Non è cosa. Vita affettiva degli oggetti-Non siamo mai stati soli. Oggetti e disegni 8896904390, 9788896904398

Come sostiene Claude Lévi-Strauss, la nostra società, che si proclama materialista, è in realtà ben lontana da un rappor

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Italian Pages 136 Year 2013

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Non è cosa. Vita affettiva degli oggetti-Non siamo mai stati soli. Oggetti e disegni
 8896904390, 9788896904398

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altri titoli di Franco La Cecla nel catalogo elèuthera Mente locale per un’antropologia dell’abitare in allegato il dvd In altro mare Modi bruschi antropologia del maschio Saperci fare corpi e autenticità con Melo Minnella L’Ape, antropologia su tre ruote con Piero Zanini Una morale per la vita di tutti i giorni

Franco La Cecla

Non è cosa vita affettiva degli oggetti

Luca Vitone

Non siamo mai soli oggetti e disegni

elèuthera

© 2013 elèuthera Franco La Cecla e Luca Vitone progetto grafico di Riccardo Falcinelli immagine di copertina: © Luca Vitone il nostro sito è www.eleuthera.it e-mail: [email protected] ringraziamenti Si ringraziano Carla Pellegrini (Milano) e Cesare Manzo (Pescara) per il loro contributo alla diffusione di questo libro

Indice

non siamo mai soli di Luca Vitone Oggetti domestici in ambienti domestici Indice delle immagini e descrizione delle opere

9 13

non è cosa di Franco La Cecla introduzione La forza delle cose

19

capitolo primo Oggetti: come renderli presenti

25

capitolo secondo Oggetti anima, oggetti feticcio 

33

capitolo terzo Quel che resta del gioco

61

capitolo quarto Dono, danno, pegno

71

capitolo quinto Lasciare, dare, trasmettere

83

capitolo sesto I resti del mondo

91

capitolo settimo Elemosina97 capitolo ottavo Anch’io come cosa: per una teoria della ripetizione e del soggetto rituale

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Riferimenti bibliografici

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Non siamo mai soli

Oggetti domestici in ambienti domestici

Quando ci muoviamo in un ambiente domestico, utilizziamo senza prestarvi troppa attenzione diversi tipi di oggetti che ci accompagnano nella nostra esistenza per periodi più o meno lunghi. Spesso non diamo importanza alla loro provenienza, soprattutto se per questi oggetti non è stato pagato un alto prezzo economico. Hanno più fortuna se ci sono stati regalati o se li abbiamo ereditati da una persona cara, ma il rapporto con l’oggetto è prevalentemente di carattere materiale. In realtà, gli oggetti che si possiedono detengono, oltre al proprio significato materiale di utilizzo, un valore di ricordo, trasmettitore di una memoria personale e collettiva. Nella loro consistenza fisica si sviluppa un processo di identificazione personale e di gruppo. Ciò avviene perché l’oggetto è un condensatore di relazioni; in esso non leggiamo semplicemente un ritratto del suo possessore, ma relazioni tra storie, persone, luoghi che trattengono lo spirito esistenziale di un ambiente. L’oggetto diventa metafora del vivere. 9

Possedere oggetti di persone estinte ne sostiene il ricordo oltre la morte, la loro memoria permane in noi guardando, toccando, utilizzando tali oggetti. È una pratica che afferma il fatto che si vive, attraverso il loro ricordo, in compagnia di figure ormai scomparse. Tramandandolo, permane un’abitudine, diventa un piccolo monumento domestico. Si fanno garbati riferimenti per affermare un pensiero nei loro confronti. L’oggetto in origine non è un esemplare unico, bensì una copia. Letti dello stesso tipo ce ne sono centinaia, maglioni migliaia, pantofole decine di migliaia, ma quando l’oggetto viene scelto da qualcuno per l’uso che se ne fa, il proprio uso, allora la molteplicità dell’esemplare si annulla e diventa copia unica. Un’unica copia che vive, diventa vita e trasmettitrice di vita, condensando in sé una memoria. L’utilizzare una cosa posseduta da un’altra persona, soprattutto se deceduta, non solo mantiene in vita l’oggetto ma rende presente la figura del possessore scomparso. Questo avviene proprio attraverso la memoria contenuta nella cosa da lui posseduta in precedenza. Mettere in mostra oggetti che fanno parte della mia memoria testimonia questa valenza. Diventa il pretesto per visualizzare, attraverso l’oggetto esposto e il disegno dell’appartamento in cui esso era situato, un’ipotetica biografia del suo possessore. Guardando la disposizione dell’arredamento nelle diverse stanze, si possono tracciare mille possibili itinerari che l’abitante vi poteva svolgere quotidianamente, incentrati intorno all’oggetto preso in esame. Oggetto comune a tanti altri, ma preso ad esempio di un’esistenza. La cosa da oggetto si trasforma in soggetto, alter ego del suo proprietario, trasmettitore di memoria di tale persona. Gli oggetti che ereditiamo diventano nostri, parte di noi in cui ci identifichiamo, un interlocutore su cui proiettiamo ciò che ricordiamo. Un ricordo, positivo o negativo che sia, in cui ci riconosciamo. Frammenti di una memoria che ci coinvolge. 10

Scegliere questi oggetti come testimoni di un’esistenza li rende privilegiati rispetto agli altri. Diventando opere, hanno l’opportunità di rendersi immortali assumendo un’aura che li impreziosisce fino alla fine della durata dell’opera. Le immagini pubblicate in questo libro riproducono una serie di lavori da me pensati e realizzati nell’estate del 1994. Si tratta di quindici oggetti accompagnati dal disegno dell’appartamento in cui l’oggetto si trovava. Luoghi e cose appartengono alla mia memoria: dalla casa dove sono nato a quella delle vacanze trascorse con il nonno materno, dalla casa degli zii a quella dei nonni degli amici, così vicini che, anche se non uniti da legami di sangue, ho sempre sentito come parte della mia famiglia. Con questi oggetti, che ho ricevuto in regalo o in eredità nel corso degli anni, ho convissuto nel tempo utilizzandoli per quello che erano, fino alla decisione di esporli come opere, dandogli così la possibilità di viaggiare e confrontarsi con la memoria altrui: da Monaco a Roma, da Ravenna a Colonia, da New York a Milano. Alcuni sono oggi collocati in case private dove hanno perso la loro funzione pratica ma ne hanno acquisito una forse più importante, quella di testimoniare il percorso di un’esistenza.

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Indice delle immagini e descrizione delle opere

Non siamo mai soli (Maglioni – Alice Salio, corso Dante 168, Chiavari), 1994. Disegno incorniciato cm. 50 x 70, due maglioni rosso e giallo, mensola in legno [p. 8]. Non siamo mai soli (Tavolo e sedia – Orietta e Rodolfo Vitone, via delle Ginestre 24/14, Genova), 1994. Disegno incorniciato cm. 50 x 70, tavolo e sedia rossi per bambini [p. 12]. Non siamo mai soli (Libretti e dischi – Michele e Giuseppina Vitone, via Montallegro 12/7, Genova), 1994. Disegno incorniciato cm. 50 x 70, dischi 78 giri e libretti d’opera lirica, mensola in legno. Collezione Rossana e Franco Pavanello, Padova [p. 16]. Non siamo mai soli (Bilancia – Jole e Mario Zaccaro, via Dassori 12/19, Genova), 1994. Disegno incorniciato cm. 50 x 70, bilancia a muro color crema. Collezione Emi Fontana, Milano-Los Angeles [p. 24].

13

Non siamo mai soli (Colori – Pierina Palvis, piazza Paolo da Novi 7/12, Genova), 1994. Disegno incorniciato cm. 50 x 70, tre scatole in legno di formati diversi contenenti pastelli a cera, mensola in legno [p. 32]. Non siamo mai soli (Tavolo – Delia Ottone, via Strasserra 4/12, Genova), 1994. Disegno incorniciato cm. 50 x 70, tavolo da cucina in legno e ferro [p. 44]. Non siamo mai soli (Metronomo – Maria Luisa Banchieri, via Bologna 35, Genova), 1994. Disegno incorniciato cm. 50 x 70, metronomo in legno, mensola in legno [p. 46]. Non siamo mai soli (Pantofole – Orietta e Rodolfo Vitone, condominio Le Grolle, Verrand), 1994. Disegno incorniciato cm. 50 x 70, un paio di pantofole in plastica. Collezione Gianni Garrera, Roma [p. 60]. Non siamo mai soli (Sgabello – Delia e Felice Banchieri, via Ricci 6, Genova), 1994. Disegno incorniciato cm. 50 x 70, sgabello bianco con sportello. Collezione Paolo Vicentini, Milano [p. 81]. Non siamo mai soli (Camion – Francisco Banchieri, Piampaludo, Savona), 1994. Disegno incorniciato cm. 50 x 70, camion giocattolo in legno dipinto di verde. Collezione Gianni Garrera, Roma [p. 82]. Non siamo mai soli (Piatti – Giuseppina Viviani, via delle Ginestre 14/4, Genova), 1994. Disegno incorniciato cm. 50 x 70, quattro piatti fondi, cinque piani e due da dessert in ceramica bianca, mensola in legno. Collezione Danila e Riccardo Patti, Padova [p. 90]. Non siamo mai soli (Marcatré – Redazione della rivista Il Marcatré, via Colombo 10, Genova), 1994. Disegno incorniciato cm. 50 x 70, targa de Il Marcatré. Collezione Sergio Bertola, Genova [p. 96].

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Non siamo mai soli (Libro – Lauretta e Alberto Lagomaggiore, corso Carbonara 5/3, Genova), 1994. Disegno incorniciato cm. 50 x 70, bibbia luterana del 1888 scritta in caratteri gotici, mensola in legno [p. 115]. Non siamo mai soli (Scendiletto – Delia e Felice Banchieri, via Medici del Vascello 7/10, Genova), 1994. Disegno incorniciato cm. 50 x 70, scendiletto in stoffa con disegno di giaguaro coricato [p. 116]. Non siamo mai soli (Divano – Wilma e Giocondo Bussi, corso Galliera 12/21, Genova), 1994. Disegno incorniciato cm. 50 x 70, divanoletto in legno con materasso e copriletto. Collezione agi, Verona [pp. 128-129]. Oggetti fotografati da Mario Gorni e Roberto Marossi Courtesy Luca Vitone

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Non è cosa

A mamma Pina che mi ha sempre messo in guardia rispetto a una possibile ribellione delle cose

introduzione

La forza delle cose

Questo testo è costituito da riflessioni dedicate alle cose e alle relazioni che queste sviluppano con gli esseri umani, i luoghi e il tempo che passa. Nella lingua italiana e in altre lingue affini – e non – l’uso che si fa del termine cosa è talmente vasto da poter sostituire non solo un’ampia gamma di sostantivi, ma da essere surrogato per intere espressioni e modi di dire. Come se le cose ci facessero compagnia fin dentro al tessuto più minuto della lingua parlata: Se le cose stanno così – cosa vuoi? – cosa fare? – ci sono più cose tra il cielo e la terra di quanto l’uomo possa immaginare – you are really something – you do something to me – de deux choses l’une – regarder les choses en face – aller au fond de choses – appeller les choses par leur nom – chiamare le cose con il proprio nome – cosa fatta capo ha – c’est chose faite – è tutt’altra cosa ecc.

Cosa può designare un essere, un avvenimento, un oggetto, un fatto, un fenomeno, una realtà, ma può essere l’opposto della 19

parola (le parole e le cose); può indicare ciò che ha luogo, quel che si fa, ciò che esiste (c’est la moindre des choses – la forza delle cose – le umane cose – rerum natura – la natura delle cose), ma può anche sostituirsi alla parola (ho una cosa da dire). Combinata con qualche, come in qualcosa, prende un aspetto indeterminato e di attesa (vorrei dirti qualcosa), ma anche da sola può lasciare nel dubbio e nell’ambiguità di uno sviluppo futuro. La cosa può essere sia un progetto o un concetto vago sia una presenza arrivata da un altro mondo. Il Dizionario francese Robert definisce così la plurisemanticità del termine cosa: Terme général par lequel on désigne tout ce qui existe et qui est concevable comme un objet unique – concret; abstrait; réel; mental [termine generale con cui si designa tutto ciò che esiste e che è concepibile come un oggetto unico – concreto; astratto; reale; mentale].

Si potrebbe fare un esperimento e vedere fino a che punto si possono sostituire in un discorso le parole con «le cose». È quello che i bambini fanno di solito e che certa gente fa normalmente. Superato un certo livello, un discorso pieno di cose vi dà sui nervi perché vi accorgete che tutto perde di contorno, diventa vago e generico, prende la qualità vaga dei discorsi che la gente fa per intrattenersi: questa cosa qui, quella cosa là – come vanno le cose? – how are things with you? Nella definizione del Robert risalta anche una caratteristica opposta. Possiamo sostituire cosa a tutto l’esistente e il concepibile, perché il termine cosa ha in sé la discrezione di cui è fatto il mondo, i contorni che distinguono «una cosa dall’altra», il mondo fatto di entità discrete, separate l’una dall’altra (il contrario del brodo primordiale, o del tutto caotico, da cui il mondo avrebbe avuto origine). Allora capiamo un po’ meglio perché il linguaggio, che è fatto di una scansione del suono continuo in suoni discreti, ha biso20

gno di imitare il mondo che è fatto di cose con contorni distinti. Il gioco della lingua ricorda un gioco che fino a qualche tempo fa appariva sia sulle riviste per bambini sia sui libri di testo delle elementari: quello di sostituire le parole con l’immagine della cosa designata – il cane, la casa, la mela, la cartella. Questa rotondità e tangibilità del mondo è la vera aspirazione della lingua, far toccare le cose del mondo, dicendole, come se si fosse capaci di farle apparire solo nominandole. Nel passaggio tra la parola e l’effige e tra il nome e la cosa generica c’è un’analogia con un’inversione interna. Nel primo caso il nome trova un’immagine che è la concretezza, nel secondo trova un sostituto che è un’astrazione. Non cambia però la voglia di far sentire nel linguaggio le cose come delle pedine distinte, dei segnaposti di presenze. Comunque sia, le cose sono la carne del mondo, e se il linguaggio è un’imitazione del mondo è chiaro che le cose devono entrarvi. Ma c’è un tratto singolare nell’uso «eccessivo» che ne facciamo in alcune lingue, tra cui la nostra. Come se volessimo far entrare la materia del mondo a sostenere l’astrattezza della parola. L’uso frequente di «cosa», «qualcosa», «che cosa?» non sta proprio a significare che il linguaggio cerca appigli, si «afferra alle cose», ne fa il supporto di una altrimenti fragile costruzione? Il linguaggio tradisce la sua inadeguatezza al progetto utopico di ridarci il mondo. Così, non gli rimane che annaspare, fingere, rendere il mondo «virtualmente», evocandolo con la ripetizione del mantra che corrisponde al suono cosa. Thing in inglese è quasi uno scampanellio, chose in francese è il sospiro di un suggeritore (ed è anche il caso di coisa in portoghese), in spagnolo e italiano cosa è il suono forte e strisciato della esse. Il Dizionario italiano Zingarelli dice di cosa: «Parte, aspetto della realtà, materiale o ideale, concreta o astratta». Ma ci informa anche sull’origine della parola cosa: viene dal latino causa, che attraverso il senso di «affare» sostituisce res. Questa è la stessa origine del francese chose. Il significato originario dell’inglese thing e del tedesco ding sarebbe un’assemblea, una riunione di persone. 21

Cosa starebbe per la presenza di un’entità, anche astratta, che sta in mezzo a due o più persone. Queste sono convenute intorno a un «affare». Come se le cose per loro natura avessero la qualità di stabilire relazioni tra esseri umani, di rendere concrete queste relazioni. Le «cause», gli «affari», consentono di non restare distanti, permettono di avere una presa, di tenere la relazione con gli altri. Anche qui torna il senso di mondo, di mondo là fuori, alla cui geografia ci appigliamo per rendere possibili le relazioni tra di noi. Se allora la lingua è una maniera di «tenere in ballo» un incontro tra persone, è naturale che essa debba essere piena di cose. Le cose raccolgono intorno a sé la convergenza di un’attenzione, come un fuoco o un punto d’acqua tra indigeni convenuti la sera dopo un lungo cammino solitario. In francese rien viene da res, e per parecchio tempo per dire «cosa» si diceva rem e poi rien. Solo recentemente ha cominciato a significare «niente» (per dire «niente» si diceva ne rien). Nell’uso colloquiale «niente» è l’interiezione con cui sospendiamo, mettiamo in surplace un dialogo, lo tratteniamo perché l’altro non creda che vogliamo dirgli una cosa che lo impegna, ma anche per fargli attendere qualcosa che gli diremo. «Niente, ti volevo dire che…» è un gioco in cui la cosa, svuotata di una temibile pesantezza, evoca però tutte le promesse di una virtuale presenza. In catalano no pasa res si dice a chi sta piangendo, per consolarlo. I capitoli che seguono «sulla vita affettiva degli oggetti» sono una breve storia dell’effetto che le cose hanno su di noi e tra di noi. Alcuni capitoli si concentrano di più sulla relazione tra la pelle nostra e la pelle delle cose e sul dialogo, apparentemente muto da una parte, che fittamente si compone a nostra insaputa. Altri si occupano di che effetto gli oggetti esercitano nei rapporti tra di noi. Laddove siamo convinti di essere in due o in tre in un litigio, in una nostalgia o in una confessione, ci sono cose a far da tramite, a ergersi come un terzo incluso o escluso, ma la cui assenza è prepotente (si pensi al rapporto tra ricchi e poveri). 22

Le cose o la loro assenza costituiscono non solo il paesaggio delle nostre passioni ed emozioni, il supporto della vita affettiva fatta di oggetti trasmessi, donati, rubati, ma sono esse stesse l’oggetto del nostro attaccamento, la solidità fatta di sfaccettature intorno alla quale leghiamo il nostro mondo. Quanta rassicurazione nel posare sul comodino, prima di addormentarsi in una camera d’albergo, un anello che ci è stato donato ma anche il proprio orologio da polso. Il nostro orologio, così frequentato e bistrattato nel tran tran quotidiano, e il nostro telefono, così corteggiato tutto il santo giorno, sono un viso noto nel non familiare contesto in cui ci troviamo. Ci riconosciamo in loro e loro ci riconoscono per assiduità, per fedeltà. Ci sono cose che salutiamo la mattina quando apriamo gli occhi. Tra queste, primo il telefono. Per non parlare degli oggetti che hanno finito per somigliarci, benché ci siano anche quelli che ci respingono, a cui non piaciamo e che non riusciamo ad addomesticare. Tutto ciò è disumano, un insulto contro l’unica «cosa» che avrebbe senso, cioè i rapporti tra umani? Lo è solo se si crede che viviamo nell’astrazione, che non aderiamo con la nostra pelle alla carne del mondo, e che dovunque siamo «ci siamo»; e questo «ci» è fatto di un paesaggio di oggetti, di case, di pavimenti, di spigoli, di marciapiedi e anche di automobili. Gli oggetti, nonostante un secolo e più di produzione industriale, non cessano di animarsi e di pretendere che noi stabiliamo con loro delle relazioni di contiguità, di sfioramento, di attrazione o di scontro. La vita affettiva delle cose è insomma una buona parte della nostra vita affettiva, sia nel senso impoverito di cui Perec ci ha fatto dono nel suo libro sulle Choses come prodotti, beni di consumo da cui la gente si fa definire, sia nel senso più ricco di cui si vuole narrare qui: ci sono cioè sentimenti che le cose possiedono di noi e che, lungi dall’allontanarci dalla compagnia degli umani, ci aiutano a renderla più profonda, sottile e stabile al tempo stesso. 23

capitolo primo

Oggetti: come renderli presenti

Il ruggito dell’abisso è lo sforzo che fa il mondo per parlare. Victor Hugo, L’uomo che ride

Una delle derive che il nostro tempo si porta appresso è la fede cieca nell’inerzia della materia. Un credo assoluto, basato su una metafisica del «dietro non c’è niente», che ha provocato non pochi problemi alla nostra relazione con il mondo. Si può professare una fede nell’assoluta inerzia e indifferenza della materia, ma poi è la pratica quotidiana, il rapporto con gli oggetti che ci circondano a metterci di continuo di fronte al bisogno di significare questa relazione. Si può credere che le cose altro non siano che una proiezione di nostri stati d’animo, ma non si riesce a sfuggire al fatto che gli oggetti comunque evocano, provocano, suscitano quegli stati d’animo. Sappiamo bene come le cose che ci circondano abbiano delle caratteristiche mutevoli: una pietra può essere un sasso o un bene prezioso, un 25

reperto archeologico o l’unico ricordo che ci rimane di una patria. Ma anche in sé, nello sforzo di contemplare un albero per sé o una statua, un bicchiere o un’automobile, le cose rivelano un’inesauribilità di storie, di trame, di relazioni. Non sappiamo, oggi come quattromila o più anni fa, dare ragione della presenza delle cose intorno a noi, eppure questa presenza si manifesta, c’è. Oggi siamo molto più imbarazzati dei nostri antenati di fronte a questa compagnia, tanto che tentiamo di rimuoverla, negandola con la teoria della materia inerte. Eppure altre culture non meno smaliziate della nostra si erano poste nei confronti delle cose in uno stato di maggiore apertura e di domanda. Le cose sono presenti: cosa accade loro quando le manipoliamo? Cosa accade se le usiamo per rappresentare qualcos’altro? Cosa accade se rappresentano solo se stesse? Un campo da cui potremmo raccogliere molte risposte è quello degli oggetti di culto. Molte religioni e diverse culture indigene si sono servite di questa categoria per fare una riflessione più ampia sullo statuto delle cose. Non tutte le religioni sono iconiche. Alcune, espressamente o meno, rifiutano di fare immagini dei propri dèi o della stessa «creazione». Per l’islam, ad esempio, l’interdizione vale non solo per la divinità ma per tutto il creato. Dietro questa iconoclastia si cela il problema del rifacimento della creazione. Rappresentare il mondo significa volerlo rifare e questo è un atteggiamento blasfemo. Il giudaismo conosce un’interdizione analoga, anche se nelle comunità ebraiche di Roma o di Praga le storie di santi rabbini che «creavano» dal fango degli esseri, dei Golem, sono numerosissime. In queste storie il rabbino non era blasfemo, ma imitava Dio e la sua era una specie di ascesi1. Anche il cristianesimo dei primi secoli ha conosciuto una forma di interdizione simile. Si evitava di rappresentare Cristo e si evitavano soprattutto le sculture, per il pericolo di idolatria insito nel rifacimento del mondo. La croce o le immagini simboliche di Cristo – il pesce, il pellicano – avevano la natura del logo, dello stendardo, della 26

bandiera. Jack Goody, un grande antropologo, in uno studio sull’iconoclastia 2 ha osservato che tutte le culture passano necessariamente per una fase di iconoclastia. Si tratta per tutte di affrontare il problema di rappresentare l’inimmaginabile, il divino, o di fare un’immagine di qualche cosa che non ce l’ha – l’anima, il soffio, lo spirito, la potenza, l’immateriale – o anche di copiare, riprodurre quello che già esiste o che è già in vita. Se si vuole rappresentare il mondo fenomenico ci si trova dinanzi alla questione di cosa è il mondo di per sé. Cosa ci «rappresenta il mondo»? È anch’esso immagine? E se lo è, di cosa è immagine? Le immagini che ne facciamo si trovano a essere copie di copie di un originale che ci sfugge. Un grande mistico dell’islam, Muhyiddin Ibn ‘Arabi, diceva che «è il mondo a essere nascosto e a non apparire mai, mentre l’essere divino è il manifesto e non è mai nascosto». La paradossalità di questa affermazione dà ragione agli iconoclasti. Ogni rappresentazione del mondo è una riduzione, un offuscamento del suo mistero. Ma per Goody c’è anche una risposta «africana» di natura diversa. Gran parte delle culture dell’Africa «nera» prevedono un Dio creatore che si è in seguito assentato. Questo fatto, invece di lasciare il mondo orfano, ha rafforzato, per così dire, la compagnia che il creato ci fa, e ne ha rafforzato il carattere di rappresentazione vivente. La risposta è il pullulare di culti della natura, animisti, l’uso di oggetti, feticci che sono per certi scopi e in certi momenti investiti da una potenza di rappresentazione. Questo mondo ricco e colorato, in cui l’immanenza è rappresentazione, sembra popolato di presenze. Chi si fa un feticcio sa di non rappresentare la divinità ma una manifestazione di essa. Lo stesso tipo di «manipolazione» e di cura della presenza la troviamo nei culti quotidiani buddisti e induisti, ma anche nei ben più noti, per noi, culti cristiani. Così in un vivido racconto contemporaneo di un’antropologa franco-indiana: «Un pomeriggio torrido, un sadhu di Vrindaban si era sistemato nel nostro cortile a Benares. Si lamentava ad alta voce contro questa città di gente di poca fede e ripeteva, preoccu27

