la causa di tutte le cose, è anteriore alla potenza e all’atto che scaturisce dalla potenza, e che questo Uno, per poter essere la causa di tutto, è nulla di tutto, e per poter essere la causa del molteplice non è il molteplice262. Di conseguenza, negando tutto dell’Uno, Platone lo vide in maniera ineffabile prima di tutto. Il libro Parmenide mostra invece in che modo Platone abbia condotto la sua caccia dell’Uno servendosi della logica 263. E Proclo, nel secondo libro della sua Teologia platonica, riassume la dottrina di Platone e dice: chi crede a Platone rimane entro le negazioni. Un’aggiunta all’Uno, infatti, contrae e diminuisce la sua eccellenza, e ciò che viene mostrato attraverso una tale aggiunta è il nonuno piuttosto che l’Uno264. Dionigi, che imita Platone, ha compiuto una caccia simile nel campo dell’unità, e sostiene che le negazioni, che non sono delle privazioni, ma sono delle affermazioni eccellenti e piene di significato, sono più vere delle affermazioni265. Proclo, invece, che cita Origene266, è posteriore a Dionigi267. Seguendo Dionigi, egli nega del Primo, che è del tutto ineffabile, l’uno e il bene, sebbene Platone designasse il Primo con questi nomi268. Dal momento che ritengo che si debbano lodare e seguire questi straordinari cacciatori, rinvio chi è dedito agli studi alle accurate analisi che essi ci hanno trasmesso nei loro scritti. E poiché nel campo dell’unità vi è un prato singolare nel quale si trova una preda del tutto singolare, vogliamo ora visitare questo prato in vista della nostra caccia. Il prato viene designato con il nome di singolarità269. Infatti, dal momento che l’Uno non è altro che l’Uno, si vede chiaramente che è singolare, in quanto è indiviso in se stesso ed è diviso da ciò che altro [da lui]. Il singolare abbraccia in effetti tutte le cose; tutte le cose, infatti, sono singole e nessuna di esse è moltiplicabile [replicabile]. Pertanto, dal momento che le cose sono tutte singole e non sono moltiplicabili [replicabili], esse attestano che l’Uno, che è la causa di tutte le cose singolari, è tale in modo massimo. Ed attestano che l’Uno è per essenza
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et implurificabile; est enim id quod esse potest, et omnium singularium singularitas. Unde sicut simplicitas omnium simplicium est per se simplex, quo simplicius esse nequivit, ita singularitas omnium singularium est per se singularis, quo singularius esse nequit. Singularitas igitur unius et boni maxima est, cum omne singulare necesse sit unum et bonum esse et ita in singularitate unius et boni complicari. Sicut singularitas speciei singularior quam suorum individuorum, et singularitas totius singularior quam partium et singularitas mundi singularior quam singulorum omnium. Unde sicut singularissimus deus est maxime implurificabilis, ita post deum mundi singularitas maxime implurificabilis et deinde specierum, post individuorum, quorum nullum plurificabile. Gaudet igitur unumquodque de sua singularitate, quae tanta in ipso est, quod non est plurificabilis, sicut nec in deo nec mundo nec angelis. In hoc enim omnia se gaudent similitudinem dei participare. Et quando de ovo fit pullus, licet singularitas ovi cesset, non tamen ipsa singularitas, cum ita singulare sit ovum sicut pullus, nec alia singularitate unum quam aliud. 66 Sed una est omnium singularium causa, quae omnia singularizat, quae neque est totum neque pars neque species neque individuum neque hoc neque illud neque omne nominabile, sed est singulorum singularissima causa. Singulare cum sit ab aeterna causa singularizatum, numquam in non-singulare resolvi potest. A quo enim resolveretur ab aeterna causa singularizatum? Hinc singulare bonum numquam desinit, cum omne singulare sit bonum. Sic sin-
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singolare ed è per essenza non moltiplicabile; esso, infatti, è ciò che può essere ed è la singolarità di tutte le cose singolari270. Pertanto, come la semplicità di tutte le cose semplici è ciò che è per sé semplice, del quale non può esservi nulla di più semplice, così la singolarità di tutte le cose singolari è ciò che è per sé singolare, del quale non può esservi nulla di più singolare. La singolarità dell’Uno e del Bene è pertanto massima, in quanto tutto ciò che è singolare deve necessariamente essere uno e buono e deve quindi essere complicato nella singolarità dell’Uno e del Bene. In modo analogo, la singolarità della specie è più singolare della singolarità dei suoi individui, la singolarità del tutto è più singolare della singolarità delle parti e la singolarità del mondo è più singolare della singolarità di tutte le singole cose. Di conseguenza, come Dio, che è assolutamente singolare, è massimamente immoltiplicabile, così, dopo Dio, anche la singolarità del mondo è massimamente immoltiplicabile; poi viene la singolarità delle specie e, dopo questa, viene la singolarità degli individui, nessuno dei quali è moltiplicabile. Ogni cosa, pertanto, gode della sua singolarità 271, che in ogni cosa è presente in modo così grande da far sì che essa non possa essere moltiplicata, così come avviene per quanto riguarda Dio, il mondo, e gli angeli. Tutte le cose, infatti, godono del fatto che, sotto questo aspetto, esse partecipano di una somiglianza con Dio. E quando da un uovo nasce una gallina, per quanto venga meno la singolarità dell’uovo, non viene tuttavia meno la singolarità stessa, dal momento che l’uovo è singolare così come lo è la gallina, né esso è singolare in virtù di una singolarità diversa da quella in virtù della quale è singolare la gallina. Una sola tuttavia è la causa di tutte le cose singolari, la quale rende singole tutte le cose272; essa non è né un tutto, né è una parte, né una specie, né un individuo, né un questo, né un quello, né ogni cosa che si possa designare con un nome, ma è piuttosto la causa singolarissima di tutte le cose singolari. Dal momento che ciò che è singolare viene reso singolare da una causa eterna, esso non può mai essere risolto in qualcosa di non singolare. Ciò che è stato reso singolare da una causa eterna da chi, infatti, potrebbe essere risolto [in qualcosa di non singolare]? Per questo, un bene singolare non cessa mai di essere tale, in quanto tutto ciò che è singolare è buono.
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gulare ens numquam cessat id esse, cum omne actu singulare ens sit. Et singulare corpus, quantumcumque dividatur, semper manet singulare corpus. Ita et linea et superficies et totum singulare non est divisibile nisi in singulares partes, quae erant in singularitate totius comprehensae. Omnis igitur varietas non est circa singulare, sed circa accidens ad singulare, quod facit tale et tale singulare. Quod si varietas non est in tali, scilicet aut qualitate aut quantitate, manet semper singulare eodem modo, ut in caelestibus corporibus constat. Sic dicebat Dionysius secundum naturam et substantiam nihil corruptibile, sed quae illis accidunt. Incorruptibilis igitur singularitas est, quae omnia format et conservat. Et omnia suae singularitatis causam ut omnium singularissimum bonum sufficiens et perfectum naturalissimo desiderio appetunt. 67 Adicere tibi volo unum, quod video super alia mirabile, in quo omnia simul dei similitudinem gerere probabis. Dionysius recte dicebat de deo simul opposita debere affirmari et negari. Ita, si te ad universa convertis, pariformiter comperies. Nam cum sint singularia, sunt pariter similia, quia singularia, et dissimilia, quia singularia; , neque dissimilia, quia singularia. Sic de eodem et diverso, aequali et inaequali, singulari et plurali, uno et multis, pari et impari, differentia et concordantia, et similibus, licet hoc absurdum videatur philosophis principio ‘quodlibet est vel non est’ etiam in theologicis inhaerentibus. Adhuc attende posse fieri esse singulare. Ideo omne, quod factum est aut fit, quia de posse fieri fit, singulare est. Imitabilis igitur singularitas est ipsum posse fieri, in cuius singulari potentia omnia singulariter complicantur et de ipsa explicantur.
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Allo stesso modo, un ente singolare non cessa mai di essere tale, in quanto ogni cosa singolare che esiste in atto è un ente. E un singolo corpo, per quanto lo si divida, resta sempre un corpo singolo. In modo analogo, una linea, una superficie e un singolo tutto non possono essere divisi se non in parti singole, che erano comprese nella singolarità del tutto. Ogni varietà, pertanto, non riguarda ciò che singolare, ma gli accidenti che appartengono a ciò che è singolare e che lo caratterizzano in questo o in quel modo. Se invece non c’è alcuna varietà in tali accidenti, ad esempio nella qualità o nella quantità, allora ciò che è singolare permane nel medesimo modo, com’è evidente nel caso dei corpi celesti. In questo senso, Dionigi diceva che niente è corruttibile secondo la natura e la sostanza, mentre sono corruttibili gli accidenti che sopravvengono alla natura e alla sostanza di una cosa. Pertanto, la singolarità, che forma e conserva tutte le cose, è incorruttibile273. E tutte le cose ricercano, con un desiderio naturalissimo, la causa della loro singolarità come il bene sufficiente, perfetto e assolutamente singolare di tutte. Voglio parlarti ancora di una cosa che trovo straordinaria più delle altre, e considerando la quale diventerai certo del fatto che tutte le cose recano ad un tempo in se stesse un’immagine di Dio. Dionigi diceva giustamente che di Dio si devono nello stesso tempo affermare e negare gli opposti274. E così, se volgi la tua attenzione a tutte le cose, scoprirai anche tu questo. Infatti, dal momento che tutte le cose sono singolari, esse sono sia simili, in quanto singolari, sia dissimili, perché sono singolari; ed esse non sono né simili, perché sono singolari, né dissimili, in quanto singolari. Lo stesso vale per l’identico e il diverso, per l’uguale e il disuguale, il singolare e il plurale, per l’uno e i molti, per il pari e dispari, per la differenza e la concordanza, e simili, sebbene tutto ciò sembri assurdo ai filosofi, i quali, anche in ambito teologico, restano attaccati al principio secondo cui ogni cosa è o non è275. Considera inoltre che il poter-essere-fatto è singolare276. Pertanto, tutto ciò che è stato fatto o che viene fatto è singolare, in quanto è fatto a partire dal poter-essere-fatto. Il poter-essere-fatto è quindi una singolarità imitabile; nella sua potenza singolare sono complicate tutte le cose in modo singolare e da essa vengono esplicate in modo singolare.
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Nec aliud est singularitas quam aeternae lucis similitudo. Singularitas enim discretio est. Lucis autem est discernere et singularizare. Supra de his atque in libello, quem de figura mundi nuperrime in Urbe Veteri compilavi. 68
Capitulum XXIII
De septimo campo, scilicet aequalitatis Campum aequalitatis venationibus refertum subintremus. Certum est nihil, uti est actu, multiplicabile. Aequalitas enim, quae id est quod esse potest, cum sit ante aliud et inaequale, non reperitur nisi in regione aeternitatis. Aequalitas vero, quae potest fieri aequalior, posse fieri sequitur. Unde aequalitas, quae est actu id quod esse potest, immultiplicabilis est. Ipsam enim in aeternitate aeterna gignit unitas. Non possunt igitur plura esse praecise aequalia. Non enim tunc plura essent, sed ipsum aequale. Sicut enim bonitas, magnitudo, pulchritudo, veritas et reliqua, quae in aeternitate sunt ipsa aeternitas, sunt etiam ita aequalia quod aequalitas, quae aeternitas, ideo non sunt plura; sicut nec plura aeterna esse possunt, cum aeternum sit ipsum possest, scilicet id quod simpliciter esse potest. Et ita omnia aeterna non sunt plura aeterna, sicut aeterna bonitas, aeterna magnitudo, aeterna pulchritudo, aeterna veritas, aeterna aequalitas non sunt plura aeterna. Sic nec plura aequalia, quia sic sunt aequalia quod ipsa aequalitas simplicissima, quae omnem pluralitatem antecedit. 69 Sic nec aequalitas cuiuscumque actu exsistentis est multiplicabilis. Praecisio enim, quae in indivisibili consistit sicut numerus, non est multiplicabilis, sicut nec quaternarius aut quinarius. Unde non plurificatur humanitas in pluribus hominibus, sicut nec unitas
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La singolarità, inoltre, non è altro che una similitudine della luce eterna. Singolarità, infatti, significa distinzione. Ma è proprio della luce distinguere i singolari e singolarizzare. Di questo argomento ho parlato prima 277 e ne ho discusso anche nel libro sulla forma del mondo che ho scritto poco tempo fa ad Orvieto278. CAPITOLO XXIII
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Il settimo campo: l’uguaglianza Entriamo nel campo dell’uguaglianza, un campo ricco di selvaggina. È certo che nulla, così come è in atto, è moltiplicabile. Infatti, l’uguaglianza, che è ciò che può essere, essendo anteriore all’altro e all’inuguale279, non la si trova se non nella regione dell’eternità 280. L’uguaglianza che può diventare più uguale, invece, viene dopo il poter-essere-fatto. Di conseguenza, l’uguaglianza, che è in atto ciò che può essere, non è moltiplicabile. Nell’eternità eterna, infatti, è l’unità che la genera 281. Pertanto, più cose non possono essere precisamente uguali 282. In questo caso, infatti, non sarebbero una pluralità, ma sarebbero l’uguale stesso. Allo stesso modo, infatti, la bontà, la grandezza, la bellezza, la verità, ecc., che nell’eternità sono l’eternità stessa, sono anche così uguali da essere l’uguaglianza che è l’eternità, per cui esse non sono una pluralità; in modo analogo, non può esserci una pluralità di realtà eterne, perché l’eterno è lo stesso potere-che-è, ossia ciò che può essere in senso assoluto. E come tutte le realtà eterne non sono una pluralità di realtà eterne, così la bontà eterna, la grandezza eterna, la bellezza eterna, la verità eterna, l’uguaglianza eterna non sono una pluralità di cose eterne. Allo stesso modo, esse non sono una pluralità di cose uguali, in quanto sono così uguali da essere la stessa semplicissima uguaglianza, la quale precede ogni pluralità. Allo stesso modo, neppure l’uguaglianza di qualsiasi cosa che esiste in atto è moltiplicabile283. La precisione, infatti, che, come il numero, consiste nell’indivisibile, non è moltiplicabile, così come non è moltiplicabile il numero quattro o il numero cinque. Di conseguenza, l’umanità non diventa molteplice per il fatto di essere presente in una molteplicità di uomini 284, così come l’unità non di-
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in pluribus unis. Nec ipsa humanitas potest a pluribus hominibus, quibus dat nomen quod sint homines, aequaliter participari. Homines enim sunt ex participatione immultiplicabilis humanitatis et inaequali participatione, quae facit eos esse plures. Et sicut humanitas, uti est, est immultiplicabilis, ita et hic homo et cuncta. Omne etiam compositum ex partibus inaequalibus est compositum. Sic nec numerus compositus potest esse compositus nisi ex pari et impari, et cantus harmonicus ex grosso et acuto. 70 Patet omnia aequalia, quae sunt ipsa absoluta aequalitas, aequaliora fieri posse. Et hoc posse fieri omnium non diffinitur nec determinatur nisi per ipsam aequalitatem posse fieri praecedentem, quae sola est non aliud ab omni, cunctis inter se inaequaliter inaequalibus, licet nullum omnium sit aequalitatis expers, per quam quodlibet est id quod est aequaliter, quia nec plus nec minus et penitus non aliud quam id quod est. Nam aequalitas est verbum illud ipsius non aliud, scilicet dei creatoris se et omnia dicentis et diffinientis. Omnia igitur inter se inaequalia aequalitatem quasi cuiuslibet essendi formam participant, et in hoc aequalia sunt; et quia illam inaequaliter participant, inaequalia sunt. Concordant igitur pariter et differunt omnia. Quaecumque species, sicut est unitas uniens in se omnia suae speciei, ita et aequalitas aequaliter unita formans; similiter et omnium nexus. Et quia de aequalitate alias Romae late scripsi, haec sic sufficiant.
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venta molteplice per il fatto di essere presente in una molteplicità di cose unitarie. Inoltre, una molteplicità di uomini non può partecipare in modo uguale dell’umanità stessa, che è ciò che dà ad essi il nome di «uomini». Gli uomini, infatti, sono tali per il fatto che partecipano dell’umanità immoltiplicabile, e il fatto che ne partecipino in modo ineguale è ciò che fa sì che essi siano molteplici. E come l’umanità, così com’essa è, è immoltiplicabile, allo stesso modo è immoltiplicabile anche questo uomo particolare, e ogni altra cosa particolare. Inoltre, ogni composto è composto di parti inuguali. Pertanto, un numero composto non può essere composto se non dal pari e dal dispari 285, e un canto armonico dal grave e dall’acuto286. È evidente che tutte le cose uguali, che non sono la stessa uguaglianza assoluta, possono essere fatte più uguali. E questo poter-essere-fatto di tutte le cose è determinato solo dalla stessa uguaglianza, la quale precede il poter-essere-fatto e che essa sola è non-altro da ciò che essa è, mentre tutte le altre cose sono tra loro disuguali e lo sono in maniera disuguale, per quanto nessuna di esse sia priva dell’uguaglianza, grazie alla quale ogni cosa è ciò che essa è in modo uguale, in quanto non è né di più, né di meno di quello che essa è, ed è del tutto non-altro da ciò che essa è287. Infatti, l’uguaglianza è il Verbo dello stesso Non-altro, ossia di Dio creatore che, con la sua Parola, definisce se stesso e tutte le cose. Pertanto, tutte le cose, per quanto siano tra di loro disuguali, partecipano dell’uguaglianza come della forma d’essere di ognuna di esse, e sotto questo aspetto esse sono uguali; poiché, tuttavia, ne partecipano in modo ineguale, esse sono disuguali. Tutte le cose, pertanto, concordano e parimenti differiscono tra di loro288. Ogni specie, come è un’unita che unisce all’interno di sé tutte le cose che fanno parte di quella specie, così è anche una uguaglianza che forma in modo uguale tutte le cose che sono in essa unite, e, allo stesso modo, è anche il nesso che tutte le connette. E poiché sull’uguaglianza ho già scritto diffusamente in un’altra opera composta a Roma 289, quanto detto qui può essere per ora sufficiente.
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Capitulum XXIV
De octavo campo, scilicet nexu Nunc in campo nexus venationem facientes attendimus ante omnem divisionem nexum constitui. Hunc igitur indivisibilem videmus aeternitatem id esse, quod esse potest, posse fieri praecedentem, rectissime ab aeterna unitate et eius aequalitate procedentem. Sicut enim divisio procedit a pluralitate et inaequalitate, sic amorosus nexus ab unitate et aequalitate. Quae cum sint ante pluralitatem in indivisibili simplicissima aeternitate, erit similiter et ipsorum nexus aeternus. Sunt igitur unitas et ab ipsa genita aequalitas atque utriusque nexus ante posse fieri et pluralitatem divisivam simplex aeternitas. Aeterna enim unitas, aeterna ipsius aequalitas aeternusque utriusque nexus non sunt plura divisa aeterna, sed ipsa aeternitas implurificabilis et penitus indivisibilis et inalterabilis. Et licet unitas generans non sit aequalitas ab ea genita nec nexus ab eo procedens, tamen non est aliud unitas, aliud aequalitas, aliud nexus, cum sint non aliud, quod aliud antecedit. Sicut igitur aeterna unitas, quae id est quod esse potest, uniter in se omnia complicat et aequalitas omnia aequaliter, ita et nexus utriusque omnia in se nectit. 72 Omnia igitur quae sunt, quia ab hac aeterna trinitate – quae sic nominatur, licet minus proprie – id sunt quod sunt, video trinitatem imitari. In quolibet enim video unitatem, entitatem et utrius que nexum, ut sit actu id quod est: Entitas, quae et essendi forma, aequalitas est unitatis. Unitas enim uniens de se generat sui aequalitatem. Aequalitas unitatis non est nisi species seu forma essendi, quae entitas dicitur, quia Graece ‘entitas’ ab ‘uno’ dirivatur. Non
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CAPITOLO XXIV
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L’ottavo campo: il nesso Conducendo ora la nostra caccia nel campo del nesso, notiamo che il nesso viene costituito prima di ogni divisione290. Pertanto, vediamo che questa eternità indivisibile è ciò che può essere, che essa precede il poter-essere-fatto e che procede direttamente dall’Unità eterna e dalla sua Uguaglianza291. Infatti, come la divisione procede dalla molteplicità e dalla disuguaglianza, così il nesso d’amore292 procede dall’Unità e dalla Uguaglianza. E dal momento che l’Unità e l’Uguaglianza sono presenti nella semplicissima e indivisibile eternità prima di ogni molteplicità, anche il loro nesso sarà allo stesso modo eterno. Pertanto, l’Unità e l’Uguaglianza generata dall’unità e il Nesso dell’una e dell’altra sono, prima del poter-essere-fatto e della molteplicità che divide, la semplice eternità. Infatti, l’Unità eterna, l’eterna Uguaglianza dell’unità e il Nesso eterno dell’una e dell’altra non sono una molteplicità di realtà eterne divise tra di loro, ma solo l’eternità stessa, la quale è immoltiplicabile ed è del tutto indivisibile e inalterabile. E sebbene l’Unità generante non sia l’Uguaglianza generata da essa, né sia il Nesso che ne procede, ciò tuttavia non significa che l’Unità sia una cosa, un’altra cosa sia l’Uguaglianza e un’altra cosa il Nesso, dal momento che essi sono il Non-altro, il quale precede l’altro. Pertanto, come l’Unità eterna, che è ciò che può essere, complica in sé tutte le cose in modo unitario, e l’Uguaglianza complica in sé tutte le cose in modo uguale, così anche il Nesso dell’una e dell’altra connette in sé tutte le cose. Vedo, pertanto, che tutte le cose che sono imitano la Trinità, in quanto sono ciò che sono grazie a questa eterna Trinità, la quale viene chiamata così [ossia Trinità], sebbene in modo poco appropriato293. In ogni cosa, infatti, vedo l’unità, l’entità e il nesso dell’una e dell’altra, in modo tale che ogni cosa possa essere in atto ciò che essa è. L’entità, che è anche la forma dell’essere, è l’uguaglianza dell’unità. L’Unità uniente, infatti, genera da se stessa una uguaglianza con se stessa. L’Uguaglianza dell’unità non è se non la specie o la forma dell’essere – la quale viene chiamata «entità» perché in greco «entità» deriva da «uno»294. Ogni cosa che esiste, pertan-
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est igitur aliud omne exsistens nisi unitas et eius aequalitas, quae et entitas, et utriusque nexus. Unitas est fluxibilitatis constrictio, aequalitas uniti et constricti formatio, nexus utriusque amorosa conexio. Posse fieri, nisi ab uniente a sua confusa fluxibilitate constringeretur, non esset capax pulchritudinis sive speciei aut formae. Et quia constringitur ipsa unitate, quam talis constrictio requirit seu meretur. Quare ex his procedit utriusque nexus amorosus. 73
Capitulum XXV
De eodem Iam vides amorem, qui nexus est unitatis et entitatis, naturalissimum esse. Procedit enim ex unitate et aequalitate, quae sunt eius principium naturalissimum. Ab illis enim spiratur nexus, in quo desideriosissime conectuntur. Nihil igitur illius amoris expers, sine quo nec quicquam persisteret. Omnia igitur penetrat invisibilis conexionis spiritus. Omnes mundi partes intra se hoc spiritu conservantur et toti mundo conectuntur. Hic est spiritus animam corpori conectens, quo exspirato cessat vivificatio. Intellectualis natura numquam privabitur spiritu tali conexionis, cum ipsa sit spiritualis naturae. Unitas enim et entitas intellectualis naturae intellectuales cum sint, intellectuali nexu constringuntur. Nexus vero amoris intellectualis non potest deficere nec exspirare, cum intelligere pascatur immortali sapientia. Nexus igitur naturalis intellectualis naturae ad sapientiam inclinatae ipsam naturam intellectualem non solum, ut sit, conservat, sed ad id, quod naturaliter amat, ut illi conectatur, adaptat. Spiritus igitur sapientiae in spiritum intellectus, ut desideratum in desiderans, se-
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to, non è altro che una unità e una uguaglianza dell’unità, che è anche entità e un nesso dell’una e dell’altra. L’unità è una limitazione di ciò che è mutevole, l’uguaglianza è una formazione di ciò che è unito e limitato, ed il nesso è una connessione amorosa di entrambi. Se il poter-essere-fatto non venisse limitato nella sua disordinata mutevolezza da una forza unificante, esso non sarebbe in grado di accogliere alcuna bellezza, ovvero una specie o una forma. E poiché esso viene limitato da una unità che dirige tutte le cose verso un fine, la forma, che una tale limitazione richiede o merita, viene generata da questa stessa unità. Per questo stesso motivo, dall’unità e dalla forma da essa generata procede il nesso amoroso di entrambe. CAPITOLO XXV
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Sullo stesso argomento Comprendi ora che l’amore, che è il nesso dell’unità e dell’entità, è qualcosa di estremamente naturale295. Esso, infatti, procede dall’unità e dall’uguaglianza, che sono il suo principio assolutamente naturale. Dall’unità e dall’uguaglianza, infatti, spira il nesso, nel quale esse sono connesse con il più grande desiderio. Niente, pertanto, è privo di questo amore, senza il quale nessuna cosa potrebbe continuare ad esistere. Vi è pertanto uno spirito invisibile di connessione che pervade tutte le cose. Da questo spirito tutte le parti del mondo sono conservate in se stesse e sono connesse all’intero mondo. È questo spirito che tiene connessa l’anima al corpo, e una volta che esso è spirato cessa la vivificazione [del corpo]296. La natura intellettuale non sarà mai priva di un tale spirito di connessione, in quanto tale nesso è quello proprio di una natura spirituale. Infatti, dal momento che l’unità e l’essere di una natura intellettuale sono intellettuali, essi sono tenuti insieme da un nesso intellettuale. Il nesso dell’amore intellettuale, tuttavia, non può venire meno né può spirare, in quanto l’intendere si nutre della sapienza immortale. Pertanto, il nesso naturale della natura intellettuale, la quale è incline alla sapienza, non solo conserva la natura intellettuale, in modo tale che essa esista, ma la adatta anche all’oggetto che ama per natura, in modo tale che possa congiungersi ad esso. Lo spirito della sapienza, pertanto, discende nello spirito dell’intel-
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cundum fervorem desiderii descendit et convertit spiritum intelligentiae ad se, qui ei amore nectitur, – «ignis instar», ut ait Dionysius, quae «sibi unita iuxta singulorum aptitudinem» assimilat. Et in hoc amoris nexu felicitatur intellectus et vivit feliciter. Hoc pauci philosophi cognoverunt. Principium enim conexionis, sine quo nihil subsistit et omnis intellectualis natura felicitate careret, non reperitur eos cognovisse. Sed quia in illo defecerunt, veram sapientiam non attigerunt. Alibi multa de hoc, in variis etiam sermonibus, dixi et scripsi, quae sic recapitulasse sufficit. 74
Capitulum XXVI
De eodem Nunc vero subiciam manuductionem unam mathematicam, ut videas trinitatem praemissam, cum sit unitas, id esse quod esse potest, licet omnem intellectum antecedat et non nisi incomprehensibiliter comprehendatur per omnem humanam mentem; in qua deus tam ante posse fieri quam impossibile sic videtur, quasi sit illud quodlibet, quod impossibile sequitur. Praemitto autem lineam rectam esse curva simpliciorem, cum a recta curva declinans non sine concavo et convexo concipi possit. Deinde praesuppono primam figuram rectilineam terminatam esse triangulum, in quam omnes polygoniae resolvuntur ut in priorem et simpliciorem, ante quam nulla in quam resolvi possit. Cum autem linea sine longitudine non sit, tunc linea, quae non est sic longa quod longitudo, respectu ipsius, quae maior esse nequit, imperfecta est. Quare, si primum principium figurari posset, esset perfectus triangulus trium perfectorum laterum, quemadmodum hunc videt intellectus in posse fieri sensibilis trianguli hoc modo:
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letto a seconda dell’ardore del desiderio, come ciò che è desiderato discende in colui che desidera, e fa volgere verso di sé lo spirito dell’intelligenza, al quale si congiunge mediante l’amore297, «come fa il fuoco», come dice Dionigi il quale «rende simili a sé le cose ad esso unite, secondo l’attitudine propria di ciascuna»298. Ed in questo nesso d’amore l’intelletto trova la sua felicità e vive in modo felice. Pochi filosofi sono giunti a conoscere questa verità. Non mi risulta, infatti, che essi abbiano conosciuto il principio della connessione299, senza il quale non esiste nulla e ogni natura intellettuale sarebbe priva della felicità. Poiché in questo hanno errato, non hanno raggiunto la vera sapienza. Altrove ho detto e ho scritto molte cose a questo proposito, anche in diversi sermoni, per cui il riassunto che ne ho fatto qui può essere sufficiente. CAPITOLO XXVI
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Sullo stesso argomento Ti proporrò ora un esempio tratto dalla matematica, in modo che tu possa vedere che la Trinità, di cui abbiamo parlato, essendo una Unità, è ciò che può essere, sebbene essa preceda ogni intelletto e possa essere compresa da ogni mente umana solo in modo incomprensibile300; in questo esempio, Dio viene visto come anteriore tanto al poter-essere-fatto quanto a ciò che è impossibile, come se egli fosse quel qualcosa al quale segue l’impossibile. Premetto che la linea retta è più semplice della linea curva301, in quanto la linea curva, deviando dalla linea retta, non può essere concepita senza il concavo e il convesso. Presuppongo poi che il triangolo è la prima figura delimitata da rette; nel triangolo si risolvono tutti i poligoni, come in una figura anteriore è più semplice302, e prima del triangolo non c’è nessun’altra figura in cui esso possa essere risolto. Tuttavia, dal momento che non c’è nessuna linea che sia priva di una lunghezza, una linea che non sia così lunga quanto potrebbe esserlo la lunghezza è imperfetta rispetto ad una linea che non può essere più lunga. Per questo motivo, se si potesse raffigurare il primo principio, esso sarebbe un triangolo perfetto di tre lati perfetti, così come l’intelletto lo vede nel modo seguente nel poter-essere-fatto di un triangolo sensibile:
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ab recta. Et super uno eius puncto, puta c, describe quartam circuli, cuius semidiameter sit cb. Et trahe aliam semidiametrum cd. Et db arcus sit quarta, cuius medium sit f. Et trahe cordam db. Deinde continua cd et cb in infinitum. Et super c describe quartam circuli maioris, quae sit gh, cuius medium i. Et trahe, ut prius, cordam gh et trahe rectam circumscriptam arcui gh, quae sit kil. Certum est cdfb figuram triangularem habere circa centrum angulum rectum et circa arcum duos angulos, quorum quisque maior semirecto, quantum cadit supra cordam et infra arcum de angulis. Et quia in maiori circulo, scilicet cgih, anguli circa arcum sunt maiores quam in minori circulo – maior enim est angulus incidentiae super gh cordam cadens quam super cordam db –, quare certum est angulos illos ex semidiametro et arcu continue posse fieri maiores, quando arcus est maioris circuli. Si igitur foret possibile designare arcum circuli maximi, qui maior esse non posset, illi anguli circa arcum necessario forent id, quod acuti anguli esse possent, et ita forent recti. Quando enim acutus angulus maior esse non potest, tunc est rectus. Et quia arcus cadens super duas rectas semidiametrales constituit duos rectos angulos, non est possibile, quin ille arcus sit linea recta. 76 Sit igitur triangulus ckl ille, quem sic mente intueor. Utique, cum ck sit semidiameter circuli, qui non potest esse maior, erit et
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Sia ab una retta. E su uno dei suoi punti, ad esempio c, traccia un quadrante il cui raggio sia cb. E traccia un altro raggio cd; db sia un arco quadrante il cui mezzo sia f. E traccia la corda db. Poi prolunga cd e cb all’infinito. E sul punto c traccia il quadrante di un cerchio più grande, il quale sia gh il cui mezzo sia i. E traccia come prima la corda gh e una tangente all’arco gh, la quale sia kil. È certo che la figura triangolare cdfb ha nel centro un angolo retto e nell’arco due angoli, ognuno dei quali è maggiore della metà di un angolo retto ed è tanto maggiore quanto è più grande l’angolo compreso tra la corda e l’arco. Ora, nel cerchio più grande, cioè cgih, gli angoli nell’arco sono più grandi di quelli del cerchio più piccolo, perché l’angolo di incidenza che cade sulla corda gh è più grande di quello che cade sulla corda db; per questo, è certo che questi angoli formati dal raggio e dall’arco possono diventare sempre più grandi quando l’arco è di un cerchio [sempre] più grande. Pertanto, se fosse possibile tracciare l’arco di un cerchio massimo, di un cerchio, cioè, che non potesse essere più grande, gli angoli di questo arco sarebbero tutto ciò che gli angoli acuti potrebbero essere, e così sarebbero degli angoli retti. Infatti, quando un angolo acuto non può essere più grande, allora è un angolo retto. E poiché l’arco che cade sulle due rette, che sono i raggi, forma con esse due angoli retti, non è possibile che questo arco non sia una linea retta303. Sia pertanto il triangolo ckl quello che io colgo intuitivamente con la mia mente. Certamente, dal momento che ck è il raggio di un cerchio che non può essere più grande, anche il raggio ck sarà una
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semidiameter ck linea, quae maior esse non potest. Sic et cl. Arcus autem kl non potest esse minor. Nam arcus quadrantis quomodo foret minor semidiametro circuli? Erunt igitur omnes illae lineae, quae latera sunt trianguli, aequales. Et quoniam quaelibet est maxima, ideo, si ad quodlibet latus trianguli aliud aut duo alia adderes, non fieret maius. Quodlibet igitur latus est aequale cuilibet et duobus et omnibus simul. Deinde, angulus extrinsecus, scilicet kca, aequatur duobus intrinsecis sibi oppositis. Et quia ack est ut kcl, duo anguli recti ckl et clk erunt ut kcl. Et quia omnis triangulus habet tres angulos aequales duobus rectis, et quilibet angulus ex dictis aequatur duobus rectis, aequatur igitur quilibet angulus omnibus tribus. Sic quilibet est aequalis alteri et aequalis aliis duobus et aequalis omnibus tribus; essetque omnium figurarum figurabilium complicatio, ut principium, et resolutio, ut finis atque mensura praecisissima. Constat igitur, si posse fieri sic perficeretur, quod penitus ad actu esse deduceretur ut foret possest, illa sic necessario evenirent. 77 Certissimus autem sum, si haec qualitercumque necessaria video, incomparabiliter verius in possest actu esse. Non enim potest quicquam rationabiliter videri, quo ipsum possest careat, cum omnia comprehensibilia et omnem comprehensionem excedentia perfectissime actu exsistat, beato Anselmo veraciter asserente deum esse maius quam concipi possit. Et clarius dicit sanctus Thomas in libello De aeternitate mundi sic aiens: «Cum enim ad omnipotentiam dei pertineat, ut omnem intellectum et virtutem excedat, expresse omnipotentiae derogat, qui dicit aliquid posse intelligi in
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linea che non può essere più grande. E lo stesso vale per cl. Ora, l’arco kl non può essere più piccolo [di ck o cl]. L’arco di un quadrante, infatti, come potrebbe essere più piccolo del raggio di un cerchio? Pertanto, tutte queste linee, che sono i lati del triangolo, saranno uguali. E poiché ognuna di esse è massima, se tu aggiungessi ad un lato qualsiasi del triangolo un altro lato o gli altri due lati, esso non diventerebbe più grande. Ogni lato, pertanto, è uguale a qualsiasi altro lato, ed è uguale agli altri due lati presi insieme e a tutti i lati presi insieme. Inoltre, l’angolo esterno, ossia kca, è uguale ai due angoli interni che sono opposti ad esso [ossia, ckl e clk]. E poiché ack è come kcl, i due angoli retti ckl e clk saranno come kcl. Ma poiché ogni triangolo ha tre angoli uguali a due angoli retti, e poiché ognuno degli angoli menzionati è uguale a due angoli retti, ogni angolo è pertanto uguale a tutti e tre. Così, ogni angolo è uguale ad ogni altro, è uguale agli altri due presi insieme ed è uguale a tutti e tre presi insieme. Un tale triangolo, inoltre, sarebbe la complicazione di tutte le figure che si possono raffigurare, in quanto sarebbe il principio da cui esse derivano e in cui esse si risolvono304 e sarebbe il loro fine e la loro misura precisissima. È evidente che, se il poter-esserefatto [di questo triangolo] fosse così perfetto da passare compiutamente all’essere in atto, in modo tale da essere il potere-che-è, allora tutte le conseguenze di cui abbiamo parlato si realizzerebbero necessariamente nel modo che abbiamo detto. Ma se vedo che tutte queste conseguenze sono in qualche modo necessarie, allora sono assolutamente certo che, nel potereche-è, esse sono in atto in modo incomparabilmente più vero. Non c’è infatti nulla che si possa vedere con la ragione di cui il potereche-è sia privo, in quanto il potere-che-è è in atto e in modo assolutamente perfetto tutte le cose che sono comprensibili e tutte le cose che trascendono ogni comprensione. Come dice giustamente il beato Anselmo, Dio è più grande di quanto lo si possa concepire305. Ed in modo ancora più chiaro si esprime San Tommaso nel suo libro L’eternità del mondo306, quando dice: «Dal momento che è proprio della onnipotenza di Dio di trascendere ogni intelletto ed ogni forza, si allontana espressamente dalla onnipotenza chi dice che nelle creature si può conoscere qualcosa che non può
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creaturis, quod a deo fieri non possit.» Igitur in ipso possest actu aeterno video triangulum maximum sic se habere, ut praemittitur. Est igitur possest ante omnem quantitatem corpoream, quoniam in corporali quantitate sive discreta sive continua possest non est reperibile, sed est ante omne sensibile et intelligibile et omne finitum. In omnibus enim illis, quae concipi possunt, non reperitur trinitas, quae unitas, sive unitas, quae trinitas. 78 Vides etiam posse fieri unius naturae in eandem non terminari, quia alterius naturae est possest et posse fieri. Puta calefactibile, si id esse debet quod esse potest, non erit calefactibile, sed tantum calefaciens. Ligna possunt plus et plus calefieri. Quando autem in tantum sunt calefacta, quod non possunt plus calefieri, tunc oritur actu ignis ex potentia, qui non potest plus calefieri, sed solum calefacit. Et si in uno calefactibili citius devenitur ad calefaciens quam in alio, est, quia unum citius venit ad terminum suae calefactibilitatis quam aliud. Et illud, quod numquam ita calefit, quin possit plus calefieri, numquam venit ad terminum, ut fiat ignis. Calefaciens tantum in calefactibili est calefaciens in potentia. Quando igitur de potentia venit in actum, nihil essentialiter novi oritur. Idem enim de uno essendi modo in alium pervenit. In omni igitur calefactibili cum sit ignis in potentia, licet in uno in propinqua et in alio in remota, ostendit in omni re huius mundi ignem latitare. Omnia enim aut calefaciens sunt ignis aut calefactibile. Sed cum ignis non frigidefactibilis , licet ignis in actu sit exstinguibilis vel suffocabilis, ideo in igne non est aqua in potentia, et est inalterabilis, ut dicit Dionysius. 79 Haec est ratio regulae doctae ignorantiae, quod in recipientibus magis et minus numquam devenitur ad maximum simplici-
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essere fatta da Dio». Nel potere-che-è, che è eternamente in atto, vedo pertanto che il triangolo massimo esiste nel modo che abbiamo precedentemente descritto. Il potere-che-è, quindi, è anteriore ad ogni quantità materiale, poiché nella quantità materiale, sia essa discreta o continua, non è possibile trovare il potere-che-è, il quale, piuttosto, precede tutto ciò che è sensibile o intelligibile, ed in generale tutto ciò che è finito. In nessuna delle cose che si possono concepire, infatti, si trova quella trinità che è unità, o quella unità che è trinità. Vedi anche che il poter-essere-fatto di una natura non raggiunge il suo limite in quella stessa natura, perché il potere-che-è e il potere-essere-fatto sono di natura diversa. Ad esempio, se ciò che è riscaldabile dovesse essere [tutto] ciò che esso può essere, allora non sarebbe più ciò che è riscaldabile, ma sarebbe solamente ciò che riscalda. La legna può essere resa sempre più calda. Quando tuttavia è stata riscaldata a tal punto da non poter essere resa più calda, allora dalla sua potenza scaturisce il fuoco in atto, il quale non può essere reso più caldo, ma riscalda solamente. E se con un oggetto riscaldabile si giunge a ciò che riscalda più rapidamente che con un altro oggetto, ciò avviene perché un oggetto giunge più rapidamente di un altro al limite della sua riscaldabilità. E se un oggetto non viene mai reso così caldo da non poter essere reso ancora più caldo, allora esso non giunge mai al suo limite, e pertanto non diventa mai fuoco. In ciò che è riscaldabile il riscaldante è riscaldante solo in potenza. Pertanto, quando il riscaldante passa dalla potenza all’atto, non nasce nulla di essenzialmente nuovo. Si tratta infatti della stessa cosa che passa da un modo d’essere ad un altro. Pertanto, dal momento che il fuoco è presente in potenza in ogni cosa riscaldabile, anche se in una cosa in modo più vicino e in un’altra in modo più lontano, questo fatto mostra che il fuoco si nasconde in ogni cosa di questo mondo. Tutte le cose, infatti, o sono fuoco che riscalda o sono ciò che può essere riscaldato. Tuttavia, dal momento che il fuoco non può essere raffreddato, per quanto un fuoco in atto possa essere estinto o soffocato, l’acqua non è presente in potenza nel fuoco, ed il fuoco è inalterabile, come dice Dionigi307. Questo è il significato della regola della dotta ignoranza308, secondo la quale nelle cose che ammettono il più e il meno non si
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ter vel minimum simpliciter, licet bene ad actu maximum et minimum. Quando enim calefactibile ad maximum simpliciter pervenerit, non est calefactibile, sed calefaciens. Est enim calefaciens maximum calefactibilis; sic frigefaciens maximum frigefactibilis, et naturaliter movens maximum mobilis, et generaliter in natura faciens maximum factibilis. Non est factibilitas potentia faciens, sed in ipsa factibilitate faciens est in potentia. Factibile enim numquam fit faciens, sed potentia faciens in termino factibilitatis in actum pervenit. Unde calefactibile numquam fit calefaciens ignis, licet ignis in potentia in ipso calefactibili exsistens in termino calefactibilis actum perveniat. Et ita in termino intelligibilium videtur intellectus agens. Terminus autem intelligibilium est actus. Sic intelligibile in actu est intellectus in actu, et sensibile in actu est sensus in actu. Sic in termino illuminabilium lumen illuminans et in termino creabilium creator creans, qui in creabilibus potest videri; sed actu non nisi in termino creabilium, qui est terminus interminus seu infinitus. Magna enim est venatio per rete huius regulae saepedictae. 80
Capitulum XXVII
De nono campo, scilicet termini Campus prope nexum, quem terminum appello, plenus desideratis praedis, venationi aptissimus, maximus et interminus est, quia magnitudinis eius non est finis. Non enim habet nec principium nec finem; sed principia, media et fines omnium terminabi-
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giunge mai al massimo in quanto tale o al minimo in quanto tale, per quanto si arrivi a ciò che è massimo in atto e a ciò che è minimo in atto. Infatti, una volta che ciò che è riscaldabile è giunto al massimo in quanto tale, esso non è più qualcosa di riscaldabile, ma è qualcosa che riscalda. Il massimo nell’ambito del riscaldabile, infatti, è il riscaldante; allo stesso modo, il massimo nell’ambito del raffreddabile è il raffreddante, il massimo nell’ambito di ciò che è mobile è ciò che muove per natura, ed in generale, nella natura, il massimo nell’ambito di ciò che causabile è il causante. La causabilità non è il causante presente in potenza; tuttavia, nella causabilità è presente in potenza il causante. Il causabile, infatti, non diventa mai il causante; piuttosto, quando il causabile è pervenuto al suo limite estremo, allora il causante, che è presente in potenza in esso, giunge ad essere in atto. Di conseguenza, ciò che è riscaldabile non diventa mai il fuoco riscaldante, sebbene, quando ciò che riscaldabile è pervenuto al limite estremo, il fuoco, che esiste in potenza nell’oggetto riscaldabile, giunga ad essere in atto. Ed allo stesso modo al limite estremo di ciò che è intelligibile vediamo l’intelletto agente. Il limite estremo di ciò che è intelligibile è tuttavia un atto. Così, l’intelligibile in atto è l’intelletto in atto e il sensibile in atto è il senso in atto. Allo stesso modo, al limite estremo di ciò che è illuminabile c’è la luce illuminante, e al limite estremo degli esseri creabili c’è il creatore che crea, il quale può essere visto negli esseri creati, ma che è presente in atto solo al limite estremo degli esseri creati, un limite, questo, che è senza limite o infinito. Grande è in effetti la caccia che può essere fatta con la rete di questa regola [della dotta ignoranza] di cui abbiamo spesso parlato. CAPITOLO XXVII
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Il nono campo: il limite Il campo che si trova vicino al nesso e che io chiamo «limite» è ricco della selvaggina che noi desideriamo, è estremamente adatto alla caccia ed è massimo e senza limite, in quanto la sua grandezza non ha fine. Esso, infatti, non ha né un principio, né una fine, ma ha piuttosto in sé i principi, i mezzi e i fini di tutte le cose determina-
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lium in se habet, sicut radix omnipotentiae in sua virtute omnia continens cuncta explicat universaque determinat. Consistunt singula in sua praecisione, ut non sint aliud quam id quod sunt. Sed interminus terminus omnium finibilium finis est et omnium praecisionum praecisio et terminus. Terminus, qui est omne quod esse potest, est ante omnem terminum eorum quae fieri possunt. Determinat igitur cuncta diffinitque singula. Est enim terminus ipsius posse fieri utique interminus, omnia in se determinate, quae fieri possunt, ante habens; terminus igitur omnium rerum et omnium scientiarum. 81 Quid est autem quod terminum ponit nisi mens et sapientia? Mens enim, ut optime Anaxagoras videbat, confusam possibilitatem determinat et discernit movetque cuncta, ut ad terminum suum, quem eis praedeterminavit, perveniant. Haec rerum exemplaria diffinivit, quae sunt – ut optime vidit Dionysius De divinis scribens nominibus – rerum rationes in ipsa praeexsistentes, secundum quas divina sapientia omnia praedestinavit seu praedeterminavit produxitque. Quid igitur aliud sunt exemplaria illa, de quibus etiam supra habes, quam termini determinantes omnia? Certum est omnium illarum divinam mentem terminum. Ipsa enim illa in se rationabiliter determinavit. Dum respicis ante posse fieri et humaniter consideras deum ab aeterno concepisse velle creare, utique, cum nihil esset creatum, neque caelum neque terra neque angeli nec aliud quicquam, non fuerunt illa plus creabilia quam alia, quae nihil commune cum istis habent et de quibus nullum possumus conceptum facere. Sed deus ipse determinavit intra suum conceptum, quod mundum istum seu hanc, quam videmus, pulchram creaturam crearet. 82 Omnia igitur ex determinatione mentis in se ipsa suum terminum sic et sic essendi receperunt. Et secundum hunc aeternum
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bili309, così come la radice dell’onnipotenza, che contiene nella sua forza tutte le cose, le esplica tutte e tutte quante le determina. Le singole cose consistono in una precisione che è propria di ciascuna di esse, in modo tale da non essere altro da ciò che sono. Ma il limite che non ha limite è il fine di tutte le cose che sono definibili ed è il limite e la precisione di tutte le precisioni. Il limite, che è tutto ciò che può essere, è anteriore ad ogni limite che è proprio delle cose che possono essere fatte310. Esso, pertanto, determina tutte le cose e definisce ogni singola cosa. Infatti, il limite del potere-essere-fatto è certamente illimitato, e contiene precedentemente in se stesso ed in modo determinato tutte le cose che possono essere fatte; esso, pertanto, è il limite di tutte le cose e di ogni conoscenza. Ma che cos’è ciò che pone un limite se non la mente311 e la sapienza? La mente, infatti, come ha visto benissimo Anassagora312, delimita la possibilità disordinata e distingue e muove tutte le cose in modo tale che esse giungano ad acquisire il limite che è loro proprio e che la mente ha predeterminato per esse. La mente ha definito questi esemplari delle cose, i quali – come vide benissimo Dionigi quando scrisse I nomi divini313 – sono le ragioni delle cose che preesistono nella mente [divina] e secondo le quali la sapienza divina ha predeterminato ed ha prodotto tutte le cose314. Che cosa sono dunque questi esemplari, di cui ti ho parlato anche in precedenza, se non i limiti che determinano tutte le cose? È certo che la mente divina è il limite di tutte queste ragioni delle cose. È la mente divina, infatti, che ha determinato razionalmente in se stessa questi esemplari. Se volgi il tuo sguardo a ciò che precede il poter-essere-fatto e consideri, da un punto di vista umano, che Dio ha concepito sin dall’eternità di voler creare, allora, dal momento che nulla era stato ancora creato, né il cielo, né nella terra, né gli angeli, né nessun altra cosa, queste realtà non erano certamente più creabili di altre che non hanno nulla in comune con esse e delle quali non possiamo formarci alcun concetto. Invece, Dio stesso ha determinato nel suo concetto che egli avrebbe creato proprio questo mondo, ossia questa bella creazione che noi vediamo. Pertanto, dalla determinazione che la mente [divina] ha compiuto in se stessa tutte le cose hanno ricevuto un limite, per il quale esse sono in questo o in quel modo. E nel creare il poter-essere-fat-
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conceptum, creando posse fieri, ipsum determinavit ad mundum et eius partes in aeternitate praeconceptum. Non enim posse fieri vagum et indeterminatum, sed ad finem et terminum, ut fieret mundus iste et non aliud, creatum est. Conceptus igitur ille, qui et verbum mentale seu sapientia dicitur, terminus est, cuius non est terminus. Non enim praecessit ipsam mentem divinam alia mens, quae ipsam determinaret ad creandum hunc mundum. Sed quia ipsa mens aeterna libera ad creandum et non creandum vel sic vel aliter, suam omnipotentiam, ut voluit, intra se ab aeterno determinavit. Mens enim humana, quae est imago mentis absolutae, humaniter libera omnibus rebus in suo conceptu terminos ponit, quia mens mensurans notionaliter cuncta. Sic ponit terminum lineis, quas facit longas vel breves, et tot ponit punctales terminos in ipsis, sicut vult. Et quidquid facere proponit, intra se prius determinat et est omnium operum suorum terminus. Neque cuncta quae facit ipsam terminant, quin plura facere possit, et est suo modo interminus terminus. De quo in libro De mente scripsimus. 83
Capitulum XXVIII
De eodem Palam igitur divinam sapientiam in hoc campo latere et diligenti venatione reperiri. Nam haec est, quae posuit terminum mari et aridae, soli, lunae, stellis et motui eorum legemque determinavit omni creaturae, quam praeterire non potest. Determinavit speciem, orbem seu locum singulis. Posuit terram in medio, quam gravem esse et ad centrum mundi moveri determinavit, ut sic semper in medio subsisteret et neque sursum neque lateraliter declina-
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to secondo questo suo concetto eterno, la mente divina lo ha ordinato in modo determinato secondo quel concetto di mondo e delle sue parti che aveva preconcepito nell’eternità. Infatti, il poter-essere-fatto non è stato creato in modo vago e indeterminato, ma secondo un fine e un termine, affinché cioè esso diventasse questo mondo e non qualcos’altro. Quel concetto, pertanto, che viene anche chiamato Verbo [della mente divina] o Sapienza è un limite che non ha alcun limite. Nessun’altra mente, infatti, ha preceduto la mente divina e l’ha determinata a creare questo mondo. Ma, poiché la mente [divina] eterna è libera di creare e di non creare315, di creare in questo modo o in un altro, è essa che, sin dall’eternità, ha determinato dentro di sé la sua onnipotenza, così come ha voluto. La mente umana, che è un’immagine della mente assoluta316 e che è libera secondo il modo che è proprio dell’uomo, pone nei suoi concetti limiti a tutte le cose, in quanto la mente è ciò che misura con le sue nozioni tutte le cose317. In questo senso, la mente delimita le linee, che essa fa più lunghe o più brevi, e vi pone come limiti i punti che essa vuole318. E qualunque cosa si propone di fare, la mente la determina prima dentro di sé, ed è [pertanto] il limite di tutte le sue opere319. Inoltre, tutte le cose che essa fa non la limitano al punto che essa non possa farne di più, per cui essa è, a suo modo, un limite senza limite320. Su questo argomento ho scritto nel mio libro La mente. CAPITOLO XXVIII
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Sullo stesso argomento È evidente che la sapienza divina si trova nascosta in questo campo e per scoprirla occorre una caccia accurata. È la sapienza divina, infatti, che ha posto un limite al mare e alla terra, al sole, alla luna, alle stelle e ai loro movimenti e che ha determinato per ogni creatura una legge che essa non può trasgredire. La sapienza divina ha determinato le specie, l’ambito o il luogo per ogni singolo essere. Ha posto la terra nel mezzo ed ha determinato che fosse pesante e che si muovesse verso il centro del mondo, in modo tale che, così, essa rimanesse sempre nel mezzo e non deviasse né di lato, ne
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ret. Determinavit omni creaturae suam mensuram, suum pondus et numerum. Et ita omnia mens divina determinavit sapientissime, ita quod nihil caret ratione cur sic et non aliter; et si aliter, omnia confusa. Mens igitur divina mensura et terminus omnium, quia ratio et diffinitio sui et omnium. 84 Posse igitur fieri perfectionis et termini specierum non terminatur in se ipsis, sed termino intermino ipsarum. Ideo non habent exemplaria nisi mentem divinam, per quam id sunt quod sunt, et ad ipsam terminantur. Nam ipsa est ratio, quae maior perfectiorque esse non potest; ideo et mens ipsa. Ratio enim in tantum perfecta, in quantum mens seu intellectus in ipsa relucet. In variis igitur rationibus varie lucet, in una perfectius quam in alia. Ratio igitur, quae perfectior esse non potest, cum sit omne id quod esse potest, est mens ipsa aeterna. Omnium igitur rerum rationes seu exemplaria ad illam aeternam rationem respiciunt, in qua terminantur perfectissime, quia non sunt validae et perfectae rationes, nisi in quantum de illa, quae mens est aeterna, participant, cuius participatione id sunt quod sunt. Exemplarium igitur varietas non est nisi ex varia rationum participatione varie rationem aeternam participantibus. 85 Omnia igitur, quae suis exemplaribus specifice determinantur, contentantur, quia in suis speciebus eorum posse fieri determinatur. In quibus speciebus aeternam rationem divinamque mentem omnium optimam creatricem participant. Species igitur, cum sit specifica determinatio ipsius posse fieri, ostendit illa eiusdem speciei, quorum posse fieri in idem, si fieret, terminaretur. Sic omnes homines eiusdem sunt speciei, quia, si fieret quilibet homo id,
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verso l’alto. Per ogni creatura ha determinato la sua misura, il suo peso e il suo numero321. E in questo modo la mente divina ha determinato tutte le cose nella maniera più sapiente, cosicché nessuna è priva di una ragione per la quale esiste in quel determinato modo e non altrimenti; e se esistesse in un altro modo, tutto sarebbe allora privo di ordine. La mente divina, pertanto, è la misura e il limite di tutte le cose, in quanto è la ragione e la definizione di se stessa e di tutte le cose. Pertanto, il poter-essere-fatto che concerne la perfezione e il limite delle specie ha il suo limite ultimo non in queste specie, ma nel loro limite senza limite322. Per questo motivo, le specie hanno come esemplari solo la mente divina, grazie alla quale esse sono ciò che sono e rispetto alla quale esse sono limitate. La mente divina, infatti, è una ragione che non può essere più grande e più perfetta [di quello che è]; per questo, tale ragione è la mente stessa. Una ragione, infatti, è perfetta nella misura in cui risplende in essa la mente o l’intelletto. Di conseguenza, la mente risplende in modo diverso nelle diverse ragioni, in una maniera più perfetta che in un’altra. Pertanto, dal momento che la ragione che non può essere più perfetta è tutto ciò che può essere, essa è la stessa mente eterna. Le ragioni o gli esemplari di tutte le cose guardano quindi a quella ragione eterna, nella quale hanno il loro limite in modo assolutamente perfetto, poiché esse sono ragioni valide e perfette solo in quanto partecipano di quella ragione che è la mente eterna, partecipando della quale esse sono ciò che sono. La varietà degli esemplari, pertanto, non dipende che dalla diversa partecipazione delle ragioni, le quali partecipano in modo diverso della ragione eterna. Tutte le cose, pertanto, che dai loro esemplari sono determinate nel loro essere specifico, sono contente, in quanto il loro potere-essere-fatto è determinato nelle loro specie. In queste specie esse partecipano della ragione eterna e della mente divina, creatrice ottima di tutte le cose. Di conseguenza, la specie, essendo una determinazione specifica del poter-essere-fatto, mostra quali sono le cose che appartengono alla stessa specie, quelle cose, cioè, il cui poter-essere-fatto, se venisse attuato, troverebbe il suo limite in quella specie. Ad esempio, tutti uomini appartengono alla stessa specie, perché, se si potesse fare di ogni uomo [tutto] ciò che l’uomo potrebbe di-
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quod homo fieri posset, cuiuslibet fieri posse perfectio in ratione exemplari seu homine intelligibili terminaretur. Sicut de omnibus circulis, quorum quisque, si fieret ita perfectus, sicut circulus fieri posset, in ratione illa exemplari aequedistantiae centri a circumferentia terminaretur; ideo cuncti eiusdem speciei. Et qui hoc non attenderunt, saepe decepti sunt negantes eiusdem speciei esse, quae erant, et affirmantes, quae non erant. 86
Capitulum XXIX
De eodem Quoniam mens nostra non est principium rerum nec essentias earum determinat – hoc enim divinae mentis –, est principium suarum operationum, quas determinat, et in sua virtute cuncta notionaliter complicantur. Frustra se plerique venatores fatigarunt quaerentes rerum essentias apprehendere. Nihil enim apprehendit intellectus, quod in se ipso non repperit. Essentiae autem et quiditates rerum non sunt in ipso ipsae, sed tantum notiones rerum, quae sunt rerum assimilationes et similitudines. Est enim virtus intellectus posse se omnibus rebus intelligibilibus assimilare. Sic sunt in ipso species seu assimilationes rerum. Ob hoc dicitur locus specierum. Sed nequaquam est essentia essentiarum. Supervacue igitur in intelligi suo quaerit rerum essentias, quae ibi non sunt. Sicut enim visus in sua virtute et potentia non habet nisi visibiles species seu formas, et auditus audibiles: ita et intellectus in sua virtute et potentia non habet nisi formas species. Deus vero solus in sua virtute et potentia causali continet omnium rerum essentias et essentiales formas. 87 Quapropter, licet omnia in visu sint visibiliter, tamen propterea visus non potest attingere intelligibilia, quae suam virtutem prae-
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ventare, il poter-essere-fatto di ognuno troverebbe il suo limite nella ragione esemplare, ossia nell’uomo intelligibile. Lo stesso vale per tutti i cerchi323: se si potesse rendere ogni cerchio così perfetto come il cerchio potrebbe diventare, ciascuno di essi troverebbe il suo limite in quella ragione esemplare che è l’equidistanza del centro dalla circonferenza; per questo, tutti i cerchi appartengono alla medesima specie. Coloro che non hanno prestato attenzione a questo fatto si sono spesso ingannati, e così hanno negato essere della medesima specie cose che invece lo erano, ed hanno affermato essere della medesima specie cose che non lo erano. CAPITOLO XXIX
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Sullo stesso argomento La nostra mente non è il principio delle cose, né determina le loro essenze: questo, infatti, è un compito proprio della mente divina. La nostra mente, piuttosto, è il principio delle sue operazioni, che è essa a determinare, e nella sua forza tutte le cose sono complicate in modo concettuale324. Molti cacciatori [della sapienza] si sono affaticati invano cercando di apprendere le essenze delle cose325. L’intelletto, infatti, non apprende nulla che esso non trovi in se stesso. Ma le essenze e le quiddità delle cose non sono presenti in quanto tali nell’intelletto; in esso sono piuttosto presenti soltanto le nozioni delle cose, le quali sono assimilazioni e similitudini delle cose326. La forza dell’intelletto, infatti, consiste nel potersi assimilare a tutte le cose intelligibili327. Nell’intelletto, pertanto, vi sono le specie o le assimilazioni delle cose328. Per questo, l’intelletto viene chiamato il luogo delle specie. L’intelletto, tuttavia, non è in alcun modo l’essenza delle essenze. Esso pertanto cerca inutilmente nel suo intendere le essenze delle cose, che lì non vi sono. Infatti, come la vista ha nella sua forza e potenza solo le forme o le specie visibili e l’udito solo quelle udibili, così anche l’intelletto ha nella sua forza e potenza solo le forme o le specie intelligibili. Solo Dio, invece, contiene nella sua forza e potenza causale le essenze e le forme essenziali di tutte le cose329. Perciò, sebbene tutte le cose siano presenti in modo visibile nella vista, la vista non può tuttavia per questo giungere a cogliere gli
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cedunt et excedunt, neque directe audibilia, quae in sua potestate non includuntur. Attingit tamen aliquando illa indirecte in signis et scripturis visibilibus, nequaquam autem directe aut indirecte intelligibilia, cum sit post illa et insufficientis virtutis apprehensivae ad illa. Sic intellectus essentiales rerum formas et quiditates, cum sint ante notionalem suam virtutem et ipsam excedant, nequaquam attingere potest, ut intelligat, licet coniecturas de ipsis per ea quae intelligit facere possit. Solus deus, creator et dator formarum illarum essentialium, illas in se ipso intuetur. Deus enim proprie non intelligit, sed essentiat. Et hoc esse terminum omnium. Nam posse fieri intelligens non terminatur nisi in intellectu, qui est quod esse potest. Ideo eius intelligere non oritur ex rebus, sed res sunt ex ipso. Intellectus vero noster intelligit, quando se assimilat omnibus. Nihil enim intelligeret, nisi se intelligibili assimilaret, ut intra se legat, quod intelligit, scilicet in suo verbo seu conceptu. Neque intellectus propriam suam quiditatem et essentiam intra se attingere potest nisi modo quo alia intelligit, formando – si potest – ipsius intelligibilem assimilationem, sicut nec visus videt se. Nisi enim visus fieret visibilis, quomodo videret? Sed bene ex eo quia homo videt alia, attingit quia est in eo visus; non tamen videt visum. Sic homo se intelligere sciens intelligit, quia est in eo intellectus, non tamen intelligens quid sit. Haec supra tacta sunt, ubi recitatur responsum Indi. Divina enim essentia cum sit incognita, consequens est nullam rerum essentiam cognitione posse comprehendi. 88 Et adverte, quomodo dixi supra notiones rerum sequi res. Virtus igitur intellectiva ad rerum notiones se extendit et ideo sequitur
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oggetti intelligibili, i quali precedono e trascendono la forza della vista, né può giungere a cogliere direttamente le cose udibili, le quali non sono incluse nella sua capacità. Talvolta, tuttavia, la vista giunge a cogliere questi suoni indirettamente, nei segni e negli scritti visibili, ma essa non giunge mai, né direttamente né indirettamente, a cogliere gli oggetti intelligibili. La vista, infatti, viene dopo gli oggetti intelligibili e non ha alcuna forza che sia sufficiente per apprenderli. Allo stesso modo, l’intelletto non può giungere a cogliere le forme essenziali e le quiddità delle cose, in modo da intenderle, perché esse precedono la sua forza concettuale e la trascendono330, anche se, mediante le cose che intende, può fare delle congetture su di esse. Solo Dio, che è il creatore e il datore di queste forme essenziali, le intuisce in se stesso. Parlando in senso proprio, Dio non intende [le essenze], ma costituisce le essenze331. Nel fare questo, egli è il limite di tutte le cose. Infatti, il poter-essere-fatto, che è proprio dell’intendere, non raggiunge il suo limite se non in quell’intelletto che è tutto ciò che può essere. Per questo, l’intendere di un tale intelletto non nasce dalle cose, ma sono le cose che nascono da esso. Il nostro intelletto, invece, intende quando si assimila a tutte le cose. Non intenderebbe nulla, infatti, se non si assimilasse all’intelligibile, in modo da poter leggere dentro di sé, ossia nel suo verbo o nel suo concetto, ciò che intende. E l’intelletto non può giungere a cogliere dentro di sé neppure la sua propria essenza o quiddità, se non nello stesso modo in cui intende le altre cose, formando cioè, se può, una assimilazione intelligibile di se stesso. In modo analogo, anche la vista non vede se stessa. Se la vista non diventasse visibile, infatti, come potrebbe vedere se stessa? Ma l’uomo giunge a cogliere che in lui c’è la vista proprio per il fatto che vede altre cose; tuttavia egli non vede la sua vista. Allo stesso modo, sapendo di intendere l’uomo intende che c’è in lui l’intelletto, ma non intende che cosa esso sia. Ho accennato a queste cose anche in precedenza, quando ho riferito la risposta dell’indiano332. Infatti, dal momento che l’essenza divina è sconosciuta, ne consegue che non è possibile comprendere con la conoscenza nessuna essenza delle cose. Ricordati, inoltre, di quanto ho detto prima, ossia che le nozioni delle cose sono successive alle cose333. La facoltà intellettiva,
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rerum essentias. Sed essentia illius virtutis prior est virtute sua et essentiis ignobilioribus sensitivis, quae post ipsam sunt. Non enim essentia animae intellectivae est sua virtus et potentia. Hoc quidem solum in deo verum esse potest, qui est ante differentiam actus et potentiae, ut satis supra ostensum videtur. Non enim scimus omnia, quae per hominem sciri possunt. Tu enim non es grammaticus, rhetor, logicus, philosophus, mathematicus, theologus, mechanicus et talia omnia, quae tamen, cum sis homo, fieri potes. Posse fieri hominem licet in te sit actu modo tali, uti es, determinatum, quae determinatio est essentia tua: tamen posse fieri hominis nequaquam est in te perfectum et determinatum. Unde, ad hoc posse fieri infinitum et interminatum respicientes Platonici, ut Proclus refert, dicebant omnia ex finito seu determinato et infinito esse; finitum ad determinatam essentiam, infinitum ad potentiam et posse fieri referentes. 89
Capitulum XXX
De decimo campo, scilicet ordine Postquam Dionysius, ille cunctis acutior, deum quaerens repperit in ipso contraria coniuncte verificari privationemque excellentiam esse – insubstantialis enim dicitur omnium substantia, omnem substantiam excedens –, demum in capitulo de sapientia sic dicit: «Ad haec quaerendum, quomodo nos deum scimus, qui neque intelligibilis neque sensibilis neque omnino quicquam intelligibilium est. Forte id veraciter dicemus nos deum ex ipsius natura non
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quindi, si estende alle nozioni delle cose ed è pertanto successiva alle essenze delle cose. Ma l’essenza della facoltà intellettiva è anteriore [ontologicamente] alla facoltà stessa e alle essenze sensibili, che sono meno nobili dell’essenza intellettiva e che vengono dopo di essa. L’essenza dell’anima intellettiva, infatti, non è identica con la sua facoltà e con la sua potenza. Questo può essere vero solo in Dio, il quale precede la differenza tra atto e potenza, come abbiamo mostrato sufficientemente prima334. Infatti, noi non conosciamo tutto quello che può essere conosciuto dall’uomo. Tu, ad esempio, non sei un grammatico, un retore, un logico, un filosofo, un matematico, un teologo, un ingegnere e tutte le altre cose di questo genere che, tuttavia, essendo tu un uomo, puoi diventare. Certamente, il poter-essere-fatto che è proprio dell’uomo in te è determinato in atto in quel particolare modo che tu sei, ed una tale determinazione costituisce la tua essenza; nonostante questo, tuttavia, il poter-essere-fatto che è proprio dell’uomo in te non è mai completamente determinato e perfetto. È per questo motivo che i Platonici, guardando a questo carattere infinito e illimitato del poter-essere-fatto, dicevano, come riferisce Proclo, che tutte le cose derivano dal finito o determinato e dall’infinito335; i Platonici ponevano in rapporto il finito con l’essenza determinante di una cosa e l’infinito con il poter-essere-fatto [che è proprio di quella cosa] e con la [sua] potenzialità. CAPITOLO XXX
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Il decimo campo: l’ordine Dionigi, il più acuto di tutti pensatori, dopo aver scoperto, nella sua ricerca di Dio, che i contrari si predicano insieme di Dio e che, in riferimento a lui, la privazione è un’eccellenza336 – egli chiama infatti la sostanza di tutte le cose «non-sostanziale», in quanto eccede ogni sostanza –, nel capitolo dedicato alla sapienza giunge infine ad esprimersi in questo modo: «Bisogna inoltre ricercare in che modo noi conosciamo Dio, che non è né intelligibile, né sensibile e che non è in alcun modo alcuna delle realtà che sono intelligibili. Forse ci esprimiamo con verità se diciamo che noi non conosciamo Dio dalla sua natura, in quan-
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cognoscere; id quippe ignotum est omnemque superat rationem ac sensum. Sed ex creaturarum omnium ordinatissima dispositione, ut ab ipso producta et imagines quasdam et similitudines divinorum ipsius exemplarium pro se ferente, ad id quod omnia transcendit, via et ordine pro viribus scandimus in omnium eminentissima privatione atque in omnium causa. Idcirco et in omnibus deus agnoscitur et seorsum ab omnibus, et per scientiam et ignorationem noscitur deus. Estque ipsius et intelligentia et ratio et notio et tactus et sensus et opinio et imaginatio et nomen et alia omnia, et neque intelligitur neque dicitur neque nominatur neque est aliquid eorum quae sunt neque in aliqua creatura cognoscitur, et in omnibus omnia est et in nihilo nihil, et ex omnibus omnibus noscitur et ex nullo nemini; quippe et ista de deo rectissime dicimus, et ex substantiis omnibus celebratur et laudatur iuxta omnium analogiam et rationem, quorum est auctor. Etiam est rursus divinissima dei cognitio per ignorantiam cognita secundum eam, quae supra intellectum, unionem, quando intellectus ab entibus omnibus recedens, deinde et se ipsum dimittens, unitur supersplendentibus radiis, inde et illic imperscrutabili profunditate sapientiae illuminatus. Etiam quidem ex omnibus – quod quidem dixi – noscenda est. Ipsa enim est secundum eloquium omnium factiva et semper omnia concordans et indissolubilis omnium concordiae et ordinis causa et semper fines priorum conectens principiis secundorum et unam universi conspirationem et harmoniam pulchrifaciens.» 90 Haec mihi magna visa sunt et maxime illius divini viri completam venationem continentia; ideo ponenda hoc loco iudicavi. Paulus apostolus, eiusdem Dionysii magister, differentiam inter ea, quae a deo sunt, et alia in hoc consistere aiebat, quod quae a deo sunt ordinata esse dicebat. Recte alibi Dionysius deum ordinem ordinatorum confessus est. In termino igitur ordinabilium auctor videtur ordinis. Nam cum hic mundus pulcher esse debuit et par-
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to egli è per noi sconosciuto e supera ogni ragione ed ogni intelligenza. Invece, dalla disposizione ordinata di tutte le creature, che è stata prodotta da Dio e che ci presenta alcune immagini e similitudini dei suoi esemplari divini, noi, secondo le nostre forze, ascendiamo ordinatamente verso ciò che trascende tutte le cose, fino alla eminentissima privazione di tutte le cose e alla causa di tutte le cose. Perciò Dio è conosciuto in tutti gli esseri e separatamente da tutti, è conosciuto mediante la scienza e mediante l’ignoranza. E a lui appartengono il pensiero, la ragione, la scienza, il tatto, il senso, l’opinione, l’immaginazione, il nome e tutto il resto, e non è inteso, né detto, né nominato, né egli è alcuna delle cose che sono, né è conosciuto in alcuna creatura, ed è tutto in tutte le cose e nulla in nessuna, ed è conosciuto da tutti in tutte le cose e da nessuno in nessuna. Infatti, noi a ragione diciamo queste cose di Dio: egli è celebrato e lodato da tutte le sostanze secondo il rapporto di analogia che con lui hanno tutte le cose, delle quali egli è l’autore. E, di nuovo, c’è una conoscenza divinissima di Dio, quella che si ottiene mediante l’ignoranza, secondo un’unione che supera l’intelletto, quando l’intelletto, distaccandosi da tutte le cose che sono e poi abbandonando anche se stesso, si unisce ai raggi di superiore chiarezza e poi in quei raggi viene illuminato dalla imperscrutabile profondità della sapienza. Tuttavia, come ho detto, si deve conoscere questa Sapienza anche da tutte le cose. Difatti, secondo la Scrittura, essa è l’artefice di tutte le cose e tutte le compone sempre in un unico accordo, ed è la causa della concordia indissolubile e dell’ordine di tutte le cose e sempre congiunge la fine delle prime con i principi delle seconde e produce un accordo e una bella armonia di tutto l’universo»337. Queste parole mi sono sembrate importanti e mi è parso che esse contenessero pienamente tutta la caccia compiuta da questo uomo divino; per questo, ho ritenuto opportuno inserirle qui. L’apostolo Paolo, il maestro dello stesso Dionigi338, ha affermato che la differenza tra le cose che sono da Dio e le altre cose consiste nel fatto che le cose che sono da Dio sono ordinate, come egli ha detto339. Altrove, Dionigi ha riconosciuto giustamente che Dio è l’ordine di tutte le cose ordinate340. Pertanto, al limite estremo di tutto ciò che è ordinabile si vede l’autore dell’ordine. Infatti, dal momen-
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tes eius non potuerunt esse praecise similes sed variae, ut immensa pulchritudo in ipsarum varietate perfectius reluceret, quando omnia quantumcumque varia non forent pulchritudinis expertia: placuit creatori varietati concreare ordinabilitatem talem, quod ordo, qui est ipsa pulchritudo absoluta, in cunctis simul reluceret. Per quem suprema infimorum infimis supremorum conexa concordanter in unam universi pulchritudinem conspirarent; per quem cuncta de gradu suo contenta ad finem universi pace et quiete, qua nihil pulchrius, fruerentur. 91 Contentatur enim pes infimus in homine de eo, quod infimus et pes, sicut oculus de eo, quod oculus et in capite, quia vident ad perfectionem hominis et eius pulchritudinem se necessaria membra, si sic fuerint et sic in suo locata ordine. Extra quae loca nec pulchra nec necessaria nec pulchritudinem totius corporis perfectam conspiciunt nec ad ipsius completam pulchritudinem contribuunt, sed, ut sunt difformia, omne corpus difforme reddunt. Ordinata igitur est in ipsis magnitudo, ut sit pulchra, ut ex ipsis et ceteris membris magnitudo corporis pulchra resultet. Proportio igitur cuiuslibet membri ad quodlibet et ad totum ordinata est ab omnium ordinatore hominem pulchrum creante. Est enim proportio illa, sine qua una totius et partium eius ad totum relata habitudo nequaquam pulchra ordinatissimaque videretur.
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to che questo mondo doveva essere bello e le sue parti non potevano essere esattamente simili, ma dovevano essere varie, in modo che nella loro stessa varietà potesse risplendere in modo più perfetto un’immensa bellezza, dato che tutte le cose, per quanto varie, non dovevano essere prive della bellezza, al creatore piacque di creare, insieme con la varietà, una tale ordinabilità cosicché l’ordine, che è la stessa bellezza assoluta, risplendesse contemporaneamente in tutte le cose341. Ha voluto che, attraverso questo ordine, le realtà più elevate tra quelle più basse fossero connesse armoniosamente alle realtà più basse tra quelle più elevate342 e concorressero insieme a formare l’unica bellezza dell’universo343; ha voluto, inoltre, che, grazie a questo ordine, tutte le cose fossero contente del grado da esse occupato in rapporto al fine dell’universo e godessero così della pace e della quiete, di cui non v’è nulla di più bello. Il piede, che è la parte più bassa dell’uomo, è contento di essere la parte più bassa e di essere un piede, così come l’occhio è contento di essere un occhio e di essere collocato nella testa, in quanto si rendono conto di essere delle membra necessarie alla completezza dell’uomo e alla sua bellezza se sono così come sono e se sono collocate nel posto che è stato loro assegnato344. Al di fuori del posto loro assegnato345, esse non sono né belle, né necessarie, non scorgono la perfetta bellezza dell’intero corpo, né contribuiscono alla completa bellezza del corpo, ma rendono piuttosto deforme l’intero corpo, essendo esse stesse deformi. La loro grandezza, pertanto, ha un determinato ordine in modo da poter essere bella, cosicché da esse e dalle altre membra risulti la bella grandezza del corpo. Il rapporto proporzionato che ogni membro ha con ogni altro e con il tutto è stato pertanto disposto in modo ordinato dall’ordinatore di tutte le cose, il quale ha creato l’uomo come bello. Questa, infatti, è la proporzione senza la quale non potrebbe mai esserci un rapporto del tutto e delle parti rispetto al tutto che sia bello e pienamente ordinato346.
