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Italian Pages 168 Year 2018
Lorenzo Braccesi
OLIMPIADE REGINA DI MACEDONIA La madre di Alessandro Magno
SALERNO EDITRICE
Non possiamo comprendere l’avventura del grande Alessandro prescindendo dal suo rapporto con la madre Olimpiade. Donna dalla sensibilità esasperata, dedita a rituali e culti misterici, orfici e dionisiaci, preda come le menadi di estasi alienanti e forse liberatorie di ossessioni domestiche, orgogliosa delle sue mitiche ascendenze troiane, esclusiva nel rapporto con il figlio, che l’amò profondamente e ne tollerò le irruenti iniziative. Si macchiò di sangue, uccidendo anche stretti congiunti, pur di garantire al figlio la successione al regno paterno, e al figlio del figlio l’eredità del genitore. Vive in un’età in cui la Macedonia del suo consorte Filippo medita la prima costruzione di un’Europa politica seppure limitata all’area balcanica; in cui l’Epiro di suo fratello, il Molosso, si proietta sull’Occidente italiota, istituendo relazioni con Roma; in cui il figlio, Alessandro, si proclama successore dell’impero ecumenico degli Achemenidi, esportando dal Danubio all’Indo una nuova cultura: che sarà l’ellenistica.
PICCOLI SAGG I
COLLANA DIRETTA DA
gi u lia m astrangeli , sav erio ricci , e m ilio ru sso
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LORENZO BRACCESI
OLIMPIADE regina di macedonia la MADRE DI alessandro magno
SALERNO EDITRICE ROMA
Composizione presso Graphic Olisterno, Portici (Na). Copertina: Wilhelm Beyer, Alessandro e Olimpiade (sec. XVIII). Wien, Schlosspark Schönbrunn. Progetto grafico a cura di Mariavittoria Mancini. Realizzazione tecnica a cura di Grafica Elettronica, Napoli.
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edizione digitale: febbraio 2019 ISBN 978-88-6973-383-3
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edizione cartacea: febbraio 2019 ISBN 978-88-6973-361-1
Tutti i diritti riservati - All rights reserved Copyright © 2019 by Salerno Editrice S.r.l., Roma
a tutte le donne come Olimpiade barbaricamente possessive
PREMESSA Scrivere di donne dell’antichità è sempre un’impresa al limite. Ma scrivere una biografia di Olimpiade lo è ancora di piú perché la gravano la fascinazione – spesso sinistra – del mistero e l’impronta di una religiosità esasperata che, sommate tra loro, e accomunate all’indole indocile e alla natura possessiva, fanno velo alla ricerca e la confinano in una dimensione già in partenza alterata. È figlia di un re, sorella di un re, consorte di un re, madre del piú grande sovrano di tutti i tempi, ma nei secoli è accompagnata da una tradizione di marca ostile, quasi una maledizione storiografica, perché, essendo donna, i contemporanei ne hanno infamato il ruolo di protagonista che ella ha sempre disinvoltamente esercitato, trovandosi per sorte in un osservatorio privilegiato e al centro di avvenimenti decisivi per la storia del mondo antico. Donde la difficoltà costante di questa ricerca, tesa a una ricostruzione biografica affidata alla valorizzazione di minimi indizi, che costringe ad ampliare di continuo lo sguardo sull’operato del consorte, del fratello e del figlio, alternando come strumenti di indagine il canocchiale al microscopio, con la preoccupazione costante – anche a costo di qualche inevitabile ripetizione – di riannodare di continuo il filo del discorso per maggiore intelligenza del lettore. Mai rinunziare a fare storia anche se esigui sono i dati documentari e, d’altro lato, mai cedere alle lusinghe di fantasiose congetture non sorrette da legittime ipotesi di lavoro. ★
Accomiatandomi dal lettore, non posso non ricordare con gratitudine il nome di due gentili amiche, oggi insegnanti, laureatesi in storia antica: Ornella Ortolan, mia allieva veneziana, che un tempo avevo indirizzato proprio a ricerche su Olimpiade, e Greta Massimi, la “adottata” di Pescara, studiosa dell’età augustea, che pure questa volta ha voluto supportare il libro con l’intelligente fatica della redazione degli indici. Montegrotto Terme, Natale 2018 L. B.
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I PRINCIPESSA EPIROTA 1. Il nome « A Filippo che aveva appena presa Potidea, giunsero nello stesso tempo tre notizie: che gli Illiri erano stati sconfitti in una grande battaglia da Parmenione, che aveva vinto a Olimpia nella corsa dei cavalli e che gli era nato Alessandro ». Cosí Plutarco (Alex., 3 8) e, siccome altro è il nome originario di Olimpiade, la critica da sempre, e pressoché concordemente1 ha posto in relazione il suo nome con la vittoria del consorte, Filippo di Macedonia, negli agoni di Olimpia. La data per i tre avvenimenti, mese piú mese meno, è quella del 356, che – pure al di là del facile e quadruplice sincronismo – contrassegna un anno fortunato per il sovrano: non solo ha conquistato Potidea e domati gli Illiri, avvalendosi dell’azione del piú esperto dei suoi strateghi, ma ha anche trionfato in una grande gara panellenica e ha salutato la nascita di un figlio maschio. Olimpiade, la madre del neonato Alessandro, assume dunque il nome, con cui passa alla storia, da quello del centro religioso dove i cavalli di Filippo riportano una vittoria sportiva che, presso i Greci, ne sprovincializza l’immagine. Ma prima come si chiamava la protagonista del nostro libro? Per Giustino (ix 7 13), che compendia la storia universale di Pompeo Trogo, si sarebbe un tempo, da giovinetta, chiamata Myrtale: hoc enim nomen ante Olympiadis parvulae fuit. Ma il problema non si esaurisce con questa informazione, giacché Plutarco in un opuscolo sugli oracoli della Pizia (mor., 401a) ci attesta, in aggiunta, altri due nomi: quelli di Polissena e di Stratonice. Il primo dei quali sarebbe stato il nome base, gli altri gli aggiuntivi e successivi. Che dire? Come ricomporre il mosaico onomastico? L’opuscolo plutarcheo, oltre a costituire una fonte piú che attendibile, è interessato proprio a riferirci i nomi posseduti o assunti da Olimpiade. Impossibile rifiutarne la testimonianza, che dunque ci pone di fronte a 1. Cosí Macurdy 1932, p. 24 seguito dalla critica piú avveduta. Discorda Prestianni 1976-1977, p. 91 n. 40.
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quattro appellativi, che è necessario, per chiarirne la successione, esaminare singolarmente.2 Polissena, nell’onomastica greca, parrebbe avere una sola attestazione in una stele funeraria della Tessaglia (IG, ix/2 1071) databile in età ellenistica. Il nome, nel mito, appartiene a una principessa troiana sacrificata dal figlio di Achille sulla tomba del padre. Olimpiade era nata in Epiro progenie di stirpe regale, ed è molto probabile che, in effetti, questo di Polissena sia stato l’originario nome conferitole alla nascita giacché spesse volte era costume della dinastia regnante assegnare un’onomastica del ciclo “troiano” ai propri rampolli: “achea” se riferita a maschi, “iliaca” se attribuita a fanciulle. Non a caso si chiamava Neottolemo il genitore di Olimpiade, e Pirro il piú illustre dei suoi bisnipoti; non a caso una sua sorella si fregiava del nome parlante di Troade come impareremo in prosieguo di discorso. Myrtale, nell’onomastica greca, ha una ventina di attestazioni disseminate un po’ dovunque.3 Il nome si riconnette alla pianta del mirto, che è simbolo di gioiosa vitalità e rinascita della natura, e in particolare del mondo vegetale. Simbolo che dal suo radicamento alla terra trascende anche all’ambito ctonio, legandosi all’Ade e al regno dei morti; soprattutto nella saga di Dioniso che qui discende per ricondurre alla vita, e quindi alla rinascita, la madre Semele ornando gli Inferi di boschetti di mirto.4 Compagne del dio, come è noto, sono le menadi, donne sempre invasate, possedute e in preda a frenesie estatiche. Alla cui prorompente cultualità dionisiaca la tradizione – come diremo – ascrive anche Olimpiade. Il suo nome di Myrtale potrebbe pertanto riconnettersi a un precoce processo di iniziazione a pratiche religiose di connotazione misterica. Stratonice, nell’onomastica greca, è nome molto diffuso con oltre quattrocento attestazioni5 ed è nome comune a due principesse della corte 2. Sul problema, vd. ora Prestianni 2018, pp. 532 sgg. con conclusioni non sempre condivisibili. 3. Il nome Myrtale ha piú di venti attestazioni tra l’Attica, l’Egeo, l’Asia Minore e l’area occidentale. L’informazione, come quella relativa all’onomastica di Stratonice, si deve a Michela Nocita, che l’autore ringrazia. 4. Discussione del mito in Jeanmaire 1972, pp. 268 sgg. Vd. anche Scarpi 1996, p. 553. 5. È attestato in quasi tutte le regioni della Grecia con particolare diffusione in età ellenistica e romana.
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macedone: alla figlia di un sovrano macedone menzionato da Tucidide (ii 101 4) e – in età successiva – alla figlia di Demetro Poliorcete ricordata in un’epigrafe di Delo.6 Inoltre nell’area delle conquiste macedoni in Calcidica è pure attestato l’omonimo toponimo di Stratonike, in località ricca di miniere aurifere e argentifere.7 Non ci pare quindi illecito congetturare che, in occasione delle nozze con Filippo, Olimpiade abbia mutato il suo nome di Polissena, pressoché sconosciuto all’onomastica greca, in quello di Stratonice, piú consono a una regnante macedone. Tanto piú che il nome di Polissena evocava l’immagine di un’eroina troiana la cui vicenda non era certo di buon auspicio, giacché Neottolemo, il figlio di Achille, la trucida barbaramente dopo averla agghindata proprio da sposa come racconta Licofrone dando voce alla profezia di Cassandra (Alex., 322-30). L’usanza per le donne regali di mutazioni onomastiche è, peraltro, molto frequente alla corte macedone, dove è un’indiscussa prerogativa maschile.8 Del nome di Olimpiade, con cui la protagonista del libro passa alla storia come moglie del re Filippo e madre del grande Alessandro, già abbiamo detto. Possiamo soltanto aggiungere che, al di là della celebrazione della vittoria agonistica, il nome era funzionale, tanto per il consorte nel presente quanto per il figlio nell’avvenire, alla loro integrazione nel mondo di valori della grecità, evocando uno tra i piú venerati santuari del mondo ellenico. 2. La famiglia Quando Olimpiade nasce, intorno all’anno 375, la sua patria, l’Epiro, è in fase di profonda trasformazione e già avviata, da comunità di stampo tribale, a un processo di unificazione, che è sostanzialmente parallelo a quello che porta, a seguito delle molte guerre del suo futuro marito, alla costituzione dell’imponente e forte stato della nuova Macedonia nel cuore della regione balcanica. In Epiro dominavano da sempre le tre grandi 6. In Tréheux 1992, num. 17. 7. Vd. Hammond 1979, p. 666. 8. Bibliografia e discussione del problema in Prestianni 2018, l.c.
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etnie indipendenti dei Molossi dei Tesproti e dei Caoni. Le prime due comunità si fondono intorno alla metà del IV secolo, dando vita a uno stato unitario, le cui popolazioni si integrano pacificamente nell’assemblea dei Molossi, i quali già dal secolo precedente avevano inglobato sotto il proprio controllo l’importantissimo santuario tesproto di Zeus, a Dodona, la cui fama era di risonanza internazionale. Il nuovo stato, governato dalla dinastia molossia degli Eacidi, poteva ora affacciarsi al mare, estendendosi, pur senza continuità, dalla costa di fronte a Corcira fino al golfo di Ambracia. Fratello di Olimpiade è Alessandro il Molosso (d’ora in poi “il Molosso”); sotto il suo regno Filippo il Macedone, divenutone cognato, gli consente di aggregare all’Epiro – di fatto un proprio stato satellite – i territori della Cassiopea e delle colonie greche costiere. Sotto il monarcato di Pirro, di cui Olimpiade è prozia, l’Epiro estende poi la propria autorità anche sui Caoni, sí da prefigurare un grande stato che dalle regioni interne dei laghi montani si estende sull’intera costa compresa tra la foce del fiume Genesso – attuale Shkumbini in Albania – nel mare Adriatico e la vasta rada di Ambracia che si affaccia sullo Ionio. Parallela all’unificazione politica della regione è quindi la nascita di centri urbani con il conseguente abbandono dei villaggi; gli uni in pianura, gli altri, i villaggi, per lo piú dislocati nelle aree montagnose. Nel corso di questo periodo si procede anche all’edificazione di vere e proprie strutture murarie per il santuario di Dodona, che è, e rimane, uno dei piú venerati santuari del mondo greco.9 Tale l’Epiro in cui nasce e trascorre la prima adolescenza Olimpiade, figlia del re molosso Neottolemo della dinastia degli Eacidi, che, a stare a Giustino (xvii 3 14-15), ebbe come prole: « Olimpiade, madre di Alessandro Magno, e Alessandro, che dopo di lui governò il regno dell’Epiro e che morí nel Bruzio, facendo guerra in Italia ». Il secondo Alessandro è il Molosso, che andò a morire in Italia nel mentre l’altro Alessandro, il figlio di Olimpiade, marciava vittorioso nelle terre dell’Oriente. Da piú indizi – di cui diremo – questi dovrebbe essere un 9. Per documentazione e discussione di quanto abbiamo detto sulle strutture dell’Epiro, e sulla sua evoluzione verso uno stato unitario, vd. Cabanes 2004 e, Cabanes 2010, passim.
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fratello minore di Olimpiade; la quale aveva anche una sorella, di nome Troade, che parrebbe decisamente maggiore di età, dato che, quando la prima delle due si avvia alle nozze, è già consorte di un parente che ne esercita la tutela, come precisa in altro luogo Giustino (vii 6 11): « Il matrimonio fu favorito dal cugino e tutore della fanciulla, Ariba, re dei Molossi, che aveva in moglie la sorella di Olimpiade, Troade ». Molto probabilmente come attesta Pausania (i 11 1) “tutore” di Olimpiade non era un cugino, bensí uno zio, giacché suo padre Neottolemo era fratello di Ariba « entrambi figli di Alceta ». In quanto a Troade, sarà la madre di Eacide, il padre di Pirro, con una sequenza al trono epirota che vedrà a Neottolemo succedere Ariba, e a costui (defenestrato dal sovrano macedone) il Molosso e quindi, dopo la sua morte, il nostro Eacide. Il quale regnerà sottoposto all’assillante influenza della zia Olimpiade, quando, partito Alessandro per la spedizione in Asia, ella alternerà come residenza la Macedonia all’Epiro. 3. L’origine mitica Olimpiade, figlia di Neottolemo, apparteneva alla dinastia degli Eacidi. I quali si vantavano discendere dal leggendario Eaco, nel mito padre di Peleo e quindi nonno di Achille. Non solo, ma rinvigorivano anche tale eredità di stirpe dall’unione del figlio di Achille, Pirro o Neottolemo, con Andromaca, vedova di Ettore e sua preda di guerra. Dunque una duplice discendenza: greca e troiana. Della quale, seppure con opposto sentire, si servirono per motivi propagandistici tanto Alessandro quanto Pirro quanto, probabilmente, il Molosso. La leggenda diviene vettore di propaganda con Callistene (FGrHist, 124 T 10), lo sfortunato storiografo del Macedone nipote di Aristotele. La sua opera è perduta, ma possiamo evincerne il pensiero da una testimonianza riferitaci da Strabone (xiii 594): « [Alessandro] trattò con benevolenza i Troiani sia per rispetto del poeta sia per la discendenza dagli Eacidi che regnarono sui Molossi, presso i quali raccontano che abbia regnato anche Andromaca, la consorte di Ettore ». Il poeta è Omero, di cui proprio Callistene predispone la diórthosis, cioè la revisione critica, dei testi dell’Iliade e dell’Odissea che il Macedone reca 15
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con sé. La leggendaria synghenéa, la mitica parentela, che sarebbe venuta a unire, tramite il sangue di Olimpiade, Alessandro alla troiana Andromaca, si esalta nella narrazione della visita di quest’ultimo a Ilio, dove il condottiero – secondo Plutarco (Alex., 15 7-8) – proprio dalla visita ai suoi monumenti avrebbe tratto impulso per una conquista che, nel suo divenire, si sarebbe palesata come ecumenica. Arriano (i 11 7) anche aggiunge che egli scambia la propria armatura, dedicata ad Athena, con « alcune delle armi offerte in voto che si conservano ancora dalla guerra di Troia ». Non c’è dubbio. Callistene, prima di divenire una vittima eccellente del dispotismo di Alessandro, è l’interprete “omerico” della grande spedizione. Elabora, infatti, una sorta di geografia mitica, omerico-iliaca, lungo la sua marcia in terra di Asia, che di fatto ne esalta e giustifica la conquista. Per lui, con ribaltamento dello schema isocrateo, il suo eroe è, anzitutto, il vendicatore in Asia dell’abbattuto monarcato troiano di Priamo, la cui estensione si dilata di continuo fino ad abbracciare ogni terra che egli assoggetta. La conquista è cosí legittimata dal mito come riappropriazione delle terre dell’antico dominato iliaco.10 Pirro sfrutterà poi la leggenda al contrario: per presentarsi in Italia, nel conflitto contro Roma, come un nuovo Achille volto ad annientare i discendenti dei Troiani. Le monete da lui coniate in Italia recavano, non a caso, l’immagine dell’eroe, ed egli da Plutarco (Pyrrh., 13 1) sappiamo come si compiacesse di paragonarsi a lui, del quale, come riferisce Pausania (i 12 1) si vantava di essere “discendente”, Achilleōs apogonos. In quanto al Molosso, si presentava sí a Greci e indigeni in Italia come un discendente di Diomede, adriatico ed etolico, ma non possiamo escludere che abbia usato con i Romani l’arma accattivante della comune discendenza troiana, dato che con essi – teste Giustino (xii 2 12) – foedus amicitiamque fecit, stipulando un trattato di non belligeranza. Tutto ruota attorno a Olimpiade, quasi già da adolescente potesse presagire la sua storia futura, quasi già da adolescente potesse nutrire le irrequiete inclinazioni dello spirito verso l’irrazionale, il soprannaturale e il divino che ne caratterizzeranno in futuro l’immagine, facendo di sé stessa l’artefice della propria leggenda in quanto madre passionale e addolorata 10. Discussione del problema in Braccesi 2006, pp. 157 sgg.
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per un figlio assente; la cui eroicità ella, nei frequenti deliri, si figurava attinta all’essenza del divino. Per un figlio, la cui vicenda terrena ne segnerà l’apice dell’esistenza, la folle caduta e l’ansiosa sete di vendetta. Mentre l’ombra del fratello, ucciso in battaglia, sfregiato dopo la morte e restituito in pezzi al nido familiare, l’accompagnerà come un malefico presagio quando, in delirio mistico e posseduta da forze arcane, si esalterà per l’aureola sacra che avvolgerà il figlio che ella reputerà immortale. Altra però sarà la sua aureola. Di fatto, una nebbia misterica dove il mito poteva sovrapporsi alla vita e alla realtà, riattualizzando tanto la parola profetica della troiana Cassandra o la disperazione materna di Andromaca quanto la ferita sanguinante inferta, dalla spada assassina del rampollo di Achille, nel seno di quella Polissena da cui aveva tratto il nome natale. 4. L’attrazione verso l’irrazionale Quanto abbiamo detto, per introdurre l’argomento, proietta la nostra Olimpiade in una dimensione di religiosità misterica e di pratiche di alienazione/possessione di cui rende puntuale testimonianza Plutarco (Alex., 2 7-9): C’è […] una diversa tradizione, secondo la quale tutte le donne di queste parti sono da antico tempo legate ai riti orfici e dionisiaci, e si chiamano Clòdoni e Mimallone, e compiono molte azioni simili a quelle delle Edoni e delle donne di Tracia che abitano presso l’Emo, donde appunto pare sia derivato il termine “tracizzare” per indicare riti stravaganti e superstiziosi. Olimpiade, che piú delle altre praticava questi riti e in modo piú selvaggio si abbandonava all’invasamento, portava nei tiasi grandi serpenti addomesticati, i quali spesso, emergendo dalle foglie di edera che ricoprivano le ciste sacre e avvolgendosi attorno ai tirsi e alle corone delle donne, atterrivano gli uomini.
Il luogo trae origine dalla necessità, per il biografo, di spiegare la dimestichezza di Olimpiade con i serpenti. I quali sono funzionali ai riti delle menadi, o baccanti, che accompagnano il corteo di Dioniso, un dio che – come narra Apollodoro (iii 38) – ha anche egli pratica di rettili avvolti in foglie di edera. Riti, questi delle menadi, non solo femminili, ma anche “femministi”, giacché devono atterrire l’umanità maschile. Le accompagnatrici di 17
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Dioniso di poco differiscono dalle Edoni della Tracia, donne che si estraniavano dalla società vivendo al contatto con la natura in preda a frenetici rapimenti estatici. Erano dedite a stravaganti forme di religiosità: vestite di pelli di animali, cinte di corone di edera o di quercia, celebravano il loro dio cantando, danzando e vagando a frotte per monti e foreste, nutrendosi, per giunta, della carne cruda degli animali che squartavano. Loro attributo era il tirso intrecciato di edera; tiasi si chiamavano le loro confraternite.11 Olimpiade, « che piú delle altre praticava questi riti e in modo piú selvaggio si abbandonava all’invasamento », doveva avere pratica di sostanze allucinogene, cioè di phármaka, ossia arbusti medicinali dalle virtú venefico-terapeutiche. Ne abbondava, in particolare, la Tessaglia, regione prossima all’Epiro, legata alla religiosità di Ecate, dove la dea, ctonia e urania, è contornata da una serie di ninfe o divinità minori, che sono le pharmakides. Ecate è divinità triforme che riunisce in sé, in un unico trittico cultuale, anche i sembianti di Selene (Luna) e di Artemide (Diana). Albergando nelle selve prossime alle città, la dea, patrona dei phármaka, si sarà facilmente trasfigurata in Selene se le sostanze allucinogene saranno state colte di notte, ovvero in Artemide se carpite nelle ore diurne. Di notte, sotto l’egida di Ecate/Selene, il menadismo dionisiaco si palesa tanto nell’aspetto della magia astrale, quanto nelle forme della libidine parossistica, anche se non spinta – come nel mito – fino all’assassinio rituale. Punto di raccordo tra le due tipologie di astrazione dal reale è bene offerta dalla leggenda di Orfeo, che discende da Selene-Luna, come ricorda Platone (res. publ., 2 364e), e ricollega « i riti orfici » ricordati da Plutarco all’esperienza della propria morte. La quale, teste Pausania (ix 30 5), avviene quando è assassinato da una congrega di donne della Tracia che, come menadi eccitate dalla frenesia orgiastica, finiscono per mozzarne la testa che seguita a cantare pure essendo ormai dissociata dal corpo. Il divino cantore, dai preziosi incantamenti, non è solo medico dell’anima, ma anche del corpo. È sí dalla mitologia ellenica trasfigurato in figlio di Apollo, ma il suo culto non è retaggio del mondo miceneo, bensí, passando per la Tracia, proviene dalle gelide contrade del settentrione euro11. Documentazione e penetrante analisi del menadismo in Jeanmarie 1972, pp. 158 sgg. In particolare, su Ecate e le piante magiche, vd. ora Foti 2018, pp. 285 sgg.
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asiatico dove esisteva una consuetudine diffusa di pratiche sciamaniche. Per la sua attività terapeutica l’uomo raggiunge una dimensione nella quale lo spirito abbandona il corpo, intraprendendo viaggi estatici al di fuori dell’esperienza umana. Questa e altre “magie” orfiche, con il trascorrere del tempo, saranno alla base di una vera e propria “teologia di Orfeo”, destinata a fornire dottrina e supporto religioso agli stessi seguaci di Dioniso, siglando, soprattutto nelle forme dei rituali, un ritorno a quello che sarebbe stato il carattere primigenio della cultualità del dio.12 La personalità eroica ed “estrema” di Orfeo, si confonde cosí con la personalità, altrettanto “estrema”, di Dioniso. Ma la figura del divino cantore può anche legarsi in qualche modo a Ecate, alla dea patrona dei phár maka? La risposta non può essere che affermativa, giacché Pausania (ii 30 2), introducendo il viaggiatore ai segreti della religione di Egina, ci dice che « gli Egineti venerano in modo particolare Ecate », i cui « misteri dicono essere stati per loro istituiti da Orfeo, il trace ». Notizia, per noi, passibile di ulteriori connessioni con la figura di Olimpiade, dato che Egina è la patria di Eaco, il padre di Peleo, il nonno di Achille, e – ciò che piú conta – il progenitore della stirpe degli Eacidi, i sovrani della Molossia e quindi dell’Epiro. Cosa che per la giovane principessa, discendente da Eaco, costituiva un triplice legame tra la propria stirpe regale, la cultualità di Ecate e la dimensione di adepta ai riti orficodionisaci. Abbiamo indugiato – anche a rischio di divagare – su questi aspetti esteriori del comportamento delle seguaci di Dioniso e Orfeo per mostrare l’incidenza profonda dell’attrazione di Olimpiade verso l’irrazionale e la sua propensione per l’esoterico come chiave dell’essere. Note dominanti del suo carattere in tutto l’arco di una vita che, seppure donna, saprà e vorrà vivere da protagonista; note dominanti che sempre la faranno propendere per le scelte estreme, tanto nell’affetto quanto nell’odio, tanto nella passione quanto nella vendetta. L’adesione a pratiche dai rituali sfrenati e selvaggi ne accompagneranno però solo la prima giovinezza, forgiandone l’irrequietezza dello spirito, 12. Vd., per una discussione dell’ampia e dibattuta problematica, Di Benedetto 1986, e Luck 1994, passim.
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perché, se è vero che esibirà serpenti alla corte macedone del futuro marito, se è vero che con buona probabilità avrà avuto sempre a portata sostanze allucinogene, è altrettanto vero che, quale regina, non potrà piú concedersi alle sfrenatezze dei tiasi dionisiaci. Sulle quali la testimonianza di Plutarco forza sí la coloritura, ma nella sostanza è pienamente attendibile, giacché anche il quasi contemporaneo Duride (FGrHist, 76 F 52), una generazione appresso, dipinge Olimpiade definendola « piú sfrenata di una baccante ». In un frammento tràdito da Ateneo (xiii 560f) che, a sua volta (xiv 659 f), riconnette la donna a pratiche “bacchiche” relative a cerimonie sacrificali. Ma perché la giovanissima e appena adolescente Olimpiade si concede a rituali dionisiaci e agli abissi imperscrutabili della religiosità orfica? Certo perché la propria natura se ne sentiva personalmente attratta, proiettata come era verso il superstizioso, il divinatorio e l’irrazionale. Ma forse anche per il mordente desiderio di evadere da un ambiente familiare in cui, in sostanza, si sentiva estranea e neppure bene accetta. Era orfana del padre, il re di Epiro Neottolemo, e, mortale anche la madre, si trovava sotto la tutela di uno zio che, per legittimare la posizione di successore del defunto sovrano, ne aveva sposata la sorella Troade. Da cui aveva avuto un figlio, Eacide, che un domani – era facile prevederlo – avrebbe conteso la successione del trono al fratello, al Molosso, al quale era particolarmente affezionata come mostrerà la storia futura. Meglio dunque per lei la fuga nell’adesione a pratiche estreme di cultualità che comportavano la dissolvenza dell’essere e la sua rigenerazione nella vitalità arborea della natura. Inevitabilmente, ripensando alla sua giovinezza, i moderni non possono sfuggire alla suggestione di una nota crepuscolare: a immaginarla, ninfa dei boschi, mentre interroga a Dodona le divine querce parlanti o, raccoglitrice notturna di erbe magiche, mentre trae sortilegi dalla luna, la cui falce splendente ella troverà presto riflessa nell’incurvatura degli scudi dei pezeteri macedoni. 5. Le nozze Il sogno all’evasione non si manifesterà soltanto nell’eccitazione dionisiaca, ma sarà anche il sogno concreto della fuga dall’ambiente domestico, 20
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e sarà, con le nozze, contrattate dalla famiglia, l’unico allora concesso a una giovane donna. Lo sposo fornitole dalla sorte e dalle ragioni della politica sarà Filippo, il re di Macedonia, uomo d’armi e scaltrito diplomatico, destinato a diventare per la grecità l’arbitro di nuovi equilibri politici. Non è escluso che dalla sua forte personalità ella fosse rimasta attratta, anche se è difficilmente credibile che i due si siano incontrati in occasione della reciproca iniziazione « ai misteri di Samotracia », come fosse – diremo oggi – il giorno della loro prima comunione. Lo tramanda Plutarco (Alex., 2 1): « Si dice che Filippo, iniziato insieme a Olimpiade (egli era ancora un ragazzo, ed ella era orfana dei genitori), se ne innamorò e subito concordò con lei il matrimonio, con il consenso di Aribba, fratello della ragazza ». Quello di Samotracia diventa un santuario di carattere nazionale13 per il mondo macedone a partire proprio dall’età di Filippo, che ne è un devoto fedele come lascia intuire Curzio Rufo (viii 1 26). Olimpiade per naturale inclinazione era portata a farsi adepta di religioni misteriche. Di qui la bella favola dei due ragazzi, il macedone e la epirota, che si conoscono nell’isola dell’Egeo, innamorandosi tra loro, mentre magari sono aspersi dall’acqua lustrale e rivestiti di una bianca tunica. Ma Filippo non era un ragazzo, un pais. Le trattative per le nozze si datano al 357 ed egli – nato nel 382 – aveva compiuto venticinque anni, e aveva già al suo attivo vittorie schiaccianti su piú genti illiriche e l’asservimento della Tessaglia con relativa conquista di Larissa. Solo dopo che « tali imprese avevano avuto un esito felice » egli si sposa, come ci precisa Giustino (vii 6 10-11). Il quale parimenti asserisce che il matrimonio « fu favorito » da Ariba « tutore della fanciulla », da lui definito « cugino », da Plutarco « fratello », ma pressoché sicuramente zio di Olimpiade. L’interesse all’unione era reciproca: tanto da parte di Ariba quanto di Filippo. L’uno favorisce le nozze per ingraziarsi il potente vicino nel timore che voglia allargare il territorio del proprio regno verso l’occidente, ai danni dell’Epiro. L’altro, Filippo, mira a imparentarsi con il sovrano molosso per avere poi voce nel rivendicarne diritti ereditari, scalzandolo e trasformando la patria natale di Olimpiade in uno stato satellite della Macedonia. Come in effetti avverrà. 13. Cosí Mari 2002, pp. 200 sgg.
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Il progetto perseguito da Filippo è quello di un dominato che si affacci su due mari, l’Adriatico e l’Egeo, e in seguito, portando guerra alla Persia, anche sulle coste pontiche del Mar Nero. Un dominato attraversato in tutta la sua estensione da una carovaniera che anticipa il percorso della romana via Egnatia, e della quale conserva esplicita menzione Teopompo (FGrHist, 115 F 129) che è uno storico che scrive per Filippo nell’età di Filippo. La via di cui ci parla – in un frammento testimoniato da Strabone (vii 317) – è la medesima carovaniera ricordata anche nel De mirabilibus auscultationibus, che è un opuscolo di mirabilia, di non molto posteriore, confluito nel corpus delle opere aristoteliche (104 = 839a-b): Dicono che tra la regione dei Mentori e quella degli abitanti la foce dell’Istro ci sia un monte chiamato Delfio, con una cima elevata. Quando su questa salgono i Mentori, che abitano sull’Adriatico, vedono – a quanto pare – le imbarcazioni che navigano nel Ponto. Dicono che ci sia anche un luogo situato a metà percorso, sede di un mercato comune, dove vengono messi in vendita manufatti di Lesbo e di Chio e di Taso dai mercanti provenienti dal Ponto, anfore corciresi da quelli provenienti dall’Adriatico.
L’autore dell’opuscolo dipende dal piú conciso frammento di Teopompo, ed entrambe le loro testimonianze ci consentono di slargare l’orizzonte su una « via dei due mari », che dal Mar Nero perveniva in Adriatico avendo sede per « un mercato comune » a « metà percorso », e presumibilmente in territorio macedone.14 Orbene, per allargare il dominio dall’uno all’altro mare, dall’Egeo all’Adriatico, Filippo non poteva derogare dalla necessità di estendere il controllo sull’Epiro. Cosa che lo porterà a una serie di alleanze con i sovrani della dinastia molossa, suggellate, come era nel costume, da unioni matrimoniali. Ragione per la quale sollecita le nozze con Olimpiade, e un ventennio piú tardi impone alla figlia Cleopatra – sorella del grande Alessandro – di divenire consorte del Molosso, suo zio, che egli, defenestrato Ariba, aveva insediato sul trono di Epiro. Tale, al di là della bella favola tràdita da Plutarco, l’istanza politica che induce Filippo a unirsi a una principessa epirota che probabilmente l’at14. Vd. Braccesi 19772, pp. 108 sgg.
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traeva e lo spaventava e che, comunque, male si adatterà alle usanze matrimoniali dello sposo e alla prassi vigente nella corte macedone. Olimpiade, infatti, era esclusivista negli affetti e “prima donna” per disposizione naturale, ma non era in ordine di successione né la prima né l’ultima delle consorti di Filippo. La cui vita matrimoniale è complicata non solo da una pratica poligamica, non solo dalla compresenza di piú mogli, ma anche da una non chiara gerarchia esistente tra loro. Se non fosse per un frammento della Vita di Filippo di Satiro (fr. 5 in FHG, iii p. 161 = fr. 24 K.), tramandatoci da Ateneo (xiii 557b-d), nulla sapremmo delle consorti del re macedone: Nei suoi ventidue anni di regno – dice Satiro nella Vita di Filippo – avendo sposata l’illira Audata, ne ebbe la figlia Cinna. Sposò inoltre Fila, sorella di Derda e di Macata. Desideroso di legare a sé il popolo tessalo, generò figli da due donne tessale, Nicesipoli di Fere, che gli diede Tessalonica, e Filinna di Larissa, madre di Arrideo. A ciò aggiunse il regno dei Molossi, avendo sposato Olimpiade, da cui nacquero Alessandro e Cleopatra. Quando poi conquistò la Tracia, venne a lui il re dei Traci, Cotela, offrendogli la figlia Meda con una ricca dote. Filippo sposò anche lei, e la introdusse nella sua casa accanto a Olimpiade. Dopo queste donne, infine, ne sposò un’altra, Cleopatra, sorella di Ippostrato e nipote di Attalo, perché se ne era invaghito, ma, introducendo nelle stanze di Olimpiade anche quest’ultima, Filippo precipitò la sua intera vita nella rovina.
In tutto sette donne in ventiquattro (non ventidue) anni, tre prima dell’arrivo in Macedonia di Olimpiade e due dopo. Ma vere mogli o concubine? Bisogna anzitutto distinguere tra le consorti di comodo kata polemous – sposate, cioè, « in the course of a war »15 per esigenze di guerra e di conquista – e le mogli “di grado piú alto” destinate alla continuità della stirpe, e come tali onorate soprattutto se madri di eredi maschi. Bisogna poi sottrarre dal novero di queste donne le due tessale, Nicesipoli e Fillina, che non sono mogli, ma solo genitrici di figliolanza bastarda. Per entrambe il testo greco, con riferimento a Filippo, usa l’espressione « ebbe figli », epai dopoiēsato; per le altre, invece, per indicarne il matrimonio il verbo usato è « sposare », gamein, nelle forme ghēmas ed eghēmen. 15. L’espressione è di Hammond 1979, p. 677.
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Ne restano cinque, di cui tre sono senz’altro consorti kata polemous, sposate dal sovrano per consolidare nuove acquisizioni territoriali. La prima, Audata16 è figlia di un re illirico, probabilmente Bardili, e le nozze avvengono, nel 359-’58, a seguito della prima campagna di guerra di Filippo, oltre i confini settentrionali del suo regno. Divenendo sposa di Filippo cambia il suo nome in quello di Euridice, certo piú accetto dai Macedoni. La prassi è la medesima cui già abbiamo accennato parlando dell’onomastica di Olimpiade. Sarà nonna di una nipote omonima, figlia di sua figlia Cinna, che sposerà Arrideo e – lo diremo – sarà uccisa, o spinta al suicidio, da Olimpiade. La quale sposerà Filippo poco appresso alla moglie illirica, ma con tutta probabilità quando Audata/Euridice era già deceduta giacché la tradizione non registra tra le due consorti alcun contrasto, diversamente da quanto ci è attestato in altri casi. Data l’alta mortalità natale del tempo, la madre di Cinna sarà morta mettendola al mondo. La seconda, Fila,17 è sorella di Derda e Macata, principi della casa regnante in Elimea, regione situata a meridione della Macedonia, sua tradizionale tributaria, ma scossa da turbolenze e da forti tendenze autonomistiche. Tramite le sue nuove nozze, forse pressoché contemporanee a quelle con Audata/Euridice, Filippo mira certo a rinsaldare i rapporti con un vicino assai instabile. Nulla sappiamo di questa Fila, ma è da presumere che anch’essa sia una consorte precocemente scomparsa, deceduta o ripudiata, giacché il suo nome non è né altrimenti testimoniato, né arricchito di altri elementi onomastici, né posto in relazione con un’eventuale figliolanza. La terza, Meda,18 è figlia del re tracio Cotela che, sconfitto da Filippo nel 342, è costretto a venire a patti con lui stringendo un’alleanza sancita dalla sua unione con una femmina della propria prole. Non siamo informati se anche questa abbia mutato onomastica, ma sappiamo dalla nostra testimonianza che era munita di una ricca dote, con tutta probabilità costituita dal gravoso tributo di guerra imposto al suo genitore. Filippo « la introdusse nella sua casa accanto a Olimpiade », kai tautēn epeisegaghen tēi 16. Vd. Ellis 1976, pp. 46 sgg., e Citelli 2001, p. 1401. 17. Sempre Citelli 2001, pp. 46 e 140. 18. Ivi, pp. 166 sgg. e 1402.
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Olympiadi, e certo non senza rancori da parte di quest’ultima se, quando egli si unisce in nozze con Cleopatra, un significativo « anche », kai, ne sottolinea il rabbioso disappunto di vedere introdotta nelle proprie stanze pure la nuova e assai piú temibile inquilina. Spose non transeunti, non kata polemous, e quindi a tutti gli effetti regine, sono Olimpiade e Cleopatra. Entrambe nate nella periferia del mondo greco, entrambe di nobile origine: l’una figlia di un sovrano epirota, l’altra nipote di un grande notabile e stratega macedone, destinato da Filippo al comando delle avanguardie macedoni in terra di Asia. Il primo figlio maschio nato al sovrano da nozze legittime è Alessandro, il figlio di Olimpiade, e la nascita consacra per la madre il rango di regina.19 Almeno fino al nuovo matrimonio con Cleopatra, che poteva lasciare presagire il prossimo arrivo di un secondo erede maschio, e questa volta di sangue macedone da parte di entrambi i genitori. Dall’unione, avvenuta nel 337, nascerà, invece, una femminuccia di nome Europa, che sarà assassinata insieme alla madre non appena una congiura verrà a stroncare anche la vita del regale genitore. Errato è dire che Filippo, sposando Olimpiade, « aggiunse il regno dei Molossi » ai suoi possedimenti, anche se, come esito finale, l’operazione nuziale porterà allo stesso risultato. Troppo fantasioso è poi affermare che quello di Filippo con Cleopatra – nata come Euridice (e d’ora in poi Cleo patra/Euridice) – sia stato un matrimonio di amore, giacché non la passione amorosa, ma le stringenti ragioni della politica l’inducevano alle sue quinte nozze.20 Egli, in procinto di muovere guerra al Gran Re persiano, voleva garantirsi la piena collaborazione dell’aristocrazia guerriera macedone sposandone un’esponente di illustre famiglia. Tanto piú che Olimpiade era poco accetta nell’ambiente di corte, o vista con sospetto, per l’abitudine conflittuale di immischiarsi negli affari di stato. Cosa che, lui assente, non doveva proprio avvenire. Di qui per il sovrano la necessità pressante di affrettare le nozze con Cleopatra/Euridice, con una decisio-
19. Cosí anche Ellis 1976, p. 62. 20. Sulla politica imperialista di Filippo ancora fondamentali i saggi di Momigliano 19872, ed Ellis, 1976, passim.
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ne presa – ce ne informa Plutarco (Alex., 9 6) – quando ella era ancora adolescente.21 Tali le notizie sulle sette donne di Filippo, di cui cinque consorti, che ricaviamo, tramite Ateneo, dalla testimonianza di Satiro. Il quale, di formazione aristotelica, era un erudito e biografo della prima età ellenistica22 vissuto in una capitale della cultura come la cosmopolita Alessandria di Egitto. È studioso piú che fededegno, e sulla base di altri parziali riscontri, parrebbe attendibile anche la successione cronologica con cui cita i nomi delle donne soggiaciute al sovrano macedone.
21. Nulla aggiungono su Olimpiade e il suo matrimonio le pagine divulgative di Carney 2006, passim. 22. Su cui vd. Kumaniecki 1929, passim, e Gallo 2005, pp. 35 sgg.
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II MOGLIE DI FILIPPO, MADRE DI ALESSANDRO 1. Filippo, il condottiero e il politico Prima di procedere nella nostra storia su Olimpiade non è inutile domandarci chi sia in realtà Filippo, quale l’ampiezza del suo volo, quale il passo della sua conquista, quale il respiro della sua azione politica, quali le sue aspirazioni, quale, infine, non solo per la Macedonia, ma per l’intera grecità, il divario tra il vecchio e il nuovo.1 Figlio del re macedone Aminta della dinastia degli Argeadi, Filippo, il coniuge poligamo di Olimpiade, nasce intorno al 382 ed è l’edificatore di un monarcato cosí esteso e potente da sconvolgere gli equilibri politici e diplomatici del suo tempo. Il figlio Alessandro, infatti, erediterà uno stato profondamente rinnovato, che per opera del padre ha profondamente mutato la propria immagine divenendo, in embrione, il primo stato territoriale dell’Europa. Il quale può ormai rivendicare uno spazio e un ruolo nel consesso delle grandi potenze del Mediterraneo. Di fatto, Filippo corona, con vere e proprie marce forzate, un processo di evoluzione politica e di profonda trasformazione sociale iniziatosi, alcune generazioni innanzi, con il passaggio della regione da un’economia basata sull’allevamento a un’economia proiettata soprattutto sullo sviluppo dell’agricoltura. Ovviamente con tutto ciò che ne consegue anche nel potenziamento di rinnovate strutture militari. Per le quali l’esercito, alla cavalleria di estrazione nobiliare, vede ora affiancarsi una robusta fanteria oplitica, che costituirà il nerbo della falange. Fanteria che è espressione di una nuova classe sociale di piccoli agricoltori, nata e favorita nella crescita dalla parcellizzazione della grande proprietà fondiaria. Filippo è il creatore di un rinnovato stato macedone che, sottomesse le popolazioni limitrofe dell’area balcanica, si estende grosso modo, in termini attuali, dall’Albania alla Bulgaria, inglobando in sé le regioni meri1. La bibliografia aggiornata in Momigliano 19872, pp. xix sgg. Successivamente, vd. Squillace 2004, pp. 169 sgg. Considerazioni generali in Asley 1948, passim.