pato, che erano due giorni che il povero piccolo Lalaji non aveva mangiato niente. L’uomo sembrava sfinito e affamato; lo facemmo accomodare sulla nostra veranda e gli offrimmo un giaciglio, qualche banana e dell’acqua. Si mise a rovistare nella sua sacca e ne estrasse un quadretto, lamentando a voce alta quanto il piccolo avesse sofferto. Il povero piccolo Lalaji non era un bambino, ma una minuscola immagine di Krsna bambino. Lo sventolò, gli dette dei buffetti, riaggiustò il piccolo velo teso davanti al quadretto, lo mise sul giaciglio accanto a sé e gli offerse un piatto di fettine di banane, di cui consumò i ‘resti’ in seguito»3. L’immagine di Krsna bambino non è un’immagine anonima, intercambiabile, è una murti. La murti che si ama è una persona, individualizzata e con un nome proprio. È una persona riverita a cui si fa il bagno, che si veste, si nutre, che viene messa a letto, che fa nelle ore dovute la siesta e che viene fatta perfino accoppiare in maniera discreta con una divinità dell’altro sesso. Questo realismo, che può avere come oggetto un’immagine, una statua o una pietra, è per i testi sacri induisti un mezzo di presa di coscienza e di ricordo costante dell’esistenza e della prossimità di Dio. C’è di più: con un rituale particolare, nell’oggetto, immagine o statua viene instillato il soffio, «gli vengono attribuiti i sensi», gli «vengono aperti gli occhi» (aksy-unmesana) 4. Gli oggetti di culto diventano «vedenti», sono essi a osservare e gustare il mondo. Lo stesso rito dell’apertura degli occhi lo troviamo nel buddismo giapponese. Si costruisce una statua al posto del Buddha. Una storia racconta che anche in vita il Buddha approvò che il re Udayana gli avesse fatto fare, in sua assenza, una statua tanta era la nostalgia che il re aveva dell’Illuminato. Al ritorno dalla sua assenza il Buddha di legno di sandalo va incontro al Buddha vero che gli dà l’incarico di prendersi cura delle pene del mondo. Quello che si attualizza nelle statue del Buddha è un altro corpo. Anche qui cerimonie apposite ne aprono gli occhi (kaigen), si fa la pupilla della statua, colorandone gli occhi o inserendovi 28

dell’oro, e antichi culti di origine cinese attuano la presenza costruendo all’interno delle statue delle viscere. Anche qui l’operazione è conscia. Non si tratta di andare incontro alla credulità dei fedeli, ma di «evocare» il corpo di Dio nascosto nella pietra o nel legno. La presenza nelle statue è una presenza «relazionale» ed è intermittente5. È il culto ad attivare la presenza, perché non si tratta di un transfert, quello dell’officiante sulla statua, ma di un raddoppiamento di presenza. La statua del Buddha «vedente» diventa un doppio dell’officiante. Questa manipolazione della presenza conosce gradi. Non tutti gli oggetti di culto, non tutte le statue hanno la stessa carica di presenza e la stessa durata della presenza. In alcuni culti gli officianti riescono a trasferire la presenza da un oggetto all’altro. Ad esempio in Nepal, tra i Newar di Bakthapur, c’è un culto delle dee madri (matrka) che è aperto solo agli iniziati e si svolge nei piani superiori delle case del capoclan. Soltanto alcuni hanno visto il corpo scolpito delle dee madri. Questi, una volta l’anno, si riuniscono in un campo fuori città e il culto (puja) consiste nel far nascere negli officianti l’immagine della divinità tale quale l’hanno vista nella casa tempio, e trasferirla in alcune pietre scelte nel campo. Questo rito tantrico di trasferimento della presenza gioca con il passaggio da iconico ad aniconico (successivamente le pietre possono, ma non sempre, acquistare occhi) e con il potere della visualizzazione interiore (avahana) 6. Nei casi descritti risulta un uso degli oggetti e un relazionarsi a essi in cui la gradazione del rito consente di passare dal «come se» fossero animati, all’essere animati, all’essere al posto degli animatori, all’essere eventualmente di nuovo «spenti». Non ci deve meravigliare la ricchezza di questa categorizzazione. Se pensiamo a certi culti cristiani sorti dopo la Conquista nel Nuovo Mondo, ne troviamo tutta la sfaccettatura. È Serge Gruzinski che ha sapientemente ricostruito la storia del culto dell’immagine della Virgen de Guadalupe. I missionari francescani arrivarono in Messico insieme a Cortés. Distrussero gli idoli degli 29

Aztechi, ne eliminarono la classe sacerdotale e guardarono con sospetto ogni possibile insorgere di idolatria. Per questo rifiutarono di dare le proprie immagini sacre agli amerindi, per paura che essi vi trasferissero i loro culti idolatrici. Gli Aztechi avevano un culto in cui alla presenza divina era dato incarnarsi in oggetti differenti o in persone. Questo concetto era riassunto nel termine nanate ixiptla, qualcosa come il ricettacolo di un potere, una presenza che si manifesta, epifanica, nell’attualizzazione di una forza infusa in un oggetto, un «essere là» senza che il pensiero indigeno si attardi a distinguere tra essenza divina e supporto materiale. Il sacerdote azteco di Izucar riesce a convincere a fatica l’Inquisizione che gli dèi della sua comunità sono rappresentati da sette pietre piccole come perle7. È sul concetto di ixiptla che un secolo dopo la conquista si baserà l’enorme successo della Virgen de Guadalupe. L’immagine della Virgen, apparsa secondo la leggenda in una grotta sulle alture di Città del Messico, non è un semplice dipinto, ma è una «copia dell’originale di Dio», è cioè tratta da un originale che è esso stesso un’immagine. Le circostanze del ritrovamento mirano a mettere in risalto questo carattere. L’immagine è miracolosa perché non è solo un’immagine. La Virgen appare a un amerindio, Juan Diego, e lascia sul suo mantello la propria immagine, che è risultata a colori perché nel mantello erano avvolte delle rose. Juan Diego cerca di afferrarle, ma si accorge che esse sono dipinte, stampate come un sigillum. Il sole ha proiettato l’ombra della Virgen sul suo mantello e i fiori sono responsabili del cromatismo. Immagine e reliquia al tempo stesso, la Virgen de Guadalupe riprende la ricchezza delle sfumature del rapporto tra culto e culto della presenza. La Chiesa sfugge alla propria paura dell’idolatria e utilizza l’animazione di un oggetto come segno visibile della immanenza del proprio sacro nel Nuovo Mondo. Questa breve carrellata di oggetti di culto cosa ci racconta? Che in varie culture e attraverso diversi culti si esprime lo stesso 30

imbarazzo. Una visione astratta, iconoclasta, che vuole lasciare i valori fuori dalle forme e negare alle cose del mondo il potere, ma il potere vero, non solo della rappresentazione ma anche della rappresentanza, dell’epifania, è destinata a privare di senso la compagnia degli oggetti. Essi costituiscono invece la scusa, tangibile e immanente, per cui è possibile dare volto alle idee, dare loro carne (di legno, di pietra, d’acqua, la carne del mondo). In questo senso occuparsi degli oggetti e della loro relazione con noi significa ammettere almeno in parte che non siamo solo noi a «vedere» il mondo, ma che anch’esso ha uno sguardo che sta a noi attivare e forse poi scoprire.

Note al capitolo 1. G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 1980. 2. J. Goody, Icônes et iconoclasmes en Afrique, «Annales fsc», 6, novembredicembre 1991, pp. 1235-1251. 3. C.C. Ojhe, Image animée, image vivante, l’ image du culte hindou, in A. Padoux (a cura di), L’ image divine, culte et méditation dans l’ hinduisme, Editions du cnrs, Paris 1990. 4. C. Malamoud, Briques et mots, observations sur le corps des dieux dans l’Inde Vedique, in Corps de dieux, numero monografico di «Le Temps de la réflexion», vii, Gallimard, Paris 1986. 5. B. Frank, Vacuité et corps actualisé, le problème de la présence des personnages vénérés dans leurs images selon la tradition du buddhisme japonais, in Corps des dieux, cit. 6. A. Vergati, L’ image de la divinité dans le culte lignager chez les Newar (Nepal), in A. Padoux (a cura di), L’ image divine, culte et méditation dans l’ hinduisme, cit. 7. S. Gruzinski, La guerra delle immagini, Sugarco, Milano 1991. Gruzinski cita, per la storia delle sette piccole pietre, da Procesos de Indios Idolatras y Hechiceros, Publicaciones del Archivo General de la Nación, Mexico, Guerrero Hnos, 1912n 179, 182 e 183.

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capitolo secondo

Oggetti anima, oggetti feticcio

E, bada bene, non solo rimuoviamo gli dèi dal mondo materiale, che continua a esistere senza di loro e senza cambiare comportamento, ma introduciamo anche un nuovo genere di materia, sterile e inerte, che non è più il luogo di quella vita da cui scaturisce ogni forza. Un intero mondo scompare ed è rimpiazzato da fenomeni di tipo completamente diverso. Paul K. Feyerabend, Dialogo sul metodo

Sembra che la domanda «Che è una cosa?» apra un abisso. Alcuni hanno avuto il coraggio di guardarvi dentro, altri hanno dichiarato che l’avrebbero fatto, altri ancora si sono attestati sull’orlo, occupandosi delle caratteristiche affascinanti di questo margine. «Che è una cosa?» rimane la questione principale intorno alla quale si aggirano i dubbi della nostra capacità di cogliere «quel che c’è di fuori», se c’è, e di cogliere noi stessi nell’attimo in cui ci sporgiamo a guardar fuori. 33

La domanda «Che è una cosa?» richiede come risposta iniziale un elenco: Intendiamo un pezzo di legno, una pietra, un coltello, un orologio, una palla, un’asta, una vite o un fil di ferro; ma diciamo che «è una cosa imponente» anche il grande atrio di una stazione, e parimenti un abete gigantesco. Parliamo delle molte cose che sono in un campo estivo: le erbe e gli ortaggi; le farfalle e i coleotteri. Anche quella cosa lì sul muro – il quadro – diciamo che è una cosa, e infatti lo scultore ha nel suo studio molte cose, compiute e non1.

Ecco che, subito, a volerne fare un elenco, le cose prendono tutto l’orizzonte del vivere quotidiano e non c’è differenza tra naturale e artificiale, organico e inorganico. Le cose sono la minuzia del circostante, sono «queste cose» e sappiamo bene che esse sono calate nelle «circostanze» del qui e dell’ora. Le cose, insomma, hanno in comune la «presenza», una presenza che non spiega nulla perché semplicemente ci viene «contro» o «incontro». È probabile che sulle cose non ci sia dato sapere molto di più, e se mi permetto di sintetizzare in maniera brutale questo poco che lascia aperto un abisso è perché vorrei fare un’altra domanda. Si tratta qui di non evitare la domanda «Che è una cosa?», ma di guardare secondo quali articolazioni siamo condotti nell’abisso. Nel senso che l’abisso stesso ha delle modalità, «modula» il proprio richiamo enigmatico. Le cose sono unità che assommano in sé delle proprietà (ancora un elenco!). Queste proprietà non sono ovvie per tutti e dappertutto, osserva Heidegger2 . Lo statuto che ne deriva è variabile «storicamente». Vorrei aggiungere – in visione sincronica – che è variabile anche antropologicamente. L’ipotesi qui formulata è che può tornarci utile variare la domanda, e cioè se oltre «Che è una cosa?» potessimo domandarci «Come stanno le cose?», facendo attenzione al presente conte34

stualizzato della domanda «Come stanno le cose tra di noi, nel nostro mondo moderno?» e «Come stanno le cose in altre culture, in altri contesti?». La domanda «Come stanno le cose?» vuole suggerire un altro aspetto: quello della relazione. Se le cose hanno proprietà, noi di queste facciamo esperienza (storicamente, antropologicamente). L’efficacia delle cose su di noi suscita tutte le questioni concernenti la compagnia che le cose ci fanno. In questa danza degli oggetti sull’abisso c’è una componente estetica e affettiva che fa sì che ripetere l’interrogazione prima «Come stanno le cose?» ne evoca tutto l’aspetto intersoggettivo. Le cose stanno bene o male, ma stanno comunque come se fossero (quasi) delle persone, dei soggetti. In questo testo si esplora appunto l’aspetto antropologico, relazionale delle cose. In alcune culture indigene il rapporto con le cose circostanti è talmente sentito come essenziale per la sussistenza che esso viene tematizzato con un rovesciamento di prospettiva: alla domanda «Che è una cosa?» in queste culture si sostituisce la domanda «Cosa si prova a essere una cosa?». Un filosofo americano, Thomas Nagel, alcuni decenni fa ha scritto un articolo dal titolo What is like to be a bat? (che effetto fa essere un pipistrello?) 3, e il tema dell’articolo era l’impossibilità di fare esperienza del mondo così come la fa un animale. Da lì il discorso si ampliava alla incommensurabilità dell’esperienza tra soggetti diversi. Ora, quella che dal punto di vista cognitivo sembra una questione singolare, appare una preoccupazione costante in sistemi culturali diversi dal nostro. Questo mettersi nei panni degli altri, siano essi animali o cose, è un voler rendere giustizia a una «familiarità» che non consente una «presa diretta». Claude Lévi-Strauss, intervistato da Didier Eribon4, alla domanda cosa sia il mito, risponde che è il voler rendere conto della incommensurabilità tra il mondo degli animali e quello degli uomini. 35

Come immaginare che questi due mondi «stranamente familiari» possano comunicare? Come giustificare il salto, il gap, e come riempirlo? La domanda «Cosa si prova a essere una cosa?» risponde alla stessa questione, ma riguardo agli oggetti. Essa si esprime, ed è quanto cercherò di abbozzare nelle pagine che seguono, in un ambito di cambiamento dello statuto degli oggetti. Gli oggetti diventano «forti», si animano, si trasformano in «feticci». Il feticismo è il provare a pensare come potrebbe essere «essere una cosa». In questo mettersi nei panni delle cose, il «pensiero indigeno» (ma vedremo che a noi stessi questo pensiero non è così estraneo) articola oggetti naturali e artificiali, li muove, se ne serve per comunicare le proprie domande su «quello che c’è di fuori». La forza e la diffusione di questa tematizzazione è impressionante. L’animismo dei mondi indigeni, oltre a non essere ovviamente uno sguardo naïf (né soltanto un’invenzione etnocentrica come molti antropologi hanno creduto), è invece una presa dell’enigma delle cose di un’impressionante radicalità. Marc Augé e Jean Bazin, che hanno lavorato in Africa in area «di feticci»5, hanno individuato un ulteriore passo di questa danza delle cose. C’è, nel dare un’anima alle cose, l’inversione della domanda «Come mai anch’io sono una cosa?». Il soggetto scopre di essere una cosa, si può toccare, sentire come se fosse una cosa. La heideggeriana questione della cosa riguarda oltre che gli oggetti anche i soggetti. Nelle culture dei feticci, le cose acquistano un’anima in risposta all’anima/corpo degli officianti. Avviene un’identificazione e uno scambio di parti. Come spiegare che questo corpo che è animato un giorno diventerà rigido? E come porsi di fronte a un corpo rigido se non supponendo che anch’esso può essere animato?

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Lo statuto delle cose Trovarono una vecchia schiava negra cieca nella savana e la portarono alla Missione (vicino Creek Town) […]. Era in uno stato deplorevole […]. Ma voleva con tutte le sue forze una sola cosa […]. Quello che cercava era un pezzo di stoffa bianca […]. La vecchia insisteva, dicendo che lo spirito della padrona morta continuava ad apparirle in lacrime, chiedendole della stoffa bianca, e che era suo dovere procurarglielo, e così, avendo compreso che non avrebbe ottenuto niente dalla Missione, la vecchia ne rubò di nascosto un pezzo e sfuggendo a ogni controllo scomparve di nuovo nella savana per non più uscirne6.

Qual è lo statuto delle cose nel mondo moderno? Come appaiono lo sgabello, il portacenere, la pentola, i bottoni, le scarpe? Questo portacenere è il mio portacenere solo perché l’ho comprato o è anche mio per altre ragioni? E le scarpe che indosso sono più mie dello stesso paio, identico, che si trova ancora in negozio? Un piatto su cui mangio, una penna che uso, sono uguali, sostituibili, dotati della stessa «piattità» e «pennità» del piatto al ristorante e della penna prestata? Le cose prestate, regalate, rubate hanno lo stesso statuto di quelle possedute? E cosa accade agli oggetti smarriti, a quelli visti solo una volta, a quelli trovati per caso? Queste possono sembrare domande inutili, banali; e in effetti lo sono, dato lo statuto moderno degli oggetti. La rivoluzione industriale e la produzione di massa hanno reciso il legame tra gli oggetti e la loro singolarità. Gli oggetti sono diventati tutti «copie» e l’originale non c’è più. Dietro questa operazione non c’è soltanto una trasformazione economica – la fine dell’artigianato e l’avvento della riproducibilità su scala industriale – c’è inoltre e soprattutto una pretesa di trasformazione del mondo. Gli oggetti industriali sono «cose» che si candidano all’universalità. La diffusione ormai planetaria di certi oggetti, dagli accendini di plastica ai mini-calcolatori, dalla bottiglia di CocaCola al water closet, rappresenta un tentativo, ben riuscito, di dif37

fondere la stessa tipologia di oggetti dappertutto. Gli oggetti, gli stessi, dalle periferie di Bogotà alla banlieu parigina, dal mercato di Lhasa alla bidonville di Bamako, sono il «discorso universale». È la modernità che si presenta sotto questa forma, sia essa rappresentata dal negozio Benetton in un villaggio turco o dalle scarpe di tela «cinesi» in Tibet. Si tratta di un salto di scala rispetto alle produzioni locali e tradizionali e si pone esplicitamente come una «rottura» con il passato, sia essa provocata da un’invasione economica o da un’invasione economica e militare, come nel caso della Cina in Tibet. Con gli oggetti entra la modernità di un discorso universale. Come una «lingua franca», il discorso universale consente di intendersi tra parlanti lingue incomunicabili e come una lingua franca minaccia i domini rispettivi delle lingue degli interlocutori. Nella ripetizione indigena l’originale continua a esistere in tutte le copie. Nell’oggettistica moderna non ci sono, come ho già detto, che copie. In più c’è la questione dell’uso. L’oggetto industriale deve «resistere all’uso», alla manipolazione molteplice e particolare da parte degli utenti. L’oggetto indigeno trova il suo compimento e la sua ragion d’essere solo nell’«uso» e in un «uso» locale e particolare. Come dice Ludwig Wittgenstein: «Ogni segno da solo sembra morto. Che cosa gli dà vita? Nell’uso esso ‘vive’. Ha in sé l’alito vitale? O è l’uso il suo respiro?»7. Ci sono oggetti morti e oggetti vivi, oggetti che smettono di essere anche se continuano a esistere e oggetti che cominciano a essere anche in loro assenza – si pensi al dono atteso. Una vasta letteratura è stata elaborata sul dono8. Ci sono culture, in isole e terre che si affacciano sull’Oceano Pacifico, che hanno sviluppato e mantenuto fino a tempi recenti un’economia del dono basata sulla circolazione continua di certi beni: coperte lavorate finemente, oggetti di rame, conchiglie, pelli. In queste culture «il dono non si deve fermare». Qui non va perseguito il possesso, ma la relazione che il dono consente. Donare significa privilegiare un destinatario, ma anche 38

sfidarlo a ricambiare. L’uso delle cose non può essere disgiunto dalla loro provenienza e dal loro destino. Gli oggetti donati sono carichi di tutta l’intenzionalità di chi li porta e di chi li accetta. La forma delle cose nelle culture indigene è una categoria dell’esperienza. Tra autore o autori dell’oggetto e utenti c’è un’esperienza circolare di uso e di risignificazione9. Ma cosa vuol dire tutto ciò? Che i manufatti moderni sono meno belli, colorati, vissuti, umani, di quelli delle culture indigene? Non si tratta qui di mettere a confronto estetiche diverse, «il gusto dei primitivi» contro, ad esempio, lo stile funzionale; la questione è che agli oggetti industriali manca una buona parte di quella «oggettualità» che consentirebbe loro di essere «animati». Spieghiamoci: per «oggettualità» intendo la qualità di presenza di un oggetto, la sua capacità efficace di interagire con chi lo usa, il suo essere capace di trasformare l’utente. Un esempio sono gli oggetti con cui si offre, sia nel caso dell’offerta all’ospite che nel caso, a monte di questo, dell’offerta al dio, ai demoni, alle forze del luogo. Qui la forma, il peso, la consistenza, la durata, il colore, il calore, la grana della coppa, della ciotola, del lume, del vassoio, del piatto, della brocca, della scatola che porta i doni e le offerte, l’odore che ne può o meno emanare, il fumo che si può levare, determinano la qualità e l’identità di chi officia il rito dell’offrire e di chi lo riceve. Questi oggetti richiedono tutti un certo modo, e spesso uno solo, di essere adoperati, condotti, sollevati, inclinati, porti. Si può dire che gli oggetti dell’offrire attivano la qualità di chi offre e sono attivati solo durante l’offerta. L’«oggettualità» è quindi una presenza «efficace», un dinamismo interno agli oggetti che li fa agire su chi li usa10. Un’altra qualità che spesso si accompagna alla presenza efficace e che si manifesta anch’essa in molti riti dell’offrire è l’«obsolescenza»; come a dire che ogni offrire è una forma di sacrificio e il sacrificio va consumato nella contingenza e nell’immediatezza. 39

Ci sono, nella cultura tibetana, delle sciarpe bianche che vengono offerte al Dalai Lama o ai Lama, agli stranieri o a chi parte, e sono per lo più fasce bianche di garza che poi si disfano in breve tempo. Oggetti che devono morire, come deve morire l’incenso o il burro bruciato o le offerte di cibo e frutta di fronte agli altari. A volte la morte va provocata di proposito. È il caso di alcuni manufatti maori, scatole oblunghe in legno, con due manici a forma di testa, chiamate wakahuia, destinate a contenere le piume dei copricapo rituali dei capi del villaggio. Queste scatole, se cedute a stranieri o se non più utilizzate, vengono mutilate ai manici. La decapitazione evita che l’oggetto rimanga animato e potente, quindi potenzialmente pericoloso11. Un caso simile è riportato da Alain Babadzan12 per alcune statuette amuleti, chiamate ti’i, che gli abitanti delle Isole della Società, nella Polinesia francese, devono «uccidere», colpendole o decapitandole, quando si accorgono di loro eventuali influssi nefasti. Gli stessi oggetti sono vivi in certi momenti e in altri no. Possono essere luogo di passaggio, di «presenza» in certi giorni e momenti. Statue, rappresentazioni, coppe, vassoi si animano o no di «presenza» a seconda delle fasi dell’anno e del rito. Il fatto è che la nostra cultura, pur piena di «cose» e di rappresentazioni efficaci che vogliono ricordare e reificare presenze, «fa finta» invece che gli oggetti siano morti, cioè professa una strana metafisica della neutralità e dell’inefficacia delle cose che chiama «materialismo». Il materialismo è la precauzione spaventata di fronte ai pericoli di un mondo in cui gli oggetti sono «singolari» e quindi animati. Le cose del mondo, dalla fiamma al cucchiaio, dalle nuvole alle caffettiere, «non stanno lì e basta», ma stanno lì e ci stupiscono del fatto che ci sono. Di fronte al dato delle cose, noi non siamo indifferenti ma coinvolti, anche se le cose possono sembrarci «rigide» e «mute»; in realtà, la loro ovvietà svanisce appena ne abbiamo bisogno. Il loro stesso mutismo ci ricorda, al 40

pari del cavallo a dondolo o delle bambole dell’infanzia, la nostra somiglianza e differenza da esse13. Un preteso sano materialismo vorrebbe curarci dallo stupore e ricondurci alla identificazione tra «oggettualità» e «ovvietà». Le cose sono troppo cariche delle interazioni tra noi ed esse, del rapporto di soddisfazione e assenza, per essere ovvie. Esse costituiscono quelle che Wittgenstein chiama le «forme di vita», il dato, il contesto della nostra esperienza singolare e locale. È come se gli oggetti avessero un’irrefrenabile vocazione ad animarsi. Lo stesso Marx lo nota. Per lui, quando le cose diventano merce, quando diventano cioè luogo dello scambio, reificazione delle relazioni sociali, si trasformano: A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso non c’è nulla di mistico in essa […]. Quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta con i piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli; molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare14.