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De eodem Adhuc, ut ordinem in aeternitate videas, considera: Cum cuncta quae de posse fieri, ut sint actu, ordinem praesupponunt quo hoc possibile fieri fiat, utique ordo aeternus est, qui est omne id quod esse potest. Si enim factus esset ordo, utique ordine de possibile fieri ad actum devenisset. Sic fuisset, antequam fuisset. Non habet igitur initium ordo neque finem. Aeternus est igitur ordo. Sed quomodo est ordo in simplicissimo rerum principio, nisi sit ipsum principium, tam principium sine principio quam principium de principio quam etiam principium ab utroque procedens? Sine enim illis non potest ordo in principio videri, cum de essentia ordinis sit principium, medium et finis. Quae in simplicitate aeterni principii, quod est et ordo aeternus, si negantur, ordo negatur; quo sublato nihil manet, cum expers ordinis et pulchritudinis esse nequeat. Esse enim ordine et pulchritudine carens quomodo ad actum de posse devenisset? Et si principium ordine caret, unde principiata ordinem habent? 93 Adhuc video: Ex quo est principium sine principio et principium de principio et principium ab utroque procedens, sic erit et principiatum sine antiquiori principiato et principiatum ab utroque procedens. Principiatum sine antiquiori principio est essentia, principiatum de principio est virtus, principiatum ab utroque procedens est operatio. Illa quidem in omnibus reperiuntur, ut cuncta divinum ordinem participent. Et totus hic mundus est ex intellectualibus, ex vitalibus et exsistentibus. Intellectualis natura suprema est, ante se non habens an-
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Sullo stesso argomento Inoltre, affinché tu possa vedere l’ordine nell’eternità, considera quanto segue: tutte le cose, per essere in atto, derivano dal poter-essere-fatto, per cui presuppongono un ordine secondo il quale viene fatto questo possibile essere-fatto; di conseguenza, l’ordine stesso, che è tutto ciò che può essere, è certamente eterno. Infatti, se l’ordine fosse stato fatto, esso sarebbe certamente passato dal poter-essere-fatto all’atto secondo un ordine. In questo modo, l’ordine sarebbe esistito prima di esistere. L’ordine, pertanto, non ha né un inizio, né una fine. L’ordine, quindi, è eterno. Ma come può l’ordine essere presente nel Principio assolutamente semplice delle cose se non è lo stesso Principio, se non è cioè sia il Principio senza principio, sia il Principio che deriva dal Principio, sia il Principio che procede da entrambi? Senza di questi, infatti, non si può vedere l’ordine nel Principio, in quanto all’essenza dell’ordine appartiene il fatto di essere principio, mezzo e fine347. Se si nega che essi siano presenti nella semplicità del Principio eterno, che è anche l’ordine eterno, allora si nega anche l’ordine; tolto il quale, tuttavia, non resta più nulla, perché ciò che è privo di ordine e di bellezza non può esistere348. Infatti, come sarebbe potuto passare dalla potenza all’atto ciò che è privo di ordine e di bellezza? E se il Principio è privo di ordine, da dove traggono i principiati il loro ordine? Vedo inoltre anche questo: per il fatto che c’è un Principio senza principio, un Principio che deriva dal Principio e un Principio che procedere entrambi, ci sarà anche un principiato senza un principiato ad esso anteriore, un principiato che deriva dal principiato e un principiato che procede dai primi due. Il principiato senza un principiato ad esso anteriore è l’essenza, il principiato che deriva dal principiato è la forza, il principiato che procede dai primi due è l’operazione. Questi tre elementi si trovano in effetti in tutte le cose349, in modo tale che tutte le cose possano partecipare dell’ordine divino. Questo mondo è costituito, nella sua totalità, da esseri dotati di intelletto, da esseri che vivono e da esseri che esistono soltanto350. La natura dotata di intelletto è quella più elevata, in
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tiquius principiatum. Vitalis natura media, habens ante se intellectualem, quae est eius hypostasis. Exsistens vero natura procedit ab utraque. In prima complicantur sequentes; nam intelligit, vivit et exsistit. Secunda vivit et exsistit; igitur in ipsa complicatur tertia (sicut et in prima), quae tantum exsistit. Primae exsistere et vivere est intelligere. Secundae exsistere et intelligere est vivere. Tertiae intelligere et vivere est esse. 94 Quae sit divini ordinis participatio in angelica hierarchia et quae in ecclesiastica hierarchia, divinus Dionysius describit. Quaeve ordinis participatio specierum et in qualibet specie, quisve in caelestibus corporibus et temporalibus eorum atque animalium motibus, quaeve ordinis participatio in omnibus quae ab humana mente oriuntur – in virtutibus, in regiminibus et rei publicae et privatae gubernationibus, in mechanicis, in liberalibus scientiis – et quibus ordinatissimis regulis et modis omnia pulchre procedunt, reperiuntur, conscribuntur et communicantur, studiosus videt et admiratur. Interrogatus puer Menon ex ordine quem interrogans servavit, ad cuncta geometrica recte respondit, ac si scientiam cum ordine conatam haberet, ut Plato in libro Menonis refert. Qui enim in ordinem scit redigere quae studet et inquirit, proficit. Non est nec orator nec alius peritus, si sermo eius ordine caret. Nec enim se intelligit nec intelligitur alienus ab ordine. Est enim relucentia sapientiae ordo, sine quo nec pulchra nec clara [nec] esset nec sapienter operaretur. Memoria in ordinem redacta de facili reminiscitur, sicut in arte memorativa in ordine locorum fundata patet. Lector ut memoretur et capiatur dicenda, distinguit di-
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quanto non ha prima di sé un principiato che sia ad essa anteriore. La natura dotata di vita è quelle intermedia, in quanto ha prima di sé la natura dotata di intelletto, la quale è la sua ipostasi. La natura dotata soltanto dell’esistenza procede invece dalle prime due. Nella prima natura sono complicate quelle successive; essa, infatti, intende, vive ed esiste. La seconda natura vive ed esiste, per cui in essa è complicata la terza, la quale esiste soltanto (come la terza è complicata anche nella prima). Per la prima natura, l’esistere e il vivere consistono nell’intendere351. Per la seconda natura, l’esistere e l’intendere consistono nel vivere. Per la terza natura, l’intendere e il vivere consistono nell’essere. Il divino Dionigi descrive quale tipo di partecipazione all’ordine divino sia presente nella gerarchia angelica e quale nella gerarchia ecclesiastica. Chi studia questo argomento può vedere ed ammirare quale tipo di partecipazione all’ordine sia presente nelle specie e in ciascuna di esse, quale ordine sia presente nei corpi celesti e nei loro moti temporali come pure nei movimenti degli esseri viventi, quali tipo di partecipazione all’ordine sia presente in tutto ciò che nasce dalla mente umana – nelle virtù, nell’amministrazione e nel governo sia dello Stato che degli affari privati, nelle arti meccaniche e nelle scienze liberali – e con quali regole in modi ordinatissimi tutte le cose procedono in maniera bella e in maniera bella vengono scoperte, descritte e comunicate. Una volta interrogato, il giovane Menone, seguendo l’ordine al quale si atteneva chi lo stava interrogando, rispose correttamente a tutte le domande di geometria, come se, insieme con l’ordine, egli avesse anche una conoscenza innata, come riferisce Platone nel Menone352. Infatti, chi sa ricondurre ad un dato ordine ciò che studia ed indaga fa molti progressi. Inoltre, nessun oratore né nessun altro è esperto, se il suo discorso manca di ordine. Infatti, chi non ha alcun senso dell’ordine non intende se stesso, né viene inteso dagli altri. L’ordine, infatti, è lo splendore della sapienza, la quale, senza l’ordine, non sarebbe né bella, né luminosa, né potrebbe operare in modo sapiente. Una memoria che è stata ordinata ricorda facilmente, come risulta evidente nella mnemotecnica, la quale si basa sull’ordine dei «luoghi». Chi tiene una lezione, per ricordare e afferrare le cose che deve dire, prima le distingue e poi ordina ciò che
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stinctaque ordinat. Ita patet ordinem multum de luce sapientiae participare. 95
Capitulum XXXII
De eodem Posuit igitur ordinem in caelo et terra et cunctis summa sapientia, ut et ipsa sapientia se ipsam meliori, quo creatura capax fuerit, modo patefaceret. Ordo enim exercitus ostendit prudentiam capitanei ordinatoris plus cunctis quae agit. Est igitur ordo universi prima et praecisior imago aeternae et incorruptibilis sapientiae, per quem tota mundi machina pulcherrime et pacifice persistit. Quam pulchre copulam universi et microcosmum, hominem, in supremo sensibilis naturae et infimo intelligibilis locavit, conectens in ipso ut in medio inferiora temporalia et superiora perpetua! Ipsum in horizonte temporis et perpetui collocavit, uti ordo perfectionis deposcebat. Experimur in nobis, qui cum ceteris animalibus convenimus in sensibus, ultra illa habere mentem ordinem scientem et laudantem. Et in hoc scimus nos capaces ordinatricis omnium immortalis sapientiae esseque deo cum intelligentiis conexos. Sicut enim in ea parte, qua aliis iungimur animalibus, animalium naturam sortimur, ita in parte illa, qua intellectuali naturae iungimur, intellectualem participamus naturam; ideoque per mortalitatem animalitatis non exstingui spiritum intelligentiae perpetuis conexum. 96 Quinimo scimus mortalem naturam soluta moriendi possibilitate per nexum, quo mortali nectitur, posse ad vitam immortalis spiritus resurgere in virtute verbi dei, per quod omnia facta sunt, in homine Iesu Christo incarnati – in quo humanitas non solum medium est conexionis inferioris et superioris naturae, temporalis et
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ha distinto. È evidente, pertanto, che l’ordine partecipa molto della luce della sapienza. CAPITOLO XXXII
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Sullo stesso argomento La somma Sapienza, pertanto, ha posto un ordine nel cielo, sulla terra e in tutte le cose, in modo tale che la Sapienza potesse manifestarsi nel modo migliore in cui la creazione era in grado di riceverla353. L’ordine di un esercito, infatti, mostra la saggezza del suo comandante354 più di tutte le imprese che esso compie. L’ordine dell’universo, pertanto, è la prima e più precisa immagine della Sapienza eterna ed incorruttibile, ed è grazie ad esso che l’intera macchina del mondo sussiste in modo bellissimo e nella pace355. E in che modo bello la Sapienza eterna ha collocato l’uomo, che è il legame di congiunzione dell’universo ed è un microcosmo, nella parte più alta della natura sensibile in quella più bassa della natura intelligibile, riunendo in lui, come in un punto intermedio, le realtà inferiori temporali e quelle superiori perpetue! La Sapienza lo ha collocato nell’orizzonte del tempo e di ciò che è perpetuo, come richiedeva l’ordine della perfezione356. Noi, che abbiamo in comune con gli altri animali i sensi, sperimentiamo in noi stessi di avere, oltre i sensi, una mente che conosce l’ordine e lo apprezza. Ed in questo modo sappiamo di essere capaci di cogliere la Sapienza immortale, che è l’ordinatrice di tutte le cose, e di essere uniti a Dio insieme con gli altri esseri intelligenti. Infatti, come in quella parte che ci lega agli altri animali riceviamo la natura propria degli animali, così in quella parte che ci lega alla natura intellettuale partecipiamo della natura intellettuale; per questo, il nostro spirito intellettuale, che è connesso con le realtà perpetue, non si estingue con la morte della nostra animalità357. In effetti, noi sappiamo che la natura mortale, una volta liberata dalla possibilità di morire dovuta al legame che la tiene congiunta a ciò che è mortale, può risorgere alla vita dello spirito immortale, in virtù del Verbo di Dio, attraverso il quale sono state fatte tutte le cose e che si è incarnato nell’uomo Gesù Cristo, la cui umanità è non solo il mezzo di congiunzione della natura inferiore e di
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perpetuae, sed et dei creatoris et aeternae immortalitatis –, si ipsi mediatori nostro conformes fuerimus; quod fide fit et amore. Et quid pulchrius admirabili ordine regenerationis, quo ad hanc resurrectionem vitae deventum est, qui in sanctissimis evangeliis describitur? Diximus aliqua de campis venationum sapientiae, sed ibi sapientia incarnata viam suam, per quam mortuus pervenit ad resurrectionem vitae, quae est quidquid quaeritur, exemplo manifestavit. Appetimus sapientiam, ut simus immortales. Sed cum nulla sapientia nos liberet ab hac sensibili et horribili morte, vera erit sapientia, per quam necessitas illa moriendi vertitur in virtutem et fiat nobis certum et securum ad resurrectionem vitae; quod solum viam Iesu tenentibus et eius virtute continget. Ultimum igitur studium ibi ponendum, et in hac sola via secura est venatio, quam certissima sequetur immortalitatis possessio. 97
Capitulum XXXIII
De vi vocabuli Si cuncta profunda meditatione ponderas, reperies venatores ad vim vocabuli diligenter perspexisse, quasi vocabulum sit praecisa rerum figuratio. Sed quia vocabula sunt per primum hominem rebus imposita ex ratione, quam homo concepit, non sunt vocabula praecisa, quin res possit praecisiori vocabulo nominari. Non enim ratio, quam homo concipit, est ratio essentiae rei, quae omnem rem antecedit. Et si quis huius rationis nomen cognosceret, omnia proprie nominaret et omnium perfectissimam scientiam
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quella superiore, della natura temporale e di quella perpetua, ma è l’umanità assunta dal Dio creatore e dall’immortalità eterna. Tutto questo [ossia il fatto che la nostra natura mortale risorgerà alla vita immortale] se ci saremo resi conformi al nostro mediatore, il che avviene per mezzo della fede e dell’amore358. E che cosa c’è di più bello del meraviglioso ordine della rigenerazione, per mezzo del quale si arriva a questa risurrezione della vita? Esso viene descritto nei santissimi Vangeli359. Abbiamo detto alcune cose a proposito dei campi nei quali viene compiuta la caccia della sapienza, ma qui la Sapienza ha rivelato, con l’esempio, la sua via, attraverso la quale chi muore perviene alla risurrezione della vita, che è il fine ultimo di ogni ricerca. Noi desideriamo la sapienza per essere immortali. Ma, poiché nessuna sapienza ci libera da questa morte sensibile che ci incute terrore, la vera sapienza sarà quella grazie alla quale questa necessità di morire viene trasformata in virtù, e sarà pertanto quella sapienza che diventa per noi un cammino certo e sicuro verso la risurrezione della vita; questo avviene solo grazie alla forza di Gesù e solo per coloro che seguono con fermezza la sua via. È nel realizzare questo compito che dobbiamo pertanto concentrare il nostro massimo sforzo, ed è solo lungo questa via che si compie una caccia sicura, alla quale seguirà il possesso certissimo dell’immortalità. CAPITOLO XXXIII
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Il significato della parola Se esamini tutto con una riflessione approfondita, scoprirai che i cacciatori della sapienza hanno considerato con grande attenzione il significato della parola360, come se la parola fosse una precisa rappresentazione delle cose. Ma dal momento che il primo uomo ha assegnato i nomi alle cose sulla base della forma [delle cose] che l’uomo aveva colto con il suo concetto, i nomi non sono mai precisi al punto che una cosa non possa essere designata con un nome più preciso361. La forma che l’uomo coglie con il suo concetto, infatti, non è la forma essenziale della cosa, la quale precede ogni cosa. Se uno conoscesse il nome di tale forma, egli designerebbe ogni cosa con il suo nome appropriato ed avrebbe una conoscenza
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haberet. Unde in substantifica ratione rerum non est dissensio, sed in vocabulis ex variis rationibus varie rebus attributis. Et in configuratione essentiae rei, quae similiter varia est, omnis est disputantium diversitas; quemadmodum Plato in Epistulis ad Dionysium tyrannum elegantissime scribit veritatem vocabula, orationes seu vocabulorum diffinitiones atque sensibiles figurationes anteire, uti de circulo picto, eius vocabulo et oratione atque conceptu exemplificat. Ideo Dionysius Areopagita potius ad intentionem quam ad vim vocabuli adverti mandat, licet ipse in Divinis nominibus – quemadmodum et Plato – multum significato nominis inhaereat. 98 Nemo etiam attentior fuit Aristotele vim vocabuli perquirere, quasi impositor nominum omnium fuerit peritissimus id quod sciverit in vocabulis ipsius exprimere, et ad illius scientiam pertingere sit perfectionem scibilium adipisci. Ideo in diffinitione, quae est vocabuli explicatio, scientiae lucem affirmavit. Credo haec in humana scientia sic se habere, quam primo et excellenter primus Adam seu homo dictus habuisse creditur. Et ideo scientia, quae in vi vocabuli solidatur, gratissima est homini quasi suae naturae conformis. Oportet autem venatorem huius divinae sapientiae vocabula humana secundum impositionem hominis de deo negare. Vita enim, quae ad omnia viventia extendit, non attingit ad deum, qui est omnis vitae causa; sic de omnibus vocabulis. 99 Distinctiones etiam, quae per venatores fiunt, qui vocabula interpretantur, sunt diligenter attendendae; puta, uti sanctus Thomas in Commentariis libri Dionysii De divinis nominibus tria innuit consideranda circa exsistentium substantias: Primum singu-
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assolutamente perfetta di tutte le cose362. Di conseguenza, il disaccordo non è nella forma sostanziale delle cose, ma nelle parole che vengono attribuite in modo diverso alle cose sulla base delle diverse forme. Le diversità di opinione che vi sono tra coloro che disputano riguardano tutte la rappresentazione dell’essenza della cosa, rappresentazione che è anch’essa diversa. Come Platone scrive in modo molto elegante nelle sue lettere al tiranno Dionigi, la verità è anteriore alle parole, alle proposizioni, ovvero alle definizioni delle parole, e alle rappresentazioni sensibili, come dimostra con l’esempio di un cerchio dipinto, del suo nome, della sua definizione e del suo concetto363. Per questo motivo, Dionigi Areopagita ci raccomanda di prestare attenzione all’intenzione più che al significato della parola, sebbene nei Nomi divini anche lui, come pure Platone, attribuisce molta importanza al significato delle parole364. Nessuno, tuttavia, è stato più attento di Aristotele nell’indagare il significato della parola, come se colui che ha assegnato i nomi a tutte le cose fosse stato il più esperto di tutti ad esprimere nelle sue parole ciò che egli sapeva, e come se raggiungere la sua conoscenza significasse per noi raggiungere una conoscenza perfetta di tutto ciò che conoscibile. Per questo motivo, Aristotele ha affermato che la luce della conoscenza si trova nella definizione, la quale è una esplicazione della parola365. Ritengo che questo sia vero per quanto riguarda la conoscenza umana che, come si pensa, fu posseduta agli inizi e in modo eccellente dal primo Adamo, ossia dal primo uomo366. E per questo motivo, la conoscenza che si fonda sul significato delle parole risulta essere estremamente gradita all’uomo, come se fosse conforme alla sua natura. Tuttavia, colui che va a caccia della sapienza divina deve negare di Dio le parole umane, secondo il significato attribuito ad esse dall’uomo367. Ad esempio, la vita che si estende a tutti gli esseri viventi non ha attinenza con Dio, che è la causa di ogni vita, e lo stesso vale per tutte le altre parole. Bisogna quindi considerare con attenzione le distinzioni che vengono fatte dai cacciatori che interpretano i nomi; ad esempio, San Tommaso, nel suo commentario al libro di Dionigi I nomi divini, indica che, a proposito delle realtà esistenti, si devono prendere in considerazione tre cose: in primo luogo, c’è il singolo uomo, ad
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lare, quod est Plato, «in se actu complectitur principia» ultima et individualia. «Secundum est species vel genus, ut homo vel animal, in quibus comprehenduntur ultima principia in actu, singularia vero in potentia. Homo enim dicitur, qui habet humanitatem absque praecisione individualium principiorum.» Tertia «est ipsa essentia», ut est humanitas, «in quo vocabulo solum comprehenduntur principia speciei. Nihil enim individualium principiorum pertinet ad rationem humanitatis, cum humanitas praecise significat hoc quo homo est homo. Nullum individualium principiorum est huiusmodi. Unde in nomine humanitatis non concluditur neque actu neque potentia aliquod individuale principium; et quantum ad hoc, dicitur natura.» 100 Ecce doctissimum virum hac distinctione vocabuli multa dilucidasse, quae alibi obscura reperiuntur. Quantum etiam Aristoteles laboraverit, ut distingueret vocabula, Metaphysica eius declarat. Unde per vocabulorum distinctiones multae varietates scribentium concordantur, in quibus multi doctissimi se occupaverunt. Sed haec nostra inquisitio ineffabilis sapientiae, quae praecedit impositorem vocabulorum et omne nominabile, potius in silentio et visu quam in loquacitate et auditu reperitur. Praesupponit vocabula illa humana, quibus utitur, non esse praecisa nec angelica nec divina; sed ipsa sumit, cum aliter non posset conceptum exprimere, praesupposito tamen, quod illa non velit aliquod tale, propter quod imposita sunt, significare, sed talium causam, verbumque nullius temporis esse, cum aeternitatem per ipsa velit figurare.
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esempio Platone; esso include in sé e in atto i principi ultimi e individuali368. In secondo luogo, c’è la specie o il genere, ad esempio «uomo» o «animale», nei quali sono in atto i principi ultimi, ma in potenza i singoli individui. Infatti, si chiama «uomo» chi ha l’umanità, senza considerare alcuna determinazione particolare dovuta ai principi individuali. Terza è l’essenza, ad esempio l’umanità; in questa parola «umanità» sono compresi solo i principi della specie. Nessun principio individuale, infatti, attiene alla forma dell’umanità, in quanto «umanità» significa propriamente ciò per cui un uomo è un uomo, e nessun principio individuale ha questo carattere. Quindi, nel termine umanità non è incluso alcun principio individuale, né in atto, né in potenza; e sotto questo aspetto il termine «umanità» designa la natura [dell’uomo]. Vedi come, con una tale distinzione delle parole, quest’uomo dottissimo abbia chiarito molte cose che altrove restano oscure. Quanti sforzi del resto anche Aristotele abbia fatto per distinguere le parole, lo attesta la sua Metafisica. Pertanto, attraverso le distinzioni delle parole, un compito al quale si sono dedicati molti uomini dottissimi, è possibile mettere d’accordo le numerose e diverse opinioni degli scrittori369. Tuttavia, la nostra ricerca della sapienza ineffabile, la quale precede sia colui che ha assegnato i nomi alle cose, sia tutto ciò che è nominabile, avviene nel silenzio della visione piuttosto che nel parlare e nell’ascoltare370. La nostra ricerca presuppone che le parole umane che essa utilizza non sono precise, né in riferimento agli angeli, né in riferimento a Dio; essa, tuttavia, le impiega perché, altrimenti, non potrebbe esprimere quanto giunge a concepire, ma le impiega con il presupposto che, con quelle parole, essa non vuole designare nessuna di quelle realtà per le quali sono state coniate, ma la causa di tali realtà, ed inoltre con il presupposto che le espressioni verbali che essa impiega non hanno alcun significato temporale, dal momento che, con tali espressioni, essa intende rappresentare l’eternità371.
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De praeda capta Postquam decem campos taliter peragravi, restat nunc quid ceperim colligere. Magnam utique venationem feci, ut magnam praedam reportarem. Non enim de aliquo magno, quod maius esse potuit, contentus magnitudinis causam, cum maior esse nequeat, perquisivi. Illa enim si maior esse posset, suo causato maior fieret. Ita posterius prius foret priore. Necessario est igitur causam magnitudinis id esse quod esse potest. Nominemus autem pro nunc causam magnitudinis magnitudinem. Praecedit igitur magnitudo posse fieri, cum non possit aliud fieri, quando est omne id quod esse potest. Est igitur magnitudo aeternitas, quae non habet principium nec finem, cum non sit facta, eo quod ante omne factum sit posse fieri, quod magnitudo praecedit. Et quia de deo et omni creatura verificatur, ut supra in campo de laudibus reperitur, applicemus igitur ipsam ad sensibilia et intelligibilia, deinde etiam ad laudabilia, ut videamus, si poterimus ipsam ut sensui aut intellectui captam ostendere. 102 Pro quo signo lineam ab, et dico ab lineam magnam, quia maior medietate eius, posseque ipsam fieri maiorem per eius extensionem seu augmentum, sed non fiet magnitudo quae, cum sit, quod esse potest. Linea si fieret ita magna, quod maior esse non posset, esset id quod esse posset; et non esset facta, sed esset aeterna, posse fieri antecedens; et non esset linea, sed aeterna magnitudo. Ita video omne, quod fieri potest maius, cum sit post posse fieri, numquam fieri id quod esse potest. Sed quia magnitu-
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CAPITOLO XXXIV
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La preda che è stata catturata Dopo che ho percorso i dieci campi nel modo che ho descritto, non mi resta ora che raccogliere quanto ho catturato. Certamente, ho condotto una grande battuta di caccia per conseguire una grande presa. Non mi sono infatti accontentato di qualcosa di grande, che potrebbe essere più grande, e per questo sono andato alla ricerca della causa della grandezza, in quanto essa non può essere più grande. Se potesse essere più grande, infatti, verrebbe resa più grande mediante ciò che è stato causato da essa. Ma, in questo caso, ciò che è posteriore sarebbe anteriore rispetto a ciò che è ad esso anteriore372. Ne consegue necessariamente che la causa della grandezza è [tutto] ciò che essa può essere. Ma per ora definiamo la causa della grandezza con il nome di «Grandezza». La «Grandezza», pertanto, precede il poter-essere-fatto, in quanto non può diventare altro [da ciò che è], essendo essa tutto ciò che può essere. Pertanto, la «Grandezza» è l’eternità, la quale non ha né un principio, né una fine, in quanto la «Grandezza» non è stata fatta, perché prima di ogni cosa che viene fatta c’è il poter-essere-fatto, che la «Grandezza» precede. E poiché la grandezza è un attributo che viene predicato di Dio e di ogni creatura, come abbiamo scoperto sopra373, nel campo relativo alla lode, l’applicheremo ora alle realtà sensibili e a quelle intelligibili, e poi anche a quelle che sono degne di lode, per vedere se, in questo modo, riusciremo a mostrarla così come essa viene catturata con i sensi o con l’intelletto. A questo scopo, traccio una linea ab e dico che la linea ab è grande, in quanto è più grande della sua metà, e che, estendendola o prolungandola, essa può essere resa più grande; tuttavia, essa non diventerà mai quella «Grandezza» che, in quanto tale, è [tutto ciò che può essere]. Se si facesse una linea così grande da non poter essere più grande, essa sarebbe tutto ciò che una linea potrebbe essere; in questo caso, non sarebbe fatta, ma sarebbe eterna e precederebbe il poter-essere-fatto, e non sarebbe una linea, ma sarebbe la «Grandezza» eterna. In questo modo, vedo che tutto ciò che può diventare più grande, essendo posteriore al poter-essere-fatto, non diventa mai [tutto] ciò che può essere. Ma poiché la «Grandezza»
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do est quod esse potest, tunc nec potest esse maior nec potest esse minor. Ideo ipsa nec est maior nec minor omni magno et omni parvo, sed omnium magnorum et parvorum causa efficiens, formalis et finalis, adaequatissimaque mensura; in omnibus magnis et parvis omnia et simul nullum omnium, cum omnia magna et parva sint post posse fieri, quod ipsa antecedit. 103 Unde cum superficies et corpus et quantitas continua et discreta seu numerus et qualitas et sensus et intellectus et caelum et sol et omnia quae facta sunt, non sint expertia magnitudinis, in ipsis omnibus possest – quam voco magnitudinem – est id quod sunt, et nullum omnium. Est igitur coniuncte omnia et nihil omnium. Est etiam verum, quia magna magnitudine magna sunt. Tunc non convenit ei, quod posse fieri praecedit, nomen illud ‘magnitudo’, quod est nomen formae magnorum, cum non sit forma, sed absoluta formarum et omnium causa. Nullum igitur nomen ex omnibus, quae nominari possunt, illi convenit, licet nomen suum non sit aliud ab omni nominabili nomine et in omni nomine nominetur, quod innominabile manet. 104
Capitulum XXXV
De eodem Consequenter, cum videam bonum esse magnum posseque fieri magis bonum, quando datur unum bonum magis bonum alio: ideo bonum, quod est ita bonum, quod magis bonum eo esse non potest, cum sit ipsum possest, ex statim praemissis est causa magnitudinis. Ita pulchrum, quod non potest esse magis pulchrum, est causa magnitudinis. Et sic verum, quod non potest esse magis verum, est causa magnitudinis. Ita sapiens, quod non potest esse magis sapiens, est causa magnitudinis; et sic consequenter de
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è tutto ciò che può essere, essa non può essere più grande, né può essere più piccola [di ciò che è]. Pertanto, la «Grandezza» non è né più grande, né più piccola di ogni cosa grande e di ogni cosa piccola, ma è la causa efficiente di tutte le cose grandi e di tutte le cose piccole, ed è la loro causa formale e finale e la loro misura assolutamente adeguata; in tutte le cose grandi e in tutte le cose piccole la «Grandezza» è tutte queste cose e, nello stesso tempo, non è nessuna di esse, in quanto tutte le cose grandi e tutte le cose piccole sono posteriori al poter-essere-fatto, che la «Grandezza» precede. Pertanto, poiché la superficie, il corpo, la quantità continua e quella discreta, ossia il numero, la qualità, i sensi e l’intelletto, il cielo e il sole, e tutte le cose che sono state fatte non sono prive di grandezza, in tutte queste cose il potere-che-è – come io chiamo la «Grandezza» – è ciò che esse sono e tuttavia non è nessuna di esse. Il potere-che-è, quindi, è tutto ed insieme nulla di tutto. Inoltre, è vero che le cose grandi sono grandi per la grandezza. In questo caso, allora, il nome «grandezza», che è il nome della forma delle cose grandi, non si addice a ciò che precede il poter-essere-fatto, dal momento che quest’ultimo non è una forma, ma è la causa assoluta delle forme e di tutte le cose. Ad esso, pertanto, non si addice nessun nome tratto da tutto ciò che può essere nominato, sebbene il suo nome non sia qualcosa di altro da ogni nome nominabile e sebbene in ogni nome venga nominato ciò che resta innominabile. CAPITOLO XXXV
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Sullo stesso argomento Di conseguenza, da quanto abbiamo detto deriva quanto segue: vedo che ciò che è buono può essere [anche] grande e che può diventare più buono, dato che constato che una cosa buona può essere più buona di un’altra; per questo, quel bene che, essendo lo stesso potere-che-è, è così buono da non poter essere più buono è la causa della grandezza. Allo stesso modo, il bello che non può essere più bello è la causa della grandezza. E così, il vero che non può essere più vero è la causa della grandezza. In modo analogo, ciò che è sapiente al punto tale da non poter essere più sapiente è la cau-
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omnibus decem laudabilibus. Et pari modo magnum, quod est ita bonum, quod non potest esse melius, est causa bonitatis. Et pulchrum, quod est ita bonum, quod potest esse melius, est causa bonitatis; et sic consequenter. Video igitur ipsum possest causam bonitatis, magnitudinis, pulchritudinis, veritatis, sapientiae, delectationis, perfectionis, claritatis, aequitatis et sufficientiae. Et terminus ipsius posse fieri novem ipsorum ostendit possest causam decimi. Nam terminus posse fieri magnitudinis ipsius bonitatis, pulchritudinis, veritatis et reliquorum ostendit possest causam magnitudinis. Et terminus posse fieri bonitatis ipsius magnitudinis, pulchritudinis, veritatis et aliorum ostendit possest causam bonitatis. Sic consequenter semper novem ostendunt possest causam decimi. 105 Cum igitur videam causam omnium laudabilium possest omniaque decem laudabilia participatione laudis laudabilia, possest dico laudem, quae id est quod esse potest, quia fons et causa laudabilium. Ideo non inepte possest laudem laudo, cum magnus propheta Moyses dicat in cantico suo: «Laus mea dominus.» Et quia video deum essentialem causam omnium laudabilium, ideo etiam video sicut Dionysius supra allegatus essentias seu subsistentias omnium, quae facta sunt aut fient, participatione laudabilium id esse quod sunt. Hoc igitur est quod venatione cepi: deum meum esse illum, qui est per omnia laudabilia laudabilis, non ut participans laudem, sed ut ipsa absoluta laus per se ipsam laudabilis et omnium laudabilium causa, et ideo prior atque maior omni laudabili, quia omnium laudabilium terminus et possest; omniaque dei opera laudabilia,
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sa della grandezza, e così di seguito per tutte le dieci proprietà degne di lode374. Ed ugualmente il grande, che è così buono da non poter essere più buono, è la causa della bontà. E il bello, che è così buono da non poter essere più buono, è la causa della bontà, e così di seguito. Vedo, pertanto, che il potere-che-è è la causa della bontà, della grandezza, della bellezza, della verità, della sapienza, del diletto, della perfezione, della luce, dell’equità, della sufficienza. E il limite del poter-essere-fatto nel caso di queste nove proprietà degne di lode mostra che il potere-che-è è la causa della decima. Ad esempio, il limite del poter-essere-fatto della grandezza della bontà, della grandezza della bellezza, della grandezza della verità e della grandezza delle altre proprietà mostra che il potere-che-è è la causa della grandezza. E il limite del poter-essere-fatto della bontà della grandezza, della bontà della bellezza, della bontà della verità e della bontà delle altre proprietà mostra che il potere-che-è è la causa della bontà. E così si ha sempre che nove tra le proprietà degne di lode mostrano che il potere-che-è è la causa della decima. Pertanto, dal momento che vedo che il potere-che-è è la causa di tutto ciò che è degno di lode e che tutte e dieci le proprietà degne di lode sono degne di lode in quanto partecipano della lode, chiamo il potere-che-è «la lode che è ciò che può essere», in quanto essa è la fonte e la causa di tutto ciò che è degno di lode. Non è quindi senza motivo che io lodo il potere-che-è come lode, dal momento che il grande profeta Mosè dice nel suo inno: «Mia lode è il Signore»375. E poiché vedo che Dio è la causa essenziale di tutto ciò che è degno di lode, vedo anche, insieme a Dionigi che ho sopra menzionato376, che le essenze o le sussistenze di tutte le cose che sono state fatte o che saranno fatte sono ciò che sono per la partecipazione alle dieci proprietà degne di lode. Ciò che ho catturato nella mia caccia è dunque questo: il mio Dio è colui che è degno di essere lodato mediante tutto ciò che è degno di lode, e lo è non come uno che partecipi della lode, ma in quanto egli è la lode assoluta stessa, che è degna di lode per se stessa, ed è la causa di tutto ciò che è degno di lode, per cui precede ed è più grande di ogni realtà degna di lode, in quanto è il limite di tutto ciò che è degno di lode ed è il potere-che-è. E tutte le ope-
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quia participatione laudabilium, per quae deus ut causa et omne laudabile ut causatum laudatur, constituuntur. Et scio, quod deus meus maior omni laude per nullum laudabile, uti laudabilis est, laudari potest. Et omni conanti ipsum melius et melius laudare illi revelat se ipsum, ut videat ipsum esse laudabilem, gloriosum et superexaltatum in saecula: non solum in bonitate, qua se omnibus communicat, aut magnitudine, quam omnibus tribuit, aut pulchritudine, quam omnibus largitur, sive in veritate, qua nihil caret, sive sapientia, quae omnia ordinat, sive delectatione, qua omnia in se ipsis deliciantur, sive perfectione, de qua cuncta gloriantur, sive claritate, quae omnia illustrat, sive aequitate, quae omnia purificat, sive sufficientia, qua omnia quiescunt et contentantur, aut aliis divinis participationibus, sed ipsum deum deorum in Syon laudant, in revelato sui ipsius lumine ipsum contemplantes. 106
Capitulum XXXVI
De eodem Si recte consideras, veritas, verum et verisimile sunt omnia, quae mentis oculo videntur. Veritas est omne id quod esse potest, neque augmentabilis neque minorabilis, sed aeternaliter permanens. Verum est aeternae veritatis perpetua similitudo intellectualiter participata. Et quia unum verum est verius et clarius alio, verum, quod non potest esse verius, est absoluta et aeterna veritas. Actus enim verificabilis est aeterna veritas, actu se et cuncta verificans. Verisimile vero est ipsius intelligibilis veri temporalis similitudo. Sic sensibile est veri similitudo, quia intelligibilis imago, ut recte dicebat Dionysius; quod et Plato prius viderat. Intellectus igitur verus est, sicut et bonus et magnus et ita de reliquis decem, quia
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re di Dio sono degne di lode in quanto sono costituite mediante la partecipazione alle dieci proprietà degne di lode, attraverso le quali viene lodato Dio come causa e tutto ciò che è degno di lode come effetto. E so che il mio Dio è più grande di ogni lode, e che attraverso nessuna realtà degna di lode può essere lodato in modo conforme alla lode di cui egli è degno. A tutti quelli che si sforzano di lodarlo in maniera sempre migliore egli rivela se stesso, in modo tale che essi possano vedere che Dio è degno di lode, glorioso e superesaltato nei secoli: e si rivela non solo nella bontà, attraverso la quale si comunica tutti, o nella grandezza, che egli conferisce a tutte le cose, o nella bellezza, che egli dona a tutte le realtà, o nella verità, di cui nessun essere è privo, o nella sapienza, che ordina tutte le cose, o nel diletto, grazie al quale ogni cosa si rallegra di se stessa, o nella perfezione, della quale possono gloriarsi tutte le cose, o nella chiarezza, che illumina tutti gli esseri, o nell’equità, che purifica tutto, o nella sufficienza, grazie alle quale tutte le cose hanno la loro quiete e sono contente, o negli altri modi in cui Dio si partecipa. Essi piuttosto lo lodano come il Dio degli dèi in Sion377, contemplandolo nella sua stessa luce rivelata. CAPITOLO XXVI
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Sullo stesso argomento Se rifletti bene, ti rendi conto che la verità, il vero e il verosimile378 sono tutte cose che vengono viste con l’occhio della mente379. La verità è tutto ciò che essa può essere, e non può essere né aumentata, né diminuita, ma permane eternamente identica. Il vero è la similitudine perpetua della verità eterna, della quale la mente partecipa in modo intellettuale. E poiché una cosa vera è più vera è più chiara di un’altra, allora il vero che non può essere più vero è la verità assoluta ed eterna. La verità eterna, infatti, è un atto di cui è predicabile la verità e che conferisce in atto la verità a se stessa e a tutte le cose. Il verosimile, invece, è la similitudine del vero intelligibile. In modo analogo, il sensibile è la similitudine del vero, in quanto è l’immagine dell’intelligibile, come ha detto giustamente Dionigi e come aveva visto prima di lui anche Platone380. L’intelletto, pertanto, è vero, così come è anche buono e grande, e lo stesso
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est illorum intellectualis participatio. Et ultra hoc est etiam intelligendo verus, quando est rei intellectae adaequatus. Res enim intelligibilis tunc vere intelligitur, quando intelligibilitas eius est ita depurata ab omni extraneo, quod actu est vera intelligibilis species seu ratio rei. Et tunc intellectus in actu verus est, quia intellectus est idem cum intellecto. 107 Corruptibile non intelligitur nisi per incorruptibilem eius speciem. Abstrahit enim intellectus de sensibili intelligibilem speciem. Non enim species seu ratio intelligibilis calidi est calida aut frigidi frigida – ita de cunctis –, sed est ab omni alterabilitate absoluta, ut formam rei sicut exemplar eius verum vere repraesentet. Et quia solum illa incorporea et immaterialis rei species seu ratio est actu intelligibilis et in actu intellectum transformabilis, patet intellectum omni temporali et corruptibili altiorem et puriorem et naturaliter perpetuum. Quod et clarissime percipis, quando vides, quod depurata ab omni corruptibili materia, quae non indigent abstractione, citius intelliguntur: sicut secundum Proclum est li unum absolutum per se intelligibile et intellectui conforme, sicut lux visui et sic alia intelligibilia per se nota, quae sunt principia in mathematicis et aliis scientiis. Sunt enim sui ipsius species seu intelligibilis ratio. 108
Capitulum XXXVII
De declaratione Repetam unum saepissime dictum, quoniam est totius venationis nostrae ratio. Et est, quod factum cum sequatur posse fieri, numquam est ita factum, quod posse fieri sit in eo penitus terminatum. Nam etsi posse fieri, secundum quod est actu, sit termina-
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vale per le altre dieci proprietà, in quanto l’intelletto è una partecipazione intellettuale di esse. E, oltre a questo, l’intelletto è vero anche nell’intendere, quando è adeguato alla cosa conosciuta381. La cosa intelligibile, infatti, viene conosciuta veramente quando la sua intelligibilità viene purificata a tal punto da ogni elemento estraneo da essere in atto la vera specie intelligibile o la forma intelligibile dell’oggetto. Allora l’intelletto è vero in atto, in quanto l’intelletto è identico alla cosa conosciuta. Ciò che è corruttibile viene conosciuto dall’intelletto solo attraverso la sua specie incorruttibile. L’intelletto, infatti, astrae da ciò che è percepibile sensibilmente la specie intelligibile382. La specie intelligibile o la forma intelligibile del caldo, infatti, non è calda, né quella del freddo è fredda, e così via, ma è piuttosto separata da ogni alterabilità, in maniera tale da poter rappresentare in modo vero la forma della cosa, ossia il suo vero esemplare. E poiché solo la specie incorporea e immateriale della cosa, o la sua forma, è intelligibile in atto e può essere trasformata in ciò che è conosciuto in atto [dall’intelletto], è evidente che l’intelletto è superiore e più puro rispetto a tutto ciò che è temporale e corruttibile ed è per natura perpetuo383. E di questo ti rendi conto nel modo più chiaro quando osservi che gli oggetti che sono stati purificati da ogni materia corruttibile e che, quindi, non hanno bisogno di alcuna astrazione, vengono intesi immediatamente. In questo senso, secondo Proclo384, l’Uno assoluto è intelligibile per sé ed è conforme all’intelletto, come la luce è conforme alla vista e come sono noti per sé gli altri intelligibili che costituiscono i principi nell’ambito della matematica e delle altre scienze385. CAPITOLO XXXVII
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Spiegazione Ripeterò una cosa che ho detto molto spesso386, in quanto costituisce il motivo di fondo di tutta la nostra caccia. Ed è questa: dal momento che ciò che è fatto viene dopo il poter-essere-fatto, esso non è mai fatto in modo tale che il poter-essere-fatto trovi in esso la sua completa determinazione. Infatti, anche se il poter-essere-fatto è determinato secondo ciò che è in atto, non lo è, tuttavia, in sen-
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tum, tamen non simpliciter. Ut in Platone posse fieri hominem est terminatum, non tamen posse fieri hominem est penitus in Platone terminatum, sed tantum ille terminandi modus, qui dicitur Platonicus; et restant alii etiam perfectiores innumerabiles modi, neque etiam in Platone posse fieri hominis est terminatum. Multa enim homo fieri potest, scilicet musicus, geometricus, mechanicus, quae Plato non fuit. Unde posse fieri non determinatur simpliciter nisi in possest, suo principio pariter et fine, Dionysio attestante: Sic enim numerus terminatur in monade, suo principio pariter et fine. Principium enim omnis numeri est monas, ita et finis eius est monas. – Actu tamen terminatur posse fieri in mundo, quo actu perfectius maius que non est. Sic dicit regula: ‘In recipientibus maius non devenitur ad maximum simpliciter, sed bene actu maximum.’ Sicut in quantitate, quae maius recipit, non devenitur ad maximam quantitatem, qua maior esse non posset, quia hoc maximum, quod maius esse non potest, quantitatem praecedit. Bene tamen devenitur ad quantitatem actu maximam, ut est quantitas universi. 109 Factum autem semper est singulare et implurificabile, sicut omne individuum, sed non est semper incorruptibile, nisi sit primum. Quod enim imitatur primum, cum id sit quod est participatione primi, corruptibile est. Non enim potest eius incorruptibilem singularitatem, quae est immultiplicabilis, participare. Et quod prima, quorum esse non dependet a participatione alicuius prius facti, sint incorruptibilia, ideo est quia posse fieri est in ipsis specifice determinatum. Ob hoc intelligibilia et caelestia sunt incorruptibilia, sicut sunt intellectuales naturae et sol et luna et stellae. Quod autem sol et luna et stellae sint prima facta, Moyses clare in Gene-
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so assoluto. Ad esempio, in Platone il poter-essere-fatto dell’uomo è determinato; tuttavia, il poter-essere-fatto dell’uomo non è determinato in maniera completa in Platone, ma in lui è determinato solo quel modo di determinare che viene chiamato platonico, mentre ci sono ancora innumerevoli altri modi più perfetti [al di fuori di Platone]. Ma anche in Platone il poter-essere-fatto dell’uomo non è determinato in modo completo; un uomo, infatti, può diventare molte cose che Platone non fu, ad esempio un musicista, un geometra, un ingegnere387. Di conseguenza, il poter-essere-fatto non è determinato in modo assoluto se non nel potere-che-è, il quale è sia il principio, sia il fine del poter-essere-fatto, come attesta Dionigi388: in modo simile, dice infatti Dionigi, il numero è determinato nella monade, che è sia il principio, sia il fine del numero. Il principio di ogni numero, infatti, è la monade, così come il fine di ogni numero è la monade389. Il poter-essere-fatto, tuttavia, è determinato in atto nel mondo, del quale non c’è nulla che sia più grande e più perfetto in atto. Come dice la regola [della dotta ignoranza]: «Nelle cose che ammettono un di più non si giunge al massimo in quanto tale, ma ad un massimo in atto»390. Così, nella quantità, che ammette un di più, non si giunge ad una quantità massima, ad una quantità, cioè, di cui non ve ne possa essere una maggiore, poiché un massimo di questo genere, che non può essere maggiore, precede la quantità. Ciò a cui si giunge, invece, è una quantità che è in atto massima, come è la quantità dell’universo391. Ciò che è stato fatto è sempre singolare e non moltiplicabile [replicabile], come lo è ogni individuo, ma non è sempre incorruttibile, a meno che non si tratti di ciò che è primo. Ciò che imita il primo, infatti, essendo ciò che è per partecipazione al primo, è corruttibile. Non può infatti partecipare della singolarità incorruttibile del primo, che non è moltiplicabile. E che le realtà che sono state fatte per prime, il cui essere non dipende dalla partecipazione a qualcosa che è stato fatto prima di loro, siano incorruttibili, è dovuto al fatto che in esse il poter-essere-fatto è determinato in modo specifico. Per questo motivo, gli esseri intelligibili e gli esseri celesti sono incorruttibili, ad esempio le nature intellettuali e il sole, la luna e le stelle. Che, tuttavia, il sole, la luna e le stelle siano le realtà
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si refert illa a deo facta, ut semper luceant. Semper igitur et sine intermissione visibili mundo hoc est necessarium, si non debet deficere visibilitas eius. Ideo, quae facta sunt, ut luceant semper, sic manere necesse est. Quare non sunt facta post aliquod prius factum, cuius participatione id sint quod sunt. Ita posse fieri solem, lunam et stellas in ipsis individuis quae videmus est determinatum. Individua vero sensibilis naturae imitantur intelligibilia exemplaria et – ut dicit Dionysius – sunt ipsorum imagines, quae etsi secundum suam singularitatem non sint multiplicabilia, tamen, cum sint imagines intelligibilium, quorum participatione id sunt quod sunt, et cum intelligibilia per sensibilia non possint praecise imitari, variabiliter et temporaliter illa quae perpetua sunt participant. Quare secundum hoc perpetua esse nequeunt. 110
Capitulum XXXVIII
Rememoratio Nunc, ut per iteratam dictorum rememorationem clarius quae volo exprimam, adicio: Certum est, quod posse fieri se refert ad aliquid, quod ipsum praecedit. Et ideo, quia praecedit posse fieri, fieri nequit. Neque factum est, cum nihil sit factum, quod non potuit fieri. Factum igitur sequitur posse fieri. Cum autem id, ad quod se posse fieri refert et praesupponit, ipsum praecedat, necessario aeternum est. Unde cum aeternum non possit fieri, necesse erit, quod saltem aeternum non sit aliud ab eo, quod in posse fieri
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che sono state fatte per prime lo dice chiaramente Mosè nella Genesi, affermando che esse sono state fatte da Dio perché risplendano sempre392. E per il mondo visibile è necessario che esse risplendano sempre e senza interruzione, se la visibilità del mondo non deve venir meno. Pertanto, le cose che sono state fatte perché risplendano sempre è necessario che permangano in tale condizione. Per questo motivo, non sono state fatte dopo qualcosa che sarebbe stato fatto prima di esse e per partecipazione al quale esse sarebbero ciò che sono. Questo è il modo in cui il poter-essere-fatto del sole, della luna e delle stelle è determinato in questi corpi celesti individuali che vediamo. Le singole cose individuali, che sono di natura sensibile, imitano gli esemplari intelligibili e, come dice Dionigi 393, sono delle immagini di tali esemplari. Certamente, le singole cose sensibili non sono moltiplicabili secondo la loro singolarità; tuttavia, dal momento che sono immagini degli esemplari intelligibili, per partecipazione ai quali esse sono ciò che sono, e dal momento che gli esemplari intelligibili non possono essere imitati in modo preciso dalle cose sensibili, queste partecipano in maniera diversa e in modo temporale di quegli esemplari, che sono perpetui. Per questo motivo, pertanto, le cose sensibili non possono essere perpetue. CAPITOLO XXXVIII
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Riepilogo Per esprimere in modo più chiaro quanto intendo dire, vorrei riepilogare ancora una volta le cose che sono state dette e vorrei aggiungere quanto segue: è certo che il poter-essere-fatto rinvia a qualcosa che lo precede. E poiché questo qualcosa precede il poter-essere-fatto, esso non può essere fatto. Né è stato fatto, dal momento che nulla è stato fatto che non poteva essere fatto. Pertanto, ciò che viene fatto viene dopo il poter-essere-fatto. Tuttavia, poiché ciò a cui rinvia il poter-essere-fatto e che quest’ultimo presuppone precede il poter-essere-fatto, esso è, necessariamente, eterno394. Di conseguenza, dal momento che ciò che è eterno non può essere fatto, sarà necessario che almeno ciò che è eterno non sia altro da ciò che viene attribuito al poter-essere-fatto. Ciò che è eterno, pertan-
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affirmatur. Aeternum igitur non est aliud ab omni eo quod fit, licet non fiat. Est igitur principium et finis ipsius posse fieri. Hinc, quod factum est, infactibilis aeterni est repraesentatio. Patet posse fieri mundum se referre ad mundum archetypum in aeterna mente dei. Et quia aeternitas est nec plurificabilis nec multiplicabilis nec aliquod possibilitatem significans, cum posse fieri praecedat, ideo, sicut nec intelligibilis nec sensibilis, ita nec plene repraesentabilis nec imaginabilis nec assimilabilis. Quare non terminatur posse fieri ultimate in aliquo quod sequitur ipsum, sed eius terminus ipsum antecedit. 111 Video igitur omnia quae fieri possunt non habere nisi simplex illud exemplar, quod non est aliud ab omni quod fieri potest, cum sit actus omnis posse; quodque cum sit actus omnis posse et non possit esse aliud nec maius nec minus nec aliter nec alio modo, tunc non est aliud ab aliquo nec maius nec minus aliquo nec aliter nec alio modo. Ideo est omnium, quae sunt, vivunt et intelligunt, causa, exemplar, mensura, modus et ordo; et nihil in omnibus et singulis est reperibile, quod ab eo ut a causa non sit et procedat. Et quia omnia non sunt nisi illius solius repraesentatio, omnia ad ipsum sunt conversa, omnia ipsum desiderant, praedicant, laudant, glorificant et clamant ipsum hoc esse infinitum bonum in omnibus relucens, cuius participatione id sunt quod sunt. Ex omnibus igitur quae actu sunt, colligo ipsum, qui est terminus interminus, nullo termino aut actu cuiuscumque intellectus capi posse, cum intellectus et omnia sint imago et similitudo eius. Video enim omnia quae sunt actu imaginem illius sui exemplaris praeferre, in cuius comparatione nec actu sunt nec perfecta imago ipsius sunt, cum omnis omnium imago perfectior praecisiorque esse possit.
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to, non è altro da tutto ciò che è fatto, per quanto esso non sia fatto. È quindi il principio e il fine del poter-essere-fatto. Di conseguenza, ciò che è fatto è una rappresentazione dell’eterno, che non può essere fatto. È evidente che il poter-essere-fatto del mondo rinvia ad un mondo archetipo presente nella mente eterna di Dio. E poiché l’eternità non è né replicabile, né moltiplicabile, né è qualcosa che designi una possibilità, dal momento che precede il poter-essere-fatto, essa, come non è né intelligibile, né sensibile, così non è neppure pienamente rappresentabile, né pienamente immaginabile, né pienamente assimilabile. Per questo, il poter-esserefatto non ha ultimamente il suo limite in qualcosa che venga dopo di esso, ma il suo limite viene piuttosto prima di esso. Vedo, pertanto, che tutte le cose che possono essere fatte non hanno se non quel semplice esemplare che, essendo l’atto di ogni potere, non è altro da tutto ciò che può essere fatto; inoltre, essendo l’atto di ogni potere e non potendo essere altro [da come è], né più grande, né più piccolo, e non potendo esistere altrimenti o in altro modo [da come esiste], vedo allora che esso non è altro da nulla, non è né più grande, né più piccolo di nulla, e non esiste altrimenti, né in altro modo. Per questo, esso è la causa, l’esemplare, la misura, il modo, l’ordine di tutte le cose che sono, che vivono e che intendono; e in tutte le cose e in ognuna di esse singolarmente presa non si può trovare nulla che non derivi e non proceda da quell’esemplare come dalla sua causa. E poiché tutte le cose non sono che una rappresentazione di quell’unico esemplare, tutte sono rivolte a lui, tutte lo desiderano, lo proclamano, lo lodano, lo glorificano e gridano che esso è quel bene infinito che risplende in tutte le cose, per la partecipazione al quale tutte sono ciò che sono. Partendo da tutte le cose che esistono in atto, giungo pertanto alla conclusione che colui che è il limite senza-limite395 non può essere colto mediante nessun limite, o mediante nessun atto di qualsiasi intelletto, poiché l’intelletto e tutte le altre cose sono una sua immagine e una sua similitudine. Vedo, infatti, che tutte le cose che esistono in atto recano un’immagine di questo loro esemplare, rispetto al quale esse non sono né in atto, né sono di esso una perfetta immagine, dal momento che ciascuna di tutte queste immagini può essere più perfetta e più precisa.
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tamen in termino, ad quem imaginis perfectio et praecisio terminatur, ipsum a remotis per infinitum. Sic actum vitae video illius nobiliorem imaginem esse. Sed cum vita possit esse perfectior et purior sine mixtura et umbra, in termino simplicitatis et praecisionis a remotis video vitam aeternam omnis vitae exemplar, quae est vita vera vitam omnem faciens, ad quam se habet omnis haec vita minus quam pictus ignis ad verum. Deinde actum intellectus conspicio, qui est similitudo quaedam divini et aeterni sui exemplaris. Huius vivae et intelligentis similitudinis terminum, qui ostendit praecisam dei similitudinem, per infinitum distare video ab omni actu intellectus. Et dico: Ex quo omne quod esse, et esse et vivere, et esse, vivere et intelligere potest, non est adeo praecisa aeterni exemplaris imago, ut similitudo eius deposcit, tunc video deum in excessu super omnia, quae sunt aut fieri possunt, tam in excessu ipsius esse quam ipsius vivere et intelligere omnium, quoniam maior est omni, quod esse aut vivere aut intelligere potest; et tanto his omnibus praecelsior perfectiorque, quanto veritas praecellit suam imaginem et similitudinem. Est enim veritas hypostasis suae imaginis et similitudinis, a quibus non est aliud. Ab ipsa enim sunt exemplatae in tantum subsistentes et veritatem participantes sui exemplaris, in quantum sunt ipsum imitantes et repraesentantes. 113 Nec haec omnia, quae sic video et nequaquam effari aut scribi possunt sicuti video, sunt ad brevius per me reducibilia, quam quod minus posse fieri determinatum est posse facere determinatum, ut terminus posse fieri calidum est posse facere calidum. Ignis
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Questo esemplare, tuttavia, lo vedo, da lontano e da una distanza infinita, nel limite ultimo al quale tende e nel quale termina la perfezione e la precisione dell’immagine. In questo modo, vedo che l’atto della vita è un’immagine più nobile di esso. Ma dal momento che la vita può essere più perfetta e più pura, priva di ogni mescolanza e di ogni ombra, allora nel limite ultimo della semplicità e della precisione vedo da lontano la vita eterna come l’esemplare di ogni vita; essa è la vera vita che genera ogni vita, e rispetto ad essa tutta la vita di qui è meno di un fuoco dipinto rispetto al fuoco vero. Rivolgo poi la mia attenzione all’atto dell’intelletto, il quale è una certa similitudine del suo esemplare divino ed eterno396. Vedo che il termine ultimo di questa similitudine dotata di vita e di intelligenza, termine che manifesta la precisa similitudine di Dio, è infinitamente distante da ogni atto dell’intelletto. Allora dico: tutto ciò che può essere, o che può essere e vivere, o che può essere vivere ed intendere, non è un’immagine così precisa dell’esemplare eterno come richiederebbe il fatto di essere una sua similitudine. In base a questo, vedo che Dio è al di là e al di sopra di tutte le cose che sono o che possono essere fatte, che è al di là sia dell’essere, sia del vivere e dell’intendere di tutte le cose, in quanto egli è più grande di tutto ciò che può essere, o che può vivere, o che può intendere; ed egli è tanto superiore e più perfetto rispetto a tutte queste cose, quanto la verità [l’esemplare] è superiore rispetto ad una sua immagine e ad una sua similitudine. La verità [l’esemplare], infatti, è il fondamento di ogni sua immagine e di ogni sua similitudine, e non è qualcosa di altro da esse. Le immagini, infatti, sono copie dell’esemplare, ed esse sussistono e partecipano della verità del loro esemplare solo nella misura in cui lo imitano e lo rappresentano. Tutto ciò che vedo in questo modo, e che non può mai essere espresso a parole o trascritto così come lo vedo, non è a mio avviso riassumibile in una formula più concisa di questa: il termine ultimo del poter-essere-fatto di tutte le cose è il poter-fare tutte le cose. Ad esempio, il termine ultimo del poter-essere-fatto di ciò che è determinato è il poter-fare ciò che è determinato, così come il termine ultimo del potere-essere-fatto del caldo è il poter-fare il caldo. Il
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enim, qui dicitur terminus posse fieri calidum, potest facere calida. Et ita posse fieri lucidum terminatur in posse facere lucida, uti sol dicitur in sensibilibus et in intelligibilibus divinus intellectus seu verbum omnem intellectum illuminans. Et terminus posse fieri perfectum est posse facere perfecta, et terminus posse moveri est posse movere. Quare desideratum, quod omnia desiderant, quia terminus desiderabilium, est omnis desiderii causa et terminus omnium eligibilium et omnis electionis causa. 114 Ex quo patet: Cum terminus omnis posse fieri sit omnipotens omnia potens facere, tunc et ipsum posse fieri potest facere. Et ita est illius terminus, cuius est principium, et non est posse fieri ante omnipotentem, sicut in omnibus quae facta sunt posse fieri prioriter videtur, scilicet tam posse fieri simpliciter, cuius initium et finis est omnipotens quam posse fieri contractum ad id quod fit, in quo terminatur ipsum posse fieri, quando fit actu tale, quod tale fieri potuit. Et haec determinatio est creatoris ipsius posse fieri, qui cum sit omnipotens, solus determinare habet, quod posse fieri sic aut sic fiat. Et quia posse fieri non terminatur nisi per omnipotentem, omnis determinatio ipsius posse fieri in eo quod fit, non est terminatio ipsius posse fieri, quin omnipotens de eo facere possit, quicquid voluerit; sed est determinatio ipsius posse fieri singulariter ad hoc contracta, quae est ipsius, quod sic factum est, natura et substantia.
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fuoco, infatti, che viene descritto come il termine ultimo del potere-essere-fatto del caldo, può fare cose calde. Ed in modo simile, il potere-essere-fatto di ciò che è luminoso raggiunge il suo termine ultimo nel poter-fare cose che sono luminose, come si dice faccia il sole nell’ambito delle realtà sensibili, e, come nella ambito di quelle intelligibili, fa l’intelletto divino o il Verbo che illumina ogni intelletto. E il termine ultimo del potere-essere-fatto perfetto è il poter-fare cose perfette, mentre il termine ultimo del potere-esseremosso è il poter-muovere. Per questo motivo, l’oggetto del desiderio che tutte le cose desiderano, in quanto è il termine ultimo di tutto ciò che è desiderabile, è la causa di ogni desiderio, e il termine ultimo di tutto ciò che può essere scelto è la causa di ogni scelta. Da ciò risulta evidente quanto segue: dal momento che il termine ultimo del poter-essere-fatto è l’Onnipotente, il quale può fare tutte le cose, egli, allora, può fare anche il poter-essere-fatto. Ed in questo modo egli è il termine ultimo di ciò di cui è il principio, ed il poter-essere-fatto non è prima dell’Onnipotente, come accade, invece, in tutte le cose che sono state fatte, nelle quali si vede che viene prima il potere-essere-fatto, sia il poter-essere-fatto puro e semplice, il cui inizio e il cui fine è l’Onnipotente, sia il poter-esserefatto che è contratto in ciò che viene fatto [in atto]; in quest’ultimo trova il suo termine il poter-essere-fatto, nel momento in cui una cosa diventa in atto quale poteva essere fatta. E questa determinazione è propria del creatore dello stesso poter-essere-fatto, il quale, essendo Onnipotente, è il solo che ha il potere di determinare che il poter-essere-fatto diventi in un modo o in un altro. E poiché il poter-essere-fatto non viene delimitato se non dall’Onnipotente, ogni determinazione del poter-essere-fatto in ciò che è fatto [in atto] non è una delimitazione del poter-fare stesso, come se l’Onnipotente non possa più fare da esso qualunque cosa egli voglia; si tratta, piuttosto, di una determinazione del poter-essere-fatto che viene contratto nella singolarità di una determinata cosa, e questa determinazione costituisce la natura e la sostanza della cosa che è stata fatta in quel modo.
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Epilogatio Quia nihil factum est quod non potuit fieri, et nihil se ipsum facere potest, sequitur, quod triplex est posse: scilicet posse facere, posse fieri et posse factum. Ante posse factum posse fieri; ante posse fieri posse facere. Principium et terminus posse fieri est posse facere. Posse factum per posse facere de posse fieri est factum. Posse facere, cum sit ante posse fieri, nec est factum nec fieri potest aliud. Est igitur omne quod esse potest. Non potest igitur esse maius, et hoc vocamus maximum; nec minus, et hoc vocamus minimum; nec potest esse aliud. Omnium igitur est causa efficiens, formalis seu exemplaris et finalis, cum sit terminus et finis posse fieri et ideo posse facti. Sunt igitur in ipso posse facere omnia, quae possunt fieri et quae facta sunt, prioriter ut in causa efficienti, formali et finali; et posse facere est in omnibus ut absoluta causa in causatis. 116 Sed posse fieri est in omnibus quae facta sunt id quod factum est, nam nihil factum est actu nisi id quod fieri potuit; sed alio essendi modo: imperfectiori modo in potentia et perfectiori in actu. Non igitur posse fieri et posse factum in essentia sunt differentia. Sed posse facere, licet non sit aliud, tamen, cum sit causa essentiae, non est essentia. Essentia enim est suum causatum. Quoniam autem posse fieri non est posse factum, non est posse fieri de posse fieri factum, sed ante posse fieri nihil est nisi posse
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CAPITOLO XXXIX
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Conclusione Poiché non è possibile che sia stato fatto qualcosa che non poteva essere fatto397 e poiché nessuna cosa può fare se stessa, ne consegue che il potere è triplice: il poter-fare, il poter-essere-fatto e il potere-che è stato-fatto398. Prima del potere-che è stato-fatto c’è il poter-essere-fatto; prima del poter-essere-fatto c’è il poter-fare. Il poter-fare è il principio e il termine ultimo del poter-essere-fatto399. Il potere-che è stato-fatto è fatto grazie al poter-fare a partire dal poter-essere-fatto. Il poter-fare, essendo anteriore al poter-essere-fatto, non è stato fatto, né può essere fatto, diventando qualcosa di altro [da quello che esso è]. Pertanto, esso è tutto ciò che può essere. Non può quindi essere più grande, e [per questo] lo chiamiamo massimo, né può essere più piccolo, e [per questo] lo chiamiamo minimo400, e non può neppure essere altro. Di conseguenza, esso è la causa efficiente, la causa formale, o esemplare, e la causa finale di tutte le cose401, in quanto è il termine e il fine del poter-essere-fatto, e quindi anche del potere-che è stato-fatto. Pertanto, tutte le cose che possono-essere-fatte e che sono state fatte sono presenti anteriormente nel poter-fare come nella loro causa efficiente, formale e finale; e il poter-fare è presente in tutte le cose, come la causa assoluta è presente in tutte le realtà che sono da essa causate. In tutte le cose che sono state fatte, il poter-essere-fatto è quella determinata cosa che è stata fatta, in quanto nessuna cosa che è stata fatta è in atto se non ciò che poteva essere fatta. Tuttavia, [il poter-essere-fatto è quella determinata cosa che è stata fatta] secondo modi d’essere diversi: in quanto è in potenza, secondo un modo più imperfetto, in quanto è in atto, secondo un modo più perfetto. Il poter-essere-fatto e il potere-che è stato-fatto non sono pertanto differenti per quanto riguarda l’essenza. Il poter-fare, invece, per quanto non sia altro [da nulla], non è tuttavia l’essenza [di nessuna cosa], essendo esso la causa dell’essenza. L’essenza, infatti, è causata da esso. Tuttavia, dal momento che il poter-essere-fatto non è il potereche è stato-fatto, il poter-essere-fatto non viene fatto a partire dal
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facere. De nihilo igitur dicitur posse fieri factum. Sic dicimus posse facere praecedere nihil, sed non posse fieri. De nihilo igitur posse fieri, cum sit per posse facere productum et non factum, creatum dicimus. Cum autem ipsum absolutum posse facere nominemus omnipotentem, dicimus omnipotentem aeternum nec factum nec creatum et qui nec annihilari aut aliter fieri potest quam est, quia ante nihil et posse fieri. Et omnia de ipso negamus quae nominabilia sunt, quoniam illa posse fieri sequuntur. Nominabile enim posse fieri, scilicet quod nominetur, praesupponit. 117 Nec posse fieri terminatur nisi in posse facere; ideo non annihilabitur. Hoc enim si fieret, fieri posset. Quomodo tunc posse fieri annihilaretur? Est igitur perpetuum, cum habeat initium et annihilari non possit, sed terminus eius sit suum initium. Quoniam autem, quae fieri possunt, aliqua sunt prima, aliqua post prima et prima imitantia – in primis cum eorum posse fieri sit actu et completum –, ideo sunt sicut posse fieri perpetua. In sequentibus posse fieri non est completum et perfectum nisi secundum imitationem completi; ideo illa non sunt perpetua, sed imitantur illa quae perpetua sunt. Id vero, quod perpetuum et stabile non est sed mutatur, instabile et temporale est. Haec sint de praeinsertis breviter repetita. 118 Verum quoniam in arte huius generalis venationis sapientiae per particularia firmius solidamur, applicemus hanc formam venationis ad aliquod sensibile, et sit caliditas. Et dicamus: Triplex est posse, scilicet posse facere calidum, posse fieri calidum et pos-
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poter-essere-fatto, ma prima del poter-essere-fatto non c’è nulla se non il poter-fare. Per questo motivo, si dice che il poter-essere-fatto è fatto dal nulla. Così, diciamo che il poter-fare precede il nulla, ma non che il potere-essere-fatto precede il nulla. Diciamo, pertanto, che il potere-essere-fatto è stato creato dal nulla, dal momento che esso è stato prodotto, e non fatto, dal poter-fare402. Tuttavia, dal momento che designamo il poter-fare assoluto come onnipotente, allora diciamo che l’Onnipotente è eterno, che non è stato né fatto, né creato, e che egli è colui che non può essere né annientato, né fatto diverso da quello che è, in quanto è anteriore al nulla e al potere-essere-fatto403. E di lui neghiamo tutti predicati che possono essere nominati, in quanto essi vengono dopo il poter-essere-fatto. Ciò che è nominabile, infatti, presuppone il poter-essere-fatto, presuppone, cioè, che qualcosa possa essere fatta ciò che viene nominata. Il poter-essere-fatto ha il suo termine ultimo solo nel poter-fare, e per questo non sarà mai annientato. Se ciò avvenisse, significherebbe che poteva essere fatto. In che modo, allora, verrebbe annientato il poter-essere-fatto? Il poter-essere-fatto, quindi, è perpetuo, in quanto ha un inizio e tuttavia non può essere annientato, ma il suo termine ultimo è il suo inizio. Tuttavia, fra le creature che possono essere fatte, alcune sono prime, altre vengono dopo le prime ed imitano le prime. Per quanto riguarda le prime, esse sono perpetue come lo è il poter-essere-fatto, in quanto il loro poter-essere-fatto è in esse in atto e completo. Per quanto riguarda le cose che vengono dopo le prime, il poter-essere-fatto non è in esse completo e perfetto, se non secondo un’imitazione di ciò che è completo; per questo motivo, esse non sono perpetue, ma imitano piuttosto quelle cose che sono perpetue. Ora, ciò che non è perpetuo e stabile, ma è soggetto al mutamento, è instabile e temporale. Si consideri quest’esposizione come una breve ripetizione di quanto abbiamo già detto in precedenza404. Tuttavia, dal momento che nell’arte di questa caccia generale della sapienza procediamo con più sicurezza se ci appoggiamo a degli esempi particolari, applichiamo questo tipo di caccia a qualcosa che sia percepibile sensibilmente, e consideriamo, ad esempio, il calore. E diciamo: c’è un triplice potere, ossia il poter-fare caldo,
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se factum calidum. Et procedamus contracte, modo quo supra absolute. Et dicamus: Posse factum calidum habet ante se posse fieri calidum, sed posse fieri calidum non potest se facere actu calidum. Igitur ante posse fieri calidum est posse facere calidum. Et quia posse facere calidum praecedit posse fieri calidum, tunc est omne id quod calidum esse potest, et ita nec maius nec minus nec aliud esse potest. Est igitur, quoad omnia calida, creator ipsius posse fieri calidum et de posse fieri omne calidum in actum producit estque omnium calidorum causa efficiens, formalis et finalis. Et est in omnibus calidis ut causa in causato, et omnia calida in ipso ut causatum in causa. Et erit respectu calidorum sine principio et fine et nequaquam essentia calidorum, sed causa essentiae, et innominabile per omnia nomina calidorum. 119 Et posse fieri calidum est initiatum et sine fine, et aliqua calida sunt, in quibus completur posse fieri, et durant semper. Aliqua sequuntur illa et instabilia sunt, et calor in ipsis deficit. Et quamvis quidam illud calidum, quod est omne quod calidum esse potest, nominent hunc sensibilem ignem ardentem, non est tamen ille, cum omnis calor cuiuscumque sensibilis ignis non sit finis omnis posse fieri calidum, cum omnis caliditas sensibilis maior esse posset. Sed id quod dicimus ignem, est igneum – secundum Platonem – aut ignitum, et non tantum ignitum quantum igniri posset. Praecedit igitur per se ignis omne ignibile et ignitum, quorum est causa, et est ante omnem sensibilem ignem penitus invisibilis et incognitus; quare primae causae similitudo, ut Dionysius late hoc explanat. Quod ille sanctus vidit, qui aiebat quod deus esset ignis consumens. 120 Ante autem hunc sensibilem ignem est motus et lux. Nam per
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il poter-essere-fatto caldo e il poter-essere-che è stato fatto-caldo. E in riferimento a quest’esempio particolare procediamo nello stesso modo in cui, prima405, abbiamo proceduto in generale. E diciamo: il poter-essere-che è stato fatto-caldo ha prima di sé il poter-essere-fatto caldo, ma il poter-essere-fatto caldo non può farsi da sé caldo in atto. Di conseguenza, prima del poter-essere-fatto caldo c’è il poter-fare caldo. E poiché il poter-fare caldo precede il poter-essere-fatto caldo, esso è tutto ciò che il caldo può essere, per cui non può essere né maggiore, né minore, né altro da quello che è. Di conseguenza, esso è, per tutte le cose calde, il creatore del potereessere-fatto caldo ed è ciò che conduce tutto ciò che è caldo dal poter-essere-fatto all’atto, ed è la causa efficiente, formale e finale di tutte le cose calde. Ed esso è presente in tutte le cose calde come la causa è presente nel causato, e tutte le cose calde sono presenti in esso come il causato è presente nella causa. E rispetto alle cose calde, esso sarà senza principio e senza fine, e non sarà in alcun modo l’essenza delle cose calde, ma sarà la causa della loro essenza e non potrà essere nominato con nessuno dei nomi delle cose calde. Ora, il poter-essere-fatto caldo ha un inizio, ma è senza fine, e ci sono alcune cose calde nelle quali il poter-essere-fatto [caldo] si realizza compiutamente, per cui esse restano sempre calde. Altre cose calde vengono dopo di queste e sono instabili, per cui in esse il calore si estingue. Anche se alcuni dicono che questo o quel fuoco sensibile, che arde intensamente, è quel caldo che può essere tutto ciò che il caldo può essere, esso non lo è, in quanto nessun calore di qualsiasi fuoco sensibile è il punto finale del poter-essere-fatto caldo [del caldo], dato che ogni calore sensibile può essere ancora maggiore. Ma ciò che noi chiamiamo fuoco è qualcosa di igneo, come dice Platone406, o qualcosa di infuocato, e non è infuocato tanto quanto potrebbe esserlo. Il fuoco per sé, pertanto, precede tutto ciò che è infuocabile e infuocato e ne è la causa; esso è prima di ogni fuoco sensibile ed è del tutto invisibile e sconosciuto; per questo motivo, [il fuoco] per sé è una similitudine della causa prima, come spiega ampiamente Dionigi407. Lo ha visto bene quel santo che diceva che Dio è un fuoco che consuma408. Prima di questo fuoco sensibile, tuttavia, ci sono il movimento e la luce. Per mezzo del movimento, infatti, ciò che è infiamma-
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motum ignibile ignitur, et lux ipsum concomitatur. Sic et de lucido sicut de calido, et de luce sicut de igne; et quod nec sol nec aliquod sensibile sit lux, quae causa lucidorum, sed ipsa omnia sint lucida et non ipsa lux. Sic etiam de frigido, humido et cunctis, quae secundum magis et minus participantur. Omnis enim multitudinis unitas est principium, ut Proclus dicit, et omnium talium maxime tale, ut vult Aristoteles, et cunctorum per participationem talium per se tale, et omnium per se talium per se simplex, uti Platonici, et omnium, quae per se cum addito, per se sine addito causa est. Et hoc per se est causa causarum omnium et singularum, ut illud supra varie ob varias participantium diversitates omnium principium nominatur, licet omne nominabile antecedat. Illa dicta sunt Platonicorum et Peripateticorum, quae oportet sane intelligi quoad principium et causam. Nam non est nisi unum causale principium, quod possest nomino, ad quod omne posse fieri determinatur; licet primum in ordine vocetur etiam aliorum principium, quae ipsum sequuntur, et vocetur maxime tale, cuius participatione alia talia sunt, tamen non maxime simpliciter, sed maxime tale. 121 Poteris etiam ex his venari ordinem prioritatis et posterioritatis.
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bile si infiamma, e a questo movimento si accompagna la luce. Lo stesso si deve dire per ciò che è luminoso, come per il caldo, per la luce, come per il fuoco; e si deve dire che né il sole, né qualsiasi altra cosa sensibile è la luce, la quale è la causa delle cose luminose; bisogna piuttosto dire che tutte queste cose sensibili sono luminose e non sono la luce409. Lo stesso vale per il freddo, per l’umido e per tutto ciò di cui le cose partecipano secondo un grado maggiore o minore. L’unità, infatti, è il principio di ogni molteplicità410, come dice Proclo411, e di tutte le cose che sono determinate in un certo modo la causa, come vuole Aristotele412, possiede quella determinata proprietà in grado massimo; e di tutte le cose che sono determinate in un certo modo per partecipazione la causa è ciò che è determinato in quel modo per sé; delle cose, poi, che sono determinate per se stesse in quel modo la causa, come sostengono i Platonici, è ciò che è per sé semplice413, e di tutte le cose che sono per sé e che hanno aggiunta una qualche determinazione la causa è ciò che è per sé senza aver raggiunta alcuna ulteriore determinazione. E ciò che è per sé in questo modo è la causa di tutte le cause e di ciascuna di esse, così come sopra abbiamo visto che al principio di tutte le cose, sebbene preceda tutto ciò che è nominabile, vengono attribuiti diversi nomi sulla base delle differenze che vi sono fra le diverse cose che partecipano di esso. Queste sono le affermazioni che sono state fatte dai Platonici e dagli Aristotelici, ed esse devono essere intese correttamente in riferimento al principio e alla causa. Non c’è infatti che un unico principio causale, che io designo con l’espressione il «potere che è»414, in rapporto al quale viene determinato ogni poter-essere-fatto. Certamente, anche ciò che è primo in un [determinato] ordine viene chiamato «principio» delle altre cose che vengono dopo di lui, e si dice che esso è quella determinata realtà [di quell’ordine] in senso massimo, per partecipazione alla quale le altre cose [di quell’ordine] sono determinate in quel modo; un principio di questo genere, tuttavia, non è il massimo in quanto tale, ma è quel determinato massimo. Queste considerazioni potranno anche aiutarti, nella tua caccia, a rintracciare quale sia l’ordine di priorità e di posteriorità che vi è
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Nam ‘per se’ omnia participantia praecedit, sicut per se calidum, puta ignitum, aërem calidum, aquam calidam et terram calidam et omne posse fieri calidum antecedit. Et ideo nec ignis humidus aut frigidus aut terreus seu siccus fieri potest; illa enim praecedit. Et quia aqua est per se frigida, ipsa est ante terram, quae frigida fieri potest. Ita et non est post aërem, quia aër similiter frigidus fieri potest. Sic aër est ante terram, quia per se humidus; et terra potest fieri humida et non est post aquam, quae similiter humida fieri potest. Sic terra est inter elementa ultimum et ignis primum. Aër vero et aqua simul medium tenent, et unum non est prius alio in ordine, sed simul cum alio. Ideo, sicut aqua conectitur terrae sine medio, ita et aër aridae terrae, licet maior sit amicitia ignis cum aëre et aquae cum terra. Et quia aqua in aërem et aër in aquam convertitur et varie misceri possunt et ignis calorem participare et in terra solidari, haec quae generantur ex illis esse oportet. 122 Et consequenter, quia luce terra, aqua, aër, ignis, luna et stellae participant, erit per se lux omnium lucidorum causa. Quam quidam solem nominant, quia inter sensibilia lucida est maxime lucidus. Hinc omnium luce participantium, in eo quod sensibiliter lucida, causa dicitur. Sed cum non sit lux, sed lucidum, ut prius dictum est, hinc lux ipsius causa et omnium lucidorum; nihil enim omnium talium. Quare sol maxime lucidus nec siccus nec frigidus nec humidus nec calidus nec lunaticus nec Venerialis nec Mercurialis nec Iovialis nec Saturninus nec naturae cuiuscumque stellae
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tra gli esseri. Infatti, ciò che è per sé precede tutto ciò che partecipa di esso; ad esempio, ciò che è di per sé caldo, ossia ciò che è infuocato, precede l’aria calda, l’acqua calda, la terra calda e ogni altra cosa che può essere resa calda. Per questo motivo, il fuoco non può diventare umido, o freddo, o terreo, o secco, in quanto precede tutte queste proprietà. E dal momento che l’acqua è di per sé fredda, essa è anteriore alla terra, che può diventare fredda. Per lo stesso motivo, l’acqua non è posteriore all’aria, in quanto l’aria può anch’essa diventare fredda. Allo stesso modo, l’aria è anteriore alla terra, in quanto l’aria è di per sé umida, mentre la terra può diventare umida, e non è neppure posteriore all’acqua, che può anch’essa diventare umida. Così, tra gli elementi, la terra è l’ultimo e il fuoco il primo. L’aria e l’acqua, invece, occupano entrambe una posizione intermedia, e nell’ordine degli elementi non viene prima l’una e poi l’altra, ma esse sono presenti insieme415. Pertanto, come l’acqua si unisce alla terra senza aver bisogno di un elemento intermedio, così anche l’aria si unisce alla terra arida, per quanto sia maggiore l’amicizia che lega fra loro il fuoco e l’aria, e l’acqua e la terra. E poiché l’acqua si trasforma in aria e l’aria in acqua, e poiché, inoltre, l’acqua e l’aria possono mescolarsi in modi diversi, possono partecipare del fuoco e possono solidificarsi in terra, tutte le cose che si generano devono necessariamente essere costituite di questi [quattro] elementi. E, di conseguenza, poiché la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco, la luna e le stelle partecipano della luce, quella che è la luce «per sé» sarà la causa di tutte le cose luminose. Alcuni la chiamano sole, perché, tra le cose luminose che possiamo percepire sensibilmente, il sole è quella che è luminosa in modo massimo. Di conseguenza, il sole viene detto la causa di tutte le cose che partecipano della luce per il fatto che la loro luminosità è percepibile sensibilmente416. Tuttavia, dal momento che il sole non è la luce, ma è qualcosa di luminoso, come abbiamo detto in precedenza417, la causa del sole e di tutte le cose luminose è la luce; essa, infatti, non è nessuna di tutte le cose luminose. Per questo motivo, il sole, che è luminoso in modo massimo, non è né secco, né freddo, né umido, e non ha nessuna delle caratteristiche che sono proprie della Luna, di Venere, di Mercurio, di Giove, né ha la natura di nessuna stella418 e di
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aut ullius visibilis, sed omnis lucis sive elementalis sive mineralis sive vegetabilis sive sensibilis principium. 123 Sic per se sapientia, quae est lux intelligibilis, est ante omne, quod particeps esse potest lucis illius, sive vocetur sensus sive imaginatio sive aestimatio sive ratio sive anima intellectiva sive intelligentia aut alio quocumque nomine nominetur. Et est prior omnibus sensibilibus et intelligibilibus et omni discretione et ordine, quorum omnium causa. Est autem sol sensibilis, quia visibilis; praecedit igitur ipsum sensus. Sed quia lux per se visibilis est visibilium materialis causa et quia visus in actu est visibile in actu, ideo visus est visibilium formalis causa, quia posse videri posse videre causa est. Et ita patet quomodo lux sensibilis cum luce intelligibili conectitur in visu sicut extrema, scilicet supremum inferioris et corporalis naturae cum inferiori superioris cognoscitivae naturae. 124 Laudant non immerito cuncti magnum Platonem, qui de sole ad sapientiam per similitudinem ascendit. Ita et magnus Dionysius, qui de igne ad deum et de sole ad creatorem per proprietatum similitudines quas enarrat ascendit. Ita et Gregorius Theologus in Sermonibus theologicis contra Eunomianos faciendum suadet, quia in speculo et aenigmate in hoc mundo, ut divinus Paulus refert, ascendi oportet, ubi partim scimus et partim prophetamus. Per haec arbitror mearum venationum rudem et non plene depuratum conceptum, quantum mihi possibile fuit, explicasse, omnia submittens melius haec alta speculanti.
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nessun’altra realtà visibile, ma è piuttosto il principio di ogni luce, di quella presente negli elementi, negli esseri minerali, negli esseri vegetali e negli esseri sensibili. In modo simile, quella che è la sapienza «per sé», e che è una luce intelligibile, precede tutto ciò che partecipa di tale luce419, lo si chiami senso, immaginazione, giudizio, ragione, anima intellettiva o intelligenza, o con qualsiasi altro nome. E la sapienza «per sé» è anteriore a tutte le cose sensibili e intelligibili, ad ogni distinzione e ordine, e di tutto questo essa è la causa. Il sole, invece, è una realtà sensibile, in quanto è visibile; i sensi, pertanto, sono anteriori [ontologicamente] ad esso. Poiché, tuttavia, la luce, che è per sé visibile, è la causa materiale delle cose visibili, e poiché la vista in atto è il visibile in atto, ne consegue che la vista è la causa formale delle cose visibili, in quanto il poter-vedere è la causa del poter-essere-visto. Risulta pertanto evidente che, nella vista, la luce sensibile è connessa con la luce intelligibile, ed esse sono connesse nei loro punti estremi, ossia il vertice della natura inferiore, quella corporea, è connesso con il livello inferiore della natura superiore, quella conoscitiva420. Tutti elogiano non a torto Platone, il quale, servendosi di una similitudine, ascende dal sole alla sapienza421. Allo stesso modo ha proceduto anche il grande Dionigi, il quale ascende dal fuoco a Dio e dal sole al creatore impiegando come similitudine le proprietà di queste realtà sensibili che egli espone422. Ed anche Gregorio il teologo423, nei suoi discorsi teologici contro gli Eunomiani, ci esorta a procedere in questo modo, perché in questo mondo, nel quale in parte conosciamo e in parte procediamo facendo previsioni424, dobbiamo ascendere «in specchio e in enigma», come dice il divino Paolo425. Con queste riflessioni credo di avere spiegato, per come mi è stato possibile, quanto, in modo ancora rozzo e non del tutto raffinato, ho concepito nel corso delle mie cacce, e affido tutto questo a chi, meglio di me, è in grado di riflettere su questi elevati argomenti.
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DIALOGO SUL GIOCO DELLA PALLA [traduzione e note di Pietro Secchi]
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Liber primus Interlocutores: Nicolaus Cardinalis tituli Sancti Petri ad vincula et Ioannes Dux Baiohariae
Ioannes: Cum te videam ad sedem retractum, forte fatigatum ex ludo globi, tecum si gratum viderem de hoc ludo conferrem. Cardinalis: Gratissimum. Ioannes: Admiramur omnes hunc novum iucundumque ludum, forte quia in ipso est alicuius altae speculationis figuratio, quam rogamus explanari. 2 Cardinalis: Non male movemini, habent enim aliquae scientiae instrumenta et ludos, arithmetrica rhythmimachiam, musica monochordum. Nec ludus scacorum caret mysterio moralium. Nullum enim puto honestum ludum penitus disciplina vacuum. Hoc enim tam iucundum globi exercitium nobis non parvam puto repraesentare philosophiam. Ioannes: Aliquid igitur rogamus dicito! Cardinalis: Timeo subintrare laborem, quem magnum video et prius longa meditatione depurandum. Ioannes: Non cuncta profundari petimus, sed paucis nobis satisfacies. 3 Cardinalis: Iuventus quamvis avida et fervens cito tamen saturatur. Faciam igitur et seminabo in nobilibus mentibus vestris aliqua scientiarum semina, quae, si intra vos receperitis et custodieritis, magnae discretionis circa suiipsius desideratissimam notitiam lucis fructum generabunt. Primum igitur attente considerabis globum et eius motum, quoniam ex intelligentia procedunt. Nulla enim bestia globum et eius motum ad terminum producit. Haec igitur opera hominis ex virtute superante cetera mundi huius animalia fieri videtis.
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Libro primo
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Interlocutori: Niccolò, Cardinale titolare di san Pietro in Vincoli, e Giovanni, duca di Baviera1
Giovanni. Dal momento che vedo che ti sei rimesso a sedere, forse affaticato dal gioco della palla, parlerei con te di questo gioco2, se ti fa piacere. Cardinale. Molto volentieri. Giovanni. Tutti ci meravigliamo di questo gioco nuovo e divertente, forse perché è la raffigurazione di un qualche alto pensiero, che ti preghiamo di spiegare. Cardinale. La vostra idea iniziale non è male. Alcune scienze hanno, infatti, strumenti e giochi, l’aritmetica ha la ritmomachia3, la musica il monocorde4. Neanche il gioco degli scacchi manca di un riferimento nascosto a dottrine morali. Ritengo, infatti, che nessun gioco ben fatto5 sia del tutto privo di un qualche insegnamento6. Ritengo, per esempio, che questo esercizio così divertente che si fa con la palla ci rappresenti una filosofia di non poco valore. Giovanni. Ti preghiamo allora di dirci qualcosa a riguardo. Cardinale. Ho paura di intraprendere un compito che vedo essere impegnativo e che ha bisogno prima di una lunga riflessione per essere chiarito. Giovanni. Non ti chiediamo di approfondire tutte le questioni, ma saremo soddisfatti anche se ne tratterai solo alcune. Cardinale. La gioventù, sebbene avida e appassionata, è presto soddisfatta. Farò quanto mi chiedete e seminerò nelle vostre menti nobili alcuni semi della conoscenza. Se li accoglierete e li custodirete in voi, genereranno come frutto la luce di un grande discernimento circa quella conoscenza di se stessi che è da tutti quanto mai desiderata7. Considera, dunque, in primo luogo, la palla e il suo movimento, giacché derivano dall’intelligenza. Nessuna bestia, infatti, costruisce una palla e la fa muovere verso una meta. Vedete che queste opere dell’uomo sono compiute mediante una capacità che supera le capacità degli altri animali di questo mondo8.