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dionali dell’Illiria e della Tracia, e quindi slargandosi dalle coste dell’Egeo al basso corso del Danubio. Una sapiente politica di alleanze matrimoniali – l’abbiamo detto – consolida poi l’ampia rete di conquiste, consentendo per la prima volta alla Macedonia di potere disporre di confini stabili e garantiti da potenze satelliti. Volgendosi quindi a meridione non può che entrare in contrasto con il mondo greco; rispettivamente con Atene nell’area della Calcidica e con i tiranni di Fere nella Tessaglia. Conquista nel 357 Anfipoli, alla foce dello Strimone, e nel 352 Pagase che, in Tessaglia, si affaccia sull’omonimo golfo. Ma è solo l’esordio di una spregiudicata e inarrestabile azione di espansione territoriale! Con l’acquisizione di Pagase siamo nell’età della terza guerra sacra, allorché il sacrilego conflitto dei Focidesi contro la sede di Delfi acuisce le rivalità che oppongono in armi Atene, Sparta e Tebe. Città, quest’ultima, che non vuole proprio accettare una supremazia dei Focidesi sulla città-santuario nel timore che ciò porti vantaggio alle potenze rivali. Sollecitato dai Tebani il consiglio dell’anfizionia – cioè dell’assemblea dei dodici popoli che vigilano sulla località del santuario di Apollo – chiama in aiuto di Delfi la Lega Tessala; ma questa, battuta dai Focidesi, e pressata all’interno dalle mire autocratiche dei tiranni di Fere, non trova altro scampo che appoggiarsi a Filippo perché ne difenda l’autonomia. È, per il re di Macedonia, l’occasione tanto attesa per intromettersi negli affari di Grecia! Si scontra vittoriosamente con i Focidesi, ottenendo quindi la nomina a tagos, a comandante dei contingenti militari della Lega Tessala. Cosa però non gradita ad Atene timorosa di un sovvertimento degli equilibri politici dell’intero mondo greco, la quale riesce sí a bloccare Filippo presso le Termopili, precludendogli l’ingresso nella Focide, ma non a impedirgli di gettare fino da allora sullo scenario dell’Ellade l’ombra minacciosa di una nuova superpotenza – la propria – derivante dalla somma del potenziale bellico di due popolazioni, le cui milizie egli ora comanda in forma autocratica e immune da controlli locali. Né doveva farsi attendere a lungo la prova di forza decisiva. Filippo, negli anni successivi di nuovo in contrasto con Atene, usa tutte le sue forze per assoggettare Olinto e domare cosí l’indipendenza della troppo limitrofa Lega Calcidica. Nel 348 la città è distrutta, e soltanto allora Fi28
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lippo accede alla richiesta prospettatagli di una soluzione diplomatica del conflitto. È la pace di Filocrate del 346, con cui Atene si impegna ad attenersi al principio – per sé lesivo – dell’uti possidetis, dichiarandosi disponibile alla convocazione di un’assemblea generale che, in ambito anfizionico, ridiscuta su tutto il contenzioso che ha scatenato la terza guerra sacra. L’assemblea si tiene a Pella, la capitale della Macedonia. Dove gli Ateniesi e gli Spartani accettano la richiesta di Filippo volta a imporre una pace comune che, sotto il vincolo della legge anfizionica, garantisca l’immutabilità degli assetti territoriali e persegua i Focidesi come sacrileghi. Ma l’accettano soltanto a parole, poiché mutano idea allorché il re si muove in armi contro i rei di sacrilegio. La risorgente, velleitaria, ostilità di Atene e di Sparta non incide però sul divenire degli eventi, giacché Filippo, forte del solo appoggio di Tebe, sconfigge i Focidesi, che – come sacrileghi – sono espulsi dal consiglio anfizionico. Il che comporta che i due seggi, e quindi i due voti, di cui disponevano vadano ridistribuiti. Se li fa assegnare Filippo, acquisendo cosí un ruolo panellenico che sfrutta senza indugio. Nel nome della comune aspirazione alla pace generale, ossia alla koinē eirēnē, conferisce infatti all’anfizionia la connotazione di supremo organo arbitrale di dirigenza politica, riuscendo in tal modo ad allineare le città greche su posizioni solo a lui vantaggiose. Ma quale le ragioni di tanto successo? Quali le carte vincenti di Filippo, che lo portano prima a contrapporsi alla grecità e poi – come vedremo – allo stesso impero persiano? In campo interno, Filippo applica una rigida scissione di ruoli tra la monarchia macedone e la propria persona, in modo da non gravare del peso di troppo grandi conquiste uno stato sí rinnovato, ma ancora organizzato soltanto su strutture tribali, patriarcali e militari. Dove, peraltro, lo stesso re è solo un “primo” tra uguali. Attua cosí una rigida separazione tra ciò che gli pertiene come monarca e ciò che gli compete come singola persona, a seguito di un ruolo politico in continuo movimento sullo scacchiere internazionale. A Filippo, infatti, e non al sovrano di Macedonia, spetta il comando militare della Lega Tessala o il diritto di voto nell’anfizionia delfica. Il che, di necessità, comporterà che il suo successore, Alessandro, sia sí acclamato monarca dall’assemblea militare dell’aristocrazia 29
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macedone, ma sia anche riconosciuto come egemone dalla Lega Tessala o come proprio membro dal consiglio anfizionico. In campo esterno, Filippo si avvale poi degli enormi mezzi finanziari che gli derivano dai ricchissimi giacimenti di oro e di argento del Pangeo, divenuti proprietà personale con la conquista della Tracia. Mezzi di cui dispone senza scrupolo alcuno, sia per corrompere avversari o comprare partiti politici, sia per inflazionare i mercati greci non piú in grado di assorbire nuove emissioni di circolante aureo, o comunque di reggere alle conseguenze di una tale eccedenza di metallo monetabile. Di fatto è, questa, una politica doppiamente pagante: prima l’asservimento degli avversari con il denaro e poi il loro tracollo economico. In campo militare, infine, Filippo riesce con non comune genialità, a conciliare la tattica rigida della falange con l’estrema mobilità della fanteria leggera. L’una, la falange, costituisce una forza di assalto rigidamente strutturata come fosse una vera e propria fortezza umana, in grado di avventarsi sul nemico senza arretrare, ovvero di cedere soltanto per consunzione del suo ultimo effettivo. L’altra, la fanteria leggera, assicura la mobilità dell’azione, proprio perché allenata sia all’incursione improvvisa sia alla rapida ritirata. Ed entrambe operano in uno scenario bellico sempre correlato dall’offensiva di una cavalleria efficiente e davvero inesauribile, poiché fornita dalla Macedonia e dalla Tessaglia, cioè da due regioni con solide tradizioni di allevamento equino. Tale la forza e la potenza economica di Filippo, che deriva dalla somma di due poteri: il macedone e il suo personale. La dicotomia che impone al proprio essere non è solo dettata da accorto instrumentum regni, ma anche dalla necessità “politica” di sprovincializzarsi, di immettersi nel flusso della cultura delle póleis, e cioè di farsi accettare a pieno titolo per “greco”. Ma per lui la distanza con il mondo dell’Ellade rimaneva lo stesso incolmabile. Soprattutto con Atene, dove Demostene – a capo di una fazione che si nutriva ancora di fantasmi del passato – si sforzava di opporre al modello di sovranità di Filippo quello che, il secolo innanzi, era stato il modello della propria egemonia. Era un andare contro la storia, che incontrava il plauso del demos dominante perché teorizzato dagli eredi di famiglie aristocratiche schierate – come sempre in Atene – su posizioni di intransigenza politica. Era un nazionalistico andare contro la storia che però frap30
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poneva a Filippo un solco ideologico di giorno in giorno piú marcato, e dinnanzi al quale dovettero arretrare anche i piú spericolati artefici di formule panelleniche, di fatto con Isocrate molto piú innovatori dei logori e sedicenti rivoluzionari. Filippo, che per rendersi accetto alla grecità si era camuffato da suo difensore, interprete di istanze panelleniche, è cosí costretto a gettare la maschera e ad affidare alla brutalità delle armi la risoluzione della contesa con Atene. Approfittando di una denunzia contro di lui presso il consiglio anfizionico, riesce a ribaltarne le accuse. È la quarta guerra sacra, che vede schierate in campo forze pressoché paritarie: da un lato Filippo, dall’altro Atene, alleatasi con Tebe e con numerose altre città greche per iniziativa diplomatica di Demostene. Il quale non riesce però a ottenere l’adesione di Sparta, sempre gelosa di qualsiasi iniziativa patrocinata dalla sua antica rivale. Lo scontro decisivo, nel settembre del 338, avviene presso Cheronea, in Beozia. Dove Filippo consegue una vittoria schiacciante e definitiva anche in virtú di una brillante manovra del figlio Alessandro, al suo primo battesimo del fuoco. Ormai è padrone della Grecia; ma non è tanto sciocco da abusare della forza nel trattare con i vinti. Rivestiti di nuovo i panni del condottiero panellenico, li obbliga solo ad accettare un’alleanza e una pace generale delle quali egli è arbitro assoluto, nonché supremo garante. Nasce cosí, nel 337, la Lega di Corinto all’insegna ipocrita della formula protocollare “Filippo e i Greci” che ne legittima gli atti deliberativi. Nel medesimo anno programma una spedizione in Asia per affermare, ai danni della Persia, con probabili rettifiche delle frontiere ellespontiche, l’esistenza di una nuova grande potenza, sua minacciosa confinante dopo la conquista e l’annessione delle popolazioni della Tracia. È, la sua, un’azione dimostrativa, un’ostentazione di forza. Ma la medesima spedizione con il figlio Alessandro sarà destinata, dilatando gli orizzonti di conquista, a mutare le sorti del mondo. L’ambiguità di Filippo è nell’incertezza costante tra l’essere esponente di un “vecchio” o di un “nuovo” mondo. Soccombe, fermato a tradimento dalla lama di una spada, prima di dovere operare una scelta dolorosa e definitiva. L’ambiguità di Alessandro sarà, invece, tra il sentirsi greco e macedone, oppure partecipe di una nuova identità che andrà piú nettamente definendosi quanto piú ampio sarà il raggio della sua conquista. 31
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Ma quale, nella coscienza dei moderni, l’eredità piú concreta che essi possono legare al nome di Filippo? La consapevolezza che con lui nasce il concetto di Europa politica, allorché il suo regno diviene epicentro dello spazio balcanico, estendendosi dal bacino del Danubio alle sponde orientali dell’Adriatico. Dopo la conquista il grande monarca ama farsi definire, come attesta Diodoro (xvi 95 1), « il piú grande re dell’Europa », meghistos tōn epi tēs Eurōpēs basileōn. Dopo la conquista, non a caso, chiama la figlia nata dal sua ultimo matrimonio Europa, ed essa nasce, e prende nome, proprio mentre il padre muove in armi contro l’Asia. Particolare che conferma come gli obiettivi della sua azione militare, poi stravolti da Alessandro, dovessero mirare al rafforzamento dei confini anziché alla guerra di espansione territoriale. Cioè alla delimitazione dello spazio di una compagine statale nuova e giovane che ora si contrapponeva, per la prima volta, come Europa politica, allo sterminato monarcato dell’Asia. Il quale – inutile ricordarlo – aveva sempre incluso anche la Tracia nell’area della propria sfera di dominio o di influenza, regione ora invece gravitante in orbita macedone. Ma quale l’Europa politica di Filippo? Non c’è dubbio: l’Europa balcanica, che incorpora la Grecia continentale, la Macedonia, la Tracia e l’Illiria. Una regione sí embrionale e danubiana, ma già molto piú vasta di quella di Isocrate che annoverava solo la Grecia, o al massimo la Grecia e la Macedonia.2 Una Europa che Polibio (i 2 4), in relazione a Filippo, ricorda estesa proprio dall’Adriatico all’Istro, cioè a misura di un espansionismo macedone che nel suo raggio d’azione si slargava dalla valle del Danubio ai litorali e alle isole dell’Illiria.3 Tali gli accadimenti che fanno da cornice al matrimonio di Olimpiade e che ne illuminano l’operato del coniuge. In questo periodo la regina, pure tra contrasti e fughe della psiche, gli dona due figli, dei quali uno, Alessandro, primo legittimo figlio maschio di Filippo, è salutato come l’erede di tanto padre. Ma, nell’anno 337, anche i suoi diritti successori sono messi in forse dall’ultimo matrimonio del genitore, matrimonio che innesca con Olimpiade una crisi coniugale senza ritorno. 2. Cosí Bearzot 1986, pp. 91 sgg. 3. Vd. Braccesi 2001, pp. 115 sgg.
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2. La moglie e la madre Ma procediamo con ordine senza precorrere gli eventi, proiettando l’attenzione su Olimpiade giovane sposa nella reggia macedone di Pella. Ella aveva celebrato il matrimonio nell’inverno del 357,4 e a distanza di un anno, o poco piú, darà alla luce Alessandro, il grande Alessandro. Un figlio che, per indole, dovrà molto ad ambedue i genitori: al padre le virtú del conquistatore e del monarca, alla madre le irrequiete inclinazioni dello spirito verso l’irrazionale, il soprannaturale e il divino. Olimpiade, nei confronti del consorte, rivela subito la propria forte personalità, la natura esclusivista, l’insofferenza alle convenzioni dell’ambiente macedone. La connaturata esigenza di libertà e l’ostentata manifestazione di una religiosità tutta declinata al femminile ne fanno una ribelle. Se Filippo ne tollera la diversità da altre donne e da altre mogli, è forse perché anch’egli ne subisce il fascino dai molti aculei e ne rispetta l’intelligenza, ma sicuramente perché è la madre dell’erede destinato a succedergli. Nasce, questi, nell’anno 356, il medesimo nel quale Filippo impone alla consorte il nome di Olimpiade per solennizzare la sua vittoria olimpica nella gara delle quadrighe, e cosí pure – ci piace immaginarlo – a premonizione delle “vittorie” che il destino avrebbe riservato al figlio. Il lettore ha già appreso da Plutarco (Alex., 3 8) come la nascita dell’erede sia sincronica, ad altre due vittorie: quella sugli Illiri e quella che accompagna la conquista di Potidea da parte di Filippo. Il quale, a stare al biografo in immediato prosieguo di discorso: « Si compiacque delle notizie come è ovvio, ma ancora piú ne esaltarono lo spirito gli indovini affermando che invincibile sarebbe stato il figlio che era nato accompagnato da tre vittorie ». Tre successi, sportivi o militari, incoronano dunque la nascita di Alessandro, di cui uno, quello di Olimpia, legato non solo a un santuario che è cuore pulsante della grecità, ma da allora in poi al nome stesso della madre. In breve tempo ad Alessandro – al figlio generato “invincibile”, o anikētos – si affianca anche una sorellina di nome Cleopatra, destinata un 4. Nell’autunno-inverno del 357-356 per Berve 1926, num. 381; nell’autunno del 357 per Hammond 1979, p. 722.
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domani ad assidersi sul trono di Epiro. Ciò nonostante, per Olimpiade il rapporto con Filippo rimane sempre precario, non privo di ombre e costellato, nell’intimo dell’essere, da fughe e ritorni. Al contrario, invece, del legame assoluto ed emotivo che l’avvince al figlio, che da lei mutua la proiezione passionale alla spiritualità, la tensione mistica, la dimensione romantica, la temerarietà per la sfida trasgressiva e l’ansia mai appagata di spingersi oltre il limite. Tutte espressioni condivise dell’essere delle quali – lo diremo – darà testimonianza la corrispondenza epistolare mai interrotta tra i due, non piú destinati a riabbracciarsi, dopo la partenza di Alessandro, del figlio appena ventenne, per il folle volo attraverso le sconfinate distese dell’Asia. Del figlio, la cui eredità dinastica ella tutelerà con furia ossessiva, e per la tradizione con insanguinati artigli, immediatamente dopo la sua morte. Alle sue irrequiete inclinazioni dello spirito proiettate verso il soprannaturale e il divino la tradizione lega la stessa nascita di Alessandro, presagita da un fulmine che, con un tremendo boato, si sarebbe abbattuto sul ventre della madre in procinto delle nozze, ovvero – a nozze consumate – preannunziata da un sigillo « con l’effige di un leone » impresso sempre sul ventre della donna a significarne la futura grandezza del nascituro. Resa, oltretutto, tanto piú soprannaturale dalla presenza di un dio che, al concepimento, tramutatosi in serpente, avrebbe posseduto Olimpiade, la “destinata” al parto mirabile. Leggendarie dicerie di cui ci informa diffusamente Plutarco, con eco in tutta la tradizione romanzata, occidentale e orientale (Alex., 2 3-6): La notte precedente a quella in cui furono consumate le nozze, parve alla ragazza che, scoppiato un grande tuono, un fulmine la colpisse nel ventre e dalla ferita si levasse un gran fuoco che si divise in fiamme diffusesi in tutte le direzioni prima di spengersi. Successivamente, dopo le nozze, Filippo ebbe un sogno: egli imprimeva un sigillo sul ventre di sua moglie, e l’impronta del sigillo – cosí credeva di vedere – era la figura di un leone. Tutti gli indovini non facevano gran conto di quella visione, ritenendo soltanto che Filippo dovesse controllare con maggior cura la moglie; ma Aristandro di Telmesso disse che la donna era incinta, dato che nessun sigillo si imprime su ciò che è vuoto, e che era incinta di un ragazzo animoso e della natura di un leone. […] Un’altra volta fu visto un serpente disteso al fianco di Olimpiade addormentata.
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Le due tradizioni attribuiscono la nascita del successore di Filippo a manifeste origini soprannaturali. Il fulmine evoca in maniera evidente la personalità divina di Zeus, e il fuoco che ne deriva diffonde le fiamme « in tutte le direzioni » quale segno di presagio della conquista universale che opererà Alessandro. La cui effige leonina sigillerà il ventre della madre perché egli stesso è « un leone », metà macedone e metà epirota, che muoverà alla conquista « qual fiamma divampante », come ammonisce Licofrone (Alex., 1440-41). Predestinazione all’universalità del futuro dominato che è anche ribadita da un portento riferito da Giustino (xii 16 5), secondo il quale due aquile per un’intera giornata sarebbero rimaste immobili sul tetto della dimora paterna ad attestare « il vaticinio di un duplice dominio, sull’Europa e sull’Asia ». Al prodigio del fulmine e delle aquile, che riconduce a Zeus, se ne aggiunge poi un terzo che rimanda a Dioniso, seppure con lui in marcata commistione. Il re degli dèi, infatti, possederà Olimpiade disteso al suo fianco, ma tramutatosi in un serpente, cioè in un rettile consacrato al dio della trasgressione e prediletto dalla regina nelle forme estreme della propria cultualità. Un dio, Dioniso, al quale Alessandro stesso assemblerà l’immagine, intrecciandone il destino, nella sua trionfalistica marcia per il continente indiano scandita da allusive scenografie bacchiche. Le leggende rimangono leggende, ma incontrovertibile è il fatto che Olimpiade avesse – il lettore già lo ha appreso – un’effettiva dimestichezza rituale con i serpenti in pratiche dionisiache che comportavano nel rapporto con la divinità l’ostensione di loro grandi esemplari addomesticati. Donde le mille dicerie favolistiche, come quella – raccontata dal Ro manzo di Alessandro (i, 10 rec. b) – del dio che nelle fattezze di un serpente si sarebbe presentato all’amata Olimpiade, baciandola in pubblico nel corso di un banchetto nella reggia macedone: « I convitati del re, visto il serpente, balzarono in piedi, presi da terrore, mentre Olimpiade, che aveva riconosciuto il suo amante, tese la mano verso il serpente: e quello si rizzò, tirò su il capo e strisciando arrivò alle ginocchia della regina; quindi tirò fuori la lingua bifida e la baciò, dando a tutti i presenti la prova del suo amore per lei ». Dunque il serpente « baciò » la regina: katephilēsen autēn. È, questo, ov35
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viamente l’estremo approdo della tradizione leggendaria,5 che già, nella sua genesi classica, dà adito a curiosi, divertenti e molteplici aneddoti. Quale quello, tramandato da Plutarco (Alex., 3 1-2), che riferiva di Filippo che avrebbe perso un occhio in battaglia perché con quel medesimo occhio avrebbe spiato le mosse del divino serpente, cioè di Zeus Ammon, mentre si accoppiava con la propria sposa. Aneddoto frutto di un responso delfico chiarissimamente formulato in seguito a un duplice accadimento: dopo la perdita di un occhio da parte del sovrano per un incidente bellico, e dopo la visita del figlio al santuario di Zeus Ammon nell’oasi di Siwah dove i sacerdoti del dio proclameranno la sua filiazione divina.6 Ovvero quello – accenniamo a un secondo aneddoto – secondo il quale Olimpiade, per frenare l’incontinenza verbale del figlio, che in ogni dove si proclamava progenie di Zeus, l’avrebbe ammonito a non suscitare la gelosia di Hera, la consorte del re degli dèi. Non è inutile cedere di nuovo la parola a Plutarco (Alex., 3-4) perché ci rivela anche un risvolto faceto e nascosto della personalità della regina: « Quanto a Olimpiade, secondo Eratostene, salutando Alessandro che andava alla sua grande spedizione, gli svelò il segreto della nascita e lo esortò a concepire disegni degni della sua condizione. Ma altri dicono che ella rifiutava la diceria e affermava: “Alessandro deve cessare di calunniarmi di fronte a Hera” ». Due tradizioni a confronto: una Olimpiade che svela al figlio il mistero del suo concepimento divino per spingerne l’orgoglio a grandi imprese, una Olimpiade che si beffa della diceria della sua unione con un dio. La prima risale a Eratostene, il dotto bibliotecario di Alessandria; la seconda a imprecisati « altri » di un rango storiografico meno elevato. Il “bon mot” della regina, che essi riferiscono, può anche essere frutto di invenzione salottiera, ma di una creazione che, seppure fantasiosa, non può che essere consona e congrua al suo carattere. Altrimenti il motto spiritoso non le sarebbe stato attribuito, né sarebbe stato riferito. Motto che rivela nella persona della regina una consuetudine o una disponibilità alla “battuta” e all’ironia che – nel buio assoluto che ne avvolge i tratti della personalità – sono senz’altro da valorizzare. Tanto piú che in Olimpiade tale concessio5. Vd. Centanni 1991, pp. vii sgg. e 21 (per la traduzione). 6. Cosí anche Mari 2002, p. 139.
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ne alla parola pungente o beffarda7 non è un aspetto della personalità privo di raffronti, e avremo presto occasione di mostrarlo. 3. L’unione coniugale Per parlare del rapporto di Olimpiade con il marito dobbiamo, anzitutto, operare una dicotomia tra il talamo e la quotidiana consuetudine di vita, tra il letto e l’intesa, con un reciproco rispetto, sul piano personale, intellettuale e politico. L’aspetto piú propriamente coniugale si limita, per parte della moglie, al dovere di regalargli eredi in un’unione che appare priva di slanci affettivi. Il confronto tra i coniugi sul piano umano è, viceversa, decisamente positivo e piú indizi concorrono a confermarlo. La tradizione dipinge Olimpiade come donna casta, ma collerica e ribelle. E con tutta probabilità lo fu, anche se gli scrittori antichi in genere alludono al suo carattere in relazione al fatto di essere la madre di Alessandro, anzi cristallizzandola nel ruolo di “madonna” – protettrice o vendicatrice – per riflesso della pretestuosa origine divina del figlio. Il che altera il nostro quadro documentario, soprattutto nei confronti del suo rapporto coniugale. Al riguardo la tradizione cede alla leggenda, affermando di un dioserpente, già noto al lettore, che si sarebbe giaciuto con Olimpiade. La testimonianza di Plutarco (Alex., 2 6) è di gran lunga la piú ricca di particolari: « Un’altra volta fu visto un serpente disteso al fianco di Olimpiade addormentata; narrano che soprattutto questo attenuò le manifestazioni di amore di Filippo per lei, tanto che non andava piú di frequente a letto con lei, o che temesse alcuni sortilegi e alcune erbe affatturate della donna, o che volesse evitare rapporti nella convinzione che questa convivesse con un essere superiore ». Testimonianza, a ben vedere, meno fantasiosa di quanto a prima vista potrebbe apparire. Mirabile e terrifica è certo l’immagine del serpente che si giace nel talamo della donna, ma non dobbiamo dimenticare come Olimpiade sia solita maneggiare serpenti addomesticati per cerimonie rituali. Li porta a letto come fossero dilettevoli animali domestici, o con 7. Insiste sul dato anche Macurdy 1932, p. 27.
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l’intento di dissuadere il marito dal raggiungerla? In questo secondo caso avrebbe proprio raggiunto il suo scopo, giacché l’espediente – se di tale si tratta – ben comprensibilmente « attenuò le manifestazioni di amore di Filippo » che iniziò a disertare il suo letto. Comunque sia, è un dato reale, quale la dimestichezza della donna con i rettili, sacri alle baccanti, che genera la leggenda della filiazione divina di Alessandro, concepito da Zeus trasformatosi per l’occasione in dio-serpente. Cosa che la testimonianza non esplicita, ma lascia sottintendere nell’affermazione che il re, legittimo consorte, « volesse evitare rapporti » con la moglie « nella convinzione che questa convivesse con un essere superiore ». Ma non soltanto per questo motivo, ma anche perché egli temeva i sortilegi e le « erbe affatturate della donna », kai pharmaka tēs gynaikos. Ragione di apprensione, questa, che riconduce agli arbusti medicinali dalle virtú venefico-terapeutiche e alle pratiche delle pharmakides, nonché alla dimestichezza di Olimpiade con sostanze ed erbe allucinogene.8 Un qualcosa che accompagna la sua leggenda, che – l’abbiamo detto – tanto leggenda non doveva poi essere. Tanto piú se il portato delle usanze arborifere e silvestri della regina, di chiara ascendenza dionisiaca, è qui avanzato a giustificare una volta di piú la diserzione di Filippo dal letto coniugale. Ma è Filippo che diserta il talamo, se non per assicurarsi una progenie legittima, o, viceversa, è indotto a farlo con dissuadenti artifici della consorte? Legati, questi ultimi, alla compagnia di serpenti domestici e alla sapiente preparazione di phármaka, dai cui effetti era bene comunque guardarsi. Cosa sappiamo, o possiamo intuire, della sfera della sessualità di Olimpiade? I dati offerti alla nostra riflessione, sono scarsi e indiretti: la sua fama di sposa casta, la mancata segnalazione – anche da parte della tradizione piú pettegola – di relazioni con amanti o di nuove nozze pure nella lunga, quasi ventennale, vedovanza. Abbiamo inoltre già appreso da Plutarco (Alex., 2 9) che, come adepta ai riti e ai cortei della baccanti, « portava nei tiasi grandi serpenti addomesticati » che, nelle corone e nei tirsi, « atterrivano gli uomini ». 8. Sul mondo vegetale e sulle sue intersezioni con il “divino” documenta ora, con lucidità di analisi, Arrigoni 2018, pp. 13 sgg.
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Apparteneva dunque, già dalla prima giovinezza, per elezione e per adesione dello spirito ribelle, a congreghe di donne che oggi potremmo definire “femministe”. Le baccanti, peraltro, nelle loro orge, erano sí licenziose e sessualmente sfrenate, ma in genere prescindevano dalla presenza di accompagnatori maschi. Con le menadi anche Orfeo farà una brutta fine. Gli orgasmi parevano consumarsi in una società che si declinava soltanto al femminile! Il che potrebbe portarci a concludere che la stessa Olimpiade fosse di fatto insensibile al richiamo dell’altro sesso. Un dovere, e nulla piú. Conclusione che, però, potrebbe avvalorarsi solo se disponessimo di segnali concreti di una sua attrazione per esseri femminili.9 Non lo possiamo dimostrare, ma almeno indiziare sulla base di due “bons mots” che le sono attribuiti da Plutarco nell’opuscolo di consigli sugli amori coniugali, dove l’autore riferisce che per ben due volte la regina si sofferma ad ammirare l’avvenenza seduttiva di giovani donne. Il primo caso riguarda Filippo, che mira a scusarsi di avere condotto nella reggia di Pella una delle due concubine tessale (mor., 141b): « Il re Filippo era innamorato di una donna della Tessaglia accusata di usare su di lui incantesimi magici. Olimpiade si affrettò a ridurre quella donna in suo potere, ma quando questa, venuta in presenza della regina, era apparsa bella di sembiante, e per giunta di conversazione che non difettava né di buona educazione né di intelligenza, esclamò: “Via con queste calunnie! Tu hai l’incantesimo magico in te stessa” ». Filippo si scolpa con la consorte dichiarando che la donna di Tessaglia, di cui si era invaghito, l’aveva stregato; era responsabile, cioè, di kataphar makeuein auton. Sempre questioni di pharmaka, e non è escluso che Filippo, o la tradizione confluita nell’opuscolo, abbia intenzionalmente, con ironia, voluto sottolineare come egli sia stato irretito da pozioni somministrategli da un’altra donna, e non da Olimpiade, la pharmakís per eccellenza. La quale, gelosissima di natura, avrebbe voluta umiliarla e punirla, ma poi cede dinnanzi alla sua bellezza e alla sua grazia, definendo « calunnie » le insinuazioni mosse da Filippo sul conto della donna, il cui fascino ammaliante è di per sé una droga, come ella ammonisce con un garbato mot 9. Un’informazione generale su tutta la materia la fornisce Dover 1985, passim. Vd. per un affondo di carattere psicanalitico Foucault 1984, passim.
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to di spirito: « tu hai l’incantesimo magico in te stessa », en seautēi ta pharma ka echeis. L’aneddoto, vero e falso che sia, testimonia una nota dell’indole di Olim piade, o sulla sua evidenza è costruito: l’inclinazione a estasiarsi per la bellezza femminile, e in questo caso a rimanerne essa stessa stregata. Meno avvincente, o piú sfumato, il secondo “bon mot”, ma pur sempre pertinente l’avvenenza del fisico di una giovane sposa (mor., 141c): « Un’altra volta la stessa Olimpiade, quando un giovane cortigiano si era sposato con una donna, bella davvero, ma dalla cattiva reputazione: “Costui” – esclamò – “ha poco cervello, altrimenti non si sarebbe sposato con gli occhi” ». Il giovane, non dando peso ad altro, si era unito alla donna soltanto guardando al suo aspetto esteriore; l’aveva quindi sposata non usando il dovuto discernimento, ma esclusivamente affidandosi agli “occhi”, tois ophthal mois. Con uno sguardo che certo non è molto dissimile da quello di Olimpiade quando ne ha fissato l’immagine che le riaffiora nel ricordo. Non è un granché ciò che si ricava dai due aneddoti in merito all’indole reale e alle propensioni sessuali di Olimpiade, ma almeno funzionale a mostrarci come ella non fosse insensibile al fascino (e all’attrazione?) femminile. Comunque sia, le due battute poste sulle sue labbra ne ribadiscono il gusto per l’ironia e la disponibilità per il motto di spirito, doti che mai marciano disgiunte dall’intelligenza della persona. Abbiamo parlato di due coniugi di eccezione, tentando di valorizzare anche ciò che possiamo desumere dal portato leggendario, ma dobbiamo aggiungere che, al di là del compromesso rapporto di coppia, altre furono almeno per quasi un ventennio le non poche consonanze esistenti tra Olimpiade e Filippo in ambito di scelte educative, politiche e dinastiche. 4. L’educazione del figlio La rottura definitiva tra i due coniugi si data nel 337, allorché il sovrano sposa Cleopatra/Euridice, la nipote di Attalo. Ma prima la loro intesa non appare incrinata nelle scelte di fondo. Lei era impressionata dagli orizzonti della sua conquista e dalla costruzione di uno stato che non solo andava dall’Egeo all’Adriatico, ma che, in una dilatazione senza fine, mirava a inglobare il mondo greco e si disponeva a minacciare lo stesso impero 40
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persiano. Lui, seppure poligamo, ne riconosceva il ruolo “esclusivo” di regina in quanto genitrice dell’indiscusso erede al trono, le cui premature doti di multiforme ingegno destavano in tutti stupore e meraviglia, suscitando nel padre un orgoglio smisurato che ne accentuava il rispetto per la madre. Alla quale Alessandro appariva legato in una forma di superiore e segreta comunione dello spirito. Entrambi, Filippo e Olimpiade, erano nati, seppure all’ombra di un trono, da due regioni della periferia settentrionale e semibarbara del mondo ellenico, ed entrambi condividevano l’anelito a una completa sprovincializzazione, che sapevano come non fosse facile e richiedesse il trascorrere di generazioni e il superamento di ordinamenti tribali. Ragione che li induceva a fare educare il figlio “alla greca”, mentre essi stessi si presentavano al mondo ellenico non da rozzi conquistatori, ma da fratelli partecipi della stessa cultura. Anche se il processo non era semplice, e per la loro indole non potevano prescindere da tratti di esaltazioni e manifestazioni di barbarica impronta ancestrale; come, per Olimpiade, l’anelito alla sfrenatezza rituale della menade e, per Filippo, gli incontrollati e costanti eccessi di ebbrezza che lo porteranno, vincitore, a danzare ubriaco sul corpo dei caduti ateniesi a Cheronea. Ma sono parentesi di comportamento subito mitigate e corrette. L’accettazione da parte della grecità rimaneva sempre, per entrambi, l’obiettivo di fondo, cosí come, su un altro fronte, l’obiettivo era quello di cingere la Macedonia da una ferrea cintura di stati vassalli lungo tutta l’estensione del regno. È da credere che, nel corso delle prolungate assenze del sovrano, fosse Olimpiade, nell’ombra, e di comune accordo, a reggere il timone di governo del regno.10 Esercitando di fatto un potere reale, al di fuori di ogni prassi ufficiale.11 Non risulta, infatti, che altri della corte fosse stato delegato a farlo. Il che spiegherebbe il profondo attrito che si genera nel paese tra la regina e l’aristocrazia guerriera, che indurrà Filippo – in procinto di partire per l’Asia – a divorziare da Olimpiade per sposare Cleopatra/Euridice, una giovanissima donna di nobile schiatta macedone. Il che 10. Cosí anche Marcudy 1932, p. 26. 11. Documentazione sul ruolo della donna nella monarchia macedone in Carney 2000, e Kottaridi 2011, entrambi passim.
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non gli porterà fortuna, avendo egli sottovalutato la barbarica sete di vendetta della consorte tradita, che aveva perduto il proprio ruolo politico di “prima donna” e che temeva di perdere anche quello di genitrice dell’unico erede legittimo. Ma, rimanendo ancorati alla stagione della concordia, appare verosimile che, in comunità di intenti, i coniugi abbiano deciso di fornire al figlio il corredo, al massimo livello, di un’educazione “alla greca” e di una curatela dell’immagine “alla greca”: la prima affidata ad Aristotele, la seconda commissionata a Lisippo. I genitori offrono cosí ad Alessandro una tale somma di dotazioni che gli permetterà di camuffarsi in ultimo figlio della grecità, con un ruolo che egli interpreterà in chiave omerica ed eroica. Colui che piú di ogni altro influirà su di lui, riplasmandone le eredità genetiche in sete di conoscenza, sarà, ovviamente, Aristotele, con il quale pure scambierà una nutrita corrispondenza nel corso della marcia di conquista in Asia, che per entrambi si configurava, anzitutto, come un’esperienza per un’irripetibile esplorazione dell’orbe. L’incontro con il sommo filosofo ha luogo quando il giovane principe ha da poco compiuto i tredici anni. Egli deve, per incarico del sovrano, soprintendere al tirocinio di studi del figlio per un operosissimo triennio, come ricorda Plutarco (Alex., 7 2-4): [Filippo] fece venire il piú celebrato e accorto filosofo, pagandogli un alto onorario, degno di lui. Tra l’altro riedificò la città di Stagira, patria di Aristotele, che egli stesso aveva distrutto, e riportò in patria i cittadini che erano andati in esilio o erano stati ridotti in schiavitú. Come luogo dove compiere gli studi assegnò il Ninfeo di Mieza, dove ancora oggi indicano il seggio marmoreo di Aristotele e gli ombrosi viali dove egli passeggiava.
Potremmo dire che Filippo non si cura di spese per l’educazione del figlio: non solo paga ad Aristotele « un alto onorario », ma addirittura gli riedifica la città natale, Stagira, rimpatriandone i cittadini in esilio e riscattandone quelli caduti in schiavitú. Regale omaggio di Filippo al principe dei filosofi, o condizione da lui imposta a un re “barbaro”, distruttore di póleis, per educargli il figlio? Propenderemmo per la seconda ipotesi. Accurata anche la scelta della sede per gli studi di Alessandro, prossima a Pella, ma tranquilla e lontana dalle sue distrazioni, accogliente in ogni stagione, e per giunta refrigerata nella calura estiva da corsi d’acqua e da viali ombrosi. 42
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Nello stesso tempo, a immortalare Alessandro, accorre a corte Lisippo, il piú celebrato scultore del tempo, che avrà poi anche l’esclusiva per la sua ritrattistica in bronzo. A lui si deve nella statuaria del Macedone « la posizione del collo lievemente flesso a sinistra e la dolcezza dello sguardo », come sottolinea Plutarco (Alex., 4 2). Inutile aggiungere che la presenza congiunta, presso il figlio, del filosofo di Stagira e dell’artista di Sicione dimostra quanto ostinatamente i genitori volessero e cercassero di sprovincializzare la Macedonia, mirando a presentarsi dinnanzi al mondo ellenico come “greci” tra Greci. Intuiscono, per giunta, che non solo l’educazione, bensí pure l’immagine del giovane erede, acquistava un’importanza decisiva. Ma quanto la madre, in proprio, influisce sulle scelte educative per il figlio? È solo una supposizione, la nostra, che ella abbia supportato il coniuge nella ricerca dei maestri da affiancare al figlio e degli artisti cui affidarne la creazione dell’immagine, o è supposizione che possiamo in qualche modo documentare? La risposta non può essere che positiva, giacché Plutarco (Alex., 5 7) testimonia la cura che ella riponeva nell’apprendistato scolastico del futuro erede al trono: « Si davano cura di lui [Alessandro], come era ovvio, molte persone. Tutori, maestri, pedagoghi: su tutti vigilava Leonida, un uomo austero di carattere e un parente di Olimpiade […], dagli altri definito l’educatore e il tutore di Alessandro, sia per la sua dignità sia per la sua parentela ». La testimonianza con ogni probabilità si riferisce alle prime esperienze di studio di Alessandro, ma è decisiva per mostrare come Olimpiade fosse coinvolta, ovvero avesse una diretta responsabilità, nei processi educativi del figlio. Leonida non è un responsabile qualsiasi, ma un uomo da tutti considerato tanto per la propria « dignità » quanto per la propria « parentela » con la regina. Dato, quest’ultimo, che ne rivela una provenienza dall’Epiro in grado di indurci a una duplice considerazione: circa la sua probabile chiamata in Macedonia da parte di Olimpiade perché il figlio non crescesse ignaro dei costumi della patria materna; circa, inoltre, la diffidenza che la medesima Olimpiade dovesse nutrire su un’educazione esclusivamente alla macedone. Soltanto la presenza a fianco di Alessandro di un educatore epirota, e per giunta suo parente, la poteva tranquillizzare. Ciò che poi non le precludeva di intervenire in proprio, e nell’ambito dei suoi saperi, sull’educazione del figlio, come parrebbe mostrare ancora 43
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una testimonianza di Plutarco (Alex., 8 1), se limitata al mero contenuto e scissa da altre congetture in essa formulate: « Pare a me che Aristotele piú di altri abbia inculcato in Alessandro l’amore per la medicina; non solo egli si appassionò alla teoria, ma anche curava gli amici malati, e prescriveva loro certe cure e diete, come si può ricavare dalle sue lettere ». Se Alessandro curava gli amici malati prescrivendo loro le cure piú appropriate, tale sua attitudine dimostra che egli aveva pratica di erbe curative, in grado, da un lato, di consentirgli la preparazione di pozioni medicinali o di decotti depurativi per diete sfiammanti e, d’altro lato, di sperimentare anche i benefici derivanti da sostanze allucinogene. Il biografo, seppure in forma dubitativa, ne attribuisce l’apprendimento all’insegnamento di Aristotele, ma è molto piú probabile che l’esperienza diretta dei pharmaka gli derivasse da Olimpiade sapiente conoscitrice della natura vegetale. Per parte sua il filosofo, teorizzatore e catalogatore dello scibile umano, si sarà limitato a conferire veste scientifica alle conoscenze empiriche già maturate dall’allievo. 5. Il fratello alla corte macedone Un altro dato che conferma, sul piano politico, l’unità di intenti tra i due coniugi, o comunque, da parte di Filippo, la disponibilità a cedere alle pressioni della moglie, è offerto dall’approdo alla corte di Pella del Molosso, il fratello minore di Olimpiade, che dimorava in Epiro alla corte dello zio Ariba, e che, seppure figlio di re, aveva preclusa la via alla successione del regno dal cugino (e nipote) Eacide. Insieme alla sorella aveva condiviso la sorte di orfano dei genitori, e forse anche l’umiliazione di sentirsi un estraneo nella propria casa. Ora ella certo meditava di restituirgli, tramite Filippo, il ruolo perduto, cioè il diritto successorio al trono di Epiro. Siamo nel 351, Olimpiade ha circa ventiquattro anni, il Molosso dodici o tredici, l’imberbe erede al trono, Alessandro, cinque o sei. Giustino non ha dubbi sul fatto che l’iniziativa di chiamare in Macedonia il fratellino parta da Olimpiade. Da un lato (vii 10 11), ci ricorda, infatti, che la sua unione con Filippo « fu per Ariba la causa della sua rovina e di ogni suo male », con scoperta allusione al fatto che la regina, chiamato il fratello in Macedonia, avrebbe poi fatto pressione sul consorte per reinte44
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grarlo, divenuto adulto, sul trono di Epiro scalzandone il precedente inquilino. Dall’altro lato (viii 6 5-6), con parole esplicite ci specifica che Filippo « a nome della sorella », nomine sororis, avrebbe chiamato alla corte macedone il Molosso: Fece venire in Macedonia, a nome della sorella, Alessandro [il Molosso], figliastro di Ariba, fratello della sua consorte Olimpiade, fanciullo di timorata bellezza, e, adescandolo con ogni premura, prospettandogli la speranza di regnare, con simulata passione, lo indusse a una consuetudine di pratiche amorose al fine di suscitare in lui maggiore asservimento, sia per la vergogna sia per la sperata gratificazione di un regno.