Una cosa «sensibilmente sovrasensibile»; c’è qui l’accenno di animismo su cui Marx costruisce la sua teoria della merce come «feticcio». Le cose, divenute merci, cambiano statuto, ne acquistano uno che non c’entra con l’evidenza sensibile. La sovrasensibilità è quella «fantasmagoria» per cui sono possibili i passages coperti parigini, le prime vetrine, la pubblicità, il sistema della moda15. Le merci alludono a tutt’altro che alla propria pura evidenza materiale, sono sovraccariche di ben altre valenze simboliche, nascondono il processo che le ha prodotte. Stan41

no in vetrina o sul tavolo dell’acquirente come opere dotate di autonomia; nascondono le relazioni sociali ed economiche di cui sono il frutto. C’è in questo, per Marx, una «perversione»; le cose vengono decontestualizzate, alienate dalla loro natura e dalle relazioni che le hanno prodotte. Quel che è strano in questa lettura è l’ipotesi che, «prima» della rivoluzione industriale, ci fosse un rapporto diretto, di valore d’uso delle cose, che le cose indigene possedessero una materialità puramente sensibile. Ora, se è vero che è l’uso quello che nelle culture indigene dà il respiro agli oggetti, questo uso è raramente attinente al puro aspetto materiale delle cose. Queste vengono investite da una gran quantità di significati e da più livelli d’uso (strumentale, rituale, simbolico). I mercati tradizionali sono ancor oggi un esempio di quella che è la merce prevalente nelle culture indigene: oggetti per il culto, amuleti, conchiglie, erbe e pozioni curative. È come se gli oggetti avessero un’irrimediabile vocazione «sovrasensibile». Marx ha scoperto che in condizioni da Grande Mercato, nell’epoca della riproducibilità, gli oggetti hanno uno scivolamento semantico, si presentano come altro da sé, lui dice: «feticci». Il termine è usato per indicare una perversione, così come lo userà Freud più tardi: un attaccamento perverso, comunque non pertinente, a un oggetto, un’affezione della concupiscenza, di natura economica o sessuale, a qualcosa che «non c’entra». Sia per Marx sia per Freud un sentimento, un’affezione o proiezione su di un oggetto materiale nasconde ed è sintomo di un’alienazione. Freud si domanda in uno scritto tardo16 se c’è una natura «perturbante» di alcune cose che fa sì che esse si prestino più facilmente di altre all’alienazione. Sono proprio le cose più familiari (heimlich) a trasformarsi in quelle più inquietanti, «perturbanti» (unheimlich e anche heimlich, nel doppio senso di «familiare», «intimo», ma anche «da nascondere», «segreto»). Gli oggetti na42

scondono un’ambiguità che ci spinge a prendere per animato ciò che non lo è e viceversa. Ma siamo sempre nel campo di un’isteria. Entrambi, Marx e Freud, postulano l’esistenza di un mondo in cui le relazioni con le cose siano neutre e non coprano le relazioni tra le persone. Se gli oggetti, le merci, diventano feticci, è perché si proietta su di essi una socialità o un’intimità che non compete loro17. Come ha visto acutamente Marshall Sahlins18 , c’è qui una concezione del rapporto con le cose legata all’idea di «scarsità». La soddisfazione del desiderio conseguente all’acquisizione di un bene è solo la compensazione momentanea di uno stato di scarsità, di privazione (o, per Freud, di paura di castrazione). L’idea che siamo affetti da una scarsità di beni è un’idea operante dalla rivoluzione industriale in poi. I beni vengono rapportati a una loro esauribilità. Ciò che non è scarso non può essere soggetto a controllo economico. La quantizzazione di un bene e la sua non immediata disponibilità sono le condizioni perché esso si trasformi in qualcosa di desiderabile e di vendibile. Gli individui e le comunità si trasformano in esseri bisognosi di beni e di servizi, la cui rarità suscita un desiderio continuamente insoddisfatto19. Di fronte a una teoria del bisogno come scarsità, la soddisfazione non è una relazione di gioia o di dolore, di felicità o di promessa, come direbbe Emmanuel Lévinas, perché non è concepita come un rapporto tra due entità, due «presenze», gli uomini e le cose. In questa idea di scarsità c’è una buona parte dello strano rapporto tra la nostra cultura e il mondo naturale e materiale. Lévinas contrappone a questa un’altra visione: il nostro vivere è «vivere di», il mondo sensibile è per noi un mondo che risponde a ciò che ci attendiamo. Non sentiremmo la mancanza, il desiderio delle cose del mondo, se in esse non ci fosse una forma di felicità. Noi siamo «a casa nel mondo», abitiamo il mondo, proprio perché siamo definiti da una relazione contestuale e puntuale 43

con le cose che ci circondano. La scarsità o il desiderio delle cose non sono un imbroglio o una perversione, ma sono il sintomo della natura possibile della nostra soddisfazione e felicità 20. Le cose ci «animano» della loro relazione con noi. In questo sta la loro qualità sovrasensibile. Torniamo alla differenza tra il nostro mondo, il mondo moderno delle cose, e il mondo indigeno delle cose, il mondo di chi è «a casa». Siamo davanti a due sistemi di oggetti, entrambi potentemente significanti, due sistemi che caricano le cose di simboli, proiezioni, passioni, animazioni. La differenza è che il nostro sistema nega di fare questo «sul serio». Il nostro sistema, cioè, proclama la neutralità delle cose e «gioca» con il loro aspetto sensibile o con la loro assenza, convinto che questi giochi siano solo «moda» o vetrina o pubblicità, e non variazioni dello statuto degli oggetti stessi e di noi come fruitori. Insomma, il nostro sistema manipola un potenziale esplosivo convinto che si tratti ancora di un modellino da laboratorio. I sistemi indigeni prendono sul serio la relazione, l’affezione con le cose. Le cose abitano all’interno del mondo indigeno con la dignità e l’effetto, il carattere e la personalità, di veri e propri agenti della sfera sociale e simbolica. Gli oggetti delle culture indigene sono «contestuali», «legati all’uso locale», «obsolescenti», se ne ammette e pratica l’«efficacia», quella che io ho chiamata «oggettualità», vengono considerati «vivi e animati», «presenti». Gli oggetti moderni pretendono di essere «universali», «decontestualizzati», buoni per qualunque persona, tempo e luogo, «neutri», «scarsi» – desiderabili in quanto scarsi – e in grado di non suscitare inutili proiezioni se non quelle riguardanti una certa «utilità» e un certo «piacere estetico»21.

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Pidginizzazione degli oggetti Cosa accade quando questi due sistemi si incontrano? Come abbiamo già fatto notare, la «contestualità» sembra essere la caratteristica che distingue il sistema indigeno degli oggetti dal sistema moderno con pretese di universalità. Il nostro sistema, il sistema mercantile, fatto per vendere, è per sua natura «decontestualizzato», anzi è costituito tutto da oggetti che sono alienati dalla loro storia d’uso: la caffettiera venduta più per l’aria insolita e fantasmagorica che assume in vetrina o nella pubblicità che per fare il caffè. Verrebbe allora da pensare che quando il nostro sistema, tutto fatto per l’esterno, incontra il sistema indigeno, tutto interno, questo debba finire per essere invaso e distrutto dal primo. Ma le cose non sono così meccaniche. In realtà, nessuna società vive completamente isolata e le società indigene non sono, tranne rari casi, mondi chiusi. Anzi, prevedono scambi e contatti con l’esterno e hanno categorie per prevederli. Come cercherò di spiegare, hanno una categoria speciale per gli oggetti insoliti ed estranei. Questa è una categoria di confine, di traduzione; bisogna immaginarla, con una metafora spaziale, come una zona di transizione o, con una metafora linguistica, come quello che i linguisti chiamano pidgin. Il nostro sistema di oggetti si presenta, l’abbiamo già detto, come unispeak, lingua universale, «lingua franca». I sistemi locali traducono e collocano queste pretese universali in una categoria di confine, in una lingua elementare e di contatto con l’esterno. Il pidgin è una lingua di scambio, di mercato o di porto, come era il latino maccheronico per le lingue europee nell’Alto Medio evo o come è il pidgin-english o il pidgin-portoghese per le ex colonie inglesi o portoghesi. È una lingua passe-partout, costruita spesso a partire da una lingua «coloniale», ridotta ed elementarizzata nel lessico e nella sintassi, e usata per comunicare tra due o 47

più culture (tra due o più gruppi indigeni, o tra indigeni e coloni, o tra indigeni e turisti) per intendersi solo per certi fini e potersi ignorare su tutto il resto. Questo passe-partout funziona come filtro: consente ai sistemi «universali» di entrare in Africa o in Asia, tra gli amerindi come tra gli eschimesi, e di comunicare con il sistema locale; e al contempo consente al sistema locale di tradurre in propri valori gli elementi con cui si presenta il sistema universale. Così, non tutti gli incontri tra i due sistemi si risolvono in una partita dominante/dominato. È un’opera di traduzione. Consente gli scambi, pur mantenendo l’incommensurabilità tra le due società: permette alle culture indigene di mantenere un ambito interno di oggetti significati localmente e uno esterno di oggetti pidgin.

Il feticcio: una cosa che non c’entra In questo processo di traduzione gli oggetti cambiano di statuto. Si caricano dello spostamento, della dislocazione, e diventano spesso qualcosa che abbiamo già incontrato: feticci. Marx e Freud erano entrambi debitori per questo concetto a Charles de Brosses, che nel 1760 aveva sintetizzato i racconti di viaggio dei primi mercanti europei in Africa in un’opera di grandi ambizioni: Culte des dieux fétiches ou Parallèle de l’ancienne religion de l’Egypte avec la religion actuelle de Nigritie. Feticcio, fetisso o feitiço è un termine pidgin di derivazione portoghese risalente al contatto, nel xvi secolo, tra i primi commercianti portoghesi e le popolazioni della costa africana centrooccidentale, che allora veniva chiamata Guinea. Fetisso è il nome che i commercianti portoghesi prima e olandesi poi danno a quegli oggetti o pietre o alberi o animali che, per qualche motivo che a loro sfugge, sono oggetto di rispetto e di «venerazione» da parte dei locali e quindi considerati non commerciabili dai nativi. 48

Fetisso è il nome con cui le popolazioni nere locali chiamano quello che ha valore all’interno della loro cultura e che quindi va difeso dagli estranei. Ciò risulta strano alla mentalità mercantile dei portoghesi e ancor più strano al mercantilismo laico e anticattolico degli olandesi. Questi vedranno nell’irrazionale e capriccioso attaccamento a certi oggetti da parte delle popolazioni della Guinea lo stesso segno di arretratezza che attribuiscono ai papisti e alla loro venerazione di immagini sacre e di reliquie22 . Il fetisso è, come il pidgin, una categoria di traduzione che consente di intendersi «senza doversi comprendere». Serve agli europei a trasformare gli oggetti delle culture indigene giudicandoli inutili e fonte di superstizione. Le culture indigene se ne servono a loro volta non solo per difendersi ma per assimilare gli oggetti europei. La «pidginizzazione» o la «feticizzazione» degli oggetti delle altrui culture è un’opera di decontestualizzazione che ne muta il significato. Su una zona di confine e di traduzione si costruiscono pregiudizi, ma anche oggetti di culto, «dèi/oggetto» la cui forza consiste proprio nell’essere svuotati dal significato che avevano nel loro contesto. Di qui l’idea che può diventare feticcio tutto ciò che una cultura pone al proprio margine, coscientemente o no, e che un’altra cultura assume proprio perché caricato di un glissement, di uno scivolamento e di una rimozione o di un’apparente assenza di significato: diventa feticcio ciò che rappresenta la singolarità, l’esoticità, l’inatteso, il rinvenuto per caso o per coincidenza (l’object trouvé, ma anche il ready made 23 proveniente da un’altra cultura). È feticcio ciò che rappresenta una categoria di lontananza, un significato di difficile e remota decifrazione. In questo senso i feticci sono oggetti che hanno perso l’uso e l’attribuzione di significato del loro contesto d’origine e che si offrono a un contesto attiguo (nel contatto) come luccicante promessa di un recupero o come luccicante assenza. 49

Gli indigeni delle isole Sandwich accolgono nel xviii secolo gli inglesi e si convertono a un entusiasmo per i loro oggetti: orologi, strumenti astronomici, mazze da cricket, pianoforti, carrozze. Sono colpiti dalla novità e dall’esotismo, dall’inatteso e dall’insolito. Mettono tutto nella categoria akua che nella lingua locale significa più o meno «dèi»24. Lo stesso capitano Cook viene messo in questa categoria, «caricato» e fatto diventare dio, feticcio, e come tale a un certo punto sacrificato. In altri casi il malinteso è meno pericoloso, ma altrettanto rivelatore di due diverse cosmologie degli oggetti. Nel 1793 Lord McCartney, ambasciatore di re Giorgio iii d’Inghilterra, arriva in Cina per convincere l’imperatore ad aprire le porte dell’impero al commercio con il suo paese. L’ambasciatore porta con sé il meglio della tecnica del tempo per poter stupire i cinesi e imporre al Celeste Imperatore l’immagine dell’Inghilterra come grande potenza. Si presenta con un carico di doni «pubblicitari»: un mappamondo con le rotte del capitano Cook, lame di robustissima fattura, automi meccanici, carrozze ultimo modello, un planetario che aveva richiesto trent’anni di lavoro. L’imperatore accetta i regali, ma rifiuta il commercio. Per far capire cosa rappresentano per lui questi prodigi della tecnica conduce Lord McCartney nei padiglioni imperiali dove gli inglesi possono osservare ogni tipo di giocattolo europeo e di carillon; sfere, planetari meccanici, automi musicali di squisita fattura e in tale profusione che i nostri regali sparivano al confronto. E ci dicevano che le cose che vedevamo erano nulla al confronto di ciò che si trovava negli appartamenti delle concubine e nel magazzino di oggetti europei a Yuan Ming Yuan25.

Gli inglesi scoprono in Cina di essere esotici e portatori di exotica. Quello che ai loro occhi sembra pura tecnica rientra nei cabinets de curiosités dei cinesi. 50

Le voci che corrono a corte sono di questo tipo: Tra i regali portati all’Imperatore si diceva ci fosse tutto ciò che era raro in altri paesi e non conosciuto fino ad allora tra i cinesi. Tra l’altro un elefante della grandezza di una scimmia e feroce come un leone e un gallo che veniva alimentato con carbone26.

Gli inglesi si specchiano negli occhi dei cinesi e vi trovano quell’esotico che erano venuti a cercare: la merce che infatti stava loro a cuore, e per la quale nei decenni che seguiranno saranno disposti a sacrificare argento, legname pregiato e oppio, è una bevanda magica a cui si sono da poco assuefatti e di cui non possono più fare a meno: il tè. Non deve sorprendere pensare che il commercio nasce e rimane pur sempre commercio di exotica, di beni e oggetti che acquistano valore proprio perché rimossi dal loro contesto d’uso e fatti diventare stranezze che vengono da lontano (il tè stesso aveva un uso completamente diverso in Cina e non aveva quel valore quasi taumaturgico, di bevanda calmante e sostitutiva della birra, con cui si diffonde in Inghilterra). Ciò avviene non solo nei contatti tra il nostro sistema di oggetti e i sistemi indigeni, ma accade anche nell’incontro tra società indigene differenti. I Nuer, ad esempio, una società africana del Sudan meridionale studiata da Edward E. Evans-Pritchard, possiedono dei feticci. Ma questi sono oggetti, pezzi di legno di varie fogge, presi in prestito da tribù vicine e considerati ricettacolo di certi spiriti, manufatti di origine straniera e recente: «I Nuer credono al loro potere ma provano nei loro confronti la più viva apprensione»27. Jean Pouillon, che si è occupato di dimostrare che il feticismo non è solo un malinteso tra europei e africani ma anche una categoria intertribale per trattare l’alterità, aggiunge: 51

Nessuna società in realtà vive completamente isolata, e ciascuna conosce quelle vicine, ma spesso le conosce male; questo non impedisce i prestiti, anzi, un culto preso in prestito può portare a una pratica feticista: la croce cristiana in Congo è divenuta un feticcio. Il feticismo sarebbe dunque il culto incompreso che si adotta o si disprezza. Più esattamente, il feticismo come teoria è il culto straniero che, pretendendo di spiegarlo, si condanna come pratica; è il culto straniero che si fa proprio senza comprenderlo28.

Pidgin e feticcio sono dunque luoghi e materializzazioni dell’estraniamento. È quello che accade all’orecchino di Madonna che rappresenta una croce e che «si fa forte» del fatto di essere mostrata in un fuor di luogo; non desacralizzata, ma dissacrata, cioè caricata dell’essere dichiaratamente fuori posto, feticcio per uno spostamento, uno scivolamento di senso. È come se il feticcio fosse un oggetto caricato della inadeguatezza di ogni traduzione ed evocante la distanza dal suo significato originario.

La creolizzazione degli oggetti Abbiamo finora visto vari casi di oggetti «animati»: dagli oggetti che hanno il «respiro» della cultura che li usa agli oggetti che «sconfinano» caricandosi di una singolarità ignota al contesto di partenza. In questi movimenti l’anima degli oggetti prende diverse intensità, si colora e si fa evanescente. Cosa ne è dei nostri oggetti neutri, universali, moderni? Come abbiamo visto, questi stessi hanno un’anima, l’anima della merce che è l’anima del feticcio nel senso più ampio della parola. Proprio le nostre merci ci rivelano un carattere che vorrebbero nascondere. Gli oggetti della nostra vita quotidiana, tutti trasformati in merce, si presentano a noi con un’anima carica. Sgusciando dal riflesso delle vetrine ammiccano ad altri mondi, anche se l’esoticità che 52

ci vendono è una familiarità (la heimlich di Freud): la nostra vecchia caffettiera trasformata in Italian style. In realtà, il rapporto che anche noi moderni abbiamo con le cose non è un rapporto neutro, ma suscita passioni, desideri, identità. Come per le culture indigene, anche per noi si tratta di un dialogo, di una conversazione, spesso concitata, con gli oggetti. Ci separa dalle culture indigene l’aspetto ideologico del nostro parco oggetti, il credere che appunto «stiano lì e basta», e l’avere ridotto la loro anima solo ad anima di feticcio-merce. Un televisore o una pentola possono diventare oggetti di desiderio, di investimento di status, ma noi non siamo capaci di riconoscere che in qualche modo il caricamento di un oggetto non finisce dove noi crediamo. Gli oggetti diventano potenti quando sono merci, ma dietro le merci rimane tutta la forza dell’efficacia delle cose: ridurre questa interazione a una semplice questione di status significa non capire che c’è una questione di culto, un aspetto sacramentale, cioè di segno efficace delle cose su di noi. In più, il mondo dei nostri oggetti e il mondo degli oggetti indigeni si toccano, smarginano l’uno oltre i confini dell’altro. Questo significa spesso un azzeramento delle differenze degli altri mondi. Spesso il nostro mondo delle merci entra nel mondo indigeno, ne sfonda la buffer zone, la zona cuscinetto di oggetti pidgin, ed elimina l’uso contestuale, il discorso locale tra persone e oggetti che differenzia ogni cultura. Ma si sa anche come questo sia un effetto boomerang. Immigrazione, mobilità e complessità del mondo presente ci offrono un quadro in cui il mestisaje, il farsi meticcio delle persone e delle cose, è sempre più corrente. Una società mista e di merci miste? Ci si augura piuttosto di avere a che fare nel futuro con una società dove i confini fra le identità linguistiche, così come tra le differenti cosmologie di oggetti, non scompaiano ma interagiscano. Abbiamo già parlato di «pidginizzazione». Una società in cui le differenze possano vivere anche in contiguità potrebbe diventare una società «creola». Per 53

creolo, creole, si intende un passo ulteriore rispetto al pidgin29. Da una lingua di scambio, ridotta e impoverita, si passa a lingue che, assimilando gli incontri, li rielaborano diventando sistemi di espressione autonoma, completi di lessico e sintassi. La «creolizzazione», per gli oggetti come per i linguaggi, significa passare attraverso gli scontri della modernizzazione senza esserne devastati, ma recuperandone invece la ricchezza dei confronti. In questo c’è una speranza, ma anche dei processi in atto. Questo è vero per le lingue creole di oggi ed è vero per molti casi di oggetti. Così, se gli indiani di Jaime de Angulo diventano con l’arrivo dei trasporti gommati «indiani in tuta»30, è anche vero che presto trattano camion e auto come se fossero cavalli e si servono dei resti di questi per costruire oggetti della propria cultura quotidiana; come accade, ad esempio, ai copertoni trasformati in gerle dalla forma tradizionale o in suole per i sandali di cuoio. Anche i vestiti di foggia europea vengono creolizzati e assumono significati interni, così come cappellini con visiera e scarpe da ginnastica «all’americana» diventano ornamenti dentro a un rivestirsi simbolico degli amerindi. Gli stessi piatti di plastica in India vengono rielaborati e rifatti con foglie intrecciate e cucite. La Coca-Cola, arrivata sulle alture del Chiapas, viene assunta dai Chamulas come liquido lustrale nei propri riti «pagani» in chiesa; e le folle che festeggiano la dea del mare Jemanya a Salvador de Bahia si servono come ostensori per incensi e offerte delle latte di pelati americani tagliate e trasformate in canestri. La lista di queste creolizzazioni non ha fine. Ne siamo peraltro circondati negli sforzi che le culture degli immigrati fanno presso di noi per assimilare la nostra cultura oltre che per essere assimilati: solo che noi ci accorgiamo più facilmente del secondo tipo di operazione e ignoriamo l’estrema importanza del primo. Ma alla lista va aggiunta la nuova arte indigena, quella fatta in partenza da oggetti per i turisti che sono via via diventati spunti per una nuova arte locale. Così è successo, ad esempio, alle molas 54

prodotte dai Cuna dell’arcipelago di San Blas, a Panama, che, nate come stoffe da vendere all’esterno, si sono sviluppate con un linguaggio autonomo vigoroso e in grado di assimilare allo stile locale anche temi moderni, l’auto come l’incontro di boxe. E basta leggere Le vie dei canti di Bruce Chatwin per venire a conoscenza della nuova arte degli aborigeni australiani, che dipingono tele con i disegni delle dreamroads, delle vie dei sogni degli antenati, dei miti di fondazione di ogni tribù e territorio, preservando per sé il segreto dei disegni e degli oggetti disegnati che tuttora arricchiscono l’interscambio tribale, ma producendo un’arte creola e consapevole del mondo esterno; il tutto, come racconta Chatwin, è reso possibile da un rapporto strano, ma di grande rispetto, tra alcuni mercanti d’arte e gli aborigeni31. Il futuro, se ci sarà un futuro di convivenza tra differenze contigue, potrebbe essere di una ricchezza creola. Molto dipenderà certamente da quanto il nostro sistema di oggetti ridurrà le pretese di essere universale, utile e il più civile di tutti. Al contrario, la tribalizzazione dei nostri oggetti, l’ammissione che l’Italian style fa fortuna proprio perché maledettamente italiano (anche se abilmente feticizzato, cioè spedito altrove; ma questo, abbiamo visto, è un destino tra i vari che gli oggetti possono seguire e non c’è niente di male in una feticizzazione che non pretende di essere universale), potrebbe solo arricchire la nostra vita quotidiana di un respiro che gli oggetti sembrano aver perso. Perché, in fin dei conti, per noi si tratta di compiere un viaggio all’inverso: dal feticcio all’oggetto usato e risignificato quotidianamente. È quanto, ovviamente, avviene nelle vite di ognuno di noi. Inevitabilmente le cose, oltre a essere toccate da noi, ci toccano; inevitabilmente finiamo per chiamarle con un nome proprio, inevitabilmente diventano presenze, amici, amori, parenti, nemici. Il punto è che questa storia individuale è una storia rimossa a livello collettivo. Per sentire di nuovo a questo livello il «respiro degli oggetti», occorre che cominciamo a considerarli viventi e 55

quindi, in un certo senso, capaci di morire. La promessa di eternità che il consumismo attribuisce agli oggetti – il rinnovo ossessivo e lo scarto ossessivo degli stessi oggetti o delle loro infinite variazioni di moda – non ci consente di capire che gli oggetti muoiono o che, se non lo fanno, li possiamo far morire noi. In questo non c’è nessuna crudeltà. Gli oggetti non si aspettano di meglio che avere il nostro stesso ciclo vitale. Vivere più a lungo di noi li farebbe sentire soli.

Note al capitolo 1. M. Heidegger, La questione della cosa (1935-1936), Guida, Napoli 1989, pp. 41-42. 2. Ibidem. 3. T. Nagel, Che effetto fa essere un pipistrello (1974), in Questioni mortali, il Saggiatore, Milano 1986, pp. 162-175. 4. C. Lévi-Strauss, D. Eribon, Da vicino e da lontano, Rizzoli, Milano 1988. 5. M. Augé, Le fétiche et le corps pluriel, in Corps des dieux, Gallimard, Paris 1986, pp. 121-137; J. Bazin, Retour aux Choses-dieux, in Corps des dieux, cit., pp. 253-273. 6. M. Kingsley, Travels in West Africa (1897), Beacon Press, Boston 1988. 7. L. Wittgenstein Ricerche filosofiche (1953), a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1983. 8. Mi riferisco ovviamente al saggio «storico» di Marcel Mauss sul dono, ma anche alle tante letture che di quel saggio sono state fatte, dall’introduzione di Lévi-Strauss al testo di Mauss, al capitolo del libro di Remo Guidieri sulla categoria del «prestito» (Voci da Babele. Saggi di critica dell’antropologia, Guida, Napoli 1990), e a un saggio di Marshall Sahlins (Cosmologie del capitalismo. Il settore trans-pacifico nel sistema-mondo, in T. Tentori (a cura di), Antropologia delle società complesse, Armando, Roma 1988) al quale mi sono ampiamente ispirato. 9. Per culture indigene intendo qui le culture che vivono, «sussistono», come direbbe Karl Polanyi, del proprio ambiente. Per una più ampia definizione di cosa intendo per «indigeno» rimando al mio Perdersi, Laterza, Roma-Bari 2012.