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Ioannes: Utique sic esse scimus ut dicis. Sed cur globus arte tornatili cepit illam mediae sphaerae figuram aliquantulum concavam non vos ignorare puto. Non enim faceret motum, quem videtis elicum seu spiralem aut curvae involutum, nisi talem teneret figuram. Pars enim globi, quae est perfectus circulus, in rectum moveretur, nisi pars ponderosior et corpulenta motum illum retardaret et centraliter ad se retraheret. Ex qua diversitate figura motui est apta, qui nec est penitus rectus nec penitus curvus, uti est in circuli circumferentia ab eius centro aeque distante. Unde primo causam figurae globi attendite, in quo videtis superficiem convexam medietatis maioris sphaerae et superficiem concavam medietatis minoris sphaerae, et inter illas corpus globi contineri. Ac quod globus infinitis modis secundum variam habitudinem dictarum superficierum potest variari, semper ad alium et alium motum adaptari. Ioannes: Sane haec capimus. Scimus enim, si armilla posset esse circulus sine omni latitudine circumferentiae et volveretur super aequali plana superficie, puta super glaciem, ipsa non nisi rectam lineam scriberet. Ideo cum hic ad armillam globosam videmus additam corpulentiam, ideo recta linea non describitur, sed curva varia curvitate secundum varium globum. 5 Cardinalis: Recte. Sed oportet etiam considerare lineas descriptionis motus unius et eiusdem globi variari et numquam eandem describi, sive per eundem vel alium impellatur, quia semper
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Giovanni. Sappiamo che è come tu dici. Cardinale. Ritengo che voi non ignoriate il motivo per cui, grazie all’arte del tornio, la palla abbia assunto quella forma leggermente concava che caratterizza una mezza sfera. Se non avesse una tale forma, infatti, la palla non farebbe il movimento che vedete, a elica o a spirale o di una curva incompiuta. La parte della palla, che è un cerchio perfetto, si muoverebbe infatti in linea retta, se la parte più pesante e solida non ostacolasse questo movimento e non la riportasse su se stesso, verso il centro su se stessa. In virtù questa differenza interna, la forma della palla è adatta a compiere un movimento che non è completamente retto né completamente circolare, come quello che avviene nella circonferenza di un cerchio, i cui punti sono tutti ad un’eguale distanza dal centro9. La prima cosa che dovete considerare, pertanto, è la causa per la quale la palla ha una tale superficie; nella palla vedete una superficie convessa, della metà più grande della sfera, una superficie concava, della metà più piccola della sfera, e il corpo della palla che è contenuto fra queste due superfici. Considerate, inoltre, che la palla può essere modificata in infinite maniere, a seconda del diverso rapporto fra le superfici che abbiamo menzionato, e può essere resa atta a produrre diversi tipi di movimento. Giovanni. Capiamo bene quanto hai detto. Sappiamo infatti che, se un’armilla10 potesse essere un cerchio la cui circonferenza non avesse larghezza, e fosse fatta rotolare su una superficie piana senza asperità, per esempio sul ghiaccio, essa non descriverebbe che una linea retta. In questo caso, di conseguenza, in cui vediamo aggiunto all’armilla il corpo di forma sferica, essa non descrive una linea retta, bensì una curva che varia a seconda delle variazioni della sfera. Poiché nel nostro caso vediamo che ad una armilla di forma sferica è aggiunto qualcosa di solido, per questo motivo la palla non descriverà una linea retta, ma una curva, che varia a seconda delle varie forme che avrà la palla. Cardinale. Giusto. Devi però tener conto anche del fatto che un’unica e medesima palla descrive nel suo movimento varie linee e che queste non sono mai le stesse – sia che la palla venga lanciata dalla stessa persona sia che venga lanciata da un’altra –, e questo perché la palla viene lanciata in un modo sempre diverso11. Quan-
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varie impellitur, et in maiori impulsu descripta linea videtur rectior et secundum minorem curvior. Quare in principio motus, quando impulsus est recentior, lineae motus sunt rectiores quam quando motus tepescit. Non enim impellitur globus nisi ad rectum motum. Unde in maiori impulsu globus a sua natura magis violentatur, ut contra naturam etiam quantum fieri potest recte moveatur. In minore vero impulsu violentatur ad motum, et naturalis minus violentatur. Sed aptitudinem naturalem formae suae motus sequitur. Ioannes: Haec clare sic esse experimur. Numquam enim globus movetur una vice sicut alia. Oportet igitur ex alia et alia impulsione aut vario medio hoc evenire. 6 Cardinalis: Dum quis globum proicit, nec una vice sicut alia ipsum in manu tenet aut emittit aut in plano ponit aut aequali virtute pellit. Nihil enim bis aequaliter fieri possibile est. Implicat enim contradictionem esse duo et per omnia aequalia sine omni differentia. Quomodo enim plura possent esse plura sine differentia? Unde, quamvis peritior semper nitatur eodem modo se habere, non est tamen hoc praecise possibile, licet differentia non semper videatur. Ioannes: Multa sunt, quae varietatem inducunt, etiam pavimenti diversitas, et lapillorum interceptio cursum impedientium et saepe suffocantium, atque globi faeculentia, immo fissura superveniens et talia multa. 7 Cardinalis: Haec omnia considerare necesse est, ut deveniamus ex istis ad speculationem philosophicam, quam venari proponimussuam superficiem. Impeditur ob medii globi atque cir-
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do la spinta è più forte, la linea descritta dalla palla appare più retta, mentre, quando la spinta è più debole, appare più curva. Pertanto, all’inizio del movimento, nel momento in cui la spinta è più vicina, le linee descritte dal movimento della palla sono più rette rispetto a quando il movimento declina. La palla, infatti, non viene lanciata se non in linea retta. Di conseguenza, quando la spinta è più forte, la palla viene fatta allontanare maggiormente dalla sua natura12, per cui essa è in grado di muoversi, per quanto è possibile, in linea retta, contro la sua natura. Quando invece la spinta è più debole, la palla viene sempre costretta al movimento in modo violento, ma si allontana di meno dalla sua natura, per cui segue la naturale attitudine che è propria della palla13. Giovanni. Sappiamo chiaramente per esperienza che è così. La palla, infatti, non viene mai mossa una volta in modo identico ad un’altra. È necessario, pertanto, che ciò avvenga a causa della differenza delle spinte o per altri vari fattori. Cardinale. Quando qualcuno lancia una palla, non la tiene mai in mano per due volte nello stesso modo, né la lascia cadere o la appoggia sul terreno nello stesso modo, né la spinge con la stessa forza. Non è possibile, infatti, che qualcosa venga fatto per due volte nello stesso modo, in quanto implica contraddizione che vi siano due cose e che esse siano in tutto e per tutto uguali, senza alcuna differenza. Come potrebbe una pluralità di cose essere una pluralità senza differenza14? Pertanto, benché una persona che sia molto esperta si sforzi di comportarsi sempre nello stesso modo [nel lanciare la palla], non è tuttavia possibile che ciò avvenga con precisione, anche se la differenza non sempre risulta visibile. Giovanni. Vi sono molti elementi che possono comportare una differenza: la diversità della superficie, la frapposizione dei sassolini, che impediscono e spesso arrestano la corsa della palla, la sporcizia della palla, una rottura che può sopravvenire e molti altri elementi simili. Cardinale. È necessario prendere in considerazione tutti questi fattori per giungere, a partire da essi, alla speculazione filosofica della quale ci proponiamo di andare a caccia. Per esempio, accade talvolta che il movimento della palla venga meno non appena la palla cade a terra con la sua superficie piana. Il suo movimen-
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cumstantis variationem, naturaliterque deficit, dum super polo seu medio curvae superficiei successive in ipso motus minuitur. Haec et multa alia puto subtiliter adnotanda propter similitudinem artis et naturae. Ars enim naturam cum imitetur, ab iis quae in arte subtiliter reperimus ad naturae vires accedimus. Ioannes: Quid intendis dicere per circumstantis variationem? Cardinalis: Caeli, stellarum et aëris atque temporis mutationem. Haec omnia immutata immutant illa quae circumstant et continent. 8 Ioannes: Aiebas globum semisphaericam habere superficiem. Possetne habere minorem aut maiorem; sive integrae sphaerae rotunditatem? Cardinalis: Globum posse habere superficiem maiorem aut minorem aut integrae sphaerae non nego, si de visibili figura seu rotunditate loquimur, quae nequaquam est vera aut perfecta. Nam rotunditas, quae rotundior esse non posset, nequaquam est visibilis. Cum enim superficies a centro sphaerae undique aeque distet, extremitas rotundi in indivisibili puncto terminata manet penitus nostris oculis invisibilis. Nihil enim nisi divisibile et quantum a nobis videtur. 9 Ioannes: Ultima igitur mundi sphaerica rotunditas, quam puto perfectissimam, nequaquam est visibilis. Cardinalis: Nequaquam. Immo nec divisibilis mundi rotunditas, cum in puncto consistat indivisibili et immultiplicabili. Non enim rotunditas ex punctis potest esse composita. Punctus enim, cum sit indivisibilis et non habeat aut quantitatem aut partes sive
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to viene ostacolato dalla variazione della materia della palla e dal variare delle circostanze [in cui viene compiuto il lancio della palla]15. Inoltre, il movimento viene meno e si arresta in modo naturale quando, sull’asse o sulla parte mediana della superficie curva della palla, esso decresce progressivamente. Ritengo che questi ed altri fattori debbano essere considerati con attenzione, in ragione della somiglianza che vi è fra l’arte e la natura16. Dal momento che l’arte imita la natura, infatti, noi possiamo accedere alle forze della natura17 a partire dalle cose che, procedendo con attenzione, scopriamo nell’arte. Giovanni: Che cosa intendi dire quando parli di «variazione delle circostanze»? Cardinale: Cambiamenti del cielo, delle stelle, del tempo atmosferico e delle stagioni. Quando mutano queste circostanze, mutano anche le cose che esse circondano e contengono. Giovanni. Tu dicevi che la palla ha una superficie semisferica. Potrebbe averne una maggiore o minore, o potrebbe avere la rotondità che è propria di una sfera intera? Cardinale. Non nego che la palla possa avere una superficie [semisferica] maggiore o minore, o possa avere la superficie di una sfera intera, se parliamo della forma o della rotondità che noi possiamo vedere, la quale non è mai una rotondità vera o perfetta. La rotondità che non può essere più rotonda [di quello che è], infatti, non è mai visibile18. In effetti, poiché la superficie di una vera sfera ha in ogni suo punto la stessa distanza dal centro, la superficie esterna di ciò che è veramente rotondo, che termina in un punto indivisibile, rimane completamente invisibile ai nostri occhi19. Noi non vediamo, se non ciò che è divisibile e caratterizzato dalla quantità20. Giovanni. Allora non è neppure visibile la rotondità esterna della sfera del mondo, che ritengo sia la più perfetta. Cardinale. No, non è affatto visibile. Anzi, la rotondità del mondo non è neppure divisibile, dal momento che consiste di un punto indivisibile e non moltiplicabile. La rotondità, infatti, non può essere composta da punti. Il punto, in effetti, essendo indivisibile, non ha quantità o parti 21, non ha né un davanti né un dietro,
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ante et retro et alias differentias, cum nullo alio puncto est componibilis. Ex punctis igitur nihil componitur. Punctum enim puncto addere perinde resultat ac «si nihil nihilo iungas». Non est igitur extremitas mundi ex punctis composita. Sed eius extremitas est rotunditas, quae in puncto consistit. Nam cum una sit altitudo rotunditatis, quae undique est aeque distans a centro, et non possint esse plures lineae praecise aequales, erit una tantum aeque distans rotunditatis altitudo, quae in puncto terminatur. 10 Ioannes: Mira dicis. Nam intelligo has omnes varias visibiles formas in mundo inclusas esse; et tamen, si possibile foret quem extra mundum constitui, mundus foret illi invisibilis ad instar indivisibilis puncti. Cardinalis: Optime cepisti. Et sic concipis mundum, quo nulla quantitas maior, in puncto, quo nihil minus, contineri et centrum atque circumferentiam eius non posse videri nec esse plura diversa puncta, cum punctus non sit plurificabilis. In pluribus enim atomis non est nisi «unus et idem punctus», sicut in pluribus albis una albedo. Unde linea est puncti evolutio. Evolvere vero est punctum ipsum explicare, quod nihil aliud est «quam punctum in atomis pluribus ita quod in singulis coniunctis et continuatis esse». 11 Ioannes: Nonne sic extremitas anguli, cum sit punctus, est invisibilis? Cardinalis: Immo. Sed si angulus non esset nisi extremitas, sicut est rotunditas rotundi extremitas, certum est totum angulum non esse visibilem. Ioannes: Intelligo et ita est, ut ais. Ideo nec summum nec imum rotundi videri potest, cum sit idem atomus. Quidquid au-
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o altre differenze, e non è pertanto componibile con nessun altro punto. Non c’è nulla, pertanto, che sia composto di punti. Se aggiungi un punto a un altro punto, è infatti come se «aggiungi nulla a nulla»22. La superficie esterna del mondo, pertanto, non è composta di punti. Piuttosto, la sua superficie esterna è una rotondità che consiste di un [solo] punto. Infatti, poiché una sola è l’altezza della [perfetta] rotondità, la quale in ogni suo punto è ad uguale distanza dal centro, e poiché non possono darsi più linee precisamente uguali, allora la [perfetta] rotondità [del mondo] avrà una sola altezza, ad uguale distanza dal centro, che termina in un [solo] punto. Giovanni. Dici cose straordinarie. Capisco, infatti, che tutte queste varie forme visibili sono incluse nel mondo. Tuttavia, se fosse possibile che qualcuno si collocasse al di fuori del mondo, il mondo sarebbe per lui invisibile, così come lo è un punto indivisibile23. Cardinale. Hai capito benissimo. Comprendi, allora, che il mondo, del quale non vi è nulla che abbia una quantità maggiore, è contenuto in un punto, del quale non vi è nulla di più piccolo; comprendi, altresì, che il suo centro e la sua circonferenza non possono essere visti24, e che non può esservi una pluralità di punti diversi, dal momento che un punto non è moltiplicabile. In una pluralità di atomi, per esempio, non vi è se non un solo ed identico punto, così come in una pluralità di cose bianche non vi è che una sola bianchezza. Una linea, conseguenza, è lo sviluppo del punto. Sviluppare il punto, tuttavia, significa esplicarlo, e la sua esplicazione non è altro che la presenza del punto in una pluralità di atomi, in modo tale che esso è presente in ciascuno dei singoli atomi congiunti insieme e connessi l’un l’altro in modo continuo. Giovanni. Non è forse vero che l’estremità di un angolo è invisibile, dal momento che è un punto?25 Cardinale. Certamente. Ma se un angolo non fosse nient’altro che questa estremità, così come la rotondità non è nient’altro che l’estremità di ciò che è rotondo, allora è certo che l’intero angolo non sarebbe visibile. Giovanni. Capisco che è così, come tu dici. Ne segue che né la parte esterna, né quella interna di ciò che è [perfettamente] ro-
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tem in sphaera vel rotundo est, est summum et imum. Ideo nec rotunditas nec aliqua pars eius videri potest. Non tamen dico quod res rotunda videri nequeat. Sed ipsa rotunditas rei est invisibilis. Nec secundum veram rotunditatem quidquam est visibile. Quare, cum visus iudicat aliquid esse rotundum, in eo non est vera rotunditas. Hoc quidem mihi videtur te dicere velle, scilicet iudicium visus de rotundo verum non esse. Cardinalis: Haec dicere intendo. Nihil enim videtur nisi in materia. Vera autem rotunditas non potest esse in materia, sed veritatis tantum imago. 12 Ioannes: Sic nulla forma est vera in materia, sed veritatis tantum imago verae formae, cum veritas formae sit ab omni materia separata. Cardinalis: Quamvis Platonice verum dicas, tamen refert inter rotunditatem et aliam formam. Quoniam si etiam possibile foret rotunditatem esse in materia, tamen adhuc non foret visibilis. Secus de ceteris formis, si in materia essent, quoniam videri possent. Non tamen rotunditas nec rotundum secundum eam videretur. Solum enim longum et latum videri potest. Sed in rotunditate nihil longum aut latum seu directum, sed circumductio quaedam et circumducta quaedam de puncto ad punctum convexitas, cuius summum est ubique. Et est atomus sua parvitate invisibilis. 13 Ioannes: Nonne plures atomi sunt plura rotunditatis summa et facere possunt lineam quandam convexam, quae videri potest, et sic quaedam pars rotunditatis videtur? Cardinalis: Hoc esse non potest, cum quidquid est in rotunditate sit summum. Atomus autem summitatem rotunditatis cum teneat, unde initium videndi rotunditatem sumeret oculus? Non ab atomo, cum sit invisibilis. Nec ab alio quam a summo rotundita-
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tondo può essere vista, dal momento che si tratta dello stesso atomo26. Ora, tutto ciò che è presente in una sfera [perfetta] o in qualcosa di [perfettamente] rotondo è sia esterno che interno. Così, né la rotondità, né una qualche sua parte possono essere viste. Non dico, tuttavia, che non possa essere vista una qualche cosa rotonda. Dico, piuttosto, che la rotondità stessa della cosa è invisibile. Perciò, quando la vista giudica che una cosa è rotonda, in quella cosa non vi è la vera rotondità. Ciò che tu vuoi dire, mi sembra, è che il giudizio relativo a questa cosa rotonda non è vero. Cardinale. Intendo dire proprio questo. Non si vede infatti nulla che non sia nella materia. Ma nella materia non può esservi la vera rotondità; può esservi soltanto un’immagine della verità 27. Giovanni. Allora nessuna forma è vera nella materia, ma è soltanto un’immagine della verità della vera forma, dal momento che la verità di una forma è separata da ogni materia28. Cardinale. Sebbene tu dica la verità, secondo il punto di vista di Platone, vi è tuttavia differenza fra la rotondità e ogni altra forma. Poiché, se anche fosse possibile per la rotondità essere nella materia, non per questo essa sarebbe visibile. Diverso è il caso delle altre forme, dal momento che esse potrebbero essere viste, se fossero presenti nella materia. Né la rotondità, invece, né qualcosa che sia rotondo in maniera conforme alla rotondità possono essere visti nella materia. Può essere visto, infatti, soltanto ciò che ha lunghezza e larghezza29. Ma nella rotondità non vi è nulla che sia lungo, largo o dritto; vi è invece una certa circonferenza e una certa convessità condotta circolarmente30 da punto a punto; il suo punto più alto o estremità è ovunque ed è un atomo, invisibile per la sua piccolezza31. Giovanni. Non è forse vero che una pluralità di atomi forma una pluralità di estremità della rotondità e può costituire una certa linea convessa che può essere vista, di modo che una parte almeno della rotondità risulta visibile? Cardinale. Ciò è impossibile, poiché tutto ciò che si trova nella rotondità vera occupa l’estremità32. Ma, dal momento che l’atomo occupa l’estremità della rotondità, da dove inizierebbe l’occhio a guardare la rotondità? Non dall’atomo, dato che è indivisibile. L’occhio potrebbe ricevere l’inizio della sua visione della rotondi-
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tis oculus recipere posset initium videndi rotunditatem. Summum enim est quidquid in rotunditate est. Summum autem atomus est. Nonne, si poneretur quod a summo rotunditatis inciperet visus, oporteret ipsum duci a summo ad summum? Ioannes: Certum est hoc fieri oportere, cum nihil in ea sit nisi summum. Cardinalis: Summum autem atomus est, qui non est visibilis. Patet igitur Mercurium recte dixisse mundum ex se non esse visibilem, quia rotundus est et nihil de eo vel in eo videtur nisi rerum formae in eo contentae. 14 Ioannes: Mundi rotunditas cum sit in materia et propter adiunctionem ad materiam sit imago rotunditatis, quare illa rotunditatis imago in materia videri non potest? Cardinalis: In tantum illa rotunditatis imago ad veram rotunditatem accedit quod visum et omnem sensum subterfugit. Ioannes: Ideo mundum non videmus, nisi in quantum per partes rerum formas videmus; quibus subtractis nec mundum nec eius formam videremus. Cardinalis: Bene dicis. Nam mundi forma rotunditas est invisibilis. Visibilibus igitur formis subtractis «unus» manet «in toto orbe vultus», scilicet essendi possibilitas sive materia invisibilis, in qua dicitur esse rerum universitas; et satis philosophice concedi potest quod propter perfectionem ibi sit rotunditas. 15 Ioannes: Haec meum excedunt conceptum, licet videam in mente te vera dicere. Admiror tamen quod nec in mundo vera est rotunditas sed tantum imago rotunditatis veritati propinqua. Cardinalis: Non mireris! Nam cum unum rotundum sit perfectius alio in rotunditate, numquam reperitur rotundum, quod sit
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tà solo dall’estremità data dalla rotondità. Tutto ciò che è nella rotondità, infatti, è un’estremità. L’estremità, tuttavia, è un atomo. Se supponessimo che la visione iniziasse dall’estremità della rotondità, non dovrebbe allora la visione essere necessariamente condotta da un’estremità all’altra?33 Giovanni. Certamente è necessario che accada questo, dato che nella rotondità non vi è che l’estremità. Cardinale. Ma l’estremità è un atomo, il quale non è visibile. È evidente, pertanto, che Mercurio34 ebbe ragione nel dire che il mondo di per sé non è visibile, perché è rotondo e perché non si vede nulla di esso o in esso, tranne le forme delle cose che vi sono contenute. Giovanni. Dal momento che la rotondità del mondo esiste nella materia, e dal momento che a causa della sua unione con la materia quella del mondo è solo l’immagine della [vera] rotondità, perché, allora, non è possibile vedere quest’immagine della rotondità nella materia? Cardinale. Quest’immagine della rotondità si avvicina a tal punto alla vera rotondità, da restare nascosta alla vista e a tutti gli altri sensi35. Giovanni. E così noi non vediamo il mondo, se non nella misura in cui vediamo una per una le forme delle cose. Se queste forme venissero eliminate, non vedremmo né il mondo, né la sua forma. Cardinale. Dici bene. La forma del mondo, infatti, è una rotondità invisibile. Eliminate le forme visibili, allora, su tutto il pianeta non resterebbe che un solo volto, vale a dire la possibilità di essere o la materia invisibile, nella quale si dice che sia contenuta la totalità delle cose. E si può anche ammettere, da un punto di vista filosofico, che in esso, a motivo della sua perfezione, vi sia anche la rotondità36. Giovanni. Quanto dici supera la mia capacità di comprensione, anche se vedo nella mia mente che dici cose vere. Mi meraviglio, però, del fatto che nel mondo non vi sia la vera rotondità ma soltanto un’immagine della rotondità che si avvicina alla verità. Cardinale. Non meravigliarti! Poiché, infatti, una cosa rotonda ha una rotondità più perfetta di un’altra, non si trova mai una
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ipsa rotunditas, seu quo non possit dari magis rotundum. Et haec regula est universaliter vera, quoniam in omnibus recipientibus maius aut minus non devenitur ad maximum aut minimum simpliciter, quo maius aut minus esse non possit. Nam posse esse maius aut minus non sunt de natura eorum, quae non possunt esse maius aut minus, sicut mutabile non est de natura immutabilis et divisibile de natura indivisibilis et visibile de natura invisibilis et temporale de natura intemporalis et corporale de natura incorporalis et ita de similibus. Rotunditas igitur, quae visu attingitur, magis et minus recipit, quoniam unum rotundum est alio rotundius. Igitur rotunditas invisibilis non est de illa natura; non est igitur per corpus participabilis sicut visibilis. Ideo nullum corpus potest esse adeo rotundum, quin possit esse rotundius. Corporalis igitur mundus licet sit rotundus, tamen illa rotunditas est alterius naturae quam sit rotunditas cuiuscumque alterius rotundi corporis. Sed cum non omne corpus sit visibile – sed requiritur certa magnitudo, ut videatur –, sic etiam rotunditas atomi non est visibilis, quando atomus non videtur. Mundus igitur ideo in sua rotunditate est invisibilis, quia id, quod se visui offert de rotunditate mundi, atomus est. 16 Ioannes: Clare declarasti et in paucis multa explanasti. Sed scire cupio, quomodo intelligis perfecti mundi rotunditatem esse imaginem, quae videtur semper posse esse perfectior. Cardinalis: Scio rotunditatem unius rotundi rotundiorem alia, et ideo in rotundis deveniri oportere ad rotundum maximae rotunditatis, qua nulla maior est, quoniam non potest in infinitum procedi; et haec est mundi rotunditas, participatione cuius omne rotundum est rotundum. Haec est enim participabilis rotunditas in omnibus mundi huius rotundis, quae gerunt imaginem rotunditatis mundi. Sed mundi rotunditas, licet sit maxima, qua nulla maior
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cosa rotonda che sia la rotondità stessa o della quale non possa darsi una cosa più rotonda ancora. E questa regola è universalmente vera, in quanto in tutto ciò che ammette il più e il meno non si giunge a ciò che è massimo o minimo in quanto tale, di cui non possa esservi qualcosa di maggiore o di minore37. Il poter essere maggiore o minore, infatti, non appartiene alla natura di quelle cose che non possono essere maggiori o minori, come il mutevole non appartiene alla natura dell’immutabile, il divisibile alla natura dell’indivisibile, il visibile alla natura dell’invisibile, il temporale alla natura del non temporale, il corporeo alla natura dell’incorporeo, e così via. La rotondità che si coglie con la vista, pertanto, ammette il più e il meno, poiché una cosa rotonda è più rotonda di un’altra. La rotondità invisibile non è di tale natura; essa, pertanto, non è partecipabile dal corpo come lo è la rotondità visibile38. Nessun corpo può essere rotondo a tal punto da non poter essere più rotondo. Il mondo materiale, sebbene sia rotondo, ha tuttavia una rotondità diversa da quella di qualsiasi altro corpo rotondo. Non ogni corpo, tuttavia, è visibile, in quanto è necessaria una certa grandezza perché un corpo possa essere visto; per questo, dal momento che un atomo non può essere visto, non risulta visibile neppure la sua rotondità. Ne segue che il mondo, nella sua rotondità, è invisibile, poiché ciò che della rotondità del mondo si offre alla vista è un atomo. Giovanni. Hai parlato in modo chiaro e hai spiegato molte cose con poche parole. Desidero capire, però, come intendi il fatto che la rotondità che è propria del mondo perfetto sia un’immagine che sembra poter essere sempre più perfetta. Cardinale. So che la rotondità di una cosa rotonda è più rotonda di un’altra e che, pertanto, nell’ambito delle cose rotonde, è necessario giungere ad un ente rotondo che abbia una rotondità massima, della quale non ve ne è una maggiore, dal momento che non si può procedere all’infinito39; e questa è la rotondità del mondo, per partecipazione alla quale ogni cosa rotonda è rotonda. Essa, infatti, è la rotondità che può essere partecipata da tutte le cose rotonde che sono in questo mondo, le quali portano in sé un’immagine della rotondità del mondo. Anche la rotondità del mondo, però,
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actu est, non est tamen ipsa absoluta verissima rotunditas. Ideo est imago rotunditatis absolutae. Rotundus enim mundus non est ipsa rotunditas, qua maior esse nequit, sed qua maior non est actu. Absoluta vero rotunditas non est de natura rotunditatis mundi, sed eius causa et exemplar, quam aeternitatem appello, cuius rotunditas mundi est imago. In circulo enim, ubi non est principium nec finis, cum nullus punctus in eo sit, qui potius sit principium quam finis, video imaginem aeternitatis; quare et rotunditatem imaginem assero aeternitatis, cum sint idem. 17 Ioannes: Placent haec. Sed quaero: Nonne, sicut mundus dicitur rotundus, potest etiam dici aeternus? Videtur enim, cum aeternitas et rotunditas illa absoluta sint idem, ita et aeternum sit idem cum rotundo. Cardinalis: Non puto intelligentem negare mundum esse aeternum, licet non sit aeternitas. Solus enim omnium creator sic est aeternus quod aeternitas. Si quid aliud dicitur aeternum, hoc habet non, quia est ipsa aeternitas, sed quia eius participatione seu ab ipsa est. Aeternitas enim omnia aeterna praecedit, nisi sit aeternum illud, quod idem est cum aeternitate. Aeternitas igitur mundi, cum sit mundi aeternitas, est ante mundum etiam aeternum. Ab ea enim habet quod est aeternus, sicut album ab albedine. Aeternitas igitur mundi, cum habeat id quod est absoluta aeternitas, constituit mundum aeternum, scilicet numquam finibilem sive perpetuum; qui dicitur aeternus. Quoniam numquam verum fuit dicere ‘aeternitas est’, quin etiam verum fuit dicere ‘mundus est’, licet mundus ab ipsa sit id quod est. 18 Ioannes: Si recte intelligo, tunc non potest esse nisi unus mundus maxime rotundus et aeternus.
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sebbene sia massima, perché non vi è nessun’altra rotondità che sia in atto più grande, non è la rotondità stessa, quella verissima e assoluta. Essa, pertanto, è l’immagine della rotondità assoluta. Il mondo, nella sua rotondità, infatti, non è la rotondità stessa, della quale non ve ne può essere una di maggiore, bensì è una rotondità della quale non ve n’è in atto una di maggiore. La rotondità assoluta, invece, non appartiene alla natura della rotondità del mondo, bensì ne è la causa e l’esemplare; io la chiamo eternità, e di essa la rotondità del mondo è un’immagine. In un cerchio, infatti, in cui non vi è principio o fine, perché non vi è in esso nessun punto che sia principio [del cerchio] più di quanto sia fine del cerchio, io scorgo l’immagine dell’eternità. Per questo motivo, affermo che anche la rotondità [del mondo] è un’immagine dell’eternità, in quanto la rotondità [assoluta] e l’eternità sono la stessa cosa. Giovanni. Mi piace quanto dici. Ma vorrei sapere questo: forse che il mondo, dal momento che diciamo che è rotondo, può essere detto anche eterno? Dato che l’eternità e la rotondità assoluta sono la stessa cosa, sembra, infatti, che anche l’eterno e il rotondo siano la stessa cosa. Cardinale. Non ritengo che una persona intelligente possa negare che il mondo sia eterno, per quanto esso non sia l’eternità40. Soltanto il creatore di tutte le cose, infatti, è eterno in modo tale da essere l’eternità. Se qualcos’altro è definito eterno, ciò avviene non perché esso sia la stessa eternità, bensì perché partecipa dell’eternità o deriva da essa. L’eternità, infatti, precede tutte le cose eterne, tranne quella realtà eterna che è identica all’eternità. Pertanto, dal momento che l’eternità del mondo è [identica alla] eternità, essa è anche anteriore al mondo eterno. Il mondo, infatti, ha dall’eternità il suo essere eterno, così come ciò che è bianco ha dalla bianchezza il suo essere bianco. L’eternità del mondo, pertanto, avendo ciò che è proprio dell’eternità assoluta, costituisce il mondo come eterno, ossia senza fine o perpetuo. Questo mondo senza fine o perpetuo è detto «eterno». Non è mai stato vero, infatti, dire «l’eternità è» senza che fosse vero anche dire «il mondo è», e ciò sebbene il mondo sia ciò che esso è in virtù dell’eternità41. Giovanni. Se capisco bene, allora non può esistere che un solo mondo, massimamente rotondo ed eterno.
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Cardinalis: Bene cepisti. Nam cum in rotundis ad unum maximum actu necesse sit devenire – sicut inter calida ad ignem, qui est maxime calidus –, erit igitur unus tantum mundus et hic tantum habet rotunditatis quod ad ipsam rotunditatem aeternam maxime accedit; et hinc etiam invisibilis, quare etiam aeternus dici potest dicente apostolo Paulo: «quae non videntur, aeterna sunt». Non quod propterea aeternus dicatur quia sine initio, sed quia numquam fuit verum dicere ‘aeternitas est’, quin etiam fuit verum dicere ‘mundus est’. Mundus enim non incepit in tempore. Non enim tempus praecessit mundum sed sola aeternitas. Sic et tempus aliquando dicitur aeternum, ut Propheta ait de «aeterno tempore», cum tempus non habuerit initium in tempore. Tempus enim non praecessit tempus sed aeternitas. Dicitur igitur aeternum tempus, quia ab aeternitate fluit. Sic et mundus aeternus, quia est ab aeternitate et non a tempore. Sed mundo magis convenit nomen ut dicatur aeternus quam tempori, quia mundi duratio non dependet a tempore. Cessante enim motu caeli et tempore, quod est mensura motus, non cessat esse mundus. Sed mundo penitus deficiente deficeret tempus. Magis igitur convenit mundo quod dicatur aeternus quam tempori. 19 Aeternitas igitur mundi creatrix deus est, qui ut voluit cuncta fecit. Mundus enim non est sic perfecte creatus quod in eius creatione deus omne, quod potuit facere, fecerit, licet mundus factus sit ita perfectus, sicuti fieri potuit. Quare perfectiorem et rotundiorem mundum atque etiam imperfectiorem et minus rotundum potuit facere deus, licet factus sit ita perfectus, sicut esse potuit; hoc enim est factus, quod fieri potuit, et fieri posse ipsius factum est. Sed hoc fieri posse eius, quod factum est, non est ipsum facere posse absolutum omnipotentis dei. Licet in deo posse fieri et posse fa-
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Cardinale. Hai capito bene. Infatti, dal momento che, nell’ambito delle cose rotonde, è necessario giungere ad un massimo in atto – come nell’ambito delle cose calde è necessario giungere al fuoco, che è massimamente caldo42 –, vi sarà allora un mondo soltanto, ed esso avrà una rotondità tale da avvicinarsi in modo massimo alla stessa rotondità eterna; il mondo, di conseguenza, sarà anche invisibile, e per questo può essere definito eterno, conformemente alle parole dell’apostolo Paolo: «Le cose che non vedete sono eterne»43. Il mondo non viene detto eterno perché è senza inizio, bensì perché non è mai stato vero dire «l’eternità è» senza che sia stato vero dire anche «il mondo è». Il mondo non ha avuto un inizio nel tempo44. Non il tempo, infatti, ma soltanto l’eternità ha preceduto il mondo45. Così, anche il tempo qualche volta è definito «eterno»46; il profeta, per esempio, parla del «tempo eterno», perché il tempo non ha avuto inizio nel tempo. Il tempo, infatti, non ha preceduto il tempo, soltanto l’eternità lo ha preceduto47. Il tempo, pertanto, è detto «eterno», perché fluisce dall’eternità. Così, anche il mondo è eterno, perché deriva dall’eternità e non dal tempo. Più che al tempo, tuttavia, il nome di «eterno» conviene maggiormente al mondo, perché la sua durata non dipende dal tempo. Se venissero meno il movimento del cielo ed il tempo, che è la misura del movimento, infatti, non cesserebbe di esistere il mondo. Se invece venisse a mancare completamente il mondo, verrebbe a mancare anche il tempo. Il nome di «eterno», perciò, conviene maggiormente al mondo che non al tempo. L’eternità creatrice del mondo è quindi Dio, il quale ha fatto tutte le cose così come egli ha voluto48. Il mondo, infatti, non è stato creato in modo così perfetto che Dio, creandolo, ha fatto tutto ciò che egli avrebbe potuto fare, anche se il mondo è stato fatto con il grado di perfezione con cui poteva essere fatto49. Per questo motivo, Dio avrebbe potuto fare un mondo più perfetto e rotondo e anche un mondo più imperfetto e meno rotondo, sebbene il mondo sia stato fatto con tutta la perfezione con cui poteva essere fatto. Il mondo è stato fatto ciò che poteva essere fatto, e ciò che è stato fatto è il poter-essere-fatto del mondo. Ma questo poter-essere-fatto del mondo, che è stato fatto, non è lo stesso poter-fare assoluto di Dio onnipotente50. Sebbene in Dio il poter-essere-fatto e il poter-
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cere sint idem, non tamen fieri posse cuiuscumque est idem cum facere posse dei. Ex hoc videtur deum mundum ut voluit creasse; quare perfectus valde, quia secundum dei optimi liberrimam factus est voluntatem. Quae quia in aliis locis luculenter scripta legi possunt, nunc de hoc sufficiat. 20 Ioannes: Revertere igitur ad ludum nostrum et de motu globi aliquid adicias! Cardinalis: Multa dicenda restant, si quae occurrunt referrem. Primum noto a puncto ubi statur ad signum medium signati circuli globum proicio, quomodo per lineam rectam hoc fieri nequit. Ut si punctus a sit statio et b d circulus, cuius centrum c, et e globus. Volo de a proicere ad c. Hoc per lineam motus globi fieri necesse est, quae non sit recta, cuiuscumque etiam figurae fuerit globus. Ioannes: Videtur quod si sphaericus fuerit fieri posset motus per lineam rectam, ut est a c linea. Non enim video, cur sphaera per a c moveri non possit et in c quiescere. 21 Cardinalis: Facile capies te errare, si attendis unam lineam rectiorem esse alia et ideo ad verissime et praecisissime rectam per supra datam doctrinam nequaquam perveniri. Ideo non est possibile etiam perfectissimam sphaeram de a in c per praecisam rectam pergere, esto etiam quod pavimentum sit perfectissime planum et globus rotundissimus. Nam talis globus non tangeret planitiem nisi in atomo. Ex motu non nisi invisibilem et indivisibilem lineam describeret et nequaquam rectissimam inter a et c puncta cadentem. Neque umquam in c quiesceret. Quomodo enim super atomo quiesceret? Perfecte igitur rotundus, cum eius summum sit etiam imum et sit atomus, postquam incepit moveri, quantum in se est, numquam cessabit, cum varie se habere nequeat. Non enim id
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fare siano identici, il poter-essere-fatto di qualsiasi cosa non è identico al poter-fare di Dio. Da ciò si vede che Dio ha creato il mondo così come ha voluto; per questo, il mondo è quanto mai perfetto, perché è stato fatto secondo la volontà liberissima di Dio ottimo. Le cose che ho detto qui possono essere sufficienti, in quanto le si possono leggere in molti altri testi, nei quali ho trattato diffusamente di questo argomento51. Giovanni. Torniamo allora al nostro gioco e aggiungi qualcosa sul movimento della palla! Cardinale. Rimangono molte cose da dire, se devo riportare tutto ciò che è necessario. In primo luogo, in relazione al moto della palla osservo quanto segue: quando, dal punto in cui sto lancio la palla verso il segno posto al centro del circolo tracciato, il movimento della palla non può avvenire in linea retta. Supponi che a sia il punto in cui ci si posiziona, che b d sia il diametro del circolo, il cui centro è c, e che e sia la palla. Voglio lanciare la palla da a a c. Questo lancio deve avvenire necessariamente lungo la linea di movimento della palla, che non è retta, qualunque sia la forma della palla. Giovanni. Mi sembra che, se la forma della palla fosse sferica, il movimento potrebbe avvenire in linea retta, per esempio lungo la linea a c. Non vedo perché, infatti, la sfera non potrebbe muoversi lungo la linea a c e fermarsi sul punto c. Cardinale. Capisci facilmente di aver detto una cosa sbagliata, se consideri che una linea è più retta di un’altra e dunque non si può mai giungere ad una linea retta che sia assolutamente vera e del tutto precisa, per la dottrina che abbiamo esposto poco sopra. Pertanto, non è neppure possibile che una sfera perfettissima si diriga da a a c lungo una precisa linea retta, anche se ipotizziamo che il pavimento sia perfettamente piano e la palla perfettamente rotonda. Una simile palla, infatti, non toccherebbe il terreno se non in un atomo. Con il suo movimento, la palla non descriverebbe altro che una linea invisibile ed indivisibile e mai una linea assolutamente retta che cade tra i punti a e c. Neppure si fermerebbe mai sul punto c. Come farebbe, infatti, a fermarsi su un atomo? Ne segue che una palla perfettamente rotonda, il cui punto più alto è anche il punto più basso ed è l’atomo, una volta che abbia iniziato a muoversi, per quanto è in essa, non si fermerebbe mai, non potendo compor-
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quod movetur aliquando cessaret, nisi varie se haberet uno tempore et alio. Ideo sphaera in plana et aequali superficie se semper aequaliter habens, semel mota, semper moveretur. Forma igitur rotunditatis ad perpetuitatem motus est aptissima. Cui si motus advenit naturaliter, numquam cessabit. Ideo, si super se movetur, ut sit centrum sui motus, perpetue movetur. Et hic est motus naturalis; quo motu ultima sphaera movetur sine violentia et fatiga; quem motum omnia naturalem motum habentia participant. 22 Ioannes: Quomodo concreavit deus motum ultimae sphaerae? Cardinalis: In similitudine, quomodo tu creas motum globi. Non enim movetur sphaera illa per deum creatorem aut per spiritum dei. Sicut nec globus movetur per te, quando ipsum vides discurrere, nec per spiritum tuum, licet posueris ipsum in motu, exsequendo per iactum manus voluntatem, impetum in ipsum faciendo, quo durante movetur. Ioannes: Sic forte et de anima dici posset: qua exsistente in corpore homo movetur. Cardinalis: Non est propinquius fortasse exemplum intelligendi creationem animae, quam sequitur motus in homine. Non enim deus est anima aut spiritus dei movet hominem. Sed creatus est in te motus seipsum movens secundum Platonicos; qui est anima rationalis movens se et cuncta tua. Ioannes: Vivificare animae convenit. Est igitur motus. Cardinalis: Utique vivere motus quidam est. Ioannes: Placet valde. Nunc enim video hoc sensibili exemplo multos errasse circa animae considerationem.
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tarsi in maniera diversa52. Ciò che è mosso, infatti, non smetterebbe mai di muoversi, a meno che non si comportasse ora in un modo ora in un altro. Per questo motivo, una sfera, che si trovi su una superficie piana e senza asperità e che si comporti sempre nello stesso modo, una volta in movimento, si muoverà sempre. La forma della rotondità, pertanto, è la più adatta alla perpetuità del movimento. Se ad essa il movimento si aggiunge in modo naturale, allora il suo movimento non cesserà mai. Così, se una sfera è mossa sopra al proprio asse, in modo da essere il centro del suo movimento, si muoverà in modo perpetuo. E questo è un moto naturale. Di questo moto si muove l’ultima sfera [del cielo], senza violenza e fatica. Di esso partecipano tutte le cose che sono dotate di moto naturale. Giovanni. In che modo Dio ha creato il movimento dell’ultima sfera? Cardinale. In un modo simile a quello in cui tu crei il movimento della palla. Quella sfera, infatti, non è mossa dal Dio creatore o dallo spirito di Dio. Allo stesso modo, la palla non è mossa da te, quando la vedi correre, né dal tuo spirito, anche se sei stato tu ad averla messa in movimento eseguendo la tua volontà attraverso il lancio operato dalla tua mano e benché tu le abbia conferito una spinta che, finché sussiste, la fa muovere53. Giovanni. Si potrebbe forse dire qualcosa di simile anche dell’anima: finché essa sussiste nel corpo, l’uomo si muove. Cardinale. Probabilmente non è l’esempio più appropriato per comprendere la creazione dell’anima, dalla quale deriva il movimento nell’uomo. Dio, infatti, non è l’anima, né è lo spirito di Dio che muove l’uomo. In te, piuttosto, è presente, in quanto creato, quello che, secondo i Platonici, è un movimento che muove se stesso, ossia l’anima razionale, la quale muove se stessa e tutte le tue membra. Giovanni. Vivificare è proprio dell’anima. È dunque un movimento. Cardinale. Certamente, vivere è una certa forma di movimento54. Giovanni. Mi piace ciò che dici. Attraverso questo esempio, tratto dal mondo sensibile, ora mi accorgo che molti hanno sbagliato circa la concezione dell’anima.
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23 Cardinalis:
Attende motum globi deficere et cessare manente globo sano et integro, quia non est motus, qui globo est naturalis, sed accidentalis et violentus. Cessat igitur impetu qui impressus est ei deficiente. Sed si globus ille foret perfecte rotundus, ut praedictum est, quia illi globo rotundus motus esset naturalis ac nequaquam violentus, numquam cessaret. Sic motus vivificans animal numquam cessat corpus vivificare, quamdiu vivificabile et sanum est, quia est naturalis. 24 Et licet motus vivificandi animal cesset deficiente sanitate corporis, tamen non cessat motus intellectualis animae humanae, quem sine corpore habet et exercet. Ideo motus ille seipsum intellectualiter movens est in se subsistens et substantialis. Motus enim, qui non est seipsum movens, accidens est. Sed seipsum movens substantia est. Non enim illi accidit motus, cuius natura est motus, uti de natura intellectus, qui non potest esse intellectus sine motu intellectuali, per quem est actu. Ideo intellectualis motus est substantialis seipsum movens. Numquam igitur deficit. Vivificatio vero est motus vitae, qui accidit corpori, quod de sua natura non est vivum. Sine vita enim corpus verum corpus est. Potest igitur ille motus, qui corpori accidit, cessare. Sed propter hoc non cessat motus substantialis seipsum movens. Nam virtus illa, quae et mens dicitur, corpus deserit, quando cessat in ipso vivificare, sentire et imaginari. Has enim habet operationes virtus in corpore, quas etiam , dum non exercet; nihilominus manet in perpetuum, licet etiam localiter separetur a corpore. Virtus enim illa, licet in loco circumscribatur, ut non sit nisi ibi, non tamen occupat locum, cum sit spiritus. Propter eius enim praesentiam non distenditur aër aut locus occupatur ut minus capiat de corpore quam prius.
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Cardinale. Presta attenzione al fatto che il movimento della palla viene meno pur rimanendo questa sana e integra, perché il movimento non è naturale per la palla, bensì è accidentale e violento. Viene meno, perciò, perché viene meno la spinta che le è stata impressa. Se, invece, la palla fosse perfettamente rotonda, come si è detto prima, il movimento circolare le sarebbe naturale e non violento e non verrebbe mai meno. Allo stesso modo, il movimento che vivifica l’animale non smette mai di vivificare il corpo, fintantoché può essere vivificato ed è sano, perché è un movimento naturale. E sebbene il movimento che vivifica l’animale venga meno quando viene a mancare la buona salute del corpo, non viene tuttavia meno il movimento dell’anima intellettuale dell’uomo, un movimento che l’anima ha ed esercita indipendentemente dal corpo55. Il movimento intellettuale che muove se stesso, pertanto, è in sé sussistente e sostanziale56. Il movimento che non muove se stesso, infatti, è un accidente, mentre quello che muove se stesso è sostanza. Il movimento, infatti, non inerisce in modo accidentale a ciò la cui natura consiste nel movimento, come la natura dell’intelletto, che non può essere un intelletto senza il movimento intellettuale, grazie al quale l’intelletto è in atto. Il movimento intellettuale, pertanto, è un movimento sostanziale che muove se stesso. Di conseguenza, non viene mai meno57. Il vivificare, invece, è un movimento della vita che inerisce in maniera accidentale al corpo, il quale per sua natura non è vivo. Senza vita, infatti, il corpo è pur sempre un vero corpo. Ne segue che quel movimento che inerisce al corpo in maniera accidentale può venire meno. Non per questo, tuttavia, viene meno il movimento sostanziale che muove se stesso. Quella forza, che viene chiamata anche «mente», infatti, abbandona il corpo, nel momento in cui smette in esso di vivificare, di sentire e di immaginare. Essa, infatti, svolge queste operazioni nel corpo, e le possiede anche quando non le esplicita; nondimeno, essa continua a vivere in modo perpetuo, anche quando è separata localmente dal corpo. Tale forza, infatti, sebbene sia circoscritta ad un luogo in modo da non essere se non lì, non occupa tuttavia un luogo, dal momento che è spirito; a causa della sua presenza, infatti, non si separa l’aria, né viene occupato un luogo in modo da avere meno capacità di contenere un corpo di quanta ne avesse prima.
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Valde placet similitudo globi ad corpus et motus eius ad animam. Homo facit globum et eius motum, quem impetu ei imprimit, et est invisibilis, indivisibilis, non occupans locum, sicut anima nostra. Sed quod anima nostra sit motus substantialis, libenter melius intelligerem. Cardinalis: Deus dator substantiae, homo accidentis seu similitudinis substantiae. Forma globi, data ligno per hominem, addita est substantiae ligni. Sic et motus additus est formae substantiali. Deus autem creator substantiae. Multa motum participant, ut moveantur ex participatione motus. Devenitur igitur ad unum, quod per se movetur, et illi non accidit ex participatione motus, ut moveatur, sed ex sua essentia; et est anima intellectiva. Intellectus enim seipsum movet. Et ut clarius hoc capias, attende quomodo in rotunditate est aptitudo ad motum. Facilius enim movetur magis rotundum. Quare, si rotunditas foret maxima, qua etiam maior esse non posset, utique per seipsam moveretur et esset movens pariter et mobile. Motus igitur, qui anima dicitur, est concreatus corpori et non impressus ei ut in globo, sed per se motus corpori adiunctus et taliter quod separabilis ab ipso; ideo substantia. 26 Ioannes: Igitur bene dicitur quod virtus illa, quam animam dicis intellectivam, patiatur aut praemietur. Cardinalis: Certissime hoc verum credas. Sicut enim in corpore affligitur affectionibus corporis, ita etiam extra corpus affligitur ira, invidia et ceteris afflictionibus, gravata adhuc sorde corporea nec corporis oblita. Etiam affligitur igne materiali ad hoc praeparato ita, ut ardoris laesionem sentiat. Nostro enim igne non posset
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Giovanni. Mi piace molto la similitudine fra la palla e il corpo e fra il movimento della palla e l’anima. L’uomo costruisce la palla e produce il suo movimento, che egli imprime alla palla con una spinta, e questo movimento è invisibile, indivisibile e non occupa un luogo, come la nostra anima. Desidererei, tuttavia, capire meglio che cosa significa che la nostra anima è un movimento sostanziale. Cardinale. Dio è colui che dà la sostanza58, l’uomo dà l’accidente, ovvero un’immagine della sostanza. La forma di una palla, data al legno dall’uomo, è aggiunta alla sostanza del legno. Così, anche il movimento è aggiunto alla forma sostanziale. Dio, invece, è il creatore della sostanza. Molte cose partecipano del movimento, in modo tale che esse possono muoversi in virtù della loro partecipazione al movimento. Si giunge, pertanto, ad un ente primo, che si muove di per sé e al quale non accade accidentalmente di muoversi perché partecipa del movimento, ma si muove piuttosto per la sua stessa essenza: è l’anima intellettiva59. L’intelletto, infatti, muove se stesso. E, perché tu capisca questo ancora più chiaramente, tieni a mente che nella rotondità è presente l’attitudine al movimento. Ciò che è più rotondo, infatti, si muove più facilmente60. Per questo motivo, se vi fosse una rotondità massima, di cui non potesse esservene una più grande, allora essa certamente si muoverebbe per se stessa e sarebbe al tempo stesso ciò che muove e ciò che è mosso. Pertanto, il movimento che viene chiamato «anima» è creato insieme al corpo e non viene impresso al corpo come è impresso alla palla, ma al corpo viene aggiunto un movimento che si muove di per sé e che è tale da poter essere separato dal corpo. Per questo è sostanza. Giovanni. Allora è detto bene che quella facoltà, che tu chiami anima intellettiva, soffrirà o sarà premiata61. Cardinale. Puoi crederlo vero nel modo più certo. Come nel corpo, infatti, l’anima intellettiva soffre per le affezioni del corpo, così anche fuori dal corpo soffre per l’ira, l’invidia e le altre passioni negative, essendo ancora gravata dalla macchia del corpo e non avendolo ancora dimenticato62. Soffre anche per il fuoco materiale che è stato preparato a questo scopo, ossia perché senta il dolore della fiamma. L’anima, infatti, non potrebbe soffrire per il nostro tipo di
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affligi. Similiter etiam virtus illa, hoc est anima, salvatur, hoc est in quiete est, et nullis tormentis affligitur. Ioannes: Intelligo te nunc dicere quod anima est substantia incorporea et virtus diversarum virtutum. Nam ipsa est sensualitas. Est etiam ipsa imaginatio. Eadem etiam est ratio et intelligentia. Sensualitatem et imaginationem exercet in corpore. Rationem et intelligentiam extra corpus exercet. Una est substantia sensualitatis, imaginationis, rationis et intelligentiae, licet sensus non sit imaginatio nec ratio nec intellectus. Ita nec imaginatio aut ratio aut intellectus aliquid aliorum. Sunt enim diversi modi apprehendendi in anima, quorum unus alius esse non potest. Sic puto te dicere velle. Cardinalis: Utique sic dicere volo. 27 Ioannes: Tu etiam videris dicere animam in corpore esse simul in diversis locis. Cardinalis: Sic dico. Nam cum sit virtus et quaelibet pars virtutis de toto verificetur secundum veram philosophiam, tunc vivificatio animae anima est. Ipsa autem anima diversa corporis membra, quae in diversis locis sunt, vivificat. Igitur ibi est, ubi vivificat. Tota igitur animae substantia, dum est in corpore, in diversis locis est. Sed dum est extra corpus, non est in diversis locis, sicut nec angelus, qui non vivificat. In corpore igitur est tota anima in qualibet parte corporis sicut eius creator in qualibet parte mundi. Ioannes: Retrahitne se anima, dum digitus abscinditur? Cardinalis: Nequaquam, sed desinit digitum vivificare. Non enim retrahit se, quia non transit de una corporis particula ad aliam, cum sit simul in omnibus et singulis. 28 Ioannes: Adhuc unum rogo, iterum circa animae motum de-
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fuoco63. In modo simile, però, accade anche che quella facoltà, ossia l’anima, venga salvata, sia cioè in pace e non soffra nessun tormento. Giovanni. Capisco quello che ora stai dicendo, ossia che l’anima è una sostanza incorporea ed è una facoltà che comprende diverse facoltà. L’anima, infatti, è sensibilità, è anche immaginazione, e l’anima è pure ragione e intelligenza. Nel corpo esercita le facoltà della sensibilità e dell’immaginazione, separatamente dal corpo quelle della ragione e dell’intelligenza. Una sola è la sostanza della sensibilità, dell’immaginazione, della ragione e dell’intelligenza, sebbene il senso non sia l’immaginazione, né la ragione, né l’intelletto. In modo simile, l’immaginazione non è nessuna delle altre facoltà, e lo stesso vale per la ragione e per l’intelletto. Si tratta infatti di diversi modi di conoscere che si trovano nell’anima, dei quali l’uno non può essere l’altro. Ritengo che tu voglia dire questo64. Cardinale. Certamente voglio dire questo. Giovanni. Mi sembra che tu dica anche che, nel corpo, l’anima è presente simultaneamente in diversi luoghi. Cardinale. Lo dico. Infatti, dal momento che è una facoltà e dal momento che, secondo la vera filosofia, ogni parte di una facoltà si predica a ragione dell’intero, secondo la vera filosofia, allora la facoltà vivificatrice dell’anima è l’anima65. L’anima stessa, del resto, vivifica le diverse membra del corpo, che sono in diversi luoghi. Ne segue che l’anima è presente lì dove vivifica. Quando è nel corpo, pertanto, è l’intera sostanza dell’anima che è presente in luoghi diversi. Quando è al di fuori del corpo, invece, non è presente in diversi luoghi, come anche l’angelo, che non vivifica, non è presente in diversi luoghi. Quando è nel corpo, quindi, l’anima è presente come un tutto in ogni parte del corpo, così come il creatore dell’anima è presente in ogni parte del mondo66. Giovanni. Quando un dito viene amputato, l’anima si ritrae? Cardinale. No, ma cessa di vivificare il dito. Non si ritrae, in quanto non passa da una piccola parte del corpo ad un’altra, dato che è presente simultaneamente in tutte le parti del corpo e in ciascuna di esse singolarmente. Giovanni. Spiegami, ti prego, ancora una cosa circa il movimento dell’anima. Dal momento che affermi che l’anima muove se
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clares: Quando ais animam seipsam movere, dicito qua specie motus se perpetuo movet! Cardinalis: Nulla specie ex omnibus sex speciebus motus se movet anima, sed aequivoce. Movet enim seipsam anima, id est discernit, abstrahit, dividit et colligit. Ratiocinari virtus est animae, igitur et anima. Aliqua est ratio perpetua et immutabilis, ut quod quattuor non sint duo, quia quattuor in se habent tria, quae non habent duo; igitur quattuor non sunt duo. Haec ratio est immutabilis. Anima igitur est immutabilis. Dum autem ratio sic discurrit ratiocinando, utique ille discursus rationalis est. A se igitur rationalis anima ratiocinando movetur. Adhuc anima est vis inventiva artium et scientiarum novarum. In motu igitur illo inventivo novi non nisi a seipsa moveri potest. Sic dum se facit similitudinem omnium cognoscibilium, a se movetur, ut dum in sensu se facit similitudinem sensibilium, in visu visibilium, in auditu audibilium et ita de omnibus. Ideo anima ex eodem et diverso dicitur constare propter comprehendendi motum universalem omnium et particularem diversorum. Sic ex individuo et dividuo, quia se conformat divisibili et mutabili. 29 Unde anima vis est illa, quae se omnibus rebus potest conformare. Et facit se causam motus corporis, scilicet manus aut pedis, sed non semper ex discretione, quoniam et a natura est motus, ut in motu nervorum et pulmonis. In pueris vero propter debilitatem non facit se similitudinem rerum, sed post annos discretionis, corpore firmato, adiuncta discretione et maxime si doctrina exercetur. Est enim in pueris adhuc informis quoad usum rationis, natu-
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stessa, dimmi di che tipo di movimento essa si muove in modo perpetuo! Cardinale. Il movimento dell’anima non appartiene a nessuno dei sei tipi di movimento, ma si muove in senso equivoco. Che l’anima muova se stessa, infatti, significa che distingue, astrae, divide e compone67. La capacità di svolgere ragionamenti è una facoltà dell’anima, quindi è anima. Vi sono anche alcune conoscenze razionali che sono immutabili e perpetue; per esempio, che quattro non è uguale a due: il quattro, infatti, contiene il tre, che non è invece contenuto nel due, per cui il quattro non è uguale al due. Questa conoscenza razionale è immutabile. L’anima, dunque, è immutabile68. Quando la ragione procede discorsivamente in questo modo, conducendo le sue argomentazioni razionali, il suo procedimento discorsivo è certamente razionale. Di conseguenza, nel compiere i suoi ragionamenti, l’anima razionale si muove da se stessa. L’anima, inoltre, è una facoltà che è in grado di inventare nuove arti e nuove scienze69. Di conseguenza, in questo movimento per il quale inventa il nuovo, l’anima non può essere mossa se non da se stessa. In modo analogo, quando l’anima si fa un’immagine di tutte le cose conoscibili, essa si muove da se stessa; per esempio, quando nei sensi si fa un’immagine delle cose sensibili, nella vista delle cose visibili, nell’udito delle cose udibili e così via. Per questo motivo, si dice che l’anima consiste dell’identico e del diverso, ossia per il suo movimento universale volto alla comprensione di tutte le cose e per il suo movimento particolare volto alla comprensione delle diverse cose. Allo stesso modo consiste dell’indivisibile e del divisibile, in quanto si conforma al divisibile e al mutevole70. L’anima, pertanto, è quella facoltà che può conformarsi a tutte le cose. Si rende da causa del movimento del corpo, vale a dire della mano o del piede, ma non sempre deliberatamente, in quanto vi sono anche dei movimenti che avvengono per natura, come quelli dei nervi e del polmone. Nei bambini, invece, l’anima, a causa della sua debolezza, non si fa un’immagine delle cose; lo fa dopo l’età del discernimento, quando il corpo si è rafforzato e il discernimento si è aggiunto all’anima, soprattutto se essa è stata formata dall’insegnamento71. Nei bambini, infatti, l’anima non è ancora formata all’uso della ragione, è soggetta alla natura, in modo che il bambi-
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rae subiecta, ut fiat fortis et perfectus homo; et eius informitas ad perfectionem movetur doctrina et exercitio. Potest autem dici animam se movere dupliciter. Aut cum se facit causam motuum corporis, quod etiam facit dormiendo. Aut cum se facit similitudinem rerum, quod etiam facit extra corpus humanum. Vivere etiam videtur esse se movere. Unde anima verius vivit, quia ex se movetur, quam homo, qui movetur ab anima. 30 Ioannes: Hinc puto quod deus verius vivat quam anima. Cardinalis: Recte putas, non quod deus se moveat aut faciat similitudinem rerum, quod facit anima, licet in eo sint omnia in quadam simplicitate, sed quia ipse verum esse rerum est et vita vitarum. Sic enim ait: «Ego sum resurrectio et vita». Ioannes: Multum placent quae de inventione novi supra memorasti. In eo enim actu anima clare videtur seipsam movere. Vellem ut ad ludum applicares. 31 Cardinalis: Cogitavi invenire ludum sapientiae. Consideravi quomodo illum fieri oporteret; deinde terminavi ipsum sic fiendum ut vides. Cogitatio, consideratio et determinatio virtutes sunt animae nostrae. Nulla bestia talem habet cogitationem inveniendi ludum novum, quare nec considerat aut determinat circa ipsum quidquam. Hae virtutes sunt vivae rationis, quae anima dicitur, et sunt vivae, quia sine motu vivae rationis non possunt esse. In illa enim cogitatione motum spiritus rationalis quisque apprehendit, qui advertit cogitare esse quoddam discurrere. Sic et considerare atque determinare. In quo opere corpus nihil praestat adiutorii. Ideo quantum potest se retrahit anima a corpore, ut melius cogitet, consideret et determinet. Nam penitus vult esse in sua libertate, ut libere operetur. Haec autem vis libera, quam animam rationalem dicimus, tanto est fortior quanto a corporalibus contractionibus absolutior. Non igitur plus vivit anima in corpore quam ex-
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no diventi un uomo forte e completo; e la natura ancora non formata viene condotta ad un pieno sviluppo attraverso l’insegnamento e l’esercizio72. Ad ogni modo, possiamo dire che l’anima muove se stessa in due sensi: o quando si rende causa del movimento, cosa che fa anche quando una persona dorme, o quando si fa un’immagine delle cose, cosa che fa anche separatamente dal corpo umano. Inoltre, la stessa vita dell’anima appare come un muovere se stessa, per cui l’anima, che muove se stessa vive in modo più vero dell’uomo [del corpo umano], che è mosso dall’anima. Giovanni. Ne deduco che Dio vive in modo più vero dell’anima73. Cardinale. Dici bene, non nel senso che Dio muova se stesso o si faccia un’immagine delle cose come fa l’anima, benché in Dio tutte le cose siano contenute in una certa semplicità, bensì nel senso che Dio è il vero essere delle cose e la vita delle vite74. Infatti, egli dice così: «Io sono la resurrezione e la vita»75. Giovanni. Mi piacciono molto le cose che hai ricordato riguardo all’invenzione del nuovo. Si vede chiaramente che in questo atto l’anima muove se stessa. Vorrei che tu applicassi tutto ciò al gioco. Cardinale. Ho pensato di inventare il gioco della sapienza76. Ho ponderato in che modo il gioco dovesse svolgersi, poi ho scelto di farlo così come lo vedi. Il pensare, il ponderare e lo scegliere sono facoltà della nostra anima. Nessun animale ha una capacità di pensiero tale da inventare un gioco nuovo, e per questo non pondera, né sceglie nulla in relazione ad esso77. Queste facoltà sono proprie di una ragione vivente, che viene chiamata anima, e sono vive, perché senza il movimento della ragione vivente non possono esistere. In un tale pensiero capace di inventare chiunque coglie il movimento dello spirito razionale, se riconosce che il pensare è una sorta di movimento discorsivo. La stessa cosa vale per il ponderare e lo scegliere. In questo tipo di azioni, il corpo non fornisce alcun aiuto. Così, l’anima si ritrae per quanto è possibile dal corpo, per poter meglio pensare, ponderare e scegliere. L’anima, infatti, vuole essere completamente libera, in modo da poter agire liberamente. Questa facoltà che chiamiamo anima razionale è tanto più forte quanto più è libera dalle contrazioni del corpo. L’anima, dunque, non vive più nel corpo di quanto non viva al di fuo-
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tra. Nec dissolvitur dissolutione harmoniae seu temperamenti corporis, cum ipsa non dependeat a temperamento sicut sanitas corporis; sed econverso ipsa temperatio dependet ab anima, qua non exsistente non est temperatio. 32 Anima est vita quia ratio, quae vivus motus est. Dum igitur cogito, considero et determino, quid aliud fit quam quod rationalis spiritus, qui est vis cogitiva, considerativa et determinativa, seipsum movet? Et dum quaero determinationem animae, quid sit anima, nonne cogito et considero? Et in hoc reperio animam movere seipsam motu circulari, quia supra seipsum ille motus revertitur. Quando enim cogito de cogitatione, motus est circularis et seipsum movens. Et hinc motus animae, qui vita est, perpetuus est, quia circularis supra seipsum reflexus. Ioannes: Capio sane quae dicis, et gratissimum est audisse tres illas virtutes animae intellectivae, quarum una non est alia, quia prior cogitatio, deinde consideratio, ultima determinatio. Cogitatio generat considerationem et determinatio procedit ab illis, et non sunt nisi unus vivus motus seipsum perfecte movens. Et in hoc video animam intellectivam unitrinam virtutem de necessitate, si debet perfecte vivere seu moveri. 33 Cardinalis: Adde adhuc ipsam esse perfectiorem, quia magis in ipsa vis illa infinita et perfectissima, quae deus est, relucet. Ideo sicut deus aeternus, ita ipsa perpetua. In perpetuo enim aeternitas melius relucet quam in temporali. Ioannes: Volo haec quae praecipis libentissime addere nec adhuc unum dimittere mihi gratissimum. Cardinalis: Quid hoc? Ioannes: Si ad perfectionem spiritus nostri necessario requiritur quod sit unitrinus, ut optime declarasti, profecto ignorantes
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ri di esso; né si dissolve a causa della dissoluzione dell’armonia o del giusto equilibrio [del temperamento] del corpo, dal momento che non dipende dal giusto equilibrio del corpo come vi dipende la buona salute78. Al contrario, è il giusto equilibrio del corpo che dipende dall’anima, perché, se non esiste l’anima, non può esservi un giusto equilibrio. L’anima è vita perché è ragione, la quale è un movimento vivente. Quando penso, pondero e scelgo, pertanto, che cos’altro accade se non che lo spirito razionale, che è la facoltà per la quale penso, pondero e scelgo, muove se stesso? E quando cerco di determinare [scegliere] che cosa è l’anima, di quale natura essa sia, forse che non penso e non pondero79? E rilevo che in quest’attività [mentale] l’anima muove se stessa di moto circolare, perché si tratta di un movimento che ritorna su se stesso. Quando penso il pensiero, il movimento è circolare ed è un movimento che muove se stesso. Il movimento dell’anima, che è vita, dunque, è perpetuo, perché è un movimento circolare che torna riflessivamente su se stesso80. Giovanni. Capisco bene ciò che dici e mi ha fatto un enorme piacere averti sentito parlare di queste tre facoltà dell’anima intellettiva, ciascuna delle quali non è l’altra, perché prima viene il pensiero, poi la ponderazione e infine la scelta. Il pensiero genera la ponderazione e la scelta procede dal pensiero e dalla ponderazione: le tre facoltà non sono se non un unico movimento vivo che muove perfettamente se stesso. E in ciò vedo che l’anima intellettiva è necessariamente una facoltà unitrina, se deve vivere, ossia muoversi, in modo perfetto81. Cardinale. Aggiungi anche che l’anima è persino più perfetta, perché in essa risplende maggiormente quella potenza infinita e sommamente perfetta che è Dio. Pertanto, come Dio è eterno, così l’anima intellettiva è perpetua. L’eternità, infatti, risplende meglio in ciò che è perpetuo che in ciò che è temporale82. Giovanni. Voglio aggiungere, con grande piacere, ciò che mi insegni, ma non voglio tralasciare una questione che mi sta particolarmente a cuore. Cardinale. Qual è? Giovanni. Se alla perfezione del nostro spirito si richiede necessariamente che sia unitrino, come hai spiegato benissimo, devo-
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reputandi sunt, qui spiritum perfectissimum, qui deus est, negant unitrinum. Cardinalis: Utique signum est ignorantiae de deo non affirmare id quod simplicitatis et perfectionis est. Unitas autem quanto magis uniens tanto simplicior et perfectior; hinc unitrina perfectior, quae sic est una quod etiam in tribus personis, quarum quaelibet est una, ipsa est una; et non esset alias perfectissima unitas. Careret enim natura et iis, quae ad eius perfectissimam essentiam sunt necessaria. Sed haec altiora sunt iis, quae nunc inquirimus. 34 Ioannes: Caute videris dixisse hanc cogitationem ludi et considerationem atque determinationem non esse in brutis, non negans etiam bruta in nidificatione, venationibus et aliis, quae experimur, cogitare, considerare et determinare. Quomodo igitur ostendes illa non esse rationabilia? Cardinalis: Quia carent libera virtute, quae in nobis est. Nam cum ego hunc ludum invenirem, cogitavi, consideravi et determinavi, quae alius nec cogitavit, nec consideravit, nec determinavit, quia quisque hominum liber est cogitare quaecumque voluerit, similiter considerare atque determinare. Quare non omnes idem cogitant, quando quisque habet liberum proprium spiritum. Bestiae vero non sic. Ideo impelluntur ad ea quae agunt per naturam et eiusdem speciei similes faciunt venationes et nidos. Ioannes: Non sine ratione haec fiunt. 35 Cardinalis: Natura movetur intelligentia. Sed sicut conditor legis, motus ratione, legem sic ordinavit, quae movet subditos – non ratio legis, quae est eis incognita, sed imperium superioris, quod necessitat –, ita brutum movetur imperio naturae necessitante ipsum, non inductione rationis, quam ignorat. Ideo in uno motu specifico videmus omnia eiusdem speciei tamquam ex indita lege naturae compelli et moveri. Hac coactione non stringitur spi-
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no essere ritenuti del tutto ignoranti coloro che negano che lo spirito sommamente perfetto, che è Dio, sia unitrino. Cardinale. Certamente è indice di ignoranza non affermare di Dio ciò che è proprio della semplicità e della perfezione. Ora, l’unità quanto più unisce tanto più è perfetta83; di conseguenza, l’unità più perfetta è quella unitrina, la quale è così una da essere una anche nelle tre persone [divine], ciascuna delle quali è una; altrimenti, non sarebbe l’unità sommamente perfetta. Mancherebbe, infatti, sia della natura di unità, sia delle caratteristiche che sono necessarie alla sua essenza sommamente perfetta. Queste questioni, tuttavia, sono più elevate di quelle su cui ora stiamo indagando. Giovanni. Mi sembra che tu abbia detto con prudenza che questo pensare, ponderare e scegliere riguardo al gioco non sono presenti negli animali, ma non hai negato che anche gli animali pensano, ponderano e scelgono quando nidificano, cacciano e fanno le altre cose di cui abbiamo esperienza84. Come puoi mostrare che gli animali non sono esseri razionali? Cardinale. Perché mancano della libertà che noi possediamo. Quando ho inventato questo gioco, infatti, ho pensato, ho ponderato e ho scelto cose che un altro non aveva pensato, ponderato o scelto, perché ciascun uomo è libero di pensare, di ponderare e di scegliere ciò che vuole. Per questo motivo, non tutti gli uomini pensano la stessa cosa, in quanto ogni uomo ha un proprio spirito libero85. Le bestie invece non sono così. Sono spinte dalla natura a fare ciò che fanno, e gli esemplari della stessa specie cacciano e nidificano in modo simile. Giovanni. Queste cose [attività] non avvengono senza ragione. Cardinale. La natura è mossa dall’intelligenza. Come il creatore della legge, tuttavia, mosso dalla ragione, ha ordinato la legge in modo tale che essa muova i suoi sudditi – questi non sono mossi dalla ragione della legge, che non conoscono, ma dal comando del superiore che li costringe –, così l’animale è mosso dal comando della natura che lo costringe, non perché è guidato dalla ragione, che ignora. Ecco perché vediamo che tutti gli esemplari della stessa specie si muovono con un solo movimento che è proprio di quella specie come costretti da una legge innata di natura. Il no-
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ritus noster regius et imperialis; alias nihil inveniret, sed solum impulsum naturae exsequeretur. Ioannes: Cum videam araneas unam legem in telis et venatione servare et hirundines in nidificatione et innumera talia, bene comprehendo uno motu singula moveri eiusdem speciei et hunc esse impulsivum. Contentor igitur. 36 Cardinalis: Quando advertis in nobis aliqua naturaliter cogitari, considerari et determinari, quae nostra animalitas deposcit, et alia, quae sine corpore spiritui tamen conveniunt ut illa praedicta, experimentaliter cognoscis in primis nos non libere moveri, sed ex necessitate naturae sensibilis et corporeae. Sed in aliis libere, cum liber spiritus seipsum moveat. Natura vero spiritui nostro nullam umquam necessitatem imponere potest. Sed bene spiritus naturae, ut patet in bono, in abstinentiis et castitate et in malo, quando contra naturam peccamus et desperati in seipsos manus iniciunt et se interimunt. 37 Ioannes: Unum restat, quod clarius cuperem intelligere, quomodo se habeat differenter vis sensitiva et vegetativa in homine et brutis. Unam enim dixisti esse substantiam, quam animam appellamus, et ipsam esse virtutem multarum virtutum, scilicet vegetativae et quae in vegetativa complicantur, et sensitivae et quae in sensitiva continentur, atque etiam intellectivae et quae ipsius sunt. Certum est autem hanc substantiam secundum virtutem intellectivam non requirere corpus. Ideo tota substantia animae, cum non dependeat a corpore, est per se stans sine corpore, licet alias virtutes, scilicet sensitivam et vegetativam, non exerceat nisi in corpore. Non est igitur minoris virtutis extra corpus quam in corpore, licet cesset exercitatio virtutum corpus requirentium. Sed cum ani-
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stro spirito regio ed imperiale non è costretto da una tale coazione; altrimenti, non inventerebbe nulla, ma eseguirebbe soltanto il comando della sua natura86. Giovanni. Vedo in effetti che i ragni osservano una sola legge nel tessere le ragnatele e nel cacciare e che le rondini fanno lo stesso nel costruire i loro nidi e in innumerevoli azioni simili; comprendo bene, pertanto, che i singoli esemplari della stessa specie sono mossi da un unico movimento e che tale movimento è un impulso che li spinge. Sono soddisfatto della tua risposta. Cardinale. Quando osservi che noi pensiamo, ponderiamo e scegliamo alcune cose secondo natura, giacché la nostra natura animale le richiede, e che altre, invece, come quelle menzionate poc’anzi, si addicono allo spirito indipendentemente dal corpo, allora riconosci per esperienza che, nelle prime, noi non ci muoviamo in modo non libero, ma siamo spinti dalla necessità della natura sensibile e corporea87. Nelle altre azioni, invece, ci muoviamo liberamente, giacché il nostro spirito libero muove se stesso. La natura, tuttavia, non può imporre alcuna necessità al nostro spirito. Al contrario, è lo spirito che può imporsi sulla natura com’è evidente nel bene, nel caso, ad esempio, dell’astinenza e della castità, e nel male, quando pecchiamo contro la natura e poggiamo le nostre mani disperate su noi stessi e ci uccidiamo. Giovanni. Resta una sola cosa che vorrei comprendere più chiaramente: come la facoltà sensitiva e quella vegetativa operino diversamente nell’uomo e negli animali. Hai detto, infatti, che vi è una sola sostanza, che chiamiamo anima e che essa è la facoltà di molte facoltà, ossia della facoltà vegetativa e di ciò che in essa è complicato, della facoltà sensitiva e di ciò che vi è contenuto e anche della facoltà intellettiva e di ciò che le è proprio. Ma è certo che questa sostanza, per quanto attiene alla facoltà intellettiva, non ha bisogno del corpo. L’intera sostanza dell’anima, pertanto, dal momento che non dipende dal corpo, è di per sé sussistente indipendentemente dal corpo, sebbene altre facoltà, quali la sensitiva e la vegetativa, non possano essere esercitate se non nel corpo. L’anima, quindi, non ha minore forza al di fuori del corpo che nel corpo, sebbene al di fuori del corpo venga meno l’esercizio delle facoltà che richiedono un corpo. Ora, poiché l’anima dell’animale è una sostanza e
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ma bruti sit substantia et virtus corpus requirens, quia sine corpore nihil habet exercitii, videtur quod deficiente corpore deficiat. Atque cum sit substantia, quae in homine est intellectualis, et virtus indeficiens, videtur numquam deficere. Substantia enim essentia est, quae non est corruptibilis secundum Dionysium, et potest esse perpetua, quoniam in anima hominis perpetua est. 38 Cardinalis: Subtiliter moves differentiam exquirens sensitivae et vegetativae in homine et brutis. Et primum advertendum puto quod virtutes illae, scilicet vegetativa, sensitiva et imaginativa, sunt in virtute intellectiva hominis sicut trigonus in tetragono, ut bene dicebat Aristoteles. Sed trigonus in tetragono non habet suam trigoni formam, sed tetragoni. In brutis vero habet trigonus trigoni formam. Alterius igitur naturae est trigonus, alterius tetragonus. Sic et virtutes vegetativae, sensitivae et imaginativae, quae trigonum illum, anima bruti dicitur, constituunt, sunt imperfectioris naturae quam in homine, ubi cum virtute intellectuali nobilissima et perfectissima tetragonum illum, qui anima hominis dicitur, constituunt. Inferiora enim in superioribus sunt secundum naturam superioris, ut vivere nobilius est in sensitiva quam vegetativa et adhuc nobilius in intellectiva, sed nobilissime in divina natura, quae est «vita viventium». 39 Non mirum igitur, si vires illae in trigono non sunt naturae virium illarum in tetragono, ubi in substantialem identitatem cum incorruptibili virtute intellectiva perveniunt. Sicut enim vegetativa, sensitiva, imaginativa et intellectiva in divina natura, quae est ipsa aeterna aeternitas, sunt aeterna, ita vegetativa, sensitiva et imaginativa in intellectuali natura, quae est perpetua, sunt perpetua. Et licet illa in bruto non sint perpetua perpetuitate naturae intellectua-
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una facoltà che ha bisogno di un corpo, poiché senza corpo non è in grado di svolgere alcuna funzione, sembra che essa debba venire a mancare una volta che viene a mancare il corpo. Dal momento che nell’uomo, tuttavia, l’anima è una sostanza intellettuale ed è una facoltà che non viene mai meno, sembra che non debba mai venire a mancare. Secondo Dionigi, infatti, la sostanza, è un’essenza che non è corruttibile e può essere perpetua, poiché nell’anima dell’uomo è perpetua88. Cardinale. Ti muovi in maniera sottile, chiedendo quale sia la differenza della facoltà sensitiva e vegetativa nell’uomo e negli animali. Ritengo che in primo luogo sia necessario tener presente che queste facoltà, ossia la vegetativa, la sensitiva e anche l’immaginativa, sono contenute nella facoltà intellettiva dell’uomo, come il triangolo è contenuto nel quadrato, come ha ben detto Aristotele89. In un quadrato, tuttavia, il triangolo non ha la sua forma di triangolo, bensì quella del quadrato. Negli animali, invece, il triangolo ha la forma del triangolo. Il triangolo, pertanto, è di una natura, il quadrato è di un’altra. In modo analogo, anche le facoltà vegetativa, sensitiva e immaginativa, che costituiscono quel triangolo che è chiamato anima dell’animale, sono di una natura più imperfetta di quella che hanno nell’uomo, nel quale formano, insieme con la facoltà intellettuale nobilissima e sommamente perfetta, quel quadrato che è chiamato anima dell’uomo. Tutto ciò che è inferiore, infatti, è contenuto nel superiore secondo la natura del superiore90. Il vivere, ad esempio, è più nobile nella facoltà sensitiva che nella facoltà vegetativa, è ancora più nobile nella facoltà intellettiva, mentre è nobilissimo nella natura divina che è la «vita dei viventi»91. Non mi meraviglio, pertanto, se le facoltà che sono contenute nel triangolo non sono della stessa natura di quelle contenute nel quadrato, nel quale pervengono ad un’identità sostanziale con la facoltà intellettiva incorruttibile. Come nella natura divina, infatti, che è l’eternità eterna, la facoltà vegetativa, sensitiva, immaginativa e intellettiva sono eterne, così nella natura intellettuale, che è perpetua, la facoltà vegetativa, sensitiva e immaginativa sono perpetue. E sebbene nell’animale queste facoltà non siano perpetue grazie all’immortalità della natura intellettuale, ritengo, tuttavia, che
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lis, non tamen puto aliquid de illis in substantia ex corporis varietate variari. Sicut enim in homine, dum manus eius arescit, substantia animae vegetativae et sensitivae non arescit, sed manet semper, quia virtus animae hominis incorruptibilis, licet desinat vegetatio et sensatio manus, sic forte per mortem bruti et arefactionem arboris non perit substantia illa, quae dicitur anima sensitiva aut vegetativa, licet non exerceat operationem ut ante. 40 Ioannes: Quomodo igitur manet? Cardinalis: Non possumus negare hominem dici microcosmum, hoc est parvum mundum, qui habet animam. Sic et magnum mundum animam habere, quam naturam quidam dicunt, alii spiritum universorum, qui omnia «intus alit», unit, conectit, fovet et movet. Vis enim illa mundi, quae seipsam et omnia movet, de qua diximus, est perpetua, quia motus rotundus et circularis, omnem in se habens motum, sicut circularis figura omnem figuram in se complicat. Dicitur etiam haec anima necessitas complexionis a plerisque, ab aliis fatum in substantia, omnia ordinate explicans. Ad quam se habet totus corporalis mundus sicut corpus hominis ad animam. Illa est sensitiva anima in sensitivis, vegetativa in vegetativis, elementativa in elementis, quae, si desinit vegetare arborem aliquam aut vivificare brutum, non tamen propterea desinit esse, ut de anima hominis dictum est. 41 Ioannes: Non ergo est alia anima unius bruti aut arboris et alia alterius. Cardinalis: Hoc secundum substantiam hac via concedi oportet, quoniam non est nisi una omnium anima. Sed per accidens omnes differunt. Sicut vis visiva in homine secundum substantiam non differt a virtute auditiva, quia una est anima, quae est vis visiva et auditiva, per accidens autem differunt, quia accidit virtuti vi-
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la loro sostanza non cambi affatto in seguito al cambiamento del corpo. Come nell’uomo, infatti, quando la mano si corrompe, la sostanza dell’anima vegetativa e sensitiva non si corrompe, ma rimane la stessa, perché la facoltà dell’anima dell’uomo è incorruttibile, anche se viene a mancare la vita e la sensazione della mano, così, forse, quella sostanza che è detta anima vegetativa o sensitiva non muore a causa della morte dell’animale e del seccarsi dell’albero, anche se non esercita più la sua operazione come prima. Giovanni. In che modo allora permane? Cardinale. Non possiamo negare che l’uomo venga definito un «microcosmo», vale a dire un «piccolo mondo», che ha un’anima92. Allo stesso modo, anche il mondo grande ha un’anima93, che alcuni chiamano «natura», altri «spirito dell’universo», che «nutre dall’interno»94 tutte le cose, le unisce, le connette, le sostiene e le muove. Quella forza del mondo, di cui abbiamo parlato95, che muove se stessa e tutte le cose, infatti, è perpetua, poiché è un movimento rotondo e circolare che contiene in sé ogni movimento, come la figura del cerchio complica in sé ogni figura. Quest’anima viene chiamata da molti anche «necessità del complesso»96, da altri «fato che è nella sostanza», che esplica tutte le cose in modo ordinato. Tutto il mondo corporeo si rapporta ad essa come il corpo dell’uomo si rapporta all’anima. Questa forza o anima del mondo è un’anima sensitiva negli enti dotati di sensibilità, è un’anima vegetativa negli enti dotati di facoltà vegetativa, ed è un’anima che forma gli elementi negli elementi; e se smette di far vegetare un albero o di far vivere un animale, essa non cessa tuttavia di esistere, come abbiamo detto anche a proposito dell’anima dell’uomo. Giovanni. L’anima di un animale o di un albero non è allora diversa da quella di un altro animale o di un altro albero. Cardinale. Se si parla dal punto di vista della sostanza, è necessario ammettere ciò che tu dici, giacché non vi è che un’unica anima di tutte le cose97 [di tutti gli animali o di tutte le piante]. Per quanto riguarda gli accidenti, invece, le anime sono tutte diverse le une dalle altre. La facoltà della vista nell’uomo, per esempio, non differisce quanto alla sostanza dalla facoltà dell’udito, perché una sola è l’anima, che è sia facoltà visiva che uditiva; queste due facoltà, tuttavia, differiscono in virtù degli accidenti, perché alla facol-
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sivae esse in oculo et non in aure et in uno oculo magis apto quam in alio ad operationem suam exsequendam. 42 Ioannes: Secundum hanc opinionem forte concedi potest, quod triplex est mundus: parvus qui homo, maximus qui est deus, magnus qui universum dicitur; parvus est similitudo magni, magnus similitudo maximi. Sed dubito, cum homo sit mundus parvus, si etiam sit pars mundi magni. Cardinalis: Utique homo sic est mundus parvus quod et pars magni. In omnibus autem partibus relucet totum, cum pars sit pars totius. Sicut totus homo relucet in manu ad totum proportionata, sed tamen in capite perfectiori modo tota perfectio hominis relucet, sic universum in qualibet eius parte relucet. Omnia enim ad universum suam tenent habitudinem et proportionem. Plus tamen relucet in ea parte quae homo dicitur quam in alia quacumque. Perfectio igitur totalitatis universi quia plus relucet in homine, ideo et homo est perfectus mundus, licet parvus, et pars mundi magni. Unde quae universum habet universaliter, habet et homo, particulariter, proprie et discrete. Et quia non potest esse nisi unum universum, et plura particularia et discreta esse possunt, ideo unius perfecti universi plures particulares et discreti homines speciem gestant et imaginem, ut stabilis unitas magni universi in tam varia pluralitate multorum parvorum fluidorum mundorum sibi invicem succedentium perfectius explicetur. 43 Ioannes: Si recte capio, tunc, sicut universum est unum regnum magnum, sic et homo est regnum, sed parvum, in regno magno, sicut regnum Bohemiae in regno Romanorum seu universali imperio. Cardinalis: Optime! Homo enim est regnum simile regno universi, fundatum in parte universi. Dum enim est embryo in utero
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tà visiva accade di essere nell’occhio e non nell’orecchio e di essere più adatta a svolgere il suo compito in un occhio piuttosto che in un altro. Giovanni. In accordo con questa opinione, si può forse ammettere che il mondo sia triplice98: il piccolo mondo che è chiamato uomo, il mondo massimo che è chiamato Dio e il mondo grande che è chiamato universo99. Il piccolo mondo è un’immagine del grande, il grande è un’immagine del massimo100. Non so, tuttavia, se l’uomo, dal momento che è il piccolo mondo, faccia parte anche del mondo grande. Cardinale. Certamente. L’uomo è un piccolo mondo in modo tale da essere anche una parte del grande. In tutte le parti, del resto, risplende l’intero, dal momento che una parte è parte dell’intero. Come l’uomo intero risplende nella mano che è proporzionata all’intero, anche se tutta la perfezione nell’uomo risplende in modo più perfetto nella testa101, così l’universo risplende in ognuna delle sue parti102. Tutte le cose, infatti, hanno la loro relazione e proporzione con l’universo. Esso risplende, tuttavia, in quella parte che è chiamata uomo più che in qualsiasi altra. Pertanto, poiché la perfezione della totalità dell’universo risplende di più nell’uomo, l’uomo è un mondo perfetto, anche se piccolo, e fa parte del mondo grande. Di conseguenza, anche l’uomo possiede, in modo particolare, proprio e distinto103, tutto ciò che l’universo ha in modo universale. Ora, poiché non può esservi che un solo universo, mentre può esservi una pluralità di enti particolari e distinti, vi sono molti uomini particolari e distinti fra di loro che sono l’immagine dell’unico universo perfetto; in questo modo, la stabile unità del grande universo viene esplicata in modo più perfetto in una tale varia pluralità di piccoli mondi soggetti al divenire e che si succedono l’un l’altro104. Giovanni. Se capisco bene, come l’universo è un unico grande regno, così anche l’uomo è un regno, piccolo, contenuto all’interno del regno grande, alla stregua del regno di Boemia che è contenuto nel regno dei Romani, ossia nell’impero universale. Cardinale. Giustissimo! L’uomo, infatti, è un regno simile al regno dell’universo, radicato in una parte dell’universo. Quando l’uomo è un embrione nell’utero della madre, non esiste ancora il
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matris, nondum est regnum proprium; sed creata anima intellectuali quae creando imponitur regnum fit regem habens proprium et homo dicitur. Recedente vero anima desinit esse homo et regnum. Corpus autem, sicut ante adventum animae intellectivae fuit de universali regno magni mundi, ita et revertitur ad illud. Sicut Bohemia erat de imperio, antequam haberet proprium regem, sic et manebit proprio rege sublato. Homo igitur immediate suo proprio regi, qui in ipso regnat, subest. Sed mediate subest tunc regno mundi. Quando autem nondum habet regem aut esse desiit, immediate subest regno mundi. Quare vegetativam virtutem in embryone natura seu mundi anima exercet sicut in aliis vitam vegetativam habentibus, et etiam continuat hoc exercitium in nonnullis mortuis, quibus capilli et ungues crescunt, et ea facit in illis sicut in aliis corporibus proprio rege carentibus. Quomodo vero homo sit regnum proprium, liberum et nobile, alibi latius tractavi. Et pulchra est speculatio, per quam homo, seipsum cognoscens, in suo regno, licet parvo, omnia abunde sine defectu reperiens, felicem se videns, si velit; optime contentatur. Haec nunc ut tempus dedit tacta sunt. 44 Ioannes: Non pigriteris istis pulcherrime dictis adicere, quomodo maximus mundus qui deus est in universali relucet. Cardinalis: Alta petis, nescio si sufficiam. Iuvabo me tamen ex globo quantum potero. Nam globus visibilis est invisibilis globi, qui in mente artificis fuit, imago. Attente igitur adesto mentem in se fingendi virtutem habere! In seipsa enim mens concipiendi liberam habens facultatem artem reperit pandendi conceptum, quae nunc fingendi vocetur magisterium, quam artem habent figuli, statuarii, pictores, tornatores, fabri, textores et similes artifices.