La testimonianza – l’unica di cui disponiamo sulla presenza del Molosso a Pella – non è scevra da ombre e richiede qualche spiegazione per essere focalizzata al di là della cornice moralistica, che saremmo piú propensi ad attribuire, anziché al testo di Pompeo Trogo, alla penna di Giustino che lo epitoma. Il Molosso è nell’età del primo fiore dell’adolescenza e suscita, o per reale attrazione o spinto da interesse personale, la passione amorosa – la stupri consuetudo – di Filippo. Il quale oggi sembrerebbe un mostro, ma come tale non appariva alla comune percezione della società greca, dove l’omosessualità maschile era praticata tanto quale pratica educativa pilotata da un adulto, quanto, tra coetanei, quale forma di coesione falangitica e cameratesca. « Se qualcuno, purché sia egli un uomo perbene, innamorato dell’anima di un ragazzo, tenti di fare di lui un amico senza incorrere nel suo disappunto, e di congiungersi con lui, il legislatore ne loda il comportamento e ritiene che questa sia la piú bella forma di educazione ». Cosí sentenzia Senofonte nella Costituzione degli Spartani (2 12) con riferimento al codice di Licurgo e agli anni di età del fanciullo amato, il quale – lo teo rizza Platone (Lys., 216c) – deve essere ancora « morbido, liscio e lucente »; non piú bambino, ma neppure ancora uomo. Come era allora il fratellino di Olimpiade, un erōmenos « nel pieno dei suoi dodici anni », ma ancora piú desiderabile se ne avesse avuti « tredici » come recita un epigramma dell’Antologia Palatina (xii 4).12 12. Vd. su tutta la spinosa problematica le equilibrate argomentazioni di Vattuone 2004, pp. 61 sgg. e 102 sgg.
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Stando al codice di Licurgo, la colpa di Filippo non è quella di possedere nella giusta età il fanciullo, ma di possederlo « con simulata passione », simulato amore, e cioè senza esserne « innamorato dell’anima ». Ciò detto, se attribuissimo a Giustino la notazione moralistica del simulato amore, il comportamento del sovrano avrebbe ben poco di sconveniente rispetto ai costumi del tempo. Egli sarebbe stato un adulto che, accompagnandosi al fanciullo, lo educava sugli equilibrismi della politica e sulle arti della guerra con l’obiettivo di farne un futuro monarca. Se, viceversa, il suo amore era frutto di “simulata passione” possiamo arguirne che il suo intento, facendolo a lui soggiacere, fosse quello di inculcargli, per il domani, il concetto del dovere essere un re soggetto, anziché un autonomo monarca. Ma, se le cose stessero cosí, potremmo parimenti ascrivere al fanciullo il torto di essersi concesso al sovrano prefiggendosi un utile. Comunque sia, la strada era segnata perché il Molosso tornasse in Epiro erede del trono del padre. Nel 342-’41 Ariba, lo zio, e forse anche patrigno, viene deposto da Filippo, che insedia sul suo trono il fratello di Olimpiade, ormai ventenne o poco piú. Del trapasso monarchico ci informa Diodoro (xvi 72 2), che però erra nel dirci che il deposto Ariba fosse allora morto, mentre viceversa ripara ad Atene dove è accolto con pubblici onori (GHI, 173) come vittima dell’imperialismo macedone. Olimpiade, che di tutti questi accadimenti era stata, se non la promotrice, certo l’accorta compartecipe, non poteva che tre volte rallegrarsene: aveva avuto con sé il fratello alla corte macedone, aveva soddisfatto l’intento di rimetterlo sul trono, aveva visto esiliato uno zio che, da quando era rimasta orfana, aveva probabilmente male tollerato. Il bilancio era favorevole e tutto al suo attivo, anche se, per raggiungere il fine, aveva forse dovuto chiudere un occhio sulla “purezza” del rapporto instauratosi anni addietro tra il coniuge e il fratello.
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III RIPUDIATA E VEDOVA
1. La rottura con Filippo Il lettore ricorderà che abbiamo accennato al fatto che, nell’anno 337, i diritti successori di Alessandro sono messi in crisi da un fatto nuovo e inatteso. Cosí come ricorderà che nel medesimo anno, dopo la disfatta del koinón greco a Cheronea nasce la Lega di Corinto, che obbliga gli sconfitti ad aderire alla “pace comune” voluta da Filippo, che ha nuovamente rivestito i panni del condottiero panellenico. I due fatti sono strettamente correlati, giacché la Lega di Corinto aveva ragione di essere solo precisandone subito un obiettivo operativo. Il quale, come aveva insegnato Isocrate, non poteva che essere individuato in una spedizione militare contro il Gran Re di Persia, giustificata dalla propaganda come guerra di vendetta della grecità contro il barbaro, che un secolo prima aveva incendiato Atene e devastato il territorio di non poche comunità elleniche. Di fatto però – l’abbiamo detto – una spedizione non volta a detronizzare il Gran Re, ma una guerra di ampliamento, o di consolidamento, del monarcato macedone nel suo confine orientale. Sostanzialmente una prova di forza e un’azione dimostrativa per affermare, sullo scacchiere internazionale, la realtà di una nuova potenza. Ma l’impresa, qualunque sia stata la sua portata, implicava uno sforzo bellico senza precedenti, tale da indurre Filippo, per garantirsi alle spalle, a legare piú strettamente a sé l’aristocrazia della sua terra, usando ancora una volta il mezzo del vincolo matrimoniale. Contrae cosí nuove nozze, questa volta di sangue macedone, con la giovanissima Cleopatra/Euridice che nel giro di un anno aspetterà un erede. Olimpiade si poteva cosí ritrovare destituita dal ruolo di unica genitrice legittima di un legittimo successore al trono; il che accresce la sua collera che presto diventa inarginabile, innescando una crisi coniugale senza ritorno. Filippo la ripudia, o ne prende vistosamente le distanze, acquistando ancora maggiore credito presso la corte di Pella, dove la donna per la sua forte personalità era stata da sempre malvista. 47
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Per fortuna di Alessandro la nuova moglie di Filippo genererà una femmina, per la tradizione piú accreditabile, ed egli, il figlio di Olimpiade, non si vedrà insidiato almeno per il momento il diritto alla successione del padre. Il quale, di lí a poco, sottratto al teatro degli umani eventi da una morte violenta e improvvisa, non avrà tempo né per rallegrarsi di un eventuale secondo erede maschio, né per assistere alla crescita della figlia neonata, che, non a caso, era stata chiamata Europa con scoperta allusione onomastica all’estensione del monarcato paterno. Ma su tutti questi eventi, e soprattutto sulla loro ricaduta in ambito familiare, è bene cedere la parola a Plutarco (Alex., 9 5-14) che ci offre sí un quadro che potrebbe apparire fin troppo colorito, ma che, nella sostanza, è confermato da altre fonti: Ma i dissapori nella casa di Filippo […] diedero origine a molte accuse e a gravi dissensi tra il padre e il figlio, ulteriormente aggravati dalla durezza di carattere di Olimpiade, che era donna gelosa e collerica e per di piú sobillava Alessandro. Lo scontro piú plateale lo cagionò Attalo durante le nozze del re e di Cleopatra, una ragazzina che Filippo, innamoratissimo, sposò nonostante la differenza di età. Attalo era lo zio della ragazza, e durante il banchetto nuziale si ubriacò e si diede a invitare i Macedoni a chiedere agli dèi di concedere che dalle nozze di Filippo e Cleopatra nascesse un legittimo erede del regno. Per tale sua uscita Alessandro si infuriò e gli buttò contro una coppa urlando: « Ti pare, o disgraziato, che io sia un bastardo? ». Filippo allora sguainò la spada e si lanciò contro di lui; per fortuna di tutti e due, un po’ per l’ira un po’ per il vino, scivolò e cadde. Alessandro allora infierí con atroce insulto: « Dunque è costui, o amici, colui che si disponeva a transitare dall’Europa all’Asia: passando da un letto all’altro è andato a gambe all’aria! ». Dopo essersi sfogato prese poi con sé Olimpiade e la portò in Epiro; personalmente si stabilí in Illiria.
Un racconto analogo è in Ateneo (xiii, 557d-e) che esplicitamente dipende dalla Vita di Filippo di Satiro (fr. 5 in FHG, iii p. 161 = fr. 24 K.), rivelandoci con ciò che alla medesima biografia deve avere attinto anche Plutarco. Olimpiade non si limita a dare sfogo alla sua gelosia e alla sua collera, ma nell’esasperazione dell’ira « sobilla » anche Alessandro contro Filippo, il figlio contro il padre. Con ciò esasperando contro di lei il malcontento della aristocrazia macedone che aveva plaudito alle nuove nozze del re. È un qualcosa, un sentimento di ostilità covato da lungo tempo, che monta 48
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ora tumultuosamente e che deflagra durante il banchetto nuziale con una manifesta e pubblica provocazione da parte di Attalo, uno dei piú stretti collaboratori di Filippo e zio della ragazza. La quale sarà stata anche una giovane e attraente sposina, ma non impalmata da Filippo per un capriccio, perché ne era « innamoratissimo », bensí – il lettore già l’ha appreso – per superiori esigenze dettate dalla ragione di stato. Attalo invita nientemeno gli astanti a libare agli dèi perché dalla coppia di sposi nasca « un legittimo erede del regno ». Ateneo, derivando da Satiro, ne riferisce poi le parole che nel “virgolettato” suonano ancora piú graffianti ed esplicite: « Finalmente ora » – avrebbe detto – « avremo sovrani legittimi, non dei bastardi! ». Alla reazione di Alessandro, che gli lancia contro una coppa, avrebbe poi contraccambiato colpendolo con il suo boccale, scagliato con pari violenza. Era ubriaco, e forse per questo non poteva prevedere gli esiti infausti del suo “brindisi”, che si conclude con un’aperta e dura colluttazione tra Filippo e Alessandro, con tanto di dileggio del padre, anche egli ubriaco, da parte del figlio. L’offesa di Attalo era comunque gravissima; mancando un codice o un protocollo che regolasse le successioni dinastiche, tali sue sferzanti parole davano per acquisito che Alessandro fosse un bastardo, un nothos, in quanto solo per metà macedone, in quanto frutto del matrimonio del re con una straniera. Il che automaticamente degradava il rango reale di Olimpiade al ruolo di concubina. Alla mancata colluttazione tra il padre e il figlio, segue poi la sarcastica battuta di Alessandro che – nella tradizione che la trasmette – tradisce una duplice mordente allusione. Al fatto che Filippo sia inadeguato a guidare la spedizione in terra di Asia, in un raffronto sottinteso con le folgoranti capacità del figlio. Al fatto che i letti, tra i quali Filippo disinvoltamente salta, passando dall’uno all’altro, sono sí nella realtà i divani dei convitati al banchetto, ma anche, nella trasparente metafora, i talami delle sue consorti, con graffiante riferimento alla “epirota” ripudiata e alla “macedone” che ora la sostituisce. Giustino (ix 5 9) aggiunge al quadro fornitoci da Plutarco la notizia che Olimpiade sarebbe stata scacciata, expulsa, presumibilmente dalla corte, perché sospettata di adulterio propter stupri suspitionem. Informazione creata a posteriori, e quindi destituita di fondamento, sulla base della leggenda 49
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della paternità divina del figlio e del suo concepimento per opera del dioserpente. Aggiunge inoltre (ix 7 3) in forma esplicita, e con qualche ininfluente inesattezza, che Alessandro avrebbe in effetti temuto che Cleopatra/Euridice potesse dare alla luce un rampollo maschio « suo concorrente nella successione al regno ». Infine, a stare sempre a Plutarco, la madre e il figlio, Olimpiade e Alessandro, fuggirono dalla Macedonia, riparando l’una in Epiro, l’altro in Illiria. Giustino (ix 7 5-7) aggiunge che Olimpiade, giunta a destinazione, « incitava alla guerra suo fratello », il Molosso, e che Alessandro, separatosi dalla madre, si era recato presso non meglio noti « re dell’Illiria », ad reges Illyriorum. Quale, per entrambi, il progetto operativo? Probabilmente proprio quello di rovesciare Filippo dal trono, fomentando la ribellione degli stati satelliti dell’Occidente adriatico e del settentrione danubiano. Lo possono confermare tre dati che è bene non sottovalutare. In primo luogo, il fatto che Filippo si preoccupi delle mosse del Molosso e le prevenga – come riferisce Giustino – « dandogli in sposa » la figlia Cleopatra, generata da Olimpiade, « e facendolo suo genero ». In secondo luogo, il fatto che Filippo esili dalla Macedonia i compagni piú fidati di Alessandro per timore che contro di lui possano agire di intesa con il figlio, il quale era « divenuto sospetto al padre » come ci ricorda Arriano (iii 6 5-6) e, fornendoci i loro nomi, anche Plutarco (Alex., 10 4). In terzo luogo, il fatto che Alessandro, come primo atto del suo regno, debba reprimere in armi le tribú degli Illiri e dei Triballi,1 da lui stesso istigate a ribellarsi, con una spedizione che si data nell’estate del 336, non appena celebratosi il matrimonio della sorella e il funerale del padre.2 Disinnescato il pericolo che, con Olimpiade e il Molosso, gli poteva venire dal limitrofo Epiro, Filippo richiama in patria il figlio, non esule, ma assente volontario. Da solo però, e senza acconsentire al rientro dei suoi compagni. Era stato da piú parti pressato all’atto di indulgenza, e Alessandro, seppure divenuto « sospetto al padre », al momento era indispensabile per assicurare la continuità dinastica, giacché la nuova sposa non gli aveva ancora donato un figlio maschio e l’unico di cui potesse di1. Un’informazione generale, con rimando alla documentazione, in Tarn 1950, p. 24. 2. Per il susseguirsi degli eventi, vd. Hammond 1979, p. 726.
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sporre era l’Arrideo, un rampollo non solo bastardo, ma anche disturbato di mente. La madre e il figlio si trovavano cosí disarmati. L’una per il riaffermato legame di amicizia tra la Macedonia e l’Epiro, siglato da un matrimonio piú che vantaggioso per il Molosso, di cui oltre che sorella diveniva anche suocera. L’altro per il ritorno a corte con reintegrazione di status e di ruolo. Si vanificava cosí per entrambi – almeno nell’immediato – la necessità di detronizzare Filippo con un’azione che partisse dagli stati satelliti e si movesse a tenaglia contro la Macedonia. Poi – come diremo – non ce ne sarebbe stato piú bisogno. Tutto si consuma in fretta. Olimpiade e Alessandro con tutta probabilità si riabbracciano nel luglio del 336, in occasione del matrimonio di Cleopatra. Il figlio, per il recente accaduto, non può che essere sospettoso del padre. La madre, se giunta al seguito del corteo epirota, è un’invitata dal Molosso e non da Filippo, è quindi una “tollerata” priva di ruoli ufficiali, e nell’ombra il suo animo sarà stato attraversato da due opposti sentimenti: quello di madre trepidante per le nozze dell’unica figlia, quello di sposa offesa votatasi alla vendetta. 2. Un matrimonio e un regicidio Al toro incoronato di corona s’approssima la fine; s’appressa già l’addetto al sacrificio.
Il vaticinio delfico3 è sollecitato da Filippo per ottenere un responso sull’esito della sua prossima campagna contro il Gran Re di Persia, ma, come ci dice Pausania (viii 7 6), che lo testimonia, « si rivelò indirizzato non ai Persiani, bensí allo stesso Filippo » che stramazzerà al suolo pugnalato da un ufficiale al proprio seguito quando non aveva ancora compiuto il quarantaseiesimo anno di età. Siamo nell’anno 336, e l’inaspettato assassinio del re avviene nel corso dei festeggiamenti per le nozze della figliola Cleopatra con il Molosso, lo zio materno, il sovrano dell’Epiro. Nonostante Filippo sia cinto – come il toro della profezia – da una delle nume3. Su cui Parke-Wormell 1956, num. 266.
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rose corone d’oro offertegli in quella occasione dalle città greche, non nutre sospetti sull’interpretazione del vaticinio, soprattutto dopo avere ascoltato, in quel medesimo giorno, e in quella medesima occasione, il piú celebre attore del tempo, l’ateniese Neottolemo, cui aveva commissionato versi che si riferissero alla sua imminente spedizione oltre Egeo. Egli, suscitando il plauso del sovrano, assembla un pezzo che, con interesse proiettato sulla prosperità persiana, ammoniva come anche questa, seppure grande e famosa, potesse essere rovesciata dalla fortuna. Lo testimonia Diodoro (xvi 92 3), che ne riferisce un brano tratto da una tragedia di cui non ci precisa il nome dell’autore: Piú eterei dell’aria i pensieri volando ci conducono alle distese di vaste pianure, a dimore sontuose piú elevate delle vostre case nel segno d’una vita interminabile. Ma su tutto sovrasta il dio Ade degl’Inferi; i sentieri oscuri delle tenebre percorre per troncare, invisibile fonte d’ogni doglianza, le speranze ch’allietano la vita.
I versi, anche in questo caso, sono male interpretati da Filippo, e dopo di lui da Caligola, che, poco prima della sua uccisione, ordina a un pantomimo di recitare la stessa tragedia allestita da Neottolemo per il sovrano macedone. Cosí almeno attesta Svetonio (Cal., 57 4). La tradizione da cui dipende Diodoro è malevola nei confronti di Filippo,4 e il re, nell’interpretare i presagi e nell’affidarsi alla suggestione di recite teatrali, è certo leggero. Ma ognuno crede ciò che vuole credere. Ma dove e come si sono svolti i fatti? Teatro del regicidio è la città di Ege, presso l’odierna Verghina, antica capitale macedone, località sacrale e sede deputata alla sepoltura dei sovrani, come mostrano le molte tombe a camera, con volte a botte e 4. Vd. Sordi 1969, p. 155 che indizia Diillo quale fonte diodorea.
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facciata monumentale, e tra esse quella, notissima, attribuita a Filippo. Qui il re, per celebrare nella forma piú fastosa le nozze della figlia, tramuta l’evento in occasione politica, facendo convenire nella località non solo il fiore dell’aristocrazia macedone, ma anche le rappresentanze delle principali póleis ed etnie del variegato mondo ellenico. Alle quali intende ora presentarsi da amico e alleato nel massimo del suo fulgore perché siano giustamente orgogliose del condottiero che, a capo della Lega di Corinto, porterà vindici le loro armi in terra di Asia, almeno a stare alle parole d’ordine della propaganda. Celebra sí le nozze della figlia, ma anche la propria personale apoteosi, organizzando sfarzosi sacrifici agli dèi olimpici con fisso il pensiero a divenirne il tredicesimo, come lascia intuire Diodoro (xvi 92 5). Al culmine di tanta scenografia il tirannicidio, quasi fosse una rappresentazione teatrale bisognosa di imporporarsi del sangue della tragedia. Il tirannicida, Pausania, come in tutti gli assassinii, spunta quasi dal nulla – un pugnale piú che un uomo – e, come in tutti gli assassinii, restano nell’ombra i suoi mandanti. Ma, a questo punto, per proseguire il racconto, conviene cedere la parola a Diodoro (xvi 93 1-2): Il teatro era ormai pieno e lo stesso Filippo avanzò indossando un mantello bianco; aveva dato ordine alle guardie del corpo di seguirlo a una certa distanza, perché voleva dimostrare agli astanti che era protetto dalla benevolenza di tutti i Greci e non necessitava di ulteriore difesa. Ma, proprio quando aveva raggiunto un plauso senza limiti, e tutti lo acclamavano e lo consideravano felice, il re fu all’improvviso colto alla sprovvista dal complotto ordito contro di lui, e quindi dalla morte.
Se di « complotto » – epiboulē – si tratta, il gesto di Pausania non poteva essere il gesto isolato di una persona, piú o meno disturbata, scisso da effettive responsabilità di mandanti. La tradizione concorda su suoi risentimenti personali contro Filippo che non avrebbe provveduto a punire Attalo responsabile di dileggio e di abusi sessuali nei suoi confronti, dilazionando qualsiasi decisione al riguardo. Ma si tratta di una giustificazione di comodo. Non si uccide un re per un risentimento personale verso una terza persona. Se le cose stessero cosí, sarebbe poi facile obiettare che con piú facilità sarebbe potuto andare ad assassinare Attalo già sbarcato in terra di Asia con le avanguardie dell’armata macedone. 53
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Ma chi è Pausania? La tradizione diverge nel connotarlo: ora come un giovane rampollo dell’aristocrazia macedone, nobilis ex Macedonia adule scens, ora, invece, come guardia del corpo – doryphoros – del re. Cosí, rispettivamente, Giustino (ix 6 4) e Diodoro (xvi 93 9). Autore, quest’ultimo (xix 94 1), la cui narrazione fornisce, per la ricostruzione dell’evento, un tassello non secondario relativo a un consiglio di Ermocrate, un sofista non altrimenti noto; a Pausania che gli domandava « in che modo potesse divenire molto famoso », avrebbe risposto che lo sarebbe divenuto « se avesse soppresso » una persona di massima notorietà, giacché con l’assassinato sarebbe stato ricordato per sempre anche l’assassino. Testimonianza che, se veritiera, ci confermerebbe sia una labilità di mente da parte del regicida, sia la reale esistenza di un complotto volto a uccidere Filippo, attraverso una catena di responsabilità che giungeva fino al filosofo in grado di manipolarne la personalità. Una trama cui – come diremo – non erano estranei neppure il fratello e lo sposo di Cleopatra. Per il resto, gli ingredienti della scena teatrale ci sono tutti nella proposizione di un Filippo, ben riconoscibile dal suo « mantello bianco », che avanza senza guardie del corpo, e quindi ostentando incuranza per la sua sicurezza, « avendo al fianco » – lo ricorda Giustino (ix 6 3) – i due Alessandri, il figlio e il Molosso, scintillanti negli abiti da parata, mentre egli è solo assorto dal pensiero del vincolo nuziale che veniva a gettare un nuovo ponte tra Macedonia ed Epiro dopo la separazione tra il re e la sorella dello sposo, a sua volta madre della sposa. Come tale, Olimpiade per bizzaria della sorte diventava suocera del fratello, e per di piú suocera con un figlio che diveniva cognato dello zio e con un ex-marito che si tramutava in suocero del cognato. La tradizione le attribuisce la responsabilità della morte violenta e premeditata di Filippo della quale certo si sarà rallegrata. Ma fu ella l’artefice del progetto criminale e la reale mandante del delitto? Cercheremo certo, e con nuovi argomenti, di fare luce sul dibattuto problema, ma prima è opportuno dire che la morte di Filippo segna solo l’inizio di una tragedia molto piú ampia, che si tramuterà in un bagno di sangue, o una serie di decessi, di cui la diretta responsabile è senz’altro Olimpiade. Dopo l’assassinio del padre, Alessandro è acclamato nuovo re dall’assemblea militare dell’aristocrazia macedone. Ma ciò, in una situazione 54
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dinastica confusa, non era sufficiente a garantirgli l’esercizio del potere senza ulteriori rivendicazioni, tanto piú che era macedone solo in asse paterno e che era legittimo sospettare che la nuova consorte del padre fosse nuovamente incinta di un erede che poteva essere maschio. Ragione per cui era giocoforza agire: Alessandro si incarica di togliere di mezzo Attalo, come dice Diodoro (xvii 2 3), e Olimpiade di sopprimere Cleopatra/Euridice insieme alla sua neonata dal nome di Europa, come testimonia Giustino (ix 7 12): « Dopo di ciò costrinse Cleopatra, che, con il suo matrimonio con Filippo, era stata causa della sua cacciata, a impiccarsi, dopo averle ucciso la figlia tra le braccia. Con la vista di quell’impiccagione, ella completò la vendetta alla quale si era affrettata attraverso l’uccisione del marito ». L’anima sfrenata della baccante torna cosí a rivelarsi nell’operato forsennato di Olimpiade, con un duplice sentimento: la vendetta contro la consorte macedone che ne aveva provocato il ripudio da Filippo, nonché l’amore spasmodico di genitrice per un figlio che doveva essere un monarca libero da insidie. Ed è, la sua, una vendetta senza pietà per la quale la madre di Europa prima di morire – suicida o suicidata – deve soffrire alla vista del cadavere della piccola lordato di sangue. Una prole che è femmina per la tradizione maggioritaria, che con Satiro ce ne conserva il nome, è un indeterminato paidíon – quindi tanto femmina quanto maschio – per Diodoro (xvii 2 3), è un maschio, dal nome di Carano, per un errore di Giustino (xi 2 3). Si trattava di un essere appena nato, ed è ovvio che nella tradizione la confusione regni sovrana, confondendosi con la memoria di altre purghe domestiche. Nelle quali, a breve distanza di tempo, perde la vita anche Aminta, figlio del re Perdicca, un duro a morire che era sopravvissuto a corte anche quando Filippo, il suo tutore, gli aveva usurpato il trono.5 3. Il mandante del regicidio Ma, oltre all’impiccagione di Cleopatra/Euridice e alla precedente soppressione della piccola Europa, per alcuni un paidíon senza appartenenza di genere, Olimpiade aveva davvero sulla coscienza anche l’uccisione del 5. Berve 1926, num. 61; Badian 1963, p. 245.
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marito? Ne era davvero stata la mandante? È innegabile che l’assassinio di Filippo non sia da addebitare a un privato regolamento di conti, bensí sia da ascrivere all’esito di un complotto ordito contro di lui. Lo stesso Alessandro, peraltro, almeno ufficialmente, « fece ricercare i complici del complotto e li puní », come ci ricorda Plutarco (Alex., 10 7). Ma chi ha armato la mano di Pausania? Il Gran Re di Persia per bloccare, già sul nascere, l’offensiva in terra di Asia? L’Atene degli oratori di parte democratica per vendicare la sconfitta di Cheronea e quindi la forzata adesione della città alla Lega di Corinto? Olimpiade, non soltanto per vendetta privata e passionale, ma per garantire la successione del trono ad Alessandro? Successione, di fatto, non piú scontata dopo l’urto tra il padre e il figlio e l’apparente non partecipazione di quest’ultimo alla campagna militare oltre Egeo.6 Cercheremo ora, senza teoremi preconcetti, di esaminare le tre possibilità, con i loro “pro” e i loro “contro”, cercando – nel caso di risultati che non fugano dubbi – di lasciare l’ultima e decisiva conclusione all’intelligenza del lettore. Partiamo dall’ipotesi che il mandante sia stato il Gran Re persiano. Il suo utile sarebbe chiarissimo: impedire la spedizione macedone in terra d’Asia. Ma il sovrano del piú grande impero del Mediterraneo e del Vicino Oriente poteva davvero avere timore di soccombere dinnanzi al re di Macedonia, dinnanzi a una potenza che era stata tributaria della Persia e che per la prima volta si affacciava sullo scacchiere del mondo mediterraneo? Non era meglio, per il prestigio e l’orgoglio della dinastia degli Achemenidi, punire l’arroganza di Filippo umiliandolo sul campo di battaglia? Sono interrogativi di non secondaria rilevanza che devono indurci a dubitare – nonostante il differente avviso di Plutarco (Dem., 20 2) – di un diretto coinvolgimento della Persia nell’uccisione del re macedone. Del pari è difficile pensare che il filosofo Ermocrate, di cui abbiamo parlato, avesse relazioni dirette o indirette con la corte persiana. Sospetta, inoltre, è l’occasione nella quale ci viene tramandata la notizia di un coinvolgimento del Gran Re nell’assassinio: una lettera indirizzatagli da Alessandro che rivendica la legittimità del proprio operato nella guerra di conquista ai danni del monarcato achemenide. Ne informano 6. Cosí Badian 1963, pp. 247 sgg.
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tanto Arriano (ii 14 5) quanto Curzio Rufo (iv 1 12); il primo accenna a « congiurati » sobillati dalla Persia, il secondo al « denaro » che avrebbe armato il braccio dei regicidi, mossi, appunto, da ingentis pecuniae spe. Orbene, se di congiurati si tratta, l’allusione epistolare di Alessandro non può che indirizzarsi ai fratelli Eromene e Arrabeo della casata principesca della Lincestide da lui fatti giustiziare per la presunta complicità nell’assassinio del padre. Accusa però molto probabilmente di comodo, sia per la necessità di offrire in pasto all’opinione pubblica dei mandanti per il delitto perpetrato da Pausania, sia per liberarsi, con la loro condanna, di pericolosi esponenti di una nobile schiatta guerriera che potevano contendergli il potere. Una congiura in patria ha sempre per obiettivo, da parte di chi la fomenta, un rivolgimento interno, ma l’intento persiano poteva essere solo quello, piú circoscritto, di sopprimere Filippo per bloccarne la spedizione in Asia. Ciò che – nel caso di un reale coinvolgimento del Gran Re in una trama oscura – comporta, da parte nostra, il declassamento dell’interferenza straniera a fenomeno corruttivo. Con molto denaro si poteva certo corrompere una guardia del corpo del sovrano spingendola al crimine. Eventualità, questa, che in effetti non possiamo scartare, ma che per essere avvalorata necessita – contro ogni evidenza – di ignorare la possibilità di complotti e di mandanti all’interno della corte macedone. Veniamo ora all’ipotesi che il mandante sia da ravvisare in Atene,7 nella cerchia di Demostene e degli oratori di parte democratica che – come da tradizione – potevano avere scelto il tirannicidio come strumento di lotta politica, armando in forma occulta la mano di un regicida disposto a immolarsi nel nome di una generale insurrezione greca per la libertà. Ipotesi, questa, in effetti, almeno in apparenza, piú accreditabile perché si correla con un clima politico che, ad Atene, si fa incandescente alla notizia dell’assassinio di Filippo. Narra Plutarco (Dem., 22 1-2) che appena giunta notizia del regicidio « la cittadinanza offrí sacrifici di ringraziamento agli dèi per la lieta novella e decretò di assegnare una corona a Pausania, l’uccisore » e che « Demostene uscí in pubblico indossando una veste sgargiante e coronato di fiori » vociferando per ogni dove che il successore di 7. Sulla situazione politica buona informazione in Faraguna 1992, passim.
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Filippo era un povero mentecatto.8 Gli oratori ateniesi a capo della cosa pubblica sono sempre gli stessi: quelli ieri responsabili della sconfitta di Cheronea e domani dell’improvvida insurrezione che porta alla distruzione di Tebe e, dopo un decennio, alla disfatta nella guerra di Lamia. È, per Atene, una stagione di antimacedonismo militante quanto mai improduttivo, nella quale la città, incapace di intendere il corso nuovo degli eventi, sogna la rivincita sulla Macedonia, tentando di contrapporsi in proprio, come modello ideologico di riferimento, all’egemonia di Filippo e alla monarchia universale vagheggiata da Alessandro. Una città capeggiata da una comunità politica velleitaria, e anche molto corruttibile, che andando contro il corso della storia si disporrà a opporre frontiere nazionalistiche alla nascente cultura “ellenistica”, davvero senza frontiere e senza locali sovranismi. A suo favore una tale ipotesi potrebbe vantare la testimonianza di Diodoro (xvi 92 2-3) che ricorda un duplice evento. Da un lato un araldo, che, in occasione delle festività di Ege, offre a Filippo una corona d’oro dichiarando che « chi avesse tramato contro di lui e si fosse rifugiato ad Atene, sarebbe stato estradato ». D’altro lato un attore ateniese, Neottolemo, che recita sempre a Ege – il lettore lo ricorderà – versi per Filippo dal significato ambiguo, oscuro e facilmente reversibile. Ma, sia per le parole dell’araldo, dal tono di excusatio non petita, sia per quelle, piú volatili, dell’attore è facile postularne la genesi in facili e consuete profezie nate post eventum. Volendo insistere nell’ipotesi della committenza ateniese del regicidio, ci potrebbe, viceversa, soccorrere la notizia dell’istigazione venuta a Pausania da Ermocrate. Questi al suo quesito di come sarebbe potuto divenire famoso, gli risponde con una provocazione verbale da sofista che avrebbe potuto spingerlo all’assassinio. Di lui, della sua patria e del suo approdo presso la corte macedone, non sappiamo però nulla. Soltanto la sua militanza di filosofo potrebbe avvicinarlo all’ambiente ateniese, ma è indizio troppo labile per farne un agente provocatore straniero. Semmai è piú facile riportarlo alla cerchia di filosofi che, sotto la soprintendenza di Aristotele, il giovane Alessandro era stato solito frequentare. A suo discapito una tale ipotesi potrebbe poi trovare l’ostacolo insor8. Vd. anche Squillace 2004, p. 19.
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montabile della nazionalità di Pausania, che gli precludeva per il gesto delittuoso motivazioni e giustificazioni di carattere ideologico. Se fosse stato un cittadino ateniese, memore di Armodio e Aristogeitone, si sarebbe gloriato di essere un “tirannicida” che abbatteva il despota, ma il regicida non era ateniese e neppure un sicario di professione, bensí un aristocratico macedone piú facilmente avvicinabile per ragioni di lignaggio da nobili emissari persiani che da politici ateniesi di estrazione democratica. I quali, nel caso fosse stato corruttibile, sarebbero stati costretti a ricorrere all’oro stesso del Gran Re, che ampiamente circolava nella città dell’Attica con finalità eversive. Veniamo infine all’ipotesi che il mandante sia da ravvisare in Olimpiade, con la duplice motivazione della vendetta privata e della protezione dei diritti dinastici del figlio. Non c’è dubbio che la madre di Alessandro sarebbe arrivata a commissionare un delitto pure di appagare questi due sentimenti che torbidamente convivevano nel suo animo, sommandosi tra loro. L’assassinio non la spaventava di sicuro, come, di lí a pochi giorni, mostreranno i cadaveri eccellenti di Cleopatra/Euridice e della piccola Europa, e l’assassinio, peraltro, era uno scontato strumento di supporto alla politica nelle famiglie regnanti delle semibarbare periferie del mondo greco. Per una sua compromissione nel regicidio non giocano soltanto indizi, ma elementi concreti, dei quali si fa portavoce Giustino (ix 7 7-10. 14): Anche Olimpiade incitava alla guerra il proprio fratello, Alessandro, il re di Epiro, e l’avrebbe spuntata, se Filippo non avesse prevenuto il re dandogli in sposa la figlia e facendolo suo genero. Si crede che entrambi, animati da questi motivi di ira, abbiano spinto Pausania, che si doleva della impunità del suo violentatore, a commettere cosí grave delitto. Quello che è certo è che Olimpiade tenne pronti anche i cavalli per la fuga dell’assassino. Ella poi, ricevuta la notizia dell’uccisione del re, accorse con il pretesto di rendere omaggio alle sue esequie e, nella stessa notte in cui giunse, pose una corona d’oro sul capo di Pausania appeso alla croce, cosa che nessun altro se non lei avrebbe potuto osare, essendo in vita il figlio di Filippo. […] Tutto ciò fece cosí scopertamente da dare l’impressione di avere temuto che non risultasse dimostrato che il delitto fosse stato commesso da lei.
Animati dai medesimi « motivi di ira » sono tanto Olimpiade quanto il Molosso, suo fratello, ed entrambi ci sono additati quali responsabili, nell’opinione comune, di avere armato la mano di Pausania, ad tantum fa 59
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cinus inpulisse creduntur. Orbene, poiché non è meno scontato che il piú adirato di tutti fosse Alessandro, minato nel suo ruolo di erede al trono,9 possiamo concludere che i due Alessandri, il figlio e il neo-genero, che Filippo aveva « al fianco » recandosi all’appuntamento con la morte, fossero entrambi in attesa del momento di vederlo stramazzare al suolo. Tanto piú che, a quanto possiamo desumere, non hanno avuto un ruolo attivo né nel soccorrere il re né nell’inseguire il suo assassino. A stare a Diodoro (xvi 94 4) sono le guardie del re – tra cui Leonnato e Perdicca – che assolvono entrambi i compiti. Molla per il gesto di Pausania sarebbe – già lo sappiamo – « l’impunità » dal re accordata ad Attalo, il « suo violentatore », come ci ricorda anche Aristotele (pol., v 1311b). L’odio contro di lui, lo zio della giovane sposa di Filippo, è il movente che accomuna cosí i destini di Pausania, il regicida, di Alessandro, l’erede in forse, del Molosso, il neo-genero, e di Olimpiade, l’ex-consorte. Differenti ne sono le ragioni, ma comune per tutti il sentimento di odio. La motivazione dell’impunita violenza subita da Pausania ha però poco costrutto, giacché risaliva a un misfatto consumatosi otto anni prima,10 ora da un qualcuno strumentalmente rinverdito alla sua memoria. Ma quale l’occulto suggeritore? La risposta è semplice: non di suggeritore si tratta, bensí di suggeritrice, ed essa è Olimpiade o persona di sua fiducia giacché lei stessa « tenne pronti anche i cavalli per la fuga dell’assassino ». Che però non ci fu perché questi, impigliatosi nella staffa della sella e caduto a terra, fu raggiunto dai suoi inseguitori che lo trafissero, come concludendo la narrazione dell’episodio ci informa Diodoro (xvi 94 4). Per raggiungere il suo scopo Olimpiade potrebbe poi essere stata favorita da una duplice circostanza: la probabile labilità di mente di Pausania, cui già abbiamo accennato, e la complicità del filosofo Ermocrate, forse adiratosi con Filippo per la subdola pretesa di onori divini ostentata proprio alle nozze di Ege.11 Narra, infatti, Diodoro (xvi 92 5) che allora furono portate in processione le statue delle divinità, alle quali fu affiancata « una tredicesima statua dello stesso Filippo » sicché « il re si presentò 9. Cosí Badian 1962, pp. 245 sgg. 10. Cosí sempre Badian, l.c. 11. Vd. Momigliano 19872, pp. 13 sgg.
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assiso sul trono a fianco dei dodici dèi ». La richiesta di onori divini avanzata un quinquennio dopo da Alessandro ha qui il suo larvato precedente e, se abbiamo colto nel segno, la causa che avrebbe incentivato Ermocrate alla congiura non sarebbe di molto dissimile da quella che nel tempo a venire provocherà la triste caduta e la condanna di Callistene, da storiografo del principe mutatosi in intellettuale del dissenso. Olimpiade, nella nostra testimonianza, irrompe sulla scena della tragedia « nella stessa notte » con il pretesto di partecipare alle esequie di Filippo. Ciò significa che non era presente a Ege, ma comunque sostava nelle vicinanze in attesa di ricevere notizia del susseguirsi degli eventi. È un classico della pianificazione di tutti i colpi di stato e di tutte le congiure che il responsabile dell’azione non sia sul proscenio del teatro operativo. Nel caso di Olimpiade non possiamo neppure escludere che le fosse stato fatto esplicito divieto di intervenire alle nozze di Ege. Comunque sia, stando nei paraggi, aveva piú possibilità di darsi alla fuga nel caso che fosse fallito il complotto e il relativo regicidio. Mentre, viceversa, appena ricevuta notizia che tutto era andato a compimento come previsto, non pone tempo in mezzo e si precipita in piena notte sulla scena del crimine. Dove a modo suo, con singolarità, e in forma spettacolare, parteciperà al cordoglio per la morte del ex-consorte. Un cordoglio alla rovescia, giacché, incurante del lutto e di ogni convenienza, si reca al luogo dove era stato esposto il corpo dell’assassino e pone « una corona d’oro sul capo di Pausania appeso alla croce ». Il gesto, nella stessa sensibilità degli astanti, aveva il significato simbolico di inizio di un nuovo corso della monarchia macedone: non era piú la moglie umiliata da Filippo, ma la madre trionfante del nuovo sovrano, la vedova rivendicatrice dei suoi diritti. Infatti nessuno si oppone al sacrilegio del suo gesto perché solo lei « avrebbe potuto osare » tanto per la copertura che gli era offerta dalla presenza « in vita » di Alessandro, « il figlio di Filippo ». Nell’animo di Olimpiade dirompente è la carica esplosiva, che è determinata da due motivazioni sovrapposte: la vendetta personale e l’istanza politica. La platealità del gesto, nell’onorare Pausania con una corona d’oro, è ricercata, voluta, e ha il valore di un manifesto politico, seppure espresso attraverso l’atto e non la parola. Stupisce lo stesso storico che ce ne tramanda memoria, e che non può fare a meno di annotare che la sottolinea 61
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tura del proprio operato da parte di Olimpiade era assolutamente fun zionale all’esigenza di dichiarare e mostrare che il delitto, facinus, « fosse stato commesso da lei », ab ea commissum. Da quanto abbiamo detto parrebbe proprio che questa terza ipotesi, di ravvisare in Olimpiade il mandante del regicidio, sia non solo del tutto legittima, ma anche da privilegiare sulle altre, accreditandola come la piú probabile. Tanto piú che viene a essere rafforzata da altre notizie che legittimano l’attendibilità di quanto tramandatoci e sulle quali è ancora necessario soffermare l’attenzione. 4. Myrtale, un nome resuscitato Ma la corona d’oro apposta sul capo del giustiziato Pausania è nulla in confronto al seguito delle onoranze tributate da Olimpiade al regicida, come seguita sempre a narrarci Giustino (ix 7 12. 13): « Pochi giorni appresso, fece poi distaccare il corpo dell’uccisore e lo fece cremare sopra i resti del marito; gli fece quindi erigere un tumulo nello stesso luogo e, diffusa nel popolo una diceria di superstizione, ordinò che ogni anno gli fosse offerto un solenne sacrificio funebre. […] Infine, sotto il nome di Myrtale, consacrò ad Apollo la spada con la quale il re era stato colpito ». Il re assassinato e il regicida marciano cosí insieme verso il regno degli Inferi, lasciando nel mondo dei vivi le loro ceneri frammiste tra loro. Delle quali una parte verrà traslata nella monumentale e ricchissima tomba attribuita a Filippo e riscoperta a Verghina – l’antica Ege – nella seconda metà del secolo scorso, mentre una seconda parte, attribuibile a Pausania, sotto « un tumulo » fatto erigere dalla stessa Olimpiade presso il sito dell’avvenuta cremazione. Dove, sollecitando la superstizione popolare, ella fece sí che all’uccisore di Filippo ogni anno « fosse offerto un solenne sacrificio funebre » per iniziativa delle genti del luogo. L’assassino di un re si tramutava cosí in un tirannicida, destinatario di un culto che prevedeva una pietosa e annuale funzione sacrificale. Il modello rimandava ad Atene, e chiaramente Olimpiade voleva tributare a Pausania un culto non dissimile da quello ivi praticato per Armodio e Aristogeitone uccisori di Ipparco, figlio di Pisistrato. A loro, con l’avvento della democrazia, sono erette nella città le prime statue che onorano semplici mortali, e il loro 62
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gesto diveniva, nel comune sentire, monito perenne di lotta contro ogni dispotismo. Il soppressore di Filippo diveniva in tal modo una sorta di alter ego dei tirannicidi, mentre l’immagine del sovrano ucciso precipitava negli abissi dell’inferno dei piú biechi autocrati. Una tale costruzione religiosa e ideologica rivela nella sua artefice non solo un notevole livello di cultura, ma anche un’insospettabile conoscenza dei costumi e dei culti di Atene. Il che mostra che, nei lunghi anni di convivenza con il consorte, aveva fatta propria la sua lezione dell’acculturalizzazione “alla greca” della periferica corte macedone. Ma donde aveva appreso del valore civico del culto ai tirannicidi? Certo dai filosofi che erano stati sollecitati ad accorrere a Pella, e forse dallo stesso figlio Alessandro che era stato educato da Aristotele. Da un maestro, teorico del pensiero politico, che proprio nell’Athenaion Politeia (58 1) ci descrive la prassi ateniese di preporre l’arconte polemarco al compito di offrire sacrifici agli eroicizzati Armodio e Aristogeitone. Ma il tributo di onore al nuovo tirannicida, a Pausania, non cessa qui. Olimpiade consacra ad Apollo anche « la spada con la quale il re era stato colpito », e la consacra resuscitando il suo antico nome di Myrtale. Ma perché tale resurrezione onomastica? Non per una, ma per ben tre ragioni che ora cercheremo di chiarire. In primo luogo, perché il nome di Myrtale si riconnette alla pianta del mirto che è, al contempo, tanto simbolo di gioiosa vitalità e di rinascita del mondo vegetale, quanto simbolo che, connesso al terreno, per mezzo delle sue radici, anche trapassa all’ambito ctonio, legandosi – soprattutto nella saga di Dioniso – all’Ade e al regno dei morti. Un nome quindi che potrebbe alludere alle duplici e sovrapposte esequie del despota e del suo assassino. In secondo luogo, portato da Olimpiade, il nome legato al rigoglio della natura e all’ambiente silvestre poteva avere una sua connessione con processi di iniziazione a pratiche religiose di connotazione misterica che si ispiravano alla religione orfica e dionisiaca. Protagoniste di tali forme cultuali e delle connesse cerimonie erano donne invasate, possedute e, nei loro tiasi, in preda a frenesie estatiche. Plutarco (Alex., 2 9) – il lettore certo lo ricorderà – ci racconta che la madre di Alessandro « piú delle altre praticava queste cerimonie e in modo piú selvaggio si abbandonava all’invasamento ». Un nome quindi, quello di Myrtale, forse resuscitato nell’ora 63
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delle vendetta, quando con l’animo sfrenato e distruttivo della menade procede in forma forsennata, per sete di vendetta e per imperativo della politica dinastica, a sopprimere la piccola Europa e la madre Cleopatra/ Euridice, usurpatrice del suo ruolo a corte, e con tutta probabilità ad armare la mano di Pausania, nonché a onorarlo quale tirannicida. Sembra una Lady Macbeth, e come tale ci è presentata dagli autori antichi, ma in fondo, dal suo punto di vista, e al di là della vendetta, è solo guidata dalla legittima ragione politica di assicurare al figlio Alessandro una successione “blindata” sul trono di Macedonia. Il quale figlio, seppure nell’ombra, tra il detto e il non detto, condivide tutto l’operato della madre, avendone le medesime responsabilità, come è da credere che le condividesse anche il Molosso, fratello dell’una e zio dell’altro. L’assassinio di un’infante scomoda e l’induzione al suicidio della madre sono azioni qui ricordate in forma teatrale e con enfasi drammatica, ma, per quanto riprovevoli, rientrano nella normale casistica degli assassini politici ampiamente praticati in tutte le travagliate successioni al trono che seguono a una congiura e a un regicidio. Infine, e in terzo luogo, rivestiti i panni religiosi dell’orante, « sotto il nome di Myrtale » consacra « ad Apollo la spada con la quale il re era stato colpito »: gladium illum, quo rex percussus est, Apollini sub nomine Myrtales conse cravit. Orbene, chi ha orecchio per le allusività, non può non rilevare la stretta connessione esistente tra l’atto della consacrazione a nome di Olimpiade/Myrtale e la spada omicida, ovverosia tra il gladium e l’espressione sub nomine. E, se la rileva, scopre un’altra connessione tra il mirto, che “spettacolarizza” il nome della donna, e il regicida. Quale la canzone popolare che in Atene celebra i tirannicidi uccisori di Ipparco? Una strofe che ha per incipit la menzione di un ramo di mirto – myrtou klas – destinato ad avvolgere il ferro degli eroi libertari. Ce la tramanda Ateneo (xv 695b = PMG, 895): nel ramo sia avvolta di mirto la spada, come Armodio Aristogèitone allora che il tiranno uccisero.