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10. Riguardo all’oggettualità, vorrei sgombrare il campo – ma fino a un certo punto – da equivoci. Il mio è un discorso di ridefinizione dell’animismo. Non intendo qui affermare che le cose siano animate da spiriti, ma che la percezione che oggi ne abbiamo le svuota di qualunque «consistenza» e alterità. In questo senso quello che mi interessa dell’animismo è l’aspetto di interrelazione che esso può rappresentare: l’ammissione da parte di certe culture di uno statuto dell’alterità da riconoscere alle cose. Al contrario delle tesi di Jean Piaget, che riprende per l’animismo infantile l’idea hegeliana di una confusione tra soggetto e oggetto, io sono convinto che per animismo si debba intendere una categoria della «comprensione» delle cose, un’ermeneutica del loro interagire – esperienzialmente – con noi. 11. F.H. Capistrano, Ritual mutilation of power objects, the case of some Maori feather boxes, «Res», primavera-autunno 1989. 12. A. Babadzan, Les idoles des iconoclastes, la position actuelle des ti’ i aux îles de la Societé, «Res», 4, 1982. 13. Nessuno come Rilke ha intuito la profondità dell’esperienza infantile e adolescenziale nei confronti degli oggetti. L’idea che le cose siano una manifestazione, l’idea che possano essere Dio, proprio perché sono una presenza muta e in qualche modo assoluta, è stata espressa in più luoghi della sua opera, dal racconto Come avvenne che il ditale diventasse il buon Dio (R.M. Rilke, Storie del buon Dio, Rizzoli, Milano 1978) alle Elegie Duinesi, alle Lettere di Muzot, 1921-1926, Neri Pozza, Milano 1947, pp. 324-325. Maria Teresa Galluzzo si è occupata dell’animismo in Rilke e a lei devo gran parte degli spunti di questo capitolo relativi all’anima degli oggetti (comunicazione personale). 14. K. Marx, Il capitale. Libro primo, Einaudi, Torino 1975, p. 103. 15. W. Benjamin, Parigi capitale del xix secolo. I passages di Parigi, a cura di R. Tiedelman, Einaudi, Torino 1986. 16. S. Freud, Il perturbante (1919), un estratto dalle Opere, vol. ix, a cura di C. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 2006. 17. A.M. Iacono, Fetichismus, voce per l’Enzyklopedie zu Philosophie und Wissenschaften, Felix Meiner, Hamburg 1990. 18. M. Sahlins, Cosmologie del capitalismo, cit. 19. I. Illich, Per una storia dei bisogni, Mondadori, Milano 1984. 20. E. Lévinas, Totalità e infinito (1971), Jaca Book, Milano 1982.

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21. Piacere estetico: questa categoria, rielaborata convenientemente per gli oggetti della produzione industriale, ha caratteri del tutto differenti dai canoni tradizionali. Il piacere estetico che può dare un oggetto di design è fortemente legato alla decontestualizzazione tipica della produzione industriale. Una sedia non è più soltanto una sedia e finisce per diventare qualcos’altro. La destinazione del design è una singolare rappresentazione della categoria dell’utilità come forma estetica, ma il luogo a cui aspira non è la casa popolare o il salotto borghese, bensì il museo. L’oggetto industriale si candida così alla solitudine dell’opera d’arte. È interessante, da questo punto di vista, ricostruire la relazione tra l’estetica surrealista e il mondo degli oggetti, siano essi «trovati», o banali, o rovesciati nel senso e nell’uso. Di questo tema si è occupato a fondo G. Franck, Esistenza e fantasma, Feltrinelli, Milano 1989. 22. W. Pietz, The problem of the fetish i, «Res», 9, 1985; The problem of the fetish ii. The origin of the fetish, «Res», 13, 1987; The problem of the fetish iii. Bosman’s Guinea and the Enlightement theory of fetishism, «Res», 16, 1988. 23. C. Lévi-Strauss nella conversazione con G. Charbonnier (Primitivi e civilizzati, Rusconi, Milano 1970, p. 110) così definisce il ready made: «Il ready made consiste in questo: io decido che il microfono che mi sta davanti è una scultura; è pronto, è fatto, l’uomo è intervenuto per costruirlo per un preciso scopo, ma io decido che è opera d’arte […] sarà un ready made, diventerà opera d’arte solo quando verrà collocato in un nuovo contesto». Insomma, l’opera d’arte dai surrealisti in poi si ottiene con un processo di decontestualizzazione che ricorda da vicino quello della produzione di un feticcio. L’isolamento dell’opera d’arte è conseguente al suo cambiamento di contesto. In questo spostamento si evidenziano delle qualità «strutturali» dell’oggetto che in qualche modo l’uso e il contesto abituale nascondevano. 24. M. Sahlins, Cosmologie del capitalismo, cit. 25. J.L. Cranmer-Byng, An embassy to China, being the journal kept by Lord McCartney during his embassy to the emperor Ch’ ien-Lung, 1793-1794, in M. Sahlins, Cosmologie del capitalismo, cit. 26. G. Staunton, An Authentic Account of an Embassy from the King of Great Britain to the Emperor of China (1799), 2 voll., in M. Sahlins, Cosmologie del capitalismo, cit.

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27. E.E. Evans-Pritchard, Nuer Religion, Clarendon Press, Oxford 1956. 28. J. Pouillon, Fétiches sans fétichisme, Maspero, Paris 1975. 29. G.R. Cardona, voce Universali/Particolari, in Enciclopedia, Einaudi, Torino 1981, vol. xiv, pp. 575-598; M. Gnerre, Le lingue evitate, «La Ricerca Folklorica», numero monografico dedicato alla «Piazza» a cura di G. Sanga, 19, 1989; P. Fabbri, La Babele felice, «Babelix, babelux […] ex babele lux», in La narrazione delle origini, a cura di L. Preta, Laterza, Roma-Bari 1991. Il dibattito sulle lingue pidgin e creole è per gran parte ancora aperto; non è detto, ad esempio che tutti i creoli derivino da un pidgin. La versione del creolo come diretta filiazione da un pidgin, cioè da una varietà linguistica di contatto che non è lingua nativa di nessuno dei parlanti e che non ha una tradizione scritta a essa associata (H. Schuchard), non ha sufficienti prove linguistiche per essere valida. Finora si è lavorato prevalentemente su fatti socio-storici e non socio-linguistici. Il creolo sarebbe piuttosto una lingua a cui non può essere assegnata alcuna origine unica, ma che al contrario mostra caratteristiche derivanti da differenti origini (M. Gnerre). Ciò che è sicuro è che le lingue creole si formano in contesti multilinguistici dove, ma non sempre, il pidgin ha avuto il ruolo di tramite limitato ad alcune attività o ad alcuni contatti (non sempre contatti tra lingue europee e lingue native). Non voglio entrare in merito alla discussione intorno al rapporto tra pidgin e creolo. Qui mi interessa avere un modello (riduttivo e semplificato come può esserlo un modello) di contatto tra due culture ed elaborare una tesi sulla traduzione che necessariamente avviene tra sistemi di oggetti differenti. Vorrei che il lettore accettasse con pazienza questa semplificazione per quello che serve: mettere in risalto, cioè, l’aspetto dinamico dei rapporti tra due diverse culture degli oggetti, aspetto che mi sembra ingiustamente sottovalutato da una banale lettura dei meccanismi di colonizzazione e dominazione culturale. 30. J. de Angulo, Indiani in tuta, Adelphi, Milano 1983. 31. B. Chatwin, Le vie dei canti, Adelphi, Milano 1988.

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capitolo terzo

Quel che resta del gioco

Ogni infanzia compie qualcosa di grande, di insostituibile per l’umanità. Ogni infanzia, nel suo interesse per i fenomeni tecnici, nella sua curiosità per ogni sorta di invenzioni e di macchinari, lega le conquiste della tecnica agli antichi universi simbolici. Walter Benjamin, Das Passagen-Werk

I giochi, i giocattoli, raccontano di epoca in epoca che tipo di rapporto c’è tra adulti e bambini. Anzi, raccontano qual è l’immagine che gli adulti hanno dei bambini, l’idea del «compito» dei bambini nella società. Certo, i bambini giocano anche da soli, inventano da soli i modi per giocare con il mondo, ma gli adulti «si approfittano» della serietà del gioco infantile per guidarlo lungo i canali di ciò che essi si aspettano dai bambini. I giocattoli sono, in questo senso, la materia di una relazione tra due categorie di umani che, pur essendo «familiari», sono estranei e divisi. 61

Il gioco è il modo in cui gli adulti chiamano, per ridurla e fissarla, un’attività che è invece l’attività permanente dell’infanzia. L’infanzia prende sul serio se stessa e il mondo, stabilendo relazioni sperimentali con il proprio essere fisico e interiore e con la presenza del mondo (in oggetti e persone) là fuori. Questa permanente attività di experimentum mundi risulta agli occhi dei grandi una specie di «tempo libero» in attesa degli impegni dell’età adulta. I grandi, per poter diventare grandi, hanno a tal punto allontanato da sé l’infanzia, da aver dimenticato che a quel tempo non c’erano divisioni nette di tempo e di funzioni, ma che l’esperienza era tutto. Gioia e dolore, buio e luce, tenerezze e durezze erano un continuum originario, sospeso nel tempo. E questo vale sia per i bambini «borghesi», per i paffuti infanti «benetton», che per i bambini di classi meno agiate, e perfino per i bambini «a rischio», per gli stessi bambini di strada. Il gioco non è qualcosa che solo i «bambini più fortunati possono permettersi», ma è lo statuto dell’infanzia, nel suo sperimentare originariamente il mondo, per la prima volta. Da questo punto di vista, anzi, spesso i bambini «meno fortunati» hanno accesso a fette di mondo e di esperienza che sono negate ai bambini «benetton». Mi riferisco al gioco per strada, alla vita all’aperto e in mezzo agli adulti, certo più pericolosa di quella condotta in una nursery o in un kindergarten, ma molto più complessa e ricca. Il rischio ha fatto sempre parte dell’esperienza del mondo e del crescere in esso. Crescere significa fare esperienza del mondo senza diventarne vittime e questo comporta una capacità di riconoscere il rischio. Anche questo è gioco e i bambini lo sanno bene, perché amano i giochi pericolosi. Il gioco, quello che si fa con i giocattoli, è una parte minima di questa esperienza, una parte oggi, per i bambini «fortunati», controllata al novanta per cento dagli adulti. Il gioco corrisponde, come già detto, al «tempo libero» degli impiegati e degli operai, e ne segue la stessa logica: è leisure time, vacanza, tempo non serio. 62

I bambini vengono «lasciati giocare»; ci sono apposite istituzioni per insegnare loro a giocare, speciali professioni a questo fine. I bambini devono imparare, oggi, a giocare, come se non fosse questo il loro specifico, il campo in cui sono essi gli insegnanti. Da questo punto di vista, i negozi di giocattoli raccontano l’immagine che gli adulti hanno oggi dei bambini più di qualunque inchiesta sociologica. Roland Barthes scriveva nel 1952 in Miti d’oggi1: Che il francese adulto veda il bambino come un altro se stesso, non c’è esempio che lo dimostri meglio del giocattolo francese. I giocattoli più diffusi sono essenzialmente un microcosmo adulto; sono tutti riproduzioni in formato ridotto di oggetti umani, come se agli occhi del pubblico il bambino non fosse in fondo che un uomo più piccolo, un homunculus a cui si debbano fornire oggetti sulla sua misura.

Il discorso di Barthes può essere facilmente allargato al bambino inglese, americano, italiano, tedesco, giapponese o australiano, se questo bambino è stato raggiunto dalla internazionalizzazione dell’homunculus. I giocattoli sono «mondializzati», legati alle trasmissioni televisive e ai cartoni animati, e spesso le compagnie che li producono hanno stretti legami con il mondo dei media. Il bambino è oggetto dell’assalto di multinazionali dell’infanzia che hanno bisogno di rendere solida la domanda, spingendola verso il consumo di miniature dei personaggi dei media. C’è qualcosa di strano in questa operazione. Perché ai tempi delle favole dei fratelli Grimm o di Andersen, non c’era una produzione di miniature di Cappuccetti Rossi o di Pollicini o di Sette Nani come c’è oggi? A quei tempi c’erano le illustrazioni, i libri per l’infanzia con le straordinarie figure che balzavano fuori, ma non c’era la trasformazione dei personaggi in homunculi. Perché i bambini di oggi sono invitati a giocare e giocano così tanto con la ripetizione in scala minore, ma in tre dimensioni, di ciò che hanno visto su uno schermo? 63

I bambini sono diventati homunculi che giocano con miniature di homunculi. In questo rimpicciolimento dell’infanzia c’è l’idea adulta che i bambini siano grandi in miniatura e quindi è logico che debbano giocare con miniature della realtà. I bambini sono «minori», cioè sono esseri non ancora maturi, portatori di un handicap che si chiama non essere adulti. L’immagine che tanta pubblicità e tanti media mandano dell’infanzia è quella di un mondo di bambolotti carini. I bambini sono diventati essi stessi bambole e soldatini, sono diventati giocattoli in uno strano gioco di specchi. I giocattoli veri e propri sono, a questo punto, l’immaginario su cui i bambini sono invitati a modellare la propria identità. La confezione gigante di Barbie lo dice con chiarezza: «Barbie adesso è come te, scambiatevi i vestiti». Le bambole con cui giocavano le nostre nonne e le nostre mamme non avevano ancora un nome. Erano le bambine a darglielo. Poi sono arrivate le Barbie e le Sailormoon e insieme a esse dei personaggi la cui storia, il cui carattere, erano già definiti, predefiniti. In questo processo c’è qualcosa che Benjamin prima e Barthes poi avevano intuito. Si tratta dell’imposizione all’infanzia di significati precostituiti. I bambini giocano con personaggi, storie, scenari già decisi, definiti nei particolari. I nomi delle cose sono tutti già dati. Walter Benjamin, in Strada a senso unico2, ci ricorda che ciò cozza contro l’attitudine dei bambini a rifare il mondo: Lambiccarsi pedantescamente il cervello per creare prodotti – materiali visivi, giocattoli o libri – adatti ai bambini è sciocco. Sin dall’Illuminismo è questa una delle fissazioni più stantie dei pedagoghi. La loro infatuazione per la psicologia gli impedisce di accorgersi che il mondo è pieno dei più incomparabili oggetti dell’attenzione e del cimento infantili. Dei più azzeccati. È che i bambini sono portati in misura notevole a frequentare qualsiasi luogo di lavoro in cui si opera visibilmente sulle cose, si sentono attratti in modo irresistibile dai materiali di scarto che si producono nelle officine, nei lavori domestici e

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nel giardinaggio, in quelli di sartoria o di falegnameria. Negli scarti di lavorazione riconoscono la faccia che il mondo delle cose rivolge proprio a loro, a loro soli. In questi essi non tanto riproducono le opere degli adulti quanto piuttosto pongono i più svariati materiali, mediante ciò che giocando ne ricavano, in un rapporto reciproco nuovo, discontinuo. I bambini in tal modo si costruiscono da sé il mondo oggettuale, un piccolo mondo dentro il grande.

Il mondo della produzione di giocattoli va nella direzione opposta. Laddove i bambini sanno giocare con i resti del mondo per ricomporlo a modo proprio e nuovo, sanno dare nomi a stracci che diventano personaggi, sanno battezzare tappi di bottiglia, biglie, burattini fatti di pezzi assemblati, riescono a far parlare scarpe, bicchieri e lampadine, il mondo dei giocattoli offre loro sempre più oggetti ready made. Sempre meno spazio viene lasciato alla capacità di smontare e riassemblare. Anche giochi classicamente «astratti» come il Lego o il Meccano oggi vengono forniti come pezzi di una scena che deve essere ricomposta come se fosse un puzzle: la pompa di benzina, il castello, la stazione ferroviaria. Ma davanti a questo universo di oggetti fedeli e complicati il bambino può costituirsi esclusivamente in funzione di proprietario, di utente, mai di creatore; non inventa il mondo, lo utilizza: gli si preparano gesti senza avventura, senza sorpresa né gioia. Si fa di lui un piccolo padrone abitudinario che non deve neppure inventare le molle della causalità adulta; gli vengono fornite già pronte: lui non deve fare altro che servirsene, non gli si dà mai un percorso da fare.

Così Barthes in Miti d’oggi3, che aggiunge a proposito dei giochi di costruzione: Il più piccolo gioco di costruzione, purché non sia troppo ricercato, implica un apprendistato del mondo molto diverso: il bambino non vi crea affatto oggetti significativi, non gli importa che abbiano un nome

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adulto; non esercita un uso ma una demiurgia; crea forme che camminano, che rotolano, crea una vita, non una proprietà; gli oggetti vi si muovono da soli, non sono più una materia inerte e complicata nel cavo della mano.

Oggi la tendenza è di eliminare questa parte dei giochi di costruzione che li rendevano affini alla capacità infantile di inventare il mondo senza doverlo accettare già significato. Cosa si cela in questo terrore adulto del vacuo, in questo horror vacui per cui nemmeno al gioco viene lasciato lo spazio del non assemblato, del frammento, del resto, del non definito? La risposta viene ancora dall’infanzia e dal suo rapporto con le cose, gli oggetti. Quello che Benjamin genialmente notava in Strada a senso unico4 sulla capacità infantile di giocare con i resti è anche il motivo per cui i bambini rompono i giocattoli (quelli troppo definiti). Il bambino che frammenta, smonta il giocattolo elettronico, o la bambina che disassembla la bambola, lanciando una gamba qui, un braccio là, non fanno altro che riprendere il loro lavoro di riduzione del mondo degli adulti a un materiale su cui lavorare per una paziente reinterpretazione. I bambini fanno a pezzi il mondo degli adulti e fanno a pezzi gli stessi giocattoli che vengono loro regalati. In questo atteggiamento c’è una familiarità con il mondo delle cose di cui noi adulti spesso ci dimentichiamo. Il bambino è immerso nel mondo degli oggetti come presenze animate, compagnia che parla. Di fronte a essi egli esercita un disordine che è quello del collezionista e del cacciatore allo stesso tempo. Rompere, scandire, smontare significa ricondurre a elementi primi, rifare i materiali per un elenco: Ogni pietra che trova, ogni fiore raccolto e ogni farfalla catturata sono per lui già il principio di una collezione, e una sola grande collezione è, ai suoi occhi, tutto ciò che comunque possiede. In lui questa passione mostra il suo vero volto, il severo sguardo indio di cui negli antiquari, ricercatori, bibliofili non resta che un bagliore offuscato e

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maniaco. Come si affaccia alla vita è già cacciatore. Caccia gli spiriti, di cui fiuta la traccia nelle cose; tra spiriti e cose gli passano anni interi, durante i quali il suo campo visivo si conserva libero da presenze umane. Gli accade come nei sogni; non conosce niente di duraturo; le cose gli succedono, crede lui, gli capitano, gli si presentano. I suoi anni di vita nomade sono ore nel bosco dei sogni. Di là trascina a casa il bottino per mondarlo, consolidarlo, liberarlo dagli incantesimi. I suoi cassetti devono trasformarsi in arsenale, serraglio, museo del crimine e cripta. «Metter ordine» vorrebbe dire distruggere un edificio pieno di castagne spinose che sono mazze ferrate, cartine di stagnola che sono un tesoro d’argento, cubetti per le costruzioni che sono bare, piantine grasse che sono totem e monetine di rame che sono scudi di guerrieri. Da un pezzo ormai il bambino aiuta a rassettare l’armadio per la biancheria della mamma, la libreria del babbo, e nella sua riserva è ancora l’ospite nomade e bellicoso.

Il bambino è un essere surrealista. Ha, senza bisogno che glielo insegnino, una capacità di assemblare gli elementi più assortiti, di portarsi appresso la fantasmagoria degli oggetti, ponendo tra essi relazioni di cui lui solo è il padrone. In questo sta la sua «originalità» e il suo stato selvaggio. Questa selvatichezza è ciò che gli adulti più temono e meno capiscono. In fin dei conti tutti gli adulti del mondo, anche gli adulti indigeni di un villaggio africano o amazzonico, sanno che i bambini sono «in comunicazione» con mondi che a loro sono ormai preclusi. I bambini dei Gourmantchè di Gobinangou, in Burkina Faso, sanno ancora parlare con gli spiriti, almeno fin quando non riescono a stare in piedi su due gambe. I genitori lo sanno e ogni tanto devono richiamarli all’ordine con leggeri colpettini sulla testa, perché i bambini smettano di parlottare con i pola, gli spiriti della foresta e dell’indistinto. L’infanzia ha dei privilegi che sono turbamenti per il mondo degli adulti. Tra questi privilegi il principale è la capacità di prendere a tal punto sul serio il mondo materiale da non darlo per scontato, da non aver67

ne l’abitudine. Il gioco è il contrario dell’abitudine. Per questo il gioco è spesso, come aveva intuito Freud, ripetitivo, perché come ogni esperimento prova e riprova, non dà per scontato che le cose siano in un certo modo e basta. Può darsi che l’esperimento con il fuoco, con la luce, con la caduta degli oggetti, con lo spaccarsi in pezzi del vaso, non si ripeta sempre uguale. La «coazione a ripetere» è l’opposto della noncuranza, dell’apparente naturalezza con cui da adulti apriamo una porta, camminiamo, prendiamo una penna o un vaso. La scoperta per gli adulti è un episodio raro, sorprendente, mentre per i bambini è pane quotidiano. La scoperta è anche trovarsi a essere cosa tra le cose. I bambini sentono la loro presenza, in mezzo alla presenza delle cose, come se fosse avvolta dallo stesso potere. Sono parte di un complesso animato. Sempre Benjamin in Strada a senso unico5: Il bambino che sta dietro le tende diviene a sua volta qualche cosa di bianco e svolazzante, un fantasma. Il tavolo della sala da pranzo sotto il quale s’è rannicchiato fa di lui l’idolo ligneo del tempio, dove le gambe intagliate sono le quattro colonne. E dietro una porta è anche lui porta, è coperto da essa, maschera massiccia, e da stregone getterà l’incantesimo su tutti quelli che varcheranno ignari la soglia. A nessun costo dev’essere trovato. Quando fa le boccacce, gli dicono, basta che l’orologio batta le ore, e lui resterà così. Quanto ciò sia vero lo capisce nel nascondiglio. Chi lo scopre può farlo rimanere idolo di legno sotto il tavolo, intesserlo per sempre nelle tende come un fantasma, imprigionarlo a vita nella porta massiccia. Per questo, quando è preso da chi lo stava cercando, fa uscire con uno strillo acuto il demone che l’aveva così tramutato perché non lo trovassero: anzi non aspetta neppure il momento, previene l’altro con un grido di autoliberazione. Per questo la lotta con il demone non lo stanca mai.

La casa e i suoi oggetti sono importantissimi. Le case che costruisce con cuscini e sedie, il fortino degli indiani che è ricavato dall’imballaggio del televisore o la residenza di campagna dove 68

le bambine ricevono tra le stuoie e gli zerbini della cucina, sono la messa in crisi della funzione che quegli oggetti, quei cuscini, sedie, stracci, avevano ricevuto una volta per tutte. I bambini quasi si stupiscono che i grandi ne facciano un uso talmente improprio e miope. Per questo i bambini preferiscono i giocattolimetamorfosi, quelli che almeno lasciano una possibilità in più, come i mostri che diventano veicoli, e per questo amano i mostri, perché sono l’eccesso del travestimento. In questo lavoro continuo che è il gioco, i bambini seguono la legge fondamentale della mimesi. Il loro animismo è apprendimento del fatto che per imparare il mondo esterno bisogna diventarlo. Il mimetismo, l’imitazione, sono la molla per cui osservare il gatto significa diventare il gatto, ascoltare la voce della mamma significa diventare la sua voce, imparare a parlare come lei. L’imitazione è l’origine del linguaggio, dice Benjamin, nel senso che il linguaggio è un cercare di riprodurre il mondo. Il bambino fa questo allo stato puro: egli riproduce il mondo con un tono, una maniera, una composizione che non abbiamo mai sentito prima. Cosa accade a questi bambini quando li piazziamo per farli stare buoni di fronte a un televisore o a un videogame? Che anche lì esercitano comunque la voglia di sperimentare. Ma è un po’ una trappola, perché la narratività inclusa in queste scatole non è infinita, bensì direzionata. Per quanto le immagini possano essere mobili e affascinanti, alla fine la trama diventa una trappola. Le cose finiscono in un certo modo, c’è un modo di vincere e uno di perdere. Certo, questo potrebbe somigliare alla narratività delle favole, ma le favole hanno una stranezza che nessuna morale può loro togliere. Le favole sono il discorso sul mondo sedimentato da secoli di stupore, e non sono un gioco in cui ci sono delle regole chiare per essere i vincitori. Qualcosa ci fa credere che i bambini siano degli eterni agonisti, e questa è la spaventosa eredità dei boyscout mescolati allo spirito militare dei nostri culti religiosi. L’agonismo dei bambini è spirito mimetico, 69

imitazione più che competizione. Siamo noi adulti a travisarne il senso. Ci pare che sia del mondo dei bambini la voglia di fare gare, di vincere e di perdere. Siamo invece noi che ci rassicuriamo così: facciamo partecipare i bambini a competizioni in cui saremo noi i sicuri vincitori. Invece di accettare che in questa mimesi ormai siamo noi i perdenti, perché abbiamo dimenticato che ogni imitazione richiede la fede forte nel rischio di diventare l’altro, sia esso tavolo, bambola, luna, cavallo o cavaliere. Nella pratica animista del mondo che l’infanzia continua a percorrere, c’è il riscatto dalle pareti troppo anguste dell’individuo e la sensazione che il mondo sia un enorme acquario in cui i contorni tra le cose e le persone non sono poi così netti.