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regno che gli è proprio. Una volta creata l’anima intellettuale, però, che è imposta dall’atto creativo, nasce un regno che ha il proprio re e che viene chiamato uomo. Nel momento in cui, invece, l’anima si allontana, cessa di essere un uomo e un regno. Il corpo ritorna al regno universale del grande mondo, al quale apparteneva prima dell’avvento dell’anima intellettiva. Allo stesso modo, la Boemia apparteneva all’Impero, prima di avere il proprio re, e resterà nell’Impero, se il re verrà deposto. L’uomo, pertanto, è soggetto immediatamente al proprio re, che regna in lui, ma è soggetto anche, in maniera mediata, al regno del mondo. Quando, invece, non ha ancora un re, o quando l’uomo ha cessato di esistere, allora egli è soggetto immediatamente al regno del mondo. Per questo motivo, nell’embrione è la natura o l’anima del mondo che esercita le funzioni della facoltà vegetativa, come le esercita in altri esseri che hanno la vita vegetativa, e continua a farlo anche in alcuni morti ai quali crescono i capelli e le unghie, e fa tutto questo come lo fa in altri corpi che sono privi del proprio re. In che modo invece l’uomo sia un regno proprio, libero e nobile, di questo ho trattato altrove più diffusamente105. Ed è una bella riflessione quella grazie alla quale l’uomo, conoscendo se stesso, trova che nel suo regno, benché piccolo, sono contenute tutte le cose in maniera abbondante e senza difetto106, e si vede felice, se vuole; così, egli è pienamente soddisfatto. Abbiamo trattato di questo argomento per quanto il tempo a disposizione ce lo ha concesso. Giovanni. Dopo aver detto queste parole così belle, non indugiate ad aggiungere la spiegazione di come nell’universo risplenda il mondo massimo, che è Dio. Cardinale. Chiedi cose così profonde che io non so se sono in grado di rispondere. Mi aiuterò, comunque, per quanto potrò, con l’esempio della palla. La palla visibile, infatti, è un’immagine della palla invisibile che era nella mente dell’artigiano107. Tieni presente, pertanto, che la mente ha in se stessa il potere di forgiare! Avendo infatti la libera facoltà di concepire, la mente trova in se stessa l’arte di rendere manifesto ciò che essa ha concepito108; questa arte si chiama, in questo caso, maestria nel forgiare ed è posseduta dai vasai, dagli scultori, dai pittori, da coloro che lavorano con il tornio, dai fabbri, dai tessitori e da artigiani di questo tipo. Immagi-
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Esto igitur quod figulus velit ollas, patellas, urceos et quaeque talia quae mente concipit exprimere et visibiliter ostendere, ad finem ut cognoscatur magister; primum studet possibilitatem inducere seu materiam aptam facere ad capiendam formam artis; qua habita videt sine motu non posse hanc possibilitatem in actum deducere, ut habeat formam quam mente concepit, et rotam facit, cuius motu educat de possibilitate materiae formam praeconceptam. Et quia una materia est aptior alia, nulla possibilitas perfectissima esse potest. Ideo in nulla materia immaterialis et mentalis forma potest veraciter fingi uti est. Sed similitudo et imago manebit omnis visibilis forma verae et invisibilis formae, quae in mente mens ipsa exsistit. 45 Sic igitur in mente tornatoris globus iste mens ipsa exsistens, dum mens [in] se in ea forma quam concepit – et cui conceptui se assimilavit – visibilem facere vellet, adaptavit materiam, scilicet lignum, ut illius formae capax esset. Deinde tornatili motu formam in ligno introduxit. Fuit igitur globus in mente, et ibi globus archetypus mens est. Fuit in rudi ligno possibiliter, et ibi fuit materia. Fuit in motu, dum de potentia ad actum deduceretur, et ibi fuit motus. Et producta est possibilitas eius ad actum, ut sit actu per determinationem et definitionem possibilitatis, quae actu est sic determinata, ut sit visibilis globus. Habes igitur ex hac similitudine humanae artis, quomodo artem divinam creativam aliqualiter conicere poteris, licet inter creare dei et facere hominis tantum intersit sicut inter creatorem et creaturam. Mens igitur divina, mundum in se concipiens – qui conceptus est mens ipsa aequalis conceptui –, mundus dicitur arche typus. Voluit autem deus pulchritudinem conceptus sui manifesta-
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na, dunque, che un vasaio, al fine di essere riconosciuto come maestro, voglia spiegare e mostrare visivamente109 come si costruiscono le giare, i patti, le brocche e tutto ciò che egli concepisce con la sua mente; in primo luogo, egli cerca di avere a disposizione la possibilità, ossia cerca di rendere la materia atta a ricevere la forma della sua arte; pronta la materia, vede che, senza il movimento, non può portare all’atto questa possibilità per farle avere la forma che egli concepisce con la sua mente questa possibilità, in virtù della quale può avere la forma che la mente concepisce; per questo, costruisce una ruota, con il cui movimento egli fa emergere dalla possibilità della materia la forma concepita precedentemente con la sua mente. E poiché una materia è più adatta di un’altra, nessuna possibilità può essere sommamente perfetta. Per questo, in nessuna materia la forma immateriale che è presente nella mente può essere riprodotta così come essa è veramente. Ogni forma visibile rimarrà una somiglianza e un’immagine della forma vera e invisibile, che è presente nella mente come identica alla mente stessa. Allo stesso modo, nella mente del tornitore questa palla è presente come identica alla mente stessa; per questo, quando la sua mente ha voluto rendersi visibile attraverso quella forma che aveva concepito e al cui concetto si era assimilata, essa ha reso la materia, ossia il legno, adatta a ricevere quella forma. Poi, mediante il moto del tornio, [l’artigiano] ha introdotto la forma nel legno110. Pertanto, la palla era nella mente del tornitore e lì la palla, intesa come modello [della palla sensibile], era la mente stessa. La palla era in potenza nel legno grezzo, e lì era materia. Perché la palla esistesse in atto, la sua possibilità è stata infine condotta all’atto mediante la determinazione e la delimitazione della possibilità, la quale è stata determinata in atto in modo da essere la palla visibile111. Sulla base di questo esempio dell’arte umana, sai in che modo potresti fare delle congetture intorno all’arte creatrice divina, sebbene fra il creare di Dio e il produrre dell’uomo vi sia tanta differenza quanta ve n’è fra il creatore e la creatura112. La mente divina, che concepisce in se stessa il mondo – questo concetto [del mondo] è la stessa mente divina, la quale è uguale al concetto –, viene pertanto chiamata mondo archetipo113. Ora, Dio ha voluto manifestare e rendere visibile la bellezza del suo concetto. Egli ha allora creato
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re et visibilem facere. Creavit possibilitatem seu posse fieri mundum pulchrum et motum, per quem de possibilitate duceretur, ut fieret hic mundus visibilis, in quo possibilitas essendi mundum est sic, ut deus voluit, et fieri potuit actu determinata. 46 Ioannes: Intelligisne per posse fieri, possibilitatem seu materiam, aliquid, de quo factus est mundus, ut de ligno globus? Cardinalis: Nequaquam. Sed quod mundus de modo, qui possibilitas seu posse fieri aut materia dicitur, ad modum, qui actu esse dicitur, transivit. Nihil enim fit actu, quod fieri non potuit. Impossibile enim fieri quomodo fieret? Materia vero, si aliquid actu esset, utique ipsa aeternitas esset aut aeternitatis factura. Non potest dici quod sit aeternitas, quia aeternitas deus est, qui est omne id quod esse potest. Sic non est materia, quae est possibilitas seu fieri posse sive variabilitas. Nec aeternitatis factura. Nam si facta esset, fieri potuisset. Tunc fieri posse, scilicet materia, de materia facta esset et sic de seipsa, quod est impossibile. Non est igitur aliquid actu materia. Sed res quae fit dicitur ex materia fieri, quia fieri potuit. Non enim foret mens divina omnipotens, si non nisi de aliquo aliquid facere posset; quod mens creata nequaquam omnipotens quotidie facit. 47 Ioannes: Non negas posse fieri, licet non sit aliquid, esse posse fieri aliquid. Non est igitur penitus nihil, cum de nihilo nihil fiat; et cum non sit deus nec aliquid actu nec de aliquo nec nihil, ideo quidquid est de nihilo est; non ex seipsa, cum se de nihilo creare nequeat, dei igitur creatura videtur. Cardinalis: Optime concludis. Hoc enim sic concedi debere viva ratio necessitat, licet quomodo hoc concipi possit non repe-
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la possibilità o il poter-essere-fatto di un mondo bello ed ha creato il movimento mediante il quale il mondo potesse essere tratto dalla possibilità e fatto diventare questo mondo visibile, nel quale la possibilità-di-essere mondo è così come Dio ha voluto e come essa ha potuto essere determinata in atto. Giovanni. Con «poter-essere-fatto» intendi la possibilità o la materia114, qualcosa cioè da cui il mondo è stato fatto, come la palla è stata fatta dal legno? Cardinale. Per nulla. Piuttosto, intendo dire che il mondo è passato dal modo che è chiamato «possibilità» o «poter-essere-fatto» al modo che è chiamato «essere in atto». Nulla, infatti, diviene in atto, se non poteva essere fatto115. E in effetti, come potrebbe essere fatto ciò che è impossibile che venga fatto116? Ora, se la materia fosse qualcosa di esistente in atto, sarebbe certamente l’eternità stessa o il prodotto dell’eternità. Ma non si può dire che la materia sia l’eternità, perché l’eternità è Dio, il quale è tutto ciò che può essere. La materia, che è possibilità117, ovvero poter-essere-fatto o mutevolezza, pertanto, non è l’eternità. Ma non è neppure è il prodotto dell’eternità. Se la materia fosse stata fatta, essa avrebbe potuto essere fatta. In questo caso, il poter-essere-fatto, ossia la materia, sarebbe stato fatto dalla materia, ossia da se stessa, il che è impossibile118. La materia, dunque, non è qualcosa che esista in atto. Piuttosto, di una cosa che viene fatta si dice che viene fatta dalla materia, perché essa ha potuto essere fatta. La mente divina, infatti, non sarebbe onnipotente, se potesse fare qualcosa solo a partire da qualcos’altro. Questo è invece ciò che fa ogni giorno la mente creata, la quale non è affatto onnipotente. Giovanni. Tu non neghi che il poter-essere-fatto, benché non sia qualcosa, possa divenire qualcosa. Non è, dunque, il nulla in senso assoluto, dal momento che dal nulla non deriva nulla. E dal momento che non è Dio, né qualcosa di esistente in atto, né qualcosa che deriva da altro, né il nulla, allora, qualsiasi cosa esso sia, è qualcosa che deriva dal nulla; la materia, pertanto, dal momento che non deriva da se stessa, in quanto non può creare se stessa dal nulla, sembra essere una creatura di Dio119. Cardinale. Trai una conclusione giustissima. La ragione viva, infatti, richiede che si debba ammettere quanto dici, sebbene non
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riat. Sicut enim conceptus de deo omnem excellit conceptum, sic de materia omnem fugit conceptum. 48 Ioannes: Latentne formae in materia, ut globus latuit in ligno? Cardinalis: Nequaquam. Nam cum tornator globum facit abscindendo partes ligni usque quo perveniat ad formam globi, possibilitas, quam vidit tornator in ligno, quando se conformat cum globo mentis, transivit de possibili modo essendi ad actu esse. Cuius causa materialis est lignum et efficiens artifex et formalis exemplar in mente artificis et finalis ipse artifex, qui propter seipsum operatus est. Tres igitur causae concurrunt in artifice et quarta est materialis. Ita deus est tricausalis, efficiens, formalis et finalis omnis creaturae et ipsius materiae, quae non causat aliquid, cum non sit aliquid. Sed sine ipsa id quod fit fieri non posset. Nam cum id quod est in mente dei sit deus, qui est aeternitas, utique id fieri non potest. Neque fit aliquid, quod non est in mente et conceptu dei. Oportet igitur quod veritas omnis rei quae fit non sit nisi exemplar eius, quae mens dei est. Ideo quod fit erit imago exemplaris formae. Nam imaginis veritas non est imago, sed exemplar. Si igitur non est veritas, sed eius imago, tunc necesse est id quod fit, cum descendat a stabili aeternitate, in variabili subiecto recipi, ubi non recipitur uti est in aeternitate, sed uti fieri potest. 49 Ioannes: Si bene cuncta capio, omnia sunt in deo et ibi sunt veritas, quae nec est plus nec minus. Sed ibi sunt complicite et inevolute sicut circulus in puncto. Omnia sunt in motu. Sed ibi sunt, ut evolvuntur, sicut cum punctus unius pedis circini super alio evolvi-
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trovi il modo in cui concepirlo. Come il concetto di Dio, infatti, supera ogni concetto, così ogni concetto fugge via dalla materia120. Giovanni. Le forme non sono forse nascoste nella materia, come la palla era nascosta nel legno? Cardinale. Per nulla. Colui che lavora con il tornio, infatti, fa la palla eliminando parti del legno fino a che perviene alla forma della palla; in questo caso, la possibilità che il tornitore ha visto nel legno, nel rendersi conforme alla palla che è nella sua mente, è passata dal suo modo d’essere, che è il possibile, all’essere in atto. La causa materiale della palla è il legno, la causa efficiente è l’artigiano, la causa formale è l’esemplare, che è nella mente dell’artigiano, e la causa finale è l’artigiano stesso, che ha agito in vista di sé. Tre cause, dunque, concorrono nell’artefice, mentre la quarta è la causa materiale121. In modo simile, Dio è una causa triplice – efficiente, formale e finale – di ogni creatura e della stessa materia, la quale non è causa di alcunché, dal momento che non è alcunché. Senza di essa, tuttavia, ciò che viene fatto non potrebbe essere fatto. Ciò che è nella mente di Dio, infatti, dal momento che è Dio, il quale è eternità, non può certamente essere fatto. D’altra parte, non viene neppure fatto qualcosa che non sia nella mente e nel concetto di Dio. È necessario, pertanto, che la verità [la vera natura] di ogni cosa che vien fatta sia solamente il suo esemplare; e questa verità [vera natura o esemplare di ogni cosa] è la mente di Dio. Ciò che viene fatto, pertanto, sarà un’immagine della forma esemplare. La verità dell’immagine, infatti, non è un’immagine, ma l’esemplare. Di conseguenza, se ciò che viene fatto non è la verità [la vera natura di una cosa], ma è una sua immagine, allora è necessario che ciò che viene fatto, dal momento che discende dall’eternità immutabile, sia ricevuto in un soggetto mutevole, nel quale viene ricevuto non così come esso è nell’eterno, ma come può essere fatto122. Giovanni. Se comprendo bene tutto quello che hai detto, tutte le cose sono in Dio e lì sono la verità, che non è né qualcosa di più, né qualcosa di meno [da quello che è]123. In Dio, tuttavia, tutte le cose sono presenti in modo complicato e non sviluppato, come un cerchio è presente in un punto. Tutte le cose sono presenti nel movimento. In esso, tuttavia, esse sono presenti in quanto si sviluppano, come quando il punto di un piede del compasso viene fatto
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tur. Tunc enim punctus ille explicat circulum prius complicatum. Omnia in posse fieri sicut circulus in materia, quae in circulum duci potest. Et omnia sunt in possibilitate determinata sicut circulus actu descriptus. Cardinalis: Satis summarie haec resumpsisti, quae nescio quomodo – et extra propositum – in sermonem pervenerunt. Igitur revertamur nunc ad ludum nostrum et intentum brevissime pandam. Ioannes: Nisi te viderem abunde et amplius quam speravimus satisfecisse et doctrinam pandisse magnae speculationi congruam, pro magno nostro audiendi desiderio te quamvis fatigatum sollicitarem, ut haec quae incepisti in longos tractatus extenderes. Sed nunc ut proponis facito! Quaeremus libros tuos, quos his apicibus refertos speramus. 50 Cardinalis: Credo me saepius ista et alia et dixisse et scripsisse, melius forte quam modo, cum amplius vires deficiant et memoria tarde respondeat. Fuit autem propositum meum hunc ludum noviter inventum, quem passim omnes facile capiunt et libenter ludunt propter crebrum risum, qui ex vario et numquam certo cursu contingit, in ordinem proposito utilem redigere. Et feci signum, ubi stamus globum iacientes, et circulum in medio plani, in cuius medio est sedes regis, cuius regnum est regnum vitae intra circulum inclusum, et in circulo novem alios. Lex autem ludi est, ut globus intra circulum quiescat a motu et propinquior centro plus acquirat, iuxta numerum circuli ubi quiescit. Et qui citius XXXIV acquisiverit, qui sunt anni Christi, victor sit. 51 Iste, inquam, ludus significat motum animae nostrae de suo regno ad regnum vitae, in quo est quies et felicitas aeterna. In cuius
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ruotare sopra l’altro. In questo caso, infatti, il punto esplica il cerchio che prima era complicato [in esso]124. Tutte le cose sono presenti nel poter-essere-fatto come un cerchio è presente in una materia che può essere fatta diventare un cerchio. Tutte le cose, infine, sono presenti nella possibilità determinata125, come è presente un cerchio che è stato disegnato in atto. Cardinale. Hai riassunto in modo sufficientemente conciso queste cose, che non so come, e al di là della nostra intenzione, sono giunte nel presente discorso. Ora torniamo dunque al nostro gioco e ti spiegherò in modo molto breve ciò che ho in mente. Giovanni. Se non vedessi che tu ci hai soddisfatto abbondantemente e in modo persino più ampio di quanto sperassimo e che ci hai spiegato una concezione che è propria di un grande pensiero, per il nostro grande desiderio di ascoltarti, ti pregherei, benché tu sia affaticato, di approfondire ulteriormente questi argomenti di cui hai iniziato a discutere. Ma ora facciamo come tu proponi! Interroghiamo i tuoi libri, che ci aspettiamo siano pieni di queste elevate speculazioni. Cardinale. Credo di aver detto e scritto spesso queste ed altre cose in un modo probabilmente migliore di quanto abbia fatto adesso, giacché le forze progressivamente vengono meno e la memoria risponde lentamente126. D’altra parte, è stata mia l’idea di spiegare in un ordine utile al nostro proposito questo gioco da poco inventato, che tutti comprendono facilmente e al quale tutti giocano volentieri, per via della frequente ilarità che spesso viene causata dalla traiettoria della palla, varia e mai certa. E ho fatto un segno per indicare il luogo nel quale stare in piedi e lanciare la palla, mentre, nel mezzo del piano di gioco, ho tracciato un cerchio nel cui centro è collocato il trono di un re, il cui regno è il regno della vita incluso all’interno del cerchio, e poi, all’interno di questo cerchio, ne ho tracciati altri nove. La regola del gioco è che la palla si fermi all’interno di un cerchio e che una palla che si fermi più vicina al centro guadagni più punti, a seconda del numero del cerchio nel quale si ferma. E chi totalizza per primo trentaquattro punti, che sono gli anni di Cristo, sarà il vincitore. Questo gioco, dico, rappresenta il movimento della nostra anima, dal suo regno fino al regno della vita, in cui vi è la quiete e la
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centro rex noster et dator vitae Christus Iesus praesidet. Qui, cum similis nobis esset, personae suae globum sic movit, ut in medio vitae quiescat, nobis exemplum relinquens, ut quemadmodum fecit faciamus et globus noster suum sequatur, licet impossibile sit quod alius globus in eodem centro vitae, in quo globus Christi quiescit, quietem attingat. Intra circulum enim sunt infinita loca et mansiones. Quiescit enim globus cuiusque in puncto et atomo suo proprio, quem nullus alius umquam attingere poterit. Neque duo globi possunt aeque distare a centro, sed semper unus plus, alius minus. Oportet igitur quemlibet Christianum cogitare, quomodo quidam non habent spem alterius vitae; et hi globum suum movent in his terrenis. Alii spem habent felicitatis, sed suis propriis viribus et legibus sine Christo contendunt pervenire ad vitam illam; et hi globum suum – sequendo ingenii vires et suorum prophetarum et magistrorum praecepta – ad alta currere faciunt; et horum globi ad regnum vitae non perveniunt. Sunt tertii, qui viam, quam Christus, dei unigenitus filius, praedicavit et ambulavit, amplectuntur; hi se ad medium, ubi est sedes regis virtutum «mediatorisque dei et hominum», convertunt et globum suum – insequendo vestigia Christi mediocri cursu impellunt; qui solum in regno vitae mansionem acquirunt. Solus enim dei filius de caelo descendens scivit viam vitae, quam verbo et opere credentibus patefecit. Ioannes: Dicis ‘credentibus’. Qui sunt hi? 52 Cardinalis: Qui credunt ipsum dei filium et evangelium esse per ipsum praedicatum. Illi de veritate evangelii certi sunt, quia filius dei non mentitur. Ideo praeferunt promissa evangelii huic vitae. Gaudent hic mori, ut intrent cum Christo in vitam aeternam. Moriendum omnino est. Mori igitur propter fidem filii dei habet retributionem vitae aeternae. Quomodo enim deus, qui est iustus et pius, fidelitatem pro ipsius dei gloria morientis non remunera-
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felicità eterna127. Nel centro di questo regno troneggia Gesù Cristo, nostro re e datore della vita. Egli, quando era simile ad uno di noi, ha lanciato la palla della sua persona in modo che si fermasse nel centro della vita, lasciandoci così un esempio affinché anche noi facessimo in qualche modo quello che ha fatto lui e affinché la nostra palla seguisse la sua, sebbene sia impossibile che un’altra palla si fermi nello stesso centro della vita nel quale si è fermata la palla di Cristo. All’interno di un cerchio, infatti, vi è un numero infinito di luoghi e di abitazioni. La palla di ciascuno si ferma, infatti, in un punto e in un atomo suo proprio, che nessun altro potrà mai raggiungere128. E non è neppure possibile che due palle siano ad un’eguale distanza dal centro, ma una sarà sempre più distante e un’altra meno distante. Ogni cristiano deve pertanto riflettere sul fatto che alcuni uomini non hanno alcuna speranza di un’altra vita e lanciano la loro palla [solo] qui sulla terra. Altri hanno la speranza della felicità, ma pretendono di raggiungere questa vita con le proprie forze e con le proprie leggi, senza Cristo; e questi fanno correre la loro palla verso cose elevate, seguendo le forze dell’ingegno e gli insegnamenti dei loro profeti e maestri, ma la loro palla non raggiunge il cerchio della vita. Vi è poi un terzo gruppo di uomini che abbracciano la via che ha predicato e percorso Cristo, il figlio unigenito di Dio. Questi si rivolgono al centro, dove si trova il trono del re delle potenze e «il mediatore tra Dio e gli uomini»129, e imprimono alla propria palla un movimento misurato, seguendo le orme di Cristo; e questi sono i soli che ottengono di abitare nel regno della vita. Soltanto il figlio di Dio, infatti, che è disceso dal cielo, ha conosciuto la via della vita, che, con le sue parole e le sue opere, egli ha rivelato ai credenti. Giovanni. Dici «ai credenti». Chi sono costoro? Cardinale. Coloro che credono che Cristo è il figlio di Dio e che il vangelo è stato annunciato per mezzo di lui. Essi sono certi della verità del vangelo, perché il figlio di Dio non mente. Così, preferiscono la promessa del vangelo a questa vita. Sono felici di morire qui, per entrare con Cristo nella vita eterna. Tutti dobbiamo morire. Morire per la fede del figlio di Dio ha come ricompensa la vita eterna. Come potrebbe, infatti, Dio, che è giusto e pio, non ricompensare la fedeltà di colui che muore proprio per la glo-
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ret? Aut quam daret remunerationem nisi vitae ei, qui pro eo vitam dedit? Estne deus ignobilior homine nobili fidelitatem servi abunde remunerante usque ad consortium regni? Et si fidelis pro gloria filii dei eligit pati etiam aeternam mortem, quomodo dabitur ei retributio nisi vitae, ubi semper et aeternaliter se sciat veraciter vivere et laetari? 53 Ioannes: Non ergo sunt veri Christiani, qui non moriuntur ut Christus pro gloria dei. Cardinalis: Ille Christianus est, qui praefert gloriam dei propriae vitae et gloriae et taliter praefert quod, si probaretur in persecutione, talis inveniretur. In illo vivit Christus et ipse non vivit; contemptor igitur huius mundi et vitae est, in quo per fidem est spiritus filii dei Iesu Christi; qui mortuus mundo vivit in Christo. Ioannes: Tu vides quam difficile est dirigere globum curvum, ut sequatur viam Christi, in quo fuit spiritus dei, qui ipsum deduxit in centrum et fontem vitae. Cardinalis: Facile valde est habenti veram fidem, ut praedixi. Igitur si globus personae tuae spiritu fidei impellitur, spe firma ducitur et caritate Christo astringitur, qui te ducet secum ad vitam; sed impossibile infideli. Ioannes: Certissimum hoc esse video: Qui non credit Christo uti dei filio, mundo adhaeret et meliorem vitam non exspectat. Sed fidelis in adversitate gaudet, quia scit mortem gloriosam praestare immortalem vitam. Videtur tamen vix possibile quod globus secundum naturam suam inclinatus deorsum non sic moveatur et incurvetur, et unus plus quam alius. 54 Cardinalis: Haec est summa mysteriorum huius ludi, ut discamus has inclinationes et naturales incurvationes taliter rectifica-
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ria di Dio? Oppure, quale ricompensa potrebbe dare a chi ha dato la vita per lui, se non la vita? Non sarebbe, altrimenti, Dio più meschino di un uomo nobile che ricompensa in abbondanza la fedeltà del suo servo, fino a condividere con lui il suo regno? E se il fedele sceglie, per la gloria del figlio di Dio, di patire perfino una morte eterna, in che modo sarà egli ricompensato, se non con una vita nella quale sappia di vivere veramente e di essere felice sempre e per l’eternità?130 Giovanni. Non sono allora veri cristiani coloro che non muoiono come Cristo, per la gloria di Dio? Cardinale. È cristiano colui che preferisce la gloria di Dio alla propria vita e alla propria gloria, e che la preferisce a tal punto che, se venisse messo alla prova dalla persecuzione, verrebbe trovato così [come un convinto credente]. Non è lui che vive, ma è Cristo che vive in lui131; disprezza quindi questo mondo e questa vita; in lui, attraverso la fede, è presente lo spirito del figlio di Dio, Gesù Cristo, ed essendo morto al mondo, egli vive in Cristo. Giovanni. Tu vedi quanto sia difficile dirigere la curva di una palla, in modo che segua la via di Cristo, nella quale era presente lo spirito di Dio, che ha condotto Cristo al centro e alla fonte della vita. Cardinale. È molto facile per chi ha la vera fede, come ho detto prima. Pertanto, se la palla della tua persona viene spinta dallo spirito della fede, allora viene guidata da una salda speranza ed è legata, mediante la carità, a Cristo, che ti conduce con sé alla vita. Questo, tuttavia, è impossibile per chi non ha fede. Giovanni. Vedo che quanto dici è certissimo. Chi non crede in Cristo come figlio di Dio si aggrappa al mondo e non aspetta una vita migliore. Il fedele, invece, è felice nell’avversità, perché sa che una morte gloriosa assicura la vita immortale. Sembra, tuttavia, poco probabile che una palla, che, conformemente alla sua natura, tende a muoversi verso il basso, non si muova in quella direzione e lungo quella curva, una palla più di un’altra. Cardinale. Questo è il segreto più grande di questo gioco: che noi dobbiamo imparare, con la pratica delle virtù, a trasformare in linee rette queste inclinazioni e questi moti curvi naturali, in modo
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re virtuoso exercitio, ut tandem post multas variationes et instabiles circulationes et incurvationes quiescamus in regno vitae. Vides enim quod unus impellit globum uno modo, alius alio, manente eadem curvitate in globo. Secundum varium impulsum varie movetur et quiescit, et numquam certum est ante quietem, ubi demum quiescat. Videns igitur unus globum impulsum per aliquem attigisse prope centrum, cogitat sequi velle illius modum et pluries attentat et proficit. Ioannes: Quisque est proprius globus, aliter quam alius incurvus. Igitur non potest unus alium sequi. Cardinalis: Verum est. Nullus alterius semitam praecise sequi potest. Sed necesse est, ut quisque dominetur inclinationibus globi sui et passionibus seipsum exercitando; demum taliter moderatus studeat viam invenire, in qua curvitas globi non impediat, quo minus ad circulum vitae perveniat. Haec est vis mystica ludi: virtuoso exercitio posse etiam curvum globum regulari, ut post multas instabiles flexiones motus in regno vitae quiescat. 55 Ioannes: Negare nequeo una globi gibbositate stante secundum diversum impetum cuiusque ipsum proicientis differenter semper moveri posseque eundem globum per quemque iuxta libitum varie impelli, ita quod, licet curva revolutio semper maneat, tamen motus eius variatur. Dicimus tamen, cum non semper in centro circuli quiescat, ubi quisque ludens ipsum ponere intendit, et inter ludentes unus nunc ipsum in propinquo centri locat et postea – eandem ut prius habens intentionem – globus remote a centro declinat, videri quod non secundum pellentis intentionem sed etiam secundum fortunam moveatur. Cardinalis: Fortuna potest dici id, quod praeter intentionem
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tale che, alla lunga, dopo molte variazioni, dopo molti movimenti circolari imprecisi e dopo molte traiettorie curve, possiamo fermarci nel regno della vita132. Vedi, infatti, che una persona lancia la palla in un modo, un’altra in un altro modo, anche se la palla ha sempre la stessa curvatura. A seconda del variare della spinta, la palla si muove e si ferma in modi e luoghi diversi, e, prima che si fermi, non è mai certo dove finirà per fermarsi. Se un uomo, quindi, vede che la palla lanciata da un altro uomo si è fermata vicino al centro, pensa di dover seguire quel modo di lanciare, prova molte volte e vi riesce. Giovanni. Ciascun uomo è la propria palla ed ha una curvatura diversa da quella di chiunque altro. Un uomo, pertanto, non può seguire ciò che fa un altro. Cardinale. È vero. Nessuno può seguire precisamente il sentiero dell’altro. È necessario, tuttavia, che ciascuno, esercitandosi, controlli le inclinazioni e le tendenze della propria palla; raggiunta poi una condizione di moderazione, si adopera per trovare un modo grazie al quale la curvatura della sua palla non gli impedisca di giungere al cerchio della vita. Questa è la forza mistica del gioco: con la pratica delle virtù, è possibile dirigere anche una palla curva, in modo tale che, dopo molte e incerte oscillazioni del movimento, essa si fermi nel regno della vita133. Giovanni. Non posso negare che, pur avendo un’unica ed identica forma convessa, la palla viene mossa in maniera sempre diversa, a seconda della diversa spinta di colui che la lancia, e non posso negare che ognuno può lanciare la stessa palla in modo diverso, a proprio piacere, per cui, sebbene la traiettoria della palla sia sempre curva, il suo movimento varia. Tuttavia, dal momento che non sempre la palla si ferma nel centro del cerchio, nel quale ciascun giocatore intende piazzarla, e dal momento che tra i giocatori uno riesce una volta a piazzarla vicino al centro, mentre la volta successiva, pur avendo egli la stessa intenzione di prima, la palla va a finire lontana dal centro, diciamo che la palla sembra essere mossa non soltanto dall’intenzione di colui che la lancia, ma anche dalla fortuna134. Cardinale. Si può chiamare «fortuna» ciò che accade indipendentemente dalla nostra intenzione, e dal momento che ciascun
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evenit; et cum quisque ludens petat centrum circuli, non est fortuna, si tetigerit. Neque est in potestate nostra quod voluntas nostra perficiatur. Dum enim globus currit, attenti sumus, ut videamus, si ad centrum accedit, et vellemus iuvare ipsum, si possemus, ut tandem ibi quiesceret. Sed quia non posuimus eum in via nec impetum adhibuimus ad hoc necessarium, ideo cum intentione superveniente cursum quem impressimus moderari nequimus. Sicut qui de monte currere incepit, dum est in veloci motu, etiamsi vellet, non potest se continere. 56 Oportet igitur circa principium motus attentum esse. Quare mala consuetudo, quae motus est, non sinit quem bene facere, nisi ipsa deposita virtutis motum in bona consuetudine ponat. Non habent igitur male currentes, etiamsi in cursu paeniteant, alicui dispositioni, quae aut fatum aut mala fortuna nominari consuevit, imputare, si male cursum terminant, sed sibiipsis, qui inconsulte se praecipitarunt. Bene vides quod globum quando vis et quomodo vis in motu ponis; etiamsi constellatio caeli haberet globum fixum debere persistere, non tenebit caeli influxus manus tuas, quin si velis globum moveas. Regnum enim cuiusque liberum est, sicut et regnum universi, in quo et caeli et astra continentur, quae in minori mundo etiam, sed humaniter continentur. 57 Ioannes: Secundum hoc igitur nemo nisi sibiipsi adversos etiam casus imputare debet. Cardinalis: Ita est in moralibus atque iis operibus, quae sunt hominis ut hominis. Nemo enim vitiosus nisi sua culpa. Ioannes: Quomodo tunc dicitur fortunam omnipotentem? Cardinalis: Hoc poeta dicebat sciens sic philosophos Platonicos affirmare. Hi enim fortunam aiunt ordinem et dispositionem
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giocatore mira a raggiungere il centro del cerchio, non è fortuna se lo raggiunge. Non è tuttavia in nostro potere il fatto che la nostra volontà si realizzi compiutamente. Per questo, quando la palla corre, stiamo attenti a guardare se si avvicina al centro e, se potessimo, vorremmo aiutarla a fermarsi alla fine lì. Poiché, però, non l’abbiamo messa in movimento con la spinta necessaria allo scopo, non possiamo regolare la traiettoria che le abbiamo impresso con un’intenzione successiva. Qualcosa di simile accade a chi inizia a correre da un monte: quando ha preso velocità, non può più fermarsi, anche se volesse. È necessario, pertanto, prestare attenzione all’inizio del movimento. Per questo motivo, una cattiva abitudine, che è un tipo di movimento, non permette ad una persona di fare del bene, a meno che, messala da parte, ella non dia inizio ad un movimento guidato dalle virtù che conduca, come risultato, alla formazione di una buona abitudine. Coloro che corrono male, pertanto, se terminano male la propria corsa, benché si pentano durante il tragitto, non devono imputare il loro cattivo risultato a una qualche disposizione, che si è soliti chiamare fato o sfortuna135, ma devono incolpare se stessi, perché hanno iniziato a correre troppo forte, senza riflettere. Ora vedi chiaramente che sei tu a mettere in movimento la palla, quando vuoi e come vuoi; anche se la costellazione del cielo decretasse che la palla deve rimanere ferma, l’influsso del cielo non tratterrà le tue mani dal muovere la palla, se tu lo vorrai136. Il regno di ciascun uomo, infatti, è libero, come lo è il regno dell’universo, nel quale sono contenuti anche il cielo e gli astri, che sono contenuti anche nel mondo più piccolo, seppure secondo il modo che è proprio della natura umana. Giovanni. Secondo quanto dici, anche gli avvenimenti avversi uno non li deve imputare se non a se stesso. Cardinale. Questo vale per la morale e per le azioni che sono proprie dell’uomo in quanto uomo. Nessuno, infatti, cede al vizio, se non per colpa propria. Giovanni. Perché allora si dice che la fortuna sia onnipotente? Cardinale. Questo lo ha detto un poeta137, sapendo che lo affermavano i filosofi Platonici. Costoro, infatti, affermano che la «fortuna» è l’ordine e la disposizione di tutte le cose nel loro esse-
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rerum omnium in suo proprio esse; et illam vocant necessitatem complexionis, quia nihil illi dispositioni resistere potest. Nec adversa nec prospera dicitur dispositio seu fortuna illa nisi quantum ad nos et secundum explicationem rerum actu et opere. Puta dispositio et ordo essendi hominem sic se habet, ut sic fiant omnia, sicut fiunt, alioquin non fieret homo. Est ergo inevitabilis necessitas, cui nihil resistere potest. Ideo omnipotens. Cum autem Socrates et Plato actu homines sint dispares, hoc non evenit, quia fortuna seu ordo et dispositio sint prospera et adversa nisi quantum ad istos homines, quorum unus assequitur prospera respectu alterius. 58 Sed neque haec fortuna, quae anima mundi supra nominatur, in nostro regno disponit illa quae hominis sunt. Quisque enim homo liberum habet arbitrium velle scilicet et nolle, cognoscens virtutem et vitium, quid honestum, quid inhonestum, quid iustum et quid iniustum, quid laudabile, quid vituperabile, quid gloriosum, quid scandalosum et quod bonum elegi debeat et malum sperni, habens intra se regem et iudicem horum quae, cum haec bruta ignorent, ideo sunt hominis ut hominis. Et in his est nobile regnum nequaquam universo aut alteri creaturae subiectum, non in his extrinsecis bonis quae fortuita dicuntur, de quibus non potest habere homo quantum vellet, quoniam liberae voluntati non subsunt sicut bona praefata immortalia, quae voluntati subiciuntur. Nam si vult, reperit et elegit libere virtutes immortales immortalis anima, propriae vitae suae cibum immortalem sicut vegetativa corporis pastum sibi aptum corporalem. Et licet sit impossibile, dum globus movetur, praescire in quo puncto quiescat – neque propterea semper in circulo quiescit, quia circulum aliquotiens subintrat –, non minus tamen ex consuetudine et continuata practica praevideri poterit coniectura verisimili in
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re proprio; e la chiamano «necessità del complesso», poiché nulla può resistere a quella disposizione138. Tale disposizione o fortuna non viene detta né avversa, né favorevole, se non dal nostro punto di vista e secondo lo sviluppo che le cose hanno avuto nei fatti e nelle azioni. Per esempio, la disposizione e l’ordine per i quali vi è l’uomo sono tali che tutte le sue caratteristiche sono fatte così come sono perché, altrimenti, non sarebbe stato fatto un uomo. Si tratta, pertanto, di una necessità inevitabile alla quale nulla può resistere. È, dunque, onnipotente. Il fatto che Socrate e Platone siano in atto uomini differenti non accade perché la fortuna, o l’ordine o la disposizione, sono favorevoli o contrari, a meno che non si guardi la cosa dal punto di vista di questi due uomini, uno dei quali può aver avuto, rispetto all’altro, delle situazioni favorevoli. Neppure questa fortuna, tuttavia, che abbiamo poco sopra chiamato «anima del mondo», dispone nel nostro regno le cose che sono proprie dell’uomo. Ogni uomo, infatti, ha il libero arbitrio, cioè la facoltà di volere e di non volere, in quanto conosce la virtù e il vizio, ciò che è onesto e ciò che è disonesto, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, ciò che è lodevole e ciò che è riprovevole, ciò che è glorioso e ciò che è scandaloso, e ogni uomo deve scegliere il bene e disprezzare il male in quanto ha dentro di sé il re e il giudice di tutte queste cose, che gli animali invece ignorano e che sono pertanto proprie dell’uomo in quanto uomo. Riguardo a queste cose, il regno nobile [dell’uomo] non è mai soggetto né all’universo, né ad una qualsiasi altra creatura. Diversamente accade per i beni «esterni», che vengono chiamati «fortuiti»: l’uomo non può averne secondo la sua volontà, poiché non dipendono dalla volontà libera, diversamente dai beni immortali che abbiamo appena citato, i quali dipendono dalla nostra volontà. Se vuole, infatti, l’anima immortale trova e sceglie liberamente le virtù immortali, il cibo immortale della sua propria vita, così come l’anima vegetativa trova e sceglie il cibo adatto al corpo. Ora, mentre la palla è in movimento, è impossibile sapere in anticipo in quale punto si fermerà, ed il fatto che si sia talvolta fermata nel cerchio non significa che si fermerà sempre in quel punto; nonostante questo, sulla base della consuetudine e di una continua pratica, si potrà tuttavia prevedere, con una congettura vero-
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circulo globum quietem accepturum; difficilius tamen in quo ordine per circulos distincto; et penitus impossibile in quo puncto. Terreno igitur homini et eius peregrinationi globus, habens ponderosum corpus et in latus terreum inclinatum, et eius motus, quia per hominis fit impulsum, aliqualiter similatur. 59 Non enim potest in rectitudine persistere motus humanus. Cito declinat, propter terrestreitatem inconstanter et varie semper fluctuans, qui nihilominus potest exercitio virtutis revolutionem in circulo terminare. Et bonam et perseverantem intentionem adiuvat deus, qui in motu quaeritur, et perficit bonam voluntatem. Ipse enim est, qui fidelem dirigit et ad perfectum producit et impotentiam in ipsum sperantis sua omnipotenti supplet clementia. Christianus igitur, qui facit omnia quae in ipso sunt, licet sentiat globum suum inconstanter currere, in deo tamen confidens non confundetur, qui non derelinquit in ipsum sperantes. 60 Et hoc est huius ludi mysterium, satis nunc pro tam brevi hora declaratum, ut de his paucis multa elicias et proficias in motu, ut tandem quietem simul in regno vitae cum Christo rege nostro feliciter assequamur, eo praestante qui solus potens est et in saecula saeculorum benedictus. Amen. Globi ludus et liber explicit.
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simile, che la palla si fermerà all’interno di un cerchio. Più difficile è invece prevedere in quale particolare livello dei cerchi concentrici si fermerà, e del tutto impossibile è prevedere il punto esatto. La palla, che ha un corpo pesante inclinato verso la superficie della terra, ed il suo movimento, che è dato dalla spinta dell’uomo, possono essere paragonati in qualche modo all’uomo terreno e al suo pellegrinaggio. Il movimento dell’uomo, infatti, non può mantenersi in linea retta. Presto devia, a causa della natura terrestre [dell’uomo] e oscilla sempre in modo incostante e differente; ciononostante, attraverso l’esercizio della virtù, l’uomo può condurre il suo movimento a fermarsi nel cerchio. Dio, che viene ricercato attraverso il movimento [dell’uomo], viene in soccorso dell’intenzione buona e perseverante e conduce a perfezione la buona volontà. È Dio stesso, infatti, che guida il fedele, lo conduce alla perfezione, e supplisce con la sua clemenza onnipotente all’impotenza di chi spera in lui. Pertanto, sebbene il cristiano, che fa tutto ciò che è in lui, sia ben consapevole che la sua palla si muove in maniera irregolare, egli non resta tuttavia confuso139, in quanto confida in Dio, il quale non abbandona coloro che sperano in lui. E questo è il segreto di questo gioco, che ora, per il poco tempo che abbiamo avuto a disposizione, ho spiegato in maniera sufficiente perché tu possa trarre da queste poche parole molte altre e possa progredire nel movimento, di modo che, alla fine, potremo ottenere insieme felicemente la quiete nel regno della vita, alla presenza di Cristo nostro re, sempre che Egli, che solo è potente e benedetto nei secoli, lo voglia.
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Fine del gioco della palla e del libro.
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Dialogi de ludo globi secundus liber incipit
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Interlocutores: Albertus adolescens Dux Bavariae et Nicolaus Cardinalis etc.
Albertus: Tu nosti, pater, me advenisse summa fiducia, ut Papae nostro Pio atque tibi et aliis cardinalibus notior fierem et proficerem. Cum nunc Illustrem Ducem Ioannem, consanguineum meum carissimum, in hac urbe reperirem et inter nos post communia amicorum colloquia ipsum vacare viderem lectioni libelli De ludo globi, admiratus tam de ludo quam de libello nisus sum comprehendere aliquid iuxta meam iuvenilem capacitatem. Sed non est mihi visum te circulorum regionis vitae mysticam sententiam explanasse. Rogo igitur tuam pietatem, ne in me despicias tanti mysterii incapacitatem. Dabitur, ut doctior rememorem quae audivero et dei dono proficiam. Cardinalis: Multo gaudio te cum fratre Wolfgango hoc loco vidi. Pater enim tuus Albertus, Illustris Comes Palatinus et Bavariae Dux, multis annis me singulariter amavit et hoc ostendit. Videre tantum amicum vivere in illustribus et optime nobiliterque compositis et eruditis filiis mihi periucundum est. Et hinc quaeque possibilia libens impertiar. De ludo globi inquiris ea quae, dum audieris, non poteris aetate obstante fortasse discutere. Admiraberis tamen et violentia quadam incorporabis altissima, quae te habilem reddent, ut ad cuncta scibilia melius volare queas. Oportet autem, ut mentis oculum aperias et visum illum totaliter eleves, ut quae dicturus sum potius videas quam audias. Albertus: Faciam omnia quantum natura et ingenium concesserint.
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Libro secondo
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Interlocutori: Alberto il Giovane, duca di Baviera140 e Niccolò, cardinale ecc.
A lberto. Tu sai, padre, che io sono venuto qui141 con la speranza più grande di conoscere meglio sia il nostro papa Pio142, sia te e gli altri cardinali, e di imparare da voi. In questa città ho incontrato l’illustre duca Giovanni143, mio carissimo consanguineo, e dopo le chiacchierate fra amici, che sono consuete fra noi, l’ho visto dedicare tempo alla lettura del libro Il Gioco della palla. Ammirato sia del gioco che del libro, mi sono sforzato di comprenderne qualcosa in proporzione alla mia capacità di ragazzo. Non mi è sembrato, tuttavia, che tu abbia spiegato il senso mistico dei [dieci] cerchi della regione della vita. Chiedo pertanto che la tua benevolenza non guardi con disprezzo alla mia incapacità di comprendere un segreto così grande. Accadrà che quando sarò più dotto, ricorderò ciò che avrò ascoltato e progredirò grazie al dono di Dio. Cardinale. Con molta gioia ho visto te e tuo fratello Wolfgang in questa città. Tuo padre Alberto, infatti, illustre conte palatino e duca di Baviera, mi ha voluto bene per molti anni in modo unico e lo ha dimostrato. Vedere che un così caro amico continui a vivere nei suoi figli illustri, di ottimi e nobili costumi ed eruditi, è una cosa che mi fa enorme piacere. Volentieri, quindi, ti comunicherò tutto ciò che è possibile. Riguardo al gioco della palla, tu mi chiedi cose che, quando le hai ascoltate, probabilmente non hai potuto discutere a causa della tua giovane età. Resterai tuttavia meravigliato da quelle profondissime verità che ti renderanno capace di spiccare meglio il volo verso tutto ciò che è conoscibile e ad esse ti terrai stretto con tutta la tua forza. È necessario, tuttavia, che tu apra l’occhio della tua mente144 e che elevi totalmente il tuo sguardo, in modo da poter vedere, più che ascoltare, le cose che sto per dire. Alberto. Farò tutto ciò che la mia natura e la mia intelligenza mi consentiranno di fare.
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Circulorum mysticationem quam ut capias, infige tuae memoriae propositionem quae sequitur: Eo, quod in omnibus et in quo omnia, nihil maius aut minus esse potest. Quare omnium exemplar. Albertus: Habeo iam hanc in memoria fixam propositionem. Sed ut mens eius videat veritatem, declaratione opus habet. Cardinalis: Parva sufficiet. Nam quomodo foret aliquid minus eo, quod in omnibus? Aut quomodo maius eo, in quo omnia? Si igitur nihil omnium est aut minus aut maius eo, necesse est omnia illius unius exemplaris esse exemplata. Albertus: Brevissime declarasti. Nam certissime video: Cum exemplatum nihil habeat nisi ab exemplari sitque unum omnium exemplar, quod in omnibus et in quo omnia, clara est ostensio, postquam videro unitatem exemplaris omnium variorum exemplatorum, me ad altam contemplationem deduxisti. Cardinalis: Tu bene mente conspicis exemplatum non posse esse, nisi in ipso sit exemplar. Albertus: Certissime. 63 Cardinalis: Sed quomodo est exemplatum, nisi sit in eodem suo exemplari? Nam exemplatum si est extra suum exemplar, quomodo manet exemplatum? Albertus: Nihil obest, quo minus hoc videam. Nam necesse est utique exemplatum in exemplari suo contineri. Alias non est verum exemplatum. Ideo perfecte intueor exemplar necessario esse in exemplato et exemplatum contineri seu esse in exemplari. Cardinalis: Exemplar igitur est in omnibus exemplatis et in quo omnia exemplata. Nullum igitur exemplatum est minus aut
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Cardinale. Per capire il segreto dei cerchi, scolpisci nella tua memoria la proposizione che segue: «Non può esservi nulla di maggiore o di minore di ciò che è presente in tutte le cose e nel quale sono presenti tutte le cose. Per questo motivo, esso è l’esemplare di tutte le cose»145. Alberto. Ho questa proposizione scolpita nella mia memoria. Perché la mente possa vederne la verità, essa ha tuttavia bisogno di una spiegazione. Cardinale. Una breve spiegazione sarà sufficiente. Come potrebbe qualcosa essere più piccolo di ciò che è presente in ogni cosa? Oppure, come potrebbe essere più grande di ciò in cui è contenuta ogni cosa? Di conseguenza, se nessuna tra tutte le cose è più piccola o più grande di esso, è necessario che tutte le cose siano immagini di quell’unico esemplare. Alberto. Hai fornito una spiegazione brevissima. Ora, infatti, vedo in modo assolutamente certo: dal momento che l’immagine non ha nulla se non ciò che deriva dall’esemplare, e dal momento che vi è un solo esemplare di tutte le cose, il quale è presente in tutte le cose e nel quale sono presenti tutte le cose, la tua spiegazione è chiara. Una volta che sarò giunto a vedere l’unità dell’esemplare di tutte le sue differenti immagini146, sarò stato condotto da te ad un’elevata contemplazione. Cardinale. Riconosci con la tua mente che l’immagine non può sussistere, se non è presente in essa l’esemplare? Alberto. Assolutamente sì. Cardinale. Ma come può essere un’immagine, se non è presente nel suo stesso esemplare? Se l’immagine, infatti, è al di fuori del suo esemplare, in che modo rimane un’immagine147? A lberto. Nulla si oppone alla mia comprensione di quanto dici. È necessario, certamente, che un’immagine sia presente nel suo esemplare. Altrimenti, non è una vera immagine. Vedo, allora, perfettamente, che l’esemplare è presente necessariamente nella sua immagine e che l’immagine è contenuta o è presente nel suo esemplare. Cardinale. L’esemplare, dunque, è presente in tutte le sue immagini e in esso sono presenti tutte le sue immagini. Nessun’imma-
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maius eo. Quare exemplata omnia sunt unius exemplaris exemplata. Albertus: Verissime sic esse video. 64 Cardinalis: Nec est necesse propter pluralitatem exemplatorum esse plura exemplaria, cum unum infinitis sufficiat. Praecedit enim naturaliter exemplar exemplatum. Et ante omnem pluralitatem unitas, quae est omnis exemplatae multitudinis exemplar. Ideo, etsi forent plura exemplaria, necesse foret unitatem exemplarem illam pluralitatem praecedere. Non essent igitur illa plura exemplaria aeque prima exemplaria, sed unius primi exemplaris exemplata. Non potest igitur esse nisi unum primum exemplar, quod est in omnibus exemplatis et in quo omnia exemplata. Albertus: Ostendisti nunc mihi quae videre concupivi. Nam nihil mihi resistit, quin videam omnis multitudinis unitatem principium, ex quo intueor unitatem exemplaris omnium exemplatorum. 65 Cardinalis: Dixi unitatem esse exemplar omnium numerorum seu omnis pluralitatis aut multitudinis. In omni enim numero vides unitatem et omnem numerum in unitate contineri. Omnis enim numerus est unus: binarius, ternarius, denarius et ita de omnibus. Quisque est unus numerus. Nec esse posset quisque unus, si in eo non foret unitas, et nisi ipse in unitate contineretur. Albertus: Hactenus non adverti ad haec, quando mihi visum fuit denarium maiorem unitate et ideo in unitate non contineri. Sed nunc video denarium, cum sit unus denarius, non posse hoc esse, nisi in unitate contineatur. Cardinalis: Attendas etiam oportet, quomodo unitas non potest esse nec minor nec maior. Quod non minor, statim admittis. Quod non maior, etiam vides, quando advertis id, quod esset maius uno, non esse unum. Ac quod sic est de denario, qui – sive vi-
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gine, pertanto, è più grande o più piccola dell’esemplare. Per questo motivo, tutte le immagini sono immagini dell’unico esemplare. Alberto. Vedo che tutto ciò è assolutamente vero. Cardinale. Inoltre, non è necessario che, a causa della pluralità delle immagini, vi sia una pluralità di esemplari, dal momento che un solo esemplare è sufficiente per un numero infinito di immagini148. L’esemplare, infatti, precede per natura l’immagine. E prima di ogni pluralità vi è l’unità149, che è l’esemplare di tutte le molteplici immagini. Così, anche se vi fossero più esemplari, sarebbe necessario che un esemplare unico precedesse quella pluralità150. Questi molteplici esemplari, pertanto, non sarebbero primi allo stesso modo, ma sarebbero immagini di un unico, primo esemplare. Non vi può quindi essere che un unico, primo esemplare, il quale è presente in tutte le immagini e nel quale sono presenti tutte le immagini. Alberto. Mi hai mostrato ora ciò che desideravo vedere. Nulla mi impedisce infatti di vedere che l’unità è il principio di ogni molteplicità, e da questo intuisco l’unità dell’esemplare di tutte le immagini151. Cardinale. Ho detto che l’unità è l’esemplare di tutti i numeri, ossia di ogni pluralità o molteplicità. Vedi, infatti, che l’unità è presente in ogni numero e che ogni numero è contenuto nell’unità152. Ogni numero, in effetti, è uno: un numero due, un numero tre, un numero dieci e così via. Ciascuno di questi numeri è un solo numero153. E non potrebbe essere un solo numero, se non fosse presente in esso l’unità e se esso non fosse contenuto nell’unità. Alberto. Fino ad ora, non avevo fatto attenzione a queste cose, dal momento che mi sembrava che il numero dieci fosse maggiore dell’unità e che, pertanto, non fosse contenuto nell’unità. Ora, invece, vedo che il numero dieci, essendo un solo numero dieci, non può essere tale se non è contenuto nell’unità. Cardinale. Devi tenere anche presente che l’unità non può essere né minore, né maggiore154. Che non possa essere minore, lo riconosci immediatamente. Che non possa essere maggiore, lo vedi se consideri il fatto che, se qualcosa fosse maggiore di uno, non potrebbe essere uno. E tutto ciò è vero anche per il numero dieci, che
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deas ipsum minoratum sive auctum – non vides denarium. Hoc autem habet omnis numerus ab unitate, quia numerus est exemplatum exemplaris unitatis. Albertus: Propositio quam praemisisti clavis esse videtur ad intrandum intelligentiam absconditorum, quando ipsam quaerens recte applicat. 66 Cardinalis: Nec est applicatio difficilis. Nam si te interrogo seriatim, sola interrogatione duceris ad visionem veri, puta: Interrogo te, an cuncta quae vides putas aliquid exsistere? Credo dices cuncta exsistere. Albertus: Cum sint aliquid, oportet exsistere. Cardinalis: In exsistentibus estne ipsum esse? Albertus: Utique, alias si non esset in ipsis ipsum esse, quomodo exsisterent? Cardinalis: Nonne quae exsistunt in ipso exsistunt? Albertus: Extra esse ipsum utique non exsisterent. Cardinalis: Esse igitur omnium in omnibus exsistentibus est et omnia exsistentia in ipso esse exsistunt. Albertus: Nihil certius video quam quod et esse ipsum simplicissimum est omnium exsistentium exemplar. Cardinalis: Hoc est esse absolutum, quod creatorem omnium quae sunt credimus. Albertus: Quis non videret haec quae dixisti ita se habere? Cardinalis: Sic vides in animato animam et simul ipsum animatum in anima. Et in iusto iustitiam et ipsum in ea. Sicut in albo albedinem et ipsum in ea. Et generaliter in contracto absolutum et ipsum contractum in absoluto. Humanitatem in homine et ipsum in humanitate. 67 Albertus: Video certe ista omnia necessaria. Sed imaginatio
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non vedresti come numero dieci se lo vedessi diminuito o aumentato. Ogni numero, d’altra parte, ha questa caratteristica dall’unità, perché il numero è un’immagine dell’unità, che è il suo esemplare. Alberto. La proposizione che hai citato in precedenza mi sembra essere la chiave per accedere alla comprensione di verità nascoste, se colui che cerca l’applica correttamente. Cardinale. L’applicazione non è difficile. Se io ti pongo una serie di domande, infatti, sarai condotto alla visione del vero dal mio solo interrogarti. Per esempio, se io ti chiedo: «Ritieni che tutte le cose che vedi siano qualcosa di esistente?», credo che risponderai che tutte esistono. Alberto. Dal momento che sono qualcosa, è necessario che esistano. Cardinale. Nelle cose che esistono non è forse presente l’essere stesso? Alberto. Certamente. Altrimenti, se non fosse presente in esse l’essere stesso, come farebbero ad esistere? Cardinale. Le cose che esistono non esistono forse nell’essere? Alberto. Al di fuori dell’essere certamente non esisterebbero155. Cardinale: L’essere di tutte le cose, quindi, è presente in tutte le cose che esistono e tutte le cose che esistono esistono nell’essere stesso156. Alberto. Vedo che nulla è più certo del fatto che l’essere stesso assolutamente semplice è l’esemplare di tutte le cose che esistono. Cardinale. Questo è l’essere assoluto, che noi crediamo essere il creatore di tutte le cose che sono157. Alberto. Chi non vedrebbe che le cose che hai detto sono vere? Cardinale. Vedi, allora, che nell’essere animato è presente l’anima e, contemporaneamente, che l’essere animato è contenuto nell’anima. Nel giusto vedi la giustizia e nella giustizia il giusto. Nel bianco vedi la bianchezza e nella bianchezza il bianco. E in termini più generali, vedi che in ciò che è contratto è presente l’assoluto e che nell’assoluto è presente ciò che è contratto. Che nell’uomo è presente l’umanità e che nell’umanità è presente l’uomo. Alberto. Vedo senza dubbio che tutto ciò è necessario. L’immaginazione, tuttavia, non riesce a cogliere come ciò possa avveni-
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non capit, quomodo hoc fiat. Quis enim conciperet unum esse in alio et id aliud in eodem uno? Cardinalis: Hoc est ideo inimaginabile, quoniam haec virtus imaginativa in quanto terminatur. Nam non-quantum imaginatio non attingit. Unde quod continens sit in contento, quando imaginatio ad locum se convertit, qui quantus est, non capit. Videtur sibi ac si diceret quis quod esse aliquem in domo sit esse domum in ipso. Sed oculus mentis ad intelligibilia, quae supra imaginationem sunt, respiciens non potest negare, quin videat in esse ipso, quod est supra imaginationem, omnia, etiam imaginationem ipsam contineri, et nisi in contentis foret hoc verum non esse. Albertus: Utique haec vera video et occurrit mihi manifestum exemplum. Omnia, quae sensu et imaginatione attinguntur, sunt citra substantiam, quae accidentia dicuntur, quae, nisi continerentur per substantiam, non subsisterent. Necesse est igitur continens illa accidentia esse intra illa accidentia et substare, ut in ipsa illa subsistant. Substantia igitur intelligibilis naturae supra sensum et imaginationem exsistens omnia accidentia continet et in contentis exsistit. Nec est aliud accidentia esse in subiecto, quod est substantia, quam substantiam in accidentibus. Et hoc potissimum verum video, quia accidentia non sunt in subiecto seu substantia quasi in loco, cum locus non sit substantia, sed accidens. Cardinalis: Gaudeo te sanum mentis visum habere. Et quando hanc speculationem extendis ad animam rationalem, quae est substantia omnium virium et potentiarum suarum, tu vides ipsam illas continere et in omnibus suis viribus et potentiis esse.
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re. Chi riuscirebbe infatti a concepire come l’uno possa essere presente in ciò che è altro da esso e come ciò che è altro dall’uno possa essere presente nell’uno stesso? Cardinale. La ragione per la quale ciò non può essere immaginato è che la facoltà immaginativa è circoscritta a ciò che ha quantità. L’immaginazione, infatti, non giunge a cogliere ciò che è privo di quantità158. L’immaginazione, di conseguenza, non riesce ad afferrare il fatto che ciò che contiene è presente in ciò che è [da esso] contenuto, in quanto essa si rivolge al luogo, che è dotato di quantità. Per l’immaginazione è come se uno dicesse che il fatto che una persona è in una casa equivale al fatto che la casa è in lui. Ma l’occhio della mente, che guarda agli intelligibili che sono al di sopra dell’immaginazione, non può negare di vedere che nell’essere stesso, il quale è al di sopra dell’immaginazione, sono contenute tutte le cose, inclusa l’immaginazione stessa; e non può neppure negare di vedere che questo non sarebbe vero, se l’essere non fosse nelle cose che sono contenute in esso. Alberto. Certamente vedo che queste cose sono vere e mi viene in mente un esempio molto chiaro. Tutte le cose che si colgono con i sensi e con l’immaginazione sono al di sotto della sostanza e vengono dette accidenti159; gli accidenti non esisterebbero se non fossero contenuti dalla sostanza. È necessario, pertanto, che ciò che contiene gli accidenti [la sostanza] sia presente in essi e ne costituisca il sostrato, in modo tale che gli accidenti sussistano in esso. La sostanza, pertanto, essendo di natura intelligibile ed essendo al di sopra dei sensi e dell’immaginazione, contiene tutti gli accidenti ed è presente negli accidenti da essa contenuti. E il fatto che gli accidenti sono nel sostrato, e cioè nella sostanza, non significa qualcosa di diverso dal fatto che la sostanza è negli accidenti. E vedo che questa è una verità importantissima, ossia che gli accidenti non sono nel sostrato o nella sostanza come se fossero in un luogo, dal momento che il luogo non è una sostanza, bensì un accidente160. Cardinale. Sono contento che la tua mente abbia una visione corretta. E se estendi questo ragionamento all’anima razionale, che è la sostanza di tutte le sue facoltà e potenze, allora vedrai che essa le contiene tutte in se stessa e che è presente in tutte le sue facoltà e potenze.
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Albertus: Incipio gustare hanc scientiam sapidissimam. Exercitabo me in ipsa, ut habitum acquiram. Sed ne te nimium in hac necessaria mihi digressione teneam, amplius pergere poteris ad institutum. 68 Cardinalis: Nunc puto facile capis hanc regionem vivorum. Nam in omni vivente necesse est esse vitam et vivens in ipsa. Vita igitur christiformium, eorum omnium scilicet qui in regione sunt viventium, sic se habet quod vita, quae Christus est, qui aiebat «Ego sum vita», est in omnibus ibi viventibus et ipsi omnes viventes in vita, quae Christus est. Et ideo vita Christi est forma exemplaris omnium ibi viventium, qui sunt huius formae exemplata. Albertus: Bene video oportere viventem Christianum sic se habere, ut ais. Nam oportet in ipso esse vitam Christi et ipsum in eadem ipsa vita. 69 Cardinalis: Figuratur haec vita regionis viventium in figura, quam rotundam vides. Et ut circuli omnes habent idem centrum, circuli sunt figurae rotunditatis. Rotunditas circulatio est motus vitae perpetuae et infinibilis. In omni rotundo necesse est esse rotunditatem, in qua sit ipsum rotundum. Unde sicut nec notitia nec essentia rotundi seu perpetui sciri aut haberi potest nisi a centro, super quo volvitur motus perpetuus, ita quod eo non exsistente non potest nec perpetuitas nec motus vitae perpetuae, qui in aequalitate ad identitatem centri refertur, aut nosci aut esse, sic se habet centrum, quod Christus est, ad omnes circulationes. Circuli igitur hic motum vitae figurant. Et vivaciores motus designantur per circulos centro, quod vita est, propinquiores, quoniam vita, quod centrum est, quo nec maior nec minor dari potest. In ipso enim continetur omnis motus vitalis, qui extra vitam esse nequit.
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A lberto. Comincio a gustare questa conoscenza saporitissima161. Mi ci eserciterò, in modo da acquisirne una disposizione stabile. Non voglio trattenerti troppo in questa digressione che è stata per me necessaria, per cui va’ pure avanti a trattare ciò che ti sei prefisso. Cardinale. Credo che ora comprendi facilmente questa regione dei viventi. È necessario, infatti, che in ogni essere vivente sia presente la vita e che nella vita sia presente ogni essere vivente. La vita di coloro che sono Cristiformi162, pertanto, vale a dire di tutti coloro che sono nella regione dei viventi, è tale che la vita (che è Cristo, il quale ha detto «Io sono la vita»163) è presente in tutti coloro che vivono lì ed è tale che tutti coloro che vivono lì sono presenti nella vita, che è Cristo. E così la vita di Cristo è la forma esemplare di tutti coloro che vivono nella regione dei viventi, i quali sono immagini di questa forma. Alberto. Vedo bene che un cristiano che vive da cristiano deve comportarsi come dici. È necessario, infatti, che in lui sia presente la vita di Cristo e che egli sia in questa stessa vita di Cristo. Cardinale. Questa vita che è propria della regione dei viventi è rappresentata dalla figura rotonda che vedi. Ora, nella misura in cui tutti i cerchi [del gioco] hanno lo stesso centro, essi sono esempi di rotondità. La rotondità è la circolarità che caratterizza il movimento della vita perpetua e infinita. È necessario che in ogni cosa rotonda sia presente la rotondità, nella quale è presente la stessa cosa rotonda164. L’essenza di ciò che è rotondo o perpetuo e la nostra conoscenza di ciò che è rotondo o perpetuo non possono essere acquisite o ottenute se non a partire dal centro, attorno al quale ruota il movimento perpetuo. Se il centro non esiste, di conseguenza, non può esistere o essere conosciuta né la natura perpetua, né il movimento della vita perpetua (il quale si riconduce, nell’eguaglianza, ad un’identità con il centro); analogo è il rapporto che vi è tra il centro, che è Cristo, e tutti i movimenti circolari. I cerchi, pertanto, rappresentano qui [nel nostro gioco della palla] questo movimento della vita. E i movimenti più vitali sono rappresentati dai cerchi più vicini al centro, che è la vita. La vita, infatti, è un centro del quale non se ne può dare uno più grande o uno più piccolo. In esso è infatti contenuto ogni movimento vita-
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Nisi enim sit in omni motu vitali vita, nequaquam vitalis erit. Est autem circularis et centralis motus, qui vita est viventium. Quanto autem circulus centro est propinquior, tanto citius circumvolvi potest. Igitur, qui sic est circulus quod et centrum, in nunc instanti circumvolvi potest. Erit igitur motus infinitus. Centrum autem punctus fixus est. Erit igitur motus maximus seu infinitus et pariter minimus, ubi idem est centrum et circumferentia, et vocamus ipsum vitam viventium in sua fixa aeternitate omnem possibilem vitae motum complicantem. 70 Albertus: Intelligo te dicere velle parvitatem circulorum velociorem seu vivaciorem motum vitae figurare, quoniam ad centrum, quod est «vita viventium», propius accedunt. Sed dicito, cur novem circulos figurasti? Cardinalis: Scimus aliquos in rationis motu veloces, alios tardos, sed differentes, ut ex varietate ingeniorum experimur. Quorum quidam tanta gaudent vivacitate, ut brevissime discurrant. Alii tardius et vix unquam in aliquo proficiunt. Christus, qui est vita, est et sapientia, hoc est sapida scientia. Scientia in eo, quia sapida, ostenditur viva apprehensio. Et vita intellectualis est apprehensio sapientiae seu sapidae scientiae. Omnis igitur motus vivus rationalis est, ut suae vitae causam videat et tali sapientia immortaliter pascatur; quod si ad hoc non pervenerit, non vivit, quando suae vitae causam ignorat. 71 Deus autem est dator vitae, quem nisi Christus dei filius ostendat nemo videbit. Ostendere enim solum ad ipsum spectat, quia non potest patrem ut patrem ostendere nisi filius. Unus est autem pater Christi et nostri, qui est ipsa paternitas, quae est in omnibus patribus et in qua omnes patres sunt et continentur. Sed ut clarius videas ipsum ostensorem patris, adverte quia ipse est veritas. Di-
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le, che non può esistere al di fuori della vita. Se in ogni movimento vitale, infatti, non fosse presente la vita, esso non potrebbe mai essere un movimento vitale. Il movimento che è la vita dei viventi è tuttavia circolare e centrale. Quanto più un cerchio è vicino al centro, tanto più velocemente esso può ruotare. Quel cerchio che è tale da essere anche centro, pertanto, può ruotare nell’«ora», ossia nell’istante165. Il suo movimento sarà quindi infinito. Il centro, tuttavia, è un punto fisso. Là dove il centro e la circonferenza sono la stessa cosa, il movimento sarà al tempo stesso massimo, o infinito, e minimo166. E noi chiamiamo questo movimento la «vita dei viventi»; esso complica nella sua salda eternità ogni possibile movimento vitale. Alberto. Capisco che tu intendi dire che la piccolezza dei cerchi rappresenta il movimento più veloce o più vitale, poiché i cerchi più piccoli si avvicinano di più al centro, che è la «vita dei viventi». Ma dimmi, perché hai tracciato nove cerchi? Cardinale. Sappiamo che alcuni uomini sono veloci nel movimento della ragione, mentre altri sono lenti. Tutti, però, sono differenti, come sappiamo per esperienza dalla varietà dei loro ingegni. Alcuni di questi godono di tanta vitalità [mentale] che argomentano in modo rapidissimo. Altri, invece, argomentano più lentamente e quasi mai compiono qualche progresso. Cristo, che è la vita, è anche la sapienza, ossia la conoscenza dotata di sapore. La conoscenza, per il fatto di essere dotata di sapore, si mostra come una forma vitale di apprensione167. E la vita intellettuale è l’apprensione della sapienza, ossia della conoscenza dotata di sapore. Ogni movimento vivente della ragione [dell’uomo], pertanto, ha come fine che l’uomo veda la causa della sua vita e si nutra senza fine di questa sapienza; se non giunge a questa sapienza, l’uomo non vive, dal momento che ignora la causa della sua vita168. Ora, il datore [la causa] della vita è Dio, che nessuno potrà vedere se Cristo, il figlio di Dio, non lo rivela169. Rivelarlo, infatti, spetta soltanto a lui, perché soltanto il figlio può rivelare il padre in quanto padre. Ma uno solo è il padre di Cristo e il padre nostro, il quale è la paternità stessa che è presente in tutti i padri e nella quale tutti i padri sono presenti e sono contenuti170. Ma per vedere più chiaramente che Cristo è colui che rivela il padre, devi tener pre-
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cebat enim se «viam et ostium, vitam et veritatem». Ostensio certa et vera non nisi per veritatem fieri potest. Falsitas vero errat et deviat, quae mendaci diabolo, seductori tribuitur. Filiatio dei in Christo seipsam quia veritas ostendit. Et qui Christum vere videt, in eo patrem et ipsum in patre videt. 72 Circuli igitur sunt visionis gradus. In omni circulo videtur centrum omnibus commune, propinquius in propinquioribus, remotius in remotioribus. Extra quem cum centrum videri nequeat, quod non nisi in circulo videtur, non videtur «vita viventium» seu lux luminum intellectualium. Ideo in tenebra et umbra mortis sic carent vita, sicut oculus integer in tenebris caret vita, quia videre est sibi vivere. In carentia autem lucis nihil videre potest, licet sit oculus sanus. Ita anima, licet incorruptibilis, luce carens ostensiva, quae Christus est, non videt nec intellectuali vita vivere potest. Sicut enim sensibilis visio, ut sit vera et viva, sensibili luce indiget ostensiva, ita et intellectualis visio intellectuali veritatis luce opus habet, si videre seu vivere debet. Et quia in denario terminatur omnis numerus, per novem circulos in decimum, quia sic circulus quod centrum, figuravi ascensum. 73 Albertus: Cuncta competenter quae dixisti, etsi non cepi in gustu intelligentiae, vidi tamen vera esse. Solum admiror, postquam infinitas centralis lucis liberalissime se diffundit, quomodo gradus oriantur. Cardinalis: Haec lux non se diffundit per corporalia loca ut quasi lux corporea, quae proximiora loca plus illuminat. Sed est lux, quae nec loco clauditur nec obstaculo impeditur sicut nec mentis nostrae cogitatio. Sed quae illuminantur non possunt nisi varia esse, quia multa et plura sine varietate nec multa nec plura es-
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sente che egli è la verità. Ha chiamato, infatti, se stesso «via e porta, vita e verità»171. Una rivelazione vera e certa non può avvenire che attraverso la verità. La falsità, che è attribuita al diavolo mentitore e seduttore, invece erra e si allontana dal vero172. La filiazione di Dio si rivela in Cristo, poiché egli è la verità173. E colui che vede veramente Cristo, vede in lui il padre e lui nel padre174. I cerchi, pertanto, rappresentano i gradi della visione. In ogni cerchio si vede il centro che è comune a tutti, lo si vede più vicino in quelli più vicini, più lontano in quelli più lontani175. Dal momento che il centro, che può essere visto solo all’interno del cerchio, non può essere visto al di fuori di esso, neppure la «vita dei viventi» o la luce dei lumi intellettuali può essere vista al di fuori del cerchio della vita. E così, coloro che sono nella tenebra e nell’ombra della morte176 sono privi della vita, così come l’occhio sano che vive nelle tenebre è privo della vita, perché, per esso, vedere è vivere. Ma, in assenza di luce, l’occhio non può vedere nulla, anche se è un occhio sano. Allo stesso modo, l’anima, sebbene sia incorruttibile, se manca della luce della rivelazione, che è Cristo, non vede nulla, né può vivere di una vita intellettuale. Come la visione sensibile, infatti, per essere vera e viva, ha bisogno della luce rivelatrice del sole sensibile, così, anche la visione intellettuale ha bisogno della luce intelligibile della verità, se vuole vedere o vivere177. E poiché ogni numero termina nel dieci178, ho rappresentato attraverso nove cerchi l’ascesa al decimo, perché il decimo cerchio è tale da essere sia cerchio che centro. Alberto. Sebbene non sia riuscito a cogliere con il gusto dell’intelligenza le cose che hai detto con grande competenza, ho visto tuttavia che sono vere. Mi chiedo soltanto questo, ossia come possano nascere i diversi gradi, dal momento che l’infinità della luce si diffonde in maniera generosissima179. Cardinale. Questa luce non si diffonde attraverso i luoghi corporei, come fa la luce corporea, la quale illumina di più i luoghi che sono più vicini [alla sorgente luminosa]. È, invece, una luce, che non è racchiusa in un luogo né è bloccata da un ostacolo, così come non lo sono i pensieri della nostra mente. Le cose che sono illuminate, tuttavia, non possono che essere diverse, poiché una pluralità e molteplicità di cose, senza diversità, non sarebbe né una moltepli-
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sent, alias idem essent. Receptio igitur lucis varia est in variis mentibus, sicut receptio unius lucis sensibilis in variis oculis varie capitur, in uno veriori et lucidiori modo quam in alio iuxta suam capacitatem, quae non potest esse aequalis in diversis. Recipiunt igitur christiformes lucem gloriae sufficienter omnes, sed differenter secundum capacitatem cuiusque. Sicut dum praedicator evangelicus lucem unam aeque ad singulos auditores diffundit, non tamen aeque ab omnibus capitur, cum non sint eiusdem mentis et capacitatis. 74 Albertus: Cum nemo nisi beatus sit in regione vivorum sitque solus ille beatus, qui id habet quod appetit, sitque unicum solum quies desideriorum, scilicet meliori et perfectiori modo quo id fieri potest videre centrum vitae suae, ideo miror de eo quod quosdam propius ad centrum accedere figurasti, cum remotiores non comprehendant meliori modo quo hoc fieri potest. Cardinalis: Figuratur fruitio beata in potatione fontis vitae estque idem videre et bibere. Unus est fons vivus totam regionem viventium implens, de quo, quantum quisque sitit et desiderat, bibit; non possunt duo aequaliter sitire et desiderare potum. Ideo, licet omnes sufficientissime bibant quantum appetunt, non tamen aequaliter, quando aequaliter non sitiunt. Facit caritas sitire, quae in diversis diversa est. Sic Christus figurabat regnum nuptiis, ubi ipse ministrat cuique id quod appetit. Saturantur igitur omnes quantum desiderant et famescunt, licet alii plus, alii minus cupiant. 75 Albertus: Placent haec et video non esse novem circulos gloriae, sed innumerabiles, quando quisque beatus proprium habet.
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cità, né una pluralità. Ma tutte sarebbero la stessa cosa180. La ricezione della luce, pertanto, è diversa nelle diverse menti, così come la ricezione dell’unica luce sensibile avviene in maniera diversa nei diversi occhi: in uno avviene in un modo più vero e più chiaro che in un altro, a seconda della capacità di ciascuno, che non può essere uguale in occhi diversi. Tutti coloro che sono cristiformi, pertanto, ricevono in modo sufficiente la luce della gloria, ma la ricevono in maniera differente, a seconda della capacità di ciascuno181. La stessa cosa avviene quando colui che predica il vangelo diffonde in modo uguale sui singoli uditori la medesima luce, e tuttavia la luce non viene ricevuta in maniera uguale da tutti, dal momento che essi non hanno tutti la stessa mente e la stessa capacità. Alberto. Dal momento che nessuno, che non sia beato, è nella regione della vita, dal momento che è beato soltanto colui che ha ciò che desidera, e dal momento che vi è una sola cosa che acquieta i desideri, ossia vedere nel modo migliore e più perfetto possibile il centro della propria vita, mi meraviglio del fatto che tu abbia rappresentato alcuni che si avvicinano di più al centro, mentre coloro che sono più lontani [dal centro] non riescono a comprendere nel modo migliore in cui questa comprensione può avvenire. Cardinale. La fruizione dei beati è rappresentata dall’atto di bere alla fonte della vita, e vedere e bere sono la stessa cosa. Vi è una sola fonte della vita che riempie tutta la regione dei viventi; da essa ciascuno beve in relazione a quanto ha sete e desidera: due persone non possono avere la stessa sete e desiderare di bere nello stesso modo. E così, sebbene tutti gli uomini bevano in maniera da soddisfare totalmente i loro desideri, non possono bere in egual misura, in quanto non possono avere una sete uguale. L’amore, che è diverso in persone diverse, è ciò che fa provare la sete. Per questo, Cristo ha raffigurato il regno di Dio come un banchetto nuziale, nel quale egli stesso dispensa a ciascuno ciò che desidera182. Tutti saranno pertanto saziati in base al loro desiderio e alla loro fame, sebbene alcuni desiderino di più e altri di meno183. Alberto. Mi piacciono queste cose, e vedo che non sono nove i cerchi della gloria, bensì innumerevoli, dal momento che ciascun beato ha il cerchio che gli è proprio.