Se abbiamo colto nel segno il nome resuscitato da Olimpiade – quello prescelto per l’iniziazione a pratiche misteriche – tradisce un’allusione che ci riporta ancora una volta all’orizzonte ateniese dei tirannicidi. Un 64
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nome oltretutto, questo di Mirtale, che è garanzia di genuinità della tradizione che lo riferisce, giacché a posteriori nessuno degli storiografi di cose macedoni avrebbe potuto inventare un tale particolare, la cui genesi può solo rimandare alla stessa Olimpiade. La quale consacra la spada omicida ad Apollo, tradendo anche con questo atto un ulteriore processo allusivo. Perché proprio Apollo è il dio prescelto per ricevere la consacrazione di un oggetto sicuramente impuro, e forse ancora macchiato di sangue? È presto detto. Per la ragione che nella sfera delle sue attribuzioni divine c’è anche quella di nume purificatore, come ben evidenziano gli epiteti di hagnès, di katharós, di apotrópaios e di alexíkakos. Un dio, insomma, puro e purificatore per eccellenza,12 tanto per l’azione del tirannicida macedone, quanto per la trama delittuosa della sua probabile, occulta, mandante. 5. La maschera di Medea Bifronte in questa estate di sangue del 336 è il comportamento di Alessandro, sempre tra il detto e il non detto, pronto a tutelare la memoria di Filippo, ma ancora piú a coprire la madre; pronto a distogliere ogni ombra di sospetto dalla persona di lei, ma non altrettanto solerte a celare il proprio risentimento contro il padre. Assai istruttiva al riguardo è la testimonianza di Plutarco (Alex., 10 5-7): Quando poi Pausania […] uccise Filippo, la maggiore colpa fu attribuita a Olimpiade […], ma una certa qualche accusa fu mossa anche ad Alessandro. Si dice infatti che quando Pausania lo incontrò dopo avere subito l’oltraggio e se ne lamentò, egli citò un verso famoso della Medea: « … chi ha dato in matrimonio la figlia, e lo sposo e la sposa ». Comunque Alessandro fece ricercare i complici del complotto e li puní, e si irritò aspramente con la madre Olimpiade perché, lui assente, aveva trattato con durezza Cleopatra.
Prima di rivolgere l’attenzione alla ghiotta citazione dalla Medea di Euripide, sgombriamo il campo dalle ultime due notizie. Della punizione dei presunti colpevoli già abbiamo detto; il fine è duplice: quello di offrire in 12. Fondamentali ancora le riflessioni di Pestolazza 1951, p. 320.
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pasto all’opinione pubblica dei mandanti del delitto di Pausania, nonché quello, piú impellente, di sbarazzarsi di eventuali rivali nella successione al trono. In quanto all’attrito con la madre, è questa una notizia del tutto pretestuosa, per prendere da lei finte distanze di comodo. Una notizia inventata a posteriori per gettare una cortina di silenzio sulla tragica fine di Cleopatra/Euridice, che non poteva essere ancora viva dopo l’uccisione di Filippo e l’assenza da Pella di Alessandro per domare la rivolta – da lui stesso provocata – delle tribú illiriche stanziate ai confini. In ogni caso, prende sí le distanze dalla madre, ma tra reticenze e silenzi volti a coprire delitti di cui anch’egli è corresponsabile. Ma altra è l’importanza della testimonianza. Alessandro mormora all’orecchio di Pausania un verso euripideo che testimonia la sua complicità nella catena dei delitti che iniziano con l’assassinio di Filippo per susseguirsi in seguito alla sua morte. Le allusioni, per successiva sovrapposizione di immagini, sono trasparenti: « chi ha dato in matrimonio la figlia », in verità la nipote, è Attalo che sarà fatto sopprimere dallo stesso Alessandro, « lo sposo » è il re Filippo ucciso da Pausania, « la sposa » è la sua nuova consorte Cleopatra/Euridice13 spinta da Olimpiade al suicidio. Per intendere appieno il verso sussurrato all’orecchio del regicida – che da parte del figlio vuole dirci molte altre cose sulla natura della madre – è bene rileggerlo non prescindendo dal contesto (Med., 285-89): abile sei, esperta in malefici soffri perché privata dello sposo minacci chi ha dato in matrimonio la figlia, e lo sposo e la sposa minacci stando a ciò che si racconta.
Chi parla nel dramma è Creonte rivolgendosi a Medea, e se il Macedone cita il verso che conosciamo – ton donta kai ghemanta kai gamoumenē – lo cita perché gli suonano all’orecchio pure i versi del contesto immediatamente precedente, con i quali spinge il lettore di Plutarco, ancora a distanza di piú di duemila anni, a sovrapporre allusivamente le personalità di Medea e di Olimpiade in un consapevole orizzonte di tragedia. Entrambe sono esper13. Cosí già Hamilton 1969, p. 28.
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te in malefici, entrambe non perdonano l’essere state abbandonate, entrambe maledicono il pronubo del nuovo matrimonio, lo sposo – sia esso Giasone o Filippo – e la neosposa, predisponendosi alla vendetta. Sullo sfondo la realtà, per ambedue le donne, di una sensibilità esasperata che si esprime nelle forme di una cultura piú arcaica e primitiva; una cultura negli affetti dalla profondità sinistra refrattaria a qualsiasi compromesso. Se cosí è, Alessandro, in forma criptica, presagisce un dramma familiare di cui non solo sarà spettatore passivo, ma di cui è già attore attivo proprio mentre mormora all’orecchio di Pausania il verso euripideo. Nulla di piú eccitante che profetizzare una tragedia facendo ricorso al verso di un tragico per dissimulare una propria ambiguità di comportamento, sempre sospeso tra l’ammettere e il non ammettere. Ambiguità che, per Alessandro, è la medesima che, dopo un quinquennio si paleserà nella lontana oasi di Siwah, dove l’oracolo di Zeus-Ammon, nell’anno 331, l’informa della propria origine divina. Egli, infatti, voleva essere edotto del proprio concepimento, cioè dei presunti rapporti intercorsi tra la madre e Zeus nelle fattezze di dio-serpente. Cui rimandano anche i due rettili che per Tolemeo (FGrHist, 125 F 8), in una testimonianza riferita da Arriano (anab., iii 3 5), l’avrebbero guidato nel deserto verso la sede oracolare, quali segni premonitori del mistero che gli sarebbe stato rivelato. Che consisterà nella proclamazione a figlio di Zeus-Ammon, come, concordando con la tradizione, ma con piú dovizia di particolari, ci informa Plutarco (Alex., 27 5-8): Quando, attraversato il deserto giunse alla meta, il sacerdote di Ammon gli rivolse il saluto nel nome del dio come se il dio fosse suo padre. Alessandro allora chiese se era sfuggito al castigo qualcuno degli assassini del padre. Il profeta gli ingiunse di fare attenzione a ciò che diceva perché suo padre non era mortale, e allora, cambiata la formula della domanda, egli chiese se aveva punito tutti gli uccisori di Filippo. Poi chiese del suo impero, e se gli era concesso di diventare signore di tutti gli uomini. Il dio rispose che questo gli era concesso, e che Filippo era completamente vendicato. […] Questo tramandano la maggiore parte delle fonti; lo stesso Alessandro in una lettera alla madre dice di avere ricevuto delle rivelazioni segrete che al suo ritorno a lei sola avrebbe svelato.
Cosí, per il Macedone, il dado è tratto all’ombra delle piramidi, nello sce67
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nario fastoso di un regno millenario! Il re di Macedonia, il comandante della Lega Tessala, l’egemone della Lega di Corinto, il garante della koinē eirēnē degli Elleni, pone ora le premesse per trasfigurarsi nel piú grande dinasta teocratico del mondo antico. Ma altro è ciò che muove il nostro interesse, che deve anzitutto appuntarsi sulla domanda relativa agli « assassini del padre » e quindi sulla « lettera alla madre ». L’interesse di Alessandro circa i responsabili del regicidio non è tanto appuntato sul conoscere se tutti erano stati puniti, ma sul sapere se qualcuno « era sfuggito al castigo ». Ma l’oracolo elude sia questa, sia la successiva domanda, limitandosi a dire « che Filippo era completamente vendicato ». Ma perché Alessandro, per esprimere un concetto banalissimo, ricorre alla perifrasi nel domandare se qualcuno dei mandanti del regicidio circolava ancora impunito? Voleva essere, la sua, una diretta e voluta provocazione all’oracolo? E perché l’oracolo, invece di rispondere affermativamente a entrambe le domande, si limita a dire in forma perentoria che la morte di Filippo non abbisognava piú di vendetta? Quasi a dire che era inutile e superfluo rivolgergli ulteriori domande? Tutti interrogativi legittimi che però si rincorrono senza trovare una convincente risposta. L’ambiguità da entrambe le parti – da chi interroga e da chi risponde – regna sovrana. Forse la chiave per una soddisfacente risposta poteva essere solo nelle lettera che Alessandro indirizza alla madre annunziando rivelazioni che, di persona, « a lei sola avrebbe svelato », has autos epanelthōn phrasei pros monēn ekeinēn. Ma perché l’oracolo di Zeus-Ammon, sperduto nelle sabbie del deserto libico, ostenta di avere un rapporto tanto privilegiato con Olimpiade da inviarle messaggi segreti e riservati? Un nesso c’è, e riconduce per la madre di Alessandro al natio Epiro. Sappiamo infatti da Erodoto (ii 54-55. 57 1) che il santuario di Zeus-Ammon nell’oasi di Siwah ha origini simili e coincidenti con quello greco di Dodona. Olimpiade, in quanto epirota, era legata alla cultualità dello Zeus Dodoneo e quindi, per proprietà transitiva, anche a quella, con essa affratellata, dello Zeus-Ammon libico. Tornando alla consultazione del Macedone, potremmo concludere che il mistero del “non detto”, dell’ambiguità dell’interrogante e della reticenza del sacerdote – interprete del dio – nel rispondere, si cela nel quadruplice nesso che corre tra la madre di Alessandro (destinataria 68
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del messaggio), la paternità del figlio (umana? divina?), la morte di Filippo (vendicata? invendicata?) e la gemellanza tra gli oracoli in Libia e in Epiro. Ma questi quattro dati potrebbero dirci qualcosa soltanto se fossimo in grado di provocare un corto circuito tra loro. Ma non ne siamo in grado, e la nostra è di necessità una conclusione aperta. Soltanto un dubbio ci sfiora: la lettera di Alessandro a Olimpiade parlava solo del concepimento divino dell’eroe per tramite del dio-serpente o, sempre da parte dell’oracolo, non aggiungeva anche qualcosa sulle responsabilità di lei nell’assassinio di Filippo? In questo caso, il “qualcosa” doveva essere una giustificazione della sua implicazione nel delitto perché programmato per ispirazione divina, volta, da parte del dio, a tutelare il luminoso avvenire di un proprio figlio.
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IV IL FIGLIO IN ASIA, IL FRATELLO IN ITALIA 1. Alessandro in Oriente Quando Alessandro scrive alla madre per renderla partecipe, in tutta segretezza, del messaggio riservato e segreto indirizzatole dall’oracolo di Zeus-Ammon, egli ha già conquistato metà dell’impero persiano ed è in procinto di annetterne l’altra metà. Il Macedone sbarca in Asia con un’armata molto modesta, ridotta all’osso per non sguarnire troppo di forze la Macedonia, affidata ad Antipatro, nominato proprio luogotenente per tutto il territorio dell’Europa. Armata i cui effettivi, all’alba della spedizione, computando anche le truppe ausiliarie greche, dovevano ammontare a poco piú di trentamila fanti e cinquemila cavalieri; i quali potevano disporre di una riserva di provviste per non piú di un mese, con una copertura finanziaria di non piú di settanta talenti. La spedizione, come tutte le guerre di aggressione, è cosí affidata alla razzia e al bottino. Probabilmente per questa ragione l’avanzata di Alessandro in Asia si tramuta in una marcia di conquista fulminea e travolgente, se consideriamo che, nel 331, soltanto quattro anni dopo lo sbarco nella Troade, egli può proclamarsi per diritto di conquista legittimo successore di Dario III, il Gran Re persiano da lui sconfitto. La vittoria gli pone in mano il piú smisurato monarcato della terra, che – sommando la Macedonia alla Persia, l’Europa all’Asia – si estende dal mare Adriatico al golfo Persico e dalla foce del Danubio a quella del Nilo. La guerra è sí di conquista, ma viene giustificata dagli apparati propagandistici come guerra di vendetta contro il monarcato degli Achemenidi, responsabile della distruzione di Atene avvenuta al tempo della seconda guerra persiana, al tempo delle Termopili e di Salamina, nel 480, circa centocinquanta anni prima. Le tappe della marcia vittoriosa e travolgente sono scandite da tre grandi battaglie: combattutesi al Grànico, a Isso, a Gaugamela. La prima, nella Troade, nel 334, assicura al Macedone il dominio sull’Asia Minore; la seconda, in Siria, nel 333, gli schiude la via verso la Fenicia e l’Egitto, che conquista l’anno appresso; la terza, in Mesopotamia, nel 70
iv. il figlio in asia, il fratello in italia
331, gli consente la vittoria definitiva sul Gran Re, permettendogli un riposo dorato nelle splendide e sontuose regge persiane di Babilonia e di Persepoli. Tre le battaglie, che resteranno paradigmatiche nei futuri manuali di strategia militare, dove alla geniale intuizione tattica del giovane e irruente condottiero, si affianca la solida capacità di manovra di Parmenione, il piú anziano tra gli ufficiali macedoni cresciuti alla scuola del re Filippo. Di fatto, Alessandro è l’arbitro assoluto dei destini della Persia già prima che l’armata del Gran Re, di nuovo ricostituitasi dopo Isso, si dissolva come neve al sole nel cuore della Mesopotamia affrontando le armi macedoni nella terza, definitiva e risolutiva battaglia di Gaugamela. Ma, prima di spingersi in Mesopotamia, nel cuore del regno di Persia, egli vuole completare il possesso di tutte le satrapie mediterranee, fino a impadronirsi dell’Egitto, dove fonda Alessandria – la prima delle tante città che prenderanno il suo nome – e di lí muove verso l’oasi di Siwah. L’iconografia del condottiero vincitore e del suo antagonista – il re che fugge, il re codardo – avrà ampia diffusione in tutto il mondo greco-mediterraneo, e perfino in occidente tramite i temi figurativi prescelti per ornare la ceramica di esportazione e la stessa suppellettile privata. Mentre Lisippo, che accompagna il Macedone nella sua marcia nell’Oriente, sarà sempre pronto a immortalarne ansia e tensione di conquista riconducendole alla fisionomia dell’eroe che sa scrutare anche oltre il reale. Abbiamo detto che già Filippo aveva programmato, e in parte dato avvio, a una spedizione in Asia, tra la Tracia l’Ellesponto e la Troade, per affermare ai danni della Persia la potenza della nuova Macedonia. Ora però Alessandro stravolge obiettivi e orizzonti di conquista, destinando la medesima spedizione militare a mutare le sorti del mondo. Ma, per indole, per abito culturale, per capacità stessa di concepire e di organizzare la conquista, immenso, quasi incolmabile, è lo scarto generazionale che separa il padre dal figlio! Lontanissima anche la loro sensibilità nell’intendere l’idea e la dimensione della regalità e nel rendersene partecipi. L’uno dilata oltre misura i confini della Macedonia, rimanendo il sovrano di uno stato a base tribale nel quale il trono è legittimato dal consenso di un’aristocrazia militare che supporta il potere e ne condivide le scelte operative. L’altro, Alessandro, è partecipe, già da subito, di una nuova identità che disvelerà in forma progressiva e sempre piú autocratica la propria vera 71
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natura accompagnandosi alle tappe vittoriose che scandiscono il divenire della irruente conquista. Di fatto un’identità ecumenica, che l’allontanerà senza appello – e talora traumaticamente – dagli orizzonti dell’eredità paterna, con un’incidenza che si delinea martellante, e talora ossessiva, a partire dalla giornata di Isso. Alessandro costringe allora il Gran Re a combattere su fronti invertiti perché la grande armata nemica l’aveva superato per altra strada, spingendolo cosí a tornare sui propri passi e ad affrontarlo là dove il suo genio lo consigliò di serrarla a ridosso di una strettoia della Siria costiera, tra il mare e le prime colline. In una località che all’armata persiana intralciò la manovra e il corretto schieramento dei reparti. Il Gran Re, sconfitto, fuggí verso l’interno, verso la Mesopotamia, mentre abbandonava la propria famiglia – pegno di inestimabile valore – nelle mani del vincitore. Il quale, con la vittoria, diviene ormai l’arbitro assoluto dei destini della Persia già prima della terza e definitiva battaglia di Gaugamela che vedrà l’armata nemica, demoralizzata, dissolversi sul campo, abbandonando, fuggiasco, il grande monarca dell’Asia al suo destino.1 2. Il Molosso in Occidente Siamo nel 333 con la battaglia di Isso, nel 331 con quella di Gaugamela; negli stessi anni il Molosso guerreggia con successo nell’Occidente italiota e italico, dove era venuto in armi raccogliendo un invito di Taranto. La quale è sí ancora una città florida e ricca, ma non dispone di un’autonoma forza di difesa, né tanto meno di un collegio di strateghi di professione: capaci di reclutare e guidare armate mercenarie. La sua apparente prosperità è quindi assai precaria, e, per difenderla, non può che sollecitare per la seconda – e non ultima – volta un intervento esterno, tenendo conto della mutata situazione politica determinatasi in Grecia con la battaglia di Cheronea e la koinē eirēnē imposta da Filippo. 1. Vd., per un inquadramento generale sulla grande avventura di Alessandro, ovviamente passim, Droysen 1833; Radet 1974; Tarn 1950; Griffith 1966; Seibert 1972; Schachermeyr 19732; Hamilton 1973; Lane Fox 1981; Levi 1977a; Levi 1977b; Briant 1980; Hammond 1981; Wirth 1985; Green 1991; O’Brien 1992.
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Dopo questi eventi non esiste piú, o sta agonizzando, la grecità delle póleis, sia in ambito metropolitano sia per consunzione nelle terre dell’Occidente, dove i suoi presunti soccorritori non possono che essere degli edificatori di imperi. Il cui esempio ora non è piú neppure il re Filippo, bensí il suo grande successore. È, questo, un dato fondamentale per comprendere l’avventura del Molosso, che viene in Italia, chiamato da Taranto, nel 334, o nel 333, all’alba dunque della spedizione orientale del nipote e cognato Alessandro. La tradizione, confluita in Giustino (xii 2 1), prospetta teatralmente una correlazione tra le spedizioni dei due Alessandri, del Macedone e dell’Epirota, quasi fossero, sia in Oriente sia in Occidente, artefici predestinati di un medesimo programma di conquista: Inoltre Alessandro, re di Epiro, invitato in Italia dai Tarantini che invocavano il suo aiuto contro i Brettî, era partito con cosí grandi ambizioni, come se, nella spartizione del mondo, ad Alessandro, figlio di sua sorella Olimpiade, fosse toccato in sorte l’oriente e a sé l’occidente; era convinto, infatti, che avrebbe avuto occasione non minore di imprese, in Italia e in Africa e in Sicilia, di quanta la sorte ne riservava a suo nipote in Asia e in Persia.
Olimpiade, madre dell’un Alessandro e sorella dell’altro, è ritratta dall’autore quasi fosse essa stessa cerniera tra l’Oriente e l’Occidente. Gli stilemi del racconto rimandano ai canoni della storiografia drammatica, ma non è, questa, tradizione da respingere, o da respingere totalmente. Numerosi indizi inducono, infatti, a ritenere che Alessandro, dall’Asia, abbia meditato a piú riprese, e con crescente interesse, anche sul mondo della Magna Grecia e dell’Occidente punico ed etrusco. Regioni e aree geografiche dalla cui mancata conquista trae spunto nell’immaginario collettivo il mito dei suoi incompiuti progetti occidentali,2 che, con circolarità mediterranea, riconducono tutti, sulla via leggendaria del ritorno, a un transito dell’eroe attraverso il canale di Otranto, che è traiettoria di collegamento tra Magna Grecia e Grecia, tra due opposti comprensori geografici, perché di lí in Epirum brevis cursus est. Ciò nonostante, pur non inficiandone la coloritura universalistica, altri 2. I termini del problema e una riflessione sull’avventura del Molosso in Braccesi 2006, pp. 54 sgg. e 43 sgg.
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sono pure i fattori, decisamente epiroti, che hanno influito sulla spedizione del Molosso, e non escluderemmo che la sua azione, ancora una volta, sia avvenuta in totale sintonia di finalità e di prospettive con Olimpiade. Infatti, al di là del miraggio della conquista ecumenica vagheggiato da Alessandro, e da lui condiviso, incentivo piú concreto per il Molosso, che muove dall’Epiro, è il proprio personale proponimento di espandersi al di là del mare di casa, al di là dello spazio adriatico. Obiettivo portante ne doveva essere il controllo esclusivo e totalizzante del canale di Otranto, quasi volesse unirne le due sponde con un immaginario ponte, che altri poi vagheggerà di costruire. L’una, l’epirota, era già sotto il proprio dominio, l’altra, l’apula, lo doveva diventare. Non solo, ma doveva anche garantirsi, presso il Gargano, il controllo del “terminal” della seconda porta di accesso all’Occidente – lungo la rotta, la cosiddetta rotta “micenea” – che si dipartiva dall’illirica Cattaro.3 Qui al Gargano, un’ideale congiunzione all’Epiro, quasi un suo prolungamento transmarino, era offerta dalla diffusione della leggenda troiana, tramite la memoria di sventurati personaggi femminili o di una toponomastica che riattualizzava il ricordo di una patria che non era piú. Da un lato, in Epiro, la figura dolente di Andromaca, la vedova di Ettore, e, d’altro lato, al Gargano, la cultualità offerta dalle fanciulle della Daunia alla sventurata Cassandra, la sorella dell’infelice Polissena del cui nome si era fregiata la stessa Olimpiade. L’inascoltata profetessa, divenuta protettrice di vergini, parlando in prima persona nell’omonimo poemetto di Licofrone (Alex., 1128-30), ci informa che « i re dauni » le alzeranno un tempio « del Salpe sulla riva » e « un altro gli abitanti della rocca / di Dárdano, là presso la palude ». Il toponimo rimanda a Troia, cosí come a Troia rimandano in tutta la tradizione la « Porta Scea » dell’epirota città di Butroto, che per Virgilio (Aen., 3 350) è un’altra « Pergamo ». Punto ideale di raccordo tra Olimpiade e il Molosso, suo fratello, per un loro comune interesse verso l’Occidente, verso la costa italica prospiciente il mare di casa, era con tutta probabilità costituito dal santuario profetico di Zeus a Dodona, cuore pulsante dell’Epiro. Dove le lamelle oracolari del dio ci testimoniano la proiezione della casta sacerdotale ver3. Vd. Braccesi 2014/a, pp. 11 sgg. e 68 sgg.
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so interessi di marca occidentale, con le molte risposte ai naviganti circa quesiti nautici sulle rotte e sugli approdi dell’Adriatico; come ci dice l’ampia ricorrenza di loro forme verbali del tipo emporeuein o plein, le quali, seppure con differenti stilemi, indicano entrambe l’andare commerciando per mare.4 Era, quella dello Zeus di Dodona, una consultazione interessata all’esplorazione e alla conoscenza della periferia settentrionale del Mediterraneo, una consultazione nella quale il responso del dio – prima di essere trascritto – si esprimeva attraverso lo stormire delle fronde di querce parlanti, di prosegoroi drues. Quindi attraverso un tramite arboreo che doveva essere particolarmente gradito e confacente allo spirito di Olimpiade, partecipe della cultualità boschiva di menadi e baccanti. Al di là di altre considerazioni che, per mostrare il nesso di Olimpiade con Dodona, ci porterebbero a ricordare come il santuario epirota avesse origini coincidenti con quello libico di Zeus-Ammon nell’oasi di Siwah. Un dio, non a caso, del quale Alessandro si dichiara progenie e come tale si effigia, con le lunate corna di ariete, anche sulle monete! Pure il Molosso, come la sorella, parrebbe poi devoto della cultualità dodonea e rispettoso dei suoi oracoli, se Livio (viii 24 2) afferma che aveva saputo dall’oracolo di Zeus a Dodona di guardarsi, pena la vita, « dall’acqua dell’Acheronte e dalla città di Pandosia ». Fiume e località che egli ritiene presenti soltanto in Epiro, mentre, con la morte, li incontra in Italia allorché si trincera « non lontano dalla città di Pandosia » (viii 24 5) e guada un torrente in piena che un soldato gli dice nominarsi proprio « Acheronte » (viii 24 11). Olimpiade non è solo la madre di Alessandro, ma anche la vedova di Filippo, che, prima della sanguinosa rottura con il consorte, ne aveva condiviso e secondato le scelte politiche. Non è quindi da escludersi che ella abbia plaudito alla spedizione occidentale del fratello vedendovi una sorta di attuazione delle raccomandazioni di Teopompo. Il quale, nell’Enco mio di Filippo (FGrHist, 115 F 256), aveva esortato il suo re a regnare « anche 4. In merito alle lamelle oracolari del celebre santuario di Zeus a Dodona (SEG, xlii 1993, 331-338) che testimoniano risposte a quesiti nautici sull’esplorazione dell’Adriatico, offre una puntuale documentazione Prestianni 2002, pp. 123 sgg. Vd. anche, in prospettiva piú ampia, Vokotopoulou 1992, pp. 63-90, e De Sensi 2011, pp. 361 sgg.
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su tutta l’Europa », kai tēs Eurōpēs pasēs basileusei, cioè oltre il mondo balcanico e al di là dell’Adriatico. Sicché mentre il coniuge nell’ultimo scorcio della vita e il figlio poi guardano a oriente, seppure in differente prospettiva, è legittimo pensare che ella guardi a Occidente in consonanza “geografica” con la sua patria epirota. Ma torniamo alla storia evenemenziale. Non molto sappiamo della campagna di guerra del Molosso; ma quanto basta per concludere che la sua adesione all’alleanza con Taranto è stata motivata da un pretesto per una personale politica di conquista.5 Il quadro di insieme che si evince dalle narrazioni di Livio (8 24) e di Giustino (12 2), seppure frammentato e avaro, è molto meno contraddittorio di quanto a prima vista possa apparire. Il Molosso, anzitutto, combatte i Messapi e i Peucezi arrivando fino ad Arpi e a Siponto in area garganica; poi, volgendosi a meridione, sconfigge i Lucani, liberando Eraclea che, di nuovo in mano greca, torna a essere la capitale della Lega Italiota. Per la sopravvivenza di Taranto l’intervento è piú che sufficiente. Ma il Molosso non si ferma qui. Si sposta quindi sull’Italia tirrenica, dove, nei pressi di Posidonia, batte i Sanniti coalizzatisi in lega con i Lucani. Poi, voltosi a meridione, si scontra vittoriosamente contro i Brettî, espugnandone la capitale Cosenza e liberando Terina. Diviene cosí padrone di tutta l’Italia meridionale, a sud dei promontori del Gargano e di Sorrento, avendo due basi navali a Siponto e a Terina, sull’Adriatico e sul Tirreno. Non appare, in definitiva, ai contemporanei meno vittorioso del grande nipote che in quei medesimi anni combatte in terra di Asia. All’apice di tanto successo il Molosso sigla un trattato di “amicizia” con Roma, che si affaccia ora, per la prima volta, sul Mezzogiorno della penisola lottando pure essa contro i Sanniti. Ragione che spinge anche l’Urbe al foedus ami citiaque, come attesta Giustino (xii 2 12) e già l’abbiamo ricordato. Medita quindi di passare in Sicilia e in Africa, per proseguire la sua guerra di conquista, per combattere contro i Cartaginesi sia nell’isola sia al di là dal mare. Ma l’inattesa quanto improvvisa defezione di Taranto sconvolge i suoi piani. La città, che ne ha sollecitato l’intervento in Italia, pa5. La ricostruzione che qui si propone dipende da quanto già abbiamo scritto in altra sede Braccesi 2006, pp. 43 sgg.
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venta ora la sua troppa potenza e lo priva del suo appoggio proprio quando egli, al vertice del successo, accarezza piú grandiosi progetti di conquista. Il Molosso si vede costretto a porsi sulla difensiva, e sfrutta a proprio vantaggio i conflitti insorti all’interno del mondo lucano, che, per un troppo rapido espansionismo, è in fase di profondo fermento. Ma, fermandone la corsa e la vita, un profugo lucano l’uccide a tradimento nel 330, mentre si sforza di sfuggire all’accerchiamento delle forze congiunte dei Lucani e dei Brettî che l’avevano vinto a Pandosia, presso Cosenza, nell’alta valle del Crati. Livio (viii 24 13-14), dipendendo di necessità da una colorita fonte ellenistica, cosí ne drammatizza la fine: [Il Molosso] si aperse la via attraverso i nemici e, affrontato in proprio il comandante dei Lucani, lo uccise. Quindi, raccolti i suoi che si erano dispersi nella fuga, giunse a un fiume, dove le rovine recenti di un ponte, travolto dalla furia delle acque, indicavano il cammino da seguire. […] Come il re voltosi indietro vide in distanza [i Lucani] muovere contro di lui in schiera serrata, impugnò la spada e spinse il cavallo in mezzo ai vortici del fiume. Quando già aveva posto piede sulla riva opposta, un profugo lucano gli scagliò di lontano un giavellotto trapassandolo: caduto con l’arma infitta nel corpo, la corrente ne portò il cadavere in mezzo agli avamposti nemici, dove fu orrendamente mutilato.
3. La prima fuga di Arpalo Tale la fine del Molosso, e certo per Olimpiade non saranno state sufficienti le notizie sulle incredibili vittorie del figlio per consolarla della morte del fratello, che ella aveva protetto quando era bambino, poi traslocato in Macedonia, quindi aiutato ad assidersi sul trono di Epiro, in seguito accasato con la figlia Cleopatra, infine reso partecipe – e quasi complice – delle sue trame violente volte ad assicurare al figlio il trono di Macedonia. Una domanda si impone spontanea. Ci sono documentati rapporti epistolari tra la Macedonia e la Magna Grecia, tra Olimpiade e il Molosso? Apparentemente no, ma se scaviamo piú a fondo nella nostra documentazione possiamo forse trovare un contatto tra i due che potrebbe incentrarsi sulla controversa figura di Arpalo, l’amico e tesoriere di Alessandro. La cui vicenda avventurosa si salda alla ribellione – piú o meno latente – dei satrapi nominati da Alessandro perché convinti che egli giammai sa77
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rebbe ritornato indietro dall’India, dove giunge al termine dell’inarrestabile marcia di conquista. Anche Arpalo, come i governatori ribelli, aveva ampiamente tralignato dai propri doveri, dilapidando abbondantemente sostanze non sue. Ragione per cui, nel 324, quando il suo signore rientra a Babilonia, temendone il giusto castigo, ripara ad Atene con una cospicua somma di denaro predata al tesoro reale, con cui subito corrompe i politici locali, anche di opposta fede politica, per garantirsene l’appoggio. Situazione confusa nella quale la fazione democratica si spacca, ottenendo la testa di Demostene che, dopo una pubblica condanna, è costretto all’esilio.6 Con riferimento a questa vicenda Diodoro (xvii 108 7) racconta che Olimpiade e Antipatro, il reggente di Macedonia, richiedono la consegna, e quindi l’estradizione, di Arpalo: « Antipatro e Olimpiade pretesero la sua consegna ed egli, dopo avere elargito molto denaro agli oratori che parlavano al popolo in suo favore, fuggí e riparò al capo Tenaro presso i suoi mercenari ». La critica7 però dubita dell’esattezza della notizia, giacché sappiamo da una fonte contemporanea agli eventi, cioè dalla requisitoria di Iperide contro Demostene, che la richiesta di estradizione fu invece avanzata da Alessandro, avendo per tramite Filosseno, il governatore della Cilicia preposto al comando della flotta mediterranea. Esplicita la parola dell’oratore (i, fr. 3, viii): Quando, signori giudici, Arpalo giunse nell’Attica, e gli inviati di Filosseno, che richiedevano la sua estradizione, furono, contemporaneamente, introdotti davanti al popolo, allora Demostene […].
A quanto detto possiamo aggiungere ancora che, per la sua cronologia, la notizia diodorea non è immune da sospetti. Infatti, è scarsamente credibile nel presupporre, circa la richiesta di Arpalo, un’unità di intenti tra Olimpiade e Antipatro. I due, nel 324, non potevano agire all’unisono dato che, a partire dal 330, i loro rapporti erano diventati sempre piú tesi come ci testimonia – e avremo occasione di mostrarlo – la corrispondenza intercorsa tra Olimpiade e il figlio. La madre di Alessandro, peraltro, in 6. Sempre fondamentali su Arpalo le considerazioni di Badian 1961, pp. 16 sgg. 7. Informazioni in Marzi 1977, p. 123.
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aperto contrasto con Antipatro, si trasferisce per lunghi intervalli nel natio Epiro, delegando alla figlia Cleopatra, la vedova del Molosso, il compito di sorvegliare e controllare in Macedonia le mosse del reggente, stando almeno a ciò che possiamo dedurre da Plutarco (Alex., 68 4). Quanto abbiamo detto induce a sospettare che Olimpiade e Antipatro abbiano sí avanzato la richiesta di consegna di Arpalo, ma non nel 324, bensí in altra occasione, da datare prima del 330, quando la madre di Alessandro e il reggente di Macedonia erano ancora in rapporti collaborativi. Ma esiste davvero una siffatta congiuntura che, nel divenire degli accadimenti, ci prospetti un’analoga situazione, e per giunta con la necessaria coincidenza temporale? A ben vedere, scavando in profondità, la risposta non può essere che affermativa. Arriano (iii 6 7), infatti, riferisce di una stravagante, quanto immotivata, fuga di Arpalo dal campo di Alessandro nell’imminenza della battaglia di Isso: « Arpalo, corrotto da Taurisco, uomo malvagio, era fuggito con lui. Taurisco, diretto in Italia presso Alessando l’Epirota, là morí; Arpalo, viceversa, era fuggito nella Megaride ». Ciò di per sé è strano, ma ancora piú strano se consideriamo che il transfuga fa poi ritorno in Asia, presso Alessandro, che – narra sempre Arriano – « lo convinse al rientro, dandogli garanzie che non avrebbe subito sanzioni per la sua fuga ». E non solo nulla di spiacevole gli accadde, ma, sbalorditivamente, è di nuovo « preposto al tesoro », cioè alla custodia della cassa reale. L’anno è il 333, e l’unico modo per spiegare la fuga e la “controfuga” di Arpalo è nel pensare che, se Alessandro lo riammette presso di sé, avesse preventivamente concordato con lui la messa in scena di una simulata defezione. Altrimenti non lo avrebbe reintegrato in un ufficio tanto delicato. Mai dobbiamo giustificare il “prima” con il “dopo”; in questo caso, con la fuga di Arpalo ad Atene, nel 324, con il denaro depredato al suo signore. Non possiamo pertanto esimerci da una serie di domande piú che legittime. Fu quella di Arpalo una missione segreta? Taurisco fu davvero un disertore e Arpalo un proprio complice? O, viceversa, la tradizione del loro proditorio comportamento fu soltanto funzionale a mascherare, appunto, la copertura di una missione segreta? Ma quale poi il movente del tutto? Quello di introitare denaro dal Molosso, nel 333 vincitore su ogni fronte, o di rimpinguare le sue casse? Ovvero quello, assai piú delicato, di 79
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spiarne le mosse? Il che spiegherebbe la simulazione della “fuga” dei due dal campo di Alessandro. Ma, in tal caso, si porrebbe un’altra, e per noi piú rilevante, domanda. Approdò in Magna Grecia il solo Taurisco o vi giunse in compagnia di Arpalo? La testimonianza di Arriano non esclude, infatti, una tale eventualità, giacché specifica che Taurisco muore in Magna Grecia, mentre Arpalo invece fugge « nella Megaride ». Orbene, è legittimo il dubbio che i due fuggitivi, o presunti tali, non abbiano subito diversificato i loro itinerari e che, giunti entrambi in Italia, l’uno vi sia deceduto e l’altro sia quindi fuggito nella città di Megara. Arpalo, in questo secondo caso, avrebbe abbandonato l’Occidente sia perché non aveva piú costrutto sostarvi dopo la disfatta e la morte del Molosso, sia, se dileguatosi in età anteriore, perché caduto in disgrazia presso di lui. Una siffatta ricostruzione degli eventi sposta piú correttamente dal 324 al 333 la data della richiesta di estradizione di Arpalo. L’iniziativa molto probabilmente parte da Olimpiade, la quale però, sotto il profilo formale, non può ovviamente agire senza coinvolgere Antipatro. Ma quale il movente della sua richiesta? Crede anche lei che Arpalo abbia disertato da Alessandro? Nel caso, invece, che intuisca che si tratti di una missione segreta, non pensa anche lei a una missione volta a spiare le mosse del Molosso? In questo caso, meglio avvertirlo e insieme avanzare una richiesta ufficiale di estradizione per Arpalo e Taurisco prima che possano scoprire un qualcosa che, agli occhi del figlio, comprometta il fratello, che, oltretutto, già si era compromesso offrendo loro ospitalità. Si spiegherebbe cosí perché l’uno dei due “ospiti” prenda il volo per Megara e l’altro deceda, probabilmente perché tolto di mezzo. Se ha senso quanto abbiamo detto, la conclusione non è irrilevante, perché la richiesta di Olimpiade costituisce l’unica testimonianza, che ci sia data rintracciare, di suoi rapporti con il Molosso al tempo della sua sfortunata spedizione in Occidente. 4. Il corpo del Molosso Livio (viii 24 17) informa che dopo lo scempio del cadavere del Molosso le sue ossa furono rimandate ai suoi a Metaponto, donde furono avviate verso l’Epiro presso i parenti piú prossimi: « Le ossa poi furono riman80
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date ai nemici a Metaponto, e di qui avviate in Epiro presso la moglie Cleopatra e la sorella Olimpiade, l’una madre, l’altra sorella del grande Alessandro ». Olimpiade qui, nella memoria postuma, è ricordata con orgoglio al centro di un trittico familiare, ed è epicentro tra i due Alessandri, l’invitto e lo sconfitto, ella che è sorella del morto re e madre della sua consorte Cleopatra, nonché di Alessandro, di cui la medesima Cleopatra è, a sua volta, sorella. La parentela della famiglia si avvita al femminile intorno a Olimpiade, e le due donne in gramaglie si riflettono nella luce e nell’immagine del Macedone, del quale mater magni Alexandri altera, soror altera fuit. Livio nel prospettarci il quadro familiare rispecchia un comune sentire: la madre, nella tradizione, non solo è indissociabile dal figlio, ma anche dal fratello, come bene si percepisce da Diodoro (xix 51 6) che, commiserandone la morte, la menziona sí come moglie di Filippo e madre di Alessandro, ma pure quale « sorella di Alessandro che aveva combattuto nell’Italia greca », adelphē de Alexandrou tou strateusantos eis Italian. Espressione doppiamente significativa: sia per sottolineare un indissolubile legame familiare, sia per connotare il Molosso come comandante di una spedizione che, per quanto sfortunata, ebbe ampia risonanza nella sua età. Giustino (xii 2 15) segue rispetto a Livio un’altra tradizione, e ci dice che i Thurini riscattarono a spese pubbliche il corpo del Molosso, e quindi « lo fecero seppellire ». Orbene, se dopo la dipartita del Molosso, il suo corpo fu « orrendamente mutilato », la sua restituzione non presupponeva una salma integra, bensí frammenti della medesima, già smembrata in piú parti. Cosí stando le cose, non ci dobbiamo sforzare di scegliere tra Livio e Giustino la versione piú attendibile, ovvero tra Thuri o Metaponto o l’Epiro la località piú probabile quale estrema dimora del re epirota. Piú che a tradizioni contrastanti, dobbiamo pensare a tradizioni che riflettono versioni sí incomplete, ma probabilmente tutte veritiere, giacché piú frammenti di un medesimo cadavere, dilaniato e smembrato, potrebbero essere stati incanalati verso differenti destinazioni, assolvendo alla funzione di oggetti di reliquia in piú luoghi distanti tra loro. Siamo nell’inverno del 330, e la comunicazione della morte del Molosso giunge ad Alessandro, che è nel cuore dell’Asia, nell’estate del medesimo anno, trasmessagli da Antipatro insieme ad altre notizie contempora81
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nee pertinenti accadimenti di Grecia e di Tracia, come informa Giustino (xii 1 4). Se non è una coincidenza, è di rilievo segnalare che nella medesima estate del 330 il Macedone richiede ad Arpalo l’invio di alcuni libri, nel cui elenco figurano le opere del siracusano Filisto. Cioè, del piú agguerrito storico dell’occidente, elaboratore della stessa ideologia di conquista di Dionigi il Grande, nonché uomo d’armi che aveva intrattenuto rapporti di personale amicizia con la dinastia epirota dei Molossi.8 La notizia, che è reputata attendibile,9 ci è riferita da Plutarco (Alex., 8 3). Ma perché tanto rilievo è da lui accordato a Filisto? Non solo perché è storico della tirannide, non solo perché è massimo elaboratore di ideologie monarchiche, ma, anzitutto, perché è storico dell’occidente. Dalle regioni piú interne dell’Asia Alessandro pensa dunque all’Italia e alla Sicilia, e per questa ragione chiede che gli venga inviata l’opera di Filisto. La cronologia è illuminante! Siamo all’incirca sei mesi dopo la sconfitta del Molosso, avvenuta nell’inverno dello stesso anno. Cioè, giorno piú, giorno meno, quasi in contemporanea con la ricezione della notizia della sua morte. La reazione alla notizia è il pensiero di una vendetta da consumarsi sulla medesima scena della sua tragedia? Non lo possiamo escludere. In tal caso, saremmo di fronte alla prima scintilla del progetto di conquista in chiave universalistica anche delle regioni dell’Occidente mediterraneo, progetto reale ma di necessità irrealizzato per la morte improvvisa del figlio di Olimpiade. Un’ultima osservazione. Colui che è incaricato di fargli recapitare, con altri libri, l’opera di Filisto è Arpalo. Ciò prova – l’abbiamo supposto – che i rapporti di amicizia tra Alessandro e lui mai si fossero interrotti, che la sua presunta diserzione fosse stata concepita come espediente depistante e che, se in effetti fuggiasco dall’Italia, fosse approdato in Grecia, nella Megaride, già prima della morte del Molosso.