Note al capitolo 1. R. Barthes, Miti d’oggi (1952), Einaudi, Torino 1974, p. 51. 2. W. Benjamin, Strada a senso unico. Scritti 1926-1927, a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino 1982, p. 13. 3. R. Barthes, Miti d’oggi, cit., p. 53. 4 . W. Benjamin, Strada a senso unico, cit., pp. 35-36. 5. W. Benjamin, Strada a senso unico, cit., p. 36.

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capitolo quarto

Dono, danno, pegno

Quando Caravaggio era entrato nella banda dei ladri, era stato impressionato innanzi tutto dai loro modi cortesi. Anche quelli che lasciavano escrementi avevano un’aria raffinata e portavano occhiali con mezze lenti; avrebbero preso anche tabacco da fiuto se non fosse stato che avrebbe rovinato il loro odorato. [Caravaggio] Era un giovane che entrava in un palazzo e veniva sopraffatto dallo spirito generoso dell’ invidia. Faceva scivolare la mano sul legno levigato di una balaustra e le dita ne provavano grande piacere. Com’erano complicati gli interruttori della luce! E i tappeti su cui i piedi sprofondavano!

Michael Ondaatje, Nella pelle del leone Gli oggetti possono giungere a noi in vario modo. Si possono rubare, come suggerisce la storia del ladro d’origine italiana protagonista di un romanzo di Michael Ondaatje, l’autore del Paziente inglese, ambientato in Canada. 71

Nessuno come un ladro ascolta gli oggetti. Quando si introduce in case altrui, sono gli oggetti a parlargli, a fargli venire l’invidia di portarseli via. Questa relazione è mediata: il tatto del ladro sente negli oggetti che tocca al buio il tocco dei proprietari e ne ha invidia e gelosia. Il ladro nutre per le cose la stessa passione del seduttore che ama provocare l’infedeltà di una donna rispetto a un altro uomo. Desidera, furtivamente, ciò che è palesemente di qualcun altro, vuole spostare l’oggetto degli altrui desideri all’ombra del proprio nascondiglio. Nei proprietari legittimi c’è spesso la stessa invidia mimetica: teniamo ai nostri beni perché i ladri li possono desiderare. Il detto «la proprietà è un furto» significa che i proprietari sono convinti che solo i ladri conoscono il vero valore dei loro beni. Ma ci sono altri modi di acquisire un oggetto: lo si può ricevere in dono. In tal caso il percorso che gli oggetti fanno fino a noi è un mistero, il loro valore originario è nascosto e l’unica cosa che vale è il presente del dono, il momento in cui ci viene consegnato. In tal senso il dono a volte somiglia un po’ al furto. Quando il dono è una «sorpresa», è come se venisse fuori da un’assenza di storia, da una stanza buia. C’è una gratuità del rubare che somiglia molto alla gratuità del ricevere (quelli che ricevono troppi doni sono come dei ladri, perché nel ricevere gratuitamente c’è come un sottrarre qualcosa, un non restituire). I filosofi si sono molto occupati del dono e si sono posti il problema se in realtà il dono, come «perfetto presente», possa esistere. Quando i fiori, il pacchetto ben confezionato, i cioccolatini, arrivano nelle mani del destinatario lo fanno con la precisa intenzione di trasformare questi in un «sorpreso». Il dono deve sorprendere con la sua gratuità, sospendere chi lo riceve di fronte alla pura presenza dell’altro. Jacques Derrida, in Donare il tempo, ricorda che il dono si 72

chiama «presente» perché attualizza la relazione, la lega nella contemporaneità alla sospensione dell’attimo. La gratuità è questo: dare senza motivo e senza tempo, cioè senza «aspettare» o «aspettarsi» nulla. Il vero dono è una perdita secca, netta, uno spreco, un gettare dalla finestra, è uno sporgersi dell’ego fino all’oblio, un balcone del soggetto che per darsi si fa oggetto, si dimentica come soggetto.

Magia nera e bianca Il dono è il resto di un’antica credenza. Bisogna credere o far finta di credere nel potere che le cose hanno, nella loro magia nera o bianca, per potere sia donare che accettare. Dono e danno hanno la stessa radice. Émile Benveniste, nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, ci informa che dono è legato a dote, ma è anche legato a dose, al farmaco che si dà per guarire e che però può anche avvelenare, e ci ricorda che in inglese gift è il dono, ma in tedesco la stessa parola gift significa veleno. I regali sono la tensione di un dare che si stacca da chi dà per diventare effetto a sé, prodigalità in abbrivo, inerzia delle cose che diventano autonome e agiscono in oblio del mittente – e in questo consiste il loro pericolo. La modernità ha esorcizzato questo «danno», ci ha liberati dal potere delle cose, confinandoci a una solitudine dei nostri corpi che sono convinti (a malapena) di essere i soli oggetti singolari (fatti in una sola copia) rimasti. A volte, per voglia o per amore, è possibile fare dono dei nostri corpi, ma a stento, perché non sappiamo più come trattarli, se come oggetti o come irrimediabilmente soggetti. Il brivido, la vertigine del darsi, sono possibili solo a chi accetta di essere in qualche modo cosa – è l’intuizione di Mario Perniola nel suo Sex appeal dell’ inorganico – ma non cosa al pari delle cose riproducibili (questa sarebbe pornografia), bensì cosa al pari delle cose 73

uniche, singolari, come singolare è un dono che non può essere sostituito. Non posso sostituire il dono che ti ho dato con qualcosa di equivalente. Se lo faccio ti offendo, come ti offenderei se ti facessi lo stesso dono tra qualche tempo. Il dono acquista la singolarità, è insostituibile al pari della personalità di chi lo invia o lo dà, diventa appendice vivente del suo corpo.

Staccarsi dal proprio dono Il dono riscatta la cosa dall’anonimato della firma dello stilista o dall’anonimato del marchio di fabbrica. Uno studio di Gail Vines, comparso nel dicembre 1993 sul «New Scientist» con il titolo Miracle on Oxford Street, proponeva di leggere i doni di Natale come un «rituale annuale attraverso il quale le merci vengono convertite in doni». L’articolo poneva l’accento sul fatto che la confezione dei doni natalizi cambia il loro statuto di semplici oggetti. La ricerca del dono, fatta spasmodicamente alla vigilia di Natale, e poi l’impacchettarlo in maniera adeguata sono un rituale che sottrae i beni comprati ai meccanismi del mercato, dando loro un valore «svincolato», unplugged, da ragioni banalmente economiche. Le teorie sul dono sono molto controverse. Derrida in un testo del 1991, La moneta falsa, che è inserito nel volume Donare il tempo, riassume il dibattito di filosofi e antropologi sul dono. Ricorda che chi dona non deve quasi sapere quello che sta facendo: non sappia la tua mano destra quello che sta facendo la sinistra. La gratuità del dono scompare non appena chi offre si attende un «controdono» e chi riceve considera il dono come qualcosa di dovuto, una sorta di ricompensa. Da questo punto di vista il dono perfetto, il perfetto presente, è davvero raro. Ci viene in aiuto Benveniste raccontandoci nel suo Vocabola74

rio, nella sezione dedicata a Dare e prendere, che questa coscienza era presente anche in Esiodo, quando vantava il dono perché «permette di stabilire relazioni vantaggiose». Il greco antico, racconta Benveniste, possedeva cinque parole che di solito si traducono uniformemente con «dono», ma un esame più attento dei loro usi dimostra che esse corrispondevano ad altrettanti modi di considerare il dono: dalla pura azione verbale, alla prestazione contrattuale imposta dagli obblighi di un patto, di un’alleanza, di un’amicizia o di un’ospitalità. D’altro canto l’hostis, l’ospite secondo il termine latino, è colui che compensa il mio dono con un controdono. Verrebbe da pensare che il dono sia un antichissimo sistema per stabilire una reciprocità e che come tale abbia funzionato per molto tempo. Così, se nel donare ci aspettiamo che gli altri ci siano un po’ più legati, non è poi così male come alternativa ad altri rapporti di scambio più rozzi e pesanti. È probabile che si debba ripensare la categoria del dono in base al suo inverso. Più che di categorie del dare, si tratta qui di ripensare le categorie del tenere1. Ci sono modi di «tenere» che sono diversi da quelli della proprietà. Per «tenersi» qualcosa non è necessario acquistarla, o meglio non basta acquistarla. Ci sono cose che diventano nostre dopo una lunga frequentazione. Un abito, ad esempio, non diventa nostro nel momento in cui l’abbiamo provato al negozio, l’abbiamo pagato e ce lo portiamo via nella busta con la sua gruccia. Diventa nostro quando lo portiamo in giro, addosso, «normalmente», come se ce l’avessimo da tempo. Gli aristocratici inglesi facevano portare i propri vestiti nuovi ai servitori perché acquistassero la portabilità dovuta all’usura. Un dono è una proprietà? O nel dono quello che si tiene è il gesto che l’altro ha fatto di acquistare quell’oggetto per noi? Noi «teniamo» il suo gesto, lo arrestiamo, ce ne facciamo garanti. Tenere implica una durata e un’intensità. La presa che ho sull’oggetto può essere più o meno permanente, o può implicare 75

già il passaggio a un’altra persona, l’oggetto come un testimone che viaggia di mano in mano per dimostrare di possedere un tempo e una storia. La presa può essere più o meno forte. Ci sono casi in cui l’intensità del tenere dà luogo a una figura specifica: ad esempio il pegno. Quando do qualcosa in pegno presuppongo che la mia proprietà dell’oggetto possa diventare a tal punto ridotta al minimo da potermi allontanare da esso, pur senza spezzare del tutto il legame. Continuo a tenere, almeno apparentemente, quell’oggetto. In realtà, nel pegno noi chiediamo a un altro o a un’istituzione di «tenerci» attraverso un oggetto. In questo senso quella che sembra una diminuzione di intensità si trasforma in un ribaltamento del tenere. Perché sono io che mi faccio cosa con la cosa che do in pegno. Sia che diamo un anello in pegno del nostro amore o che impegniamo l’argenteria al Monte di Pietà, il pegno «ci im/pegna», le gage nous en/gage, nel senso che ci facciamo cosa per qualcuno attraverso un oggetto. Rispetto al dono, il pegno richiede un nostro ritorno fisico. Il pegno d’amore è una procura che faccio di me su un oggetto. L’anello che tu hai al dito sono io. Come disponi, come tieni questo oggetto tra le tue cose, puoi disporre di me. Per quanto lontano io possa essere è questa spada, questo scialle, questo fazzoletto, che ti lascio, che è il pegno del mio ritorno. Tu puoi farmi ritornare perché questo oggetto è non solo mio, ma è me, fisicamente, e tu puoi richiamarmi a te quando vuoi.

Oggetti che vincolano La logica del pegno è ancora più terribile nel caso del Banco dei Pegni. Anche in quel caso l’oggetto lasciato alla Cassa del Monte di Pietà postula il ritorno del proprietario entro una data, oltre la quale chi ha tenuto l’oggetto attendendo la persona, può tenersi l’oggetto per sempre. 76

Il Monte di Pietà ha un’origine religiosa. Il primo viene fondato da Fra’ Bernardino da Feltre a Treviso nel 1462 per contrastare i banchi di prestito degli ebrei. Viene fondato per soccorrere i poveri, affinché non perdano l’anima alienando beni carichi di significato religioso, come croci e oggetti sacri. La Chiesa supera per la prima volta il rifiuto all’usura posto fino ad allora e dovuto all’idea che il tempo è di Dio e nessuno può speculare sul tempo. Adesso, però, bisogna salvare le anime dal pericolo dell’usura ebraica. Nel Monte di Pietà i poveri si indebitano consegnando beni legati alla propria storia più personale, oggetti preziosi ereditati, vestiti, mobili, oggetti «cari», ricordi, una vera e propria parte di sé. Il debito non riguarda solo un bene, ma l’impegno a darsi da fare per riscattare gli oggetti impegnati. Il pegno va riscattato. Il povero entra nella categoria della discrezione e dell’anonimato: è un povero che si vergogna della sua condizione e farà di tutto per «riscattarla». L’architettura dei Monti di Pietà seguirà la logica della «decenza», cioè dell’offrire un’immagine della povertà come qualcosa da nascondere agli sguardi dei più. L’architettura sarà modesta e austera, anticipando in qualche modo la neutralità e austerità delle istituzioni di Stato che nasceranno qualche secolo dopo, in cui la povertà e l’indigenza verranno parimenti coperte dall’anonimato. Con un subitaneo capovolgimento, i beni, nell’anonimato della Cassa che li equipara a una somma da restituire, proiettano la loro ombra sugli esseri umani. Beni e persone diventano intercambiabili perché entrambi trasformati in debito. Come Monte di Pietà o come istituzione ecclesiastica «mi tieni come se fossi tuo», «so che a te devo tornare». Quando tre secoli dopo, nel 1777, il Monte di Pietà viene aperto a Parigi, ha perso i caratteri ecclesiastici, ma ne ha assunti altri. Luigi xvi, all’interno di un movimento che nel secolo precedente ha introdotto l’attenzione ai bisognosi tra gli affari di Stato, fonda il Monte di Pietà come organismo annesso all’Hôpital Général, perché l’argent des pauvres doit retourner aux 77

pauvres 2 . Questa istituzione risponde al bisogno di sottrarre i poveri all’usura, ormai non solo ebraica ma molto diffusa in tutta la città, e a metterli sotto la tutela di un’istituzione statale. L’ideologia del Monte di Pietà è talmente efficace rispetto alla nuova logica di «dispositivi di sicurezza» dello Stato – manicomi, ospedali, carceri – che, a rivoluzione avvenuta e in nuovo regime imperiale, nel 1797 il Monte viene organicamente accolto in seno alle istituzioni normative dello Stato francese. Esso rappresenta la volontà di un potere laico, ma capace di controllare e gestire più da presso e in maniera più quotidiana la vita dei sudditi-cittadini. Se l’ospedale controlla che gli individui malati non si mescolino con i sani, mentre il carcere separa i criminali dai retti cittadini, e la scuola disciplina il sapere, il Monte di Pietà accoglie e sorveglia gran parte della popolazione, indigente o meno, che necessita di denaro in prestito. Di conseguenza anche il giro di beni connessi all’istituzione viene regolamentato3. Il potere anonimo dello Stato diventa un macchinario capace di misurare, controllare, correggere e disciplinare. Non diversamente dall’istituzione ecclesiale anche qui c’è una maniera di «tenere» i corpi dei cittadini, di legarli a un movimento di ritorno. È un luogo della biopolitica nel senso di Foucault: vi si esercita il potere impersonale sulla vita biologica delle persone.

E che fanno diventare anonimi Benveniste ricorda che il «valore» in greco arcaico è alphé, inteso come prezzo di un uomo che si realizza con la sua vendita. Questo è il primo significato di valore: realizzare un guadagno vendendo un uomo. Rimanda ovviamente alla perdita della libertà personale, all’essere preso prigioniero in guerra e venduto come schiavo. Così, «acquistare» in altre lingue indoeuropee ha spesso il senso di liberare, di sciogliere (in iraniano bugian) uno 78

schiavo da un precedente assoggettamento. Siamo nella logica del tenere e dello sciogliere, nella logica dell’essere tenuti con la forza o del darsi volontariamente in pegno: nella stessa logica che sottostava alle statuette che in molte culture arcaiche i celebranti offrivano alla divinità come sostituti di sé, del proprio corpo disposto al sacrificio. Nell’ottica di Benveniste viene da pensare che ogni scambio è un riscatto e che la figura che ha mantenuto più forte questa matrice sia il pegno. Non a caso il Banco dei Pegni si chiama «Monte di Pietà», perché avoca a sé tutta la pietà di cui una società è capace: pietà come gestione dell’altrui schiavitù e della possibilità di eliminarla con un riscatto. Sottraendola alla relazione interpersonale se ne fa una questione di fredda gestione dei conti. A Parigi, insieme al denaro prestato in cambio del pegno, si dava una ricevuta – un pezzo di carta di vari colori a seconda della stagione – chiamata reconnaissance. La riconoscenza, sottratta alle fluttuazioni dell’animo dei bisognosi, viene trasformata in ricevuta. I Monti di Pietà diventano i luoghi in cui si raccoglie il museo dell’indigenza. Vengono chiamati clou, chiodi, perché a dei ganci nelle sale del Monte si appendono gli oggetti lasciati in pegno. La varia umanità che si affolla alle file del Banco dei Pegni rappresenta la stessa Parigi di Victor Hugo, fatta di miserie e di storie ridicole o disperate, ma la differenza è che le storie sono appese al chiodo e nascoste all’interno della Cassa del Monte. Quello che la gente porta a impegnare ci dà un quadro di come il Monte di Pietà entri nelle pieghe più riposte dell’individuo. Dal 1777 al 1918 l’oggetto più impegnato è il materasso, e quando nel 1918 viene proibito questo genere di pegno, i materassi presenti al Monte di Pietà di Parigi sono quindicimila! Il pegno diventa la costellazione minuta attraverso cui il denaro e gli oggetti mettono in ballo i corpi dei proprietari per costringerli a vagare legati a un’istituzione. Non a caso nel gergo popolare parigino il Monte di Pietà viene chiamato la «Zia». E la letteratura del xix secolo è piena di storie di donne di facili 79

costumi, di seduttori da strapazzo, di artisti e di poveracci la cui vita si svolge nell’andare e venire dal Monte di Pietà. Sono storie in cui il movimento narrativo documenta la nuova moralità di Stato, dove essere indigenti significa essere appesi all’impegno di riscattare quella parte di sé che si è abbandonata al Monte di Pietà, come se fosse un bambino che si è messo alla ruota delle monache o che si è abbandonato perché non lo si riusciva a nutrire. Il Monte di Pietà crea un’economia sulle storie che legano le persone ai loro oggetti più quotidiani. Ciò che sembrava inalienabile viene alienato, perché si offre la prospettiva di una perdita non totale, ma rimandata nel tempo. Il mondo che circonda e costituisce un individuo diventa da lui separabile, allontanabile come un valore astratto. Le storie personali sono il vero oggetto del pegno e diventano vendibili e controllabili. L’oggetto da un lato viene sottratto alla singolarità delle vite e dei beni a esse connessi e tradotto nella freddezza di un prestito a usura istituzionale, dall’altro crea una costellazione emotiva dell’indigenza in cui il «valore» di un bisognoso è legato alla sua capacità di «riacquistarsi», di riscattarsi dall’essere caduto «così in basso».

Note al capitolo 1. Per tutte queste osservazioni sono in debito con Cinzia De Rossi. 2. Mi sto servendo qui dello studio di Barbara Teardo sul Monte di Pietà a Parigi. Il suo lavoro dà molti spunti e dettagli che non riprendo ed è a esso che rimando. Lo si può consultare come Tesi di Laurea (1998) alla Biblioteca della Facoltà di Architettura di Venezia. 3. Ibidem.

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capitolo quinto

Lasciare, dare, trasmettere

La morte di un uomo è come la caduta di una nazione potente che ebbe eserciti valorosi, capitani, e profeti e porti ricchi e navi in tutti i mari, ma ora non libererà più nessuna città assediata, non entrerà in nessuna nuova alleanza, perché le sue città sono vuote, la popolazione dispersa, la sua terra una volta carica di messi è piena di cardi, la sua missione dimenticata, la sua lingua perduta, come il dialetto di un villaggio su per una montagna inaccessibile. Czeslaw Milosz, La caduta

Che cos’è un’eredità? In cosa consiste questo passaggio di oggetti da parte di qualcuno che non è più presente fisicamente, ma ha dato istruzioni che delle sue cose si faccia una destinazione? L’eredità è un gesto che va contro l’evidenza. 83

Qualcuno ha destinato, con una volontà che è legata a un momento del passato, qualcosa che nel presente viene trasmesso a un erede. Il gesto si basa sulla fede che la volontà di qualcuno duri più della sua vita, che gli sopravviva. In questo senso, le «ultime volontà» sopravvivono a chi scompare e da «ultime» diventano «continue». In qualche modo perdono l’aspetto temporale per porsi fuori dalle fluttuazioni della stessa volontà immersa nelle leggi del tempo. L’eredità è una ribellione alla morte, anche se ne è allo stesso tempo una sua conferma. Qualcosa «rimane» che non è più dipendente dalla volontà che l’ha emanata. L’eredità «sostiene» che la volontà fatta oggetto sia più duratura dei soggetti. Gli oggetti che le «ultime volontà» hanno destinato sopravvivono, dichiarano anzi di essere un germe, un «gene» di continuità. Sappiamo oggi che certe parti del dna, certi geni e cromosomi, sono in qualche modo eterni: gli individui si trasmettono una vita che supera la vita individuale. La specie è duratura, cioè ha la forma di eternità concessa ai mortali, quella forma trans-generazionale per cui possiamo parlare di umanità in senso diacronico oltre che sincronico. L’eredità è la disposizione patrimoniale nei confronti dell’eternità. Le cose, gli oggetti, i beni, la roba, i mobili, le suppellettili, il denaro, sopravvivono al defunto e passano ai sopravvissuti. Questa operazione va contro le evidenze e qui sta la sua forza. Essa ribadisce che nella vita di qualcuno che è «passato» c’è una coda che dura fino al presente; non solo, ribadisce che c’è una relazione che perdura, anche in assenza di uno dei termini della relazione. Questo paradosso giuridico e antropologico è talmente singolare che molte culture diverse dalla nostra non lo sopportano e non lo condividono. Nella cultura rom, nella cultura dei gitani e di molti popoli nomadi, le cose del defunto vanno distrutte: la stessa casa, l’automobile, i beni, e perfino il nome del defunto va distrutto. Il defunto deve «andarsene» in pace e lasciare in pace i vivi. 84

La garanzia della relazione positiva tra il mondo dei defunti e quello dei vivi è che siano separati, che tra di essi ci sia il silenzio, una cesura, un crack essenziale di rispetto per quel «di là» e per questo «di qua». Parecchi popoli indigeni dell’Amazzonia la pensano in maniera simile. La capanna del defunto viene abbandonata, ci si sposta altrove, si ricomincia altrove. Questo distruggere, questo lasciare un’assenza al posto di una presenza, è una maniera di colonizzare il mondo per silenzi. Non dire più il nome di qualcuno significa aprire una falla nella volontà costante di significare e situare tutti i fenomeni. Il mondo non è fatto, per queste culture, solo di presenze, ma anche di assenze, di sospensioni, di vertiginosi vuoti in cui non guardare. Questo atteggiamento è l’opposto di quello che presuppone l’eredità come garanzia della continuità di una relazione che non c’è più. Altre culture hanno sentito invece in maniera forte il peso che gli oggetti appartenuti a un defunto continuano a esercitare sui sopravvissuti. Nelle culture afro-americane c’è un culto degli oggetti appartenuti al defunto che li carica di una potenza che va al di là dell’uso a cui questi erano destinati durante la vita del proprietario. I riti vudù, il feticismo praticato in molti luoghi del sud degli Stati Uniti, a Haiti, come nei culti caraibici, si servono della potenza che un oggetto acquista proprio perché è appartenuto a qualcuno morto di recente. Questi oggetti, toccati dalla persona che è appena passata, acquistano un potere dovuto a una trasmissione di anima, di personalità, dall’essere del defunto alle sue proprietà. Alla base di questa convinzione c’è l’idea che le cose non siano indifferenti alla vita degli uomini e che, stando loro accanto, ne acquistino il carattere «personale». Le cose hanno una personalità, un’anima assunta per osmosi. Avere a che fare con le cose di un defunto può essere pericoloso o di giovamento, comunque è un’azione da trattare con estrema cautela. L’animismo insito in questo pensiero si basa su un’idea di continuità che è la stessa alla base del nostro 85