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Cardinalis: Licet sic sit quod tota latitudo regni vitae sit a centro ad circumferentiam et haec latitudo possit ad instar lineae, quae in se infinitas habet lineas similes a centro ad circumferentiam, concipi unumque sit commune omnium centrum et circumferentia singulorum, tamen illa innumerabilis multitudo circumferentiarum in novem gradus partitur, ut gradatim per regnum illud pulcherrimo decoratum ordine nos ducamur, ubi idem est centrum commune et particularis circumferentia, scilicet ad Christum. Ibi enim idem est centrum vitae creatoris et circumferentia creaturae. Christus enim deus et homo est, creator et creatura. Quare omnium beatarum creaturarum ipse est centrum. Et attente advertas circumferentiam ipsius esse naturae circumferentialis omnium circumferentiarum, scilicet creaturarum rationabilium. Et cum sit idem identitate personali cum centro omnium, scilicet creatore, omnes beati per circumferentiam circulorum figurati in circumferentia Christi, quae est similis creatae naturae, quiescunt et finem attingunt propter circumferentiae naturae creatae cum increata natura hypostaticam unionem, qua nulla maior esse potest. Ex quo vides Christum omnibus beatificandis adeo necessarium quod sine ipso nemo felix esse potest, quoniam ipse est unicus mediator, per quem accessus haberi potest ad viventem vitam. 76 Albertus: Magna et pulchra dixisti, quae utinam adversarii Christianorum considerarent, mox pacem cum Christo et Christianis inirent. Et ut parum ante de substantia et accidentibus dixi, ita mihi occurrit per novem circumferentiales designationes ad centrum attingi uti per novem accidentia ad substantiam. Cardinalis: Numerus discretio est, quae est unius ab alio, et hoc per unum aut per aliud aut tertium et ita consequenter usque
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Cardinale. Sebbene l’intera ampiezza del regno della vita si estenda dal centro alla circonferenza, sebbene questa larghezza possa essere concepita alla stregua di una linea che contenga in sé infinite linee simili che si estendono dal centro alla circonferenza, sebbene vi sia un solo centro comune a tutte le linee e sebbene vi sia una circonferenza distinta per ciascuna di esse, la molteplicità innumerevole delle circonferenze è tuttavia divisa in nove gradi. In questo modo, noi siamo condotti per gradi attraverso quel regno, che è adorno dell’ordine più bello, fino al luogo dove il centro comune e la circonferenza particolare sono la stessa cosa, ossia fino a Cristo. In lui, infatti, il centro della sua vita come creatore e la circonferenza della sua vita come creatura sono la stessa cosa184. Cristo, infatti, è Dio e uomo, creatore e creatura. Per questo motivo, egli è il centro di tutte le creature beate185. E devi considerare attentamente che la circonferenza di Cristo è della natura propria di tutte le circonferenze, ossia delle creature razionali. Inoltre, dal momento che, per la sua identità personale, Cristo è un’unica cosa con il centro di tutte le cose, ossia con il creatore, tutti i beati – che sono rappresentati dalla circonferenza dei cerchi – trovano la loro quiete e raggiungono il loro fine nella circonferenza di Cristo, la quale ha una natura creata simile alla loro. Trovano la loro quiete e raggiungono il loro fine in virtù dell’unione ipostatica della circonferenza della natura creata [di Cristo] con la [sua] natura increata, della quale nessuna natura può essere più grande186. Da quanto detto, vedi che Cristo è così necessario alla beatitudine che tutti vogliono raggiungere, che senza di lui nessuno può essere felice187, in quanto Cristo è l’unico mediatore188 attraverso il quale si può avere accesso alla vita vivente189. Alberto. Hai detto cose grandi e belle. Se i nemici dei cristiani, volesse il cielo!, le considerassero, farebbero subito la pace con Cristo e con i cristiani190. E siccome poco fa ho parlato della sostanza e degli accidenti191, mi viene in mente che si giunge al centro attraverso la rappresentazione di nove circonferenze, così come attraverso nove accidenti si giunge alla sostanza. Cardinale. Il numero è una distinzione che distingue una cosa da un’altra192, e questa distinzione viene fatta rispetto a una cosa, rispetto a un’altra, o rispetto a una terza, e così di seguito fino al
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ad denarium, ubi sistitur, quare et omnis numerus ibi terminatur. Sic et accidentia novem generibus generalissimis distinguuntur et ad notitiam quiditatis seu substantiae conferunt. Nam aut per unum accidens aut duo aut tria aut quattuor aut quinque aut sex aut septem aut octo aut novem, ubi impletur numerus, qui in denarii unitate complicatur. Numerare discernere est. Res autem maxime per substantiam discernuntur, et substantiae per quantitatem, qualitatem et alia accidentia, quae in novem generibus accidentium complicantur. Ob plenam igitur discretionem denotandam talem feci figurationem. 77 Albertus: Audivi et angelos novem choris distingui. Cardinalis: Angeli intelligentiae sunt. Et quia varii sunt, oportet intelligentiales eorum visiones et discretiones per ordines et gradus ab infimo usque ad supremum, qui Christus et «magni consilii angelus» dicitur, intellectualiter distingui, ex qua tres ordines et in quolibet tres chori reperiuntur. Et terminus centrum est ut denarius terminus novem articulorum. Primus ordo est centralior et intellectibilium spirituum, qui simplici intuitu in centrum seu omnipotens exemplar omnia sine successione sive temporali sive naturali et simul omnia comprehendunt, qui divinae maiestati assistunt, a qua habent, ut sic videre omnia possint. Nam sicut deus a se habet hanc discretionem, ut in sua simplicitate omnia simul intueatur quia intelligens causa, sic dat illis assistentibus spiritibus, ut in divina simplicitate simul omnia videant. Qui etiam ideo, licet creati sint, aeterni dicuntur, quia omnia simul comprehendunt. Alius ordo est intelligentium, qui omnia si-
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numero dieci, dove si ferma, perché nel dieci ha termine ogni numero. Così, anche gli accidenti sono distinti mediante nove generi generalissimi e conducono alla conoscenza della quiddità o della sostanza. La conoscenza della sostanza, infatti, avviene o attraverso un accidente, o attraverso due, o attraverso tre, o attraverso quattro, o attraverso cinque, o attraverso sei, o attraverso sette, o attraverso otto, o attraverso nove, e in questo caso viene completato il numero che è complicato nell’unità del numero dieci. Numerare significa distinguere. Le cose, tuttavia, vengono distinte [l’una dall’altra] soprattutto per la sostanza, e le sostanze vengono distinte per la quantità, per la qualità e per gli altri accidenti, che sono complicati nei nove generi di accidenti. È per spiegare chiaramente questa distinzione nella sua completezza che ho fatto la mia rappresentazione. A lberto. Ho sentito dire che anche gli angeli sono divisi in nove cori. Cardinale. Gli angeli sono intelligenze193. E poiché sono diversi [gli uni dagli altri], è necessario che le loro visioni e le loro distinzioni intellettuali siano divise intellettualmente per ordini e gradi, dal più basso al più alto, il quale viene chiamato anche Cristo e «angelo del gran consiglio»194. Per mezzo di questa distinzione [fra gli angeli], si individuano tre ordini e in ciascuno di essi tre cori. Il termine di questi ordini e cori è il centro, così come il dieci è il termine dei primi nove numeri. Il primo ordine [di angeli] è il più vicino al centro ed è costituito dagli spiriti intellettibili195, i quali, con un semplice sguardo intuitivo nel centro o nell’esemplare onnipotente, comprendono tutte le cose simultaneamente, senza successione temporale o di natura. Questi angeli assistono la maestà divina, dalla quale ricevono il potere di vedere tutte le cose nel modo che abbiamo detto. Come Dio, infatti, ha da se stesso questa capacità di distinguere, in modo tale che egli intuisce, nella sua semplicità, tutte le cose simultaneamente, essendo la loro causa intelligente, così egli la dà agli spiriti che lo assistono, affinché vedano tutte le cose simultaneamente nella semplicità divina. Anche questi angeli, sebbene siano creati, vengono chiamati eterni perché comprendono tutte le cose simultaneamente. Un secondo ordine angelico è quello delle intelligenze, le quali comprendono anch’es-
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mul comprehendunt, sed non sine naturali successione, scilicet ut alia ex aliis habent naturaliter provenire. Et licet sine successione temporali intelligant, quia tamen sine naturali ordine non possunt intelligere, ideo subintrat in ipsis quaedam cognitionis debilitatio. Ideo non dicuntur aeterni ut intellectibiles, sed perpetui, quia in naturali ordine et successione intelligunt. Tertius ordo rationalis dicitur, quia, licet certa sit eorum comprehensio, minus tamen perfecte intelligunt quam alii. 78 Primus ordo tres habet choros, qui voluntatem divinam in deo, licet differenter, intuentur et eius discretionem imitantur. Sed tres chori intelligibiles in intellectibilibus divinam voluntatem comprehendunt. Et tres chori rationales in intelligibilibus voluntatem divinam intuentur. Novem igitur sunt ordines et deus in se omnia includens et continens quasi denarius figuratur. Habet igitur quisque novem ordinum suam theophaniam sive divinam apparitionem et deus decimam, a qua omnes emanant. Decem itaque sunt diversa genera discretionum, scilicet illa divina, quae in centro figuratur et in causa omnium, et aliae novem in novem choris angelorum. Et non sunt plures nec numeri nec discretiones. Hinc patet, cur sic regnum vitae figuraverim et centrum luci solari conformaverim et tres proximos circulos igneos, alios aetherios et tres quasi aqueos, qui in nigro terreo desinunt, depinxerim. 79 Albertus: Cum denarius sit omnem discretionem complicans, cur in quaternario sistit progressio? Nam non nisi quattuor dicuntur causae seu rerum rationes et quattuor elementa et quattuor anni tempora et ita de multis. Cardinalis: A maximo exteriori circulo usque ad minimum interiorem et centralem si numeras, dicendo primo semel unum, et deinde numerando bis unum, deinde ter unum, et postea qua-
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se tutte le cose simultaneamente, ma non senza una successione di natura, vale a dire non prescindendo dal fatto che alcune cose derivino per natura da altre. E sebbene queste intelligenze intendano senza successione temporale, tuttavia, dato che non possono intendere senza far riferimento ad un ordine di natura, sono caratterizzate da una forma di conoscenza più debole. Per questo motivo, non vengono chiamate eterne come quelle intellettibili, bensì perpetue, in quanto intendono attraverso un ordine e una successione naturale. Il terzo ordine è chiamato «razionale», perché, sebbene la comprensione degli angeli che ne fanno parte è certa, essi intendono meno perfettamente degli altri. Il primo ordine ha tre cori che, seppure in modi diversi, vedono intuitivamente la volontà divina in Dio e imitano la sua capacità di distinguere. I tre cori intelligibili, invece, comprendono la volontà divina attraverso i cori intellettibili. I tre cori razionali, a loro volta, vedono intuitivamente la volontà divina attraverso i cori intelligibili. Nove, dunque, sono gli ordini, mentre Dio, che include e contiene in sé tutte le cose, viene rappresentato come il decimo. Ciascuno di questi ordini ha la sua teofania, ossia la sua manifestazione divina, e Dio ha la decima, dalla quale emanano tutte le altre196. E così, vi sono dieci diversi generi di distinzioni: quella divina, che è rappresentata dal centro e dalla causa di tutte le cose, e le altre nove che sono rappresentate dai nove cori degli angeli. E non vi sono più numeri, né più distinzioni di queste dieci. È chiaro, di conseguenza, perché ho rappresentato così il regno della vita, perché ho fatto il centro con la forma della luce del sole197, perché ho disegnato i tre cerchi più vicini al centro di natura ignea, i tre successivi di natura aerea e gli ultimi tre di natura quasi acquatica, che finiscono sulla terra nera198. Alberto. Dal momento che il dieci complica ogni distinzione, perché, allora, la successione si ferma al quattro? Ad esempio, si dice che non vi sono che quattro cause o ragioni delle cose, quattro elementi, quattro stagioni dell’anno, e così via. Cardinale. Se [nel nostro gioco della palla] conti a partire dal cerchio esterno più grande fino al cerchio più piccolo, quello interno e centrale – dicendo prima «uno» una sola volta e poi contando l’uno due volte, poi tre volte e poi quattro volte –, il conteggio di
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ter unum, terminabitur quaternarius in centro. Sic vides unum et duo et tria et quattuor simul facere decem, quare progressio in quaternario terminatur, cum non sit discretio sive numerus, qui in ipso non reperiatur; non tamen vides nisi unum in omni numero. Nec est aut esse potest nisi unum unum. Plura non sunt unum. Sicut in omnibus circulis non vides nisi circulum unius rationis, licet circumferentia unius plus distet a centro quam alterius. Hoc necessario contingit in pluribus, cum plures circumferentias ab eodem centro aeque distare non sit possibile. Sequitur igitur alteritas pluralitatem. Quare etsi in omnibus entibus non sit nisi una entitas et omnia entia in ipsa quae deus est, ita quod non sit opus ad discernendum omnia entia, ut entia sunt, nisi habere unius entitatis discretionem, tamen, cum multitudinem sequatur alteritas, ad discretionem omnium entium, ut multa sunt, numerus alteritatis discretor est necessarius, sine quo unum ab altero discerni non potest. 80 Albertus: Non igitur cognoscit deus entia? Cognitio discretio est, quae sine numero non videtur possibilis. Cardinalis: Cognoscere dei est esse. Esse dei est entitas. Cognoscere dei est entitatem divinam in omnibus entibus esse. Non sic est mens nostra in iis quae cognoscit sicut deus, qui cognoscendo creat et format. Sed mens nostra cognoscendo creata discernit, ut sua notionali virtute omnia ambiat. Sicut deus omnium exemplaria in se habet, ut omnia formare possit, ita mens omnium exemplaria in se habet, ut omnia cognoscere possit. Deus vis est creativa, secundum quam virtutem facit omnia veraciter esse id quod sunt, quoniam ipse est entitas entium. Mens nostra vis est notionalis, secundum quam virtutem facit omnia notionaliter esse. Unde veritas est eius obiectum; cui suum conceptum si assimilat, omnia in notitia habet. Et entia rationis dicuntur. Lapis enim in notitia mentis non est ens reale, sed rationis. Vides igitur deum non
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quattro terminerà nel centro. Allo stesso modo, vedi che uno, due, tre e quattro sommati insieme fanno dieci; pertanto, la successione termina nel quattro, dal momento che non vi è distinzione o numero che non si trovi in esso199. In ogni numero, tuttavia, non vedi se non l’uno200. E non esiste, né può esistere, che un solo uno. I più non sono uno. Allo stesso modo, in tutti i cerchi non vedi che il cerchio di un’unica definizione, sebbene la circonferenza di uno disti dal centro di più di quella di un altro201. Ciò accade necessariamente nel caso di una pluralità di circonferenze, perché non è possibile che più circonferenze abbiano la stessa distanza dal medesimo centro. La pluralità, quindi, comporta l’alterità. Per questo motivo, anche se in tutti gli enti non vi è che un’entità, e anche se tutti gli enti sono contenuti in quella entità che è Dio – sicché per distinguere tutti gli enti in quanto enti non sarebbe necessario che distinguere tale unica entità –, tuttavia, dal momento che la molteplicità comporta l’alterità, per distinguere gli enti, in quanto sono molti, è necessario il numero, che è ciò che distingue l’alterità. Senza il numero, pertanto, non è possibile distinguere un ente da un altro202. Alberto. Allora Dio non conosce gli enti? La conoscenza è distinzione e senza numero non sembra possibile. Cardinale. Per Dio conoscere è essere203. L’essere di Dio è l’entità stessa. Il conoscere di Dio consiste nel fatto che il suo essere è presente in tutti gli enti. La nostra mente non è presente nelle cose che conosce, diversamente da Dio, il quale, nel conoscere, crea e forma. La nostra mente, invece, nel conoscere, distingue gli enti creati, in modo da abbracciare tutti gli enti con la sua forza conoscitiva. Come Dio ha in sé gli esemplari di tutte le cose, in modo da poter formare ogni cosa, così la mente ha in sé gli esemplari di tutte le cose, in modo da poter conoscere tutte le cose. Dio è una forza creatrice, e grazie a questa forza egli fa sì che tutte le cose siano veramente ciò che sono, poiché Dio è l’entità degli enti. La nostra mente è una forza concettuale, e grazie a questa forza essa fa sì che tutte le cose siano in modo concettuale204. La verità, quindi, è l’oggetto della nostra mente; se ciò che essa concepisce si assimila alla verità, allora la mente ha nella sua conoscenza tutte le cose205. Queste allora vengono chiamate «enti di ragione». Ad esempio, nella conoscenza della nostra mente una pietra non è un ente reale, ma
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indigere numero, ut discernat. Sed mens nostra sine numero non discernit rerum alteritates et differentias. 81 Albertus: Nonne creator creat etiam alteritatem? Si sic: Utique cum non creet quod non intelligit, alteritas autem sine numero non intelligitur, per numerum igitur discernit. Cardinalis: Omnia creat deus, etiam quae alterabilia et mutabilia et corruptibilia; tamen alteritatem et mutabilitatem corruptionemve non creat. Cum sit ipsa entitas, non creat interitum, sed esse. Quod autem intereant aut alterentur non habent a creante, sed sic contingit. Deus est causa efficiens materiae, non privationis et carentiae, sed opportunitatis seu possibilitatis, quam carentia sequitur, ita quod non sit opportunitas absque carentia, quae contingenter se habet. Malum igitur et posse peccare et mori et alterari non sunt creaturae dei, qui entitas. De essentia igitur cuius cumque non potest esse alteritas, cum in ipsa non sit entitas nec ipsa in entitate. Nec est de essentia binarii alteritas, licet eo ipso quod est binarius contingat adesse alteritatem. Sicut enim plura pisa unica proiectione super planum pavimentum proiecta sic se habent quod nullum pisum aut moveatur aut quiescat aequaliter cum alio et alius sit locus et motus cuiuslibet, tamen illa alteritas et variatio non est a proiciente omnia simul aequaliter, sed ex contingenti, quando non est possibile ipsa aequaliter moveri aut eodem in loco quiescere. 82 Albertus: Nonne entitatis est unire et conectere? Cardinalis: Utique. Albertus: Illa autem varia et alia atque divisa esse oportet, quae conecti debent. Cardinalis: Licet deus non sit causa divisionis, qui est nexus, tamen omnium variorum et divisorum creator. Nexus autem est
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è un ente di ragione206. Vedi, dunque, che Dio non ha bisogno del numero per distinguere. La nostra mente, invece, senza il numero non distingue le alterità e le differenze delle cose207. Alberto. Forse che il creatore non crea anche l’alterità? Se sì, allora, dal momento che Dio non crea certamente ciò che non intende e dal momento che l’alterità non viene intesa senza il numero, ne segue che Dio distingue mediante il numero. Cardinale. Dio crea tutte le cose, anche quelle che sono soggette all’alterità, al mutamento e alla corruzione. Non crea, però, l’alterità, il mutamento e la corruzione. Essendo l’entità stessa, Dio non crea la morte, ma l’essere. Il fatto che gli enti muoiano o si alterino non deriva da Dio, bensì dalla contingenza208. Dio è la causa efficiente della materia, non della privazione e della mancanza; è la causa dell’opportunità o della possibilità, la quale comporta la mancanza, per cui non esiste l’opportunità a prescindere dalla mancanza, la quale si dà in modo contingente209. Ecco allora che il male, la possibilità del peccato, la morte e la corruzione non sono creature di Dio, che è l’essere210. L’alterità, dunque, non può appartenere all’essenza di nessuna cosa, dal momento che nell’alterità non è presente l’entità, né l’alterità è presente nell’entità. Inoltre, l’alterità non appartiene neppure all’essenza della duplicità, sebbene ad essa, per il fatto di essere duplice, inerisca in modo contingente l’alterità. Se, con un unico movimento, si lancia un mucchio di piselli su un pavimento, i piselli si dispongono in modo tale che nessuno di essi si muove o si ferma in maniera uguale all’altro e in modo tale che il luogo e il moto di ciascun pisello è diverso; questa alterità e differenza, tuttavia, non derivano dalla persona che ha lanciato i piselli tutti insieme e nello stesso modo, ma sono dovute alla contingenza, in quanto non è possibile che i piselli si muovano in modo uguale o si fermino nello stesso luogo211. Alberto. Forse che non è proprio dell’entità unire e connettere? Cardinale. Certamente. Alberto. È necessario, tuttavia, che le cose che devono essere connesse siano diverse, altre e divise. Cardinale. Sebbene Dio, che è il nesso, non sia la causa della divisione, egli è il creatore di tutte le cose che sono diverse e divi-
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ante divisionem, quoniam divisio unionem praesupponit. Conectit igitur unitas quae entitas diversa divisa in unam concordantem harmoniam. Plura enim ut plura non habent esse nisi ut sunt conexa. Conexio ab unitate et aequalitate procedit. Plura igitur entia ab unitate seu entitate non habent quod non sunt plura. Sed cum non possint esse multa nisi et altera et divisa, ideo, ut in unitate subsisterent, per entitatem quae deus est conexa sunt conexione, quae est prior natura quam divisio. Si igitur acute inspicis, vides entitatem esse ipsam unitatem, quae de se generat aequalitatem, a quibus procedit nexus, qui unitatis et aequalitatis nexus est. Aequalitas autem non potest esse nisi diversarum aequalium hypostasum ante omnem inaequalitatem et alteritatem. Quare si ad pluralitatem creaturarum unius universi respicimus, in ipsis reperimus unitatem, quae est omnium entitas, et aequalitatem unitatis. Aequaliter enim omnia entitatem habent, cum unum ens non sit neque plus neque minus ens quam aliud. In quibus omnibus et singulis tota entitas est in aequalitate. Suntque ideo ad unum conexa, quia in omnibus et singulis est entitas et aequalitatis nexus ab unitate et aequalitate procedens. Sic vides primam causam unam, quia prima, et trinam, quia est unitas, aequalitas et nexus. Et nisi hoc verum esset, non esset causa ipsa entitas entium. Deus igitur, quia creator, non potest esse nisi trinus et unus. Est igitur mundus creatus, ut in ipso videatur creator trinus et unus: qui pater dicitur, cum sit unitas quae entitas, et filius, quia aequalitas unitatis – gignit enim unitas quae entitas aequalitatem, quae est essendi aequalitas –, et spiritus sanctus, quia nexus seu amor unitatis et aequalitatis, prout hoc alibi latius declaravimus. 83 Albertus: Haec saepius repeti expedit quia utilia et rara, quae spero in futurum melius degustabo. Nunc ad centrum simplicis-
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se le une dalle altre. Ora, il nesso precede la divisione, in quanto la divisione presuppone l’unione212. Pertanto, l’unità, che è l’entità213, connette in un’unica concorde armonia le diverse cose divise le une dalle altre214. La molteplicità, in quanto tale, infatti, non ha l’essere, se non in quanto è una molteplicità di cose connesse fra di loro. La connessione procede dall’unità e dall’uguaglianza215. Dall’unità o entità i molti enti, pertanto, non hanno il fatto di non essere molti. Tuttavia, dal momento che non possono essere molti se non sono anche diversi e divisi, per questo, affinché possano sussistere nell’unità, essi sono connessi [gli uni agli altri] attraverso quell’entità che è Dio, con una connessione che precede per natura la divisione. Se guardi con attenzione, pertanto, vedi che l’entità è l’unità stessa, che da sé genera l’uguaglianza, e dalle quali procede il nesso, che è il nesso dell’unità e dell’uguaglianza216. L’uguaglianza, che precede ogni disuguaglianza e ogni alterità, non può tuttavia essere che un’uguaglianza di ipostasi distinte, ma uguali. Se guardiamo, quindi, alla pluralità delle creature che fanno parte dell’unico universo, troviamo in esse l’unità, che è l’entità di tutte, e l’uguaglianza dell’unità. Tutte hanno infatti l’essere [l’entità] in egual misura, dal momento che un ente non è più, né meno ente rispetto ad un altro. In tutti gli enti e in ciascuno di essi, preso singolarmente, l’essere [l’entità] è presente come un tutto in egual misura. Tutti gli enti, pertanto, sono connessi in unità perché, in tutti e in ciascuno di essi, sono presenti l’essere [l’entità] e il nesso dell’uguaglianza, che procede dall’unità e dall’uguaglianza. In questo modo, vedi che la causa prima è una perché è prima, ed è trina perché è unità, uguaglianza e nesso. Se ciò non fosse vero, la causa prima non sarebbe l’entità stessa degli enti. Dio, pertanto, in quanto creatore, non può essere che trino e uno. Ed il mondo è stato creato affinché in esso si possa vedere il creatore come trino e uno. Egli viene chiamato «Padre», perché è l’unità che è l’entità, viene chiamato «Figlio», perché è l’uguaglianza dell’unità – quell’unità che è l’entità genera infatti l’uguaglianza, che è uguaglianza dell’essere –, e viene chiamato Spirito Santo, perché è il nesso o l’amore dell’unità e dell’uguaglianza, come abbiamo spiegato più diffusamente altrove217. Alberto. È opportuno che queste cose, che spero in futuro di assaporare ancor di più, siano ripetute molto spesso, perché sono
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simum me convertens video ipsum principium, medium et finem omnium circulorum. Nam eius simplicitas est indivisibilis et aeterna, omnia in sua indivisibili et strictissima unitate complicans. Est initium aequalitatis; nisi enim omnes lineae a centro ad circumferentiam sint aequales, utique non est centrum circuli. Indivisibilitas centri est simplex initium aequalitatis; et nisi punctalis simplicitas cum aequalitate sit conexa, utique non potest esse centrum circuli, de cuius essentia est aequidistantia a circumferentia. Sic video unitatem, aequalitatem et utriusque nexum in centrali puncto. 84 Cardinalis: Acute intras. Et postquam advertis dictum sapientis, qui aiebat deum circulum, cuius centrum est undique, tunc vides quod, sicut punctus in omni quanto undique reperitur, ita deus in omnibus. Non tamen propterea sunt plura puncta, quia mens punctum undique in quanto reperit. Sic nec plures sunt dei, licet in singulis videatur. Albertus: Non bene capio hoc. Declara, quaeso, quomodo punctus non est multiplicatus, ut sint plura puncta, licet undique in quanto videatur! Cardinalis: Si chartam unam scribendo impleres, nihil nisi li ‘unum’ undique scribendo, utique licet undique videres ‘unum’ esse scriptum, non esset propterea veraciter plus quam unum ‘unum’ undique scriptum. Tu enim, licet pluries scribas ‘unum’ in diversis locis, non tamen propterea unum est mutatum et plurificatum. Albertus: Certum est me multiplicasse ‘unius’ scripturam, non unum ipsum. 85 Cardinalis: Uti in omnibus albis mens videt albedinem, non tamen ideo sunt plures albedines, ita in omnibus atomis videt punctum, tamen ideo non sunt plura puncta. Quod clarius intelliges,
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utili e rare. Ora, se mi volgo a guardare il centro semplicissimo, vedo che esso è il principio, il mezzo e il fine di tutti i cerchi 218. La sua semplicità, infatti, è indivisibile ed eterna, e complica tutte le cose nella sua indivisibile e assolutamente coesa unità. Questo centro è l’inizio dell’uguaglianza; se, infatti, tutte le linee tracciate dal centro alla circonferenza non fossero uguali, esse non sarebbe affatto il centro del cerchio219. L’indivisibilità del centro è l’inizio semplice dell’uguaglianza; se la semplicità del punto non fosse connessa con l’uguaglianza, esso non potrebbe essere il centro del cerchio, alla cui essenza appartiene di essere equidistante dalla circonferenza. In questo modo, nel punto che costituisce il centro, vedo l’unità, l’uguaglianza e il nesso di entrambe. Cardinale. Il tuo pensiero penetra in modo acuto nella questione. Perciò, se tieni presente il detto del sapiente, che affermava che Dio è un cerchio il cui centro è ovunque220, puoi vedere che, come in tutto ciò che è dotato di quantità il punto si trova ovunque, così Dio è presente in tutte le cose. Il fatto che la mente trovi il punto ovunque vi sia quantità non implica, tuttavia, che i punti siano molti. Allo stesso modo, non vi sono più dèi, sebbene Dio lo si veda in ogni singolo ente. Alberto. Non capisco bene questa cosa. Spiegami, per favore, come mai, sebbene lo si veda ovunque vi sia quantità, il punto non risulta moltiplicato in modo che vi siano più punti. Cardinale. Immagina di riempire, con la tua scrittura, un unico foglio e di non scrivere nient’altro che «uno» per tutto lo spazio del foglio; in questo caso, vedresti che in ogni parte del foglio è scritto «uno», ma, in realtà, per tutto il foglio non sarebbe scritto niente di più che un unico «uno». Sebbene, infatti, in punti diversi del foglio tu scriva più volte «uno», l’uno non risulta per questo mutato o non viene reso molteplice. Alberto. È certo che io ho moltiplicato la «scrittura dell’uno», ma non l’uno stesso. Cardinale. Come in tutte le cose bianche la mente vede la bianchezza, senza che vi siano per questo più bianchezze, così in tutti gli atomi vede il punto, senza che vi siano per questo più punti 221. Lo comprenderai meglio, se consideri il fatto che l’uno
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quando consideras unum simplicissimum in se complicare omnem multitudinem ideoque esse immultiplicabile, cum sit complicatio omnis multiplicationis seu multitudinis; quare in omni multitudine videtur, quia non est multitudo nisi explicatio unitatis. Sic de puncto, qui est complicatio magnitudinis, pariformiter dicendum vides. Albertus: Haec sic esse intueor. 86 Cardinalis: Consequenter aperi mentis obtutum et videbis deum in omni multitudine esse, quia est in uno, et in omni magnitudine, quia est in puncto; ex quo constat quod divina simplicitas subtilior est uno et puncto, quibus dat virtutem complicativam multitudinis et magnitudinis; quare deus est virtus magis complicativa quam unius et puncti. Albertus: Utique maior est dei simplicitas quam unius et puncti. Cardinalis: Igitur et magis complicativa. Nam vis complicativa est in simplicitate, quae quanto magis unita tanto magis simplex et complicativa. Ideo deus, qui est vis, qua nulla maior esse potest, est vis maxime unita et simplex; quare maxime potens et complicans. Igitur est complicatio complicationum. Albertus: Verissima profers. 87 Cardinalis: Esto igitur ens esse omnium exsistentium complicationem. Tunc, cum nullum ens sit, nisi in ipso sit entitas, certissimum esse vides deum eo ipso, quod entitas est in ente, esse in omnibus. Et licet ens ipsum in omnibus quae sunt videatur, non est tamen nisi unum ens, sicut de uno et puncto dictum est. Nec aliud est dicere deum esse in omnibus, quam quod entitas est in ente omnia complicante. Sic optime ille vidit qui dixit: Quia deus est, omnia sunt.
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semplicissimo complica in sé ogni molteplicità e che, pertanto, esso non è moltiplicabile, essendo la complicazione di ogni moltiplicazione o di ogni molteplicità. Per questo, lo si vede in ogni molteplicità, perché la molteplicità non è che l’esplicazione dell’unità. Allo stesso modo, puoi vedere che bisogna dire qualcosa di analogo a proposito del punto, il quale è la complicazione della grandezza 222. Alberto. Vedo che è così. Cardinale. Apri allora l’occhio della mente e vedrai che Dio è presente in ogni molteplicità, perché è presente nell’uno, e che è presente in ogni grandezza, perché è presente nel punto; da ciò risulta evidente che la semplicità divina è più sottile dell’uno e del punto, ai quali dà la capacità di complicare la molteplicità e la grandezza. Per questo motivo, Dio è una forza complicativa più grande rispetto a quella dell’uno e del punto. Alberto. Certamente, la semplicità di Dio è più grande di quella dell’uno e del punto. Cardinale. Per questo motivo, ha anche maggiore capacità di complicare. La forza complicativa, infatti, risiede nella semplicità, ed è tanto più semplice e capace di complicare quanto più è unitaria223. E così Dio, che è la forza della quale nessuna può essere più grande, è una forza massimamente unitaria e massimamente semplice; per questo, è dotato di massima potenza e della massima forza complicativa. Dio è la complicazione delle complicazioni224. Alberto. Dici cose verissime. Cardinale. Immagina che un ente sia la complicazione di tutti gli esseri che esistono. Ora, dal momento che non esiste nessun ente, se non è presente in esso l’entità, vedi in modo assolutamente certo che Dio, per il fatto che l’entità è presente nell’ente, è presente in ogni cosa225. E sebbene si veda l’ente [che è la complicazione di tutti gli esseri] in tutte le cose che sono, non vi è tuttavia che un unico ente, in modo analogo a quanto abbiamo detto a proposito dell’uno e del punto. E dire che Dio è presente in tutte le cose non è qualcosa di diverso dal dire che l’entità è presente nell’ente, il quale complica tutte le cose. Ha visto benissimo, pertanto, colui che ha detto: poiché Dio è, tutte le cose sono226.
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Albertus: Placeret illius conclusio, nisi obstaret deum ab aeterno fuisse et creaturas incepisse. Cardinalis: Tu deciperis. Imaginaris enim ante mundi creationem deum fuisse et non creaturas. Sed dum attendis quod numquam verum fuit dicere deum fuisse quin et creaturae essent, . Fuisse enim aliquid tempore nondum exsistente non est possibile, cum ‘fuisse’ sit praeteriti temporis. Tempus creatura aeternitatis; non enim est aeternitas, quae tota simul est, sed eius imago, cum sit in successione. 88 Albertus: Cur dicitur tempus imago aeternitatis? Cardinalis: Nos aeternitatem non concipimus sine duratione. Durationem nequaquam imaginari possumus sine successione. Hinc successio, quae est temporalis duratio, se offert, quando aeternitatem concipere nitimur. Sed mens dicit absolutam durationem, quae est aeternitas, naturaliter praecedere durationem successivam; et ita in successiva tamquam in imagine videtur duratio in se a successione absoluta, sicut in imagine veritas. Albertus: Imaginatio igitur adiuvat mentem sibi coniunctam. Cardinalis: Certissimum est intelligentem ex phantasmatibus incorruptibilium haurire speculationem. Sunt autem phantasmata, quae offert imaginatio; hinc subtiles imaginationes citius succurrunt ratiocinanti et veritatem quaerenti. Nisi enim mens nostra indigeret adiutorio imaginationis, ut ad veritatem, quae imaginationem excedit, quam solum quaerit, perveniat – quasi saltator fossa-
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Alberto. L’affermazione di costui mi piacerebbe moltissimo, se non fosse per il fatto che Dio è esistito da sempre, mentre la creatura ha avuto un inizio227. Cardinale. Ti inganni. Ti immagini, infatti, che prima della creazione del mondo sia esistito Dio e non le creature. Se consideri, però, che non è mai stato vero dire che vi è stato un momento in cui Dio sia esistito e le creature no, puoi vedere che non è corretto dire che Dio è esistito prima delle creature. Non è possibile infatti dire «è esistito» qualcosa, quando il tempo ancora non esisteva: «è esistito», infatti, indica un tempo passato. Il tempo è una creatura dell’eternità; il tempo, infatti, non è l’eternità, la quale è tutta insieme simultaneamente228, ma è una sua immagine, in quanto il tempo è caratterizzato dalla successione229. Alberto. Perché dici che il tempo è l’immagine dell’eternità?230 Cardinale. Noi non riusciamo a concepire l’eternità a prescindere dalla durata. Non possiamo, tuttavia, rappresentarci la durata senza la successione. Per questo motivo, ogni volta che ci sforziamo di concepire l’eternità, ci si presenta la successione, che è la durata temporale. La nostra mente, pertanto, afferma che la durata assoluta, che è l’eternità, precede per natura la durata caratterizzata dalla successione231. E così, nella durata caratterizzata dalla successione viene vista, come in un’immagine, la durata in sé, libera dalla successione, così come in un’immagine viene vista la verità [l’esemplare]232. Alberto. L’immaginazione, pertanto, aiuta la mente che le è connessa. Cardinale. È assolutamente certo che chi comprende trae il suo pensiero dalle immagini [fantasmi] delle cose incorruttibili presenti nella facoltà dell’immaginazione233. Tali immagini [fantasmi] sono ciò che viene offerto dalla facoltà dell’immaginazione; di conseguenza, le immagini più sottili dell’immaginazione sono quelle che giungono più rapidamente in soccorso di colui che usa la ragione e ricerca la verità. La nostra mente, infatti, non sarebbe congiunta all’immaginazione se non avesse bisogno dell’aiuto dell’immaginazione per giungere alla verità, la quale oltrepassa l’immaginazione stessa e che soltanto la mente ricerca (proprio come chi sal-
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ti baculo –, non esset in nobis imaginationi coniuncta. De his nunc sic dictum sit. 89 Albertus: Alibi ut fertur latius haec scripsisti. Nunc revertentes ad circulares descriptiones ludi nostri dicito, si quid mysterii restet! Cardinalis: Tanta sunt, quae satis exprimi non possunt. Nam sicut de hierarchicis ordinibus bonorum spirituum dictum est, ita et malis apostaticis spiritibus et eorum casu speculator multa inveniet, quia de quolibet ordine et choro quidam transgressores ceciderunt; et eorum casus est a certitudine scientiae in incertitudinem ruisse. Possunt et caelorum discretiones aliqualiter venari. Nam caelum visibile et caelum intelligibile et caelum intellectuale quidam sancti esse comprehenderunt et in quolibet trinam distinctionem, ut novenarius caelorum in denario, ubi est sedes dei «super Cherubin», perficiatur. Albertus: Non dubito numeri discretionem esse et in denario comprehendi omnem numerum et discretionem. Ea vero, quae numerantur et discernuntur per hominem, ab ipsa discretione non habent esse, sed discerni. Nisi enim essent, quomodo discernerentur? Quare circa virtutem discretivam, quae est post essentiativam, pulchra videtur speculatio, quam, rogo, adicias. 90 Cardinalis: Tangam aliquid, ut paream nobili tuo desiderio. Vis illa discretiva rationalis anima in nobis appellatur. Ratione quidem discernit; ratiocinatio supputatio et numeratio est. Nam licet anima visu visibilia, auditu audibilia et generaliter sensu sensibilia capiat, non tamen discernit nisi ratione. Quando enim audimus concinentes, voces sensu attingimus, sed differentias et concordantias ratione et disciplina mensuramus; quam vim in brutis
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ta un fossato ha bisogno dell’asta)234. Ritengo che quanto ho detto su questo argomento possa per ora essere sufficiente. Alberto. Su questo tema, come è noto, hai scritto più diffusamente in altre opere235. Ritornando ora ai tracciati circolari del nostro gioco, dicci se resta ancora qualcosa di non chiaro. Cardinale. Sono tante le cose che non possono essere spiegate in maniera esaustiva. Per esempio, come abbiamo parlato degli ordini gerarchici degli spiriti buoni, così in ogni ordine e coro vi sono coloro che hanno peccato e che sono caduti, e la loro caduta consiste nell’essere precipitati rovinosamente dalla certezza della conoscenza nell’incertezza. Anche le regioni in cui si dividono i cieli possono essere in qualche modo investigate. Alcuni santi, infatti, ritennero che vi fosse un cielo visibile, un cielo intelligibile e un cielo intellettuale236, ed hanno ritenuto che in ogni cielo vi fosse una distinzione trina, in modo tale che i nove cieli trovino il loro compimento nel decimo, dove si trova il trono di Dio, «al di sopra dei Cherubini»237. Alberto. Non ho alcun dubbio riguardo al fatto che vi sia una distinzione basata sul numero, e che ogni numero e ogni distinzione siano contenuti nel numero dieci238. Tutte le cose che l’uomo numera e distingue, tuttavia, dalla distinzione non traggono il loro essere, ma il fatto di essere distinte. Se non fossero, infatti, come potrebbero essere distinte? Per questo motivo, mi sembra che vi sia una bella riflessione da fare a proposito della forza che opera la distinzione, la quale viene dopo la forza che conferisce l’essere239; ti chiedo, per favore, di aggiungerla. Cardinale. Dirò qualcosa su questo argomento, per venire incontro al tuo nobile desiderio. Questa facoltà di distinguere che è presente in noi viene chiamata «anima razionale»240. Certamente, l’anima distingue per mezzo della ragione; ragionare significa calcolare e numerare. Infatti, sebbene l’anima colga ciò che è visibile con la vista, ciò che è udibile con l’udito, e, in generale, ciò che è sensibile con i sensi, essa, tuttavia, distingue solamente con la ragione. Per esempio, quando udiamo un coro di voci, cogliamo le voci con il senso, ma le differenze e le concordanze che vi sono tra di esse le misuriamo con la ragione e con le conoscenze che abbiamo appreso241. Non troviamo questa capacità negli animali. Gli anima-
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non reperimus. Non enim habent vim numerandi et proportionandi. Et ideo incapaces sunt disciplinae musicae, licet sensu voces nobiscum attingant et moveantur concordantia vocum ad delectationem. Anima igitur nostra rationalis merito dicitur, quia est vis ratiocinativa seu numerativa sive discretiva ac proportionativa, in se complicans cuncta, sine quibus perfecta discretio fieri nequit. Quando enim sensu auditus movetur ad motum delectationis ob dulcem harmonicam concordantiam et intra se invenit rationem concordantiae in numerali proportione fundari, disciplinam ratiocinandi de musicis concordantiis per numerum invenit. Videtur igitur anima esse viva illa unitas, numeri principium, in se omnem discretivum numerum complicans, quae de se ipsa numerum explicat, ut discretivae lucis viva scintilla se ipsam expandens super illa quae discernere cupit, et se ipsam ab iis quae scire non cupit retrahens, sicut visum sensibilem ad visibile quod videre cupit convertit et a visibili quod respuit avertit. 91 Albertus: Haec audire concupivi. Sed cum supra deum dixeris unitatem et modo animam unitatem appelles, quomodo haec intelligere debeam dicito! Cardinalis: Deus est unitas illa quae et entitas, omnia ut esse possunt complicans. Anima vero rationalis est unitas, omnia ut nosci seu discerni possunt complicans. In unitate, quae deus est, complicatur unitas animae rationalis, ut esse possit id quod est, scilicet ut est anima in se omnia notionaliter complicans. In unitate igitur, quae deus est, omnia ut esse et cognosci possunt complicantur, cum idem sit in deo unitas et entitas. Ideo ibi esse et cognosci similiter idem sunt. Unitas autem, quae est anima rationalis, non est idem cum ipsa entitate, quae est essendi forma, per quam
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li, infatti, non hanno la capacità di numerare e di istituire proporzioni 242. Per questo, essi sono incapaci di sviluppare la disciplina della musica, sebbene, attraverso i sensi, colgano come noi le voci e sebbene la concordanza delle voci susciti in essi un sentimento di piacere. La nostra anima, pertanto, viene giustamente chiamata «razionale», in quanto è una in grado di ragionare, di numerare, di distinguere e di istituire proporzioni, ed è una facoltà che complica in sé tutto ciò senza cui essa non potrebbe compiere una perfetta distinzione. Quando, per esempio, mediante il senso dell’udito l’anima è indotta a provare piacere per una dolce concordanza armonica di suoni, e quando scopre in se stessa che la ragione della concordanza è costituita da una proporzione numerica, allora l’anima inventa la disciplina di costruire razionalmente, mediante il numero, concordanze musicali fra i suoni. Si vede, pertanto, che l’anima è quell’unità viva che, essendo principio del numero, complica in sé ogni numero che produce distinzione, ed è quella unità viva che esplica il numero da se stessa243. L’anima è come una scintilla viva di luce che distingue244; una scintilla che si espande su quelle cose che desidera discernere, mentre si ritrae da quelle cose che non desidera conoscere, così come il senso della vista si volge al visibile che desidera vedere e si distoglie da una cosa sensibile che disdegna. Alberto. Desideravo ardentemente ascoltare ciò che hai detto. Tuttavia, poiché prima hai detto che Dio è «unità», mentre ora chiami l’anima «unità», spiegami come vanno intese queste affermazioni. Cardinale. Dio è quell’unità che è anche entità, la quale complica in sé tutte le cose così come esse possono essere. L’anima razionale, invece, è un’unità che complica in sé tutte le cose così come esse possono essere conosciute o distinte245. Nell’unità che è Dio, è complicata l’unità dell’anima razionale, in modo tale che essa possa essere ciò che è, ossia un’anima che complica in sé tutte le cose in modo concettuale246. Tutte le cose che possono essere ed essere conosciute sono pertanto complicate in quell’unità che è Dio, in quanto in Dio l’unità e l’entità sono la stessa cosa. Analogamente, in Dio sono la stessa cosa essere ed essere conosciuto. L’unità che è propria dell’anima razionale, invece, non si identifica con l’entità, che è quella forma dell’essere grazie alla quale anche l’anima esiste.
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habet et ipsa anima quod est. Sed bene convertitur unitas animae cum sua propria entitate, licet non cum absoluta entitate, quia nec unitas animae est absoluta, sed est ipsius animae propria, sicut et sua entitas. 92 Unde anima rationalis est vis complicativa omnium notionalium complicationum. Complicat enim complicationem multitudinis et complicationem magnitudinis, scilicet unius et puncti. Nam sine illis, scilicet multitudine et magnitudine, nulla fit discretio. Complicat complicationem motuum, quae complicatio quies dicitur. Nihil enim in motu nisi quies videtur. Motus est enim de quiete in quietem. Complicat etiam complicationem temporis, quae nunc seu praesentia dicitur. Nihil enim in tempore nisi nunc reperitur. Et ita de omnibus complicationibus dicendum, scilicet quod anima rationalis est simplicitas omnium complicationum notionalium. Complicat enim vis subtilissima animae rationalis in sua simplicitate omnem complicationem, sine qua perfecta discretio fieri non potest. Quapropter, ut multitudinem discernat, unitati seu complicationi numeri se assimilat. Et ex se notionalem multitudinis numerum explicat. Sic se puncto assimilat, qui complicat magnitudinem, ut de se notionales lineas, superficies et corpora explicet. Et ex complicatione illorum, scilicet unitatis et puncti, mathematicales explicat figuras circulares et polygonias, quae sine multitudine et magnitudine simul explicari nequeunt. Sic se assimilat quieti, ut motum discernat. Et praesentiae seu ipsi nunc, ut tempus discernat. Et cum hae omnes complicationes sint in ipsa unitae, tamquam complicatio complicationum explicatorie omnia discernit et mensurat et tempus et motum et agros et quaeque quanta. 93 Et invenit disciplinas, scilicet arithmetricam, geometricam, musicalem et astronomicam, et illas in sua virtute complicari experi-
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L’unità dell’anima, tuttavia, è pienamente convertibile con l’entità che è propria dell’anima, ma non con l’entità intesa in senso assoluto, in quanto anche l’unità dell’anima non è l’unità intesa in senso assoluto, ma è l’unità che è propria dell’anima, e lo stesso si deve dire per quanto concerne la sua entità. L’anima razionale, pertanto, è la forza che complica tutte le complicazioni concettuali. Complica, infatti, la complicazione della molteplicità e la complicazione della grandezza, ossia la complicazione dell’uno e quella del punto. Senza di esse, infatti, ossia senza la molteplicità e senza la grandezza, non si dà nessuna distinzione247. L’anima razionale complica la complicazione dei movimenti, che è chiamata quiete. Nel movimento, infatti, non si vede nulla se non la quiete, in quanto il movimento è una successione di stati di quiete. L’anima razionale complica anche la complicazione del tempo, che viene chiamata «ora» o «presente». Nel tempo, infatti, non si trova nulla se non l’«ora»248. E si deve dire la stessa cosa a proposito di tutte le altre complicazioni, vale a dire che l’anima razionale è la semplicità di tutte le complicazioni concettuali. La forza sottilissima dell’anima razionale, infatti, complica, nella sua semplicità, ogni complicazione senza la quale non può darsi una perfetta distinzione249. Per questo motivo, al fine di distinguere la molteplicità, l’anima si assimila all’unità, ossia alla complicazione del numero. E da se stessa l’anima esplica il numero concettuale della molteplicità. Allo stesso modo, l’anima si assimila al punto, che complica la grandezza, per esplicare da se stessa i concetti delle linee, delle superfici e dei solidi. Dalla complicazione di queste due cose, vale a dire dell’unità e del punto, l’anima esplica le figure geometriche, quelle dei cerchi e dei poligoni, le quali non possono essere esplicate senza molteplicità e grandezza. Analogamente, l’anima si assimila alla quiete, per distinguere il movimento, e al presente o all’«ora», per distinguere il tempo250. Ebbene, dal momento che tutte queste complicazioni sono unite nell’anima, la quale è in questo senso anch’essa una sorta di «complicazione delle complicazioni», l’anima distingue e misura tutte le cose in modo esplicativo, e misura il tempo, il movimento, i terreni e tutto ciò che è dotato di quantità251. L’anima, inoltre, inventa le scienze, vale a dire l’aritmetica, la geometria, la musica e l’astronomia, e fa esperienza del fatto che esse
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tur. Sunt enim illae disciplinae per homines inventae et explicatae. Et cum sint incorruptibiles et semper eodem modo manentes, et vere videt anima se ipsam incorruptibilem, semper vere permanentem, quoniam non sunt illae mathematicae disciplinae nisi in ea et in eius virtute complicatae et per eius virtutem explicatae adeo quod ipsa anima rationali non exsistente illae nequaquam esse possent. Unde et decem praedicamenta in eius vi notionali complicantur. Similiter et quinque universalia et quaeque logicalia et alia ad perfectam notionem necessaria, sive illa habeant esse extra mentem sive non, quando sine ipsis non potest discretio et notio perfecte per animam haberi. Albertus: Quantum mihi placet intellexisse tempus, quod est mensura motus, sublata rationali anima non posse aut esse aut cognosci, cum sit ratio seu numerus motus; et quod notionalia, ut notionalia sunt, ab anima hoc habent, quae est notionalium creatrix sicut deus essentialium. 94 Cardinalis: Creat anima sua inventione nova instrumenta, ut discernat et noscat, ut Ptolomaeus astrolabium et Orpheus lyram et ita de multis. Neque ex aliquo extrinseco inventores crearunt illa, sed ex propria mente. Explicarunt enim in sensibili materia conceptum. Sic annus, mensis, horae sunt instrumenta mensurae temporis per hominem creatae. Sic tempus, cum sit mensura motus, mensurantis animae est instrumentum. Non igitur dependet ratio animae a tempore, sed ratio mensurae motus, quae tempus dicitur, ab anima rationali dependet; quare anima rationalis non est tempori subdita, sed ad tempus se habet anterioriter sicut visus ad oculum, qui, licet sine oculo non videat, tamen non habet ab oculo quod est visus, cum oculus sit organum eius. Ita anima rationa-
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sono complicate nella sua forza252. Queste scienze, infatti, sono inventate e sviluppate dagli uomini253. E dal momento che esse sono incorruttibili e permangono sempre identiche a se stesse, l’anima vede in modo vero di essere lei stessa incorruttibile e sottratta al divenire254: queste scienze matematiche, infatti, non esistono se non nell’anima, complicate nella sua forza, ed è solo mediante la forza dell’anima che esse vengono esplicate, per cui, se l’anima razionale non esistesse, non potrebbero esistere neppure queste scienze. Anche le dieci categorie255, pertanto, sono complicate nella forza concettuale dell’anima razionale. Lo stesso deve dirsi dei cinque predicati universali256, di tutti i principi della logica e di tutte le altre cose che sono necessarie per costruire una conoscenza perfetta (esistano esse indipendentemente dalla mente oppure no), dal momento che senza queste cose l’anima non può produrre una distinzione e una conoscenza concettuale perfette. Alberto. Mi fa davvero piacere aver compreso che il tempo, che è misura del movimento257, non può né esistere, né essere conosciuto se viene tolta l’anima razionale, in quanto l’anima è ragione o numero del movimento258. E mi fa davvero piacere aver compreso che i concetti hanno, in quanto concetti, il loro essere dall’anima, che è la creatrice dei concetti, così come Dio è il creatore delle essenze. Cardinale. L’anima crea nuovi strumenti di sua invenzione per poter distinguere e conoscere, come fece Tolomeo con l’astrolabio259, Orfeo con la lira e molti altri. Gli inventori non hanno creato i loro strumenti a partire da qualcosa di esterno, bensì dalla loro mente. Essi, cioè, hanno esplicato in una materia sensibile l’idea che avevano. Allo stesso modo, l’anno, il mese e le ore sono strumenti creati dall’uomo per misurare il tempo. E così il tempo, essendo la misura del movimento, è uno strumento dell’anima che misura. L’unità di misura razionale dell’anima, pertanto, non dipende dal tempo; al contrario, è l’unità razionale di misura del movimento, che viene chiamata tempo, a dipendere dall’anima razionale. Per questo, l’anima razionale non soggiace al tempo, bensì precede il tempo come la vista precede l’occhio260; la vista, infatti, sebbene non veda senza l’occhio, non ha tuttavia dall’occhio il fatto di essere vista, dal momento che è l’occhio ad essere un organo
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lis, licet non mensuret motum sine tempore, non tamen propterea ipsa subest tempori. Sed potius econverso, cum utatur tempore pro instrumento et organo ad discretionem motuum faciendam. Nullo igitur tempore motus discretionis animae mensurari potest; ideo nec tempore finibilis, quare perpetuus. 95 Albertus: Clarissime video motum animae rationalis discretivum, omnem motum et quietem cum tempore mensurantem, non posse cum tempore mensurari. Artes et disciplinae immutabiles tempore quid aliud sunt quam ratio? Quis dubitat rationem circuli supra tempus esse et omnem circularem motum naturaliter anteire? Ideo a tempore penitus absolutam. Et ubi ratio circuli videtur? Non extra rationem. Ubi ratio, nisi in anima rationali? Si igitur in se ipsa rationalis anima videt rationem circuli, quae est supra tempus, sive igitur anima rationalis sit ipsa ratio seu disciplina seu ars aut scientia, sive non sit, utique constat ipsam necessario supra tempus esse. Et haec satisfaciunt mihi, ut sciam rationalem animam non posse ullo tempore deficere aut interire. Sed cum videam aliquem hominem ratione carentem, licet sensu vigeat, dubito an anima illius ut alterius bruti sit aestimanda. Cardinalis: Anima hominis una est et rationalis dicitur, licet cum brutis sensitiva sit. Nam ut alias me recolo duci Ioanni in priori colloquio dixisse de trigono in tetragono, vis sensitiva in homine non est brutalis animae, sed rationalis, quod in exemplo per beatum Augustinum in XIV. libro De civitate dei de Restituto pres bytero manifestum factum est. Albertus: Quomodo? 96 Cardinalis: Refert, quomodo hic presbyter Restitutus Calamensis dioecesis, «quando ei placebat aut rogabatur ut faceret, ad
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della vista. Allo stesso modo, l’anima razionale, sebbene non misuri il movimento senza il tempo, non soggiace tuttavia al tempo. Accade piuttosto il contrario, giacché è l’anima che si serve del tempo come uno strumento e come un organo per distinguere i movimenti. Di conseguenza, il movimento dell’anima che opera la distinzione non può essere misurato da nessun tempo; per questo, non può terminare nel tempo, per cui è perpetuo261. Alberto. Vedo in maniera chiarissima che il movimento dell’anima razionale che opera la distinzione non può essere misurato per mezzo del tempo, dal momento che è proprio tale movimento che misura ogni moto ed ogni quiete mediante il tempo262. Che cos’altro sono le arti e le scienze immutabili, se non [forme di] ragione? Chi dubita che la natura razionale del cerchio è sovratemporale e che precede per natura ogni movimento circolare? Essa, pertanto, è completamente libera dal tempo. E dove si vede la natura razionale del cerchio? Non al di fuori della ragione263. Ma dov’è la ragione, se non nell’anima razionale?264 Se, pertanto, l’anima razionale vede in se stessa la natura razionale del cerchio, allora (indipendentemente dal fatto che s’identifichi o meno con questa natura razionale, o con la disciplina, o con l’arte, o con la scienza), risulta del tutto evidente che essa è necessariamente al di sopra del tempo265. E queste considerazioni, a mio avviso, sono sufficienti per sapere che l’anima razionale non può mai venire a mancare, né morire. Quando vedo un uomo privo di ragione, tuttavia, benché sia vigoroso nel suo aspetto fisico, allora non so se la sua anima debba essere ritenuta simile a quella di un altro animale266. Cardinale. L’anima dell’uomo è unica ed è chiamata «razionale», sebbene sia anche sensitiva come quella degli animali. Mi ricordo, infatti, di aver parlato al duca Giovanni, durante la precedente discussione, di un triangolo iscritto in un rettangolo, e di aver detto che la facoltà sensitiva nell’uomo non è quella dell’anima degli animali, ma che è quella propria di un’anima razionale267. Questa cosa è stata chiarita dal beato Agostino con l’esempio del prete Restituto, nel XIV libro de La città di Dio268. Alberto. In che modo? Cardinale. Agostino riferisce che questo prete, Restituto, della diocesi di Calama 269, quando ne aveva voglia o quando gli ve-
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imitatas quasi cuiuslibet lamentantis hominis voces ita se auferebat a sensibus et iacebat simillimus mortuo, ut non solum vellicantes atque pungentes minime sentiret, sed aliquando etiam igne ureretur admoto sine ullo doloris sensu,» et «tamquam in defuncto nullus inveniebatur anhelitus; hominum tamen voces, clarius cum loquerentur, tamquam de longinquo se audire postea referebat.» Hoc autem voluntate factum ostendit animam rationalem se a corpore retraxisse, ita etiam ut nihil sentiret. Ex quo patet animam rationalem voluntate separatam esse et sensitivam et vim rationalem dominari potentiae sensitivae. Una igitur est anima rationalis et sensitiva in homine; et licet non appareat in aliquo homine exercitium rationis manifestum, non tamen anima est brutalis. Sicut si corpus adeo foret attenuatum aut minutatum quod videri aut tangi non bene posset, non tamen propterea corpus esse desinit, cum in non-corpus resolvi non possit. Neque est possibile hominem penitus ratione semel habita in infusione rationalis animae posse postea spoliari, licet non videatur aliquis rationis usus. Nam hic usus in uno est clarior, in alio obscurior. Ideo numquam potest esse minimus et penitus nullus, etiamsi adeo parvus quod discerni ab aliis non posset. Hoc ex regula doctae ignorantiae constat, quae habet quod in recipientibus magis et minus non est devenire ad maximum et minimum simpliciter. 97 Albertus: Cum stultitia, quam in multis experimur hominibus, ingerat dubium, an sit in ipsis ratio, videtur per simile hoc dubium solvi posse hoc modo: Habent quidam integros oculos et nihil discernunt; non tamen propterea virtute visiva carent, sed usu, qui ut appareat meliorem organi exigit dispositionem. Et sicut aliquan-
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niva chiesto, faceva quanto segue: «Per accompagnare l’imitazione delle voci lamentose di un uomo in lutto, si astraeva completamente dai sensi e giaceva a terra pressoché identico ad un morto. In tal modo, non soltanto non sentiva affatto coloro che lo punzecchiavano o lo pungevano con aghi, ma alle volte veniva anche bruciato con il fuoco, senza che provasse alcuna sensazione di dolore». «Come in un morto», dice Agostino, «in lui non si sentiva nessun respiro; successivamente, nondimeno, riferiva di aver ascoltato molto chiaramente le voci degli uomini quando parlavano, come provenienti da un luogo lontano». Questo fatto, compiuto volontariamente, mostra come l’anima razionale di quell’uomo si fosse ritratta dal corpo in modo tale da non provare nessuna sensazione. Da quanto detto, risulta evidente che l’anima razionale e l’anima sensitiva sono separate dalla volontà e che la facoltà razionale domina sulla facoltà sensitiva270. Nell’uomo, pertanto, l’anima razionale e l’anima sensitiva sono un’unica anima, e sebbene l’esercizio della ragione in qualche uomo non appaia in maniera manifesta, la sua anima non è per questo ferina. Lo stesso si potrebbe dire nel caso in cui un corpo venisse assottigliato o diminuito al punto da non poter essere visto o toccato bene: non per questo cesserebbe di essere corpo, dal momento che non può risolversi in qualcosa di non corporeo. In modo analogo, non è affatto possibile che un uomo, una volta che sia giunto ad avere la ragione perché gli è stata infusa l’anima razionale, possa successivamente esserne derubato, benché sembri che non faccia alcun uso della ragione. Questo uso, infatti, in un uomo è più evidente, in un altro meno. Di conseguenza, non può essere mai minimo o nullo, anche se fosse così piccolo da non poter essere ravvisato dagli altri. Ciò risulta con evidenza dalla regola della dotta ignoranza, secondo la quale, nelle cose che ammettono il più e il meno non è possibile giungere al massimo e al minimo in quanto tali271. Alberto. Dato che la stupidità, che riscontriamo in molti uomini, fa dubitare che essi posseggano la ragione, mi sembra che si possa risolvere questo dubbio mediante un esempio di questo genere: alcuni hanno gli occhi sani, ma non distinguono nulla; non per questo sono privi della facoltà visiva, ma del suo uso, il quale, per manifestarsi, richiede una migliore disposizione dell’organo272.
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do oculus recipit meliorem dispositionem et tunc usus videndi apparet, aliquando manet indispositus et non advenit, ita de stultitia, quae sanitate organi adveniente, sine quo usus rationis non potest adesse, usu rationis apparente cessat et non cessat defectu organi non sublato. Hoc verum aestimo quod, sicut numquam reperitur oculus adeo indispositus, quin aliquam lucem sentiat, licet nihil discernat, ita de stulto asserendum. Et si haec sic sint, ut asseris, restant tamen adhuc quaedam, quae me turbant. Cum anima sit causa motus corporis, quomodo hoc fieri possit sine mutatione? Et si movendo mutatur anima, utique temporalis est. Omne enim, quod mutatur, instabile et nequaquam perpetuum esse potest. 98 Cardinalis: Oportet ut dicamus animam movere et non mutari, uti Aristoteles dicebat deum ut desideratum movere. Manet enim in se fixum illud ‘bonum ab omnibus desideratum’ et ad se omnia movet quae bonum desiderant. Anima rationalis suam operationem intendit producere. Intentione firma persistente movet manus et instrumenta dum dolat lapidem statuarius. Intentio videtur in anima immutabiliter persistere et movere corpus et instrumenta. Sic natura, quam mundi animam quidam appellant, stante immobili et intentione exsequendi imperium creatoris omnia movet. Et creator stante aeterna immobili et immutabili intentione omnia creat. 99 Et quid est intentio nisi conceptus seu verbum rationale, in quo omnia rerum exemplaria? Est enim formalis terminus infinitatem omnis posse fieri determinans. Una igitur aeterna et simplicissima dei intentio, stans et permanens, causa est omnium. Sic in ani-
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Alcune volte, l’occhio acquisisce una disposizione migliore e allora compare l’uso della vista, mentre altre volte rimane in una cattiva condizione e l’uso non sopraggiunge. La stessa cosa accade a proposito della stupidità: quando sopraggiunge una condizione di salute dell’organo senza il quale non può darsi l’uso della ragione, allora, con il comparire dell’uso della ragione, viene meno la stupidità; essa non viene meno, invece, quando non viene rimosso il difetto dell’organo. La verità ritengo sia questa: come non si trova mai un occhio che sia in una così cattiva condizione da non poter percepire una qualche traccia di luce, sebbene possa anche non distinguere nulla con precisione, lo stessa cosa la si deve dire a proposito di una persona stupida. Anche se gli argomenti che abbiamo affrontato sono come tu li hai spiegati, vi sono tuttavia ancora delle questioni che mi turbano. Dal momento che l’anima è la causa del movimento del corpo, come potrebbe essa muoverlo senza mutare? E se, nel muovere il corpo, l’anima soggiace al mutamento, allora essa soggiace senza dubbio al tempo. Tutto ciò che soggiace al mutamento, infatti, è instabile e non può essere perpetuo. Cardinale. Bisogna dire che l’anima muove, ma non soggiace al mutamento273, così come Aristotele diceva che Dio muove in quanto oggetto del desiderio274. Quello che è il «bene desiderato da tutte le cose»275 rimane infatti fisso in se stesso e muove verso di sé tutte le cose che desiderano il bene. [Analogamente,] l’anima razionale produce intenzionalmente la sua operazione. Muove con intenzione ferma e costante le mani e gli strumenti quando uno scultore incide la pietra276. Si vede che l’intenzione permane immutata nell’anima e che muove il corpo e gli strumenti. Allo stesso modo, la natura, che alcuni chiamano «anima del mondo»277, muove tutte le cose restando immobile, con l’intenzione costante di eseguire il comando del creatore. Il creatore, a sua volta, crea tutte le cose con un’intenzione che resta eternamente immobile e immutabile. E che cos’è l’intenzione se non un concetto o una parola razionale, in cui sono presenti tutti gli esemplari delle cose? È, infatti, la delimitazione che proviene dalla forma che determina l’infinità di tutto ciò che può essere fatto278. Pertanto, l’unica, eterna e semplicissima intenzione di Dio, che permane sempre immutabile, è la causa di tutte le cose. Analogamente, nell’anima raziona-
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ma rationali una est perpetua et finalis intentio acquirere scientiam dei, hoc est in se habere notionaliter hoc ‘bonum quod omnia appetunt’. Numquam enim illam mutat rationalis anima, ut rationalis est. Sunt et aliae secundae intentiones, quae, quando ab illa prima intentione deviant, mutantur primo desiderio firmo permanente. Et ob mutationem intentionum talium non mutatur anima rationalis, quia in prima intentione fixa permanet. Et immutabilitas illius primae intentionis causa est mutationis talium secundarum intentionum. 100 Albertus: Duxisti me paucis, ut videam intentione in deo et anima rationali, per quam et secundum quam operantur et movent, stabiliter permanente omnia fieri et moveri. Nec est haesitatio, si intentio firma persistit, deum et animam rationalem movere et non moveri nec mutari. Stante enim intentione utique stat intendens, qui ab intentione non movetur. Nec in deo aliud est intentio quam deus intendens. Sic nec in rationali anima intentio est aliud quam intendens anima. Et id, quod de secundis intentionibus dixisti, valde necessarium est adverti; et tollit plura dubia. 101 Cardinalis: Dum intendo videre visibile, admoveo oculos. Dum intendo audire, admoveo aures. Et dum intendo ambulare, admoveo pedes. Et generaliter: Dum intendo sentire, admoveo sensum. Dum intendo videre quae sensi, admoveo imaginationem seu memoriam. Ad omnia igitur corporalia mediante organo corporeo pergo. Sed dum ad incorporea me convertere volo, removeo me ab istis corporeis; et quanto verius illa speculari intendo, tanto verius me a corporeis retraho. Ut dum volo videre animam meam, quae non est obiectum visus sensibilis, melius clausis sensibilibus oculis ipsam videbo. Et facio animam instrumentum incorporea
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le è presente un’intenzione unica e continua, che mira a conseguire la conoscenza di Dio, ossia a possedere in sé la nozione di questo «bene che tutte le cose desiderano»279. L’anima razionale, infatti, non muta mai tale intenzione, proprio perché è razionale. Sono altre, ossia le intenzioni seconde, quelle che mutano, quando deviano dalla prima intenzione, anche se il primo desiderio permane immutato. Ma, a causa del mutamento di queste intenzioni, non muta l’anima razionale, in quanto essa rimane salda nella prima intenzione. E l’immutabilità di questa prima intenzione è una causa del mutamento delle intenzioni seconde. Alberto. Con poche parole mi hai condotto a vedere che tutte le cose soggiacciono al mutamento e al movimento, mentre l’intenzione di Dio e dell’anima razionale, secondo la quale Dio e l’anima razionale operano e muovono, permane immutabile. E non vi è alcun dubbio che, se l’intenzione resta salda, allora Dio e l’anima razionale muovono senza essere mossi e senza soggiacere al mutamento. Quando l’intenzione resta salda, infatti, non muta colui che ha l’intenzione, giacché non si muove dalla sua intenzione. In Dio, del resto, l’intenzione non è qualcosa di altro da Dio che ha l’intenzione. In modo simile, nell’anima razionale l’intenzione non è qualcosa di altro dall’anima che ha l’intenzione. Ciò che hai detto riguardo alle intenzioni seconde è altresì necessario che sia preso in considerazione; toglie, infatti, numerosi dubbi. Cardinale. Quando ho l’intenzione di vedere un ente visibile, muovo gli occhi nella sua direzione. Quando ho l’intenzione di ascoltare qualcosa, muovo verso di esso le orecchie. E quando ho l’intenzione camminare, muovo i piedi. E in generale: quando ho l’intenzione di sentire, muovo gli organi di senso. Quando ho l’intenzione di vedere le cose che ho sentito, dirigo verso di esse la mia immaginazione o la mia memoria. Mi rivolgo pertanto a tutte le cose corporee mediante uno strumento del corpo280. Quando, però, mi voglio rivolgere alle realtà incorporee, mi distacco da queste cose corporee. E quanto più ho una reale intenzione di riflettere sulle realtà incorporee, tanto più mi ritraggo dalle cose corporee. Per esempio, quando voglio vedere la mia anima, che non è un oggetto della vista sensibile, la vedrò meglio se chiudo gli occhi sensibili281. In questo modo, faccio della mia anima uno strumento
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videndi. Ut dum disciplinas comprehendere intendo, ad virtutem animae intelligentialem me converto. Et dum intendo videre omnium rerum rationem et causam, ad intellectibilem animae simplicissimam fortissimamque me converto virtutem. Unde anima melius videt incorporalia quam corporalia, quia incorporalia ad se ingrediens videt, corporalia vero a se egrediens. Et nihil in omnibus his nisi unum intendit, scilicet omnium et sui causam per suam rationalem fortitudinem videre et comprehendere, ut, dum omnium et sui ipsius causam et rationem in sua viva ratione esse sentit, summo bono, pace perpetua et delectatione fruatur. Rationalis enim spiritus, natura scire desiderans, quid aliud quaerit quam omnium causam et rationem? Nec quiescit, nisi se ipsam sciat, quod fieri nequit, nisi suum sciendi desiderium, scilicet rationis suae aeternam causam, in se ipsa, scilicet virtute rationali, videat et sentiat. 102 Albertus: Magna dicis et certa. Supremo cum feratur desiderio anima rationalis, ut discernat et sciat, quando ad id pervenit, ut causam tanti desiderii in se ipsa, scilicet discretiva videat virtute, utique in se habet scientiam datoris desiderii. Et nihil appetere potest, quod non in se ipsa videat. Quid enim amplius desiderari posset per scire desiderantem, quando causatum suae causae scientiam in se intuetur? Tunc enim suae creationis rationem et artem habet, quae est omnis desiderii sciendi perfectio et complementum; quo nihil rationali naturae scientiae avidissimae beatius feliciusque advenire potest. Omnium enim scibilium artium habere peritiam modicum est respectu artis omnium artium creativae. Solum mihi difficile videtur creaturam, quantumcumque rationalem et docilem, creativam artem capere posse, quam solus deus habet.
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per vedere ciò che è incorporeo. Per esempio, quando ho l’intenzione di apprendere le discipline che costituiscono il sapere, mi volgo alla capacità dell’anima di comprendere l’intelligibile. E quando ho l’intenzione di vedere la ragione e la causa di tutte le cose mi volgo alla capacità semplicissima e potentissima dell’anima di cogliere l’intellettibile282. L’anima, di conseguenza, vede meglio gli enti incorporei che gli enti corporei, perché vede gli enti incorporei rientrando in se stessa, mentre vede gli enti corporei uscendo da se stessa. In tutte queste operazioni, l’anima non ha che un’intenzione: vedere e comprendere, per mezzo della sua potenza razionale, la causa di se stessa e di tutte le cose. Quando l’anima scopre, infatti, che la causa e ragione di se stessa e di tutte le cose è contenuta nella sua ragione viva283, gode del bene più alto, della pace e della gioia perpetue. Lo spirito razionale, infatti, il quale desidera conoscere per natura284, che cosa altro desidera conoscere, se non la causa e la ragione di tutte le cose? Né ha quiete, se non conosce se stesso285 e ciò non può avvenire, se non vede e non sente il suo desiderio di conoscere, vale a dire la causa eterna della sua ragione, in se stessa, ossia nella sua facoltà razionale. Alberto. Dici cose grandi e certe. Dal momento che l’anima razionale è guidata dal più grande desiderio di discernere e di conoscere, quando arriva a vedere la causa di un tale desiderio in se stessa, vale a dire nella sua forza discretiva, allora, certamente, possiede in se stessa una conoscenza di colui che le ha dato quel desiderio. E non può desiderare nulla che non veda in se stessa. Quando ciò che è causato, infatti, giunge a cogliere in se stesso una conoscenza della sua causa, che cosa potrebbe desiderare di più286? In quel momento, infatti, possiede la ragione e l’arte della sua creazione, che rappresenta la perfezione e il compimento di ogni desiderio di sapere; alla natura razionale, quanto mai avida di conoscenza, non può accadere nulla che porti più beatitudine e felicità di questa perfezione e di questo compimento287. Padroneggiare tutte le arti che si conoscono, infatti, è poca cosa in confronto all’arte creatrice di tutte le arti. Soltanto, mi sembra difficile che la creatura, per quanto razionale e diligente, possa cogliere l’arte creatrice, che solo Dio possiede.
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Cardinalis: Ars creativa, quam felix anima assequetur, non est ars illa per essentiam quae deus est, sed illius artis communicatio et participatio. Sicut acquirere albedinem participatione albedinis, absolute per essentiam talis et non acquisitae, non est transmutatio albi in ipsam albedinem, sed conformatio acquisitae cum non acquisita, ubi acquisita nihil ex se potest nisi in virtute non acquisitae. Non enim album dealbat nisi in virtute albedinis, a qua habet, ut sit album aut conforme albedini alba formanti. 103 Albertus: Placent haec dicente Scriptura de filio dei, «cum apparuerit – in gloria – similes ei erimus»; non ait quod erimus ipse. Sed quia dixisti de sensu animae rationalis, quomodo intelligis sensum esse in intellectuali natura? Cardinalis: Saepe praetereuntes non sentimus nec visu nec auditu, quia non sumus ad hoc attenti; sed quando sumus attenti, sentimus. Nos in anima nostra rationem et scientiam scibilium virtualiter possidemus; non tamen actu sentimus huius veritatem, nisi attente ad hoc videndum conversi fuerimus. Licet enim musicae scientiam habeam, tamen, cum geometriae vaco, non sentio me musicum. Attenta igitur cogitatio me sentire facit intelligibilia, quae non senseram. Sicut enim centrum omnium circulorum est in profundo occultatum, in cuius simplicitate vis est omnia complicans, sic in centro animae rationalis complicantur omnia in ratione comprehensa; sed non sentiuntur, nisi attenta cogitatione vis illa concitetur et explicetur. Albertus: Optime ad omnia et gratissime respondes. Nunc ut video ad finem properas. Aliquid quaeso circa occultum et patulum adicias. Videtur enim ex figura descriptionis vim omnem in centro occultari.
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Cardinale. L’arte creatrice, che l’anima felice raggiunge, non è quell’arte che è Dio per essenza, ma è una comunicazione e una partecipazione di tale arte288. Per chiarire questo punto con un esempio, acquisire la bianchezza attraverso la partecipazione alla bianchezza che è tale per essenza e non è acquisita non implica la trasformazione della cosa bianca nella bianchezza stessa; implica, piuttosto, un conformarsi della bianchezza acquisita alla bianchezza non acquisita, dove la bianchezza acquisita non può nulla da se stessa, se non in virtù della bianchezza non acquisita. Il bianco, infatti, fa diventare bianco solo in virtù della bianchezza, dalla quale ha il fatto di essere bianco o di essere conforme alla bianchezza che forma le cose bianche. Alberto. Mi fanno piacere queste cose, giacché riguardo al figlio di Dio la Scrittura dice: «Quando apparirà nella gloria, saremo simili a lui»289; non dice, cioè, che saremo lui. Ma poiché hai parlato dei sensi che sono propri dell’anima razionale, ti chiedo: come intendi il fatto che i sensi siano presenti nella natura intellettuale? Cardinale. Spesso non percepiamo i passanti né con la vista, né con l’udito, perché non prestiamo loro attenzione290; quando invece stiamo attenti, li percepiamo. Nella nostra anima possediamo in maniera potenziale la conoscenza e la ragione delle cose conoscibili; tuttavia, non percepiamo in atto la verità di questa conoscenza, se non ci volgiamo attentamente a guardarla. Per esempio, sebbene io conosca la musica, non ho consapevolezza di essere musicista, se non mi dedico alla geometria. Il pensiero attento, dunque, fa sì che io diventi consapevole degli intelligibili che non avevo colto in precedenza. Come il centro di tutti i cerchi è nascosto nel profondo, e nella sua semplicità è contenuta la forza che complica ogni cosa 291, così nel centro dell’anima razionale sono complicate tutte le cose che sono comprese dalla ragione; non ce ne accorgiamo, tuttavia, se quella facoltà non viene stimolata ed esplicata per mezzo del pensiero attento. Alberto. Hai risposto in maniera perfetta, e per me graditissima, a tutte le questioni. Ora vedo che ti prepari alla fine del tuo discorso. Aggiungi ancora qualcosa, per favore, a proposito di ciò che è nascosto e di ciò che è manifesto. Dal disegno che è stato tracciato per il gioco sembra, infatti, che tutta la forza sia nascosta nel centro.