8. Documentazione in Braccesi 19772, pp. 192 e 211 sgg. 9. Vd. Sordi 1992, pp. 104 e 147.
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V SIGNORA DELL’EPIRO 1. Dalla Macedonia all’Epiro La data della morte del Molosso coincide, in Atene, con quella del processo per la corona che vede schierati su fronti opposti due eccelsi oratori di chiarissima fama: Demostene ed Eschine. L’uno difende il proprio operato politico che otto anni prima aveva portato la città allo scontro contro Filippo e alla disfatta di Cheronea. L’altro, Eschine, accusa Ctesifonte di illegalità per avere proposto di onorare Demostene con l’attribuzione di una corona. Nel corso del dibattimento quest’ultimo (iii 242) ricorda al l’accusato: « di avere accettato poco prima di essere eletto ambasciatore presso Cleopatra, figlia di Filippo, per porgerle le nostre condoglianze per la morte di Alessandro, re dei Molossi ». Condoglianze non disinteressate, giacché ad Atene forse viveva ancora l’esule re epirota Ariba e sicuramente i suoi figli Eacide e Alceta, ed era interesse della città riaprire un dialogo diplomatico con la vedova del Molosso per reintegrare sul suo trono il deposto sovrano, o piú probabilmente uno dei suoi figli. Riallacciando cosí con la dinastia molossa gli ottimi rapporti di amicizia che aveva sempre intrattenuto e che l’avevano indotta a onorare pubblicamente Ariba con una decreto (GHI, 173) che assicurava all’esule e ai suoi figli la protezione e l’aiuto di Atene. Ma il vagheggiato processo di restaurazione naufraga dinnanzi all’incrollabile volontà di Olimpiade di assidersi in proprio sul trono del fratello. Ella, come riconosce l’oratore attico Iperide (Eux., 25), non certo tenero nei suoi confronti, è « la sovrana del paese, la Molossia », ē chōra eiē ē Molottia hautēs. Cosa peraltro confermata da un’iscrizione di Cirene (GHI, 196) che, nel 330, anno di carestia, registra i quantitativi di grano inviati dalla città a quasi tutte le città o comunità statali del mondo greco. Qui, a indicare l’Epiro, si nominano semplicemente solo Olimpiade e Cleopatra, l’una destinataria di 6000 medimni di cereali, l’altra di 50.000. Di fatto, essendo donna, Olimpiade, in associazione o meno con la figlia, esercita – a quel che pare – una sorta di coreggenza in nome del suo 83
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giovane cugino e nipote Eacide,1 figlio di Ariba e padre di Pirro. Cosí parrebbe evincersi da Pausania (i 11 3), in una testimonianza ai nostri fini anche ulteriormente interessante: « E piú tardi – morto Alessandro figlio di Neottolemo tra i Lucani e rientrata in Epiro Olimpiade per timore di Antipatro – Eacide, figlio di Ariba, si mostrò in tutto a lei sottomesso ». Il Molosso e Cleopatra avevano sí avuto un figlio, Neottolemo, ma nato appena nel 332,2 e quindi, essendo infante, ineleggibile come re dall’aristocrazia guerriera. Il trono torna cosí alla famiglia di Ariba nella persona di Eacide, un parente certamente debole e, con assoluta probabilità, designato o favorito nella successione dalla stessa Olimpiade per esserle « sottomesso ». L’anno è il 330, e la tradizione alla quale attinge Pausania ci dipinge già in crisi i rapporti tra Antipatro, il reggente di Macedonia, e la madre di Alessandro, al punto da ravvisarne la causa del suo trasferimento in Epiro. È senz’altro vero che le relazioni tra i due fossero in crisi, ma altre sono le ragioni piú vere che inducono la regina a traslocare presso la figlia in terra di Epiro: quali la pressante necessità di seguitare a esercitare la propria influenza – privata e politica – sulla patria natia, di non abdicare dal controllo del santuario di Dodona e di non rinunziare (perché no?) ad allungare lo sguardo verso la costa dirimpettaia al mare di casa. Forse sapendo, o presagendo, che il figlio, arma Asia perdomita, avrebbe forse indirizzato a occidente lo slancio verso nuovi orizzonti di conquista. Ciò non toglie che il ritiro in Epiro si accompagni al deteriorarsi dei rapporti con Antipatro, come dimostra la corrispondenza tra Alessandro e la madre, di cui diremo, e come testimoniano autori fededegni, quali Giustino e Plutarco. Il primo (xii 14 3) ricorda che il reggente « era attaccato con diverse accuse anche dalla madre del re, Olimpiade », che certo non aveva un carattere accomodante. Il secondo (Alex., 68 4) ci dice addirittura che Olimpiade e Cleopatra « si ribellarono ad Antipatro » quando tutti paventavano che Alessandro non avrebbe piú fatto ritorno a Babilonia dall’India e dalle estreme periferie dell’Oriente.
1. Vd. in generale, per un inquadramento della storia epirota, Hammond 1967, passim. 2. Ivi, p. 154.
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2. Olimpiade e il sacro Abbiamo detto che Olimpiade, già da giovinetta, era profondamente attratta da forme del sacro; allora piú vicine alla natura vegetale e alla cultualità dionisiaca, poi, per il presunto concepimento divino del figlio, piú prossime alle manifestazioni di religiosità tradizionale legate a Zeus, che l’avrebbe posseduta nel talamo di Filippo. Tra l’irrazionalità dionisiaca e la sacralità olimpica e razionalizzante di Zeus il nesso le era offerto dalla pratica e dalla frequentazione di serpenti addomesticati, da un lato attributi delle menadi e delle baccanti e, d’altro lato, involucri corporei trascelti dal dio che l’aveva fatta sua per occultare la propria immagine radiosa. Il dio non solo è Zeus, ma è il libico Zeus-Ammon, di cui Alessandro si dichiara progenie, effigiandosi, a somiglianza del dio, con ricurve corna di ariete. Tradizione, questa relativa al dio libico, donde si sviluppa il fulcro base delle molte leggende sul concepimento del figlio di Olimpiade confluite nel Romanzo di Alessandro.3 Un dio, quello venerato nell’oasi di Siwah, il cui santuario ha però – teste Erodoto (ii 54-57) – origini coincidenti con quello epirota di Dodona.4 Sicché lo Zeus che si congiunge con Olimpiade nelle mentite forme di un serpente è un dio che assomma – l’abbiamo già ricordato – entrambe le divinità venerate nei due santuari. Ciò spiega la profonda devozione di Olimpiade verso lo Zeus dodoneo, che, per proprietà transitiva, è il dio medesimo che l’ha posseduta per concepire Alessandro. Devozione che ancora piú si consolida allorché ella, come dice Iperide, diviene sovrana del paese. Oratore che altresí consente di percepire tale possessiva religiosità delle regina verso lo Zeus di Dodona, allorché un responso del dio viene a ordinare agli Ateniesi « di ripristinare la statua di Dione », originaria compagna del re degli dèi poi eclissatasi per cedere a Hera la sua luce e il suo ruolo. Il compito è da loro assolto in una forma esemplare, apponendo una nuova e preziosa maschera all’arcaico xoanon della dea, rivestendola di « un abbigliamento ricco e sontuoso », offrendole sacrifici da parte di un’apposita ambasceria della città. Ma, nonostante tale pio ossequio, 3. Introduce al problema Centanni 1991, pp. xxvi sgg. 4. Vd. Braccesi 19772, pp. 175 sgg.
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Olimpiade se ne duole, affermando, come scandisce l’oratore (Eux., 2426): « che noi [Ateniesi] non avevamo il diritto di toccare là neppure una cosa che fosse una ». Tale è l’attaccamento della regina al santuario di Dodona da non permettere ad alcuno di toccare le statue degli dèi e gli arredi del culto senza il suo permesso, anche se comandato di farlo da un responso divino. La testimonianza è piú che eloquente. A stare alla costruzione della propria immagine, lo Zeus di Dodona si sarebbe giaciuto con lei, e l’unico tramite tra il dio e il gregge umano deve avvenire per suo tramite. Prosegue poi l’oratore nella sua arringa, ricordando con ironia all’uditorio che alla regina nessuno aveva vietato di abbellire in Atene le immagini degli dèi: « se è permesso a Olimpiade di ripristinare gli arredi sacri in Atene, a noi [Ateniesi] non sia vietato di fare altrettanto in Dodona, e per di piú in ossequio all’ordine del dio ». Di fatto, Olimpiade si era limitata a offrire una « coppa » alla « statua di Igea », come ricorda sempre Iperide (Eux., 19). La divinità, dea della salute, era connessa, già a partire da questa età, con il culto di Asclepio, del quale era considerata figlia e, in quanto tale, era raffigurata stante in atto di abbeverare con una coppa il serpente sacro al dio. Rettile che, non a caso, era anche l’attributo di Olimpiade, anch’essa dedita a pratiche salutifere come raccoglitrice di phármaka. La statua, situata sull’acropoli, era opera di un artista assai celebre, il cui nome, Pirro, attestatoci – oltre che da Plinio (nat., xxxiv 19) – dall’epigrafe apposta sulla sua base marmorea, può avere sollecitato l’attenzione della regina perché lo stesso del mitico progenitore degli Eacidi. Cosí, seppure in forma dubitativa, la critica.5 Ma, se è vero che l’offerta votiva è apposta come rendimento di grazie per la guarigione di Alessandro infermo presso Tarso,6 la spiegazione della scelta della statua, non tanto attiene alla connotazione salutifera di Igea, quanto al suo posizionamento sull’acropoli. Per vendicare la cui distruzione, di centocinquanta anni prima, Alessandro aveva mosso guerra alla Persia, rischiando la vita nel corso della campagna militare. Contro Eusenippo, difeso da Iperide, gli accusatori citavano il suo ruo5. Cosí De Falco 1947, p. 94. 6. Ibid.
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lo attivo nell’esaudire il voto di Olimpiade, bollandolo come atto di servilismo e di complicità filo-macedone. L’oratore, seppure fieramente schierato sul fronte democratico, è pur sempre un avvocato, e qui, difendendo il suo cliente, ha buon gioco nel dire (Eux., 19) che non bisogna « approfittare del nome di Olimpiade e di Alessandro per cercare di nuocere a un concittadino ». Quanto, nelle briciole della nostra documentazione, siamo riusciti a percepire del rapporto tra Olimpiade e il sacro si materializza ancora di piú, e con un maggiore mordente, allorché, nel 324, Alessandro impone alla grecità di onorarlo quale vero e proprio dio. Circostanza in cui ci è dato intravedere, sempre attraverso frammenti di oratoria, e in questo caso avari e mutili, il ruolo di mediatrice da lei svolto tra il figlio e la città di Atene, governata dai soliti esponenti di parte democratica piú che riottosi ad accondiscendere alla richiesta del re macedone tramutatosi in “cosmocratore”, in signore del mondo. Ma quale la motivazione della richiesta di Alessandro? Quali i suoi destinatari? Non tanto i popoli dell’Oriente, da sempre avvezzi, per rifrangenza, a onorare nella persona del re la rivelazione terrena della divinità, quanto i Greci e i Macedoni. Per i quali il suo monito è un inequivocabile segnale politico. Egli, infatti, quale figlio di un dio, quale progenie di Zeus Ammon, non è piú vincolato ad assolvere ai compiti istituzionali della monarchia macedone, né, tantomeno, a rispettare i patti statutari della koinē eirēnē che, a Corinto, l’assoggettano all’assemblea federale degli Elleni. Altro non poteva essere l’approdo! Alessandro ormai vive solo nella dimensione del theos anikētos – del dio invincibile – e in essa si riconosce in tutti gli atti del nuovo corso, e in particolate nei messaggi perentori che indirizza al di là dell’Egeo. Cosí in Macedonia, dove impone la sostituzione del reggente Antipatro, non piú al passo con gli eventi. Cosí in Grecia, dove – in quanto tredicesimo dio – azzera la lettera dei patti federali di Corinto che l’impegnavano al rispetto dell’autonomia delle póleis. Ciò che la grecità né può né vuole accettare. Sparta, già sette anni prima, era inutilmente insorta contro il reggente di Macedonia sacrificando nella battaglia di Megalopoli le sue forze migliori. Atene ora, in forma velleitaria, si riarma per non dare corso alle imposizioni di Alessandro che ne avrebbero sovvertito l’asseto politico, abrogandone l’autonomia sancita dalle clau87
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sole statutarie dei patti di Corinto, cui, come dio, non è piú disposto a sottostare. Sacrifica cosí in forma irreversibile la propria immagine di difensore della grecità sull’altare piú alto della creazione della monarchia universale. Nelle sue intenzioni il regno, sorto con la conquista, non deve conoscere né frontiere municipali né confini nazionali né rivalità tra popoli. Deve essere una compagine dai connotati soprannazionali e universali nel significato piú ampio del termine, dove neppure i vincitori, neppure i Macedoni, avrebbero avuto una posizione di privilegio.7 L’utopia era giustificata dalla smisuratezza di un impero che, nel 324, andava dal Danubio all’Indo e dall’Adriatico al Golfo Persico, e legittimata dal totalizzante orizzonte dei futuri progetti di conquista. In tale situazione materiale e psicologica dobbiamo calare l’iniziativa di rapporti diretti intercorsi tra Olimpiade e Atene, dopo che il messo di Alessandro a Olimpia, nel corso della grande solennità panellenica, aveva comunicato due ingiunzioni tassative dell’autocrate, di fatto correlate tra loro: la concessione degli onori divini alla sua persona e – poiché i patti si stipulano con gli uomini e non con gli dèi – l’abolizione della clausola della koinē eirēnē che garantiva l’autonomia delle póleis. Ciò che comportava il loro sovvertimento istituzionale con l’imposizione del rientro in patria dei banditi politici. A questa drammatica congiuntura politica possiamo riferire due testimonianze di Iperide che si illuminano a vicenda, a loro volta illuminandoci sui rapporti intercorsi tra Olimpiade e due esponenti ateniesi di parte democratica. L’uno è Demostene, l’altro Iperide, tra loro contrapposti prima sul problema della concessione degli onori divini ad Alessandro, poi sulla gestione – che il lettore già conosce – della contemporanea questione arpalica. Scrive dunque Iperide in due distinte orazioni, l’una di accusa per Demostene (i, fr. 8 xxxi-ii) e l’altra di discolpa per Eusenippo (Eux., 19-20): Allora, nell’assemblea del popolo, concedevi ad Alessandro, se l’avesse voluto, di essere figlio di Zeus o di Poseidone. Poi, all’arrivo [- -] volevi erigere una statua al
7. Per una piú approfondita discussione dei problemi qui cursoriamente richiamati all’attenzione, vd. Braccesi 2006, pp. 25 sgg.
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v. signora dell’epiro re Alessandro, il dio invincibile [- -] messaggio [- -] Olimpiade [- -] annunziò al popolo. Non bisogna […] approfittare del nome di Olimpiade e di Alessandro […], ma quando essi inviano messaggeri al popolo di Atene con ingiunzioni non giuste né conformi alla sua dignità, e allora che bisogna levarsi a protestare in favore della nostra città, difendere contro i loro inviati la causa della giustizia, e andare al concilio federale degli Elleni per tutelare gli interessi della patria.
Le parentesi quadre con i trattini indicano, nella prima testimonianza, le vistose lacune presenti nel papiro che ci conserva frammenti dell’orazione. Demostene, per guadagnare tempo, per evitare il rientro immediato in Atene dei banditi politici, si arrende – come male minore – all’idea di tributare onori divini ad Alessandro e di erigergli una statua come « dio invincibile », quando Olimpiade con un « messaggio » ne fa richiesta al « popolo ». Cosí almeno ci pare di dovere intendere confortati dalla seconda testimonianza che, in ottica diametralmente opposta, allude a « ingiunzioni non giuste né conformi » alla « dignità » della città. Alessandro è in Asia, Antipatro è (o sta per essere) esautorato e rimosso dall’incarico di reggente, e il dialogo con Atene ha per interlocutrice Olimpiade attraverso un filo diretto intrattenuto con Demostene, come parrebbe evincersi anche da un’altra testimonianza iperidea su cui in seguito soffermeremo l’attenzione. Il dialogo con Atene da parte della madre di Alessandro trova dunque per interprete, seppure strumentale, l’autore delle Filippiche, cioè colui che – ironia della sorte – era stato e rimaneva, pure con i molti compromessi rifiutati da Iperide, il piú accanito avversario della Macedonia;8 ma la politica è per sua natura mutevole e regolata da reciproche, temporanee, convergenze. Ella si rivolgeva ad Atene, non solo come signora dell’Epiro, ma anche come somma regolatrice di tutte le pratiche religiose attinenti la Macedonia, se è giusta la congettura9 – basata su Dessippo (FGrHist, 100 F 8) – che in questo ufficio, cioè nella prostasía, le sia subentrato solo nel 323 Cratero, 8. Ormai classiche, ma sempre da rimeditare, le considerazioni e le conclusioni di Treves 1933, passim. Un aggiornamento della problematica in Faraguna 1992, pp. 397 sgg. 9. Di Hammond 1979, p. 90.
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il compagno d’armi d’Alessandro che egli aveva delegato a succedere ad Antipatro. Dunque da Dodona ad Atene; tali le interferenze di Olimpiade nell’ambito del sacro che finiscono per coinvolgere direttamente anche la sua persona come madre di un « dio invincibile ». Il quale, quasi per disperazione esistenziale, finisce per credere nella sua genitura divina, come mostra il doloroso episodio di Clito. A Samarcanda, in una notte di baldoria, Clito, l’amico fedele, gli ricorda la gloria del padre terreno, di Filippo, come non certo inferiore alla sua, ed egli, punto sul vivo, non tollera sulla propria paternità la frecciata dell’amico e lo trafigge a morte, come ci narra Arriano (iv 8 2-9). La vulgata ufficiale dirà che Clito, che contesta il suo re, è ucciso in un accesso di follia, in una delle tante nottate di violenza e di ebbrezza sempre piú ricorrenti negli sperduti acquartieramenti del Macedone. Dirà che egli è ucciso, nella furia della polemica, da un Alessandro inconsapevole dei propri atti e immemore – fino al doloroso ritorno alla realtà – che l’ucciso fosse il piú caro dei suoi compagni. Dirà ancora che Alessandro, ripresosi dalla furia omicida, piangerà e deprecherà la morte dell’amico, non dimentico che questi, a rischio della propria, gli aveva salvato la vita sul campo di battaglia del Grànico. Ma il Macedone, anche se ebbro, anche se allo spasimo dell’eccitazione per assunzione di allucinogeni, non agisce in stato di assoluta incoscienza. Ha ormai i nervi scoperti, consapevole che tutto il nuovo corso impresso al suo dominato e tutto il suo operato futuro poggiano sul presupposto della propria filiazione da Zeus. L’amico non si accontenta di ricordargli la gloria di un padre mortale, ormai da lui rifiutato, non si accontenta di rinfacciargli il ripudio delle costumanze macedoni, ma infrange con parole allusive, e in pubblico, il piú sacro dei tabú: quello, appunto, della sua origine divina nella quale Alessandro, quasi prigioniero di un dogma, non può fare a meno di credere. Al contrario della madre che aveva ben chiari e presenti i confini tra l’umano e il divino, nonostante il carattere passionale, nonostante il compiacimento dell’estasi onirica, nonostante avesse in proprio alimentato la leggenda della possessione del suo corpo da parte del dio. Confini sui quali scherzosamente ammonisce anche il figlio che l’aveva salutata attribuendosi la qualifica di “figlio” di Zeus Ammon, come ricordano Plutarco (Alex., 3 4) e Gellio (xiii 4 1). Autore, quest’ultimo, che 90
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tramanda l’aneddoto con maggiore dovizia di particolari: « Scrivendo alla madre egli si era indirizzato cosí: “Alessandro re, figlio di Ammon, saluta la madre Olimpia”, e Olimpia gli rispose con queste parole: “Per favore, figlio mio, stai calmo e buono; evita di denunciarmi e di incolparmi di fronte a Giunone. Quella è capace di farmi passare un bel guaio se tu fai sapere nelle tue lettere che sono l’oggetto delle corna del marito ». La presunta, proclamata, rivalità con Hera/Giunone da parte della protagonista del libro mostra ancora una volta le sue doti di spirito e le capacità di pronte battute. Inutile ripetere che lo sfoggiare ironia è nelle persone segno di intelligenza. 3. Olimpiade, Atene e l’Adriatico. Una congettura Nell’orazione di accusa contro Demostene, incolpato di essere stato corrotto da Arpalo, Iperide (i, fr. 5 xx), che fino a pochi mesi prima ne era stato compagno di militanza politica, accenna a sue sospette ambascerie: « […] e presso Olimpiade Callia di Calcide, il fratello di Taurostene. Costoro, su proposta di Demostene, furono fatti cittadini ateniesi e sono i suoi agenti preferiti ». La lacuna iniziale ci preclude l’intelligenza dell’intero contesto, ma è innegabile che l’ignoto Callia di Calcide si sia recato per incarico di Demostene presso la regina Olimpiade, para d’Olympiadi, e che egli e il fratello siano stati premiati dall’oratore con la concessione della cittadinanza ateniese, divenendo « suoi agenti ». Il fatto era certo ben noto ai giudici e all’opinione pubblica. Ma quale l’oggetto dei rapporti intercorsi tra il piú alto rappresentante in Europa degli interessi di Alessandro e l’oratore di fede democratica e dai conclamati sentimenti antimacedoni? Non è facile rispondere alla domanda, ma per tentare di rispondervi occorre disporre della convergenza di almeno quattro fattori: un qualcosa che accomuni gli interessi di Olimpiade e di Demostene, in quanto rappresentante della classe dirigente ateniese; un qualcosa che non possa essere in distonia con gli orizzonti espansionistici del regno dell’Epiro, di cui ella era di fatto reggente; un qualcosa che sia da cronologizzarsi tra il 330 e il 324, e presumibilmente piú in prossimità della seconda data; un qualcosa che non urti i progetti, presenti e futuri, di Alessandro. 91
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Torna allora alla mente il progetto di Atene di fondare una colonia in Adriatico nel 325-’24, che, per meglio focalizzarlo, necessita di qualche spiegazione preliminare sulla situazione politica della città. Dove, dopo Cheronea, sarebbe stato auspicabile il ricambio generazionale dei dirigenti politici. Ma cosí non è. Al timone della polis, con rigido immobilismo, è sempre Demostene, quasi un sopravvissuto a se stesso, cui fanno corona, accomunati da un medesimo credo antimacedone, esponenti di parte democratica di provata fede e di consumata abilità dialettica, quali gli oratori Licurgo e Iperide. In una parola, assieme a Demostene, proprio i politici responsabili della disfatta di Cheronea. Era, di fatto, la repubblica degli avvocati! Muore nell’anno 324 Licurgo, che ha sempre mediato tra le posizioni “interventiste” di Iperide e quelle “attendiste” di Demostene. Nel medesimo anno fugge e ripara ad Atene Arpalo, che innanzi aveva alleggerito il peso della carestia che gravava sulla città inviandole, per ingraziarsene il favore, ingenti quantitativi di grano. Nel medesimo anno, tanto per sopperire alla cronica insufficienza degli approvvigionamenti cerealicoli, quanto per ostentare ancora orgogliosamente la propria autonomia, Atene delibera di fondare una colonia in Adriatico nell’interesse, non solo suo, ma – nella formula propagandistica – dell’intera grecità.10 Del decreto di fondazione le liste dei curatori degli arsenali navali tramandano in allegato un estratto, che recita a stare a una delle sue piú attendibili restituzioni testuali (SIG3, 305): Affinché il popolo ateniese possa godere in ogni stagione e circostanza di un commercio e di un rifornimento di grano affidati ai propri mezzi, e, mediante l’apprestamento di una stazione navale sua propria, possa avere una difesa contro le scorrerie dei Tyrrhēnoi, e Milziade ne sia l’ecista, e i coloni possano disporre di una base navale, e coloro tra i Greci e i barbari che solcano le vie del mare entrino navigando con sicurezza in ‹Adriatico› avendo per ricetto la stazione navale degli Ateniesi.
Ma dove gli Ateniesi, in questa età, pensavano di dirigersi per importare grano occidentale e quale il sito adriatico da loro prescelto per fondare la colonia? I due problemi – il grano e il sito dello stanziamento – sono sí 10. Un inquadramento generale in Braccesi 19772, pp. 286 sgg.
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correlati, ma né coincidenti né tantomeno sovrapponibili. Pertanto vanno analizzati separatamente. Quali dunque le fonti di approvvigionamento granario? Non certo quelle, tradizionali, del secolo precedente, giacché la pianura padana, caduta in mano celtica, piú non aveva curato produzioni cerealicole, mentre gli Etruschi dell’emporio di Spina, già interlocutori privilegiati dei traffici attici, ora, per sopravvivere, ne erano diventati antagonisti e sabotatori. Altre, in Adriatico, ne dovevano essere le fonti di importazione; con tutta probabilità individuabili, in parte nel Piceno e soprattutto in Daunia, produttrice in questa età ed esportatrice di grano.11 Ma i mercati adriatici, da soli, non dovevano bastare a soddisfare la richiesta di Atene e a sopperire alla sua fame. Ragione per cui, in Occidente, è assai probabile che la città si sia anche indirizzata verso altre fonti di rifornimento, e anzitutto in direzione del grande granaio siciliano. Lo ritiene la critica e lo comprova un’iscrizione attica (IG, ii2 584) coeva, o di poco posteriore, che attesta l’incarico di dirigersi a Siracusa per una sitonía, cioè per una spedizione indirizzata all’acquisto di grano. Quanto abbiamo detto spiega anche dove ricercare l’ubicazione della colonia, la cui fondazione (rifondazione?) non deve di necessità coincidere con le località dove Atene si volge all’importazione del grano. La colonia è, per sua costituzione, « una stazione navale » attrezzata militarmente per costituire « una difesa contro le scorrerie dei Tyrrhēnoi », e quindi dedotta nel sito piú idoneo per soddisfare a questa esigenza. Se accettiamo il supplemento piú corrente, già proposto dai primi editori,12 con la restituzione « entrino navigando con sicurezza ‹in Adriatico› », asphalōs eispleosin eis ‹Adrian›, non c’è dubbio che l’ubicazione sia da porre in prossimità della porta di accesso all’Adriatico, cioè in prossimità del canale di Otranto. Ma, anche se non accettiamo il supplemento, c’è un altro dato, scarsamente valorizzato, che ci riporta sempre, e comunque, all’area del canale di Otranto. Cioè l’espressione « e coloro tra i Greci e i barbari che solcano le vie del mare », che riconduce nel suo formulario a un’analoga espressione del decreto istitutivo della seconda lega marittima (SIG3, 147), sottintendendo che anche ora, come allora, Atene è ga11. Documentazione in Braccesi 2014/a, pp. 73 sgg. e 107 sgg. 12. Vd. Boekh 1840, p. 465.
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rante della sicurezza dei mari. La città, in effetti, nonostante i problemi di carestia, disponeva ancora di una flotta considerevole e, nell’Egeo, del controllo sulle isole di Lemno, Imbro e Sciro. Mentre Alessandro, conquistatore di sterminate distese terrestri, mai era riuscito a esercitare un dominio sulle rotte del Mediterraneo. Ma, cosí stando le cose, è assurdo pensare che tutti i Greci che intendevano percorrere le vie dell’Occidente fossero diretti solo in Adriatico. Il che presuppone che la colonia dovesse, in primo luogo, tutelare la rotta del canale di Otranto, e quindi essere ubicata in un’area strettamente limitrofa. Ma dove? Non certo sulla sponda orientale, controllata dalla Macedonia. Resta quindi da ricercarla solo sulla sponda occidentale: sulla costa del Salento, già interessata a uno degli stanziamenti adriatici di Dionigi il Giovane e alle scorribande di conquista del Molosso.13 Ma, anche in Occidente, nessuna colonia, frontaliera all’Epiro, sarebbe potuta sorgere senza il beneplacito o l’indiretto assenso di Olimpiade. La quale, viceversa, aveva tutto l’interesse non solo a tutelare dalla pirateria il canale di Otranto, ma pure a favorire una presenza greca sulla via dell’Occidente, subito al di là del mare di casa. Politica non in concorrenza con gli orizzonti espansionistici del regno dell’Epiro, ma semmai complementare, volta a spianarne la strada nella medesima area dove, prima di cadere, aveva combattuto con successo il Molosso. In fondo, nella percezione della regina, inseguendo le orme del fratello, Atene garantiva anche all’Epiro la sicurezza del transito verso l’altra sponda, favorendone le mire imperialistiche, che un domani – morto Alessandro – saranno riattualizzate da Pirro. Tanto piú che la terra dei Molossi non era mai stata una potenza navale e che Atene, che lo era, non mirava a progetti di conquista, bensí solo di controllo sulle rotte di accesso all’Occidente. Queste considerazioni siano sufficienti a fare luce su tre dei fattori postulati per giustificare eventuali rapporti intercorsi tra Olimpiade e Demostene: circa, in politica estera, l’esistenza di interessi complementari tra Atene e l’Epiro; circa programmi di quest’ultima non in distonia, in Occidente, con gli orizzonti espansionistici del regno dei Molossi; circa la cro-
13. Cosí anche Fantasia 1972, pp. 138 sgg.
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nologia dei supposti contatti attivatisi tra la regina e l’oratore e capoparte antimacedone. Resta da assolvere alla risposta dell’ultimo quesito: se l’operato non venisse a scontrarsi, nell’accondiscendenza “ateniese” della madre, contro eventuali preparativi di Alessandro su programmi di conquiste in Occidente. Anche in questo caso però ci si prospetta una situazione del tutto congruente con quanto abbiamo congetturato. Infatti, l’obiettivo primario della spedizione coloniale ateniese è quello di riuscire a tutelare le rotte commerciali, le rotte degli émporoi, dalla costante insidia dei predoni del mare.14 Nel nostro caso i Tyrrhēnoi, cioè i pirati etruschi. Siamo nel IV secolo, e l’invasione celtica della pianura padana interessa le città etrusche dell’entroterra, ma trascura gli empori marittimi, non essendo quello dei Galli – precisamente dei Galli Boi – un popolo marinaro. Anzi Spina e i minori centri costieri del litorale limitrofo diventano siti di concentramento di non pochi sopravvissuti nuclei etruschi, che, dopo la distruzione delle loro città dell’entroterra, incrementano la pratica della pirateria come principale risorsa economica. Sicché è da pensare che i Tyrrhēnoi del nostro decreto di fondazione siano anzitutto gli Etrusco-Spineti insieme ai confratelli riuniti sotto le loro bandiere. Ma non soltanto, giacché sappiamo che a partire da questa età pirati occidentali operano anche nelle acque dell’Egeo, pervenendoci – né i piloti di allora conoscevano altra via – attraverso una navigazione nelle acque adriatiche del canale di Otranto. Orbene, in difesa della libera navigazione, all’inizio della grande avventura, si era levata anche la voce di Alessandro come attestano Strabone (v 232) e Memnone di Eraclea (FGrHist, 434 F 18), ricordandoci che egli aveva allora tuonato contro le scorrerie dei Tyrrhēnoi e degli Anziati; lamentandosi di questi ultimi con i Romani giacché erano loro soggetti o comunque inclusi nell’orbita del loro dominio. Quindi è chiaro che, nonostante i molti dissapori con la grecità, non poteva che plaudire alla realizzazione ateniese di « una stazione navale » che avesse per fine la « difesa contro le scorrerie dei Tyrrhēnoi ». Conclusione che, in aggiunta alle pre14. Sul problema vd. Ferone 1997, pp. 117 sgg., e Ferone 2004 pp. 31 sgg., nonché Briquel 2013, pp. 293 sgg.
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cedenti considerazioni, consente di accreditare come legittima l’ipotesi che, in effetti, la missione di Callia di Calcide presso Olimpiade, quale « agente » di Demostene, avesse per oggetto proprio la deduzione della colonia adriatica.