«ereditare» e «dare in eredità». L’eredità è il resto animista, nella nostra cultura, del culto dei morti. Si basa sulla diffusa idea che i limiti del regno umano e di quello delle cose sono molto più sottili di quello che si pensa. C’è, oltre che una «comunione dei santi», una comunione della materia con l’umano. La materia si fa garante, in qualche senso, di trasmettere l’anima di un defunto: questa si incarna negli oggetti che vengono trasmessi. Tutto ciò viene ricoperto, nella nostra cultura, da concetti come «ricordo», «in memoria», termini che nascondono l’imbarazzo di fronte allo statuto che il nostro mondo attuale dà alla presenza, sia essa presenza di cose o di persone. Per esorcizzare questo imbarazzo si pone in mezzo «il tempo», come tempo dell’accaduto, e questo dovrebbe difenderci dall’estendersi della presenza di una persona nelle sue cose. Il tempo, come lo concepiamo, è contrapposto allo spazio della contiguità. Gli oggetti che erano vicini al defunto sono ora vicini a noi. Essi parlano di un’eternità nello spazio, di una transitività della compagnia. Come facevano compagnia a lui o a lei ed erano cari a lui o a lei, adesso sono cari a noi. Ma questa proprietà transitiva della vicinanza ci avvicina a una presenza assente, allo stesso modo di un pegno d’amore o di un dono. Come i pegni o i doni sono un sostituto della fisicità di una persona, sono un dire «ci sono anche se non ci sono», così l’eredità vorrebbe dire lo stesso (ma non può). Il pegno o il dono sono una richiesta di fiducia in un ritorno. L’eredità è una richiesta di fiducia senza ritorno. Per questo molte eredità sono scomode, perché costituiscono una relazione che non ha la revocabilità delle relazioni nel tempo di vita. L’irrevocabilità dell’eredità lega l’erede a condizioni in cui chi è scomparso si tiene il diritto all’immutabilità. L’eredità condanna, in qualche modo, gli eredi a una fissità – li fissa nel ricordo – ma nel senso doppio di assicurazione della continuità e di condanna alla continuità. Per questo non tutte le eredità sono commoventi o convenienti. Si ereditano obblighi, difetti, tare, debiti, relazioni già date, si eredita il sistema stesso di relazioni 86

poste dal defunto. L’eredità pesa, pesa tra gli eredi e sull’erede, è un suggello di paternità o maternità (per sempre porterai i segni di chi ti ha preceduto), è un compito, un retaggio che costringe ad accettare di essere alla stessa altezza, allo stesso livello, a un livello che non è individuale, singolare, ma è quello della progenie, della stirpe. I figli e le figlie, o i coniugi degli artisti, dei musicisti, degli scrittori e delle persone di genio, sanno bene quanto sia pesante tale fardello; oppure diventano gli esecutori testamentari del padre o della madre, i curatori della loro opera. Il retaggio di un grand’uomo, o di una grande donna, può rovinarvi la vita, impedirvi di averne una propria. La «grandezza» lasciata in eredità diventa un’ombra che si estende sulla vita dei discendenti, impedendo loro di inventarsene una. Per questo le eredità sono delle cose strane. Innescano meccanismi strani tra gli eredi. Improvvisamente relazioni che si erano stabilizzate su certe costanti vengono smosse, spostate, messe in crisi da un’eredità. E non solo per motivi di lucro, per competizione sulla ricchezza, ma perché è in gioco una relazione che pretende che i rapporti sopravvissuti si ridefiniscano in base a un’assenza, un’assenza che si fa relazione: l’eredità. Allora chi si prende quell’oggetto o quel libro, chi si prende quel bene o quel denaro, in qualche modo incamera una parte dell’assente, e si identifica con quella parte. Non accade che, in qualche modo, gli eredi si sentano in obbligo di salvare quella parte di cose del defunto che gli altri (eredi) non capirebbero? Così, l’eredità è una frammentazione del defunto, uno smembramento della sua interezza, un’altra forma di dissolvimento del suo corpo. E certe eredità soprattutto lo sono. «Alla sua morte, il patrimonio si frammentò», lo si legge in tutti i romanzi. Il mondo rappresentato da quell’uomo o da quella donna, e che era un mondo di oggetti e di relazioni con il mondo materiale che soltanto lui o lei avevano costituito e di cui lui o lei erano i soli a capire i fili, il legante, viene per forza scomposto tra chi non è e non potrà mai essere quell’unità. In una bellissima poesia di 87

Czeslaw Milosz si dice che quando muore un uomo è come se un intero regno, un impero, andasse in sfacelo. Nella trasmissione al primogenito c’era il tentativo di evitare tutto questo, ma c’era anche la pretesa che il sistema di motivazioni che aveva tenuto insieme le cose che appartenevano al defunto dovesse essere lo stesso nel primogenito sopravvissuto. Ereditare un regno significava ereditare le motivazioni personali del regnante precedente. In ogni eredità si eredita un regno e c’è la presunzione di capire che tipo di relazioni con il mondo aveva costituito chi ci ha preceduto. Per questo non c’è niente di più strano che ereditare una collezione: di vasi, di francobolli, di pipe o di soldatini. In questo caso, incarnarsi nell’ansia del collezionista è pericoloso, o strano, e comunque porta a obblighi, ribellioni e malintesi (con il defunto). Vi ricordate l’ultimo episodio del Decalogo di Krzysztof Kieslowski, quello della collezione di francobolli ereditata da due figli? Completare la collezione del padre può diventare un compito infame. Ogni vita che ci ha preceduti può essere letta come una collezione e noi possiamo sentirci in obbligo di continuare quella collezione (di città, di esperienze, di fallimenti, di donne, di uomini, di ricchezza, di scetticismo, di automobili o di ombrelli). Tutto questo ci pone di fronte a uno strano compito. Il sistema di relazioni tra assenti e presenti nella nostra società è uno dei settori più rimossi. La mancanza di comprensione e di tematizzazione della volontà di significare, che sta alla base della costellazione «eredità», è forse il dolore più grande che la nostra società si impone. Di fronte alla scomparsa e di fronte alla continuità dell’assenza la nostra società è in grado solo di metaforizzare, di glissare, ma mai di consolarsi, di giustificarsi, di significarsi quello che fa. Per questo lo statuto dell’eredità è fumosamente avvolto dai panni giuridici e patrimoniali, quando invece in esso ci sono componenti molto più profonde e non dette. L’animismo che riscatta il mondo delle cose, facendone mondo di tramite tra persone, è forse una delle pieghe più nascoste e commoventi che 88

la nostra cultura si nega. Ma questa negazione è dovuta a una paura dannata dell’autonomia del mondo materiale. Gli spiriti di cui abbiamo paura vanno esorcizzati con la metafora del ricordo. Ma essi sono comunque qualcosa di più. Perché il mondo è una presenza e non un ricordo soltanto, e la compagnia che le cose ci fanno è investita dalla personalizzazione del mondo operata tra assenti e presenti. Questa cosa chiamata in altri tempi «Storia», e anche allora non ben capita, ed esorcizzata oggi nel «Passato», è invece qualcos’altro: la continuità, il nostro essere noi stessi ma anche altri che sono e sono stati. L’angelo della Storia, che svolazza sulle cose del mondo e che le lega, lega anche noi, al di là della nostra paura di essere ben più ampi di quello che siamo. Il fatto è che questa paura affonda le radici nella grande conquista della modernità: la discrezione, l’idea della singolarità e della individualità. L’eredità scandisce le generazioni e le divide, anche l’una dalle altre. La morte è stata usata come discrezione, per rendere tangibili gli spazi tra di noi, perché non si venga più confusi con il mondo e con i corpi e le anime altrui. Questo sforzo immane di individuazione ci costa la perdita di ogni consolazione, di ogni comunione dei santi (e non), anche quella che può arrivarci dalla carezza delle cose e degli altri nel tempo.

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capitolo sesto

I resti del mondo

Oh, se ora questi oggetti non ci fossero a ricordarmi quell’uomo volubile! Per lo meno ci sarebbe un po’ di tempo per dimenticare. Ise Monogatari, I racconti di Ise

I rifiuti sono un nuovo tipo di materia appartenente alla modernità post-industriale, una parte della materia del mondo che prima non esisteva. Nelle società antiche esistevano cocci, oggetti da buttare, resti, ma non si era mai concepito che essi potessero essere trattati come qualcosa a parte. È singolare che oggi si possa parlare di rifiuti, waste, dechets, come qualcosa a parte, come un quinto elemento, come qualcosa che va trattato al pari dell’acqua, l’aria, il fuoco, la terra Fino alle soglie della postmodernità esisteva solo la questione di come relazionarsi alla deriva degli oggetti, al loro sfilacciarsi tra generazioni, al loro passare di mano in mano. Gli oggetti, 91

le risorse, venivano usati, trasformati dalle mani, dai piedi, dai pensieri di uomini e donne, ma non si pensava che una volta gettate nel cestino o nella spazzatura esse cambiassero statuto, diventassero dei paria, degli intoccabili da dimenticare. C’erano, in molte culture, rituali per uccidere gli oggetti, o per farli andare in pace, falò e affogamenti per distruggerli, farli andare in fumo e in essenza. Le cose invecchiavano e morivano al pari delle persone. Ma non si pensava che da questi cadaveri si potesse estrarre una sostanza imbarazzante, onnipresente, chiamata «rifiuto». Oggi il «rifiuto», ricorda Ivan Illich in un suo bellissimo libro sull’acqua, H20 e le acque dell’oblio, è «roba», stuff, che ha ormai acquisito ai nostri occhi l’ovvietà di una presenza. Non ci stupiamo più di parlarne e di trovarcela sempre tra i piedi. Rifiuti radioattivi sono spediti dalle centrali nucleari a infelici siti di stoccaggio, rifiuti industriali impazzano nei nostri fiumi, rifiuti ospedalieri minacciano la nostra salute, rifiuti elettronici attendono un riciclaggio da inventare. Il mondo contemporaneo sembra occupato a far finta di potersi rifare nuovo a ogni pie’ sospinto, occultando che dietro questa operazione c’è un «vecchio» da mettere sotto il tappeto. Buste di plastica soffocano delfini e tartarughe, invadono le cime dell’Everest come i deserti dell’Africa, e l’unico atteggiamento praticato in massa sembra quello del «male necessario». I rifiuti sarebbero il rimosso, l’ombra della nostra vita lucida e colorata, sarebbero il necessario peccato che bisogna commettere perché la macchina vada avanti. L’auto che guidiamo è una metafora di tutto ciò. Ingoia aria e la trasforma in una miscela di incognite, particolati, fumi esiziali che si infilano sotto il tappeto della nostra biologia e fisiologia. Il rifiuto come male necessario è talmente presente che costituisce monti, colline, altopiani, discariche, mucchi e ammucchi. Essi sono il rimosso della città, l’inconscio «vergognoso», le vergogne, il perturbante troppo familiare (proprio nel senso 92

dell’unheimlich freudiano) della vita civile. Per questo motivo essi sono diventati luoghi di un non toccato, non detto. Sono diventati certo «non luoghi», ma in un senso che ricorda anche i luoghi sacri, quelli «lasciati fuori», la geografia dell’off limits. Un’antropologa indiana, Vijaya Nagarayan, ha studiato la capacità tutta indiana di assorbire la modernità e di darle un senso. Nell’India creatrice anche le discariche stanno diventando il territorio di nuove divinità, il luogo dove il rifiuto diventa una categoria personificata e riscattabile proprio per la sua negatività. La personificazione del rifiuto, la sua sacralizzazione, consente di prenderlo in considerazione in modo relazionale, come qualcosa che ci pone interrogativi perché è uno spazio del non. Nella nostra società questa negatività non viene tematizzata, è un ennesimo aspetto della deriva tecnica che in Occidente rimane ostica a qualunque tentativo di senso. Lo sbarazzo, che è l’atteggiamento occidentale nei confronti del rifiuto, è una rimozione. Come se appunto l’unica operazione possibile, in perfetta chiave analitica, sia quella dello spostamento altrove, un altrove che si vorrebbe dimenticare. La geografia dell’Occidente è una mappa di chiazze vivibili circondate da discariche, circondate da un altrove che è spazio, ma si vorrebbe fosse tempo, luogo della rimozione, dell’oblio. Sbarazzare è il contrario di imbarazzare; l’imbarazzo viene sgombrato, il problema risolto affermando che esso sta altrove (a monte, a valle). Una delle visioni che turba gli occidentali è vedere, nei paesi del Terzo mondo, coloro che vivono sulle immense discariche delle grandi città e che da esse riescono a trarre alimento e sostentamento. Ciò ci fa impressione perché questi signori delle discariche mettono le mani su qualcosa che noi avevamo ritenuto per sempre «andato». Essi compiono un’operazione sconvolgente, cercano nel rifiuto, nel left apart, l’essenziale. L’operazione è rivoltante perché mette in discussione i parametri di essenziale e superfluo che abbiamo. Le discariche sono la testi93

monianza del superfluo, della vittoria ideologica della categoria di superfluità. Ma questa categoria presuppone una divisione economicista della realtà. Si butta ciò che non serve, ciò di cui non si ha «più» bisogno. Chi raccoglie questo buttato rovescia l’assunto su cui si basa la nostra economia: l’idea che esistano cose essenziali e cose superflue. Le discariche devono esistere per dimostrare che la ricchezza c’è. Come gli archeologi ricavano dalle tracce delle discariche antiche l’evidenza del livello economico di una civiltà, così noi abbiamo bisogno di grandi discariche per dirci che siamo ricchi. La nostra civiltà si adora nei propri cadaveri superflui. Gli scavengers, i diggers, i raccoglitori di rifiuti trattano invece questi come qualcosa che ha ancora una vita e un futuro. Nulla è superfluo, perché tutto è all’interno della relazione che vincola gli uomini al mondo materiale. La significazione di questo non poggia sull’economia, sul «valore» degli oggetti rapportati ad altri oggetti di valore, ma sul valore relazionale del mondo delle cose, sul fatto che le cose diventano umane relazionandosi con noi. Per questo l’economia non capirà mai il problema dei rifiuti, perché i rifiuti sono una svista economica, un’invenzione ideologica, un modo di chiamare le cose senza coglierne l’essenza. Fino a qualche anno fa, se uno camminava per New Delhi o per Calcutta non vedeva rifiuti, vedeva polvere, fango, sudore, piscio e merda, ma non vedeva rifiuti. Le cose erano utilizzate fino al loro disfarsi, anzi erano fatte per essere disfatte, come i bicchieri per bere il tè che vengono ancora modellati in terracotta direttamente da chi vende il tè e che sono destinati a tornare polvere, o le foglie che sono ancora intrecciate a fare da piatto. Tutto si disfa e quello che non si disfa viene ancora usato fino allo sbriciolamento. Da questo punto di vista, l’India è stata priva, in molti suoi luoghi, del nostro tipo di rifiuto, sacchetti di plastica, bottiglie, rifiuti alimentari. La stessa merda è ancora usata per alimentare il fuoco. Il mercato di Addis Abeba 94

non è da meno. Tutto viene rielaborato, i copertoni diventano scarpe, ceste, le lattine di Coca-Cola macinini, in una reinvenzione del mondo di fronte a cui ogni pop art è una stupida imitazione. La nostra categoria di rifiuti ricorda da presso altre categorie ideologiche: il tempo libero, cioè il tempo buttato via dal lavoro, il «privato», come rifiuto lasciato agli individui quando non è in atto la guerra produttiva, il divertimento, come resto della società dello spettacolo, o la felicità, come resto del funzionamento della macchina e suo nonostante. O il dolore, come spazio del nonsenso, vero rifiuto, buco oscuro, messo sotto il tappeto. Il resto di cui parlo ha anche a che fare con l’elemosina: si dà in elemosina quello che è in più e che «altrimenti verrebbe buttato», si fanno i sacchi per la Croce Rossa con gli abiti smessi. Non si dà certo in elemosina l’essenziale, perché sarebbe «privo di logica». Eppure l’elemosina, la richiesta di elemosina, sta lì a dimostrare che nonostante il rimosso quello che noi ritenevamo superfluo è invece essenziale, è «desiderabile», «ri/chiesto». A questo punto le due categorie, essenziale e superfluo, diventano senza senso. Il resto che diamo in elemosina diventa a tal punto autonomo da noi da mettere in dubbio che sia solo un resto. L’elemosina è la traduzione del rifiuto in qualcos’altro. La richiesta di elemosina, artata o «autentica» che sia – ma la richiesta è già di per sé qualcosa che, svolgendosi sul piano ancora apparente dell’economia, è sempre falsa perché sempre sotto il velo dell’anonimato economico: l’economia è anonima, dal banchiere all’elemosinante – svela l’arcano, mette a nudo una verità rimossa, quella cioè che il rifiuto è un alibi dell’anima e non una categoria della materia.

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capitolo settimo

Elemosina

Finché ci sarà ancora un mendicante, ci sarà anche il mito. Walter Benjamin, Parigi capitale del xix secolo

Fare l’elemosina L’avvento della modernità potrebbe essere rappresentato come il tentativo, spesso riuscito, di farla finita con i poveri e con la loro presenza nelle città. Nella storia delle città del xix secolo la guerra alla povertà è una guerra ai poveri, affinché essi scompaiano dalla vista, affinché la loro presenza non turbi la nuova coscienza igienica, morale, ordinatrice che vuole rifondare la cittadinanza sulla base di una rigida selezione eugenica ed etica. La nuova popolazione urbana deve rispondere a requisiti di appartenenza e di riconoscibilità: un domicilio, una famiglia ben distinta da altre, una nazionalità, uno status sociale chiaro, un salario o – successivamente – una dipendenza formale da qualche tipo di assistenza. I poveri, le masse di diseredati, gli 97

immigrati, quelli senza fissa dimora, coloro che sono sospesi tra vari nuclei familiari, quanti vivono per strada, tutti costoro devono essere regolamentati o sparire. Prima che altri strumenti perfezionino il genocidio di coloro che non corrispondono ai requisiti di un’identità o di una cittadinanza di qualità, sono questi poveri a essere la massa su cui si sperimentano gli strumenti dello sterminio e della negazione. Le città che ci sono state tramandate da questa trasformazione, le città del mondo europeo, sono il risultato di una «pulizia» che ha reso gli spazi funzionali e monotoni, le folle omogenee e gli spostamenti non ingombrati dalla vita di strada. I poveri sono diventati invisibili, sono stati deportati nei casermoni di periferia o sono stati eliminati del tutto, avendo la povertà scelto la strada della specializzazione geografica, il cosiddetto Terzo mondo, cioè il luogo dove la povertà è stata trasferita per consentire alle città del Primo mondo di avere un aspetto e un benessere omogeneo. Così, le città europee di oggi e molte città dell’Occidente consentono di non accorgersi, se non in rari casi, che la povertà esiste, che essa spesso è alle porte delle stesse città del benessere. La modernità è un’opera quasi perfetta di rimozione della povertà, del problema e delle sue evidenze. L’elemosina è il resto di questa rimozione. È il solo modo rimasto per renderci conto, episodicamente ma puntualmente, del fatto che il disagio rimosso e distante può apparire da un momento all’altro e riguardarci personalmente. L’elemosina aggira gli escamotage della politica, della religione e della militanza e appare a un «tu» che non è difeso dal suo ruolo, dalla buona coscienza politica, e nemmeno dall’appartenenza a un’associazione per l’assistenza ai «meno abbienti». La dama di San Vincenzo o il militante dell’«Humanité» o il benestante con simpatie di destra incontrano egualmente qualcuno che fastidiosamente gli pulisce il vetro dell’auto, o la zingara che tende, pericolosamente, la mano. 98

L’imbarazzo dell’elemosina sta nel fatto che essa non è veramente controllabile (a meno che non venga interdetta del tutto), ha una struttura capillare che emerge dai pori e dalle fessure della vita quotidiana e si fa presente in luoghi in cui non è prevista come attività. L’elemosina individuale non si rivolge all’istituzione, alla Chiesa, al comune, alle dame di carità, ma al cittadino comune nella sua natura impersonale di passante. L’elemosina è fastidiosa e per questo è così rivelatrice. Essa produce una breccia anomala nella quotidianità. Questo non significa, come vedremo nella seconda parte di questa riflessione, che la relazione richiesta dall’elemosina non rientri in un codice di relazioni interpersonali «consentite», ma soltanto che le regole codificate vengono declinate di volta in volta a seconda del contesto e del faccia a faccia. La cosa «fastidiosa» è questo tu per tu. L’essere interpellati come un tu fa sì che l’estraneità si manifesti troppo vicina e come una specie di ricatto. Il ricatto è morale, si tratta di scegliere se stare al gioco, con tutte le conseguenze: ha senso dare a quest’uomo o a questa donna dei soldi? Ne ha veramente bisogno? E poi perché dovrei darglieli io e non quello che passa dopo? Quanto è sincera la sua richiesta? In quale posizione sono io per dargli qualcosa? Faccio un gesto corretto politicamente, eticamente, un gesto giusto, o invece non permetto a costui o costei di continuare a mendicare? Non è un male per la società nel suo insieme? Non potrebbe costui o costei andare a lavorare? Oppure, se do dei soldi a questo bambino è chiaro che lui si farà ancora più sfruttare. O ancora, non è meglio cambiare le condizioni politiche che consentono all’elemosina di continuare a esistere? È questo il vero fastidio dell’elemosina, il metterci in una situazione ambigua. Essa ci interpella personalmente, ma non è detto che la risposta del dare sia quella giusta. Come non è sicuro che il non dare ci lasci tranquilli. Quelli che sostengono che si fa l’elemosina per mettersi l’anima in pace non sanno di cosa parlano. Forse sono proprio quelli che danno che sono più nella 99

trappola del dubbio di aver fatto male. L’elemosina costringe nella scelta disperante tra ipocrisia del dare e cinismo del rifiutare. Perché essa scatena tutta l’ambiguità dell’accettazione dei ruoli sociali del benestante e del bisognoso. In fin dei conti, quanto mi posso riconoscere nella mia normalità di benestante e quanto è marginale la stereotipizzazione di questo elemosinante? Il mio dare rappresenta di per sé l’accettazione di una condizione di disparità, ma è anche vero che so in questo momento di avere più soldi di chi me li chiede. E anche se non fosse così – mettiamo che lui mi imbrogli e abbia più soldi di me – la differenza che gioca tra me e lui è che lui chiede, mentre io no. La sua richiesta postula comunque una risposta che mi imbarazza e mi costringe a rivedere quale sia la mia posizione nella società. Anche il mio rifiuto mi stigmatizza in un ruolo preciso. Divento il nichilista che non vede in quest’uomo che tende la mano una persona ma uno stereotipo e lo inquadra nell’ovvio funzionamento del tutto. Cinicamente mi rifiuto di dare qualcosa perché tanto non cambia nulla e poi perché io ho uno sguardo che è superiore a questa situazione. Mi rifiuto di prendere sul serio l’evenienza perché non è in questo momento che accade davvero qualcosa, ma nel momento che vorrò io o che vorrà il mondo se dovrà cambiare. Il mio stato di freddezza e indifferenza non mi fa cadere nella trappola della finzione. Quando vedo i poveri chiedere alla porta della chiesa, quando vedo i bambini rom mendicare, quando vedo il cieco, lo storpio, l’handicappato su un angolo di marciapiede, quando vedo i barboni, le bag ladies, mi viene da pensare, nella logica del rifiuto, che costoro sono mendicanti «abituali». E allora, anche se così fosse, cosa ho risolto? La mia «coscienza» si sente più tranquilla di fronte a un povero abituale piuttosto che di fronte a un povero «estemporaneo»? E come faccio a riconoscerli? Sono indignato dalla recita che vedo: un padre zingaro, ben messo e ben vestito, dorme (fa finta di dormire) su una sedia sul 100

marciapiede vicino alla chiesa della Madeleine a Parigi. Tiene sulle gambe un ragazzo, troppo grande per essere un bambino, anche lui in salute, a quanto sembra. E anche lui fa finta di dormire. Una scodella ai piedi mi interpella. Ma per chi mi hanno preso? Sono così stupido da cascarci? È chiaro che loro sono dentro a una parte, stanno facendo la «bella statuina» della tipica «pietà» zingara. Ma all’interno di questa indignazione non dovrei invece accettare il fatto che loro si mostrano secondo i canoni consentiti per chiedere l’elemosina, secondo la «pietà» consentita in questo pezzo di secolo? Dovrei essere più contento se fossero «davvero» disperati? Bisogna dare l’elemosina solo ai disperati? Ma qual è il criterio di verità per capire se c’è una «autentica» situazione di bisogno? Sono autentici i poveri che hanno l’aria davvero da pazzi e non sanno nemmeno chiedere, sono autentici i tossici che denunciano in tutta la loro persona un’incapacità aggressiva, non controllata, di chiedere?1 A tutte le considerazioni già fatte se ne aggiunge una nuova. Non è insito nella natura di questo avvenimento, anarchico e senza regole apparenti, che io debba discernere, quando qualcuno mi tende la mano, il discorso di bisogno che lui o lei mi fa? Non c’è cioè una mia capacità di rispondere che è, in primo luogo, l’intelligenza di fronte a un’altra intelligenza che sta chiedendo proprio a me e usa una strategia perché proprio io possa essere messo in causa? Nella strategia della domanda non c’è l’espressione di qualcosa che in quanto uomo o donna non può che chiamarmi a prendere posizione? L’elemosina sembra trasformare l’ingiustizia del mondo e della società in particolare, in un rapporto umano, in qualcosa in cui qualcosa dipende da me (da noi, dalla mia mano e dalla tua) e da questo momento. Non importa la risposta, quello che importa è riconoscere che nella profonda ingiustizia dell’economia come sistema, nella «globalizzazione», nella disumanizzazione atroce dello scambio e del flusso della ricchezza e della scarsità, questo momento, per 101

quanto stereotipato e «falso», è però l’emergere della questione dell’ingiustizia sociale come questione personale. È vero che questo avviene nella costellazione della «pietà» consentita al nostro tempo (ogni tempo ha avuto una sua costellazione della pietà), e che per dimostrarsi bisognosi occorre entrare nell’anonimato a cui tutti i rapporti economici sono sottoposti nella nostra società. Ma al di sotto di questa crosta sta a me riconoscere che accade qualcosa che mi interpella. È – che io lo voglia o meno – un momento di verità che mi obbliga a situarmi di fronte a un altro essere umano. Questa spaccatura, questo apparire del bubbone è oggi, alla fine del millennio, ancora un segno di un resto della povertà da noi rimossa e trasferita altrove. Ma la povertà, tenuta a bada e allontanata, sta tornando alle porte e all’interno delle città che ne avevano fatto piazza pulita. Sappiamo bene che lo «sterminio» della povertà compiuto nell’ultimo secolo a scala mondiale ha prodotto una povertà sterminata: centinaia di milioni di individui sradicati dai loro contesti di appoggio e di risorse, costretti a emigrare, a fuggire, a riparare altrove. Oggi le stesse nostre «tranquille» città europee sono il luogo in cui il mondo ci chiede l’elemosina nel senso più stretto di questa dizione: nord-africani, albanesi, singalesi, amerindi, aborigeni di varie parti del mondo, nomadi nuovi e vecchi. Questo mondo agli incroci che lava i vetri delle nostre macchine o appare con cartelli sgrammaticati che chiedono aiuto, questo mondo costretto a travestirsi da mendicante che possiamo riconoscere come «attendibile», è in crescita. Anche in questo caso la risposta o il rifiuto chiamano in causa la coscienza della propria posizione, non più nella scala sociale e nello status, ma nella collocazione geografica e nelle responsabilità: questa risposta non attende però che una giustizia più ampia o un sommovimento generale metta le cose a posto. Interroga invece con tutta la sua ambiguità la nostra intelligenza, noi, qui, nel momento preciso dell’incontro. 102