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Deum absconditum «ab oculis omnium» sapientium scribitur et omne invisibile in visibili occultatur. Visibile est oculis manifestum et invisibile ab oculis remotum. Principia minima dicit Aristoteles quantitate et maxima virtute. Virtus spiritalis et invisibilis est, et tantae potentiae est virtus scintillae ignis quantae totus ignis. Tanta virtus in uno modico grano sinapis quanta in multis granis, immo et in omnibus quae esse possunt. Finis manifesti est occultum et extrinseci intrinsecum. Pelles et cortices propter carnes et medullas et illae propter intrinsecam, vitalem, invisibilem virtutem. Elementativa virtus in chaos occultatur et in vegetativa occultatur sensitiva et in illa imaginativa et in illa logistica seu rationalis, in rationali intelligentialis, in intelligentiali intellectibilis, in intellectibili virtus virtutum. Haec in figura circulorum mystice legas. Circulus circumdans et extrinsecus figurat ipsum confusum chaos. Secundus virtutem elementativam, quae est proxima ipsi chaos. Tertius mineralem; et hi tres circuli terminantur in quarto, qui est circulus vegetativam figurans. Post illum est quintus circulus sensitivam figurans. Deinde sextus imaginativam sive phantasticam figurans. Et hi tres circuli, scilicet quartus, quintus et sextus, in quarto terminantur, scilicet logisticam seu rationalem figurante, et septimus est. Deinde est octavus figurans intelligentialem et nonus figurans intellectibilem. Et hi tres, scilicet septimus, octavus et nonus, in quarto, qui est decimus, terminantur. 105 Albertus: Pulchra nunc recitasti, quomodo de confuso ad discretum fit progressio. Et quia hac consideratione de omni imperfecto ad perfectum ascenditur, de confusa tenebra ad discretam lucem, de insipido ad sapidum per medios sapores, de nigro ad album per medios colores, ita de odoribus et cunctis, in quibus ad
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Cardinale. È scritto che Dio è nascosto «agli occhi di tutti i sapienti»292 e che ogni cosa invisibile è nascosta in ciò che è visibile. Ciò che è visibile è manifesto agli occhi, mentre ciò che è invisibile è inaccessibile agli occhi. Aristotele dice che i principi hanno quantità minima e forza massima293. La forza è incorporea e invisibile, e una scintilla ha tanta forza quanta ne ha il fuoco intero294. In un piccolo granello di senape vi è tanta forza quanta ve n’è in molti granelli, anzi quanta ve n’è in tutti i granelli di senape che possono esistere295. Il fine di ciò che è manifesto è ciò che è nascosto, e il fine di ciò che è esterno è ciò che è interno. Le pelli e le bucce esistono in funzione delle carni e delle polpe e queste in funzione della forza interna, vitale e invisibile. La forza che costituisce gli elementi è nascosta nel caos296: nella forza che costituisce gli elementi è nascosta la forza minerale, nella forza minerale è nascosta la forza vegetativa, nella vegetativa la sensitiva, nella sensitiva l’immaginativa, nell’immaginativa la sillogistica o razionale, nella razionale la forza intelligenziale, nella intelligenziale la forza intellettibile297, e in quest’ultima la forza delle forze. Puoi leggere tutto questo nel disegno dei cerchi, se guardi in modo mistico298. Il cerchio esterno che circonda tutti gli altri rappresenta il caos informe; il secondo la forza che costituisce gli elementi, la quale è molto vicina al caos, il terzo la forza minerale, e questi tre cerchi terminano in un quarto, il quale rappresenta la forza vegetativa. Vi sono, poi, il quinto cerchio, che rappresenta la forza sensitiva, ed il sesto che rappresenta la forza immaginativa o la facoltà della fantasia. Anche questi tre cerchi, vale a dire il quarto, il quinto e il sesto, terminano in un quarto cerchio, ossia nel cerchio che rappresenta la forza sillogistica o razionale, il quale è il settimo. Vi sono, poi, l’ottavo, che rappresenta la forza intelligenziale, ed il nono, che rappresenta la forza intellettibile; anche questi tre cerchi, vale a dire il settimo, l’ottavo e il nono, terminano in un quarto cerchio, che è il decimo299. Alberto. Hai detto ora cose belle circa il modo in cui avviene la progressione dal confuso al distinto. E mediante questo ragionamento possiamo ascendere da ogni cosa imperfetta a ciò che è perfetto, dalla tenebra confusa alla luce distinta, dall’insipido al saporito per mezzo dei sapori intermedi, dal nero al bianco per mezzo dei colori intermedi, e lo stesso avviene per quanto riguarda gli
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perfectum devenitur. Atque in per te posito exemplo de corporali natura ad spiritalem, cuius experientiam homo in se ipso reperit, et cur microcosmos nominetur invenit. Ideo de ratione huius progressionis adeo mirabilis et fecundae, ad omne scibile applicabili, non pigriteris adhuc pauca saltem subiungere. 106 Cardinalis: Sicut denario omnis discretio continetur, ita necessario omnis progressio in quaternario. Nam unum et duo et tria et quattuor decem sunt. In quo cum discretio subsistat, ideo et discretionis progressio. Neque possunt plures quam tres esse tales progressiones, quando tertia denario concluditur; quae necessario sic se ad invicem habent quod supremum primae fit infimum secundae et supremum secundae fit infimum tertiae, ut sit una continua pariter et trina progressio. Igitur sicut prima progressio recedens ab imperfecto finitur in quaternario, ita secunda incipit in quaternario et finitur in septenario. Et ibi tertia incipit, quae denario perficitur. Huius cupis rationem audire, quam sic intelliges. 107 Ordo cum sit de necessitate omnium operum dei – ut recte Apostolus aiebat dicens: quaecumque a deo sunt, ordinata sunt –, sine principio, medio et fine nec esse nec intelligi potest. Est autem ordo perfectissimus et simplicissimus, quo nullus aut perfectior aut simplicior esse potest, qui est in omni ordinato et in quo omnia ordinata, modo quo in generali propositione in exordio prae misimus. In eo autem ordine, qui est omnium ordinum exemplar, necesse est medium esse simplicissimum, cum ordo sit simplicissi-
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odori e tutto ciò in cui si giunge a qualcosa di perfetto. E mediante l’esempio che tu hai fatto possiamo ascendere anche dalla natura corporea a quella spirituale, di cui l’uomo fa esperienza in se stesso, scoprendo così il motivo per il quale egli viene definito un «microcosmo»300. Riguardo alla natura di questa progressione, così straordinaria e feconda, che può essere applicata a tutto ciò che si può conoscere, non esitare ad aggiungere ancora qualche parola. Cardinale. Come nel numero dieci è contenuta ogni distinzio301 ne , così è necessario che ogni progressione sia contenuta nel numero quattro302. L’addizione dell’uno, del due, del tre e del quattro, infatti, dà luogo al numero dieci. Dal momento che nel dieci è contenuta la distinzione, in esso è contenuta anche la progressione della distinzione. E non vi possono essere più di tre progressioni di questo tipo, dato che la terza progressione termina nel numero dieci. Queste tre progressioni sono necessariamente in rapporto l’una con l’altra, in modo tale che il numero più alto della prima progressione sia l’ultimo della seconda progressione e il numero più alto della seconda progressione sia l’ultimo della terza. In questa maniera, vi è un’unica progressione, che è al tempo stesso continua e trina303. Di conseguenza, come la prima progressione, che si allontana dall’imperfetto, termina nel numero quattro, così la seconda comincia con il quattro e termina nel sette. E qui inizia la terza progressione, la quale giunge a compimento nel dieci. Se vuoi ascoltare la ragione per cui avvenga quanto ho detto, intendila come segue. Dal momento che in tutte le opere di Dio vi è necessariamente un ordine – come ha sostenuto giustamente l’Apostolo quando ha detto che tutte le cose che derivano da Dio sono ordinate304 –, tale ordine non può esistere, né essere compreso senza un principio, un mezzo e un fine. Si tratta, d’altra parte, di un ordine sommamente perfetto e sommamente semplice, del quale non ve ne può essere uno più perfetto o più semplice; esso è presente in tutto ciò che è ordinato e in esso sono presenti tutte le cose ordinate, nel modo in cui abbiamo detto nella proposizione generale all’inizio del dialogo305. Ma in questo ordine, che è l’esemplare di tutti gli ordini, è necessario che il mezzo sia assolutamente semplice, in quanto si tratta di un ordine assolutamente semplice306. Il mezzo, pertanto, sarà così uguale da essere l’uguaglianza stessa. Questo ordine non
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mus. Erit igitur adeo aequale medium quod et ipsa aequalitas. Qui ordo non potest per nos aliqua discretione capi nisi in ordinatissima progressione, quae ab unitate incipit et ternario terminatur. In qua medium simplicissimum est aequale medium principii et finis. Duo enim medium est praecisum et aequale unius et trium et praecisa tertia totius ordinis et progressionis. Aliter nos illum simplicissimum divinum ordinem nisi in praemissa progressione discernere non possumus. Et cum medium sit aequale medium, sicut est indistinctum ab aequalitate, ita et in essentia manet idem cum principio et fine. Diversarum enim essentiarum non potest esse praecisa aequalitas. 108 Omnis autem ordo, qui habet quod est ordo a iam dicto simplicissimo ordine, non potest habere simplex et aequale medium. Est enim omnis ordo excepto simplicissimo compositus. Omne autem quod componitur, ex inaequalibus componitur. Impossibile est enim plures partes componibiles praecise aequales esse. Non enim essent aut plures aut partes. Neque aequalitas est plurificabilis. Ideo in primo ordine simplicissimo una est trium hypostasum aequalitas, quia impossibile est plures esse aequalitates, quando «pluralitas sequitur alteritatem» et inaequalitatem. Si igitur non potest esse in ordinato seu creato ordine simplex et aequale medium, ideo nec in ternaria progressione concluditur. Sed ultra progreditur in compositionem. Quaternarius autem est immediate a prima progressione exiens et non exiret, nisi ordinata esset progressio. Quare id, quod ordinata progressio de prima ordinatissima exiens requirit, necessario in ipsa quaternaria exsistit. Ideo habet compositum medium, scilicet duo et tria, quae simul sunt medium totius progressionis. Sunt enim unum et duo et tria et quattuor simul decem, duo vero et tria quinque, medietas scilicet de de-
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può essere colto da noi mediante nessun’altra distinzione che non sia quella che si realizza secondo una progressione assolutamente ordinata che inizia dall’uno e finisce nel tre. In questa progressione, il mezzo assolutamente semplice è precisamente equidistante dal principio e dal fine. Il due, infatti è il mezzo precisamente equidistante dall’uno e dal tre ed è precisamente un terzo dell’intero ordine e di tutta la progressione. Noi non possiamo discernere questo ordine divino assolutamente semplice, se non attraverso la progressione [aritmetica] che abbiamo appena descritto. E dal momento che [in Dio] il mezzo ha la caratteristica di essere uguale, come esso non è distinto dall’uguaglianza, così nella sua essenza resta identico al principio e al fine. Non può esservi, infatti, un’uguaglianza precisa fra essenze diverse307. Ora, nessun ordine, che ha dall’ordine assolutamente semplice che abbiamo menzionato il fatto di essere ordine, può avere un mezzo che sia semplice ed uguale al principio e al fine. Ogni ordine, infatti, eccetto quello assolutamente semplice, è composto308. Tutto ciò che è composto, tuttavia, è composto di ineguali. È impossibile, infatti, che una pluralità di parti componibili siano precisamente uguali 309. Se così fosse, non sarebbero una pluralità, né sarebbero parti. Ed anche l’uguaglianza non è moltiplicabile. Per questo, nel primo ordine assolutamente semplice vi è una sola uguaglianza delle tre ipostasi, poiché è impossibile che vi siano più uguaglianze, in quanto «la pluralità comporta alterità» e disuguaglianza310. Se, pertanto, in un ordine ordinato, ossia in un ordine creato, non può esservi un mezzo semplice ed uguale, è chiaro che l’ordine creato non si conclude nella progressione che termina con il tre. Esso, piuttosto, prosegue come un ordine composto. Ora, il numero quattro deriva immediatamente dalla prima progressione [1, 2, 3], e non ne deriverebbe se la progressione non fosse ordinata. Ciò che è richiesto da una progressione ordinata, pertanto, che deriva dalla prima, ordinatissima progressione [ossia la progressione numerica 1, 2, 3], è necessariamente presente nel quattro311. E così, questa progressione [1, 2, 3, 4] ha un mezzo composto, vale a dire il due e il tre, che insieme costituiscono il mezzo dell’intera progressione. L’uno, il due, il tre e il quattro, sommati insieme, danno infatti luogo al dieci; il due e il tre sommati, invece, danno luogo al
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cem. Sic se habent quattuor, quinque, sex, septem, et septem, octo, novem, decem. Et ita vides antedicti rationem. 109 Albertus: Magna est rationis vigorositas, ut video. Sed miror de eo quod dixisti nihil ex aequalibus componi. Nonne ex duobus binariis quaternarius est compositus? Cardinalis: Nequaquam. Omnis enim numerus est aut par aut impar. Et cum componitur, non nisi ex numero componitur, scilicet ex pari et impari sive ex unitate et alteritate. Quantitatem quaternarii esse ex duobus binariis non nego, sed eius substantiam non nisi ex pari et impari. Oportet enim inter partes, quae debent componere aliquid, proportionem esse, ideo et diversitatem. Ob hoc recte Boethius aiebat ex paribus nihil componi. Harmonia enim ex acuto et gravi ad invicem proportionatis componitur. Ita et omnia. Unde quaternarius ex ternario et altero componitur. Ternarius est impar, alter par. Sicut binarius ex uno et altero. Alteritas par dicitur propter casum ab unitate indivisibili in divisibilitatem, quae in pari est. Sic quaternarius ex ternario, scilicet impari et indivisibili, et altero, scilicet divisibili, componitur. Omnis enim numerus ex numero componitur, quia ex uno et altero; unum et alterum numerus est. De his alias meminimus latius scripsisse, maxime in libello De mente. Nunc haec sic repetita sint, ut rationem seu virtutem animae discretivam in numero, qui ex mente nostra est, melius cognoscas ac quod vis illa discretiva ex eodem et diverso et uno et altero composita dicitur uti numerus, quia numerus discre-
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cinque, che è il mezzo del dieci. La situazione è analoga per quanto riguarda la progressione 4, 5, 6, 7, e per quanto concerne la progressione 7, 8, 9, 10. Ed in questo modo puoi vedere la spiegazione di quanto ho detto prima. Alberto. La tua spiegazione è molto efficace, come vedo. Mi meraviglio, tuttavia, del fatto che tu abbia detto che nulla è composto di uguali: non è forse vero che il quattro è composto da due due? Cardinale. Niente affatto. Ogni numero, infatti, è o pari o dispari. E dal momento che è composto, non è composto se non dal numero, vale a dire dal pari e dal dispari, ovvero dall’unità e dall’alterità. Non nego che la quantità del numero quattro risulti dalla moltiplicazione di due per due, ma la sua sostanza non è costituita che dal pari e dal dispari312. È necessario, infatti, che fra le parti che debbono comporre qualcosa vi sia una proporzione e quindi anche una diversità. Ecco perché Boezio diceva giustamente che nulla si compone di uguali313. L’armonia, per esempio, deriva dall’acuto e dal grave che sono in proporzione fra loro314. Lo stesso si può dire per tutto ciò che è composto. Il numero quattro, pertanto, è composto dal numero tre e da un altro numero [quello successivo, ossia il quattro]. Il numero tre è dispari, l’altro numero è pari. Analogamente, il numero due è composto dall’uno e da un altro numero [quello successivo, ossia il due]. L’alterità viene detta pari perché è la caduta dall’unità indivisibile nella divisibilità, che è presente in un numero pari. Allo stesso modo, il quattro è composto dal numero tre, ossia da un numero dispari ed indivisibile, e da un altro numero [quello successivo, il quattro], ossia da un numero divisibile315. Ogni numero, infatti, è composto dal numero, in quanto è composto dall’uno e dall’altro; l’uno e l’altro costituiscono il numero316. Di queste cose mi ricordo di aver scritto più diffusamente altrove, specialmente nel libro La mente317. Ora è opportuno che le ripeta, in modo tale che tu possa riconoscere meglio nel numero, il quale deriva dalla nostra mente, la ragione o la forza discernente dell’anima318; è opportuno, inoltre, affinché tu possa riconoscere meglio che questa forza discernente viene definita come un composto dell’identico e del diverso, dell’uno e dell’altro, proprio come il numero, il quale è tale in virtù della forza discernente della nostra mente. E il numerare della mente consiste nel molti-
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tione mentis nostrae numerus est. Et eius numerare est unum commune multiplicare et plurificare, quod est unum in multis et multa in uno et unum ab altero discernere. Pythagoras advertens nullam posse fieri nisi per discretionem scientiam de omnibus per numerum philosophatus est. Neque arbitror quemquam rationabiliorem philosophandi modum assecutum, quem, quia Plato imitatus est, merito magnus habetur. 110 Albertus: Haec sic ut asseris admitto. Nunc rogo, cum dies ad vesperam tendat, hoc colloquium valere memoriaque dignum delectabili conclusione facito! Cardinalis: Conabor. Et non incidit mihi, quomodo melius quae dixi valere faciam, quam si de valore loquar. Albertus: Optime! Cardinalis: Bonum et nobile atque pretiosum est esse. Ideo omne quod est non est valoris expers. Nihil enim penitus esse potest, quin aliquid valeat. Neque reperiri potest quidquam minimi valoris, ita quod minoris valoris esse nequeat; neque adeo magni valoris quidquam est, quin maioris esse possit. Solus autem valor, qui est valor valorum et qui in omnibus quae valent est et in quo quae valent exsistunt, in se omnem valorem complicat et plus aut minus valere nequit. Hunc igitur absolutum valorem, omnis valoris causam, in centro circulorum omnium occultatum concipito. Et extremum circulum valorem extremum et prope nihil facito, et quomodo in denarium unitrina progressione augetur modo saepe tacto considera, et dulcem speculationem subintrabis! 111 Albertus: Puto, si ad pretium valoris sermonem contraheres, magis nos instrueres. Cardinalis: Forte de pecunia dicere intendis.
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plicare e nel replicare più volte l’uno comune, ossia nel discernere l’uno nei molti e i molti nell’uno, e nel distinguere una cosa dall’altra. Pitagora, essendosi reso conto del fatto che non può darsi alcuna conoscenza delle cose, se non mediante la distinzione, fece filosofia per mezzo del numero. Ed io ritengo che nessuno abbia conseguito un modo di fare filosofia più conforme a ragione319; poiché Platone ha imitato questo metodo, egli viene giustamente ritenuto un grande filosofo. Alberto. Concordo con le cose che hai detto, così come le hai esposte. Ora, giacché il giorno volge alla sera, ti chiedo di conferire ulteriore valore a questo colloquio e di renderlo così degno di essere ricordato, aggiungendo una bella conclusione! Cardinale. Mi sforzerò di farlo. E non mi viene in mente un modo migliore per dar valore alle cose che ho detto, che parlare del valore. Alberto. Benissimo! Cardinale. L’essere è qualcosa di buono, nobile e prezioso. Pertanto, tutto ciò che esiste non è privo di valore. Non può esservi, infatti, assolutamente nulla che non abbia un qualche valore320. E non è neppure possibile trovare qualcosa che abbia un valore così piccolo da non poterne avere uno ancora più piccolo, o trovare qualcosa che abbia un valore così grande da non poterne avere uno ancora più grande321. Soltanto quel valore che è il valore dei valori, che è presente in tutte le cose che valgono e nel quale tutte le cose che valgono esistono, complica in sé ogni valore e non può avere più o meno valore322. Concepisci, dunque, questo valore assoluto, che è la causa di ogni valore, come ciò che [nel nostro gioco della palla] è nascosto nel centro di tutti i cerchi. Ed immagina che il cerchio più esterno sia quello più distante dal valore e sia quasi vicino al nulla, e considera che, mediante una progressione unitaria che giunge fino al dieci, il valore aumenti nel modo che abbiamo appena menzionato323, ed allora penetrerai in una dolce speculazione. Alberto. Ritengo che ci farai capire meglio quello che intendi dire, se concentrerai il tuo discorso sul prezzo del valore. Cardinale. Forse vuoi che io parli del denaro.
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Albertus: Sic volo. Cardinalis: Demum faciam. Sed nunc attende, quomodo valor rerum omnium non est nisi esse ipsum omnium. Et sicut in simpliciter maximo valore uno et penitus incomposito et indivisibili verissime omnis omnium valor exsistit, ita in entitate simplicissima omnium esse. Sicut enim in valore alicuius floreni est valor mille parvulorum denariorum, et in duplo meliori floreno duorum milium, et ita in infinitum, ita in optimo, quo melior esse non posset, infinitorum denariorum valorem esse necesse esset. Et sicut hoc vides verum, ita veraciter et realiter verum esset. Albertus: Utique sic est. 112 Cardinalis: Dum autem tu in te ipso hoc verum verum vides, quid valet ille tuae mentis oculus in sua virtute valorem omnem discernens? Nam in ipso visu valor omnium et valores singulorum sunt, sed non ut in valore valorum. Non enim propterea quia mens videt id quod omnia valet, ideo ipsa omnia valet. Non enim sunt in ipsa valores ut in sua essentia, sed ut in sua notione. Est enim valor ens reale, sicut et valor mentis est ens aliquid et ens reale. Et ita est in deo ut in essentia valoris; et est ens notionale, et quia cognosci potest, et ita est in intellectu ut in cognoscente valorem, non ut in maiori valore aut ut in causa et essentia valoris. Nam per hoc quod intellectus noster cognoscit minorem aut maiorem valorem, propterea non est maior aut minor valor, quia haec cognitio essentiam valori non praestat. 113 Albertus: Nonne haec cognitio maioris valoris, quam sit valor cognoscentis, adauget valorem cognoscentis?
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Alberto. Sì. Cardinale: Lo farò fra un momento. Ora, però, presta attenzione al fatto che il valore di tutte le cose non è altro che l’essere di tutte le cose. E come nel valore assolutamente massimo, che è uno, del tutto privo di ogni composizione e indivisibile, è contenuto nel modo più vero il valore di ogni cosa, così nell’entità assolutamente semplice è contenuto l’essere di ogni cosa324. Per esempio, nel valore di un fiorino è contenuto il valore di mille piccoli denari, mentre in un fiorino che ha il doppio del valore è contenuto il valore di duemila denari, e così via all’infinito. Allo stesso modo, nel fiorino che ha il valore più alto e di cui non vi può essere un fiorino che valga di più dovrebbe essere contenuto il valore di infiniti denari. E come vedi che questo fatto è vero, così esso sarebbe veramente e realmente vero. Alberto. Certamente è come tu dici. Cardinale. Ma se è in te stesso che riconosci questa verità come vera, allora qual è il valore dell’occhio della tua mente che, all’interno della sua forza [mentale], distingue ogni valore esistente? Nella vista della tua mente, infatti, è presente il valore di tutte le cose e di ciascuna di esse considerata singolarmente, ma non nel modo in cui è presente nel valore dei valori325. Il fatto che la mente veda quali sono i valori di tutte le cose non significa che essa sia tali valori. I valori, infatti, non sono presenti nella mente come nella loro essenza, bensì come concetti. Il valore è qualcosa di reale, così come è qualcosa di esistente e di reale il valore della mente, ed è così che il valore è presente in Dio, come nell’essenza del valore. In quanto può essere conosciuto, il valore è anche un ente concettuale, ed è così che esso è presente nell’intelletto, ossia come in ciò che conosce il valore; esso non vi è presente come in un valore più grande, o come nella causa ed essenza del valore. Infatti, che il nostro intelletto conosca un valore più grande o un valore più piccolo non implica che il valore sia più grande o più piccolo, dal momento che tale conoscenza non conferisce l’essere al valore. Alberto. Ma questa conoscenza di un valore che è più grande del valore di colui che conosce non aumenta forse il valore di colui che conosce?
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Cardinalis: Valor cognitionis cognoscentis augetur in eo quod plura cognoscit, sive illa sint maioris sive minoris valoris, quam sit valor cognoscentis. Non enim valor cogniti intrat in valorem cognoscentis, ut faciat valorem cognoscentis maiorem, licet melioretur cognitio. Sicut enim cognoscere malum non facit cognoscentem peiorem aut cognoscere bonum meliorem, facit eum tamen melius cognoscentem. Albertus: Intelligo. Nam sic dicimus aliquem valentem doctorem, licet plures non docti plus eo valeant. Tamen valor intellectualis naturae magnus valde est, quia in ipsa est discretio valorum, quae est mirabilis et cuncta discretione carentia excellens. 114 Cardinalis: Dum profunde consideras, intellectualis naturae valor post valorem dei supremus est. Nam in eius virtute est dei et omnium valor notionaliter et discretive. Et quamvis intellectus non det esse valori, tamen sine intellectu valor discerni, etiam ni quia est, non potest. Semoto enim intellectu non potest sciri an sit valor; non exsistente virtute rationali et proportionativa cessat aestimatio, qua non exsistente utique valor cessaret. In hoc apparet pretiositas mentis, quoniam sine ipsa omnia creata valore caruissent. Si igitur deus voluit opus suum debere aestimari aliquid valere, oportebat inter illa intellectualem creare naturam. 115 Albertus: Videtur quod si deum ponimus quasi monetarium, erit intellectus quasi nummularius. Cardinalis: Non est absurda haec assimilatio, quando concipis deum quasi omnipotentem monetarium, qui de sua excelsa et omnipotenti virtute producere potest omnem monetam. Ac si quis tantae potentiae esset quod de manu sua quamcumque vellet monetam produceret et statueret nummularium habentem in
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Cardinale. Il valore della conoscenza di colui che conosce aumenta nel senso che egli conosce più cose, siano esse di valore più grande o più piccolo del valore rispetto al valore di colui che conosce. Il valore di ciò che è conosciuto, infatti, non entra a far parte del valore di colui che conosce, in modo da rendere il suo valore più grande, benché la sua conoscenza diventi migliore. Per esempio, conoscere il male non rende colui che [lo] conosce peggiore, né conoscere il bene lo rende migliore, ma fa sì, tuttavia, che egli conosca meglio. Alberto. Capisco. Allo stesso modo, infatti, definiamo qualcuno un «insegnante di valore», sebbene molte persone prive di cultura valgano più di lui. Ciononostante, il valore della natura intellettuale è estremamente grande, in quanto ha la capacità di distinguere i valori, e questa capacità è meravigliosa e supera tutto ciò che è privo di tale capacità326. Cardinale. Se consideri a fondo la questione, vedi che il valore della natura intellettuale è il più alto dopo il valore di Dio327. Nella facoltà della natura intellettuale, infatti, è presente, in maniera concettuale e in forma distinta, il valore di Dio e di tutte le cose. E sebbene non sia l’intelletto a conferire l’essere al valore, senza l’intelletto, tuttavia, il valore non può essere riconosciuto, né si può riconoscere il fatto che esso esiste. Se venisse tolto l’intelletto, infatti, non si potrebbe sapere se vi è qualcosa che abbia un valore; se non esiste la facoltà razionale che istituisce proporzioni, viene meno anche ogni capacità valutativa, e senza quest’ultima verrebbe certamente meno anche il valore. Da ciò risulta evidente quanto sia preziosa la mente, dato che, senza di essa, tutte le cose create sarebbero prive di valore328. Pertanto, se Dio voleva che la sua opera venisse stimata come una realtà dotata di valore, allora era necessario che, tra le sue opere, egli creasse la natura intellettuale. Alberto. Se ipotizziamo che Dio sia colui che conia le monete, mi sembra che l’intelletto potrebbe essere il cambiavalute. Cardinale. Questo paragone non è assurdo, se tu concepisci Dio come un coniatore onnipotente, il quale, in virtù del suo potere eccelso e onnipotente, può produrre ogni moneta. Immagina che vi fosse qualcuno dotato di un potere così grande da produrre, con le sue mani, qualunque moneta egli volesse, ed immagina che
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sua virtute omnium monetarum discretionem et numerandi scientiam monetandi arte tantum sibi reservata, nummularius ille nobilitatem monetarum et valorem, numerum, pondus et mensuram, quam a deo moneta haberet, patefaceret, ut pretium ipsius monetae et valor atque per hoc potentia monetarii nota fieret, apta foret similitudo. Albertus: Magna esset huius potentia monetarii, qui in ea contineret omnem omnium monetarum thesaurum. Et ab illo posset producere novas et antiquas, aureas, argenteas et aereas maximi et minimi et medii valoris monetas, manente semper thesauro aeque infinito, inexhauribili et inconsumptibili. Magnaque foret nummularii discretio discernendi has, has omnes quantumcumque varias monetas numerandi, ponderandi et mensurandi omnem omnium valorem. Sed ars dei in infinitum vinceret artem nummularii, quia ars dei faceret esse. Ars nummularii faceret tantum cognosci. 116 Cardinalis: Nonne sic vides alium essendi modum monetae in arte omnipotentis monetarii? Alium in monetabili materia? Alium in motu et instrumentis ut monetatur? Alium ut est actu monetata? Et hi omnes modi circa esse ipsius monetae consistunt. Deinde est alius modus, qui circa illos essendi modos versatur, scilicet ut est ratione discernente monetam. Id quod facit monetam seu numisma, imago seu signum est eius cuius est, quod, si est monetarii, ipsius habet imaginem, puta faciei suae similitudinem, ut Christus nos docet, quando ostenso numismate interrogavit, «cuius» esset «imago», et responsum est «ei Caesaris». Facies notitia est, per faciem discernimus unum ab alio. Una est igitur facies monetarii, in
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egli istituisse un cambiavalute che avesse la capacità di distinguere tutte le monete e che fosse dotato della conoscenza del calcolo, riservando invece solo a se stesso l’arte di coniare le monete. In questo caso, il cambiavalute renderebbe noto il pregio delle monete, e il valore, il peso e la misura329 che ogni moneta ha ricevuto da Dio, in modo tale da far conoscere il prezzo di queste monete e il loro valore e, con ciò, la potenza del coniatore. Un paragone di questo genere sarebbe in effetti appropriato330. A lberto. La potenza di un tale coniatore sarebbe in effetti grande, in quanto egli conterrebbe nella sua potenza l’intero tesoro di tutte le monete. E da questo tesoro egli potrebbe produrre monete nuove e antiche, d’oro, d’argento e di bronzo, di valore grandissimo, piccolissimo e medio, pur restando il tesoro sempre infinito, inesauribile e inestinguibile331. E sarebbe grande anche la capacità del cambiavalute di distinguere queste monete, di contarle tutte, per quanto numerose e differenti esse fossero, di pesarle e di misurare l’intero valore di tutte. L’arte di Dio, tuttavia, sarebbe infinitamente superiore all’arte del cambiavalute, in quanto l’arte di Dio conferirebbe [alle monete] l’essere, mentre l’arte del cambiavalute conferirebbe [alle monete] soltanto il fatto di essere conosciute. Cardinale. Non vedi forse che sono diversi i modi d’essere della moneta: uno nell’arte del coniatore onnipotente, un altro nella materia che può diventare una moneta, un altro nel movimento e negli strumenti utilizzati per produrre la moneta, e un altro ancora è quello della moneta che esiste come tale in atto? E tutti questi modi hanno a che fare con l’essere della moneta. Vi è poi un ulteriore modo, che riguarda sempre i modi di essere che abbiamo appena menzionato, ed è quello che è presente nella ragione che distingue la moneta. Ciò che rende la materia una moneta o un denaro è l’immagine o il segno di colui al quale essa appartiene; se appartiene al coniatore, allora essa reca impressa la sua immagine, ossia il ritratto del suo volto, come ci insegna Cristo, quando, a proposito di una moneta che gli era stata mostrata, chiese di chi fosse l’immagine [impressa su di essa], e gli fu risposto: «Di Cesare»332. Il volto costituisce un segno di riconoscimento; è per mezzo del volto che distinguiamo una persona dall’altra. Per questo, c’è un
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qua cognoscitur et quae ipsum revelat, quae aliter esset invisibilis et incognoscibilis. Et huius faciei similitudo, cum sit in omnibus numismatibus, non nisi notitiam seu faciem monetarii, cuius est moneta, ostendit. Neque aliud est imago quam nomen suprascriptum. Sic dicebat Christus: «Cuius est imago et superscriptio» eius? Responderunt: «Caesaris». 117 Facies igitur et nomen et figura substantiae et filius monetarii idem sunt. Filius igitur est «imago» viva et «figura substantiae» et «splendor» patris, «per quem» pater monetarius facit seu monetat sive signat omnia. Et cum sine signo tali non sit moneta, id unum, quod in omni moneta signatur, est exemplar unicum et formalis causa omnium monetarum. Unde si monetarius fuerit unitas seu entitas, aequalitas, quae naturaliter ab unitate generatur, est causa formalis entium. In aequalitate igitur una et simplici vides veritatem omnium quae sunt aut esse possunt, ut sunt per entitatem signata. Vides et in ipsa aequalitate unitatem, ut in filio patrem. Omnia igitur quae sunt aut esse possunt in illa «figura substantiae» patris creatoris complicantur. Est igitur creator monetarius in omnibus monetis per figuram substantiae eius, sicut signatum unum in multis signis. Nam si in omnibus numismatibus respexero ad quiditatem signati, non nisi unum video, cuius est moneta. Et si ad signa monetarum me converto, plura numismata video, quia unum signatum in pluribus signis signatum video. 118 Sed adverte, quomodo monetabile signatum signo est numisma seu moneta. Puta aes signatum est moneta, signatum scilicet signo
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solo volto del coniatore nel quale egli viene conosciuto e che rivela il coniatore, il quale, altrimenti, sarebbe invisibile e inconoscibile. E dal momento che l’immagine del suo volto è presente su tutte le monete, tale immagine non fa che renderci manifesto il segno di riconoscimento o il volto del coniatore al quale appartiene ogni moneta. E l’immagine [di una moneta] non è altro che il nome che vi è inciso sopra. Per questo, Cristo chiedeva: «Di chi è questa immagine e che cosa vi è scritto sopra?», e gli risposero: «Di Cesare». Il volto del coniatore, dunque, il suo nome, la figura della sua sostanza e suo figlio sono un’unica ed identica cosa. Il figlio, quindi, è l’«immagine» viva, la «figura della sostanza» e lo «splendore» del padre333, «attraverso il quale» il padre coniatore produce, conia o imprime il suo segno su tutte le cose334. E dal momento che, senza un tale segno, non può esservi alcuna moneta, l’unico segno che è impresso su ogni moneta è l’esemplare unico e la causa formale di tutte le monete. Se, pertanto, il coniatore è l’unità o l’entità, allora l’uguaglianza, la quale è generata per natura dall’unità, è la causa formale degli enti. Nell’uguaglianza, che è una e semplice, puoi pertanto vedere la vera natura di tutte le cose che sono o che possono essere, nella misura in cui esse sono state segnate [con l’essere] da colui che è l’entità. Nell’uguaglianza vedi anche l’unità, così come nel figlio vedi il padre335. Tutte le cose che sono o che possono essere, di conseguenza, sono complicate in questa «figura della sostanza» del padre, ossia del creatore. Il creatore, o coniatore, è presente in tutte le monete per mezzo della figura della sua sostanza, così come in molti segni è presente un unico significato che essi designano. Se in tutte le monete, infatti, guardo all’essenza di ciò che esse designano, allora non vedo se non l’unica realtà a cui ogni moneta appartiene. Se, invece, mi volgo a guardare i segni che sono sulle monete, allora vedo la pluralità delle monete, in quanto l’unica realtà che esse designano la vedo designata in una pluralità di segni336. Presta tuttavia attenzione al fatto che, quando su ciò che può essere trasformato in moneta viene impresso il segno, esso diventa allora una moneta o un denaro. Per esempio, un pezzo di rame che viene impresso con il segno di colui che l’ha inciso diventa una moneta; la materia che può diventare moneta diventa una moneta per
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similitudinis signantis; monetabilis materia signo fit numisma. Et dicitur materia signata seu figurata, quae recepit determinationem possibilitatis essendi nummum. Sic video signatum ante signum, in signo et post signum. Ante signum ut veritas, quae est ante suam figuram. In signo ut veritas in imagine. Et post signum ut signatum a signo est signatum. Primum signatum est infinita actualitas. Ultimum signatum est infinita possibilitas. Medium signatum est duplex, aut ut primum est in signo aut ut signum est in ultimo. Primum signatum, quod infinitam dixi actualitatem, dicitur ipsa absoluta necessitas, quae est omnipotens omnia cogens, cui nihil resistere potest. Ultimum signatum, scilicet infinita possibilitas, dicitur et absoluta et indeterminata possibilitas. Inter illos essendi extremos modos sunt duo: Unus est contrahens necessitatem in complexum et vocatur necessitas complexionis, ut necessitas essendi hominem. Illa enim essendi necessitas ad hominem contracta complicat ea, quae ad istum essendi modum sunt necessaria, quae humanitas dicitur. Ita de omnibus. Alius elevans possibilitatem in actum per determinationem et vocatur possibilitas determinata, ut est iste florenus aut iste homo. 119 Considera igitur monetam aliquam, puta papalem florenum, et facito ipsum in tuo conceptu vivum vita intellectuali et quod in se mentaliter respiciat! Tunc se speculando haec et cuncta, quae dicta aut dici possunt, reperiet. Nullum animal est adeo obtusum quod se ab aliis non discernat et in sua specie alia eiusdem speciei
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mezzo del segno [che vi viene impresso]. Viene detta, allora, «materia segnata» o «materia formata», la quale ha ricevuto una determinazione che ha attuato la sua possibilità-di-essere una moneta337. In questo modo, ciò che viene segnato io lo vedo [1] prima del segno, [2] nel segno, e [3] dopo il segno. Prima del segno, lo vedo come la verità che precede la sua raffigurazione. Nel segno, lo vedo come la verità che è presente nella sua immagine. Dopo il segno, come ciò che viene designato dalla cosa che è stata segnata con il suo segno. Ciò che viene segnato per primo è l’attualità infinita. Ciò che viene segnato per ultimo è la possibilità infinita. Ciò che viene segnato nel mezzo è duplice: o esiste nel modo in cui ciò che viene segnato per primo è presente nel suo segno, o esiste nel modo in cui il segno è presente in ciò che viene segnato per ultimo. Ciò che viene segnato per primo, e che io ho detto essere l’attualità infinita, viene chiamato «necessità assoluta», la quale è onnipotente, domina su tutte le cose e ad essa nulla può resistere. Ciò che viene segnato per ultimo, ossia la possibilità infinita, viene chiamato anche «possibilità assoluta o indeterminata». Tra il primo è l’ultimo modo dell’essere ne esistono due: uno è quello che contrae la necessità nel composto, ad esempio la necessità di essere uomo, ed è il modo dell’essere che viene chiamato «necessità del complesso». Infatti, la necessità dell’essere che viene contratta nell’uomo complica in sé tutto ciò che è necessario per quel modo dell’essere che viene definito umanità. Lo stesso vale per tutte le altre cose. Il secondo modo dell’essere è quello che fa passare la possibilità all’atto per mezzo di una determinazione, ed è il modo dell’essere che viene chiamato «possibilità determinata», come nel caso, ad esempio, di «questo» fiorino o di «questo» uomo338. Considera, dunque, una moneta qualsiasi, ad esempio un fiorino papale, e concepiscila con il tuo pensiero come una moneta viva, dotata di vita intellettuale ed in grado di guardare con la sua mente in se stessa. In questo caso, osservando dentro se stessa, troverà queste cose e tutte quelle di cui abbiamo detto o che possono essere dette339. Nessun animale è così ottuso da non distinguere se stesso dagli altri animali e da non riconoscere, all’interno della sua specie, gli altri individui che ne fanno parte340. L’essere vivente che è dotato di vita intellettuale, tuttavia, trova tutte le cose se-
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non cognoscat. Sed vivens vita intellectuali omnia intelligibiliter, hoc est omnium in se notiones reperit. Complicat enim vis intellectiva omnia intelligibilia. Omnia quae sunt, intelligibilia sunt, sicut omnia colorata sunt visibilia. Excedunt aliqua visibilia visum, ut excellens lux. Et aliqua adeo minuta sunt quod non immutant visum; et illa directe non videntur. Videtur enim excellentia lucis solaris negative, quia id quod videtur non est sol, cum tanta sit lucis eius excellentia quod videri nequeat. Sic id quod videtur non est indivisibilis punctus, cum ille sit minor quam quod videri potest. Eo modo intellectus videt negative infinitam actualitatem seu deum et infinitam possibilitatem seu materiam. Media affirmative videt in intelligibili et rationali virtute. Modos igitur essendi, ut sunt intelligibiles, intellectus intra se ut vivum speculum contemplatur. Est igitur intellectus ille nummus, qui et nummularius, sicut deus illa moneta, quae et monetarius. Quare intellectus reperit sibi congenitam virtutem omnem monetam cognoscendi et numerandi. Quomodo autem vivus ille nummus, qui intellectus, in se omnia intellectualiter quaerens reperiat, exemplum aliquale capere potes in his, quae ego in intellectum respiciens propalavi. Quae acutius quam ego subintrans praecisius videre et revelare poterit. Et haec sic de monetario et nummulario dicta sint. 120 Albertus: Abunde quae simpliciter protuli adaptasti. Illud solum pro mea instructione audias. Videtur enim quod velis dicere: Si florenus papalis viveret vita intellectuali, utique se florenum co-
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condo il modo che è proprio dell’intelletto, ossia trova in se stesso le nozioni di tutte le cose341. La facoltà intellettiva, infatti, complica in se stessa tutto ciò che è intelligibile. Tutte le cose che esistono sono intelligibili, così come tutte le cose colorate sono visibili. Alcune cose visibili [tuttavia] superano la capacità della vista, come per esempio la luce troppo intensa, mentre altre cose sono così piccole che non producono affezioni nel senso della vista, per cui non vengono viste direttamente. Ad esempio, la luce del sole, data l’intensità della sua forza, viene vista solo negativamente; ciò che viene visto, infatti, non è il sole, perché l’intensità della sua luce è così grande che non è possibile vederlo. Allo stesso modo, il punto indivisibile non è qualcosa che possa essere visto, in quanto esso è più piccolo rispetto a ciò che noi siamo in grado di vedere. Ed è in questo modo, ossia negativamente, che l’intelletto vede l’attualità infinita, ovvero Dio, e la possibilità infinita, ovvero la materia. Vede, invece, gli esseri che si trovano tra Dio e la materia in modo positivo [affermativo] attraverso la facoltà intellettiva e quella razionale342. L’intelletto, pertanto, contempla dentro di sé i modi dell’essere, nella misura in cui sono intelligibili, come se fosse uno specchio vivo. L’intelletto, quindi, è quella moneta che è anche il cambia valute, così come Dio è quella moneta che è anche il coniatore. Per questo motivo, l’intelletto scopre di avere in se stesso una facoltà innata, grazie alla quale è in grado di conoscere e di numerare ogni moneta343. Dalle cose che ho spiegato a proposito dell’intelletto puoi ricavare qualche altro esempio per comprendere in che modo quella moneta viva che è l’intelletto, nel condurre la sua ricerca, trovi tutte le cose presenti in se stessa in maniera intellettuale. Qualcuno che sia grado di penetrare in questi argomenti in maniera più acuta di quanto non abbia fatto io, potrà vederli e spiegarli in modo più preciso. Queste sono le cose che volevo dire a proposito del coniatore e del cambiavalute. Alberto. Tu hai trasformato in un discorso ricco ciò che io ho detto con semplicità. Ascolta soltanto ciò che sto per dire, in modo che tu possa istruirmi. Mi sembra, infatti, che tu voglia dire che, se il fiorino papale fosse vivo e fosse dotato di una vita intellettuale, esso saprebbe certamente di essere un fiorino e saprebbe, pertanto, di essere la moneta coniata da colui di cui porta impresso il segno e
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gnosceret et ideo monetam illius, cuius signum et imaginem haberet. Cognosceret enim quod a se ipso esse floreni non haberet, sed ab illo, qui suam imaginem ei impressisset, et per hoc quod in omnibus vivis intellectibus similem videret imaginem, eiusdem omnes monetas esse cognosceret. Unam igitur faciem in signis omnium monetarum videns unam aequalitatem, per quam omnis moneta esset actu constituta, videret omnis possibilis eiusdem monetae causam; etiam bene videret, cum sit moneta monetata, quod fieri potuit moneta et fuit prius monetabilis antequam actu monetata; et ita in se videret materiam, quam impressio signi determinavit esse florenum; et cum sit moneta eius, cuius est signum, tunc esse suum haberet a veritate, quae est in signo, non a signo materiae impresso quodque una veritas in variis signis varie materiam determinat. Non enim possunt esse plura signa, nisi concomitetur pluralitatem varietas, nec potest veritas in variis signis nisi varie materiam determinare. Ex quo evenit non posse nisi omne numisma cum alio numismate concordare, cum sint nummi concordantes in eo quod eiusdem sunt monetae, et differentes, cum inter se sint varii. Talia quidem et multa alia in se vivus ille florenus videret. 121 Cardinalis: Plane cuncta quae dixi resumpsisti. Singularius tamen memoriae commenda, quomodo non est nisi una vera et prae cisa ac sufficientissima forma omnia formans, in variis signis varie resplendens et formabilia varie formans determinansque seu in actu ponens.
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l’immagine. Saprebbe, infatti, di non avere da se stesso l’essere che è proprio di un fiorino, ma saprebbe di averlo ricevuto da colui che ha impresso su di esso la sua immagine344. E poiché un tale fiorino vedrebbe un’immagine simile in tutti gli intelletti vivi, saprebbe che tutte le monete derivano dallo stesso coniatore345. Pertanto, vedendo nei segni di tutte le monete un unico volto, vedrebbe che la causa di ogni possibile moneta, prodotta dallo stesso coniatore, è un’unica uguaglianza, grazie alla quale ogni moneta verrebbe costituita in atto. Inoltre, essendo una moneta coniata, vedrebbe che esso poté-essere-fatto una moneta e che, prima di essere una moneta coniata in atto, è stato una moneta coniabile. E, in questo modo, vedrebbe in se stesso la materia che è stata determinata mediante il segno che è stato impresso su di essa in modo tale che potesse essere un fiorino. E il fiorino saprebbe anche che vi è un’unica vera natura che, nei diversi segni, determina la materia in diversi modi. Non può infatti esservi una molteplicità di segni, senza una differenza che accompagni la molteplicità; e, d’altra parte, nei diversi segni la vera natura non può determinare la materia che in modi diversi. Da ciò deriva che ogni moneta non può che concordare con qualunque altra, in quanto tutte le monete concordano nel fatto di essere prodotte dallo stesso coniatore, anche se poi esse differiscono per le loro caratteristiche individuali 346. Queste e molte altre cose vedrebbe il fiorino in se stesso, se fosse vivo. Cardinale. Hai riassunto con chiarezza ciò che ho detto. Tieni tuttavia a mente, in modo particolare, che non vi è che un’unica vera forma [di tutte le cose], precisa e del tutto sufficiente [per tutte]347: essa forma tutte le cose, risplende in modi diversi nei diversi segni, e forma in modi diversi tutte le cose che possono essere formate, le determina e le fa passare all’atto.
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Capitulum I
Accipe breve Compendium continens circa quae consideratio tua versari debeat. Si proficere cupis, primo firma id verum, quod sana mens omnium hominum attestatur, puta singulare non est plurale nec unum multa; ideo unum in multis non potest esse singulariter seu uti in se est, sed modo multis communicabili. Deinde negari nequit, quin prius natura res sit quam sit cognoscibilis. Igitur essendi modum neque sensus neque imaginatio neque intellectus attingit, cum haec omnia praecedat. Sed omnia, quae attinguntur quocumque cognoscendi modo, illum priorem essendi modum tantum significant. Et hinc non sunt ipsa res, sed similitudines, species aut signa eius. Igitur de essendi modo non est scientia, licet modum talem esse certissime videatur. 2 Habemus igitur visum mentalem intuentem in id, quod est prius omni cognitione. Quare qui id, quod sic videt, in cognitione reperire satagit, se frustra fatigat, sicut qui colorem solum visibilem etiam manu tangere niteretur. Habet se igitur visus mentis ad illum essendi modum quasi ut visus sensibilis ad lucem, quam certissime esse videt et non cognoscit. Praecedit enim omnia, quae visu tali cognosci possunt. Illa etiam, quae per ipsum cognoscuntur, signa sunt ipsius lucis. Colores enim, qui visu cognoscuntur, signa sunt
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Capitolo i Ricevi questo breve Compendio, che contiene gli argomenti sui quali dovrebbe soffermarsi la tua attenzione1. Se desideri fare progressi, tieni fermo in primo luogo ciò che la mente retta di tutti gli uomini riconosce come vero2: ad esempio, che il singolare non è plurale e che l’uno non è molti; per questo motivo, nelle cose molteplici l’uno non può essere presente in maniera singolare o come esso è in se stesso, ma può essere presente solo in quel modo che è comunicabile ai molti3. Inoltre, non si può negare che, per natura, una cosa esista prima di essere conoscibile4. Per questo motivo, il modo di essere non può essere colto né dai sensi, né dall’immaginazione, né dall’intelletto, dal momento che esso precede tutte queste facoltà. Ma tutto ciò che viene colto mediante una qualsiasi forma di conoscenza non fa che esprimere quel modo di essere anteriore. Di conseguenza, ciò che viene colto non è la realtà stessa, ma sono piuttosto similitudini, forme o segni della realtà5. Pertanto, non c’è alcuna conoscenza del modo di essere, sebbene si veda in maniera assolutamente certa che un tale modo di essere esiste6. Noi abbiamo quindi una visione mentale che scorge in maniera intuitiva ciò che precede ogni conoscenza7. Per questo motivo, chi si sforza di trovare nella conoscenza ciò che egli vede in questo modo [nella visione mentale], costui si affatica invano, come accadrebbe a chi cercasse di toccare con la mano un colore che è qualcosa, invece, che può essere solamente visto. Il rapporto che la vista della mente ha con quel modo di essere è pertanto simile a quello che la vista sensibile ha con la luce: la vista sensibile vede con assoluta certezza che c’è la luce, ma non ne ha alcuna conoscenza8. La luce, infatti, precede tutto ciò che può essere conosciuto mediante la vista. Inoltre, le cose che vengono conosciute attraverso la vista sono segni della luce9. Ad esempio, i colori che si conoscono con la vista sono segni e punti terminali della luce in un mezzo traspa-
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et termini lucis in diaphano. Ponas igitur solem patrem esse sensibilis lucis, et in eius similitudine concipe deum patrem rerum lucem omni cognitione inaccessibilem, res autem omnes illius lucis splendores, ad quos se habet visus mentis sicut visus sensus ad lucem solis. Et ibi sistas considerationem circa essendi modum omni cognitioni suprapositum. 3
Capitulum II
Res igitur, ut cadit in notitia, in signis deprehenditur. Oportet igitur, ut varios cognoscendi modos in variis signis quaeras. Nam cum nullum signum adeo sufficienter modum essendi designet, sicut designari potest, si meliori modo, quo fieri potest, ad cognitionem perveniri debet, per varia signa hoc fieri necesse est, ut ex illis melius notitia haberi queat, sicut melius ex quinque sensibilibus signis sensibilis res cognoscitur quam ex uno aut duobus. Requirit autem perfectum esse alicuius rei, ut cognoscere possit, puta cum perfectum animal sine nutrimento vivere nequeat, necesse est, quod cibum suum cognoscat. Qui cum non reperiatur in omni loco, habebit animal necessario modum se movendi de loco ad locum et quaerendi. Ad quae sequitur, quod habeat sensus omnes, ut convenientem cibum visu, auditu, odoratu, gustu tactuque attingat. 4 Et quoniam animalia eiusdem speciei se mutuo fovent et iuvant, ut melius vivant, oportet, ut speciem suam cognoscant et se mutuo, quantum perfectio speciei deposcit, audiant et intelligant. Gallus enim alia voce convocat gallinas, dum invenit pastum, et alia de milvo, quem ex umbra praesentem percipit, eas avisat, ut fugiant.
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rente10. Considera pertanto il sole come se fosse il padre della luce sensibile e, sulla base di questa similitudine, concepisci Dio, il padre delle cose, come una luce inaccessibile ad ogni forma di conoscenza11, e tutte le cose, invece, come dei riflessi di questa luce, riflessi ai quali la vista della mente si rapporta come la vista sensibile si rapporta alla luce del sole. E qui ferma le tue considerazioni circa il modo di essere che è situato al di sopra di ogni forma di conoscenza.
Capitolo ii Una cosa, pertanto, nella misura in cui rientra nell’ambito della conoscenza, viene appresa mediante dei segni12. Bisogna, pertanto, che tu ricerchi le diverse forme di conoscenza nei diversi segni. Infatti, nessun segno designa il modo di essere in maniera adeguata a come esso può essere designato; se si deve pertanto pervenire alla conoscenza nel modo migliore in cui è possibile pervenirvi, è necessario che ciò avvenga mediante una varietà di segni, in maniera tale che si possa acquisire da essi una conoscenza migliore, così come una cosa sensibile viene conosciuta meglio attraverso i segni sensibili dei cinque sensi piuttosto che attraverso uno solo di essi. Ora, l’essere pienamente sviluppato di alcune realtà richiede che esse siano in grado di conoscere; ad esempio, dal momento che un animale pienamente sviluppato non può vivere senza nutrirsi, è necessario che esso riconosca il proprio cibo. E dato che il cibo non si trova ovunque, l’animale dovrà avere un modo d’essere che gli consenta di muoversi da un luogo ad un altro e di andare alla ricerca del cibo. Da ciò segue che l’animale deve avere tutti i sensi per poter acquisire il cibo che gli è adatto con la vista, l’udito, l’odorato, il gusto e il tatto13. E poiché gli animali che appartengono alla stessa specie si sostengono e si assistono l’un l’altro per poter vivere meglio, è necessario che essi riconoscano la propria specie e che siano in grado di ascoltarsi e di comprendersi tra di loro, nei limiti richiesti dalla perfezione della loro specie14. Il gallo, ad esempio, chiama le galline con un tono di voce quando ha trovato da mangiare15, con un altro tono quando le avverte di fuggire dal falco, di cui ha percepi-
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Et quia nobiliori animali est maior cognitio necessaria, ut bene sit, hinc hominem inter cuncta maximam notitiam habere oportet. Nam sine artibus mechanicis et liberalibus atque moralibus scientiis virtutibusque theologicis bene et feliciter non subsistit. Cum igitur homini cognitio plus ceteris sit necessaria, hinc «omnes homines natura scire desiderant». Quibus traditio doctrinae convenit, ut indoctus a doctiori informetur. Quae cum non nisi per signa fieri possit, ad cognitionem signorum descendamus. 5 Signa omnia sensibilia sunt et aut naturaliter res designant aut ex instituto. Naturaliter, uti signa, per quae in sensu designatur obiectum. Ex instituto vero, uti vocabula et scripturae et omnia, quae aut auditu aut visu capiuntur et res, prout institutum est, designant. Naturalia signa naturaliter nota sunt sine omni alio doctore, sicut signum designans colorem omnibus videntibus notum est et designans vocem omnibus audientibus – ita de aliis sensibus – et vox laetitiae, ut risus, et tristitiae, uti gemitus cum fletu, et talia. Alia vero signa, quae ad designandum ad placitum sunt instituta, quibus institutio non est nota, non innotescunt nisi arte aut doctrina. Et quoniam necesse est signa omnia, per quae tradi debet notitia, nota esse magistro et discipulo, erit prima doctrina circa talium signorum notitiam. Quae ideo prima, quia sine ipsa nihil tradi potest et in eius perfectione omne, quod tradi potest, includitur.
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to la presenza vedendone l’ombra. E dal momento che agli animali superiori è necessaria, per poter vivere bene, una maggiore conoscenza, per questo l’uomo è l’essere che, tra tutti gli animali, ha bisogno di possedere le conoscenze maggiori. Infatti, senza le arti meccaniche e le arti liberali16 e senza le scienze morali e le virtù teologiche l’uomo non può avere una vita buona e felice. Dal momento che, quindi, la conoscenza è necessaria agli uomini più che agli altri animali, per questo tutti gli uomini desiderano per natura conoscere17. E ciò che caratterizza in senso proprio gli uomini è il fatto che essi sono in grado di trasmettere le loro conoscenze, in modo tale che la persona non istruita possa essere informata da quella più istruita. E dal momento che questa trasmissione delle conoscenze può avvenire solo per mezzo di segni, soffermiamoci in modo particolare sulla nostra conoscenza dei segni. Tutti i segni sono percepibili sensibilmente e designano le cose o in modo naturale o per convenzione18. In modo naturale, quando si tratta di segni con i quali si designa un oggetto sulla base di una percezione [di esso]; per convenzione, invece, quando si tratta di parole o di scritture e di tutti quei segni che vengono colti con l’udito e con la vista, i quali designano una cosa a seconda di come si è stabilito per convenzione. I segni naturali sono riconosciuti in modo naturale, senza bisogno di nessun altro maestro; così, un segno che designa un colore è riconosciuto da tutti coloro che hanno la vista e un segno che designa un suono è riconosciuto da tutti coloro che hanno l’udito, e lo stesso vale per gli altri sensi; un segno naturale, inoltre, è il suono che esprime gioia, come il riso, e il suono che esprime tristezza, come il gemito, ed altre cose di questo genere19. Gli altri segni, invece, che sono stati istituiti in modo convenzionale e arbitrario per designare le cose, a coloro ai quali non è nota la convenzione diventano noti solo mediante l’arte e l’insegnamento. E dal momento che è necessario che tutti i segni, mediante i quali dev’essere trasmessa la conoscenza, siano noti sia al maestro che al discepolo, il primo insegnamento riguarderà la conoscenza di tali segni. Questo insegnamento è il primo perché, senza di esso, non può essere trasmessa alcuna conoscenza e perché, nella perfezione di tale insegnamento, è incluso tutto ciò che può essere trasmesso.
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Capitulum III
Oportet autem ut primos nostros parentes, qui perfecte creati fuerunt, non solum a deo perfectionem naturae, sed et scientiae signorum talium habuisse, per quae sibi mutuo conceptus suos panderent et quam scientiam filiis et posteris tradere possent. Unde pueros, quam cito fari possunt, artis dicendi capaces videmus, quia prima et magis necessaria ad bene essendum scientia. Nec absurdum videtur, si creditur primam humanam dicendi artem adeo fuisse copiosam ex multis synonymis, quod linguae omnes postea divisae in ipsa continebantur. Omnes enim linguae humanae sunt ex prima illa parentis nostri Adae, scilicet hominis, lingua. Et sicut non est lingua, quam homo non intelligat, ita et Adam, qui idem quod homo, nullam, si audiret, ignoraret. Ipse enim vocabula legitur imposuisse. Ideo nullum cuiusque linguae vocabulum ab alio fuit originaliter institutum. Nec de Adam mirandum, cum certum sit dono dei multos linguarum omnium peritiam subito habuisse. Nulla etiam naturalior ars faciliorque est homini quam dicendi, cum illa nullus perfectus homo careat. 7 Neque haesitandum primos parentes etiam artem scribendi vocabula seu designandi habuisse, cum illa humano generi multa conferat adiumenta. Per eam enim praeterita et absentia praesentia fiunt. Unde sicut prima scientia est designandi res in vocabulis, quae aure percipiuntur, ita est secunda scientia in vocabulorum visibilibus signis, quae oculis obiciuntur. Et haec remotior est a natura, quam tardius pueri assequuntur et non nisi intellectus in ipsis vigere incipiat. Plus igitur habet de intellectu quam prima. In-
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Capitolo iii I nostri progenitori, che furono creati in modo perfetto, devono aver ricevuto da Dio non solo una natura perfetta, ma anche una conoscenza perfetta di tali segni [naturali e convenzionali], grazie ai quali essi potevano comunicarsi apertamente l’un l’altro i propri pensieri, conoscenza che essi hanno potuto trasmettere ai figli e ai posteri20. Per questo, osserviamo che i bambini piccoli, non appena possono articolare dei suoni distinti, sono in grado di apprendere l’arte del parlare, perché questo tipo di conoscenza è quella primaria ed è quella più necessaria per vivere bene. E non sembra neppure assurdo credere che la prima arte umana del parlare fosse talmente ricca di così tanti sinonimi da contenere in se stessa tutte le lingue che in seguito si sono separate. Tutte le lingue umane, infatti, derivano da quella prima lingua del nostro padre Adamo, ossia dell’uomo. E come non c’è una lingua che l’uomo non comprenda, così anche Adamo, il quale s’identifica con l’uomo, non ne avrebbe ignorata nessuna, se l’avesse udita21. Leggiamo, infatti, che fu Adamo ad imporre i nomi22. Per cui nessun nome di nessuna lingua è stato originariamente istituito da qualcun altro. E non bisogna neppure stupirsi di Adamo, in quanto è certo che, per dono di Dio, molti altri uomini hanno avuto improvvisamente la capacità di parlare tutte le lingue23. Inoltre, non c’è nessun’arte che sia per l’uomo più naturale e più facile di quella del parlare, in quanto nessun uomo pienamente sviluppato è privo di tale arte. Inoltre, non dobbiamo neppure dubitare del fatto che i nostri progenitori abbiano posseduto anche l’arte della scrittura o del designare le parole, dal momento che tale arte arreca molti vantaggi al genere umano24. Grazie alla scrittura, infatti, le cose passate e quelle assenti diventano presenti. Quindi, come la nostra prima forma di conoscenza consiste nel designare le cose con parole che vengono percepite dall’orecchio, così la nostra seconda forma di conoscenza consiste nel designare le cose mediante i segni visibili delle parole che vengono percepite dagli occhi. Questa seconda forma di conoscenza è più distante dalla natura, e i bambini vi giungono più lentamente e solo quando in essi inizia a diventare attivo l’intelletto. Questa conoscenza, quindi, dipende dall’intellet-
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ter naturam igitur et intellectum, qui est creator artium, hae artes cadunt, quarum prima propinquior naturae, secunda propinquior intellectui. Facit autem intellectus in homine in signo sensibili auditus, scilicet sono, artem primam, quia animal suas affectiones in illo signo naturaliter pandere nititur. Unde confusum signum ars dearticulat et variat, ut melius varia desideria communicet. Ita adiuvat naturam. Et quoniam signum illud, in quo haec ars ponitur, prolatione cessat a memoriaque labitur et ad remotos non attingit, remedia intellectus alia arte, scilicet scribendi, addidit et illam in signo sensibili ipsius visus collocavit. 8
Capitulum IV
Considerans autem signa sensibilia quomodo ab obiecto ad sensum perveniunt, reperiet res corporales splendescere actu aut habitu, actu ut lucida, potentia ut colorata. Neque aliqua res corporalis penitus est expers lucis aut coloris, qui ex luce est. Non tamen color, nisi luce iuvetur, splendorem per visum nostrum perceptibilem de se mittit. Splendor autem subito et a remotis valde per rectam lineam proicitur, ad cuius perceptionem sensus visus naturaliter est adaptatus. Sonus vero a remotis orbiculariter se diffundit, ad cuius sensationem sensus auditus creatus est. Vapor vero se minus remote diffundit et odoratu percipitur, tactu vero tangibilia propinquiora et gustu interior sapor. Haec mirabili providentia naturae ad bene esse animalium sic ordinata sunt. Nam cum nul-
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to più di quanto vi dipenda la prima. Queste due arti si collocano tra la natura e l’intelletto, il quale è il creatore delle arti, e di esse la prima è più vicina alla natura, la seconda è più vicina all’intelletto. Nel caso dell’uomo, tuttavia, l’intelletto costruisce quella prima arte per mezzo di un segno percepibile all’udito, ossia per mezzo del suono, e questo perché la nostra natura animale si sforza di manifestare in modo naturale i suoi sentimenti mediante quel tipo di segno25. Per questo, la [prima] arte articola un segno confuso e lo modifica nei modi più diversi, in maniera tale da poter comunicare meglio i diversi desideri. In questo modo, l’arte coadiuva la natura. E dal momento che il segno, al quale viene affidata questa arte, svanisce una volta che lo si è pronunciato, sfugge alla memoria e non raggiunge coloro che sono lontani, l’intelletto aggiunse come rimedio un’altra arte, ossia quella della scrittura, e assegnò tale arte all’ambito dei segni sensibili accessibili alla vista.
Capitolo iv
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Chi tuttavia considera in che modo i segni percepibili sensibilmente giungono da un oggetto ai sensi26, constaterà che gli oggetti naturali emettono una luminosità, o in atto o perché ne hanno una predisposizione: in atto, come nel caso delle cose luminose, in potenza, come nel caso delle cose colorate. E non c’è alcun oggetto materiale che sia completamente privo della luce o del colore, che deriva dalla luce27. Il colore, tuttavia, se non è coadiuvato dalla luce, non emette da sé una luminosità che possa essere percepita dalla nostra vista. Ora, la luminosità si propaga istantaneamente e anche da oggetti molto lontani lungo una linea retta, e il nostro senso della vista è per natura predisposto a percepirla. Il suono, invece, si diffonde da oggetti distanti in modo circolare, e per la sua percezione è stato creato il senso dell’udito. Il vapore, poi, si diffonde da meno lontano e viene percepito dal senso dell’odorato, mentre con il senso del tatto vengono percepiti gli oggetti tangibili che sono più vicini, e con il senso del gusto [viene percepito] il sapore, che è ancora più vicino. Tutto ciò è stato disposto in questo ordine dalla straordinaria provvidenza della natura perché gli animali potessero vivere bene. Infatti, dal momento che nessuna cosa può es-
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la res, uti in se est, sit multiplicabilis et ad bonum ipsius esse expediat rerum notitiam haberi, quod res, quae per se in notitiam alterius intrare nequeunt, per suas designationes intrent. Quare oportet inter sensibile obiectum et sensum esse medium, per quod obiectum speciem seu signum sui multiplicare possit. Et quoniam haec non nisi praesente obiecto fiunt, nisi haec signa sic possent annotari, quod etiam recedente obiecto remaneant signata, non maneret rerum notitia. 9 In istis igitur signorum designationibus in interiori phantastica virtute manent res designatae, uti vocabula manent in charta scripta prolatione cessante; quae remanentia memoria potest appellari. Sunt igitur signa rerum in phantastica signa signorum in sensibus. Nihil enim est in phantastica, quod prius non fuit in sensu. Ideo caecus a nativitate non habet phantasma coloris et imaginari nequit colorem. Signa igitur sensibilia licet abstractiora sint quam materialia sensibilia, non tamen penitus separata. Ideo et visus aliquantulum coloratus est, sed imaginatio coloris penitus colore caret. Quare signa rerum in imaginatione seu phantastica remotiora sunt a materia et magis formalia, hinc quoad sensibilia minus perfecta et quoad intelligibilia perfectiora. 10 Non tamen sunt penitus abstracta; nam imaginatio coloris licet nihil habeat qualitatis coloris, tamen non caret omni connotatione, quae sentitur. Nihil enim potest imaginari, quod neque moveatur neque quiescat et quod non sit quantum, scilicet aut magnum aut
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sere moltiplicata così com’è in se stessa 28, e dal momento che, d’altra parte, avere una conoscenza delle cose è di giovamento per lo stesso ben-essere di un animale, è necessario che le cose, che non possono entrare da se stesse nella conoscenza di un altro ente, vi entrino attraverso i segni con i quali vengono designate. Per questo motivo, bisogna che tra l’oggetto sensibile e l’organo di senso vi sia un mezzo, mediante il quale l’oggetto possa moltiplicare una forma o un segno di se stesso29. E dal momento che questi segni vengono moltiplicati solo quando l’oggetto è presente, se non fosse possibile trascriverli, in modo tale che essi rimangano impressi anche quando l’oggetto non è più presente, non resterebbe più alcuna conoscenza delle cose. Pertanto, gli oggetti designati permangono nella nostra facoltà interiore della fantasia grazie a questi segni che li designano, così come le parole restano scritte sulla carta anche quando si smette di pronunciarle. Questo qualcosa che permane lo si può chiamare memoria30. Pertanto, i segni delle cose presenti nella facoltà immaginativa sono i segni di quei segni che si trovano nei sensi. Nella facoltà immaginativa, infatti, non c’è nulla che prima non sia stato nei sensi31. È per questo che un uomo che sia cieco dalla nascita non ha alcuna immagine del colore e non può rappresentarselo32. I segni percepibili sensibilmente, pertanto, sebbene siano più astratti degli oggetti materiali che percepiamo sensibilmente, non ne sono tuttavia del tutto separati. Per questo, anche la vista è, almeno in piccola parte, colorata, mentre l’immagine del colore è del tutto priva di colore33. Pertanto, i segni delle cose che si trovano nella facoltà dell’immaginazione o fantasia sono più distanti dalla materia e sono più formali, per cui sono meno perfetti rispetto alle cose percepibili sensibilmente, e sono più perfetti rispetto alle cose intelligibili. Ciononostante, essi non sono del tutto astratti [separati dalla materia]; infatti, sebbene l’immagine di un colore non abbia nulla della qualità del colore, essa non è tuttavia priva di ogni carattere che connota ciò che viene percepito sensibilmente. L’immaginazione, infatti, non si può rappresentare nulla che non sia o mosso o in quiete e che non abbia un carattere quantitativo, ovvero che non sia o grande o piccolo, anche se l’oggetto rappresentato nell’imma-
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parvum, licet sit sine terminatione tali, quae in sensibilibus reperitur. Nihil enim adeo parvum esse potest, cuius medietatem imaginatio non attingat, aut adeo magnum, cuius duplum non imaginetur. In omnibus autem perfectis animalibus ad signa illa phantastica, quae sunt signa signorum sensuum, pervenitur, ut notitia non careat sibi opportuna. Solus vero homo signum quaerit ab omni materiali connotatione absolutum penitusque formale, simplicem formam rei, quae dat esse, repraesentans. Quod quidem signum, sicut est remotissimum quoad res sensibiles, est tamen propinquissimum quoad intellectuales. 11
Capitulum V
Oportet autem, ut advertas quomodo signum sensibile est prius confusum et genericum quam proprium et specificum. Sicut signum verbi est prius signum soni, dum vox a remotis auditur; deinde dum propinquius auditur, fit signum soni articulati, quod vox dicitur; post adhuc propinquius fit signum vocis alicuius linguae; ultimo fit signum specialis verbi; sic de omnibus. Et licet intervalla temporis saepe non sentiantur propter miram celeritatem, non tamen potest signum perfectum esse, nisi de confuso ad speciale perveniat. Unius igitur et eiusdem immultiplicabilis rei notae et signa sunt varia, per quae innotescit, scilicet generica atque specifica, inter quae media alia magis generica et alia magis specifica cadunt. Cum autem perfectio signorum recipiat magis aut minus, nullum signum umquam erit ita perfectum et speciale, quin possit esse perfectius. Singularitatis igitur, quae non recipit magis et minus, nullum est dabile signum. Et ideo tale non est per se cognoscibile, sed per accidens, puta Plato, qui non recipit magis et
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ginazione è privo di quei limiti che si riscontrano negli oggetti sensibili. Nulla, infatti, può essere tanto piccolo che l’immaginazione non ne colga la metà, o tanto grande che non se ne possa immaginare il doppio. In tutti gli animali evoluti la conoscenza giunge fino a questi segni presenti nella facoltà immaginativa, i quali sono i segni dei segni presenti nei sensi, in modo tale che gli animali non siano privi del tipo di conoscenza che è ad essi utile. Solo l’uomo, invece, ricerca un segno che sia libero da ogni connotazione materiale e che sia del tutto formale: un segno che rappresenti la semplice forma di una cosa, quella forma che dà alla cosa l’essere. Questo segno è certamente lontanissimo dagli oggetti percepibili sensibilmente, ma è vicinissimo alle realtà conoscibili con l’intelletto.
Capitolo v34
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Bisogna tuttavia che tu ponga mente al fatto che il segno percepibile sensibilmente è confuso e generico prima di diventare proprio e specifico35. Ad esempio, il segno costituito da una parola è anzitutto il segno di un suono, quando la voce viene udita da lontano; poi, quando la si sente più da vicino, esso diventa il segno di un suono articolato, che chiamiamo parola; poi, quando è ancora più vicina diventa il segno di una parola che appartiene ad una qualche lingua, ed infine diventa il segno di una parola specifica; lo stesso vale per tutti i segni percepibili sensibilmente36. E sebbene gli intervalli di tempo non vengano spesso avvertiti, a motivo della straordinaria rapidità con la quale si succedono, un segno, tuttavia, non può essere perfetto se non passa da ciò che è confuso a ciò che è specifico. Pertanto, di un unico e identico oggetto, che non può essere moltiplicato, ci sono diverse caratteristiche e vari segni attraverso i quali esso viene conosciuto, ossia segni generici e segni specifici, e in mezzo ad essi vi sono dei segni intermedi, alcuni dei quali sono più generici, altri più specifici. Tuttavia, dal momento che la perfezione dei segni ammette un più e un meno, nessun segno sarà mai così perfetto e specifico da non poter essere più perfetto. Della singolarità, che non ammette un più e un meno, non può darsi pertanto alcun segno. Per questo, ciò che è singolare non è conoscibile per sé, ma solo attraverso un accidente; ad esempio, Platone, che
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minus, non videtur nisi per accidens in signis visibilibus, quae ei accidunt. 12 Omne igitur, quod sensu aut imaginatione attingitur, cum non nisi in signis, quae magis et minus recipiunt, cognoscatur, sine signis quantitatis non attingitur. Signa igitur qualitatis, quae ad sensum perveniunt, sine signis quantitatis esse nequeunt. Sed signa quantitatis non sunt per se in sensibilibus, sed per accidens, cum qualitas sine quantitate non possit esse. Signa vero quantitatis non requirunt signa qualitatis; ideo sine ipsis esse possunt. Quare res quanta signo quantitatis in notitiam devenit, et sic per se incognoscibile per accidens innotescit. Magnitudine igitur et multitudine sublata nulla res cognoscitur. 13 Hoc etiam repetere utile videtur, scilicet quod nec huius singularis quantitatis signum seu species naturalis potest esse singularis, cum nullum singulare sit plurificabile aut multiplicabile, sive sit substantia aut quantitas aut qualitas. Licet igitur quantitatis sit species et signum, non tamen ut huius quantitatis. Singulariter igitur quanta signo generalis quantitatis notantur et cognoscuntur. Ita singulariter rubea signo universalis rubedinis. Unde cum nulla res sit eiusdem quantitatis aut qualitatis cum alia et cuiuslibet rei singularis sit quantitas singularis, non est quantitas aliquid generale in re, sed in cognitione seu specie et signo. Parvum igitur et magnum species habent, licet non hoc parvum et hoc magnum, quae sunt singulares quantitates; sed per speciem seu signum magni hoc magnum et parvi hoc parvum cognoscitur.
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non ammette un più e un meno, viene visto solo attraverso un accidente, ossia per mezzo dei segni visibili che intervengono a caratterizzarlo come suoi accidenti37. Tutto ciò che viene colto con i sensi e con l’immaginazione non viene pertanto colto senza i segni della quantità, dal momento che viene conosciuto solo per mezzo di segni che ammettono un più e un meno. I segni della qualità che giungono ai sensi non possono quindi essere presenti senza i segni della quantità. Negli oggetti dei sensi, tuttavia, i segni della quantità sono presenti non per se stessi, ma per accidente, per il fatto cioè che non può esserci qualità senza quantità. I segni della quantità, invece, non hanno bisogno dei segni della qualità, per cui possono stare senza di essi. Pertanto, un oggetto che abbia una quantità giunge alla nostra conoscenza per mezzo di un segno della sua quantità, ed è in questo modo che ciò che è per se stesso inconoscibile viene conosciuto attraverso un accidente. Se vengono quindi tolte la grandezza e la molteplicità, nessuna cosa può essere conosciuta38. Mi sembra utile ripetere anche questo, ossia che neppure di questa quantità singolare può esservi un segno singolare o un’immagine conoscitiva [specie]39 naturale singolare, in quanto nulla di ciò che è singolare può essere moltiplicato o replicato, si tratti di una sostanza, di una quantità o di una qualità. Pertanto, sebbene della quantità vi siano un’immagine conoscitiva e un segno, non si tratta tuttavia di un’immagine conoscitiva e di un segno di questa determinata quantità. Le quantità singolari vengono quindi denotate e conosciute mediante un segno che si riferisce alla quantità in generale. Allo stesso modo, il singolo rosso viene conosciuto mediante un segno che si riferisce al rosso universale. Poiché, quindi, nessuna cosa è della stessa quantità o qualità di un’altra, e poiché di ogni cosa singolare c’è una quantità singolare, la quantità è qualcosa di generale non nella cosa, ma nella nostra conoscenza [della cosa], o nell’immagine conoscitiva e nel segno che si riferiscono alla cosa. Ci sono, pertanto, immagini conoscitive del piccolo e del grande, ma non di questo piccolo e di questo grande, i quali sono quantità singolari; e tuttavia mediante l’immagine conoscitiva o il segno del grande si conosce questo grande, e mediante l’immagine conoscitiva [forma] o il segno del piccolo si conosce questo piccolo.
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Signa igitur naturalia species sunt singularium signatorum. Nam species istae non sunt formae formantes, sed formae informantes. Informati vero uti tales recipiunt magis et minus. Unus enim plus est informatus quam alius, et idem nunc minus, postea plus. Tales igitur formae possunt esse in pluribus, cum non requiratur quod eodem essendi modo ipsis insint, qui modus non est multiplicabilis, sed variis varie, uti una ars scribendi varie variis inest scriptoribus. Patet etiam ex his quod numerus determinatus, puta ternarius, denarius et tales, cum non recipiant magis et minus ob suam singularem determinationem, non habent nisi indeterminatas species, sicut specie multitudinis indeterminatae, quae numeratio dici potest, determinata multitudo cognoscitur; et speciebus magnitudinis et multitudinis cognoscitur magnus determinatus numerus; et sic parvus numerus speciebus multitudinis et parvitatis; et similes colores speciebus similitudinis et coloris, et dissimiles speciebus dissimilitudinis et coloris, et concordantes voces speciebus concordantiae et vocis, et discordantes speciebus discordantiae et vocis; et taliter de omnibus. 15 Cum autem sic ex signis et speciebus notionalibus formetur in nobis notitia rei, non potest res, quae sic innotescit, distincte cognosci ab alia, nisi distinctis notis et speciebus formetur notitia. Unde ut quaelibet res est singularis, ita et eius notitia aliquid habet, quod in alterius notitia non reperitur. Quemadmodum si unum vo-
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I segni naturali, pertanto, sono immagini conoscitive dei singoli oggetti che essi designano. Queste immagini conoscitive non sono forme che conferiscono una forma, ma forme che trasmettono un’informazione40. Ora, coloro che vengono informati ammettono, in quanto tali, un più e un meno. Uno, infatti, è più informato di un altro, e la stessa persona ora è informata di meno e in seguito lo è di più. Tali forme, pertanto, possono essere presenti in più soggetti, dal momento che non è necessario che, in questi soggetti, esse siano presenti con lo stesso modo d’essere, il quale non è moltiplicabile; esse sono piuttosto presenti in maniera diversa nei diversi soggetti, così come l’unica arte della scrittura è presente in modo diverso nei diversi scrittori. Da quanto abbiamo detto risulta inoltre evidente che un determinato numero, ad esempio il tre, il dieci e simili, a motivo della sua determinazione singolare, non ammette un più e un meno, e pertanto di tali numeri si hanno solo delle immagini conoscitive indeterminate, così come una determinata molteplicità viene conosciuta solo mediante quella immagine conoscitiva di una molteplicità indeterminata che può essere chiamata serie dei numeri; allo stesso modo, un numero di una determinata grandezza viene conosciuto mediante le immagini conoscitive della grandezza e della molteplicità, e un numero piccolo mediante le immagini conoscitive della molteplicità e della piccolezza; e i colori simili vengono conosciuti mediante le immagini conoscitive della somiglianza e del colore, quelli dissimili mediante le immagini conoscitive della disuguaglianza e del colore; e le voci armoniche mediante le immagini conoscitive dell’armonia e della voce, quelle disarmoniche mediante le immagini conoscitive della disarmonia e della voce, e lo stesso vale in modo analogo per tutte le cose41. Tuttavia, dal momento che la conoscenza di un oggetto si forma in noi a partire da segni e da immagini conoscitive, una cosa, che diventa nota in questo modo, viene conosciuta come distinta da un’altra solo se la conoscenza che ci formiamo di essa avviene sulla base di caratteristiche e di immagini conoscitive distinte. Di conseguenza, come ogni cosa è singolare, anche la conoscenza che acquisiamo di essa contiene qualcosa che non si trova nella conoscenza che abbiamo di un altro oggetto. Ad esempio, se una paro-
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cabulum est sex litterarum et aliud etiam sex litterarum, oportet quod, licet in numero concordent, non tamen in figura et situ, ut sint diversa, sicut res sunt diversae, quarum sunt vocabula. Ac diversitas specierum notionalium nos ducit in notitiam diversitatis rerum. Et licet duo individua videantur in pluribus speciebus convenire, non tamen est possibile, quin in aliquibus etiam discrepent. 16
Capitulum VI
Consequenter attendas oportet quomodo non est opus talpam habere visum, quia cognitione signorum visibilium non indiget, cum in umbra terrae reperiat quod quaerit. Ita de omnibus similiter dicendum, scilicet quod omnia viventia tot species ex sensibilibus hauriunt, quot sunt eis ad bene esse necessariae. Quare non omnia perfecta animalia, licet in numero sensuum conveniant, etiam in numero specierum et signorum conveniunt. Alias haurit formica species, alias leo, alias aranea, alias vacca, sicut diversae arbores ex eadem terra diversa hauriunt alimenta, quaelibet suae naturae conveniens. Et vis phantastica unius animalis ex speciebus per sensus receptis aliam facit imaginationem quam aliud et aliam aestimationem amicitiae aut inimicitiae, convenientis aut disconvenientis quam aliud. Hinc homo haurit ex sensibilibus signis species suae naturae convenientes, qui cum sit rationalis naturae, species illi suae naturae convenientes haurit, ut per illas bene possit ratiocinari et reperire conveniens alimentum tam corporale corpori quam spirituale spiritui seu intellectui, sicut sunt differentes species decem praedicamentorum, quinque universalium, quat-
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la è composta di sei lettere, e un’altra parola è composta anch’essa di sei lettere, è necessario che, per quanto concordino nel numero delle lettere, esse non concordino tuttavia nella forma e nella posizione che le lettere hanno, in modo da essere parole diverse, come sono diverse le cose che tali parole designano. Ed è la diversità delle immagini concettuali che ci conduce a conoscere la diversità che vi è tra le cose. E sebbene due individui sembrino concordare in una molteplicità di aspetti, non è tuttavia possibile che essi non siano anche differenti in alcuni altri.
Capitolo vi42
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Devi poi considerare il fatto che la talpa non ha alcun bisogno di possedere la vista43, perché non abbisogna di una conoscenza dei segni visibili, in quanto ciò che essa cerca lo trova nell’oscurità della terra. Lo stesso lo si deve dire in modo simile per tutti gli esseri viventi: essi traggono dalle cose percepibili sensibilmente tante specie quante sono loro necessarie per vivere bene. Per questo, gli animali evoluti, per quanto concordino tutti per quanto riguarda il numero dei sensi di cui sono dotati, non concordano tutti anche nel numero delle specie [che essi traggono dagli oggetti sensibili] e dei segni. La formica trae [dalle cose sensibili] alcune specie, il leone ne trae altre, altre il ragno, altre la mucca, così come alberi diversi traggono dalla medesima terra nutrimenti diversi, ciascuno quelli adatti alla propria natura. Inoltre, dalle specie recepite attraverso i sensi la facoltà immaginativa di un animale si forma un’immagine diversa rispetto a quella di un altro animale, e una diversa valutazione dell’amicizia o dell’inimicizia, di ciò che è vantaggioso o di ciò che è svantaggioso44. Di conseguenza, anche l’uomo trae dai segni sensibili le specie che sono adatte alla sua natura, ed avendo egli una natura razionale trae le forme che corrispondono a questa sua natura, in modo tale da potere, grazie ad esse, esercitare bene la propria ragione e reperire il nutrimento adatto: tanto il nutrimento materiale per il suo corpo, quanto il nutrimento spirituale per il suo spirito o per il suo intelletto; a quest’ultimo appartengono, ad esempio, le diverse specie delle dieci categorie, dei cinque universali45, delle quattro virtù cardinali, e molte altre spe-
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tuor virtutum cardinalium et talium multorum, quae homini ratione vigenti conveniunt. 17 Plures etiam species per visum homo haurit quam brutum animal, puta principaliter, quia sensus visus colorum species, per quas coloratorum ut coloratorum differentias attingit; et consequenter, quia sensus magnitudinis, longitudinis et latitudinis, figurationis, motus, quietis, numeri, temporis et loci species, tot species solus homo ratione utens per visum haurit. Ita per auditum species differentium sonorum, gravium, acutorum, mediorum, cantuum, notarum et talium sonorum, atque novem alias species communis sensus praemissas; ita de aliis sensibus. Trahitque ultra ex omnibus istis sensibilibus speciebus vis ratiocinativa species variarum artium, per quas supplet defectus sensuum, membrorum, infirmitatum atque se iuvat ad resistendum corporalibus nocumentis et ad expellendum ignorantiam et hebetudinem mentis et confortandum ipsam, ut proficiat et fiat homo speculator divinorum. Habetque cognatas species insensibilis virtutis, iusti et aequi, ut noscat, quid iustum, quid rectum, quid laudabile, quid pulchrum, quid delectabile et bonum et illorum contraria, et eligat bona et fiat bonus, virtuosus, prudens, castus, fortis et iustus. 18 Quae omnia consideranti ea, quae in mechanicis et liberalibus artibus atque moralibus scientiis per hominem reperta sunt, patescunt. Nam solus homo repperit, qualiter defectum lucis ardenti candela suppleat, ut videat, et deficientem visum beryllis iuvet et arte perspectiva errorem circa visum corrigat, cruditatem cibi decoctione gustui aptet, foetores fumis odoriferis pellat, frigori vestibus et igne atque domo, tarditati vecturis et navibus, defensioni ar-
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cie di questo tipo che si addicono all’uomo che è in pieno possesso della sua ragione. Inoltre, l’uomo trae dalla vista più specie rispetto a quanto è in grado di fare un animale bruto; in primo luogo, ad esempio, per il fatto che il senso della vista trae [dagli oggetti sensibili] le specie dei colori, mediante le quali coglie le differenze tra gli oggetti colorati in quanto colorati; poi, in connessione con ciò, per il fatto che la vista è il senso che trae [dagli oggetti sensibili] le specie della grandezza e della larghezza, della figura, del movimento, della quiete, del numero, del tempo e del luogo46; solo l’uomo, che si serve della ragione, trae, mediante la vista, così tante specie. Allo stesso modo, tramite l’udito l’uomo trae [dagli oggetti sensibili] le specie dei diversi suoni, dei gravi, degli acuti e dei suoni intermedi, così come i suoni dei canti, delle note musicali e di altri suoni di questo tipo, così come pure le nove specie che attengono al senso comune, di cui ho parlato prima. Lo stesso vale per gli altri sensi. E poi, da tutte queste specie sensibili la facoltà razionale trae le diverse specie di arti47, attraverso le quali essa supplisce alle deficienze dei sensi, delle membra e alle malattie; e di esse si giova per resistere ai danni del corpo48, per scacciare l’ignoranza e l’ottusità della mente e per incoraggiarla, in modo tale che faccia progressi e l’uomo diventi un contemplatore del divino49. Inoltre, l’uomo possiede le specie innate delle virtù della giustizia e della equità50, che non sono percepibili con i sensi, in modo tale che egli può sapere ciò che è giusto e ciò che è retto, che cosa è degno di lode, che cosa è bello, dilettevole e buono e i loro contrari, e può scegliere il bene e diventare buono, virtuoso, prudente, casto, coraggioso e giusto. Tutto questo risulta evidente a chi consideri le cose che sono state scoperte dall’uomo nell’ambito delle arti meccaniche e delle arti liberali e in quello delle scienze morali. Solo l’uomo, infatti, ha scoperto come supplire alla mancanza di luce utilizzando una candela accesa per poter vedere, come aiutare la mancanza di vista con le lenti, come correggere gli errori di visione mediante l’arte della prospettiva, come rendere idonei al gusto i cibi crudi mediante la cottura, come allontanare i cattivi odori con aromi profumati, come proteggersi dal freddo con gli indumenti, con il fuoco e con le abitazioni, come rimediare alla lentezza degli spostamen-
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mis, memoriae scriptura arteque memorandi succurrat. Quae omnia et plura talia animal brutum ignorat. Habet se enim homo ut homo ad brutum ut doctus homo ad indoctum. Doctus enim litteras alphabeti videt et similiter indoctus; sed doctus ex varia illarum combinatione syllabas atque ex syllabis dictiones et de illis orationes componit, quod indoctus facere nequit ob defectum artis, quae ab exercitato intellectu acquisita docto inest. Componere igitur et dividere species notionalia homo ex vi intellectuali habet, qua bruta excellit et doctus homo indoctum, quia habet exercitatum et reformatum intellectum. 19
Capitulum VII
Non mirum hominem aliquem adeo profecisse aut proficere posse longo tali exercitio, quod speciem aliquam eliciat ex varia combinatione, quae sit multarum artium complexiva, per quam multa simul comprehendat et intelligat, puta varietatem naturalium per speciem, quam motum appellet, quando sine motu nihil fieri atque naturalem motum a violento distingui videret, ideo motum naturae non esse a principio extrinseco, sicut in violento, sed intrinseco rei; ita de aliis. Alius vero adhuc praecisiorem speciem magisque fecundam reperire posset, uti ille, qui ex novem speciebus principiorum speciem unam artis generalis omnium scibilium nisus est extrahere. Sed super omnes qui unica specie, quam ver-
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ti con i mezzi di trasporto e con le navi, come provvedere alla difesa con le armi, come supportare la memoria mediante la scrittura e l’arte mnemonica51. Tutte queste cose, e molte altre simili a queste, l’animale privo di ragione le ignora. L’uomo in quanto uomo, infatti, sta al bruto come l’uomo istruito sta all’uomo privo di istruzione. L’uomo istruito, infatti, vede le lettere dell’alfabeto, così come le vede anche l’uomo privo di istruzione; l’uomo istruito, tuttavia, mediante la diversa combinazione delle lettere, sa comporre le sillabe, e dalle sillabe le parole, e da queste le frasi; questo l’uomo non istruito non è in grado di farlo, in quanto è privo dell’arte che è presente nell’uomo istruito e che questi ha acquisito attraverso l’esercizio del suo intelletto52. Mediante la sua facoltà intellettiva, l’uomo è quindi in grado di comporre e di dividere le specie naturali e di elaborare da esse le specie intellettuali e quelle proprie delle arti e i segni concettuali; grazie a questa facoltà, l’uomo si distingue dai bruti e la persona istruita da quella non istruita, in quanto possiede un intelletto esercitato ed educato53.