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VI MADRE E FIGLIO, LA COMUNICAZIONE EPISTOLARE 1. La conquista e la marcia ai confini del mondo Abbiamo lasciato Alessandro all’oasi di Siwah, e abbiamo chiarito come con la vittoria di Isso egli, di fatto, divenga l’arbitro assoluto dei destini del monarcato di Persia già prima della terza e definitiva battaglia di Gaugamela, che vedrà l’armata nemica, demoralizzata, dissolversi sul campo, abbandonando, fuggiasco, il Gran Re dell’Asia alla sua malasorte. Siamo nel 331, e con questa vittoria Alessandro corona il proprio programma di conquista. Il grande monarcato achemenide, dopo la giornata di Gaugamela, si inchina al nuovo sovrano, mentre i fanti macedoni – i pezeteri – saccheggiano da invasori le città piú prospere dell’impero persiano. Quali le antiche capitali di Babilonia, Susa, Persepoli, Ecbatana, adorne di sontuosi palazzi e traboccanti di inestimabili tesori. Il Macedone stesso cede per un attimo al delirio barbarico della distruzione e del fuoco, dando alle fiamme, in una notte di ebbrezza, la reggia di Persepoli, sede e sontuosa dimora dei primi sovrani persiani. Ma è un attimo; poi si pente, ricordandosi che di quei medesimi monarchi egli ora si proclama successore. Diranno i suoi storiografi che l’incendio della reggia persiana vendica il fuoco appiccato da Serse all’acropoli di Atene centocinquanta anni prima; ma, di fatto, il Macedone è ormai lontanissimo dagli “slogan” panellenici che hanno accompagnato il divenire della sua spedizione. Alessandro è ora il continuatore, e non piú il demolitore, dell’impero persiano. Chi piú non lo comprende, o non ne condivide il progetto, deve essere fermato per via anche a costo del delitto, ed egli, senza piú la scorta di molti dei servitori di un tempo, muove alla conquista delle estreme satrapie orientali adducendo a pretesto di inseguire il Gran Re, ormai ridotto a un disprezzato fuggitivo abbandonato da tutti. Il Macedone è sempre l’eroe invincibile, l’hērōos aniketos, il capo idolatrato di un’armata di conquistatori, ma il clima è cambiato. La quotidiana constatazione che il campione della grecità si proclami successore dei re achemenidi, non è cosa facile da accettare, e tale contraddizione, sempre 97
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piú esasperata, non tollerano né i Greci né i Macedoni. Gli uni a livello ideologico, gli altri sul piano della quotidianità e della prassi politica. In particolare, i Macedoni non possono proprio sopportare che essi, i vincitori, si ritrovino amalgamati ai vinti, che la loro regione da centro dell’impero diventi remotissima periferia, che l’erede di Filippo adotti, anche nel tratto esteriore, l’abito e il costume dei monarchi teocratici dell’Oriente. L’equiparazione tra Greci e barbari, perseguita da Alessandro, appare loro come una sorta di tradimento dopo che per anni sono stati condizionati a giustificare l’egemonia macedonica, la loro propria egemonia, in nome del panellenismo. La guerra di Alessandro è guerra di vendetta compiuta in nome della grecità, ma l’egemone della lega ellenica, il re di Macedonia, il vendicatore delle aggressioni del passato, si proclama nientedimeno che successore del Gran Re sconfitto. Questa la cocente contraddizione che, in forma differente, non tollerano né Greci né Macedoni; i primi a livello ideologico, i secondi sul piano politico. La rottura con la tradizione non potrebbe essere piú marcata, ed ha come prima causa, ancora una volta, il fatto che Alessandro, ricusando la paternità di Filippo, si sia fatto proclamare progenie divina dai sacerdoti di Zeus Ammon, nell’oasi libica di Siwah. Aperta è l’intolleranza e dolorosa l’incomprensione verso il nuovo corso degli eventi. Le quali presto si traducono nella critica o nella resistenza passiva da parte dei vecchi esponenti della nobiltà macedone; ovvero nella dichiarata contestazione degli intellettuali al seguito che non sanno piú riconoscere i tratti del proprio eroe. Il quale, per reazione, per l’esasperazione di chi non si crede piú amato o compreso, considera potenziali traditori quanti ora non condividono piú gli orientamenti del nuovo corso del dominato e della conquista. Come Filota, figlio di Parmenione, comandante della cavalleria, o come Callistene, nipote di Aristotele, storiografo del suo signore. Entrambi pagheranno con la vita. La loro morte, non dovuta ad alcuna congiura, è emblematica del “nuovo” e del “vecchio” che si fronteggiano. Alessandro vive ormai rapito in una dimensione inaccessibile, ed è in nome del “nuovo” che reprime nel sangue, senza alcuna pietà, gli atteggiamenti di fronda da parte di quanti non sanno o non vogliono o non possono piú comprenderlo. 98
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Solo la madre, che vigila in Europa, e i compagni piú cari, partecipi del nuovo corso, riescono a comprendere l’eroe, che nel mito ellenico ricerca di continuo una giustificazione della propria conquista. Il suo è il sogno dell’impero universale senza frontiere! Ora, dopo la sconfitta e la fuga del Gran Re, la tanto propagandata missione vendicatrice in nome della grecità è compiuta. Ma quale la via da seguire? Tornare in patria, e dalla piccola e rustica capitale di Pella controllare un impero che annovera compagini statali di civiltà millenaria? Ovvero, quale successore degli Achemenidi, estendere la conquista al di là degli stessi confini del loro impero? La Macedonia è però divenuta periferia; nulla piú di una provincia dell’immenso monarcato. Quindi egli sceglie, anche di necessità, la seconda via, di fatto ignaro delle conseguenze del suo gesto per la storia futura. Si dirige cosí verso oriente, inseguendo il fuggiasco Dario III fino oltre le Porte Caspie, fino a Ecatompilo. Dove questi, nel 330, è assassinato a tradimento da Besso, satrapo della Battriana desideroso di accattivarsi la gratitudine del nuovo signore. Ma fallendo nell’intento perché questi, proclamatosi successore del Gran Re, lo insegue fino nella sua remota satrapia, condannandolo a morte. Quindi, nel 329, valicando le ripide balze della catena del Paropamiso – l’odierno Hindu Kush – giunge nel cuore della Battriana, cioè in Afganistan; dove, per rimarcare una volta di piú la continuità dinastica con i re persiani, sposa Rossane, la figlia di un principe locale. Prosegue quindi la marcia ancora in direzione del settentrione, spingendosi fino alle rive del fiume Iassarte, il Syr Darya. Qui, nel 328, fonda, secondo una prassi già consolidata, un’ennesima città cui dà il proprio nome. È Alessandria Escate, cioè Alessandria ai confini del mondo. Potrebbe ora fermarsi, ma l’ansia di conquista lo spinge ancora piú innanzi. Il suo monarcato è molto piú esteso di quello dei sovrani Achemenidi. Ma al Macedone appare sempre troppo piccolo, ed egli progetta di dilatarlo ancora, preparandosi dal settentrione, da Alessandria Escate, alla conquista dell’India. È sí mosso dall’anelito di raggiungere il confine estremo del mondo, ma forse anche dal disegno piú concreto di assegnare alla conquista la frontiera dell’Indo. Comunque sia, alla marcia infinita verso regioni ignote e remote lo spingono, tra opposte sollecitazioni dell’animo, 99
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tanto l’innata ansia esistenziale, ereditata dalla madre Olimpiade, quanto la disponibilità a sempre nuovi orizzonti di conoscenza inculcatagli da Aristotele, insaziabile maestro del sapere. Istanze, entrambe, destinate negli anni successivi a trasformare senza posa il conquistatore in esploratore di terre sconosciute sia per l’anelito di correre incontro all’ignoto sia, soprattutto, per il desiderio, mai sopito, di catalogare e descrivere in forma scientifica e sistematica sempre nuovi dati nell’ambito del sapere geografico ed etnografico. La campagna indiana, che si circoscrive tra gli anni 327 e 325, si schiude con la vittoria di Alessandro sul re Poro, una volta da lui rivalicata a ritroso la catena del Paropamiso. Vittoria che avviene presso il fiume Idaspe, l’odierno Jhelum, e che gli consente di giungere trionfalmente fino alle contrade del Punjab. Egli è figlio di Zeus, e in quanto tale, in armonia alla sensibilità misterica della madre, è il nuovo Dioniso che marcia in terra di India per attingere all’acqua dell’oceano che circonda il mondo. Cosí appunto, rendendosi interprete di istanze propagandistiche elaboratesi alla sua corte, ce lo descrive Arriano (vi 28 1-2). Ma, proprio mentre il cuore della regione appare aprirsi alla sua conquista, il leggendario condottiero, pervenuto al corso dell’Ifasi, l’odierno Beas-Sutley, ordina inaspettatamente la ritirata. Innumeri, e spesso romanzesche, sono le ipotesi formulate da antichi e da moderni per giustificare tale repentina e inaspettata decisione. Ma essa, con buona probabilità, è da imputare a un fattore umano finora sottovalutato da parte di Alessandro. Cioè, al fatto che i fanti dell’armata macedone non erano piú in condizioni di procedere oltre: provati nel corpo e nello spirito dalle sovrumane fatiche affrontate, fiaccati nella resistenza dal ritmo incalzante della marcia, dal clima opprimente e dall’impatto con una natura sconosciuta. Essi stessi si sarebbero rifiutati di procedere nella marcia, suscitando la collera, ma anche la rinunzia all’ultima conquista, da parte del loro leggendario – e pur sempre idolatrato – condottiero. Il quale, dopo avere a lungo elaborato la propria delusione, cede alla realtà per timore dell’ammutinamento dell’armata, ordinando, giunto alla riva dell’Ifasi, la ritirata che pone termine alla sovrumana avventura. Ciò avviene per lui in forma dolorosa, dominata dalla pena e dalla collera, e da un silenzio che cupo si protrae per ben due giorni. Poi ingiunge 100
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di erigere maestosi e giganteschi altari agli dèi là dove aveva avuto termine la marcia. Ma perché gli altari sono dodici, come gli dèi olimpici, e perché Alessandro non vi appone alcuna dedica? Su entrambi i dati la tradizione è concorde. Viene allora da sospettare che gli altari, donde parte la ritirata, siano dodici, anziché tredici, perché il condottiero avverte con tragica drammaticità il peso della sconfitta e, da tredicesimo dio, il forzato ritorno alla dimensione umana. In modo analogo viene da sospettare che la dedica manchi perché il conquistatore non può scrivere di sé ciò che avrebbe voluto scrivervi: che egli non è soltanto “l’eroe invincibile”, l’hērōos anike tos, ma anche “il signore del mondo”, cioè il kosmokrator. Un poeta moderno si è figurato che a Dodona, nel fruscio delle querce, per la durata ininterrotta di una decina di anni, Olimpiade abbia riudito la voce del figlio in una sorta di rapporto telepatico, partecipando delle sue ansie e delle sue disillusioni. In un certo senso partecipando in proprio – quasi fosse presente – alla spedizione che pareva non conoscere meta. Ciò è sí fantasia di poeta, ma forse costruita su un dato oggettivo, quale la costante corrispondenza epistolare tra la madre e il figlio: l’una in Europa, l’altro sempre piú lontano in Asia. Per introdurre il lettore a questo tema, assai scarsamente indagato, non è inutile premettere che tale corrispondenza ci si presenta in forma di “lampi” casuali, privi di collazione o di pretesa di sistematicità, giacché la storiografia antica che li tramanda li riferisce in forma occasionale, interessata solo a informarci della grande avventura di Alessandro e mai, almeno direttamente, dei casi di Olimpiade. Alla quale, semmai, essendo una donna, è negato un ruolo di protagonista, finendo troppo spesso relegata nell’ombra, vessata, oltretutto, nei secoli da una tradizione di marca ostile. Donde la difficoltà costante di questa ricerca, tesa a una ricostruzione biografica affidata alla valorizzazione di minimi indizi. L’unica cosa che possiamo dire con tutta sicurezza è che le missive epistolari tra la madre e il figlio presentano una frequenza costante e interessano i piú svariati argomenti, rivelandoci malesseri, apprensioni e inaspettate note di ironia. Se qualcosa di esse ci è stato conservato, seppure in forma dispersa e casuale, dobbiamo figurarci l’originaria esistenza di un loro corpus davvero ricco e imponente, tale certo da suscitare il nostro rimpianto. 101
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2. I contrastati rapporti con Antipatro Come già abbiamo anticipato, un capitolo non trascurabile riguarda l’ingerenza di Olimpiade negli affari di stato macedoni, con relativa animosità nei riguardi di Antipatro,1 il reggente dal quale si sentiva esautorata e il quale male tollerava la sua invadenza. Di lui si lamentava con Alessandro, senza, di fatto, ottenere soddisfazioni concrete che andassero oltre una ripetitiva mozione di affetti. Le donne, per il figlio, anche se madri di re, non dovevano immischiarsi nell’amministrazione del regno! Al riguardo indiscutibilmente parlante è quanto ci testimonia Arriano (vii 12 5-7), seppure riferendosi al 324, all’anno della sostituzione di Antipatro, e quindi all’epilogo del lungo duello tra la regina e il reggente: Ma probabilmente la chiamata di Antipatro non portava alla sua degradazione, bensí voleva impedire che il loro disaccordo fosse foriero per entrambi [per Olimpiade e Antipatro] di qualcosa di sgradito e per Alessandro di un qualcosa di irreparabile. Cosí non cessavano essi di scrivere ad Alessandro. Antipatro citando la presunzione, la scontrosità e la capacità di intrigare di Olimpiade, del tutto sconveniente per la madre di Alessandro. Tanto che veniva riferito un simile commento di Alessandro alle notizie da lui avute sul comportamento della madre: ella, cioè, gli faceva pagare caro il fatto di averlo ospitato nel suo grembo per nove mesi. Olimpiade, viceversa, scriveva che Antipatro era arrogante per la posizione che rivestiva, pretendendo ossequi alla sua persona e non ricordandosi piú di colui che l’aveva nominato, di fatto considerandosi degno di ricevere il primo posto tra Macedoni e Greci.
La rimozione di Antipatro, e la sua sostituzione con Cratero, amico e coe taneo di Alessandro, è un atto che matura in forma indipendente dalla contesa di Olimpiade con il reggente, è una decisione volta a fare accettare anche in Macedonia e in Grecia il “nuovo corso” voluto dall’autocrate con l’approdo alla monarchia ecumenica. Ciò nonostante, lo storico sottolinea che tale rimozione era pure intesa a impedire ulteriori screzi tra Olimpiade e Antipatro, screzi che avrebbero potuto condurre a « un qualcosa di irreparabile ». A che cosa pensa Alessandro? Sospetta della furia della madre? Non lo sapremo mai. Torna soltanto alla mente che, proba1. Documentazione in Berve 1926, num. 94.
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bilmente già anni prima, aveva scritto al reggente « di tenersi delle guardie del corpo perché si complottava contro di lui », come annota Plutarco (Alex., 39 11). La notizia è generica e qualsiasi deduzione se ne può trarre, ma è difficile pensare che, nelle plaghe dell’Asia, egli potesse avere informazioni di complotti sfuggite all’attenzione dei servizi di vigilanza macedoni. La corrispondenza indirizzatagli da Antipatro e da Olimpiade sembra proprio non dare tregua ad Alessandro. L’uno gli scriveva della supponenza e della costante litigiosità della regina, l’altra dell’arroganza del reggente. In particolare, Antipatro parla di « intrighi » di Olimpiade « sconvenienti per la madre di Alessandro ». Non stupisce che costei non tollerasse di essere sottoposta al reggente, ma parlare di « capacità di intrigare », di polypragmosynē, è un’espressione pesante, che evoca piú possibilità di perturbare l’operato di quest’ultimo: quella di interferire con la Macedonia per le necessità dell’Epiro, quella di volergli affiancare correggenti “fantocci”, pronti a sostituirlo, quella di sforzarsi di screditarlo con accuse o provocazioni di comodo. Ciò che lei non può sopportare è che per gli affari di stato Alessandro abbia un filo diretto con il suo luogotenente, anziché con la madre. Alla quale, come ricorda Plutarco (Alex., 39 12), « non permetteva di interferire in affari politici o militari », sopportando « con pazienza la sua asprezza » quando « lo accusava di alcunché ». Ad Antipatro che « gli scrisse una lunga lettera contro Olimpiade », egli – seguita a raccontarci il biografo – rispose che questi « non sapeva che una lacrima di madre cancella migliaia di lettere ». Di fatto, l’impaziente Alessandro mostra sempre verso la madre una sovrumana pazienza, ricorrendo spesse volte per giustificarsi all’ironia. Alla « lacrima di madre », che tutto sopisce, fa riscontro nel nostro contesto il fargli « pagare caro il fatto di averlo ospitato nel suo grembo per nove mesi ». Dal canto suo, Olimpiade nelle proprie lettere accusa il reggente di mostrarsi « arrogante » anche nei suoi confronti. Il che significava accusarlo di “lesa maestà” per trascurare l’ossequio dovuto al suo rango. Colpa che si assommava all’altra, assai piú grave, di atteggiarsi piú a sovrano che a reggente « considerandosi degno di ricevere il primo posto tra Macedoni e Greci ». Ciò scrivendo, la regina puntava al discredito totale dell’avversario, insinuando che egli nell’ossequio formale volesse sostituirsi al figlio. 103
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Voce, questa, tanto « piú temibile all’interno di una monarchia », come seguita a dirci Arriano, lasciando sospeso il discorso per la piú vistosa lacuna presente nella sua opera, interessata ancora a narrarci della fuga di Arpalo ad Atene, del viaggio di Alessandro da Opi a Ecbatana e dei contrasti tra Eumene ed Efestione. Anche Diodoro (xvii 118 1-2) ci parla dei contrasti tra Olimpiade e Antipatro. Il quale « all’inizio non si curava di lei perché Alessandro non dava peso alle calunnie sul suo conto », per poi ricredersi quando dovette prendere atto che il re inclinava a « mostrarsi compiacente con la madre » memore della sua genitura divina. Cocente allora ne sarebbe stato il risentimento, e tale da spingerlo ad avvelenare il suo signore per tramite del figlio che ne era coppiere. Analogo racconto è in Giustino (xii 14 3), ma si tratta – seppure destinata nella tradizione a non insignificante fortuna –2 di una notizia falsa, germinata per riflesso della morte improvvisa di Alessandro e delle contese subito sorte tra i suoi successori. Eco ancora del contrasto tra Olimpiade e Antipatro, fino a giungere all’aperta ribellione, ci è offerta da Plutarco (Alex., 68 4-5) con una curiosa notizia relativa allo sfaldarsi dell’impero di Alessandro, al tempo della rivolta dei satrapi, quando egli e il suo esercito sono creduti dispersi nelle plaghe piú remote dell’Asia. In proposito il biografo fornisce un’informazione non facile da decriptarsi: « Perfino Olimpiade e Cleopatra si ribellarono ad Antipatro e si divisero il regno: Olimpiade si tenne l’Epiro e Cleo patra la Macedonia. Quando Alessandro lo venne a sapere disse che la madre aveva preso una saggia decisione: i Macedoni infatti mai avrebbero tollerato di essere governati da una donna ». Abbiamo spiegato l’accaduto nel quadro del violento contrasto, divenuto sempre piú aspro, tra Olimpiade e Antipatro, ipotizzando che, mentre la madre rimane salda a vigilare sull’Epiro, deleghi alla figlia Cleopatra, vedova del Molosso, il compito di sorvegliare e controllare in Macedonia le mosse del reggente. Al di là del “bon mot” di Alessandro, che testimonia ancora una volta sia la sua disponibilità all’ironia sia la propensione a escludere le donne dalle gestione della politica, inadeguate al riguardo 2. Un approfondita disanima della notizia, non da lui scartata, in Levi 1977/b, pp. 406 e 413 sgg. (con una nota medica stilata da Antonio Pecile).
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sono le posizioni della critica. Volte, le une, a sostenere che Cleopatra, riparando in Macedonia, volesse sfuggire all’opprimente sudditanza della madre,3 mentre le altre ad affermare che quest’ultima, restando in Epiro, mirasse a proteggere il giovane re Neottolemo, suo nipote e figlio del Molosso.4 La prima spiegazione è scarsamente convincente, e forse anche ridicola; la seconda è errata, giacché all’epoca il piccolo Neottolemo non era stato ancora eletto sovrano. Cosa che avverrà di lí a pochi anni, ma solo dopo l’esilio cui sarà costretto Eacide. 3. Ansia per il figlio o desiderio di vendetta In due occasioni la madre si preoccupa per l’incolumità del figlio, e in entrambe lo spinge a guardarsi da persone al suo seguito, sempre comunicando con lui tramite missive epistolari. Una di queste, da cui il figlio avrebbe dovuto temere, è Alessandro il Linceste, e del fatto ci informa Diodoro (xvii 32 1-2): « La madre del re scrisse ad Alessandro, tra altre cose che gli potevano giovare, di guardarsi da Alessandro il Linceste. […] E, siccome molti altri indizi verosimili concordavano con questa accusa, fu arrestato e imprigionato in catene per essere sottoposto a giudizio ». Altri tra i compagni del seguito, da cui avrebbe dovuto diffidare, sono i fratelli Aminta e Simia, e ce ne informa Curzio Rufo (vii 1 12), dicendoci che da tempo « gli erano divenuti sospetti, in seguito a una lettera della madre, che lo esortava a guardarsi da loro ». Alessandro il Linceste è accusato « di avere cospirato contro il re » e per tre anni, prima di venire giustiziato, « era stato tenuto in prigione », usufruendo di un rinvio della pena capitale per la sua parentela con Antipatro, come sempre attesta lo stesso autore (xvii 80 2). Il quale pure ci dice che viene giustiziato dopo Filota, comandante della cavalleria e figlio di Parmenione, al tempo della purga che segue alla congiura dei paggi. Suoi fratelli – come il lettore ricorderà – sono Eromene e Arrabeo, principi della Lincestide, fatti giustiziare dal Macedone per presunta complicità 3. Cosí Berve 1926, num. 212. Vd. Hamilton 1969, p. 190. 4. Cosí Hammond 1979, p. 142.
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nel regicidio del padre, ma, piú probabilmente, per la necessità di sopprimere pericolosi esponenti di una nobile schiatta guerriera che poteva contendergli il potere. Il solo Alessandro il Linceste era allora sopravvissuto, perdonato dall’erede di Filippo perché era stato tra i primi a riconoscerlo re, come sottolinea Arriano (i 25 1-2). Anche Aminta e Simia sono accusati di avere cospirato contro il re e sono ben consapevoli sulla persona che è responsabile dell’accusa. « Tua madre ti ha scritto di noi come tuoi nemici », mater de nobis inimicis tuis scrip sit, dice, infatti, Aminta nel corso del processo, a stare alla colorita versione di Curzio Rufo (vii 1 36). Non è un personaggio sconosciuto, e di lui sempre il medesimo autore (iv 6 30) ci dice che, dopo il tormentato assedio di Tiro, era stato spedito da Alessandro « con dieci triremi in Macedonia per arruolare nuovi soldati ». Olimpiade accusa cosí per lettera tre compagni di Alessandro. Ma come faceva, dalla lontana Macedonia o dall’ancora piú lontano Epiro, ad avere notizie sulla loro colpevolezza di lesa maestà? Grande è sempre la sua apprensione per il figlio, e, nel dubbio dell’esistenza di una reale congiura, potrebbe pure essere arrivata ad accusare degli innocenti. Meglio prevenire, anziché dovere poi condolersi di una sciagura! Il comportamento sarebbe sí spregiudicato, ma in fondo giustificabile. Altro è però il nostro dubbio. L’unico movente della regina è solo una preoccupazione costante per l’incolumità del figlio o, viceversa, una propria animosità di vendetta? Cercheremo di chiarirlo. Alessandro il Linceste5 è – come abbiamo detto e come ribadisce Giustino (xii 14 1) – il genero di Antipatro, cioè, per Olimpiade, dell’odiato reggente. Sorge allora il sospetto che la regina, nell’accusarlo presso il figlio, abbia ceduto a un impulso di vendetta contro il suocero, circondandolo allo stesso tempo del riverbero di una luce negativa. Tanto piú che la tradizione confluita in Diodoro (xvii 32 1), ben lungi dallo screditarlo, è prodiga nel tesserne le lodi, sottolineando come il Linceste si distinguesse « presso il re per coraggio » e godesse della sua « fiducia » e, per giunta, mostrasse « nobili sentimenti ». La lettera al figlio ci riporta all’anno 333-’32 e, nel caso il nostro dubbio fosse legittimo, il suo contenuto potrebbe 5. Documentazione in Berve 1926, num. 37.
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costituire il primo segnale di ostilità di Olimpiade nei confronti di Antipatro. Aminta e Simia,6 e in particolare il primo dei due, agli occhi della regina, si era macchiato della colpa di averle sottratto uomini alle proprie dipendenze. Lo dice egli stesso nel discorso di autodifesa che, a stare a Curzio Rufo (vii 1 37-39), pronunzia nel corso del processo rivolgendosi direttamente ad Alessandro: « Tu dicesti che molti giovani robusti si nascondevano nella casa di tua madre. Mi ordinasti di non aver riguardo per nessuno […]. Tua madre non ha altra ragione di perseguitarci se non perché abbiamo anteposto il tuo vantaggio al gradimento di una donna ». Cosí stando le cose sorge di nuovo il sospetto che Aminta – con il fratello Simia e con un terzo sfuggito alla cattura – fosse stato accusato ingiustamente da Olimpiade per vendicarsi dell’oltraggio di avere visto profanata la propria dimora e sguarnita di prepotenza degli uomini di scorta. Ciò che chiaramente pensa anche Alessandro che, a dispetto della lettera della madre, e delle sue insinuazioni, proscioglie i tre fratelli da ogni accusa. 4. Le interferenze con il divino Già abbiamo detto, parlando della consultazione dell’oracolo di Zeus Ammon all’oasi di Siwah, che Alessandro in una lettera alla madre l’informa « di avere avuto alcune rivelazioni segrete che al suo ritorno avrebbe rivelato a lei sola ». E parimenti abbiamo detto di come la madre, circa la sua unione con il dio-serpente, si schernisca con il figlio, dicendogli di tacere della cosa per timore di suscitare la gelosia di Hera, la sposa del re degli dèi. Volendo celiare, potremmo attribuire al desiderio di proteggere la madre dalla gelosia della dea il proposito del figlio di elevare post mortem Olimpiade dal piano dell’umano al livello del divino. L’attesta Curzio Rufo (ix 6 26), con parole attribuite allo stesso Alessandro: « Poiché ora mi si è offerta la possibilità di rivelare un disegno già da tempo meditato nel mio animo, la piú grande ricompensa delle mie fatiche e delle mie imprese sarà se Olimpiade mia madre verrà consacrata all’immortalità 6. Vd. sempre Berve 1926, num. 57 e 704.
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quando uscirà dalla vita terrena. Io stesso realizzerò questo voto, se lo potrò: se il destino dovesse rapirmi prima, ricordatevi che ve ne ho affidato l’incarico ». Il discorso è rivolto agli amici, giunto in India e ormai costretto al ritorno verso Babilonia, e l’informazione è ancora ripetuta dallo storico (x 5 30) commentando l’operato dell’eroe dopo la sua morte con parole che non lasciano adito a dubbi: « egli aveva deciso di consacrare Olimpiade all’immortalità ». Un mandato, questo, che il Macedone affida ai piú fidi compagni. Ma il destino vorrà che non solo la madre non sia deificata, ma che, abbandonata da tutti, muoia costretta al suicidio o giustiziata o assassinata senza neppure l’onore di pubbliche esequie. Se quello di Alessandro era « un disegno già da tempo meditato », è però verosimile che, non potendolo fare di persona, a voce, l’avrà comunicato epistolarmente alla madre, che gli avrà risposto manifestando certo il proprio stato di animo: di gratitudine o, piú difficilmente, di disappunto. In lettere di cui purtroppo non abbiamo la minima traccia, ma possiamo a ragione intuirne l’esistenza. Di fatto, l’immagine di Olimpiade unitasi a Zeus tramutatosi in serpente è molto simile a quella, leggendaria, di Leda congiuntasi con il medesimo dio che aveva preso il sembiante di un cigno. Il che porterebbe a un raffronto tra la loro prole, in entrambi i casi divina: da un lato Alessandro, dall’altro i Dioscuri. La cui duplice sembianza gemellare il figlio di Olimpiade potrebbe per propaganda avere assommato in sé. Stupisce che il dato non sia stato valorizzato, anche se è chiaramente esplicitato da Arriano (iv 8 2-3) con riferimento all’episodio di Clito cui già abbiamo accennato: « Durante il simposio vi furono alcune discussioni riguardanti i Dioscuri, su come la loro nascita fosse stata ricondotta a Zeus, dopo essere stata sottratta a Tindaro. E alcuni dei presenti, per adulazione nei confronti di Alessandro […], non ritennero per nulla una cosa sproporzionata mettere a confronto Polluce e Castore con Alessandro e le sue imprese ». Alessandro è l’eroe invincibile, l’hēros aniketos, e ne sorge spontanea, e quasi obbligata, l’assimilazione con i Dioscuri, araldi premonitori di vittoria sul campo di battaglia, dove apparivano montati su bianchi cavalli, tanto nel mondo greco quanto nel mondo romano. Con una leggenda cosí dura a morire che conosce anche una sua cristianizzazione, allorché i 108
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divini gemelli compaiono in sogno a Teodosio nella notte che precede la sua vittoria nella battaglia del Frigido.7 A piú concrete interferenze con il divino riconduce poi una lettera di Olimpiade, tramandata da Ateneo (xiv 659f), che solo apparentemente potrebbe connotarsi come pertinente la sfera del privato: Prendi da tua madre il cuoco Peligna: perché costui conosce bene le regole con le quali si compiono le cerimonie sacrificali della tradizione, sia quelle “argadistiche”, sia quelle “bacchiche”, ed è esperto nei sacrifici praticati da Olimpiade. Allora non lasciartelo scappare, ma prendilo e rispondimi al piú presto.
La funzione di cuoco includeva anche quella, sacerdotale, della stessa uccisione delle vittime con le loro parti, a seconda dei riti, da sacrificare agli dèi. Cosí precisa l’attidografo Clidemo (FGrHist, 323 F 5a), tràdito da Ateneo (xiv 66a), testimone a sua volta della lettera di Olimpiade con la raccomandazione al figlio « di procurarsi da lei un cuoco esperto in sacrifici ». I quali possono avvenire secondo le pratiche volute dalla dinastia argeade o secondo le usanze bacchiche. Entrambe definite « cerimonie sacrificali della tradizione », ta hierasou ta patrōia. Chiaramente le prime connesse al mondo della Macedonia e le seconde all’Epiro, o comunque alla persona della regina. Probabilmente è Alessandro, sempre desideroso di propiziarsi il favore degli dèi, che del cuoco ha fatto richiesta alla madre, ma potrebbe anche essere stata un’iniziativa di quest’ultima timorosa che il figlio non si inorientalizzasse troppo nelle proprie pratiche di culto. Con il suo « rispondimi al piú presto » la lettera è poi specchio di tutta l’ansia e l’aspettativa di lei nell’avere sollecite notizie di un figlio che immaginava sempre piú disperso nel cuore delle infinite distese dell’Asia. È comunque indiscutibile che Alessandro – pure a prescindere dalla richiesta o dall’accettazione del cuoco esperto in sacrifici – sia emotivamente condizionato dalla madre nella sfera di interferenze con il divino. Ragione per la quale i “memoriali”, che riferiscono dei suoi postumi e irrealizzati progetti, ne testimoniano la volontà di costruire « sei templi molto sfarzosi con una spesa di millecinquecento talenti » da erigere, i 7. Vd. Cracco Ruggini 1972, pp. 89 sgg.
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primi tre, « a Delo a Delfi e a Dodona », come specifica Diodoro (xviii 4 5). Con ciò egli veniva a restituire il massimo di importanza all’arcaico santuario epirota venerato dalla madre, equiparandolo a quello dei due piú frequentati santuari della grecità. Né è da escludere che a Dodona egli legasse anche il progetto dell’apoteosi materna. 5. Le interferenze con il privato Molte delle raccomandazioni epistolari di Olimpiade al figlio riguardano i suoi amici, che ella vede, per la benevolenza di lui, troppo interessati a crearsi un proprio spazio, o status autonomo, che alla lunga li avrebbe distolti dall’obbligo di servirlo, lasciandolo privo del loro supporto. In questo senso, particolarmente istruttiva è una testimonianza di Plutarco (Alex., 39 7-13) che accenna alla sua eccessiva prodigalità con i compagni del seguito: Quanto alle ricchezze distribuite agli amici e alle guardie del corpo c’è una lettera di Olimpiade, scritta ad Alessandro, che testimonia quanto vanto questi ne recassero. Cosí essa recita: « Cerca di fare del bene ai tuoi amici e di renderli famosi in altro modo; ora infatti tu li rendi tutti simili a re, e procuri loro molte amicizie, ma rendi te stesso solo ». Olimpiade gli scrisse di frequente in tal senso, ed egli teneva segrete queste lettere fuori che una volta, quando non impedí a Efestione di leggerne una che egli, secondo il suo solito, gli aveva aperta: però si sfilò dal dito l’anello e ne impresse il sigillo sulle labbra dell’amico.
Olimpiade intende dire che gli amici – “compagni del re” o “eteri” – vanno certo ricompensati, ma non stravolgendo i rapporti che li legano al figlio, ché ciò sarebbe andato a scapito della sua autorità. Una cosa è gratificarli con donativi, altra renderli « tutti simili a re » favorendo il crearsi di loro « amicizie », cioè di autonome clientele. Le quali sarebbero state alla base della disgregazione settaria dell’impero al tempo della spedizione in India, da cui si pensava che egli mai piú sarebbe tornato, nonché della parcellizzazione della conquista in monarcati autonomi subito dopo la sua morte. Non possiamo non concordare sul fatto che Olimpiade vedesse il giusto, ma la troppa prodigalità del figlio era una delle facce della sua sconfi110
vi. madre e figlio, la comunicazione epistolare
nata esuberanza fuori sempre dai limiti.8 Ragione per la quale Alessandro, punto sul vivo, e riconoscendo non infondata la rampogna, teneva « segrete » tali missive della madre. Il che indica che le altre si compiaceva di leggerle agli amici, rendendoli partecipi della sua ansia e della sua felicità nel ricevere notizie da lei. Anche se bisessuale, e talora sposato con figlie di satrapi e di re, egli prediligeva gli uomini alle donne, ed Efestione9 era il compagno piú caro al proprio cuore, quello che perfino, come in questo caso, poteva aprirgli la corrispondenza privata. Non aveva segreti di sorta per lui, e questi sapeva certo mantenere la consegna del silenzio, in questo caso simbolicamente impartitagli dal sigillo regale imposto sulle sue labbra. Ma i rapporti tra Olimpiade ed Efestione meritano un discorso a parte, assai piú approfondito. La regina non tollerava la passione del figlio per Efestione; passione che l’aveva portato ad asserire – lo riporta Diodoro (xvii 114 2) – che altri compagni amavano il re, ma soltanto « Efestione amava Alessandro », o che questi era « parte » di sé. Certo ella doveva piú volte avere indirizzato al figlio, e al suo onnipotente amico, lettere vibranti di disapprovazione per un legame tanto avvincente che rischiava di escluderla dalle confidenze del figlio. Ma l’amore per l’amato doveva in Alessandro superare anche il rispetto parentale, se Efestione si sente autorizzato ad apostrofare la madre del re con queste parole: « Smetti di calunniarmi! Non essermi ostile e non minacciarmi! In caso contrario mi importerà poco; come sai, Alessandro è piú potente di tutti ». Cosí riferisce Diodoro (xvii 114 3), e non c’è motivo per non credergli. Solo tra tutti i compagni del re egli può permettersi tanta sprezzante arroganza. Efestione sa di possedere le chiavi del cuore di Alessandro, che è « piú potente di tutti » e in grado di proteggerlo dalla furia, senza freni, della madre. La quale lo “calunnia” con il figlio, e parrebbe addirittura averlo “minacciato” e “osteggiato” in proprio. Certo ella teme che il legame tra i due possa degenerare o comunque possa portare danno al figlio. Ma altra è la radice piú profonda di tanta ostilità, ampiamente ricambiata. È una gelosia da suocera, seppure del tutto impropria! Dagli affari di stato 8. Vd. Mossé 2003, p. 101. 9. Documentazione in Berve 1926, num. 357.
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Alessandro ha sempre preferito tenere fuori Olimpiade, adeguandosi al tradizionale maschilismo del tempo. Ma per tutto il resto con la madre ha sempre condiviso, con un ininterrotto e assiduo epistolario, il suo pensiero, spiandone le reazioni, appoggiandosi a lei, conformandosi ai suoi desideri, esplicitandone le proprie emozioni, tollerandone i capricci. Tutto un complesso modo di relazionarsi che, da un momento all’altro, poteva essere messo in crisi, o forse già lo era, dall’attrazione passionale del figlio per Efestione, nuovo, o possibile, destinatario delle medesime confidenze prima riservate alla madre. 6. Gli interessi scientifici Come abbiamo detto, Alessandro, nella sua marcia quasi senza meta, si inoltra in regioni di continuo piú sconosciute e remote, e lo spingono a procedere innanzi, nel travaglio dell’animo inquieto, sia l’innata ansia esistenziale, propria della madre Olimpiade, sia la disponibilità a scoprire sempre nuovi orizzonti di conoscenza per debito dell’insegnamento di Aristotele. Istanze, entrambe, destinate a trasformare il conquistatore in esploratore di nuove plaghe incognite per la fatale attrazione di violare i confini dell’ignoto e per la mira costante di tramutarsi in memorialista scientifico del proprio viaggio. Crede cosí, giunto in India, di avere risolto il grande problema dell’ubicazione delle sorgenti del Nilo, qui celat origines come ancora, secoli dopo, ci ricorda Orazio (carm., iv 14 45). Un mistero la cui soluzione è sogno comune e inevaso per innumerevoli conquistatori, da Cambise a Cesare, da Augusto a Napoleone. Alessandro, in preda all’entusiasmo della scoperta, o presunta tale, la comunica subito alla madre, per poi ricredersi, a una piú attenta meditazione, e cassare la notizia dalla lettera indirizzatale. Lo testimonia Arriano (vi 1 4-5): Inoltre, scrivendo a Olimpiade circa la terra degli Indiani, le comunicò tra l’altro di avere scoperto le sorgenti del Nilo, basandosi su argomenti di scarsa consistenza per provare questione di tanta importanza. Quando poi ebbe indagato piú a fondo […] tolse dalla lettera alla madre ciò che aveva scritto sul Nilo.
La missiva è rivelatrice della immediata sollecitudine, quasi ansia, del figlio nel comunicare alla madre lontana quella che reputava fosse un’illu112
vi. madre e figlio, la comunicazione epistolare
minante scoperta e, soprattutto, della sua serietà scientifica nel prendere coscienza del proprio errore. Ci rivela, inoltre, l’accuratezza e l’estensione epistolare delle sue informazioni « circa la terra degli Indiani » se, senza distruggere la lettera, la emenda della ghiotta notizia che non regge a un esame piú attento. Onestà intellettuale che avrà contraddistinto tutta la corrispondenza di argomento geo-etnografico da lui indirizzata a Olimpiade, con una serie continua di scritti piú simili a opuscoli, o a diari di viaggio, anziché a semplici lettere. Ma perché Alessandro – prima di ricredersi – si era convinto di avere scoperto le sorgenti del Nilo? Lo spiega di nuovo Arriano (vi 1 2-3), riferendosi al Macedone in veste di esploratore: « Avendo visto in precedenza che c’erano coccodrilli nell’Indo, l’unico tra gli altri fiumi ad averne a eccezione del Nilo […], pensò di avere scoperto le sorgenti del Nilo, ritenendo che il fiume nascesse da qualche parte in India, scorresse attraverso un vasto territorio desertico e qui perdesse il suo nome; che piú oltre […] fosse ormai chiamato Nilo dagli Etiopi […] e dagli Egiziani ». Sono i coccodrilli, con la flora della riva fluviale, gli elementi del paesaggio che guidano Alessandro a ipotizzare l’esistenza di una congiunzione tra l’Indo e il Nilo, quale unico fiume che a meridione avrebbe costitui to il confine del suo dominato.10 Ma, pure a prescindere dai termini assegnati alla geografia di conquista, la deduzione era per lui tanto piú importante perché, a dire di Fozio (bibl., 249), Aristotele stesso l’avrebbe incaricato di scoprire la causa delle piene del Nilo, o secondo Eratostene (schol. Plat. Tim., 22e) di scoprire le stesse sorgenti del fiume. Compito che, in effetti, il Macedone tentò di portare a compimento quando era in Egitto, giacché Callistene (FGrHist, 124 F 12) attesta una spedizione da lui realmente effettuata con l’obiettivo di scoprirne – heurein – le mitiche sorgenti. Con notizia che filtra fino alla Farsaglia di Lucano (x 271-75) dove leggiamo che Alessandro, « invidiando il segreto del Nilo » inviò esploratori scelti fino « agli estremi confini dell’Etiopia », dove « videro ribollire » il fiume e la temperatura rovente ne arrestò la marcia. Se della mancata scoperta delle sorgenti del Nilo il Macedone non ha informato il sommo maestro è solo perché nella sua ansia di comunicare 10. Cosí Braccesi 2006, pp. 162 sgg. Ma vd. soprattutto Schneider 2004, pp. 37 sgg.
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la notizia – poi risultata errata – egli ha anteposto la madre al filosofo. Constatazione scientifica, la sua, ma ciò nonostante da comunicare con emozione alla madre prima ancora che “al maestro di color che sanno” che pure l’aveva pregato di indagare sul piú occulto segreto del fiume. Riprova, questa, dell’importanza del legame ininterrotto tra madre e figlio, e della loro piú intima corrispondenza di affetti e sentimenti, che porta questi a tollerare – seppure non sempre ad appagare – tutti i capricci della donna, nonché quest’ultima a infilarsi a tal punto nella confidenza del figlio da divenire sempre e comunque la sua prima interlocutrice e, nonostante Efestione, la complice dei suoi pensieri piú segreti. Cosa tanto piú sorprendente se consideriamo che, dopo la partenza del Macedone per l’Asia, i due non si sono piú rivisti e neppure mai si rivedranno. Morrà il figlio prima della madre, e questa, assunta la maschera dell’Erinni a un tempo protettrice e vendicatrice, farà invano di tutto per garantire la successione al trono a un omonimo rampollo di Alessandro, nato postumo dall’unione con l’afgana Rossane figlia di un principe della Battriana.
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VII IL FIGLIO DI ALESSANDRO, IL NIPOTE DI OLIMPIADE 1. La morte del condottiero Quando, dopo la sofferta ritirata dall’India, Alessandro ritorna provato in Mesopotamia, a Babilonia, nell’estate del 324, solo allora medita concretamente sul significato della conquista. Quale il modello per lo sterminato impero? Non piú il modello macedone; ma neppure, o neppure del tutto, quello persiano. La soluzione finale deve venire dal superamento della stessa esperienza ecumenica dei sovrani achemenidi. Pervenuto, in India, quasi in prossimità dell’oceano esterno che si riteneva circondasse la terra, egli è di fatto arrivato al confine del mondo abitato. Da questo momento avverte come il suo regno non possa limitarsi all’Asia, ma debba abbracciare l’intera ecumene. Ma il monarcato universale, l’impero senza frontiere, necessita dell’elaborazione di una nuova cultura e della nascita di una nuova società. Le quali possono scaturire soltanto da una forte coesione tra vincitori e vinti. Questo è, appunto, il progetto cui attende l’ultimo Alessandro, dando vita a tutta una serie di iniziative che, nello stesso 324, trovano simbolico coronamento nella grande festa nuziale di Susa. Come tutti i grandi autocrati, anche il Macedone sa quanto contino i messaggi della propaganda ed è, nel caso della grande celebrazione nuziale, davvero sconcertante la modernità dell’apparato scenico e la sapienza di una regia che ci propone una moltiplicazione seriale di immagini visive. La coreografia è davvero grandiosa. Il Macedone si sposa con Barsine (o forse con Statira) figlia di Dario III, il diletto Efestione con una sorella di lei, « poiché i figli di lui fossero cugini dei propri figli » e i compagni piú fedeli, i futuri diadochi, con altrettante fanciulle della piú nobile aristocrazia persiana, mentre ne seguono l’esempio altri ottanta ufficiali superiori, o etèri, a loro volta imitati, nelle nozze con donne asiatiche, da diecimila fanti. La scena, dipendendo dalla piú antica storiografia sul Macedone, ci è meticolosamente descritta da Arriano (vii 4), il quale narra che « ricevute le spose, ciascuno condusse via la propria e Alessandro assegnò a tutte la dote » e ai consorti « regali nuziali ». 115
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Nascerà, in senso lato, da queste unioni di sangue la cultura ellenistica, ma non la monarchia universale, cioè l’Asiae et Europae unum atque idem regnum. E non nascerà perché il grande artefice decede improvvisamente a Babilonia poco piú che trentenne, a distanza di una manciata di mesi dalla scomparsa dell’amato Efestione. Alessandro muore a metà del corso, mentre sogna la fusione delle genti, mentre provvede alla sostituzione di Antipatro, il reggente di Macedonia, mentre impone ad Atene il rientro dei banditi politici. Probabilmente è una causa naturale quella che il 13 giugno del 323 ne stronca la vita a soli trentatré anni di età. Ma proprio le molte polemiche, palesi o latenti, che suscitano i suoi ultimi atti di governo favoriscono la diceria, mai del tutto sopitasi, di una sua scomparsa traumatica per avvelenamento. Il grande condottiero scompare dunque all’improvviso mentre dedica ogni sforzo al tentativo di conferire un assetto definitivo a un impero già proteso verso ulteriori conquiste. Si spenge la sua luce – meteora che fulmineamente aveva abbagliato il mondo – mentre la Macedonia piú non si riconosce nel modello della sua monarchia, mentre la grecità non nutre piú illusioni su questo ultimo suo figlio, mentre lo stesso sterminato universo persiano è incredulo sugli esiti della commistione di sangue tra Asia ed Europa voluta dal nuovo Gran Re, successore degli Achemenidi per diritto di conquista.1 La progettata spedizione in Occidente avrebbe forse dovuto cementare la nuova realtà, imponendo silenzio alle troppe voci di fronda che certo sarebbero ammutolite dinnanzi all’effettiva realizzazione del disegno ecumenico. Ma la spedizione non vi fu, e il progetto, ancora in fase di incubazione, sarà solo destinato a essere avvolto dal mistero e trasfigurato dalla leggenda. La quale, nel volgere dei secoli, attribuirà ad Alessandro il superamento di sempre nuove frontiere di conoscenza, alimentandone senza posa il mito con continue acquisizioni territoriali nell’ambito della geografia di conquista. Un mito che sempre piú ne identifica la figura in quella eroica di Eracle, il mitico progenitore. Si spenge – l’abbiamo detto – una luce che fulmineamente aveva abbagliato la terra, « che dinnanzi a 1. Il debito del par. 1 è dalle pagine di un’agile biografia del Macedone: Braccesi 2014, pp. 87 sgg. Ivi pp. 125 sgg. una succinta rassegna bibliografica.
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vii. il figlio di alessandro, il nipote di olimpiade
lui ammutolí » come recita nella Bibbia l’incipit del libro dei Maccabei (i 1-6). Spentasi la luce, lo smisurato dominato, privato del suo artefice, cede alla disgregazione per effetto delle troppe forze centrifughe che lo frazionano in piú dominati retti dai compagni di Alessandro, divenuti suoi successori o, con termine greco, diádochoi. 2. Rossane, la moglie di Alessandro Ma il trapasso verso un nuovo assetto della conquista avviene non senza che Olimpiade, suscitando una cruenta guerra civile, cerchi prima e con tutti i mezzi di tutelare i diritti successori del figlio di Alessandro non ancora nato quando il padre muore. Ella era lontana, in Epiro, e madre dell’uno e nonna dell’altro, darà la vita per la continuità ereditaria del sangue regale, insidiata in Macedonia dalle mire di altri eredi e in Babilonia dalle trame dei diadochi che si apprestavano a spartirsi l’impero mutandosi essi stessi in sovrani indipendenti. Ma di tanto turbinosi avvenimenti, che precipiteranno la Macedonia in un bagno di sangue, parleremo a tempo debito. Ora preme dire qualcosa in merito alla donna che dona un figlio ad Alessandro e all’impero un troppo fragile erede. La donna si chiama Rossane,2 ed è la figlia di Ossiarte, un satrapo, o principe, della Battriana sconfitto da Alessandro. Il quale nota la bella principessa afgana mentre, invitato dal padre, « partecipava alle danze durante un banchetto » allestito per rallegrare gli ospiti vincitori come racconta Plutarco (Alex., 47 7). Siamo nel 327, e dell’incontro tra i due siamo informati da Arriano (iv 19 5) che, per le fonti cui attinge, è lo storico piú fededegno: « Era figlia di Ossiarte una fanciulla in età di matrimonio chiamata Rossane; secondo gli uomini al seguito di Alessandro, la piú bella donna dell’Asia dopo la moglie di Dario. Quando la vide, Alessandro si accese di amore per lei; non volle però usare violenza a colei che era una sua prigioniera, ma le concesse l’onore di sposarlo ». Dunque un vero e proprio colpo di fulmine, con un comportamento, da parte di Alessandro, da perfetto gentiluomo anche nei confronti di una prigioniera che era suo diritto possedere senza usarle riguardo alcuno. Il 2. Vd. Berve 1926, num. 688.