Chiedere l’elemosina Un arabo cieco chiede l’elemosina nella metropolitana di Parigi alla stazione Château-Rouge. Vestito della djallaba bianca, con i piedi infilati nei sandali di plastica, la chiede in arabo. Del vasto pubblico che sale e scende per le scale di accesso e di uscita del metrò solo alcuni capiscono l’arabo. Ciò implica che solo gli arabi possono rispondere alla richiesta del mendicante e implica anche che egli forse non la gradisce da altri. In un’antica tradizione di marabout e di santi mendicanti egli si situa nella dignità di chi sceglie e non nella umiliazione dell’essere scelto. Nel suo chiedere è già insita una selezione. Questo atteggiamento, che nell’arabo aveugle è in qualche modo codificato da un’appartenenza a una comunità (in cui il mendicante è una figura sociale prevista e richiesta dalla necessità di verificare il livello comune della pietà), non è però un atteggiamento riservato ai mendicanti arabi. I mendicanti, in generale, sono dei naturali selezionatori nella massa. Chi chiede l’elemosina «sceglie» il suo potenziale donatore. Nella caoticità della folla costui o costei si indirizzano a una sezione, una fascia, un carattere sociale, generazionale o etnico. Questa evidenza resta nascosta dall’apparente anonimità del chiedere l’elemosina, esposta alla genericità del pubblico passante. I mendicanti, volutamente o no, indirizzano la loro richiesta a qualcuno di preciso, al perfetto donatore che può capire, essere mosso, immedesimarsi o provare pietà, solidarietà o rimorso, a qualcuno, comunque, che sa leggere i segni di cui l’elemosinante è portatore. Da questo punto di vista, chiedere l’elemosina è un’attività che richiede una grande sensibilità alla composizione della società che ci si trova dinanzi. C’è un’intelligenza nel mendicare che fa sì che essa non sia un’attività casuale, ma una posizione, uno «stare» ben preciso in un luogo che corrisponde a un angolo del contesto sociale. 103

C’è bisogno, nel mendicare, di una pratica e di una consuetudine. Nel Vangelo, in una parabola, un amministratore indegno che viene licenziato dice a se stesso: «Che devo fare? Di mendicare non sono capace». C’è una capacità di mendicare che fa sì che questa non sia l’attività dell’ultimo dei disperati; certo anche costui o costei si trovano a mendicare, a manifestare l’abisso della propria miseria, ma chi «decide» di mendicare è già un passo più avanti. Si situa in un livello di rappresentazione pubblica della propria miseria. Di essa fa una cartina di tornasole della società intorno. Si espone agli sguardi della folla, sapendo di diventare per essa una messa in scena dell’anomalia. Per questo il passaggio dalla constatazione della propria miseria alla capacità di chiedere è un passaggio sul palcoscenico in cui l’individuo diventa una figura sociale del «fuori», non più connotata «personalmente». Per questo il passaggio all’elemosina implica uno spogliarsi della storia personale per assumere, al posto di un nome e cognome, la nicchia anonima della marginalità. Lo descrive molto bene nei suoi romanzi Paul Auster, che racconta la «discesa» di colui che si lascia andare alla deriva come una perdita (voluta o non) dei riferimenti conosciuti, genitori, amanti, parenti, amici (si acquistano invece relazioni con i propri simili, con figure di margine e di strada), come un nascondersi in un angolo, ricavare nel tran tran della società e nelle ripartizioni di ruolo e di relazione un luogo «fuori», un’assenza della relazione, il luogo di un dimenticatoio. Solo allora si diventa hobo, barboni, mendicanti. Si diventa cioè «persone/nicchie», nel nascondimento di un marciapiede o di uno scalino, sotto un ponte o un cavalcavia, o nella posizione contro il muro o all’angolo della strada. È difficile chiedere l’elemosina in una situazione in cui si è conosciuti da tutti. Tale figura di povero, un povero a cui la comunità intera si riferisce come al proprio povero, è esistita nelle 104

culture tradizionali ed esiste ancora in molte culture indigene. È il povero che rappresenta una condizione di scelta, o un destino paradossale che interroga l’intera comunità. Ancor oggi, nelle comunità nord-africane emigrate a Parigi, le figure dei marabout che vivono di oboli e che sono «installate» all’interno del quartiere, a un angolo, sono figure della saggezza e della vita santa, povera, dipendente dalla generosità altrui. Danno consigli, tengono le fila del reseau, delle reti di parenti e famiglie che accolgono i nuovi arrivati. La figura dell’elemosinante alla deriva è invece una rappresentazione della modernità. Ci sono pagine dei Quaderni di Malte Lauridis Brigge dove Rainer Maria Rilke «scopre» con angoscia e lucidità la terribile evidenza della miseria di Parigi, della città che stritola e umilia e costringe a terra coloro che non stanno o non vogliono stare alle regole. Colui che si gioca la vita quotidiana sui marciapiedi della città è una figura capovolta – forse ne è la faccia nascosta – del flâneur simmeliano. Si trascina per la città senza meta come l’altro, ma non diventa come il flâneur un osservatore disincantato, bensì uno spettacolo spersonalizzato. Non è necessario che la sua storia sia da tutti conosciuta (soprattutto se il suo essere alla deriva è una fuga da qualcosa), anzi è meglio di no. Mentre il povero della comunità è qualcuno di cui tutti sanno la caduta in disgrazia, e se ne raccontano la storia, il povero urbano è qualcuno che deve mettere in scena la propria disgrazia, fisica, economica o spirituale, in una maniera a tutti evidente e accessibile. Ma non la sua, bensì quella della città, la maniera consentita per esprimere la marginalità e il fuori. Di questo era cosciente Brecht, quando nell’Opera da Tre Soldi fa discutere gli elemosinanti rispetto alla fortuna o meno di avere una «disgrazia visibile». Per Brecht gli elemosinanti sono degli attori eccellenti per il teatro brechtiano proprio perché praticano l’estraneamento da se stessi per assumere una parte da recitare in maniera impersonale, stereotipata. 105

C’è un momento, un giorno, in cui chi non ha mai mendicato comincia a farlo, ed è un passaggio da una storia personale, disperata o meno, all’accettazione per se stessi e gli altri della dimensione pubblica della propria situazione (o del proprio dramma). Chi mendica è spersonalizzato, incarna l’eroe negativo di una tragedia sociale. In realtà, a prescindere dalla gravità del bisogno, chiedere l’elemosina è proprio un dramma, anzi è il dramma sociale quotidiano, cioè la messa in scena dello scompenso su cui si fonda il meccanismo di accumulazione della ricchezza urbana. In questo dramma tutta l’allucinata assurdità della città ci viene comunicata. La vista del mendicare ci fa violenza, ci mette in uno stato di disagio. Ci fa vivere nel malessere di qualcosa di profondamente stonato, nella malvagità e nell’ingiustizia di cui l’anonima aria delle città sembra essere portatrice. Dentro a questo dramma, tornando a Brecht, c’è una recitazione e una retorica, delle figure e dei ruoli fissi e, come detto più sopra, un accordo tra la maniera consentita di chiedere e la maniera consentita di dare, un accordo sulla «pietà». La povertà messa in pubblico deve essere una povertà eloquente, parte di una retorica della povertà comprensibile. Ciò sembra in contraddizione con quanto detto sulla selettività del mendicare. Ma il mendicare è sospeso tra la rappresentazione pubblica (a tutti) del proprio stato di bisogno e la provocazione di una risposta da parte di una specifica categoria di persone. Ciò non vuol dire che il mendicante non possa raggiungere altre fasce e persone, casualmente, ma guai a quel mendicante che non sa appellarsi a una specifica sensibilità. Questa retorica della mendicità, antica come il mondo, non ne è lo scandalo, la dimostrazione che la mendicità mette in atto un meccanismo di falsificazione delle identità. Al contrario, è la procedura che consente alle diverse identità di una società di diseguali di mettere in scena – ma solo a certe condizioni ed episodicamente – le disparità. Questo momento di contrattazione della verità economica (dura e sconvolgente) di una società ha 106

delle procedure che in parte sono eredi di una storia di secoli, in parte vengono reinventate contestualmente. Accanto al mendicante che seduto sul marciapiede mostra senza parole il motivo per cui bisogna dargli l’elemosina – il difetto o la mutilazione, lo stato lacero dei vestiti, o semplicemente la condizione (un cartello con la scritta «disoccupato», «padre o madre di famiglia numerosa», «profugo» o addirittura «turista senza soldi») – si vanno affermando nuove pratiche. C’è il povero vergognoso che nasconde il volto in città in cui esiste una mitologia o un’etica del lavoro: ho visto a Bologna zingari appoggiati a un muro che mendicavano con il volto nascosto dal bavero e dal cappello. C’è il mendicante in ginocchio, che esprime l’urgenza del bisogno e che nella posizione urta la sensibilità di chi passando non vuole vedere un gesto di tale umiliazione. È come se dicesse a tutti: guardate come mi avete ridotto, sono costretto a umiliarmi pubblicamente. Nell’evoluzione di questa retorica l’importante è lo stereotipo. La posizione può essere mitigata con uno zaino su cui poggiare le gambe o il sedere, ma lo stereotipo della «pietà» deve essere riconoscibile. Questa retorica è adottata da chi ha bisogno di comunicare che il suo bisogno è urgente, ma anche episodico, legato a una circostanza di deficienza improvvisa (è in viaggio, è di passaggio, è stato improvvisamente rovinato nelle poche risorse che aveva). C’è il mendicante con il cane. Questa retorica ha più a che fare con l’idea pubblicitaria che basta avere un bambino, un cane o una donna su una copertina che si riesce a vendere quello che c’è dentro. Effettivamente, il cane comunica al passante che il bisogno è duplice: non solo il padrone necessita una mano, ma ne ha bisogno per sostentare il cane. Questa figura retorica si è allargata a una categoria, quei punk-a-bestia che nati, pare in Germania, da gruppi di giovani che vivevano per strada e che avevano bisogno della protezione di un cane, si è diffusa a tutta l’Europa. Oggi lo stereotipo è impressionante. Il punk-a-bestia 107

impersona la doppia parte del rifiuto della società e del mendicante. Egli, come punk, deve suscitare il disgusto del pubblico, con una tenuta che è ostentatamente sporca, ma anche squallida (colori, maglioni, scarpe e tipo di taglio dei capelli devono dire che si è rivestito di tutti i rifiuti). Ma deve evitare che alla questua, in genere aggressiva nei modi, venga opposto un rifiuto. Il cane, o i cuccioli, e la situazione di squallore generale dovrebbero muovere le leve di una commozione mista a sdegno. Chi fa loro l’elemosina è intrappolato più degli altri nel doppio vincolo di scoprire il proprio malessere sia nel dare che nel non dare: egli è comunque disprezzato dall’elemosinante. C’è il giovane povero, benvestito, che fa presa su chi ha pena nel vedere qualcuno così perbene caduto in disgrazia: nel metrò egli recita la parte di chi ha perso il lavoro e deve mantenersi pulito e in ordine fino a una nuova occasione. Chiederà un aiuto e chiederà, se qualcuno glielo offre (ma è ben raro che ciò accada nel metrò), un lavoro. C’è colui che racconta di essere appena uscito dal carcere, interpellando così un pubblico preferenziale che non vuole che egli vi faccia ritorno e che soprattutto non vuole problemi da uno che deve esservi finito per qualche motivo. C’è chi, accostandovi per strada, vi dice che ha bisogno di medicine e di calmanti per un grave esaurimento nervoso. Vuole suscitare in voi l’urgenza e la paura che non siate proprio voi le vittime della sua carenza di calmanti. C’è lo stereotipo della ragazza madre, con la drammaticità di una storia da raccontare. La storia, nella metropolitana di Parigi o in quella di Milano, è detta con la stessa tonalità, è fatta di situazioni simili, perfino di parole analoghe. La voce, la cadenza, sono sensibilmente artate. Lo sanno tutti. Ma è da questo paradossale fastidio della finzione in falsetto che nasce l’urgenza di sbarazzarsi di loro, di dargli qualcosa purché la smettano. Ciò non toglie che al di sotto di questa performance ci possa essere una reale situazione di bisogno. 108

C’è quello che entra nella metropolitana e fa finta di riconoscere qualcuno, chiamandolo per nome o con il nome di un attore famoso. Rompe il vetro dell’anonimità, giocando proprio sul carattere invasivo dell’elemosina. Non ha bisogno di chiedere. È la sua invadenza che presuppone che egli abbia bisogno. Molti altri questuanti, davanti ai ristoranti o ai locali pubblici, si muovono con la stessa retorica. Si tratta di invadere l’attenzione altrui, con uno spettacolo che deve essere deludente, minimo: il sordomuto che tenta un numero di prestidigitazione o che fa finta di molestare i clienti con delle maniere un po’ troppo familiari, o il tipo strano che canta ossessivamente male sempre la stessa strofa. L’importante anche qui è che si imponga la presenza e che parli da sola: visto che sono qui e che mi hai notato, dammi qualcosa. C’è poi la categoria dei bambini, che non hanno mai bisogno o quasi di parlare: per il solo fatto che sono lì di fronte a voi e che chiedono, voi siete in colpa. Potete cercare di parlargli, le signore possono coccolarli, ma rimane la presenza più inquietante, autorevole e indipendente. Quella costellazione di identità nomadi (e non) che chiamiamo pigramente zingari appartiene a una categoria della presenza. La loro sola presenza fa mettere mano al portafoglio, per controllare che sia al suo posto, ma visto che ci si ha la mano sopra, per levarseli di torno con qualche soldo. In più la presenza zingara gioca su una strategia della vergogna simile a quella dei punka-bestia, ma più sottile. La strategia che fa dire al passante: ma non si vergogna?, dove comportamento, abbigliamento e status morale vengono riassunti in un’identità riconoscibile a prima vista. È impressionante come questa identità non abbia bisogno, soprattutto oggi, di essere particolarmente lacera o sporca: è una divisa, un costume riconoscibile tra mille, che li fa individuare come irriducibilmente diversi. Cosa ci fa capire che sono zingari? La faccia furba o le doppie gonne a fiori (sovrapposte con ostentata noncuranza), le collane, il fazzoletto e soprattutto le 109

scarpe aperte, basse o zoccoli, e le calze colorate a fasce (anch’esse indossate con un’ostentata trasandatezza)? Oggi sta accadendo che gli zingari e i loro bambini vadano in giro in maniera più decente (se no non li lascerebbero entrare nel metrò), perfino con maglioncini Benetton. Ma gli elementi evidenziatori della differenza rimangono le calzature e l’assortimento delle vesti – a cui si aggiungono certo i tratti contadini e slavi, sebbene non sempre – ma anche i denti d’oro, persino nei giovani, e i capelli ricci e incolti. Gli zingari mantengono da secoli le strategie più complesse del teatro della marginalità, ma anche una grande capacità di riadattamento delle stesse. Oggi può capitare di vedere donne rom che questuano in cambio di un servizio «folclorico» che non è più la lettura della mano, ma un canto o dei passi di danza (un recupero del passato o un assimilarsi agli artisti questuanti per far dimenticare l’aggressività della propria differenza?). I polacchi (singalesi, marocchini, pakistani ecc.) lavavetri, i venditori senegalesi di accendini e cassette musicali, i venditori di fiori «riciclati» nei ristoranti, rientrano nella categoria mendicanti o no? Per certi versi sì, quando il loro bisogno viene lasciato più evidente del loro servizio. Il lavaggio di un tergicristallo non merita il compenso che viene richiesto, ma è un gesto simbolico che vi dice: piuttosto che chiedere l’elemosina, faccio questo; se avessi di meglio, farei altro. Questa figura è costruita su un’intuizione geniale. Il luogo in cui più fortemente si percepisce l’ingiustizia tra chi ha e chi non ha è il semaforo o il ristorante. In prossimità del primo, chi ha la macchina non può negare di avere un bene e di un certo rilievo. Nel secondo, è innegabile che si hanno i mezzi per il cibo superfluo. In questi luoghi i poveri del mondo bussano non a voi, ma alle auto stesse o al ristorante, mettendo entrambi i luoghi nella condizione di simboleggiare l’ingiustizia planetaria. Io ti pulisco il vetro e ciò significa anche che sai che questa è un’evidente 110

umiliazione per me. Mi rapporto con una cosa che ti appartiene e non con te. Come se ti pulissi le scarpe, né più né meno. Nel balletto che sempre di più avviene intorno al tergicristallo, tra le resistenze dell’autista e le insistenze, invadenti, del lavavetri, c’è un margine che può essere consentito perché i lavavetri sono a piedi e indifesi: gli autisti stanno dentro le auto e possono schizzare via. C’è anche l’evidenza fisica di una situazione di disparità. Nel caso dei «fiorai» da ristorante i fiori devono sembrare riciclati, perché il servizio che vi si offre non è se non quello di consentirvi di non avere sensi di colpa nel mangiare in un ristorante, con la persona che amate o che vi piace. Il fatto che l’elemosinante si introduca con un fiore tra voi due significa che intanto ha capito che vi darà fastidio con la sua sola presenza, e per questo la lascia latente sotto la copertura di un fiore, che «in altri contesti» è un omaggio galante. L’omaggio che fate alla dama è l’elemosina, non il fiore, è cioè la dimostrazione del fatto che il vostro cuore non è insensibile o, se rifiutate, la dimostrazione che non vi lasciate intimidire di fronte a lei. E poi i musicanti. Qui la questione è spinosa. Perché nella nostra società non sappiamo che valore dare all’arte: essa è senza valore, cioè non solo è offensivo sapere «quanto vale», ma anche negare che ne abbia uno. Questo significa che di fronte a un sassofonista che vi rifà Desafinado, anche in maniera stonata, o di fronte a un vibrante trio zigano, a una chitarra acustica che riporta agli anni Settanta o a un complesso di amerindi che suona la musica andina nel metrò, non sappiamo che pesci pigliare. Non sembra più elemosina. Perché quello che loro fanno non lo fanno solo per voi, ma lo fanno anche perché posseggono un’arte. Voi al massimo gli consentite di continuare a esercitarla. Non è un’elemosina, è un premio, una prebenda, una mancia, un incoraggiamento. Infine ci sono i casi di invenzione da zero in cui, più che nelle figure stereotipate di cui abbiamo parlato, si capisce che c’è 111

un’intelligenza al lavoro che ha capito come le questioni economiche attraversino la nostra coscienza contemporanea: come delle cesure e delle falle. Il caso più straordinario che mi è capitato di riscontrare è quello di un giapponese, vestito con un completo grigio da impiegato, che su un treno tra Parma e Bologna girava per gli scompartimenti chiedendo con un cartello che gli venissero dati dei soldi perché gli era stato rubato il biglietto di ritorno in Giappone. In mano aveva una mazzetta ben spessa di biglietti da 5 e 10 euro, almeno 200, e li andava continuamente contando, senza nemmeno guardare le persone a cui stava proponendo la colletta. Inutile dire che quasi tutti lo aiutavano con almeno 5 e 10 euro. Il suo gioco era efficace perché non si è mai visto in Italia un giapponese bisognoso, e si basava anche sullo sdegno suscitato dalla vista di un turista giapponese derubato presumibilmente dal «solito» italiano («dobbiamo sempre farci riconoscere»), lo sdegno per un paese che non merita il turismo. Siamo ancora di fronte a un caso di elemosina, o siamo passati a un altro campo? Credo che si tratti di una nuova categoria, quella che gioca con le ambiguità e le fratture della nostra coscienza economica quotidiana. La globalizzazione qui aveva la sua parte, perché per dare bisognava sapere cosa è il Giappone economicamente rispetto a noi. Nulla di più coagente per un cuore sensibile della vista di una persona normale e benestante ridotta, per la cattiveria pubblica, a mendicare. Darle molti soldi significava restaurarla nella normalità che a lei ci accomunava. L’elenco qui offerto potrebbe continuare all’infinito. Ma ci sono alcune costanti che vale la pena di rilevare. Intanto c’è una maniera di mendicare che gioca sulla presenza e una che gioca sull’assenza: ci emoziona la vista di un difetto o di una carenza, di una differenza evidente o di uno stato di pericolo imminente per quella persona (per i bambini, per i vecchi soli, ecc.); o vogliamo sbarazzarci di un’irruzione ingombrante, questuanti, zingari, elemosinanti ossessivi, provocandone l’assenza. 112

Queste due categorie fondamentali sono declinate in figure di varia intensità: la presenza può essere giocata dal grado zero del «sono qui», al fastidio dell’insistenza, fino all’ostentazione della gamba mancante. E per l’assenza il discorso è analogo: si va dall’impercettibile voglia di levarsi di torno il lavavetri all’insostenibile necessità di sfuggire al questuante ossessivo. Ci sono categorie intermedie e sono quelle che «offrono un servizio che assomiglia a un favore». Queste si pongono nel limbo di una zona di ambigua utilità. Si va dal posteggiatore a cui lasciate le chiavi per la vostra auto in doppia fila all’extracomunitario che vi attende per cambiare i soldi ma anche per rifornirvi al self-service notturno della stazione di benzina. A lui pagate il vantaggio dell’essere serviti anche se siete in un self-service, ridando così, in qualche modo, un aspetto economico a un servizio friendly che l’automazione ha eliminato. A volte in questa categoria sta il lavavetri, il venditore di accendini e di fazzolettini. Ma può anche succedervi di chiedere un’informazione a un elemosinante abituale (rispetto a una strada che lui deve conoscere visto che è sempre lì). Se, ottenuta l’informazione, volete dargli dei soldi, lui si rifiuta, perché non rientra nella relazione di pietà che vi proponeva (mi è successo vicino al metrò Cordusio, a Milano). Questa zona intermedia cresce nella misura in cui si amplia la fascia ambigua dell’economia. Scompaiono lavori che una volta esistevano, scompare soprattutto il lavoro consistente nello «stare fermi da qualche parte», i bigliettai, i guardiani, i portieri. In questa zona entrano i nuovi questuanti e si pongono a metà tra l’elemosina e la mancia. Ma le tre categorie nel loro insieme hanno a che fare con il fatto che la città come luogo in cui stare fermi per strada non esiste quasi più. Gli elemosinanti sono persone/luoghi, e sono a volte le uniche presenze costanti, nell’arco di una giornata, in una strada o a volte in un’area di più isolati. 113

Il loro vero lavoro è questo: è la fatica dello stare, dell’attendere e del ripetersi. Tra una hostess dell’Alitalia, un commesso del McDonald’s o una telefonista di un servizio pubblico e un elemosinante che ripete migliaia di volte al giorno la stessa formula di richiesta non c’è poi una grande differenza. Si tratta di una fatica spossante, cioè la fatica della ossessiva ripetizione di un ruolo, di parole e di tonalità sempre uguali. Gli elemosinanti della metropoli prendono su di sé anche questa assurdità, diventano macchine della pietà dietro la cui facciata si nasconde a volte in maniera totale qualcosa che sta a noi scoprire come volto e come mito.