Capitolo vii
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Non è sorprendente che qualcuno, grazie ad un prolungato esercizio di questo genere [del suo intelletto], sia stato o sia in grado di fare tali progressi da giungere a ricavare, da varie combinazioni, una qualche forma concettuale [specie] che includa in sé molte arti e attraverso la quale egli possa comprendere molte cose insieme54. Così, ad esempio, egli può comprendere la varietà delle realtà naturali attraverso quella forma concettuale che chiama movimento, una volta che abbia osservato che nulla avviene senza movimento, che il movimento naturale si distingue da quello violento e che, di conseguenza, il movimento naturale non deriva da un principio esterno, come quello violento, ma da un principio interno alla cosa, e lo stesso vale per altri esempi55. Qualcun altro, tuttavia, potrebbe scoprire una forma concettuale ancora più precisa e più feconda, come fece colui che si sforzò di ricavare dalle nove specie dei principi una specie unica, quella di un’arte generale che si estende a tutto lo scibile56. Ma più di tutti colse nel segno in maniera assolutamente precisa colui che incluse tutto l’intelligibile in un’unica
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bum appellavit, omne intelligibile complexus est, praecisissime punctum tetigit; est enim species artis omnia formantis. Quid enim extra hanc speciem concipi, eloqui aut scribi potest? Est enim verbum, «sine» quo «nihil factum est» aut fieri potest; quoniam est expressio exprimentis et expressi. Sicut loquentis locutio et quod loquitur verbum est, et concipientis conceptio et quod concipit verbum est, et scribentis scriptio et quod scribit verbum est, et creantis creatio et quod creat verbum est, et formantis formatio et quod format verbum est, et generaliter facientis factio et factum verbum est. Verbum enim sensibile se et omnia sensibilia facit. Ideo et lux dicitur, quae se et omnia visibilia facit. Dicitur et aequalitas; aeque enim se ad omnia habet, cum non sit unum plus quam aliud, dans omnibus aequaliter, ut id sint, quod sunt, nec plus nec minus. Cum igitur scientis scientia et scitum verbum sit, qui ad verbum se convertit, quae scire cupit, citius invenit. Si igitur vis speciem haurire modi quomodo omnia fiunt, respice, quomodo fit vocale verbum. Primo quomodo sine aere nequaquam fieri potest audibile. Aer autem ut aer nullo sensu attingitur. Visus enim non videt aerem, sed aerem coloratum, uti experimur radio solis coloratum vitrum penetrante aerem coloratum videri. Nec auditus aerem attingit nisi sonantem. Nec odoratus nisi olentem. Nec gustus nisi sapidum, ut dum est ex contritione absinthii fortiter amaricatus, in gustu sentitur. Nec tactus nisi calidum aut frigidum aut alias sensum immutantem. Aer igitur ut aer nullo sensu attingitur, sed per
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forma concettuale che chiamò verbo57; il verbo, infatti, è la forma concettuale dell’arte che forma tutte le cose58. Che cosa si può infatti concepire, dire o scrivere al di fuori di questa forma? Il verbo, infatti, è ciò «senza» cui «nulla è stato fatto» o può essere fatto, in quanto esso è l’espressione sia di chi si esprime, sia di ciò che viene espresso. In modo simile, sia la parola di chi parla, sia di ciò di cui egli parla sono un verbo; e sono un verbo sia la concezione di chi concepisce, sia ciò che egli concepisce; e sia la scrittura di chi scrive, sia ciò che egli scrive sono un verbo; sia la creazione di chi crea, sia ciò che egli crea sono un verbo, e sia la formazione di chi forma, sia ciò che egli forma sono un verbo, e in generale sia il fare di colui che fa, sia ciò che viene fatto sono un verbo. Il verbo, infatti, rende percepibile sensibilmente sia se stesso, sia tutte le cose. Per questo, viene chiamato anche luce, perché la luce rende visibile sia se stessa, sia tutte le cose. E viene chiamato anche «uguaglianza»; infatti, esso si rapporta a tutte le cose in modo uguale, dal momento che non è una cosa più che un’altra, ma è ciò che dona ugualmente a tutte le cose il fatto di essere ciò che sono, né di più, né di meno. Pertanto, dal momento che sia la conoscenza di colui che conosce, sia ciò che è conosciuto sono un verbo, chi si rivolge al Verbo [divino] trova rapidamente ciò che egli desidera conoscere. Pertanto, se vuoi formarti un concetto del modo in cui nascono tutte le cose, considera in che modo nasca una parola espressa con la voce59. In primo luogo, considera il fatto che, senza l’aria, non può sorgere nulla che sia udibile. Tuttavia, l’aria, in quanto aria, non viene colta da nessuno dei sensi60. La vista, infatti, non vede l’aria, ma l’aria colorata, come ci attesta l’esperienza: quando, ad esempio, un raggio di sole attraversa un vetro colorato, vediamo l’aria colorata. E neanche l’udito coglie l’aria, se non quando è attraversata da un suono. E l’odorato non coglie l’aria se non quando è profumata. E il senso del gusto non la coglie se non quando ha un sapore: ad esempio, quando l’aria è fortemente intrisa di amaro per l’assenzio che vi è stato spremuto, allora viene percepita dal gusto. E anche il senso del tatto non percepisce l’aria se non quando è calda o fredda o tale da alterare l’organo di senso in qualche altro modo. L’aria, in quanto aria, pertanto, non viene colta da nessuno dei sensi, ma giunge alla conoscenza dei sensi solo attraverso qualcosa che si ag-
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accidens venit in notitiam sensitivam. Adeo tamen est necessarius auditui, quod sine ipso nihil audibile fieri potest. Oportet igitur, ut similiter consideres omne, quod actu esse debet, sive sensibile sive intelligibile, praesupponere aliquid, sine quo non est; quod per se nec est sensibile nec intelligibile. Et quia illud forma sensibili aut intelligibili caret, nosci nequit, nisi formetur, et non habet nomen. Dicitur tamen hyle, materia, chaos, possibilitas sive posse fieri seu subiectum et aliis nominibus. 20 Deinde attendendum quod, licet sine aere non fiat sensibilis sonus, non tamen est aer de natura soni, sic nec hyle de natura est cuiuscumque formae, nec est principium eius, sed principium eius formator exsistit. Quamvis igitur sonus sine aere fieri nequeat, non est propterea de natura aeris. Pisces enim et homines extra aerem in aqua sonum percipiunt; quod non esset, si de natura aeris foret. Post advertendum hominem vocalis verbi formatorem, quomodo non format verbum ut animal brutum, sed ut habens mentem, qua bruta carent. Mens igitur formator verbi cum non formet verbum, nisi ut se manifestet, tunc verbum non est nisi mentis ostensio. Nec varietas verborum aliud est quam unius mentis varia ostensio. Conceptio autem, qua mens se ipsam concipit, est verbum a mente genitum, scilicet sui ipsius cognitio. Verbum autem vocale est illius verbi ostensio. Omne autem, quod dici potest, non est nisi verbum. 21 Ita de formatore omnium conceptum facito ut de mente. Quodque ipse in verbo de se genito se cognoscit atque in creatura, quae est increati verbi signum, se ostendit in variis signis varie, et nihil esse potest, quod non sit signum ostensionis geniti verbi. Et
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giunge ad essa come un accidente. Ciononostante, l’aria è talmente necessaria per l’udito che, senza di essa, nulla può risultare udibile. In modo simile, pertanto, devi ora osservare che tutto ciò che dev’essere in atto, si tratti di qualcosa di percepibile sensibilmente o di qualcosa di intelligibile, presuppone qualcosa senza il quale esso non esiste e che, per se stesso, non è né percepibile sensibilmente, né intelligibile. E dal momento che questo qualcosa è privo di una forma, sia essa sensibile o intelligibile, esso non può essere conosciuto, a meno che non riceva una forma, e non ha neanche un nome. Ciononostante, lo si chiama «hyle»61, materia, caos62, possibilità o poter-essere-fatto63 o sostrato, e con altri nomi ancora. In secondo luogo, devi prestare attenzione al fatto che, sebbene un suono non diventi percepibile sensibilmente senza aria, tuttavia l’aria non ha la natura del suono, così come neanche la «hyle» ha la natura di una qualche forma, né è il principio delle forme, perché il loro principio è colui che le forma. Il suono, pertanto, sebbene non possa formarsi senza l’aria, non ha per questo la natura dell’aria64. I pesci e gli uomini, infatti, percepiscono il suono anche in acqua, al di fuori dell’aria, il che non avverrebbe se il suono avesse la natura dell’aria. Devi poi considerare il fatto che l’uomo, che dà forma alla parola che viene espressa con la voce, non forma la parola come fa l’animale bruto, ma nel modo che è proprio di chi possiede una mente, di cui i bruti sono privi. La mente, dunque, è ciò che dà forma alla parola, e dal momento che essa forma la parola solo allo scopo di manifestare se stessa, la parola non è se non una manifestazione della mente65. E la varietà delle parole non è altro che la varia manifestazione di un’unica mente. Ora, il concetto con il quale la mente concepisce se stessa è una parola generata dalla mente, ossia è la conoscenza che essa ha di se stessa. La parola proferita con la voce è una manifestazione di questa parola [mentale]. E tutto ciò che può essere detto non è che parola. E così del formatore di tutte le cose devi farti un concetto analogo a quello che ti sei fatto della mente66. E concepisci che egli conosce se stesso nella Parola [Verbo] da lui generata e che, nella creazione, che è il segno della Parola [Verbo] increata, egli si manifesta in vari modi e nei vari segni. E non può esserci nulla che non sia un segno della Parola [Verbo] generata. E come la mente, quan-
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sicut mens nolens se amplius ostendere a verbi vocalis prolatione cessat et, nisi indesinenter proferat, exsistere nequit, sic se habet creatura ad creatorem. Cuncta autem alia, sine quibus vocale verbum bene fieri nequit, quae Musae dicuntur, ad finem vocalis verbi ordinata mentis manifestationi serviunt. Pariformiter sunt creaturae, quae sunt notae et ostensiones interni verbi, et sunt creaturae illis ad finem servientes. 22
Capitulum VIII
Est igitur animal perfectum, in quo sensus et intellectus, considerandum ut homo cosmographus habens civitatem quinque portarum quinque sensuum, per quas intrant nuntii ex toto mundo denuntiantes omnem mundi dispositionem hoc ordine, quod qui de luce et colore eius nova portant, per portam visus intrent; qui de sono et voce, per portam auditus; qui de odoribus, per portam odoratus; et qui de saporibus, per portam gustus; et qui de calore, frigore et aliis tangibilibus, per portam tactus. Sedeatque cosmographus et cuncta relata notet, ut totius sensibilis mundi descriptionem in sua civitate habeat designatam. Verum si porta aliqua civitatis suae semper clausa remansit, puta visus, tunc quia nuntii visibilium non habuerunt introitum, defectus erit in descriptione mundi. Non enim faciet descriptio mentionem de sole, stellis, luce, coloribus, figuris hominum, bestiarum, arborum, civitatum et maiori parte pulchritudinis mundi. Sic si porta auditus clausa mansit, de loquelis, cantibus, melodiis et talibus nihil descriptio contine-
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do non vuole più manifestare se stessa, smette di proferire con la voce la parola, la quale non può sussistere se la mente non continua a proferirla, così è anche il rapporto che la creatura ha con il creatore. Tutte le altre cose, invece, senza le quali la parola espressa con la voce non può essere pronunciata bene, e che vengono chiamate Muse67, sono state ordinate al fine della parola che viene espressa con la voce e sono al servizio della manifestazione della mente. In modo simile, ci sono creature che sono note e manifestazioni della parola interiore e creature che sono al servizio delle prime.
Capitolo viii
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L’animale pienamente evoluto, che possiede sia i sensi che l’intelletto, deve quindi essere considerato come un cosmografo68 che abita in una città dotata di cinque porte, ossia dei cinque sensi; attraverso queste porte entrano messaggeri da tutto il mondo che riferiscono circa la disposizione complessiva del mondo, e lo fanno in questo ordine69: i messaggeri che recano notizie circa la luce e i colori del mondo entrano attraverso la porta della vista; quelli che recano notizie sui suoni e sulle voci entrano attraverso la porta dell’udito, quelli che recano notizie sugli odori attraverso la porta dell’odorato, quelli che recano notizie sui sapori attraverso la porta del gusto; quelli che recano notizie sul caldo, sul freddo e sulle altre cose che si possono toccare entrano attraverso la porta del tatto. Il cosmografo se ne sta seduto e prende nota di tutte le notizie che gli vengono riferite, in modo tale da possedere disegnata nella sua città una descrizione dell’intero mondo sensibile70. Se, tuttavia, una porta della sua città, ad esempio la vista, è rimasta sempre chiusa, allora, dal momento che i messaggeri di ciò che è visibile non sono potuti entrare, nella descrizione del mondo [del cosmografo] vi sarà una manchevolezza. Una tale descrizione, infatti, non farà alcuna menzione del sole, delle stelle, della luce, dei colori, delle figure degli uomini, degli animali, degli alberi e delle città, e della maggior parte della bellezza del mondo. Allo stesso modo, se restasse chiusa la porta dell’udito, la descrizione [del cosmografo] non conterrebbe nulla dei discorsi, dei canti, delle melodie e delle altre cose di questo genere. Lo stesso vale per gli altri sensi.
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ret. Ita de reliquis. Studet igitur omni conatu omnes portas habere apertas et continue audire novorum semper nuntiorum relationes et descriptionem suam semper veriorem facere. 23 Demum quando in sua civitate omnem sensibilis mundi fecit: designationem, ne perdat eam, in mappam redigit bene ordinatam et proportionabiliter mensuratam convertitque se ad ipsam nuntiosque amplius licentiat clauditque portas et ad conditorem mundi internum transfert intuitum, qui nihil eorum est omnium, quae a nuntiis intellexit et notavit, sed omnium est artifex et causa. Quem cogitat sic se habere ad universum mundum anterioriter, sicut ipse ut cosmographus ad mappam, atque ex habitudine mappae ad verum mundum speculatur in se ipso ut cosmographo mundi creatorem, in imagine veritatem, in signo signatum mente contemplando. In qua speculatione advertit nullum brutum animal, licet similem videatur habere civitatem, portas et nuntios, mappam talem facere potuisse. Et hinc in se reperit primum et propinquius signum conditoris, in quo vis creativa plus quam in aliquo alio noto animali relucet. Intellectuale enim signum primum et perfectissimum est omnium conditoris, sensibile vero ultimum. Retrahit igitur se quantum potest ab omnibus sensibilibus signis ad intelligibilia simpliciaque atque formalia signa. 24 Et quomodo in illis splendet lux aeterna et inaccessibilis omni acumine mentalis visus, attentissime advertit, ut videat incomprehensibilem aliter quam incomprehensibili essendi modo videri non posse atque ipsum, qui est omni modo comprehensibili incomprehensibilis, omnium, quae sunt, essendi formam, quae in omnibus, quae sunt, manens incomprehensibilis in intellectualibus signis ut «lux in tenebris lucet», a quibus nequaquam comprehenditur, quasi una facies in diversis politis speculis varie
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Per questo motivo, il cosmografo si adopera con ogni sforzo a tenere aperte tutte le porte e a prestare continuamente ascolto ai resoconti di sempre nuovi messaggeri, in modo da rendere la sua descrizione sempre più accurata. Infine, dopo aver realizzato nella sua città una raffigurazione [disegno] completa del mondo sensibile, per fare in modo che non vada perduta il cosmografo la trascrive su una mappa ben ordinata e tracciata in scala; a questo punto, egli si rivolge a questa mappa, congeda i messaggeri, chiude le porte e trasferisce il suo sguardo interiore al creatore del mondo, che non è nessuna di tutte quelle cose che il cosmografo ha appreso dai suoi messaggeri e di cui ha preso nota, ma è la causa e l’artefice di tutte. Ed egli riflette sul fatto che questo artefice è anteriore rispetto al mondo così come lui, in quanto cosmografo, è anteriore rispetto alla mappa, e sulla base del rapporto che la mappa ha con il mondo reale egli vede riflesso in se stesso, in quanto cosmografo, il creatore del mondo, ed in questo modo71, con la sua mente, contempla nell’immagine la verità [l’esemplare] e nel segno ciò che esso designa72. In questa riflessione, egli si rende conto che nessun animale privo di ragione, per quanto sembri possedere una città simile alla sua, con porte e messaggeri [simili], avrebbe potuto realizzare una tale mappa. E pertanto trova in se stesso il primo e più prossimo segno del creatore, nel quale la forza creatrice risplende più che in qualsiasi altro animale conosciuto. Il segno intellettuale, infatti, è il primo e più perfetto segno del creatore di tutte le cose, mentre quello sensibile è l’ultimo73. Il cosmografo, pertanto, si allontana, per quanto può, da tutti i segni sensibili per volgersi ai segni intelligibili, semplici e formali. Ed egli, prestando la massima attenzione, nota come in questi segni intelligibili risplenda una luce eterna e inaccessibile ad ogni visione della mente74, per quanto acuta questa possa essere; in questo modo, vede come l’incomprensibile non possa essere visto che in un modo d’essere incomprensibile, e come colui che è incomprensibile per ogni modo di comprendere sia la forma dell’essere di tutte le cose che esistono75, la quale, pur restando incomprensibile in tutte le cose esistenti, risplende nei segni intellettuali come la «luce risplende nelle tenebre», dalle quali essa non viene mai compresa76. È quasi come un unico volto che appare in modi diver-
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apparens nullo speculo quantumcumque polito inspeculatur, incorporatur seu immateriatur, ut ex ipsa facie et speculo aliquod unum compositum ex utroque fiat, cuius forma sit facies et speculum materia, sed in se manens una varie se ostendit, ut hominis intellectus in suis variis artibus et ex variis artium productis in se unus et invisibilis manens varie se visibiliter manifestat, licet in omnibus illis maneat omni sensui penitus incognitus. Hac speculatione dulcissime pergit contemplator ad sui et omnium causam, principium et finem, ut feliciter concludat. 25
Capitulum IX
Sunt igitur haec pauca facilia et sufficientia speculationi tuae, cum sis simplex. Quod si subtiliora indagare proponis, de elementis ad partes soni respice et litteras illas partes designantes, quarum aliae sunt vocales, aliae mutae, aliae semivocales, aliae liquidae, et quomodo ex illis fit syllabarum et dictionum combinatio, ex quibus oratio, ac quod oratio est intentum. Ita quae a natura sunt, procedunt ab elementis ad intentum naturae. Oratio enim est rei designatio seu definitio. Hoc quaternario ab imperfecto ad perfectum pervenitur. Et quae de hoc philosophice tractari possunt, sufficienter in progressu artis huius venari poterunt. Nam in natura reperiuntur combinationes pulchrae et ornatae et hominibus gratae. Sic et dicendi arte et vocum concordantia quaedam contrario se habent modo in utraque. 26 Facit igitur homo suas considerationes circa talia et scientiam rerum facit ex signis et vocabulis, sicut deus mundum ex rebus, et
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si in diversi specchi levigati: in nessuno specchio, per quanto levigato esso sia, il volto viene rispecchiato, incorporato o materializzato in modo tale che dal volto e dallo specchio risulti un’unica realtà composta di entrambi, di cui il volto sarebbe la forma e lo specchio la materia; piuttosto, il volto si manifesta in modi diversi rimanendo uno in se stesso77, così come l’intelletto dell’uomo, rimanendo in sé uno e invisibile, si manifesta nelle sue diverse arti e si rende visibile in modi diversi nei diversi prodotti delle arti, anche se in tutto ciò l’intelletto resta totalmente sconosciuto ai sensi. Grazie a queste riflessioni, l’uomo dedito alla contemplazione si dirige, con grandissima soavità, verso la causa, il principio e il fine di se stesso e di tutte le cose, in modo da poter condurre felicemente a termine la sua ricerca.
Capitolo ix Le poche considerazioni che sono state fin qui fatte sono facili, e sono sufficienti per la tua riflessione, dal momento che sei un uomo semplice78. Se ti proponi tuttavia di condurre un’indagine più approfondita intorno agli elementi79, considera allora le parti di un suono e le lettere che designano tali parti80. Alcune di queste lettere sono vocali, altre sono mute, altre semivocali, altre liquide. E osserva come da queste lettere si formi una combinazione di sillabe e di parole, dalle quali deriva a sua volta il discorso, il quale costituisce il fine81. In modo analogo, le cose che derivano dalla natura procedono dagli elementi verso il fine della natura. Il discorso, infatti, è ciò che designa o definisce una cosa. Attraverso questi quattro momenti si perviene dall’imperfetto al perfetto. E i punti che possono essere trattati in maniera filosofica a proposito di questo argomento li si potranno scovare82 a sufficienza proseguendo nell’esame di questa arte del discorso. Infatti, nella natura si trovano combinazioni belle ed eleganti, che risultano piacevoli agli uomini, e così anche nell’arte della parola e nel canto polifonico; ma in entrambi i casi [nella natura e nell’arte] ci sono alcune combinazioni che si comportano in modo contrario. L’uomo, pertanto, fa le sue considerazioni su questi fatti, e dai segni e dalle parole costruisce la sua scienza delle cose, così come
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ultra de ornatu et concordantia et pulchritudine atque vigorositate et virtute orationis artes addit vocabulis naturam imitando. Ita grammaticae addit rhetoricam, poesim, musicam, logicam et alias artes, quae omnes artes signa sunt naturae. Sicut enim mens sonum in natura repperit et artem addidit, ut omnia signa rerum in sono poneret, ita concordantiae, quam in natura repperit, in sonis artem addidit musicae omnes concordantias designandi. Et ita de reliquis. 27 Considerationes enim, quas otiosi sapientes in natura esse reppererunt, conati sunt per aequalitatem rationis in communem artem perducere; ut quando experti sunt certarum notarum concordantias ex habitudine illarum ad pondera malleorum concordantes notas in incude facientium pervenerunt, et demum in organis et chordis proportionabiliter magnis et parvis idem invenerunt et concordantias atque discordantias in natura in artem deduxerunt. Et hinc haec ars, cum apertius naturam imitetur, gratior est et conatum naturae concitat et adiuvat in motu vitali, qui est concordantiae seu complacentiae motus, qui laetitia dicitur. Fundatur igitur omnis ars in consideratione per sapientem in natura reperta, quam praesupponit, quia causam eius propter quid ignorat; sed invento addit artem per speciem similitudinis dilatando, quae est ratio artis naturam imitantis. 28
Capitulum X
Nunc elicias. Si quam artem invenisti et illam in scriptis tradere conaris, opus habes, ut verba proposito apta praemittas et significata eorum iuxta tuam mentem declares. Hoc quidem est principale. Et quoniam verbum in illis vocabulis signatum ars est, quam
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Dio dalle cose ha costruito il mondo83. E inoltre, per quanto concerne l’armonia, l’eleganza, l’incisività e la forza del discorso, l’uomo aggiunge alle parole le diverse arti, imitando la natura84. In questo senso, alla grammatica aggiunge la poesia, la musica, la logica e le altre arti, le quali sono tutte segni della natura. Come infatti la mente ha trovato nella natura il suono e vi ha aggiunto l’arte, in modo da poter trasporre in suono tutti i segni delle cose, così agli accordi tra i suoni che ha trovato nella natura la mente ha aggiunto l’arte della musica per designare tutte le armonie. E lo stesso vale per le altre arti. Le considerazioni che i sapienti, dediti alla conoscenza, hanno tratto dalla loro osservazione della natura essi cercarono di tradurle in un’arte generale attraverso il concetto razionale di uguaglianza85; così, ad esempio, quando scoprirono per esperienza gli accordi tra certe note in base al loro rapporto con il peso dei martelli che, cadendo su un’incudine, producevano quegli accordi, e poi scoprirono la stessa cosa a proposito delle canne d’organo e delle corde in proporzione alla loro maggiore e minore lunghezza86, essi tradussero in un’unica arte gli accordi e i disaccordi che sono presenti nella natura. Ed è per questo che tale arte [la musica], dal momento che imita più chiaramente la natura, risulta molto piacevole, ed essa stimola e coadiuva lo slancio della [nostra] natura in quel suo movimento di accordo e di compiacenza che si chiama letizia. Ogni arte, pertanto, si fonda su una considerazione che qualche sapiente ha tratto dalla sua osservazione della natura; natura che egli presuppone, perché non conosce quale sia la causa per la quale essa esiste87; a ciò che ha scoperto nella natura, tuttavia, egli aggiunge un’arte, ampliando così la sua scoperta attraverso il concetto di similitudine, che è il fondamento dell’arte che imita la natura88.
Capitolo x
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Ora fai un passo avanti. Se hai scoperto un’arte e desideri trasmetterla ad altri per iscritto, hai anzitutto bisogno di premettere delle parole adatte al tuo proposito e di chiarire il loro significato in conformità con il tuo pensiero. Questa è senza dubbio la cosa principale. E poiché la parola [mentale] indicata in quelle parole [scrit-
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enodare proponis, totum studium versabitur, ut per ipsa vocabula, quanto praecisius potes, doceas, quae mente concepisti. Definitio enim, quae scire facit, est explicatio eius, quod in vocabulo complicatur. Et ad hoc in omni studio librorum principalem operam adhibeas, ut interpretationem vocabulorum iuxta mentem scribentis attingas, et cuncta facile apprehendes scripturasque concordabis, quas sibi contradicere putabas. Hinc distinctiones terminorum multum conferunt ad variarum scripturarum concordiam, si distinguens non errat. Et tunc minus deviat, quando ad aequalitatem reducere satagit. 29 Adiciam tibi unam quam habui considerationem circa speciem notitiae principii. Hoc enim oportet esse principium, quo nihil prius nec potentius. Sola potentia, quae praecisam sui aequalitatem generat, maior esse nequit. Haec enim omnia in se unit. Capio igitur terminos quattuor, puta posse, aequale, unum et simile. Posse dico, quo nihil potentius; aequale, quod eiusdem naturae; unum ab ipsis procedens; et simile, quod est principii sui repraesentativum. Ipso posse nihil prius esse potest. Quid enim posse anteiret, si anteire non posset? Posse igitur, quo nihil potentius aut prius esse potest, utique est principium omnipotens. Est enim ante esse et non esse. Nihil enim est, nisi esse possit, nec non est, si non esse non potest. Atque praecedit facere et fieri. Nihil enim facit, quod facere non potest, aut fit, quod fieri non potest. Sic vides posse ante esse et non esse, ante facere et fieri; et ita de omnibus. Nullum autem omnium, quae hoc ipsum posse non sunt, sine ipso nec esse potest nec cognosci. Quaecumque igitur aut esse aut cognosci possunt, in ipso posse complicantur et eius sunt. 30 Aequale autem, cum non possit esse, nisi sit ipsius posse, erit prius omnibus, sicut posse, cuius est aequale. In aequalitate sua
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te] è l’arte che ti proponi di spiegare, tutto il tuo sforzo consisterà nell’insegnare, mediante quelle parole e nel modo più preciso possibile, ciò che hai concepito con la tua mente. La definizione, che ci fornisce la conoscenza, è infatti l’esplicazione di ciò che è complicato nella parola89. E per questo motivo, il compito principale che ti devi proporre nello studio di qualsiasi libro è quello di giungere ad un’interpretazione delle parole che sia conforme al pensiero dello scrittore, ed allora apprenderai tutto con facilità e troverai l’accordo anche tra quei testi che ritenevi si contraddicessero. Le distinzioni dei termini, pertanto, sono molto utili per trovare un accordo tra i diversi testi, a condizione che chi compie la distinzione non sbagli. E si incorre di meno nell’errore quando ci si sforza di ricondurre i diversi testi ad un’uguaglianza. Voglio aggiungere per te una considerazione che ho avuto modo di fare a proposito del tipo di conoscenza che noi abbiamo del Principio90. Il Principio, infatti, dev’essere ciò cui nulla è anteriore e di cui nulla è più potente91. Solo la potenza che genera la propria precisa uguaglianza non può essere maggiore92. Essa, infatti, unisce in sé tutte le cose. Prendo quindi in considerazione quattro termini, e cioè il potere, l’uguale, l’uno e il simile93. Chiamo potere «ciò di cui nulla è più potente», uguale «ciò che è della stessa natura», uno «ciò che procede da entrambi» e chiamo simile «ciò che è rappresentativo del proprio principio». Non c’è nulla che possa essere anteriore al potere. Che cosa, infatti, potrebbe precedere il potere, se non potesse precederlo?94 Il potere, dunque, del quale non c’è nulla che possa essere più potente o anteriore, è sicuramente il Principio onnipotente. Esso, infatti, è prima dell’essere e del nonessere. Nulla, infatti, è se non può essere95, e nulla non è se non può non essere. Inoltre, il potere precede il fare e l’essere-fatto. Nulla, infatti, fa ciò che non può fare, o nulla viene fatto se non può essere fatto96. In questo modo, vedi che il potere precede l’essere e il nonessere, il fare e l’essere-fatto, e così via. Tuttavia, nessuna di tutte le cose che non sono il potere stesso può essere o essere conosciuta senza di esso97. Tutto ciò che può essere o essere conosciuto è pertanto complicato nel potere stesso e appartiene ad esso. L’uguale, tuttavia, dal momento che non può essere se non appartiene al potere stesso, sarà anteriore a tutte le cose come lo è il
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ostendit se posse potentissimum. Nam de se sui ipsius posse aequalitatem generare supremum potentiae est. Posse igitur, quod se aequaliter ad contradictoria habet, ut non possit plus unum quam aliud, per aequalitatem suam se aequaliter habet. Procedit autem ex posse et aequalitate eius unio potentissima. Potentia enim seu virtus unita fortior est. Unio igitur ipsius, quo nihil potentius, et eius aequalitatis non est minor ipsis, a quibus procedit. Et ita videt mens posse, eius aequalitatem et utriusque unionem esse unicum principium potentissimum, aequalissimum et unissimum. Patet satis quod posse aequaliter unit omnia, complicat et explicat. 31 Quidquid igitur facit, per aequalitatem facit, et si creat, per ipsam creat, et si ostendit, per ipsam se ostendit. Non facit autem posse ipsum per aequalitatem se ipsum, cum non sit prius se ipso, nec facit per aequalitatem dissimile. Non enim aequalitas forma est dissimilitudinis et inaequalis. Id igitur, quod facit, simile est. Quidquid igitur est et non est ipsum principium, necesse est quod sit ipsius similitudo, cum aequalitas, quae non recipit magis et minus, non sit multiplicabilis seu variabilis sive alterabilis, sicut nec singulare; non enim est singularitas aliud quam aequalitas. 32 Obiectum igitur omnis potentiae cognitivae non potest esse nisi ipsa aequalitas, quae se in sua similitudine ostendere potest. Unde obiectum sensitivae cognitionis non est nisi aequalitas, sic et imaginativae atque etiam intellectivae. Naturaliter potentia suum cognoscit obiectum. Cognitio vero fit per similitudinem. Hinc omnium potentiarum cognitivarum aequalitas obiectum est, cuius similitudo ponit omnes potentias cognitivas in actu. Naturaliter enim intellectu vigentes aequalitatem esse vident, cuius similitudo est in
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potere, di cui è l’uguale. Nella propria uguaglianza il potere si manifesta come potentissimo. Infatti, poter generare da sé l’uguaglianza di se stesso è il grado supremo della potenza. Il potere, quindi, che si rapporta in maniera uguale ai contraddittori, in modo da non essere più l’uno che l’altro, si rapporta ad essi in maniera uguale in virtù dell’uguaglianza. Ma dal potere e dalla sua uguaglianza procede un’unione potentissima. Una potenza o una forza, infatti, è più forte quando è più unita98. Pertanto, l’unione fra ciò di cui nulla è più potente e la sua uguaglianza non è minore di ciò da cui essa procede. E così la mente vede che il potere, la sua uguaglianza e l’unione dell’uno e dell’altra sono un unico principio, massimamente potente, massimamente uguale e massimamente uno. Risulta così sufficientemente evidente che il potere unisce in sé in modo uguale tutte le cose, le complica e le esplica tutte. Qualunque cosa, pertanto, il potere faccia, lo fa attraverso l’uguaglianza, e se esso crea, crea attraverso l’uguaglianza, e se si manifesta, si manifesta attraverso l’uguaglianza. Il potere, tuttavia, non produce se stesso attraverso l’uguaglianza, dal momento che non è anteriore a se stesso99, né produce, attraverso l’uguaglianza, ciò che è dissimile. L’uguaglianza, infatti, non è la forma della dissomiglianza e della inuguaglianza. Ciò che il potere produce, quindi, è ciò che è simile. Pertanto, qualunque cosa esista ma non è il principio stesso dev’essere necessariamente una similitudine del principio, dal momento che l’uguaglianza, che non ammette il più e il meno, non può essere moltiplicata, variata o alterata, così come non può esserlo ciò che è singolare100; la singolarità, infatti, non è altro che uguaglianza. L’oggetto di ogni facoltà conoscitiva, pertanto, non può essere che la stessa uguaglianza, la quale può manifestarsi nella propria similitudine. Di conseguenza, l’oggetto della conoscenza percettiva non è che l’uguaglianza, come pure l’oggetto della conoscenza immaginativa ed anche della conoscenza intellettiva. Per natura, una facoltà conosce l’oggetto ad essa corrispondente. La conoscenza, tuttavia, si realizza mediante similitudine101. Di conseguenza, l’oggetto di tutte le facoltà conoscitive è l’uguaglianza, la cui similitudine fa passare tutte le facoltà conoscitive all’atto. Gli esseri che per natura sono dotati di intelletto vedono che esiste l’ugua-
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intellectu, sicut visus coloratum, cuius similitudo seu species est in visu. Similitudo autem omnis est aequalitatis species seu signum. Aequalitas visui obicitur, quae in specie coloris videtur et in auditu in specie soni auditur; et ita de reliquis. 33 Propinquius tamen in imaginatione, quia non in specie qualitatis, sed quantitatis aequalitas imaginabilis est. Et haec species propinquiorem habet aequalitatis similitudinem. In intellectu vero non per similitudinem speciebus qualitatis aut quantitatis involutam, sed simplicem et puram intelligibilem speciem seu nudam similitudinem aequalitas attingitur. Et videtur aequalitas ipsa una, quae est omnium rerum essendi et cognoscendi forma in varia similitudine varie apparens. Et eius singularem apparitionem, quam rem singularem appellamus, in eius splendore humana mens naturaliter in se ipsa intuetur tamquam viva et intelligens eius apparitio. Non est enim humana mens nisi signum coaequalitatis illius quasi prima apparitio cognitionis, quam propheta «lumen vultus» dei «super nos signatum» appellat. 34 Hinc homo naturaliter bonum, aequum, iustum et rectum, quia splendores aequalitatis, cognoscit; legem illam ‹quod tibi vis fieri, alteri fac›, laudat, quia est splendor aequalitatis. Cibus enim vitae intellectualis ex talibus est virtutibus; quare non ignorat ipsam pastus sui refectionem. Sicut visus sensibilis ad sensibilem lucem se habet, ita visus mentis ad hanc intelligibilem lucem. Nam lux sensibilis, illius intelligibilis imago, similitudinem aequalitatis habet, cum nihil inaequale in ipsa luce videatur. Hoc certum quod si-
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glianza, di cui è presente nell’intelletto una similitudine, così come la vista vede che c’è qualcosa di colorato, di cui è presente nella vista una similitudine o una forma. Ogni similitudine, tuttavia, è una forma o un segno dell’uguaglianza. Alla vista si presenta come oggetto quell’uguaglianza che viene vista nella forma del colore, mentre nel caso dell’udito viene udita nella forma del suono, e lo stesso vale per gli altri sensi. Più vicini all’uguaglianza, tuttavia, si giunge nella facoltà immaginativa, in quanto qui l’uguaglianza può essere rappresentata non nella forma della qualità, ma in quella della quantità102. E quest’ultima è una similitudine che si avvicina di più all’uguaglianza. Nell’intelletto, tuttavia, l’uguaglianza viene colta non tramite una similitudine avvolta nelle forme della qualità o della quantità, ma tramite una semplice e pura forma intelligibile, ossia attraverso una nuda similitudine. E ciò che viene vista è l’uguaglianza stessa, la quale è, per tutte le cose, la forma del loro essere e del loro essere conosciute e che si manifesta in modi diversi nelle diverse similitudini. E la manifestazione singolare dell’uguaglianza, quella che noi chiamiamo la singola cosa, [costituita] nello splendore dell’uguaglianza, la mente umana, essendo una manifestazione viva ed intelligente dell’uguaglianza, la intuisce per natura in se stessa103. La mente umana, infatti, non è altro che il segno di quella co-uguaglianza [divina]; è, per così dire, la prima manifestazione di quella conoscenza che il profeta chiama la «luce del volto» di Dio «segnata su di noi»104. Per questo motivo, l’uomo conosce per natura il buono, l’equo, il giusto e il retto105, perché sono riflessi nei quali risplende l’uguaglianza; ed egli elogia la legge che dice: «fai agli altri ciò che vuoi sia fatto a te»106, perché essa è un riflesso nel quale risplende l’uguaglianza. Il cibo della vita intellettuale è costituito, infatti, da tali virtù; per questo motivo, l’uomo non ignora il ristoro che gli deriva da quello che è il suo nutrimento107. Come la vista sensibile si rapporta alla luce sensibile, così la vista della mente si rapporta a questa luce intelligibile108. La luce sensibile, infatti, essendo un’immagine di quella intelligibile, ha in sé una similitudine dell’uguaglianza, in quanto nella luce sensibile non si vede nulla di disuguale. Ciò che è certo è questo: la vista sensibile non percepisce nul-
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cut visus sensibilis nihil sentit nisi lucem et lucis apparentiam in signis suis neque quidquam aliud esse iudicat, quin immo constanter affirmat sublata luce nil penitus manere – pascitur enim videre ex illis –, ita et mentis visus nihil sentit quam intelligibilem lucem sive aequalitatem et eius apparitionem in signis suis atque verissime profitetur quod hac luce sublata nihil nec esse nec intelligi potest. Quomodo enim sublata aequalitate staret intellectus, cuius intelligere in adaequatione consistit, quae utique desineret aequalitate sublata? Nonne veritas sublata foret, quae est adaequatio rei ad intellectum aut aequatio rei et intellectus? Nihil igitur in veritate maneret aequalitate sublata, cum in veritate ipsa nihil reperiatur quam aequalitas. 35
Capitulum XI
Et ut videas animam sensitivam non esse intellectum, sed eius similitudinem seu imaginem, attende quomodo in vidente duplex est forma, una informans, quae est similitudo obiecti, alia est formans, quae est similitudo intelligentiae. Formare et informare agere quoddam est. Cum autem nihil fiat sine ratione, intellectus est principium actionum, quae sunt ad finem. Facit autem omnia aut per se aut per naturam; ideo opus naturae est opus intelligentiae. Hinc quando obiectum per suam similitudinem informat, hoc naturaliter fit, scilicet per intelligentiam medio naturae. Quando vero intelligentia format, hoc facit per propriam suam similitudinem. In vidente igitur duae sunt similitudines, alia obiecti, alia intelligentiae, sine quibus non fit visio. Similitudo obiecti est superficialis et extrinseca, similitudo intelligentiae centralis et intrinseca. Similitu-
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la se non la luce e la manifestazione della luce in quelli che sono i suoi segni [gli oggetti illuminati], e ritiene che non esista nulla di altro, ed anzi afferma continuamente che, se viene tolta la luce, non rimane assolutamente più nulla – il vedere, infatti, si nutre della luce e dei suoi segni109. Allo stesso modo, anche la vista della mente non percepisce che la luce intelligibile, o l’uguaglianza intelligibile, e la manifestazione della luce in quelli che sono i suoi segni [gli oggetti intelligibili], e riconosce, con la massima verità, che, se viene tolta questa luce, non c’è più nulla che possa esistere o essere conosciuto. Se venisse infatti tolta l’uguaglianza, come potrebbe sussistere l’intelletto?110 L’intendere dell’intelletto, infatti, consiste in una adeguazione, la quale verrebbe completamente meno se venisse tolta l’uguaglianza. Non verrebbe forse tolta la verità, la quale consiste in una adeguazione della cosa all’intelletto o in una adeguazione della cosa e dell’intelletto?111 Se venisse tolta l’uguaglianza, non rimarrebbe quindi più nulla di vero, in quanto nella verità stessa non si trova nient’altro che uguaglianza112.
Capitolo xi
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Per vedere che l’anima sensitiva non è l’intelletto, ma è una similitudine o un’immagine dell’intelletto, considera come in colui che vede vi sia una duplice forma: una che informa, e che è una similitudine dell’oggetto, e un’altra che forma e che è una similitudine dell’intelligenza113. Il formare e l’informare sono, in certo qual modo, un agire. Dal momento che, tuttavia, niente viene fatto senza una ragione, l’intelletto è il principio delle azioni che vengono compiute in vista di un fine. Ora, l’intelletto fa tutto o tramite se stesso, o tramite la natura, per cui l’opera della natura è un’opera dell’intelligenza114. Pertanto, quando un oggetto informa tramite la sua similitudine, ciò avviene in modo naturale, ossia attraverso l’intelletto con la mediazione della natura. Quando, invece, l’intelligenza forma, essa lo fa tramite una propria similitudine. In colui che vede, pertanto, ci sono due similitudini, una è quella dell’oggetto e l’altra è quella dell’intelligenza; senza queste due similitudini, la visione non avviene. La similitudine dell’oggetto è superficiale ed esteriore, la similitudine dell’intelligenza è centrale ed in-
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do obiecti est instrumentum similitudinis intelligentiae. Similitudo igitur intelligentiae mediante similitudine obiecti sentit seu cognoscit. 36 Sentire igitur animam sensitivam, quae similitudo est intelligentiae, et speciem obiecti, quae est similitudo obiecti, requirit. Quare anima sensitiva non est intellectus, cum non sentiat sine similitudine obiecti. Intellectus enim non dependet ab aliquo, ut intelligibilia intelligat, et nullo alio a se ipso indiget instrumento, cum sit suarum actionum principium. Intelligit enim hoc complexum: ‹quodlibet est vel non est,› sine aliquo instrumento seu medio; sic et cuncta intelligibilia. Sensibilia non intelligit, quia sensibilia et non intelligibilia. Quare oportet, ut intelligibilia prius fiant, antequam intelligantur, sicut nihil sentitur, nisi sensibile fiat. 37
Capitulum XII
Adhuc, ut in sensibilibus consideres aequalitatem, nonne alia superficies plana, alia rotunda, alia media? Et si aut planam aut rotundam mente conspicis, utique nihil non aequale habent. Planities quid aliud quam aequalitas? Sic et rotunditas aequalitas est. Aequaliter enim a centro se habet rotundi superficies et necessario undique aequalis, nullibi se aliter habens. Planities eodem se habet modo undique. Quod si ad illam respicis planitiem, qua nulla dari potest aequalior, utique, cum omnis plana superficies splendeat, maxime illa splendebit. Sic et rotunda splendebit et movebitur, ut in libello De globo patet. Mediae vero superficies non possunt penitus ab omni aequalitate esse alienae, cum cadant inter planam
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terna. La similitudine dell’oggetto è lo strumento della similitudine dell’intelligenza. La similitudine dell’intelligenza, quindi, percepisce o conosce per mezzo della similitudine dell’oggetto. La percezione sensibile, pertanto, esige sia l’anima sensitiva, che è una similitudine dell’intelligenza, sia una forma dell’oggetto, che è la similitudine dell’oggetto. Per questo motivo, l’anima sensitiva non è l’intelletto, in quanto essa non percepisce senza una similitudine dell’oggetto. L’intelletto, infatti, per intendere le cose intelligibili non dipende da altro e non ha bisogno di nessun altro strumento oltre se stesso, dal momento che l’intelletto è il principio delle proprie azioni. Ad esempio, l’intelletto intende il giudizio «ogni cosa è o non è» senza bisogno di alcuno strumento o mediazione; e lo stesso vale per tutti gli oggetti intelligibili115. L’intelletto non intende le cose sensibili, per il fatto che esse sono sensibili e non intelligibili. Gli oggetti sensibili, pertanto, devono essere resi intelligibili prima di essere intesi con l’intelletto, così come non si percepisce nulla se non diventa sensibile.
Capitolo xii
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Inoltre, se vuoi esaminare l’uguaglianza nell’ambito delle realtà sensibili, considera questo: non è forse vero che alcune superfici sono piane, altre rotonde, altre intermedie? E se consideri con la mente una superficie piana o una superficie rotonda, vedrai certamente che esse non hanno nulla di disuguale. Che cos’altro è il piano se non uguaglianza? Così anche la rotondità è uguaglianza. Infatti, la superficie di una cosa rotonda ha ogni punto che si trova ad un’uguale distanza dal centro ed essa è necessariamente uguale ovunque, dal momento che in nessun punto si comporta in maniera diversa. E anche la superficie piana si comporta nello stesso modo in ogni suo punto. Ma se consideri quella superficie piana della quale nessun’altra può essere più uguale, allora, dal momento che ogni superficie piana splende, essa splenderà in modo massimo. Parimenti, anche una superficie rotonda splenderà e si muoverà, come risulta evidente da quanto ho detto nel mio libro Il gioco della palla116. Ma anche le superfici intermedie non possono essere del tutto prive di ogni uguaglianza, dal momento che esse stanno
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et rotundam. Sic nec inter rectam lineam et circularem, quarum quaelibet aequalis est, nulla cadere potest linea aequalitatis expers. 38 Ita et de numero, quorum nullus est aequalitatis expers, quando in ipsis non nisi unitatis progressio reperitur, et nullus est, qui sit variabilis aut minus plusque capiat. Hoc certe non aliunde quam ab aequalitate sic esse oportet. Deinde, nonne nihil in sanitate aut vita aut talibus quibuscumque veraciter quam aequalitas reperitur? Qua sublata nec sensus nec imaginatio nec comparatio nec proportio nec intellectus remanebit; sic nec amor nec concordia nec iustitia nec pax erunt, nec durare quidquam poterit. 39
Capitulum XIII
Post primi principii considerationem adhuc ex dictis aliquid de anima inferam. Elicias ex praemissis quomodo aer nullo sensu nostro attingitur nisi qualificatus. Ex quo constat quod, si aer viveret vita sensitiva, in se sentiret species qualitatum. Aer autem aut subtilis est aut grossus aut medio modo se habet. Subtilis aether est. Oportet igitur animam sensitivam aerem vivificare sibi coniunctum, ut in vivificato aere sentire possit species obiectorum, puta in aere vivo diaphano et subtili speciem visibilis, in communi speciem soni, in ingrossato et immutato species aliorum sensuum. Non est igitur anima sensitiva nec terra nec aqua nec aer nec aether sive ignis, sed est spiritus vivificans aerem modo praemisso, et coniunctum ex spiritu et aere per sensibilem speciem in actu positum sentit. Aer igitur corpus vitae spiritus nostri sensitivi exsistit, quo mediante vivificat totum corpus et sentit obiecta, et non
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tra quelle piane e quelle rotonde. Allo stesso modo, anche tra una linea retta e una linea circolare, ognuna delle quali è [rispettivamente] uguale, non può esserci alcuna linea che sia priva di uguaglianza. Lo stesso vale anche per i numeri; nessun numero, infatti, è privo dell’uguaglianza, dal momento che nei numeri non si trova se non una progressione dell’unità, e non c’è nessun numero che sia variabile o che ammetta un più o un meno. Questo fatto può certamente essere dovuto solo all’uguaglianza. Non è poi forse vero che, nella salute, nella vita e in ogni altra cosa di questo genere, non si trova effettivamente altro che l’uguaglianza? Se essa viene tolta, non resteranno né i sensi, né l’immaginazione, né la comparazione, né la proporzione, né l’intelletto; e allo stesso modo, non ci saranno né l’amore, né la concordia, né la giustizia, e nulla potrà durare117.
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Dopo aver considerato il primo principio, vorrei ora trarre, da quanto abbiamo detto, qualche conseguenza a proposito dell’anima118. Da ciò che è stato detto in precedenza, ricavi che l’aria non viene colta da nessuno dei nostri sensi se essa non è determinata qualitativamente119. Da ciò risulta evidente che, se l’aria fosse viva e dotata di una vita sensitiva, percepirebbe in se stessa le forme delle qualità120. L’aria, tuttavia, è o rarefatta, o pesante o ha una qualità intermedia. L’etere è aria rarefatta. L’anima sensitiva, pertanto, deve vivificare l’aria che ad essa si congiunge, in modo da poter percepire, nell’aria che essa vivifica, le forme [specie] degli oggetti; ad esempio, nell’aria viva, rarefatta e trasparente la forma di ciò che è visibile, nell’aria comune la forma del suono, nell’aria pesante e alterata le forme che sono proprie degli altri sensi121. L’anima sensitiva, pertanto, non è né terra, né acqua, né aria, né etere, né fuoco, ma è uno spirito che vivifica l’aria nel modo che abbiamo appena detto, e ciò che è costituito dall’unione di spirito e di aria percepisce quando viene fatto passare all’atto dalla forma sensibile. L’aria, pertanto, risulta essere il «corpo» della vita del nostro spirito sensitivo, e per mezzo di essa lo spirito sensitivo anima l’intero corpo e
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est naturae alicuius obiecti sensibilis, sed simplicioris et altioris virtutis. Sentire quoddam pati est. Agit igitur species in corpus organicum iam dictum. 40 Hinc species non est corporalis, cum agat in corpus, sed est in respectu ad corpus illud organicum spiritus formans. Et quia sentitur, erit corpus illud vivum et purum omni specie carens. Anima autem, quae est vivificans ipsum et cuius est sentire, penitus omni corpore et specie simplicior et abstractior non cognoscit, nisi attendat. Est igitur virtutis semper vivificativae et cognitivae, qua utitur, quando movetur, ut attendat. Est igitur in ipsa anima sensitiva ultra virtutem vivificativam quaedam potentia cognitiva, quasi imago sit intelligentiae, quae in nobis ipsi intelligentiae iungitur. Vides radium solis penetrare vitrum coloratum et in aere speciem coloris apparere. Splendore enim illo, qui est splendor coloris vitri, vides aerem coloratum in similitudine vitri; habet se tamen color vitri ut corpus et color aeris ut intentio et spiritus ad illum. Huius autem intentionis species adhuc subtilior et spiritualior, quia est splendor eius, sentitur in visu, scilicet in diaphano aerio vivo oculi. 41 Anima igitur sensitiva, quae vivificat diaphanum, est adeo spiritualis, quod splendorem splendoris sentit in suo diaphano purissimo. Sentit enim diaphani eius superficiem penitus incoloratam in similitudine tingi, et se convertens ad obiectum, unde splendor venit, medio illius splendoris, quem in superficie corporis sui diaphani sentit, obiectum cognoscit. Unde, cum non fiat visio, nisi videns attendat ad splendorem seu intentionem – praetereuntes enim, si
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percepisce gli oggetti; lo spirito sensitivo, tuttavia, non ha la natura di nessun oggetto sensibile, ma ha la natura di una forza più semplice ed elevata. Il percepire consiste in una sorta di recezione passiva122. È la forma, pertanto, che agisce sul corpo organico di cui abbiamo già parlato. Per questo motivo, dal momento che agisce sul corpo, la forma non è corporea123, ma, rispetto a quel corpo organico, è uno spirito formante. E poiché la forma viene percepita, quel corpo sarà vivo e puro, privo di ogni forma. L’anima, invece, che vivifica il corpo, alla quale appartiene il percepire e che è molto più semplice ed astratta di ogni corpo, conosce solo se presta attenzione. Essa, pertanto, possiede una forza che vivifica sempre il corpo e una forza cognitiva, della quale l’anima si serve quando si muove per prestare attenzione124. Anche nell’anima sensitiva, pertanto, oltre alla forza vivificatrice [del corpo], c’è una certa potenza cognitiva, la quale è come un’immagine dell’intelligenza, e che in noi [uomini] è congiunta con la stessa intelligenza125. Vedi che un raggio di sole attraversa un vetro colorato e che nell’aria appare una forma del colore. Vedi infatti che l’aria assume un colore simile a quello del vetro grazie a quello splendore che è lo splendore del vetro126. Ora, il colore del vetro si comporta [nei confronti di questo splendore] come il corpo e il colore dell’aria come l’intenzione [la presenza intenzionale dell’oggetto]127 e lo spirito. Ma la forma di questa intenzione [presenza intenzionale], che è ancora più sottile e spirituale in quanto ne è lo splendore, viene percepita nella vista, ossia nel mezzo trasparente, aereo e vivo dell’occhio128. L’anima sensitiva, pertanto, che vivifica il mezzo trasparente, è talmente spirituale che essa percepisce il risplendere di quello splendore nel suo mezzo trasparente che è completamente puro. Essa, infatti, percepisce che la superficie del suo mezzo trasparente, che è del tutto priva di colore129, si tinge a somiglianza del colore, e, volgendosi all’oggetto dal quale proviene lo splendore, essa conosce l’oggetto per mezzo di quello splendore che essa percepisce sulla superficie del corpo trasparente. Di conseguenza, dato che la visione non avviene se colui che vede non presta attenzione allo splendore o intenzione [presenza intenzionale dell’oggetto] – non vediamo infatti i passanti se non vi prestiamo attenzione –, è evi-
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non sumus attenti, non videmus –, patet quod visio ex intentione coloris et attentione videntis oritur. 42 Et si bene consideras, in aere illo colorato similitudinem hominis reperies. Nam est corpus, anima et spiritus. Corpus, ut aer est; anima, ut species coloris per omnia aerem penetrantis, formantis et colorantis; spiritus vero, ut radius lucis colorem illuminantis. Nam rationalis nostra anima nisi in se haberet spiritum discretionis, qui in ea lucet, homines non essemus nec clare prae ceteris animalibus sentiremus. Lux autem illa, quae in nobis lucet, desuper datur et non commiscetur corpori; lucem autem esse discretivam experimur. 43 Ideo omnem discretionem et illuminationem atque perfectionem animalitatis nostrae ab illa insensibili luce nos habere certissime scimus, quae si non luceret in nobis, penitus deficeremus; quemadmodum cessante radio solis penetrare vitrum coloratum nihil de colorato aere visibile manet. Caelum autem ut vitrum est in se zodiacum seu circulum vitae continens; virtus vero omnia creantis est ut radius. Ex his paucis materiam speculandi sumito, quam, ut volueris, poteris ampliare. Superest de fide nostra dulcissima consideratio, quae omnia sua certitudine superat et sola est felicitans; circa quam solide et crebriter verseris. 44
Conclusio
Habes, quae nos in his alias latius sensimus, in multis et variis opusculis, quae post istud Compendium legere poteris, et reperies primum principium undique idem varie nobis apparuisse et nos ostensionem eius variam varie depinxisse.
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dente che la visione nasce dall’intenzione [presenza intenzionale] del colore e dall’attenzione di colui che vede. E se presti bene attenzione, troverai in quell’aria colorata una similitudine dell’uomo. L’uomo, infatti, è corpo, anima e spirito130. È un corpo, come lo è l’aria; è un’anima, come lo è la forma del colore, che penetra tutta l’aria, le conferisce una forma e la colora; è uno spirito, invece, come lo è un raggio di luce che illumina il colore. Se la nostra anima razionale non avesse in sé uno spirito capace di distinguere, spirito che in essa risplende e la illumina, non saremmo uomini, né avremmo delle percezioni più chiare rispetto a quelle degli altri animali. Ora, quella luce che risplende in noi ci viene donata dall’alto e non si mescola con il corpo; il fatto, invece, che tale luce sia una forza capace di distinguere ce lo insegna l’esperienza131. Pertanto, sappiamo con assoluta certezza che ogni nostra capacità di distinguere e di illuminare ed anche di realizzare pienamente la nostra natura animale l’abbiamo da quella luce non sensibile, e se essa non risplendesse in noi, saremmo del tutto manchevoli; è come quando il raggio di sole smette di attraversare il vetro colorato: non resta più nulla di colorato che si possa vedere nell’aria. Ora, il cielo, che contiene in sé lo zodiaco o il circolo della vita, è come il vetro132, mentre la forza del creatore di tutte le cose è come il raggio del sole. Da queste poche osservazioni puoi trarre materiale per le tue riflessioni, materiale che potrai ampliare quanto vorrai. Resta ancora da svolgere una considerazione sulla nostra fede133, fonte di grandissima gioia, la quale, a motivo della sua certezza, è superiore a tutto, ed è la sola che è in grado di renderci felici; ad essa cerca di dedicarti con serietà e frequenza.
Conclusione
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Conosci ora il nostro pensiero su questi argomenti, che altrove abbiamo discusso in maniera più estesa, in molti e vari scritti che potrai leggere dopo questo Compendio. E troverai che il primo principio, che è ovunque identico, ci è apparso in modi diversi e che noi abbiamo descritto in modi diversi le sue diverse manifestazioni.
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Epilogus
Tendit tota directio ad unitatem obiecti, ad quam Philippus apostolus per Christum, qui verbum dei, ductus dicebat: «Domine, ostende nobis patrem, et sufficit nobis». Patrem verbi ac aequalitatis, quia omnipotens, posse supra nominamus; unum est obiectum visus mentis et visus sensus, visus mentis, uti est in se, visus sensus, uti est in signis, et est ipsum posse, quo nihil potentius. Hoc cum sit omne, quod esse potest, tunc et omnia, quae esse possunt, ipsum est sine sui variatione, augmento sive diminutione. Res igitur omnes cum non sint nisi quod esse possunt et posse, quo nihil potentius, sit omne posse esse, nec est alia omnium, quae sunt, causa nisi ipsum posse esse. Est enim res, quia ipsum posse esse est; et est hoc et non aliud, quia summa aequalitas est; et est una, quia summa unio est. Hinc nihil se offert visui mentis in omnibus et per omnia nisi quo nihil potentius. Non enim ille visus res appetit multas et varias, quoniam ad multa et varia non inclinatur, sed naturaliter ad id fertur, quo nihil potentius, in cuius visione vivit et quiescit. 46 Et quoniam potentia, qua nihil potentius, est virtus maxime unita, hinc unitatem ipsam nominat, qua nihil potentius. Res vero, quae esse possunt, numeros appellat. Obiectum vero visus mentis est unitas omnipotens invariabilis et immultiplicabilis, non numerus, cum in numero nihil sit, quod videre cupiat, nisi ipsa unitas, quae est omne id, quod omnis numerus est et esse aut explicare potest. Respicit enim, quid in omni numero numeratur, et non ad numerum. Nihil autem in quocumque et qualitercumque magno aut parvo, pari aut impari numero esse potest quam virtus illa, qua nihil potentius, quae unitas dicitur. Non est igitur obiectum
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compendio, Epilogo 45-46
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Epilogo La guida offerta in queste pagine è diretta interamente ad un unico oggetto, del quale l’apostolo Filippo, condotto ad esso da Cristo, che è il Verbo di Dio, diceva: «Signore a noi basta che tu ci mostri il Padre»134. Il Padre del Verbo e dell’Uguaglianza lo abbiamo sopra chiamato «potere», in quanto è onnipotente135; l’oggetto della vista della mente e della vista sensibile è uno solo, ed è il potere stesso di cui nulla è più potente: esso è l’oggetto della vista della mente così come è in se stesso, ed è l’oggetto della vista sensibile così come è presente nei segni sensibili136. Dal momento che il potere stesso è tutto ciò che può essere, egli è anche tutte le cose che possono essere, senza che ciò comporti in lui alcuna variazione, aumento o diminuzione137. Pertanto, dal momento che tutte le cose non sono se non ciò che esse possono essere, e dal momento che il potere, di cui nulla è più potente, è ogni poter-essere138, di tutto ciò che esiste non vi è altra causa se non il poter-essere stesso139. Una cosa, infatti, esiste perché il poter-essere stesso esiste, ed è questa cosa determinata e non un’altra perché esiste la somma uguaglianza, ed è una perché esiste la somma unione. Di conseguenza, in tutte le cose e attraverso tutte le cose alla visione della mente non si presenta se non ciò di cui nulla è più potente. La visione della mente, infatti, non tende alle cose molteplici e varie, in quanto non ha un’inclinazione per ciò che è molteplice e vario, ma è condotta dalla sua natura verso ciò di cui nulla è più potente, nella cui visione consiste la sua vita e dove essa trova la sua quiete. E poiché la potenza di cui nulla è più potente è la forza unificata in grado massimo140, la mente la chiama «Unità», di cui nulla è più potente. Le cose che possono essere le chiama invece «numeri». L’oggetto della visione della mente, tuttavia, è l’unità onnipotente, che è invariabile e che non può essere moltiplicata, non il numero141, dal momento che nel numero non c’è nulla che la mente desideri vedere se non l’unità, la quale è tutto ciò che ogni numero è e può essere o esplicare142. La mente, infatti, guarda a ciò che viene numerato in ogni numero, e non al numero. Ma in qualsiasi numero, di qualunque specie esso sia, grande o piccolo, pari o dispari, non può esserci che quella forza di cui nulla è più potente e che vie-
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visus mentis aliud quam posse, quo nihil potentius, cum illud sine sui mutatione solum possit esse omnia et sit etiam, sine quo nihil esse potest. Quomodo enim quidquam esset sine ipso posse, quando esse non posset? Et si sine ipso aliquid esse posset, utique sine ipso posse posset. 47 Obiectum autem sensus visus res aliqua est sensibilis, quae, cum non sit nisi ipsum, quod esse potest, non est nisi idem obiectum visus mentis, non ut in se, quemadmodum se menti, sed ut in signo sensibili, quemadmodum se sensibili visui obicit. Quia igitur ipsum posse, quo nihil potentius, vult posse videri, hinc ob hoc omnia. Et haec est causa causarum et finalis, cur omnia, ad quam omnes rerum causae in esse et nosci ordinantur. Et sic claudo brevissimam compendiosissimamque directionem, quam mundiores acutiorisque visus subtilius contemplantes clarius dilatabunt ad laudem cunctipotentis semper benedicti.
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ne chiamata unità. Pertanto, l’oggetto della visione della mente non è altro che il potere di cui nulla è più potente, in quanto egli soltanto, senza alcun mutamento da parte sua, può essere tutte le cose ed è anche ciò senza di cui nulla può esistere. Infatti, come qualcosa potrebbe essere senza il potere stesso, se appunto non potesse essere? E se qualcosa potesse essere senza di lui, allora potrebbe senza il potere143. L’oggetto del senso della vista, invece, è la cosa sensibile; questa, tuttavia, dal momento che è solo ciò che può essere, è lo stesso oggetto della visione della mente, non come esiste in se stesso, ossia nel modo in cui si offre alla mente, ma come è presente in un segno sensibile, ossia nel modo in cui si offre alla vista sensibile. Poiché, dunque, il potere stesso, di cui nulla è più potente, vuole poter essere visto, per questo motivo esistono tutte le cose144. E questa è la causa delle cause145 e la causa finale di tutte le cose, alla quale sono ordinate tutte le cause delle cose, nel loro essere e nel loro essere conosciute. Concludo in questo modo questa guida brevissima, composta in forma di compendio: coloro che sono più puri, che hanno una vista più acuta e che sono in grado di riflettere con maggiore penetrazione la potranno ampliare in modo più chiaro, a lode dell’onnipotente, sempre benedetto.
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IL VERTICE DELLA CONTEMPLAZIONE
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1 Petrus:
Video te quadam profunda meditatione aliquot dies raptum adeo quod timui tibi molestior fieri, si te quaestionibus de occurrentibus pulsarem. Nunc, cum te minus intentum et quasi magni aliquid invenisses laetum reperiam, ignosces spero, si ultra solitum te interrogavero. Cardinalis: Gaudebo. Nam de tua tam longa taciturnitate saepe admiratus sum, maxime qui iam annis quattuordecim me audisti multa publice et private de studiosis inventionibus loquentem et plura quae scripsi opuscula collegisti. Utique, postquam nunc dono dei et meo ministerio divinum adeptus es sacratissimi sacerdotii locum, tempus venit, ut loqui et interrogare incipias. 2 Petrus: Verecundor ob imperitiam. Tamen pietate tua confortatus peto, quid id novi est, quod his Paschalibus in meditationem venit. Credidi te perfecisse omnem speculationem in tot variis tuis codicibus explanatam. Cardinalis: Si apostolus Paulus in tertium caelum raptus nondum comprehendit incomprehensibilem, nemo umquam ipsum qui maior est omni comprehensioni satiabitur quin semper instet, ut melius comprehendat. Petrus: Quid quaeris? Cardinalis: Recte ais. Petrus: Ego te interrogo, et tu me derides. Cum peto, quid quaeras, tu dicis ‘recte ais’, qui nihil aio, sed quaero. Cardinalis: Cum diceres ‘quid quaeris’, recte dixisti, quia quid quaero. Quicumque quaerit, quid quaerit. Si enim nec aliquid seu
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Pietro1. Vedo che per alcuni giorni sei stato quasi rapito in una profonda meditazione, al punto che ho avuto timore di disturbarti troppo se ti avessi tediato con le domande che mi venivano in mente; ma, dal momento che ora ti trovo meno assorto e contento, come se avessi scoperto qualcosa di importante, spero che mi perdonerai se ti interrogherò più a lungo del solito. Cardinale. Ne sarò felice. Mi sono infatti spesso meravigliato del fatto che tu sia rimasto così a lungo in silenzio, soprattutto perché sono oramai quattordici anni che mi ascolti parlare diffusamente, in pubblico e in privato, delle scoperte che ho fatto nei miei studi e hai raccolto molte delle opere che io ho scritto2. E ora che, per dono di Dio e attraverso il mio ministero, hai raggiunto la dignità divina del santo sacerdozio, è giunto il momento che inizi a parlare e ad interrogare. Pietro. Ho un certo ritegno a farlo a motivo della mia inesperienza. Tuttavia, confortato dalla tua benevolenza, ti chiedo su quale nuovo argomento tu abbia meditato durante questi giorni pasquali. Credevo che avessi già portato a compimento l’intera tua riflessione, che si trova esposta in tanti dei tuoi diversi scritti. Cardinale. Se l’apostolo Paolo, sebbene rapito al terzo cielo, non comprese ancora l’incomprensibile, nessuno sarà mai così appagato da non cercare continuamente e insistentemente di comprendere meglio colui che è superiore ad ogni comprensione3. Pietro. Che cosa cerchi allora? Cardinale. Dici bene. Pietro. Io ti interrogo e tu mi deridi: ti chiedo infatti che cosa cerchi e tu mi rispondi «dici bene», mentre io non dico nulla, ma ti pongo una domanda. Cardinale. Dicendo «che cosa cerchi» ti sei espresso bene, perché è il «che cosa» quello che io cerco. Chiunque cerca, cerca
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quid quaereret, utique non quaereret. Ego igitur – sicut omnes studiosi – quaero quid, quia scire valde cupio, quid sit ipsum quid seu quiditas, quae tantopere quaeritur. Petrus: Putasne quod reperiri possit? Cardinalis: Utique. Nam motus, qui omnibus studiosis adest, non est frustra. 3 Petrus: Si hactenus nemo repperit quid, ultra cunctos tu conaris? Cardinalis: Puto multos aliqualiter et vidisse et in scriptis visionem reliquisse. Nam quiditas, quae semper quaesita est et quaeritur et quaeretur, si esset penitus ignota, quomodo quaereretur, quando etiam reperta maneret incognita? Ideo aiebat quidam sapiens ipsam ab omnibus, licet a remotis, videri. 4 Cum igitur iam annis multis viderim ipsam ultra omnem potentiam cognitivam ante omnem varietatem et oppositionem quaeri oportere, non attendi quiditatem in se subsistentem esse omnium substantiarum invariabilem subsistentiam; ideo nec multiplicabilem nec plurificabilem, et hinc non aliam et aliam aliorum entium quiditatem, sed eandem omnium hypostasim. Deinde vidi necessario fateri ipsam rerum hypostasim seu subsistentiam posse esse. Et quia potest esse, utique sine posse ipso non potest esse. Quomodo enim sine posse posset? Ideo posse ipsum, sine quo nihil quicquam potest, est quo nihil subsistentius esse potest. Quare est ipsum quid quaesitum seu quiditas ipsa, sine qua non potest esse quicquam. Et circa hanc theoriam in his festivitatibus versatus sum cum ingenti delectatione. Petrus: Quia sine posse nihil quicquam potest, uti ais – et verum te dicere video –, et sine quiditate utique non est quicquam, bene video posse ipsum quiditatem dici posse. Sed miror, cum iam
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il «che cosa». Se infatti non cercasse qualcosa o il «che cosa», non cercherebbe affatto. Come tutti gli studiosi, io, pertanto, cerco il «che cosa», perché desidero ardentemente sapere che cosa sia questo «che cosa», ovvero che cosa sia la quiddità che viene ricercata con tanta insistenza4. Pietro. E ritieni che possa essere trovata? Cardinale. Certo. Infatti, la tensione alla ricerca, che è presente in tutti gli studiosi, non può essere vana5. Pietro. Se finora nessuno l’ha trovata [la quiddità]6, perché tenti ancora al di là dei tentativi compiuti da tutti gli altri? Cardinale. Ritengo che molti l’abbiano in qualche modo vista e di questa visione abbiano lasciato traccia nei loro scritti. Infatti, se la quiddità, che è stata sempre ricercata, è sempre ricercata e sarà sempre ricercata7, fosse del tutto sconosciuta, in che modo la si potrebbe ricercare, dato che, anche se venisse scoperta, non verrebbe riconosciuta?8 Per questo, un certo sapiente diceva che essa è vista da tutti, per quanto da lontano9. Pertanto, sebbene sia oramai da molti anni che ho compreso che la quiddità dev’essere ricercata al di là di ogni facoltà conoscitiva e pima di ogni diversità ed opposizione, non avevo posto mente al fatto che la quiddità che sussiste in se stessa è la sussistenza invariabile di tutte le sostanze, e che, pertanto, essa non è né moltiplicabile, né accrescibile, e che, quindi, non ci sono quiddità diverse a seconda dei diversi enti, ma per tutti gli enti c’è un’unica ed identica ipostasi10. Successivamente ho compreso che si deve necessariamente riconoscere che questa ipostasi o sussistenza delle cose può essere11. E poiché può essere, essa non può certamente essere senza lo stesso potere. In che modo, infatti, potrebbe senza il potere? Perciò, il potere stesso, senza il quale nulla può nulla, è ciò rispetto a cui non può esservi nulla di più sussistente. Per questo, esso è il «che cosa» che viene ricercato, ovvero è la quiddità stessa senza la quale nessuna cosa può essere. È a questa riflessione che mi sono dedicato con enorme gioia durante queste festività12. Pietro. Poiché senza il potere nulla può nulla, come tu dici, e vedo che dici il vero, e poiché senza la quiddità non vi è senz’altro nulla, vedo bene che il potere stesso può essere detto quiddità. Ma
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ante de possest multa dixisses et in trialogo explanasses, cur illa non sufficiunt? 5 Cardinalis: Videbis infra posse ipsum, quo nihil potentius nec prius nec melius esse potest, longe aptius nominare illud, sine quo nihil quicquam potest nec esse nec vivere nec intelligere, quam possest aut aliud quodcumque vocabulum. Si enim nominari potest, utique posse ipsum, quo nihil perfectius esse potest, melius ipsum nominabit. Nec aliud clarius, verius aut facilius nomen dabile credo. Petrus: Quomodo ais facilius, quando nihil difficilius arbitror re semper quaesita et numquam plene inventa? Cardinalis: Veritas quanto clarior tanto facilior. Putabam ego aliquando ipsam in obscuro melius reperiri. Magnae potentiae veritas est, in qua posse ipsum valde lucet. Clamitat enim in plateis, sicut in libello De idiota legisti. Valde certe se undique facilem repertu ostendit. 6 Quis puer aut adolescens posse ipsum ignorat, quando quis que dicit se posse comedere, posse currere aut loqui? Nec est quis quam mentem habens adeo ignarus, qui non sciat sine magistro nihil esse quin possit esse, et quod sine posse nihil quicquam potest sive esse sive habere, facere aut pati. Quis adolescens, interrogatus si posset portare lapidem, et responso facto quod posset, ultra interrogatus an sine posse posset, utique diceret ‘nequaquam’? Nam absurdam iudicaret atque superfluam interrogationem, quasi nemo sanae mentis dubium de hoc faceret quicquam facere aut fieri posse sine posse ipso. Praesupponit enim omnis potens posse ipsum adeo necessarium, quod penitus nihil esse possit eo non praesupposito. Si enim aliquid potest esse notum, utique ipsi posse nihil notius. Si aliquid facile esse potest, utique ipsi posse nihil facilius. Si aliquid certum esse potest, posse ipso nihil certius. Sic
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poiché in precedenza hai detto molte cose a proposito del «potereche-è» e le hai spiegate in un dialogo a tre, mi chiedo per quale motivo quelle cose che hai detto non siano sufficienti. Cardinale. Tra poco vedrai che il «potere stesso», del quale nulla può essere più potente, né anteriore, né migliore, è un nome di gran lunga più adatto13 per designare ciò senza cui nulla può né essere, né vivere, né conoscere14, di quanto lo sia il nome «potereche-è» o qualsiasi altro nome. Se esso può infatti essere nominato15, allora il «potere stesso», del quale nulla può essere più perfetto, sarà sicuramente il nome migliore. E non credo che vi sia un altro nome più chiaro, più vero o più facile. Pietro. In che senso dici «più facile», quando non vi è niente di più difficile di una cosa che è da sempre ricercata e che non è stata mai pienamente trovata? Cardinale. La verità quanto più è chiara tanto più è facile16. Un tempo ritenevo che la verità la si trovasse meglio nell’oscurità17. La verità, nella quale risplende con chiarezza il «potere stesso», possiede una grande potenza. Grida infatti nelle piazze, come hai letto nel mio libro L’idiota18. È assolutamente certo che la verità si mostra ovunque, facile da trovare. Quale fanciullo o quale ragazzo ignora il «potere stesso» quando ognuno dice di sé che può mangiare, può correre o può parlare? E non c’è nessuno dotato di ragione che sia stolto a tal punto da non sapere, anche senza l’aiuto di un maestro, che nulla è se non può essere19, che senza il potere nulla può nulla, né essere, né avere, né fare o subire qualcosa. Quale ragazzo, se gli si domandasse se può trasportare una pietra e se, dopo aver risposto che può trasportarla, gli si domandasse ulteriormente se potrebbe farlo senza il potere, non risponderebbe di no? Giudicherebbe infatti assurda e superflua la domanda, perché nessuno sano di mente dubiterebbe che si possa fare o subire qualcosa senza il potere stesso. Chiunque può qualcosa, infatti, presuppone il potere stesso, il quale è così necessario che niente può esistere senza presupporlo. Se qualcosa, infatti, può essere noto, niente è di sicuro più noto dello stesso potere. Se qualcosa può essere facile, niente è di sicuro più facile dello stesso potere. Se qualcosa può essere certo, niente è più certo dello
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nec prius nec fortius nec solidius nec substantialius nec gloriosius, et ita de cunctis. Carens autem ipso posse nec potest esse nec bonum nec aliud quodcumque esse potest. Petrus: Nihil certius his video, et puto neminem latere posse horum veritatem. 7 Cardinalis: Solum interest inter te et me attentio. Nam si te interrogarem, quid videres in omnibus posteris Adae qui fuerunt, sunt et erunt, etiam si forent infiniti, nonne si attenderes statim responderes te non nisi paternum posse primi parentis in omnibus videre? Petrus: Ita est penitus. Cardinalis: Et si subiungerem, quid in leonibus et aquilis et cunctis speciebus animalium videres, nonne eodem modo responderes? Petrus: Certe non aliter. Cardinalis: Quid in omnibus causatis et principiatis? Petrus: Dicerem me non nisi posse causae primae et primi principii videre. Cardinalis: Et quid, si ulterius a te sciscitarer, cum posse omnium talium primorum sit penitus inexplicabile, unde posse tale hanc habeat virtutem? Nonne mox responderes, quod a posse ipso absoluto et incontracto penitus omnipotente, cui nihil potentius nec sentiri nec imaginari nec intelligi potest, cum hoc sit posse omnis posse, quo nihil prius esse potest nec perfectius, quo non exsistente nihil penitus manere potest? Petrus: Ita profecto dicerem. 8 Cardinalis: Hinc posse ipsum est omnium quiditas et hypostasis, in cuius potestate tam ea quae sunt quam quae non sunt necessario continentur. Nonne haec omnino sic affirmanda diceres? Petrus: Omnino dicerem.
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stesso potere. Allo stesso modo, niente è anteriore, né più forte, né più saldo, né più sostanziale, né più glorioso dello stesso potere, e così di seguito. Ciò che è invece privo del potere stesso non può né essere, né essere buono, né essere qualsiasi altra cosa. Pietro. Vedo che niente è più certo di questo e ritengo che a nessuno possa sfuggire la verità di queste affermazioni. Cardinale. La sola differenza che c’è tra me e te consiste nel grado di attenzione. Ad esempio, se ti chiedessi che cosa vedi in tutti i discendenti di Adamo che furono, che sono e che saranno, anche se fossero infiniti, non risponderesti forse subito, se prestassi a ciò attenzione, che in tutti essi non vedi se non il potere paterno del primo padre? Pietro. Proprio così. Cardinale. E se io proseguissi e ti chiedessi che cosa vedi nei leoni, nelle aquile e in tutte le specie di animali, non risponderesti forse allo stesso modo? Pietro. In nessun altro modo, certo. Cardinale. E che cosa vedi in tutte le cose causate e che derivano da un principio? Pietro. Direi che non vedo se non il potere della prima causa e del primo principio. Cardinale. E se io ti ponessi quest’ulteriore domanda: «dal momento che il potere di tutti questi principi primi è del tutto inesplicabile, da dove un tale potere trae la sua forza?». Tu non risponderesti forse immediatamente che esso la trae dal potere stesso assoluto e non-contratto, del tutto onnipotente, del quale non c’è nulla di più potente che possa essere né percepito, né immaginato, né inteso, dal momento che esso è il potere di ogni potere, rispetto al quale nulla può essere anteriore né più perfetto, e senza il quale nulla può affatto sussistere?20 Pietro. Direi certamente così. Cardinale. Il potere stesso, quindi, è la quiddità e l’ipostasi di tutte le cose, e nel suo potere sono necessariamente contenute tanto le cose che sono quanto quelle che non sono. Non diresti anche tu che si debba sostenere proprio questo?21 Pietro. Lo direi senz’altro.
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Cardinalis: Posse igitur ipsius per quosdam sanctos lux nominatur, non sensibilis aut rationalis sive intelligibilis, sed lux omnium quae lucere possunt, quoniam ipso posse nihil lucidius esse potest nec clarius nec pulchrius. Respicias igitur ad lucem sensibilem, sine qua non potest esse sensibilis visio, et attende quomodo in omni colore et omni visibili nulla est alia hypostasis quam lux varie in variis essendi modis colorum apparens, ac quod luce subtracta nec color nec visibile nec visus manere potest. Claritas vero lucis, ut in se est, visivam potentiam excellit. Non igitur videtur, uti est, sed in visibilibus se manifestat, in uno clarius, in alio obscurius. Et quanto visibile magis clare lucem repraesentat, tanto nobilius et pulchrius. Lux vero omnium visibilium claritatem et pulchritudinem complicat et excellit. Nec lux se in visibilibus manifestat, ut se visibilem ostendat, immo ut potius se invisibilem manifestet, quando in visibilibus eius claritas capi nequit. Qui enim claritatem lucis in visibilibus invisibilem videt, verius ipsam videt. Capisne ista? Petrus: Eo facilius capio, quo a te pluries haec audivi. 9 Cardinalis: Transfer igitur haec sensibilia ad intelligibilia, puta posse lucis ad posse simpliciter seu posse ipsum absolutum et esse coloris ad esse simplex. Nam ita se habet esse simplex sola mente visibile ad mentem, sicut esse coloris ad sensum visus. Et introspicias, quid videat mens in variis entibus, quae nihil sunt nisi quod esse possunt, et hoc solum habere possunt quod ab ipso posse habent. Et non videbis varia entia nisi apparitionis ipsius posse varios modos; quiditatem autem non posse variam esse, quia est posse ipsum varie apparens.