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che induce a riflettere, e fa pensare che, al di là dell’attrazione per la bella fanciulla, altra sia stata la ragione che spinge il Macedone al matrimonio: quella che « la storia dell’amore » convenisse « perfettamente alla sua azione politica », come ci dice Plutarco nella testimonianza già riferita. Cosa, già prima di lui, asserita da Curzio Rufo (viii 4 25-29) scrivendo che il Macedone « si abbandonò talmente all’amore per una giovinetta » perché « per consolidare il regno occorreva che Persiani e Macedoni si unissero mediante matrimoni » annullando cosí « la vergogna nei vinti e la superbia nei vincitori », et pudorem victis et superbiam victoribus. Sicché, conclude lo storico, facendo eco a polemiche che subito, morto il Macedone, circolarono nell’ambiente della sua corte: « Il re dell’Asia e dell’Europa si legò in matrimonio con costei […] per generare da una prigioniera il figlio che avrebbe dovuto regnare sui vincitori ». Non sono dunque, o non solo, le attrattive di Rossane, cioè della “piccola stella”, a indurre Alessandro al matrimonio, ma ragioni politiche. Dato da non sottovalutare perché mostra come, già tre anni prima della grande e collettiva festa nuziale di Susa, Alessandro pensasse a un impero senza frontiere che nascesse dalla creazione di una nuova società basata sulla coesione di vincitori e vinti. Le nozze di Susa sono cosí la tappa finale di un progetto a lungo maturato che trova in lui la prima esplicitazione nell’unione con Rossane. Ma cosa sappiamo dei rapporti tra i due? Non abbiamo in proposito la benché minima informazione, ma qualcosa possiamo arguire dal fatto che Rossane rimanga incinta solo « cinque » o « otto » mesi prima della morte di Alessandro, come ci dicono, rispettivamente, Curzio Rufo (x 6 9) e Giustino (xiii 2 5). Le cui testimonianze, ancorano il concepimento della prole ventura al gennaio/febbraio del 323 o all’ottobre/novembre del 324. Ne possiamo quindi dedurre che Alessandro fino a queste date abbia frequentato assai poco il letto di Rossane sia per scarsa attrazione verso le donne sia per probabile gelosia di Efestione, che muore nell’ottobre del 324, a Ecbatana, subito appresso la grande festa nuziale di Susa che l’aveva visto sposo di Dripetide, figlia del Gran Re sconfitto. Entrambi eventi che riportano Alessandro a riflettere sia sul progetto della monarchia universale sia, con il pensiero della morte, sulla fragilità della natura umana. Solo dopo i due quasi contemporanei accadimenti, egli si pone il problema 118
vii. il figlio di alessandro, il nipote di olimpiade
concreto della propria eredità successoria e si rivolge con un preciso intento al disertato (o poco battuto) talamo di Rossane, che aveva sposato tre anni prima già pensando alla necessità di fusione delle stirpi. Comunque che i due, quando Alessandro muore, vivessero insieme, negli stessi appartamenti, potrebbe trovare conferma in una curiosa notizia riferita da Arriano (vii 27 3). Il quale, in accordo con gli storici piú autorevoli, non crede nella tradizione di una morte del Macedone per avvelenamento. Ciò nonostante, per non essere tacciato di omissione di notizie, o di ignoranza, ricorda una tradizione per la quale, nel corso di un banchetto a Babilonia, il re, « dopo avere bevuto da una coppa », aveva provato un tanto « acuto dolore » da spingerlo a eclissarsi dagli astanti per gettarsi nelle acque dell’Eufrate e celare cosí la sua natura mortale: Qualcuno non ha avuto ritegno di scrivere che Alessandro, sentendosi alla fine della vita, andò a gettarsi nel fiume Eufrate per sottrarsi agli uomini e lasciare ai posteri una versione piú credibile della sua nascita dal dio e del suo ritorno agli dèi. Tuttavia la consorte Rossane si accorse che si era allontanato e, quando si frappose sul suo cammino, Alessandro gridò che essa gli invidiava in questa maniera la gloria della nascita divina. Tali particolari li devo ricordare perché non sembri che li ignori, ma si tratta di dicerie piuttosto che di fatti degni di fede.
L’accaduto non è credibile, ma è facile riscoprire le due matrici che portano alla sua elaborazione: da un lato la leggenda della sua genesi divina, dall’altro la smania di immediato refrigerio nella crisi di un eccesso febbrile. In questo caso, Alessandro sarebbe stato a letto, malato e in fine di vita, come narrano le fonti piú attendibili, e le acque in cui tenta di immergersi non sarebbero state quelle dell’Eufrate, bensí quelle di una delle numerose piscine o fontane del palazzo. Cosí ridimensionata la notizia, acquista credito anche l’informazione di una presenza di Rossane al suo capezzale, rivelandoci che i due – il sovrano morente e la donna incinta di lui – convivevano nei medesimi appartamenti. Ciò che stupisce dei matrimoni di Alessandro è che negli scambi epistolari con la madre Olimpiade nulla trapeli delle nozze con Rossane e delle successive, dagli intenti ancora piú propagandistici, con Barsine (o Statira) figlia del defunto re Dario. Il silenzio è probabilmente da attribui re al caso, cioè alla selezione dell’epistolario del Macedone operata dai 119
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primi – e perduti – suoi storiografi, cui hanno attinto gli autori di età romana in nostro possesso. Ma potrebbe anche attribuirsi al fatto che il duplice evento, a partire dal primo, non fosse meritevole di rilevante notizia in una società maschilista e poligamica, quale quella della corte macedone. Ciò che giustificherebbe la scarsa attenzione delle fonti nel trasmetterci il nome e il numero delle principesse sposate dal vincitore nella grandiosa festività di Susa: Barsine per Curzio Rufo (x 6 13), Barsine con l’aggiunta di Parisatide per Arriano (vii 4 4) e Statira per Plutarco (Alex., 77 6-8). Spiegazione che però, da parte di Alessandro, non è applicabile alla mancata sua partecipazione alla madre dell’attesa del “lieto evento” che gli donerà il successore. Questo non poteva certo non averglielo confidato, e probabilmente con un messaggio sui propri intenti futuri che spiega, dopo la morte del figlio, l’angoscia prorompente di Olimpiade nel proteggere la nuora e nel salvaguardare lo scettro al nipote. 3. Il nascituro Il nascituro prenderà il nome del padre. Ma già prima della sua nascita su di lui si addensano fosche ombre, che riflettono gli illeciti interessi di quanti, tra i compagni del Macedone, lui morto, mirano a spartirsene l’eredità. I primi, ipocriti, protagonisti dello squallido “balletto” che inizia già prima che il corpo dell’eroe riposi – dopo non poche turbinose vicende – nella sua definitiva sepoltura, sono Perdicca e Tolomeo. Il primo,3 che soccomberà nell’impresa, mira a proporsi quale erede universale di tutto il monarcato. Il secondo4 guarda già all’Egitto come sede definitiva di un proprio futuro dominato, con maggiore fiuto politico e presagendo l’avvenire che lo porterà a essere il fondatore di una dinastia, nonché un “non disinteressato” storiografo di Alessandro e della sua grande avventura. Curzio Rufo (x 6 9), riferendo dello smarrimento dei compagni piú vicini al Macedone nell’affrontare l’inaspettato e gravoso problema della sua successione, ci riferisce in questi termini le parole apparentemente 3. Vd. Berve 1926, num. 627. 4. Ivi, num. 668.
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vii. il figlio di alessandro, il nipote di olimpiade
concilianti di Perdicca: « Da cinque mesi Rossane è incinta. Auguriamoci che dia alla luce un maschio, a cui abbia a toccare il regno, col consenso degli dèi, quando sia divenuto grande. Nel frattempo, decidete da chi volete essere governati ». La testimonianza, come sempre nello storico latino, si concede alle coloriture della narrazione romanzata, ma è pienamente confermata da Giustino (xiii 2 5) con la sola variante che i mesi della gravidanza di Rossane sono indicati in « otto » anziché in cinque. Perdicca, che si prepara alla reggenza, afferma sí che il legittimo erede di Alessandro, se maschio, non possa essere che il suo figlio nascituro, ma, in attesa del lontano domani, si preoccupa di garantirsi in proprio una solida posizione di potere nell’oggi. L’espressione, riferita all’ancora non nato, « quando sia divenuto grande », quandoque adoleverit, suona come un’oscura minaccia e lascia presagire che per lui, sbocciato alla vita, il problema della sopravvivenza non sarà certo facile. Frattanto, nei convulsi giochi di potere che coinvolgono i futuri diadochi, meglio ingraziarsi Rossane e porla sotto la propria protezione. Cosa che Perdicca certo non trascura, se è vero, come dice Diodoro (xviii 3 3), che dilata i confini della satrapia paterna fino a includervi il cosiddetto Caucaso Indiano, cioè assegnando « il territorio situato lungo il Caucaso, detto Paropanisade, al battriano Ossiarte, di cui Alessandro aveva sposato la figlia ». Questi è il nonno del nascituro, e nello stesso tempo – forse senza neppure saperlo – il consuocero di Olimpiade e del defunto Filippo. Comportamento opposto manifesta, invece, Tolomeo che mette in dubbio per la successione al trono la legittimità di un erede a suo avviso bastardo perché concepito da una donna, non solo barbara, ma anche prigioniera per diritto di guerra. Tali le sue parole sempre nella narrazione di Curzio Rufo (x 6 13): « È un rampollo degno di regnare sul popolo dei Macedoni un figlio di Rossane o di Barsine? Un rampollo che l’Europa si vergognerà persino di nominare, trattandosi di un prigioniero per la parte maggiore del suo essere. È per una siffatta ragione che abbiamo sconfitto i Persiani, per servire alla loro stirpe? ». Parole dalle quali riaffiora il contrasto tra Asia ed Europa, tra vinti e vincitori, invano tentato di sopire da Alessandro nel progettato disegno di fusione delle stirpi e nel miraggio dell’impero ecumenico. La prospettiva è di rottura: quella di un seguace del Macedone che la dimensione di questo impero già rifiuta in un’ottica 121
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nazionale, o nazionalistica, scandita dall’espressione « popolo dei Macedoni », con riferimento al popolo sul quale dovrà regnare il fatale rampollo: soboles quae Macedonum imperet genti. Rafforzata poi dalla menzione di una « Europa » che addirittura si vergognerà di pronunziarne il nome di tale sovrano: cuius nomen quoque Europam dicere pigebit. Ciò che vale se, oltre a Rossane, si rivelasse incinta anche Barsine, la figlia di Dario che il defunto condottiero aveva sposato l’anno prima, nella solenne festività di Susa. Non c’è per Tolomeo differenza di sorta tra la figlia di uno sconosciuto satrapo della Battriana e la divina ed eccelsa progenie del Gran Re persiano. Massimo il disprezzo per entrambe, nulla piú che prigioniere di guerra, cioè schiave per diritto di conquista. L’impero universale muore con Alessandro, e chi, in nome del figlio di Rossane, ne avesse rivendicato l’eredità avrebbe trovato sulla propria strada i suoi antichi compagni, pronti per personali mire di potere a sbarrargli la via. Tanto in Asia, con Perdicca, Tolomeo, Antigono, Seleuco e Lisimaco, quanto in Europa con Cratero e “l’ancora non sostituito” Antipatro, entrambi impegnati in Grecia, sotto le mura di Lamia, a reprimere una pericolosa insurrezione di Atene e delle città con essa confederate. Ma tutti, sia in Asia sia in Europa, temevano che per neutralizzare i diritti del nascituro, e poi dell’infante, e prima del definitivo affossamento dell’unità dell’impero, avrebbero dovuto fare i conti con Olimpiade, e non sbagliavano. Essa, infatti, con le unghie e con i denti, e con indomita passionale esaltazione di baccante, pure dal lontano Epiro seguirà gli eventi, farà sí di ricongiungersi con Rossane e si batterà fino alla morte per il nipote e per la sua successione al trono paterno, insidiata – come abbiamo detto – in Macedonia dalle mire di altri eredi e in Asia dalle trame dei futuri diadochi.
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VIII EREDITÀ DI SANGUE E SANGUE DI VENDETTA 1. I due re Tutto, a Babilonia, si consuma in fretta tra reciproci sospetti, convenienze del momento, accordi segreti e inconfessate personali aspirazioni di potere. Il problema della successione ad Alessandro trova contrapposti due partiti. Da una parte quello dell’assemblea dei fanti della falange, che per lealtà dinastica si schiera a favore di Arrideo, figlio di Filippo, fratellastro del Macedone, epilettico e disturbato di mente. Dall’altra il partito degli hetáiroi del corpo scelto di cavalleria e della ufficialità dello stato mag giore che, con Perdicca, trovano piú conveniente guadagnare tempo, anzi lustri, pronunziandosi, se fosse nato maschio, a favore del nascituro figlio di Rossane. Prevale, quasi giunti allo scontro armato, la soluzione di compromesso, di cui ci informa Diodoro (xviii 2 4): « Subito elessero re Arrideo, il figlio di Filippo, e gli cambiarono il nome in Filippo, nominarono reggente del regno Perdicca, che era colui cui già il re in punto di morte aveva consegnato il suo anello ». Perdicca, dopo la morte di Efestione, era il compagno piú vicino ad Alessandro, che lo aveva insignito del titolo di “chiliarca”, che è traduzione greca di quella che, alla corte del Gran Re, era stata la piú alta carica persiana. È naturale quindi che il suo signore, morendo, gli affidi con l’anello il sigillo reale. Ma che l’atto lo consacri a suo successore è solo voce strumentale, messa in giro ad arte. Egli comunque, da buon equilibrista, nella ritrovata concordia è nominato reggente, ovviamente per i due re, il demente e, se maschio, il nascituro. Una posizione di potere invidiabile, ma non duratura, ché, solo due anni dopo, nel 321, egli soccomberà nella battaglia del Nilo, combattendo contro Tolomeo. Ma, come reggente dei due re, egli cosa prevedeva per il loro irrealizzabile futuro? Che regnassero insieme, o si dividessero il regno? Ormai, ancora caldo il cadavere del Macedone, nessuno pensa piú a tenere integro e unito il grande dominato, e la risposta l’offre Giustino (xiii 4 3-4) che afferma come fosse stata riservata « una parte del regno al figlio di Alessandro », 123
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aggiungendo poi, che testimone dell’accordo era lo stesso defunto sovrano: « Tali patti venivano presi davanti alla salma di Alessandro, posta nel mezzo, affinché la sua maestà fosse testimone delle loro deliberazioni ». Ut maiestas eius testis decretorum esset! Nulla di piú sacro si poteva invocare a tutela dell’accordo, tanto misero quanto, appunto, superbamente garantito. Il corpo di un martire o, nel nostro caso, di un eroe vinto solo dalla morte è suggello di fede per le generazioni future, e possiamo dire che inizia con questo giuramento dei cavalieri e dei fanti il culto tangibile del corpo del grande condottiero, corpo che sarà talismano di potere conteso dai suoi successori.1 Ma il reggente dei re, che aveva puntato troppo in alto la sua ambizione, muore – l’abbiamo detto – di lí a due anni, nel 321, e, nello stesso anno, a Triparadiso, in Siria, un nuovo accordo tra i signori della guerra, successori di Alessandro, insieme alla prima spartizione dell’impero, assegna ad Antipatro l’incarico di reggente dei due re, epimelētēs tōn basileōn, il demente e l’infante maschio frattanto venuto alla luce. Con loro, e con la vedova Rossane, partirà verso la Macedonia, dove morirà nel 319, non senza essersi posto il problema del futuro reggente. Che, contro le proprie aspettative, non sarà il figlio Cassandro, il futuro re di Macedonia, ritenuto troppo giovane e inadatto per il gravoso ufficio, ma uno stratega della vecchia generazione e della vecchia guardia di nome Poliperconte. Il quale, abile sul campo di battaglia, ma assai poco avvezzo alle movenze diplomatiche, non riesce ad attutire la fiera inimicizia di Cassandro, di fatto reggente dello stato seppure non ancora legittimato successore del padre. Suscitando, al contempo, quale epimeletés, il sospetto degli altri diadochi che si coalizzano contro di lui. Per difendersi, in un gioco ogni giorno fattosi piú pesante, non trova di meglio che sparigliare con una figura di donna, guardando all’Epiro e rivolgendo alla regina Olimpiade, madre di Alessandro, e nonna di un altro piccolo Alessandro, l’invito a tornare in Macedonia, come ci racconta Diodoro (xviii 49 4): « Poliperconte, dopo avere ricevuto la tutela dei re, consultatosi con i suoi seguaci, su loro consiglio mandò a chiamare Olimpiade, invitandola ad assumere la tutela del
1. La prospettiva del problema è quella indicata da Luzzatto 2011, passim.
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figlio di Alessandro, che era ancora un bambino, e a venire a risiedere in Macedonia godendo di onori regali ». Olimpiade, che non aspettava altro per finalmente rientrare in gioco, e che forse – morto l’odiato Antipatro – aveva sollecitato l’invito del reggente dei re, accorre subito in Macedonia, ma non da nonna che debba accudire al nipotino, bensí, a capo di un’armata guidata da Eacide, e sarà la guerra civile. Di fatto, anzitutto, una guerra di donne: da una parte l’ambiziosa Euridice, consorte del demente Filippo Arrideo, spalleggiato da Cassandro, dall’altra Olimpiade, impietosa giustiziera, alleatasi con Poliperconte.2 C’è da domandarci perché non si sia mossa prima? La risposta è duplice. Da un lato, Antipatro le avrebbe impedito qualsiasi spostamento, poiché era in grado, al suo primo movimento, di attanagliare l’Epiro in una morsa tale da ritrovarsi assediata in patria. Dall’altro lato, senza piú la protezione del figlio, che la rendeva intoccabile, anche per mare l’approdare in Asia l’esponeva al pericolo di insidie ai suoi danni da parte dei compagni di Alessandro, cioè dei nuovi signori cui mai era stata gradita. Un “fortuito” e ben “pilotato” incidente l’avrebbe potuta fermare per via. Ed ella doveva vivere per tutelare i diritti ereditari del nipote e impedire che l’immane costruzione territoriale del figlio finisse in frantumi. Comunque, anche dal romitaggio dell’Epiro, sposa la causa del male minore, che per lei si concretava nel corteggiamento a Perdicca, a colui che, almeno a parole, riconosceva la legittimità successoria del rampollo di Rossane e che per personale, smisurata, ambizione sicuramente puntava a conservare l’integrità del regno. Ma cosa poteva fare? Come diremo, disponeva di una carta vincente, non potendo prevedere che, di lí a due anni, sarebbe divenuta una carta caduca: quella, nuziale, di offrigli la mano della figlia Cleopatra, vedova del Molosso, figlia di Filippo e sorella del grande Alessandro. Ora, morto Antipatro, e defunto pure Perdicca, l’invito ufficiale di Poliperconte la rimetteva in gioco. L’attesa era stata lunga, stressante, e le aveva fatto accumulare un tale cumulo di odio e di ira repressa da spingerla a un terribile bagno di sangue che si rivolge contro le persone del re fantoccio 2. Vd. Berve 1926, num. 325. Un felice inquadramento di insieme in Will 1966, pp. 43 sgg.
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Filippo Arrideo, dell’intrigante consorte Euridice, nonché di Cassandro e dei propri sudditi. Tanto, a suo avviso, doveva alla memoria del figlio. 2. Le tre teste coronate La dinastia argeade dei re di Macedonia, dopo quattro secoli, e dopo il lampo supremo segnato dalle personalità di Filippo e di Alessandro, si esaurisce senza gloria con una coppia di sovrani che mai governeranno: il re fantoccio Filippo Arrideo e il re bambino, omonimo del padre, che sarà assassinato – dopo una precedente uccisione dello zio demente – prima che abbia potuto rendere conto delle sue capacità. Ma, ciò nonostante, la dinastia si esaurisce nella luce intensa, e talora sinistra, di tre donne regine, dal rapido intuito politico e pronte a giocare il tutto per tutto su un mutevole scacchiere internazionale con indifferibile necessità di stabilizzazione. I loro nomi sono già noti al lettore: Cleopatra, figlia legittima di Filippo e vedova del Molosso, Euridice, sua sorellastra, nata da Cinna, la figlia dell’illirica Audata, nonché, su tutte sovrastante, Olimpiade, la protagonista del nostro libro. La morte improvvisa di Alessandro scatena le prime due, supportate dalle madri, in deliri di onnipotenza che le spingono a inserirsi di peso nell’agone politico. Ma, essendo femmine, e non avendo ereditato – né da Olimpiade né da Cinna – la tempra materna, era facile prevedere come nella società del tempo sarebbero divenute delle perdenti. Con esse si instaura, tra i regnanti o i reggenti, la prassi “dinastica”, tutta ellenistica, anticipatrice dei tempi a venire, di sancire le intese diplomatiche con unioni matrimoniali. Essendo donne, usavano però sé stesse come merce di scambio o di garanzia. Emblematico il caso di Cleopatra che, in accordo con la madre, parte per l’Asia per fidanzarsi con Perdicca, cercando di scalzare nelle ambite nozze una precedente pretendente, o rivale, non certo di poco peso nello scacchiere degli equilibri politici. Ma è bene lasciare la parola a Diodoro (xviii 23 1-3): Giunsero in quel tempo a Perdicca per sposarlo due donne, Nicea figlia di Antipatro, che Perdicca aveva chiesto in sposa, e Cleopatra, sorella legittima di Ales-
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viii. eredità di sangue e sangue di vendetta sandro, figlia di Filippo, progenie di Aminta. Perdicca aveva deciso in un primo momento di stipulare l’accordo con Antipatro […]; ma, dopo che ebbe ottenuto il comando delle armate regie e la tutela dei re, mutò i suoi piani. Aspirando infatti al regno desiderava sposare Cleopatra, pensando, tramite costei, di spingere i Macedoni a conferirgli il supremo potere, ma non volendo in quel frangente svelare i propri progetti, e per non inimicarsi Antipatro, sposò per il momento Nicea.
Siamo nell’anno 322, e nessuno poteva prevedere che presto Perdicca sarebbe perito in battaglia, con ciò venendo meno al suo proposito di sposare Cleopatra, in regime poligamico o, piú probabilmente, separandosi da Nicea. Questa, per essere la figlia di Antipatro, bene si confaceva in un primo tempo ai propositi emergenti del promesso sposo; il quale poi, consolidata la propria posizione, e puntando « al regno » non poteva sperare di meglio che unirsi al sangue argeade tramite Cleopatra, figlia di Filippo e – tramite la stessa madre – sorella di Alessandro. La prima, Nicea, era stata richiesta quale sposa al genitore; la seconda, Cleopatra, si era predestinata da sola alle nozze, seppure, come scrive Giustino (xiii 6 4), « non senza il consenso della madre di lei, Olimpiade », non aspernante Olympiade, matre eius. La quale non solo non si era opposta al matrimonio, ma tutto lascia intendere – l’abbiamo detto – che dell’intero progetto fosse stata la mente politica, come peraltro specifica Arriano (diad. fr. i 21) che, parlando di Perdicca, ci dice che « Olimpiade la madre di Alessandro spedí presso di lui la figlia Cleopatra come promessa sposa ». Cosa dalla quale può trarre anche la personale soddisfazione di ostacolare o incrinare l’intesa nuziale con Nicea, con forte danno di immagine per il padre Antipatro.3 Indubbio, a lungo termine, tutto l’interesse che avrebbe potuto trarre Perdicca dalle nozze con Cleopatra, non solo figlia e sorella dei due conquistatori macedoni, non solo depositaria del sangue argeade, bensí anche zia dell’infante pretendente al trono. Stupisce certo che ella si sia recata in Asia per unirsi al piú influente degli antichi compagni di Alessandro senza precedenti e piú strette intese matrimoniali. Ma la fretta lo imponeva, 3. Vd. in generale Greenwalt 1989, pp. 19 sgg. Esauriente discussione della bibliografia in Meeuss 2009, e Prestianni 2018, passim.
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perché Antipatro, conosciuto il reale motivo della sua partenza dalla Macedonia, avrebbe potuto impedirne la partenza. Tanto piú che anche il figlio Cassandro puntava alla sua mano come afferma Diodoro (xx 37 4). Morto Perdicca, e temendo per la vita a seguito della guerra civile che aveva avuto per protagonista la madre, non tornerà piú in patria, rimanendo in Asia, confinata a Sardi per ordine di Antigono, divenuto sovrano della Siria. Dove è ancora nel 308, e lí – come racconta sempre Diodoro (xx 37 5) – sarà soppressa di nascosto « per mezzo di altre donne » nel mentre progettava di recarsi in Egitto « per incontrare Tolomeo », anche egli, a sua volta, proclamatosi re. Olimpiade e Cleopatra non sono le sole donne della casa reale a pensare, morto Alessandro, di raccoglierne l’eredità con un matrimonio eccellente. Ci pensano anche Cinna ed Euridice; la prima figlia illegittima di Filippo e della principessa illirica Audata, la seconda figlia di Cinna. Que st’ultima, donna estremamente energica, era maestra nell’arte della guerra e, come racconta Polieno (strat., 60), aveva abbattuto di sua mano una regina illirica mettendo in fuga il suo esercito e alle fatiche belliche aveva allenato anche la figlia Euridice.4 La quale è da lei offerta in sposa al povero Filippo Arrideo e da lei accompagnata a Babilonia per le nozze, mettendosi in rotta di collisione con Antipatro che tenta di bloccarla mentre con il proprio seguito di armati attraversa le acque dello Strimone. Giunge all’Ellesponto, transita in Asia, sposa la figlia, ma poi viene fermata e uccisa da Alceta, fratello di Antipatro. Ma prima – lo racconta sempre Polieno – « combatté nobilmente, preferendo morire piuttosto che vedere la stirpe di Filippo estromessa dalla regalità ». Cioè Filippo Arrideo con la sua consorte e nipote Euridice, i quali, nel 321, dopo gli accordi di Triparadiso, tornano in Macedonia con Antipatro che, come reggente dei re, conduce con sé pure l’infante figlio di Alessandro e la sua mamma. Due anni dopo, nel 319, muore Antipatro che conferisce a Poliperconte il gravoso ufficio di epimeletés dei re, insidiatogli da Cassandro. Per meglio fronteggiare la sua ostilità il nuovo tutore dei monarchi – il lettore già ne è stato edotto – invita Olimpiade a tornare in Macedonia. Si creano cosí due partiti, anzi due fazioni femminili aspramente con4. Vd. sempre per maggiore documentazione Prestianni 2018, pp. 546 sgg.
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trapposte, che hanno entrambe il proposito di sopprimere l’evanescente, e del tutto nominale, diarchia: da un lato Olimpiade e il piccolo Alessandro, supportati da Poliperconte, e, d’altro lato, spalleggiata da Cassandro, Euridice che, « punta da femminile rivalità », sfrutta disinvoltamente l’infermità del marito, « avocando a sé le sue incombenze » come precisa Giustino (xiv 5 1). 3. La guerra delle regine Mentre Olimpiade risponde all’appello di Poliperconte, Euridice si impossessa del regno in nome del re demente, sollecitando nel contempo, per fronteggiare la situazione, un tempestivo rientro in patria di Cassandro che guerreggiava in Grecia. Del susseguirsi degli eventi informa Diodoro (xix 11 1): « In Macedonia Euridice aveva assunto la guida del regno. Conscia che Olimpiade si predisponeva al ritorno, inviò un corriere a Cassandro nel Peloponneso, chiedendogli di accorrere in suo aiuto al piú presto; poi attirò a sé i piú disponibili dei Macedoni incoraggiandoli con donativi e grandi promesse ». Contro di lei « desideroso di risolvere la situazione con un unico scontro » muove Poliperconte con Olimpiade. Si fronteggiano cosí, in armi, due regine: la consorte di Filippo e la moglie di suo figlio Arrideo. Ma le due armate, contrapposte sul campo in feroce contesa civile e dinastica, non si scontrano, bensí si confondono insieme giacché le truppe di Euridice si rifiutano di combattere contro un’icona del regime quale la genitrice di Alessandro. È sempre Diodoro (xix 11 2-3) che lo testimonia seguitando nella sua narrazione: « Quando i due eserciti si trovarono schierati l’uno contro l’altro, i Macedoni colpiti dalla dignità dell’aspetto di Olimpiade e memori dei benefici ricevuti da Alessandro, passarono dalla sua parte. Il re Filippo [Arrideo] fu subito fatto prigioniero con il suo seguito; Euridice fu invece catturata […] mentre si ritirava verso Anfipoli ». Gli eventi ci riportano al 317, e ben altro sarebbe stato il loro esito se Cassandro fosse giunto in tempo sul teatro degli eventi. La vittoria di Poliperconte e di Eacide – a capo, quest’ultimo, delle truppe epirote – è dunque incruenta, senza spargimento di sangue. Ma uno storiografo, dalla scrittura drammatica, e dal respiro teatrale, quale Duride di Samo 129
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(FGrHist, 76 F 52), testimoniatoci da Ateneo (xiii 560f), trasfigura lo scontro in terrifico duello tra due dame, tra due regine, che si fregiano degli attributi per loro piú congeniali: l’una procede in battaglia quale baccante invasata e sfrenata all’assordante « suono dei timpani », l’altra ha un piú congruo equipaggiamento di stile macedone ma si gloria di un’istruzione militare di marca illirica: « Duride di Samo riferisce che la prima guerra tra due donne fu quella combattuta da Olimpiade contro Euridice; la prima avanzò in battaglia al suono dei timpani, piú sfrenata di una baccante, mentre Euridice, che aveva ricevuto l’istruzione militare dall’illirica Cinna, armata al modo dei Macedoni ». Lo storico ellenistico, drammatizzandola, attinge chiaramente a una tradizione ligia allo stereotipo consueto di Olimpiade presentata come una menade posseduta da divino furore, cui si contrappone il cliché dell’amazzone educata a combattere alla foggia illirica. Maestra – come il lettore ha peraltro già appreso – le era stata la madre Cinna, qui in forma impropria definita “illirica”, mentre di etnía “illirica” era la nonna materna Audata che si era unita a Filippo. Per quello che è avvenuto poi, dopo l’incruenta vittoria, disponiamo soltanto di una tradizione negativa, probabilmente inquinata dalla propaganda di Cassandro, che attribuisce a Olimpiade la responsabilità di atroci misfatti e la fama di dominatrice assetata di sangue. Per la quale avrebbe seviziato i suoi nobili prigionieri – Euridice e Filippo Arrideo – restringendoli in una cella angusta, senza aria, « nella quale i viveri venivano passati solo attraverso un’unica stretta apertura », come racconta Diodoro (xix 11 4-7). Il quale aggiunge che, dopo questo trattamento durato piú giorni, il re demente viene trucidato, dopo avere regnato « per sei anni e quattro mesi », mentre la consorte ricevette in dono una spada, una corda e una tazza di cicuta. Al che « rivestí il marito per la sepoltura », quindi « si uccise, impiccandosi con la sua cintura, senza versare lacrime sulla sua sorte, né deprimersi per l’enormità delle proprie sventure ». Il sangue argeade del nonno Filippo si risvegliava in lei nell’ora suprema incitandola ad affrontare la morte da regina senza lacrime, con sprezzo e superiore alterigia. Non usa nel suicidio la corda del capestro, ma la propria cintura, rifiutando con ciò, come estrema sfida, il dono della rivale. La quale rivale, Olimpiade, si assicura il controllo della Macedonia dan130
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do poi il via, insediatasi a Pella, a un bagno di sangue della fazione avversa, che vede cadere un fratello di Cassandro e con lui, sgozzati, cento illustri macedoni suoi partigiani. La purga è giustificata – come asseriscono Diodoro (xix 11 8) e Plutarco (Alex., 77 2) – dal fatto che la regina, « in seguito a una denunzia », sarebbe venuta a conoscenza solo ora del presunto avvelenamento del figlio attribuito a Iolla, uno dei figli di Antipatro che, per le voci da lei raccolte, ne sarebbe stato il mandante. Platealmente la tomba di Iolla, del perfido cospiratore, viene quindi profanata con dispersione delle ceneri per meglio rafforzare presso il popolo la motivazione addotta per la strage. In quanto al regicidio del re demente si rimette in giro la voce, attestata da Giustino (xiii 2 11), che la donna tessala che l’aveva partorito fosse « una meretrice di Larissa », con ciò incrinandone anche la legittima paternità. Nel comportamento dell’ultima Olimpiade si fondono cosí due sentimenti dalla connotazione barbarica: il sangue per assicurare un avvenire di sopravvivenza regale al nipote, il piccolo Alessandro, il sangue per placare la sua personale sete di vendetta. L’animo della menade si risveglia in lei, e purtroppo non sapremo mai – ma ci piacerebbe crederlo – se per l’occasione, come offerente di un sacrificio agli dèi, abbia resuscitato per sé l’antico nome di Myrtale, proprio alter ego onomastico nelle possessioni omicide di marca tribale. Pazienza poi se la sua condotta sia stata « piú da donna che da regina », come annota Giustino (xiv 6 1). Il monito del sangue era comunque antidoto alla ribellione, e allora che pure scorresse a fiumi, come di consueto nei conflitti civili, al fine di garantire lo scettro al figlio di suo figlio. Al rampollo di Alessandro, anche egli asceso al trono lasciando dietro sé una cospicua scia di sangue, quantitativamente piú esigua, ma per qualità molto piú incisiva. 4. La tragedia, ultimo atto Ma non dobbiamo riportare, o ridurre, l’operato di Olimpiade al solo scacchiere macedone. Ella ben sapeva che, senza tessere in Grecia una rete di forti alleanze, mai sarebbe riuscita a conservare il trono per il piccolo Alessandro che, al di là dei proclami verbali, a tutti i futuri diadochi faceva comodo che non fosse mai nato o, ora che era nato, scomparisse 131
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quanto prima. L’insidia piú vicina veniva da Cassandro, ed ella si adopera ad aizzare contro di lui Atene, di recente – tre anni prima – sconfitta nella guerra lamiaca, e con lei le città che allora, nell’ultima lotta per la libertà, nella guerra di Lamia, le avevano fatto corona. Il vincitore Antipatro aveva soppresso lo statuto di Corinto e con esso le clausole della pace comune che garantivano l’autonomia delle póleis. Per giunta aveva stabilito l’insediamento di guarnigioni macedoni nelle città, ad Atene a Munichia e al Pireo. Orbene, Olimpiade ne impone il ritiro e insieme dà ordine a un Nicanore non altrimenti noto di ripristinare per le póleis, che l’avevano giurato, lo statuto corinzio, istituito dopo Cheronea dall’antico suo consorte Filippo. Garante dell’esecuzione ne sarebbe stato Poliperconte che, con il figlio Alessandro, stava combattendo per terra e per mare contro Cassandro e i suoi alleati. Grande è l’aspettativa degli Ateniesi, come possiamo cogliere dalla eco degli eventi confluita nella pagina di Diodoro (xviii 65 1-2): In quel tempo giunse a Nicanore una lettera di Olimpiade, in cui gli ordinava di restituire agli Ateniesi Munichia e il Pireo. […] Molto lieti ne furono gli Ateniesi, che avevano avuto molta considerazione per Olimpiade nei tempi precedenti e ritenevano che gli onori che gli erano stati decretati fossero effettivi e sortissero il loro effetto, sperando, tramite lei, di potere conseguire senza rischi la restituzione della loro autonomia.
Peraltro anche Cassandro è bene a conoscenza dei rapporti di amicizia di nuovo instauratisi tra Olimpiade e Atene, se, a stare a Diodoro (xix 51 2-3), le suggerisce come meta l’Attica, subdolamente allettandola a fuggire per mare con il recondito proposito di sopprimerla nel corso della traversata. Né la rete diplomatica che tesse la regina si arresta qui: ella si guadagna anche l’appoggio della Lega Etolica, che allora muoveva i primi passi presentandosi alla ribalta del mondo greco quale giovane potenza forte e coesa, come mostra la propria adesione alla causa ateniese durante la guerra lamiaca,5 adesione, forse non a caso, volta a ostacolare proprio le mosse della Macedonia di Antipatro. Non possiamo dire se allora l’imput all’a5. Si deve a Lepore 1955, pp. 161 sgg. la valorizzazione della componente etolica nella guerra lamiaca. Vd. anche Braccesi 1996, pp. 9 sgg.
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zione degli Etoli venisse anche dal limitrofo Epiro, governato da Olimpiade, ma sappiamo che, mentre nel 317 la regina ripiega su Pidna per sfuggire all’armata di Cassandro proveniente da meridione, gli Etoli la bloccano presso le Termopili costringendola a trasbordare su zattere per raggiungere le spiagge tessale. Cosí riferisce Diodoro (xix 35), il quale parimenti ci informa che, nel frattempo, Olimpiade si trincera a Pidna, con i dignitari di corte e fidando nei superstiti elefanti di Poliperconte, dopo avere ordinato allo stratega Aristone di ostacolare l’avanzata di Cassandro. Di fatto, deboli sono le sue forze sul campo ed esigua la schiera con cui si predispone alla resistenza dentro Pidna, dove, oltretutto, offre ospitalità a un troppo numeroso stuolo di rampolli di sangue regale, di parenti e di amici (xix 35 6): Si recò a Pidna con il figlio di Alessandro, la madre di lui Rossane, con Tessalonica la figlia di Filippo, figlio di Aminta, e inoltre con Deidamia, figlia di Eacide, re dell’Epiro e sorella di Pirro […]; c’erano anche le figlie di Attalo e alcuni parenti degli amici piú fidati, cosicché si ritrovarono raccolte intorno a lei un gran numero di persone, ma per la maggior parte inadatte a combattere, né c’era quantità di cibo sufficiente per della gente che stava per affrontare un lungo assedio. […] Decise [Olimpiade] di rimanere lí nella speranza che molti tra i Greci e i Macedoni le venissero in aiuto per mare.
È naturale, al seguito di Olimpiade, ritrovare Rossane con il piccolo Alessandro e Deidamia figlia di Eacide, una principessa epirota che per prassi consueta desume il nome dall’onomastica troiana. Stupisce, viceversa, ritrovarvi « la figlia di Filippo, figlio di Aminta » e « le figlie di Attalo ». La prima, essendo progenie del Filippo che sposa Cinna, era sorella di Euridice, la regina, consorte del re demente, impiccatasi con la propria cintura. Quindi, per Olimpiade, una rivale nel governo del regno e una nemica dichiarata. Le seconde sono le figlie di Attalo; quindi, se questi è il medesimo che conosciamo, le cugine stagionate di Cleopatra/Euridice, l’ultima consorte del re Filippo, anche essa costretta al suicidio perché, con un figlio maschio, avrebbe potuto ostacolare la successione al trono del suo Alessandro. Tutte principesse, queste, delle quali nessuna suscita l’impressione di appartenere alla categoria degli ostaggi; per cui è lecito con133
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cludere che di propria spontanea volontà si siano poste sotto la protezione della sovrana. Per la quale era certo motivo di orgoglio constatare che tutta la progenie di sangue principesco o regale si era radunata sotto le sue bandiere a prescindere dai rancori delle famiglie di provenienza. Era, peraltro, una comunità di donne inoffensive e non desiderose o capaci di avventure personali, la cui ospitalità in Pidna testimonia da parte di Olimpiade una mitezza di carattere in forte distonia con la decantata crudeltà barbarica della sua indole. Ma questa si manifesta soltanto quando ella deve difendere in forma selvaggia, e con avidità tribale, un’eredità di sangue, e con essa un trono, sia che destinatario ne sia il figlio Alessandro o il suo omonimo rampollo. Né questo è il caso, giacché né la sorella di Euridice né le figlie di Attalo cospiravano ai suoi danni per rivolgimenti dinastici. Rappresentavano però un peso morto, inutili alla difesa e non avvezze a vedersi razionare il cibo, che di giorno in giorno si faceva sempre piú insufficiente anche per mense molto piú umili. Olimpiade confidava in aiuti « per mare », ma non prevedeva che l’assediante l’avrebbe isolata dalla marina con un vallo invalicabile. Spes ultima dea! Poteva solo confidare nelle truppe, logore e stanche, di Eacide e di Poliperconte, ma, per massima parte erano truppe mercenarie, prive di ideali, pronte a vendersi al migliore offerente e a passare di mano. Cosa – come informa Diodoro (xix 36) – che si realizza puntualmente al primo scontro con gli strateghi di Cassandro, sicché « in poco tempo le speranze di Olimpiade vennero rese vane ». Tanto piú che quest’ultimo procedeva alacremente a cingere Pidna di assedio per terra e per mare, facendosi inviare navi, armi da lancio e macchine di guerra. L’offensiva finale, insorgendo l’inverno, è però rimandata alla primavera successiva, e sarà un’offensiva contro assediati incapaci di difendersi, giacché la fame li aveva ridotti a scheletri ambulanti (xix 49). Avevano mangiato gli animali da soma, avevano spolpato gli elefanti periti per denutrizione e non restava loro che nutrirsi – come i barbari al seguito – della carne dei cadaveri sparsi ovunque. Marea di carne putrida e martoriata che generava « un tanfo insopportabile, non solo per le donne di sangue reale abituate al lusso, ma anche per i soldati allenati a una vita rude ». Il cambiamento di status tra ieri e oggi per regine e per principesse è enorme; non hanno piú a loro disposizione tavole im134
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bandite e profumi esotici, anzi devono morire di fame inalando nell’ultimo respiro, anziché effluvi di essenze delicate, il lezzo di un’aria pestifera. Siamo alla primavera del 316, e Olimpiade stessa licenzia la truppa perché non morisse di fame. I suoi soldati, lasciati intenzionalmente liberi da Cassandro, saranno in patria testimonianza vivente della malasorte occorsa alla regina, inducendo a fare desistere dai loro propositi anche quanti volevano portarle aiuto. Solo Anfipoli e Pella le rimangono fedeli. Nella drammaticità della situazione ella pensa, come estrema sua risorsa, alla fuga notturna per mare con l’esigua cerchia dei partigiani superstiti. Ce ne informa sempre Diodoro (xix 50 4): « Olimpiade, vedendo che i piú erano passati a Cassandro e quelli che intorno le erano rimasti non erano in grado di aiutarla, pensò di mettere in mare una quinqueremi con la quale salvare se stessa e gli amici ». Si imbarcano con Olimpiade, sfuggendo al tanfo opprimente, anche Rossane e il piccolo Alessandro, nonché un piccolo seguito, del quale probabilmente fanno parte le donne di nobile stirpe e qualche superstite cortigiano. Tutte persone che « non erano in grado di aiutarla ». Ma ella, con un tratto di umanità, non pensa di salvare sé sola, bensí “se stessa e gli amici”, hautēn te kai tous philous sōzein. Il progetto sarebbe potuto anche andare in porto, se non fosse intervenuto in appoggio alla malasorte il consueto delatore che denunzia la fuga, consentendo a Cassandro di impadronirsi del manipolo di disperati già in navigazione. Rossane e il piccolo Alessandro diventano ricca preda del vincitore, potenziale merce di scambio da porre subito sotto custodia. A Olimpiade viene sí assicurata « la garanzia della vita » da parte di Cassandro, che però, volendola morta senza sporcarsi le mani, incarica i familiari delle sue vittime di accusare la regina presso il consesso dell’assemblea nazionale dei Macedoni. Dell’equivoco suo comportamento informa come sempre Diodoro (xix 51 1-2): In seguito [Cassandro] istigò i familiari di coloro che erano stati uccisi da Olimpiade ad accusare la donna davanti all’assemblea nazionale dei Macedoni. Cosí fecero costoro, e i membri dell’assemblea, poiché Olimpiade né era presente e né aveva difensori, la condannarono a morte. Al che Cassandro inviò a Olimpiade alcuni amici per consigliarle di fuggire di nascosto, promettendole che una nave sarebbe stata messa a sua disposizione per condurla ad Atene. Agiva in tal modo
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olimpiade regina di macedonia non pensando alla sua salvezza, ma perché, qualora fosse scomparsa in mare, sembrasse che da sola si fosse condannata all’esilio ricevendone il meritato castigo. Paventava, infatti, tanto il prestigio che la circondava quanto la volubilità dei Macedoni.