Nota al capitolo 1. Questo dibattito che avviene in me, ci ricorda Jean Starobinski in un profondo testo sul donare, A piene mani, ripercorre le tappe del dibattito istituzionale con cui la Chiesa della controriforma distingue i poveri buoni dai poveri cattivi. Solo i primi contano sulla via della salvezza delle anime caritatevoli. I poveri buoni sono la vedova e l’orfano, e quelli che la sventura ha cacciato via dai loro campi. I poveri cattivi sono gli accattoni che mendicano per mestiere e che praticano la frode in tutti i modi possibili. Starobinski ci ricorda che in un mondo che instaura discriminazioni di questo tipo, Rembrandt rappresenta un’eccezione: «Nel suo sguardo compassionevole sui poveri, non c’è mai separazione tra seguaci del bene e seguaci del male. Conosce tutte le smorfie del volto umano, ma non deride né rimprovera nessuno» (p. 57). È lo stesso sguardo che dalla letteratura picaresca in poi descrive vagabondi, avventurieri e corti dei miracoli. I «miserabili» di Hugo saranno parte di questa folla mista in cui è difficile distinguere buoni e cattivi poveri.

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capitolo ottavo

Anch’io come cosa: per una teoria della ripetizione e del soggetto rituale

Sono stufa di tutti questi ego, ego, ego. Del mio e di quello di tutti gli altri. Sono stufa della gente che vuole arrivare da qualche parte, fare qualcosa di notevole eccetera, essere un tipo interessante. È disgustoso, disgustoso e basta. Me ne infischio di quello che dicono. Jerome D. Salinger, Franny and Zooey

È sera nel quartiere di Fatih affacciato sulla lingua d’acqua che porta a Eyup. Quando le voci del mercato si smorzano, le luci dei lampioni del vecchio quartiere di Istanbul, un tempo centro dell’ortodossia bizantina, illuminano le porte delle confraternite sufi, le tekkè. È a quest’ora che le sedi delle tekkè si riempiono di giovani. Ci ha portati a Karagümrük, una confraternita molto attiva del quartiere, uno dei maggiori esperti europei di sufismo, Fabio Alberto Ambrosio1, e con lui veniamo introdotti per uno stretto corridoio alle sale più interne. E man mano che procediamo ci troviamo immersi nel pieno di un rituale. Nei vani di 117

questo luogo che somiglia più a una casa che a un tempio stanno decine di file di uomini intenti a ripetere la shadada, la formula araba che a orecchie estranee suona come uno scorrere di acque: Allah illallha, ma che nella sua completezza è la prima parte della testimonianza di fede: Asˇhadu an la ilàha illa Allàh, testimonio che non c’è divinità all’infuori di Allah. Gli uomini si muovono all’unisono e accompagnano le parole scandite con le posizioni della preghiera, si piegano, si genuflettono, toccano con la fronte il suolo, per poi a ritroso riprendere la posizione piegata e quindi quella eretta. Sono vestiti con i pantaloni larghi, le camicie bianche, alcuni hanno una giacchetta senza maniche con le spalline svasate, buona parte ha il capo coperto con berretti di stoffa bianca e ai piedi ciabatte leggerissime di cuoio. Gli anziani conducono la preghiera e sono vestiti con lunghe palandrane e un turbante dall’anima rossa o verde avvolto da una stoffa bianca. La ripetizione della formula a voce alta diventa nel suo macinare, nel suo procedere costante, una specie di soffio collettivo, di fremito che dà risalto a una gola comune. Dopo qualche tempo (sarà passata un’ora, un’ora e mezza), veniamo fatti sedere sul bordo di una stanza molto più grande, la cui parte centrale è protetta da una specie di balaustra bassa di legno. Questa stanza, che ha una cupola e una struttura che fa pensare a un battistero, comunica con un’altra stanza dove, questa volta seduti, si trovano decine di file di altri uomini che ripetono la shadada. A differenza di quelli che abbiamo osservato nelle stanze più vicine all’ingresso, questi uomini oscillano a destra e a sinistra, mentre «soffiano» Allah Illallha. Dopo un po’ – siamo ormai avvolti da un incessante suono ripetitivo, un coro maschile che non la smette di insistere – il ritmo delle ripetizioni accelera impercettibilmente, ma in un modo che con il passare del tempo diventa sempre più concitato. Sono entrati nella stanza i dervisci coperti da lunghi mantelli e con in testa gli alti coni di feltro. Sono tanti per lo spazio della stanza. In mezzo a loro spiccano due dervisci differenti nel comportamento e nell’aspetto. Nessuno di loro apre bocca, sono concentrati sull’eco sonora che 118

li circonda. Quando il ritmo delle ripetizioni diventa parossistico e l’accento delle gole rauche cade sulle ah di al-lah il-lah ll-ha, i dervisci cominciano a volteggiare, facendo del loro abito una nube e diventando tutt’uno nel loro girare pur senza sfiorarsi. I due «diversi» rimangono impettiti e immobili, a guidare le danze. È tutto un vorticare, voci, fiati, corpi che seduti oscillano paurosamente, dervisci che ruotano intorno al proprio silenzio e alla profondità del loro non vedere. Fuori è notte inoltrata, qui invece il tempo è nei piedi, nelle mani, nelle gole e nelle schiene dei fedeli. Com’è possibile che migliaia di persone entrino in questo ritmo e facciano della ripetizione di alcune parole una pratica a cui danno un senso profondo e senza equivoci? Stanno insistendo nell’indirizzarsi a qualcuno o qualcosa, stanno insistendo nel trasformare una singola frase in un meccanismo, in una macchina di preghiera. Cosa c’è di tanto importante nelle ripetizioni da far sì che non solo l’islam dei sufi, ma l’induismo dei mantra, il buddismo delle formule cantate e recitate, il rosario delle vecchiette di Sambuca di Sicilia, le parole dello sciamano, le rime delle storie degli antenati o delle mitologie amerindie abbiano spessissimo questo carattere insistente e iterativo? Perché una delle manifestazioni più comuni dell’umanità, quando si trova a celebrare qualcosa che somiglia a un rituale, è la ripetizione? E cosa ha a che fare questo con il trasformarsi in una cosa? Viene da chiedersi: come fanno questi individui a continuare a ripetere mille, diecimila, centomila volte lo stesso gesto e la stessa frase e a non stancarsene, a non scoppiare di noia, a non impazzire come nella peggiore ossessione? La risposta più immediata è che la ripetizione è una forma di annullamento del soggetto. È una risposta freudiana 2, come per dar ragione all’idea che la ripetizione sia la tensione verso il disfacimento dell’individuo, il principio di morte. Oppure, seguendo Gilles Deleuze3, si può pensare che la ripetizione sia il vitalismo 119

per eccellenza, un «incantesimo» dell’essere che come un disco rotto continua a ripetere un suo momento vitale ma bloccato. I sufi soffianti sembrano quasi incantati, come il bambino di Freud che lancia continuamente il rocchetto di filo oltre la spalliera della poltrona. Ma l’idea che si tratti di un incantesimo non spiega effettivamente la natura «prospettica» della ripetizione. Nella ripetizione i soggetti si fanno oggetti, diventano effettivamente «macchine», si passivizzano, come se fossero degli automatismi. Diventano a tutti gli effetti cose, perché delle cose prendono gli attributi di costanza, impenetrabilità, non dialogicità. L’eremita che ripete l’esicasmo ortodosso – Gesù Cristo abbi misericordia4 – diventa un tutt’uno con la formula che ripete, diventa una macchina che serve solo a ripetere. Ma è un farsi cosa che mira «prospetticamente» a un fine, non è un incantesimo macchinista, ma piuttosto un lavorio, un rovello che non mira alla stasi ma a una soluzione. Farsi cosa significa trasformare la propria presenza nel mondo in qualcosa che diventa una pietra miliare, un ceppo, un qui sonoro, una bandiera di preghiera. È stato David Hume a notare che «la ripetizione non muta nulla nell’oggetto che si ripete, ma muta qualcosa nello spirito che la contempla»5. I corpi dei sufi «soffianti» si trasformano mentre ripetono la frase che contemplano. Diventano essi stessi la frase, la frase oggettivata in un corpo. In ballo c’è certamente una perdita della coscienza. Come dice genialmente una filosofa italiana, Silvia Vizzardelli, si attua «un sequestro di persona prodotto dalla ripetizione», la persona diventa un oggetto, un meccanismo in una «inesorabile esperienza di espatrio»6 . Questa alienazione porta però altrove, cosificandosi ci si libera, perché nella ripetizione si attua la passivizzazione di un soggetto, ma questa passivizzazione è solo in parte tale perché quello che accade qui è uno stato dove il «soggetto vede se stesso farsi teatro di un processo». È Edmund Husserl a notare che qui «il tempo è soggettivo, ma si tratta della soggettività di un soggetto passivo»7. In questo 120

sdoppiamento il soggetto osserva la trasformazione che avviene in lui, egli diventa lo scandire del tempo, il passaggio progressivo di un sé che si oblia per farsi trasportare. Ogni volta che nei rituali sufi si ripete Allah Illallah, si passa da un qualcosa pronunciato a un nulla e poi di nuovo a un qualcosa, in un ritmo binario che scandisce l’essere al mondo, ma lo proietta anche nell’attesa della ripetizione che viene. Prima di chiedersi a che serva tutto ciò e se non sia solo un’esperienza di inutile «andar via di testa», occorre dal punto di vista antropologico accettare l’evidenza che questa è una pratica comune in moltissime attività umane che hanno il carattere di rituale. Perché per pregare una divinità o anche solo per seguire un processo ascetico, che sia di yoga tantrico o di arte marziale, bisogna «cosificare» il soggetto? Perché il soggetto, per trasformarsi in un rituale, deve «assentarsi». E lo fa utilizzando spesso il metodo della ripetizione: per trasformarsi in cosa, bisogna fisicamente imitare la fissità eterna delle cose. Lo spillone che ci fissa nella nostra presenza al mondo è fatto di un trasformare i nostri processi vitali nel normale snocciolarsi del tempo, nel suo sgranarsi. Come se per fermarci avessimo bisogno di sentire il rumore del meccanismo che è la vita. Ma qui occorre ribadire che nell’idea di insistenza presente nella ripetizione – nella pratica rituale della ripetizione – c’è in parte un’idea atletica, un training che mira a una trasformazione del soggetto, ma allo stesso tempo c’è una «direzionalità», cioè si ripete per ottenere qualcosa, o meglio si ripete per «attingere» a qualcosa, sia essa la divinità, il sé profondo oppure la realizzazione di un vuoto o di un voto. La cosa straordinaria è che buona parte dei rituali che prevedono la ripetizione si appoggiano a macchine di ripetizione – rosari, ruote di preghiera, pallottolieri – che contano e scandiscono al contempo. Le religioni praticate dall’umanità non ammettono di averli in comune, eppure i rosari di preghiera sono tra gli oggetti più diffusi al mondo e un mala indiano, un tesbih islamico e un rosario 121

cristiano si somigliano in maniera pericolosa. E cos’è un rosario di preghiera se non un oggetto che serve a trasformare in oggetto chi lo usa? Il soggetto di un rituale non potrebbe esistere se non come cristallizzazione in una macchina di preghiera, una macchina insistente, una pompa per ottenere qualcosa. Anche la pompa del cuore e il soffio del respiro diventano parte della tecnica per andare altrove, per insistere direzionalmente verso qualcosa o qualcuno. In questo processo è presente un doppio aspetto. In parte è come se ci fosse un bisogno di ripetere latente in tutti i rituali. Per dirla alla Sloterdijk: se vuoi «cambiare la tua vita»8, devi passare attraverso l’insistenza di una pratica, attraverso l’esercizio spirituale o fisico che essa comporta. In parte, invece, ha a che fare con il «cosa avviene» all’interno della ripetizione. C’è il ripetere come bisogno in sé, perché nel ripetere si «ritma», si «prosodizza», si trasforma in canto e ritornello, c’è quella ripetizione che fa funzionare la canzone. Nel piacere di ripetere c’è il percorrere le possibilità melodiche – ma nel senso più ampio – di quello che si ripete. Visto che nel rito il significato che si vuole attingere ha una ricchezza spesso inesprimibile in una singola frase, sia esso la divinità, il senso della vita, il dialogo con gli antenati o con gli spiriti della foresta, allora qui il ripetere serve – come osserva Silvia Vizzardelli, riprendendo il Barthes del testo su Ignacio de Loyola – a «coprire tutte le variazioni di un tema, tutte le pertinenze di un oggetto». Al sufi soffiante la ripetizione della testimonianza di fede serve a coprire tutte le implicazioni che la sua adesione all’islam comporta. Questo ripetere per coprire fa sì che ripetere sia la cosa più distante dal copiare o dal duplicare o dal centuplicare. Qui la ripetizione serve a far venire fuori tutte le possibilità e sfumature di un oggetto, di un oggetto che si confonde, più va avanti la ripetizione, con noi come oggetto. Il piacere di ripetere, di essere il luogo dove la ripetizione avviene, è un piacere fisico. Diventiamo anche le macchine corpo che siamo, diventiamo quella parte di noi che ci resiste che non è tutta riducibile alla nostra soggettività. Come si compie questo processo? È un processo di plurisemantiz122

zazione, ma anche di desemantizzazione. Se ripeto più volte una frase, a un certo punto non solo ne esploro tutti i contenuti, ma la svuoto di contenuto, diventa un significante senza significato, diventa il suono delle parole senza quello che le parole vogliono dire. In effetti quello su cui agisco è il «vogliono dire». Qui le parole smettono di voler dire, si svuotano di significato e diventano parole a sé. Per questo hanno la forza di un feticcio parola, cioè la magia di qualcosa a cui è stata tolta l’immediata funzionalità e che diventa invece un oggetto con cui «potrei fare qualunque cosa», come una bacchetta magica o uno scettro, come un bastone di stregone o una formula per far diventare il metallo oro. Nella oggettivazione del soggetto rituale c’è un trucco, nel senso che, per quante ore i dervisci possano ruotare e i sufi soffiare, quello che loro fanno è una pratica intenzionale, come se l’essersi trasformati in cosa fosse possibile proprio perché questa cosa ha un’inerzialità che la conduce verso un luogo, una presenza, un esito, una liberazione. Nel rito il soggetto si oggettivizza per «portarsi» verso la divinità o verso lo scopo del rito. L’oggettivazione fa parte del «trucco» di trasformare se stesso in offerta; c’è nell’oggettivazione un modo «efficace» di indirizzare il sé. In tutte le pratiche di preghiera e nelle pratiche ascetiche c’è il problema dell’efficacia. Si prega per ottenere qualcosa. Pregare è una forma di addressing, «indirizzare», a cui l’insistenza è essenziale. Come se il fedele fosse convinto che «una volta non basta» – pregare incessantemente è una blasfemia perché nel fondo si pensa che la divinità sia «convincibile», e però di questa blasfemia è fatta tutta la pietà popolare nell’islam, come nel cristianesimo, come nell’induismo – e che per ottenere ciò che vuole per sé o per il bene della comunità ci vuole un atteggiamento simile a quello delle ultime parole di Prospero nella Tempesta di Shakespeare. Prospero, una volta smesse le sue arti magiche, è disperatamente alla fine della sua storia e ha bisogno di una preghiera: «A prayer which pierces so that assaults mercy itself», una preghiera che «possa scavare come un assalto la stessa misericordia»9. 123

È questa efficacia che è in ballo nella preghiera e in gran parte dei rituali umani, e il fatto che essi si servano della ripetizione ricorda davvero il lavoro di scavo di una goccia nel marmo e l’insistenza stessa della goccia. Nel ripetere è il fedele che si trasforma in punteruolo, goccia, bulino. Ed è per questo che il suo ripetere non è vano, perché sta lavorando nella sostanza stessa delle cose, essendosi trasformato in cosa tra le cose. Per andare più a fondo in questo processo può essere utile comprendere che le nostre categorie di oggettività e soggettività, le categorie dentro cui mettiamo le cose e le persone, sono molto più elastiche di quello che pensiamo. Lo statuto delle cose nella nostra società è abbastanza generico. Ma ci sono società in cui le cose non hanno un’oggettualità tutta uguale. Nelle società che trattano le cose come «imparentate», come animate e personificate al pari dei membri della comunità, le cose hanno una gamma ampia di sfumature. Ho trattato il tema dell’animismo altrove10, raccontando come esso sia un punto dolente e rimosso dell’antropologia. Per anni non si aveva quasi il diritto di parlare di animismo per le culture indigene. Poi il termine è stato sdoganato da una rilettura più ampia del saggio di Lévi-Strauss sul «totemismo oggi»11. Infine è dall’antropologia delle società asiatiche che è arrivata l’evidenza che per spiegare la concezione del mondo di molte società è essenziale capire come la distinzione tra umano e non umano non regga quando vi sono società che «vivono» del posto e delle risorse naturali in mezzo a cui sono insediate. L’animismo è la parentela ovvia che le società sviluppano con le presenze «altre»12 intorno, presenze atmosferiche, alberi, animali, pietre. Infine, negli ultimi tempi, è proprio dalla antropologia delle società amerindie che è tornata l’attenzione allo statuto differente degli oggetti. Per cui, se vogliamo capire com’è possibile che dei soggetti senzienti e coscienti si trasformino in oggetti, occorre ripercorrere (al contrario) le osservazioni rispetto allo statuto delle cose presenti in società in cui l’animismo – a differenza da noi – è una concezione 124

che spiega la compresenza fisica di diversi «oggetti della creazione». Uno dei contributi più interessanti in questo senso è quello di Fernando Santos Granero che ha curato un volume sulla vita occulta delle cose nelle culture amazzoniche. In un saggio che porta la sua firma, compreso nella raccolta e dedicato alla concezione yanesha «di essere una cosa», Santos Granero spiega che tra gli Yanesha, una tribù che vive nella selva dell’oriente peruviano, le cose possono avere uno statuto differente a seconda della loro storia e della loro collocazione, ma questo statuto non esclude che esse possano essere anche dotate di un principio «personale». Gli Yanesha pensano che ci siano cinque differenti classi di quelli che noi chiameremmo «oggetti inanimati». Una prima classe riguarda oggetti che vengono da una trasformazione autonoma, come divinità o personaggi ancestrali che si sono trasformati in stelle, nel sole, o in strumenti musicali, ma anche in laghi, rocce, sorgenti. La seconda classe riguarda oggetti che si sono formati per trasformazione, divinità o esseri trasformati da altre divinità in «persone minerali», come il sale, il ferro o la calce che serve a far precipitare la sostanza presente nelle foglie di coca. La terza classe, quella della mimesi, raccoglie oggetti replica di beni esterni, come le bibbie portate dai missionari, di cui gli Yanesha hanno fatto una copia costituita da piume di pappagalli, perché come la bibbia parla anche questi esseri della foresta lo fanno. La quarta classe ha a che fare con gli oggetti che sono venuti a contatto con altri esseri e ne hanno preso la vitalità per contagio, come gli ornamenti che gli Yanesha portano addosso fin da bambini (se questi ornamenti spariscono, vengono per sbaglio o per malizia trafugati, le persone a cui appartengono perdono una parte di sé). La quinta classe, infine, sono gli oggetti comuni che non hanno alcun principio di soggettività, orologi, tavoli di plastica, radio, torce elettriche, batterie. Le categorie yanesha si basano sulle proprietà degli oggetti di essere più o meno animati, vitali, e di essere capaci di agire sulle persone che ci hanno a che fare: animazione ed efficacia. Lungi 125

dall’essere indifferenziate, le cose hanno una maggiore o minore capacità di incidere sugli esseri umani. Soltanto alcuni di questi oggetti, e non sempre, hanno coscienza e quindi intenzionalità. Rovesciando la lettura animista degli Yanesha, si può ipotizzare che quando degli esseri umani vogliono trasformarsi, durante un rituale, in oggetti, lo facciano per gradi, perdano coscienza ma non vitalità, intenzionalità ma non efficacia. Come se i processi agiti dalle tecniche di ripetizione fossero una camera di incubazione del soggetto che vi ripercorre gli stadi possibili tra l’essere «oggetto comune», l’essere invece «oggetto senziente» o «soggetto senziente». Per iperbole si potrebbe dire che la ritualità umana procede da questa parentela con le cose e con gli oggetti che non è mai stata davvero dimenticata. Il «sex appeal dell’inorganico»13, come lo chiamava Benjamin, si basa sulla seduzione che le cose esercitano su di noi, ma anche sul fatto che noi «come cosa» diventiamo seducenti. C’è un aspetto erotico nel farsi oggetto che non è secondario: se il mondo materiale è corteggiato dal mondo della coscienza, avvengono passaggi di liquidi vitali tra l’uno e l’altro. È la nostra concezione della materia inerte che, lungi dal difenderci dalle seduzioni degli oggetti, ci conduce invece verso di essi. Nella loro presenza inesplicabile e ostinata, nel loro resisterci, c’è proprio la fonte originaria del nostro desiderio di impossessarcene, ma anche di diventare come loro, possibile possesso e dono, prestito o pegno fatto a qualcuno – sia esso una divinità, una comunità, un essere umano – o dono a noi stessi sdoppiati in osservatori e offerte. C’è qui, in un modo più complesso di quello solitamente utilizzato per comprendere la relazione tra noi e il nostro corpo, il segreto della materialità del corpo di cui siamo fatti. Non occorre essere Yanesha per capire come il nostro corpo sia oggetto e soggetto allo stesso tempo e lo sia tanto per gli altri quanto per noi, ma è la sua ambigua materialità che ci apre la conoscenza del mondo circostante. Noi siamo parenti delle pietre, delle fonti, delle costellazioni e della polvere. 126

Note al capitolo 1. A.F. Ambrosio, Dervisci. Storia, antropologia, mistica, Carocci, Roma 2012. 2. S. Freud, Ricordare, ripetere, rielaborare (1914), in Opere, vol. vii, Bollati Boringhieri, Torino 2003; Al di là del principio del piacere (1920), in Opere, vol. ix, Bollati Boringhieri, Torino 2006. 3. G. Deleuze, Differenza e ripetizione (1968), Cortina, Milano 1997. 4. Vedi il modo straordinario e originale con cui Salinger introduce il tema dell’esicasmo nel suo Franny and Zooey (1961): «È tutta la vita che legge la bibbia e vuol sapere cosa vuol dire, nei tessalonicesi, dove dice ‘Pregate incessantemente’. Quel versetto lo ossessiona». 5. D. Hume, Trattato sulla natura umana (1739-1740), in Opere filosofiche, vol. i, Laterza, Roma-Bari 2008. 6. S. Vizzardelli, Ripetizione, in S. Vizzardelli e F. Cimatti (a cura di), Filosofia della psicoanalisi, una introduzione in ventuno passi, Quodlibet, MacerataRoma 2012. Devo a questo saggio e all’insieme del libro il salto di comprensione dei meccanismi iterativi e il riferimento serrato al dibattito filosofico e psicoanalitico. 7. E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva (1920-1921), a cura di P. Spinicci, Guerini, Milano 1993. 8. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, a cura di P. Perticari, Cortina, Milano 2010. 9. P. Brook, The Quality of Mercy, Reflections on Shakespeare, Nich Hern Books, London 2013. 10. F. La Cecla, Leggerezza dell’animismo, in Jet Lag, antropologia e altri disturbi da viaggio, Bollati Boringhieri, Torino 2002. 11. C. Lévi-Strauss, Il totemismo oggi (1962), a cura di M. del Ninno, Et al., Milano 2010. 12. F. Santos Granero, From Baby Slings to Feather Bibles and from Star Utensils to Jaguar Stones, the multiple ways of being a thing in the Yanesha lived world, in F. Santos Granero (a cura di), The Occult Life of Things – Native Amazonian Theories of Materiality and Personhood, The University of Arizona Press, Tucson 2012. 13. M. Perniola, Il sex appeal dell’ inorganico, Einaudi, Torino 1994.

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Finito di stampare nel mese di agosto 2013 presso Stampa Editoriale, Manocalzati (AV) per conto di elèuthera, via Rovetta 27, Milano