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Cardinale. È per questo che da alcuni santi il potere stesso viene chiamato luce, [e con ciò essi intendono] non una luce percepibile sensibilmente, o una luce razionale o intelligibile, bensì la luce di tutte le cose che possono illuminare, poiché non v’è nulla che possa essere più luminoso, né più chiaro, né più bello del potere stesso22. Guarda dunque alla luce percepibile sensibilmente, senza la quale non può esservi alcuna visione sensibile, e nota come in ogni colore e in ogni cosa visibile non vi sia altra ipostasi che la luce, la quale appare in modi diversi nei diversi modi d’essere dei colori, e nota che, tolta la luce, non possono permanere né il colore, né l’oggetto visibile, né la vista. Tuttavia, la chiarezza della luce, come è in se stessa, supera la potenza visiva. Non viene pertanto vista come essa è, ma come si manifesta nelle cose visibili, in alcune in maniera più chiara, in altre in maniera più oscura. E quanto più chiaramente una cosa visibile rappresenta la luce, tanto più essa è nobile e bella. La luce, tuttavia, contiene in sé, nel modo della complicazione, e supera la chiarezza e la bellezza delle cose visibili. E la luce non si manifesta nelle cose visibili per rendersi visibile, ma piuttosto per manifestarsi come invisibile, dal momento che nelle cose visibili la sua chiarezza non può essere colta. Chi, infatti, nelle cose visibili vede la chiarezza della luce come invisibile, la vede in modo più vero. Comprendi questo? Pietro. Lo comprendo tanto più facilmente in quanto ho ascoltato da te queste cose in molte occasioni23. Cardinale. Trasferisci quindi alle realtà intelligibili queste considerazioni relative alle cose sensibili24: ad esempio, trasferisci il potere della luce al potere in quanto tale, ossia al potere stesso assoluto, e l’essere del colore all’essere in quanto tale. Infatti, l’essere in quanto tale, che è visibile solo con la mente, sta alla mente come l’essere del colore sta al senso della vista. Inoltre, scruta attentamente che cosa vede la mente nei vari enti, i quali non sono nient’altro che ciò che possono essere, e possono avere solo ciò che hanno dal potere stesso. Vedrai allora che i diversi enti non sono se non modi di apparire dello stesso potere, mentre la [loro] quiddità non può essere diversa, in quanto essa è il potere stesso che appare in modi diversi25.
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Nec in his, quae aut sunt aut vivunt aut intelligunt, quicquam aliud videri potest quam posse ipsum, cuius posse esse, posse vivere et posse intelligere sunt manifestationes. Quid enim aliud in omni potentia videri potest quam posse omnis potentiae? Non tamen in omnibus potentiis aut essendi aut cognoscendi posse ipsum, uti est, capi potest perfectissime, sed in illis apparet in uno potentius quam in alio; potentius quidem in intellectuali posse quam sensibili, quanto intellectus potentior est sensu. Sed in se posse ipsum supra omnem potentiam cognitivam, medio tamen intelligibilis posse, videtur verius, quando videtur excellere omnem vim capacitatis intelligibilis posse. Id quod intellectus capit intelligit. Quando igitur mens in posse suo videt posse ipsum ob suam excellentiam capi non posse, tunc visu supra suam capacitatem videt, sicut puer videt quantitatem lapidis maiorem, quam fortitudo suae potentiae portare posset. Posse igitur videre mentis excellit posse comprehendere. 11 Unde simplex visio mentis non est visio comprehensiva, sed de comprehensiva se elevat ad videndum incomprehensibile. Uti dum videt unum maius alio comprehensive, se elevat, ut videat illud quo non potest esse maius. Et hoc quidem est infinitum, maius omni mensurabili seu comprehensibili. Et hoc posse videre mentis supra omnem comprehensibilem virtutem et potentiam est posse supremum mentis, in quo posse ipsum maxime se manifestat; et est interminatum citra posse ipsum. Nam est posse videre ad posse ipsum tantum ordinatum, ut mens praevidere possit, quorsum tendit; sicut viator praevidet terminum motus, ut ad desideratum terminum gressus dirigere possit. Mens igitur nisi quietis et desiderii ac laetitiae suae felicitatisque terminum a remotis videre posset, quomodo curreret, ut comprehendat? Apostolus recte admo-
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Inoltre, nelle cose che sono, o vivono, o intendono non è possibile vedere nient’altro che il potere stesso, di cui il poter-essere, il poter-vivere ed il poter-intendere sono manifestazioni26. Che cos’altro si può infatti vedere in ogni potenza se non il potere di ogni potenza? Ciononostante, in tutte le potenze, o dell’essere o del conoscere, il potere stesso non può essere colto in maniera assolutamente perfetta, come esso è in sé; in queste potenze, tuttavia, esso appare in maniera più potente in alcune che in altre; in maniera più potente nel potere intellettuale che in quello percettivo, tanto quanto l’intelletto è più potente dei sensi. In sé, tuttavia, il potere stesso viene visto in modo più vero al di sopra di ogni potenza conoscitiva – sebbene ciò avvenga per mezzo del potere intelligibile –, quando si vede che esso supera ogni capacità del potere intelligibile27. L’intelletto intende ciò che esso riesce a cogliere. Pertanto, quando la mente vede che, con il potere che le è proprio, non può cogliere il potere stesso, a motivo della sua superiorità, allora con la sua vista essa vede al di sopra della propria capacità, come un bambino vede che il peso di una pietra è maggiore di quanto la forza di cui è egli è capace potrebbe trasportare. Il potere di vedere della mente supera, pertanto, il suo potere di comprendere28. La visione semplice della mente, quindi, non è una visione di natura comprensiva, ma è piuttosto una visione che, dalla visione comprensiva, si eleva fino a vedere l’incomprensibile29. Ad esempio, quando vede e comprende che una cosa è maggiore di un’altra, essa si eleva per vedere ciò di cui non può esservi nulla di maggiore. E questo è in effetti infinito, maggiore di tutto ciò che è misurabile o comprensibile. E questo potere della mente di vedere al di là di ogni sua forza e capacità di comprendere è il potere supremo, nel quale il potere stesso si manifesta in modo massimo30; ed è un potere che non trova alcun limite se non nel potere stesso31. Il poter vedere, infatti, è ordinato soltanto al potere stesso, in modo tale che la mente può intravedere in anticipo ciò a cui essa tende, come il viaggiatore intravede in anticipo la meta finale del suo cammino, in modo da poter dirigere i suoi passi verso la meta desiderata. Se la mente, pertanto, non potesse vedere da lontano la meta della sua quiete e del suo desiderio, della sua gioia e della sua felicità, come potrebbe correrle incontro per raggiungerla? Giustamente l’Apo-
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nebat sic per nos esse currendum, ut comprehendamus. Collige igitur haec, ut videas omnia ad hoc ordinata, ut mens ad posse ipsum, quod videt a remotis, currere possit et incomprehensibile meliori quo potest modo comprehendat; quia posse ipsum est solum potens, cum apparuerit in gloria maiestatis, satiare mentis desiderium. Est enim illud quid, quod quaeritur. Videsne quae dixi? 12 Petrus: Video haec vera quae dixisti, licet excellant capacitatem. Nam quid aliud satiare posset mentis desiderium quam posse ipsum, posse omnis posse, sine quo nihil quicquam potest? Si enim aliud posset esse quam posse ipsum, quomodo sine posse posset? Et si sine posse non posset, utique a posse ipso haberet quod posset. Non satiatur mens nisi comprehendat, quo nihil melius esse potest. Et hoc non potest esse nisi posse ipsum, posse scilicet omnis posse. Recte igitur vides solum posse ipsum, hoc quid quod quaeritur per omnem mentem, esse principium mentalis desiderii, quia est quo nihil prius esse potest, et finem eiusdem mentalis desiderii, cum nihil ultra posse ipsum desiderari possit. 13 Cardinalis: Optime. Vides nunc, Petre, quantum tibi confert consuetudo colloquii ac lectura opusculorum meorum, ut me facile intelligas. De posse ipso – non dubito – quaecumque video, et tu mox mente apposita videbis. Nam cum posse ipsum omnis quae stio de ‘potest’ praesupponat, nulla dubitatio moveri de ipso potest; nulla enim ad ipsum posse pertinget. Qui enim quaereret an posse ipsum sit, statim, dum advertit, videt quaestionem impertinentem, quando sine posse de ipso posse quaeri non posset. Minus quaeri potest an posse ipsum sit hoc vel illud, cum posse esse
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stolo ci ammoniva dicendo che dobbiamo correre in modo da raggiungere la meta32. Raccogli dunque insieme quanto abbiamo detto, in modo da vedere che tutte le cose sono ordinate a questo fine, a far sì, cioè, che la mente possa correre verso il potere stesso, che essa vede da lontano, e comprenda l’incomprensibile nel modo migliore che può, poiché il potere stesso è il solo che può saziare il desiderio della mente, quando apparirà nella gloria della sua maestà33. Egli, infatti, è il «che cosa» che viene ricercato. Comprendi quanto ho detto? Pietro. Vedo che quanto hai detto è vero, sebbene superi la mia capacità [di comprensione]. Che cos’altro, infatti, potrebbe saziare il desiderio della mente se non il potere stesso, il potere di ogni potere, senza il quale nulla può nulla?34 Infatti, se ciò che sazia il desiderio della mente potesse essere qualcos’altro dal potere stesso, in che modo potrebbe farlo senza il potere? E se non potrebbe farlo senza il potere, allora è certamente dal potere stesso che esso avrebbe il fatto di poterlo fare. La mente non si sazia se non giunge a comprendere ciò di cui nulla può essere migliore. E questo non può essere se non il potere stesso, il potere cioè di ogni potere. Vedi pertanto giustamente che solo il potere stesso, questo «che cosa» che è ricercato da ogni mente, è il principio del desiderio della mente, perché è ciò rispetto a cui nulla può essere anteriore, ed è il fine di questo stesso desiderio della mente, dal momento che non c’è nulla che possa essere desiderato oltre il potere stesso. Cardinale. Molto bene. Vedi, Pietro, quanto la nostra abitudine di colloquiare e la lettura delle mie opere ti aiutino a comprendermi con facilità. Tutto ciò che io vedo a proposito del «potere stesso» non dubito che lo vedrai subito anche tu, se vi presterai attenzione con la tua mente. Infatti, dal momento che ogni domanda sul «può» presuppone il potere stesso, su quest’ultimo non si può sollevare alcun dubbio35. Nessun dubbio, infatti, arriva a toccare il potere stesso. Chi infatti chiedesse se il potere stesso sia, vedrebbe subito, non appena prestasse attenzione alla sua domanda, che essa non è pertinente, dal momento che, senza il potere, nessuna domanda potrebbe essere posta circa il potere stesso36. Ancor meno si può chiedere se il potere sia questo o quello, dal momen-
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et posse esse hoc et illud posse ipsum praesupponant. Et ita posse ipsum omnem quae potest fieri dubitationem antecedere constat. Nihil igitur certius eo, quando dubium non potest nisi praesupponere ipsum, nec quicquam sufficientius aut perfectius eo excogitari potest. Sic ad ipsum non potest quicquam addi nec ab eo separari aut minui. 14 Petrus: Solum quaeso nunc dicito, an iam clarius aliquid quam ante de primo velis revelare. Nam saepe habunde, licet non quantum dici potest, multa dixisti. Cardinalis: Hanc nunc facilitatem tibi pandere propono prius non aperte communicatam, quam secretissimam arbitror: puta omnem praecisionem speculativam solum in posse ipso et eius apparitione ponendam, ac quod omnes qui recte viderunt, hoc conati sunt exprimere. Qui enim unum tantum affirmabant, ad posse ipsum respiciebant. Qui unum et multa dixerunt, ad posse ipsum et eius multos apparitionis essendi modos respexerunt. Qui nihil novi posse fieri dixerunt, ad posse ipsum omnis posse esse aut fieri res pexerunt. Qui vero mundi et rerum novitatem affirmant, ad ipsius posse apparitionem mentem converterunt. Quasi si quis ad posse unitatis visum mentis converteret, ille utique in omni numero et pluralitate non videret nisi posse ipsum unitatis, quo nihil potentius, et videret omnem numerum non nisi apparitionem ipsius posse unitatis innumerabilis et interminabilis. Numeri enim nihil sunt nisi speciales modi apparitionis ipsius posse unitatis. Et melius hoc posse apparet in impari ternario quam quaternario, et melius in perfectis certis numeris quam aliis. Sic genera et species et quaeque talia referenda sunt ad modos essendi apparitionis ipsius posse.
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to che il poter-essere e il poter-essere-questo e quello presuppongono il potere stesso. E così è evidente che il potere stesso precede ogni dubbio che possa essere sollevato. Non c’è nulla, pertanto che sia più certo del potere stesso, dal momento che qualsiasi dubbio [su di esso] non può che presupporlo, né si può pensare nulla di più perfetto e di più sufficiente di esso. Pertanto, ad esso non si può aggiungere nulla, né si può da esso separare o sottrarre nulla. Pietro. Ti prego ora di dirmi solo se, a proposito del primo principio, vuoi rivelare qualcosa di più chiaro rispetto a quanto hai già detto in precedenza. Ne hai infatti parlato spesso e a lungo e hai detto di esso molte cose, sebbene non tutto quello che se ne può dire. Cardinale. Mi propongo di dischiuderti ora una via facilmente percorribile, ma che in precedenza non è stata comunicata apertamente e che io considero segretissima: ossia che ogni precisione speculativa va risposta solo nel potere stesso e nella sua manifestazione, e che tutti coloro che hanno visto rettamente hanno cercato di esprimere questa verità37. Coloro che affermavano che esiste solo l’Uno guardavano al potere stesso. Coloro che hanno sostenuto l’esistenza dell’Uno e dei Molti, hanno guardato al potere stesso e ai molti modi di essere della sua manifestazione38. Coloro che hanno sostenuto che non può accadere nulla di nuovo hanno guardato al potere stesso, che è il potere di ogni poter-essere o di ogni poter-divenire. Coloro che invece sostengono il rinnovarsi del mondo e dei suoi accadimenti hanno rivolto la loro mente alla manifestazione del potere stesso39. Per fare un esempio: se uno rivolgesse lo sguardo della sua mente al potere dell’unità, egli certamente vedrebbe in ogni numero e in ogni molteplicità solo il potere stesso dell’unità, del quale non c’è nulla di più potente, e vedrebbe che ogni numero non è se non una manifestazione del potere stesso dell’unità, non numerabile e non limitabile. I numeri, infatti, non sono altro che modi particolari di manifestazione del potere stesso dell’unità40. E questo potere si manifesta meglio nel numero dispari tre che nel numero quattro, in certi numeri perfetti meglio che in altri41. In modo analogo, i generi, le specie e cose simili, vanno annoverati fra i modi di essere nei quali si manifesta il potere stesso.
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Qui dicunt non esse plures formas quae dant esse, ad posse ipsum, quo nihil sufficientius, respexerunt. Et qui plures dicunt specificas formas, ad specificos essendi modos apparitionis ipsius posse attendunt. Qui dixerunt deum fontem idearum et plures esse ideas, hoc dicere voluerunt quod dicimus, scilicet deum posse ipsum, quod variis et specie differentibus essendi modis apparet. Qui negant ideas et tales formas, ad posse ipsum respexerunt, quod solum est quid ipsum omnis posse. Qui nihil posse interire dicunt, ad posse ipsum aeternum et incorruptibile respiciunt. Qui mortem aliquid esse dicunt et res interire putant, ad modos essendi apparitionis ipsius posse visum convertunt. Qui dicunt deum – patrem omnipotentem – creatorem caeli et terrae, id quod nos dicimus dicunt, scilicet posse ipsum, quo nihil omnipotentius, creare caelum et terram et omnia per suam apparitionem. Nam in omnibus, quae sunt aut esse possunt, non potest quicquam aliud videri quam posse ipsum, sicut in omnibus factis et faciendis posse primi facientis et in omnibus motis et movendis posse primi motoris. Talibus igitur resolutionibus vides cuncta facilia et omnem differentiam transire in concordantiam. 16 Velis igitur, mi Petre valde dilecte, mentis oculum acuta intentione ad hoc secretum convertere et cum ista resolutione nostra scripta et alia, quaecumque legis, subintrare et maxime te exercitare in libellis et sermonibus nostris, singulariter De dato lumine, qui bene intellectus secundum praemissa, idem continet quod iste libellus. Item De icona sive visu dei et De quaerendo deum libellos in memoria tua recondas, ut in his theologicis melius habitueris, et istis memoriale apicis theoriae, quod nunc quam breviter subicio, magno affectu coniungas. Eris, spero, acceptus dei contemplator et pro me inter sacra indesinenter orabis.
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Coloro che affermano che non vi sono più forme che danno l’essere, hanno guardato al potere stesso, di cui nulla è più sufficiente. Coloro che invece affermano che vi sono più forme specifiche rivolgono la loro attenzione ai modi di essere specifici nei quali si manifesta il potere stesso42. Coloro che hanno detto che Dio è la fonte delle Idee e che le Idee sono molteplici43 hanno voluto dire quello che anche noi diciamo, ossia che Dio è il potere stesso che si manifesta in modi di essere diversi e differenti a seconda delle specie. Coloro che invece negano l’esistenza delle Idee e di tali forme hanno guardato al potere stesso, il quale solo è il «che cosa» di ogni potere. Coloro che dicono che nulla può perire guardano al potere stesso, eterno e incorruttibile. Coloro che dicono che la morte è qualcosa di reale e ritengono che le cose periscano, rivolgono il loro sguardo ai modi di essere in cui si manifesta il potere stesso. Coloro che dicono che Dio, il Padre onnipotente, è il creatore del cielo e della terra, dicono ciò che anche noi diciamo, ossia che il potere stesso, di cui nulla è più onnipotente, crea il cielo, la terra e tutte le cose mediante la sua manifestazione. In tutte le cose che sono o che possono essere, infatti, non si può vedere nient’altro che il potere stesso, così come in tutte le cose fatte o da farsi non si può vedere nient’altro che il potere del primo fattore, e in tutte le cose mosse e da muovere il potere del primo motore. Vedi, dunque, come, mediante questo metodo risolutivo, tutto diventi facile, e come ogni differenza si traduca in concordanza. Mio dilettissimo Pietro, rivolgi dunque con profonda attenzione l’occhio della tua mente44 a questo segreto e, con l’ausilio di questo metodo risolutivo, penetra nei miei scritti e in qualsiasi altro scritto tu legga, ed occupati soprattutto dei miei libri e dei miei sermoni, e in particolare del Dono del Padre dei lumi, che, se viene bene compreso, secondo quanto ho detto sopra, contiene le stesse cose di questo libro. Parimenti, custodisci nella tua memoria i libri L’icona o visione di Dio e La ricerca di Dio, in modo da familiarizzarti meglio con questi argomenti teologici. E a questi libri aggiungi con grande affetto il memoriale che ora molto brevemente ti espongo, il memoriale concernente il vertice della contemplazione45. Spero che sarai così un gradito contemplatore di Dio e che, nelle funzioni liturgiche, pregherai sempre per me.
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Apex theoriae est posse ipsum, posse omnis posse, sine quo nihil quicquam potest contemplari. Quomodo enim sine posse posset? I. Ad posse ipsum nihil addi potest, cum sit posse omnis posse. Non est igitur posse ipsum posse esse seu posse vivere sive posse intelligere; et ita de omni posse cum quocumque addito, licet posse ipsum sit posse ipsius posse esse et ipsius posse vivere et ipsius posse intelligere. 18 II. Non est, nisi quod esse potest. Esse igitur non addit ad posse esse. Sic homo non addit aliquid ad posse esse hominem, nec homo iuvenis addit aliquid ad posse esse hominem iuvenem vel hominem magnum. Et quia posse cum addito ad posse ipsum nihil addit, acute contemplans nihil videt quam posse ipsum. 19 III. Nihil potest esse prius ipso posse. Quomodo enim sine posse posset? Sic nihil ipso posse potest esse melius, potentius, perfectius, simplicius, clarius, notius, verius, sufficientius, fortius, stabilius, facilius, et ita consequenter. Et quia posse ipsum omne posse cum addito antecedit, non potest nec esse nec nominari nec sentiri nec imaginari nec intelligi. Omnia enim talia id, quod per posse ipsum significatur, praecedit, licet sit hypostasis omnium sicut lux colorum. 20 IV. Posse cum addito imago est ipsius posse, quo nihil simplicius. Ita posse esse est imago ipsius posse, et posse vivere imago ipsius posse, et posse intelligere imago ipsius posse. Verior tamen imago eius est posse vivere, et adhuc verior posse intelligere. In
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Il vertice della contemplazione è il potere stesso, il potere di ogni potere, senza il quale nulla può essere contemplato46. Come si potrebbe infatti contemplare qualcosa senza il potere? I. Nulla può essere aggiunto al potere stesso, dal momento che esso è il potere di ogni potere. Il potere stesso, pertanto, non è il poter-essere, o il poter-vivere o il poter-intendere, e così dicasi per ogni potere con aggiunta una qualsivoglia qualificazione47, sebbene il potere stesso sia il potere dello stesso poter-essere e dello stesso poter-vivere e dello stesso poter-intendere48. II. Non esiste se non ciò che può essere49. L’essere, pertanto, non aggiunge nulla al poter-essere. Così, l’uomo esistente non aggiunge nulla al poter-essere uomo, né l’uomo giovane aggiunge qualcosa al poter-essere-uomo giovane o uomo grande. E poiché il potere che ha aggiunta una qualificazione non aggiunge nulla al potere stesso, chi contempla acutamente non vede nient’altro che il potere stesso. III. Niente può essere anteriore al potere stesso50: come potrebbe infatti esserlo senza il potere? Parimenti, niente può essere migliore del potere stesso, o più potente, più perfetto, più semplice, più chiaro, più noto, più vero, più sufficiente, più forte, più stabile, più facile, e così di seguito. E poiché il potere stesso precede ogni potere che abbia aggiunta una qualificazione, esso non può né essere, né essere nominato51, né essere percepito, né essere immaginato, né essere inteso. Ciò che viene designato con l’espressione «potere stesso» precede infatti tutte queste cose, per quanto sia l’ipostasi di tutte, come la luce è l’ipostasi dei colori52. IV. Il potere che ha aggiunta una qualificazione è un’immagine del potere stesso, del quale non c’è nulla di più semplice. Così, il poter-essere è un’immagine del potere stesso, e il poter-vivere è un’immagine del potere stesso, e il poter-intendere è un’immagine del potere stesso. Il poter-vivere, tuttavia, è un’immagine più vera del potere stesso [rispetto al poter-essere], e un’immagine ancora più vera è il poter-intendere. Colui che contempla, pertanto, vede
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omnibus igitur videt contemplator posse ipsum, sicut in imagine videtur veritas. Et sicut imago est apparitio veritatis, ita omnia non sunt nisi apparitiones ipsius posse. 21 V. Sicut posse mentis Aristotelis se in libris eius manifestat, non quod ostendant posse mentis perfecte, licet unus liber perfectius quam alius, et libri non sunt ad alium finem editi, nisi ut mens se ostendat, nec mens ad edendum libros fuit necessitata, quia libera mens et nobilis se voluit manifestare, ita posse ipsum in omnibus rebus. Mens vero est ut liber intellectualis in se ipso et omnibus intentionem scribentis videns. 22 VI. Quamvis in libris Aristotelis non contineatur nisi posse mentis eius, tamen hoc ignorantes non vident. Ita quamvis in universo non contineatur nisi posse ipsum, tamen mente carentes hoc videre nequeunt. Sed viva lux intellectualis, quae mens dicitur, in se contemplatur posse ipsum. Sic omnia propter mentem et mens propter videre posse ipsum. 23 VII. Posse eligere in se complicat posse esse, posse vivere et posse intelligere. Et est posse liberae voluntatis nequaquam a corpore dependens, sicut dependet posse concupiscentiae desiderii animalis. Hinc non sequitur corporis infirmitatem. Numquam enim antiquatur aut deficit, sicut concupiscentia et sensus in antiquis, sed semper manet et dominatur sensibus. Non enim semper sinit oculum inspicere, quando inclinatur, sed avertit, ne videat vanitatem et scandalum, ita ne comedat esuriens, et ita de aliis. Videt igitur mens laudabilia et scandalosa, virtutes et vitia, quae non videt sensus, et cogere potest sensus stare suo iudicio et non proprio desiderio. Et in hoc experimur posse ipsum in posse mentis poten-
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in tutte le cose il potere stesso, così come nell’immagine si vede la verità [l’esemplare]53. E come l’immagine è una manifestazione della verità [dell’esemplare], così tutte le cose non sono se non manifestazioni del potere stesso. V. Il potere della mente di Aristotele si rende manifesto nei suoi libri; questi, certamente, non rivelano in modo compiuto il potere della sua mente, e tuttavia un libro lo rivela in modo più compiuto di un altro, e i libri non vennero pubblicati per nessun altro scopo se non perché la mente si rivelasse in essi. Inoltre, la sua mente non fu costretta a pubblicare quei libri, poiché è stata la sua mente libera e nobile che ha voluto manifestarsi [in essi]. È nello stesso modo che il potere stesso si manifesta in tutte le cose54. Ora, la mente è come un libro intellettuale che vede in se stessa e in tutte le cose l’intenzione dello scrittore55. VI. Sebbene nei libri di Aristotele non sia contenuto se non il potere della sua mente, tuttavia coloro che sono ignoranti non riconoscono questo fatto. In modo simile, sebbene nell’universo non sia contenuto se non il potere stesso, coloro che sono privi di intelligenza non sono in grado di riconoscere ciò. Invece, quella luce intellettuale vivente che chiamiamo mente contempla in se stessa il potere stesso. Così, tutte le cose sono in funzione della mente, e la mente è in funzione del vedere il potere stesso56. VII. Il poter-scegliere complica in sé il poter-essere, il poter-vivere e il poter-intendere. Inoltre, il potere della volontà libera non dipende affatto dal corpo come ne dipende il potere concupiscibile del desiderio della nostra natura animale57. Di conseguenza, non è soggetto alle infermità del corpo. Un tale potere, infatti, non invecchia né viene meno, come accade invece per la concupiscenza e per i sensi nei vecchi; esso piuttosto permane sempre e domina sui sensi. Ad esempio, quando l’occhio è diretto verso un oggetto, la volontà libera non sempre gli consente di osservarlo, ma lo distoglie da esso in modo che non veda le cose vane e scandalose, così come può distogliere dal mangiare colui che ne ha l’impulso, e analogamente avviene in altri casi. La mente, pertanto, vede le cose degne di lode e quelle scandalose, le virtù e i vizi, cose che i sensi non vedono, e può costringere i sensi ad attenersi al suo giudizio e non al proprio desiderio. E in ciò sperimentiamo come il potere stesso si
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ter et incorruptibiliter apparere et separatum esse a corpore habere. De quo minus miratur, qui virtutes certarum herbarum a corporibus herbarum separatas in aqua vitae esse experitur, quando eandem videt operationem aquae vitae, quam habuit herba, antequam in ipsa mergeretur. 24 VIII. Quae mens videt, intelligibilia sunt et sensibilibus priora. Videt igitur mens se. Et quoniam videt posse suum non esse posse omnis posse, quando multa sibi sunt impossibilia, hinc se non esse posse ipsum, sed ipsius posse imaginem videt. In suo itaque posse cum videat posse ipsum et non sit nisi suum posse esse, tunc videt se esse modum apparitionis ipsius posse; et hoc ipsum in omnibus quae sunt similiter videt. Sunt igitur omnia, quae mens videt, modi apparitionis ipsius incorruptibilis posse. 25 IX. Esse corporis, licet sit ignobilius et infimum, sola mente videtur. Id enim quod sensus videt, accidens est quod non est, sed adest. Hoc quidem esse corporis, quod non est nisi posse esse corporis, nullo sensu attingitur, cum non sit nec quale nec quantum; ita non est divisibile nec corruptibile. Dum enim divido pomum, non divido corpus. Est enim pars pomi ita corpus sicut integrum pomum. Corpus autem est longum, latum et profundum, sine quibus non est corpus nec perfecta dimensio. Esse corporis est esse perfectae dimensionis. Corporalis longitudo non est separata a latitudine et profunditate, sicut nec latitudo a longitudine et profunditate; sic nec profunditas a longitudine et latitudine. Nec sunt partes corporis, cum pars non sit totum. Longitudo enim corporis corpus est; sic et latitudo atque profunditas. Neque longitudo ipsius esse corporalis, quae est corpus, est aliud corpus quam latitu-
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manifesti nel potere della mente in modo più potente e incorruttibile e come la mente abbia un’esistenza separata dal corpo58. Di ciò si stupisce meno chi sa per esperienza che nell’acquavite sono contenute le proprietà attive di certe erbe separate dai corpi delle erbe stesse, e lo sa osservando che l’acquavite ha acquisito la stessa efficacia che aveva l’erba prima di essere immersa nell’acquavite. VIII. Ciò che la mente vede sono le cose intelligibili, le quali sono anteriori [ontologicamente] alle cose percepibili sensibilmente. La mente, pertanto, vede se stessa. E dal momento che vede che il suo potere non è il potere di ogni potere, giacché molte cose le risultano impossibili, essa vede anche di non essere il potere stesso, ma di essere un’immagine del potere stesso. E così, dal momento che nel suo potere la mente vede il potere stesso e dal momento che questo, tuttavia, non è se non il suo poter-essere, la mente vede allora che essa è un modo di manifestazione del potere stesso; ed essa vede che questo vale, in modo simile, per tutte le cose che esistono. Tutte le cose che la mente vede sono pertanto modi di manifestazione del potere stesso incorruttibile59. IX. L’essere del corpo, sebbene sia ignobile e infimo, viene visto solo dalla mente. Ciò che i sensi vedono, infatti, è qualcosa di accidentale, e l’accidente non esiste per se stesso, ma inerisce a qualcos’altro60. L’essere del corpo, invece, che non è se non il poter-essere del corpo, non lo si coglie con nessuno dei sensi, dal momento che esso non è né una qualità, né una quantità, per cui non è né divisibile, né corruttibile61. Ad esempio, quando divido un frutto, non divido il corpo: una parte del frutto, infatti, è un corpo come lo è il frutto intero. Ora, un corpo è lungo, largo e profondo, e senza queste proprietà non vi è né un corpo, né una dimensione completa. L’essere del corpo, tuttavia, è l’essere dotato di una dimensione completa. La lunghezza corporea non è separata dalla larghezza e dalla profondità, così come la larghezza non è separata dalla lunghezza e dalla profondità, e la profondità dalla lunghezza e dalla larghezza. E la lunghezza, la larghezza e la profondità non sono parti del corpo, dal momento che una parte non è il tutto. La lunghezza del corpo, infatti, è corpo, come lo sono la larghezza e la profondità; e la lunghezza dell’essere corporeo, la quale è corpo, non è un altro corpo rispetto alla larghezza e alla profondità dello stesso essere
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do ipsius esse corporis aut profunditas; sed quaelibet harum idem corpus indivisibile et immultiplicabile. Licet longitudo non sit latitudo aut profunditas, est tamen principium latitudinis, et longitudo cum latitudine principium profunditatis. Sic videt mens posse ipsum in esse corporis unitrino incorruptibiliter apparere. Et quoniam sic videt in esse corporis infimo, videt et omni esse nobiliori nobiliori et potentiori modo apparere, et in se ipso clarius quam in esse vivo aut corporeo. Quomodo autem posse ipsum unitrinum clare appareat in mente memorante, intelligente et volente, mens sancti Augustini vidit et revelavit. 26 X. In operatione seu factione certissime mens videt posse ipsum apparere in posse facere facientis et in posse fieri factibilis et in posse conexionis utriusque. Nec sunt tria posse, sed idem posse est facientis, factibilis et conexionis. Sic in sensatione, visione, gusta- tione, imaginatione, intellectione, volitione, electione, contemplatione et cunctis bonis et virtuosis operibus videt unitrinum posse relucentiam ipsius posse, quo nihil operosius nec perfectius. Vitiosa autem opera, quia posse ipsum in ipsis non relucet, inania, mala et mortua, lucem mentis obtenebrantia et inficientia mens experitur. 27 XI. Non potest esse aliud substantiale aut quiditativum principium, sive formale sive materiale, quam posse ipsum. Et qui de variis formis et formalitatibus, ideis ac speciebus locuti sunt, ad posse ipsum non respexerunt, quomodo in variis generalibus et specialibus essendi modis se, ut vult, ostendit. Et ubi non relucet, illa carent hypostasi, uti inane, defectus, error, vitium, infirmitas, mors, corruptio et talia illa carent entitate, quia carent ipsius posse apparitione. 28 XII. Per posse ipsum deus trinus et unus, cuius nomen omnipotens seu posse omnis potentiae, apud quem omnia possibilia et
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corporeo; piuttosto, ognuna di queste [tre] proprietà è lo stesso corpo indivisibile e non moltiplicabile. Sebbene la lunghezza non sia la larghezza e la profondità, essa è tuttavia il principio della larghezza, e la lunghezza insieme alla larghezza è il principio della profondità. In questo modo, la mente vede che nell’essere uni-trino del corpo si manifesta, in maniera incorruttibile, il potere stesso. E poiché la mente lo vede così nell’essere del corpo, che è una realtà infima, lo vede anche manifestarsi, in maniera più nobile e potente, in ogni essere più nobile, e in se stessa in modo più chiaro che nell’essere vivente o nell’essere corporeo. In che modo, poi, il potere stesso unitrino si manifesti chiaramente nella mente che ricorda, che intende e che vuole, lo ha visto e lo ha rivelato la mente di S. Agostino62. X. Nell’operare o nel fare la mente vede, in modo assolutamente certo, che il potere stesso si manifesta nel poter-fare di colui che fa e nel poter-essere-fatto di ciò che è fattibile e nel potere della connessione dell’uno e dell’altro63. E non si tratta di tre poteri, ma è uno ed identico il potere di colui che fa, di ciò che è fattibile e della connessione. Lo stesso vale per quanto riguarda la sensazione, la vista, il gusto, l’immaginazione, l’intellezione, la volizione, la scelta, la contemplazione e tutte le opere buone e virtuose: in tutto questo la mente vede il potere uni-trino, nel quale risplende quel potere stesso del quale nulla è più operoso e perfetto. Le opere viziose, invece, poiché in esse non risplende il potere stesso, la mente le sperimenta come vane, cattive e morte, come opere che ottenebrano e corrompono la luce della mente64. XI. Non può esservi altro principio sostanziale o quidditativo, sia esso formale o materiale, che il potere stesso. E coloro che hanno parlato di diverse forme e di diversi principi formali, di diverse idee e specie, non hanno guardato al potere stesso, a come esso si manifesta, secondo il suo volere, nei diversi modi, generici e specifici, dell’essere65. E quelle cose nelle quali non risplende il potere stesso sono prive di una ipostasi, come il vacuo, il difetto, l’errore, il vizio, l’infermità, la morte, la corruzione e cose simili; cose, queste, che sono prive di entità perché in esse non si manifesta il potere stesso66. XII. Con l’espressione «potere stesso» viene designato il Dio trino ed uno, il cui nome è «l’Onnipotente», o «il Potere di ogni
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nihil impossibile et qui fortitudo fortium et virtus virtutum, significatur. Cuius perfectissima apparitio, qua nulla potest esse perfectior, Christus est nos ad claram contemplationem ipsius posse verbo et exemplo perducens. Et haec est felicitas, quae solum satiat supremum mentis desiderium. Pauca haec sola sunt, quae sufficere possunt.
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potenza», presso il quale tutto è possibile e niente è impossibile, e che è la fortezza di ogni fortezza e la forza di ogni forza. La sua perfettissima manifestazione, della quale nessun’altra può essere più perfetta, è Cristo67, il quale ci conduce, con la sua parola e con il suo esempio, alla chiara contemplazione del potere stesso. E questa contemplazione è la felicità, che sola può saziare il desiderio supremo della mente68. Questi pochi punti possono, da soli, essere sufficienti.
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SCRITTI MATEMATICI La quadratura del cerchio – I complementi matematici La perfezione matematica [traduzione e note di Federica De Felice]
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Asseris te in varietate scribentium de circuli quadratura involutum et a me nunc otio dato exigis, ut scibilis illius sufficientiam tradam. Accipe per propositionem, quid sentiam. Hoc tamen me fecisse sic tui causa recipito, ut per huius assimilationem mathematicis relictis facilius ad theologiam te transferre queas.
Propositio Si datae peripheriae trigoni est dabilis aequalis peripheria circuli, tunc illius circuli semidiameter in quinta sui parte excedit lineam ductam de centro trigoni ad punctum unum alicuius lateris ab angulo per quartam partem lateris distantis. Sunt qui circuli quadraturam admittunt. Et hi habent necessario admittere circulorum peripherias aequari posse peripheriis polygoniarum figurarum, cum circulus aequetur quadrangulo, cuius minus latus est semidiameter et maius semicircumferentia. Quando igitur quadratum aequale circulo in tale quadrangulum resolveretur, haberetur recta linea curvae aequalis. Hinc deveniretur ad aequalitatem peripheriarum circuli et polygoniae, ut est de se notum. Illi etiam hoc argumentum admittunt, sine quo nihil attingerent, scilicet: Ubi est dare magis et minus, est et dare aequale; quia, cum detur quadratum maius circulo, ut est circumscriptum, et minus, ut est inscriptum, igitur et aequale, quod erit nec circumscriptum nec inscriptum, sed pariter inscriptum et circumscriptum.
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Affermi di essere circondato da diversi studiosi che scrivono sulla quadratura del cerchio, e mi solleciti, ora che godo della necessaria calma, a fornirti un’esposizione soddisfacente di ciò che si può sapere su questo argomento. Apprendi ciò che penso mediante la proposizione che segue. Tuttavia sappi che, per te, ho trattato l’argomento in modo che tu, mediante la via dell’assimilazione2, una volta lasciati da parte gli studi matematici, possa dedicarti più facilmente alla teologia.
Proposizione
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Se è possibile dare una circonferenza di cerchio uguale al perimetro di un dato triangolo, allora il semidiametro di questo cerchio supera della sua quinta parte la linea tracciata dal centro del triangolo al punto del lato che dista dall’angolo un quarto del lato.4 Ci sono coloro che ammettono la quadratura del cerchio. Essi devono necessariamente sostenere che le circonferenze dei cerchi possono essere uguali ai perimetri dei poligoni5, poiché il cerchio è uguale al rettangolo6, il cui lato minore è il semidiametro del cerchio e il lato maggiore è la semicirconferenza7. Allorché dunque si rendesse il quadrato uguale al cerchio in tale rettangolo, allora si avrebbe la linea retta uguale alla linea curva. Da ciò si arriverebbe all’uguaglianza tra la circonferenza del cerchio e il perimetro del poligono, come è evidente da sé. Queste persone ammettono anche l’argomento seguente, senza il quale essi non arriverebbero a nulla, e cioè che: dove si può dare un maggiore e un minore, si può altresì dare un uguale. Poiché si può dare un quadrato più grande di un cerchio – come è quello circoscritto – e uno più piccolo – come è quello inscritto –, allora se ne può dare anche uno uguale, che non sarà né circoscritto, né inscritto, ma inscritto e circoscritto allo stesso tempo. Lo stesso ar3
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Hoc idem argumentum admittunt in peripheriis: Quia est dabilis peripheria circuli maior peripheria trigoni, ut est peripheria circuli trigono circumscripti, et dabilis est peripheria circuli minor peripheria trigoni, ut est peripheria circuli inscripti, igitur est et dabilis peripheria circuli aequalis peripheriae trigoni, et hic circulus nec est circumscriptus nec inscriptus, sed pariter circumscriptus et inscriptus. Sunt et qui circuli quadraturam negant, et hi omnia iam dicta negant. Aiunt enim argumentum in mathematicis non procedere: Ubi est dare magis et minus, quod ibi sit dare aequale. Nam dabilis est angulus incidendae maior recto et alius minor recto, et tamen numquam aequalis. Unde in quantitatibus incommensurabilibus hoc non procedit. Si enim daretur angulus incidendae maior recto parte aliquota recti et minor recto parte aliquota recti, daretur et aequalis. Sed cum angulus incidentiae non sit proportionalis recto, non potest esse aut maior aut minor parte aliquota recti, igitur neque umquam aequalis. Et cum inter superficiem circularem et rectilinealem non possit cadere proportio, sicut nec inter angulum incidentiae et angulum rectum, igitur argumentum etiam ibi non procedit. Hoc sic patet: Omnis quantitas in aliam resolubilis necessario sic se habet, quod quaelibet eius pars possit esse pars alterius, cum totum non sit nisi suae partes. Sed lunula per rectam de circulo abscisa non est secundum angulos suos incidentiae, qui sunt partes quantitatis eius, in rectilineam resolubilis; igitur nec secundum eius totalitatem. Manifestum est autem, si circulus est resolubilis in quadratum, necessario sequi lunulas resolubiles in rectilineales; et cum hoc sit impossibile, igitur et illud, ex quo sequitur. Sic patet semicirculum non esse rectilineabilem, et per consequens nec circulum aut aliquam eius partem.
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gomento essi ammettono per le circonferenze: poiché si può dare una circonferenza di cerchio più grande del perimetro di un triangolo – come è la circonferenza del cerchio circoscritto al triangolo –, e una più piccola del perimetro del triangolo – come è la circonferenza del cerchio inscritto –, si può dare anche una circonferenza uguale al perimetro di un triangolo, e questo cerchio non è né circoscritto né inscritto, ma circoscritto e inscritto allo stesso tempo. Ci sono anche coloro che negano la quadratura del cerchio, e questi negano tutto ciò che è stato ora detto. Essi affermano infatti che questo argomento – dove si può dare un maggiore e un minore si può dare un uguale – non vale in matematica: infatti, si può dare un angolo di incidenza più grande dell’angolo retto e uno più piccolo dell’angolo retto8 e tuttavia mai un angolo uguale9. Dunque, questo argomento non vale nelle grandezze incommensurabili. Se infatti si desse un angolo di incidenza più grande di una parte aliquota10 dell’angolo retto e più piccolo di un parte aliquota dell’angolo retto, allora si darebbe anche un [angolo] uguale. Ma, siccome l’angolo di incidenza non ha alcuna proporzionalità11 con l’angolo retto, esso non può essere più grande o più piccolo di una parte aliquota12 dell’angolo retto, e dunque mai uguale. E poiché nessuna proporzionalità può esistere fra una superficie circolare e una superficie delimitata da lati diritti, così come non può esistere fra l’angolo di incidenza e l’angolo retto, allora l’argomento anche qui non è valido13. Ciò è chiaro da quanto segue: ogni grandezza riducibile in un’altra si comporta necessariamente in modo tale che una qualunque parte dell’una possa essere parte dell’altra14, essendo il tutto nient’altro che la somma delle sue parti. Ma una lunula15, che è ricavata dal cerchio tramite una linea retta, non può essere ridotta, rispetto ai suoi angoli d’incidenza, che sono parti della sua grandezza, in una figura delimitata da lati diritti16: dunque, neanche rispetto alla sua totalità17. È altrettanto evidente che se un cerchio è riducibile in un quadrato, allora necessariamente le sue lunule saranno riducibili in figure delimitate da lati diritti; ma poiché la prima è impossibile, allora la seconda, da cui essa deriva, deve essere altrettanto impossibile. È dunque chiaro che il semicerchio non può essere ridotto a una figura delimitata da lati diritti, e di conseguenza non possono esserlo né il cerchio né alcuna sua parte.18
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Omnis angulus incidendae excedit alium aut exceditur ab alio per quantitatem anguli rectilinei, ad quem non potest habere proportionem. Hinc evenit, quod omnes abscisiones circuli per lineas rectas sunt ad illum penitus improportionales, et cum maior abscisio sit per [semi] diametrum, tunc omnes aliae abscisiones ad illam sunt improportionales. Non potest igitur aliqua pars circuli per tales lineas abscindi, quando nullam habet proportionem ad maiorem abscisionem, scilicet semicirculum. Sic non valet argumentum: Abscinditur lunula maior tertia circuli et lunula minor tertia parte circuli, ergo et aequalis. Ex quo evenit, quod abscisiones, quae fiunt per rectam lineam minorem diametro, non sunt ex eo nequaquam rectilineabiles, quia sunt partes aliquotae circuli, sed quia sequeretur circuli quadratura, si forent rectilineabiles. Ex quo elice omne id impossibile, ex quo sequitur circuli quadratura. Habet igitur circulus hoc ex singularitate sua, quod sicut angulus incidentiae non est rectilineabilis, sic nec circulus est in figuram rectilinealem reducibilis. Sed sicut datur angulo incidentiae angulus rectilineus maior per angulum contingentiae, qui angulus contingentiae est quantitas in suo genere tantum divisibilis, quoniam omni angulo contingentiae est dabilis alius contingentiae maior ac minor, tamen, cum angulus contingentiae sit minor omni angulo rectilineo, sic dato incidentiae datur rectilineus maior, qui tamen non est maior aliqua parte aliquota rectilinei anguli; sic dato rectilineo datur incidentiae angulus minor, scilicet quantum est angulus contingentiae, qui tamen non est pars aliquota incidentiae, sed minor omni parte aliquota eius. Tali quidem modo dici potest dato circulo posse dari quadratum, quod etsi fuerit maius circulo, non tamen aliqua parte aliquota eius, scilicet quadrati; et dato quadrato potest dari circulus mi-
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Ciascun angolo d’incidenza supera un altro o è superato da un altro di una quantità pari a un angolo rettilineo, con il quale non può avere alcuna proporzionalità. Da ciò deriva che tutte le porzioni di cerchio delimitate da linee dritte non sono in alcun modo proporzionali al cerchio. E poiché la porzione più grande è quella delimitata dal [semi]diametro, allora tutte le altre non sono ad esso proporzionali. Dunque, non può essere ricavata alcuna parte aliquota dal cerchio attraverso tali linee, perché questa parte non avrebbe alcuna proporzionalità con la porzione più grande, cioè con il semicerchio. Ebbene, questo argomento non vale: si ricavino una lunula più grande di un terzo del cerchio e un’altra più piccola di un terzo del cerchio, e dunque una uguale a un terzo del cerchio. Ne consegue che le porzioni che sono delimitate da una linea diritta più piccola del diametro non sono in alcun modo riducibili a figure rettilinee, perché esse sono parti aliquote del cerchio, e perché ne deriverebbe la quadratura del cerchio, se esse potessero essere ridotte a figure rettilinee. Da ciò deduci che tutto ciò da cui segue la quadratura del cerchio è impossibile. Il cerchio ha dunque, per la sua singolarità, la seguente proprietà: come non è possibile ridurre un angolo di incidenza in un angolo rettilineo, allo stesso modo non è possibile ridurre un cerchio in una figura delimitata da lati diritti. Come si dà un angolo rettilineo più grande dell’angolo di incidenza di una quantità pari all’angolo di contingenza, che è una quantità divisibile solamente nel suo genere, dato che per ogni angolo di contingenza si possono dare un angolo di contingenza più grande e uno più piccolo, così, tuttavia, dal momento che l’angolo di contingenza è più piccolo di ogni angolo rettilineo, si può allora dare un angolo rettilineo più grande di un angolo di contingenza dato, che tuttavia non è più grande di una parte aliquota dell’angolo rettilineo. Ugualmente, si può dare un angolo di incidenza più piccolo di un angolo rettilineo dato, ossia più piccolo di una quantità pari all’angolo di contingenza, che, tuttavia, non è una parte aliquota dell’angolo di incidenza, ma è più piccolo di ogni parte aliquota di questo. In questo modo si può dire che, dato un cerchio, si può dare un quadrato che, anche se fosse più grande del cerchio, non lo sarebbe tuttavia di una parte aliquota di questi, cioè del quadrato. E,
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nor eo, non tamen minor parte aliquota circuli. Et consequenter ex hoc habetur, quod licet dato circulo posset dari quadratum maius, non tamen parte aliquota eius maius; et quod quocumque quadrato tali dato adhuc possit dari aliud praecisius circulo, licet nullum praecisissimum, et nullum minus circulo parte aliquota eius, ita et e converso. Et hanc partem puto veriorem. Nam cum figurae polygoniae non sint eiusdem generis quantitatis cum figura circulari, tunc, etsi reperiatur una polygonia dato circulo quoad quantitatem aequalior quam alia, habebit tamen regula locum: In recipientibus maius et minus non deveniri ad maximum simpliciter in esse et posse. Capacitas enim circularis est quod maximum simpliciter in comparatione ad capacitates polygoniarum, quae recipiunt maius et minus et ideo eam non attingunt, sicut numeri non attingunt capacitatem unitatis et multiplicitates non attingunt virtutem simplicis. Sufficere autem videbatur primam opinionem tenentibus, quod dato circulo posset dari quadratum, quod non esset nec maius nec minus circulo. Omne enim maius aut est parte aliquota aut sui aut alterius, cui comparatur, maius; sic, si minus. Sed cum quadratum, quod datur, neque minima dabili parte aut quadrati aut circuli est circulo aut maius aut minus, hoc vocarunt aequale. Eo enim modo ceperunt aequale, ut scilicet id sit alteri aequale, quod nulla parte aliquota, quantumcumque minima, aliud excedit aut exceditur. Sic aequale capiendo puto verum esse, quod datae peripheriae polygoniae dabilis sit peripheria circuli aequalis et e converso. Capiendo vero aequalitatem absolute, prout respicit quantitatem, absque respectu ad partes aliquotas, tunc, quia circulari quantitati non potest non circularis praecise aequalis assignari, secundi verum dixerunt, et hoc per declarationem principii propositionis, scilicet: Si
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dato un quadrato, si può dare un cerchio più piccolo del quadrato, che non sarà tuttavia più piccolo di una parte aliquota del cerchio. Di conseguenza, da ciò si avrebbe che si potrebbe dare un quadrato più grande, ma non di una parte aliquota di esso; e che, dato un qualsiasi quadrato, se ne potrebbe [sempre] dare un altro che si avvicini al cerchio in modo più preciso, per quanto nessuno si avvicinerà ad esso in modo assolutamente preciso e nessuno sarà più piccolo di esso di una parte aliquota del cerchio, e viceversa. E ritengo questa posizione come la più vera. Ora, poiché i poligoni non sono grandezze dello stesso genere del cerchio, anche se si trova un solo poligono più uguale, in termini di grandezza, a un cerchio dato rispetto a un altro, varrà tuttavia la regola: nelle cose che ammettono il più e il meno, non si arriva al massimo assoluto nell’essere e nella potenza. Infatti l’ampiezza19 del cerchio è ciò che è il massimo assoluto in rapporto alle ampiezze dei poligoni, che ammettono il più e il meno, e che, per questo, non raggiungono l’ampiezza del cerchio, come i numeri non raggiungono l’ampiezza dell’unità, e le molteplicità non raggiungono la potenza di ciò che è semplice. I sostenitori della prima opinione credono che sia sufficiente che, dato un cerchio, si possa dare un quadrato che non sia né più grande, né più piccolo del cerchio. Ogni grandezza è infatti più grande di una parte aliquota di essa o di un’altra, alla quale è rapportata. Stessa cosa, se essa fosse più piccola. Ma, se un dato quadrato non è più grande o più piccolo del cerchio della più piccola parte assegnabile del quadrato o del cerchio, allora definiscono questo come uguale. È così, infatti, che essi hanno concepito l’uguale, ossia come ciò che è uguale a un altro, che non supera l’altro, né è superato dall’altro, di nessuna parte aliquota, per piccola che sia. Se si concepisce in questo modo l’uguale, penso che sia vero che si possa dare una circonferenza di cerchio uguale al perimetro di un poligono dato, e viceversa. Ma se si concepisce l’uguaglianza in maniera assoluta, per quel che spetta a una grandezza, senza tenere conto delle parti aliquote, allora i secondi avranno ragione nel dire che non si può assegnare una grandezza non circolare perfettamente uguale a una grandezza circolare; e questo per la spiegazione del principio [che è alla base] della proposizione, os-
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datae peripheriae trigoni etc. Sic dixisse sufficiat. Per quae intelligas ea, quae de hac re in certis aliis libellulis meis varie scripta reperies. 12
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Declaratio propositionis Ad declarandum autem propositionem fiat trigonus abc, cui inscribatur circulus super d centro, qui sit efg, et circumscribatur circulus hi; ducaturque linea de sic, quod e sit punctus medius inter a et b, et ducatur linea db. Ducaturque linea de d ad punctum medium inter e et b, quae sit dk. Dico dk esse minorem semidiametro circuli isoperimetri trigono, quantum est quarta ipsius dk. Addatur igitur quarta ad dk, et sit dl maior dk per quartam dk. Dico, quod dl est semidiameter circuli isoperimetri trigono. Describatur igitur circulus, qui sit lmn. Dico peripheriam lmn aequalem peripheriae abc, sic scilicet, quod lmn non est nec maior nec minor quacumque minima parte aliquota ipsius peripheriae abc. Ad hoc ostendendum sic procedo et dico quod, si de d ad eb linea duci debet, quae sit semidiameter circuli isoperimetri trigono, oportet, quod illa se habeat ad omnia latera trigoni simul sumpta sicut semidiameter circuli ad circumferentiam. Sed cum semidiameter ad circumferentiam nullam penitus habeat proportionem, nec in quantitate nec in potentia, scilicet cum area quadrati semidiametri, quae est potentia semidiametri, nullam habeat proportionem ad aream circuli, neque etiam ad aream quadrati potentiae lineae ae-
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sia: se al perimetro dato di un triangolo, etc.20 Sia sufficiente quanto detto. Grazie a ciò puoi comprendere quanto ho scritto su questo argomento in modo diverso in alcuni altri miei libri.21
Spiegazione della proposizione Per spiegare la proposizione si consideri il triangolo ABC nel quale è inscritto il cerchio EFG attorno al centro d e al quale è circoscritto il cerchio HI. Si tracci la linea de in modo che e sia il centro fra a e b; poi si tracci la linea db. Si tracci una linea da d al centro fra e e b, e sia essa dk. Dico che dk è più piccola del semidiametro del cerchio isoperimetrico al triangolo di un quarto dello stesso dk. Si aggiunga quindi un quarto a dk; e sia dl più grande di dk di un quarto di dk. Dico che dl è il semidiametro del cerchio isoperimetrico al triangolo. Si descriva quindi il cerchio LMN. Dico che la circonferenza LMN è uguale al perimetro [del triangolo] ABC, cioè che [la circonferenza] LMN non è né più grande, né più piccola della più piccola parte aliquota, qualunque essa sia, del perimetro [del triangolo] ABC. Per dimostrarlo procedo così e dico che, se si deve tracciare una linea da d verso eb, che è il semidiametro del cerchio isoperimetrico al triangolo, è necessario che essa si rapporti alla somma dei lati del triangolo come il semidiametro del cerchio [si rapporta] alla circonferenza. Ma, poiché il semidiametro non ha alcuna proporzionalità con la circonferenza, né in grandezza né in potenza, cioè, poiché l’area del quadrato del diametro, che è la [seconda] potenza 22 del semidiametro, non ha alcuna proporzionalità con l’area del cerchio, allora essa non dovrebbe avere neanche alcuna proporzionalità con l’area del quadrato uguale al quadrato della linea della
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qualis circumferentiae, si dabilis foret, proportionem haberet. Patet, quod nec quaesitae lineae quantitas aut potentia esse potest proportionalis lineae de aut db, quarum potentiae sunt proportionales ad potentiam eb. Unde linea illa non potest duci de d ad partem aliquotam eb aut aliquotam db, sic quod punctus terminalis eius, qui distabit ab e versus b, non poterit distare per lineam ab e, quae sit proportionalis ad eb vel db; quia, si sic, semper esset potentia proportionalis eb, ut de se patet. Unde non est assignabilis punctus in eb, ad quem si duceretur, haberetur praecise quaesita. Sed bene est punctus in eb, ad quem si duceretur, linea illa non foret nec maior nec minor parte aliquota quacumque minima quaesita. Dico consequenter, quod, sicut nulla linea, quae de d ad eb duci potest ad partem aliquotam eb, potest esse quaesita, sic etiam nulla talis potest esse proportionalis ad quaesitam, ut de se patet, cum omnium illarum potentiae sint potentiae lineae eb proportionales. Dico deinde, quod licet nulla talium sit praecise proportionalis quaesitae, una tamen erit magis proportionalis quam alia. Et hoc patet. Nam etsi omnes sint improportionales ad de et eb, tamen adhuc una est magis proportionalis ad eb et db quam alia, et ideo minus proportionalis ad quaesitam. Unde illa ex omnibus, quae est maxime improportionatis ad eb, de et db, illa est minime improportionalis ad quaesitam. Una igitur erit inter omnes ducibiles de d ad partes eb minus improportionatis quaesitae.
De adinvestigando proportionalem Ad investigandum vero proportionalem est advertendum, quod inter lineas improportionales habent se aliquae ut costa et diameter, et numquam potest proportio adeo praecisa reperiri, quin sit excessus maior parte aliquota: ut una decima diametri minor est
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circonferenza, se potesse essere dato. È chiaro che né la linea cercata, né il suo quadrato possono essere proporzionali alla linea de o db, i cui quadrati sono proporzionali al quadrato di eb. Pertanto, non si può tracciare questa linea da d a una parte aliquota di eb o di db, così come la sua estremità [k], disposta tra e e b, non potrà distare da e di una linea che sia proporzionale a eb o db; poiché, se così fosse, allora il quadrato sarebbe sempre proporzionale a eb, come è evidente23. Di conseguenza, non si può assegnare alcun punto su eb verso cui si può tracciare una linea che sia esattamente quella che si sta cercando. Ma sicuramente su eb esiste un punto verso cui si può tracciare una linea che non sarà né più grande né più piccola di alcuna parte aliquota, per quanto piccola sia, di quella cercata. Di conseguenza dico che, come non è possibile tracciare alcuna linea da d verso eb, a una parte aliquota di eb, che può essere quella che si sta cercando, allo stesso modo non può esistere una linea tale che sia proporzionale alla linea cercata, come è evidente, visto che i quadrati di tutte queste linee sono proporzionali al quadrato della linea eb.24 Dico inoltre che, se è vero che nessuna linea è perfettamente proporzionale alla linea cercata, una tuttavia sarà più proporzionale delle altre. E questo è evidente; infatti, anche se tutte non fossero proporzionali a de e eb, tuttavia, malgrado tutto, una sarà più proporzionale a eb e db rispetto alle altre, e dunque meno proporzionale alla linea cercata. Perciò, questa, fra tutte, è la più non-proporzionale a eb, de e db, e la meno non-proporzionale alla linea cercata. Esiste quindi una linea, fra tutte quelle che si possono tracciare da d verso le parti di eb, che sarà quella meno non-proporzionale alla linea cercata.
La ricerca della proporzionale
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Tuttavia, per cercare la proporzionale, si deve considerare che, fra le linee non-proporzionali, alcune si rapportano come il lato e la diagonale [del quadrato]25, e [in questo caso] non si può mai trovare una proporzionalità così esatta che l’eccesso non sia più grande di una parte aliquota: per esempio, un decimo della diagonale è più piccolo di un settimo del lato, e l’eccesso è più grande di una
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una septima costae, et excessus est maior parte aliquota diametri et costae, et ita in quibuscumque minimis partibus. Alia est improportio ut angulorum incidentiae et rectilinei. Nam linea se habens ut angulus incidentiae est improportionalis ad lineam se habentem ut angulus rectilineus, et medietas rectilinei est maior medietate incidentiae per quantitatem medietatis contingentiae; quae tamen medietas minor est omni parte aliquota, tam rectilinei anguli quam incidentiae. Quod autem talis habitudo sit reperibilis in lineis, ex hoc videtur: Nam cum angulus sit superficies et linea sit terminus superficiei, patet, quod eo modo, quo angulus contingentiae est superficies divisibilis, sic suo modo et eius terminus, scilicet linea angulum illum superficialem terminans. Similiter linea terminans anguli rectilinei superficiem linea est divisibilis secundum divisibilitatem superficiei. De linea igitur, quae terminat superficiem anguli rectilinei, potest abscindi linea terminans angulum contingentiae, et ideo linea terminans angulum incidentiae est improportionalis ad lineam terminantem angulum rectilineum per lineam terminantem angulum contingentiae. Unde cum haec linea terminans angulum contingentiae sit minor omni parte aliquota lineae rectilineum aut incidentiae angulum terminantis, patet propositum. Et in hoc notare poteris, quomodo ante omnem divisibilitatem lineae rectae est linea inattingibilis per omnem divisibilitatem, qua linea recta rectam secare potest. Quae tamen etsi non sit divisibilis divisione, qua linea recta per rectam dividitur, in cuius respectu est ut punctus terminalis inattingibilis, est tamen suo modo per curvam divisibilis. Unde linea illa, quoniam est terminus superficiei, et divisibilis linea dicitur, licet in comparatione ad lineam, quam terminat punctus, indivisibilis appareat. Sicut enim divisibilitas superficiei terminatur in linea, quae in respectu ad superficiem est indivisibilis, quoniam non est superficialiter divisibilis, tamen linea ipsa terminalis superficiei in se considerata quantitas di-
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parte aliquota della diagonale e del lato; allo stesso modo in qualsiasi parte più piccola26. Un’altra non-proporzionalità è quella fra l’angolo di incidenza e l’angolo rettilineo. Infatti, la linea che corrisponde all’angolo di incidenza non è proporzionale alla linea che corrisponde all’angolo rettilineo, e la metà dell’angolo rettilineo è più grande della metà dell’angolo di incidenza, e precisamente della metà dell’angolo di contingenza. Questa metà è pertanto più piccola di ogni parte aliquota, sia dell’angolo rettilineo, sia dell’angolo di incidenza.27 Che tuttavia sia possibile trovare un tale rapporto fra le linee, risulta chiaramente da quanto segue: infatti, essendo l’angolo una superficie e la linea il limite della superficie28, è chairo che, come l’angolo di contingenza è una superficie divisibile, anche il suo limite, ossia la linea che delimita questo angolo in quanto superficie, è divisibile allo stesso modo. Ugualmente, la linea che delimita la superficie dell’angolo rettilineo è divisibile a seconda della divisibilità della superficie. Si può dunque sottrarre dalla linea che delimita la superficie dell’angolo rettilineo la linea che delimita l’angolo di contingenza, e così la linea che delimita l’angolo di incidenza non è proporzionale alla linea che delimita l’angolo rettilineo secondo la linea che delimita l’angolo di contingenza. Pertanto, poiché questa linea che delimita l’angolo di contingenza è più piccola di qualsiasi parte aliquota della linea che delimita un angolo rettilineo o un angolo di incidenza, la proposizione risulta evidente.29 E in ciò potrai osservare come, prima di qualsiasi divisibilità della linea retta, si può dare una linea che non è sottoponibile ad alcuna divisibilità, grazie alla quale una linea retta può tagliarne un’altra. Tuttavia, anche se questa linea non è divisibile mediante quel tipo di divisione, con cui una retta è divisa da una retta – e, da questo punto di vista, essa è come un punto estremo irraggiungibile –, essa, tuttavia, è a suo modo divisibile mediante una curva. Perciò, quella linea, poiché è il limite della superficie, è detta linea divisibile, sebbene possa apparire indivisibile in rapporto a una linea delimitata da un punto. Come, infatti, la divisibilità di una superficie termina nella linea che, rispetto alla superficie, è indivisibile, poiché essa non è divisibile nel modo in cui lo è una superficie, tuttavia la linea che delimita una superficie, considerata in se stessa, è
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visibilis est, ita divisibilitas rectae lineae per rectam terminatur in punctum, qui est terminus divisionis et lineae, et est rectilinealiter indivisibilis in quantum terminus lineae, in se tamen est quantitas divisibilis. Est igitur possibile unam lineam esse alia minorem aut maiorem, non tamen aliqua parte aliquota aut maiori aliquota, sed minori. Ex quo elicere potes, quid de lineis et punctis indivisibilibus sentiendum. Dico igitur, quod etsi possit de d ad eb linea proportionalis ad quaesitam trahi, ita quod excessus non sit maior parte aliquota, non tamen potest trahi talis, quin excessus sit licet minor parte aliquota. Deinde dico, quod etsi innumerabiles tales trahi possent, tamen una praecisior alia, nulla vero praecisissima. Videamus igitur, quam talium potest humanum ingenium de omnibus attingere. Manifestum est autem, quod si linea, quae debet esse proportionalis quaesitae, extenditur secundum quamcumque partem eius aliquotam, puta tertiam eius aut quartam aut aliam, semper manet proportionalis. Si igitur linea ipsa extenditur secundum habitudinem lineae, quae cadit inter terminum eius in eb et e, ad lineam ab aut secundum habitudinem lineae inter terminum eius in eb et b ad lineam ab, semper manet proportionalis. Aut igitur habitudines illae sunt tales, quod secundum aliquam ipsarum devenitur ad quaesitam, aut non. Si non, tunc per ipsam lineam, quam praesupponimus proportionalem ad quaesitam ignotam, nihil de quaesita scire poterimus. Nam cum quaesita sit ignota et extensio non ducat nos ad eam, sed ad maiorem vel minorem ea, quam ignoramus, non poterimus excessum scire quaesitae penitus ignotae. Si dixeris per alteram extensionem ad quaesitam perveniri et non per ambas, idem erit, quia ignoramus, per quam et ubi linea illa cadat, cum de illis possint cadere infinitae inter e et b. Si dixeris
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una grandezza divisibile30; allo stesso modo, la divisibilità della linea retta attraverso un’altra retta termina nel punto, che è il limite della divisione e della linea, e, in quanto limite della linea, è indivisibile nel modo in cui lo è una retta; tuttavia, considerato in se stesso, è una grandezza divisibile31. È dunque possibile che una linea sia più piccola o più grande di un’altra, non tuttavia di una qualsiasi parte aliquota o di una parte aliquota più grande, ma di una parte aliquota più piccola. Da ciò, puoi ricavare che cosa si debba intendere per linee e punti indivisibili. Dico dunque che, anche se si potesse tracciare da d verso eb una linea proporzionale a quella cercata, in modo che l’eccesso non sia più grande di una parte aliquota, tuttavia nessuna linea può essere tracciata in modo che l’eccesso sia più piccolo di una parte aliquota. Dico inoltre che, anche se si potessero tracciare innumerevoli siffatte linee, una sarà più precisa dell’altra, ma nessuna sarà in assoluto la più precisa. Vediamo dunque quale fra tutte queste siffatte linee l’intelletto umano riesce a cogliere. È chiaro che se la linea, che deve essere proporzionale a quella cercata, è prolungata di una qualsiasi parte aliquota di essa, per esempio di un terzo, un quarto o altro, allora resta sempre proporzionale. Se dunque questa linea è prolungata di una lunghezza pari al rapporto della linea compresa tra la sua estremità su eb ed e e la linea ab, o pari al rapporto della linea compresa tra la sua estremità su eb e b e la linea ab, allora essa resta sempre proporzionale. Dunque, i rapporti o sono tali che per mezzo di uno di essi si giunge alla linea cercata, oppure non lo sono. Se non lo sono, allora, attraverso quella linea che noi presupponiamo come proporzionale alla linea cercata non nota, non potremo sapere nulla di quella cercata. Infatti, poiché la linea cercata non è nota e il prolungamento non ci conduce ad essa, ma a una linea più grande o più piccola, che non conosciamo, non potremo conoscere l’eccesso della linea cercata completamente ignota. Se dicessi di essere arrivato alla linea cercata attraverso un altro prolungamento e non attraverso entrambi, sarebbe la stessa cosa, poiché noi non conosciamo attraverso quale prolungamento ciò accade e dove questa linea cade, visto che possono cadere infinite [linee] fra e e b. Se dicessi che i prolungamenti sono uguali e tuttavia
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aequales fore extensiones et tamen aut minores aut maiores quaesitae ignotae, iterum ad quaesitam numquam deveniretur. Necesse est igitur proportionalem, per quam humanum ingenium hoc modo procedendi se iuvare potest, ut veniat ad quaesitam, eam esse, quae per ambas aequales extensiones sive unam sive aliam quaesitam ostendit; et haec est linea, quae ducitur de d ad medium inter e et b, puta f. Et haec est sola illa, quae per habitudinem unam, qua se habet altera linearum distantiae ab e vel b ad ab extensa, scilicet quartam sui, nos ducit ad quaesitam, modo quo sic procedendo est nobis possibile attingere, etiam si in aliis procedendi modis alia praecisior posset reperiri. Verum ne penitus hanc putes puram esse coniecturam, ita quod humanum ingenium nulla ratione alia ad hanc assertionem ducatur, facere poteris syllogismum, qui hoc casu extra ultimam praecisionem et citra differentiam minimae partis aliquotae admittitur. Nam cum de d prope e linea, puta ad g, tracta et extensa secundum habitudinem eg ad ab sit minor quaesita, et similiter extensa secundum habitudinem gb ad ab etiam sit minor quaesita; et alia linea de d prope b, puta h, tracta et secundum habitudinem eh ad ab extensa sit maior quaesita, et similiter secundum habitudinem hb ad ab extensa sit maior quaesita, ut est hinc inde notorium: igitur est alia de d ad eb trahibilis, quae secundum lineae inter terminum eius et e cadentis habitudinem ad ab extensa non est maior nec minor quaesita. Et est similiter linea de d trahibilis ad eb, quae extensa secundum habitudi-
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o più piccoli o più grandi della linea cercata non nota, di nuovo non si potrebbe mai arrivare alla linea cercata. La proporzionale, di cui l’intelletto umano può servirsi in questo genere di procedimenti per arrivare alla linea cercata, deve essere dunque necessariamente quella che, attraverso entrambi i prolungamenti uguali, che sia l’una o che sia l’altra, si presenta come la linea cercata, e questa è la linea tracciata da d al punto medio tra e e b, cioè ad f. Ed essa è la sola per la quale il rapporto tra la distanza [di f] da e e la linea ab è lo stesso del rapporto tra la distanza [di f] da b e la linea ab31; prolungata di questo rapporto, cioè di un quarto della sua lunghezza, essa ci conduce alla linea cercata, e, procedendo in questo modo, è possibile per noi trovare ciò che si cerca, anche se ne potrebbe trovare un’altra più precisa attraverso altri procedimenti.32 Ma non pensare affatto che questa sia una congettura pura, così che per nessun altra ragione l’intelletto umano sarebbe condotto ad asserire ciò; potrai fare tu un sillogismo che, in questo caso, tranne l’estrema precisione e nei limiti della differenza, è ammesso per la più piccola parte aliquota. Infatti, se si traccia una linea da d a un punto vicino a e, per esempio g, e la si prolunga secondo il rapporto tra eg e ab, essa è più piccola di quella cercata; e se la si prolunga secondo il rapporto tra gb e ab, essa è altresì più piccola di quella cercata; e se si traccia un’altra linea da d a un punto vicino a b, per esempio h, e la si prolunga secondo il rapporto tra eh e ab, essa è più grande di quella cercata, e, allo stesso modo, secondo il rapporto tra hb e ab, essa è più grande di quella cercata, come si mostra qui [dai due lati]. Dunque, si può tracciare un’altra [linea] da d ad eb, che, prolungata secondo il rapporto tra la linea compresa fra la sua estremità ed e e ab, non è né più grande né più piccola di quella cercata. Allo stesso modo, se ne può tracciare un’altra da d ad eb, che, prolungata secondo il rapporto della linea compresa fra l’estre-
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nem lineae inter terminum eius et b cadentis ad ab non est maior nec minor quaesita. Sed quia illae duae lineae, ex quarum extensionibus quaesita evenire debet, non possunt esse diversae, cum diversae lineae de d ad eb trahibiles non possint habere aeque praecisam proportionem ad quaesitam, sed una semper erit praecisior alia: ideo nec extensae secundum varias habitudines suarum partium ad eas ad eandem quaesitam aequaliter attingere possunt. Necesse igitur erit, quod sit una tantum linea et extensio eadem, quod extra f punctum non est possibile. Quare omnis sufficientia, quae in hoc procedendi modo sciri potest, est illa, quae ponitur in propositione sic declarata. Quoniam autem nunc tibi id, quod est scibile de aequalitate peripheriarum curvilinealium et rectilinealium figurarum, patefeci – scilicet, quomodo verius quod in hoc scitur est, aequalitatem sciri non posse, atque etiam quod id, quod propinquissime sciri potest in hoc, est per propositionem brevem revelatum –, tunc desiderio tuo, quantum potui, satisfeci. Nam scito hoc: Habes modum omne mathematice scibile investigandi. Omnis enim propositio in mathematicis, per quam sequitur praecisa aequalitas circuli et quadrati, est impossibilis, et omnis propositio, per cuius contrarium inferretur praecisio, est necessaria. Immo assero, quod qui in mathematicis scit omnem inquisitionem ad hoc reducere, perfectionem adeptus est artis illius. Nam nihil penitus in ea verum est, ex cuius opposito non sequitur circuli et quadrati aequalitas, et haec est omnis mathematicae inquisitionis sufficientissima resolutio. Id autem, quod sine praecisione citra tamen omnem sensibilem aut assignabilem errorem etiam minimae partis aliquotae sciri potest in transmutationibus figurarum et habitudinibus innumerabilibus, ex iam dictis etiam patefeci. Per quae habes, quomodo habitudo diametri circuli ad circumferentiam eius est ut duarum radicum numeri 1575 cum medietate unius radicis ad sex radices numeri 2700. Et licet non sit praecisissima, non tamen est nec maior nec minor per minutum aut minuti quamcumque dabilem partem.
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mità e b e ab, non è né più grande né più piccola di quella cercata. Ma poiché queste due linee, dai cui prolungamenti deve risultare la linea cercata, non possono essere diverse, visto che le linee diverse che si estendono da d ad eb non possono essere proporzionali con la stessa precisione a quella cercata, ma l’una sarà sempre più precisa dell’altra, allora, essendo prolungate secondo diversi rapporti tra le loro parti ed esse stesse, non possono pervenire ugualmente alla medesima linea cercata. Sarà quindi necessario che una sola sia la linea e uno solo il suo prolungamento, il che non è possibile se non nel punto f. Di conseguenza, una spiegazione sufficiente di tutto ciò che si può sapere su questo modo di procedere è quella data nella proposizione così spiegata. Tuttavia, poiché ti ho dimostrato tutto ciò che si può sapere sull’uguaglianza dei perimetri delle figure curvilinee e di quelle rettilinee – e cioè in che modo la cosa più vera che si sa è che l’uguaglianza non può essere conosciuta, e che ciò che al massimo si può sapere in questo ambito è rivelato in una breve proposizione –, ho così soddisfatto, per quanto ho potuto, il tuo desiderio. Ebbene sappi questo: tu possiedi il mezzo per cercare tutto ciò che si può sapere in ambito matematico. Nelle matematiche ogni proposizione attraverso cui si consegue l’uguaglianza precisa tra cerchio e quadrato è impossibile, e ogni proposizione, dal cui contrario si inferisce tale precisione, è necessaria. Affermo anzi che chi, nelle matematiche, sa ricondurre ogni ricerca a ciò, ha raggiunto la perfezione di quest’arte. Infatti, non c’è niente di vero in quelle proposizioni dal cui opposto non consegue l’uguaglianza tra il cerchio e il quadrato, e questa è la soluzione più soddisfacente di ogni ricerca matematica. Da quanto ora esposto, ho tuttavia già spiegato ciò che, nella trasformazione delle figure [geometriche] e nei rapporti irriducibili a numeri [interi], si può sapere senza la massima precisione, e tuttavia al di qua di ogni errore, percepibile o ipotizzabile, anche della più piccola parte aliquota. In base a quanto detto sai che il diametro del cerchio sta alla sua circonferenza come due volte e mezzo la radice del numero 1575 sta a sei volte la radice del numero 2700. E, per quanto non sia precisissimo, [tale rapporto] non è tuttavia né più grande né più piccolo di un minuto o di una qualsia-
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Unde sciri non potest, quantum a praecisione ultima deficiat, cum non sit communi numero attingibilis. Et hinc iste defectus non est reparabilis, cum non nisi alto intellectu et nequaquam sensibili experimento sit attingibilis. Scire ex solo isto nunc potes, quod in non scibili praecisius attingitur, quam scientiam hactenus traditam non repperi. Attendere autem praeter hoc utile videtur, quod, uti hoc casu vides, per unum, puta quadratum, non attingi aliud, scilicet circulare, aut e converso adeo praecise, quin praecisius attingi possit, etiam si defectus nequaquam appareat. Ita in omni inquisitione veri, ubi per unum ad aliud sciendum pergimus, per notum scilicet ad ignotum, idem fore sentiendum, scilicet verum varie et differenter attingi citra praecisionem ultimam, quoniam per unum praecisius quam per alium, per nullum vero praecisissime, licet defectus non appareat; quoniam mensura, qua homo pergit ad veri inquisitionem, est vero improportionalis, et hinc ille, qui citra praecisionem quietatur, errorem non apprehendit. Et haec est differentia hominum, quoniam quidam se praecisionem attigisse iactant, quam sapientiores inattingibilem sciunt, ut hi sint doctiores, qui suae ignorantiae scientiam habent. Admonebam in exordio, ut via assimilationis de his mathematicis ad theologiam te transferres, nam hic est convenientior modus ascendendi. Versantur enim mathematicae doctrinae in veris intelligentiis, quoniam figuras in sua veritate absque variabili materia considerant. Unde ad formam primam, quae est formarum forma penitus absoluta, illis figurarum multiplicitatibus inferius relictis quadam assimilatione facilius scanditur. Nam omnes theologi quandam quaerunt praecisionem, quomodo circularem aeterni-
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si parte che si può dare di un minuto. Pertanto, non si può sapere quanto esso manchi della massima precisione, non potendo essere determinato mediante un numero comune33. Perciò, questo difetto non è emendabile, poiché può essere colto solamente da un intelletto superiore e in nessun caso attraverso un esperimento sensibile. Ora, già solo da ciò puoi capire che il valore più preciso si coglie in un ambito inaccessibile al nostro sapere, la cui conoscenza non ho letto sia stata finora trasmessa. Oltre a ciò, sembra tuttavia utile osservare che, come vedi in questo caso, una figura, come il cerchio, non può essere colta attraverso un’altra, per esempio il quadrato, o viceversa, in modo così preciso da non poter essere colta in maniera ancora più precisa, anche se il difetto non è affatto percettibile. Allo stesso modo, in ogni ricerca del vero dove cerchiamo di conoscere qualcosa attraverso un’altra cosa, ossia ciò che è ignoto attraverso ciò che è noto, bisogna tener conto della stessa cosa, e cioè che si raggiunge il vero in modi vari e diversi, [restando, tuttavia] al di qua della massima precisione; infatti, si può raggiungere una maggiore precisione con un procedimento piuttosto che con un altro, ma non c’è nessun procedimento con cui si possa raggiungere la massima precisione, anche se l’errore non è manifesto; questo perché la misura con la quale l’uomo si mette alla ricerca del vero non è in alcun modo proporzionale [al vero], per cui chi si acquieta, accontentandosi di restare al di qua della precisione, non coglie l’errore. E in ciò sta la differenza tra gli uomini, poiché alcuni si vantano di essere pervenuti alla precisione, che i più sapienti riconoscono come irraggiungibile, così che risultano più dotti quelli che hanno conoscenza della loro ignoranza34. All’inizio ti ho invitato a passare da queste matematiche alla teologia attraverso la via dell’assimilazione; questo, infatti, è il modo più adatto di elevarsi. Le dottrine matematiche, infatti, sono elaborate dalle vere intelligenze, in quanto considerano le figure nella loro verità, prive della materia mutevole35. Per questo motivo, una volta che si sia lasciata la molteplicità delle figure dietro di sé, ci si eleva più facilmente, attraverso una sorta di assimilazione, alla prima forma, cioè alla forma delle forme del tutto assoluta. Tutti i teologi, infatti, cercano una qualche precisione, in modo da poter raggiungere con essa l’e-
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tatem, unissimam et simplicissimam, possint attingere. Sed vis infinita est incommensurabilis per omne non infinitum, sicut capacitas circularis per omnem non circulum incommensurabilis manet. Sicut igitur circulus est perfectio figuralis omnem figurarum perfectionem in se complicans, sicut eius capacitas omnium figurarum capacitatem, et nihil commune habet cum omni figura alia, in se penitus simplex et una: sic aeternitas absoluta est forma omnium formarum in se complicans perfectionem, et eius vis omnipotens omnem vim formarum, omnem speciem ambiens, nihil tamen commune habens cum omni alia forma. Et quemadmodum circularis figura in eo, quia sine principio et fine, quandam habet assimilationem aeternitatis, et in sua capacitate, qua omnes omnium figurarum capacitates includit, quandam habet figuram omnipotentiae, et in sua connexione, qua circumferentia unitur capacitate, habet quandam figuram amorosissimi et infiniti nexus: ita quidem in essentia divina intuemur aeternitatem in se habentem omnipotentiam atque in his infinitum nexum. In aeternitate quidem intuemur principium sine principio, et hoc quidem principium paternum dicimus. In omnipotentia, quae est a principio sine principio, intuemur principium illimitatum a principio. In infinito nexu intuemur principii sine principio et principii a principio amorosissimum nexum. In hoc enim, quod in divina essentia intuemur aeternitatem, intuemur patrem. In hoc, quod in eadem essentia intuemur aeternitatis potentiam, quae non potest esse nisi infinita, cum sit potentia aeternitatis, principii scilicet sine principio, in hoc intuemur aequalitatem unitatis aeternae, scilicet filium patris. In hoc, quod intuemur aeternae unitatis et suae aequalitatis nexum amorosissimum utriusque, spiritum intuemur. In unitate igitur simplicissima aeternitatis vigorosissimam et omnipotentissimam aequalitatem intuemur, ac e converso in aequalitate unitatem, similiter et in nexu unitatem et aequalitatem. Sine aeternae entitatis unitate nihil esse potest. Sine illius unitatis aequalitate nihil sic esse uti est esse potest. Sine infinito nexu esse et simul sic esse uti est nihil esse potest. Sine unitrino igitur principio nihil esse potest.
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ternità del cerchio, che è semplicissima e assolutamente una. Ma la forza infinita è incommensurabile rispetto a tutto ciò che non è infinito, come l’ampiezza del cerchio resta incommensurabile rispetto a tutto ciò che non è circolare36. Dunque, come il cerchio è la figura geometrica perfetta37, che complica in sé tutte le perfezioni delle figure, e la sua ampiezza [complica] l’ampiezza di tutte le figure38 e non ha nulla in comune con ogni altra figura, dal momento che è assolutamente una e semplice in sé, così l’eternità assoluta è la forma di tutte le forme, che complica in sé ogni perfezione, e la sua forza onnipotente abbraccia tutte le forze delle forme, tutte le specie, senza tuttavia avere niente in comune con tutte le altre forme. E come il cerchio, per il fatto di non avere né inizio né fine, ha una certa somiglianza con l’eternità39, e nella sua ampiezza, che racchiude le ampiezze di tutte le figure, rappresenta una qualche immagine dell’onnipotenza, e nella sua connessione, mediante la quale la circonferenza è unita all’ampiezza, rappresenta una qualche immagine del nesso infinito e pieno d’amore40, così noi intuiamo nell’essenza divina l’eternità che ha in sé l’onnipotenza, e in queste il nesso infinito. Nell’eternità intuiamo il principio senza principio41 e diciamo che esso è il principio paterno. Nell’onnipotenza, che proviene dal principio senza principio42, intuiamo il principio illimitato che procede dal principio. Nel nesso infinito intuiamo il nesso pieno d’amore del principio senza principio e del principio che procede dal principio. Per il fatto che nell’essenza divina intuiamo l’eternità, intuiamo il Padre43. Per il fatto che intuiamo in questa stessa essenza la potenza dell’eternità, che non può che essere infinita, essendo la potenza dell’eternità, ossia del principio senza principio, intuiamo l’uguaglianza dell’unità eterna, cioè il Figlio del Padre. Per il fatto che intuiamo il nesso pieno d’amore dell’unità eterna e della sua uguaglianza, intuiamo lo Spirito. Dunque, nell’unità semplicissima dell’eternità intuiamo l’uguaglianza, fortissima e potentissima, e viceversa, nell’uguaglianza l’unità, e, allo stesso modo, intuiamo nel nesso l’unità e l’uguaglianza. Senza l’unità dell’essere eterno niente può essere. Senza l’uguaglianza di questa unità, niente può essere così com’è. Senza il nesso dell’essere e dell’essere così, niente può essere così com’è. Dunque, senza il principio unitrino, niente può essere.44
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