Anche dopo essere riuscito a fare condannare a morte Olimpiade, Cassandro ha timore che della condanna possa essere indicato come il mandante nella cerchia dei compagni di Alessandro intenti, come lui, a spartirsene il regno. Cosa, in effetti, reale se Antigono non se ne farà sfuggire l’occasione sfruttando l’accaduto come pretesto per minacciarlo di guerra, come riferisce Diodoro (xix 61 1). Ragione per la quale invia propri messi a Olimpiade « per consigliarle di fuggire di nascosto » su « una nave messa a sua disposizione », ma non pensa a salvarla, bensí a perderla nelle onde con un premeditato naufragio. Nessuno ne avrebbe piú sentito parlare e nessuno avrebbe potuto imputarlo di alcunché. Con ciò si annullava il rischio che, sentita la regina, i membri dell’assemblea macedone cambiassero idea o che ella in quella sede riferisse cose per lui sgradite. Ma il piano di Cassandro non sortisce l’effetto dovuto perché, fiutando o meno l’inganno, Olimpiade vi si oppone proclamando con forza: « che non sarebbe fuggita e che anzi, al contrario, era pronta a farsi giudicare davanti a tutti i Macedoni ». Cosí sempre il nostro Diodoro (xix 51 4). Il quale (xix 51 5-6) subito aggiunge che Cassandro, valutati i rischi che avrebbe corso se ella avesse parlato e se le fosse stata revocata la condanna, si risolve ad agire in proprio, inviando duecento soldati per ucciderla. L’entità numerica della squadra dei sicari è direttamente proporzionale alla paura che la donna ispirava al loro mandante. Ma lasciamo la parola allo storico: Costoro fatta irruzione nella casa della regina, quando videro Olimpiade, colpiti dalla maestà di lei se ne andarono senza colpo ferire. Ma i parenti delle persone da lei fatte massacrare, volendo ingraziarsi Cassandro e vendicare i loro morti, trucidarono la regina; la quale né compí alcun gesto disonorevole, né rivolse suppliche di natura femminile. Tale fu la fine di Olimpiade, che aveva goduto del massimo prestigio tra le genti del suo tempo, che era la figlia di Neottolemo, re degli Epiroti, la sorella di Alessandro che aveva combattuto in Italia, la moglie di Filippo, il piú potente tra i re che prima di lui avevano regnato in Europa, e, infine,
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viii. eredità di sangue e sangue di vendetta la madre di Alessandro che aveva compiuto imprese tra le piú mirabolanti e degne di memoria.
La “maestà” della figura di Olimpiade, dinnanzi alla quale erano arretrati eserciti in armi e ora arretrano bande di assassini, assurge a topos anche nell’ora della morte. Il comportamento di coloro che, uccidendola, si vogliono vendicare dei propri morti è reso meno nobile dal desiderio di volere « ingraziarsi » il nuovo padrone. Ne guadagna ancora una volta « in prestigio » la personalità della regina, che cade senza compiere « alcun gesto disonorevole » o rivolgere « suppliche di natura femminile ». Tale, per lo storico – influenzato dai toni drammatici della storiografia ellenistica – « fu la fine di Olimpiade », toiautēs katastrophēs etuche. Domina su tutta la scena, quasi una scena teatrale, la luce abbagliante e sinistra della tragedia greca, rafforzata dall’epitaffio per la protagonista: non una donna qualsiasi, ma la figlia di un re, la sorella di un re, la moglie di un re, il piú potente tra i monarchi « che prima di lui avevano regnato in Europa », la madre di un re, conquistatore di imperi, « che aveva compiuto imprese tra le piú mirabolanti e degne di memoria ». Nel ricordo postumo Olimpiade è cosí ricordata con orgoglio al centro di un quadrilatero familiare, che, per due generazioni, si snoda dall’Europa all’Asia, dalle rive dell’Adriatico a quelle dell’Oceano Indiano. I rami della famiglia si avvitano al femminile sulla sua persona, la cui morte, presto seguita da quella del nipote, è pietra tombale per l’intera dinastia argeade. Non coincidente, ma molto simile è anche la tradizione confluita nella pagina di Giustino (xiv 6 9-11), parimenti influenzata da stilemi storiografici di marca ellenistica. Pure in questo caso i sicari rimangono « sgomenti » alla vista di Olimpiade, che riluce di maestà sia nella storia del presente sia in quella del passato, lasciando ad altri l’incombenza dell’assassinio; pure in questo caso la regina né fugge ai fendenti delle spade né muore da « donna qualsiasi »: Ma Olimpiade, come vide venire verso di lei uomini armati si fece loro incontro spontaneamente, in abbigliamento regale e dando il braccio a due ancelle. Vedendola, i sicari sgomenti per la sua sorte si trattennero, memori dell’antica maestà di lei e dei tanti nomi di re che ella rinverdiva nella loro mente, finché da Cassandro furono inviati altri a trafiggerla. Ella né fuggí dinnanzi al ferro e alle ferite né si
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olimpiade regina di macedonia mise a strillare come una donna qualsiasi, ma come è costume di uomini forti cedette alla morte secondo la gloria della sua antica stirpe, in modo siffatto che anche Alessandro si sarebbe potuto riconoscere nella genitrice morente.
Secondo questa versione gli « altri », cioè i parenti delle vittime, non agiscono in proprio, ma sono direttamente mandati da Cassandro. Come in Diodoro, Olimpiade né arretra dinnanzi ai sicari né compie gesti disdicevoli alla sua dignità, muore anzi – la testimonianza lo sottolinea – secondo il cliché canonico degli “uomini forti”; il suo, per dirlo alla latina, è un exitus illustrium virorum. La regina in questa seconda versione decede senza essere accompagnata da un epitaffio commemorante, ma questo è sostituito dall’espressione di glorificante cordoglio volta ad attestare ai posteri che anche « Alessandro si sarebbe potuto riconoscere nella genitrice morente », ut Alexandrum posses etiam in moriente matre cognoscere. Ma, come spesso succede per la morte violenta di personaggi illustri, non sono queste – di Diodoro e di Giustino – le uniche versioni sulla morte di Olimpiade. Pausania, che sempre ci presenta la regina in luce sinistra, in ossequio al suo cliché la fa morire senza grandezza; una volta (i 25 6) « consegnata al popolo » per essere linciata, un’altra volta (ix 7 2) perché fosse « lapidata » sempre dai soliti parenti delle sue vittime: « [Cassandro] consegnò, infatti, Olimpiade perché fosse lapidata a quelli tra i Macedoni che erano risentiti contro di lei, e uccise con veleni i figli di Alessandro: Eracle nato da Barsine, e Alesssandro nato da Rossane ». La morte dei tre non è però contemporanea: Olimpiade decede nell’anno 316, Alessandro figlio di Rossane nel 310, Ercacle nel 309 o nell’anno successivo. 5. L’erede postumo Ma chi è Eracle, del quale il lettore mai ha sentito parlare? Per spiegare la sua comparsa sul teatro degli umani eventi, dobbiamo riandare ad avvenimenti di portata internazionale. Nel 311 gli antichi compagni di Alessandro, di fatto reggenti delle province dell’immenso impero, si ritrovano di nuovo a congresso per meglio ripartirsi le reciproche sfere di influenza. Il trattato che sottoscrivono non prevede ancora una spartizione dell’eredità della conquista di Alessandro, ma, almeno ufficialmente, un accordo 138
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per la gestione del regno nella finzione di un’attesa della maggiore età del re bambino.6 Una clausola prevedeva che Cassandro avrebbe conservato il potere come « stratega di Europa » finché « Alessandro, il figlio di Rossane, avesse raggiunto l’età per regnare », come riferisce Diodoro (xix 105 1). Postilla, questa, che equivaleva, con il sollievo di tutti, a condannarlo a morte per mano del tutore macedone, come ancora ci dice il nostro autore (xix 105 2): « Cassandro, vedendo che Alessandro, il figlio di Rossane, stava crescendo e che in Macedonia circolavano voci che bisognava liberare il fanciullo e rimetterlo sul trono paterno, temendo per sé, […] ordinò di assassinare Rossane e il re occultandone i cadaveri ». In un luogo che non doveva essere poi molto nascosto, se è vero che, dopo l’età di Cassandro, l’adolescente monarca trovò la sua definitiva sepoltura nella cosiddetta “Prince’s Tomb” del grande tumulo di Verghina.7 Morto il figlio di Alessandro, omonimo del padre, ne spunta però subito un altro, ed è l’Eracle « nato da Barsine » cui già abbiamo accennato. La madre non sarebbe la Barsine, figlia del Gran Re, sposata da Alessandro alle nozze di Susa, ma un’omonima figlia di Artabazo, un satrapo della Caria, con la quale il condottiero si sarebbe unito in Asia Minore, all’inizio della grande avventura. La tradizione è recepita in due luoghi da Plutarco (Alex., 21 4; Eum., 1 4). Ma che credito accordare alla notizia? La critica piú avveduta la rigetta, ritenendo Eracle uno dei tanti impostori che pullulano nella storia.8 Scoperta, oltretutto, è la genesi sia del suo nome, sia di quello della madre. Egli si chiama Eracle come l’eroe cui con cui si identifica il presunto padre giungendo, imitandolo, ai confini dell’ecumene seppure in regioni simmetricamente opposte. La madre si chiama poi Barsine come l’omonima figlia del Gran Re; la sua relazione con Alessandro è datata subito dopo il suo sbarco in Asia per consentire al giovane presunto impostore di avere un’età quasi adulta. Con tutta probabilità la creazione propagandistica di questo secondo figlio del Macedone si deve ad Antigono che nel 312 – lo sappiamo da Diodoro (xix 75 6) – era in aperto contrasto con Cassandro. Ognuno dei 6. Un quadro generale in Will 1966, p. 65. 7. Documentazione in Prestianni 2008, p. 554. 8. Cosí Tarn 1921, pp. 8 sgg., e Tarn 1950, ii, pp. 330 sgg. Contra Brunt 1975, pp. 22 sgg.
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due antagonisti poteva cosí vantare di avere presso di sé un figlio di Alessandro! Comunque, fino al 309, fino all’anno che segue all’assassinio del rampollo di Rossane, figlio effettivo e legittimo erede di tanto padre, le cronache nulla sanno di Eracle, il giovane presunto impostore. È il vecchio stratega Poliperconte, cui Antipatro aveva invano affidato la tutela del piccolo Alessandro, che, dopo il suo assassinio, da Pergamo lo fa accorrere in Grecia, ignaro della dubbia, anzi falsa, paternità e deciso a fare comunque valere sul trono di Macedonia una successione di sangue argeade. Il nostro autore di riferimento è sempre Diodoro (xix 20 1): « Poliperconte, che trascorreva i suoi giorni nel Peloponneso in aperta ostilità contro Cassandro, aspirando egli pure da tempo all’egemonia sui Macedoni, mandò a chiamare da Pergamo Eracle, figlio di Barsine e di Alessandro, lí allevato, che aveva ormai diciassette anni ». L’ostilità con Cassandro è di vecchia data, e risale alle vicende che hanno quale protagonista Olimpiade dal suo rientro in Macedonia alla sua morte. L’aspirazione di Poliperconte « all’egemonia sui Macedoni », piú che ad ambizione personale, è diretta e finalizzata a sottrarla a Cassandro. Lo si evince dal susseguente racconto diodoreo (xix 20 2-4) che informa come il vecchio stratega stesse coagulando contro il despota macedone una coalizione di piú avversari che si poteva giovare anche dell’appoggio della Lega Etolica per supportare i presunti diritti ereditari e successori di Eracle, cioè per « rimettere il giovanetto sul trono paterno ». Il quale, oltretutto, data l’età, poteva quasi regnare non avvalendosi di reggenti. Cassandro schiera le sue milizie contro quelle di Poliperconte, i due eserciti si fronteggiano, allorché, a stare all’unica diffusa versione dell’accaduto, fornitaci da Diodoro (xix 28 2), succede un qualcosa di difficilmente plausibile. Cassandro invia ambasciatori al campo avversario per comunicare un tale messaggio: « se Poliperconte si fosse schierato dalla sua parte e avesse subito eliminato il ragazzo, avrebbe riacquistato in Macedonia gli onori di cui prima godeva; inoltre, a capo di un’armata, sarebbe stato nominato responsabile delle operazioni nel Peloponneso, partecipando con Cassandro a tutte le deliberazioni del regno e godendo dei piú significativi onori ». Incredibile è il messaggio, e tanto piú incredibile è che Poliperconte assecondi la proposta dell’avversario eliminando il ragazzo, come ancora 140
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specifica il nostro autore (xix 28 3). Chiaramente siamo dinnanzi a una distorsione degli eventi, giacché non è possibile che il vecchio stratega abbia assassinato il ragazzo Eracle dopo averne sollecitato l’arrivo in Grecia e avere organizzato un esercito per metterlo sul trono macedone. Era l’uomo cui si era affidato Antipatro morente per tutelare gli interessi successori della dinastia argeade nella persona del bambino figlio di Rossane, l’uomo che aveva combattuto al fianco di Olimpiade per difenderne l’eredità paterna. Eppure la tradizione è concorde nell’attribuirgli l’assassinio di Eracle, dipingendolo in epoca ellenistica, con Licofrone (Alex., 799804), come « il drago » che sopprime nel sangue il discendente « dall’avo suo, omonimo », cioè del mitico eroe da cui traeva il nome. Come è concorde nell’affermare che la spedizione militare contro Cassandro non ha un seguito, e certo con suo grande sollievo. Cosa era, in effetti, accaduto? L’unica ipotesi plausibile è che Poliperconte – sul campo ottimo stratega, quanto nello scacchiere diplomatico poco accorto alle molte insidie della politica – non avesse fiutato la trappola allestita con la falsa creazione dal nulla di un altro rampollo di Alessandro. Di lui si fa paladino; ne sposa la causa con tanto maggiore slancio perché già era morto il figlio legittimo del Macedone, nato da Rossane, che egli inutilmente si era sforzato di difendere. Quando poi si accorge, in proprio o per probabile insinuazione di altri, che egli non è quello che credeva, uccide senza pietà l’impostore. Ne deriva che, mancandone il presupposto, è anche costretto a desistere dalla guerra contro Cassandro. Lettura volutamente distorta di due fatti reali, quali l’uccisione di Eracle da parte di Poliperconte e la forzata cessazione della sua campagna di guerra. Non è questa la sede per interrogarci su chi abbia voluto infangare la sua memoria, ma non possiamo sottrarci dal constatare la differente sorte che la tradizione riserva a Poliperconte e a Cassandro: il primo, che non si macchia le mani di sangue argeade, passa alla storia come un efferato omicida, mentre il secondo, che trucida il figlio legittimo del grande Alessandro, insieme alla madre, rimane indenne da censure e da condanne. Ma una spiegazione c’è: l’uno smaschera un impostore nato nell’ambiente dei futuri diadochi, la cui creazione ha già sortito il suo effetto, l’altro, con il suo atto efferato, consente loro di accorciare la strada per proclamarsi sovrani. 141
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Se Olimpiade fosse stata ancora al fianco di Poliperconte, gli avrebbe detto che Eracle non poteva essere il figlio di suo figlio, giacché, se anche Alessandro trovava superfluo informarla degli incontri femminili dovuti alle istanze dei suoi programmi politici, non le avrebbe mai celato la nascita di un rampollo che, per quanto illegittimo, era pur sempre l’unico erede maschio esistente al mondo prima del parto di Rossane, che segue alla sua morte.
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EPILOGO Quella di Olimpiade è una personalità di donna e di regina assolutamente fuori dagli schemi, ma una personalità che, nel bene e nel male, brilla di luce autonoma, mostrando capacità politica, tempra di antagonista e animosità virile. Una somma di doti caratteriali che la tradizione storiografica – come sempre di marca maschilista – non può perdonarle. L’ostilità nei suoi confronti da parte degli autori antichi ha un duplice e sovrapposto movente: la denigrazione strumentale per fini politici e l’odio di genere. La denigrazione ha certo come primo motore l’ostilità di Cassandro, ma trova facile alimento in tutto il mondo ellenistico dove la sua sola presenza costituiva un ostacolo moralmente invalicabile nel processo di trasformazione delle varie satrapie dell’impero in monarcati autonomi con relativa mutazione dei rispettivi reggenti in veri e propri sovrani. Quasi che il cumulo di memorie di cui Olimpiade era custode li atterrisse precludendo loro il passo fatale verso il trono fintantoché ella fosse in vita. Lo stesso Cassandro, del quale era prigioniera, la voleva sí morta, ma, se ella avesse accondisceso alla fuga, meditava di farla scomparire in forma accidentale, simulando un naufragio per mare. Piú subdolo, e forse ancora piú deleterio nei suoi confronti, l’odio di genere. Ella era donna, ma pure essendo tale, aveva esercitato un potere reale tanto in Macedonia quanto in Epiro, non accettando di essere messa nell’angolo, o disillusa nelle proprie aspettative, né da Filippo, né da Antipatro, né tantomeno da Eacide. E sicuramente aveva male tollerato perfino le scherzose ironie epistolari di marca “maschilista” che il figlio Alessandro aveva indirizzato in Macedonia al suo luogotenente. Cassandro l’aveva poi combattuto a viso aperto, subendone l’estremo oltraggio con dignità di regina. Era cosí facile per la storiografia di parte assommare, anzi miscelare tra loro, la denigrazione per fini politici all’odio di genere. Gli storici ellenistici,1 da cui derivano gli autori in nostro possesso, rappresentano tutti voci di parte – espressione dei grandi monarcati di Egitto, di Siria, di Macedonia 1. Una dettagliata informazione, in pagine fondamentali, è fornita da Pearson 1960, e Pédech 1984, passim.
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e degli stati loro satelliti – e hanno tutto l’interesse a denigrare la figura di Olimpiade che aveva remato contro i fondatori delle dinastie di cui sono al servizio. Voci il cui astio verso Olimpiade, di fatto, è direttamente proporzionale all’assoluta sua fedeltà alla memoria del figlio e al dogma del l’impero universale. E, d’altro lato, anche nell’Occidente, immune dalle sovranità ellenistiche, la personalità di Olimpiade desta peraltro scarsa simpatia, giacché Eacide, il re fantoccio dell’Epiro, è il padre di Pirro, e gli autori italioti e sicelioti rimangano fortemente condizionati dalle storie epirote che trattano della spedizione in Italia di quest’ultimo, delle sue nozze con Lanassa, la figlia di Agatocle, e della sua postuma discendenza approdata per nozze alla corte di Ierone di Siracusa. Narrazioni mai benevole per la protagonista del nostro libro. Olimpiade nella tradizione si porta cosí con sé una duplice condanna, per avere esercitato un potere reale in distonia dalle aspirazioni dei futuri diadochi e per averlo esercitato pure essendo donna. La “macchina del fango” non poteva che incrudelire contro di lei, e delle sue denigrazioni ci conserva infamante e pettegola memoria una vulgata confluita nella tarda pagina di Pausania (viii 7 7): Alla morte di Filippo un suo nato ancora infante partorito da Cleopatra, nipote di Attalo, fu trascinato da Olimpiade insieme alla madre in un recipiente di bronzo pieno di brace ardente, e ucciso. In seguito Olimpiade assassinò anche Arrideo, e quale demone avrebbe ben presto falciato via anche la stirpe di Cassandro.
L’espressione « nato ancora infante », pais nēpios, può riferirsi a un neonato sia maschio sia femmina. Il quadro è truculento. Olimpiade è qui una nuova Clitemnestra che assassina il consorte, una nuova Medea che sacrifica infanti innocenti (non figli suoi, ma del marito), un’anticipazione di lady Macbeth dalle mani sporche di sangue. Ella uccide sí la piccola Europa e spinge al suicidio la madre, e probabilmente arma la mano dell’assassino del marito, ma per quelle che reputava delle superiori ragioni di stato volte ad assicurare non tanto un regno al figlio, quanto all’umanità l’eredità non transeunte del dominato del figlio. Nella sua sensibilità religiosa aveva certo maturato doti di preveggenza all’ombra delle querce profetiche di Dodona! Assicura la successione ad Alessandro, e tenta poi di assicurarla al nipote, il figlio di lui, ma non incrudelisce contro inermi come 144
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vorrebbe la tradizione denigratoria. Anzi, a Pidna, sotto assedio, si grava del fardello di piú bocche principesche da nutrire anche appartenenti a casati che le erano stati ostili. Né c’è dubbio che l’ambiente promotore del dileggio e dell’oltraggio alla sua memoria sia – come abbiamo detto – quello della corte macedone di Cassandro; cosí vale ancora a documentarlo la testimonianza di Pausania (i 11 4): « Olimpiade, dopo la vittoria, si macchiò di colpe empie, come l’assassinio di Arrideo, e di colpe ancora piú empie verso alcuni Macedoni, sí da subire quindi da parte di Cassandro pene ritenute non ingiuste ». Questi dunque punisce Olimpiade con pene appropriate. Meritata è la sua condanna perché macchiatasi delle piú empie nefandezze che le vengono ascritte dai portavoce della corte di Pella. È per assolvere il reggente – e poi re – di Macedonia che si proclama a tutto campo che Olimpiade ha avuto « una morte degna della sua crudeltà » come riferisce Diodoro (xix 11 6). L’assassinio di Filippo Arrideo, rivale del figlio di Rossane, si pone “dopo” l’incruenta vittoria di Olimpiade sulle truppe guidate dalla consorte di lui, Euridice. L’esito per gli sconfitti, nella prassi del tempo, non poteva che essere l’uccisione e la morte. Ma contro Olimpiade la vulgata tràdita da Plutarco (Alex., 77 8) infierisce ancora maggiormente riferendo che, se l’Arrideo era demente, ciò si doveva al fatto che « le sue facoltà mentali » erano state alterate molto tempo prima dalla regina « che gli aveva somministrato delle droghe ». Quindi, ella, non soltanto è responsabile della sua morte, ma anche, come manipolatrice di phármaka, della sua invalidità psichica. Una reduplicazione dell’episodio cardine delle nefandezze di Olimpiade – quale descritte da Pausania – ha poi per protagonista Rossane. Se la suocera è responsabile della morte di due donne di sangue regale, Cleo patra/Euridice ed Euridice, consorte dell’Arrideo, anche la nuora si macchia di analogo misfatto. Infatti, come riferisce sempre Plutarco (Alex., 77 6), seppure in avanzato stato di gravidanza, gelosa della figlia del Gran Re unitasi con Alessandro nelle nozze di Susa, « la ingannò facendola venire a sé con una lettera falsa, e l’assassinò insieme alla sorella », gettandone poi i cadaveri in un pozzo. La tradizione denigratoria colpisce cosí entrambe le donne di Alessandro, la madre e la moglie che gli aveva donato un erede. Se questi era il figlio di una barbara, e se per questo era dubbio il suo 145
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diritto alla successione, allora anche la madre andava dipinta a tinte tra le piú fosche. Ciò che avrebbe ulteriormente screditato Olimpiade che proteggeva la nuora per assicurare il trono all’infante figlio di suo figlio. Di fatto, in due situazioni davvero drammatiche – quando Alessandro rischia di non succedere al padre Filippo e quando egli inaspettatamente muore – Olimpiade, da madre, ubbidisce al richiamo del sangue e nel sangue macchia le mani. Ogni regnante maschio avrebbe fatto lo stesso, e nessuno gli avrebbe mosso accuse di depravazione. Gli esempi abbondano in ogni recesso della storia. Per limitarci all’attimo della contemporaneità, e con riferimento alla medesima famiglia, possiamo ricordare che Cassandro annienta Rossane e il re bambino, figlio di Alessandro, e che Antigono sopprime Cleopatra, progenie di Filippo, vedova del Molosso e sorella del Macedone. Orbene né il reggente di Macedonia né il sovrano di Siria, responsabili di questi delitti, ci sono additati dalla tradizione con le tinte fosche con le quali è dipinta Olimpiade. La quale è sí responsabile anche di un eccidio di partigiani di Cassandro, ma certo per numero di morti inferiore alla strage che questi – teste Diodoro (xix 63 5) – lasciò che si compisse in Orcomeno contro i seguaci della fazione della regina, inutilmente rifugiatisi presso l’altare di Artemide. Il potere è per sua definizione maschile e, se donne, esercitando un potere reale, si comportano come è uso comportarsi l’altro sesso, ciò, perché in aperta dissonanza dal costume imperante, urta con la sensibilità diffusa o, addirittura, con il comune senso della morale. Guadagnandosi, senza appello, la condanna della tradizione. La storia conosce sí regnanti sanguinarie, come in Inghilterra Maria Tudor o in Francia Caterina de’ Medici, ma, seppure donne, giustifica i loro massacri di anglicani o di ugonotti nel nome della fede cattolica. Le lotte di successione e le crisi dinastiche non sono meno brutali delle guerre di religione, ma la protagonista del nostro libro, madre di un dio, non può avvalersi neppure dello scudo della fanatica devozione popolare.
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bibliografia
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cartine
157
1. Le vie strategiche della Macedonia.
158
2. La Macedonia nell’età di Olimpiade.
indici
indice dei nomi*
Achemenidi, dinastia: 99, 116. Achille, padre di Neottolemo: 12, 13, 15, 16, 17, 19. Ade, divinità: 52. Agatocle, tiranno: 144. Alceta, fratello di Antipatro: 128. Alceta I, re dell’Epiro: 15. Alceta II, re dell’Epiro: 15, 83. Alessandro, figlio di Poliperconte: 132. Alessandro il Linceste: 105, 106. Alessandro Magno, re di Macedonia: 11, 13, 14, 15, 16, 22, 23, 25, 27, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 41, 42, 43, 44, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 72 e n., 73, 74, 75, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 84, 85, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 94, 95, 97, 98, 99, 100, 101, 102, 103, 104, 105, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 116 e n., 117, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 131, 133, 134, 136, 137, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 144, 145, 146. Alessandro I il Molosso, re dell’Epiro: 14, 15, 16, 20, 22, 44, 45, 50, 51, 54, 59, 60, 64, 72, 73 e n., 74, 75, 76, 77, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 94, 104, 105, 125, 136, 146. Alessandro IV di Macedonia, figlio di Alessandro Magno: 114, 124, 129, 131, 133, 135, 138, 139, 140. Aminta: 105, 106, 107. Aminta III, re di Macedonia: 27, 127, 133. Aminta IV, re di Macedonia: 55. Andromaca: 15, 16, 17. Antigono Monoftalmo: 122, 128, 136, 139, 146. Antipatro: 70, 78, 79, 80, 81, 84, 87, 89, 90, 102, 103, 104, 105, 106, 107, 116, 122, 124, 125, 126, 127, 128, 131, 132, 140, 141, 143.
Apollo: 18, 62, 63, 64, 65. Apollodoro: 17. Argeadi, dinastia: 27. Aribba, re dell’Epiro: 15, 21, 22, 44, 45, 46, 83, 84. Armodio, tirannicida ateniese: 59, 62, 63, 64. Aristandro di Telmeso: 34. Aristone: 133. Aristotele: 15, 42, 44, 58, 60, 63, 98, 100, 112, 113. Aristogeitone, tirannicida ateniese: 59, 62, 63, 64. Arrabeo di Lincestide: 57, 105. Arriano: 16, 50, 57, 67, 79, 80, 90, 100, 102, 104, 106, 108, 112, 113, 115, 117, 119, 120, 127. Arrideo Filippo III, re di Macedonia: 23, 24, 51, 116, 123, 125, 126, 128, 129, 130, 144, 145. Arrigoni Giampiera: 38 n. Arpalo di Elimea: 77, 78 e n., 79, 80, 82, 91, 92, 104. Artabazo: 139. Artemide (Diana): 18, 146. Asclepio: 86. Asley James R.: 27 n. Ateneo: 20, 23, 26, 48, 49, 64, 109, 130. Attalo: 23, 40, 48, 49, 53, 55, 60, 66, 133, 134, 144. Audata (Euridice), moglie illirica di Filippo II: 23, 24, 126, 128, 130. Augusto Gaio Giulio Ottaviano, imperatore: 112. Badian Ernest: 55 n., 56 n., 60 n., 78 n. Bàrdili, re dell’Illiria: 24. Barsine: 138, 139, 140. Basine: 115, 119, 120, 121, 122, 139.
* L’indice dei nomi è a cura della dott.ssa Greta Massimi.
161
indice dei nomi Bearzot Cinzia: 32 n. Berve Helmut: 55 n., 102 n., 105 n., 106 n., 107 n., 111 n., 117 n., 120 n., 125 n. Boeckh August: 93 n. Braccesi Lorenzo: 16 n., 22 n., 32 n., 73 n., 74 n., 76 n., 82 n., 85 n., 88 n., 92 n., 93 n., 113 n., 116 n., 132 n. Briant Pierre: 72 n. Briquel Dominique: 95 n. Brunt Peter Astbury: 139 n. Cabanes Pierre: 14 n. Caligola Gaio Cesare Germanico, imperatore: 52. Callia di Calcide, tiranno: 91, 96. Callistene: 15, 16, 61, 98, 113. Cambise II, re di Persia: 112. Carano: 55. Carney Elizabeth Donnelly: 26 n., 41 n. Cassandra: 13, 17, 74. Cassandro: 124, 125, 126, 128, 129, 130, 131, 132, 133, 134, 135, 136, 137, 138, 139, 140, 141, 143, 144, 145, 146. Castore: 108. Centanni Monica: 36 n., 85 n. Cesare Gaio Giulio: 112. Cinna (Cinane) di Macedonia: 23, 24, 126, 128, 130, 133. Citelli Leo: 24 n. Cleopatra, sorella di Alessandro Magno: 22, 23, 33, 50, 51, 54, 77, 79, 81, 83, 84, 104, 105, 125, 126, 127, 128, 146. Cleopatra Euridice, moglie di Filippo II: 23, 25, 40, 41, 47, 48, 50, 55, 59, 64, 65, 66, 133, 144, 145. Clidemo: 109. Clitemnestra: 144. Clito: 90, 108. Cotela, re dei Traci: 23, 24. Cracco Ruggini Lellia: 109 n. Cratero: 90, 102, 122. Creonte, re di Corinto: 66. Ctesifonte: 83.
Curzio Rufo: 21, 57, 105, 106, 107, 118, 120, 121. Dario III, Gran Re persiano: 25, 47, 51, 56, 57, 59, 70, 71, 72, 97, 98, 99, 115, 117, 118, 119, 122, 123, 139, 145. De Falco Vittorio: 86 n. Deidamia, principessa epirota: 133. Demetrio I Poliorcete, sovrano: 13. Demostene: 31, 57, 78, 83, 88, 89, 91, 92, 94, 96. Derda: 23, 24. De Sensi Sestito Giovanna: 75 n. Dessippo Publio Erennio: 89. Di Benedetto Vincenzo: 19 n. Diodoro Siculo: 32, 46, 52, 53, 54, 55, 58, 60, 78, 81, 105, 106, 110, 111, 121, 123, 124, 126, 128, 129, 130, 131, 132, 133, 134, 135, 136, 138, 139, 140, 145, 146. Diomede: 16. Dione: 85. Dionigi I Il Grande, tiranno: 82. Dionigi II il Giovane, tiranno: 94. Dioniso: 12, 17, 18, 19, 35, 63, 100. Dioscuri: 108. Dover Kenneth J.: 39 n. Dripetide: 118. Droysen Johann Gustav: 72 n. Duride di Samo: 20, 129, 130. Eacide, re dell’Epiro: 15, 20, 44, 83, 84, 105, 125, 129, 133, 134, 143, 144. Eàcidi, dinastia: 14, 15, 19, 86. Eaco: 15, 19. Ecate: 18, 19. Efestione: 104, 110, 111, 112, 114, 115, 116, 118, 123. Ellis John Raymond: 24 n., 25 n. Eracle: 116. Eracle di Macedonia, falso figlio di Alessandro: 138, 139, 140, 141, 142. Eratostene: 36, 113. Erinni: 114.
162
indice dei nomi Erodoto di Alicarnasso: 85. Eromene di Lincestide: 57, 105. Ermocrate: 54, 56, 58, 60, 61. Eschine: 83. Ettore: 15. Eumene: 104. Euridice II: 24, 125, 126, 128, 129, 130, 133, 134, 145. Europa: 25, 32, 48, 55, 59, 64, 144. Eusenippo: 86, 88. Fantasia Ugo: 94 n. Faraguna Michele: 57 n., 89 n. Ferone Claudio: 95 n. Fila di Elimea: 23, 24. Filinna di Larissa: 23. Filippo II, re di Macedonia: 11, 13, 14, 21, 22, 23, 24, 25 e n., 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 65, 66, 67, 68, 69, 71, 72, 73, 75, 81, 83, 85, 90, 98, 106, 121, 123, 125, 126, 127, 128, 129, 130, 132, 133, 136, 143, 144, 146. Filisto di Siracusa: 82. Filosseno: 78. Filota: 98, 105. Foti Giuseppina Penelope: 18 n. Fozio di Costantinopoli: 113. Foucault Michel: 39 n. Gallo Luigi: 26 n. Gellio Aulo: 90. Giasone: 67. Giustino Marco Giuniano: 11, 14, 15, 16, 21, 35, 44, 45, 46, 49, 50, 54, 55, 59, 62, 73, 76, 81, 82, 84, 104, 106, 118, 121, 123, 127, 129, 131, 137, 138. Gran Re: vd. Dario III. Green Peter: 72 n. Greenwalt William Steven: 127 n. Griffith G.T.: 72 n. Hamilton James Robertson: 66 n., 72 n., 105 n.
Hammond Nicholas Geoffrey Lemprière: 13 n., 23 n., 50 n., 72 n., 84 n., 89 n., 105 n. Hera (Giunone): 36, 85, 91, 107. Ierone II di Siracusa, tiranno: 144. Il Molosso: vd. Alessandro il Molosso. Iolla: 131. Iperide: 78, 83, 86, 88, 91, 92. Ipparco, tiranno di Atene: 62, 64. Ippostrato: 23. Isocrate: 32. Jeanmair Henri: 12 n., 18 n. Kottaridi Angeliki: 41 n. Kumaniecki Casimirus Felix: 26 n. Lanassa: 144. Lane Fox Robin: 72 n. Leda: 108. Leonida: 43. Leonnato: 60. Lepore Ettore: 132 n. Levi Mario Attilio: 72 n., 104 n. Licofrone: 13, 35, 74, 141. Licurgo: 45, 46, 92. Lisimaco, sovrano: 122. Lisippo: 42, 43, 71. Livio Tito: 75, 76, 77, 80, 81. Lucano Marco Anneo: 113. Luck Georg: 19 n. Luzzatto Sergio: 124 n. Macata di Elimea: 23, 24. Macurdy Grace Harriet: 11 n., 37 n., 41 n. Mari Manuela: 36 n. Maria Tudor, regina d’Inghilterra: 146. Marzi Mario: 78 n. Medea: 66, 144. Meda di Odessa: 23, 24. Medici Caterina de’, regina di Francia: 146. Meeuss Alexander: 127 n. Mossé Claude: 111 n.
163
indice dei nomi Milziade il Giovane: 92. Myrtale: vd. Olimpiade. Memnone di Eraclea: 95. Momigliano Arnaldo Dante Aronne: 25 n., 27 n., 60 n. Napoleone Bonaparte, imperatore: 112. Neottolemo, figlio di Achille: 13. Neottolemo, tragediografo e attore: 52, 58. Neottolemo I, re d’Epiro: 12, 14, 15, 20, 84, 136. Neottolemo II, figlio di Alessandro il Molosso: 84, 105. Nicanore: 132. Nicea: 126, 127. Nicesipoli di Fere: 23. Nocita Michela: 12 n. O’Brien John Maxweel: 72 n. Olimpiade: 9, 11, 12 e n., 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26 n., 27, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 54, 55, 56, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 68, 69, 73, 74, 75, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 94, 96, 100, 101, 102, 103, 104, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 112, 113, 117, 119, 120, 121, 122, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 130, 131, 132, 133, 134, 135, 136, 137, 138, 140, 141, 142, 143, 144, 145, 146. Omero: 15. Orazio Quinto Flacco: 112. Orfeo: 18, 19, 39. Ossiarte: 117, 121. Parke Herbert William: 51 n. Parisatide II: 120. Parmenione: 11, 71, 98, 105. Pausania il Periegeta: 15, 16, 18, 19, 51, 84, 138, 144, 145. Pausania di Orestide, tirannicida: 53, 54, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 67. Pearson Lionel: 143 n.
Pecile Antonio: 104 n. Pédech Paul: 143 n. Peleo: 15, 19. Peligna: 109. Perdicca, reggente: 60, 120, 121, 122, 123, 125, 126, 127, 128. Perdicca III, re di Macedonia: 55. Pestolazza Umberto: 65 n. Pirro, re dell’Epiro: 12, 14, 15, 16, 84, 133, 144. Pirro, scultore: 86. Pisistrato, tiranno ateniese: 62. Pizia: 11. Platone: 18, 45. Plinio Gaio Secondo il Vecchio: 86. Plutarco: 11, 16, 17, 18, 20, 21, 22, 26, 33, 34, 36, 37, 38, 39, 42, 43, 44, 48, 49, 50, 56, 57, 63, 65, 66, 67, 79, 82, 84, 90, 103, 104, 110, 117, 118, 120, 131, 139, 145. Polibio: 32. Polieno: 128. Poliperconte: 124, 125, 128, 129, 132, 133, 134, 140, 141, 142. Polissena: vd. Olimpiade. Polissena, principessa troiana: 13, 17, 74. Polluce: 108. Pompeo Trogo: 11, 45. Poro, re indiano: 100. Poseidone: 88. Prestianni Giallombardo Anna Maria: 11 n., 12 n., 13 n., 75 n., 127 n., 128 n., 139 n. Priamo: 16. Radet Georges: 72 n. Rossane: 99, 114, 117, 118, 119, 121, 122, 123, 124, 125, 133, 135, 138, 139, 140, 141, 142, 145, 146. Satiro il Peripatetico: 23, 26, 48, 49, 55. Scarpi Paolo: 12 n. Schachermeyr Fritz: 72 n. Schneider Pierre: 113 n. Seibert Jakob: 72 n. Selene (Luna): 18.
164
indice dei nomi Tessalonica: 23, 133. Tindaro: 108. Tolomeo I Sotere, sovrano: 67, 120, 121, 122, 128. Tréheux Jacques: 13 n. Treves Piero: 89 n. Troade: 12, 15, 20.
Seleuco I Nicatore: 122. Semele: 12. Senofonte: 45. Serse I, re persiano: 97. Simia: 105, 106, 107. Sordi Marta: 52 n., 82 n. Squillace Giuseppe: 27 n., 58 n. Statira: 115, 119, 120. Strabone: 15, 22, 95. Stratonice: vd. Olimpiade. Stratonice di Siria: 13. Svetonio: 52.
Vattuone Riccardo: 45 n. Virgilio Publio Marone: 74. Vokotopoulou Ioannis: 75 n.
Tarn William Woodthorpe: 50 n., 72 n., 139 n. Taurisco: 79, 80. Taurostene, tiranno: 91. Teodosio I, imperatore: 109. Teopompo: 22, 75.
Will Edouard: 125 n., 139 n. Wirth Gerhard: 72 n. Wormell Donald Ernest Wilson: 51 n. Zeus: 35, 36, 38, 67, 68, 70, 74, 75, 85, 86, 87, 88, 90, 98, 100, 107, 108.
165
INDICE 9
Premessa
I. Principessa epirota
1. Il nome 2. La famiglia 3. L’origine mitica 4. L’attrazione verso l’irrazionale 5. Le nozze
11 13 15 17 20
II. Moglie di Filippo, madre di Alessandro 1. Filippo, il condottiero e il politico 2. La moglie e la madre 3. L’unione coniugale 4. L’educazione del figlio 5. Il fratello alla corte macedone
27 33 37 40 44
III. Ripudiata e vedova 1. La rottura con Filippo 2. Un matrimonio e un regicidio 3. Il mandante del regicidio 4. Myrtale, un nome resuscitato 5. La maschera di Medea
47 51 55 62 65
IV. Il figlio in Asia, il fratello in Italia 1. Alessandro in Oriente 2. Il Molosso in Occidente 3. La prima fuga di Arpalo 4. Il corpo del Molosso
70 72 77 80
V. Signora dell’Epiro 1. Dalla Macedonia all’Epiro 167
83
indice
2. Olimpiade e il sacro 3. Olimpiade, Atene e l’Adriatico. Una congettura
85 91
VI. Madre e figlio, la comunicazione epistolare 1. La conquista e la marcia ai confini del mondo 2. I contrastati rapporti con Antipatro 3. Ansia per il figlio o desiderio di vendetta 4. Le interferenze con il divino 5. Le interferenze con il privato 6. Gli interessi scientifici
97 102 105 107 110 112
VII. Il figlio di Alessandro, il nipote di Olimpiade 1. La morte del condottiero 2. Rossane, la moglie di Alessandro 3. Il nascituro
115 117 120
VIII. Eredità di sangue e sangue di vendetta 1. I due re 2. Le tre teste coronate 3. La guerra delle regine 4. La tragedia, ultimo atto 5. L’erede postumo
123 126 129 131 138
Epilogo
143
Bibliografia
149
Cartine
157
Indici 161
Indice dei nomi
168